Penale Cop98CD
28-04-1999 14:56
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RIVISTA ITALIANA DI
DIRITTO E PROCEDURA PENALE FONDATA DA GIACOMO DELITALA
DIRETTA DA G. L E O N E T. D E L O G U G. V A S S A L L I M. G A L L O G. C O N S O A. C R E S P I C. P E D R A Z Z I G. D E L U C A M. S I N I S C A L C O D. SIRACUSANO M. P I S A N I A. P A G L I A R O V. CAVALLARI C. F. G R O S S O G. L O Z Z I G. MARINUCCI F. MANTOVANI F. S T E L L A M. R O M A N O V. G R E V I D. P U L I T A N Ò T. P A D O V A N I E. M U S C O E. D O L C I N I A. G I A R D A - F. C. P A L A Z Z O
NUOVA SERIE - ANNO XLIV 2001
M I L A N O - D O T T. A . G I U F F R È E D I TO R E
INDICE GENERALE
DOTTRINA AZZALI G., Idoneità ed univocità degli atti. Offesa di pericolo (A) ....................
1168
BAZZANI M., Art. 511 c.p.p.: lettura dibattimentale di atti originariamente irripetibili. Profili epistemologici e normativi (A) ................................................
764
CAPRARO L., Nuova (vecchissima) giurisprudenza in tema di indizi e massime d’esperienza (N) ...........................................................................................
1038
CARRATTA A., Sentenza di patteggiamento, accertamento semplificato dei fatti e riflessi sul giudizio civile (A) .......................................................................
439
CENTONZE F., Causalità attiva e causalità omissiva: tre rivoluzionarie sentenze della giurisprudenza di legittimità (N) .........................................................
289
CENTONZE F., Scienza ‘‘spazzatura’’ e scienza ‘‘corrotta’’ nelle attestazioni e valutazioni dei consulenti tecnici nel processo penale (A) ................................
1232
CESARI C., Deflazione e garanzie nel rito penale davanti al giudice di pace: l’istituto della « tenuità del fatto » (A) ...............................................................
727
CESARI C., « Giusto processo », contraddittorio ed irripetibilità degli atti di indagine (A) ........................................................................................................
56
CONTI C., Le contestazioni a catena nell’applicazione della custodia cautelare: dalla repressione di un abuso ad un automatismo indifferenziato (A) ....... DE FRANCESCO G., Brevi spunti sulla riforma del tentativo (A) ..........................
1275 715
DELLA BELLA A., L’integrità fisica: un diritto illimitatamente disponibile da parte del titolare? (N) ............................................................................................
1395
DONINI M., Metodo democratico e metodo scientifico nel rapporto fra diritto penale e politica (A) ........................................................................................
27
ESPOSITO A., La sentenza Labita era inevitabile? Riflessioni sulla titolarità delle garanzie dei diritti dell’uomo (N) ................................................................
226
FIANDACA G., Ermeneutica e applicazione giudiziale del diritto penale (A) .......
353
FLORA G., Errore, tentativo, concorso di persone e di reati nella nuova disciplina dei reati tributari (A) ...................................................................................
697
GIUNTA F., Il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche (A) ...........................................................................
377
IAFISCO L., Ennesimo intervento della Corte di cassazione in tema di formazione progressiva del giudicato penale: acquisibili ex art. 238-bis c.p.p. anche le sentenze parzialmente irrevocabili (N) .........................................................
543
MANNA A., Profili storico-comparatistici dell’abuso d’ufficio (A) ........................
1201
MANTOVANI F., L’obbligo di garanzia ricostruito alla luce dei principi di legalità, di solidarietà, di libertà e di responsabilità personale (A) ..........................
337
MILITELLO V., Dogmatica penale e politica criminale in prospettiva europea (A) .......
411
— IV — MORGANTE G., Le posizioni di garanzia nella prevenzione antinfortunistica in materia di appalto (A) .................................................................................
88
NOFRI M., Sul principio di immanenza della costituzione di parte civile (A) .....
112
PETROZZI A., Colpevolezza o solvibilità: quale criterio per la responsabilità del delegante? (N) ..............................................................................................
1052
PONZETTA F., Elementi favorevoli alla persona sottoposta a custodia cautelare ed interrogatorio « di garanzia » a norma dell’art. 294 c.p.p.: diritti e oneri delle parti processuali nel procedimento di riesame (N) .............................
1020
PULITANÒ D., Nel laboratorio della riforma del codice penale (A) ......................
3
RUTA G., Efficacia preclusiva del provvedimento di archiviazione e misure coercitive (N) .........................................................................................................
269
SANNA A., L’esame dell’imputato sul fatto altrui, tra diritto al silenzio e dovere di collaborazione (A) ........................................................................................
462
SCOPINARO L., Diffamazione via Internet: applicabilità della circostanza aggravante relativa all’uso del mezzo di pubblicità (N) ......................................
1410
SGUBBI F., Il diritto penale incerto ed efficace (A) ..............................................
1193
SQUARCIA E., Il danno da reato, derivante da lesione di interessi legittimi, è risarcibile anche in sede penale (A) ...................................................................
1314
SUMMERER K., Contagio sessuale da virus HIV e responsabilità penale dell’Aidscarrier (N) ....................................................................................................
303
VITARELLI T., Rilievo penale dell’usura e successione di leggi (A) ......................
787
LA RIFORMA DEL CODICE PENALE ANGIONI F., Un modello di tentativo per il codice penale ...................................
1089
BERTOLINO M., Fughe in avanti e spinte regressive in tema di imputabilità penale .....
850
CANESTRARI S., La definizione legale di dolo: il problema del dolus eventualis ..
906
CANESTRARI S., La responsabilità colpevole nell’Articolato della parte generale del Progetto Grosso ............................................................................................
884
DE VERO G., Struttura e natura giuridica dell’illecito di ente collettivo dipendente da reato ........................................................................................................
1126
DOLCINI E., Riforma della parte generale del codice e rifondazione del sistema sanzionatorio penale ....................................................................................
823
PEDRAZZI C., La disciplina del concorso di persone ............................................
1083
NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO DEMURO G.P., Tecniche sanzionatorie di tutela del patrimonio storico-artistico nei sistemi stranieri: il modello spagnolo e quello tedesco ..........................
503
MADEO A., La tutela delle acque nell’ordinamento inglese .................................
1344
PISANI N., L’elemento psicologico del crimine internazionale nella parte generale dello Statuto della Corte internazionale penale ...........................................
1370
SICURELLA R., L’impervio cammino del principio di colpevolezza nel sistema penale francese .................................................................................................
946
— V — COMMENTI E DIBATTITI BARTOLI R., Sulla struttura del reato permanente: un contributo critico ............
137
RASSEGNE Giurisprudenza della Corte costituzionale (a cura di M. D’AMICO) .................... 177; 998
GIURISPRUDENZA Cause di giustificazione — Consenso dell’avente diritto - Lesioni personali - Validità - Limiti - Disponibilità dell’integrità fisica (con nota di A. DELLA BELLA) ...................................
1393
Cosa giudicata — Annullamento parziale con rinvio - Autorità di cosa giudicata delle parti non investite dall’annullamento - Sussistenza - Connessione essenziale con la parte annullata - Esclusione - Acquisibilità della sentenza come prova documentale Sussistenza (C.p.p. artt. 624 e 238-bis) (con nota di L. IAFISCO) .................
538
Delitti contro l’integrità fisica — Lesioni personali - Consenso dell’avente diritto - Validità - Limiti - Disponibilità dell’integrità fisica (con nota di A. DELLA BELLA) ...................................
1393
Delitti contro l’onore — Diffamazione - Diffamazione via sito web - Applicabilità delle disposizioni relative alla diffamazione a mezzo stampa ed a quella a mezzo radio televisione Esclusione - Applicabilità della circostanza aggravante relativa all’uso del mezzo di pubblicità - Ammissibilità (c.p. art. 595, comma 3; L. 47/1948 art. 13; L. 223/1990 art. 30) (con nota di L. SCOPINARO) ..................................
1405
Diritti dell’uomo — Durata della custodia cautelare - Applicazione misure di sicurezza dopo una sentenza di assoluzione (Convenzione europea dei diritti dell’uomo, artt. 3, 5, 6, 8; Protocollo n. 1, art. 3; Protocollo n. 4, art. 2; ord. penit., art. 41-bis) (con nota di A. ESPOSITO) ..............................................................................
189
Dolo — Omicidio volontario - Trasmissione del virus HIV - Rapporti sessuali non protetti - Consapevolezza del proprio stato di salute e delle modalità di trasmissione del virus - Accettazione del rischio del probabile esito letale dell’eventuale infezione - Dolo eventuale - Sussistenza (con nota di K. SUMMERER) .. Indagini preliminari — Chiusura delle indagini - Archiviazione per infondatezza della notizia di reato - Applicazione di misura cautelare nei confronti della stessa persona - Mede-
299
— VI — sima autorità procedente - Identità del fatto - Assenza di decreto di autorizzazione alla riapertura delle indagini - Illegittimità della misura adottata (con nota di G. RUTA) ............................................................................................
253
Lavoro — Sicurezza - Prevenzione infortuni - Delega formale - Assenza - Posizione di garanzia del datore di lavoro - Indelegabilità - Dovere di vigilanza e controllo Sussistenza (con nota di A. PETROZZI) ...........................................................
1048
Misure cautelari personali — Impugnazioni - Riesame - Procedimento - Trasmissione degli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alla indagini - Verbale dell’interrogatorio « di garanzia » - Obbligo - Condizioni (c.p.p. artt. 294, 309) (con nota di F. PONZETTA) ..................................................................................................
1016
Nesso di causalità — Nesso di causalità tra condotta omissiva ed evento - Identità tra causalità attiva e causalità omissiva - Sussunzione sotto leggi scientifiche - Leggi universali e leggi statistiche - Necessità del ricorso a leggi statistiche con un coefficiente percentualistico vicino a cento - Giudizio di alta probabilità logica o elevata credibilità razionale (con nota di F. CENTONZE) ................................
277
Omicidio volontario — Trasmissione del virus HIV - Rapporti sessuali non protetti - Consapevolezza del proprio stato di salute e delle modalità di trasmissione del virus - Accettazione del rischio del probabile esito letale dell’eventuale infezione - Dolo eventuale - Sussistenza (con nota di K. SUMMERER) ......................................
299
Prove — Disposizioni generali - Valutazione - Indizio - Idoneità a formare il convincimento del giudice (con nota di L. CAPRARO) .................................................
1036
RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE Cooperazione internazionale in materia penale (a cura di M. PISANI) — L’estradizione in Turchia di Alì Agca ............................................................. — Italia-India: un accordo di cooperazione in materia di terrorismo, crimine organizzato e traffico di droga ........................................................................... — Domanda di arresto provvisorio a fini estradizionali e Sistema d’Informazione Schengen ............................................................................................... — Accordo di Schengen e attività di polizia su commissione rogatoria ............. — Sull’eseguibilità dell’estradizione in pendenza dei termini per il ricorso al Consiglio di Stato (francese) .......................................................................... — Le Nazioni Unite e il crimine organizzato transnazionale ............................. — L’Italia 1935, il terrorismo e la Corte penale internazionale ......................... — In tema di assunzione all’estero delle prove da parte dell’autorità giudiziaria italiana ........................................................................................................... — Gli accordi N.A.T.O.: come rivedere il Trattato di Londra ............................ — Il caso Baraldini, la Corte costituzionale e il seguito .................................... — Italia-Perù: l’« accantonamento » del trattato di estradizione ........................
331 331 332 332 333 334 336 557 559 560 563
— VII — — La Francia e la riparazione della détention extraditionnelle .......................... — Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa e il ruolo dei pubblici ministeri nella cooperazione internazionale .......................................................... — Il caso Öcalan a Strasburgo: la (parziale) ammissibilità del ricorso ............. — Francia-Germania: il caso Sirven e il Sistema Schengen ............................... — Il caso Lockerbie: un ergastolo ....................................................................... — Le bandiere e l’intrusione (il C.S.M. e il diritto penale internazionale) ........ — L’indipendenza del giudice ad quem nell’estradizione europea ...................... — Consiglio d’Europa: una « nuova partenza » per il sistema della cooperazione ..... — Unione Europea: cooperazione per le vittime ................................................. — Unione Europea: l’« Unità provvisoria di cooperazione giudiziaria » ............ — Estradizione e detenzione ingiusta: la Federazione Russa e la Convenzione europea ........................................................................................................... — La Turchia e l’estradizione ............................................................................. — Italia-Turchia: associazione per delinquere e « doppia incriminabilità » ....... — Italia-Egitto: accordi di cooperazione internazionale ..................................... — L’Australia come rifugio .................................................................................. — Una lacuna che permane ................................................................................ — Italia-Svizzera: la ratifica dell’« Accordo aggiuntivo » alla Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale ............................................. — Sulla punibilità nella Confederazione Svizzera del genocidio commesso all’estero ................................................................................................................ — La scrivania e il magistrato inglese di collegamento ...................................... — L’Italia e la ‘‘buona prassi’’ europea nell’assistenza giudiziaria ....................
565 565 567 569 570 571 1074 1075 1075 1076 1077 1078 1078 1081 1081 1081 1425 1441 1441 1441
LEGGI E DOCUMENTI — Progetto ministeriale di riforma del codice penale. Parte generale ................ a) Relazione al progetto nel testo del 12 settembre 2000 ............................. b) Relazione alle modifiche al testo del progetto approvate il 26 maggio 2001 ..... c) Articolato del progetto ................................................................................
574 575 652 661
DOTTRINA
NEL LABORATORIO DELLA RIFORMA DEL CODICE PENALE
SOMMARIO: 1. Quali bisogni di riforma? — 2. La scienza giuridica nel laboratorio della riforma. — 3. Quali vincoli alle scelte del legislatore? — 4. Il rapporto con il sapere scientifico. — 5. Il rapporto con la scienza giuridica. — 6. Il problema del linguaggio del codice. — 7. I nessi sistematici della riforma. — 8. In quale direzione?
1. Quali bisogni di riforma? — 1.1. L’esperienza della partecipazione ad una Commissione ministeriale incaricata di lavorare alla riforma del codice penale (1), ed il dibattito che si è avviato sui primi prodotti di tale lavoro (2), sollecitano alcune riflessioni sui problemi di metodo e di modi di approccio con cui un lavoro ‘‘di riforma’’ si trova a dover fare i conti, e sulle condizioni di un confronto proficuo per un’impresa così impegnativa, quale la riforma del codice. Innanzi tutto, una riflessione sul senso di un impegno per una riforma ‘‘di sistema’’: davvero c’è bisogno di riformare il codice penale? Non basta rilevare che il tema della riforma è da tempo sul tappeto: l’interesse che tale tema coagula è altalenante, lo scetticismo sulla fattibilità d’una riforma è diffuso, le ragioni e gli obiettivi non sono univoci né compiutamente esplicitati. D’altro canto, una valutazione positiva del codice Rocco, sotto l’aspetto tecnico, è un luogo comune che trova (purtroppo) alimento nei troppi difetti della legislazione di epoca più recente. Chi ritenga che, nonostante tutto, valga la pena impegnarsi nella prospettiva d’una (improbabile?) riforma, ha l’onere di argomentare il perché, indicando innanzi tutto i problemi che esigerebbero risposta in un codice nuovo. (1) La Commissione, presieduta da C.F. Grosso, è stata istituita dal Ministro della giustizia, Flick, con d.m. 1o ottobre 1998, con l’incarico di elaborare un documento d’indirizzo. Questo è stato pubblicato nell’estate 1999 (cfr. il testo in questa Rivista, 1999, p. 600 s., e, insieme alle relazioni preparatorie, nel volume Per un nuovo codice penale, Padova, 2000, a cura di Grosso). Successivamente la Commissione ha avuto dal ministro Diliberto l’incarico, confermato dal ministro Fassino, di predisporre un progetto di riforma della parte generale. Il progetto preliminare, con relazione illustrativa, è stato pubblicato nel sito Internet del Ministero della giustizia nel settembre 2000. (2) Fra i momenti di discussione più significativi, il convegno tenuto a Erice nei giorni 18-21 novembre 1999 (su cui cfr. il resoconto di Miedico, in questa Rivista, 1999, p. 1441 s.) e il seminario organizzato presso l’ISISC a Siracusa nei giorni 3-5 novembre 2000.
— 4 — Progettare una riforma ‘‘di sistema’’ ha senso, in presenza di problemi non risolti e non adeguatamente risolvibili nel sistema da riformare. Come dato di partenza possiamo assumere la comune constatazione, o, meglio, la condivisa valutazione che il diritto penale in azione presenta aspetti (gravi) di crisi. L’efficacia generalpreventiva (l’effettiva capacità di tutela di fronte a fenomeni criminosi di notevole gravità) appare debole, il law enforcement poco effettivo, anche se il sistema penale italiano vigente si caratterizza astrattamente per ampiezza d’ambito e severità di strumenti. Il sistema dei reati viene ritenuto squilibrato, ora per eccesso ora per difetto, rispetto alle esigenze di tutela odierne. Del pari squilibrato (prevalentemente per eccesso, ma non senza cadute lassiste) il sistema sanzionatorio, sul cui sfondo vi è poi la drammatica realtà d’un universo carcerario al di sotto di decenti standard di civiltà. Se anche non tutti concordano su tutto, tutti concordano sulla realtà e gravità della crisi. Ciò però non implica ancora un giudizio sul codice, di cui molti (non l’autore di queste righe) continuano a vantare la qualità tecnica. E non v’è dubbio che molti e importanti fattori di crisi stanno al di fuori del codice penale: in particolare in fattori di inefficienza del law enforcement, che appaiono largamente indipendenti dalla qualità della legge penale sostanziale. Nel momento in cui si pone il problema della riforma del codice penale, occorre dunque distinguere, dentro la crisi, fra ciò che può e deve essere messo sul conto della legge sostanziale, e ciò che dipende da altri fattori. Una confusione di piani può essere, e spesso è, un potente fattore di distorsione, che, scaricando sul diritto sostanziale tutti i problemi di ineffettività nella risposta al delitto, orienta verso risposte sempre più severe sulla carta, ma non per questo più effettive, e di dubbia rispondenza a criteri ‘‘di giustizia’’. 1.2. Quali sono, se vi sono, i punti di crisi che possono, e debbono, essere messi sul conto del codice penale, e che pongono problemi di riforma? Il decreto istitutivo della Commissione ministeriale (datato 1 ottobre 1998) chiedeva di approfondire in particolare due temi, che peraltro mettono in discussione l’intero impianto del sistema penale: la razionalizzazione del sistema sanzionatorio, ‘‘nel quadro del contemperamento delle esigenze di prevenzione generale e di prevenzione speciale’’; e la riduzione dell’ambito dell’intervento penale. Se la linea additata significa concreto recupero della prospettiva del diritto penale come extrema ratio di tutela, implicita nella fondazione illuminista e liberale del ‘‘diritto di punire’’, dovrebbe trovare d’accordo tutta la dottrina penalistica italiana. Peraltro, l’idea regolativa della ‘‘necessità’’ è solo un punto di partenza: addita una linea di tendenza, di economia dei mezzi, di estrema cautela nel ricorso alla coercizione legale, ma non dice ancora nulla sullo spazio, grande o piccolo, che il diritto penale possa legittimamente e debba opportunamente coprire.
— 5 — Rispetto ai problemi di positiva conformazione del sistema, un approccio solo ‘‘in negativo’’ non è sufficiente. Se un intervento penale si vuol mantenere, occorre una giustificazione che ne definisca, punto per punto, la ragion d’essere e le forme possibili e preferibili. Tale è, nella fondazione illuministica, il criterio della necessità di tutela del deposito della salute pubblica (3). Limitarsi a parlare di riduzione dell’intervento, o (come è oggi di moda) di diritto penale minimo, lascia nell’ombra per l’appunto il momento (il problema) della positiva giustificazione di quel tanto o poco di penale che sia opportuno (o necessario?) conservare. Rispetto all’esistente, la linea di una riduzione del ‘‘penale’’ appare senz’altro giustificata in molti settori. Forse non sempre, per chi ritenga che interessi nuovi, o nuove forme di aggressione, possano richiedere nuovi o più incisivi strumenti di tutela anche penale, ed allargamenti ‘‘mirati’’ dell’area dell’illecito. Questioni di tal genere non possono che essere discusse settore per settore, in un’ottica in cui l’idea regolativa della ‘‘necessità di tutela’’ evochi ad un tempo esigenze di fondazione e di delimitazione della coercizione legale. Se si vuole sintetizzare in una frase una direzione di fondo, nella quale impostare il problema penale, l’obiettivo ultimo potrebbe essere definito come riduzione della sofferenza. Questa formula può servire a riassumere, in modo retoricamente efficace, entrambi i poli del problema penale: riduzione della sofferenza (e dell’insicurezza) cagionata dai fatti (i delitti) contro i quali (e a prevenzione dei quali) il diritto intende reagire; nello stesso tempo, riduzione della sofferenza cagionata dallo stesso diritto penale, ‘‘arma a doppio taglio’’ (4) che vuole difendere i diritti e le libertà dei consociati intervenendo con tecniche coercitive — afflittive — su quegli stessi diritti e libertà. Riduzione della sofferenza è dunque espressione sintetica di una pluralità di esigenze, che possono convergere (e si vorrebbe convergano) verso un obiettivo definibile come unitario, ma guardano a profili diversi e di problematica conciliazione. La strada percorribile, per avvicinare l’obiettivo, è tutta segnata dalla tensione fra i fini della tutela coercitiva e i costi della coercizione, vale a dire, dalla strutturale ambivalenza dello strumento penale. Tutti i problemi, nei quali il problema penale si articola, hanno a che fare con bilanciamenti fra interessi importanti, in tensione fra loro, alla ricerca di punti d’equilibrio problematici, instabili, soggetti alla verifica dell’esperienza e a diverse concezioni dei valori in gioco. 1.3. Per molto tempo, nella dottrina italiana ha avuto corso l’idea della riforma penale come attuazione di indirizzi desumibili dalla Costitu(3) L’espressione è di BECCARIA, Dei delitti e delle pene, § II (p. 12 dell’edizione a cura di F. Venturi, Torino, 1994). (4) Secondo la nota formulazione di V. LISZT, La teoria dello scopo nel diritto penale, p. 46 dell’edizione italiana, Milano, 1962.
— 6 — zione, non esaurentisi nella posizione di limiti garantisti invalicabili all’intervento penale, ma emergenti dal complessivo sistema di valori, interessi, ‘‘beni giuridici’’ che la Costituzione assume ad oggetti di tutela (5). Nei lavori della Commissione, i principi costituzionali sono stati un punto di riferimento fondamentale: il rispetto dei principi garantisti (formali e sostanziali) è obiettivo minimale irrinunciabile, e, nella parte generale relativa al reato, l’obiettivo prevalente. Sotto questo profilo, una discussione sul progetto potrà verificare se e come l’obiettivo proclamato sia stato raggiunto, e se e quali passi ulteriori siano necessari od opportuni. Il problema ‘‘politico’’ della riforma si apre nello spazio che i principi garantisti delimitano. Questi principi, nel porre i limiti invalicabili dell’intervento penale legittimo, ne segnano l’ambito della massima espansione possibile in uno stato liberale di diritto. Le politiche del diritto penale, che i principi garantisti consentono, sono politiche di specificazione legislativa dell’intervento penale, dentro l’ambito teoricamente legittimato dal riferimento a beni giuridici tutelabili e dal rispetto dei limiti costituzionali. Problemi, anche questi, di attuazione costituzionale? Possiamo senz’altro dire di sì, nel senso che è la Costituzione ad imporre una costruzione del sistema penale formalmente conforme al principio di legalità, e sostanzialmente orientata a programmi per i quali la Costituzione addita taluni indirizzi (dalla funzione di tutela di ‘‘beni giuridici’’ alla tendenza ‘‘rieducativa’’ della pena). Ritengo peraltro che la parola d’ordine della ‘‘attuazione costituzionale’’ sia insufficiente a cogliere la complessità dei problemi dinanzi ai quali il legislatore è chiamato a prendere posizione, e rischia di oscurare la dimensione propriamente ‘‘politica’’ del problema penale. I bilanciamenti d’interessi e le valutazioni anche d’ordine tecnico, sottese alle scelte relative ad ambiti e limiti dell’intervento penale, sono un importante campo di confronto fra indirizzi diversi di politica generale; il principio di legalità, che regge la struttura formale del sistema penale, è espressione e garanzia (anche) della libertà politica nell’elaborazione delle possibili politiche penali alternative. Qualsivoglia ‘‘costituzionalizzazione’’, qualsivoglia pretesa di monopolio della copertura costituzionale da parte di una specifica linea di politica penale, segnerebbe (indipendentemente dal merito dell’indirizzo imposto una volta per tutte) una pretesa di restrizione dello spazio aperto al confronto fra diversi indirizzi di politica del diritto penale, nel foro dell’opinione pubblica e in quello politico legislativo. Ciò non significa affatto un ritrarsi delle ragioni delle quali il giurista (5) Il riferimento è all’indirizzo che risale a BRICOLA, Teoria generale del reato, in Nss. Dig. it., 1974, XIX, p. 7 s.
— 7 — può farsi portatore, di fronte alla nuda volontà politica. Al contrario, proprio nello spazio libero da vincoli formali si dispiega pienamente la necessità del discorso razionale, cioè della ricerca e del confronto di ragioni diverse. Le ‘‘ragioni’’ della riforma debbono giustificarsi come tali, soprattutto là dove sia in gioco una responsabilità di scelte politiche che non possono invocare una posizione privilegiata di fronte ad una Costituzione ‘‘aperta’’, la quale riconosca spazio e legittimità e pari dignità costituzionale a diverse possibili politiche del diritto (6). 1.4. Esigenze di riforma toccano sia il sistema dei reati che il sistema delle pene, ma soprattutto le pene. Sotto questo profilo, il problema della riforma ‘‘di parte generale’’ si incentra fondamentalmente su questioni diverse da quelle che il giurista teorico tende a privilegiare, ma anche per questo più bisognose d’intervento del legislatore. Usando un linguaggio metaforico, possiamo dire che la teoria del reato si interessa della bilancia della giustizia, mentre il problema della pena chiama in causa (anche) la conformazione e l’uso della spada, di cui pure la giustizia è armata. La teoria del reato è il volto razionale (7), che comprensibilmente appassiona il giurista teorico. Su questo terreno, la dottrina giuridica ha da tempo avviato l’elaborazione di schemi d’analisi idonei a comprendere le diverse modalità dell’agire umano, sotto gli aspetti rilevanti ai fini dell’attribuzione di responsabilità, e criteri normativi a ciò pertinenti, che le codificazioni moderne hanno (bene o meno bene) recepito. I principi cardine del diritto penale liberale, di matrice illuministica, sono parte integrante dei principi dello Stato di diritto, recepiti nelle carte costituzionali libraldemocratiche del Novecento. Anche un codice non liberale, come il codice Rocco, riflette (in parte) nella sua parte generale i modelli formali e alcuni principi sostanziali del pensiero giuridico liberale (8), e dopo l’entrata in vigore della Costituzione è stato possibile alla dottrina — e alla giurisprudenza costituzionale — valorizzare il novum costituzionale per una ulteriore evoluzione del sistema. Ciò non significa che bisogni di riforma non tocchino anche la ‘‘parte generale’’ relativa al reato. Al contrario: il codice vigente resta segnato da scarti rispetto ai principi liberaldemocratici, non del tutto superati dalle novelle (e dagli interventi della Corte costituzionale) dei decenni della Re(6) Per una più ampia motivazione, sia consentito rinviare a PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in questa Rivista, 1983, p. 484 s. (7) Ci si riferisce, ovviamente, alla pertinenza al campo dei discorsi razionali e razionalmente risolubili, non alla razionalità delle singole proposizioni o delle concrete soluzioni normative, che è per definizione ‘‘discutibile’’, e spesso, nella realtà storica, non c’è affatto. (8) Per una riflessione d’insieme, cfr., il numero speciale de La questione criminale, in Il codice Rocco cinquant’anni dopo, 1981.
— 8 — pubblica. È per questo che l’integrale attuazione dei principi costituzionali resta un obiettivo di riforma, tutt’altro che scontato. Dentro la teoria del reato, peraltro, siamo in un campo in cui un’elaborazione teorica matura e il consolidamento di principi guida, ‘‘trascendenti il sistema’’, tendono a rafforzare il ruolo della ratio — del dispiegarsi della razionalità discorsiva — rispetto alla voluntas di un’autorità decisionale, che resta, certo, necessaria (lo esige il principio di legalità, espressione della democrazia politica) ma non può essere arbitraria rispetto ad una ‘‘natura delle cose’’ accessibile all’indagine razionale e oggetto di valutazioni criticamente argomentabili. Sul versante delle pene — la spada della giustizia — il sistema mostra il suo volto oscuro, meno razionale e meno razionalizzabile. ‘‘Bisogni di sicurezza’’, resi acuti dall’esplodere (o dalla mera percezione soggettiva) di questa o quest’altra emergenza criminale, troppo facilmente si traducono in bisogni di punizione, istintivi o sollecitati (9). In Italia, riforme ‘‘di parte speciale’’ nate sotto il segno dell’allarme sociale, e dell’esibizione di rigore di fronte a fenomeni criminale allarmanti, hanno ulteriormente accentuato la già draconiana severità del codice. In riforme (settoriali) di parte generale e del sistema penitenziario hanno invece prevalso istanze di umanizzazione e di prevenzione speciale. Gli esiti complessivi sono quanto mai ambigui: la ‘‘politica penale’’ appare contraddittoria, e non riesce a definire equilibri e criteri idonei. Il sistema sanzionatorio si rivela, allo stesso tempo, ineffettivo e di estrema severità. Il deficit di razionalità non è solo nei fatti, ma è in qualche misura insito nello strumento penale, ‘‘arma a doppio taglio’’ cui sono connaturati costi consistenti in termini di incidenza sugli stessi diritti che si vuol tutelare. L’uso della spada, per quanto legato a presupposti e modalità scrupolosamente pesati sulla bilancia della giustizia, per sua natura eccede la dimensione del giudizio razionale, incarnandosi in modelli punitivi nella cui intrinseca discutibilità e nel cui carico di sofferenze minacciate e inflitte nessun postulato retribuzionista può assicurare non vi sia altro che un bonum. È dunque sul versante delle pene che esigenze di riforma sono più pressanti, e, allo stesso tempo, più precarie le condizioni di un discorso razionale che è chiamato a fare i conti con quanto di irrazionale si trova dietro e dentro gli istituti penali (10), e con aporie insiste negli stessi fini legittimamente assegnabili alla pena. 2. La scienza giuridica nel laboratorio della riforma. — Quale contributo al lavoro di riforma può essere dato dalla ‘‘scienza giuridica’’, vuoi (9) Sia consentito rinviare, anche per i riferimenti, a PULITANÒ, voce Politica criminale, in Enc. dir., XXXIV, 1985, p. 96 s. (10) Cfr. HASSEMER, Theorie und Soziologie des Verbrechens, Frankfurt am Main, 1973, p. 244.
— 9 — in sedi istituzionali, vuoi nel foro della pubblica discussione? Riprendendo il filo di una riflessione già avviata nel mondo dei giuristi (11), direi che quel contributo ha fondamentalmente a che fare con il rapporto fra voluntas (decisione politica del legislatore) e ratio (coerenza con dati di realtà e di razionalità valutativa): la scienza giuridica dispone di conoscenze e di teorie che consentono (dovrebbero consentire) di meglio riconoscere i problemi di disciplina, i nessi, di principio e fattuali, che segnano il campo di gioco e le regole del gioco del legislatore, e conseguentemente di elaborare soluzioni normative razionali. All’interrogativo sulla legittimazione dei giuristi a partecipare all’attività di elaborazione legislativa, la risposta che autorevolmente è stata data (12) è che il titolo di legittimazione non va ricercato in investiture politiche, ma ‘‘esclusivamente nella coltivazione della scienza giuridica’’. La legittimazione va conquistata (e si rischia di perderla) sul campo. Rispetto all’orizzonte consueto al giurista interprete, il partecipare al gioco del legislatore comporta un mutamento significativo. Come studiosi del diritto siamo abituati a porre e a cercare di risolvere problemi di conoscenza: di interpretazione del diritto positivo, di adeguata sistemazione concettuale, e simili. Il compito del legislatore è invece di assumere decisioni di politica del diritto, largamente discrezionali, entro un campo che, nel rispetto di alcuni vincoli, offre una pluralità di alternative possibili, più o meno ragionevoli, da confrontare secondo valori non di verità o falsità entro una logica binaria, ma di (maggiore o minore) adeguatezza a determinati scopi e/o a dati principi di giustizia. L’orizzonte si apre, dal cielo della teoria a quello della politica del diritto. La ratio, della quale la scienza è portatrice, si pone al servizio di scelte le cui ragioni non si esauriscono sul piano della razionalità strumentale, ma hanno a che fare anche con i fini; tanto più quando si discuta di riforma del codice (e non di riforme settoriali) rimettendo in discussione il modello stesso della giustizia penale. Partecipare al gioco del legislatore, anche come tecnici senza potere in una Commissione ministeriale o nel foro di una discussione pubblica, significa entrare nel gioco della democrazia: in un’impresa complessa che esige, insieme all’apporto di competenze, assunzioni di responsabilità nell’elaborazione di proposte (o di critiche) che hanno a che fare con la posizione di regole fondamentali per la convivenza civile e il funzionamento delle istituzioni. Passando dal campo della teoria a quello della politica del diritto, ci assumiamo responsabilità diverse e ulteriori rispetto a quelle del tecnico del diritto, che pure manteniamo in quanto pertinenti per un razionale espletamento del compito del legislatore. (11) Si rinvia, per un quadro generale, agli atti del convegno su ‘‘Giuristi e legislatori’’, tenuto a Firenze nel settembre 1996, pubblicati da Giuffrè, 1997, a cura di Paolo Grossi. (12) FALZEA, in Giuristi e legislatori, cit., p. 519.
— 10 — La consapevolezza della dimensione ‘‘politica’’ del lavoro di riforma non può non avere implicazioni sulle modalità di elaborazione e di controllo delle proposte. Ciò tanto più se si conviene sulla concezione del problema penale come problema di bilanciamenti d’interessi, in un campo di tensione fra esigenze contrapposte. La discussione sarà tanto più proficua, in quanto ciascuna scelta normativa sia motivata (da chi la proponga) e controllata come esito di un bilanciamento d’interessi. Non basta addurre unilateralmente ragioni a sostegno, o a critica: occorre argomentare perché quelle ragioni vengano ritenute prevalenti rispetto ad altre, che potrebbero eventualmente fondare soluzioni diverse. Le prese di posizione sugli obiettivi, non necessariamente da esprimere in testi legislativi, dovrebbero essere esplicitamente motivate, e sottoposte alla pubblica discussione. Le proposte presentate potranno in tal modo essere meglio verificate, sia nell’ispirazione ‘‘politica’’, sia quanto a coerenza ‘‘tecnica’’ fra gli obiettivi dichiarati e le soluzioni proposte. 3. Quali vincoli alle scelte del legislatore? — Porre problemi di ratio, cioè di ragioni che dovrebbero orientare il dictum del legislatore, significa porre un problema di limiti o vincoli alla decisione normativa. Significa riflettere sui limiti della potenza di un legislatore che non è — non può essere — onnipotente, né nella scelta dei fini, né nella scelta dei mezzi. 3.1. Il vincolo ‘‘di principio’’, per un lavoro di riforma del codice, sta nel rispetto dei principi costituzionali: innanzi tutto quelli che segnano, in chiave garantista, limiti invalicabili, formali e sostanziali, della coercizione penale legittima (principio di legalità dei reati e delle pene; riduzione dell’intervento penale secondo il criterio della necessità di tutela di beni giuridici di rilievo costituzionale; principio di colpevolezza) o ne additano particolari finalità (tendenza ‘‘rieducativa’’ della pena). L’integrale rispetto dei principi garantisti è l’obiettivo primo e minimale che una riforma penale deve prefiggersi. Rispetto alla situazione attuale, si tratta di completare un lavoro già avviato dalla giurisprudenza costituzionale, e al quale la dottrina recente offre un valido supporto. La Commissione ha inteso muoversi decisamente in questa direzione, nell’ambito e nei modi consentiti da una riforma limitata alla parte generale. Fino a che punto il progetto presentato sia riuscito a raggiungere l’obiettivo, resta ovviamente un tema di discussione. Accanto ai principi specifici del sistema penale, merita attenta considerazione il principio d’uguaglianza, quale principio generale di struttura dell’ordinamento. Il rilievo che esso riveste per il diritto penale è progressivamente emerso nella giurisprudenza costituzionale, soprattutto (ma non esclusivamente) su questioni attinenti al sistema sanzionatorio, ed appare tanto maggiore ove si ritenga inaccettabile o inutilizzabile l’ideologia
— 11 — retributiva, cioè il tradizionale criterio di controllo della coerenza strutturale e del valore di giustizia del sistema. Un sistema penale emancipato dall’ideologia retributiva, ma non dall’attenzione a criteri di giustizia, trova nel principio d’uguaglianza un criterio che, senza la pretesa di imporre soluzioni bloccate, pone vincoli di coerenza intrasistematica, oltre che di coerenza con i principi ‘‘materiali’’ del sistema dei reati e delle pene (13). Anche negli spazi aperti alla discrezionalità politica del legislatore — a diverse, ugualmente legittime possibilità di bilanciamento d’interessi — il principio d’uguaglianza evoca esigenze di fondamento razionale delle differenziazioni di trattamento (14), e pone alle scelte del legislatore vincoli non meramente formali (15). 3.2. Vi sono altri vincoli, oltre quelli derivanti da principi normativi sovraordinati, per il lavoro di riforma? Se porre norme è (vuole essere) un disciplinare fatti e comportamenti del mondo reale, il legislatore deve fare i conti con la realtà che intende regolare, e nella quale ha da cercare le condizioni di una regolazione possibile. In questo senso, potremmo dire che il legislatore è vincolato al principio di realtà. Alla radice, si tratta anche qui di un vincolo normativo. In gioco è il rispetto del principio di legalità, nella dimensione che la Corte costituzionale ha avuto occasione di additare nella famosa sentenza sul delitto di plagio. La norma penale non può prendere in considerazione nessuna ipotesi che non sia ‘‘verificabile nella sua effettuazione e nel suo risultato’’ (16). La legittimità del precetto legale dipende (anche) dalla sua capacità di cogliere fatti del mondo reale, accessibili alla conoscenza razionale. Il vincolo di realtà, insito nel principio di legalità, non concerne soltanto la descrizione della fattispecie criminosa. In quanto ripulsa del mero arbitrio, principio di legalità significa vincolo a criteri di decisione. E ciò a sua volta implica vincoli di razionalità che riguardano allo stesso modo il momento della codificazione e quello dell’applicazione delle norme. Lasciando da parte le pur importantissime implicazioni sul piano probato(13) Per un meditato approccio al problema, cfr. PALAZZO, Offensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali, in questa Rivista, 1998, p. 350 s. (14) Secondo un’impostazione affiorata nella giurisprudenza costituzionale in materia di cause di non punibilità: Corte cost. n. 148 del 1983, in Foro it., 1983, I, p. 1800 s., con note di GIRONI e PULITANÒ. (15) Una riforma a livello della legge ordinaria deve inoltre tenere conto di tutti i principi che, per il solo fatto di essere iscritti nel sistema costituzionale (o nell’interpretazione che ne è data nel ‘‘diritto vivente’’), esigono di essere tenuti in considerazione in sede legislativa. E così, il progetto ha ritenuto di dover regolare istituti quali l’amnistia e l’indulto, o gli effetti del decreto legge non convertito, in ragione del puro e semplice vincolo alla Costituzione, del tutto indipendentemente da ogni giudizio di merito. La fedeltà al mandato non consente altra scelta. (16) Sent. n. 96 del 1981.
— 12 — rio (17), ci interessano in questa sede quelle attinenti alla formulazione delle norme: se il mondo del diritto ha a che fare con problemi di conoscenza razionale dei fatti, anche per il legislatore si pone il problema dei rapporti fra il mondo delle norme e lo stato della scienza; di tutte le scienze, da quella del diritto a quelle che riguardano il mondo dei fatti di cui il diritto si interessa. Una volta che sia assicurata l’aderenza della norma al mondo reale, vi sono ulteriori vincoli ‘‘ontologici’’ posti al legislatore dalla ‘‘natura delle cose’’? A questo interrogativo, che attraversa tutta la storia della riflessione sul diritto, ritengo si debba laicamente dare risposta negativa, con alcune precisazioni. 4. Il rapporto con il sapere scientifico. — Se la ‘‘natura delle cose’’, alla quale pensiamo, è quanto costituisce oggetto del sapere scientifico in senso forte — quello delle scienze della natura, o della logica formale — un tale sapere può essere considerato elemento costitutivo dello stesso sapere giuridico, ed è, per le istanze di produzione normativa, un dato (un vincolo) ineludibile. Le possibilità di conoscenza dei fatti — di quel mondo dei fatti che il diritto si propone di regolare — passano per un sapere esterno al diritto, che il legislatore non ha il potere di modificare, e al quale non può contrapporre un ‘‘sapere’’ diverso. Non può farlo, a pena di non uscire dall’orizzonte di ciò che è suscettibile di controllo logico ed empirico: il significato profondo della sentenza sul delitto di plagio sta nel riconoscimento di questo vincolo. Ciò che il legislatore può (e deve) fare, è porre regole che, tenendo conto del sapere del tempo, descrivano e disciplinino strutture significative del mondo dell’esperienza. Anche sotto questo aspetto, il sapere empirico è un criterio di razionalità; d’altro canto, la libertà di valutazione (l’arbitrio formalmente illimitato) del legislatore, nel selezionare le fattispecie e nel porre le conseguenze, è, per definizione, anche autonomia nella selezione dei saperi rilevanti. Se vincoli vi sono, essi non derivano da una ‘‘natura delle cose’’ astrattamente considerata, ma da principi sovraordinati allo stesso legislatore, che impongano vincoli in funzione di determinati profili di realtà, e quindi di determinati saperi attorno al mondo dei fatti. (17) MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 2001, p. 163 s., ricordano che il profilo probatorio del principio di legalità (l’esigenza che la norma si riferisca a situazioni accertabili nel corso del processo) risale ai primordi illuministici del principio, ed è stato poi lungamente accantonato nella dottrina, forse perché tale profilo evoca problemi (come la stregoneria) non più attuali. Il recupero della dimensione ‘‘probatoria’’ del principio di legalità, peraltro, ha una valenza più generale: l’esigenza di prova certa dei presupposti della responsabilità, attraverso il processo, è un profilo essenziale del principio di legalità quale principio di diritto sostanziale. Vale la pena domandarsi se, in una riscrittura del codice, questo aspetto non meriti espresso rilievo.
— 13 — In questo orizzonte si pongono i problemi di rapporto del diritto penale con il sapere scientifico, relativi ai più importanti istituti della parte generale: dai problemi della causalità e del pericolo ai diversi aspetti del problema della colpevolezza (dolo, colpa, imputabilità). L’esigenza del riferimento a ‘‘leggi di copertura’’, o comunque allo stato della scienza, ha a che fare con il rispetto dei principi — sovraordinati al legislatore ordinario — di offensività, di personalità della responsabilità, di colpevolezza. Il nesso del diritto penale con il sapere scientifico è dunque determinato da vincoli normativi immanenti ai principi primi del sistema, che impongono di riconoscere rilevanza ad elementi fattuali accessibili (solo) per il tramite del sapere scientifico, dai quali dipendono l’afferrabilità dell’oggetto di disciplina (principio di legalità), la personalità della responsabilità (problema causale), la colpevolezza dell’agente (problemi attinenti al dolo, alla colpa, all’imputabilità). La consapevolezza dei nessi fra il momento normativo e i saperi scientifici è stata ben presente alla Commissione, la quale si è preoccupata di individuare i punti di raccordo fra i due piani, in modo da soddisfare l’esigenza di scelte normative chiare, senza invasioni di campo. In concreto, ciò ha significato astensione dal dettare disposizioni che potessero suonare come pretesa di risoluzione ‘‘autoritaria’’ di questioni di competenza del sapere scientifico. Tale linea di cauto self restraint è stata seguita sia in relazione a questioni controverse (vedi imputabilità), sia in campi in cui si può fare affidamento su teorie condivise (per es., il modello della ‘‘sussunzione sotto leggi’’ in relazione al problema causale). Preferibile, in ogni caso, si è ritenuto un rinvio ‘‘aperto’’ allo stato del sapere scientifico ed alla sua eventuale evoluzione: aperto a recepire tutti gli apporti che possano ritenersi corroborati e condivisi dalla cultura del tempo. Non ci si nasconde che questa linea pone non pochi problemi, sotto il profilo della determinatezza (o della chiarezza) delle disposizioni ‘‘di rinvio’’, soprattutto là dove il rinvio trovi, sullo sfondo, un sapere scientifico incerto, o addirittura ‘‘in crisi’’, come di fatto avviene in contesti di grande importanza per il diritto penale (pensiamo per tutti al capitolo dell’imputabilità). Il discorso non può perciò ritenersi chiuso; la strada che, forse, potrebbe essere utilmente tentata è quella di meglio precisare (se possibile) il senso e le condizioni del rinvio normativo al sapere scientifico, nei diversi campi problematici. 5. Il rapporto con la scienza giuridica. — 5.1. Nelle discussioni sul progetto (18) è venuto in primo piano il tema dei rapporti fra codificazione e dogmatica giuridica. Un nodo di indubbio e grande rilievo, se l’apporto della scienza giuridica al legislatore ha da consistere (anche) nella (18)
In particolare nel seminario ISISC dei giorni 3-5 novembre 2000.
— 14 — messa a disposizione di conoscenze, di ragioni e di tecniche che la scienza giuridica ha elaborato nelle forme sue proprie. A questo proposito, l’esperienza dei primi dibattiti sul progetto fa ritenere necessaria una messa a punto. Come giuristi, spesso tendiamo a sopravvalutare l’importanza delle nostre elaborazioni teoriche o ‘‘dogmatiche’’, fino ad aspirare a vederle puntualmente riflesse nei testi legislativi, e a censurare il legislatore se non lo fa. A me pare che il rapporto fra legislazione e scienza (non solo quella giuridica) sia più complesso: di connessioni ma anche di reciproca autonomia. Un codice ha il compito di dettare regole chiare, coerenti, razionali. Non ha il compito di prendere posizione su questioni teoriche, e non ne ha il potere. La ‘‘verità’’, in qualunque plausibile significato, non è disponibile da parte del legislatore. La ricerca della verità e l’elaborazione teorica sono compito della scienza; anche della scienza giuridica, nei modi e nei limiti di un’impresa conoscitiva diversa da quella delle scienze ‘‘dure’’, ma che avanza pur sempre la pretesa di offrire contributi sul piano della conoscenza, non esaurentisi nella mera esegesi del diritto vigente hic et nunc. All’autonomia politica del legislatore corrisponde la piena autonomia intellettuale della scienza giuridica, come di qualsiasi altra scienza. Sulla premessa della autonomia reciproca del legislatore e della dogmatica, come si riconnettono le rispettive sfere di competenza? Ha senso parlare di una ‘‘dogmatica del codice’’, leggibile (o che dovrebbe essere leggibile) nelle sue articolazioni concettuali e sistematiche? Dietro le formule, la sostanza del problema è se e quali pretese la ‘‘dogmatica’’ ritenga di potere avanzare, e quali contributi sia in grado di offrire, nella costruzione del codice. Poiché la scrittura (o riscrittura) di un codice passa anche attraverso scelte ‘‘sistematiche’’, relative alla struttura del sistema normativo, chi effettua le scelte ha l’onere di renderne ragione, nel foro di una discussione in cui ratio e voluntas sono ugualmente implicate. E qui il sapere giuridico potrebbe avanzare, non diversamente da altre scienze, la pretesa di orientare (al limite, vincolare) il legislatore, se e nella misura in cui offra elementi di conoscenza ‘‘vera’’ relativi al mondo dei fatti, alla struttura dei sistemi normativi, o in genere ai problemi con i quali il legislatore è chiamato a confrontarsi. Appunto l’individuazione dei problemi di disciplina è l’apporto prioritario e insostituibile che la scienza ed esperienza del diritto può (deve) fornire. Un buon legislatore, che ha il compito di risolvere problemi normativi, non può non tenere conto dei modi in cui la scienza e l’esperienza del diritto hanno individuato e articolato i problemi di disciplina, le interconnessioni di problemi, e, conseguentemente, le soluzioni possibili ed auspicabili. Il sistema del codice dovrebbe ‘‘rappresentare’’ (in tutti i sensi
— 15 — del termine) un sistema completo, chiaro e coerente di soluzioni di problemi: dei problemi che l’esperienza storica e la società del nostro tempo pongono dinanzi al legislatore, e che la scienza giuridica ha la responsabilità di concorrere ad individuare ed elaborare. L’altro contributo essenziale, che la scienza giuridica è chiamata a dare, attiene al linguaggio: è compito della scienza giuridica fornire al legislatore un linguaggio chiaro, coerente, condiviso, che consenta al legislatore di parlare in modo comprensibile di qualsivoglia situazione da disciplinare, e dei corrispondenti modi di disciplina. Su ciò torneremo più avanti. La ‘‘rappresentazione’’ dei problemi e delle soluzioni, che il codice può (deve) dare, chiama in causa la struttura del sistema. Questo deve essere razionale rispetto a parametri sostanziali di completezza e adeguatezza, e ad esigenze di chiarezza del messaggio normativo. Il senso della ‘‘sistematica del codice’’ si rivela fondamentalmente legato ad una funzione comunicativa: i contenuti vanno organizzati in modo razionale, e presentati in modo idoneo alla loro comprensione. Vogliamo etichettare come ‘‘dogmatica’’ del codice, o di un progetto di codice, il modo in cui questo ‘‘rappresenta’’ i problemi di disciplina e le relative soluzioni? Liberissimi di farlo, con l’avvertenza che ciò che realmente interessa sono i contenuti: la capacità di individuazione passabilmente completa dei problemi, e la qualità delle soluzioni proposte. 5.2. Come si riconnette la ‘‘dogmatica del codice’’ con la dogmatica dei giuristi? Dal mondo dei giuristi vengono talora avanzate pretese stringenti: alcuni vorrebbero ritrovare nel codice l’accoglimento di una particolare ‘‘concezione dogmatica’’, o, più semplicemente, una particolare ‘‘sistematica del reato’’ (al limite, una data collocazione delle norme). Talune critiche mosse al progetto della Commissione Grosso sottendono una simile impostazione. Un esempio per tutti, tratto dal seminario siracusano del novembre 2000. Una comunicazione scritta (19) sostiene, con riferimento al progetto preliminare della Commissione, che ‘‘la scelta di estromettere la considerazione dell’imputabilità dal titolo relativo al reato rivela una grave ambiguità dei rapporti tra imputabilità, colpevolezza e prevenzione, che si riflette nella conservazione di un sistema dualistico di sanzioni e nel singolare regime dell’imputabilità ridotta’’. Mi soffermo un attimo su questo tipo di critica, mettendo fra parentesi il merito, per rilevarne la struttura e le premesse. Premessa della critica sembra essere la pretesa di un rapporto stringente (di corrispondenza fin nella collocazione di singole norme) fra la ‘‘sistematica’’ del codice e una particolare concezione ‘‘dogmatica’’. Ciò, (19)
MOCCIA, p. 13 del dattiloscritto.
— 16 — da un lato, comporta una forte dilatazione delle pretese di verità o validità delle costruzioni dogmatiche della dottrina, al punto da erigerle a criterio d’accettabilità delle soluzioni legislative, secondo una logica binaria (vero o falso). La primazia, dunque, si vuole assegnata alla dogmatica. Dall’altro lato, di fronte a scelte ‘‘sistematiche’’ difformi (o ritenute difformi) da parte del legislatore, affiora un atteggiamento di subalternità: una sostanziale rinuncia a svolgere il lavoro di elaborazione sistematica, che è proprio della scienza giuridica, come se il legislatore, effettuando opzioni ‘‘dogmaticamente sbagliate’’, potesse espellere, con effetto vincolante, la concezione dogmatica ‘‘vera’’. Emerge qui, mi pare, una confusione fra i compiti decisionali del legislatore e il contributo ‘‘di verità’’ che la scienza giuridica può offrire. E, quel che è peggio, ne deriva il rischio di incomprensione di scelte difformi dallo schema che si presuppone come (l’unico) valido. Una lettura ‘‘intelligente’’ del progetto del settembre 2000 non autorizza minimamente a dire che, in esso, l’imputabilità non ha a che fare con la colpevolezza. Una simile critica confonde la ‘‘collocazione dei mobili’’ nelle stanze del codice con la struttura logica e normativa del sistema, ed abdica alla funzione di elaborazione concettuale e sistematica che è propria della scienza giuridica. Una ‘‘scienza giuridica’’ consapevole dei problemi di disciplina legati alla questione della (non) imputabilità sa che questa ha obiettivamente a che fare sia con il problema dei presupposti della responsabilità, sia con il problema del trattamento dei ‘‘non imputabili’’. Dovunque collocata, la definizione della (non) imputabilità mantiene logicamente questa duplice rilevanza; collocarla nel capitolo della colpevolezza o in quello del trattamento dei non imputabili è questione di mera ‘‘estetica’’ del codice, del tutto irrilevante sia per i contenuti normativi, sia per l’elaborazione sistematica della dottrina, che potrà — e dovrà — tranquillamente rilevare il nesso fra imputabilità e colpevolezza, non diversamente da come ciò è stato possibile di fronte al sistema del codice Rocco, che colloca l’imputabilità nel titolo del reo. Quanto alle questioni sostanziali sollevate (se conservare o meno un ‘‘sistema dualistico di sanzioni’’; se e come disciplinare ipotesi di capacità ridotta) il progetto offre ipotesi di soluzione ovviamente ‘‘discutibili’’, nel senso letterale del termine. I contenuti normativi, peraltro, sono del tutto indipendenti dal luogo in cui la definizione della (non) imputabilità sia o possa essere più opportunamente collocata. Il compito di elaborazione teorica, la dottrina ha saputo svolgerlo, di fronte al ‘‘sistema’’ del codice Rocco, anche su altri punti gravidi di più concrete implicazioni: per es., riportando al problema della colpevolezza materie, come l’errore sul precetto, volutamente disciplinate dal codice
— 17 — Rocco in altri contesti (20). Ciò ha consentito di sviluppare una linea di riflessione teorica non subalterna al sistema del codice, e proprio perciò capace di esercitare un controllo critico sugli stessi contenuti del codice e di additare soluzioni poi recepite dalla giurisprudenza costituzionale (21). Anche di fronte a un codice riformato la dottrina ha la responsabilità di continuare un simile lavoro di riflessione, di elaborazione teorica, e, occorrendo, di critica contenutistica. 5.3. Queste considerazioni non intendono ovviamente negare che, in sede di riforma, vengano in rilievo problemi di collocazione sistematica, né intendono difendere la ‘‘collocazione dei mobili’’, fatta nel progetto, come l’unica o la migliore. Altre collocazioni possono andare bene, e forse meglio, sul piano ‘‘estetico’’ o della chiarezza del messaggio. Ma tale questione non ha la dignità di questione ‘‘dogmatica’’, e non è stretta nelle alternative secche fra il vero e il falso, il giusto e lo sbagliato. La pretesa di un rapporto stringente (‘‘troppo’’ stringente) fra dogmatica del codice e dogmatica dei giuristi finisce per negare, ad un tempo, l’autonomia decisionale del legislatore e l’autonomia della scienza giuridica. Sia l’impresa ‘‘normativa’’ del legislatore, sia quella ‘‘conoscitiva’’ del giurista, abbisognano di un rapporto mediato e flessibile, che riconosca le connessioni reciproche rispettando i margini di autonomia. Nello strutturare il progetto di codice, la Commissione non ha affatto inteso trascurare (ciò sarebbe semplicemente assurdo) i possibili apporti della dogmatica, ma ha ritenuto preferibile un approccio che definirei soft. Le scelte ‘‘sistematiche’’ sono fondamentalmente orientate alla funzione pragmatica di comunicazione del messaggio normativo. L’obiettivo è costruire un testo coerente e comprensibile, le cui linee siano facilmente leggibili pur nella complessità tecnica delle soluzioni. Se una scelta ‘‘dogmatica’’ può dirsi effettuata, è l’opzione per un codice ‘‘dogmaticamente leggero’’: pensato (e auspicabilmente da leggersi) come carico il meno possibile di implicazioni o di pretese proprie di una particolare teoria dogmatica; da utilizzare per la soluzione di problemi normativi, ma non utilizzabile come argomento ex auctoritate in dispute teoriche che non tollerano soluzioni ‘‘d’autorità’’. Quest’ottica pragmatica, e non dogmatica, è esplicitata nella relazione al progetto, a proposito della configurazione della confisca come istituto ‘‘autonomo’’, emancipato cioè da classificazioni entro un genus più comprensivo (pena o misura di sicurezza) (22). Altri esempi significa(20) Sia consentito, in proposito, rinviare a PULITANÒ, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, in particolare p. 58 s. (21) Ci si riferisce ovviamente, e soprattutto, a Corte cost. n. 364 del 1988. (22) La non inclusione della confisca nel catalogo delle pene, spiega la Relazione, ha una ragione che ‘‘non è astrattamente ‘dogmatica’, ma di chiarezza. I presupposti e la fun-
— 18 — tivi possono cogliersi nei punti in cui il progetto ha operato scelte ‘‘di collocazione sistematica’’ innovative rispetto al codice Rocco. Pensiamo alla collocazione delle circostanze e del concorso dei reati nel capitolo delle pene invece che in quello del reato. La scelta effettuata dal progetto intende, non già rispecchiare una particolare concezione teorica, bensì raggruppare gli istituti attinenti al problema del trattamento sanzionatorio. La portata dell’innovazione attiene esclusivamente alla forma della comunicazione. Un ultimo esempio: la collocazione del dolo e della colpa nel capitolo della colpevolezza. Si tratta d’una scelta conforme ad una ‘‘dogmatica’’ tradizionale, che non è piaciuta ad alcuni sostenitori di una collocazione ‘‘sistematica’’ del dolo e della colpa nell’ambito della tipicità. Ritengo, a costo di scandalizzare qualcuno, che si tratti di un problema futile. La sistematica del progetto, qui come altrove, non ha affatto inteso esprimere una preferenza (o addirittura un’opzione vincolante) pro o contro un particolare modello ‘‘dogmatico’’, né prendere posizione sulla rilevanza del dolo e della colpa sul piano della tipicità; ha inteso, puramente e semplicemente, trasmettere il messaggio normativo, concernente i contenuti del dolo e della colpa, in un contesto che vorrebbe facilitare la comprensione del messaggio. Le dispute ‘‘dogmatiche’’ sulla collocazione del dolo e della colpa non hanno alcun riflesso nella cultura e nella prassi forense; l’inquadramento del dolo e della colpa come problemi che hanno a che fare con la colpevolezza appare del tutto naturale, e poggia su solide ragioni. Qualsivoglia altra scelta, dogmaticamente più sofisticata (il che non necessariamente significa migliore!), avrebbe corso il rischio di difficoltà di comprensione, senza alcuna contropartita utile. Sarebbe stata, per così dire, frutto di una dogmatica ‘‘di parte’’, meno adatta ai compiti di comunicazione che un codice si assume. Tutte queste scelte sono, ovviamente, discutibili. Ma non in nome della dogmatica. Non sono scelte ‘‘dogmatiche’’: non intendono interferire nell’elaborazione teorica dei giuristi, né del resto lo potrebbero. Sono scelte attinenti alla forma del codice, e come tali vanno valutate, avendo riguardo alla loro funzione pragmatica. L’astinenza dogmatica, che ha guidato la Commissione, mi sembra la scelta più rispettosa (anche) verso zione della confisca sono diversi da quelli delle pene in senso stretto. Alla funzione specifica di ablazione dei profitti del reato corrisponde una struttura diversa da quella della pena: la confisca non è commisurata alla colpevolezza (può avere senso anche nei confronti di soggetti non imputabili o non punibili), e nemmeno alla gravità del reato, trovando (di regola) fondamento e limiti nel profitto da reato, che è cosa diversa dalla gravità del reato e della colpevolezza’’. Tutto ciò non esclude che, sotto altri profili, la confisca sia accostabile alle pene, e, in particolare, richieda analoghe garanzie; né si oppone all’autonomia di elaborazione concettuale della scienza giuridica. La scelta ‘‘sistematica’’ intende, semplicemente, tenere conto di peculiarità dell’istituto (dei suoi presupposti e della sua funzione) che ne giustificano, e rendono preferibile, una disciplina specifica formalmente autonoma.
— 19 — l’autonomia della scienza giuridica, e chiede di essere (la si condivida o meno) riconosciuta e rispettata nel confronto sulle soluzioni normative (buone o meno buone) desumibili dal progetto. 6. Il problema del linguaggio del codice. — L’importanza centrale che, per la legge, ha la valenza di messaggio verso tutti i destinatari, porta in primo piano, nei lavori di riforma, il problema dello strumento necessario del messaggio legislativo: il linguaggio del quale il legislatore deve fare uso. Anche sotto questo aspetto, la prospettiva è diversa da quella consueta del giurista interprete: quel linguaggio che il giurista vede come dato precostituito, da interpretare, il legislatore lo costruisce. Deve calare in esso la propria ‘‘intenzione’’, e renderla riconoscibile per quel tramite. L’oggetto, sul quale convergono le prospettive del legislatore e dell’interprete, è peraltro il medesimo: la norma quale testo linguistico. Anche a questo proposito la scienza giuridica è chiamata a dare un contributo essenziale, come luogo di elaborazione del linguaggio tecnico (oltre che per il patrimonio di esperienze e di tecniche che può mettere a disposizione del legislatore). La necessità di valersi del medium del linguaggio è, per il legislatore, un vincolo di realtà, che basterebbe di per sé a relativizzare il mito d’un legislatore ‘‘onnipotente’’. Tale non è, il legislatore, nemmeno nel rapporto con il suo strumento: la ‘‘riuscita’’ della comunicazione delle ‘‘intenzioni’’ del legislatore non è assicurata a priori, ma passa attraverso un linguaggio che sia comune al legislatore ed al suo uditorio, e sia adoperato in modo efficace. La dimensione linguistica viene emblematicamente in primo piano là dove il bisogno di riforma sia essenzialmente una esigenza di chiarimento: come problema di determinatezza della legge, o come esigenza di una presa di posizione del legislatore di fronte ad interpretazioni contrastanti del diritto condito. Una volta effettuata la scelta contenutistica, si tratta di esprimerla in modo chiaro, e che riesca a imporsi nel diritto vivente. È di questo tipo il problema che la Commissione si è posta (per es.) a proposito della disciplina dell’errore su legge extrapenale: come cercare di imporre alla giurisprudenza una soluzione che la dottrina prevalente ritiene già oggi leggibile nell’art. 47, ult. comma, ma che la giurisprudenza di legittimità disattende. La comunicazione può risultare più difficile — propter egestatem linguae et rerum novitatem (23) — proprio là dove si tratti di introdurre novità significative, fuoriuscendo da schemi tradizionali, con necessario ricorso a moduli linguistici nuovi e non consueti, e magari scontrandosi con (23)
LUCREZIO, De rerum natura, I, 139.
— 20 — la durezza ed i limiti dei mezzi linguistici a disposizione. Una proposta di riforma normativa — vale a dire, di messaggi nuovi quanto meno nella forma — ha dunque un vitale bisogno di essere controllata nella sua effettiva capacità di comunicare quanto intenda comunicare. Paradossalmente, ma non tanto, le domande di chiarimento rivolte agli autori del testo (e tante ne sono state rivolte nelle discussioni sul progetto) possono essere utilmente girate a chi le ha formulate: che cosa hai compreso, alla lettura del testo che ti è stato presentato? Anche da questa verifica fattuale — dalla verifica se e quanto il messaggio sia o non sia riuscito — dipenderà in ultima analisi la valutazione tecnica sulla qualità del testo proposto. Ovviamente, questo gioco di rimandi — dal testo al destinatario, e viceversa — presuppone la collaborazione di un pubblico di lettori intelligenti, che affrontino il testo nuovo con gli strumenti di una buona ermeneutica giuridica. Non necessariamente lettori simpatetici, sì invece lettori disponibili a partecipare ad un dialogo razionale, consapevoli della difficoltà del trasfondere intenzioni normative (talora, sottili sfumature) in testi linguistici, e della necessità, innanzi tutto, di comprendere il messaggio per quello che è: per quello, cioè, che abbia saputo (bene o meno bene) rendere riconoscibile attraverso il medium di un linguaggio non interamente formalizzabile. Con riferimento al problema dell’interpretazione di testi ‘‘nuovi’’ (proposte in itinere, o leggi appena approvate), mi è parso più volte di ravvisare negli interpreti una sorta di spaesamento: di difficoltà a cogliere il senso del messaggio senza poter disporre dei punti d’appoggio di una già avviata elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. Ciò può favorire l’impressione di insufficiente determinatezza, o far sentire più forte il rischio di eventuali interpretazioni insoddisfacenti, ritenute non precluse dal nuovo testo. Il gusto per la critica, così diffuso nel ceto dei giuristi d’ogni tendenza, talvolta si alimenta anche di questa obiettiva difficoltà a comprendere e inquadrare il nuovo. Ritengo più costruttivo, e meglio rispondente a una concezione razionale dell’attività interpretativa, cercare, se e in quanto possibile di fronte ad opzioni ermeneutiche alternative, di valorizzare tutte le possibilità di dare al (nuovo) testo un senso razionale, coerente col sistema in cui si inserisca e con valori condivisi di riferimento. Ciò non significa affatto rinuncia al controllo critico e alla messa in guardia di fronte al rischio di interpretazioni ‘‘sbagliate’’, o di conclusioni non accettabili che il testo normativo possa avvalorare; al contrario, significa impegno a prendere posizione sui possibili dilemmi interpretativi, argomentando le ragioni pro e contro le diverse proposte di soluzione. In tal modo, quando il testo in esame sia ancora allo stato di progetto, il « lettore » intelligente potrà dare un contributo, ad un tempo, di verifica del
— 21 — messaggio e di critica costruttiva anche per quanto concerne la comprensibilità, la determinatezza, le eventuali ambiguità del messaggio. Condizione necessaria del dialogo razionale e del discorso critico sui testi proposti, è la condivisione di una comune cultura, cioè della capacità (e disponibilità) da un lato a costruire, e dall’altro lato a ‘‘leggere’’ il testo con gli strumenti (in primis il linguaggio) e con i riferimenti che la comune cultura offre. Le prime discussioni sul progetto hanno dato abbondanti esempi della possibilità e fecondità del confronto entro un orizzonte condiviso (24). 7. I nessi sistematici della riforma. — 7.1. Punto di partenza di un lavoro ‘‘di riforma di sistema’’ è una presa di posizione rispetto all’esistente: una riforma è tale in rapporto alla tradizione. Nei lavori della Commissione, questioni di continuità o discontinuità rispetto al codice Rocco si sono ovviamente poste su tutti i punti; e sia sui contenuti che sulle formule. La linea prescelta, e che mi pare obiettivamente leggibile nel progetto, in esito a progressive e non semplici messe a punto, è per una larga innovazione radicata peraltro, per quanto possibile, su elementi consistenti di continuità. Una riforma ha senso in quanto — rispondendo a esigenze non soddisfatte nel diritto vigente e vivente — proponga soluzioni realmente innovative rispetto a prassi cui gli operatori che dovranno applicare la riforma sono abituati. Ora, la fedeltà al ruolo di interprete e applicatore della legge tende, per così dire, a chiudere entro l’orizzonte del diritto positivo l’universo di discorso e i problemi ‘‘di giustizia’’ che interessano il giurista. La riforma deve fare i conti con una cultura diffusa, soprattutto nel mondo dei giuristi ‘‘pratici’’, non diciamo diffidente, ma della quale occorre conquistare comprensione ed accettazione. Si pone perciò un’esigenza di delicato equilibrio fra innovazione e tradizione: fra la necessità di marcare la svolta, e l’opportunità di conservare quanto, nel sistema vigente, mantenga validità e possa servire a fare meglio assimilare la svolta. Da un lato, è pressante l’esigenza di dare segnali leggibili di discontinuità, anche sul piano formale; non solo sulle singole soluzioni nuove, ma, complessivamente, sul senso e sulle forme del codice rinnovato. Non è operazione facile, e può andare incontro al rischio di interpretazioni ri(24) Dove il dialogo è parso incepparsi, è quando sono state introdotte letture fatte non già con gli strumenti della cultura che ci unisce, ma con gli occhiali di una particolare dogmatica, e si è creduto di poter attribuire al progetto coloriture ‘‘dogmatiche’’ ch’esso non ha affatto inteso assumere. Ciò ha condotto talora ad interpretazioni ‘‘non intelligenti’’, che una lettura del testo libera da pregiudizi consente agevolmente di scartare.
— 22 — duttive, che assimilino il nuovo al vecchio, impoverendo la portata effettiva della riforma. Dall’altro lato, proprio il recupero di elementi di continuità — da quella stessa tradizionale che si vuole ‘‘riformare’’ — può essere il punto di partenza migliore per fare risaltare e accettare gli elementi di novità. Sui punti su cui non vi siano ragioni decisive per una riforma, può dunque essere ed è parso saggio mantenere soluzioni normative esistenti, non per una maggiore validità in assoluto, ma come base che renda meno ‘‘estraneo’’ il nuovo, e allo stesso tempo ne sottolinei ulteriormente (per così dire per contrasto) il carattere di novità, nell’ambito in cui si sia inteso riformare. 7.2. Molti rilievi critici sul progetto preliminare hanno fatto riferimento alla sua incompletezza, ed ai problemi di coordinamento che ne derivano, innanzi tutto con la parte speciale, e anche con altri settori dell’ordinamento (sistema penitenziario, sistema processuale). La Commissione, ben consapevole dei limiti del suo lavoro — corrispondenti ai limiti del mandato ricevuto — non ha mancato di segnalarli nella Relazione: la revisione della parte generale è solo l’inizio, ancora provvisorio, del lavoro di riforma, e presuppone che il lavoro prosegua, toccando anche gli altri pezzi del sistema penale. Il testo presentato è stato pensato, non già in funzione delle restanti parti dell’ordinamento vigente così com’è, ma di un ordinamento nuovo in tutte le sue componenti. Per una proposta non in grado (già solo per la sua non autosufficienza) di venire autonomamente tradotta in legge, la scelta di questa prospettiva, rivolta al futuro, non aveva alternative ‘‘più realistiche’’, ed è l’impostazione che consente una maggiore apertura a soluzioni non condizionate da un esistente che è tutto da rivedere. Fin dove consentito dai limiti del mandato, sono state proposte anche soluzioni che, toccando il codice penale, inciderebbero su istituti ad esso collegati. Un esempio per tutti: l’auspicato nuovo volto della sospensione condizionale, subordinata obbligatoriamente al risarcimento del danno o riparazione dell’offesa, o quanto meno ad un serio impegno in tal senso, inciderebbe direttamente sul patteggiamento, nel senso che anche la sospensione della pena patteggiata sarebbe subordinata alle medesime condizioni. Rispetto al modello delineato dal codice di procedura, di un patteggiamento che ‘‘non fa stato’’ in sede civile, la svolta sarebbe radicale e immediatamente operante. Per il resto, la ricerca di soluzioni ‘‘per il futuro’’, non condizionate da problemi di compatibilità entro il sistema vigente, si lega alla ricerca di una restaurata centralità del codice penale, e soprattutto della sua ‘‘parte generale’’, come luogo di definizione di principi generali e delle linee portanti dell’intero sistema, con aspirazione a una tendenziale stabilità e inderogabilità.
— 23 — Indipendentemente, peraltro, dalla ‘‘parzialità’’ del progetto in cantiere, una riforma della parte generale deve porsi il problema di che cosa sia possibile ed opportuno disciplinare in quella sede. Diciamo, in prima approssimazione, che si tratta di disciplinare profili generali del sistema penale, trascendenti il riferimento a singole figure di reato: principi generali del sistema; elementi comuni a tutti i reati o a categorie di reati; cornici generali di istituti che abbisognano di concretizzazione nella parte speciale. La ripartizione di competenze fra parte generale e parte speciale non è però un confine rigido. Nei lavori della Commissione ciò è venuto in discussione in particolare a proposito della responsabilità ‘‘commissiva per omissione’’, quando, una volta imboccata la strada della tipizzazione, si è preso atto che ciò poteva essere tentato sia a livello di parte generale (tipizzazione di posizioni di garanzia), sia spingendo la tipizzazione fino al livello della parte speciale (sostituendo talune posizioni di garanzia con figure specifiche di reato omissivo). Analoghi problemi di collegamento (e quindi di regolamento di confini) fra parte generale e parte speciale possono peraltro prospettarsi per tutte le discipline ‘‘di cornice’’, dalle quali dipenda l’ambito (o il possibile ambito) di rilevanza di dati presupposti oggettivi o soggettivi della responsabilità (per es., la sfera di applicazione del tentativo, o dei diversi criteri d’imputazione soggettiva). Senza scendere in questa sede in un discorso specifico sulle diverse discipline ‘‘di cornice’’, sia consentito proporre alla discussione i seguenti criteri guida: estrema cautela nell’introdurre (o conservare) criteri che possano portare ad espansioni incontrollate della punibilità, ma anche cautela nell’introdurre disposizioni di principio che pretendano di restringere troppo gli spazi di manovra del legislatore di parte speciale. Il progetto preliminare ha eliminato diverse disposizioni generali del codice vigente, che si pongono come matrici generali di attribuzione di responsabilità: in alcuni casi (reato determinato dall’altrui minaccia o dall’altrui inganno) perché ritenute superflue, in altri casi (reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti) per una meditata scelta di politica del diritto, la quale, nell’escludere una discussa e discutibile soluzione di parte generale, lascia tuttavia spazio ad eventuali soluzioni mirate ‘‘di parte speciale’’. Resta aperto l’interrogativo se anche altre cornici di parte generale siano da rendere più flessibili o più ristrette, mediante rinvii alla parte speciale o in altro modo, in coerenza con l’idea di fondo della tendenziale riduzione dell’area di intervento penale. La riduzione realizzabile in sede di parte generale incontra peraltro un limite, nella competenza della parte speciale in ordine alla conformazione delle fattispecie di reato. Anche qui, certo, la parte generale può dire qualcosa, per es. disciplinando eventuali soglie di inoffensività o esiguità. Deve spingersi oltre, per es. prendendo posizione sulla spinosa que-
— 24 — stione del ‘‘pericolo astratto’’? Lasciando fra parentesi ogni questione di merito, mi sembra preferibile che un tema così delicato della ‘‘politica dei beni giuridici’’ sia affrontato in diretto collegamento con i concreti campi di materia in cui la questione del pericolo possa non irragionevolmente venire in rilievo. La rinuncia a soluzioni di parte generale, su problemi di costruzione delle fattispecie, evita strade che potrebbero facilmente rivelarsi velleitarie, e significa opzione, non già per un modello ‘‘più interventista’’, bensì per il mantenimento di cornici aperte che rendano possibile scegliere fra linee diverse, in esito a valutazioni ‘‘mirate’’ sugli specifici problemi di tutela. 8. In quale direzione? — Sul merito dei problemi di riforma, la discussione dovrà proseguire, ed essere molto articolata. Il progetto preliminare del settembre 2000 non è che una tappa di un cammino che è già stato lungo e che sarà prevedibilmente ancora lungo. Non solo perché il progetto è incompleto, ma, soprattutto, perché tutti i punti abbisognano di controllo, e perché qualsiasi riforma non potrà essere costruita che su un largo consenso. Il confronto (e l’auspicabile consenso) nel mondo dei giuristi è solo una premessa, necessaria ma non sufficiente. Occorre un consenso politico che è tutto da costruire, e che non sarà facile ottenere attorno a linee che si caratterizzano per l’attenzione agli equilibri del sistema, senza cedimenti alle spinte emotive e alle diffuse inquietudini per la sicurezza che attraversano la gente e determinano di volta in volta le scelte delle forze politiche. Ad un’opinione pubblica che esige (e giustamente) più sicurezza, si può presentare una linea di riforma che punti sulla riduzione dell’area dell’illecito e della severità delle pene? Che faccia proprie, insieme all’esigenza di risposte efficaci, le esigenze di proporzione e di rispetto delle garanzie? Che prenda sul serio l’idea ‘‘rieducativa’’ come asse portante della politica penale? Se il mondo dei giuristi è davvero concorde su queste indicazioni, e saprà far sentire la sua voce, il discorso può essere tenuto aperto. E ne vale la pena. Il punto cruciale, sia per i contenuti che per la presentazione politica della riforma, è l’assetto del sistema sanzionatorio. La relazione al progetto preliminare enuncia obiettivi ambiziosi: costruire un sistema sanzionatorio largamente rinnovato, che riesca a ‘‘potenziare la capacità di risposta alle esigenze di prevenzione generale (capacità dissuasiva) e speciale (‘risocializzazione’), nel rispetto dei principi di proporzione e di uguaglianza, e delle garanzie dei diritti della persona che costituiscono il fondamento inviolabile dell’ordinamento giuridico’’. Altra prospettiva che si è cercato di sviluppare è quella della concreta salvaguardia degli interessi offesi dal reato, mediante istituti, anche diversi dalla pena classica-
— 25 — mente intesa, che incentivino condotte di risarcimento del danno e riparazione dell’offesa (sospensione condizionale ‘‘con obblighi’’, oblazione discrezionale, confisca). È esplicito l’intento di congedarsi ‘‘dall’aspirazione autoritaria a realizzare una giustizia ‘assoluta’ (sciolta da scopi)’’. La pena non è vista come ‘‘un valore o un fine in sé’’: il diritto penale in tanto si legittima, in quanto sia ‘‘strumento di difesa delle condizioni di una civile e libera convivenza fra uomini di uguale dignità e con uguali diritti’’. È questo, prosegue la relazione, l’orizzonte della tradizione liberaldemocratica, di matrice illuministica. Un orizzonte nel quale l’aspetto garantista — l’attenzione ai limiti invalicabili della politica criminale — si congiunge all’attenzione ad esigenze di tutela, nelle quali lo strumento penale trova (può trovare) giustificazione. Il diritto penale liberale vuole essere garantista, equilibrato, ma non lassista. L’attenzione ai bisogni di sicurezza non è affatto sacrificata. Al contrario, il problema è reimpostato in termini di razionalità rispetto allo scopo, con la consapevolezza di tutte le difficoltà che ciò comporta. ‘‘Una progettazione razionale esige conoscenze approfondite della realtà su cui si va a incidere, e prognosi d’efficacia degli strumenti progettati; il prodotto che si può offrire è una scommessa sul futuro, che chiede di essere fondata su buone ragioni, ma è sempre esposta alla verifica dei fatti’’. Le difficoltà di un confronto razionale sono bene esemplificate dall’importanza che, fuori della cerchia degli addetti ai lavori, assumono questioni nelle quale prevale nettamente l’aspetto simbolico, come quella se mantenere o meno la comminatoria di una pena ‘‘a vita’’. Può darsi che, nel fare razionalmente i conti con l’irrazionale, anche l’aspetto simbolico debba essere considerato con maggiore attenzione; certo non è qui che si giocano gli equilibri e la produttività del sistema. Le questioni cruciali sono altre, e più complesse, concernenti non la presentazione simbolica, ma l’uso reale dall’arma a doppio taglio della pena. La scommessa si gioca, in particolare, sulla realizzabilità ed affidabilità di un sistema sanzionatorio aperto all’idea rieducativa, e non ingabbiato in un’idea di ‘‘certezza della pena’’ quale sinonimo di severità e/o rigidità. Su quest’ultimo punto, sento il rischio che dietro l’insistito appello alla certezza della pena sopravviva qualcosa della concezione retributiva, di un’idea della pena come valore in sé. Un reale abbandono di quell’ottica, e la considerazione della pena come strumento, assegnano alla certezza della pena un fondamento e un contenuto diverso. La certezza della risposta al reato resta sì un valore essenziale, ma non assoluto, bensì legato (e condizionato) all’esigenza di tenuta e di credibilità del sistema, e al rispetto del principio d’uguaglianza nell’applicazione di una legge ‘‘uguale per tutti’’. Nella prospettiva della pena come extrema ratio, e della valorizzazione dell’istanza rieducativa, la certezza della pena non si
— 26 — oppone ad una ragionevole flessibilità, sia negli istituti codicistici che nella fase esecutiva, né all’apertura a soluzioni diverse dal punire, che si affermino come ugualmente idonee ad assicurare la ‘‘tenuta’’ della legalità. Con un po’ di forzatura retorica, indicherei la linea di tendenza da perseguire come quella per un diritto penale che tenda a risolversi in un ‘‘diritto della responsabilità’’. L’accento viene posto sull’aspetto precettivo: sulla funzione di guida dei comportamenti e di salvaguardia (preventiva, per quanto possibile!) delle condizioni della convivenza civile. È il volto razionale della teoria del reato, come luogo di elaborazione dei fini di tutela e di ‘‘giusti’’ criteri di attribuzione di responsabilità. Il problema sanzionatorio è ‘‘secondario’’, nel senso che viene dopo: un problema di strumenti. Certo, un problema importante, che chiama in causa, ad un tempo, valori di giustizia e profili di idoneità rispetto allo scopo. Ma è problema servente rispetto a quello fondamentale: che non è la pena in quanto tale, bensì l’osservanza della legge e la responsabilità di fronte alla legge. Quanto di ‘‘penale’’ debba restare nel sistema penale, è dunque un problema sempre aperto. Alla riduzione al minimo spinge la stessa logica della razionalità rispetto allo scopo, ovvero della economia dei mezzi; non solo la considerazione dei costi individuali e sociali del punire. Diamo per scontato che, nel mondo in cui viviamo, è (purtroppo) un ‘‘minimo’’ piuttosto grande. Quello che non dovrebbe esser assolutamente intaccato, è il principio di responsabilità, del quale il penale è un veicolo. Occorre anzi restaurarlo, di fronte a tanti cedimenti: non ultimo quello della sua tendenziale riduzione alla dimensione penalistica. Ecco dunque un angolo visuale, dal quale i problemi di riforma meritano di essere considerati: quale contributo al rigoroso mantenimento (più che mai necessario) del ‘‘principio responsabilità’’ possa e debba essere dato dal ‘‘penale’’, con tutti gli aspetti positivi e negativi che il ‘‘doppio taglio’’ della sua spada trae con sé. La linea del ‘‘meno penale possibile’’ non è che una direzione di tendenza: se vogliamo, un’utopia regolativa. Il ‘‘penale’’ si presenta come variabile secondaria, il principio di responsabilità come l’essenziale. La riforma verso un ‘‘meno penale’’ resta radicata su un’esigenza austera di rigore anche morale, e sia pure della morale laica e liberale di una società aperta. DOMENICO PULITANÒ
METODO DEMOCRATICO E METODO SCIENTIFICO NEL RAPPORTO FRA DIRITTO PENALE E POLITICA (*)
SOMMARIO: 0. Premessa. Il metodo della scienza e i suoi vizi d’origine: normativismo integrale e nazionalismo. — 1. Perchè la scienza penale ha un rapporto tormentato e nevrotico con la politica. — 2. Le ragioni storiche e filosofiche dell’autonomia scientifica del diritto (penale) del Novecento rispetto alla politica. La « crisi » delle principali di esse. — 3. Il « metodo della scienza » e il « metodo della democrazia » a fronte della politica giudiziaria in materia penale, connessa alla (più tradizionale) concezione del diritto come scienza ermeneutica e « individualizzante ». La convivenza insopprimibile di modelli neopositivistici ed ermeneutici di scienza — 4. L’estensione del « paradigma aristocratico » anche a livello giudiziario. Il ruolo e il metodo della Corte costituzionale. — 5. La « politica » coltivata dagli scienziati: l’idealismo della scienza sedicente « funzionalista » ovvero orientata in senso « politico-criminale », e alle « conseguenze », ma non all’empiria. — 6. Il gioco dei ruoli: scienza accademica e magistratura (in Italia) di fronte al legislatore: « Die Reform sind wir »? — 7. La dimensione internazionale dei principi e la necessità che la comparazione diventi « metodo della dogmatica », non solo disciplina autonoma a scopi meramente conoscitivi. Comparazione e lavoro d’èquipe. — 8. La dimensione politica dei principi e la necessaria democratizzazione della scienza. Dall’auctoritas dei vertici istituzionali all’autorità fondata su un sapere verificabile. Empiria e metodo penale.
0. Premessa. Il metodo della scienza e i suoi vizi d’origine: normativismo integrale e nazionalismo. — Premetto che non mi dimenticherò di essere un penalista italiano, prima che « europeo ». Non presenterò come verità universali le caratteristiche della scienza penale italiana, e quindi cercherò una koinè, non la mera esportazione del « nostro ». Il primo vizio d’origine del metodo tradizionale della scienza giuridica (e parimenti di quella penale)è il normativismo integrale, la riduzione del diritto a sola norma, fosse anche, in ultima istanza, la norma costituzionale. Muovendo da questa critica, dovrò quindi pronunciarmi qui di seguito contro il diritto (oggetto della scienza penale) come sola norma (tec(*) È il testo riveduto dell’intervento svolto a Toledo, nei giorni 13-15 aprile 2000, al Convegno su « CRÍTICA Y JUSTIFICACIÓN DEL DERECHO PENAL EN EL CAMBIO DEL SIGLO ». El Análisis crítico de la Escuela de Francfort. Universidad de Castilla-La Mancha. L’intervento anticipa alcuni temi trattati dall’A. in una monografia in corso di ultimazione dedicata a: Democrazia penale. L’impatto del pluralismo su una cultura aristocratica. L’occasione dell’intervento, peraltro, ha fatto sì che la sua composizione, così come i riferimenti bibliografici, rappresentino un effettivo omaggio alla Scuola di Francoforte.
— 28 — nicismo giuridico estremo) e, nello stesso tempo, contro il diritto (oggetto della scienza penale) come diritto costituito di soli principi costituzionali (costituzionalismo estremo). Considerando il diritto, unitariamente, come norma, decisione e istituzione (1) possiamo dire che l’oggetto della scienza penale è duplice (2). a) il diritto penale (come norma, decisione e istituzione); b) l’oggetto del diritto penale: la criminalità e le singole materie di riferimento (campi di disciplina: beni giuridici e loro statuti giuridici; per es. Stato, pubblica amministrazione, diritti dell’uomo, economia, impresa, banche, circolazione stradale, ambiente, ecc.). Oggetti di primo e di secondo grado, dunque. Il primo di essi, indicato sub a), è scomposto a sua volta in tre dimensioni. La prevalenza del punto di vista normativistico (il diritto come norma), implica e non esclude l’ingresso di informazioni provenienti dalle decisioni giuridiche (sentenze) che applicano e « fanno » il diritto, e dal ruolo e dai compiti istituzionali di chi lo applica; questa prevalenza implica altresì, e parimenti non esclude, le informazioni provenienti dallo studio (criminologico, sociologico, economico, politico, ecc.) delle materie regolate e della criminalità. Questo modello di spiegazione del diritto penale come scienza, per quanto molto avanzato, presenta tuttavia un deficit: la non scientificità della conoscenza dell’oggetto del diritto penale quale si riflette nelle decisioni del legislatore (che troppo spesso ignora o trascura la criminologia e le scienze empiriche) (3). Nella misura in cui la legge non nasce come un programma verificato o comunque razionale di controllo sociale rispetto ai fenomeni che vorrebbe e in realtà non sa regolare, ne consegue la difficoltà di dare ingresso a orientamenti alle conseguenze in chiave ermeneutica. Ciò perché lo stesso programma condizionale (la norma astratta) non ha una base scientifica adeguata: se il Parlamento non considera la criminologia o le scienze sociali per costruire le incriminazioni, se queste non hanno una adeguata matrice teleologica, perché, o in che limiti, dare spazio a esse in sede interpretativa o esecutiva? Oppure dobbiamo immaginare finalità nuove che l’interprete (dottrina e giurisprudenza) applicherebbe ab extra a norme nate cieche? Questo deficit, invece, spiega il permanente successo di impostazioni idealistiche (anche se ammantate di teleologismo, di funzionalismo o di valutazioni pseudo politico-criminali), (1) Cfr. DONINI, Dogmatica penale e politica criminale a orientamento costituzionalistico. Conoscenza e controllo critico delle scelte di criminalizzazione, in Dei delitti e delle pene, ESI, Napoli, n. 3/1998, 37 ss., 43 ss. (2) Cfr. anche per riflessioni convergenti sull’« apertura » alle scienze sociali, sulla « criminalità » come oggetto della scienza penale (non solo della criminologia, quindi), HASSEMER, Nomos Kommentar zum StGb, Nomos Verlag, Baden-Baden, 1995, Vor § 1/1ss. (3) Cfr. DONINI, voce Teoria del reato, in Digesto Disc. Pen., vol. XIV, Utet, Torino, 1999, 237.
— 29 — che si rifiutano di misurare le conseguenze delle scelte di criminalizzazione: basta che le incriminazioni e le condanne soddisfino il consenso sociale che « dà stabilità » al sentimento di sicurezza collettivo, reintegrando idealmente l’ordine giuridico violato e la fedeltà all’ordinamento. In effetti, la prassi legislativa ignara del sapere empirico-criminologico, e il costume di una scienza normativa penale parimenti ignara del sapere criminologico (cfr. i principali « Manuali » di diritto penale) confermano insieme la « logica » coerenza di questo connubio. Si noti: anche chi ne proclama a gran voce la necessità, quando tuttavia scrive di teoria del reato, di parte generale e anche di singole incriminazioni, tace del tutto intorno al sapere criminologico (salve eccezioni). Non sa come gestirlo: si parla di criminologia (e scienze sociali) per dire che ce ne sarebbe bisogno, quando si critica il diritto vigente, oppure quando si parla.... di criminologia, non quando si entra in medias res nel diritto penale per commentario o sistematizzarlo (4). Il secondo vizio d’origine, in aggiunta al normativismo integrale (conforme alla cultura giuspositivistica), è il provincialismo nazionalista. Una « scienza nazionale ». Se il diritto è nazionale, questo non può significare che il suo studio sia « scientifico » se resta nazionalista. L’esempio nagativo, sotto questo riguardo, della scienza penale di paesi forti come quelli di common law, la Germania e la Francia, è sotto gli occhi di tutti. Ma è altrettanto evidente, oggi, che il progressivo internazionalizzarsi del diritto (anche di quello penale) contraddice le radici di una scienza penale marcatamente nazionalista. 1. Perché la scienza penale ha un rapporto tormentato e nevrotico con la politica. — Le carenze storiche del metodo del legislatore (irrazionale, ignorante dell’empiria, troppo a caccia di consenso sociale ed elettorale, approssimativo, ecc.) condizionano il metodo dello studioso del diritto e compromettono fin dall’origine un suo rapporto fisiologico e positivo con la politica. Tranne nei casi dove la legge abbia recepito i suggerimenti degli studiosi (è per es. quanto è accaduto in Italia con il codice Rocco del 1930, oppure è più volte accaduto in Germania, — non oggi, (4) Con buona pace di quanto poteva ritenere v. Liszt (v la sua opera citata a nota 6). Anche secondo il modello della Scuola di Francoforte, che è uno dei più avanzati nel senso dell’integrazione e della tematizzazione del ruolo delle scienze empirico-criminologiche nell’ambito della stessa teoria del reato (rammento ancora, in particolare, HASSEMER, Nomos Kommentar zum StGB, cit., Vor § 1/1 — 242; ma ancora, fra i tanti contributi, LÜDERSSEN/SACK (Hrsg.), Seminar: Abweichendes Verhalten, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1975 e ss.; HASSEMER/LÜDERSSEN/NAUCKE, Fortschritte im Strafrecht durch die Sozialwissenschaften?, Müller Verlag, Heidelberg, 1983; LÜDERSSEN (Hrsg), Aufgeklarte Kriminalpolitik oder Kampf gegen das Böse?, 5 Bände, Nomos Verlag, Baden-Baden, 1998. V. anche le altre opere cit. infra, a nota 20), il sapere criminologico presenta, di fatto, una funzione sopratutto critica, in prospettiva di riforma. La sua valenza per l’attività interpretativo-giudiziale è necessariamente molto più modesta.
— 30 — ma — dopo la « Vergleichende Darstellung » e con le riforme degli anni 1968/1975). La scienza penale ha poi un rapporto tormentato con la politica perché nessun ramo del diritto ha a che vedere con l’irrazionalità come il diritto penale: il diritto penale disciplina comportamenti irrazionali e previene reazioni irrazionali (5). Solo in parte si tratta di condotte riconducibili a una rational choice, a un rationaler Verbrecher. Da ciò consegue che l’irrazionalità delle offese e delle possibili reazioni private condiziona la razionalità delle risposte. Il diritto penale è un continuo tentativo di razionalizzare un bisogno di difesa-vendetta. La politica, invece, cercando consenso presso le vittime potenziali delle offese mediante la scelta di minacciare mali futuri alla criminalità, è in più immediata e costante tensione con i bisogni irrazionali della « democrazia penale ». Il massimo (relativo) della razionalità legislativa si riscontra in genere nei codici (nella loro costruzione originaria). Nelle leggi speciali e nelle novelle ai codici, l’armonia dell’impianto si altera sempre o si sfigura. Ma altre ragioni storiche hanno compromesso un rapporto equilibrato fra scienza penale (o scienza giuridica) e politica del diritto. Vediamole. 2. Le ragioni storiche e filosofiche dell’autonomia scientifica del diritto (penale) del Novecento rispetto alla politica. La « crisi » delle principali di esse. — Nel rapporto tormentato: scienza versus politica, ha dominato a lungo un modello di scienza aristocratica, un modello di sapere autonomo su basi sempre normative e solo talvolta anche empiriche. Ricordiamo alcuni motivi ricorrenti che sottendono l’imperativo: Ne Caesar supra gramaticos! Fra le « ragioni » e i postulati dell’aristocrazia penale possiamo enunciare: a) L’esigenza scientifica di una distinzione tra dogmatica e politica criminale, la quale rinvia al postulato della separazione dei poteri (esemplarmente: v. Liszt e, per una lettura attualizzata e ricca di cultura ermeneutica, Hassemer) (6) (5) Sull’origine del diritto penale dalla « negazione della vendetta », e quindi sulla funzione attuale del diritto penale di riduzione al minimo della sofferenza delle vittime e degli autori dei reati, prevenendo anche le risposte irrazionali delle vittime, FERRAJOLI; Diritto e ragione, Teoria del garantismo penale, Laterza, Bari, 1989, 326 s. Per una più recente riflessione sui rapporti fra diritto penale e irrazionalità, LÜDERSSEN, Über das irrationale im Strafrecht, in Fest. Wolff, Springer, Berlin-Heidelberg, 1998, 325 ss. (6) v. LISZT Über den Einfluss der soziologischen und der anthropologischen Forschungen auf die Grundbegriffe des Strafrechts, in ID. Vorträge und Aufsätze, Bd. II, Walter de Gruyter, Berlin, 1905, Nachdruck, 1970, 75 ss.; HASSEMER, Strafrechtsdogmatik und Kriminalpolitik, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg, 1974, 168 ss.
— 31 — b) Il convincimento che esista o prevalga una descrittività/avalutatività del sapere scientifico (Weber, Kelsen) (7): di qui anche la tensione, in alcuni, verso una risolvente perfettibilità del drafting legislativo, del modo di scrivere le leggi, un indirizzo che insiste molto sul diritto come norma astratta (tassatività, riserva di legge, divieto di analogia, ecc.) e svaluta l’interprete, oltre a sottolineare le solite e, certo, comunque evidenti ragioni di garanzia. c) Nella sua versione più diffusa, almeno in Italia, ha prevalso l’esigenza di « autonomia del metodo giuridico », che ha conferito per lungo tempo al penalista l’orgoglio di possedere un « metodo » autonomo, un know how qualificante e irrinunciabile (Arturo Rocco e il tecnicismo giuridico (8). d) L’idea che sulla verità e sui principi non si decide a maggioranza (Dworkin, Ferrajoli) (9); oppure: che le norme-« principio » sono oggetto di una scienza superiore, di un « super diritto penale » anteposto al legislatore storico che da quella fonte di ragione dovrà « dedurre » le sue leggi (neogiusnaturalismo costituzionale, costituzionalismo penale estremo). e) La consapevolezza del carattere autoritario del diritto penale, non democratico e « intollerante » per definizione: ciò che lo rende uno strumento molto temibile, da sottoporre continuamente a verifiche di legittimazione le quali impongono l’autonomia della scienza rispetto alla politica. (7) WEBER Max (1904), L’oggettività conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, tr. it. in ID., II metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino, 1974, 53 ss.; ID. (1917), Il significato della « avalutatività » delle scienze sociologiche e economiche, tr. it. in Il metodo delle scienze storico-sociali, cit., 309 ss.; ID., Wissenschaft als Beruf (1918), trad. it. Il lavoro intellettuale come professione, Enaudi, Torino, 1971, 5-43 e 28 ss.; KELSEN, Hauptprobleme der Staatsrechlslehre entwickelt aus der Lehre vom Rechtssatze, 2. Aufl., Tübingen, 1923, Neudruck Scientia Verlag, Aalen, 1984, 84-94; ID., Reine Rechtslehre, 2. Aufl., Wien, 1960, trad. it., La dottrina pura del diritto, 3 ed., Einaudi, Torino, 1975, 123-129. (8) ROCCO ART., Il problema e il metodo della scienza del diritto penale, in Riv. dir. proc. pen., 1910, 497 ss., poi in ID., Opere giuridiche, vol. III, Ed. del Foro Italiano, Roma, 1933, 263 ss. Per una introduzione sempre utilissima al problema del metodo nel tecnicismo giuridico, MALINVERNI, La Scuola dogmatica del diritto penale, Premiata Tipografia Gallardi, Vercelli, 1939, spec. 25 ss., 35 ss., 53 ss. (9) DWORKIN, Taking Rights Seriously (1977), tr. it. I diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna, 1982, 252 ss., secondo il quale « le decisioni sui diritti verso la maggioranza non sono questioni che secondo giustizia possano essere lasciate alla maggioranza...permettere alla maggioranza di essere giudice in sua parte appare contradditorio e ingiusto » (ibidem, 253 s.); FERRAJOLI, Democrazia e costituzione (1994), in ZAGREBELSKY/PORTINARO/LUTHER, Il futuro della Cosrituzione, Einaudi, Torino, 1996, 315 ss., 332, nel senso che la Costituzione non si potrebbe cambiare a colpi di maggioranza: ID., Per una storia delle idee di Magistratura Democratica, in N. ROSSI, a cura di, Giudici e democrazia, Franco Angeli, Milano, 1994, 72 s., sul garantismo quale limite alle decisioni a maggioranza sulle questioni relative ai diritti fondamentali. Tutte queste tesi, si noti, non sono criticabili in merito all’idea che i diritti si sottraggono alle decisioni a maggioranza quanto al loro « nucleo ». Ma tra il nucleo generico e la concreta attuazione di ogni diritto, anche fondamentale, vi sono distanze che solo decisioni maggioritarie possono colmare.
— 32 — f) Come conseguenza di quanto ora detto (punto e), è emersa la spinta alla difesa del diritto penale dalle strumentalizzazioni di una politica irrazionale o di parte, fondate solo sul consenso o sul potere del consenso, sui bisogni emotivi della collettività, non sulla ragione, sia essa razionalità rispetto agli scopi o rispetto ai valori, Zweckrationalität o Wertrationalität (ricordo per es., fra i tanti, senza menzionare i più giovani, Noll, Naucke, Bricola, Arzt, Marinucci) (10). I primi tre postulati sono in crisi da tempo, sono postulati sempre più « relativi ». Il postulato della divisione dei poteri ha fondamento costituzionale, ma è evidente che si tratta di un principio che conosce articolazioni dialettiche molto forti, soprattutto per quanto attiene ai rapporti fra potere legislativo e magistratura (11). Per quanto riguarda la tesi dell’avalutatività della scienza giuridica, (10) A titolo di esempio, si ricordano qui alcune posizioni « emblematiche » dello scetticismo verso la gestione (anche se « democratica ») del diritto penale operata dai partiti politici, sia pur da posizioni ben differenziate: NOLL, Die Berücksichtigung der Effektivität der Gesetze bei ihrer Schaffung, in Methodik der Gesetzgebung, Springer Verlag, Wien-New York, 1982, 131 ss. (tutto lo sviluppo della Gesetzgebungslehre in campo penale trae origine, fra l’altro, dalla prassi delle irrazionalità della produzione delle leggi; l’intero dibattito più recente sul diritto penale simbolico e quello anche più risalente sul diritto penale dell’emergenza potrebbero essere qui richiamati); BRICOLA, Rapporti tra dommatica e politica criminale, in questa Rivista, 1988, 12 ss.; ID., Legalità e crisi: l’art. 25, commi 2o e 3o della Costituzione, rivisitato alla fine degli anni ’70, in La Quest. Crim., 1980, 179 ss., 269 s.; ID., Politica criminale e politica penale dell’ordine pubblico (a proposito della legge 22 maggio 1975, n. 152), in La Questione crim., 1975, 284 ss. (sono solo esemplificazioni: si noti, più in generale, che lo scetticismo verso la politica criminale reale dei partiti ha dominato lo sviluppo dell’approccio costituzionalistico italiano a partire dagli anni Settanta); NAUCKE, Die Aushöhlung der strafrechtlichen Gesetzlichkeit durch den relativistischen, politisch aufgeladenen strafrechtlichen Positivismus, in Institut für Kriminalwissenschaften Frankfurt a.M. (Hrsg.), Vom unmöglichen Zustand des Strafrechts, Peter Lang, Frankfurt a.M., 1995, 483 ss. ID., Entwicklungen der allgemeinen Politik und der Zusammenhang dieser Politik mit der Reform des Strafrechts in der Bundesrepublik Deutschland, in ID., Über die Zerbrechlichkeit des rechtsstaatlichen Strafrechts, Nomos Verlag, Baden-Baden, 2000, 393 ss.; ARZT, Wissenschaftsbedarf nach dem 6. StrRG, in ZStW, 111, 1999, 757 ss., 763 ss.; ID., Der Ruf nach Recht und Ordnung. Ursachen und Folgen der Kriminalitätsfurcht in den USA und in Deutschland, Mohr, Tübingen, 1976, 163 ss. e passim. MARINUCCI, L’abbandono del codice Rocco: tra rassegnazione e utopia (già in La Quest. Crim., 1981, 297 ss.), in MARINUCCI/DOLCINI, a cura di, Diritto penale in trasformazione, Giuffrè, Milano, 1984, 327 ss. spec. 343 ss. (11) Sulla dimensione internazionale del progressivo incremento del potere giudiziale, cfr. GARAPON, Le gardien des promesses. Justice et dèmocratie (1996), tr. it. I custodi dei diritti. Giustizia e democrazia, Feltrinelli, Milano, 1996; PIZZORNO, Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù, Laterza, Bari, 1998; TATE/VALLNIDER (ed.), The Global Expansion of Judicial Power, New York University Press, New York, 1995; GUARNIERI/PEDERZOLI, La democrazia giudiziaria, Il Mulino, Bologna, 1997. Per una rilettura dei rapporti fra democrazia, diritto e potere del giudice, nel quadro della sua « Diskurstheorie », HABERMAS, Faktizität und Geltung, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1992. Una posizione estrema di democrazia giudiziaria è rappresentata, emblematicamente, da SCODITTI, Il contropotere giudiziario, ESI, Napoli, 1999.
— 33 — originariamente contestata soprattutto da approcci di ispirazione marxiana, essa non è più sostenuta praticamente da nessuno, anche se è evidente che il modo di intendere il metodo e i limiti della valutatività dell’interprete è assai differenziato. Resta invece valida la tesi della (relativa) autonomia della scienza dalla politica, che non rappresenta, peraltro, un motivo sufficiente per considerare ancora attuale il tecnicismo giuridico, salvo intenderlo in modo fortemente rinnovato (12). Il quarto postulato dell’aristocrazia penale (lett. d), meriterebbe una disamina ampia, che non posso affrontare qui (13). Basti tuttavia osservare, per ora, che il vizio più rimarchevole della tesi secondo la quale sui principi non si deciderebbe a maggioranza, consiste nel consentire, invece, che su di essi si decida con sentenza. È il potere giudiziale a venire completamente delegato nella « gestione democratica » dei principi (14): questa, in fondo, l’indicazione politica proveniente anche dalle posizioni di Dworkin e Ferrajoli. Il problema, come vedremo (infra, § 3.0), non sarà quello di proseguire in una politica di veti incrociati nel dialogo fra scienza, politica e magistratura, ma consisterà nel rendere affidabile il ruolo di concretizzazione dei principi in via ermeneutica che, necessariamente, va affidato anche alla magistratura. In realtà, sui principi si decide continuamente a maggioranza, perché è solo il loro « nucleo », talvolta molto generico (per es.: « la libertà personale è inviolabile » art. 13, comma 1, Cost. italiana) ad apparire indisponibile, mentre tutti sappiamo che quel principio è compatibile con almeno cento codici penali e di procedura penale diversi (i quali sono tutti modi per disporre della libertà). Se questa concretizzazione democratica e pluralistica dei principi non avviene, è inevitabile che si decida su di essi in modo autoritario. Il costituzionalismo estremo (neogiusnaturalista) è Per alcune riflessioni ormai classiche sui rapporti fra dogmatica e politica criminale con riferimento (anche) alla distinzione dei poteri, ROXIN, Kriminalpolitik und Strafrechtssystem, 2. Aufl., Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1973: HASSEMER, Strafrechtdogmatik und Kriminalpolitik, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg, 1974, 168 ss.; BRICOLA, Rapporti tra dommatica e politica criminale, in questa Rivista, 1988, 3 ss.; PULITANÒ, voce Politica criminale, in Enc. dir., XXXIV, Giuffrè, Milano, 1985, 91 ss. (12) Una puntuale riaffermazione di tale esigenza, peraltro accomunata alla permanente validità del metodo tecnico-giuridico, in PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte gen.7, Giuffrè, Milano, 2000, 98. (13) A tale aspetto sarà dedicata un’ampia parte dello studio su Democrazia penale, cit. (14) Esemplare ancora la posizione di SCODITTI, Il contropotere giudiziario, cit.; ma cfr. anche, per es. N. ROSSI, Verso una democrazia maggioritaria. Magistratura e mutamento istituzionale, in ID., a cura di, Giudici e democrazia, cit., 9 ss., 18 ss. Di notevole interesse sociologico e storico la ricostruzione del nuovo potere giudiziario nel suo appello diretto alla rappresentanza del popolo sovrano, in GAUCHET, Le révolution des pouvoirs, Gallimard, Paris, 1995, 35 ss.
— 34 — solo un modo per rendere più aristocratica e se vogliamo razionalmente controllata questa decisione. La quinta ragione (il carattere autoritario, di difesa estrema, del diritto penale « in quanto tale ») vale solo per certi reati « naturali », dell’universo minimale del diritto penale, il mitico Kernstrafrecht. E anche lì, si potrebbe discutere a lungo sui limiti del rispetto dell’extrema ratio per come attuata fino a oggi dai legislatori, e la stessa scelta sanzionatoria (al di là dell’individuazione degli illeciti) appare largamente suscettibile di risposte molto pluralistiche. Oltrepassati questi nuclei irrinunciabili di tutela, quanto più il diritto penale si « estende », tanto più diventa controvertibile, gestibile in modo pluralistico e democratico, aperto a programmi alternativi alle sanzioni più gravi minacciate, capace di « rinunce » alla pena, ecc., e tanto meno si concilia con la sua classica immagine autoritaria e intollerante (15). Solo il sesto postulato resta integralmente valido. Se margini legittimi di aristocraticità nel metodo del penalista sono legittimi anche in democrazia, ciò avviene per controllare la razionalità del sistema e della politica criminale. Una loro gestione puramente maggioritaria, infatti, appare dissennata e intollerabile. Ma è chiaro, a questo punto, che una riflessione sul « metodo della scienza » diventa di una rilevanza cruciale. 3. Il « metodo della scienza e il « metodo della democrazia » a fronte della politica giudiziaria in materia penale, connessa alla (più tradizionale) concezione del diritto come scienza ermeneutica e « individualizzante ». La convivenza insopprimibile di modelli neopositivistici ed ermeneutici di scienza. — L’eccesso di sopravvalutazione del diritto penale come « norma » e del principio della divisione dei poteri ha condotto a sottodimensionare il significato del ruolo istituzionale della magistratura come fonte del diritto (derecho/Recht), non della legge evidentemente (ley/Gesetz), e come legittima portatrice di indirizzi di politica interpretativa subordinata alla legge e alla Costituzione, ma dotata di margini di autonome decisioni (cfr. ante, § 0. sul diritto come « decisione » e « istituzione »). Oggi non c’è operatore pratico (e ormai, neppure un teorico serio) che pensi di « conoscere il diritto » senza « conoscere la giurisprudenza ». (15) Questo dato si palesa come particolarmente evidente nella legislazione penale complementare, che Paesi come la Spagna hanno ridotto al minimo, ma solo formalmente quanto al numero dei precetti, perché nel codice continuano a esistere norme in bianco che richiamano migliaia di precetti collocati fuori di esso: sul punto cfr. DONINI, La riforma della legislazione penale complementare: il suo valore « costituente » per la riforma del codice, in ID., a cura di, La riforma della legislazione penale complementare. Studi di diritto comparato, Cedam, Padova, 2000, 36 s., e il contributo sulla legislazione penale speciale spagnola di FOFFANI/PIFARRÉ DE MONER, La legislazione penale speciale in Spagna (Codice penale principio di « universalità »), ivi, 189 ss.
— 35 — La stessa distinzione fra disposizione (astratta) e norma (desunta dalla prima, e avente una possibilità di diversi e configgenti contenuti, a seconda delle interpretazioni), appartiene ormai alle basi consolidate del sapere ermeneutico del giurista (16). È una scoperta che ha due fondamenti, uno relativo al metodo della scienza e uno al metodo della democrazia: a) Quanto al metodo della scienza, è l’esigenza di prendere atto a livello istituzionale (e non solo normativistico), del momento individualizzante dell’applicazione della legge ai casi, ma anche, nello stesso tempo, della capacità dell’applicazione del diritto ai casi di raggiungere « nuovi » punti di vista suscettibili di generalizzazione. Appare qui necessaria una rimeditazione sul significato del precedente (17), che sia coerente con le dimensioni del diritto come scienza ermeneutica (e « individualizzante » (18), oltre che come scienza « generalizzante » (« legge generale e astratta », « scienze empiriche », « criminologia », « prevedibilità delle decisioni », « prevedibilità del rischio penale », « causalità nomologica » « pericolosità sociale », « verificabilità del danno sociale », « effettività », (16) Sulla scia di analoghe distinzioni (anche se con accezioni non sempre coincidenti) contenute, nella letteratura italiana, in lavori di Crisafulli e di Tarello, cfr. GUASTINI, Dalle fonti alle norme, Giappichelli, Torino, 1990, 15 ss.; ID., Teoria e dogmatica delle fonti, Giuffrè, Milano, 1998, 15 ss., 136 ss., 497 ss.; VIOLA/ZACCARIA, Diritto e interpretazione, Laterza, Bari, 1999, 117 s.; 320 ss.; EZQUIAGA GANUZAS, La producción jurídica y su control por el Tribunal Constitucional, Tirant lo Blanc, Valencia, 1999, 41 ss. (17) In Italia (ma anche altrove) molto studiato, invero, soprattutto dai civilisti. Una antologia molto utile di un dibattito a largo raggio già negli anni Ottanta, in M. BIN, Il precedente giudiziario, Cedam, Padova, 1995. Nella letteratura civilistica tedesca cfr. LANGENBUCHER, Die Entwicklung und Auslegung von Richterrecht, Beck’sche Verlagsbuchhandlung, München, 1996. In prospettiva teorico-comparata, v. anche la monografia di MARINELLI, Ermeneutica giudiziaria, Giuffrè, Milano, 1996, 29 ss. e passim. Fra i penalisti cfr. ora l’importante monografia di CADOPPI, Il valore del precedente nel diritto penale, Giappichelli, Torino, 1999, e qui ampi ragguagli. Voglio solo precisare che il richiamo allo studio del precedente « vincolante », se può condurre a una riduzione del caos interpretativo e quindi si colloca anche in un’ottica del recupero della legalità effettiva (in action) — è questa, per es., la prospettiva di Cadoppi — nello stesso tempo costituisce un riconoscimento palese del ruolo della giurisprudenza come fonte di diritto (superate anche nei Paesi anglosassoni le concezioni « dichiarative » del precedente). In tale prospettiva, è importante ricordare che non esiste, nel contesto sociale, solo l’interpretazione autoritativa del giudice. Rispetto a un numero enorme di questioni che non giungono alle soglie dei Tribunali, svolgono un ruolo ermeneutico e di consulenza l’avvocatura, oppure gli apparati amministrativi della Pubblica amministrazione, vari operatori giuridici privati, ecc.: non esiste dunque il solo punto di vista del giudice, il quale spesso, di fronte alla controversia, si trova a dover prendere atto di una consolidata ermeneutica che opera « nel sociale » molto prima che « nei Tribunali »: cfr. in merito le puntuali osservazioni di TWINING/MIERS, How to Do Things with Rules (1982), trad. it., Come far cose con regole, Giuffrè, Milano, 1990, 238 ss., 372 ss. Si tratta di un aspetto rilevante per la comprensione del rapporto fra pluralismo e ruolo del giudice (v. meglio infra, nel testo). (18) Già RADBRUCH, Rechtsphilosophie8, a cura di E. Wolf e H.P. Schneider, Koehler Verlag, Stuttgart, 1973, 216 s.
— 36 — ecc.). Non appare quindi affatto superata l’esigenza di una contestuale definizione del sapere giuridico-penale come partecipe sia delle Geisteswissenschaften e sia delle Naturwissenschaften. Nello stesso tempo, il metodo sperimentale delle scienze c.d. naturalistiche apporta al sapere penalistico quel controllo empirico e quel collaudo di effettività (infra, §§ 4.08.0), senza il quale l’hortus conclusus della nostra scienza assomiglia a quello di una teologia civile. b) Quanto al metodo della democrazia, occorre rispondere alla seguente domanda: è pensabile che il pluralismo ideologico operi solo in Parlamento, e non anche nella magistratura? È pensabile che i conflitti che precedono la formazione della legge debbano miracolosamente scomparire quando questa abbia trovato una sua qualche composizione dialettica, una formula di compromesso dentro poche parole di un articolo (1020 parole)? Può la « democrazia penale » cessare dopo la promulgazione della legge, oppure essere « gestita » solo dai pensieri aristocratici degli accademici o della Corte costituzionale? La magistratura, in realtà, realizza una necessaria composizione giudiziale del pluralismo sociale e dell’opposizione delle « parti » nel processo penale (19). Da questa constatazione emerge l’esigenza che la scienza penale elabori strumenti concettuali per ordinare al suo interno quella componente del diritto come ermeneutica e scienza dello spirito che nell’applicazione giudiziale ai casi valorizza il diritto come decisione. Non è casuale che lo studioso si dedichi soprattutto ai « casi difficili » (hard cases): per i casi facili « funziona » ancora molto bene, anche se ri(19) Senza scomodare qui di nuovo (le citazioni sarebbero tanto scontate quanto esatte) la Diskurstheorie di Habermas, per un « spaccato » di notevole efficacia rappresentativa della crisi della cultura statualistica della « sinistra » italiana e degli effetti che ciò ha oggi rispetto alle funzioni del giudicante, cfr. ALBANO, Crisi dello stato sociale, limiti della cultura statualistica e ruolo del giudice, in ROSSI, Giudici e democrazia, cit., 144 ss. Il ruolo mediatorio del giudicante in una società pluralistica ha visto tuttavia anche interpretazioni sopra le righe di una corretta collocazione costituzionale dei poteri divisi, interpretazioni vicine al c.d. uso alternativo del diritto stile-anni Settanta, dalle quali intendo qui prendere chiaramente le distanze: cfr. per es. SCODITTI, Riforma costituzionale e giurisdizione, in Democrazia e diritto, 1997, 1 ss., e spec. 48 ss. Il prepotente avanzare di forme di privatizzazione del processo, (meccanismi di negozialità sul rito, sulla condanna e sulla prova, rilevanza anche pubblicistica delle indagini difensive) e dell’accentuarsi della funzione del processo come composizione del conflitto fra le parti, anziché di accertamento autoritativo della verità (questa seconda funzione rimane, evidentemente, ma convive con le altre), ben si concilia col ruolo del giudicante come mediatore del pluralismo dentro lo Stato e la società, anziché come portatore di una unica e costante verità autoritativa pronunciata « dal di fuori » dei valori e delle ragioni dei contendenti. Per una rappresentazione efficacissima delle diverse funzioni del processo nei sistemi advrersarial rispetto a quelli inquisitori, DAMAŠKA, I volti della giustizia e del potere. Analisi comparatistica del processo, Il Mulino, Bologna, 1991, passim. Sull’ingresso delle forme di negozialità nel processo penale, v. ora la monografia di SINNER, Der Vertragsgedanke im Strafprozeßrecht, Peter Lang, Frankfurt a.M., 1999, con ampia comparazione con la situazione italiana vista da una posizione molto ostile alla negozialità.
— 37 — veduto e corretto (con componenti valutative), il paradigma dell’interpretazione come attività « dichiarativa », o come sillogismo giudiziario (dopo l’interpretazione): poiché nei casi facili, anche se l’interprete « valuta », raggiunge soluzioni consolidate da una larga maggioranza. Per questo i casi sono « facili » e si può operare un sillogismo. È nei casi difficili che quel modello non funziona per nulla (20). L’integrazione del metodo scientifico (già) neopositivista, ancora tanto « attraente » per la sua seducente esattezza e precisione, con il metodo ermeneutico e delle scienze della cultura, attende pertanto di essere compiuta sotto il segno del metodo democratico e del riconoscimento del ruolo istituzionale della magistratura anche penale nella gestione dei conflitti e del pluralismo (21). 4. L’estensione del « paradigma aristocratico » anche a livello giudiziario. Empiria e valori nel metodo della Corte costituzionale. Il diritto penale come teologia civile o come scienza sociale? — Il mito « garantista » del giudice avalutativo e bouche de la loi rifulge ancora spesso, in Italia, nelle pagine dei penalisti nostalgici dell’illuminismo settecentesco (l’arretratezza del penalista medio italiano in materia ermeneutica è sul (20) Cfr. anche DONINI, Dogmatica penale e politica criminale a orientamento costituzionalistico, cit., 53 ss. Sul tema esiste una letteratura sterminata, soprattutto di common law. Rinvio comunpue soltanto a DWORKIN, Taking Rights Seriously, trad. it. cit., 171 ss.; ID., No Right Answer? (1978), trad. it. Non c’è soluzione corretta?, in Materiali per la storia della cultura giuridica, 1983, 469 ss. (con eccessi di fiducia nella « correttezza » e univocità delle possibilità di decisione giudiziale su tali casi): ma ancor meglio a MacCORMICK, Legal Reasoning and Legal Theory, Clarendon Press, Oxford, 1978, 175 ss.; e a BARAK, Judicial Discretion (1987), trad. it., La discrezionalilà del giudice, Giuffrè, Milano, 1995, 45 ss., 115 ss.l (21) Un esempio paradigmatico dell’integrazione fra sapere ermeneutico, sapere nomologico ed esigenze della prassi nel metodo del penalista lo si rinviene continuamente in numerose, anche se fra loro parimenti diversissime, opere della Scuola di Francoforte: cfr. per es. (senza richiami specifici ai lavori degli studiosi delle ultime generazioni della Scuola) HASSEMER, Tatbestand und Typus. Untersuchungen zur strafrechtlichen Hermeneutik, Carl Heymann’s Verlag, Köln-Berlin-Bonn-München, 1968; ID.; Strafrechtsdogmatik und Kriminalpolitik, cit., Theorie und Soziologie des Verbrechens, Europäische Verlagsanstalt, Athäneum Verlag, Frankfurt a.M., 1973; ID., Über die Berücksichtigung von Folgen bei der Auslegung der Strafgesetze, in Fest. Coing, Bd. I, Beck, München, 1982, 493 ss.; ID., Prävention im Strafrecht, in Juristische Schulung, 1987, 257 ss.; ID., Einführung in die Grundlagen des Strafrechts2, Beck, München, 1990; ID., Nomos Kommentar, cit., Vor § 1; ARTH. KAUFMANN/HASSEMER, Einführung in die Rechtsphilosophie und die Rechtstheorie der Gegenwart5, C.F. Müller, Heidelberg, 1989 (e succ. ed.); NAUCKE, Über die juristische Relevanz der Sozialwissenschaften, Metzner, Frankfurt a.M., 1972; NAUCKE, Grundlinien einer rechtsstaatlich-praktischen allgemeinen Straftatlehre, Franz Steiner Verlag, Wiesbaden, 1979; sempre di Naucke cfr. le raccolte di saggi in ID., Über die Zerbrechlichkeit des rechtsstaatlichen Stragrechts, Nomos, Baden-Baden, 2000; ID., Gesetzlichkeit und Kriminalpolitik, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M., 1999; LÜDERSSEN/SACK (Hrsg.), Seminar: Abweichendes Verhalten, cit., HASSEMER/LÜDERSSEN/NAUCKE, Hauptprobleme der Generalprävention, Metzner, Frankfurt a.M., 1979; HASSEMER/LÜDERSSEN/NAUCKE, Fortschritte im Strafrecht durch die Sozialwissenschaften?, cit.; LÜDERSSEN (Hrsg.), Aufgeklärte Kriminalpolitik oder Kamp gegen das Böse?, cit., ID., Abschaffen des Strafens?, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1995.
— 38 — punto sorprendente (22)) e dei politici nostalgici di una magistratura poco interventista rispetto ai « poteri forti » (forte con i deboli e debole con i forti) (23). La tradizionale cultura separata, aristocratica e autoritaria del penalista ha peraltro coinvolto o assecondato necessariamente anche lo stile dei giudici, che spesso, quando esprimono correnti più « interventiste », si sentono portatori di orientamenti autonomi, se non addirittura separati, rispetto a quelli della società civile. Là dove, tuttavia, lo stile della giurisprudenza penale è dialogico, e non semplicemente antagonista o supino, rispetto ai dibattiti, alle interpretazioni giuridiche e alle tensioni diffuse nel contesto sociale, rimane il vincolo di un intervento sulla realtà mediato in modo rigoroso dalle norme. È qui che si profilano limiti oggettivi imposti sicuramente dalla divisione dei poteri, la quale rende modesta, ma non irrilevante o indifferenziata, la misura del sapere empirico utilizzabile dal giudice, e segnatamente: 1) dal giudice ordinario; 2) dal giudice costituzionale. Il giudice ordinario ha molti programmi condizionali (regole, costruite sul paradigma operativo: se...allora...), che circoscrivono fortemente, se non la sua conoscenza della realtà, comunque le decisioni conseguenti: la quaestio facti è rigidamente delimitata dalle quaestiones iuris astrattamente ammissibili, e tra le regole astratte che lo vincolano c’è anche il divieto di analogia in malam partem, che vale, evidentemente, anche a escludere ogni valutazione orientata alle conseguenze la quale conduca a un esito di quel tipo. Il problema, perciò, dipende sempre dal tipo di regole (dai « programmi condizionali ») che il legislatore gli abbia affidato. Il giudice costituzionale, invece, ha più programmi di scopo (normeprincipio, valori, ecc.), pur gestendo anch’egli molte norme-regole (24). Egli, si intende, è parimenti legato alla divisione dei poteri, la quale tuttavia non esige che non possa disporre di sapere empirico, o acquisirlo me(22) Per un orientamento finalmente aperto alle prospettive dell’ermeneutica contemporanea, v. ora FIANDACA, Ermeneutica e applicazione giudiziale del diritto penale, relazione tenuta a Perugia al Convegno su « L’interpretazione della legge alle soglie del XXI secolo » nei giorni 16-18 dicembre 1999. (23) E ciò a dispetto del fatto che in Italia la magistratura ha un ruolo molto più forte della scienza accademica: il Parlamento può di regola « permettersi » di approvare una legge contro l’opinione dell’accademia, ma è molto più guardingo nel farlo contro l’opinione della magistratura. Non parlo qui della magistratura « di sinistra », ma della magistratura in generale. Il contributo a una caratterizzazione politica forte del terzo potere, comunque, è stato promosso in misura determinante dalle correnti di sinistra della magistratura italiana. Rinvio a PALOMBARINI, Giudici a sinistra. I 36 anni della storia di Magistratura democratica: una proposta per una nuova politica per la giustizia, ESI, Napoli, 2000, e al citato volume collettaneo Giudici e democrazia, a cura di N. Rossi, cit. (24) Su questa caratteristica dell’ermeneutica costituzionale, rinvio soltanto (anche qui i richiami potrebbero essere numerosissimi) a MENGONI, L’argomentazione nel diritto costituzionale, in ID., Ermeneutica e dogmatica giuridica. Saggi, Giuffrè, Milano, 1996, 115 ss.
— 39 — diante indagini tecniche. In Italia, tuttavia, il giudice costituzionale non dispone della facoltà di disporre perizie, contrariamente, per es., alla situazione del giudice costituzionale tedesco del Bundesverfassungsgericht (25) —, le quali in teoria potrebbero anche essere utilizzate in misura molto ampia, per sindacare (se possibile) l’effettività delle leggi e il rispetto del principio di sussidiarietà o di quell’aspetto della tassatività delle legge che riguarda la loro applicabilità pratica, la loro verificabilità processuale (26). Un altro deficit di democraticità nella cultura dei giudici è costituito, in Italia, dal fatto che non è previsto, neppure per la Corte costituzionale, il diritto di palesare e motivare la dissenting opinion. — contrariamente al voto pauticular in Spagna e al Sondervotum in Germania (27) —. Se l’approccio costituzionalistico al diritto penale suppone un giudice molto valutativo, che valuta moltissimo, perché deve controllare ogni legge e interpretarla alla luce di principi superiori di rango costituzionale (28), nondimeno la già indicata divisione dei poteri segna alcuni confini molto rigorosi a questo percorso dalle ampie potenzialità astratte: il controllo sulla politica criminale del legislatore svolto dalla Corte costituzionale italiana, in effetti, ha ammesso i limiti dei suoi poteri nella verifica di extrema ratio/sussidiarietà e di ragionevolezza. Il controllo sulle alternative fra punizione amministrativa o penale, fra pericolo concreto e astratto-concreto (non presunto), ha margini di intervento molto circoscritti, perché la Corte si riserva di superare il divieto di sindacato politico sull’attività del Parlamento (art. 28 l. 11 marzo 1953, n. 87) solo di fronte alla (palese) irragionevolezza delle scelte legislative (29). Nondimeno, nel(25) HASSEMER, in Nomos Kommentar, cit., Vor § 1/35, 140. La Corte costituzionale tedesca, peraltro, pare utilizzare il potere di disporre perizie in misura molto limitata. Per un esempio significativo in materia di aborto, v. BVerfG 28.5.1993, Bd. 88, 203 ss. (26) Identificano oggi con l’intero principio di determinatezza questo aspetto del dover essere le norme penali descrittive di fatti « suscettibili di essere accertati nel processo », MARINUCCI/DOLCINI, Corso di diritto penale2, Giuffrè, Milano, 1999, 99 s. (il profilo della sufficiente determinatezza in astratto, o tassatività, è ricondotto dagli AA. al « principio di precisione »: ivi, 57 ss.). Al di là del proliferare delle categorie dottrinali, è molto importante che, quando si riconosce a un organo istituzionale il dovere di sindacare un profilo di praticabilità delle leggi, lo si fornisca poi anche dei relativi poteri: senza perizie, a quali saperi potrà mai appellarsi la Corte, se non a banali e scontate « evidenze »? Potrà così decidere solo in casi estremi: ed è probabilmente ciò che mira a ottenere la limitazione attuale del sindacato sui presupposti fattuali (empirici e scientifici) della legislazione vigente. (27) Sulla storia dell’introduzione dell’opinione dissenziente nell’ordinamento della Corte costituzionale tedesca, LAMPRECHT, Richter contra Richter. Abweichende Meinungen und ihre Bedeutung für die Rechtskultur, Nomos Verlag, Baden-Baden, 1992. (28) Su tali caratteristiche del tipo di giudice che l’approccio costituzionalistico presuppone, cfr. ancora DONINI, L’art. 129 del Progetto di revisione costituzionale approvato il 4 novembre 1997, in Critica del diritto, 1998, 122 s.; ID., Dogmatica penale e politica criminale a orientamento costituzionalistico, cit., 56 ss. (29) V. in particolare, sui limiti di tale potere, Corte cost., 6 luglio-18 luglio 1989 n.
— 40 — l’ambito di tali barriere normative, la Corte ha avviato da tempo, anche in campo penale, forme di controllo di razionalità rispetto ai valori (Wertrationalität) e di razionalità rispetto agli scopi (Zweckrationalität) (30). È rimasto invece un mero programma politico quello di Franco Bricola (e con lui di altri penalisti), che prevedeva di sottoporre alla Corte il controllo su tutte le norme penali che non tutelassero beni di rilevanza costituzionale contro aggressioni di pericolo concreto (31). Più esattamente, tuttavia, si dovrebbe dire che quel programma non è stato accettato proprio sul piano politico dalla prevalente letteratura italiana, in quanto se avesse convinto a quel livello, sarebbe stato possibile ritenerlo già « recepito » dalla Costituzione vigente (32). Ciò è attestato anche dall’espe409, in Giur. cost., 1989, 1906 ss., spec. 1916 s.; Corte cost., 10-11 luglio 1991, n. 333, in Giur. Cost., 1991, 2646 ss., spec. 2658-2661. (30) Non posso qui sviluppare il discorso mediante una rassegna delle decisioni in materia (che si radicano, quali norme « dimostrative » della Costituzione italiana che fondano le decisioni di illegittimità costituzionale, soprattutto sugli artt. 3, comma 1: sub specie ragionevolezza e proporzione; e 25, comma 2: sub specie tassatività-determinatezza): ricordo comunque, quale esemplificazione di verifica sulla razionalità rispetto agli scopi, Corte cost., 15-28 dicembre 1995, n. 519, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 670, comma 1, c.p., riguardante la mendicità non invasiva (senza modi ripugnanti, vessazioni, mezzi fraudolenti), in quanto incriminazione inidonea a tutelare i beni giuridici (es. tranquillità pubblica) per i quali era stata costruita dal legislatore del 1930; altrettanto significativa Corte cost. 17 ottobre-2 novembre 1996, n. 370, sul reato di sospetto di cui all’art. 708 c.p. (possesso ingiustificato di valori), dichiarato illegittimo (fra l’altro), perché « non più adeguato a perseguire i fenomeni degli arricchimenti illeciti quali risultano dall’osservazione della realtà criminale di questi ultimi decenni ». Quale esemplificazione, invece, di norma illegittima per irrazionalità rispetto ai valori, cfr. gli artt. 1 e 3 l. 24 giugno 1929, n. 1085, ritenuta tale da Corte cost. 21-25 maggio 1987, n. 189, e riguardante l’esposizione non autorizzata (nel territorio nazionale italiano) di bandiera di Stato estero: superato il clima politico del ventennio fascista e del suo nazionalismo, ha detto la Corte, la scelta della sanzione penale risulta « oggi manifestamente irrazionale...il fatto stesso manca di qualsiasi oggetto giuridico specifico e della benché minima ratio incriminandi ». Per una recente messa a fuoco dell’intreccio dei profili della tassatività, della proporzione e della ragionevolezza nelle decisioni della Corte, cfr. PALAZZO, Offensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali, in questa Rivista, 1998, 350 ss.; MAUGERI, I reati di sospetto dopo la pronuncia della Corte costituzionale n. 370 del 1996: alcuni spunti di riflessione sul principio di ragionevolezza, di proporzione e di tassatività, parte I, in questa Rivista, 1999, 434 ss. (31) Basti qui ricordare, per un bilancio di quelle tesi di Bricola nei più recenti contributi, DOLCINI/MARINUCCI, Costituzione e politica dei beni giuridici, in questa Rivista, 1994, 333 ss., 345 ss.; M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale2, vol. I, Giuffrè, Milano, 1995, Pre-Art. 39/1-16; FIANDACA/MUSCO, Diritto penale, parte gen.3, Zanichelli, Bologna, 1995, 12-28; DONINI, Teoria del reato. Una introduzione, Cedam, Padova, 1996, 18-47, 130-140; PADOVANI, Diritto penale, parte gen.5, Giuffrè, Milano, 1999, 110 ss.; PALAZZO, Introduzione ai principi del diritto penale, Giappichelli, Torino, 1999, 142 ss.; DONINI, voce Teoria del reato, in Dig. Disc. Pen., vol. XIV, Utet, Torino, 1999, 265-274. (32) Ho sviluppato questa valutazione in un intervento successivo al convegno in occasione del quale è stato inizialmente elaborato il testo del presente lavoro: cfr. DONINI, Ragioni e limiti della fondazione del diritto penale sulla Carta costituzionale. L’insegnamento
— 41 — rienza mai decollata della Commissione Bicamerale per la revisione della Costituzione (1997/1998) e del suo art. 129, che ai commi 1 e 2 intendeva tradurre in norma costituzionale il programma di Bricola: « Le norme penali tutelano beni di rilevanza costituzionale/Non è punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel caso in cui esso non abbia determinato una concreta offensività » (33). Si trattava del tentativo, in pratica, di allargare i poteri di controllo della Corte sulla razionalità delle scelte politico-criminali del Parlamento, attraverso il sindacato sui beni: se di rilevanza costituzionale, oppure no. Oggi possiamo chiederci: Era un modello di aristocrazia penale, o di maggiore democrazia giudiziaria? Di maggiori spinte in favore dell’affinarsi di strumenti critici e verificabili di controllo sulla legge, oppure verso una politicizzazione « incontrollabile » della Corte costituzionale? Io ritengo, come ho scritto in altra sede, che pur con vari rischi superabili, si sarebbe potuti giungere a imporre, attraverso un più forte controllo della Corte, indirizzi di maggior razionalità e anche verificabilità empirica nelle scelte di criminalizzazione, a condizione che i nuovi principi si fossero innestati su un tessuto normativo di leggi ordinarie che li avessero già in partenza concretizzati in un modo più gestibile di quanto non sarebbe possibile oggi, alla luce dell’attuale legislazione penale. Ma è certo che dovremo ancora attendere. La scienza penale accademica, da parte sua — e in tale osservazione mi collego a quanto detto poc’anzi sulle ragioni « politiche » del mancato accoglimento delle tesi di Bricola —, ha puntato tutto sulle sole riforme ordinarie: pur a fronte di continue prove dell’irrazionalità delle leggi pedell’esperienza italiana, in corso di pubblicazione ne Il Foro it., 2001, intervento svolto a Salamanca, nei Cursos de Postgrado en Derecho, gennaio 2001, anche in trad. spagnola, a cura di Cristina MÉNDEZ RODRIGUEZ, Un derecho penal fundado en la carta constitucional: razones y limites. La experiencia italiana, in Responsa Iurisperitorum Digesta, vol. II, Ediciones de la Universidad de Salamanca, Salamanca, 2001, 223 ss. (33) I commi 3 e 4, a loro volta, prevedevano: « Le norme penali non possono essere interpretate in modo analogico o estensivo./Nuove norme penali sono ammesse solo se modificano il codice penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti organicamente l’intera materia cui si riferiscono ». In generale su tutto l’art. 129 della Bicamerale cfr. per es. le critiche da parte di FIANDACA, Intervento al dibattito su « Giustizia penale e riforma costituzionale nel testo approvato dalla Commissione bicamerale », in Critica del dir., 1998, 143-145; ID., La legalità penale negli equilibri del sistema politico-costituzionale, in Foro it., 2000, V, 137 ss., 141 s., e di PALAZZO, Le riforme costituzionali proposte dalla Commissione bicamerale, B) diritto penale sostanziale, in Diritto penale e processo, 1998, 41; cfr. anche DI GIOVINE, L’evoluzione dell’art. 25 Cost. nel pensiero del nuovo costituente, in Cass. Pen., 1998, 356 ss. Si noti che molte critiche erano ben fondate o comprensibili (in particolare quelle sul divieto di interpretazione estensiva o anche sulla difficile gestibilità del principio riguardante la tutela di beni di rilevanza costituzionale, come ho avuto occasione di chiarire diffusamente in L’art. 129 del Progetto, cit.): ciò che, invece, stupisce, è la resistenza preconcetta, proprio in Italia, a una migliore legislazione penale costituzionale, confidando solo nelle riforme ordinarie.
— 42 — nali vigenti (non certo solo in Italia) crede di poter raggiungere la razionalità della legislazione mediante la sola legge ordinaria. Non si vogliono incrementare i poteri di controllo della Corte, temendo eccessi di democrazia giudiziaria, un « garante della Costituzione » senza controlli. Ma non si è trattato, si noti bene, di una rinnovata « fiducia nella politica », quanto piuttosto di una sfiducia in una Corte troppo forte (34). Di una doppia sfiducia, quindi, che ha neutralizzato proposte istituzionali innovative. Naturalmente ciò rischia di perpetuare il ruolo della Corte come di un tribunale di teologia civile, che argomenta solo per valori (controllando la Wertrationalität), e non ha sapere empirico, in quanto anche il controllo sulla Zweckrationalität non attiene alle conseguenze, ma agli « scopi », appunto: una idoneità agli scopi non supportata da sapere scientifico. Il massimo di « sapere empirico » utilizzato dalla Corte, nei suoi controlli sulla conformità delle incriminazioni ai valori o agli scopi del legislatore, è un richiamo generico alle esperienze legislative straniere, che vengono tenute varie volte in considerazione per confortare il giudizio sull’arretratezza, l’incongruità o l’irrazionalità di una disciplina nazionale (35). Nonostante questi limiti istituzionali del controllo di costituzionalità in Italia, occorre sottolineare il grande significato europeo e democratico dell’approccio costituzionalistico della cultura penale italiana (da Pietro Nuvolone, Marcello Gallo e Franco Bricola in poi): non si è trattato del contributo di qualche singolo studioso illuminato, quanto piuttosto di un movimento corale della cultura penalistica, trasversale a ogni scuola, e che ha coinvolto un ampio dibattito anche all’interno della magistratura ordinaria. Una scienza penale critica, per niente assestata sulla legittimazione dell’esistente, una scienza penale costruita su « principi » e non solo su « regole » o « categorie sistematiche », una scienza penale che ha saputo ispirare e orientare le decisioni della Corte costituzionale maturate soprattutto dalla fine degli anni Ottanta. Quando, pertanto, dalla Germania si accusa oggi violentemente l’approccio costituzionale al diritto penale (senza riferimenti, peraltro, all’esperienza italiana) di rappresentare null’altro che una forma di giusnatu(34) Per una valutazione sostanzialmente positiva delle proposte dell’art. 129 della Bicamerale, almeno rispetto ai commi 1 e 2, con diversità di accenti, cfr. sempre MAZZACUVA, Intervento al dibattito su « Giustizia penale e riforma costituzionale nel testo approvato dalla Commissione bicamerale », in Critica del dir., 1998, 155 ss.; CASTALDO, Welches Strafrecht für das neue Jahrtausend?, di prossima pubblicazione in Fest. Roxin, 11 ss. (del dattiloscritto). V. anche il mio già citato contributo, DONINI, L’art. 129 del Progetto, cit., 95 ss. (35) Ripetuto, per es., il richiamo (anche se spesso fugace) a ordinamenti stranieri, di regola europei, nelle sentenze della Corte costituzionale italiana n. 96/1981 (sul reato di plagio), n. 364/1988 (sull’ignoranza della legge penale), 1085/1988 (sul furto d’uso), 391/1994 (sul reato di oltraggio), 519/1995 (sulla mendicità), 370/1996 (sui reati di sospetto).
— 43 — ralismo (36), si esprime quello che costituiva un comprensibile motivo di preoccupazione (che io stesso ho avuto) di fronte a gestioni (ancora) rigorosamente individualistiche, deduttivistiche o « filosofiche » delle norme costituzionali negli anni Settanta o Ottanta. Tuttavia, il dispiegarsi di un dibattito corale su di esse ha di fatto neutralizzato il rischio di una lettura non discorsiva, ma aristocratico-giusnaturalistica, di quelle norme-principio. 5. La « politica » coltivata dagli scienziati: l’idealismo della scienza sedicente « funzionalista » ovvero orientata in senso « politico-criminale », e « alle conseguenze », ma non all’empiria. — C’è una sola politica che lo studioso penalista ama: è quella che egli immagina sottostante ai suoi disegni teorici i quali soltanto danno al sistema penale una patente di legittimazione. È la politica immaginaria di un nuovo sistema, di un nuovo metodo. Non è la politica reale del sistema, ma il suo abbellimento. Salvo che il legislatore abbia effettivamente recepito le indicazioni provenienti dagli studiosi. È tuttavia assai dubbio, oggi, che esista in Italia (limito l’osservazione al mio Paese, ma essa sarebbe estensibile ad altre esperienze) una politica criminale reale, ma di matrice accademica, se si prescinde da quella forma di politica, tutta particolare, che è rappresentata dallo stesso tradizionale metodo dogmatico (37) e dalle interpretazioni conformi alla Costituzione. Manca anche del tutto una chiara politica criminale europea di matrice accademica che sia veramente rappresentativa. La politica criminale reale non proviene dalla « scienza ». Oppure proviene dalla scienza « che rappresenta » le scelte dei governi. Dagli anni Settanta in poi, peraltro, si è parlato moltissimo (in Germania, in Italia, in Spagna, ecc.) di politica criminale « mescolata » alla dogmatica, e gestita dall’interprete (ricordo soltanto in Germania il programma di Roxin; in Italia quello di Bricola e un po’ vari indirizzi dell’orientamento costituzionalistico). Non è stata spesso, però, una politica basata su dati empirici o su conoscenze relative all’effettività e alle reali funzioni del diritto penale ri(36) NAUCKE, Die Legitimation strafrechtlicher Normen — durch Verfassung oder durch überpositive Quellen? in LÜDERSSEN, Aufgeklärte Kriminalpolitik oder Kampf gegen das Böse? Bd. I, Nomos Verlagsgesellschaft, Baden-Baden, 1998, 156 ss.: un saggio, quello di Naucke, che rappresenta, a mio avviso, un’aggressione tanto forte quanto ingiustificata all’approccio costituzionalistico in generale. I profili e le tentazioni di un neogiusnaturalismo, si intende, sono stati più volte discussi anche nel dibattito italiano (per es. da Fiandaca, Ferrajoli, e dallo stesso scrivente), ma in tutt’altro contesto argomentativo, come accennato anche nel testo. (37) Sul metodo dogmatico tradizionale come argomentazione « politica », della politica dell’accademia lontana dalla prassi, ed erede di uno stile di pensiero di origine ottocentesca, cfr. NAUCKE, Über das Verhältnis von Strafrechtswissenschaft und Strafrechtspraxis, in ZStW, 85, 1973, 425 s.
— 44 — spetto ai sistemi ad esso alternativi. È stata comunque una politica che ha visto dentro alla legge alcuni « scopi » e ha inteso reinterpretare il sistema penale alla luce di quegli scopi. Oppure è stata, in Italia, una politica dedotta da principi costituzionali superiori (ovvero pensata a prescindere da quelli, ma « ricondotta » in via ermeneutico-argomentativa a norme-principio o norme costituzionali) (38). Da punti di vista spesso diversi, alcuni hanno parlato di « funzioni » (39), altri di « orientamento alle conseguenze » (40). (38) Nella letteratura italiana, per es., un autentico manifesto del nuovo corso della dogmatica orientata a scopi di politica criminale a base costituzionale è contenuto in MOCCIA, Il diritto penale fra essere e valore, ESI, Napoli, 1992: quasi una sintesi ideale delle diverse esperienze metodologiche di Roxin e di Bricola. Sempre di Moccia, comunque, v. anche il richiamo a un doveroso contemperamento di efficienza e garanzie, in ID., La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, ESI, Napoli, 1995, 153 ss. (39) A dispetto dei loro « manifesti » programmatici o delle loro riflessioni metodologiche, non sono sempre chiarite, per es. le differenze tra il metodo orientato agli scopi della pena, oppure teleologico-funzionale, o funzionale tourt court, prospettato per es. da Autori come Roxin (da ultimo ROXIN, Strafrecht, AT3, Bd. I, Beck, München, 1997, § 7/24 ss.; ID., Zur kriminalpolitischen Fundierung des Strafrechtssystems, in Fest. Kaiser, Bd. I, Duncker & Humblot, Berlin, 1998, 885 ss.), Wolter (cfr. WOLTER, Objektive und personale Zurechnung von Verhalten, Gefahr und Verletzung in einem funktionalen Straftatsystem, Duncker & Humblot, Berlin, 1981, 21 ss. e passim, dove, « funktional » e « teleologisch » sono sostanzialmente sinonimi), Frisch (sul suo concetto « funzionale » di dolo cfr. FRISCH, Vorsatz und Risiko, Carl Heymanns Verlag, Köln-Berlin-Bonn-München, 1983, 42 ss., 46 ss.), Schünemann (per una illuminante riflessione sul metodo, in prospettiva storica, dell’esperienza tedesca nel Novecento, cfr. SCHÜNEMANN, Einführung in das strafrechtliche Systemdenken, in ID. (Hrsg), Grundfragen des modernen Strafrechtsystems, Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1984, 1 ss., spec. 45 ss., dove « zweckrational » e « funktional » sono parimenti usati come sinonimi: così pure, in seguito, da parte di Roxin; cfr. poi sempre di SCHÜNEMANN, Strafrechtssystem und Kriminalpolitik, in Fest. R. Schmitt, Mohr, Tübingen, 1992, 117 ss., spec. 125 ss.), o Jakobs (cfr. per es. JAKOBS, Strafrecht, AT2, Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1991, VII s. (Aus dem Vorwort zur ersten Auflage), § 17/18 ss., 22, e nota 46b, p. 484; ID., Das Strafrecht zwischen Funktionalismus und « alteuropäischem » Prinzipiendenken, in ZStW, 107, 1995, 843 ss.): vale a dire, non è il metodo enunciato che spiega le diversità dei prodotti (spesso di tratta di diverse argomentazioni, non di diverse soluzioni) di tali scrittori, ma semplicemente la differenza tra gli scopi che i diversi Autori ritengono che la pena, o il sistema penale, abbiano o debbano avere. Le « funzioni » sono come gli « scopi », cioè solo sinonimi di un dover essere assegnato agli istituti e alle categorie penalistici. Anche chi usa il termine in senso descrittivo, non si sottrae al costume di farne un impiego prescrittivo. È evidente che, mutando quegli scopi nell’ottica dei diversi punti di vista, o la sensibilità politica degli interpreti, mutano le argomentazioni del « funktionales Denken ». Ma non sempre mutano le soluzioni effettive. Cfr. anche l’ottima introduzione all’opera di Jakobs elaborata da PEÑARADA RAMOS/SUÁREZ GONZÁLEZ/CANCIO MELIÁ, Consideraciones sobre la teoria de la imputación de Günther Jakobs, in JAKOBS, Estudios de Derecho penal, a cura dei medesimi AA., Editorial Civitas, Madrid, 1997, 17 ss., dove si relativizza giustamente (ibidem, 24 ss., 37) la distanza delle posizioni dell’A. da quelle della letteratura tedesca prevalente. La differenza, tuttavia, resta, ed è di sensibilità politica verso un uso più critico o soltanto « comprendente », del sistema penale. In un caso, il distacco fra essere e dover essere è o (talvolta) appare maggiore, nell’altro, tende a scomparire. Accade così che abbiamo approcci teleologico-« funzionali » attenti ai principi (per es. Roxin, Schünemann, ecc.), a altri assai meno sensibili a quegli aspetti (per es. Jakobs). Un quadro utilissimo dell’attuale dibattito « metodologico » nella scienza penale, con speciale attenzione all’esperienza tedesca e spagnola, in SILVA SÁNCHEZ, Aproximación al derecho penal contemporáneo, Bosch, Barcelona, 1992. (40) Per es. HASSEMER, Über die Berücksichtigung von Folgen, cit. In questo lavoro,
— 45 — Soprattutto chi ha parlato di orientamento alle conseguenze ha inteso sollevare un’obiezione metodologica che vorrei qui riprendere e fare mia con altre osservazioni. In varie occasioni ha osservato Hassemer che manca alle dogmatiche orientate in senso politico-criminale un vero orientamento alle conseguenze: manca la sensibilità verso il banco di prova del sapere empirico, della verifica (41). Si individuano delle « rationes », degli « scopi », ovvero delle « funzioni » in modo puramente idealistico, teorico-astratto, ideologico, si opera sui valori e sui fini, sul « dover essere »: mai si verificano le reali funzioni preventive alla luce di indagini empiriche. Questa « prevenzione », se non è disponibile alle verifiche, alla falsificabilità, rimane un puro travestimento ideologico, una organizzazione intellettuale dell’esistente per renderlo culturalmente accettabile. Lo stesso modo di procedere è riscontrabile, per es., nella Corte costituzionale italiana: un uso argomentativo di principi (per es. di extrema ratio, della funzione rieducativa della pena), senza nessuno strumento o collaudo empirico. Si suppone che la norma penale « debba » orientare in senso motivante, « debba » avere una funzione di prevenzione generale, « debba » essere tassativa, « debba » prevedere una pena che tende alla rieducazione/risocializzazione, ecc.: e da ciò si deducono alcune conseguenze normative, che incidono sui ragionamenti dell’interprete, del giudice. Questa è la « funzionalizzazione » dei concetti o la loro razionalità di scopo. Intendiamoci: è molto meglio tutto ciò di una cultura retribuzionista-assiologica solo preoccupata della riaffermazione della vigenza delle norme penali, della compensazione delle colpe o della Gesinnung, oppure orientata all’educazione disciplinare del cittadino che abbia trasgredito le regole del suo « ruolo » di garante di qualche fonte di rischio. Eppure, anche quella cultura resta orientata alle conseguenze solo in apparenza. Sono sempre normative le « conseguenze » alle quali è orientata l’argomentazione dogmatica. Sono interne al sistema della stessa dogperaltro, accanto alla modernità dell’orientamento alle conseguenze nella politica criminale, nella legislazione e nella costruzione teorica (ibidem, 502 ss.), si evidenziano soprattutto i rischi e i limiti negativi dell’orientamento alle conseguenze da parte del giudice (ibidem, 516 ss.); ID., Prävention im Strafrecht, cit., spec. 260 s., dove si distingue fra conseguenze « interne » ed « esterne » al sistema, chiarendo che solo queste ultime rendono fruttuoso il concetto di « conseguenze »: là dove tali conseguenze sono solo interne al sistema, ci si muove prevalentemente in una dimensione tutta normativa. (41) Cfr. per es. HASSEMER, Strafziele im sozialwissenschaftlich orientierten Strafrecht, in HASSEMER/LÜDERSSEN/NAUCKE, Fortschritte im Strafrecht durch die Sozialwissenschaften, cit., 57 ss.; ID., Prävention im Strafrecht, cit., 257 ss., 260 s.; ID., Variationen der positiven Generalprävention, in SCHÜNEMANN/VON HIRSCH/JAREBORG (Hrsg.), Positive Generalprävention (Uppsala-Symposium 1996), Müller Verlag, Heidelberg, 1998, 47 s. Ma prima ancora cfr. CALLIESS, Theorie der Strafe im demokratischen und sozialen Rechtsstaat, Fischer, Frankfurt a.M., 1974, 122 ss., 206 ss.
— 46 — matica sedicente « orientata alle conseguenze ». Non sono conseguenze « reali », e non muovono da premesse « reali », sono autopoietiche. Basta correggere il tiro degli scopi del diritto penale, e sostenere che esso mira a stabilizzare il consenso attorno ai valori fondamentali della società, e siamo nuovamente immersi nell’idealismo penale, anziché nel realismo o nel metodo sperimentale. Questa cultura idealista è necessariamente gestita da tecnici qualificati e autorevoli: è una gestione tecnocratica e d’élite. Ma i suoi interpreti sono privi per definizione di una reale possibilità di « controllo critico » su dati reali, di verificabilità. Il loro è un metodo non falsificabile. L’unico controllo è quello di razionalità rispetto ai valori e agli scopi, non rispetto agli effetti reali: il paradigma normativistico integrale impedisce qui che il giudice del diritto (e dei valori) si sporchi le mani con la realtà (42). In qualche misura, anche l’esperienza tedesca attinente al rapporto fra la « scienza penale » e la sua « politica criminale », non si sottrae alla medesima critica. Per esempio: il penalista italiano, a mio avviso, non ha veramente compreso se le diverse « soluzioni » di casi presenti nei manuali tedeschi di Jescheck (e ora Jescheck/Weigend), di Roxin e di Jakobs dipenda dalle loro premesse teoriche, oppure da qualcos’altro. Tanto più che molte volte quelle premesse teoriche conducono a soluzioni identiche o analoghe solo diversamente argomentate (una differenza di « Begründung », non di « conseguenze »!). Si avverte la sensazione che ci si muova sempre entro una dimensione « idealistica » dove il diritto è uno strumento autopoieitico, non uno strumento che si modifica secondo le sue reali conseguenze applicative. Orbene, io ritengo che appartenga al « metodo democratico », oltre che al « metodo della scienza » un’apertura alla realtà maggiore, una maggior compromissione dei suoi argomenti e delle sue soluzioni con l’output degli effetti che ne derivano. Un orientamento « reale » alle conseguenze, quindi. In caso contrario, resta vero che il diritto penale conserva il ruolo (pur importantissimo, per carità) di apparato di controllo sociale e di stabilizzazione delle aspettative di sicurezza e di giustizia. Ma pur sempre un ruolo di ideologia pubblica: di politica, quindi, piuttosto che di scienza (43). La democrazia penale del consenso politico, naturalmente, potrebbe (42) Per un’opportuna illustrazione del « livello descrittivo » delle reali funzioni del diritto penale, SILVA SÁNCHEZ, Aproximación, cit., 298 ss. (43) Questo giudizio può facilmente richiamare alla memoria le tradizionali critiche marxiane alle teorie del diritto come forme di ideologia. Quelle obiezioni, peraltro, conducevano i teorici marxisti non già alla relativizzazione, ma piuttosto all’eliminazione di ogni differenza fra diritto e politica. Ciò che esula del tutto dall’impostazione qui seguita (più diffusamente, al riguardo, DONINI, Dogmatica penale e politica criminale a orientamento costituzionalistico, cit., spec-39-44, 56-63).
— 47 — (continuare a) puntare su spinte emotive, sulla paura delle vittime potenziali, per eludere ogni verifica empirica, cercando legittimazione per un uso irrazionale degli strumenti punitivi (ante, § 1.0). Ma è chiaro che quando mi richiamo a un corretto metodo democratico non posso fare riferimento, per la scienza e per la politica penali, alla regola puramente procedurale della maggioranza, ma a quella dell’informazione della maggioranza. 6. Il gioco dei ruoli: scienza accademica e magistratura (in Italia) di fronte al legislatore: « Die Reform sind wir »?. — Per il penalista italiano è di grande interesse la lettura dell’affresco recentemente disegnato da Gunther Arzt sul sentimento di « identità » della scienza penale tedesca (accademica) rispetto alla legislazione penale del Novecento: « Die Reform sind wir » (44), afferma orgogliosamente il penalista tedesco riferendosi al fatto che la legislazione penale da un lato non ha fatto a meno dell’apporto della scienza lungo tutto il Novecento, e dall’altro non può — nonostante talora se ne dimentichi — farne a meno. Certo. Questa consapevolezza potrebbe anche spiegare come mai la scienza penale tedesca sia così « innamorata » della società punitiva: perché la sente un po’ come un suo prodotto, perché ne ha tessuto l’ideologia, compiendo uno sforzo epocale per spiegarla o renderla accettabile. Se peraltro ci rivolgiamo ad altre esperienze, non è dato riscontrare lo stesso rapporto fra accademia e legislazione, né la stessa sensibilità. In Italia, dopo l’esperienza del tecnicismo giuridico e del codice Rocco, la cultura accademica ha per lungo tempo fatto leva sulla Corte costituzionale, anziché sul Parlamento, per cercare di realizzare i « suoi » programmi di politica delle riforme. Ciò ha anche determinato lo sviluppo di una classe di studiosi spesso abbastanza critica nei confronti del legislatore. I buoni rapporti fra di essi dipendono dalla misura in cui il Parlamento o più spesso il Governo sanno « coinvolgere » rappresentanze dei docenti universitari nei progetti e nelle commissioni di riforma. Ma sia l’accademia coinvolta oppure no, essa rimane spesso sottodimensionata rispetto agli apporti della magistratura: i giuristi « ministeriali », infatti, cioè quelli che compongono uffici legislativi stabili del Ministero della Giustizia, sono composti da magistrati e, come già ricordato, la forza di pressione del potere giudiziario sull’esecutivo e sul Parlamento, è molto più consistente dell’autorevolezza di una classe accademica oggi in parte troppo impegnata nell’attività professionale dell’avvocatura, e in parte divisa in scuole « regionali » tra le quali i protagonismi individualistici o le rivalità concernenti il potere accademico-concorsuale prevalgono sul dia(44)
ARZT, Wissenschaftbedarf nach dem 6. StrRG, cit., 757 ss.
— 48 — logo scientifico che potrebbe unire risorse invero rappresentate da vari talenti di livello anche internazionale. Oltre a quanto ora detto, se si considera che il codice Rocco del 1930, anche se è il codice dell’Italia repubblicana più che dell’Italia fascista (avendo vissuto sotto la Repubblica più di due terzi della sua esistenza), è tuttora vigente nel suo impianto di fondo e si dimostra capace di sopravvivere, con qualche ulteriore ritocco, ancora a lungo, ben si comprende che in Italia la scienza penale non possa avere l’ardire di proclamare: « la riforma siamo noi »! Quando si parla dei rapporti fra scienza penale e politica, dunque, non si dovrebbero dimenticare gli aspetti di sociologia nazionale dei ruoli, che spiegano molto più di tante dotte monografie (45). D’altra parte, le politiche criminali « reali » seguono itinerari lontanissimi dalle elaborazioni scientifiche, e quando dagli Stati Uniti all’Inghilterra di Blair, alla Francia di Chirac sino ad altri Paesi mediterranei, soffia il vento della « zero tolerance », è evidente a ogni persona di buon senso come non sia l’apporto della scienza giuridica la ragione d’essere delle riforme (46). La scienza, peraltro, non può continuare a legittimare l’esistente se viene regolarmente ignorata dal legislatore, e altresì quando esiste (come in Italia) una norma di legge che ancora oggi vieta ai giudici di citare opere dottrinali nelle motivazioni delle sentenze (47). Nei tempi più recenti, comunque, si assiste da noi a un recupero del coinvolgimento della classe accademica a livello legislativo, ma nel contesto di un contributo « bilanciato » con le rappresentanze della classe forense e della magistratura: anche questo, se si vuole, è un esempio, se non sempre di democrazia, comunque di diplomazia penale. Una caratteristica peraltro molto spiccata della scienza penale italiana degli ultimi trent’anni (ma già molto diffusa nell’Ottocento), che la contraddistingue da tante altre sue parenti europee e non, è il metodo comparato. Ciò la riabilita fortemente in contesto internazionale, unitamente alla vocazione critica che mediamente mi pare un po’ più spiccata di quanto sia dato registrare in altri contesti nazionali. Vediamo di accennare brevemente a questi profili, il cui interesse metodologico, a mio avviso, deve integrare « sociologicamente » altri tipi di riflessione astratta. (45) Per una riflessione molto istruttiva sui rapporti fra scienza penale e legislazione in Italia, PALAZZO, Diritto penale, in Giuristi e legislatori. Pensiero giuridico e innovazione legislativa nel processo di produzione del diritto. Atti del Convegno di Firenze, 26-28 settembre 1996, Giuffrè, Milano, 1997, 311 ss. (46) Un interessante affresco internazionale di queste recenti tendenze in WACQUANT, Les prisons de la misère (1999), trad. it., Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, Feltrinelli, Milano, 2000. (47) Si tratta dell’art. 118, comma 3, delle Disposizioni di attuazione del codice di procedura civile (« In ogni caso deve essere omessa ogni citazione di autori giuridici »).
— 49 — 7. La dimensione internazionale dei principi e la necessità che la comparazione diventi « metodo della dogmatica », non solo disciplina autonoma a scopi meramente conoscitivi. Comparazione e lavoro d’équipe. — Una scienza solo nazionale è sempre stata, a mio avviso, una contraddizione in termini, o meglio l’equivoco di un provincialismo nazionalista o di un giusrazionalismo apodittico da esportazione. Il solo fatto di allargare l’orizzonte dell’oggetto della scienza penale oltre il diritto come norma, il solo fatto che comunque il diritto come norma sia costituito anche da principi costituzionali, internazionali, dai diritti dell’uomo, i quali hanno dimensioni europee ed extraeuropee, il solo fatto che la legislazione nazionale sia progressivamente « occupata » da norme la cui reale politica del diritto è maturata nell’Unione Europea, e non nei Parlamenti nazionali, impone oggi a tutti una apertura internazionale e comparata alle scienze giuridiche dei singoli paesi. A ciò consegue anche, necessariamente, una relativizzazione dei punti di vista autarchici delle scienze nazionali della tradizione (48). È quindi un’esigenza che non appartiene più alla cerchia delle scuole che hanno deciso singolarmente di operare secondo un metodo comparato, ovvero circoscritta ai paesi che ritengono di avere « qualcosa da imparare » da altre esperienze che appaiono « più progredite » o « interessanti ». Per es., appare sempre più palese che una « comparazione » con una sola esperienza straniera (per molti giuristi italiani e spagnoli ciò ha significato, nel Novecento, un « monologo » costante con gli Autori di lingua tedesca), anziché comparazione, rischia di diventare una assimilazione di un’altra cultura. Ciò che può svolgere o avere temporaneamente svolto, in passato, una funzione positiva, senza peraltro rappresentare un « metodo » ripetibile indefinitamente: né un metodo della scienza, né tanto meno della democrazia. La tradizione italiana della dogmatica comparata (non solo con la Germania, ma anche con la Francia, per es., e oggi anche con i Paesi di lingua spagnola e di common law) è consolidata già nell’Ottocento, e viene molto prima dell’internazionalizzazione del diritto penale, proseguendo nel Novecento nonostante il (e soprattutto dopo la parentesi del) tecnicismo giuridico e la prima stagione, ancora abbastanza « autoctona », dell’approccio costituzionalistico. Anche per i paesi di lingua spagnola, del resto, basti solo ricordare nel Novecento l’opera monumentale di Jimènez de Asúa e un’assidua frequentazione della letteratura italiana e tedesca. È un po’ mancata l’interazione reciproca, soprattutto da parte della letteratura tedesca, che ha quasi solo esportato i suoi prodotti, salvo of(48) In tal senso, ora, v. anche PALAZZO/PAPA, Lezioni di diritto penale comparato, Giappichelli, Torino, 2000, 18 ss., e qui (cap. I) un’esposizione critica delle ragioni della ripresa del metodo comparato dopo la parentesi del tecnicismo giuridico in Italia.
— 50 — frire una messe davvero significativa di studi e indagini di estensione veramente mondiale attraverso il Max Planck Institut di Friburgo. Una messe di materiali tanto imponente quanto negletta dagli studi dogmatici dell’accademia tedesca (49). Rispetto al modello al quale penso non si tratta, peraltro, di comparazione solo come « scienza autonoma », descrittiva di istituti e legislazioni di altri Stati. La comparazione deve essere vista oggi come « metodo della dogmatica » (e si estende, a seconda dell’oggetto dell’indagine, a diversi Paesi, non a ordinamenti-modello) oltre che come metodo della teoria del reato e della politica del diritto: un requisito di scientificità della stessa scienza penale dogmatica (50). Lo sviluppo maturo di tale metodo implica l’esigenza che non sia lasciato all’iniziativa e alla conoscenza linguistica del singolo studioso: il lavoro di équipe appare sempre più come strumento indispensabile per una comparazione a largo raggio (51), contributo vero a un dialogo che sul piano politico esige condizioni di reciprocità. Da un lato, la comparazione con un solo paese è assimilazione, ovvero è specializzazione di un singolo studioso: mai il trend generazionale di tutta una nazione di ricercatori. Dall’altro, è patologico che questo movimento avvenga solo a senso unico, cioè che alcuni Paesi si confrontino sempre con altre esperienze, senza che esista un movimento reciproco in senso inverso. Anche l’orizzonte degli interessi comparati non può davvero circoscriversi, da parte (49) Su tale aspetto di isolamento nazionalistico, ma orientato molto all’esportazione, della scienza penalistica tedesca, che evidenziavo anche in DONINI, voce Teoria, cit., 240 s., nota 83, esistono nel frattempo contributi di notevole forza critica: ricordo in particolare FLETCHER, Die deutsche Strafrechtswissenschaft im Spiegel der Rechtsvergleichung, in ESER/HASSEMER/BURCKHARDT (Hrsg.), Die deutsche Strafrechtswissenschaft vor der Jahrtausendwende, Beck, München, 2000, 239 ss.; SCHUBARTH, Binnenstrafrechtsdogmatik und ihre Grenzen, in ZStW, 110, 1998, 827 ss.; ma cfr. anche KÜHL, Europäisierung der Strafrechtswissenschaft, in ZStW, 109, 1997, 777 ss.; PERRON, Sind die nationalen Grenzen des Strafrechts überwindbar?, in ZStW, 109, 1997, 281 ss., 296 ss.; JUNG, Grundfragen der Strafrechtsvergleichung, in Juristische Schulung, 1998, 1 ss. (50) Sul punto, anche per altri richiami, DONINI, voce Teoria del reato, cit., § 7. In questo studio ho sostenuto l’esigenza della comparazione (implicante « scambi » linguisticoconcettuali, non mere prese di conoscenza dei « diversi ») quale metodo della stessa dogmatica « nazionale ». Ravviso altresì una larga convergenza di vedute, sotto questo profilo, con la pregevole relazione scritta per questa sezione del presente Convegno, da MILITELLO, Dogmatica penale e politica criminale in prospettiva europea (dattiloscritto). (51) Esemplari le ricerche in équipe del Max Planck Institut für ausländisches und internationales Strafrecht und Kriminologie, di Friburgo in Brisgovia. Sul punto v. anche JESCHECK, Rechtsvergleichung im Max-Planck-Institut für ausländisches und internationales Strafrecht im Feriburg i. Br., in ZStW, 79, 1967, 128 ss. Sul piano del metodo, comunque, quelle ricerche si sono caratterizzate soprattutto per una finalità di conoscenza dei sistemi stranieri, rimanendo in uno splendido isolamento rispetto al costume accademico tedesco dei lavori dogmatici: non è mai stato elaborato o portato avanti un approccio comparato « dentro » alle dogmatiche nazionali, anche se il « Lehrbuch » di Jescheck, e oggi Jescheck/Weigend, è quello che più di ogni altro al mondo utilizza materiali stranieri.
— 51 — dei nostri Paesi (Spagna, Germania e Italia), a un’autoriflessione interna a una tradizione « dogmatica » a noi comune. Ritengo perciò importantissima un’apertura ai sistemi di common law (52). Si apre qui un tema che meriterebbe da solo molte riflessioni, alle quali è più abituata la scienza comparata di matrice civilistica, e che concerne l’oggetto, il metodo e gli scopi della comparazione (53). Non voglio (52) In questo mi permetto di dissentire da quanto affermato da Silva Sánchez nella bella relazione scritta in occasione di questo Convegno (SILVA SÁNCHEZ, Retos cientificos y retos políticos de la ciencia del Derecho penal, p. 10 ss. del dattiloscritto), là dove esprime scetticismo sulla possibilità di una comparazione fruttuosa con i sistemi penali di common law, per l’eccessiva diversità culturale e l’assenza di una « teoria del delito ». Un recente, esemplare contributo che attesta l’utilità della comparazione con quei Paesi, un’utilità che va ben oltre le passioni e i vizi della sistematica penale costruttiva, è ora offerto da CADOPPI, Il valore del precedente, cit., proprio con riguardo all’interrogativo che si pone Silva Sánchez (ibidem, p. 12-13) in merito alla maggior « seguridad y precisión » di un sistema di regole organizzato secondo una teoria, rispetto a un sistema più casistico. La risposta del lavoro di Cadoppi, al riguardo, che attiene a una visione della law in action, e non « in the books », pare di segno esattamente opposto a quella di Silva. Senza radicalizzare adesso il giudizio, mi preme solo segnalare l’estrema proficuità degli approfondimenti comparati anche in questo senso, che ci abituano davvero a relativizzare, e con ciò a contestualizzare meglio, il nostro metodo tradizionale. Va da sé che se si accettano le premesse qui accolte, riesce anche difficile postulare che il sistema di origine tedesca possa con sicurezza costituire « el fundamento de la gramática occidental del Derecho penal » (così sempre SILVA SÁNCEZ, Op. cit., p. 16 del dattiloscritto). A mio modo di vedere, trattandosi di un linguaggio e di una grammatica particolarmente articolati e complessi, occorre vagliare se una strategia intelligente del dialogo interculturale non consigli di partire da strutture concettuali e categorie più semplici (per es. elemento oggettivo/elemento soggettivo), oppure dai principi giuridico-costituzionali o di politica criminale più condivisi. La questione politica, comunque, mi pare ancora prevalente su quella sistematica. (53) Fra le ricerche penalistiche, ricordo in particolare (limitandomi al solo essenziale, oltre il quale, peraltro, non c’è moltissimo), oltre a Fletcher (nota 49), v. LISZT, Das « richtige Recht » in der Strafgesetzgebung, in ZStW, 26, 1906, 553 ss., anche in ZWEIKERT/PUTTFARKEN (Hrsg.), Rechtsvergleichung, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1978, 57 ss.; JESCHECK, Entwicklung, Aufgaben und Methoden der Strafrechtsvergleichung, Mohr, Tübingen, 1955; ID., Die Bedeutung der Rechtsvergleichung für die Strafrechtsreform, in Fest. Bockelmann, Beck, München, 1979, 133 ss.; PEDRAZZI, L’apporto della comparazione alle discipline penalistiche, in SACCO (a cura di), L’apporto della comparazione alla scienza giuridica, Giuffrè, Milano, 1980, 169 ss.; NUVOLONE, Il diritto comparato quale mezzo di ricerca nell’ambito della politica criminale, in Indice pen., 1980, 1 ss.; JESCHECK/KAISER (Hrsg.), Die Vergleichung als Methode der Strafrechtswissenschaft und der Kriminologie, Duncker & Humblot, Berlin, 1980; J. HALL, Comparative Criminal Law as Basic Research (1978), in ID., Law, Social Science and Criminal Theory, Fred B. Rothman & CO., Littelton, Colorado, 1982, 153 ss.; FLETCHER, Criminal Theory as an International Discipline, in ESER/FLETCHER (Hrsg.), Rechtfertigung und Entschuldigung. Rechtsvergleichende Perspektiven, II, Eigenverlag Max Planck Institut für ausländisches und internationales Strafrecht, Freiburg i.Br., 1988, 1595 ss.; PRADEL, Dorit pénal comparé, Dalloz, Paris, 1995; ESER, The Importance of Comparative Legal Research for the Development of Criminal Sciences, in BLAINPAIN (ed.), Law in Motion, Kluwer, The Hague, 1997, 492 ss., poi in lingua tedesca ID., Funktionen, Methoden und Grenzen der Strafrechtsvergelichung, in Fest. Kaiser, Duncker & Humblot, Berlin, 1998, Bd. II, 1499 ss.; FLETCHER, Comparative
— 52 — peraltro appesantire il mio discorso, perché c’è un solo concetto che intendo esprimere qui, in quanto mi sta a cuore più di ogni altro. Vale a dire l’esigenza che la comparazione non sia soltanto una disciplina autonoma che « conosce » il diverso da noi e lo « descrive » con categorie comprensibili al lettore, ma che sia anche un metodo di confronto e dialogo discorsivo (con un secundum comparationis via via mutevole a seconda dell’argomento e dell’oggetto, e con un tertium comparationis che funga da « medium » fra il primum e il secundum comparationis) comune al medesimo milieu culturale, non individuale o isolato a singoli pionieri o gruppi di qualche nazione economicamente (più) « debole »: altrimenti alcuni importano sempre, e altri esportano sempre. Questa esigenza, a mio avviso, sta diventando oggi molto forte nel contesto dell’unificazione giuridica europea, in vista anche di un ius criminale (o poenale) commune europeo. Mai come in questo momento storico si avverte la preoccupazione che le sedicenti armonizzazioni o unificazioni giuridiche europee non avvengano autoritativamente « dall’alto » (54). Anche in tale richiesta si esprime un’esigenza squisitamente democratica del rapporto fra diritto penale e politica. Non la ricerca del diritto penale « perfetto », ma la soluzione più democratica e scientifica al bisogno « relativistico » di un diritto penale comune muovendo dalla consapevolezza di talune insuperabili diversità e identità. Proprio la dimensione scientifica del sapere penalistico, al riguardo, può contribuire a un dialogo effettivo solo se è fondata sulla comparazione come metodo di informazione empirico-normativa sui sistemi con i quali si intende dialogare. Senza di essa, non potranno che riprodursi i nazionalismi palesi (una scienza provinciale che si impone con la ragione della forza) o i nazionalismi ammantati di giusrazionalismo (una scienza che tende a imporsi con la forza della ragione, ma in realtà vuole esportare i prodotti anche della propria razionalità culturale e linguistica nazionale, senza un’autentica volontà dialogica o discorsiva). Devo tuttavia confessare oggi ciò che qualche tempo fa non avrei avuto il coraggio o forse la lucidità di dire e di vedere. Se ora sembrano maturi i tempi per poter affermare l’importanza della comparazione per lo stesso metodo dogmatico del penalista, ciò non dipende dal fatto che l’inLaw as Subversive Discipline, in Am. Journal of Comparative Law, 1998, 683 ss.; TULKENS, Les systèmes de justice pénale comparé: de la diversité au rapprochement. Les politiques pénales et le comparativisme, in Nouvelles études pénales, 1998, 63 ss., via via con ampi richiami al dibattito extrapenalistico. (54) Una preoccupazione di questo tipo, per es., è bene espressa da HASSEMER, « Corpus Juris »: Auf dem Weg zu einem europäischen Strafrecht?, in KritV, 1999, 133 ss., con riferimento alla prima edizione del Corpus Juris. La seconda edizione (DELMAS-MARTY/VERVAELE, The Implementation of the Corpus Juris in the Member States, vol. I, Intersentia, Antwerp-Groningen-Oxford, 2000; voll. 2 e 3, ibidem, 2001), si sottrae, a mio avviso, a quelle critiche e riserve.
— 53 — ternazionalizzazione dei rapporti abbia consentito di « scoprire » una verità che esisteva o valeva anche prima, quando imperava il nazionalismo politico. Viceversa, è dipeso da una nuova politica criminale europea e internazionale il fatto che appaia indispensabile il dialogo fra culture e sistemi diversi e, con ciò, l’emergere della necessità (politica, scientifica e pratica) del metodo comparato: in vista, dunque, della lettura e applicazione di nuove fonti giuridiche di matrice comune o di comune destinazione. Un mutamento della politica criminale nazionale e internazionale, in definitiva, è il fattore scatenante del nuovo metodo (55). 8. La dimensione politica e « critica » dei principi e la necessaria democratizzazione della scienza. Dall’auctoritas dei vertici istituzionali all’autorità fondata su un sapere verificabile. Empiria e metodo penale. — Il lavoro in team, inoltre, se non potrà mai sostituire lo studio individuale, renderà inevitabile una maggiore dialogicità fra gli studiosi, una maggiore esigenza di comunicare su basi comuni, su concetti collaudati, anche su linguaggi meno personalizzati (fascino della ricerca individuale); imporrà il richiamo a stili di pensiero più attenti a dati quantitativi, statistici, empirici. In breve: aprirà il « metodo della scienza » alla discorsività del « metodo democratico » (56), alle sue procedure dialettiche nella costruzione del « sistema » come « opera collettiva » (57). Non perché il consenso disinformato della maggioranza, o una decisione « componitrice » di un qualche tribunale supremo (es. Sezioni Unite della Corte di Cassazione), possano imporsi alle acquisizioni scientifiche, ma perché queste ultime non avranno nessuna dimensione utile, nessun uditorio, nessun significato pratico reale, senza un destinatario del quale è necessario ottenere il consenso e dal quale ci si deve attendere e auspicare un controllo critico, non essendo egli più un suddito di precetti fondati sul principio di autorità. L’ancoraggio della scienza ai « principi » (e non solo alle categorie sistematiche, o alle norme ordinarie), ne esalta la vocazione critica, e non meramente « sistematizzatrice », allarga l’orizzonte dell’oggetto alla politica criminale, ma anche alla realtà che la politica intende governare. Non basta più l’autorevolezza di un consesso di studiosi o di giudici che siano (55) In questa considerazione è contenuta ogni più immediata e netta risposta alle tentazioni ontologizzanti: per un chiaro esempio in tal senso, nella più recente produzione, HIRSCH, Gibt es eine national unabhängige Strafrechtswissenschaft?, in Fest. Spendel, Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1992, 43 ss. (56) Per un chiaro richiamo all’importanza congiunta di comparazione e indagini empiriche nel metodo della codificazione (nazionale), MARINUCCI/DOLCINI, Note sul metodo della codificazione penale, in questa Rivista, 1992, 410 s. (57) Su questa immagine attuale del sistema penale (e giuridico in genere) mi sono soffermato in DONINI, Teoria del reato. Una introduzione, cit., 10 s.; ID., voce Teoria, cit., 297.
— 54 — « esperti di norme » o « esperti di valori »: la loro esperienza dovrà misurarsi con saperi verificabili e controllabili dai laici, perché il diritto penale — senza rinunciare ai valori — si è fatto strumento politico non della mera riaffermazione dei valori stessi, ma di un programma che guarda alle singole realtà sociali e umane disciplinate, all’output extrasistemico del suo intervento. Il diritto penale, si capisce, ha una funzione sicuramente simbolica (di riaffermazione di valori nella coscienza collettiva). Questa sua funzione è, anzi, quella più incontestabile. Ma chi resiste ad allargare il metodo (sia legislativo che interpretativo-applicativo) all’ingresso di maggiori conoscenze empiriche e di output, è in partenza persuaso che il diritto penale debba continuare a svolgere essenzialmente o esclusivamente quella funzione simbolica. L’approccio qui sostenuto, peraltro — ed è un aspetto delicatissimo, si capisce, di tutta la problematica — esige di configurare un ruolo diverso anche per chi « applica » il diritto, per una magistratura che dovrebbe conseguentemente attuare anche effettivi programmi di scopo, e non soltanto programmi condizionali (58). La stessa dimensione ermeneutica del diritto penale potrebbe risultare profondamente rivisitata dalla realizzazione conseguente di una simile prospettiva. *** Nel dibattito culturale contemporaneo, i penalisti arrivano sempre per ultimi. La funzione di « ultima barriera » che il diritto penale rappresenta, lo rende poco adatto a ruoli pionieristici. Proprio per questo, invece, il diritto penale è davvero il vero banco di prova per le teorizzazioni sul diritto « in generale », sull’interpretazione « in generale », sul ruolo della magistratura « in generale », ecc. che provengono spesso da aree filosofiche, ovvero privatistiche e costituzionalistiche. Chi coltiva la nostra materia ha il ruolo politico di collaudo della buona o cattiva generalità di tante costruzioni sul diritto tout court: se l’orientamento alle conseguenze, il significato del precedente giudiziario, il ruolo della topica e della giurisprudenza come fonte del diritto, il rapporto fra principi e regole, l’importanza della logica « fuzzy », il valore costitutivo della comparazione per il metodo dogmatico, l’apertura alle scienze sociali e all’output delle soluzioni teoriche, si adattano anche al diritto penale, quelle teorizzazioni avranno davvero il significato paradigma(58) Per la tematizzazione di questi concetti, peraltro opponendosi all’orientamento alle conseguenze nell’ambito della dogmatica, LUHMANN, Rechtssystem und Rechtsdogmatik, Kohlhammer, Stuttgart, 1974, tr. it., Sistema giuridico e dogmatica giuridica, Il Mulino, Bologna, 1978, 61 ss., 78 ss., 96 ss.; con significative aperture, invece, MENGONI, Ermeneutica e dogmatica giuridica, cit., 91 ss.
— 55 — tico generale a cui ambiscono. Un grande compito ci attende, quindi, non di mera e preconcetta « conservazione ». Nel realizzarlo resta imprescindibile l’esigenza di interazione fra dimensioni metodologiche diverse, individualizzanti e generalizzanti (ante, § 3.0). Ma la sfida verso l’apertura a un incremento di sapere empirico controllabile passa sempre attraverso il suo prioritario ingresso in fase legislativa, e la sua verifica alla luce della dimensione decisoria e istituzionale del diritto: senza una legislazione fondata sull’empiria, il ruolo della scienza penale potrà essere critico, ma assai poco « esplicativo » di programmi di scopo senza conseguenze, per non averle il progetto legislativo neppure mai immaginate o potute conoscere. Se si condividono tutte queste premesse, non so se tutti noi potremo continuare a fare ricerca come abbiamo fatto fino a oggi. Neppure so se sia del tutto esatto quanto propongo. Se lo fosse, comunque, probabilmente avremmo fissato alcuni punti fermi non solo nella direzione della scienza, ma anche in quella della democrazia. Prof. MASSIMO DONINI Ordinario di diritto penale Università di Modena e Reggio Emilia
‘‘GIUSTO PROCESSO’’, CONTRADDITTORIO ED IRRIPETIBILITÀ DEGLI ATTI DI INDAGINE (*)
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. I caratteri dell’atto irripetibile. — 3. L’imprevedibilità dell’impossibile ripetizione. — 4. L’irripetibilità « accertata » ed « oggettiva ». — 5. La ricaduta dell’art. 111 Cost. sull’esegesi: le dichiarazioni dei prossimi congiunti. — 6. (segue): le dichiarazioni del teste irreperibile. — 7. L’art. 512-bis c.p.p. — 8. La circolazione delle dichiarazioni testimoniali tra procedimenti diversi. — 9. L’irripetibilità nell’art. 513 c.p.p.
1. Premessa. — La nuova formulazione dell’art. 111 Cost., inserendo nel dettato costituzionale il complesso di valori e princìpi comunemente riassunti nell’espressione ‘‘giusto processo’’ (1), ha aperto molti fronti interpretativi, non del tutto inediti (2), ma di certo oggi incandescenti, visto il rango della novella che ne sollecita la rivisitazione. La norma fondamentale, infatti, si limita a recuperare i capisaldi di (*) Mentre questo lavoro era in corso di stampa, veniva approvata la legge di attuazione del novellato art. 111 Cost., recante modifiche al codice di procedura penale. Il presente saggio, aggiornato all’agosto 2000, va riferito al testo della disciplina codicistica anteriore a detto provvedimento legislativo. (1) La locuzione richiama in via immediata la griglia di garanzie di cui all’art. 6 Conv. eur. dir. uomo (nel prosieguo detta anche ‘‘Convenzione di Roma’’), intitolato al « diritto ad un processo equo », che il legislatore costituzionale ha tenuto presente sin dall’ipotesi di riformulazione del testo fondamentale sul punto dovuta alla Commissione bicamerale per le riforme istituzionali (di seguito definita semplicemente ‘‘Commissione bicamerale’’): sul punto, v. Relazione on. Marco Boato, in Ind. pen., 1998, p. 312. Nella Relazione al Senato n. 3619 — A sul d.d.l. di riforma il riferimento al testo convenzionale veniva arricchito di richiami ulteriori, da quello alla Costituzione americana del 1791 a quello alla Convenzione americana sui diritti umani del 1969; ma il testo della Convenzione di Roma compare nella Relazione in passaggi densi di rinvii alle norme pattizie e all’esegesi che di esse offre la Corte europea dei diritti dell’uomo. Per le asperità semantiche della nozione di giusto processo, v. infra, nota 11. (2) Nella misura in cui l’art. 111 Cost. ricalca il testo degli artt. 6 Conv. eur. dir. uomo e 14 Patto int. dir. civ. pol., si pone in termini invariati il problema di verificare sino a dove con esso sia effettivamente compatibile il contenuto delle norme ordinarie. Si colloca invece su ben altro piano il tema del rapporto tra fonti di grado diverso: v. infra, note 4 e 5. L’innesto del contenuto degli strumenti internazionali nella Carta fondamentale potrebbe, peraltro, modificare il significato degli stessi precetti che il legislatore ha inteso recepire: il timore è avanzato da S. BARTOLE, Implicazioni costituzionali (e altro) nell’adozione del « giusto processo », in Studium iuris, 2000, n. 7-8, p. 754.
— 57 — un processo giusto, così come sono descritti nelle convenzioni internazionali sui diritti umani (artt. 6 Conv. eur. dir. uomo e 14 Patto int. dir. civ. pol.) (3), cui il nostro Paese avrebbe dovuto ritenersi da gran tempo vincolato (4), per collocarli saldamente al vertice della gerarchia delle fonti (5). Se, dunque, l’analisi delle tematiche oggi costituzionalizzate non (3) In giurisprudenza, il concetto di processo giusto è stato oggetto di richiami incerti, non frequenti e venati da differenti sfumature concettuali. Talora evocato come « principio » in sé (Corte cost. n. 290 del 1998; Corte cost. n. 346 del 1997) o degradato a mero oggetto di un « interesse pubblico » (Cass., 17 gennaio 1997, Battaggia, in Giust. pen., 1997, III, c. 321), dai contenuti affidati all’esegesi dottrinale (Cass., 19 dicembre 1996, Rachdi, in Cass. pen., 1997, p. 3108), è stato più spesso identificato con le previsioni costituzionali in materia processuale (Corte cost. n. 66 del 1997; Corte cost. n. 311 del 1997; Cass., 6 marzo 1995, Insana, in Cass. pen., 1996, p. 2252; Cass., 27 giugno 1995, Puddu, ivi, 1996, p. 3670; Cass., 3 luglio 1996, Casile, in Giust. pen., 1997, III, c. 535) e utilizzato per interpretarne la portata (Corte cost. n. 311 del 1997; Corte cost. n. 364 del 1997; Cass., 6 marzo 1995, Insana, cit.). A volte, peraltro, è stato chiaramente identificato con la congerie di parametri di garanzia indicati nell’art. 6 Conv. eur. dir. uomo (Cass., 17 dicembre 1981, Iaglietti, in Cass. pen., 1984, p. 1454; Cass., 27 ottobre 1984, Venditti, in Giust. pen., 1985, III, c. 601), adottati per integrare il contenuto delle norme codicistiche (Cass., 8 giugno 1983, Strobl, in Giur. it., 1984, II, c. 464, con nota di P. MOSCARINI) o, addirittura, per consentire una verifica in concreto sull’applicazione della legge processuale da parte del giudice di merito nel caso di specie (Cass., 5 marzo 1982, Di Cecca, in Riv. pen., 1983, p. 620; Cass., 27 ottobre 1984, Venditti, cit.). (4) Quanto meno al livello della legislazione ordinaria, per effetto degli ordini di esecuzione contenuti nella l. 4 agosto 1955 n. 848, quanto alla Convenzione europea, e nella l. 25 ottobre 1977 n. 881, per il Patto internazionale sui diritti civili e politici. Inoltre, il valore sovraordinato delle norme internazionali pattizie in materia di diritti umani è stato frequentemente e autorevolmente affermato in dottrina. Per un ampio quadro delle posizioni espresse, cfr. G. SORRENTI, La Corte sorregge il giudice a quo o piuttosto...se stessa? In tema di ‘‘copertura’’ costituzionale della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in Giur. cost., 1999, p. 2303 ss. (5) Si tratta di una scelta consapevole: le norme dell’art. 6 Conv. eur. dir. uomo erano ritenute dal legislatore « già vigenti nel nostro ordinamento »; tuttavia, la stessa Commissione bicamerale definiva « chiaro il significato che assume non solo in termini simbolici, ma anche come ricaduta sull’attività legislativa ordinaria e come parametro per il vaglio di costituzionalità delle disposizioni oggi vigenti, la costituzionalizzazione dei princìpi espressi dalla norma in esame » (Relazione, cit., p. 312 s.). Si è preso atto, insomma, della cronica resistenza della giurisprudenza costituzionale a rapportare i propri giudizi direttamente ai parametri della disciplina internazionale; di rado la Corte ha riconosciuto a quest’ultima rango superiore a quello delle previsioni codicistiche (costituisce un’anomalia Corte cost. n. 10 del 1993), rimaste normalmente immuni da censure che prendessero ad immediato riferimento i dettami del fair trial di fonte convenzionale (per un esempio della strategia esegetica privilegiata dalla Consulta, v. Corte cost. n. 168 del 1994). Sul punto, cfr. D. ALBERGHINI, A proposito di convenzioni internazionali e parametri di costituzionalità, in Giur. cost., 1999, p. 339 ss.; M. CHIAVARIO, Dichiarazioni a carico e contraddittorio tra l’intervento della Consulta e i progetti di riforma costituzionale, in Leg. pen., 1998, n. 4, p. 942 s.; G. ILLUMINATI, I principi generali del sistema processuale penale italiano, in Pol. dir., 1999, n. 2, p. 302 s.; G. SPANGHER, Rapporti tra processo penale e carta costituzionale, in Dir. pen. proc., 1998, p. 49; G. UBERTIS, Rilanciato il ‘‘giusto processo’’, ivi, 1996, p. 792 s.; ID., La previsione del giusto processo, ivi, 1998, p. 44; N. ZANON, Il dibattito sull’art. 513 c.p.p. nelle prospettive
— 58 — dovrebbe riservare troppe sorprese, essendo legata all’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale che ha preso a riferimento nel corso degli anni la normativa convenzionale, è nuova e pressante, invece, l’urgenza di vagliare le norme codicistiche immediatamente investite dalla novella, per misurarne il grado di resistenza e cercare di pronosticarne la sopravvivenza, la mutazione o la scomparsa. È il caso della disciplina processualpenalistica in tema di formazione dibattimentale della prova, visibilmente interessata dal ‘‘cuore’’ dell’art. 111 Cost., dedicato al « principio » del contraddittorio (6). È posta nel comma 3 la fondamentale premessa consistente nella facoltà di ogni accusato di interrogare o di far interrogare, davanti al giudice, le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, nonché di ottenere la convocazione e l’interrogatorio delle persone « a sua difesa » nelle stesse condizioni dell’accusa. La norma tenta persino di rafforzare la portata del concetto, aggiungendo alla clausola, tratta in toto dalla formulazione convenzionale (art. 6 comma 3 lett. d Conv. eur. dir. uomo), il diritto dell’accusato alla « acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore », nell’ottica di una rigorosa tutela del principio della parità delle armi, apprezzabile negli intenti, malgrado l’eco fastidiosamente ridondante (7), e la meticolosità foriera di equivoci (8). Ma è l’incipit del comma 4 ad avere il tono della proclamazione: « Il costituzionalistiche, ivi, 1999, p. 243. Sembra segnare una svolta, sia pure da prendere con le dovute cautele, Corte cost. n. 399 del 1998, che adotta, come tramite per immettere i parametri convenzionali tra quelli preposti alla verifica di legittimità delle leggi ordinarie, l’art. 10 Cost. (sul punto, v. G. SORRENTI, La Corte corregge il giudice a quo, cit., p. 2308 ss.). Per una breve sintesi del quadro giurisprudenziale di riferimento, v. supra, nota 3. (6) Nel passaggio si « riflette il metodo epistemologico oggi più accreditato per conseguire l’accertamento dei fatti e delle responsabilità » (V. GREVI, Dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, diritto al silenzio e garanzia del contraddittorio, in questa Rivista, 1999, p. 844). Proprio per questo, e malgrado l’apprezzamento per la formula « breve ma potente », si è notato che « sarebbe stato meglio parlare di metodo anziché di principio, proprio per sottolineare la forza epistemica del contraddittorio » (P. FERRUA, Rischio contraddizione sul neo-contraddittorio. Troppi dettagli nel « 111 », in Dir. e giust., 2000, p. 79). (7) P. FERRUA, Rischio contraddizione sul neo-contraddittorio, cit., p. 78 ritiene il diritto implicito già nel testo mutuato dalla Convenzione di Roma. (8) Si paventa che la clausola non si limiti a ribadire il rilievo della regola generale, ma che la ‘‘assolutizzi’’, consentendo l’acquisizione di prove a discarico al di fuori di qualsivoglia filtro di ammissibilità: v. M. CHIAVARIO, Dichiarazioni a carico, cit., p. 949; V. GREVI, Processo penale, « giusto processo » e revisione costituzionale, in Cass. pen., 1999, p. 3319; E. MARZADURI, Tutti i rischi legati all’attuazione dei principi, in Guida dir., 1999, n. 9, p. 40; contra G. CIANI, Le nuove disposizioni sul giudizio, in AA.VV., Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, a cura di F. Peroni, Cedam, 2000, p. 574 (con specifico riguardo all’art. 468 comma 2 c.p.p.); P. FERRUA, Rischio contraddizione sul neo-contraddittorio, cit., p. 78. Il punto è già stato oggetto di esame — con riferimento alla previgente disciplina fondamentale — da parte della Suprema Corte, secondo cui gli artt. 3, 24, 111 Cost., nel riconoscere all’imputato il diritto al ‘‘processo giusto’’, non sottraggono al giudice il potere-dovere di valutare preventivamente l’ammissibilità e la conferenza delle prove richieste
— 59 — processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova ». Sicché, « la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore ». Le possibili deroghe al principio sono riservate alla legge, che può ammetterle solo se fondate sul « consenso dell’imputato », su una « accertata impossibilità di natura oggettiva », su una mancata assunzione in contraddittorio dovuta a « provata condotta illecita ». 2. I caratteri dell’atto irripetibile. — La clausola costituzionale ha il pregio di identificare esplicitamente l’impossibilità oggettiva di realizzare il contraddittorio come una delle possibili ragioni per rinunciare alla formazione dialettica della prova. Viene finalmente chiarito che le norme ove si prende a riferimento l’irripetibilità, per giustificare l’inserimento nella base probatoria di elementi cognitivi provenienti dalle indagini, non costituiscono espressione di una regola generale (il cosiddetto « principio di non dispersione dei mezzi di prova ») (9), ma, al contrario, sono le traduzioni codicistiche di un’eccezione, ora costituzionalizzata accanto alla regola. La disciplina fondamentale, tuttavia, è sotto alcuni profili ambigua e, messa in relazione con la normativa ordinaria, potrebbe generare non pochi dubbi di legittimità, per quella parte dell’impianto legislativo in tema di prova che ruota attorno al concetto di impossibilità di ripetizione. In questo, come in altri passaggi dell’art. 111 Cost., la scelta del legislatore di affastellare nella norma fondamentale princìpi e regole (10), ha prodotto inevitabili scompensi: i princìpi sono particolarmente vaghi (si (Cass., 27 giugno 1995, Puddu, cit.); in argomento, v. altresì G. UBERTIS, Diritto alla prova nel processo penale e Corte europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. proc., 1994, p. 491 ss. (9) Sul ‘‘principio di non dispersione’’ e sugli equilibrismi logici che hanno condotto alla sua elaborazione v., fra i molti, O. DOMINIONI, Un nuovo idolum theatri: il principio di non dispersione probatoria, in questa Rivista, 1997, p. 736; ID., Oralità, contraddittorio e principio di non dispersione della prova, in AA.VV., Il giusto processo, Giuffrè, 1998, p. 79 ss.; G. ILLUMINATI, Principio di oralità e ideologie della Corte costituzionale nella motivazione della sent. n. 255 del 1992, in Giur. cost., 1992, p. 1973; P. FERRUA, Anamorfosi del processo accusatorio, in Studi sul processo penale, vol. II, Giappichelli, 1992, p. 157 ss.; ID., La sentenza costituzionale n. 255 del 1992: declino del processo accusatorio, in questa Rivista, 1992, p. 1460; nonché, in ordine a recenti manifestazioni giurisprudenziali di maggior cautela nell’applicazione dell’abusato ‘‘principio’’, A. GIARDA, I Giudici della Consulta recuperano qualche carattere del sistema accusatorio, in questa Rivista, 1999, p. 1452; G. INZERILLO, Sui limiti all’utilizzabilità di dichiarazioni autoindizianti rese in altro procedimento, in Giur. it., 2000, p. 1246. Malgrado la recente avversa fortuna, il ‘‘principio’’ non sembra del tutto scomparso dall’orizzonte ermeneutico, se viene ricordato — opportunamente — per spiegare alcune scelte di fondo della discussa disciplina transitoria in materia di ‘‘giusto processo’’ (v. C. URCIUOLI, Solo l’attuazione ’’ordinaria’’ della riforma può rimuovere il disorientamento interpretativo, in Guida dir., 2000, n. 13, p. 79). (10) Cfr. P. FERRUA, Garanzie del giusto processo e riforma costituzionale, in Crit.
— 60 — pensi alla nozione stessa di ‘‘giusto processo’’ (11)) e talora ribaditi con eccessiva insistenza (12); le regole, non abbastanza puntuali per le necessità della prassi, sono troppo dettagliate per la rigidità di una carta costidir., 1998, n. 2-3, p. 168; V. GREVI, Processo penale, « giusto processo » e revisione costituzionale, cit., p. 3317. Quanto alla distinzione tra principi e regole, con specifico riguardo alle previsioni delle carte costituzionali, cfr. G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Einaudi, 1992, p. 147 ss., anche per indicazioni bibliografiche più complete. (11) Di solito l’espressione si riferisce al complesso di garanzie statuite dalla normativa internazionale, ed in particolare dall’art. 6 Conv. eur. dir. uomo, sotto la definizione di procès équitable; ma a tale, più agevole lettura possono aggiungersene altre, pure possibili. Innanzitutto, l’accezione del fair trial è proteiforme nella stessa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che fa leva sull’elasticità dei principi convenzionali per bilanciarne la portata nei singoli casi, ricostruendo la ‘‘forma’’ del modello processuale volta a volta con sfumature diverse: si pensi al contemperamento dei diritti dell’accusato con quelli della vittima o alla necessità di delineare i canoni di un giusto processo per il secondo grado di giudizio. Inoltre, nella giurisprudenza costituzionale la locuzione sta spesso ad indicare il corpus di norme della vigente Carta fondamentale dedicate al processo, sicché « giusto processo regolato dalla legge » potrebbe essere formula meramente ricognitiva, da riferire al rito penale così come l’ordinamento statuale lo costruisce, a prescindere dal richiamo a valori o norme di diversa fonte. All’opposto, l’eco giusnaturalistica dell’espressione evoca un insieme di valori non solo sovranazionali ma anche metagiuridici, di assai ardua delimitazione, ed il concetto di processo « giusto » sollecita persino valutazioni ‘‘politiche’’ sull’accettabilità delle decisioni, a seconda che scaturiscano da un modulo rituale corrispondente a quello attualmente voluto dal legislatore oppure no. Va rilevato, del resto, che il legislatore era consapevole dell’ampiezza semantica della locuzione, cui il relatore al Senato attribuiva « una ‘‘tessitura aperta’’, nel senso che non è esauribile tramite un’elencazione esaustiva di criteri congiuntamente definitori » (Relazione al Senato n. 3619 - A, cit., p. 1 s.). Non sorprende, dunque, che la petizione di principio che apre la previsione costituzionale sia stata ritenuta « declamatoria e, a ben vedere, tautologica » (E. MARZADURI, Tutti i rischi, cit., p. 39). Sulla nozione di ‘‘giusto processo’’, nelle varie accezioni e sfumature ed anche per ulteriori riferimenti bibliografici, cfr. M. CHIAVARIO, Dichiarazioni a carico e contraddittorio, cit., p. 946; ID., Oltre l’art. 513?, in Leg. pen., 1999, p. 544; P. DELLA VEDOVA, La garanzia del giusto processo nel giudizio avanti la Corte interamericana dei diritti umani, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1996, p. 571; A. ESER, Giustizia penale « a misura d’uomo », in questa Rivista, 1998, p. 1078 s.; V. ESPOSITO, Fair trial anglosassone, procès equitable europeo, processo giusto italiano, in Rass. studi penit., 1982, f.l, p. 24 ss.; P. FERRUA, Rischio contraddizione sul neocontraddittorio, cit., p. 5; V. GREVI, Processo penale e riforme costituzionali nel faticoso cammino della commissione bicamerale, in Pol. dir., 1998, n. 1, p. 130, A. SACCUCCI, L’art. 6 della Convenzione di Roma e l’applicazione delle garanzie del giusto processo ai giudizi d’impugnazione, in questa Rivista, 1999, p. 587 ss.; G. UBERTIS, La previsione del giusto processo, cit., p. 44 ss.; ID., Rilanciato il ‘‘giusto processo’’, cit., p. 791 ss.; nonché, per l’interessante sintesi della nozione di due process of law nell’elaborazione giurisprudenziale nordamericana, V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense, Giappichelli, 1987, p. 4 ss. (12) È parsa ridondante, ad esempio, la definizione del giudice come « terzo e imparziale » (P. FERRUA, Rischio contraddizione sul neo-contraddittorio, cit., p. 78; nonché F. CASTELLANO, Scelta una strada contraria all’esperienza, in Guida dir., 1999, n. 9. p. 52: contra P.P. RIVELLO, Testimone minacciato: così la prova non si forma, ibidem, p. 46). V. pure supra, nota 7.
— 61 — tuzionale (13) e irte di scogli per il giudizio di legittimità. La puntigliosa precisazione nella norma fondamentale di alcuni aspetti già presenti nella disciplina ordinaria induce, infatti, a domandarsi se i particolari omessi debbano considerarsi consapevolmente ignorati, non intendendosene costituzionalizzare la portata pur senza escluderne la legittimità, o se siano stati trascurati sul presupposto di una loro incompatibilità con la previsione di rango superiore. È, in parte, il caso dell’impossibilità di realizzare il contraddittorio, che delimita l’area di operatività di una categoria di eccezioni al principio costituzionalmente ammessa e nella quale si possono far confluire agevolmente sia l’art. 431, sia l’art. 512 c.p.p. (14). In entrambe le previsioni, l’impraticabile rinnovo nel confronto dibattimentale dell’omologo probatorio di un atto di indagine ne comporta il recupero, con piena dignità di prova, sin dalla formazione del fascicolo per il giudizio oppure, nel corso dell’istruzione, mediante lettura. La nozione codicistica di « atti non ripetibili » (art. 431 c.p.p.) e di « sopravvenuta impossibilità di ripetizione » (art. 512 c.p.p.), che vale ad assicurare valore di prova ad atti nati come interna corporis delle indagini, trova immediata corrispondenza in quella oggettiva irrealizzabilità del contraddittorio per la prova che costituisce parametro di legittimità di alcune sue possibili compressioni. La previsione fondamentale, peraltro, si avventura in alcune precisazioni che pongono l’esegesi su un terreno cedevole. L’impossibilità di attuare il contraddittorio, nell’art. 111 Cost., rende accettabile rinunciarvi nella misura in cui si tratti di un’impossibilità « accertata » e dovuta a fattori « di natura oggettiva », secondo una descrizione i cui estremi non combaciano perfettamente con i tratti salienti degli atti irripetibili idonei al recupero probatorio nell’impianto della legge ordinaria. Rispetto a que(13) F. CASTELLANO, Scelta una strada, cit., p. 51; M. CHIAVARIO, Dichiarazioni a carico e contraddittorio, cit., p. 948; V. GREVI, Processo penale, « giusto processo » e revisione costituzionale, cit., p. 3319; A. TRAPANI, Finalmente recepiti gli accordi internazionali, in Guida dir., 1999, n. 9, p. 52; contra D. BONFIETTI-G. CALVI-G. RUSSO-S. SENESE, Inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione, in Quest. giust., 2000, n. 1, p. 72 s. Già in ordine alla cosiddetta ‘‘bozza Boato’’, la dottrina aveva rilevato con preoccupazione la tendenza del legislatore a un’esasperata analiticità delle norme costituzionali di cui si proponeva l’introduzione: cfr. L. PEPINO, La posta in gioco e un primo sguardo d’insieme, in AA.VV., Giustizia e bicamerale, in Quest. giust., 1997, n. 3, f.sp., p. 510; S. RODOTÀ, Prefazione, ibidem, p. VIII. (14) Cfr. E. MARZADURI, Tutti i rischi, cit., p. 40 (ove, peraltro, si invita il legislatore alla prudenza nel disciplinare l’acquisizione di atti unilaterali); P.P. RIVELLO, Testimone minacciato, cit., p. 50; esprime un dubbio e la necessità di una verifica G. FRIGO, A fatica si fa largo la regola del contraddittorio, in Guida dir., 1999, n. 9, p. 57. Nell’art. 130, frutto dei lavori della Commissione bicamerale, non si faceva cenno alle deroghe al principio del contraddittorio, sollevando in dottrina perplessità (P. FERRUA, Garanzie del giusto processo, cit., p. 172) e timori per la possibile illegittimità di previsioni come l’art. 512 c.p.p., che ne implicano la limitazione (V. GREVI, Processo penale e riforme costituzionali, cit., p. 140 s.).
— 62 — sti, il disegno costituzionale presenta qualcosa in più e qualcosa in meno: la nozione di irripetibilità rinvenibile nella legge fondamentale presuppone la dimostrazione dell’effettiva impossibilità di realizzare il contraddittorio e la natura oggettiva delle sue cause, dati di cui non c’è traccia evidente nella trama del codice; mancano, invece, riferimenti ad altri fattori che, nella normativa ordinaria, influenzano in modo determinante l’utilizzabilità come prova degli atti irripetibili, quali le forme di documentazione (ad esempio, i « verbali » di cui all’art. 431 c.p.p.), i soggetti che hanno compiuto gli atti di indagine chiamati al recupero (il pubblico ministero e la polizia giudiziaria nell’art. 431 c.p.p., cui si aggiunge il giudice dell’udienza preliminare nell’art. 512 c.p.p.), l’imprevedibilità dei fattori impeditivi sopravvenuti (art. 512 c.p.p.), Ia stessa distinzione tra irripetibilità ex ante ed irripetibilità ex post (15). È possibile pensare, tuttavia, che l’impatto dell’innovazione all’art. 111 Cost. sulla struttura delle norme in esame possa essere sostanzialmente contenuto. Innanzitutto, non sembra rilevante (ed è perfino opportuno) che la previsione costituzionale eviti di addentrarsi sul terreno delle definizioni, sicché il semplice fatto che ammetta l’uso probatorio di conoscenze sorte al di fuori della dialettica tra le parti, in presenza dell’impossibilità di assicurarla, è sufficiente a garantire legittimità alle norme che si fondino su tale circostanza, comunque si preferisca qualificarla. L’art. 111 Cost. non precisa se debba trattarsi di impossibilità accidentale o congenita, purché si tratti di impossibilità « accertata »; dunque, il momento cui farla risalire non influenza la legittimità costituzionale delle previsioni che vi fanno riferimento. Le ulteriori caratteristiche degli atti irripetibili indicate dal codice di rito penale ed ignorate, invece, dalla previsione costituzionale non sono per ciò solo destinate alla caducazione. La norma sovraordinata, nel sancire il fondamento costituzionalmente ammissibile delle possibili deroghe al contraddittorio, non preclude alla disciplina codicistica di stabilire quali debbano essere le fattezze ulteriori degli atti sfuggiti allo scontro tra gli antagonisti processuali e, ciono(15) Ormai consolidata in dottrina: tra i molti, v., pur con differenti sfumature terminologiche, F. CORDERO, Procedura penale, Giuffrè, 3a ed., 1995, p. 759; O. DOMINIONI, Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, in AA.VV., Il nuovo processo penale dalle indagini al dibattimento, Giuffrè, 1989, p. 78 s.; P. FERRUA, La formazione delle prove nel nuovo dibattimento: limiti all’oralità e al contraddittorio, in Pol. dir., 1989, p. 246; G. FRIGO, Commento all’art. 431 c.p.p., in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di M. CHIAVARIO, Utet, vol. IV, 1990, p. 723; A. GALATI, L’udienza preliminare, in AA.VV., Diritto processuale penale, vol. II, Giuffrè, 3o ed., 1999, p. 229; G. ILLUMINATI, Giudizio, in AA.VV., Compendio di procedura penale, Cedam, 2000, p. 660; G. LOZZI, Riflessioni sul nuovo processo penale, Giappichelli, 1990, p. 98, M. SCAPARONE, Indagini preliminari e udienza preliminare, in AA.VV., Compendio, cit., p. 514.
— 63 — nostante, utilizzabili come prova. La norma ordinaria che ne consenta il recupero non può, nel disegno costituzionale, esimersi dal presupposto che sia oggettivamente impossibile procurarne la formazione in contraddittorio, ma nulla vieta che contempli altri parametri aggiuntivi cui subordinare l’uso probatorio di atti a formazione unilaterale. Dal momento che il disposto costituzionale prevede una possibile regola eccettuativa al proclamato principio generale, devono ritenersi censurabili solo le disposizioni ordinarie che amplino la portata dell’eccezione, così vulnerando il principio, non quelle che, circoscrivendo l’eccezione, lo salvaguardino. Del resto, l’art. 111 Cost. affida alla legge ordinaria la determinazione non dei modi, ma dei « casi » nei quali è possibile l’assunzione di prove al di fuori del contraddittorio per impossibilità oggettiva, così implicitamente ammettendo che il legislatore possa avere margini di autonomia nella individuazione degli stessi presupposti cui condizionare tale evenienza, anche oltre quanto sancito nella clausola fondamentale. Semmai, si dovrebbe volta per volta verificare se i parametri ulteriori richiesti dalla disciplina ordinaria per il recupero degli atti irripetibili siano effettivamente legati alla preservazione del principio generale e non valgano, invece, ad aggirare i limiti costituzionali alla possibilità di derogarvi. Ma, in ordine agli artt. 431 e 512 c.p.p., il vaglio avrebbe esito positivo. Tanto i requisiti formali richiesti per gli atti irripetibili idonei all’acquisizione in giudizio, quanto la necessaria provenienza da soggetti processuali ‘‘qualificati’’ rispondono alla funzione di limitare l’area degli atti di indagine acquisibili; inoltre, soddisfano un’esigenza di completezza ed affidabilità delle conoscenze, coerentemente legata al minus di credibilità processuale da cui sono affette per essere nate in un contesto ‘‘monoprospettico’’. 3. L’imprevedibilità dell’impossibile ripetizione. — Appare più incerta la sorte dell’imprevedibilità, cui è subordinata la lettura degli atti colpiti da impossibile ripetizione ai sensi dell’art. 512 c.p.p. In tal caso, l’elemento aggiuntivo cui la lettura è subordinata vale a garantire, mediante un meccanismo lato sensu sanzionatorio (16), che le parti si attivino con il massimo sforzo ragionevolmente esigibile per procurare il contraddittorio, almeno nelle forme di cui agli artt. 392 ss. c.p.p. Il parametro, già in seria difficoltà di senso nell’ambito del sistema codicistico (17), (16) Sia consentito rinviare, sul punto, a C. CESARI, L’irripetibilità sopravvenuta degli atti di indagine, Giuffrè, 1999, p. 188 s., spec. nota 119, in ordine alle ambiguità del profilo ‘‘etico’’ evocato dal parametro in esame. (17) Il criterio dell’imprevedibilità ha preso a mostrare segni di cedimento quando l’incidente probatorio ha cominciato a perdere il carattere di istituto deputato all’assunzione anticipata della prova indifferibile: prescinde dalla non rinviabilità della prova al dibattimento l’acquisizione in tale sede sia della testimonianza del minore di sedici anni nei proce-
— 64 — mostra ora alcune dissonanze rispetto alle opzioni dello stesso art. 111 Cost. novellato. La previsione fondamentale prende in considerazione una sola ipotesi in cui il fatto umano influisce sull’espletamento del contraddittorio, consentendo di prescinderne: la condotta illecita. La norma non ha dunque ignorato il rilievo che può avere un atteggiamento soggettivo nella costituzione del contraddittorio, ma ne ha isolato un’ipotesi tipica, capace di influenzare il grado di credibilità delle cognizioni raccolte nel corso del procedimento e, di conseguenza, il relativo rango probatorio. Va stabilito se tale scelta vieti, implicitamente, al legislatore ordinario di adottare la condotta delle parti come criterio regolatore di deroghe al contraddittorio, fuori del caso previsto dalla norma fondamentale. Anche per questo aspetto, però, non sembra che la previsione costituzionale sia idonea a compromettere la normativa ordinaria vigente. Il criterio dell’imprevedibilità, che presiede al recupero degli atti irripetibili ex art. 512 c.p.p., certo non è costituzionalmente imposto, ma non entra in diretto conflitto con la disciplina fondamentale per il solo fatto di non esservi contemplato (18). Costituisce una porzione interna all’ingranaggio dell’art. 512 c.p.p., diretta a potenziare la capacità espansiva del contraddittorio, sollecitando le parti ad attivarsi in tempo per procurarlo. Come gli altri presupposti ulteriori richiesti dalla legge per il ripescaggio degli atti non formati in contraddittorio, vale a contenerne al massimo le ipotesi dimenti per reati ‘‘sessuali’’ (art. 392 comma 1-bis c.p.p.), sia dell’esame della persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti l’altrui responsabilità e delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. (art. 392 comma 1 lett. c e d c.p.p.). Lo sfilacciarsi della nozione di indifferibilità come elemento fondante l’incidente probatorio si ripercuote sull’imprevedibilità che, specularmente, avrebbe dovuto sollecitare l’adozione dell’istituto per tutti i casi di prova a rischio di impossibile ripetizione. Inoltre, il progressivo ampliarsi dei canali di collegamento tra indagini preliminari e dibattimento, per il tramite delle letture, delle contestazioni, della testimonianza indiretta della polizia giudiziaria, non ha fatto che rendere meno solida la stessa ratio di protezione dell’incidente probatorio da manovre di aggiramento architettate dalle parti processuali, ormai sollecitate al compimento massiccio di atti unilaterali, cui sono stati aperti numerosi ed agevoli varchi all’uso dibattimentale. Attualmente, l’entrata in vigore della l. 16 dicembre 1999 n. 479, nello spostare chiaramente il baricentro dell’assunzione predibattimentale della prova nelle mani del giudice dell’udienza preliminare (artt. 421-bis e 422 c.p.p.), eclissa ulteriormente la funzione dell’incidente probatorio come luogo procedimentale di formazione della prova; senza contare il nuovo ruolo delle parti nel negoziare il contenuto del fascicolo dibattimentale, che sulla base dell’accordo dei contendenti potrà contenere anche atti di indagine di ‘‘origine’’ unilaterale (art. 431 comma 2 c.p.p.), con la conseguente, immaginabile disincentivazione all’esperimento di percorsi assai più accidentati, come l’incidente istruttorio. Per un efficace quadro riassuntivo dell’evoluzione dell’incidente probatorio, cfr. G. DI CHIARA, L’incidente probatorio tra « novella » del 1997 e successive turbolenze: la breccia delle dichiarazioni collaborative erga alios, in Giur. cost., 1999, p. 3786. (18) V. C. CONTI, Le due ‘‘anime’’ del contraddittorio nel nuovo art. 111 Cost., in Dir. pen. proc., 2000, p. 201; ma v. già V. GREVI, Dichiarazioni dell’imputato, cit., p. 846.
— 65 — di deroga, coerentemente con la natura di principio fondante del processo penale attualmente ad esso riconosciuta in Costituzione. Del resto, le ipotesi in cui l’imprevedibilità ex art. 512 c.p.p. e la condotta illecita ex art. 111 Cost. possono applicarsi allo stesso fatto umano, sono marginali e comunque pongono problemi risolvibili. Il criterio di cui all’art. 512 c.p.p si riferisce a un atteggiamento psicologico di parte; non si richiedono condotte specifiche e qualificate; il grado di rimproverabilità della mancata attivazione per il contraddittorio è indeterminato. La condotta illecita di cui all’art. 111 Cost. ha una necessaria componente materiale, può essere stata tenuta da chiunque (anche privo di specifica veste processuale), risponde ad una fattispecie determinata ed ha un preciso grado di rimproverabilità (19). L’interferenza tra i due parametri, dunque, potrebbe aversi nel solo caso in cui la condotta illecita di una parte producesse l’irripetibilità, ovviamente prevedibile per chi l’ha cagionata. In tal caso, l’art. 111 Cost. autorizzerebbe una norma che implicasse il recupero dell’atto sfuggito al contraddittorio; l’art. 512 c.p.p. precluderebbe la lettura richiesta dalla parte gravemente ‘‘sleale’’ (20), e la stessa parte avversa potrebbe non ottenerla, se fosse stata in condizione di prevedere l’illecito, attivandosi di conseguenza (si pensi alla possibilità offerta dall’art. 392 comma 1 lett. a c.p.p.). Ma, anche in questa evenienza, il contrasto fra i precetti è solo apparente: la norma costituzionale, in presenza di una condotta illecita volta a compromettere la dialettica processuale, permette il recupero di atti unilaterali, ma non lo impone, consentendo al legislatore ordinario di stabilirne limiti e condizioni. Fra questi (quando l’illecito produce l’irripetibilità della prova) si colloca l’imprevedibilità, legittima nella misura in cui restringe, a tutela del contraddittorio, l’area degli elementi probatori che (19) La condotta illecita cui si riferisce l’art. 111 Cost., tra l’altro, a differenza del parametro dell’imprevedibilità, non sembra semplicemente ispirata ad una regola di fairness processuale, operando piuttosto sulla consistenza della prova che attraverso l’illecito è stata ‘‘aggredita’’: ad essa attribuisce un diverso peso in virtù del valore ‘‘indiziario’’ del comportamento che ne ha precluso il formarsi in contraddittorio. È logico, ad esempio, che le sommarie informazioni assunte in corso di indagine acquistino maggior peso, se il teste che le ha rese viene ucciso per impedire che ripeta le proprie dichiarazioni in giudizio, secondo una trama logica già visibile, del resto, nel meccanismo contemplato dall’art. 500 comma 5 c.p.p. (nei limiti in cui si riferisce alle pressioni illecite sul testimone). Tuttavia, il nesso tra l’illecito e la credibilità della prova è solo tendenziale, perché non si può ritenere che sempre la condotta illecita volta ad evitare l’assunzione della prova in contraddittorio ne testimoni, in concreto, un più alto tasso di veridicità: si faccia il caso delle minacce rivolte ad un teste che si sa calunnioso, mendace, interessato; la valenza probatoria assegnata alle sue dichiarazioni preprocessuali varrebbe più come sanzione per l’illecito perpetrato, che come riconoscimento della maggiore credibilità della fonte. (20) Cfr. Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale, Cedam, vol. IV, 1990, p. 1149.
— 66 — possono sottrarvisi, incentivando l’accesso all’incidente probatorio e tentando di preservare coerenza all’ingranaggio processuale fondato sulla combinazione tra art. 512 ed artt. 392 ss. c.p.p. (21). 4. L’irripetibilità « accertata » ed « oggettiva ». — L’impossibilità di realizzare il contraddittorio per la prova che consente il recupero di elementi unilateralmente formati deve essere, secondo il dettato costituzionale, « accertata » e dovuta a fattori « di natura oggettiva ». La precisazione, introvabile nel lessico codicistico in materia di irripetibilità, non vale tuttavia a travolgere la relativa disciplina, trattandosi di elementi che vi si possono ritenere implicitamente previsti. La lettura per irripetibilità sopravvenuta postula un’impossibilità di ripetere l’atto sopraggiunta rispetto alla nascita del suo omologo di indagine e dovuta ad imprevedibili « fatti o circostanze » (art. 512 c.p.p.). Trattandosi di presupposti per la lettura, ossia per il ricorso ad una peculiare forma di acquisizione probatoria, essi sono oggetto di prova, come tutti i fatti da cui dipende l’applicazione di norme processuali (art. 187 comma 2 c.p.p.). L’irripetibilità accidentale deve da sempre considerarsi un dato da ‘‘accertare’’, prima di ogni altro requisito della lettura ex art. 512 c.p.p. Che, poi, l’irripetibilità debba considerarsi originata da ragioni oggettive, è desumibile dalla descrizione dei fattori che impediscono la ripetizione come « fatti o circostanze imprevedibili », formula cui sono riconducibili solo situazioni concrete e dati materiali suscettibili di giudizio prognostico. L’art. 431 lett. b, c e d c.p.p., nel consentire l’inserimento nel fascicolo per il dibattimento dei verbali degli atti non ripetibili compiuti dal (21) Quanto credibilmente, è altra questione. Se già l’imprevedibilità era un criterio consunto dall’evolversi della disciplina codicistica, l’art. 111 Cost. gli infligge il colpo di grazia, non tanto per una sopravvenuta illegittimità costituzionale del parametro, quanto per il definitivo sfumare della sua coerenza logica. Se, come appena ricordato, l’imprevedibilità è espediente inetto per la tenuta di un sistema processuale ormai profondamente alterato, sul piano dell’epistemologia che ispira il modello costituzionale di processo mostra serie inadeguatezze. Era già stato notato che, quando il contraddittorio diviene « rigoroso criterio discretivo per sceverare ciò che ha valore di prova da ciò che non lo ha, la prospettiva dovrebbe cambiare » e « la non addebitabilità del deficit dialettico al comportamento omissivo di una parte dovrebbe essere irrilevante ai fini dell’utilizzabilità dell’atto » (G. GIOSTRA, Ritorna la ‘‘cultura della prova’’ nel processo penale, in Gazz. giur., 1997, n. 43, p. 10 ss.). L’adozione del principio del contraddittorio a livello di normazione fondamentale rafforza simili perplessità, erodendo i già esigui margini di significato che il parametro poteva conservare in un sistema processuale non poco fluttuante. Per altre critiche all’imprevedibilità, sia pure con sfumature in parte diverse, v. P. DUBOLINO, Considerazioni di fondo e prospettive pratiche dopo gli ultimi interventi della Corte costituzionale e del legislatore nel codice di procedura penale, in Arch. n. proc. pen., 1992, p. 387; M. MADDALENA, La riforma dell’art. 513, la ricerca della verità e l’uguaglianza di trattamento, in Crit. pen., 1998, II, p. 35, nota 5.
— 67 — pubblico ministero, dalla polizia giudiziaria o acquisiti all’estero mediante rogatoria internazionale (22), non può, dal canto suo, che riferirsi ad una nozione ‘‘oggettiva’’ di impossibile ripetizione. La verifica di una irripetibilità per così dire ‘‘immutabile’’, che è nelle cose ed accompagna l’atto sin dal suo sorgere (23), è logicamente di carattere materiale, attenendo (22) L’art. 431 c.p.p. è stato di recente riformulato dalla l. 16 dicembre 1999 n. 479, fra l’altro alle lett. d e f, che prendono in esame, con alcune puntualizzazioni, il già previsto inserimento ab origine nel fascicolo per il dibattimento dei verbali degli atti assunti all’estero per rogatoria internazionale. Nella versione originaria della norma non si faceva cenno alle rogatorie, alle cui risultanze è stato assegnato un regime privilegiato con la modifica all’art. 431 lett. d c.p.p. dovuta all’art. 6 d.l. 8 giugno 1992 n. 306, conv. l. 7 agosto 1992 n. 356. La novella inserì tout court nel materiale destinato al fascicolo dibattimentale tutti i verbali degli atti compiuti per rogatoria, affiancandoli a quelli provenienti dall’incidente probatorio, senza peraltro esigere che presentassero caratteri di irripetibilità (come gli atti delle lett. b e c) o che fossero assunti in contraddittorio (come gli atti ex artt. 392 ss. c.p.p.). Sfuggiva, pertanto, la ratio della natura pienamente probatoria assegnata dalla norma a tali risultanze, ingiustificatamente convogliate innanzi al giudice dibattimentale, in mancanza dell’impossibilità di ripeterle e del necessario vaglio dialettico delle parti. Anzi, ciò che in passato poteva sollevare dubbi di legittimità sotto il profilo della ragionevolezza e del diritto di difesa, con l’entrata in vigore del riformato art. 111 Cost. sarebbe divenuto certamente illegittimo: gli atti assunti per rogatoria avrebbero costituito una deroga al contraddittorio non riconducibile alle eccezioni previste dal comma 5 della previsione costituzionale. Sulla previgente versione dell’art. 431 lett. d c.p.p. la dottrina manifestava posizioni assai critiche per le ricordate ragioni, talora proponendo esegesi correttive, volte a circoscrivere l’inserimento dei risultati delle rogatorie ai casi di irripetibilità o formazione dell’atto in contraddittorio: cfr. CONTE, Rogatoria internazionale all’estero ed acquisibilità al fascicolo del dibattimento, in Giust. pen., 1996, III, c. 735 s., G. FRIGO, La formazione della prova nel dibattimento: dal modello originario al modello deformato, in Giur. it., 1993, IV, c. 328; P.P. RIVELLO, Commento all’art. 6 d.l. 8 giugno 1992 n. 306), in Leg. pen., 1993, n. 1/2, p. 91; S. RAMAJOLI, Rogatoria all’estero e garanzie difensive, in Giust. pen., 1994, III, c. 341; E. ZURLI, Rogatorie all’estero e fascicolo per il dibattimento: osservazioni critiche, in Cass. pen., 1996, p. 1198 s.; nonché, più cautamente, C. ZAZA, Lo schema accusatorio del nuovo codice di procedura penale dopo la l. n. 356 del 1992, in Cass. pen., 1993, p. 743, secondo il quale gli atti assunti in sede di rogatoria sarebbero in sé caratterizzati da una « sostanziale non riproducibilità nel dibattimento », ritenuta unica ratio plausibile per il regime loro assegnato nel 1992. (23) L’impossibilità di ripetizione cui fa riferimento l’art. 431 lett. d c.p.p. deve ritenersi omogenea a quella già contemplata per gli atti direttamente compiuti dagli organi statuali, ossia deve presentare gli stessi caratteri della irripetibilità congenita che connota gli atti di indagine di cui alle lett. b e c (così anche A. SCELLA, La formazione in contraddittorio del fascicolo per il dibattimento, in AA.VV., Il processo penale, cit., p. 435). Già Cass., 4 giugno 1997, Finocchi, in Riv. pen., 1998, p. 1178, ha ritenuto passibili di inserimento nel fascicolo dibattimentale atti istruttori provenienti dall’estero, sia pure non assunti mediante rogatoria internazionale, purché irripetibili ex ante. Va appena osservato che non si fa cenno all’irripetibilità quanto ai verbali degli atti assunti per rogatoria con la garanzia dell’assistenza difensiva, ai sensi dell’art. 431 lett. f c.p.p.: la ragione dell’inserimento nel fascicolo per il giudizio di tali elementi dovrebbe essere, infatti, il pieno rispetto del contraddittorio. Peraltro, dal momento che la clausola si riferisce alla generica assistenza della difesa al compimento dell’atto e all’esercizio delle facoltà per essa previste dalla legge italiana, la rammentata ratio sorregge la norma solo nella misura in
— 68 — alle caratteristiche oggettive o dell’atto di indagine o della cosa, della persona, del luogo su cui incide ovvero delle interazioni tra l’uno e gli altri. Meno pacifico è che si tratti di un’impossibilità di ripetizione « accertata », adombrando una componente presuntiva in quel suo riferirsi ad intere categorie di atti di indagine, in ragione delle loro caratteristiche tipologiche. Sotto questo profilo, la norma costituzionale si riflette sull’esegesi della nozione di irripetibilità originaria e sui canoni del relativo accertamento: l’art. 431 c.p.p. va ritenuto legittimo nella misura in cui l’irripetibilità congenita di un atto costituisca il frutto di una verifica concreta. Il vaglio, quindi, sull’impossibilità di rinnovare l’atto di indagine sin dall’istante successivo alla sua conclusione deve essere affidato a un controllo caso per caso, come da sempre può dirsi in ordine ad atti che non siano necessariamente legati a situazioni oggettive esposte a modificazioni, quali le ispezioni o gli accertamenti di polizia. Il problema rischia di porsi in termini diversi per attività di indagine quali perquisizioni, intercettazioni o sequestri, il cui carattere ‘‘distruttivo’’ o ‘‘modificativo’’ di una situazione data è tipico delle operazioni in cui si concretano e per le quali la verifica dell’irripetibilità (24), sembra più vicina ai meccanismi presuntivi (25). Malgrado le apparenze, tuttavia, giudizi di questo tipo possono non ricondursi alle presunzioni, se si considera che i tratti essenziali dei mezzi di ricerca della prova (eccezion fatta per le ispezioni) sono tali da superare sempre indenni l’accertamento concui sia stato realizzato effettivamente il contraddittorio nella formazione della prova, come nell’incidente probatorio. Ma il disposto è suscettibile di un’esegesi molto più elastica. La norma, infatti, sembra riferirsi, per un verso, alla necessità di mettere il difensore comunque in grado di partecipare al compimento dell’atto (del quale dovrebbe quindi essergli dato preventivo avviso), e, per altro verso, all’obbligo di rispettarne le prerogative così come sono disegnate per i corrispondenti atti secondo l’ordinamento interno. Gli atti di indagine, quindi, ove assunti mediante rogatoria, potrebbero essere compiuti con l’assistenza del difensore, anche se non prevista dalla disciplina processuale italiana, ma senza che gli sia consentito interloquire, in conformità alla fisiologica natura ‘‘unilaterale’’ degli atti predibattimentali degli organi inquirenti. Si potrebbero inserire, così, nel fascicolo dibattimentale atti, come ad esempio le sommarie informazioni assunte per rogatoria, per i quali non vi è stata deminutio delle facoltà accordate dalla legge italiana alla difesa (non sono garantiti, neppure dal previo avviso che la disciplina della lett. f sembra presupporre in ogni caso), ma non si può certo parlare di effettivo contraddittorio. In tal modo, si consentirebbe il passaggio in giudizio di atti sostanzialmente a formazione unilaterale e ripetibili, con ripercussioni evidenti sulla compatibilità della norma con l’art. 111 Cost. In argomento cfr. F. CAPRIOLI, Commento agli artt. 25-26, in AA.VV., Il processo penale dopo la ‘‘legge Carotti’’ (II), in Dir. pen. e proc., 2000, p. 295; A. SCELLA, op. cit., p. 433 s. (24) Ad esito pacifico in dottrina e in giurisprudenza: v. C. CESARI, L’irripetibilità sopravvenuta, cit., p. 19, note 24-28. (25) Cfr. C. CESARI, L’irripetibilità sopravvenuta, cit., p. 107. La nozione di irripetibilità congenita, di cui all’art. 431 c.p.p., è stata descritta come una « metafora » (F. CORa DERO, Codice di procedura penale, Utet, 2 ed., 1992, p. 421), cui potrebbe ricondursi una serie definita di atti tipologicamente predeterminati.
— 69 — creto sull’irripetibilità: il loro carattere non rinnovabile è determinato dalle qualità ineliminabili delle attività in cui consistono, dalla manipolazione di luoghi, cose e persone, sino all’apprensione di cose o comunicazioni, che non possono essere riprodotti perché incidono immediatamente ed irreversibilmente sul proprio oggetto nello stesso istante in cui vengono compiuti. Il considerarli, dunque, atti non ripetibili ex ante può ritenersi frutto non di una presunzione, ma di un accertamento che, nei singoli casi, è sufficiente si traduca nel ravvisare nelle operazioni svolte i tratti tipici del mezzo di ricerca della prova esperito, di per sé inidoneo alla rinnovazione dibattimentale. 5. La ricaduta dell’art. 111 Cost. sull’esegesi: le dichiarazioni dei prossimi congiunti. — La novella costituzionale in materia di ‘‘giusto processo’’, malgrado non abbia un immediato impatto sulla struttura essenziale delle norme cardine in materia di irripetibilità, incide, però, in modo rilevante sulle scelte interpretative imposte da una materia tanto sfuggente. Un esempio è dato dalle dichiarazioni rese in corso di indagine dai prossimi congiunti dell’imputato che, citati come testimoni in giudizio, vi si avvalgano della facoltà di astensione di cui all’art. 199 c.p.p. La fattispecie, risolta a volte facendo ricorso al meccanismo della lettura degli atti per sopravvenuta irripetibilità ex art. 512 c.p.p. (26), appare ora radicalmente espunta dall’area dell’impossibilità di ripetizione (27). Secondo l’art. 111 comma 4 Cost., « la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore ». Il disposto va combinato con la clausola che ammette l’acquisizione di prove senza il conforto del contraddittorio, in presenza di una « accertata impossibilità di natura oggettiva ». La fonte che si avvalga di una facoltà di astensione o che, semplicemente, faccia in modo di non subìre l’esame della difesa in alcuna occasione procedimentale, è soltanto una fonte ‘‘occulta’’, nel limitato senso che non esce dal cono d’ombra di una collaborazione coperta (e processualmente non trasparente) con gli inquirenti, e perciò inficiata da un tasso di atten(26) Corte cost. n. 179 del 1994 ha ritenuto che l’astensione in giudizio di un prossimo congiunto che abbia accettato di rendere sommarie informazioni in fase di indagine integri un caso di sopravvenuta irripetibilità ai sensi dell’art. 512 c.p.p., comportando la leggibilità dibattimentale del verbale relativo. Contra Cass., 16 febbraio 1994, p.m. in c. Grandinetti, in Arch. n. proc. pen., 1995, p. 155; Cass., 30 novembre 1996, Mauro ed altri, in Dir. pen. proc., 1997, p. 158; Cass., 29 marzo 1999, Femia, in Giur. it., 2000, p. 134, con nota di C. CESARI, Tutela del ‘‘segreto familiare’’ e astensione tardiva dei prossimi congiunti, ibidem, p. 134; nonché C. CARINI, Facoltà di non rispondere dei prossimi congiunti e rispetto del contraddittorio, ibidem, p. 367, ai quali si rinvia per ulteriori indicazioni bibliografiche sul tema. (27) Cfr. V. GREVI, Dichiarazioni dell’imputato, cit., p. 847.
— 70 — dibilità nullo, ai fini di una decisione. L’impossibilità oggettiva di acquisire una prova in contraddittorio è, invece, un dato di fatto, non legato alle libere determinazioni di alcuno e, pertanto, neutro sul piano della valenza probatoria; la specificazione del fondamento materiale dell’impossibile costituzione del contraddittorio vale a chiarire che, per quanto una impossibilità di formare dialetticamente la prova si possa produrre anche all’esito di una scelta strategica del testimone, il verificarsi di questa ipotesi non rientrerebbe comunque tra le fattispecie di contraddittorio mancato che la Costituzione può tollerare. La disciplina costituzionale, dunque, si premura di contemplare separatamente le opzioni non collaborative volontarie e le ipotesi di oggettiva impossibilità di realizzare il contraddittorio. Se queste ultime costituiscono ragioni legittime di sottrazione della prova al vaglio dialettico delle parti, le prime vedono al contrario ribadito il principio generale (28), attraverso uno specifico caso di inutilizzabilità relativa (29). Non si può più dubitare, perciò, che l’irripetibilità debba essere sempre di natura oggettiva e che il mancato contraddittorio per la prova dovuto alle scelte volontarie di una fonte non sia rimediabile mediante il meccanismo delle letture ex art. 512 c.p.p. (30). Di fronte a simili ipotesi, (28) P. FERRUA, Rischio contraddizione sul neo-contraddittorio, cit., p. 79; per E. MARZADURI, Tutti i rischi, cit., p. 40, l’assunto « sembra ricompreso già nella regola generale ». Nella previsione si avverte distintamente la ratio politica della riforma, ultimo episodio del duello a distanza tra il legislatore — dedito di recente alla preservazione del contraddittorio — e la Consulta — dedita da tempo alla conservazione per il giudizio del maggior numero di elementi provenienti dalle indagini, in nome della ‘‘non dispersione’’ probatoria —. V., sul punto, oltre all’Autore appena citato, M. CHIAVARIO, Dichiarazioni a carico, cit., p. 942; V. GREVI, Processo penale, « giusto processo » e revisione costituzionale, cit., p. 3318; nonché, in termini che riassumono efficacemente toni e ragioni della contrapposizione tra diverse ‘‘ideologie’’ processuali, G. FRIGO, Solo con l’approvazione del giusto processo si evitano censure e interferenze inopportune, in Guida dir., 1999, n. 43, p. 14 ss.; M. MADDALENA, Modificare l’art. 111 della Costituzione vuol dire « fare spazio » all’irragionevolezza, ibidem, p. 16 ss. Per il dichiarato intento di superare le tesi espresse dalla Corte costituzionale al principio con la sentenza n. 255 del 1992 e, in fine, con la sentenza n. 361 del 1998, v. Relazione al Senato n. 3619 - A, cit., p. 4. (29) V. GREVI, Processo penale, « giusto processo » e revisione costituzionale, cit., p. 3321; nonché C. CONTI, Le due ‘‘anime’’, cit., p. 199. Per la difficoltà di qualificare la clausola costituzionale come regola legale di esclusione probatoria ovvero come criterio legale di valutazione, P. FERRUA, Rischio contraddizione sul neo-contraddittorio, cit., p. 80; la reputano regola di valutazione, P. MAGGIO-G. PIZIALI, « Giusto processo » e regime transitorio, in Dir. pen. proc., 2000, p. 503. (30) Per il discrimine tra irripetibilità e opzioni individuali del dichiarante, sotto il profilo delle scelte non collaborative dell’imputato, v. S. CARNEVALE, Dichiarazioni del coimputato. Diritto di difesa ed esigenze di non dispersione della prova: nuovo assetto di un difficile equilibrio, in Cass. pen., 1997, p. 3643; P. FELICIONI, L’utilizzabilità delle prove acquisite in altro procedimento penale: problema interpretativo o necessità di intervento legislativo, in Cass. pen., 1992, p. 1828; M. FERRAIOLI, Dubbi sull’acquisibilità delle dichiarazioni in precedenza rese dall’imputato (o coimputato) che rifiuti l’esame in dibattimento, in Giur.
— 71 — le dichiarazioni raccolte unilateralmente in fase di indagine potrebbero acquistare utilizzabilità piena solo per una delle situazioni eccettuative di cui all’art. 111 comma 5 Cost. (effettiva irripetibilità, consenso dell’imputato, condotta illecita che abbia sottratto la fonte al contraddittorio), in presenza di una norma ordinaria che, attenendosi al disposto costituzionale, desse loro rilievo. Attualmente, resta il fatto che un’interpretazione dell’art. 512 c.p.p. che consenta di leggere ed utilizzare come elemento a carico dichiarazioni rese agli inquirenti dal prossimo congiunto dell’imputato astenutosi dalla testimonianza in giudizio (31), sarebbe costituzionalmente illegittima. Non risulta più praticabile nemmeno un percorso alternativo che pure si poteva sino ad ora configurare: la deposizione, sulle dichiarazioni predibattimentali del congiunto silente in giudizio, dell’organo di polizia cost., 1992, p. 1958; F.M. GRIFANTINI, Utilizzabilità in dibattimento degli atti provenienti dalle fasi anteriori, in AA.VV., La prova nel dibattimento penale, Giappichelli, 1999, p. 162 e 164; S. MONDELLO, Interrogativi sulla compatibilità tra progetto e delega nella disciplina concernente le prove e il dibattimento, in Giust. pen., 1988, I, c. 375; M. NOBILI, Commento all’art. 513 c.p.p., in AA.VV., Commento, cit., vol. V, 1991, p. 437; A. SANNA, Il contributo dell’imputato in un diverso procedimento: forme acquisitive e garanzie di attendibilità, in questa Rivista, 1995, p. 506; A. SCELLA, Commento all’art. 1 l. 7 agosto 1997, in Leg. pen., 1998, p. 297; G. UBERTIS, (voce) Giudizio di primo grado (disciplina del) nel diritto processuale penale, in Dig. disc. pen., vol. V, 1991, p. 536. (31) La norma costituzionale fa riferimento alla sola ipotesi in cui il dichiarante si sia « sempre » sottratto all’interrogatorio della difesa, sicché si potrebbe porre il problema di un teste prossimo congiunto che, almeno una volta, magari in incidente probatorio o in udienza preliminare, si sia assoggettato all’escussione difensiva. Una successiva astensione dibattimentale — ferma restando la piena utilizzabilità dei verbali dell’incidente probatorio — potrebbe allora trovare rimedio (ammesso che lo si ritenga possibile, attraverso gli artt. 500, 512 o 195 c.p.p.) mediante il recupero dei verbali delle dichiarazioni rese in corso di indagine. La perentorietà dell’avverbio, in effetti, suscita non poche perplessità, giacché ci si può chiedere in quali limiti sia legittimo ammettere l’acquisizione probatoria di atti formati in corso di indagine, sul semplice presupposto di un’occasione precedente in cui alla difesa sia stato consentito escutere la fonte. Si pensi all’ipotesi in cui il dichiarante accetti il confronto con la difesa una volta e poi renda ulteriori dichiarazioni, in occasioni successive, al pubblico ministero: il recupero dei verbali formatisi in seguito consentirebbe l’ingresso in giudizio di elementi sui quali, di fatto, la verifica con la controparte non c’è mai stata, in contrasto con la ratio del disposto costituzionale. La clausola implicherebbe, in tal modo, che alla difesa debba essere offerta un’occasione almeno di confronto con il teste, da sfruttare sino in fondo e su tutte le conoscenze possibili delle quali sia depositario; se non tutte emergono, poi, dovrebbe subire gli effetti negativi di quanto il dichiarante ricordi in seguito, come se le fosse imputabile il non aver sondato totalmente la fonte. Ma le conseguenze di simile impostazione sarebbero di estrema gravità, specie ove si consideri il dato fisiologico delle dichiarazioni parziali, reiterate, centellinate, proprio nei procedimenti più delicati e nelle materie più complesse, in cui è impensabile che la memoria del testimone si svuoti in un’unica soluzione e nei quali, di frequente, l’episodicità della narrazione è voluta e calcolata (come è spesso il caso dei collaboranti di mafia). Sulla locuzione « sempre sottratto volontariamente » sono state espresse riserve sin dall’inizio, come risulta dal Parere della 2a Commissione permanente (Giustizia) nella Relazione al Senato n. 3619 - A, cit., p. 10, in cui si rilevava come l’espressione fosse « suscettibile di dare luogo ad equivoci interpretativi ».
— 72 — giudiziaria che le avesse raccolte (32). L’art. 195 c.p.p. consente, infatti, l’assunzione di due deposizioni parallele, quella del teste diretto e quella del teste de relato, ammettendone la coesistenza, salvo il caso estremo del mancato confronto sulla fonte diretta esplicitamente richiesto dalla parte interessata e negato dal giudice. Nella fattispecie in esame, la deposizione del verbalizzante sulle dichiarazioni rilasciate durante le indagini dal congiunto dell’accusato avrebbe potuto tenere luogo della testimonianza di quest’ultimo, ove questi, citato a deporre, si fosse poi astenuto: ne sarebbe seguita la piena utilizzabilità delle relative conoscenze. Simile operazione, ora, non potrebbe legittimamente approdare agli stessi esiti: nell’ipotesi in cui la deposizione de relato si riferisca a dichiarazioni sfuggite per scelta della fonte diretta alla verifica della difesa — fino all’astensione dall’esame testimoniale in dibattimento — essa incorrerebbe nel divieto relativo di uso processuale previsto dal dettato costituzionale e non potrebbe costituire base per una decisione di colpevolezza. L’art. 111 comma 4 Cost., infatti, nel riferirsi alle « dichiarazioni rese da chi per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio » della difesa, fa sicuro richiamo all’uso in giudizio di verbali preconfezionati, ma non esclude — vista la genericità del dettato — che il veicolo per il cui tramite esse vengono introdotte tra le cognizioni giudiziali sia non lo scritto che le documenta, ma un’altra deposizione che le riferisca. Ci si potrebbe orientare diversamente nel solo caso in cui la difesa dell’imputato non chieda affatto la citazione del prossimo congiunto in qualità di testimone diretto, dichiarandosi implicitamente soddisfatta dall’avvenuto contraddittorio sul teste ‘‘di seconda voce’’ (33). Simile comportamento integrerebbe, sia pure a posteriori, il consenso dell’imputato che offre fondamento legittimo alle deroghe al contraddittorio previste dalla legge ordinaria, ex art. 111 comma 5 Cost. (34). Del resto, in quest’ultima circostanza, non si potrebbe neppure affermare con certezza che (32) Si trattava dell’ultimo degli effetti, deleteri ma non sempre evitabili, di Corte cost. n. 24 del 1992, che dichiarò costituzionalmente illegittimo il comma 4 dell’art. 195 c.p.p., ove si vietava la deposizione degli organi di polizia giudiziaria « sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni ». Si è dichiarata contraria all’uso di tale percorso acquisitivo Cass., 29 marzo 1999, Femia, cit. (33) Fatta salva, ovviamente, l’ipotesi in cui ci si trovi di fronte ad una impossibilità oggettiva ed accertata di esaminare il teste diretto, ad esempio per morte o infermità, ai sensi dell’art. 195 comma 3 c.p. p. La deroga al principio del contraddittorio, in tal caso, è giustificata sulla scorta dell’irripetibilità della prova, anche in mancanza del consenso dell’accusato all’acquisizione. Simile conclusione, peraltro, non è scontata quanto all’irreperibilità della fonte immediata, circostanza per la quale sono proponibili le riflessioni svolte infra, par. 6. (34) La disciplina della testimonianza indiretta sarebbe divenuta costituzionalmente illegittima assai più radicalmente secondo V. GREVI, Processo penale, « giusto processo » e revisione costituzionale, cit., p. 3320, ove si ritiene censurabile l’art. 195 c.p.p. in ogni parte in cui consente l’acquisizione di dichiarazioni non verificate in contraddittorio.
— 73 — il testimone diretto si sia « sempre » volontariamente sottratto all’interrogatorio della difesa: se non viene citato, non è chiamato a scegliere tra l’astensione e l’assoggettamento all’escussione dibattimentale, e non si ha concretamente modo di verificare se l’intento di sfuggire al controesame sia una costante della sua condotta processuale, come sembra esigere l’operatività della preclusione di cui all’art. 111 comma 4 seconda parte Cost. (35). 6. (segue): le dichiarazioni del teste irreperibile. — Uno dei casi di irripetibilità sopravvenuta di una dichiarazione testimoniale può ravvisarsi nell’irreperibilità del teste, ossia nella oggettiva impossibilità di trovarlo e condurlo, anche coattivamente, in giudizio. L’ipotesi non è espressamente contemplata dall’art. 512 c.p.p., ma è agevole il raccordo tra questa previsione e l’art. 195 comma 3 c.p.p., là dove si ravvisa espressamente nell’irreperibilità del teste diretto un caso in cui è impossibile esaminarlo. Il testimone irreperibile è una fonte non suscettibile di esame dibattimentale, sicché, ove abbia reso dichiarazioni prima del giudizio, esse risultano idonee al recupero mediante lettura per sopravvenuta irripetibilità. Tale evenienza, attualmente, va riesaminata alla luce dell’art. 111 comma 4 Cost., che ne impone una sorta di sdoppiamento, in dipendenza delle ragioni che hanno determinato l’irreperibilità (36). Nell’affermare che la colpevolezza non può mai essere ritenuta sulla base di dichiarazioni rese da chi si sia sempre liberamente e volontariamente sottratto all’esame della difesa, la norma si presta a due diverse letture. Il richiamo alla « libera scelta », in particolare, può essere inteso come descrittivo di un complesso di fattispecie normative oppure di una serie di eventualità concrete. Si tratterebbe, nel primo caso, di un rinvio alle ipotesi in cui la fonte di una prova dichiarativa sia titolare di un diritto legalmente riconosciuto a sottrarsi all’esame (37); nel secondo, del riferimento a tutti i casi nei quali la fonte abbia scelto, in qualunque ma(35) Ma sono legittime le perplessità: v. supra, nota 31. (36) Il caso di irreperibilità assoluta è comunque riconducibile all’art. 111 comma 5 Cost., per F. CASTELLANO, Scelta una strada, cit., p. 51; E. MARZADURI, Tutti i rischi, cit., p. 40. Ritiene l’ipotesi dubbia A. TRAPANI, Finalmente recepiti, cit., p. 60. Colloca l’irreperibilità tra i casi di impossibile realizzazione del contraddittorio per cause indipendenti dalla volontà della fonte, V. GREVI, Dichiarazioni dell’imputato, cit., p. 846, specificando che diversa considerazione dovrebbero avere i casi di regolare citazione del teste, seguita dalla semplice omessa comparizione. (37) Si è addirittura affermato che la stessa previsione costituzionale assegnerebbe a soggetti come l’imputato dichiarante su fatto altrui « la titolarità di un vero e proprio diritto al silenzio » sulle dichiarazioni rese in re aliena, ponendo così « un ulteriore cospicuo vincolo ai futuri orientamenti del legislatore » (V. GREVI, Processo penale, « giusto processo » e revisione costituzionale, cit., p. 3321). I primi segnali giurisprudenziali, tuttavia, sono di segno opposto. Il Tribunale di Milano, con ordinanza 20 marzo 2000, in Guida dir., 2000, n. 13, p. 75, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 513 e dell’art. 210
— 74 — niera e a prescindere dalla legittimità della sua condotta, di evitare l’escussione della difesa. Dal momento che il testimone « ha l’obbligo di presentarsi al giudice », di attenersi alle sue prescrizioni, e « di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte » (art. 198 comma 1 c.p.p.), è titolare di un dovere di collaborazione che — fatte salve le ipotesi diverse, contemplate dalla legge — lo colloca nell’alveo della previsione costituzionale solo qualora si aderisca alla seconda delle tesi prospettate. In breve, se l’art. 111 Cost. rinvia alle sole evenienze normativamente contemplate di ‘‘diritto al silenzio’’, il teste che non ne goda non può vederselo applicare. Al contrario, la regola trova ampi spazi di operatività se fa riferimento alle possibili scelte non collaborative di qualunque dichiarante (38), sia o no legittimato a compierle. E questo sembra, peraltro, l’esito più convincente. La norma costituzionale si limita a constatare il possibile verificarsi di una situazione precisa: il caso di un dichiarante che, avendo rilasciato una deposizione contra reum, scelga poi, indipendentemente da qualunque forma di coazione (39), di sottrarsi alla verifica dell’« interrogatorio » della difesa. Per il legislatore, il dato è sufficiente a rendere inattendibili le conoscenze offerte dalla fonte ondivaga, sicché applica rigorosamente la norma generale e taccia di inutilizzabilità come prove a carico simili dichiarazioni: non solo non hanno affrontato il contraddittorio, ma ad esso sono state ‘‘dolosamente’’ sottratte e, a fortiori, restano non verificate e, in parte, giudizialmente sterili. La previsione fondamentale non fa cenno comma 4 c.p.p., « limitatamente alla previsione circa la facoltà di non rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri ». Mette conto osservare che il giudice remittente ha invocato tra l’altro, a sostegno dei propri assunti, l’art. 111 comma 4 Cost., che porrebbe « implicitamente » l’« obbligo giuridico di rispondere » per chi, dopo aver reso dichiarazioni in re aliena, « rifiuti di sottoporsi al contraddittorio per motivi diversi da quelli enunciati » dall’art. 111 comma 6 Cost. (38) Va appena osservato che la previsione costituzionale non autorizza a distinguere tra testimoni e coimputati o imputati in procedimento collegato o connesso, facendo riferimento genericamente alle dichiarazioni rese da « chi » si sia sempre volontariamente sottratto al confronto con l’accusato, a prescindere dal ruolo processuale che il dichiarante abbia rivestito. Il rilievo assegnato al contraddittorio come metodo di escussione meglio rispondente all’ottenimento di dichiarazioni veridiche non muta di segno, infatti, in dipendenza della posizione processuale della fonte di prova. Inoltre, l’art. 111 Cost. è condivisibilmente volto ad avvicinare il rito penale italiano agli standards europei in materia di garanzie processuali, cui è ignota la distinzione tra testimone e imputato che renda dichiarazioni sulla responsabilità di altri, sicché la garanzia di cui all’art. 6 § 3 lett. d Conv. eur. dir. uomo va ritenuta applicabile anche a chi non abbia assunto veste formale di testimone. La raggiunta omogeneità lessicale che associa i dichiaranti di qualsivoglia tipo nel medesimo regime di assunzione costituisce, anzi, un chiarimento del quale è stata apprezzata l’opportunità (M. CHIAVARIO, Dichiarazioni a carico, cit., p. 948). (39) Lo stesso relatore al Senato sul d.d.l. di modifica all’art. 111 Cost. precisava che l’espressione usata stava a descrivere semplicemente il compimento di una scelta non coartata da parte del dichiarante (v. Relazione al Senato n. 3619 - A, cit., p. 4).
— 75 — alla tutela eventualmente offerta dalla legge alla « libera scelta », né la ratio del disposto — volto a misurare l’impatto negativo del difetto di contraddittorio nel caso particolare in cui ad evitarlo sia la fonte di prova — sembra atteggiarsi diversamente in ragione della legittimità del silenzio (40). Il vulnus al contraddittorio, la ridotta verificabilità delle dichiarazioni e il conseguente minor grado di credibilità restano identici in presenza di un mutismo ‘‘legale’’ da parte del teste, come di un’illegittima fuga per evitare le responsabilità della deposizione in giudizio. Ciò comporta, però, che l’irreperibilità vada esplorata, quando si verifica, con un’accuratezza inedita. La norma costituzionale, infatti, sembra imporre la distinta considerazione dell’impossibilità di reperire il teste come dato oggettivo, per così dire ‘‘neutro’’, e quindi idoneo ad integrare l’irripetibilità sopravvenuta che consente la lettura ai sensi dell’art. 512 c.p.p., e come situazione prodotta da una scelta soggettiva, quel sottrarsi volontariamente all’esame della difesa che implica l’inutilizzabilità delle precedenti dichiarazioni per la condanna dell’imputato. Ne deriva che la lettura per irripetibilità sopravvenuta ai sensi dell’art. 512 c.p.p., quando sia fondata sull’impossibilità di reperire il testimone, possa incontrare uno specifico ostacolo: la prova che, alla base della scomparsa del dichiarante, stia proprio la scelta di evitare il confronto con l’imputato. In tal caso, l’utilizzabilità tout court delle precedenti dichiarazioni acquisite mediante lettura sarebbe esito costituzionalmente censurabile, giacché il dettato dell’art. 111 Cost. ne preclude l’uso contra reum: nella parte in cui lo consente, l’art. 512 c.p.p. risulterebbe illegittimo. In simile eventualità, peraltro, la norma codicistica potrebbe rientrare nei ranghi della legittimità costituzionale, solo ove consentisse di ottenere comunque la lettura, dimostrando che l’irreperibilità del testimone non è frutto di una scelta libera, ma di una deliberazione coartata, indotta dal comportamento illecito (41) di un terzo (42). (40) La norma è considerata fonte di un nuovo, incontrollabile ampliamento della discrezionalità affidata alla Consulta, considerata la difficoltà di attribuire un significato univoco all’espressione « sempre volontariamente sottratto » (P. FERRUA, Rischio contraddizione sul neo-contraddittorio, cit., p. 80 s.). (41) I casi di sottrazione all’esame « sotto minaccia » rientrano nell’art. 111 comma 5 Cost. per P. GIORDANO, L’incognita del « 192 » condiziona la riforma, in Guida dir., 1999, n. 9, p. 42. (42) Malgrado la clausola finale dell’art. 111 comma 5 Cost. non precisi a quale soggetto debba ascriversi la condotta illecita impeditiva del contraddittorio, si può ritenere che, in base al combinato disposto dei commi 5 e 4 ult. parte, non faccia comunque riferimento alla condotta della fonte. La « libera scelta » del dichiarante, infatti, non può determinare l’utilizzabilità probatoria delle sue stesse dichiarazioni precedenti, a prescindere dalla sua qualificabilità in termini di illecito. Una diversa interpretazione condurrebbe a risultati paradossali. Si pensi al teste reticente, che compaia in giudizio, ma non risponda alle domande,
— 76 — L’ipotesi del contraddittorio impossibile per effetto di un illecito è, infatti, rilevante proprio in rapporto ai casi in cui la preclusione a costituire il contraddittorio per la prova non sia riconducibile alla nozione rigorosa di accertata impossibilità oggettiva di realizzare il confronto dibattimentale fra le parti. Rispetto all’irripetibilità, essa occupa un’area distinta — il che spiega la sua autonoma previsione — e va posta in relazione alle evenienze nelle quali l’impossibilità di espletare il contraddittorio sia dovuta non a circostanze obiettive, ma ad opzioni individuali volontarie. Se le dichiarazioni di un testimone sfuggito al confronto con la difesa perdono logicamente credibilità come prove a carico, è comprensibile che riassumano piena efficacia, ove si dimostri che proprio l’imputato, ad esempio, ha provveduto a minacciare il teste per indurlo a far perdere le proprie tracce ed evitarne la deposizione (43), tenendo una consottraendosi volontariamente all’esame difensivo e commettendo un illecito. Il primo dato varrebbe a rendere inutilizzabili ai sensi dell’art. 111 comma 4 Cost. le dichiarazioni già rese senza contraddittorio; il secondo opererebbe in senso opposto, legittimandone l’eventuale recupero. Ma, in tal modo, si negherebbe la ratio della previsione di cui al comma 4, che mira a sottrarre all’arbitrio del dichiarante il peso probatorio del contributo che ha fornito al di fuori della dialettica tra le parti, così ribadendo il principio generale, al quale si deve dare massima espansione, circoscrivendo, semmai, le ricadute delle eccezioni. V. anche, sul punto, C. CONTI, Le due ‘‘anime’ del contraddittorio, cit. p. 201. (43) È vero che la prova di una simile condotta potrebbe rivelarsi concretamente difficoltosa (v. le riserve sul punto espresse da V. GREVI, Processo penale, ‘‘giusto processo’’ e revisione costituzionale, cit., p. 3320), ma non è impossibile (per un suggerimento in tal senso, v. G. GIOSTRA, Quale contraddittorio dopo la sentenza 361/98 della Corte costituzionale?, in Quest. giust., 1999, n. 2, p. 199). Del resto, la dimostrazione dell’illecito comportamento volto alla compromissione della prova non è ignota ad ordinamenti di provata tradizione accusatoria e segnati da una spiccata attenzione per le ragioni di efficienza del processo, come quello statunitense (cfr. S.P. HEYMANN, Il diritto al silenzio e la testimonianza dell’imputato, in Cass. pen., 1999, p. 797). Una seria insidia per il funzionamento della macchina processuale potrebbe, semmai, risiedere nella necessità che la condotta illecita di cui si fa menzione nella norma costituzionale sia « provata » (art. 111 comma 5 Cost.), ove si facesse leva sulla diversa sfumatura semantica rispetto all’« accertata » impossibilità di garantire il contraddittorio. Vi si potrebbe leggere, infatti, la traccia di una verifica più approfondita e, quindi, il vincolo a ritenere rilevanti ai suoi fini i soli comportamenti la cui illiceità sia stata già accertata in sede autonoma e in via definitiva. Ma non sembra che il dettato costituzionale obblighi il legislatore ordinario a tanto: la prova del comportamento illecito non deve differenziarsi qualitativamente dall’accertamento sull’irripetibilità o dal vaglio sul consenso dell’imputato. Essa può limitarsi ad una verifica incidentale, affidata all’organo giudicante e funzionale all’applicazione delle norme processuali che la adottino come presupposto, senza doversi necessariamente tradurre in una sentenza che, autonomamente, dichiari la sussistenza dell’illecito. Un simile meccanismo non sarebbe neppure nuovo, considerato che il codice di rito non subordina all’accertamento definitivo in separata sede la rilevanza processuale degli illeciti suscettibili di influenzare la prova, ammettendo che il giudice penale possa incidentalmente pronunciarsi sul tema e, se del caso, trasmettere gli atti al pubblico ministero per le sue determinazioni (artt. 2, 207, 241 c.p.p.). Inoltre, è in questo senso l’art. 1 comma 3 l. 25 febbraio 2000 n. 35, che, nel disciplinare l’applicazione dell’art. 111 Cost. ai procedimenti in corso, sancisce la piena valutabilità delle dichiarazioni rese durante le inda-
— 77 — dotta che — semmai — potrebbe rendere a maggior ragione attendibili le conoscenze di cui il teste è fonte (44). L’art. 512 c.p.p., dunque, ove ritenuto illegittimo nella parte in cui consente l’uso contra reum di dichiarazioni rese da chi si sia reso irreperibile per sottrarsi all’esame difensivo, andrebbe salvaguardato da una sorta di ‘‘riserva’’, che tenesse conto dell’eventuale condotta illecita volta a determinare l’irreperibilità del teste scomparso. Quando se ne desse dimostrazione, la lettura consentita dall’art. 512 c.p.p. tornerebbe ad essere fondata su una ratio costituzionalmente compatibile. 7. L’art. 512-bis c.p.p. — L’art. 111 Cost. si riflette anche sulle norme che, più o meno direttamente, sono fondate sul concetto di irripetibilità. In questa piccola galassia normativa occupa una posizione di spicco l’art. 512-bis c.p.p., dedicato alle « dichiarazioni rese da persona residente all’estero » (45). La norma, nella formulazione modificata dalla l. 16 dicembre 1999 n. 479, consente, a richiesta di parte, la lettura dei verbali di dichiarazioni rese da chi risieda fuori dal territorio nazionale, quando sia stato citato e non sia comparso e « solo nel caso in cui non ne sia assolutamente possibile l’esame dibattimentale ». La lettura, pur in presenza di tali presupposti, è disposta dal giudice « tenuto conto degli altri elementi di prova acquisiti ». La previsione originaria consentiva la lettura delle dichiarazioni predibattimentali dei soli cittadini residenti all’estero, in base al mero fatto che non fossero stati affatto citati o, quando citati, non fossero comparsi. Si trattava di una formulazione già discutibile (46), comunque destinata a cadere per illegittimità costituzionale (47), una volta entrato in vigore gini da chi si sia sottratto all’esame della difesa, ad una condizione: che risultino pressioni sulla fonte, « sulla base di elementi concreti, verificati in contraddittorio ». La norma « esclude che si debba attendere una sentenza definitiva sulla subornazione del dichiarante » (P. CORSO, La riforma costituzionale tra attuazione e normativa transitoria, in Dir. pen. proc., 2000, p. 345; v. anche P. MAGGIO-G. PIZIALI, « Giusto processo », cit., p. 503). Contra V. GREVI, Dichiarazioni dell’imputato, cit., p. 848; P.P. RIVELLO, Testimone minacciato, cit., p. 50, che ritengono necessario l’accertamento definitivo dell’illecito in sede propria. Fa invece riferimento alla necessità di un « microprocedimento incidentale » P. FERRUA, Il processo penale dopo la riforma dell’art. 111 della Costituzione, in Quest. giust., 2000, p. 58. A parere di C. CONTI, Le due ‘‘anime’’, cit., p. 202, è sufficiente che il giudice ritenga la sussistenza della condotta illecita « sulla base di indizi che conducano ad una tesi di ‘‘rilevante probabilità’’ e sempre che sul punto le parti siano state sentite in contraddittorio ». (44) Malgrado sembri questo il fondamento logico della previsione, si è già notato come non si tratti di una ricostruzione sempre appagante: v. supra, nota 19. (45) Per la travagliata nascita della previsione, ci si permette di rinviare a C. CESARI, L’irripetibilità sopravvenuta, cit., p. 503, nota 242. (46) Cfr., volendo, C. CESARI, L’irripetibilità sopravvenuta, cit., p. 503 ss. (47) Così V. GREVI, Processo penale, « giusto processo » e revisione costituzionale,
— 78 — l’art. 111 Cost. Se, infatti, le deroghe al principio del contraddittorio non possono che essere fondate sui parametri di cui al comma 5 della norma costituzionale, nessuno di essi era riconoscibile nell’art. 512-bis c.p.p. (48). Il disposto era concepito come mera clausola di ‘‘efficienza’’ ed ‘‘economia’’ processuali, che permettesse di evitare le asperità burocratiche delle rogatorie o i tempi lunghi della comparizione in giudizio dello straniero, conservando nel bagaglio cognitivo processuale le dichiarazioni già rese, a surrogato di una prova non tanto impossibile, quanto difficile (49). Nulla a che vedere, dunque, con la « accertata impossibilità di natura oggettiva » che, attualmente, può sostenere una legittima deroga al contraddittorio (50). Tuttavia, anche il testo di recente introdotto suscita qualche perplessità. La norma consente ora il recupero delle sole dichiarazioni rese da chi risieda all’estero e non possa essere esaminato in dibattimento, facendo discendere la conseguente deroga al contraddittorio da quella che sembra una irripetibilità assoluta, accertata ed oggettiva, apparentemente in linea con le prescrizioni costituzionali (51). Ciononostante, la previsione rimane poco chiara e in odore di illegittimità. cit., p. 3320; riteneva che la norma fosse da sottoporre a verifica G. FRIGO, A fatica si fa largo la regola del contraddittorio, cit., p. 54. Per il contrasto tra l’art. 512 bis c.p.p. e l’art. 6 §§ 1 e 3 lett. d Conv. eur. dir. uomo, v. Corte eur. dir. um., sez. II, 14 dicembre 1999, A.M. c. Italia, in Dir. pen. e proc., 2000, p. 383. (48) Non il consenso dell’imputato, non la condotta illecita di alcuno e nemmeno l’irripetibilità sopravvenuta. Quest’ultimo fattore, che è sembrato associare la previsione all’art. 512 c.p.p., non poteva infatti essere desunto né dall’omessa citazione del testimone (dimostrativa, semmai, di uno scarso interesse delle parti alla prova), né dalla mancata comparizione (che poteva dar conto di una ragionevole difficoltà di realizzare il contraddittorio, non certo dell’impossibilità di procurarlo, magari con uno sforzo diligente). Per il supposto legame con l’art. 512 c.p.p., v. Cass., 14 maggio 1994, Kukielka, in Cass. pen., 1995, p. 2590; M.M. MONACO, Brevi considerazioni sull’utilizzabilità dibattimentale delle dichiarazioni rese dal cittadino straniero residente all’estero, ivi, 1995, p. 2594; C. TAORMINA, Il processo di parti di fronte al nuovo regime delle contestazioni e delle letture dibattimentali, in Giust. pen., 1992, II, c. 460. (49) Cfr. G. GIOSTRA, Quale contraddittorio, cit., p. 198; G. ILLUMINATI, Giudizio, in AA.VV., Profili del nuovo codice di procedura penale, 4a ed., Cedam, 1996, p. 592. (50) Nel previgente testo dell’art. 512-bis c.p.p. poteva, al massimo, ravvisarsi una discutibile presunzione di irripetibilità, ma, poiché quell’« accertata » che compare nell’art. 111 Cost. vieta al legislatore ordinario recuperi probatori fondati su impossibilità solo presunte, la sopravvivenza dell’iniziale versione dell’articolo sarebbe stata comunque compromessa. Sull’irripetibilità presunta che sarebbe stata a base dell’art. 512- bis c.p.p., v. A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, Giuffrè, 6a ed., 1997, p. 107; A. BASSI, Alcune riflessioni in materia di atti irripetibili alla luce della novella n. 356/92, in Cass. pen., 1994, p. 2117; F.M. GRIFANTINI, Utilizzabilità in dibattimento, cit., p. 156. (51) Cfr. E. APRILE, Giudice unico e processo penale, Giuffrè, 2000, p. 236; G. CASARTELLI, Le innovazioni riguardanti il dibattimento, in AA.VV., Giudice unico e garanzie difensive, a cura di E. Amodio e N. Galantini, Giuffrè, 2000, p. 189; G. CIANI, Le nuove disposizioni, cit., p. 584; M. MANNUCCI, Brevi considerazioni sulle modifiche apportate al procedi-
— 79 — Se per « caso in cui non sia assolutamente possibile l’esame dibattimentale » si intende una forma di assoluta impossibilità oggettiva di formare la prova in contraddittorio fra le parti, non si vede perché i criteri di ammissione della lettura debbano essere diversi da quelli previsti per i casi ‘‘comuni’’ di irripetibilità sopravvenuta ex art. 512 c.p.p. In particolare, sembra ingiustificato l’obbligo per il giudicante di tenere conto « degli altri elementi di prova acquisiti » per stabilire l’ammissibilità dell’introduzione nel processo di conoscenze non verificate dallo scontro dialettico. Lo speciale parametro contemplato dall’art. 512-bis c.p.p., già fumoso nella formulazione originaria della norma (52), è attualmente ancora più incongruo. Nulla vieta al legislatore di introdurre limiti ulteriori, rispetto a quelli costituzionalmente contemplati, all’acquisizione di atti formati unilateralmente senza contraddittorio; ma si deve trattare di condizioni che, ove le eccezioni consentite abbiano il medesimo fondamento, siano idonee a circoscriverne la portata in misura corrispondente oppure rivelino specificità della fattispecie che ne giustifichino ragionevolmente il diverso trattamento. Nel caso in esame, la clausola che impone al giudicante di vagliare il complesso delle risultanze probatorie prima di ammettere la lettura, dovrebbe implicare, pure a fronte di un’irripetibilità oggettiva dell’atto (che consentirebbe l’acquisizione ai sensi del’art. 512 c.p.p.), la possibilità di respingere l’istanza volta a recuperarlo. In tal caso, però, bisognerebbe individuare la ratio di questa ulteriore barriera rispetto a quanto già previsto in materia di irripetibilità sopravvenuta, pena l’illegittimità costituzionale della norma per irragionevole disparità di trattamento di situazioni eguali. Anzi, ove si discutesse della lettura di dichiarazioni a discarico rese da persona residente all’estero e divenute irripetibili, si rischierebbe anche il contrasto della norma con quanto previsto dall’art. 111 comma 3 Cost., nella parte in cui attribuisce alla difesa il diritto di ottenere l’ammissione di tutte le « prove a favore »: ferma la rilevanza del verbale di cui viene domandata la lettura e posto che la deroga al contraddittorio sarebbe fondata sull’irripetibilità, risulterebbe illegittimo ogni limite che non trovasse chiara giustificazione in un principio diverso e di pari rango. Inoltre, la mancanza di un richiamo all’imprevedibilità, cruciale nell’art. 512 c.p.p., ma neutralizzata dal silenzio testuale nell’art. 512-bis mento penale dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479, in Cass. pen., 2000, p. 1504; P. MOROSINI, Commento agli artt. 41-43, in AA.VV., Il processo penale dopo la « legge Carotti », in Dir. pen. e proc., 2000, p. 412. (52) Offrono un quadro esauriente delle possibili interpretazioni sul punto: F.M. GRIFANTINI, Utilizzabilità in dibattimento, cit., p. 157; G. ILLUMINATI, Giudizio, cit., p. 592; A. NAPPI, Guida, cit., p. 435; nonché Cass., 7 gennaio 1993, Comisso, in Cass. pen., 1994, p. 2109. Con riguardo alla nuova formulazione della norma, v. G. CIANI, Le nuove disposizioni, cit., p. 585.
— 80 — c.p.p., implica che, a parità di condizioni di impossibile espletamento del contraddittorio, solo le dichiarazioni del testimone residente all’estero potrebbero essere recuperate malgrado le parti ne avessero previsto o potuto prevedere la dispersione. Di nuovo, il diverso trattamento di fattispecie materiali identiche e disciplinate da norme con il medesimo fondamento costituzionale, non sarebbe spiegabile. L’art. 512-bis c.p.p. recupererebbe margini di autonomia rispetto all’art. 512 c.p.p. (con conseguente elisione dei problemi di impari trattamento di casi analoghi), ove si tenesse conto che il riferimento letterale all’impossibilità di procurare « l’esame dibattimentale » del dichiarante che risieda all’estero non indica necessariamente l’impossibilità di ottenere il contraddittorio sulla prova. Basti pensare che quando il teste è malato e intrasportabile, è impossibile l’esame in sede dibattimentale, ma non il contraddittorio, che può essere ottenuto mediante rogatoria internazionale o avvalendosi (ove previsto e possibile) di escamotages tecnici, come il collegamento a distanza. In questo caso, limiti più stringenti all’acquisizione mediante lettura sarebbero giustificabili, alla luce del fatto che la prova non è assolutamente irripetibile, ma (come la norma implicava in passato) solo particolarmente difficile. Così interpretando, però, la previsione risulterebbe tuttora illegittima per contrasto con l’art. 111 comma 5 Cost., non trovando fondamento in alcuna delle deroghe costituzionalmente consentite al principio del contraddittorio. 8. La circolazione delle dichiarazioni testimoniali tra procedimenti diversi. — L’irripetibilità giustifica anche il vulnus al contraddittorio di cui all’art. 238 comma 3 c.p.p.: il transito di atti da un procedimento all’altro implica che le prove allogene sfuggano al confronto tra le parti in sede di formazione delle conoscenze giudiziali e, ciò malgrado, assumano rango cognitivo pieno in una serie di ipotesi che, per essere costituzionalmente accettabile, deve potersi ricondurre alle regole eccettuative contemplate nell’art. 111 comma 5 Cost. Di qui la piena legittimità dell’art. 238 comma 3 c.p.p., fondato sull’impossibilità, congenita o accidentale, di procurare il contraddittorio. Naturalmente, l’irripetibilità deve ritenersi della medesima natura che giustifica la lettura degli atti ai sensi degli artt. 431-511 e 512 c.p.p., non solo perché una diversa esegesi produrrebbe ingiustificabili discriminazioni (53), ma anche perché il fondamento di tali peculiari eccezioni al principio del contraddittorio riposa sulla medesima « accertata impossibilità di natura oggettiva » di garantirlo. (53) In generale, sull’esigenza di omogeneità tra gli atti utilizzabili come prova nel procedimento a quo e quelli suscettibili di migrare in procedimenti diversi, v. F. CORDERO, Procedura penale, Giuffrè, 5a ed., 2000, p. 750; A. NAPPI, Guida, cit., p. 401; C. SQUASSONI, Commento all’art. 238 c.p.p., in AA.VV., Commento, cit., vol. II, 1990, p. 661.
— 81 — Gli altri canali di travaso delle prove tra procedimenti distinti esulano, invece, dal parametro della impossibilità di costituire il contraddittorio e sono soltanto in parte costituzionalmente compatibili (54). È senz’altro in armonia con la legge fondamentale il comma 4, là dove contempla il recupero in diverso giudizio di prove all’uso delle quali l’accusato consenta: è uno dei casi « in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato » (art. 111 comma 5 Cost.). Si può dire lo stesso del comma 2-bis, che ammette l’acquisizione dei verbali di dichiarazioni rese dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. « nei confronti degli imputati i cui difensori hanno partecipato alla loro assunzione ». In tale evenienza, non vi è alcuna deroga al contraddittorio ex art. 111 Cost., dal momento che la norma fondamentale impone la formazione della prova nel contrasto tra le parti, senza far cenno alla necessità che il giudice che ‘‘arbitra’’ il confronto sia il medesimo chiamato alla decisione sulla res iudicanda (55). Al contrario, quando siano acquisiti verbali di prove diverse dalle dichiarazioni di soggetti ex art. 210 c.p.p., assunte nel dibattimento di un procedimento diverso (56), ai sensi dell’art. 238 comma 1 c.p.p., sfugge il fondamento costituzionale alla conseguente deroga al contraddittorio. Non c’è accertata impossibilità di costituirlo, manca il consenso dell’imputato, è assente ogni richiamo a comportamenti illeciti volti a impedire il confronto fra le parti sulla prova. Un correttivo potrebbe rinvenirsi nel comma 5, ove si tutela il diritto delle parti di ottenere l’esame delle persone le cui dichiarazioni sono state acquisite tramite i verbali. Ma la norma non è comunque esente da censure di illegittimità. (54) V. GREVI, Processo penale, « giusto processo » e revisione costituzionale, cit., p. 3320 ritiene illegittimo tout court il combinato disposto degli artt. 238 e 511-bis c.p.p., nella misura in cui rende possibile l’acquisizione di dichiarazioni rese in un diverso procedimento. (55) V. GREVI, Processo penale, « giusto processo » e revisione costituzionale, cit., p. 3322. È scomparso dall’attuale formulazione dell’art. 111 Cost. il richiamo ai principi dell’oralità e dell’immediatezza cui avrebbe dovuto ispirarsi ogni processo, secondo l’art. 130 del progetto della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali. Simile previsione avrebbe scardinato tutte le forme di assunzione della prova davanti a giudice diverso dall’organo chiamato alla decisione sul merito, incluso l’incidente probatorio. (56) Per le prove assunte in incidente probatorio, fornisce un’opportuna clausola di salvezza (dal punto di vista della legittimità della previsione), l’art. 403 comma 1-bis c.p.p.: quando si tratti di prove assunte in incidente probatorio, l’utilizzabilità delle medesime contro imputati la cui difesa non vi abbia partecipato è esclusa, di regola, sicché il principio del contradittorio è rispettato. È ammessa una sola eccezione, quanto agli imputati nei confronti dei quali siano emersi solo in seguito indizi di colpevolezza; l’uso della prova nei loro confronti va subordinato alla partecipazione effettiva al contraddittorio nell’incidente ovvero alla sopravvenuta impossibilità (da intendere come oggettiva ed accertata) di realizzarlo, una volta sopraggiunti gli indizi a carico. In tal caso, il contraddittorio viene garantito o è derogabile per impossibilità oggettiva di assicurarlo.
— 82 — Innanzitutto, si fa « salvo quanto previsto dall’art. 190-bis » c.p.p., sicché il diritto di ottenere la prova orale corrispondente al verbale acquisito rischia — nei procedimenti per i reati di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p. e per quelli lato sensu ‘‘sessuali’’ (quando sia richiesto l’esame di un infrasedicenne) — di essere compresso, quando il giudice non ritenga l’esame « assolutamente necessario ». Il più severo criterio di ammissione della prova orale (57), nella misura in cui, di fronte a un contraddittorio possibile, ne inibisce l’espletamento al di fuori delle ipotesi in cui la Costituzione lo consente, si pone con essa in contrasto (58). Quanto ai procedimenti ‘‘comuni’’, non sembra che la chance di chiedere l’esame della fonte personale ex art. 190 c.p.p. basti ad affermare la legittimità dell’art. 238 comma 1 c.p.p. Se l’imputato non domanda di esaminare il dichiarante, si può ritenere che abbia tacitamente consentito all’uso dei verbali recanti le dichiarazioni da quegli rilasciate in altro procedimento. Ove invece lo chiedesse, il rispetto del dettato costituzionale esigerebbe l’impossibilità di declinare l’istanza (ad esempio, allegando la superfluità dell’esame orale) e, a fronte del contraddittorio per la prova dichiarativa, l’immediata espunzione dal materiale processuale dei verbali precedentemente ammessi. L’alternativa, in altre parole, è secca nell’art. 111 Cost. e tale dovrebbe rimanere nel codice di rito: se l’imputato non consente alla deroga al contraddittorio (e il consenso non si può desumere dalla richiesta di esaminare il testimone, che ha significato opposto), essa non è ammissibile, né è permesso l’uso probatorio di elementi non verificati direttamente dalla difesa. (57) Il parametro è stato definito addirittura inintellegibile (F. CORDERO, Procedura, cit., p. 802) e comunque fonte di una discrezionalità discutibilmente ampia (P.P. RIVELLO, Commento all’art. 3 D.L. 8/6/1992, in Leg. pen., 1993, p. 55), al punto da integrare una sorta di « presunzione di superfluità » dell’escussione orale dei testimoni (G. VARRASO, Sub art. 190-bis c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, a cura di A. Giarda e G. Spangher, Ipsoa, 1997, p. 717), chiaramente in contrasto con la vocazione dialettica dell’art. 111 Cost. (58) E. MARZADURI, Tutti i rischi, cit., p. 40; nonché già V. GREVI, Processo penale e riforme costituzionali, cit., p. 140, in ordine al progetto di riforma della Commissione bicamerale; per la necessità di una verifica, G. FRIGO, A fatica si fa largo la regola del contraddittorio, cit., p. 57. Le perplessità sulla legittimità costituzionale dell’art. 190-bis c.p.p. erano comunque diffuse a prescindere dall’impianto delle nuove norme fondamentali: v. G. ILLUMIa NATI, I principi generali, cit., p. 313; A. NAPPI, Guida, cit., 3 ed., 1992, p. 66; P.P. RIVELLO, op. ult. cit., p. 54. Venivano altresì avanzate serie riserve sulla possibilità di armonizzare la previsione con il ‘‘giusto processo’’ come descritto negli artt. 6 Conv. eur. dir. uomo e 14 Patto int. dir. civ. pol. (v. P.P. RIVELLO, op. ult. cit., p. 53; G. UBERTIS, Diritto alla prova, cit., p. 502). Per una critica all’art. 190-bis c.p.p., nella visuale del principio del contraddittorio, v. A. GALATI, Le degenerazioni del maxiprocesso, in AA.VV., Il giusto processo, cit., p. 144; G. GIOSTRA, Il processo penale ‘‘contro’’ la criminalità organizzata, in AA.VV., Lotta alla criminalità organizzata: gli strumenti normativi, Giuffrè, 1995, p. 158 ss. Sembra non condividere l’allarme G. LOCATELLI, Il rebus della utilizzabilità dei verbali probatori di altri procedimenti, in Dir. pen. proc., 2000, p. 244, ritenendo che l’attuale versione dell’art. 238 c.p.p. comporti la « sostanziale abrogazione dell’art. 190-bis c.p.p. ».
— 83 — 9. L’irripetibilità nell’art. 513 c.p.p. — La disciplina dell’art. 513 c.p.p. è da sempre collegata con il concetto di irripetibilità in modo equivoco ed incerto, sotto l’egida del ‘‘principio’’ di non dispersione dei mezzi di prova. Agevolata da una visibile prossimità funzionale e sistematica tra l’art. 512 e l’art. 513 c.p.p., la Corte costituzionale li ha affratellati, considerando la norma in materia di dichiarazioni rese dall’imputato e da imputati in procedimenti connessi o collegati — insieme alla previsione in materia di ripetizione impossibile — una delle epifanie codicistiche di quel ‘‘superiore’’ interesse alla conservazione delle conoscenze processuali, brandendo il quale alterava vistosamente il sistema (59). Il vigente testo della disposizione, nato dalla legge 7 agosto 1997 n. 267, cerca però di tracciare una netta linea di confine tra le ipotesi che, nell’art. 513 c.p.p., sono effettivamente riconducibili all’impossibilità di ripetere la prova e quelle che, invece, non sono ad essa ispirate. La previsione che consente la lettura di dichiarazioni rese dall’imputato e da imputati in procedimenti connessi o collegati è articolata in due tranches distinte, di cui soltanto parte della seconda è chiaramente basata sulla nozione di irripetibilità. L’art. 513 comma 2 prima parte c.p.p. ammette la lettura delle dichiarazioni rese in fase predibattimentale dalle persone di cui all’art. 210 c.p.p., sul presupposto che non si possa ottenere la presenza del dichiarante in giudizio ovvero procedere all’esame in altro modo che garantisca il contraddittorio. Ad evitare fraintendimenti, la norma fa esplicitamente rinvio all’art. 512 c.p.p., così rendendo omogenee le due ipotesi di recupero probatorio di atti di indagine dovuto all’impossibilità di ripeterli. La clausola, simmetrica alla disposizione in materia di letture per sopravvenuta irripetibilità, ne condivide le sorti anche sul piano dei rapporti con la griglia costituzionale di garanzie processuali di cui all’art. 111 Cost., di cui costituisce puntuale traduzione in un’ipotesi particolare. L’impossibilità oggettiva ed accertata di realizzare il contraddittorio, che è fondamento legittimo di una categoria di possibili deroghe alla dialettica per la prova, giustifica la lettura ed il conseguente uso probatorio di dichiarazioni raccolte unilateralmente dagli inquirenti, anche da fonti in sé poco credibili, come i soggetti ex art. 210 c.p.p. Anzi, il parametro costituzionale impone una verifica dell’impossibilità di garantire il contraddittorio, che trova nel disposto in esame una ricaduta ancora più puntuale che nella norma generale in materia di letture per irripetibilità sopravvenuta: l’impossibilità deve essere, infatti, « accertata » (art. 111 Cost.) attraverso il vaglio di ogni percorso alternativo all’escussione dibattimentale (art. 513 comma 2 c.p.p.), sicché solo l’esito negativo di tale sforzo (‘‘pi(59)
Cfr. Corte cost. n. 254 e n. 476 del 1992.
— 84 — lotato’’ dal legislatore in un’esemplificazione puntigliosa dei rimedi possibili) consente di esperire l’acquisizione mediante lettura. Il comma 1 dell’art. 513 c.p.p. prevede, invece, la lettura delle dichiarazioni rese in corso di indagine e in udienza preliminare dall’imputato che in giudizio sia assente, contumace o si rifiuti di sottoporsi ad esame. La disciplina è tenuta distinta dall’ipotesi di irripetibilità, dipendendo da scelte strategiche dell’accusato, legittime e volontarie, e non risultando perciò assimilabile alle ipotesi in cui evenienze oggettive abbiano reso impossibile il contraddittorio. La distinzione tra l’esercizio dello ius tacendi e l’irripetibilità, già chiara nel disposto dell’art. 513 c.p.p. (60), è stata ribadita nell’art. 111 Cost., in cui la sottrazione volontaria all’escussione della difesa è presa in esame per confermare il principio del contraddittorio nella formazione della prova (61), mentre l’impossibilità oggettiva di realizzarlo è prevista esplicitamente per giustificarne la limitazione. Posto che si tratta di eccezioni al contraddittorio che debbono trovare fondamento diverso dall’irripetibilità, il parametro costituzionale che può fondarne l’impianto sembra essere il « consenso dell’imputato » (art. 111 comma 5 Cost.). Rientra perfettamente nel disegno costituzionale, dunque, l’ultima parte dei commi 1 e 2 dell’art. 513 c.p.p., ispirata — sia pure in fattispecie non identiche — all’acquisibilità consensuale delle dichiarazioni non vagliate nel confronto tra i contendenti. Che si tratti delle dichiarazioni del coimputato che si sottragga all’esame, da utilizzare nei (60) L’art. 513 comma 2 c.p.p., come modificato dall’art. 1 l. 7 agosto 1997 n. 267, distingue nettamente l’ipotesi in cui il dichiarante non compaia, da quella in cui si presenti ma si avvalga della facoltà di non rispondere, risolvendo solo la prima nei modi previsti dall’art. 512 c.p.p., alla stregua di un caso di irripetibilità sopravvenuta. V., sul punto, specificamente, G. RICCIO, Letture più circoscritte e forme ‘‘alternative’’ di acquisizione probatoria, in Dir. pen. proc., 1997, p. 1184. V. anche supra, nota 30. (61) Il bilanciamento tra ius tacendi e contraddittorio operato dal legislatore costituzionale ha, però, innescato una sorta di reazione a catena, che, a tutela della massima esplicazione del diritto della difesa ad escutere la fonte, mira a comprimere al massimo — talora con entusiasmo revisionista poco condivisibile — gli spazi operativi del diritto al silenzio nella legislazione ordinaria. Per l’invito alla rivisitazione della disciplina codicistica in materia, v. R. BRICCHETTI, Ora bisogna fare presto per superare l’emergenza, in Guida dir., 1999, n. 9, p. 37; V. BORRACCETTI, Prime riflessioni su riforma costituzionale e ‘‘giusto processo’’. Introduzione, in Quest. giust., 2000, n. 1, p. 48; D. CARCANO, Regole d’incompatibilità dei testimoni, in Dir. giust., 2000, n. 29, p. 36; M. CHIAVARIO, Oltre l’art. 513?, cit., p. 541; C. CONTI, Le due ‘‘anime’’, cit., p. 199; V. GREVI, Dichiarazioni dell’imputato, cit., p. 853; ID., Processo penale, « giusto processo » e revisione costituzionale, cit., p. 3321; nonché, all’indomani di Corte cost. n. 361 del 1998, E. MARZADURI, Il diritto al silenzio del coimputato, in Dir. pen. proc., 1998, p. 1513; P. MOROSINI, Contraddittorio nella formazione della prova, cit., p. 338 s.; P. TONINI, Il diritto a confrontarsi con l’accusatore, ibidem, p. 1507. In contrario, v. P. CORSO, Diritto al silenzio: garanzia da difendere o ingombro processuale da rimuovere?, in Ind. pen., 1999, n. 3, p. 1977; nonchè, sviluppando le sollecitazioni in tal senso provenienti da Corte cost. n. 428 del 1999, R.M. AVOLA FARACI, L’incidente probatorio ancora alla ricerca di un ubi consistam, in Leg. pen., 2000, p. 175.
— 85 — confronti di altri (art. 513 comma 1 c.p.p.), o della deposizione predibattimentale di un soggetto ex art. 210 c.p.p., che si avvalga della facoltà di non rispondere, il consenso dell’accusato (da solo, nel primo caso, o come elemento necessario di un accordo, nel secondo) è condizione imprescindibile per la lettura. Diviene, invece, costituzionalmente censurabile il disposto aggiunto alla norma dalla sentenza n. 361 del 1998 della Corte costituzionale (62). La decisione, come è noto, intervenendo sugli artt. 210 e 513 c.p.p. e dichiarandone la parziale illegittimità, ha escogitato un’inedita ‘‘soluzione’’ per il caso in cui il dichiarante ometta, in tutto o in parte, di rispondere su fatti concernenti la responsabilità altrui già oggetto di sue precedenti dichiarazioni: la contestazione a norma dell’art. 500 comma 2-bis c.p.p., cui far conseguire l’uso ex art. 500 comma 4 c.p.p. dei verbali contestati. Dal momento che la condotta di chi si sottrae all’esame non integra un caso di impossibilità oggettiva di assicurare il contraddittorio, non possono esserne consentite compressioni che prescindano dal consenso dell’imputato o da una provata condotta illecita, dunque neppure in base al meccanismo di cui all’art. 500 commi 2-bis e 4 c.p.p. (63). In particolare, l’uso a fini contestativi di verbali provenienti dalle indagini è legittimo, sia nell’escus(62) V. GREVI, Processo penale, « giusto processo » e revisione costituzionale, cit., p. 3320; Trib. Foggia, ord. 17 marzo 2000, in Guida dir., 2000, n. 13, p. 77. Il dubbio investe tutto l’art. 513 c.p.p., per G. FRIGO, A fatica si fa largo la regola del contraddittorio, cit., p. 57. Per l’analisi della decisione della Consulta n. 361 del 1998, fra i molti e con notevole varietà di accenti, S. BUZZELLI, L’art. 513 c.p.p. tra esigenze di accertamento e garanzia del contraddittorio, in questa Rivista, 1999, p. 307; D. CARCANO, Effetti di una dichiarazione di incostituzionalità annunciata, in Cass. pen., 1999, p. 56; M. CHIAVARIO, Una nuova svolta nella tormentata vicenda del regime di utilizzabilità delle dichiarazioni di coimputati e imputati in procedimenti connessi: impressioni, congetture e suggestioni ‘‘a prima lettura’’ sulla sent. 361/98 della Corte costituzionale, in Leg. pen., 1998, suppl. n. 2-3, p. 1; P. DUBOLINO, 513 e 500 c.p.p.: accoppiata vincente o no?, in Riv. pen., 1998, p. 978; G. GIOSTRA, Quale contraddittorio, cit., p. 197; G. ILLUMINATI, Postilla, in AA.VV., Profili, 2a App. agg., Cedam, 1998, p. 16; G. INSOLERA, I controlli di ragionevolezza sul sistema penale. Note in margine alla sentenza n. 361/1998 della Corte costituzionale, in Crit. dir., 1999, n. 1, p. 16; E. MARZADURI, Il diritto al silenzio del coimputato, cit., p. 1512; M. PONTIN, Dalle parti del 513, in Crit. dir., 1999, n. 1, p. 31; G. SPANGHER, Il rifiuto di rispondere del coimputato dopo l’intervento della Corte costituzionale (art. 513 c.p.p.), in Studium iuris, 1999, p. 127; P. TONINI, Il diritto a confrontarsi con l’accusatore, cit., p. 1506. (63) Peraltro, l’art. 500 comma 4 è in sé in contrasto con l’art. 111 Cost., nella parte in cui consente di acquisire al fascicolo per il dibattimento dichiarazioni non assunte in contraddittorio, a prescindere dalle regole eccettuative che la norma costituzionale indica: così V. GREVI, Processo penale, « giusto processo » e revisione costituzionale, cit., p. 3320; G. ILLUMINATI, Giudizio, cit., p. 643 s; A. NAPPI, Il ‘‘111’’ e la riforma processuale rilanciano lo spirito dell’89, in Dir. giust., 2000, n. 1, p. 7; C. URCIUOLI, Solo l’attuazione ‘‘ordinaria’’, cit., p. 80; contra P. MOROSINI, Contraddittorio nella formazione della prova e criminalità organizzata, in Dir. pen. proc., 2000, p. 336. Per la proposta di ritornare all’uso esclusivamente ‘‘critico’’ delle contestazioni, secondo l’originaria versione dell’art. 500 c.p.p., V. BORRACCETTI, Prime riflessioni, cit., p. 48; P. FERRUA, Il processo penale, cit., p. 59 s.
— 86 — sione del testimone, che dell’imputato esaminato sulla responsabilità di altri; ma l’esito di simile iniziativa non può essere l’utilizzabilità a carico dell’imputato di dichiarazioni sottratte all’esame della difesa, come sancito dall’art. 111 comma 4 Cost. (64). Residua un dubbio quanto al comma 1 dell’art. 513 c.p.p., che consente l’uso, anche contra reum, delle dichiarazioni rese in fase predibattimentale dallo stesso imputato, in presenza di situazioni come l’assenza, la contumacia, il rifiuto di sottoporsi all’esame. La lettura di queste risultanze vulnera il principio del contraddittorio, senza trovare corrispondenze immediate nelle eccezioni al principio costituzionalmente ammesse. Non soltanto non si tratta di impossibilità oggettiva di formare la prova nel contraddittorio, né di provata condotta illecita che lo impedisca, ma anche il parametro del consenso dell’accusato risulta di ardua applicazione. Bisognerebbe, infatti, desumere dallo stesso contegno non collaborativo dell’accusato la disponibilità all’uso contra se delle dichiarazioni rese in precedenza: chi tiene una condotta processuale cui consegue l’utilizzabilità di atti sfuggiti al contraddittorio, accetterebbe (e quindi consentirebbe) il verificarsi di tale effetto, che gli è o si presume gli sia noto. In tal modo, però, quella che è concepita come una evidente ripercussione negativa del rifiuto di cooperare (65) si tramuterebbe paradossalmente in consenso alla cooperazione, sia pure per il tramite indiretto delle dichiarazioni rese nelle precedenti fasi dell’iter procedimentale. Né si potrebbe sfuggire all’impasse facendo ricorso all’inutilizzabilità relativa contemplata all’art. 111 comma 4 Cost. La norma, nel vietare l’uso come elementi a carico di dichiarazioni sottratte alla verifica della difesa, non implica l’utilizzabilità come prove d’accusa di atti altrimenti sfuggiti al confronto dialettico tra i contendenti, per i quali va ribadito il principio generale: la necessaria formazione nel contraddittorio delle parti, salve le eccezioni costituzionalmente ammesse. Non essendo riconducibile ad alcuna di queste ultime, l’art. 513 comma 1 c.p.p. sarebbe compatibile con la previsione costituzionale solo ove lo si potesse far rientrare nella regola, affermando che le dichiarazioni delle quali è consentita la lettura ai sensi della norma codicistica sono state assunte nel rispetto del contraddittorio: ma bisognerebbe ridimensionare non poco la portata del principio, perchè un’operazione esegetica si(64) Naturalmente, se la clausola costituzionale viene interpretata come regola di esclusione, i verbali utilizzati per le contestazioni non potranno essere affatto acquisiti; se, invece. si tratta solo di un criterio di valutazione, se ne deve desumere la possibilità di acquisirli, fatto salvo il divieto di valutarli come elementi a carico, a prescindere da elementi di riscontro eventualmente presenti agli atti. (65) Cfr. A. BERNASCONI, La collaborazione processuale, Giuffrè, 1995, p. 298; S. BUZZELLI, Il contributo dell’imputato alla ricostruzione del fatto, in questa Rivista, 1990, p. 907; F. CORDERO, Strutture di un codice, in Ind. pen., 1989, p. 21; M. NOBILI, Commento all’art. 513 c.p.p., cit., p. 437; A. SCELLA, Commento all’art. 1 l. 7 agosto 1997, cit., p. 297.
LE POSIZIONI DI GARANZIA NELLA PREVENZIONE ANTINFORTUNISTICA IN MATERIA D’APPALTO
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. La ripartizione degli obblighi prevenzionistici in caso d’appalto prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 494/1996. - 2.1. La responsabilità dell’appaltante per violazione del divieto d’ingerenza. - 2.2. Gli obblighi del committente nelle situazioni di appalti interni o plurimi. — 3. La prevenzione antinfortunistica nel caso d’appalto secondo il d.lgs. n. 494/1996. Profili generali. — 4. I soggetti responsabili. — 5. Concorso e riparto di posizioni di garanzia tra committente, responsabile dei lavori e coordinatori.
1. Prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 19 settembre 1994 n. 626, da un lato, e del d.lgs. 14 agosto 1996 n. 494, dall’altro, non esisteva una normativa organica avente ad oggetto la ripartizione degli obblighi prevenzionistici nelle situazioni di appalto reale. Al contrario, nei casi di appalto fittizio con conseguente interposizione di mere prestazioni di manodopera, la l. 23 ottobre 1960 n. 1369 stabiliva (e stabilisce a tutt’oggi) espressamente l’attribuzione dell’obbligo di garantire la sicurezza dei lavoratori al solo vero datore di lavoro, vale a dire colui che, di fatto, abbia utilizzato il personale dipendente fornitogli dal c.d. appaltatore. Quest’ultimo, infatti, non potrebbe essere definito nei termini di un vero datore di lavoro stricto sensu inteso risultando, al contrario, in quanto del tutto privo di un’organizzazione propria dei fattori di produzione, un mero procacciatore abusivo di manodopera (1). In presenza di una situazione di vero appalto ovvero di una serie di subappalti a catena, l’interprete non poteva, invece, disporre di una regolamentazione parallela a quella di cui alla l. n. 1369/1960. Fatta eccezione, infatti, per talune sporadiche disposizioni inserite solo incidenter tantum all’interno di provvedimenti normativi di carattere generale (sui quali ci si soffermerà in seguito), la disciplina della suddivisione delle po(1) Cfr. A. CULOTTA, Appalti di manodopera ed intervento giudiziario, Prospettive e limiti, in Lavoro 80, 1982, p. 554; ID., Il divieto d’appalto di manodopera e l’affidamento a terzi di attività del ciclo lavorativo del committente: qualche riflessione sulla portata dell’art. 1 della l. 23 ottobre 1960 n. 1369, in Riv. giur. lav., 1985, IV, p. 202; L. CATALIOTTI, Divieto d’intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro e dovere di sicurezza, in Dir. pen. ec., 1992, p. 203; T. DELOGU, Intermediazione ed appalto di prestazioni di lavoro, dovere di sicurezza, consenso dell’avente diritto, in Mass. Giur. lav., 1978, p. 590.
— 89 — sizioni di garanzia in materia di sicurezza del lavoro in caso di appalto, era essenzialmente pretoria. Attraverso un’elaborazione quasi quarantennale, la giurisprudenza sia di merito sia di legittimità, aveva enucleato dalla disciplina civilistica dell’appalto, da un lato, e dal complesso dei requisiti di validità ed efficacia della delega di funzioni in materia antinfortunistica, dall’altro, un sistema organico di regole volte a colmare il vuoto esistente in sede legislativa. Nei casi di appalto reale, la qualifica di datore di lavoro era, per l’appunto, suscettibile di ricadere sul committente, sull’appaltatore o, eventualmente, sul subappaltatore con la conseguenza che, in assenza di criteri certi per l’individuazione del soggetto in primis obbligato a garantire la sicurezza, si sarebbe potuto dar luogo ad una perversa spirale nella quale ciascuno fosse legittimato a riferire all’altro la responsabilità per le violazioni commesse. Al fine, dunque, d’individuare con sufficiente precisione il soggetto titolare dell’obbligo di garantire l’osservanza dei precetti antinfortunistici nelle situazioni di appalto reale, la giurisprudenza aveva proceduto all’attribuzione della correlativa posizione di garanzia all’appaltatore o al subappaltatore esonerando, in linea di principio, il committente dall’adempimento degli obblighi prevenzionistici riferiti al « datore di lavoro ». Essendo, infatti, l’appaltatore (o il subappaltatore) dotato ex art. 1655 c.c. di una propria sfera organizzativa, il principio generale elaborato dalla giurisprudenza era che « il destinatario delle disposizioni antinfortunistiche è unicamente l’appaltatore in quanto egli assume il rischio inerente all’esecuzione dei lavori e la responsabilità d’organizzare il cantiere con propri mezzi e con personale da lui assunto » (2). Rebus sic stantibus, il d.lgs. n. 494/1996 recentemente modificato dal d.lgs. 19 novembre 1999 n. 528 intitolato « Modifiche ed integrazioni al d.lgs. 14 agosto 1996 n. 494, recante attuazione della direttiva 92/57/Cee in materia di prescrizioni minime di sicurezza e di salute da osservare nei cantieri temporanei o mobili » (G.U. n. 13 del 18 gennaio 2000) (attuazione della direttiva n. 92/57/Cee concernente le prescrizioni minime di sicurezza e di salute nei cantieri temporanei o mobili) ha operato una vera e propria « rivoluzione copernicana », dal momento che, a differenza di quanto stabilito dalla giurisprudenza or ora ricordata, il sistema delle prescrizioni antinfortunistiche non viene più fatto ruotare intorno all’appaltatore bensì al committente. Esso risulta, pleno iure, investito di una posizione di garanzia di carattere primario nei confronti della sicurezza dei lavori in appalto essendo, fra l’altro, il soggetto legittimato a nominare tutti gli altri responsabili della sicurezza nei canteri menzionati dalla legge. Dal canto suo, l’appaltatore finisce per assumere una posizione del tutto marginale, (2) Cfr. 1 luglio 1985, in Giust. pen., 1986, p. 306; Pret. Torino, 5 dicembre 1983, Riv. giur. lav., 1985, p. 334.
— 90 — tanto da non risultare neppure espressamente menzionato tra i soggetti delle contravvenzioni di cui agli artt. 20-23 del decreto in esame potendo, solo indirettamente, essere sussunto nella categoria dei « datori di lavoro » di cui all’art. 22. Un tale rivolgimento delle posizioni di garanzia in materia d’appalto è stato determinato dall’obbligo dell’Italia di dare attuazione alle direttive comunitarie che, a partire dalla fondamentale dir. n. 89/391/Cee, hanno dato origine al processo d’armonizzazione degli standards di sicurezza sui luoghi di lavoro tra i vari Paesi europei (3). In particolare, la dir. n. 92/57/Cee (riguardante le prescrizioni minime di sicurezza da attuare nei cantieri temporanei e mobili) disponeva il coinvolgimento del committente dei lavori nelle attività volte a garantire la sicurezza dei lavoratori impegnati nei cantieri, al precipuo scopo di assicurare il coordinamento delle maestranze coinvolte. Era, infatti, ormai noto che proprio nei casi di appalto e subappalto, gli infortuni sul lavoro subivano un aumento esponenziale in ragione, da un lato, del disinteresse dei committenti a garantire la sicurezza dei dipendenti dell’appaltatore e, dall’altro, della tendenza degli appaltatori a ridurre il prezzo dell’appalto stesso attraverso un abbassamento del livello di tutela prevenzionistica. Allo scopo di attuare le prescrizioni del legislatore comunitario, il d.lgs. n. 494/1996 attraverso una vera e propria « procedimentalizzazione » della gestione della sicurezza nei cantieri, ha scandito le varie fasi dell’organizzazione delle misure antinfortunistiche, escludendo in sostanza che la salute dei lavoratori possa essere sottoposta a logiche di tipo economico. Tuttavia, pur a fronte di un indubbio progresso nella garanzia della sicurezza e dell’igiene dei luoghi di lavoro, il decreto in esame non manca di suscitare dubbi interpretativi con particolare riguardo al sistema delle sanzioni comminate al committente e al responsabile dei lavori. Come si avrà modo di precisare, infatti, la formulazione letterale di talune disposizioni parrebbe dar luogo (3) Cfr. R. GUARINIELLO, Il diritto penale del lavoro nell’impatto con le direttive Cee, in Dir. pen. proc., n. 2, 1997, p. 210; D. ANDREONI, Settima e ottava direttive particolari della Cee riguardanti salute e sicurezza dei lavoratori durante il lavoro con agenti biologici e nei cantieri, in Riv. inf. mal. prof., 1992, p. 535; A. CULOTTA, Obblighi prevenzionali del datore di lavoro e facoltà di delega a dirigenti e preposti nel quadro della nuova normativa di derivazione comunitaria, in Riv. crit. dir. lav., 1995, p. 253; F. FOCARETA, Responsabilità in materia di sicurezza sul lavoro negli appalti, in Quaderni di diritto del lavoro e delle relazioni industriali, l’obbligazione di sicurezza, Torino, 1993, p. 139; S. AMODIO, Appalto e responsabilità penale negli infortuni sul lavoro, in Riv. giur. lav., 1980, p. 536; N. GARAVENTA, Orientamenti giurisprudenziali in materia di delitti colposi commessi con violazione delle disposizioni antinfortunistiche, in Riv. it. dir. proc. pen., 1986, p. 206; G. MARANDO, La sicurezza del lavoro nel sistema della giurisprudenza, Milano, 1982, p. 235: V. MARINO, Appalti e infortuni sul lavoro, in Riv. it. dir. lav., 1993, p. 567; R. GUARINIELLO, Sicurezza del lavoro e Corte di Cassazione, il repertorio, Milano, 1994, p. 175; A. LORUSSO, Sui rapporti tra committente e appaltatore in tema di sicurezza del lavoro, in Mass. Giur. lav., 1997, p. 676.
— 91 — ad ipotesi di vera e propria « responsabilità di posizione », con la conseguenza di costringere l’interprete ad individuare soluzioni ermeneutiche alternative allo scopo di garantire la compatibilità delle disposizioni di legge con il principio di personalità della responsabilità penale ex art. 27 Cost. Tale potenziale intreccio di responsabilità è, invero, la logica conseguenza di quel processo di ampliamento dell’ambito dei soggetti responsabili (4) che risulta un Leit motiv della più moderna legislazione antinfortunistica e che, se non correttamente interpretato, rischia di far rispondere ciascuno dei soggetti coinvolti anche di fatti esclusivamente imputabili ad altri. 2. Come si ricordava poco sopra, prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 494/1996, il principio generale elaborato allo scopo d’individuare il soggetto titolare della posizione di garanzia in caso di appalto reale era quello che l’appaltatore dovesse garantire la sicurezza e l’igiene del lavoro assumendo il rischio inerente all’esecuzione dei lavori nonché la responsabilità di organizzare in proprio il cantiere (5). Sotto tale profilo, la giurisprudenza aveva chiaramente tratto argomento dalla disciplina civilistica del contratto d’appalto ed, in particolare, dalla circostanza secondo la quale il requisito d’autonomia dell’appaltatore costituisce un vero e proprio « elemento naturale » del negozio di cui all’art. 1655 c.c. valendo a distinguerlo sia dal contratto d’opera sia dal contratto di compravendita (6). Sotto il primo profilo, il risultato consistente nel compimento di un’opera o di un servizio può essere, per l’appunto, oggetto anche di un contratto d’opera. Tuttavia, mentre in quest’ultimo caso l’assuntore dei lavori è legato al committente da un vincolo di subordinazione, nel contratto d’appalto l’esecutore è dotato di una spiccata autonomia in ragione del possesso di un’organizzazione imprenditoriale finalizzata al compimento dell’opera. Per di più, la logica prevalenza del momento dell’organizzazione autonoma dell’attività esecutiva vale a distinguere l’appalto anche dalla vendita ove, al contrario, l’organizzazione dei fattori produttivi non assume rilievo se non allo scopo dell’alienazione dell’opera stessa. Tale essendo la struttura del contratto d’appalto, non poteva che seguirne l’attribuzione della qualifica di « datore di lavoro » al solo assuntore dei lavori. Se, infatti, come sostenuto da larga parte della dottrina e della giurisprudenza (7), l’identificazione del datore di lavoro, nel diritto (4) Cfr. F. SGUBBI, I reati in materia di sicurezza e igiene del lavoro connotati del sistema, in Ambiente, salute e sicurezza, a cura di Luigi Montuschi, Torino, 1997, p. 262. (5) Cfr. L. GRILLI, Diritto penale del lavoro, Milano, 1983, p. 233. (6) Cfr. CAGNASSO, voce Appalto nel diritto privato, in Dig. disc. pen., v. 1, Torino, 1987, p. 165; RESCIGNO, Appalto (diritto civile), in Riv. trim. app., 1986, p. 21. (7) Sul punto cfr., tra gli altri, A. CULOTTA-M. DI LECCE-G. COSTAGLIOLA, Preven-
— 92 — penale della prevenzione antinfortunistica, deve avvenire riconoscendo la qualifica a colui che risulti, per legge, titolare dei poteri consentanei all’adempimento dei doveri di garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro, nel settore in esame, la predetta qualifica non poteva che ricadere sull’appaltatore. Questi, infatti, si caratterizza, nei rapporti con il committente, per una spiccata indipendenza, con la conseguenza che, così come autonomamente provvede all’esecuzione dell’opera, autonomamente è tenuto ad adempiere all’obbligazione di sicurezza. L’attribuzione all’appaltatore di una responsabilità tendenzialmente esclusiva per le violazioni antinfortunistiche commesse nell’esecuzione dei lavori finiva, dunque, per dipendere dalla sua effettiva autonomia. Ne deriva che l’ingerenza del committente nell’organizzazione dei mezzi necessari per l’esecuzione dell’opera, determinando l’inevitabile affievolimento di tale autonomia, comportava la possibilità d’imputare all’appaltante la responsabilità a titolo di concorso nella contravvenzione antinfortunistica commessa dall’appaltatore, determinando una sorta di scalfitura nella sfera di tendenziale intangibilità del committente per le violazioni antinfortunistiche commesse dall’appaltatore. 2.1. Tale essendo, secondo la predetta elaborazione giurisprudenziale, la figura in primis gravata della posizione di garanzia, il delineato sistema di ripartizione degli obblighi prevenzionistici in caso d’appalto risultava, a ben vedere, condizionato da due fattori, rispettivamente costituiti dalla circostanza che il committente si fosse astenuto da qualunque forma d’ingerenza nei lavori svolti dall’appaltatore nonché dal fatto d’aver scelto un soggetto dotato delle necessarie competenze tecniche (8). In particolare, il datore di lavoro appaltante (al pari del delegante) avrebbe potuto considerarsi liberato dall’obbligo di osservare i precetti antinfortunistci allorquando avesse proceduto a nominare un soggetto (per l’apzione e sicurezza nei luoghi di lavoro, Milano, 1998, p. 113; G. DE FALCO, La figura del datore di lavoro nell’ambiti della normativa di sicurezza. Dal decreto legislativo n. 626/1994 al c.d. decreto 626-bis, in Cass. pen., 1996, p. 979; F. BASENGHI, La ripartizione intersoggettiva degli obblighi prevenzionistici nel nuovo quadro legale, in La sicurezza del lavoro, a cura di L. Galantino, Milano, 1996, p. 53; M.L. FERRANTE, I soggetti responsabili nel diritto penale del lavoro, in Riv. pen. ec., 1995, p. 17; T. PADOVANI, Diritto penale del lavoro, Milano, 1983, p. 32; D. PULITANÒ, Posizione di garanzia e criteri di imputazione personale nel diritto penale del lavoro, in Riv. giur. lav., 1982. (8) Cfr. Cass. 18 ottobre 1990, in Cass. pen., 1992, p. 242; Cass. 10 ottobre 1991, Dir. prat. lav., 1991, p. 3131; Cass. 23 maggio 1986, Dir. prat. lav., 1988, p. 1250. Si deve, poi, precisare che, in materia di subappalto, il fenomeno della successione di posizione di garanzia si verifica solo nell’ipotesi di subappalto totale dei lavori. Nel caso, invece, di subappalto parziale potrà configurarsi un concorso di posizioni di garanzia tra appaltante e subappaltante. Cfr. Cass. 3 marzo 1998, Riv. pen., 1998, p. 727; Cass. 20 aprile 1995, Riv. pen., 1996, p. 398; Cass. 5 luglio 1990, Riv. trim. dir. pen. ec., 1991, p. 1243; Pret. Roma 18 gennaio 1997, Riv. inf. mal. prof., 1997, p. 146.
— 93 — punto, l’appaltatore) dotato dei poteri consentanei all’autonoma organizzazione del lavoro nel cantiere. Conformemente a quanto sostenuto da una certa parte della dottrina (9), si sarebbe potuto ritenere che la stipulazione del contratto d’appalto potesse sortire per l’imprenditore appaltante i medesimi effetti del trasferimento delle funzioni proprie del delegante al delegato, vale a dire la scissione tra il soggetto originariamente garante e quello che, di fatto, veniva ad assumere le funzioni che formavano oggeto della garanzia stessa. Tali essendo gli effetti della nomina dell’appaltatore, infatti, si sarebbe dovuto affermare che solo quest’ultimo avesse il dovere giuridico di garantire la sicurezza nell’ambito del cantiere. Nel caso, invece, in cui il delegante si fosse ingerito nello svolgimento dei compiti propri del delegato, il fatto di occupare, sia pur parzialmente, gli ambiti degli specifici poteri di organizzazione e di disposizione che avrebbero dovuto essere di pertinenza esclusiva dei soggetti incaricati sarebbe valso a renderlo responsabile (in concorso con il delegato) per l’adempimento degli obblighi prescritti. In mancanza di un’adeguata sfera di autonomia in capo al delegato, infatti, il trasferimento di funzioni non avrebbe potuto considerarsi valido ed efficace, fondando, al contrario, l’obbligo del delegante di adempiere personalmente gli obblighi a lui imposti (10). (9) Cfr. A. FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell’impresa, Firenze, 1985; E. PALOMBI, La delega di funzioni nel diritto penale dell’impresa, in Giust. pen., 1985, II, c. 679. (10) A ben vedere, l’identificazione del fondamento giustificativo dell’attribuzione al delegante di una responsabilità concorrente con quella del delegato è stato diversamente identificato, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, a seconda che si fosse fatto ricorso alla concezione obiettivo-esimente ovvero quella subiettivo-scusante degli effetti della delega di funzioni. In particolare, in linea con la c.d. teoria funzionalistico-obiettiva della delega di funzioni, si sarebbe dovuto ritenere che, allo stesso modo in cui il trasferimento di funzioni all’incaricato determina l’effetto traslativo della responsabilità in capo all’incaricato, così, a seguito dell’ingerenza del delegante e, quindi, della riduzione di fatto dell’autonomia del delegato, si verificherebbe, a carico del primo il fenomeno della « riassunzione », totale o parziale, delle funzioni medesime. Secondo la teoria funzionalistica, infatti, la delega di funzioni darebbe luogo al trasferimento della stessa qualifica soggettiva, con la conseguenza che, rispetto alle contravvenzioni antinfortunistiche, il delegante diverrebbe, a tutti gli effetti, un extraneus. Cfr. A. FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell’impresa, Firenze, 1985, p. 43. In giurisprudenza, propendono per la tesi funzionalistica Cass. 2 febbraio 1976, in Cass. pen., 1977, p. 1025; Cass. 1 ottobre 1980, in Cass. pen., 1982, p. 364; Cass 2 maggio 1989, in Cass. pen., 1990, p. 2190; Cass. 12 novembre 1993, in Cass. pen., 1994, p. 3090; Cass. 8 settembre 1994, in Cass. pen., 1995, p. 3504. Secondo, invece, altra parte della dottrina, la tesi appena espressa non sarebbe accettabile dal momento che, così argomentando, si finirebbe per attribuire al soggetto obbligato ad adempiere la facoltà di liberarsi dai doveri penalmente sanzionati attraverso un mero atto di autonomia privata. L’efficacia della delega di funzioni dovrebbe, al contrario, essere individuata sul piano subiettivo dal momento che, a seguito del trasferimento, ferma la posizione di garanzia in capo al delegante, il contenuto degli obblighi di quest’ultimo finisce per subire un’inevitabile variazione. All’obbligo di adempiere, manu propria, ai precetti penalmente sanzionati si sostuisce, in-
— 94 — Così come, dunque, s’imponeva al delegante di non ingerirsi nell’attività del delegato per non essere chiamato a rispondere, in concorso con quest’ultimo, delle violazioni da lui poste in essere, allo stesso modo si prescriveva al committente l’onere di rispettare l’autonomia dell’appaltatore e di non ingerirsi nei lavori dallo stesso svolti per non essere chiamato a rispondere, in concorso con quest’ultimo, per le violazioni antinfortunistiche commesse. In secondo luogo, la responsabilità del committente avrebbe dovuto essere affermata non solo nelle ipotesi in cui egli si fosse ingerito deliberatamente nei lavori dell’appaltatore ma anche nel caso in cui l’intervento nell’esecuzione dei lavori si fosse reso necessario per il fatto di aver designato un soggetto incapace di attendere ai compiti affidati. In particolare, poteva venire in considerazione la prima ipotesi d’ingerenza allorquando il committente si fosse intromesso nei lavori dell’appaltatore, o personalmente, ovvero attraverso la nomina di un proprio direttore dei lavori impegnato non soltanto nell’esercizio del potere di verifica di cui all’art. 1662 c.c., ma anche nell’imposizione all’appaltatore delle direttive da rispettare per l’esecuzione dei lavori. Tuttavia, come si accennava, la concorrente responsabilità del committente poteva essere affermata anche nel caso in cui egli, a seguito della scelta di un appaltatore palesemente privo delle capacità e dei mezzi necessari per eseguire a regola d’arte le opere commissionate, si trovasse, giocoforza, costretto ad ingerirsi nella loro esecuzione per colmare le inevitabili carenze dell’incaricato. In tal caso, la violazione del divieto d’ingerenza risultava necessaria dal momento che, a ben vedere, per la scelta di un soggetto palesemente inadeguato allo scopo, il committente si trovava praticamente costretto a sostituirlo nell’esecuzione dell’opera commissionata, degradandolo alla posizione di mero lavoratore subordinato. Anche in quest’ultimo caso la responsabilità del committente veniva affermata sulla base dei principi giurisprudenziali (11) in materia di delega di funzioni, con particolare riferimento all’assunto secondo cui perché la delega sia validamente conferita è, tra l’altro, necessario che il delegato sia persona provvista di capacità tali da consentirgli di poter assolvere ai compiti assegnati. A ben vedere, però, nelle ipotesi or ora ricordate, la responsabilità fatti, l’obbligo di controllare l’operato altrui. Ne deriva che, in caso d’ingerenza del delegante nelle attività del delegato, non si darebbe luogo al predetto fenomeno della riduzione del contenuto degli obblighi imposti al delegante con il conseguente mantenimento, in capo allo stesso, dell’obbligo di provvedere, personalmente, allo svolgimento di tutti i compiti delegati. Cfr. T. PADOVANI, Diritto penale del lavoro, cit., p. 80. In giurisprudenza, Cass. 14 febbraio 1992, in Cass. pen., 1992, p. 2458; Cass. 2 giugno 1989, in Cass. pen., 1990, p. 1795; Cass. 17 ottobre 1989, in Cass. pen., 1991, p. 1459. (11) Cfr. Cass. 17 dicembre 1992, in Cass. pen., 1994, m. 389; Cass. 9 febbraio 1993, ivi, 1994, m. 1635.
— 95 — del committente si poneva come conseguenza di uno sviluppo patologico del rapporto con l’appaltatore che, in mancanza di un’adeguata ed autonoma organizzazione rispetto al committente, finiva col dover abdicare alle funzioni di datore di lavoro assumendo, rispetto all’appaltante un ruolo sostanzialmente assimilabile a quello del lavoratore dipendente. L’obbligo del datore di lavoro appaltante di avvalersi di un appaltatore dotato delle necessarie capacità tecnico-organizzative è stato espressamente previsto dall’art. 7, d.lgs. n. 626/1994, dal momento che esso ha imposto al datore di lavoro (rectius committente), in caso di affidamento dei lavori all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva (12), ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi di verificare, anche attraverso l’iscrizione alla camera di commercio, industria e artigianato, l’idoneità tecnicoprofessionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori da affidare in appalto o contratto d’opera. Come rilevato dalla dottrina (13), la congiunzione « anche » evidenzia che la verifica pretesa dalla legge non può assumere un carattere meramente formale ed estrinseco, ma riguarda la concreta affidabilità della ditta a svolgere i lavori da appaltare. Tuttavia, per delimitare in modo sufficientemente determinato l’ambito dei suddetti compiti di controllo, la dottrina ha proposto una serie di indici sintomatici della sussistenza dell’idoneità tecnico-professionale in relazione alle opere da realizzare (14), dal momento che, potendo la violazione del suddetto obbligo determinare l’applicazione di una sanzione penale, s’impone, pur se soltanto a livello interpretativo, una maggior definizione della fattispecie, al fine di renderla compatibile con il principio di tassatività e di determinatezza di cui all’art. 25 Cost. Alle ipotesi or ora descritte di responsabilità concorrente del committente si associavano, però, già in data anteriore all’intervento del d.lgs. n. 494/1996, ulteriori casi di concorso di posizioni di garanzia anche se, a ben vedere, esse non risultavano logicamente connesse alla patologia dei rapporti tra committente ed appaltatore bensì alle peculiarità di determinate situazioni nelle quali l’appaltante si fosse trovato ad operare. (12) Deve precisarsi che l’ambito d’applicazione dell’art. 7 può non coincidere con quello del d.lgs. n. 494/1996. Mentre, infatti, il primo attiene ai lavori « interni all’azienda o all’unità produttiva », il secondo ha ad oggetto i cantieri temporanei o mobili dotati dei requisiti dimensionali di cui all’art. 3. Nel caso in cui, dunque, il cantiere non presenti i predetti requisiti dimensionali, si applicherà l’art. 7 d.lgs. n. 626/1994 se si tratta di lavori da eseguire all’interno dei confini dell’azienda o dell’unità produttiva ovvero la disposizione generale di cui all’art. 5 d.P.R. n. 547/1955 in tutte le altre ipotesi. (13) Cfr. A. CULOTTA-DI LECCE-COSTAGLIOLA, op. cit., p. 138; F. BACCHINI, La sicurezza dei lavori in appalto, in ISL, n. 9, 1998, p. 465. (14) Si tratta, in particolare, del a) possesso di sufficienti attrezzature e mezzi d’opera; b) presenza di un’adeguata organizzazione aziendale per la sicurezza e la salute dei lavortori; c) possesso di mezzi di protezione individuali e collettivi; d) attestazione di un basso livello d’infortuni sul lavoro nell’ultimo triennio.
— 96 — 2.2. Come rilevato dalla giurisprudenza (15) nel corso dell’elaborazione della disciplina della ripartizione degli obblighi prevenzionistici nei casi d’appalto, nelle ipotesi di appalti interni all’azienda o all’unità produttiva, la considerazione del rischio intrinsecamente connesso al coinvolgimento di più imprese in un contesto ambientale conosciuto precipuamente dal datore di lavoro committente giustificava, in deroga al principio d’irresponsabilità del committente per le violazioni antinfortunistiche commesse dall’appaltatore, l’imposizione all’appellante dell’obbligo di consegnare all’appaltatore un ambiente di lavoro sicuro o informandolo dei rischi specifici ivi esistenti o compiendo le opere provvisionali necessarie a garantire la sicurezza. Allo stesso modo, nel caso di appalti plurimi o scorporati si prescriveva al committente di coordinare i lavori delle maestranze coinvolte al fine di scongiurare i rischi derivanti dall’interferenza di una pluralità di imprese operanti nel medesimo contesto spazio-temporale. All’appaltante veniva, inoltre, imposto di provvedere anche alla promozione della collaborazione tra gli stessi esecutori delle opere. A ben vedere, talune delle ipotesi appena ricordate erano, invero, già state prese in considerazione dal d.P.R. 27 aprile 1955 n. 547 che, all’art. 5, aveva previsto il dovere del datore di lavoro, dei dirigenti e dei preposti di rendere edotti i lavoratori autonomi dei rischi specifici esistenti sui luoghi di lavoro in cui fossero stati chiamati ad operare. Inoltre, l’art. 5, comma 4, d.lgs. 15 agosto 1991 n. 277 aveva previsto l’obbligo dei medesimi soggetti di cooperare con i lavoratori autonomi all’attuazione delle misure di sicurezza nonché di coordinare gli interventi di prevenzione e protezione. Infine, il citato art. 7, d.lgs. n. 626/1994 ha prescritto sia l’obbligo di informare dei rischi specifici esistenti nell’ambiente di lavoro sia il dovere di coordinare e far cooperare le imprese coinvolte nell’appalto. Il fondamento giustificativo del complesso degli obblighi prescritti era chiaramente costituito dalla disposizione generale di cui all’art. 2087 c.c. secondo cui « l’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro ». Quest’ultima disposizione, infatti, come affermato in dottrina ed in giurisprudenza (16), costituisce a pieno titolo una norma attributiva di una « posizione di garanzia » suscettibile di rile(15) Cfr. Cass. 9 novembre 1989, Riv. pen., 1989, p. 788; Cass. 26 aprile 1989, Mass. Giur. lav., 1989, p. 671; Trib. Milano 26 maggio 1978, Riv. giur. lav., 1979; Cass. 26 giugno 1986, Riv. pen., 1987, p. 888; Cass. 5 luglio 1990, Riv. pen., 1991, p. 659; Cass. 13 ottobre 1989, Mass. giur. lav., 1990, p. 68; Corte d’Appello Brescia 28 ottobre 1988, Lavoro 80, 1989, p. 548; Trib. Cassino 12 giugno 1990, Riv. pen., 1990, p. 864; Pret. Lodi 5 giugno 1981, Riv. it. dir. lav., 1982, p. 391. (16) Cfr. V. MARINO, La responsabilità del datore per gli infortuni e le malattie del lavoro, Milano, 1990, p. 80; V. GUERINI, Osservazioni sull’obbligo di sicurezza, in Riv. giur. lav., 1980, IV, p. 381; C. SMURAGLIA, La sicurezza del lavoro, Milano, 1974, p. 85; A. SAM-
— 97 — vare sia ex art. 40, 2 c.p. ai fini dell’attribuzione all’imprenditore dell’obbligo d’impedire la verificazione di eventi dannosi o pericolosi per la salute dei lavoratori sia ai fini del giudizio di colpa. Pertanto, il datore di lavoro doveva già prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 494/1996 considerarsi tenuto, ove necesssario per assicurare l’igiene e la sicurezza del lavoro, a collaborare con i lavoratori autonomi (17) operanti nel proprio ambiente di lavoro o informandoli dei rischi specifici esistenti, o predisponendo le necessarie opere provvisionali ovvero promuovendo il coordinamento e la collaborazione tra le diverse maestranze eventualmente impegnate nel medesimo contesto ambientale. Tuttavia, pur a fronte delle deroghe or ora ricordate al principio dell’irresponsabilità del committente per le violazioni antinfortunistiche commesse dall’appaltatore, il sistema sanzionatorio elaborato dalla giurisprudenza prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 494/1996 non risultava idoneo ad eliminare i rischi connessi all’esecuzione dei lavori dal momento che la logica economica suggeriva, nell’obiettivo tendenziale della maggior riduzione possibile del prezzo dell’appalto, di contenere i costi proprio nel settore della sicurezza dei lavoratori. Allo scopo di sottrarre la tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori dalla predetta logica economica, il d.lgs. n. 494/1996 ha imposto l’attribuzione della posizione di garanzia primaria al committente sollevando in tal modo l’appaltatore dall’onere di provvedere, in via tendenzialmente esclusiva, alla predisposizione di misure e cautele che essendo suscettibili di determinare un non indifferente aumento del prezzo dell’appalto stesso avrebbero finito per essere prescelte tra le meno onerose e, verosimilmente, tra le più scadenti, a chiaro detrimento della garanzia della vita e dell’incolumità personale dei lavoratori. Si deve, tuttavia, precisare che il decreto in questione non ha abrogato tutte le disposizioni previgenti in materia di sicurezza negli appalti; al contrario, esso ha stabilito espressamente il mantenimento, nei limiti della compatibilità, di tutto il complesso delle preesistenti disposizioni antinfortunistiche. Ne deriva che, in caso d’inapplicabilità del decreto menzionato, sarà il sistema appena descritto a disciplinare, con tutte le limitaMARCO, L’art. 2087 c.c. quale fonte di responsabilità penale, in Giust. pen., 1987, p. 438; D.
PULITANÒ, voce Igiene e sicurezza del lavoro (tutela penale), in Dig. disc. pen., v. VI, Torino, 1992, p. 106. Per la giurisprudenza cfr. Cass. 29 marzo 1995, in Mass. Giur. lav., 1995, p. 358. (17) A ben vedere, nella nozione di « lavoratore autonomo » non avrebbe potuto essere ricompreso l’appaltatore, posto che non si trattava, stricto sensu, di un prestatore d’opera ex art. 2222 c.c. bensì di un imprenditore. Tuttavia, prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 494/1996, la giurisprudenza aveva operato un’estensione della predetta nozione di lavoratore autonomo ricomprendendovi anche gli appaltatori e i suoi dipendenti. Cfr. Cass. 3 marzo 1995, in Cass. pen., 1996, p. 1957.
— 98 — zioni rilevate, la materia in esame perpetuando il sistema disciplinare elaborato dalla giurisprudenza consolidatasi a partire dal 1955 e 1956. 3. Come affermato da autorevole dottrina (18), nei decreti antinfortunistici adottati in attuazione della direttiva comunitaria 12 luglio 1989 n. 89/391/Cee (concernente l’attuazione delle misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro) si è operato un vero e proprio « spostamento del baricentro teleologico delle misure di tutela » rispetto all’assetto dei decreti antinfortunistici del 1955 e del 1956. In quest’ultimi, infatti, le misure e le cautele imposte erano state intese nei termini di strumenti volti ad abbattere il pericolo eliminandolo alla fonte o, quantomeno, nel corso dell’attività lavorativa fino a giungere, nel caso in cui ciò fosse stato impossibile, alla chiusura della linea produttiva stessa. Nei decreti degli anni Novanta, invece, pur prendendosi atto (come affermato in uno dei considerando (19) premessi alle disposizioni di cui alla direttiva n. 92/57/Cee più volte menzionata) che « il miglioramento della sicurezza e della salute sul luogo di lavoro rappresenta un obiettivo che non può dipendere da considerazioni di carattere puramente economico », lo scopo tendenziale delle misure antinfortunistiche viene individuato nell’« eliminazione dei rischi in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo, sostituendo ciò che è pericoloso con ciò che non lo è o è meno pericoloso » (20). In particolare, l’attribuzione di un carattere tendenziale e relativo (e non più assoluto) all’abbattimento del rischio è stato perfino fatto oggetto di previsione espressa da parte dell’art. 41, comma 1, d.lgs. n. 277/1991 in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro. Rebus sic stantibus, non si può, tuttavia, ritenere che si sia determinato un abbassamento del livello di tutela che, in realtà, pare essere solo il frutto di un’« illusione interpretativa ». Se è pur vero, infatti, che l’eliminazione del pericolo è divenuto un obiettivo tendenziale e relativo, da as(18) Cfr. T. PADOVANI, Il nuovo volto del diritto penale del lavoro, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1995, p. 1157. (19) Si tratta delle affermazioni di principio contenute nelle direttive comunitarie a mò di preludio delle disposizioni ivi contenute. Il rilievo delle suddette enunciazioni non è, tuttavia, meramente stilistico fornendo, esse, a ben vedere, i criteri-guida per l’interpretazione delle disposizioni stesse. (20) Nel documento della Comunità europea DG VIE/2 contenente gli « orientamenti per la valutazione dei rischi » si opera una significativa distinzione tra la nozione di « pericolo » (fonte di possibili lesioni o danni alla salute) e di « rischio » (probabilità che sia raggiunto il livello potenziale di danno per effetto della combinazione di probabilità di possibili lesioni).
— 99 — soluto che era nei decreti antinfortunistici del 1955 e del 1956, la soglia della tutela è stata notevolmente arretrata, attraverso il ricorso a due particolari strumenti normativi, vale a dire, da un lato, la moltiplicazione delle posizioni di garanzia e, dall’altro, l’imposizione ai soggetti della sicurezza dell’obbligo di dotarsi di documenti di valutazione dei rischi caratterizzati da una doppia « faccia » diagnostica e terapeutica. Da un lato, infatti, si impone di procedere ad una dettagliata descrizione delle condizioni esistenti mentre, dall’altro, si prescrive di formulare un programma per l’attuazione delle misure necessarie per fronteggiare i rischi evidenziati sempre con l’obbligo di un continuo aggiornamento in relazione ai mutamenti che si possano verificare. Orbene, nella materia in esame, sono ravvisabili entrambe le direttive generali di tutela or ora ricordate. Sotto il versante della moltiplicazione delle posizioni di garanzia, infatti, il d.lgs. n. 494/1996 come modificato dal menzionato d.lgs. 528/1999 menziona: a) il committente (soggetto per conto del quale l’intera opera viene realizzata indipendentemente da eventuali frazionamenti della sua realizzazione). Nel caso di appalto di opera pubblica, il committente è il soggetto titolare del potere decisionale e di spesa relativo alla gestione dell’appalto; b) il responsabile dei lavori (soggetto che può essere incaricato dal committente ai fini della progettazione o della esecuzione o del controllo dell’esecuzione dell’opera). Nel caso di appalto di opera pubblica, il responsabile dei lavori è il responsabile unico del procedimento ai sensi dell’art. 7 l. 11 febbraio 1994, n. 109 e successive modifiche); c) il lavoratore autonomo (persona fisica la cui attività professionale concorre alla realizzazione dell’opera senza vincolo di subordinazione); d) il coordinatore per la progettazione; e) il coordinatore per l’esecuzione dei lavori (art. 2, d.lgs. n. 494/1996) (soggetto, diverso dal datore di lavoro dell’impresa esecutrice incaricato, dal commitente o dal responsabile dei lavori dell’esecuzione dei compiti di cui all’art. 5). Per quanto attiene, invece, al profilo dell’organizzazione della sicurezza, l’art. 12 impone l’adozione di un Piano di sicurezza e di coordinamento ove individuare, analizzare e valutare i rischi e le conseguenti procedure esecutive volte a rispettare le norme per la prevenzione degli infortuni e la tutela della salute dei lavoratori (21). Recentemente, poi, la nuova legge sugli appalti pubblici (art. 9, l. 18 novembre 1998 n. 415) o legge Merloni-ter, apportando significative modifiche all’art. 31, l. 19 febbraio 1994 n. 41, ha ulteriormente ampliato il novero dei documenti di valutazione dei rischi prescrivendo l’adozione di: a) un documento conte(21) Prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 528/1999, prevedeva l’art. 13 d.lgs. 494/1996 l’obbligo di adottare un piano generale di sicurezza nei casi di lavori la cui entità complessiva superasse i 30.000 uomini giorno. L’art. 13 è stato ora espunto il riferimento al « Piano generale di sicurezza ».
— 100 — nente proposte integrative al piano di sicurezza e coordinamento e al piano generale di sicurezza; b) un piano di sicurezza sostitutivo nei casi in cui non siano applicabili gli artt. 12 e 13, d.lgs. n. 494/1996; c) un piano operativo di sicurezza per quanto attiene alle scelte autonome dell’appaltatore e alle sue relative resposabilità nell’organizzazione del cantiere e nell’esecuzione dei lavori da considerare piano complementare di dettaglio; d) un documento contenente proposte di modificazione dei piani di cui agli artt. 12 e 13 da redigere da parte delle imprese esecutrici. L’assetto così ricostruito delinea, come è stato rilevato (22), « un nuovo volto del diritto penale del lavoro ». Per ciò che attiene, infatti, alla c.d. moltiplicazione delle posizioni di garanzia s’impone una revisione dei consolidati schemi ricostruttivi della delega di funzioni trattandosi non più di analizzare i profili della responsabilità di soggetti dotati di poteri solo derivati, bensì di esaminare il ruolo di coloro che, a titolo originario, sono chiamati a rispettare la normativa antinfortunistica nell’esercizio dei poteri nominativamente elencati dagli stessi provvedimenti normativi. Per ciò che, invece, attiene alla frequente imposizione dell’obbligo d’adozione di « documenti di valutazione dei rischi », tale forma di procedimentalizzazione della gestione della sicurezza determina, fatalmente, il ricorso a vere e proprie « discipline » rilevanti ex art. 43 c.p. con la conseguenza che la stessa valutazione della colpa finisce per essere condizionata dai contenuti assunti dalle varie forme di autoregolamentazione disposte nella gestione dei rischi. Come si avrà modo di precisare, i due aspetti del « nuovo volto » del diritto penale del lavoro sono suscettibili di porre non indifferenti problemi di compatibilità con i fondamentali principi generali del sistema sanzionatorio in materia di prevenzione antinfortunistica ed, in particolare, con il principio di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 Cost. In assenza di una corretta ripartizione degli obblighi prevenzionistici, infatti, la moltiplicazione delle posizioni di garanzia rischia di evocare forme di vera e propria responsabilità di posizione, in ragione dell’indiscriminata attribuzione, a tutti i soggetti menzionati, delle responsabilità derivanti da violazioni pur esclusivamente riferibili ad altri. Per ciò che, invece, riguarda il problema della valutazione della colpa per inosservanza delle esigenze cautelari recepite nei documenti di valutazione dei rischi, si pongono rilevanti problemi interpretativi concernenti sia l’eventuale concorso tra valutazioni di colpa specifica e valutazioni di colpa generica (allorquando, pur a fronte dell’osservanza dei precetti documentali, residui un giudizio in termini di negligenza ed imprudenza), sia il momento della costruzione della stessa regola cautelare di condotta. In questo caso, infatti, il parametro di riferimento è costituito dal complesso (22)
Cfr. retro n. 16.
— 101 — delle conoscenze che lo stesso soggetto tenuto alla redazione del documento dovrebbe possedere, essendo, egli tenuto a garantire solo ciò che sia « tecnicamente attuabile » o, comunque, « concretamente possibile ». In particolare, lo standard di sicurezza auspicabile è determinato dai migliori ritrovati della scienza e della tecnica disponibili nel momento storico anche se, nell’ipotesi in cui il datore di lavoro non sia in grado di raggiungere tali livelli, egli potrà limitarsi ad operare solo per quanto « concretamente possibile ». Ne deriva che, è lo stesso soggetto della cui responsabilità si discute a fornire la regola attraverso la quale essere valutato, in un sistema di autovalutazione in cui il soggetto passivo del giudizio diviene la « misura » della sua stessa colpa ed in cui il livello di sicurezza richiesto potrebbe anche abbassarsi fino a quanto risulti « concretamente possibile ». Come rilevato poco sopra, tuttavia, l’attribuzione al datore di lavoro della possibilità di adottare solo le misure concretamente possibili risponde alla nuova logica della sicurezza recepita dai decreti degli anni Novanta che, per l’appunto, risultano protesi non ad eliminare tout court il pericolo ma a ridurre i rischi secondo ciò che sia « concretamente possibile » (23). 4. Passando, ora, a considerare l’assetto delineato dal d.lgs. n. 494/1996 deve rilevarsi che l’apparato sanzionatorio derivante dall’applicazione degli artt. 20-23, d.lgs. n. 494/1996 ha ad oggetto esclusivamente ipotesi di illeciti (penali e non) « propri » del committente, del responsabile dei lavori, dei coordinatori per la progettazione e per l’esecuzione dell’opera, dei datori di lavoro dei dirigenti, dei preposti e dei lavoratori autonomi. Stanti le caratteristiche strutturali di tali tipologie di reati ed, in particolare, il rapporto di corrispondenza biunivoca tra la titolarità effettiva di specifici poteri e l’attribuzione della qualifica penalmente rilevante, parrebbe trattarsi di quelle ipotesi che un’autorevole dottrina (24) ha felicemente definito in termini di « reati propri a struttura inversa ». La responsabilità non viene, infatti, ascritta in ragione del mero dato formale del possesso della qualifica normativa, bensì in conseguenza della titolarità di quei poteri e doveri giuridici che della qualifica sono espressione e che (23) Cfr. sent. C. cost. 18 luglio 1996 n. 312 in Dir. prat. lav., 1996, p. 3171. Sollevata questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 25 e 70 Cost., dell’art. 41,1 d.lgs. 277/1991 « nella parte in cui contrasterebbe con i principi di tassatività e determinatezza. La Corte ha precisato che il riferimento all’obbligo di adottare le misure concretamente attuabili è determinato e non generico dovendo, l’interprete, riferirsi « alle applicazioni tecnologiche generalmente praticate ed agli accorgimenti tecnici generalmente acquisiti ». (24) Cfr. A. PAGLIARO, Il concorso dell’estraneo nei delitti contro la pubblica amministrazione, in Dir. pen. proc., n. 8, 1995, p. 975.
— 102 — alla qualifica stessa attribuiscono ragion d’essere. « A struttura inversa », dunque, perché la titolarità della qualifica è, logicamente e giuridicamente, un posterius rispetto all’effettivo possesso dei poteri consentanei all’adempimento dei doveri penalmente sanzionati. A tal proposito, il committente è il soggetto per conto del quale l’intera opera viene realizzata. Al fine di delineare l’ambito dei poteri che ne caratterizzano la figura, non pare inopportuno ricordare la definizione contenuta nella circolare del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale del 18 marzo 1997 n. 41. Essa ha, infatti, proceduto all’individuazione del « committente-persona fisica » all’interno delle persone giuridiche o degli enti a struttura organizzativa complessa, precisando che « nell’ambito delle persone giuridiche pubbliche e private, tale persona deve essere identificata nel soggetto legittimato alla firma del contratto d’appalto per l’esecuzione dell’opera ». Tale forma d’identificazione risultava, a ben vedere, indispensabile dal momento che, essendo il committente titolare di obblighi penalmente sanzionati, deve necessariamente identificarsi in una persona fisica per il fondamentale principio di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 Cost. Orbene, essendo tale « persona fisica » individuata nel « soggetto legittimato alla firma del contratto d’appalto », secondo parte della dottrina (25), il criterio d’identificazione, pur apparentemente formale, risulterebbe, a ben vedere, dotato di una sua intrinseca compatibilità con i principi generali del sistema antinfortunistico ed, in particolare, con il principio secondo il quale la titolarità della qualifica penalistica segue all’effettivo esercizio del potere. In particolare, in quanto legittimato alla firma del contratto d’appalto, il committente risulta l’unico soggetto in grado di decidere se il suddetto accordo rientri nell’ambito d’applicazione del decreto in esame e se, conseguentemente, occorra nominare un responsabile dei lavori. Ne deriva, dunque, che, come sopra precisato, la qualifica di « committente » segue logicamente alla titolarità del potere di stipulare il contratto d’appalto. Allo stesso modo, il responsabile dei lavori è sostanzialmente identificabile in una sorta di alter ego del committente che, tuttavia, non deve essere confuso con il direttore dei lavori per conto del committente impegnato esclusivamente ad esercitare il potere di verifica di cui all’art. 1662 c.c., né con il direttore tecnico di cantiere nominato dall’appaltatore allo scopo di realizzare a regola d’arte l’opera commissionata, incaricato di svolgere funzioni di controllo globale sulla progettazione e sull’esecuzione dei lavori, altrimenti demandate al committente. (25) Cfr. A. CULOTTA-DI LECCE-COSTAGLIOLA, op. cit., p. 220. Contra SOPRANI, Definizione di committene nel settore pubblico, in ISL, n. 10, 1997, p. 97, p. 579; STOLFA, Sicurezza sul lavoro e nei cantieri: nuovi chiarimenti, in ISL, n. 4, 1998, p. 177.
— 103 — Analogamente, gli artt. 4 e 5 delineano i compiti dei coordinatori in modo analitico tanto da non lasciar dubbi sulla circostanza che, come si diceva, non sia la qualifica formale a fondare la responsabilità ma l’esistenza di fatto dei poteri ad attribuire il titolo formale. Del datore di lavoro, poi, si fornisce una definizione pienamente conforme ai richiamati principi sostanzialistici dal momento che l’art. 2, d.lgs. n. 626/1994 lo qualifica, per l’appunto, in termini di « responsabile dell’impresa » in quanto « titolare dei poteri decisionali e di spesa ». Infine, il lavoratore autonomo è, per definizione, colui la cui attività professionale concorre alla realizzazione dell’opera senza vincolo di subordinazione con il committente risultando, dunque, ex se, responsabile del reato proprio solo in quanto impegnato in una determinata attività. Orbene, l’art. 6, d.lgs. n. 494/1996 stabiliva, prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 528/1999, che « la designazione del responsabile dei lavori non esonera il committente dalle responsabilità connesse all’adempimento degli obblighi di cui all’art. 3 » e che « la designazione di coordinatori per la progettazione e di coordinatori per l’esecuzione dei lavori non esonera il committente e il responsabile dei lavori dalle responsabilità connesse alla verifica dell’adempimento degli obblighi di cui agli artt. 4 e 5 ». Da un’interpretazione letterale della disposizione pareva doversi concludere che, quand’anche il committente o il responsabile dei lavori avessero designato soggetti dotati dei requisiti tecnico-professionali idonei all’adempimento degli obblighi sanzionati (dati, rispettivamente, dallo stesso responsabile dei lavori e dai coordinatori) conferendo loro la necessaria autonomia d’intervento, essi sarebbero rimasti vincolati alla responsabilità per tutte le violazioni commesse dai soggetti designati, anche quando quest’ultime fossero state riferibili esclusivamente ai loro autori. La loro responsabilità, dunque, avrebbe finito per integrare i tratti distintivi di quella responsabilità di posizione che, fondandosi su un giudizio di rimproverabilità personale per il mero fatto di rivestire uno status rappresentava una macroscopica violazione del principio di personalità della responsabilità penale. Prima di giungere ad una tale conclusione si vendeva, tuttavia, necessario vagliare la possibilità di soluzioni ermeneutiche alternative e conformi ai predetti principi costituzionali. A tal proposito, la circolare del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale n. 41/1997 aveva suggerito una lettura alternativa della disposizione, precisando che, con particolare riguardo all’intreccio delle responsabilità tra committente e responsabile dei lavori, il committente rimane responsabile per le violazioni poste in essere dal responsabile dei lavori nei soli casi di culpa in eligendo ed in
— 104 — vigilando (26). Il modello di responsabilità così ricostruito risultava chiaramente desunto delle elaborazioni dottrinarie e giurisprudenziali in materia di efficacia della delega di funzioni. In particolare, secondo una parte della dottrina e della giurisprudenza la delega di funzioni è insuscettibile di trasferire la titolarità della posizione di garanzia e, quindi, di esimere il delegante da qualsiasi responsabilità per il fatto commesso dal delegato (27). L’efficacia della delega risulta, al contrario, meramente subiettiva nel senso che, ferma la permanenza della posizione di garanzia in capo al soggetto che ne risulta gravato ex lege, essa può solo dar luogo ad un mutamento del contenuto dell’obbligo del delegante nel senso che a quello di adempiere direttamente ai precetti imposti si sostituisce un dovere di controllo e di vigilanza sulle modalità della sua attuazione da parte dell’incaricato (28). Se così non fosse, infatti, un mero atto d’autonomia privata sarebbe suscettibile di determinare la dismissione di una posizione di garanzia imposta dalla norma penale. Ne deriva, dunque, che, ferma la posizione di garanzia in capo al delegante, egli potrà rispondere delle violazioni commesse dal delegato o a titolo di culpa in eligendo ovvero di culpa in vigilando. Il fondamento giustificativo della responsabilità del delegante nelle ipotesi ora considerate può essere agevolmente individuato nel principio dell’affidamento (c.d. Vertrauengrundsatz) (29). In particolare, allorquando il collaboratore sia stato scelto tra soggetti palesemente inidonei allo svolgimento dei compiti assegnati ovvero sia stata omessa la necessaria sorveglianza sull’attività dello stesso, l’affidamento riposto dal delegante sulla legittimità del comportamento del delegato diviene colpevole e, come tale, non più meritevole di tutela. A ben vedere, tuttavia, tale correttivo all’interpretazione letterale dell’art. 6, d.lgs. n. 494/1996 non risultava idoneo a ricondurre la responsabilità del committente o del responsabile dei lavori all’alveo del principio sancito dall’art. 27 Cost. (30). Infatti, se indipendentemente dalla circostanza che fossero stati designati professionisti pienamente qualificati, si imponeva comunque ai soggetti posti al vertice dell’organizzazione del (26) Cfr. F. BACCHINI, Il d.lgs. n. 494/1996 ed il sistema delle responsabilità penali, in ISL, n. 5, 1999, p. 271. (27) V. nota n. 9. (28) SCHÜNEMANN, Unternehmerkriminalität und Strafrecht, Köln, 1979, p. 67 ove, per l’appunto, si afferma, a seguito della Delegation von Kompetenz, il dovere del dante l’incarico si modifica in funzione dei poteri di signoria (Herrschaftbefugnissen) che egli si riserva in un dovere di controllo (Kontrollpflicht). (29) Cfr. M. MANTOVANI, Il principio d’affidamento nel reato colposo, Milano, 1997, p. 245. (30) Cfr. FERRARA-GIUDICI-MORELLI-ZAPPOLI, Manuale di sicurezza del lavoro, Milano, 1998, p. 586.
— 105 — cantiere uno stringente obbligo di controllo sugli incaricati sembrava, per vero, vanificarsi l’utilità stessa del ricorso a soggetti qualificati. Analogamente a quanto rilevato sotto il profilo dei rapporti committente e responsabile dei lavori, la lettera dell’art. 6, comma 2 considerava una simile responsabilità di posizione del committente o del responsabile dei lavori per le violazioni commesse dai coordinatori. Orbene, il testo dell’art. 6 d.lgs. 494/1996 è stato profondamente modificato dall’art. 6 d.lgs. 528/1999. Si stabilisce pertanto che « Il committente è esonerato dalle responsabilità connesse all’adempimento degli obblichi limitatamente all’incarico conferito al responsabile dei lavori ». Inoltre, prevede il c. 2 della disposizione appena ricordata che « la designazione del coordinatore per la progettazione e del coordinatore per l’esecuzione, non esonera il committente o il responsabile dei lavori dalle responsabilità connesse alla verifica dell’adempimento degli obblighi di cui all’art. 4 comma 1 e 5 comma 1, lettera a) ». Per le ragioni poc’anzi esposte, parrebbe, doversi ritenere che il legislatore della riforma abbia preso atto che l’attribuzione al committente e al responsabile dei lavori della facoltà di nominare coordinatori per la progettazione o per l’esecuzione dell’opera si giustifica in ragione del fatto che essi sono per lo più sprovvisti delle conoscenze idonee a selezionare le misure e le cautele necessarie alla prevenzione degli infortuni nei cantieri e che l’unico modo per assicurare la tutela è quello di designare veri e propri « tecnici del mestiere ». Sarebbe, allora, del tutto incompatibile col meccanismo di ripartizione degli obblighi prevenzionistici imporre, sempre e comunque, che il committente o il responsabile dei lavori esercitino un perpetuo controllo sulle attività dei tecnici designati. In tal modo, infatti, si finirebbe per imporre ai soggetti privi delle necessarie competenze tecniche obblighi più gravosi di quelli prescritti ai professionisti in possesso delle caratteristiche di cui all’ art. 10. Le conseguenze paradossali alle quali si giunge applicando alle ipotesi in esame i principi in materia di delega di funzioni impone di considerare se sia davvero giustificato inquadrare tali situazioni nello schema giurisprudenziale del trasferimento di poteri pur a fronte delle innovazioni apportate dal d.lgs. n. 494/1996 nella ripartizione delle obbligazioni di garanzia. Se si analizzano gli orientamenti giurisprudenziali che, a partire dagli anni Settanta, procedettero alla ricostruzione pretoria dell’istituto della delega di funzioni, ci si avvede senza difficoltà come quest’ultima trovò il suo campo d’elezione proprio nelle ipotesi in cui il datore di lavoro risultava l’unico soggetto obbligato all’adempimento degli obblighi penalmente sanzionati. Non potendo, infatti, un unico soggetto verosimilmente adempiere da solo la fitta congerie di precetti antinfortunistici di cui risultava destinatario indefettibile, si rendeva necessario il trasferimento a col-
— 106 — laboratori qualificati di taluni degli obblighi astrattamente riferiti all’imprenditore-capo dell’azienda (31). Ma a differenza di quest’ipotesi, il d.lgs. n. 494/1996 individua una serie di garanti della sicurezza provvedendo, per di più, ad elencare puntualmente i poteri ed i doveri inerenti alla qualifica da ciascuno posseduta. La conseguenza che logicamente ne deriva è che, come si preciserà tra breve, la titolarità originaria, di specifiche funzioni parrebbe rendere sostanzialmente privo di giustificazione il ricorso, nei confronti dei soggetti menzionati dalla legge, all’istituto della delega ed, al tempo stesso, suggerire la ricerca di soluzioni ermeneutiche alternative a quelle delineate dalla circolare n. 41/1997 per regolare il complesso sistema dell’intreccio delle responsabilità tra i soggetti indicati. 5. Come appena ricordato, la ripartizione degli obblighi prevenzionistici effettuata dal d.lgs. n. 494/1996 presenta caratteri spiccatamente innovativi rispetto a quanto previsto dai decreti antinfortunistici del 1955 e del 1956. In quest’ultimi, infatti, il legislatore aveva provveduto alla diretta menzione, accanto al datore di lavoro, anche dei dirigenti, dei preposti e dei lavoratori chiamandoli, congiuntamente, all’adempimento di determinati compiti e dando, in tal modo, luogo ad una ripartizione piramidale degli obblighi prevenzionistici dal datore di lavoro agli stessi lavoratori. Peraltro, tale modello quadripartito di responsabilità si è mantenuto fino al d.lgs. n. 626/1994 che, al pari dei decreti antinfortunistici del 1955 e del 1956 menziona, tra i soggetti responsabili, per l’appunto il datore di lavoro, i dirigenti, i preposti nonché i lavoratori stessi (cfr. art. 4, d.P.R. 27 aprile 1955 n. 547, art. 3, d.P.R. 7 gennaio 1956 n. 164, art. 4, d.P.R. 19 marzo 1956 n. 303, art. 5, d.lgs. 15 agosto 1991 n. 277, art. 4, d.lgs. 19 settembre 1994 n. 626). Pur essendo tali ipotesi logicamente distinte dai casi in cui gli obblighi di sicurezza siano imposti in via esclusiva al datore di lavoro, a ben vedere, il ricorso alla delega di funzioni risulta, anche in questi casi, pienamente giustificabile, ben potendo il titolare della posizione gerarchica di vertice (e, cioè, il datore di lavoro) trasferire le funzioni a lui ascritte in via primaria, anche se non esclusiva, ai sottoposti conformemente alla gerarchia indicata ex lege. Non essendo, infatti, i collaboratori del datore di lavoro titolari in via esclusiva di determinati poteri, la qualifica di diri(31) Come si preciserà nel paragrafo successivo, all’istituto della delega di funzioni la giurisprudenza aveva fatto parimenti ricorso nei casi in cui, pur essendo menzionati altri soggetti accanto al datore di lavoro (ad esempio i dirigenti, i preposti e i prestatori di lavoro di cui ai decreti antinfortunistici del 1955 e del 1956) a quest’ultimo spettava, comunque, il compito di ripartire le funzioni all’interno dell’impresa, non essendo le persone menzionate titolati originaria di alcun obbligo specifico.
— 107 — gente o di preposto non può che derivare da una scelta organizzativa del datore di lavoro fatta, per l’appunto, per il tramite di una delega di funzioni. Essa risulta, dunque, necessaria per operare il trasferimento di funzioni che sono cumulativamente riferite al datore di lavoro ed ai suoi collaboratori ferma restando, tuttavia, come si ricordava poco sopra, la permanenza, in capo al delegante di un obbligo di vigilanza e di controllo dell’attività dei delegati. L’assetto appena delineato sembra, peraltro, essere stato confermato dalle recenti modificazioni apportate al d.lgs. n. 626/1994 da parte del d.lgs. n. 242/1996. Quest’ultimo decreto, infatti, per la prima volta nella storia della legislazione antinfortunistica, ha fatto espressa menzione della delega di funzioni all’art. 1, comma 4-ter stabilendo, sia pure in negativo, in quali casi la delega risulta inammissibile e quindi riconoscendone inequivocabilmente la legittimità e la validità in tutte le ipotesi non sussumibili nel divieto. Come, tuttavia, rilevato dalla più attenta dottrina (32), la circostanza che il legislatore menzioni nominativamente i collaboratori dell’imprenditore non può non presentare significativi riflessi sul piano dell’accertamento delle rispettive responsabilità. Ferma restando, infatti, la possibilità del ricorso alla delega di funzioni da parte del datore di lavoro e, in particolare, la permanenza, in capo a quest’ultimo, della posizione di garanzia, il livello di diligenza da lui esigibile dovrebbe, ragionevolmente, abbassarsi richiedendosi semplicemente un controllo di larga massima sull’operato dell’incaricato. Sia che il datore di lavoro venga indicato in qualità di unico soggetto responsabile sia che la legge stessa provveda all’individuazione dei collaboratori del capo dell’impresa, deve, dunque, ritenersi che, a seguito del trasferimento delle funzioni, tra delegante e delegati (siano essi tali a titolo originario o a titolo derivativo) si determini una situazione di concorso di posizioni di garanzia, pur essendo esse dotate di un contenuto sensibilmente differenziato (obbligo d’adempimento diretto e personale per i delegati e obbligo di controllo per il delegante) (33). Dalle ipotesi appena delineate sembrerebbe, tuttavia, opportuno distinguere i casi (quali, per l’appunto, quelli delineati dal d.lgs. n. 494/1996) in cui la legge non si limiti soltanto ad indicare nominativa(32) T. PADOVANI, Diritto penale del lavoro, cit. p. 80-81; 106-107. Recentemente, la giurisprudenza ha espressamente fatto riferimento alla suddetta distinzione concettuale tra delega di funzioni al quisque de populo e designazione di colui che sia direttamente designato dalla legge. Cfr. Cass. 27 gennaio 1999, in Mass. Giur. lav., 1999, p. 700. (33) La predetta situazione di « concorso di posizioni di garanzia » deve essere concettualmente distinta dai casi di « successione di posizioni di garanzia » ove, a ben vedere, il garante è sempre e solo uno che si « sostituisce » all’altro. In argomento cfr. A. CULOTTA, Successione nella « posizione di garanzia » e responsabilità per violazione delle norme precauzionali del delegante e del delegato alla sicurezza, in Riv. crit. dir. lav., 1997, p. 845.
— 108 — mente una pluralità di soggetti responsabili ma provveda a individuare analiticamente i poteri necessari a sostanziare la qualifica, operando, a monte, quella ripartizione di obblighi prevenzionistici che, normalmente, è demandata al datore di lavoro attraverso lo strumento della delega di funzioni. Una tale classificazione risulta, per vero, presente nella dottrina francese (34) ove, per l’appunto, si provvede alla distinzione concettuale tra casi di « délégation de pouvoir » allorquando vi sia un superiore gerarchico titolare in via primaria o esclusiva delle funzioni oggetto della delega da quelli di « designation primaire de responsable ». In quest’ultimi casi, essendo i soggetti responsabili parimenti dotati ex lege di una propria ed esclusiva sfera di poteri, non parrebbe logicamente ammissibile il ricorso all’istituto della delega di funzioni intesa in senso proprio, per la semplice ragione che non vi sono poteri da trasferire ma solo soggetti da nominare. A differenza della delega di funzioni, inoltre, la nomina non produce effetti costitutivi ma meramente dichiarativi, contribuendo ad individuare, hic et nunc, i soggetti già astrattamente indicati dalla legge in qualità di responsabili a titolo originario dell’adempimento delle obbligazioni antinfortunistiche loro ascritte. In tali ipotesi poiché alla nomina segue un vero e proprio riparto normativo di posizioni di garanzia, non parrebbe esservi spazio per l’imposizione di un obbligo di stretta vigilanza sull’operato del designato. Nel caso di specie, infatti, si determina una situazione sovrapponibile alle ipotesi di vera e propria « divisione del lavoro », con la conseguenza che a seguito della nomina ciascuno diviene, in via esclusiva, soggetto incaricato dello svolgimento dei compiti definiti dalla legge. Principio generale della divisione del lavoro è, poi, quello d’affidamento sulla corretta esecuzione dei compiti, con la conseguenza che ciascuno potrà confidare sul puntuale assolvimento dei compiti assegnati, liberandosi da stringenti obbligazioni di controllo e di impedimento degli illeciti di chi, già per legge, riveste una posizione del tutto autonoma. Per ciò che specificamente attiene a rapporti tra committente, responsabile dei lavori e coordinatori per la progettazione e per l’esecuzione dell’opera, sembra, allora, che soprattutto a seguito della riforma intervenuta con il d.lgs. 528/1999 si debba ritenere che, in seguito della nomina, tali soggetti risultino titolari originariamente delle obbligazioni ascritte senza che, come si verifica in caso di delega di funzioni in senso proprio, possa ravvisarsi alcun obbligo accessorio di controllo. Una volta effettuata la nomina, infatti, l’adempimento degli obblighi ascritti ex lege graverà solo sul designato. (34) Cfr. CATALA, Notion de Délégation: formes, conditions, limites et cas, in La responsabilité des chefs d’entreprise en matiere d’hygiene et de securité du travail, JCP, 1976, p. 161.
— 109 — Bisogna, tuttavia, precisare che per assumere tale efficacia la nomina deve investire un soggetto realmente provvisto dei requisiti necessari per lo svolgimento delle funzioni attribuite dalla legge ed operante in condizioni di piena ed effettiva autonomia nei confronti del preponente. In caso contrario, non potrebbe non attribuirsi al designante di una responsabilità concorrente con quella del designato secondo il modello della culpa in eligendo poiché il designato non è, in realtà, investito delle funzioni che, normativamente, sorreggono e giustificano la qualifica e la correlativa posizione di garanzia. Ad analoghe conclusioni si deve pervenire nel caso in cui colui che ha effettuato la nomina si ingerisca nelle attività del soggetto designato. Sotto tale profilo, particolarmente significativo appare quanto stabilito dall’art. 3, comma 7, d.lgs. n. 494/1996, ove si prescrive che « il committente o il responsabile dei lavori può sostituire in qualsiasi momento, anche personalmente se in possesso dei requisiti di cui all’art. 10, i soggetti designati in attuazione dei commi 3 e 4 ». Infatti, se una volta designati i responsabili, coloro che hanno provveduto alla nomina intervengono nelle attività da questi svolte sostituendovisi, a coloro che si sono ingeriti non potranno non imputarsi le violazioni degli obblighi imposti a coloro che sono stati sostituiti, in piena armonia con un principio fondamentale per il settore della prevenzione antinfortunistica, vale a dire quello secondo il quale la responsabilità segue il potere (35). Orbene, parrebbe, a questo punto, potersi affermare che, laddove l’art. 6 c. 2 attribuisce al committente o al responsabile dei lavori le responsabilità connesse alla verifica dell’adempimento, da parte dei soggetti di volta in volta nominati, degli obblighi di cui agli artt. 4 c. 1 e 5 c. 1, esso abbia inteso ribadire che non è il mero atto formale dell’attribuzione di una qualifica a giustificare l’esonero dalle responsabilità del designante bensì la scelta di un soggetto dotato dei requisiti in concreto idonei ad adempiere efficacemente ed autonomamente ai precetti penalmente sanzionati. L’art. 6, dunque, non impone al committente e al responsabile dei lavori l’obbligo d’impedire sempre e comunque la commissione delle contravvenzioni da parte dei soggetti designati dal momento che, se così fosse, esso avrebbe dato luogo ad una vera e propria responsabilità di posizione. Al contrario, si può rilevare che l’attribuzione alla nomina dei coordinatori responsabili di un’efficacia in qualche misura esimente nei confronti di committenti e responsabili dei lavori sia logicamente connessa all’intento del legislatore della riforma di operare una vera e propria ripartizione di posizioni di garanzia in situazioni che richiedono spiccate competenze tecniche e nelle quali assurdo sarebbe attribuire proprio al (35)
V. retro nota n. 6.
— 110 — soggetto che ne è privo (rectius il committente o il responsabile dei lavori) un obbligo di controllo sull’operato del professionista che ne è, al contrario, dotato. Ne consegue che manca un obbligo di controllo stabilito da una particolare norma giuridica. Come tuttavia rilevato dalla dottrina (36), tale giudizio può essere tratto, dall’art. 2087 c.c. dal momento che tale disposizione prevede l’attribuzione di una « posizione di garanzia in bianco » l’individuazione della quale non dipende logicamente dalla sussistenza di una specifica legge o disposizione di legge avente ad oggetto la previsione dell’obbligo di garanzia. L’art. 2087 cc., infatti, con il riferire all’imprenditore il « dovere di sicurezza », sottolinea esplicitamente il nesso di principio fra titolante dei poteri imprenditoriali e titolante di quel dovere di buona organizzazione dell’impresa. Tale collegamento logico-giuridico tra potere e dovere finisce per fondare una possibile responsabilità per omissione a titolo di colpa (generica) del soggetto designante. Sembra di poter concludere nel senso che, in presenza di una nomina validamente effettuata, sul committente — stanti le modifiche intervenute con il d.lgs. 528/99 — non gravi un obbligo giuridico d’impedimento dei reati (ex art. 40, 2 c.p.) del responsabile dei lavori, con la conseguenza che se la scelta non è caduta su di un soggetto palesemente inidoneo allo svolgimento dei compiti assegnati e se il preponente non si è ingerito nelle attività del designato attraverso la prestazione di un attivo contributo alla realizzazione della contravvenzione antinfortunistica, la responsabilità graverà sempre sul responsabile dei lavori validamente designato. Come, invece, dispone l’art. 6 c. 2 d.lgs. 494/1996 « la designazione del coordinatore per la progettazione e del coordinatore per l’esecuzione, non esonera il committente o il responsabile dei lavori dalle responsabilità connesse alla verifica dell’adempimento degli obblighi di cui all’art. 4 c. 1 e 5 c. 1, lettera a) ». Ne deriva che il committente o, se nominato, il responsabile dei lavori sono tenuti a controllare l’operato dei collaboratori validamente designati in adempimento del dovere di sicurezza stabilito dall’art. 2087 c.c. e specificato o, per meglio dire, « riempito di contenuto » dall’art. 6 c. 2 d.lgs. 494/1996. Si deve, tuttavia, precisare che, nella determinazione del « livello » o dello « standard » di diligenza esigibile dal controllore non può essere irrilevante la designazione analitica dei poteri dei coordinatori per la progettazione e l’esecuzione dei lavori. Se, infatti, come sostenuto dal prof. Padovani con riferimento all’intreccio delle posizioni di garanzia nei decreti antifortunistici del 1955 e del 1956 ed alla designazione nominativa dei ‘‘dirigenti’’ e dei ‘‘preposti’’, il livello di diligenza esigibile da parte del designante dovrebbe, ragionevolmente, abbas(36) Cfr. D. PULITANÒ, voce Igiene e sicurezza del lavoro, in Dig. disc. pen., v. VI, Torino, 1992, p. 110; C. SMURAGLIA, voce Igiene, in Enc. giur., v. XV, Roma, 1989, p. 1.
— 111 — sarsi « richiedendosi semplicemente un controllo di larga massima sull’operato dell’incaricato », nelle ipotesi qui in esame la diligenza esigibile dovrebbe notevolmente abbassarsi nell’obiettivo tendenziale di un progressivo alleggerimento della posizione del committente o del responsabile dei lavori. Nella prima ricordata prospettiva teleologica del ridimensionamento del complesso delle obbligazioni di garanzia del committente si inserisce anche la nuova formulazione dell’art. 20 nel cui nuovo testo, il committente viene chiamato a rispondere non più insieme ma alternativamente al responsabile dei lavori. Non può, tuttavia, negarsi che le difficoltà interpretative già sollevate dal decreto 494/1996 prima dell’intervento della modifica legislativa del 1999, specie sotto il profilo dell’intreccio delle responsabilità tra i soggetti titolari delle diverse posizioni di garanzia, non sono effatto eliminate. Posto che la procedimentalizzazione della sicurezza e della relativa gestione ha determinato la « moltiplicazione delle posizioni di garanzia » in materia antinfortunistica, le possibilità che il principio di personalità delle responsabilità penale risulti violato in ragione di un’indiscriminata « chiamata in correità » di tutte le persone menzionate dalla legge sono destinate fatalmente ad aumentare. S’impone, pertranto, una più netta ripartizione degli obblighi reciproci in materia di sicurezza nel rispetto, da un lato, dell’art. 27 Cost. e, dall’altro, di quel principio di effettività che si esprime attraverso l’attribuzione della responsabilità al « reale » titolare dei poteri consentanei all’adempimento dei doveri penalmente sanzionati. GAETANA MORGANTE Perfezionanda in Diritto penale presso la Scuola Superiore di Studi Universitari e di Perfezionamento S. Anna-Pisa
SUL PRINCIPIO DI IMMANENZA DELLA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE
SOMMARIO: 1. L’oggetto (e l’occasione) dell’indagine — 2. L’immanenza nel suo significato forte nel codice di procedura penale del 1865 e del 1913 — 3. La codificazione della formula dell’immanenza nel codice di procedura penale del 1930 — 4. Il ridimensionamento dell’immanenza operato dal nuovo codice di procedura penale — 5. Il tramonto dell’immanenza intesa in senso forte — 6. L’interesse della parte civile a partecipare al giudizio d’impugnazione — 7. (segue) in particolare, la partecipazione della parte civile quale espressione dell’interesse a contrastare la formazione di un giudicato pregiudizievole — 8. Considerazioni finali.
1.
L’oggetto (e l’occasione) dell’indagine.
Stabilendo che « la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo », l’art. 76 comma 2o c.p.p. esprime il principio dell’immanenza, in un senso meramente letterale (1): la parte civile non deve rinnovare la costituzione effettuata in primo grado per partecipare ai gradi successivi (2). Ma di immanenza si è soliti ancora parlare (3), in un’accezione ben più pregnante, come dell’istituto che consente di riproporre ipso iure la domanda risarcitoria nel grado di impugnazione introdotto dal pubblico ministero o dall’imputato, pur in difetto di un autonomo gravame ad opera della parte civile. Al tempo del codice abrogato, muovendo da questa seconda accezione, si era sostenuto che il giudice d’appello potesse condannare al ri(1) V., fra i tanti, A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, Milano, Giuffrè, 1993, p. 178; A. GHIARA, Commento all’art. 76 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. I, Torino, Utet, 1989, p. 371; G. ICHINO, Commento agli artt. 76-79, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, a cura di E. Amodio e O. Dominioni, vol. I, Milano, Giuffrè, 1989, p. 458; A. PENNISI, Commento all’art. 76 c.p.p., in Commento al codice di procedura penale, a cura di A. Giarda e G. Spangher, Milano, IPSOA, 1997, p. 304. (2) Cfr., pure, l’art. 601 comma 4o c.p.p. che impone, « in ogni caso », la citazione della parte civile in appello. (3) Cfr., E. FORTUNA, I soggetti, in E. FORTUNA e altri, Manuale pratico del nuovo processo penale, 4a ed., Padova, Cedam, 1995, p. 228; sotto il codice abrogato, per tutti: ID., Azione penale e azione risarcitoria, Milano, Giuffrè, 1980, p. 552; V. MANZINI, Trattato di diritto processuale penale, vol. II, 6a ed. aggiornata da G. Conso e G.D. Pisapia, Torino, Utet, 1968, p. 480.
— 113 — sarcimento del danno l’imputato assolto in primo grado, sebbene la parte civile non avesse esperito impugnazione (4). All’orientamento in discorso — all’epoca maggioritario e riproposto, seppure isolatamente (5), nel vigore del nuovo codice — si opponeva un indirizzo che negava un simile potere al giudice d’appello allorquando la parte civile non aveva impugnato la sentenza di prime cure (6). Quest’ultimo indirizzo interpretativo, divenuto ormai prevalente (7), ha trovato, da ultimo, pure l’autorevole avallo delle Sezioni unite (8). Da qui l’opportunità di svolgere un’indagine orientata in una duplice direzione. Per un verso, si tratta d’individuare il significato attuale della formula: ci si domanda, in particolare, se nel nuovo codice trovi ancora un residuo spazio l’accezione più pregnante del termine « immanenza ». Per l’altro, c’è da interrogarsi circa la ratio sottostante all’art. 601 comma 4o c.p.p., laddove, nel disporre che alla parte civile sia dato modo, « in ogni caso », di partecipare al processo d’appello (9), sembra costituire la proiezione dell’immanenza nel giudizio d’impugnazione (10). Poiché la norma presuppone che la parte civile, sebbene non abbia appellato la sentenza di prime cure, conservi interesse a partecipare al giudizio di secondo grado, la risposta al quesito coinvolge, e in maniera non evitabile, gli effetti che scaturiscono dalla mancata impugnazione della parte eventuale, (4) Cass., Sez. IV, 25 giugno 1962, Amadesi, in Cass. pen. mass. ann., 1962, n. 2070, p. 1111; Id., Sez. III, 3 giugno 1975, Zelante, ivi, 1977, n. 1181, p. 984; Id., Sez. IV, 7 novembre 1977, La Spada, ivi, 1979, n. 588, p. 602; in dottrina, cfr., E. FORTUNA, Azione penale, cit., p. 556 ss. (5) Cass., Sez. V, 20 marzo 1997, Caratelli, in Arch. nuova proc. pen., 1997, p. 821. (6) Cass., Sez. IV, 23 gennaio 1984, Seragiotto, in Cass. pen., 1986, n. 729, p. 962; Id., Sez. III, 23 settembre 1986, Di Sario ed altro, in Foro it., 1988, II, c. 306; Id., Sez. II, 8 novembre 1988, Frattazio, in Cass. pen., 1990, n. 1244, p. 1531; nonché riguardo, ancora, il codice abrogato: Id., Sez. I, 6 maggio 1991, Gigliotti, ivi, 1993, n. 81, p. 98; Id., Sez. IV, 30 aprile 1993, Anelli, in Rep. giust. civ., 1995, p. 2485, n. 2; Id., Sez. IV, 3 febbraio 1994, P.M. in proc. De Palma, in Giur. it., 1994, II, c. 798; in dottrina, A. GIARDA, Sentenza assolutoria dell’imputato, potere di ricorso per cassazione e principio di immanenza della parte civile, in Scritti in memoria di G. Bellavista, vol. II, in II Tommaso Natale, 1978, p. 756; A. PENNISI, L’accessorietà dell’azione civile nel processo penale, Milano, Giuffrè, 1981, p. 158 ss. (7) Cass., Sez. IV, 21 giugno 1993, Baccilieri, in C.E.D. n. 194861; Id., Sez. III, 29 ottobre 1996, Pellinacci, in C.E.D. n. 206724; Id., Sez. IV, 29 ottobre 1997, Marcelli, in Arch. nuova proc. pen., 1997, 761; in dottrina, v., nello stesso senso, A. CHILIBERTI, Azione civile, cit., p. 475. (8) Cass., Sez. un., 25 novembre 1998, Loparco, in Cass. pen., 1999, n. 987, p. 2084, commentata da E. SACCHETTINI, Per la Cenerentola del processo penale nessuna conseguenza dal ribaltamento dei giudizi, in Guida al diritto, 3 aprile 1999, p. 94. (9) Riguardo al giudizio in cassazione, cfr. l’art. 610 comma 5o c.p.p., che impone che sia dato avviso dell’udienza « ai difensori ». (10) Cfr., l’art. 76 comma 2o c.p.p., laddove si riferisce ad « ogni grado » del processo; in dottrina, E. FORTUNA, I soggetti, cit., p. 227 s.
— 114 — vuoi nel processo penale, vuoi nella sede civile ove, eventualmente, venga riproposta la domanda risarcitoria. 2.
L’immanenza nel suo significato forte nel codice di procedura penale del 1865 e del 1913.
In ragione dell’assetto di volta in volta assunto dall’azione civile nel processo penale, il senso della formula dell’immanenza è certo mutato. Ancorché il codice del 1865 non ne parlasse, il principio dell’immanenza assumeva un significato forte. Induceva in tal senso il ruolo pubblicistico rivestito dalla « persona offesa o danneggiata » la quale esercitava una vera e propria azione penale (11). Poiché la persona offesa poteva pure costituirsi parte civile (12), non riusciva agevole distinguere fra istanza di punizione del colpevole ed iniziativa risarcitoria (13). In buona sostanza, la domanda proposta dalla parte civile e l’azione esercitata dal pubblico ministero apparivano accomunate dal medesimo interesse alla punizione dell’imputato (14), sicché non sorprende che l’in(11) Per determinate fattispecie criminose (così detti reati di azione privata), era conferita alla « parte lesa » facoltà di provvedere a citazione diretta dell’imputato dinanzi al giudice (artt. 331 e 371 c.p.p. 1865): cfr., anche riguardo all’evidente influenza del sistema francese, di recente, F. CORDERO, Riti e sapienza del diritto, Roma-Bari, Laterza, 1981, p. 364 s. e 380; A. GAITO, « Electa una via ». I rapporti fra azione civile e azione penale nei reati perseguibili a querela, Milano, Giuffrè, 1984, p. 14 ss.; A. PENNISI, L’accessorietà, cit., p. 9. (12) La costituzione di parte civile poteva avvenire « contemporaneamente alla querela » o, al più tardi, in un momento antecedente al rilascio dell’ordinanza di citazione dell’imputato (art. 110 comma 3o c.p.p. 1865): cfr. per tutti, G. BORSANI-L. CASORATI, Codice di procedura penale italiano commentato, vol. I, Milano, Pirola, 1873, p. 153. Nei procedimenti di competenza del tribunale, era impressa, poi, un’accelerazione processuale, giacché la dichiarazione doveva essere contenuta nel ricorso al presidente (art. 372 comma 2o c.p.p. 1865): cfr., in chiave retrospettiva, A. GAITO, « Electa una via », cit., p. 29. (13) Così, la rinuncia della parte civile al risarcimento del danno non pareva implicare la revoca della costituzione, potendo la parte restare in giudizio anche al solo fine di chiedere la condanna alla pena dell’imputato: Cass., 1o ottobre 1904, citata da A. PENNISI, L’accessorietà, cit., p. 38, nt. 17. Similmente, una parte della giurisprudenza (Cass., Sez. I, 9 novembre 1911, Morandi, in Riv. dir. e proc. pen., 1912, p. 84, con nota critica di C. CIVOLI, Sull’equipollenza della costituzione di parte civile alla querela; Id., Sez. II, 15 gennaio 1912, Arezzi, in Giust. pen., 1912, c. 1151) equiparava l’esercizio del diritto di querela alla proposizione dell’azione civile. Pure la dottrina non era unanime nel fornire un criterio d’individuazione dei presupposti legittimanti l’una o l’altra iniziativa (cfr., in vario senso, G. BORSANI-L. CASORATI, Codice, cit., vol. II, Milano, Pirola, 1876, p. 282; F. BENEVOLO, La parte civile nel giudizio penale, 2a ed., Torino, Utet, 1883, p. 18 ss.; F. SALUTO, Commenti al codice di procedura penale per il Regno d’ltalia, vol. I, Cagliari, Tipografia della Gazzetta Popolare, 1867, p. 435). (14) Emblematico l’art. 260 comma 2o c.p.p. 1865, che consentiva alla parte civile di proporre opposizione, restato inerte il pubblico ministero, avverso l’ordinanza di non luogo a procedere pronunciata dalla camera di consiglio: cfr., in senso critico, G. BORSANI-L. CASORATI, Codice, cit., vol. III, Milano, Pirola, 1878, p. 230 e ss.; G. PAOLI, L’intervento dell’atti-
— 115 — tervento del danneggiato sulla scena del processo penale fosse modellato sulla falsariga della partecipazione del pubblico ministero: se era « immanente » l’azione penale del secondo (15), non poteva che valere per il primo la stessa regola. Unanimemente, perciò, si riteneva che la parte civile, in caso di traslatio iudici, non avesse l’onere di rinnovare la costituzione, essendole sufficiente quella operata nel giudizio a quo (16). L’allontanamento dagli schemi civilistici (17) trovava ulteriore manifestazione nell’obbligatoria citazione della parte civile nel giudizio d’appello (18). Da ciò si opinava che la parte civile potesse presentare le sue conclusioni nel giudizio d’appello instaurato dal pubblico ministero o dall’imputato (19). In definitiva, pure chi escludeva che la parte civile « cooperasse » all’esercizio dell’azione penale promossa dal pubblico ministero, le consentiva di avvalersi del gravame altrui (20), facendo propria, così, la nozione più pregnante dell’immanenza. Sebbene la riforma del 1913 avesse cancellato i tratti più spiccatamente pubblicistici dell’esercizio dell’azione civile in sede penale (21), vità privata nell’esercizio dell’azione penale, Firenze, Tipografia Editrice Luigi Niccolai, 1913, p. 96 s.; F. SALUTO, Commenti, vol. I, cit., p. 693 ss.; e, in toni più sfumati, F. BENEVOLO, La parte civile, cit., p. 156. (15) In tal senso, L. BORSARI, Della azione penale, Torino, Utet, 1866, p. 315. (16) Così, il danneggiato, già costituito nella fase istruttoria, poteva partecipare al dibattimento di primo grado (cfr., F. CARFORA, Parte civile, in Dig. it., vol. XVIII, parte I, Torino, Utet, 1906-1910, p. 615) e al giudizio d’appello (v., F. BENEVOLO, La parte civile, cit., p. 219; F. SALUTO, Commenti, cit., vol. II, Cagliari, Tipografia della Gazzetta Popolare, 1868, p. 1112 e p. 1249); in tema di competenza, cfr., Cass., 7 novembre 1910, citata da V. MANZINI, Trattato di diritto processuale penale, vol. II, I soggetti del rapporto processuale penale, 2a ed., Torino, Bocca, 1924, p. 375, nt. 6. (17) Difatti, poiché sotto il codice di procedura civile del 1865 il processo d’appello era regolato dalle norme del giudizio di primo grado, era necessario che la parte civile rinnovasse in appello la costituzione: cfr., sul punto, G. CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, vol. II, sez. I, 2a ed., Napoli, Jovene, 1936, p. 560. (18) Cfr., artt. 361 comma 1o e 408 comma 1o c.p.p. 1865. (19) G. BORSANI-L. CASORATI, Codice, cit., vol. VI, Milano, Pirola, s.d., p. 233 s.; L. CASORATI, Appello penale (procedura), in Dig. it., vol. IV, parte I, Torino Utet, 1896, p. 118; nonché, amplius, F. COCITO, La parte civile in materia penale, Roma-Torino-Firenze, Fratelli Bocca, 1881, p. 278 ss.; contra, App. Venezia, 8 marzo 1878, Crosara ed altri, in Riv. pen., vol. VIII, 1878, p. 426, con nota adesiva redazionale. (20) Ancorché la sentenza di primo grado fosse inappellabile per la parte civile (così la pronuncia del tribunale, se l’ammontare dei danni richiesti era inferiore a millecinquecento lire, ovvero quella del pretore per somme inferiori a trenta lire: v., rispettivamente, gli artt. 399 comma 1o n. 3 e 353 comma 1o n. 3, c.p.p. 1865) oppure laddove il pubblico ministero o l’imputato avessero rinunciato all’appello: cfr., F. BENEVOLO, La parte civile, cit., p. 223 ss.; L. CASORATI, Appello, cit., p. 119. (21) Pur conservato, il sistema dell’azione penale privata, era stato ridotto a ben poca cosa: i soli delitti di ingiurie e diffamazione (cfr., l’art. 354 c.p.p. 1913; si precisava, comunque, nella Relazione al Re per l’approvazione del testo definitivo del codice del 1913, in L. MORTARA e altri, Commento al codice di procedura penale, vol. III, Torino, Utet, 1915,
— 116 — l’immanenza — pur sempre non fatta oggetto di espressa enunciazione — manteneva ancora il suo significato forte. In misura maggiore di quanto richiamerebbero i dati testuali, il sistema del 1913 risentiva, infatti, l’eco del dibattito sviluppatosi nel corso dei lavori preparatori, in particolare, riguardo alla necessità di accrescere i poteri di « partecipazione della parte civile allo svolgimento dell’azione pubblica », in modo da rendere effettivo « il consorzio processuale fra lo Stato e la parte civile » (22). Coerenti con la loro impostazione, le matrici positiviste propugnavano l’introduzione di un rigido assetto pubblicistico (23), sicchè, in una simile prospettiva, la pretesa volta a ricondurre l’azione civile ad una dimensione esclusivamente privatistica suonava come il mero portato di un superato apriorismo (24). Così, benché fosse prevalsa — in extremis — la linea che voleva emendare l’azione civile dei residui profili pubblicistici (25), tracce delle teorie positivistiche affioravano ancora qua e là (26). p. 586, che « questa facoltà non costitui(va) propriamente un vero esercizio di azione penale » il quale « resta(va) sempre ufficiale, sempre affidato al pubblico ministero »). Nell’intento, poi, di dissipare le passate incertezze, l’art. 53 comma 2o c.p.p. 1913 stabiliva che « per costituirsi parte civile non (era) necessario aver presentato o presentare querela ». (22) Cfr., la Relazione della Commissione speciale del Senato sul progetto del 1911 — relatore L. Mortara — in L. MORTARA e altri, Commento, vol. III, cit., p. 20. (23) La parte civile ben poteva presentare « conclusioni per l’applicazione delle pene, oltre che per la condanna al risarcimento del danno » e doveva essere « del pari autorizzata ad appellare, anche per gli effetti penali », allorquando il pubblico ministero non aveva esercitato il diritto d’impugnazione: cfr., la Relazione della Commissione speciale del Senato sul progetto del 1911 — relatore L. Mortara — in L. MORTARA e altri, Commento, vol. III, cit., p. 20. Circa l’impostazione della scuola positiva in ordine ai temi più pregnanti del processo penale, come il metodo di acquisizione della prova, i rapporti fra l’istruzione e il dibattimento, il libero convincimento del giudice: cfr., in chiave retrospettiva, P. FERRUA, Oralità del giudizio e letture di deposizioni testimoniali, Milano, Giuffrè, 1981, p. 146 ss.; M. NOBILI, Il principio del libero convincimento del giudice, Milano, Giuffrè, 1974, p. 225 ss. (24) Cfr., E. FERRI nel discorso tenuto alla Camera dei deputati il 22 maggio 1912 (in L. MORTARA e altri, Commento, vol. III, cit., p. 363), il quale parlava, al proposito, di « grave pregiudizio ». (25) Cfr., già la Relazione del Ministro guardasigilli al progetto del 1905, in L. MORTARA ed altri, Commento, cit., parte I, vol. II, Torino, Utet, 1913, p. 25 ss.; v., pure, la Relazione della Commissione speciale della Camera dei Deputati sul progetto del 1911 — relatore A. Stoppato —, in L. MORTARA e altri, Commento, vol. III, cit., p. 212 e 215; nonché la Relazione al Re per l’approvazione del testo definitivo del codice del 1913, ivi, p. 555 e 562. (26) Si pensi agli artt. 190 comma 1o e 43 comma 1o c.p.p. 1913, laddove imponevano al giudice, accertata la sussistenza del danno, di condannare l’imputato al risarcimento, anche in difetto di costituzione di parte civile (cfr., in sede ricostruttiva: E. AMODIO, Le cautele patrimoniali nel processo penale, Milano, Giuffrè, 1971, p. 283 s.; M. PISANI, Unione o separazione dei giudizi: prospettive de iure condendo, in AA.VV., Azione civile e processo penale, Atti del convegno di Lecce, Milano, 1971, p. 103). La concezione del risarcimento del danno quale funzione pubblica suonava, poi, ancor più forte nelle modifiche apportate al sistema delle cautele reali: si pensi all’ampliamento dei casi in cui la parte civile poteva iscrivere l’ipoteca legale, all’introduzione del sequestro conservativo, all’anteposizione del cre-
— 117 — In un tale assetto, non sorprende che la dottrina (27) riproponesse un assunto di sicura origine pubblicistica: la costituzione di parte civile « una volta avvenuta regolarmente ... si mant(eneva) sinché dura(va) il rapporto processuale, qualunque (fossero) le successive vicende del procedimento » (28). Correlativamente, la parte civile, « in base alla sua immanente qualità di soggetto accessorio del rapporto processuale, determinata dalla sua originaria costituzione », aveva facoltà di partecipare al giudizio d’appello, potendosi giovare, agli effetti civili, dell’appello proposto dalle altre parti (29). Una simile, solare enunciazione dell’immanenza, intesa in senso forte, mostrava come il principio fosse oramai compenetrato nel ruolo esercitato dal danneggiato costituitosi nel processo penale. Se l’immanenza appariva come un tratto scontato dell’assetto dell’azione civile in sede penale, è emblematico che, anni dopo, si considerasse superflua la sua proclamazione (30). 3.
La codificazione della formula dell’immanenza nel codice di procedura penale del 1930.
L’istituto della costituzione di parte civile, pur mantenuto dal codice del 1930, risultava ora relegato ai margini del sistema, poiché l’inserzione della domanda risarcitoria nella sede penale non doveva creare intralci allo svolgimento del rito (31): in buona sostanza, si privilegiava il valore dito del danneggiato costituito rispetto a quelli dello Stato per le spese processuali e le pene pecuniarie (v., per tutti, E. AMODIO, Le cautele, cit., p. 284 ss.). (27) La quale, del resto, non rimase immune dai condizionamenti pubblicistici: cfr., ancora, E. AMODIO, Le cautele, cit., p. 281. (28) Così, V. MANZINI, Trattato, vol. II, 2a ed., cit., p. 375; nonché, N. LEVI, La parte civile processo penale italiano, Torino, UTET, 1925, p. 226. (29) Così, ancora, V. MANZINI, Trattato, vol. II, 2a ed., cit., p. 407, per il quale, però, la parte civile non poteva « tenere in vita il giudizio di secondo grado, quando il gravame degli appellanti risult(asse) inammissibile » (ibid.); non essendo applicabile alle disposizioni civili il divieto di reformatio in peius, il giudice d’appello poteva, poi, « su appello del solo imputato, ed entro la sfera dei motivi d’impugnazione, provvedere ex novo alla liquidazione del danno, o disporre una liquidazione maggiore, o assegnare una provvisionale, o aumentare quella già assegnata, od ordinare la continuazione del sequestro, ecc. » (ID., Trattato, cit., vol. IV, Del procedimento penale, 2a ed., Torino, Fratelli Bocca, 1925, p. 550, con ampi richiami di giurisprudenza). (30) Così il Sindacato degli avvocati e procuratori di Torino, in Ministero della Giustizia e degli Affari di Culto, Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. IX, parte II, Osservazioni e proposte sul progetto preliminare di un nuovo codice di procedura penale, Roma, Tipografia delle Mantellate, 1930, p. 107. (31) Tramite un sistema di « norme più complete e precise » di quelle abrogate, si voleva evitare che la costituzione di parte civile e « gli atti che ne (erano) conseguenza ... (ritardassero) il processo penale »: cfr. la Relazione al Progetto preliminare, in Ministero della Giustizia e degli Affari di Culto, Lavori preparatori, cit., vol. VIII, Progetto preliminare di un nuovo codice di procedura penale con la relazione del Guardasigilli on. Alfredo Rocco, Roma, Tipografia delle Mantellate, 1929, p. 24.
— 118 — della speditezza processuale su quelli propri della domanda del danneggiato costituito. In questa prospettiva, la scelta di codificare l’immanenza (art. 92 comma 1o c.p.p.), principio frutto di una concezione pubblicistica dell’azione civile esercitata in sede penale, presentava una sua intima coerenza con la linea di tendenza espressa dal nuovo sistema. Tramite l’immanenza, si facilitava l’esercizio della domanda risarcitoria, ma, al tempo stesso, considerata la derivazione della formula dai sistemi del 1865 e del 1913, il legislatore mostrava pure di avere « esitato fra gli archetipi dell’accusa privata e della domanda di risarcimento » (32). La dottrina aveva, così, buon gioco a sostenere, sulla scorta dell’art. 517 comma 2o c.p.p. 1930 (33), che la funzione di accusa era « connaturata » all’esercizio in sede penale dell’azione civile (34). Si poneva (35), pertanto, in relazione l’immanenza con l’interesse alla condanna penale dell’imputato che la parte civile « condivideva » con il pubblico ministero (36). Una certa esitazione ad eliminare l’influenza del sistema dell’azione penale privata poteva cogliersi, oltre che nelle ipotesi anomale di costituzione di parte civile contemplate da norme estravaganti (37), pure nella scelta di conservare in capo alla parte civile ampi poteri di autodifesa esclusiva. Gli artt. 124 comma 2o e 126 c.p.p. 1930, laddove non imponevano la nomina di un difensore (38), permettevano alla parte civile di (32) Così, CORDERO, Procedura penale, 9a ed., Milano, Giuffrè, 1987, p. 232. (33) Com’è noto, la norma in discorso, unanimemente considerata espressione del principio di immanenza, imponeva la citazione in appello della parte civile, anche se la sentenza di proscioglimento fosse stata impugnata dal solo imputato. (34) Cfr. A. DE MARSICO, Diritto processuale penale, 4a ed. integrata ed aggiornata da G.D. Pisapia, Napoli, Jovene, 1966, p. 87; G. FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, vol. I, Milano, Giuffrè, 1956, p. 215 ss. (35) Cfr. G. FOSCHINI, Immanenza della costituzione di parte civile, in Riv. it. dir. proc., 1951, p. 218; ID., Sistema, vol I, cit., p. 150; v., pure, U. GUALTIERI, La parte civile nel processo penale, Napoli, Jovene, 1968, p. 105, per il quale « i poteri processuali della parte civile (erano) la proiezione » del suo interesse all’« attuazione della potestà punitiva »; contra, E. FORTUNA, Azione penale, cit., p. 302; A. GIARDA, Sentenza assolutoria, cit., p. 750. (36) Dalle conclusioni correnti non si discostava chi (v., Gius. SABATINI, L’immanenza della costituzione di parte civile, in Giust. pen., 1951, vol. III, p. 202) preferiva muovere dal principio dell’« unicità del rapporto processuale penale », quale corollario del dogma dell’unità della giurisdizione (in tale prospettiva, progressivamente abbandonata in dottrina, cfr., per tutti, L. MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, vol. I, Teoria e sistema della giurisdizione civile, 3a ed., Vallardi, Milano, s.d. ma 1905, p. 637 ss.; per una critica all’impostazione in discorso v., riassuntivamente, M. PISANI, Unione o separazione, cit., p. 108 ss.). (37) V., per esempio, l’art. 100 comma 1o d.p.r. 16 maggio 1960, n. 570, in materia di reati elettorali, nonché, ma con maggiori incertezze, l’art. 46 comma 1o r.d.l. 15 ottobre 1925, n. 2033, convertito nella l. 18 marzo 1926, n. 562, in tema di frodi alimentari. (38) In tal senso, cfr. A. GIARDA, Condizioni e limiti di ammissibilità dell’autodifesa esclusiva della parte civile, in questa Rivista, 1980, p. 1456 (ivi altri richiami normativi);
— 119 — compiere di persona « gli atti processuali nei quali consiste(va) il suo apporto al contraddittorio » (39). A ben vedere, l’opzione esplicitata negli artt. 124 comma 2o e 126 c.p.p. 1930 lasciava al legislatore un esiguo margine di manovra sul terreno degli effetti scaturenti dalla costituzione di parte civile: limitarne l’operatività al primo grado del giudizio avrebbe, in sostanza, vanificato l’intervento personale della parte civile in appello. Tramite la proclamazione dell’immanenza, invece, si consentiva alla parte costituita di mantenere la qualità di parte per tutto l’arco del processo, cui poteva partecipare, al tempo stesso, senza necessità di assistenza tecnica. La regola dettata dall’art. 92 comma 1o c.p.p. 1930 scandiva, cosi, l’intervento della parte civile sullo schema della partecipazione del pubblico ministero e dell’imputato (40). In tal modo, l’immanenza ben esprimeva il diverso ruolo giocato dalla parte civile nel processo penale, rispetto alla domanda risarcitoria esercitata nella sua sede « naturale ». Ci si riferisce, all’evidenza, al ruolo sostanziale di accusatore, pur sempre impersonato dalla parte civile, stante l’ineliminabile connessione fra l’istanza civile e l’oggetto della res iudicanda penale (41): in altri termini, al rapporto di accessorietà fra la domanda civile e l’iniziativa del pubblico ministero (42). nonché, fra i tanti, G. FOSCHINI, Sistema, vol. I, cit., p. 249 s.; G. LEONE, Trattato di diritto processuale penale, vol. I, Dottrine generali, Napoli, Jovene, 1961, p. 579; in giurisprudenza: Cass., Sez. II, 2 febbraio 1971, p.m. in proc. Primo ed altri, in Giust. pen., 1972, III, c. 717; contra, A. PENNISI, Parte civile, in Enc. dir., vol. XXXI, Milano, Giuffrè, 1981, p. 1010; Cass., Sez. III, 9 giugno 1978, Mariani, in Giust. pen., 1979, III, c. 461. (39) Così, F. CORDERO, Procedura, 9a ed., cit., p. 245; faceva eccezione — in ragione della competenza tecnica necessaria a rendere effettiva la partecipazione al processo — il giudizio di legittimità (art. 536 comma 2o c.p.p. 1930): cfr., ancora, F. CORDERO, ibid. (40) In tal senso, A. PENNISI, L’accessorietà, cit., p. 144. (41) Cfr., A. DE MARSICO, Diritto, cit., p. 87; Gius. SABATINI, L’immanenza, cit., p. 201. (42) Cfr., A. GIARDA, Sentenza assolutoria, cit., p. 750; contra, A. PENNISI, L’accessorietà, cit., p. 146. Un simile assetto richiama alla mente il modello dogmatico della « azione penale privata adesiva » (cfr., G. LEONE, Linee generali di una riforma del processo penale, in Intorno alla riforma del codice di procedura penale, Milano, Giuffrè, 1964, p. 64; A. GIARDA, La persona offesa dal reato nel processo penale, Milano, Giuffrè, 1971, p. 263; cfr., pure, le diverse tipologie nelle ricostruzioni offerte da A. GHIARA, Partecipazione popolare all’esercizio dell’azione penale, in Giust. pen., 1982, I, c. 258, e G. UBERTIS, Azione penale e sovranità popolare, in questa Rivista, 1975, p. 1296 s.), sebbene si riveli maggiormente appropriato il termine « accusa » in luogo di « azione », poiché un obbligo decisorio sul tema penale insorgeva non tanto dalla domanda della parte civile, quanto dall’azione esercitata dal pubblico ministero (cfr., per tutti, E. AMODIO, Persona offesa dal reato, in Commentario a cura di E. Amodio e O. Dominioni, vol. I, p. 543; G. BARONE, Enti collettivi e processo penale. Dalla costituzione di parte civile all’accusa privata, Milano, Giuffrè, 1989, p. 235; G.P. VOENA, Commento all’art. 231 norme di coordinamento, in Commentario, a cura di E. Amodio e O. Dominioni, cit., Appendice, Milano, Giuffrè, 1990, p. 187).
— 120 — 4.
Il ridimensionamento dell’immanenza operato dal nuovo codice di procedura penale.
La formula esibita dall’art. 76 comma 2o c.p.p. 1988 — « la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo » — ripete, nella sostanza, quanto già disponeva l’art. 92 comma 1o c.p.p. abrogato, salvo una modifica del tutto marginale (43). Non ci si poteva aspettare che il riformatore si spingesse al di là di un adeguamento puramente lessicale (44), posto che l’immanenza non aveva costituito tema di discussione nel corso dei lavori preparatori (45). Vi è da credere, quindi, che l’immanenza apparisse ai compilatori alla stregua di un corollario scontato dell’assetto dell’azione civile in sede penale: depone, in tal senso, un brano della Relazione al progetto preliminare, laddove si scrive a tutte lettere che non si è esitato a « ribadire » il principio in discorso (46). La scelta di conservare l’immanenza, intesa in un senso puramente letterale, si pone, così, nell’alveo della tradizione, ma la formula non pare del tutto coerente al rinnovato assetto dell’azione civile in sede penale. Com’è noto, il riformatore ha collocato l’istituto dell’azione civile in una dimensione accentuatamente privatistica. Il risultato mostra ancora qualche « imperfezione » (47), in larga misura ineliminabile, stante la (43) Difatti, tramite la sostituzione del termine « processo » al « procedimento » (cfr., l’art. 92 comma 1o c.p.p. 1930), si è inteso escludere dall’ambito di operatività dell’immanenza la fase delle indagini preliminari: cfr., A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, 7a ed., Milano, Giuffrè, 2000, p. 23. (44) Si consideri che nella fase prodromica all’esercizio dell’azione penale la costituzione di parte civile, seppure non sanzionata da un’espressa inammissibilità, resta inefficace (arg. ex art. 79 comma 1o c.p.p.): in tal senso, Corte cost., 23 aprile 1991, n. 192; Cass., Sez. I, 19 novembre 1992, Lai, in Riv. pen., 1993, p. 1118; in dottrina, F. MENCARELLI, Parte civile, in Enc. Giur., vol. XXII, Ist. enc. it., Roma, 1990, p. 7; A. NAPPI, Guida, cit., p. 750; G. SPANGHER, Soggetti, in CONSO-GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, 4a ed., Padova, Cedam, 1996, p. 87; contra, la dottrina prevalente che esclude il potere del danneggiato di costituirsi parte civile durante le indagini preliminari: fra gli altri, E. AMODIO, Persona offesa dal reato, in Commentario, a cura di E. Amodio e O. Dominioni, vol. I, cit., p. 536; F. CORDERO, Procedura penale, 5a ed., Milano, Giuffrè, 2000, p. 434; G. DI CHIARA, Parte civile, in Dig. disc. pen., vol. IX, Torino, Utet, 1995, p. 241; A. MOLARI, Le parti accessorie, in M. PISANI e altri, Manuale di procedura penale, Monduzzi, Bologna, 1994, p. 119. (45) Ancorché la legge delega permettesse un cospicuo aggio di manovra: cfr., la direttiva n. 20 dell’art. 2. (46) In G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale dalle leggi delega ai decreti delegati, vol. IV, Il Progetto preliminare del 1988, Padova, Cedam, 1990, p. 360; v., negli esatti termini, la Relazione al progetto preliminare del 1978, ivi, vol. I, La legge delega del 1974 e il progetto preliminare del 1978, Padova, Cedam, 1989, p. 348. (47) Se, come sovente accade, la parte civile riveste pure la qualità di persona offesa, conserva la titolarità, seppure in misura residuale (poiché i poteri attribuiti alla persona of-
— 121 — connessione che intercorre fra la causa petendi del diritto al risarcimento e l’oggetto dell’accertamento penale (48). Tanto premesso, il proposito di emendare l’istituto della parte civile di quei profili che apparivano rappresentare retaggio del passato si è spinto in due direzioni: tramite la ridefinizione dei ruoli impersonati — rispettivamente — dalla persona offesa e dal danneggiato — parte civile (49); alla stregua di un’estesa omologazione alla disciplina civilistica della domanda risarcitoria inserita in sede penale. Ispirata dalla necessità di evitare che l’inserzione dell’azione civile crei una complicanza allo svolgimento del processo penale (50), la seconda costituisce il dato più significativo ai fini della presente indagine. L’importazione di schemi civilistici si è concretata, tra l’altro, sul terreno della disciplina della capacità processuale (art.77 c.p.p.) e dei requisiti che la dichiarazione di costituzione deve contenere ex art. 78 comma 2o lett. c) e d), c.p.p. a pena di inammissibilità (51). Oltre a ciò, la scelta ha ispirato una decisa limitazione della sfera di autodifesa esclusiva della parte civile (52). La partecipazione personale è ora limitata alla facoltà di rendere l’esame ex art. 503 c.p.p.: quanto alle altre attività processuali, la fesa sono circoscritti alla fase delle indagini preliminari: cfr. Relazione al progetto preliminare, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice, vol. IV, cit., p. 383), di facoltà volte a soddisfare un interesse di natura penalistica (cfr., F. CORDERO, Procedura, 5a ed., cit., p. 266). Si pensi, poi, al diritto della persona offesa costituita parte civile di proporre impugnazione agli effetti penali contro le sentenze di condanna e di proscioglimento per i delitti di ingiurie e diffamazione (art. 577 c.p.p.) che costituisce una riproposizione, « nei gradi ulteriori, (della) azione penale privata ammessa sub art. 354 c.p.p. 1913 e abolita dal codice Rocco »: così, ancora, F. CORDERO, Procedura, 5a ed., cit., p. 1034; sul punto, v., inoltre, E. GALLO, L’art. 577 c.p.p.: una norma anacronistica e una decisione discutibile, in Ind. pen., 1994, p. 311 s.; S. SALIDU, Commento all’art. 577 c.p.p., in Commento, coordinato da M. Chiavario, vol. VI, Torino, Utet, 1991, p. 69 e 73; S. SOTTANI, L’impugnazione proposta dalla parte civile, in Studi sul processo penale in ricordo di Assunta Mazzarra, coordinati da A. Gaito, Padova, Cedam, 1996, p. 370. (48) Emblematico del rapporto d’accessorietà fra l’azione civile e quella penale è l’art. 538 comma 1o c.p.p., che esclude che il giudice decida sulla questione civile allorquando proscioglie l’imputato. (49) Cfr., E. AMODIO, Persona offesa, cit., 536 ss.; G. DI CHIARA, Parte civile, cit., p. 237; A. GHIARA, Commento all’art. 74 c.p.p., in Commento, coordinato da M. Chiavario, vol. I, cit., p. 363 s. (50) Alla disciplina dell’azione civile è sotteso un obiettivo d’economia processuale: v., per esempio, circa il conferimento ex lege della rappresentanza processuale al difensore (art. 100, 1o comma, c.p.p.), la Relazione al progetto preliminare, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice, vol. IV, cit. p. 364. (51) Cfr. la Relazione al progetto preliminare, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice, vol. IV, cit., p. 361 e 413; in dottrina, fra gli altri, G. DE ROBERTO, Responsabile civile e processo penale, Milano, Giuffrè, 1990, p. 144 s.; G. FRIGO, Commento all’art. 100 c.p.p., in Commentario, a cura di E. Amodio e O. Dominioni, vol. I, cit., p. 639; A. GHIARA, Commento all’art. 74 c.p.p., cit., p. 364. (52) Cfr. A. CHILIBERTI, Azione civile, cit., p. 202; nonché, G. DE ROBERTO, Responsabile civile, cit., p. 145, per il quale la partecipazione del responsabile civile a mezzo del di-
— 122 — parte civile deve avvalersi del ministero di un patrocinante munito di « procura speciale » (art. 100 comma 1o c.p.p). Per la persona offesa, invece, la nomina di un difensore è oggetto di una mera facoltà (art. 101 comma 1o c.p.p.). Alla luce dell’art. 100 comma 3o c.p.p., la così detta procura alle liti (53), in difetto di un’espressa volontà di segno contrario, « si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo ». Perciò, se la rappresentanza processuale al difensore non è estesa a tutti i gradi e non viene rinnovata, il danneggiato mantiene — nel giudizio d’impugnazione — la qualità di parte acquisita tramite la costituzione, ma può darsi, al tempo stesso, che non « stia in giudizio » (54). In tal modo, tramite la prevista obbligatorietà dell’assistenza difensiva, è stata dissociata la qualità di parte dall’effettiva partecipazione al processo (55). Allorquando la parte civile non è assistita da un difensore (56), l’immanenza non esonera la parte civile da una nuova designazione, pena l’impossibilità di esercitare i poteri che discendono dalla sua qualità. Poiché l’art. 100 comma 3o c.p.p. fa riferimento al « grado del processo », l’onere di rinnovare la nomina difensiva non entra in gioco nelle altre ipotesi di traslatio, in cui non avviene il « passaggio » da un grado all’altro del processo (57). Mercé l’obbligatorietà dell’assistenza tecnica (art. 100 comma 1o c.p.p.), si è prodotta, quindi, una limitazione, rispetto al codice del 1930, dell’ambito dell’immanenza. Si riduce, in maniera considerevole, il divario dall’azione esperita nella sede civile (58), laddove la parte, per intervenire nel grado di impugnazione, ha l’onere di rinnovare sia la costituzione (art. fensore, diversamente da quella personale, si ispira ad uno schema di natura processualcivilistica. (53) Analogamente alla disciplina civilistica, il termine « procura » è improprio, trattandosi, invece, di una mera designazione, poiché l’attribuzione dei poteri al difensore non è operata dalla parte, tramite il conferimento dell’incarico, bensì dalla legge (cfr., rispettivamente, artt., 100 comma 4o c.p.p. e 84 c.p.c.): per tutti, v., F. MAZZARELLA, Avvocato e procuratore (diritto processuale), in Enc. giur., vol. IV, Roma, Ist. enc. it., 1988, p. 6. (54) In tal senso, puntualmente, F. CORDERO, Procedura, 5a ed., cit., p. 436; contra, Cass., Sez. V, 22 settembre 1997, Sorrentino, in Giust. pen., 1998, III, c. 664. (55) La scelta pare ispirata ad una logica ermetica: se, per un verso, l’assistenza tecnica sembra imposta dalla complessità delle questioni trattate (cfr., A. CHILIBERTI, Azione civile, cit., p. 202), per l’altro, l’assunto è smentito dalla facoltà attribuita al danneggiato di costituirsi personalmente (art. 79 comma 1o c.p.p.). Si noti, poi, come l’esercizio di quest’ultimo potere sia, in buona sostanza, vanificato dalla prevista sottoscrizione del difensore a pena d’inammissibilità (art. 78 comma 1o lett. e), c.p.p.). (56) Si pensi al processo d’impugnazione, laddove non sia specificato che la nomina è conferita pure per tale grado, oppure al giudizio di prime cure, se il difensore ha abbandonato la difesa, è deceduto, radiato o sospeso dall’albo professionale: cfr., A. CHILIBERTI, Azione civile, cit., p. 179 s. (57) Si pensi alla rimessione, al conflitto di competenza, all’astensione o ricusazione del giudice monocratico. (58) Cfr., A. CHILIBERTI, Azione civile, cit., p. 178.
— 123 — 347 c.p.c.) (59), sia la designazione al difensore, allorquando quest’ultima non è stata conferita per tutti i gradi del processo (art. 83 comma 4o c.p.c.). La formula dell’immanenza smarrisce, così, la sua antica collocazione che ben esprimeva la differenza fra la domanda risarcitoria innestata nel processo penale ed il suo esercizio in sede civile (60). Non sembra che il riformatore, mercè la previsione di obbligatorietà dell’assistenza difensiva, abbia voluto fino in fondo realizzare un ridimensionamento dell’ambito dell’immanenza. Il dato emerge dalla Relazione al progetto preliminare, secondo cui l’art. 75 comma 2o (divenuto l’art. 76 comma 2o del testo definitivo) « consent(irebbe) alla parte civile di partecipare a tutte le fasi e i gradi del processo, senza che occorra rinnovare la costituzione » (61). Non si è considerato, poi, che il mantenimento di un principio, come quello dell’immanenza, estraneo alla tradizione civilistica, rappresentava un’obiettiva battuta d’arresto sulla strada dell’omologazione agli schemi civilistici dell’azione esercitata nel processo penale: il che equivale a dire che, tramite l’art. 76 comma 2o c.p.p., si è immesso nel sistema un dato spurio. Nel medesimo equivoco si è caduti nel disciplinare la figura del responsabile civile, laddove l’art. 84 comma 4o c.p.p. prevede la perdurante efficacia dell’atto di costituzione. Se è vero che l’immanenza « àncora tuttora il ruolo delle parti private diverse dall’imputato a modelli di tipo processualpenalistico » (62), la scelta segna un’evidente inversione di rotta rispetto all’intento di scandire la partecipazione del responsabile civile secondo modelli civilistici (63). Del resto, l’estensione dell’immanenza all’intervento dei così detti enti esponenziali (art. 84 comma 4o c.p.p.) mostra la scarsa coerenza del codice del 1988, giacché, in tale ipotesi, la scelta assume una coloritura ben diversa: non vi è dubbio che l’intervento nel processo penale dei soggetti in discorso rivesta una sicura natura pubblicistica (64). (59) Si è osservato che la regola è imposta dall’« autonomia del relativo giudizio »: S. SATTA, Commento all’art. 347 c.p.c., in Commentario al codice di procedura civile, vol. II, tomo 2, Milano, Vallardi, 1962, p. 149. (60) Contra, A. PENNISI, Commento all’art. 76 c.p.p., in Commento, a cura di A. Giarda e G. Spangher, cit., p. 305, per il quale l’immanenza rappresenta ancora « una delle manifestazioni del carattere misto dell’azione civile in sede penale ». (61) In G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice, vol. IV, cit., p. 360. (62) Così, G. DE ROBERTO, Responsabile civile, cit., p. 152; per uno spunto in tal senso, v., pure, G. SPANGHER, Soggetti, cit., p. 91 s. (63) Si rammenti che a tali schemi è ispirata pure la disciplina della partecipazione al processo penale del responsabile civile: cfr., amplius, G. DE ROBERTO, Responsabile civile, cit., p. 144 ss. (64) Cfr., fra gli altri, E. AMODIO, Commento agli artt. 91 e 92 c.p.p., in Commentario a cura di E. Amodio e O. Dominioni, vol. I, cit., p. 554 s.; S. NOSENGO, Commento all’art. 91 c.p.p., in Commento, coordinato da M. Chiavario, vol. I, cit., p. 429; G.P. VOENA, Commento all’art. 231 norme di coordinamento, cit., p. 188.
— 124 — 5.
Il tramonto dell’immanenza intesa in senso forte.
Oltre a operare un deciso ridimensionamento dell’immanenza, il nuovo codice segna il tramonto dell’accezione più pregnante del termine, fatta propria dalla dottrina prevalente (65) al tempo del codice del 1930. Colta in questo significato, la formula esibita dall’art. 92 comma 1o c.p.p. 1930 consentiva alla parte civile che non avesse proposto impugnazione di avvalersi dell’altrui gravame, conseguendo in appello una pronuncia favorevole a suoi interessi. L’immanenza determinava, in sostanza, la riproposizione ipso iure della domanda risarcitoria nel grado d’impugnazione, senza bisogno che la parte civile esperisse un’autonoma impugnazione. Così, muovendo dall’accezione pregnante dell’immanenza, si era opinato che il giudice d’appello fosse tenuto a condannare al risarcimento del danno l’imputato prosciolto in primo grado, pur in difetto di gravame della parte civile (66). A mò di corollario, ne discendeva l’ammissibilità del ricorso della parte civile avverso la sentenza d’appello, con la quale fosse confermato o riformato in melius il precedente proscioglimento dell’imputato (67). Si rammenti che, alla base di un simile indirizzo, stava, pure, l’assunto per il quale il gravame del pubblico ministero determinava la devoluzione dell’intera res iudicanda (68). L’efficacia pienamente devolutiva dell’impugnazione proposta dalla parte pubblica ben si giustificava alla luce di un sistema ancorato saldamente alla regola dell’accessorietà della domanda civile rispetto all’azione penale (69), il che faceva dipendere l’esito della prima dalle vicende della seconda (70). Ma, com’è noto, due pronunce costituzionali dei primi anni settanta, (65) Cfr. nt. 3. (66) Cfr. la giurisprudenza e la dottrina citate alla nt. 4. (67) Cass., Sez. II, 12 febbraio 1980, Grillo, in Giust. pen., 1981, III, c. 219; Id., Sez. III, 10 ottobre 1983, Affri, ivi, 1984, III, c. 283; in dottrina, v., in senso conforme, E. D’ANGELO, Ricorribilità per cassazione della sentenza d’appello ad opera della parte civile in assenza di sua impugnazione avverso la decisione di primo grado, in Foro it., 1988, II, c. 306; P. DELL’ANNO, Nota a Cass., Sez. II, 8 novembre 1988, Frattazio, in Cass. pen., 1990, n. 1244, p. 1531. (68) Cass., Sez. II, 26 giugno 1974, Molteni, Cass. pen. mass. ann., 1975, n. 648, p. 545; Id., Sez. III, 21 maggio 1976, Donetti, ivi, 1977, n. 1060, p. 899, in dottrina, v., analogamente, P. DELL’ANNO, Nota a Cass. Frattazio, cit., p. 1532; E. FORTUNA, Azione penale, cit., p. 557 s.; contra, A. PENNISI, L’accessorietà, cit., p. 137 s.; G. PETRELLA, Le impugnazioni nel processo penale. Trattato teorico pratico, vol. II, I singoli mezzi di impugnazione, Milano, Giuffrè, 1965, p. 166 ss. (69) V., per tutti, in tema d’impugnazioni, A. PENNISI, L’accessorietà, cit., p. 59 e 67. (70) Nell’assetto originario del codice del 1930, la parte civile era ammessa ad impugnare le sentenze di proscioglimento solo in quanto vi fosse stata condanna della stessa alle spese o al risarcimento del danno (art. 195 c.p.p. 1930): v., per tutti, G. PETRELLA, Le impugnazioni, cit., vol. I, Le discipline generali, Milano, Giuffrè, 1965, p. 564 ss.
— 125 — ampliando i poteri di impugnazione della parte civile, avevano già aperto un’ampia breccia nell’ordito di una disciplina tanto restrittiva, poiché la prima (71) aveva dichiarato l’illegittimità dell’art. 195 c.p.p. 1930, per violazione dell’art. 111 comma 2o Cost., nella parte in cui « pone(va) limiti a che la parte civile (potesse) proporre ricorso per cassazione contro le disposizioni della sentenza concernenti i suoi interessi civili »; la seconda (72) l’illegittimità dell’art. 23 c.p.p. 1930, in relazione all’art. 111 comma 2o Cost., « nella parte in cui esclude(va) che il giudice penale (potesse) decidere sull’azione civile anche quando, concluso il procedimento penale con sentenza di proscioglimento, l’azione della parte civile, a tutela dei suoi interessi civili, prosegu(isse) in sede di cassazione ed eventuale successivo giudizio di rinvio ». Sebbene la Corte, nella prima decisione, mostrasse di far propria la nozione più pregnante dell’immanenza (73), era inevitabile che le pronunce d’illegittimità degli artt. 23 e 195 c.p.p. 1930, ridimensionando la sfera di accessorietà dell’azione civile rispetto a quella penale, inducessero ad un ripensamento vuoi del significato dell’immanenza, vuoi dei poteri decisori attribuiti al giudice d’appello sulla questione civile, allorquando la parte eventuale non aveva proposto gravame. Si offriva, così, il destro al manifestarsi di un filone giurisprudenziale che perveniva a conclusioni dissonanti rispetto all’orientamento già sostenuto dalla Corte di cassazione. In particolare, si opinava che in tanto il giudice d’appello avrebbe potuto condannare l’imputato al risarcimento del danno, in quanto la parte civile avesse esperito autonomo gravame nei confronti della sentenza di proscioglimento (74). Correlativamente, diveniva inammissibile il ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello, proposto dalla parte civile che non avesse impugnato, a suo tempo, la pronuncia di prime cure (75). Attribuita alla parte civile la legittimazione a proporre ricorso — « senza limiti » — avverso le sentenze di proscioglimento, il consegui(71) Corte cost., 22 gennaio 1970, n. 1. (72) Corte cost., 17 febbraio 1972, n. 29. (73) Alla luce dell’art. 92 comma 1o c.p.p. 1930, il giudice delle leggi aveva osservato che il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento di primo grado in tanto produceva effetto, in quanto il pubblico ministero o l’imputato non avessero appellato il capo penale. In tal modo — tramite un obiter dictum — la Corte attribuiva al principio d’immanenza l’effetto di supplire all’inerzia della parte civile non ricorrente (cfr., A. PENNISI, L’accessorietà, cit., p. 156), escludendo — per implicito — l’onere del danneggiato costituito di impugnare la sentenza di proscioglimento, al fine di ottenere una decisione favorevole ai suoi interessi: per conseguire un simile obiettivo, bastava alla parte eventuale sostenere le ragioni del gravame proposto dal pubblico ministero. (74) Cfr., la giurisprudenza e la dottrina citate alla nt. 6. (75) Cass., Sez. III, 23 settembre 1986, Di Sario ed altro, cit.; Id., Sez. I, 6 maggio 1991, Gigliotti, cit.; Id., Sez. IV, 3 febbraio 1994, P.M. in proc. De Palma, cit.
— 126 — mento di una decisione favorevole agli effetti civili non era più indissolubilmente legato alla sorte dell’azione penale, bensì dipendente dall’autonoma iniziativa della parte civile (76). Nel contempo, la giurisprudenza andava superando l’assunto circa l’efficacia pienamente devolutiva del gravame interposto dalla parte pubblica (77) su cui poggiava l’orientamento fino ad allora prevalente (78). In tal modo, l’indirizzo « tradizionale », volto a preservare al danneggiato una chance di riforma della sentenza di proscioglimento, pur sottostante all’iniziativa dell’accusa, si giustificava allorquando la parte civile si trovava priva di un qualsivoglia rimedio nei confronti di un provvedimento sfavorevole (79), ma le ragioni che sorreggevano siffatta interpretazione venivano a cadere nel momento in cui si attribuiva alla parte eventuale un rimedio avverso quel tipo di pronuncia. Insomma, l’ampliamento dei poteri d’impugnazione della parte civile imponeva di abbandonare il significato più pregnante della formula, privilegiandone l’accezione meramente letterale. Di una simile conclusione non poteva più dubitarsi con l’entrata in vigore del nuovo codice. Anzitutto, i compilatori, tenendo conto delle due precedenti declaratorie d’illegittimità (80), accordavano alla parte civile il potere di impugnare le sentenze di proscioglimento tramite i medesimi mezzi apprestati per il pubblico ministero (81). Inoltre, mostrandosi poco propensi a tollerare situazioni di favor per la parte civile (82), smentivano la ratio decidendi sottesa all’indirizzo per tanto tempo prevalente. Era, perciò, inevitabile che la giurisprudenza, salvo una pronuncia rimasta del tutto isolata (83), negasse al giudice d’appello il potere di condannare al risarcimento l’imputato prosciolto in primo grado, allorquando (76) Cfr., A. GIARDA, Sentenza assolutoria, cit., p. 750 ss.; A. PENNISI, L’accessorietà, cit., p. 142 s. (77) Cfr., per esempio, in tema di provvisionale, Cass., Sez. IV, 29 marzo 1977, Gallina, in Cass. pen. mass. ann., 1978, n. 1381, p. 1348; Id., Sez. IV, 8 febbraio 1980, Bulleri, in Giust. pen., 1981, III, c. 225. (78) Identica sorte toccava al corollario di tale impostazione: quello secondo cui il giudice d’appello era tenuto a decidere sugli interessi civili, costituendo ciò un effetto imposto dalla pronuncia di condanna penale (v., per esempio, Cass., Sez. IV, 7 novembre 1977, La Spada, cit.). (79) Cfr., A PENNISI, L’accessorietà, cit., p. 148 ss. (80) Cfr., la Relazione al Progetto preliminare, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice, vol. IV, cit., p. 1263. (81) Cfr., l’art. 576 comma 1o c.p.p. (82) Com’è noto, nel disciplinare i rapporti fra l’azione civile e quella penale, il riformatore si è sovente ispirato al criterio di « disincentivare il danneggiato dal far valere la sua pretesa nel processo penale », cfr., la Relazione al progetto preliminare, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice, vol. IV, cit., p. 1391. (83) Cass., Sez. V, 20 marzo 1997, Caratelli, in C.E.D. n. 208151; in dottrina, v., analogamente, P. DELL’ANNO, Nota a Cass., Sez. I, 6 maggio 1991, Gigliotti, in Cass. pen., 1993, n. 81, p. 99; S. SOTTANI, Parte civile non appellante e ricorso per cassazione, in Giur. it., 1994, II, c. 799.
— 127 — la parte civile non aveva proposto impugnazione (84). Non sorprende, quindi, che quest’ultimo orientamento sia stato fatto proprio dalle Sezioni unite, chiamate a dirimere il contrasto che la riforma del 1988 non era riuscita del tutto a sopire (85). Così, alla luce dell’introduzione di un criterio di piena autonomia dell’iniziativa della parte civile, rispetto alle determinazioni del pubblico ministero in ordine alla così detta prosecuzione dell’azione penale (86), le Sezioni unite hanno avuto buon gioco a liberare il campo da un perdurante equivoco: quello per il quale l’immanenza — da sola — consente alla parte civile di ottenere la condanna dell’imputato al risarcimento del danno, senza necessità di autonomo gravame agli effetti civili (87). 6.
L’interesse della parte civile a partecipare al giudizio d’impugnazione.
Ricondotta l’immanenza al suo significato letterale (e minimale), c’è da chiedersi quale interesse conservi la parte civile a partecipare al giudizio introdotto dal gravame altrui (88), laddove il danneggiato costituito non abbia appellato la sentenza di proscioglimento pronunciata in primo grado. Va subito escluso, in tale ipotesi, che la parte civile possa ottenere la condanna dell’imputato al risarcimento del danno: alla luce degli effetti che scaturiscono dal gravame proposto dal pubblico ministero, al riguardo non può nutrirsi dubbio alcuno. Anzitutto, se la sentenza è appellata dal pubblico ministero, il giudice non viene investito della cognizione del tema civile (89), essendo il pubblico ministero estraneo al rapporto patrimoniale (90): nessuno sosterrebbe, ipotizzato che la parte eventuale non (84) V. la dottrina e la giurisprudenza citate alla nt. 7. (85) Cass., Sez. un., 25 novembre 1998, Loparco, cit. (86) Così, O. DOMINIONI, Commento all’art. 50 c.p.p., in Commentario, a cura di E. Amodio e O. Dominioni, vol. I, cit., p. 293; G. UBERTIS, Azione penale, in Enc. giur., vol. IV, Ist. enc. it., Roma, 1988, p. 5; contra, C. cost., 15 giugno 1995, n. 280. (87) Privilegia l’accezione meramente letterale del termine, pure, A. CHILIBERTI, Azione civile, cit., p. 474, nt. 67. (88) Cfr., gli art. 601 comma 4o e 610 comma 5o c.p.p., rispettivamente, per il giudizio d’appello e per quello in cassazione. (89) Così, ma in maniera un pò troppo sbrigativa, Cass., Sez. un., 25 novembre 1998, Loparco, cit., p. 2089. (90) L’assunto per il quale l’impugnazione della parte pubblica devolve la questione civile, se a suo tempo poteva riuscire giustificato, oggi non lo è più. Oltre a non tenere nel debito conto la natura « ibrida » dell’appello (cfr., F. CORDERO, Commento all’art. 597 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, Torino, Utet, 1992, p. 707) manca di un qualsivoglia appiglio letterale in senso opposto. Anzi, l’assunto criticato è smentito dall’art. 597 comma 1o c.p.p., laddove limita la devoluzione ai « punti » della sentenza investiti dai motivi, nonché - correlativamente - dall’assenza di una norma che sancisca l’estensione dell’appello al « capo » civile non impugnato (v., invece, circa l’appello dell’imputato, l’art. 574 comma 4o c.p.p.: si noti come tale disposizione evochi un’improbabile - ex art. 538 comma
— 128 — impugnante abbia nel frattempo riproposto l’azione nella sua sede « naturale », che il gravame dell’accusa devolve pure la questione civile. Inoltre, l’assunto per cui il giudice d’appello non può decidere sul tema civile trova conforto nell’art. 587 c.p.p. che non contempla, fra le ipotesi di effetto estensivo, quella a favore della parte civile del gravame proposto dal pubblico ministero. Né sembra praticabile la via dell’applicazione analogica: l’art. 587 c.p.p. non enuncia un mero effetto « immanente » dell’impugnazione (91), bensì estende, a determinati fini (92), alla parte non impugnante i benefici del gravame altrui (93). Se è vero che il giudice d’appello non può condannare l’imputato al risarcimento del danno, allorquando riforma il proscioglimento di primo grado (94), potrebbe concludersi che il capo civile passa in giudicato ancor prima che le disposizioni penali divengano irrevocabili (95). In tal modo, sarebbe preclusa non solo la pronuncia del secondo giudice sulla questione civile (96), bensì pure l’eventuale riproposizione della domanda risarcitoria nella sua sede « naturale ». La conclusione, seppure suggestiva, non può essere condivisa, perché postula che il giudicato si formi su un capo inesistente: si sta ipotizzando, 1o c.p.p. - devoluzione delle « disposizioni civili », a seguito d’impugnazione della sentenza di assoluzione o di proscioglimento; per un cenno, in tal senso, cfr., G. DE ROBERTO, Commento all’art. 574 c.p.p., in G. LATTANZI-E. LUPO, Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, Libro IX, Impugnazioni, Milano, Giuffrè, 1997, p. 160). (91) Cfr., la Relazione al Progetto preliminare, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice, vol. IV, cit., p. 1279; sicché unico effetto indefettibile dell’impugnazione è l’obbligo del giudice di emettere una nuova pronuncia: per tutti, V. MELE, Commento all’art. 587 c.p.p., in Commento, coordinato da M. Chiavario, vol. VI, cit., p. 115; G. SPANGHER, Impugnazioni, in G. CONSO-V. GREVI, Profili, cit., p. 680. (92) Si tratta di « ragioni di giustizia e di favor rei legate all’esigenza di evitare il contrasto di giudicati »: G. SPANGHER, Impugnazioni penali, in Dig. disc. pen., vol. VI, Torino, Utet, 1992, p. 229; v., pure, V. MELE, Commento all’art. 587 c.p.p., cit., p. 117 s.; nonché, in giurisprudenza, Cass., Sez. VI, 2 maggio 1994, Vastola, in Arch. nuova proc. pen., 1995, 495; Id., Sez. VI, 12 dicembre 1994, Zedda, in Cass. pen., 1996, n. 1278, p. 2250. (93) Si noti, ancora, che se l’estensione della sentenza a favore dell’imputato o del responsabile civile (art. 587 comma 3o e 4o c.p.p.) è imposta dalla logica del sistema (cfr., A. CHILIBERTI, Azione civile, cit., p. 473; V. MELE, Commento all’art. 587 c.p.p., cit., p. 116), altrettanto non vale in ordine ai rapporti fra l’azione penale e la domanda civile. Poiché la condanna al risarcimento del danno non rappresenta un’indefettibile conseguenza della condanna penale, la riforma in peius del proscioglimento non implica « un giudizio di fondatezza ed accoglibilità dell’azione civile, tanto dovendo risultare da un’ulteriore esame delle ... condizioni necessarie per l’accoglimento della domanda » (così, A. CHILIBERTI, Azione civile, cit., p. 473 s.). (94) Com’è ovvio, il caso è quello in cui il giudice d’appello pronunci condanna penale (arg. ex art. 538 comma 1o c.p.p.). (95) Così, Cass., Sez. IV, 29 ottobre 1997, Marcelli, cit., p. 761, e, sembrerebbe, pure, Id., Sez. un., 25 novembre 1998, Loparco, cit., p. 2090. (96) In tal senso, Cass., Sez. un., 25 novembre 1998, Loparco, cit., p. 2089, nonché, A. CHILIBERTI, Azione civile, cit., p. 475, nt. 69.
— 129 — infatti, che il giudice a quo abbia prosciolto l’imputato. Poiché la decisione sugli interessi civili è subordinata alla condanna penale (art. 538 comma 1o c.p.p.), il giudice di prime cure non si è pronunciato sulla domanda per le restituzioni ed il risarcimento del danno. Ne segue che la sentenza di primo grado non contiene un capo civile, sicché manca l’elemento determinante alla formazione del giudicato agli effetti civili (97). Correlativamente, l’assunto che si critica presuppone la formazione progressiva del giudicato: in prima battuta sul capo penale, ancorché solo e per implicito agli effetti civili, poi, all’esito del giudizio d’impugnazione, la sentenza diverrebbe irrevocabile pure agli effetti penali. Può darsi, in altri termini, che la medesima vicenda processuale generi due decisioni contrastanti, idonee entrambe a passare in giudicato, seppure in tempi ed a fini diversi. Certo, il nuovo codice consente la pronuncia di due provvedimenti contrastanti sullo stesso fatto (98), ma esclude che ciò avvenga senza limiti di sorta: così, tramite la sospensione « necessaria » del processo civile « fino alla pronuncia della sentenza penale non più soggetta a impugnazione » (art. 75 comma 3o c.p.p.), si è voluto prevenire un conflitto teorico di giudicati (99) riguardante pronunce emesse da giudici diversi (100). A maggior ragione, vi è da dubitare che si sia consentita l’adozione di due decisioni discordanti nell’ambito del medesimo processo. La conclusione appare, a tal punto, obbligata: la sentenza penale di(97) Si rammenti che, in passato, la giurisprudenza (v., per per esempio, Cass., Sez. IV, 16 dicembre 1970, Rossetti ed altro, in Giur. it., 1971, II, c. 291) aveva optato per l’inammissibilità, stante la mancanza di una decisione impugnabile, del ricorso contro la sentenza di proscioglimento, proposto dalla parte civile non condannata alle spese o al risarcimento del danno (cfr. art. 195 c.p.p. 1930): negli altri casi la sentenza di proscioglimento non conteneva disposizioni civili (arg. ex art. 23 c.p.p. 1930), sicché la declaratoria di illegittimità pronunciata da Corte cost. 22 gennaio 1970, n. 1, cit., era rimasta, in un primo tempo, lettera morta (in dottrina, alla vigilia della pronuncia appena rammentata, si era auspicato che l’eventuale declaratoria di illegittimità dell’art. 195 c.p.p. 1930 fosse estesa all’art. 23 c.p.p. 1930: cfr., V. GREVI, Limiti al potere di impugnazione della parte civile e problemi di legittimità costituzionale, in Riv. dir. proc., 1969, p. 524). All’impasse aveva posto rimedio Corte cost. 17 febbraio 1972, n. 29, cit. (sul tema ed il progressivo assestamento giurisprudenziale, v., per tutti, F. CORDERO, Procedura penale, 9a ed., cit., p. 532 ss.). (98) Arg. ex artt. 75, 2o comma, e 652 comma 1o c.p.p. (99) Circa la distinzione tra conflitti teorici e conflitti pratici, v., per tutti, G. DE LUCA, Giudicato - Diritto processuale penale, in Enc. Giur., vol. XV, Ist. enc. it., Roma, 1989, p. 2; G. LOZZI, Giudicato (diritto penale), in Enc. dir., vol. XVIII, Milano, Giuffrè, 1969, p. 913. (100) Cfr., la Relazione al testo definitivo, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice, cit., vol. V, Il progetto definitivo il testo definitivo del codice, Padova, Cedam, p. 585, laddove si osserva che la sospensione del processo civile, qui prevista in via « eccezionale », era stata ritenuta « opportuna ». I compilatori hanno derogato (v., pure, l’art. 211 disp. coord. c.p.p.) al criterio, altrove seguito (artt. 75 comma 2o e 652 comma 1o c.p.p.), della separazione dei giudizi: cfr., ancora, la Relazione al testo definitivo, ibid., p. 584; nonché, la Relazione al progetto preliminare, ivi, vol. IV, cit., p. 355. La formula dell’art. 75 comma 3o c.p.p. suona, perciò, a completamento dell’art. 82 comma 2o c.p.p. che
— 130 — viene irrevocabile ai fini civili nel momento stesso in cui passa in giudicato agli effetti penali. Pertanto, l’acquiescenza (101) al proscioglimento di primo grado non determina — di per se sola — l’intangibilità della pronuncia penale agli effetti civili. Insomma, la mancata impugnazione della parte civile genera una preclusione endoprocessuale, non essendo consentito al giudice d’appello pronunciarsi sul tema civile, ma non impedisce l’esercizio di una nuova azione nella sua sede « naturale » (102). A tal fine, occorre pure che la sentenza penale di assoluzione, pronunciata per una delle cause indicate nell’art. 652 1o comma c.p.p., sia divenuta irrevocabile (103). Perché, poi, il giudice civile rigetti nel merito la domanda del danneggiato, non basta la mera riproposizione dell’azione, dovendo il convenuto avvalersi del precedente giudicato (104) nel termine perentorio stabilito dal giudice per la proposizione delle eccezioni non rilevabili d’ufficio (105). Il dato esibito dall’art. 652 comma 1o c.p.p. (« la sentenza ... irrevocabile di assoluzione ... ha efficacia di giudicato ») dissolve, così, i dubbi suscitati dall’art. 25 c.p.p. 1930 che vietava tout court la riproposizione della domanda (106), ancorché il riformatore abbia considerato la formula attuale del tutto equivalente a quella abrogata (107). prevede la revoca, così detta, tacita della costituzione di parte civile, allorquando l’azione è trasferita davanti al giudice « naturale ». (101) Il termine è sovente impiegato dalla giurisprudenza (fra le altre, Cass., Sez. III, 23 settembre 1986, Di Sario ed altro, cit.; Id., Sez. IV, 30 aprile 1993, Anelli, cit., Id., Sez. IV, 21 giugno 1993, Baccilieri, cit.; Id., Sez. un., 25 novembre 1998, Loparco, cit.), riguardo al mancato esercizio del diritto d’impugnazione della parte civile: si badi, però, che il richiamo in tanto è corretto, in quanto tale comportamento sia sorretto da un’effettiva volontà (cfr., per tutti, A. FURGIUELE, Concetto e limiti dell’acquiescenza nel processo penale, Napoli, Jovene, 1998, p. 175 ss.). (102) Cfr., A. CHILIBERTI, Azione civile, cit., p. 482, per il quale non è esclusa la riproposizione se il giudice penale non ha pronunciato condanna ovvero, avendo emesso una simile decisione, se le richieste del danneggiato in sede civile sono diverse da quelle presentate nel processo penale; nello stesso senso, sotto il codice abrogato, A. GIARDA, Sentenza assolutoria, cit., p. 761; A. PENNISI, L’accessorietà, cit., p. 161. (103) Si noti come la preclusione in discorso si ricolleghi, diversamente che in sede civile (art. 2909 c.c.), non ad un accertamento sul rapporto patrimoniale, bensì, implicitamente, a quello sulla questione penale a cui il danneggiato costituito è estraneo: il che mostra quanto ancora le sorti della domanda introdotta dalla parte civile dipendano dalle vicende del processo penale. (104) Cfr. A. CHILIBERTI, Azione civile, cit., p. 483 e 568; A. GHIARA, Commento all’art. 652 c.p.p., in Commento, a cura di M. Chiavario, vol. VI, cit., p. 455; contra, però, F. CORDERO, Procedura, 5a ed., cit., p. 1153, per il quale il precedente giudicato è rilevabile d’ufficio. (105) Cfr., l’art. 180 comma 2o c.p.c. (106) Su1 punto, v., A. CHILIBERTI, Azione civile, cit., p. 567, nonché, riassuntivamente, A. GHIARA, Commento all’art. 652 c.p.p., cit., p. 455. (107) Cfr. la Relazione al Progetto preliminare (in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice, cit., vol. IV, cit., p. 1386), laddove si osserva che « una previsione si-
— 131 — 7.
(Segue): in particolare, la partecipazione della parte civile quale espressione dell’interesse a contrastare la formazione di un giudicato pregiudizievole.
Alla luce di quanto precede, è tempo d’individuare l’interesse della parte civile a partecipare al giudizio di impugnazione introdotto dall’imputato o dal pubblico ministero. In primo luogo, la parte civile potrebbe dedurre (108) una nullità che comporta la regressione del procedimento in primo grado o nella fase delle indagini preliminari, così travolgendo la sentenza sfavorevole del giudice di prime cure (109). Poiché la declaratoria di nullita opera ex tunc, è necessario che il danneggiato rinnovi la costituzione, allorquando quest’ultima è successiva all’atto invalido (110). In secondo luogo, può darsi che alla parte civile convenga sostenere l’impugnazione proposta dal pubblico ministero, seppure dall’accoglimento della stessa non possa scaturire immediatamente la condanna dell’imputato al risarcimento del danno (111). Un simile interesse sussiste pure laddove sia richiesta al giudice d’appello l’adozione di una formula di proscioglimento, diversa da quella contenuta nella sentenza impugnata, che non faccia stato nel giudizio civile. Infine, può darsi che, tramite la partecipazione al giudizio di gravame, ci si proponga di contrastare la formazione di un giudicato idoneo a pregiudicare gli interessi civili (112). Ciò, non solo allorquando ha impugnato l’imputato avverso la sentenza di proscioglimento non vincolante ex art. 652 c.p.p. (113), ma pure quando il giudizio d’appello è stato introdotto — nella medesima ipotesi — dal pubblico ministero, stante il sempre salvo potere del giudice di pronunciare una formula di proscioglimile a quella dell’art. 25 c.p.p. (1930) .... resta implicitamente ricompresa nelle più generali prescrizioni del libro X (c.p.p. 1988) ». (108) Eventuali nullità relative, la cui declaratoria è subordinata all’eccezione della parte, sarebbero difatti, sanate (art. 181 comma 4o c.p.p.). (109) La parte civile conserva un simile interesse, ancorché si opini per l’intangibilità agli effetti civili del proscioglimento non impugnato (v. la giurisprudenza citata alla nt. 95). Pure nel giudizio in cassazione, la parte civile, alla quale è consentito di esporre le sue difese (art. 614 comma 4o c.p.p.), potrebbe ottenere una pronuncia di nullità laddove il vizio non sia già sanato. (110) Così, A. CHILIBERTI, Azione civile, cit., p. 178 s. (111) Si pensi anche al giudizio in cassazione, ove l’alternativa decisoria si gioca fra il rigetto e l’annullamento. (112) Per un’apertura in tal senso, Cass., Sez. un., 25 novembre 1998, Loparco, cit., p. 2091, che, così, sembrano contraddire il precedente assunto circa il passaggio in giudicato del « capo » civile non impugnato. (113) Cfr. F. CORDERO, Procedura, 5a ed., cit., p. 1053; a questa ipotesi pare alludere anche A. CHILIBERTI, Azione civile, cit., p. 477, nonché E. ZAPPALÀ, Commento all’art. 601 c.p.p., in Commento a cura di M. Chavario, vol. VI, cit., p. 194.
— 132 — mento più favorevole all’imputato (114). Com’è ovvio, poi, nel caso di appello dell’imputato contro l’assoluzione vincolante ex art. 652 c.p.p. (115), il ventaglio dei possibili esiti favorevoli alla parte civile si assottiglia in maniera considerevole: non potendo contare su una riforma in suo favore, il danneggiato costituito conserva solo l’interesse a dedurre eventuali nullità delle fasi anteriori che importino la regressione del procedimento (116). In quest’ultima ipotesi, rimanendo inoperante il divieto di reformatio in peius, il processo è aperto agli esiti consueti (117). In tutte le ipotesi evocate, la posizione della parte civile è meramente subordinata a quella della parte appellante. La scelta di prestare acquiescenza alla pronuncia di primo grado, confidando nel gravame altrui, implica l’accettazione incondizionata di un esito pregiudizievole del giudizio d’impugnazione (118). I poteri della parte civile, poi, rimangono confinati nell’ambito della devoluzione, perciò, se al difensore è consentito partecipare alla discussione finale, sarebbero inammissibili eventuali conclusioni estese al tema civile (119): la parte eventuale, non avendo riproposto la domanda risarcitoria, non è titolare del diritto a una decisione sul tema civile. Ne segue, che il danneggiato costituito non può proporre ricorso in cassazione, se il giudizio d’appello non sorta gli esiti sperati (120), giac(114) Cfr. l’art. 597 comma 2o lett. b), c.p.p. (115) Poiché l’imputato non può appellare le sentenze di assoluzione perché il fatto non sussiste o per non averlo commesso (art. 593 comma 2o c.p.p.), l’unico caso è quello di assoluzione perché il fatto « è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima » (art. 652 comma 1o c.p.p.). (116) In tal senso, A. CHILIBERTI, Azione civile, cit., p. 477, che sembra estendere tale conclusione ad altre ipotesi oltre quella in discorso; contra, sotto il codice abrogato, F. CORDERO, Procedura penale, 9a ed., cit., p. 246, per il quale, « data l’impossibilità di una riforma in peggio, la parte civile non (aveva) interesse ad intervenire »; v., ora, ID., Commento all’art. 601 c.p.p., in Codice, cit., p. 713. (117) V., per tutti, G. SPANGHER, Reformatio in peius (divieto di), in Enc. dir., vol. XXXIX, Milano, Giuffrè, 1988, p. 304 s. (118) Si pensi, per esempio, oltre alla conferma o alla riforma in melius per l’imputato, all’eventuale rinuncia del pubblico ministero o alla ordinanza d’inammissibilità per altro motivo: in tema, V. MELE, Commento all’art. 587 c.p.p., cit., p. 121. (119) Si noti che le richieste dibattimentali del pubblico ministero, se divergenti da quelle contenute nell’atto d’appello, così come non vincolano il giudice, allo stesso modo non impongono alla parte civile di adeguarvisi. Per altro verso, la mancata presentazione delle conclusioni sul tema civile non implica la revoca, così detta tacita, della costituzione di parte civile (così, invece, alla stregua di un’estensione analogica dell’art. 102 comma 1o c.p.p. 1930, A. GIARDA, Sentenza assolutoria, cit., p. 761 s.; contra, A. PENNISI, L’accessorietà, cit., p. 158): poiché l’art. 82 comma 2o c.p.p. non richiama l’art. 604 comma 4o c.p.p., l’effetto in discorso scaturisce unicamente dal mancato assolvimento dell’onere in primo grado (cfr., G. ICHINO, Commento all’art. 82 c.p.p., in Commentario, a cura di E. Amodio e O. Dominioni, vol. I, cit., p. 486; A. MOLARI, Le parti accessorie, cit., p. 122). (120) In tal senso, v., sotto il codice del 1930, la giurisprudenza citata alla nt. 75 e, ora, Cass., Sez. V, 8 maggio 1998, Sogeam, in C.E.D. n. 211844; contra, sotto il codice vigente, Cass., Sez. IV, 31 maggio 1994, Platto, in Cass. pen., 1996, n. 1065, p. 1868; Id.,
— 133 — ché il rimedio presuppone che la parte civile si sia attivata nei confronti della decisione di primo grado, avvalendosi, nei termini prescritti, dei poteri di impugnazione a lei accordati (121). Dunque, l’unica eccezione sembra essere quella in cui, tramite il ricorso in cassazione, la parte civile deduca una nullità determinante la regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari o al primo grado del giudizio. 8.
Considerazioni finali.
Il nuovo codice di procedura penale, mercé un’estesa omologazione della disciplina della domanda risarcitoria avanzata in sede penale al modello civilistico, ha finito per relegare l’immanenza ai margini del sistema. La formula ha perduto il suo significato originario — quello forte — che ben esprimeva la differente posizione della parte civile nel processo penale rispetto al danneggiato costituito nella sua sede « naturale ». In particolare, gioca l’ampliamento delle facoltà d’impugnazione attribuite alla parte civile: affinché il giudice del gravame possa decidere sulla domanda di risarcimento, occorre che il relativo tema gli sia devoluto tramite un’autonoma impugnazione della parte civile. Correlativamente, l’art. 601 comma 4o c.p.p., laddove prevede la citazione, « in ogni caso », della parte civile per il giudizio d’appello, più che una proiezione dell’immanenza nei giudizi d’impugnazione, diviene espressione dell’interesse della parte civile a partecipare ai gradi successivi, al fine di evitare la formazione di un giudicato a sé pregiudizievole. Benché la formula dell’immanenza abbia assunto oramai un esclusivo significato debole, la scelta di mantenerla nell’enunciato codicistico si rivela ancor oggi preziosa sotto un duplice profilo. Anzitutto, perché, nel silenzio della legge, ci si dovrebbe chiedere se la parte civile, per intervenire nel giudizio d’impugnazione, sia tenuta a rinnovare l’atto di costituzione. Il quesito potrebbe risolversi in senso affermativo, alla stregua dell’estensione, in via d’analogia, dell’art. 347 comma 1o c.p.c., alla luce del quale « la costituzione in appello avviene secondo le forme e i termini per i procedimenti davanti al tribunale ». Ma una simile operazione ermeneutica lascerebbe, comunque, spazi di perplessità, in quanto l’assetto dell’azione civile in sede penale, seppure ispirato agli schemi civilistici, mantiene una sua propria autonomia disciplinare: in altri termini, l’azione civile in sede penale resta governata da una normativa prevalentemente « autoreferenSez. III, 9 novembre 1994, Cè, in Arch. nuova proc. pen., 1996, p. 303 e, in dottrina, P. DELL’ANNO, Nota a Cass. Gigliotti, cit., p. 100. (121) Cfr., per analoga ratio decidendi, in tema di estensione dell’impugnazione, fra le tante, Cass., Sez. I, 16 novembre 1992, Pace, Cass. pen., 1994, n. 78, p. 96; Sez. VI, 17 maggio 1993, Khalifi, ivi, 1994, n. 1714, p. 2735; Id., Sez. VI, 19 dicembre 1994, DI TUCCIO, ivi, 1996, n. 290, p. 584; Id., Sez. V, 4 maggio 1997, Galluccio, in Riv. pen., 1998, p. 97.
— 134 — ziale » che lascia poco o nessun terreno all’integrazione analogica. Ciò impone d’individuare all’interno della disciplina codicistica la soluzione dei casi non espressamente contemplati (122). Per la soluzione del quesito in discorso, potrebbe, così, farsi riferimento all’art. 598 c.p.p., che estende all’appello le disposizioni del giudizio di primo grado, ma anche questa volta il risultato potrebbe non appagare: se in primo grado l’azione civile è esercitata tramite la costituzione, si può ben essere dubbiosi circa la necessità di rinnovare l’atto di costituzione allorquando entra in gioco una mera « proiezione » della domanda già proposta. Inoltre, la scelta di conservare la formula dell’immanenza, realizzando un « adeguamento » dell’azione civile alle cadenze del processo penale, diviene funzionale a perseguire l’obiettivo della « massima semplificazione nello svolgimento del processo » (123). Il risultato, si badi, non è di poco momento. L’inserzione della domanda risarcitoria, consentendo che l’accertamento del giudice penale valga pure agli effetti civili (124), realizza un traguardo d’economia processuale intesa in senso globale (125). Ma la costituzione di parte civile determina — di per sé — una maggiore complessità del processo penale, riguardo al quale si è fortemente avvertita l’esigenza di una rapida definizione: di qui il proposito, sovente enunciato, di convogliare la pretesa del danneggiato nella sede civile, disincentivandone la costituzione nel processo penale (126). Poiché l’interesse pubblico alla repressione dei reati è, senza dubbio, prevalente rispetto a quello privato volto al conseguimento delle restituzioni o del ri(122) Cfr., sul tema, per tutti, G. CONSO, Vero e falso nei principi generali del processo penale italiano, in questa Rivista, 1958, p. 292 s. e 296; A. GHIARA, Sull’applicabilità delle norme processuali civili all’azione civile esercitata in sede penale e sull’interesse dell’imputato ad impugnare il capo della sentenza che abbia erroneamente disposto la provvisoria esecuzione della condanna al pagamento della provvisionale sui danni, in questa Rivista, 1968, p. 329 ss.; ID., Commento all’art. 74, cit., p. 364 s.; R. VANNI, L’esecuzione provvisoria della provvisionale penale, in questa Rivista, 1968, p. 1045 ss. (123) Cfr. l’art. 2 n. 1 legge delega. (124) Può darsi, però, che « nascano alcune dissonanze » (così, F. CORDERO, Procedura, 9a ed., cit., p. 228): così, se l’imputato è assolto perché il fatto non costituisce reato, il giudice non decide sulla domanda risarcitoria (art. 538 comma 1o c.p.p.), pur potendo il fatto integrare gli estremi dell’illecito civile. (125) Cfr., per tutti, F. CORDERO, Procedura, 9a ed., cit., p. 227 e 231 s. (126) Si pensi pure alla scelta di escludere il danneggiato che non rivesta la qualità di persona offesa dall’assunzione della prova nell’incidente probatorio (arg. ex artt. 398 comma 3o, 401 comma 1o e 404 c.p.p.) e alla disciplina dei rapporti fra l’azione civile ed il processo penale, così come dettata dagli artt. 75, 82 comma 4o, 651 e 652, c.p.p.: cfr., la Relazione al progetto preliminare, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice, vol. IV, cit., p. 350, 356, 367 e 1391; in dottrina, fra gli altri, M.G. AIMONETTO, La « durata ragionevole » del processo penale, Giappichelli, Torino, 1997, p. 82 ss.; E. AMODIO, Parte civile, responsabile civile e civilmente obbligato per la pena pecuniaria, in Commentario, a cura di E. Amodio e O. Dominioni, vol. I, cit., p. 434 e 436; A. CHILIBERTI, Azione civile, cit., p. 114 ss.
— 135 — sarcimento del danno, non è neppure in discussione che l’assetto dell’azione civile non deve tradursi in un pregiudizio troppo sensibile per i tempi del processo penale. Un simile asserto suona oggi ancor più forte, alla luce dell’introduzione nell’enunciato costituzionale del valore della « durata ragionevole del processo » (127). Se tale è l’obiettivo, l’intervento della parte civile non può che modellarsi sul paradigma degli schemi penalistici. Poiché la formula dell’immanenza, intesa in senso forte, ben esprime il peculiare assetto dell’azione civile in sede penale, conviene rivalutarla, seppure ciò imponga un ripensamento attorno ad alcune scelte poste alla base del codice del 1988 (128). Il legislatore sembra essersi posto con decisione, ma in maniera settoriale, su questa strada, allorquando ha optato per un « riavvicinamento » ai modelli penalistici della disciplina dell’azione civile. Per un verso, col proposito di evitare formalismi pregiudizievoli al rapido svolgimento del processo (129), una recente legge ha ampliato i poteri certificatori attribuiti al difensore della parte civile (130). Per altro, la legge delega al Governo in materia di competenza penale del giudice di (127) V., l’art. 111 comma 2o Cost., introdotto dalla l. cost. 23 novembre 1999, n. 2; cfr., in dottrina, F. CORDERO, Procedura, 5a ed., cit., p. 1213 s.; P. FERRUA, Rischio contraddizione sul neo contraddittorio, in Diritto e giustizia, 15 gennaio 2000, p. 78. (128) Si pensi alla previsione di obbligatorietà dell’assistenza tecnica, alle formalità previste per la costituzione, ai poteri d’impugnazione attribuiti alla parte civile. Riguardo a questi ultimi, in particolare, è evidente come la soluzione adottata dai compilatori determini un pregiudizio per l’economia processuale. Difatti, se, per un verso, va esclusa una decisione del giudice d’appello sul tema civile, laddove la parte civile non abbia impugnato il proscioglimento di primo grado, per l’altro, è consentito al danneggiato di avvalersi successivamente del giudicato penale di condanna nella sede « naturale ». (129) Si rammenti la soluzione offerta dalla giurisprudenza in ordine ai poteri del difensore ad autenticare la sottoscrizione della procura speciale ex art. 76 comma 1o c.p.p.: cfr., fra le altre, Cass., Sez. un., 18 giugno 1993, De Paoli, in Cass. pen., 1994, n. 12, p. 45; Id., Sez. I, 27 marzo 1998, Versace, in Rep. giust. civ., 1998, p. 3410, n. 10; Id., Sez. un., 19 maggio 1999, Pediconi, in Cass. pen., 2000, n. 3, p. 10; in dottrina, v., fra gli altri, M. PONTIN, Complicazioni giurisprudenziali in tema di formalità per la costituzione di parte civile, in Crit. dir., 1994, n. 4, p. 62 ss.; E. SQUARCIA, Procura e procure per la costituzione di parte civile, in Giur. it., 1998, p. 1079 ss.; M. TADDEUCCI SASSOLINI, Procura speciale e procura ad litem: brevi osservazioni sul potere di autentica del difensore, in Cass. pen., 1995, n. 198, p. 273 ss. (130) Si allude all’interpolazione degli artt. 100 comma 1o e 122 comma 1o c.p.p., operata dall’art. 13 comma 1o e 3o l. 16 dicembre 1999, n. 479, alla luce della quale, il difensore è ora legittimato ad autenticare la sottoscrizione sia della procura speciale ex art. 76 comma 2o c.p.p., sia della così detta procura alle liti, pure se la stessa non è apposta in calce o a margine degli atti indicati nell’art. 100 comma 2o c.p.p.: cfr., C. CONTI, L’ampliamento della potestà di certificazione del difensore verso una maggior tutela della parte civile, in Il processo penale dopo la riforma del giudice unico (l. 16 dicembre 1999, n. 479), a cura di F. Peroni, Padova, Cedam, 2000, p. 215 ss.; G. CONTI, Il controllo della parte sulla « competenza » dell’accusa, in Diritto e giustizia, 22 gennaio 2000, p. 57; P.P. RIVELLO, Procura al legale anche per scrittura privata, in Guida al diritto, 15 gennaio 2000, p. XXX; G. VICI-
— 136 — pace reintroduce il meccanismo della citazione diretta dell’imputato ad iniziativa della persona offesa, pur riservando l’esercizio dell’azione penale al pubblico ministero (131). In definitiva, il proclamato obiettivo della « massima semplificazione » del rito (132) non può che comportare un assetto dell’azione civile innestata in sede penale modellata sulla falsariga dell’azione penale. MARTINO NOFRI Dottorando di Procedura penale presso l’Università di Ferrara
CONTE, Commento all’art. 13, in Il processo penale dopo la « legge Carotti », in Dir. pen.
proc., 2000, p. 179. (131) Cfr., art. 17 comma 1o lett. c) ed e) l. 24 novembre 1999, n. 468. (132) Cfr., art. 17 comma 1o l. 24 novembre 1999, cit.; ad avviso di G. SPANGHER, Il procedimento davanti al giudice di pace e la riforma dell’art. 593 c.p.p., in Dir. pen. proc., 2000, p. 164, alla luce delle direttive n. 1 e n. 103 delle legge delega del 1987, « dovremmo trovarci di fronte ad un processo essenziale ».
COMMENTI E DIBATTITI
SULLA STRUTTURA DEL REATO PERMANENTE: UN CONTRIBUTO CRITICO
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. — 2. La permanenza del reato come fase cronologicamente successiva al momento della sua perfezione. — 3. Individuazione di alcune conseguenze che contribuiscono alla determinazione, in negativo, del contenuto della permanenza del reato. — 4. La questione della rilevanza giuridica della permanenza del reato. La tesi secondo la quale la permanenza del reato assumerebbe rilevanza giuridica solo in relazione alle disposizioni che la prendono espressamente in considerazione. Critica. - 4.1. La tesi secondo la quale la permanenza del reato sarebbe riconducibile a un secondo precetto contenuto nella fattispecie incriminatrice. La concezione c.d. bifasica del reato permanente. Critica. - 4.1.1. La tesi secondo la quale la fattispecie del reato permanente incriminerebbe sia la produzione di uno stato antigiuridico sia il suo mantenimento. Critica. - 4.2. La concezione c.d. pluralistica del reato permanente. Critica. - 4.3. La tesi secondo la quale la permanenza del reato indicherebbe l’eventuale durata della violazione dell’unico precetto contenuto nella fattispecie incriminatrice. Accoglimento. — 5. La questione della struttura della permanenza. Indagine di carattere generale sulla fase conclusiva dell’iter criminis del reato. - 5.1. Critica del concetto di consumazione del reato elaborato dalla più recente dottrina. La permanenza del reato come protrazione di tutti gli elementi costitutivi del reato. — 6. Il criterio di individuazione del reato permanente. — 7. I singoli elementi costitutivi della permanenza del reato. L’elemento oggettivo del fatto tipico: a) la condotta; b) l’evento ed il nesso di causalità; c) altri eventuali elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice. - 7.1. L’elemento soggettivo del fatto tipico. Dolo e colpa. 7.2. L’antigiuridicità. - 7.3. La colpevolezza. — 8. Distinzione tra reato permanente e figure affini. Reato permanente e reato abituale. Reato permanente e reato realizzato con pluralità di atti tipici. Reato abituale e reato realizzato con pluralità di atti tipici. 1. La struttura del reato permanente, come è noto, si differenzia da quella del reato istantaneo per la presenza di una fase (denominata « permanenza »), di durata non aprioristicamente determinabile, successiva al momento della perfezione del reato e giuridicamente rilevante (1). Dalla esistenza di tale fase, infatti, discendono alcune conseguenze applicative, sia di tipo sostanziale che sul piano processuale, le quali sono completamente estranee alla disciplina dei reati istantanei (2): così, ad esempio, mentre in questi ultimi non è possibile un (1) Si assuma il concetto di perfezione nel senso elaborato dalla più recente dottrina, volto ad indicare il momento in cui sono venuti ad esistenza tutti gli elementi necessari perché si abbia conformità tra il fatto storico e la fattispecie incriminatrice astratta. Sul punto, v., in Italia, MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, Padova, 1992, p. 427; PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, Milano, 2000, p. 496. Sul concetto di perfezione, consumazione formale (Vollendung) nella dottrina tedesca, v., per tutti, ESER, in SCHÖNKESCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, 25. Aufl., München, 1997, p. 335. Per ulteriori approfondimenti sul concetto di perfezione, v. infra §§ 5. e 5.1. (2) Per un’ampia rassegna delle problematiche sostanziali e processuali poste dal reato permanente, v. RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, Padova, 1988,
— 138 — concorso di persone nella fase successiva al momento della perfezione del reato, con riferimento al reato permanente, invece, un soggetto può essere ritenuto concorrente ai sensi dell’art. 110 c.p. anche se partecipa soltanto durante la fase della permanenza (3); parimenti, mentre per il reato istantaneo il termine per proporre querela decorre dal momento in cui l’avente diritto ha avuto conoscenza della realizzazione del reato, al contrario, si deve ritenere che per il reato permanente tale termine decorra dal momento in cui l’avente diritto ha avuto conoscenza dell’effettiva cessazione della permanenza (4). D’altra parte, se vi è assoluto accordo nel ritenere che la permanenza sia una fase giuridicamente rilevante, non esiste ancora un’opinione comune sul suo contenuto e sul fondamento della sua rilevanza giuridica. Le due questioni, soltanto apparentemente distinte, sono, in verità, strettamente legate tra loro. Anzi, si può affermare che la concezione della struttura della permanenza dipende dal modo in cui si ritiene che essa possa assumere rilevanza giuridica e, più precisamente, dal tipo di fondamento assunto per giustificare tale rilevanza. È sufficiente, per ora, accennare alla concezione c.d. bifasica per rendersi conto come dalla convinzione che la permanenza assume rilevanza giuridica in quanto riconducibile a un secondo precetto, il quale comanda la rimozione dello stato antigiuridico creato con la violazione del primo precetto, sia derivata l’idea per cui la stessa consiste nella protrazione di un generico stato antigiuridico attraverso la persistente condotta omissiva dell’agente (5). Con ciò, a noi pare che il problema fondamentale, non ancora compiutamente affrontato, posto dall’esistenza della permanenza del reato concerna proprio il fondamento della sua rilevanza giuridica, visto e considerato che solo attraverso una sua corretta risoluzione si può giungere a precisare la struttura della permanenza in modo tale da consentire un’esatta impostazione delle problematiche sostanziali e processuali prospettate in tema di reato permanente. Il nostro studio, pertanto, si articolerà essenzialmente in due parti: in primo luogo, cercheremo di individuare il fondamento della rilevanza giuridica della permanenza ovvero di stabilire come una « entità » estranea alla struttura essenziale della fattispecie incriminatrice, quale è appunto la permanenza, possa essere giuridicamente rilevante, posto che, in materia penale, un dato della realtà può assumere rilevanza giuridica solo se riconducibile a una norma; in secondo luogo, sulla base dei risultati raggiunti, cercheremo di individuare la struttura della permanenza. p. 76 ss.; COPPI, voce Reato permanente, in Dig. disc. pen., vol. XI, Torino, 1996, pp. 323327; BERNASCONI, Il reato permanente, in Studium Iuris, 1998, p. 672 ss., con un’ampia rassegna giurisprudenziale. (3) Nella letteratura italiana, sul concorso di persone nel reato permanente, v. per tutti PECORARO ALBANI, Del reato permanente, in questa Rivista, 1960, pp. 450-452; RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., p. 76 ss. Nella letteratura tedesca, sulla partecipazione nel reato permanente, sia nella forma della correità che in quella della complicità, v. ampiamente RUDOLPHI, Die Zeitlichen der sukzessiven Beihilfe, in Festschrift für H.H. Jescheck, Berlin, 1985, p. 565 ss. V. anche ROXIN, in JÄHNKE-LAUHÜTTE-ODERSKY, Strafgesetzbuch, Leipziger Kommentar, Großkommentar, 11. Aufl, Berlin-New York, 1992 ff., 39 § 27; KÜHL, Strafrecht, Allgemeiner Teil, 1. Aufl., München, 1994, pp. 665-666 e p. 705. (4) V. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, Milano, 1995, p. 322. Di contrario avviso, VASSALLI, Amnistia, decorrenza del termine e interruzione giudiziale della permanenza nei reati punibili a querela di parte, in questa Rivista, 1958, pp. 1157-1158. (5) Sulla concezione c.d. bifasica del reato permanente, v. LEONE G., Del reato abituale, continuato e permanente, Napoli, 1933, p. 392 ss. e p. 426 ss.; RAGNO, I reati permanenti, Milano, 1960, p. 45 ss. e p. 118 ss.; PIOLETTI, voce Reato permanente, in Noviss. Dig. it., vol. XIV, Torino, 1967, p. 998 ss.; BETTIOL-PETTOELLO MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1986, pp. 410-411. Per un’analisi dettagliata di questa concezione, v. infra § 4.1.
— 139 — 2. Prima di affrontare l’essenziale questione della rilevanza giuridica della permanenza, si rende opportuno verificare se essa sia effettivamente una fase, la durata della quale non è aprioristicamente determinabile, successiva al momento della perfezione del reato (6). Tale dato, a nostro avviso, lo si deduce, in primo luogo, dal fatto che non è pensabile la protrazione nel tempo di un’entità che non sia ancora venuta ad esistenza, per cui la permanenza, essendo una fase durante la quale il reato si protrae nel tempo, non può che presupporre l’esistenza di un illecito penale già perfezionato (7). In secondo luogo, non più sotto il profilo — per così dire — logico-razionale, ma da un punto di vista normativo, tale conclusione è ricavabile dalla esistenza di una disciplina differenziata di alcuni istituti a seconda che si tratti di reato consumato-perfetto (istantaneo) (8) o permanente. Circa la decorrenza del termine della prescrizione, infatti, mentre la prima parte dell’art. 158, comma 1, c.p. stabilisce che tale termine « decorre, per il reato consumato, dal giorno della consumazione », la terza parte del primo comma della stessa disposizione sancisce che « il termine della prescrizione decorre, per il reato permanente, dal giorno in cui è cessata la permanenza ». Con riferimento al giudice territorialmente competente, poi, mentre il primo comma dell’art. 8 c.p.p., afferma che « la competenza per territorio è determinata dal luogo in cui il reato è stato consumato », il terzo comma precisa che « se si tratta di reato permanente, è competente il giudice del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione » (9). Infine, per quanto concerne la durata dello stato di flagranza, mentre il primo comma dell’art. 382 c.p.p., con riferimento al reato istantaneo, subordina l’esistenza di tale stato ad alcuni requisiti, quali, ad esempio, l’essere sorpreso, subito dopo il reato, con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima, l’ultimo comma sancisce che « nel reato permanente lo stato di flagranza dura fino a quando non è cessata la permanenza ». Ora, se la permanenza fosse un requisito di durata che assume rilevanza ai fini della realizzazione del reato, ovvero durante la fase dell’iter criminis precedente o concomitante alla perfezione del reato, non si spiegherebbe il motivo per cui il legislatore ha ricollegato all’esistenza della stessa una disciplina diversa; in altri termini, ai fini della decorrenza del termine della prescrizione e della durata dello stato di flagranza, sarebbe stato sufficiente fare riferimento alle disposizioni concernenti il reato consumato-perfetto (istantaneo), così come, con riferimento al giudice competente, il legislatore non avrebbe dovuto specificare che è competente quello del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione. 3. Dal fatto che la permanenza appaia come una fase successiva alla perfezione del reato, derivano alcune conseguenze che, da un lato, contribuiscono alla determinazione, in negativo, del suo contenuto e, dall’altro, ci aiutano a comprendere meglio la ragione per cui il problema fondamentale posto dall’esistenza della permanenza sia proprio la sua rilevanza giuridica. (6) In questo senso, v. per tutti DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato permanente, in questa Rivista, 1977, p. 568; RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., p. 6; COPPI, voce Reato permanente, cit., p. 318 e p. 320. (7) PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., pp. 421-422. (8) Nel nostro codice penale, come in altri codici penali europei, quali ad esempio quello spagnolo e quello portoghese, il concetto di consumazione indica ciò che noi abbiamo ricompreso nel concetto di perfezione, ovvero il momento in cui vengono ad esistenza tutti gli elementi costitutivi del reato. Così concepita, la consumazione è riferibile, a nostro avviso, anche al delitto tentato, nonostante che nell’art. 158 c.p. sia prevista per tale illecito una specifica disposizione. (9) Si deve notare che in questa disposizione il legislatore, per essere più preciso e coerente, non avrebbe dovuto utilizzare l’espressione « inizio della consumazione », bensì quella di « inizio della permanenza ».
— 140 — In primo luogo, essa non può essere identificata con una particolare modalità di esecuzione del reato (10). Comunemente, per esecuzione del reato si intende la fase dell’iter criminis in cui il soggetto agente pone in essere l’attività necessaria perché il reato si perfezioni. Ora, poiché il momento della perfezione indica l’istante in cui l’esecuzione si completa e la permanenza concerne il reato già perfetto, ne deriva che durante il procedimento esecutivo non vi può essere permanenza del reato, poiché tale procedimento appartiene a una fase addirittura precedente alla realizzazione dell’illecito. Parimenti, la permanenza non può essere concepita come una particolare modalità con cui si può verificare in concreto il momento dell’integrazione del reato, in quanto si verrebbe a confondere la permanenza con il carattere non istantaneo che può presentare il momento perfezionativo di alcune fattispecie incriminatrici (11). Alcuni autori, al contrario, sostengono che la permanenza rilevi anche (o soltanto) ai fini della perfezione del reato, la quale — si afferma — nelle ipotesi di reato permanente non si concretizza con la mera realizzazione sul piano naturalistico del fatto tipico descritto dal legislatore, ma implica anche il mantenimento di esso per un lasso di tempo giuridicamente apprezzabile (12). Circa l’ulteriore protrazione della « situazione antigiuridica » oltre il momento della perfezione, mentre secondo alcuni questa non costituirebbe la fase della permanenza, la quale dovrebbe essere identificata soltanto con il minimum temporale rilevante ai fini della perfezione (13), secondo altri saremmo sempre in presenza della permanenza, la quale, pertanto, rileverebbe non solo ai fini della perfezione, ma anche ad altri fini (14). A nostro avviso, in conformità a una parte minoritaria della dottrina, il mantenimento del fatto tipico per un’entità minima di tempo giuridicamente apprezzabile non costituisce la permanenza, bensì soltanto un carattere della condotta essenziale per l’integrazione del tipo (15). Come è stato notato, « la fase che precede la consumazione (perfezione) coincide [...] con il contesto temporale entro il quale si svolge la condotta esecutiva del reato: la circostanza che tale condotta, logicamente e cronologicamente antecedente alla consumazione (perfezione), debba in alcune fattispecie protrarsi per un tempo apprezzabile, non implica tuttavia che tale periodo integri propriamente la permanenza del reato » (16). La permanenza, in sostanza, deve essere identificata soltanto con l’ulteriore protrazione nel tempo del reato oltre il momento della perfezione. Esemplificando, il fatto che il reato di sequestro di persona si realizzi solo se la privazione della libertà personale ha avuto una durata apprezzabile in termini di persistente offensività del fatto nei confronti del bene giuridico tutelato, non ha niente a che vedere con la permanenza del reato: il minimum di protrazione della privazione della libertà personale è soltanto un carattere essenziale per integrare la fattispecie incriminatrice. Al contrario, si deve considerare permanenza del reato l’ulteriore privazione (10) V. PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., p. 416. (11) V. RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., p. 20. (12) In questo senso, cfr. tra i molti MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 429; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, Bologna, 1995, p. 169; ALIBRANDI, voce Reato permanente, in Enc. giur. Treccani, vol. XXVI, Roma, 1991, p. 5; PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1999, p. 345. In modo conforme, con riferimento alla categoria dei reati di durata, comprensiva del reato abituale e del reato permanente, v. anche PETRONE, voce Reato abituale, in Dig. disc. pen., vol. XI, Torino, 1996, p. 195. (13) V. SPASARI, L’omissione nella teoria della fattispecie penale, Milano, 1957, pp. 156-157; ALIBRANDI, voce Reato permanente, cit., p. 5. (14) Per la chiarezza, v., per tutti, BERNASCONI, Il reato permanente, cit., p. 669. (15) In questo senso, v. per tutti DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato permanente, cit., p. 567, nota 26; ID., voce Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Dig. disc. pen., vol. I, Torino, 1987, pp. 290-291; GRISOLIA, Il reato permanente, Padova, 1996, pp. 4-5. (16) DE FRANCESCO G.A., voce Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, cit., p. 290.
— 141 — della libertà personale successiva al decorso della entità minima di tempo necessaria alla integrazione della fattispecie incriminatrice. Da ciò deriva che, sotto il profilo della esecuzione (intesa come fase dell’iter criminis precedente alla perfezione del reato in cui viene posta in essere l’attività necessaria alla realizzazione del reato) e del momento della perfezione (inteso come momento in cui vengono in essere tutti gli elementi costitutivi), il reato permanente non si differenzia affatto dal reato istantaneo (17). Il processo esecutivo, anche se molto articolato, ed il periodo perfezionativo, anche se più duraturo, non rilevano ai fini della permanenza: quest’ultima inerisce al reato già perfetto, non alla sua esecuzione né alla sua realizzazione. In particolare, sotto il profilo della perfezione, si può compiere una distinzione fra reati che si perfezionano in un solo istante, in quanto si realizzano nel momento stesso in cui viene ad esistenza l’ultimo — in senso cronologico — elemento costitutivo del reato (momento della perfezione che potremmo definire istantaneo) e reati che si perfezionano in un periodo più lungo, in quanto in quest’ultima ipotesi il momento integrativo della fattispecie richiede non solo che siano venuti ad esistenza tutti gli elementi costitutivi del reato, ma anche che essi siano stati mantenuti per un minimum di tempo giuridicamente apprezzabile (momento della perfezione che potremmo definire non istantaneo). Entrambi i momenti segnano la perfezione del reato, il quale, se suscettibile di permanenza, a sua volta potrà cessare già nel momento in cui si integrano tutti gli elementi costitutivi del reato oppure protrarsi nel tempo oltre il momento della perfezione. E suscettibili di permanenza, poi, possono essere sia i reati a perfezione istantanea, come ad esempio quelli che consistono nella detenzione di qualcosa (stupefacenti, armi), sia quelli a perfezione non istantanea, come ad esempio il reato di violazione di domicilio di cui all’art. 614, comma 2, c.p. o il sequestro di persona (art. 605 c.p.). Altro discorso è poi quello relativo alla constatazione che un numero considerevole di reati, i quali possono caratterizzarsi per la presenza della permanenza, si integrano mediante il momento della perfezione c.d. non istantaneo; così come altro problema è quello concernente la determinazione del minimum necessario per la sussistenza del reato, determinazione che sicuramente implicherà una valutazione in termini di persistente offensività del fatto e che potrà variare in relazione al contenuto delle singole ipotesi di reato. La permanenza, infine, non può essere concepita come un elemento costitutivo del reato. O l’illecito è realizzato, e allora, se la fattispecie astratta lo consente, è suscettibile tanto di istantaneità quanto di permanenza, non esistendo reati che, per essere integrati, debbano durare oltre il momento della perfezione; oppure non è realizzato, e allora, nonostante che la fattispecie sia suscettibile di permanenza, quest’ultima non può venire ad esistenza (18): un reato, per perfezionarsi, può durare nel tempo, ma, per essere tale, non deve necessariamente durare oltre il momento della sua perfezione. In sostanza, la permanenza è una « entità » ontologicamente, necessariamente distinta dall’elemento costitutivo del reato, poiché, se così non fosse, essa concorrerebbe a determinare il momento della perfezione del reato. 4. Posto che la permanenza è una fase successiva al momento della perfezione del reato, ovvero una « entità » estranea alla struttura essenziale della fattispecie incriminatrice, a questo punto si pone la questione della sua rilevanza giuridica. Circa la soluzione di tale problematica, si possono individuare diverse soluzioni. Secondo una prima concezione, la fase della permanenza rileverebbe soltanto ai fini degli effetti eventualmente previsti in modo espresso dal legislatore, ovvero assumerebbe rilevanza giuridica soltanto nelle ipotesi in cui quest’ultimo la prende espressamente in considera(17) V. RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., p. 22. (18) V. PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., p. 425.
— 142 — zione, riconnettendo alla sua esistenza determinati effetti giuridici, mentre non avrebbe alcuna rilevanza « a livello di fattispecie incriminatrice » (19). Questa tesi, pur avendo una propria indiscutibile coerenza, non può essere accolta. Per comprendere il nostro dissenso, si devono individuare le ragioni su cui si fonda la rilevanza giuridica della permanenza e, in particolare, analizzare i rapporti che intercorrono tra quest’ultima fase e il momento della perfezione del reato. Mentre il momento della perfezione indica l’istante in cui l’agente, ponendo in essere tutti gli elementi costitutivi del reato (fatto tipico, antigiuridico e colpevole), vìola la norma penale, la permanenza indica la fase in cui l’agente protrae la violazione della norma oltre il momento della perfezione (20). Se da un punto di vista cronologico perfezione e permanenza sono distinte, da un punto di vista « contenutistico », e cioè del disvalore del fatto, esse non si differenziano: infatti, mentre il momento della perfezione indica l’istante in cui viene posto in essere un fatto conforme al giudizio di disvalore espresso dalla norma violata, la permanenza indica la fase in cui un fatto, conforme allo stesso giudizio di disvalore contenuto nella norma violata, si protrae: consiste cioè nella protrazione del disvalore del fatto così come venuto ad esistenza nel momento della perfezione. Da ciò deriva che la permanenza si caratterizza per una sua « dipendenza contenutistica » rispetto al momento della realizzazione degli elementi costitutivi, vale a dire per l’identico disvalore del fatto protratto nel tempo rispetto a quello posto in essere nel momento della perfezione. Da tale « dipendenza contenutistica » discendono due corollari. In primo luogo, come abbiamo visto in precedenza, la permanenza non rappresenta un elemento costitutivo del reato capace di concorrere, assieme agli altri elementi, alla valutazione penale del fatto. Inoltre la permanenza e i momenti in cui essa si sviluppa non sono neppure autonomamente perseguibili: proprio perché il contenuto della permanenza dipende dal contenuto del momento dell’integrazione della fattispecie, « una volta perseguita penalmente la fase iniziale dell’illecito, le fasi della permanenza — laddove considerate autonomamente — non offrono elementi idonei ad apprezzarne lo specifico ruolo assunto in quella determinata ipotesi di illecito » (21). In un certo senso la valutazione penale del fatto si concentra nel momento della sua realizzazione, o meglio, avendo la permanenza un contenuto identico a quello del momento della perfezione, la valutazione penale di quest’ultimo « assorbe » la valutazione della fase in cui il reato si protrae. In sostanza, si rinvengono motivi logici che precludono la rilevanza della permanenza da un punto di vista della perseguibilità, punibilità (in senso lato) penale: la violazione è unica, sia nel senso che si vìola un’unica disposizione, sia nel senso che l’unica disposizione viene violata una sola volta. D’altra parte, questa conseguenza, se, come vedremo, da un lato giustifica l’unità strutturale del reato permanente, dall’altro non giustifica la rilevanza giuridica della permanenza ad altri fini: anzi, apparentemente sembra doversi concludere che essa, proprio perché non è rilevante ai fini della perseguibilità, sia giuridicamente indifferente, affermazione che è propria della impostazione che stiamo criticando. In verità, il fatto che la permanenza non sia autonomamente perseguibile non implica che essa non sia giuridicamente rilevante: alla mancanza di un’autonoma rilevanza giuridica non corrisponde necessariamente un’assoluta (19) V. ALIBRANDI, voce Reato permanente, cit., p. 5: « il protrarsi ulteriore della permanenza non è elemento essenziale del reato [...] esso rileverà non a livello di fattispecie, ma a livelli contingenti e precisamente rileverà in relazione a tutti quegli effetti che il legislatore riconnette col cessare della permanenza ». In questo senso già SPASARI, L’omissione nella teoria della fattispecie penale, cit., pp. 156-157. (20) V. PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., p. 428; DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato permanente, cit., p. 568; COPPI, voce Reato permanente, cit., p. 318. (21) DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato permanente, cit., p. 587.
— 143 — irrilevanza giuridica, posto che una « entità » può essere giuridicamente rilevante anche se non rilevante ai fini della perseguibilità. Ed è proprio il contenuto della permanenza, che è identico a quello del momento della perfezione del reato, a rendere la permanenza medesima giuridicamente rilevante: tale contenuto, infatti, se comporta l’indifferenza di questa fase ai fini della perseguibilità, al contrario incide positivamente sulla sua rilevanza giuridica ad altri fini e questo perché, essendo conforme al giudizio di disvalore del fatto espresso dalla norma che viene violata, permette di ricondurre la permanenza alla fattispecie incriminatrice di parte speciale, nel senso che essa esiste ed assume rilevanza proprio se conforme al giudizio di disvalore contenuto nella norma penale. Detto questo, tornando alla critica dell’impostazione in esame, si può osservare che essa, identificando la rilevanza giuridica con la rilevanza ai fini della perseguibilità, ha ritenuto che la permanenza non sia rilevante proprio perché essa è irrilevante ai fini della perseguibilità penale. Ma, come abbiamo visto, è dall’identità del disvalore del fatto nelle due fasi (nel momento della perfezione presente in modo « statico », nella fase della permanenza presente in modo « dinamico ») che deriva l’unicità del reato permanente e la riconducibilità della permanenza alla norma incriminatrice ovvero la sua rilevanza giuridica non ai fini della perseguibilità penale, ma ad altri fini. 4.1. Secondo un’altra impostazione la permanenza assumerebbe rilevanza giuridica in quanto sarebbe riconducibile al precetto espresso dalla fattispecie incriminatrice, il quale, però, sarebbe caratterizzato da una particolare struttura. All’interno di tale impostazione si riscontrano due soluzioni diverse. Per la concezione c.d. bifasica (22), la norma incriminatrice del reato permanente consterebbe di due precetti: mentre il primo precetto comanderebbe o vieterebbe una determinata condotta idonea a produrre un certo evento (stato antigiuridico, offesa), il secondo precetto comanderebbe la rimozione di tale evento creato con la violazione del primo. La permanenza, pertanto, assumerebbe rilevanza giuridica in quanto riconducibile al secondo precetto. Su un piano strutturale, ferma restando la sua unità normativa (23), il reato permanente presenterebbe due fasi distinte, corrispondenti alla violazione dei due diversi precetti: la prima fase, indifferentemente commissiva o omissiva, concernerebbe la realizzazione del fatto vietato; la seconda fase, sempre e soltanto di natura omissiva ed integratrice della permanenza, consisterebbe nella mancata rimozione da parte dell’agente dell’evento (stato antigiuridico) posto in essere, ovvero nell’inadempimento di un obbligo di contro-agire. In sostanza, la permanenza consisterebbe nella protrazione nel tempo dell’evento giuridico (offesa), attraverso una condotta omissiva del soggetto agente. Questa teoria, come è noto, è stata oggetto di numerose critiche. Con riferimento alla struttura, preliminarmente si è notato che la scansione del reato permanente nelle due fasi è contraddetta dalla stessa realtà: anche nella seconda fase, infatti, per assicurare la protrazione dello stato antigiuridico, l’agente può tenere un comportamento commissivo (24). Tale osservazione, peraltro, non appare del tutto convincente in quanto sposta la riflessione da un piano giuridico a un piano naturalistico: se effettivamente esistesse un obbligo di rimozione, (22) Sulla concezione c.d. bifasica del reato permanente, v. LEONE G., Del reato abituale, continuato e permanente, cit., p. 387 ss. e p. 426 ss.; LEONE A., Caratteri ed effetti del reato permanente, in Ann. dir. proc. pen., 1935, pp. 60-61; RAGNO, I reati permanenti, cit., p. 45 ss. e p. 118 ss.; PIOLETTI, voce Reato permanente, cit., p. 998 ss.; BETTIOL-PETTOELLO MANTOVANI, Diritto penale, cit., pp. 410-411. (23) Sul punto, v. LEONE G., Del reato abituale, continuato e permanente, cit., p. 469; RAGNO, I reati permanenti, cit., p. 174; PIOLETTI, voce Reato permanente, cit., p. 1000, secondo i quali, nonostante la duplicità del precetto e della condotta, il reato permanente è reato unitario per l’unitarietà dell’evento, cioè per la unitarietà obiettiva dello stato antigiuridico ovvero dell’offesa. (24) V. GUARNERI, Punti fermi in tema di reato permanente, in Riv. pen., 1936, p. 297; PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., p. 431; RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., pp. 13-14.
— 144 — infatti, l’eventuale condotta commissiva volta al mantenimento di tale stato, pur esistendo da un punto di vista naturalistico, non sarebbe giuridicamente rilevante perché atipica. Più convincente, invece, è la critica secondo la quale l’esistenza dei due precetti, e quindi delle due condotte, può condurre ad una nozione non più unitaria, ma pluralistica del reato permanente (25). Decisive sono, comunque, le critiche mosse all’obbligo di contro-agire derivante dall’esistenza del secondo precetto e, quindi, al fondamento della rilevanza giuridica della permanenza. In primo luogo, si è rilevato che nei reati omissivi non si riesce a cogliere la duplicità del precetto e, conseguentemente, la distinzione e la successione delle due fasi: in tali illeciti, infatti, il secondo obbligo ha un contenuto identico al primo, perché la cosiddetta rimozione dello stato antigiuridico può essere attuata proprio compiendo l’azione che costituisce l’oggetto dell’obbligo primario (26): come è stato notato « non può di sicuro dirsi che accanto alla norma ex art. 607 c.p. vi sia un altro precetto che suoni: « rimuovi la tua omissione », perché rimuovere la omissione significherebbe « agire »; ma ciò costituisce proprio la osservanza della norma dell’art. 607 c.p. che si sta violando e, quindi, limpidamente si scorge la inesistenza di un altro precetto » (27). In secondo luogo, e soprattutto, è stato dimostrato che nel nostro ordinamento non esiste una fonte normativa, generale o particolare, che attribuisce rilevanza ad un obbligo di contro-agire per rimuovere lo stato antigiuridico creato, la cui violazione verrebbe ad integrare la supposta seconda fase del reato permanente (28): l’autore di un sequestro di persona è punito non perché omette di rimettere in libertà la vittima, ma perché, violando immediatamente ed esclusivamente il precetto di non privare una persona della libertà, ha tolto al soggetto passivo la sua libertà. Infine, se fosse effettivamente concepibile un obbligo secondario di rimozione, non si vede perché esso non dovrebbe operare rispetto ad ogni fattispecie (29). In conclusione, questa teoria, che fa salva la struttura unitaria del reato permanente e compie una distinzione fra la irrilevanza penale della permanenza ai fini della perseguibilità, punibilità (in senso lato) penale (in quanto tale fase è ritenuta estranea al primo precetto) e la rilevanza della stessa ad altri fini (in quanto riconducibile al secondo precetto), non può essere accolta, poiché risolve la problematica relativa al fondamento della rilevanza giuridica della permanenza mediante un vero e proprio « artificio dottrinale ». 4.1.1. Secondo un’altra tesi, la permanenza assumerebbe rilevanza giuridica in quanto sarebbe la stessa fattispecie penale che, oltre a incriminare la condotta che instaura lo stato antigiuridico, incriminerebbe anche la successiva condotta di mantenimento (30). (25) V. GUARNERI, Punti fermi in tema di reato permanente, cit., p. 297; ALIBRANDI, voce Reato permanente, cit., p. 2. (26) V. GALLO M., Reato permanente ed omesso conferimento di grano all’ammasso, in Riv. it. dir. pen., 1948, p. 330; DALL’ORA, Condotta omissiva e condotta permanente nella teoria generale del reato, Milano, 1950 pp. 182-186. (27) PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., p. 411. (28) V. per tutti GALLO M., Reato permanente ed omesso conferimento di grano all’ammasso, cit., p. 331; SINISCALCO, Tempus commissi delicti, reato permanente e successione di leggi penali, in questa Rivista, 1960, p. 1100; PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., pp. 410-415. (29) V. GALLO M., Reato permanente ed omesso conferimento di grano all’ammasso, cit., p. 331; COPPI, voce Reato permanente, cit., p. 322. (30) Per questa nozione di reato permanente, v., in Italia e per tutti, RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., p. 25; MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 429; FIORE, Diritto penale, parte generale, vol. I, cit., p. 192; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, cit., p. 169; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, cit., p. 321; PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, cit., p. 501; PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 345. In questo senso già POLETTI, La nozione giuridica di reato permanente, in Riv. it. dir. pen., 1932, p. 196.
— 145 — Per quanto concerne la struttura della permanenza, si riscontra una diversità di opinioni. Secondo una parte meno recente della dottrina, essa consisterebbe nella protrazione volontaria dello stato antigiuridico (31). Per altri autori, invece, essa consisterebbe nella protrazione di tale stato offensivo attraverso la persistente condotta volontaria del soggetto agente (32). Infine, secondo un’altra parte della dottrina, la permanenza sarebbe uno stato antigiuridico che si protrae nel tempo durante il quale il fatto tipico si rinnova continuamente e ininterrottamente (33). A nostro avviso anche questa tesi suscita delle perplessità. Con riferimento alla struttura della permanenza, ciò che non convince è il costante riferimento a un generico « stato antigiuridico ». Tale stato, infatti, è riscontrabile anche in ipotesi criminose che, secondo l’opinione corrente, permanenti non sono: così, ad esempio, nel furto, l’impossessamento della cosa mobile altrui, sottratta a chi la detiene, produce una situazione antigiuridica, offensiva del patrimonio, che si protrae nel tempo oltre il momento della consumazione del reato. D’altra parte, la precisazione che il protrarsi di tale situazione antigiuridica deve essere dovuto alla volontà dell’agente (34) o alla sua persistente condotta (35), così che egli possa far cessare in ogni momento lo stato da lui posto in essere, non appare molto persuasiva e chiarificatrice, posto che anche il ladro può far cessare volontariamente lo stato antigiuridico restituendo la cosa sottratta oppure porre in essere una condotta volontaria volta a mantenere o rafforzare la disponibilità della stessa. Da ciò deriva che il carattere della permanenza è determinato alla stregua del menzionato stato, il quale sembra costituire soltanto il naturale persistere dell’offesa: mentre nell’affermazione di principio dovrebbe essere la condotta di mantenimento ad assicurare la protrazione del reato e, quindi, a far attribuire al medesimo il carattere della permanenza, all’opposto, diviene il c.d. stato antigiuridico il parametro di valutazione della permanenza. Nella dottrina tedesca, v. tra i molti JESCHECK, Wesen und rechtliche Bedeutung der Beendigung der Straftat, in Festschrift für H. Welzel, Berlin-New York, 1974, p. 687; HAU, Die Beendigung der Straftat und ihre rechtlichen Wirkungen, Berlin, 1974, pp. 70-72; MAURACH-GÖSSEL-ZIPF, Strafrecht, Allgemeiner Teil, Teilbd. 2, 7. Aufl., Berlin, 1989, pp. 418419; STREE, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, cit., p. 687; VOGLER, in JESCHECK-RUß-WILLMS, Strafgesetzbuch, Leipziger Kommentar, 10 Aufl., Berlin-New York, 1985 ff., 17 vor § 52; SAMSON-GÜNTHER, in RUDOLPHI-HORN-SAMSON, Systematischer Kommentar zum Strafgesetzbuch, Teilbd. 1., 6. Aufl., Neuwied-Kriftel-Berlin, 1993 ff., 49 vor § 52. (31) In questo senso v., in Spagna, RODRIGUEZ DEVESA-SERRANO GOMEZ, Derecho penal español, parte general, Madrid, 1995, p. 421. Tale tesi è sostenuta anche dalla maggioranza degli Autori francesi: v. per tutti PRADEL, Droit pénal général, Paris, 1999, p. 363. (32) In questo senso, in Italia, nonostante alcune differenze sul piano più terminologico che sostanziale, v. tra i molti RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., pp. 25-29; MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 429; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, cit., p. 321; PADOVANI, Diritto penale, cit., pp. 345346; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, cit., p. 169; PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, cit., p. 501. (33) In questo senso v., in Italia, POLETTI, La nozione giuridica di reato permanente, cit., p. 196. In Germania, v. tra i molti HAU, Die Beendigung der Straftat und ihre rechtlichen Wirkungen, cit., p. 71; MAURACH-GÖSSEL-ZIPF, Strafrecht, Allgemeiner Teil, Teilbd. 2, cit., pp. 418-419; JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, Allgemeiner Teil, 5. Aufl., Berlin, 1996, p. 263. (34) Contro questa tesi v. HRUSCHKA, Die Dogmatik der Dauerstraftaten und das Problem der Tatbeendigung, in GA, 1968, p. 193; HAU, Die Beendigung der Straftat und ihre rechtlichen Wirkungen, cit., p. 70; PROSDOCIMI, Profili penali del postfatto, Milano, 1982, pp. 167-168. (35) Contro questa tesi v. PROSDOCIMI, Profili penali del postfatto, cit., p. 168.
— 146 — Senza considerare, poi, che l’offesa all’interesse tutelato non è da tutti considerata un elemento costitutivo del reato, rappresentando, piuttosto, il contenuto dell’illecito (36). Da qui, inoltre, l’attuale difficoltà di distinguere i reati permanenti dai c.d. reati istantanei ad effetti permanenti e l’annosa disputa sulla natura del bene giuridico tutelato. Invero, si deve ritenere che quest’ultima tipologia di reato abbia soltanto una funzione descrittiva, considerato che ogni reato, sia esso istantaneo o permanente, può produrre effetti offensivi che si protraggono oltre il momento della perfezione o della consumazione. Parimenti, non risulta del tutto accettabile (anche se, a nostro avviso, più condivisibile) l’affermazione per cui il reato permanente si caratterizza per la produzione di uno stato antigiuridico che l’agente mantiene e durante il quale il fatto tipico (Tatbestand) è realizzato ininterrottamente. Vero che con questa impostazione la permanenza acquista connotati di tipicità, è anche vero che il riferimento allo stato antigiuridico è fuorviante, e questo perché esistono fattispecie incriminatrici, pacificamente qualificate come permanenti, nelle quali non è riscontrabile la produzione e la protrazione di uno stato antigiuridico, come, ad esempio, il reato di detenzione illecita di sostanze stupefacenti o il reato di guida in stato di ebbrezza, nei quali è la sola condotta tipica a protrarsi nel tempo (37): come è stato icasticamente notato, tale nozione di reato permanente finisce per « non comprendere reati che devono essere ricompresi » (38). Ma è con riferimento al fondamento giuridico, cioè all’idea per cui la norma incriminerebbe anche la successiva condotta di mantenimento, che la teoria in esame mostra tutta la sua debolezza. A nostro avviso, infatti, se, parlando di uno « stato antigiuridico », non si vuole alludere a una generica illiceità extrapenale, la situazione creata con la perfezione del reato è qualificabile come antigiuridica solo in quanto si postuli l’esistenza di un secondo precetto (39), per cui anche questa tesi finisce con lo scindere la norma che incrimina il reato permanente in due precetti: un primo precetto che comanda o vieta una certa condotta idonea a produrre un determinato stato antigiuridico; un secondo precetto che comanda il non mantenimento di tale stato. Questa concezione, del resto, si differenzia da quella c.d. bifasica in quanto, mentre per quest’ultima il precetto secondario ha ad oggetto la rimozione dello stato antigiuridico ovvero consiste in un obbligo che può essere violato solo mediante un’omissione, per la teoria in esame il precetto secondario comanda il non mantenimento della situazione, il quale può essere violato sia con un’azione sia con un’omissione, e questo perché, mentre una situazione può essere rimossa solo mediante un’azione, al contrario la stessa può essere mantenuta indifferentemente attraverso un’azione o un’omissione. Inoltre, anche una tesi fondata su un obbligo di non-mantenere si rivela una mera creazione dottrinale, non essendo possibile individuare, sul piano normativo, la fonte di tale obbligo, con la conseguenza che, a volerla sostenere, si finirebbe, in ultima analisi, col violare, sul piano della tipicità del fatto, il principio di legalità. (36) In questo senso, v. DALL’ORA, Condotta omissiva e condotta permanente nella teoria generale del reato, cit., pp. 154-163; PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., pp. 402-406; DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato permanente, cit., p. 564. (37) È per questo che alcuni autori (MAURACH-GÖSSEL-ZIPF, Strafrecht, Allgemeiner Teil, Teilbd. 2, cit., pp. 10-11; STREE, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, cit., p. 687), nel dare la propria definizione di reato permanente, specificano che tale reato si ha non solo quando viene prodotto e mantenuto uno stato antigiuridico, ma anche quando « la condotta tipica, senza la produzione ed il mantenimento di un determinato stato, dura anche dopo la perfezione (Vollendung) del reato [...], realizzando ulteriormente il fatto tipico ». (38) HRUSCHKA, Die Dogmatik der Dauerstraftaten und das Problem der Tatbeendigung, cit., p. 194. (39) V. PROSDOCIMI, Profili penali del postfatto, cit., p. 169, il quale, però, riferisce la critica soltanto alla concezione c.d. bifasica.
— 147 — Se, poi, fosse effettivamente concepibile un obbligo secondario di non mantenimento, come già osservato con riferimento all’obbligo di rimozione, non si vede perché esso non dovrebbe operare rispetto a ogni fattispecie. Invero, dietro a questa concezione, come a quella c.d. bifasica, sembra nascondersi una concezione imperativa della norma penale, la quale viene intesa non tanto come un giudizio di disvalore del fatto, ovvero come una valutazione volta a bilanciare interessi contrapposti, ma come un imperativo che si appella alla volontà del consociato. Solo se alla norma si attribuisce una funzione imperativa, infatti, è possibile ammettere l’esistenza di un secondo precetto che impone di non mantenere o, addirittura, di rimuovere una certo stato antigiuridico creato con la violazione del primo precetto (40). Al contrario, se la norma, come noi crediamo, svolge una funzione valutativa, non solo non è ammissibile l’esistenza di un secondo precetto, ma lo stesso contegno dell’agente successivo alla consumazione del reato risulta assolutamente irrilevante, a meno che tale contegno, come vedremo oltre, non sia ancora totalmente conforme al giudizio di disvalore contenuto nella norma violata, ovvero, in altri termini, non sia ancora tipico. 4.2. Secondo la concezione c.d. pluralistica del reato permanente, la permanenza, intesa come fase antigiuridica successiva alla consumazione, non esisterebbe, poiché, dopo la perfezione del reato, si avrebbe soltanto una pluralità di momenti in cui viene integrata la fattispecie incriminatrice, ragion per cui « il reato permanente risulta(ndo) una pluralità di momenti consumativi [...] è non già un periodo consumativo, bensì una pluralità di momenti consumativi e, perciò stesso, una molteplicità di illeciti penali » (41). Questa teoria muove da una serie di interrogativi volti a mettere in luce l’inadeguatezza della concezione unitaria nella soluzione dei molti problemi che sorgono in relazione ai rapporti fra reato permanente ed altri istituti di diritto penale e di diritto penale processuale. Gli inconvenienti segnalati sarebbero risolvibili solo se il reato permanente venisse concepito come una pluralità di illeciti. D’altra parte, se il reato permanente deve risolversi in una molteplicità di reati, è giocoforza concludere non solo che ogni fase della permanenza è suscettibile di essere autonomamente giudicata e punita, ma che tale fase deve essere trattata come un concorso di reati. Tuttavia, poiché i vari illeciti che compongono il reato permanente sono unitariamente lesivi dello stesso bene giuridico tutelato (42), riproponendosi con ciò una di quelle situazioni in cui, nonostante la molteplicità delle violazioni, può essere rilevata una sola ragione di pena, i sostenitori di questa tesi hanno ritenuto che l’applicazione del regime sanzionatorio proprio del concorso di reati possa essere evitata: facendo leva su una concezione processuale del fatto, ricavata dagli artt. 90 e 477 del vecchio codice di procedura penale (43), si ritiene, infatti, di poter affermare il principio secondo il quale la molteplicità degli illeciti merita una valutazione penale unitaria quando ad essa corrisponde una (40) Sul punto v. quanto affermato lucidamente da LEONE G., Del reato abituale, continuato e permanente, cit., p. 429: « se, infatti, questa seconda fase della condotta (la fase c.d. omissiva) è anche essa punibile, ed entra nel quadro degli elementi costitutivi dell’unico reato permanente, è per effetto della norma: la quale non esaurisce la sua funzione nel momento in cui compare l’evento, ma prosegue nella sua efficacia imperativa fin quando l’evento è in vita, e prosegue nella funzione di comando, obbligando l’agente a rimuovere la situazione antigiuridica da lui creata ». (41) In questo senso, v. ampiamente GIULIANI, La struttura del reato permanente, Padova, 1967, pp. 5-6; ID., Concezione pluralistica e scindibilità del reato permanente, in questa Rivista, 1971, p. 1260 ss. Per una concezione pluralistica del reato permanente già GISMONDI, Unità di sanzione e pluralità di azioni od omissioni nel reato permanente, in Ann. dir. proc. pen., 1937, pp. 717-718; MORO, Unità e pluralità di reati. Principi, Padova, 1959, p. 229 ss.; SAVINO, Ancora sulla natura istantanea o permanente del contrabbando doganale, in Arch. pen., 1967, I, p. 393 ss. (42) GIULIANI, La struttura del reato permanente, cit., p. 72. (43) GIULIANI, La struttura del reato permanente, cit., p. 72.
— 148 — identica offesa e che il momento unificante del reato permanente sarebbe dato dalla sua contestazione unitaria all’imputato in sede processuale (44). D’altra parte, ferma la possibilità di valutare unitariamente la pluralità dei momenti lesivi, la molteplicità può e deve riaffermarsi nelle interferenze con altri istituti di diritto penale e di diritto penale processuale. Anche questa teoria, nonostante che il suo maggiore sostenitore abbia modificato in parte la sua originaria posizione (45), è stata oggetto di numerose critiche (46). In primo luogo, è stato osservato che nessuna norma contiene una descrizione in termini pluralistici di un reato permanente e che non è possibile individuare, per esempio nello schema di reato delineato dall’art. 605 c.p., una pluralità di reati (47). Inoltre, la problematica della permanenza non può essere risolta esclusivamente su un piano processuale e nel momento della contestazione, data la sicura rilevanza della categoria del reato permanente anche sul piano sostanziale (48). Infine, e soprattutto, è stato dimostrato che il reato permanente è un reato a struttura unitaria in quanto consiste in un’unica violazione, dunque in un unico reato, non suscettibile di frazionamento in singole ipotesi delittuose (49). A ben vedere, anche questa tesi costituisce un tentativo di ricondurre la permanenza a un ambito normativo: come è stato osservato, « l’affermazione che ad ogni momento dello svolgersi della permanenza debba corrispondere un illecito completo e distinto costituisce, in fin dei conti, un tentativo di dar corpo ad una visione strutturale di carattere normativo. Con tale concezione si viene tuttavia a ricondurre la rilevanza penale di ogni momento dello svolgersi della permanenza ad un autonomo illecito; ed è questa la fonte della contraddizione » (50). D’altra parte, rispetto alla prima impostazione, che sostiene l’assoluta irrilevanza giuridica della permanenza (a meno che non sia espressamente prevista dal legislatore), questa teoria, pur partendo dallo stesso presupposto, cade nell’eccesso opposto: infatti, identificando la rilevanza giuridica con la rilevanza ai fini della perseguibilità, essa finisce per ritenere che i singoli istanti che compongono la permanenza abbiano rilevanza giuridica proprio perché sostanzialmente (anche se non processualmente) rilevanti ai fini della perseguibilità, punibilità (in senso lato) penale (51). In un certo senso, poiché la fase della permanenza è (44) GIULIANI, La struttura del reato permanente, cit., pp. 74-75. (45) V. GIULIANI-BALESTRINO, Sul carattere eventualmente pluralistico del reato permanente: conferme e rettifiche, in questa Rivista, 1982, p. 824 ss. (46) V. per tutti DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato permanente, cit., pp. 572-574. (47) V. DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato permanente, cit., p. 572. (48) V. DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato permanente, cit., p. 573. (49) Sulla concezione unitaria del reato permanente, fondata non sull’unità dello stato antigiuridico, ma sull’unità della condotta v., nella dottrina italiana e per tutti, PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., pp. 428-439; DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato permanente, cit., p. 574 ss.; RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., p. 55 ss.; MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 429. A favore della struttura unitaria del reato permanente, cfr. anche Cass. pen., Sez. Un., 13 luglio 1998, in Guida al diritto, 1998, n. 44, pp. 96-97. Nella dottrina tedesca, v. MAURACHGÖSSEL-ZIPF, Strafrecht, Allgemeiner Teil, cit., p. 418; JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, Allgemeiner Teil, cit., p. 712. (50) V. DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato permanente, cit., p. 576. (51) Afferma GIULIANI, La struttura del reato permanente, cit., pp. 56-57: « Stante l’inscindibilità intercorrente — in una concezione volontaristica del diritto penale — tra antigiuridicità e colpevolezza, ogni momento colpevole non può non costituire un autonomo illecito; e, viceversa, ogni momento colpevole non può non costituire un autonomo illecito penale. Ecco il motivo per cui riteniamo che il reato permanente sia unitario sotto il profilo le-
— 149 — estranea alla struttura essenziale del reato, l’adozione di una struttura pluralistica del reato permanente diviene lo strumento per dare rilevanza giuridica a tale fase. Ma è proprio da una concezione unitaria del reato permanente, la quale deriva dall’identità di disvalore del fatto nel momento della perfezione e nella fase della permanenza, che dipende la rilevanza giuridica di quest’ultima ai fini dell’applicazione di determinati istituti. 4.3. Infine, per un’altra tesi, che riconosce l’unità strutturale della categoria in esame (52), la permanenza assumerebbe rilevanza giuridica in quanto sarebbe riconducibile all’unico precetto contenuto nella norma e, più precisamente, essa indicherebbe « la durata della ribellione alla norma » (53). Rinviando al § 5.1. per ciò che concerne la struttura della permanenza ricavabile da tale impostazione, a noi pare che, con riferimento alla questione della rilevanza giuridica della stessa, questa tesi colga nel segno. Essa, infatti, può essere condivisa, non solo perché fa salva l’unità del reato permanente, ma anche perché non compie una scissione del precetto contenuto nella fattispecie incriminatrice. La permanenza, pertanto, come è stato notato, « non è un « istituto giuridico », una entità normativa creata, fissata dal legislatore » (54), ma « un concetto della realtà » (55), con ciò dovendosi intendere, non tanto che la permanenza è priva di rilevanza giuridica, ma che essa non è di per sé oggetto di incriminazione: tale fase, infatti, indica la durata della violazione della norma, ovvero soltanto un carattere eventuale del reato, e questo perché la fattispecie incriminatrice descrive soltanto il fatto tipico, ne delinea gli elementi costitutivi, ma la durata di esso, la sua permanenza, non viene presa in considerazione né tanto meno descritta (56). In sostanza, la peculiarità della permanenza consiste in questo: da un lato, essa è successiva al momento della perfezione del reato, cioè estranea alla struttura essenziale della fattispecie incriminatrice, dato che, come abbiamo visto, ha indotto una parte della dottrina a considerarla giuridicamente rilevante solo in relazione alle disposizioni che la prendono espressamente in considerazione (si veda la prima ricostruzione), oppure addirittura inesistente, dovendosi qualificare come illecito penale ogni singolo momento che la compone (si veda la concezione c.d. pluralistica del reato); dall’altro, essa è giuridicamente rilevante perché riconducibile all’unico precetto contenuto nella norma penale, in quanto, cioè, presenta un contenuto conforme al giudizio di disvalore contenuto nell’unico precetto della fattispecie incriminatrice, e questo dato ha portato erroneamente a credere che la permanenza sia incriminata dalla fattispecie incriminatrice (si veda la seconda ricostruzione). Detto in altri termini, e come vedremo meglio nelle pagine che seguono, la permanenza assume rilevanza giuridica perché tipica, e cioè perché durante la sua esistenza il fatto storico risulta ininterrottamente conforme al fatto tipico previsto dalla fattispecie incriminatrice. Tale soluzione non solo spiega l’inutilità di ogni duplicazione dell’incriminazione e sivo, ma non sotto il profilo antiprecettivo; come fatto dannoso e fatto storico, ma non come fatto illecito ». (52) V. PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., pp. 428-439. In questo senso, con parole diverse, v. anche DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato permanente, cit., p. 574 ss., e COPPI, voce Reato permanente, cit., pp. 320-321. (53) PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., p. 428. V. anche DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato permanente, cit., p. 568 e p. 576; PROSDOCIMI, Profili penali del postfatto, cit., p. 177; COPPI, voce Reato permanente, cit., p. 318. (54) PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., p. 428. (55) PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., p. 395. (56) Ciò non significa, tuttavia, che per stabilire se un determinato reato sia suscettibile di permanenza non si debba fare riferimento alla fattispecie astratta: come vedremo oltre (infra § 6.), è proprio dalla descrizione del fatto tipico, e più precisamente dagli elementi costitutivi contenuti nella norma, che si deduce se un reato possa essere protratto nel tempo oltre il momento della perfezione.
— 150 — l’impossibilità di inquadrare il reato permanente in una concezione pluralistica, ma si pone anche nel pieno rispetto di alcuni princìpi fondamentali del nostro sistema penale. Sotto il primo profilo, occorre rilevare che non è necessario incriminare appositamente la durata dell’illecito né punire ogni singolo momento in cui la permanenza si sviluppa, e questo proprio perché il reato persiste identico a se stesso e senza soluzioni di continuità. Sotto il secondo profilo, poi, la soluzione adottata risulta anzitutto conforme al principio di legalità, il quale, in materia penale, non può coprire soltanto le fasi dell’iter criminis precedenti (si pensi al tentativo) o concomitanti al momento della realizzazione del reato, ma anche tutte le fasi successive alla sua perfezione. Più precisamente, l’idea che la permanenza consiste nella protrazione del fatto tipico si conforma ai sottoprincipi di riserva di legge, per cui ogni comportamento per essere punibile deve essere previsto dalla fattispecie incriminatrice posta dalla legge, e di tassatività, il quale impone al giudice di applicare la fattispecie e di adattare la propria interpretazione al tenore della norma, senza ricorrere all’analogia. Ma la soluzione da noi prospettata sembra rispettare maggiormente anche il principio di determinatezza: mentre l’esistenza di un secondo precetto priverebbe la fattispecie legale di quei connotati di precisione e determinatezza ai quali il legislatore deve attenersi nella formulazione dei precetti penali, al contrario, nel momento in cui si ritiene che la permanenza consiste nella protrazione del fatto tipico così come descritto dalla norma, tali caratteri vengono sicuramente recuperati. Questa concezione, inoltre, consente al fatto tipico di svolgere la sua fondamentale funzione di garanzia, obbligando il giudice ad accertare la conformità del fatto concreto al modello legale anche durante la fase successiva alla perfezione del reato (57). Infine, come accennato, è l’adesione a una concezione valutativa della norma che impone l’adozione di questa soluzione. Se tutti gli elementi costitutivi del fatto tipico esprimono un giudizio di disvalore frutto di un bilanciamento di interessi contrapposti, la permanenza può assumere rilevanza giuridica solo se consiste in un fatto corrispondente a tale valutazione e quindi non può che essere concepita come una protrazione ininterrotta del fatto tipico. 5. Esclusa l’esistenza di un secondo precetto, affermata l’unità strutturale del reato permanente, constatato che la permanenza indica l’eventuale durata della violazione del (primo, unico) precetto, a questo punto si deve approfondire la problematica della sua struttura e chiedersi in cosa essa debba consistere per essere riconducibile al precetto contenuto nella fattispecie incriminatrice e, quindi, per assumere rilevanza giuridica. Tale questione, a ben vedere, si inserisce nella più vasta problematica concernente l’inquadramento dogmatico dell’eventuale fase dell’iter criminis susseguente al momento della perfezione del reato. A nostro avviso, pertanto, si deve compiere un’indagine di carattere generale sulla fase conclusiva dell’iter criminis del reato volta ad individuare il criterio valido per distinguere ciò che, pur essendo successivo al momento della perfezione del reato, risulta giuridicamente rilevante da ciò che rilevante non è. Secondo la più recente dottrina, esistono due istanti, concettualmente distinti, conclusivi dell’iter criminis del reato: il momento della perfezione e quello della consumazione (58). Mentre la perfezione indicherebbe « il momento in cui il reato è venuto ad esi(57) Come è stato notato da PROSDOCIMI, Profili penali del postfatto, cit., p. 177, « il principio, fondamentale in un ordinamento improntato al principio di legalità, per cui punibile è soltanto la condotta (il fatto) conforme alla fattispecie tipica, va osservato fino in fondo. È viceversa fenomeno frequente che una volta che il reato sia consumato, cioè che i requisiti minimi per la piena punibilità del soggetto siano soddisfatti, esso tenda ad essere accantonato e perso di vista ». (58) Nella dottrina italiana, per la compiutezza concettuale e la precisione terminologica, v. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., pp. 427-428; PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, cit., p. 494 ss. Una distinzione tra i concetti di perfezione e
— 151 — stere », la consumazione identificherebbe « il momento in cui è venuto a cessare » (59): più precisamente, la perfezione si avrebbe quando l’agente realizza tutti gli elementi costitutivi della fattispecie legale (60); la consumazione, invece, si avrebbe quando lo svolgimento del fatto ha trovato la sua effettiva cessazione al di là della vera e propria realizzazione del fatto tipico ovvero al di là della perfezione (61). Essa pertanto si verificherebbe quando l’offesa, il pregiudizio al bene giuridico previsto dalla fattispecie incriminatrice viene effettivamente realizzato nella completa « estensione » voluta dall’agente (62) ovvero il reato già perfetto « ha raggiunto la sua massima gravità concreta » (63). Perfezione e consumazione — si afferma — non sempre coincidono, poiché l’integrale realizzazione della fattispecie non comporta di per sé la consumazione del reato (64). I casi nei quali è riscontrabile una scissione tra i due momenti sono stati compiutamente individuati dalla dottrina e suddivisi in più gruppi. I) In un primo gruppo tale scissione sarebbe dovuta al fatto che il legislatore, per ragioni di politica criminale, ha anticipato la soglia della perfezione ad un momento anteriore rispetto al completo svolgimento del fatto naturalistico (65). A questo gruppo appartengono diverse tipologie di reato. 1) In primo luogo, vi rientrano i reati che per comodità potremmo impropriamente chiamare a dolo specifico (Absichtdelikt), nei quali l’autore deve aver agito per un proposito che va oltre il fatto tipico oggettivo. Tali reati si perfezionerebbero quando l’agente ha realizzato la fattispecie tipica oggettiva, ma la consumazione si avrebbe quando lo stesso ha raggiunto il proposito soggettivo (66): così, ad esempio, la truffa, come strutturata nel § 263 StGB, si perfezionerebbe con la produzione di un danno al patrimonio altrui, ma la consuconsumazione era stata compiuta già da ADORNATO, Il momento consumativo del reato, Milano, 1966, pp. 5-6 e pp. 152-157. Sulla distinzione tra perfezione (Vollendung) e consumazione (Beendigung) nella dottrina tedesca, v. HRUSCHKA, Die Dogmatik der Dauerstraftaten und das Problem der Tatbeendigung, cit., pp. 199-206; JESCHECK, Wesen und rechtliche Bedeutung der Beendigung der Straftat, cit., pp. 683-685; HAU, Die Beendigung der Straftat und ihre rechtlichen Wirkungen, cit., pp. 15-19 e p. 24 ss.; KÜHL, Die Beendigung des vorsätzlichen Begehungsdelikts, Berlin, 1974; pp. 17-20; BITZILEKIS, Über die strafrechtliche Bedeutung der Abgrenzung von Vollendung und Beendigung, in Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft (ZStW), 1987, pp. 723-725. Nella manualistica, v. per tutti MAURACH-GÖSSEL-ZIPF, Strafrecht, Allgemeiner Teil, Teilbd. 2, cit., p. 8; ESER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, cit., pp. 335-336; RUDOLPHI, in RUDOLPHI-HORN-SAMSON, Systematischer Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 6-7 vor § 22; JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, Allgemeiner Teil, cit., p. 517. Di recente, sulla Beendigungslehre, v. anche BRUNELLI, Il reato portato a conseguenze ulteriori. Problemi di qualificazione giuridica, Torino, 2000. (59) MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 427. (60) V, per tutti, MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 427; PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, cit., p. 496; VOGLER, in JESCHECK-RUß-WILLMS, Strafgesetzbuch, Leipziger Kommentar, cit., 20-22 vor § 22. (61) V. per tutti JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, Allgemeiner Teil, cit., p. 517. (62) In questo senso, senza peraltro aderire alla Beendigungslehre der Straftat, v. VOGLER, in JESCHECK-RUß-WILLMS, Strafgesetzbuch, Leipziger Kommentar, cit., 23 vor § 22; RUDOLPHI, in RUDOLPHI-HORN-SAMSON, Systematischer Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 7 vor § 22. (63) MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 427; PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, cit., p. 496. (64) V. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 427; PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, cit., p. 496. (65) Questa tesi è sostenuta esclusivamente da una parte della dottrina tedesca: v., per tutti, JESCHECK, Wesen und rechtliche Bedeutung der Beendigung der Straftat, cit., p. 685. (66) V. JESCHECK, Wesen und rechtliche Bedeutung der Beendigung der Straftat, cit., pp. 685-686.
— 152 — mazione si verificherebbe allorché l’autore ha effettivamente conseguito il vantaggio patrimoniale ambito; parimenti, secondo quanto previsto dal § 242 StGB, il furto sarebbe perfezionato con la sottrazione della cosa mobile ma si consumerebbe con l’effettivo impossessamento della stessa. 2) In secondo luogo, vi rientrano i reati di pericolo (Gefährdungsdelikten). Come è noto, mentre nei reati di danno (Verletzungsdelikten) per la realizzazione del fatto tipico è necessaria l’effettiva lesione del bene giuridico, nei reati di pericolo è sufficiente il pericolo di un danno come risultato della condotta. Il legislatore, pertanto, avrebbe ritenuto che per la perfezione del reato sia sufficiente l’obiettiva « tendenza » verso la realizzazione del pieno illecito, ma anche in queste ipotesi la consumazione si avrebbe con la produzione di un danno all’oggetto della condotta (67): così, ad esempio, il delitto di grave esposizione a pericolo dell’ambiente (§ 330 StGB) si perfezionerebbe con la violazione di una norma giuridica, di un divieto o di un provvedimento diretti alla tutela dell’ambiente, ma si consumerebbe materialmente con l’effettiva produzione di effetti dannosi per l’ambiente. 3) Infine, nel gruppo dei casi caratterizzati dalla anticipazione del momento della perfezione si fanno rientrare anche i delitti di attentato (Unternehmensdelikten), nei quali il legislatore incrimina il mero inizio della attività esecutiva (68): così, ad esempio, nell’alto tradimento contro la Federazione (§ 81 StGB) la consumazione formale si avrebbe con il compimento del primo atto esecutivo, ma la consumazione materiale si verificherebbe con il raggiungimento del proposito. II) Il secondo gruppo di reati nei quali sarebbe possibile riscontrare un differimento della consumazione è costituito dai delitti con una struttura del fatto tipico c.d. iterativa (Delikten mit iterativer Deliktsstruktur), nei quali, cioè, il fatto tipico è ulteriormente realizzato attraverso azioni od omissioni ripetute, sorrette dallo stesso atteggiamento psicologico, le quali danno luogo ad un unico reato (69). Anche a questo gruppo appartengono diverse tipologie di reato. 1) In primo luogo, vi rientra la categoria del reato permanente, nel quale con la realizzazione del reato viene prodotto uno stato antigiuridico che l’autore mantiene nel tempo, di modo che attraverso questa durata il fatto tipico è realizzato ininterrottamente (70): esso si perfezionerebbe con la realizzazione dello stato antigiuridico e si consumerebbe con la cessazione dello stesso. 2) In secondo luogo, anche nei reati a condotta plurima (tatbestandliche Handlungseinheit), nei quali la descrizione della condotta tipica racchiude una pluralità di atti, sarebbe possibile una scissione tra perfezione e consumazione (71). La perfezione si avrebbe con il compimento del primo atto, mentre la consumazione con la realizzazione dell’ultimo: così, ad esempio, nei rapporti pericolosi per la pace (§100 StGB) la Vollendung si avrebbe nel (67) V. JESCHECK, Wesen und rechtliche Bedeutung der Beendigung der Straftat, cit., p. 686. Per ulteriori riferimenti, v. VOGLER, in JESCHECK-RUß-WILLMS, Strafgesetzbuch, Leipziger Kommentar, cit., 25 vor § 22. (68) V. JESCHECK, Wesen und rechtliche Bedeutung der Beendigung der Straftat, cit., p. 686. Per ulteriori riferimenti, v. VOGLER, in JESCHECK-RUß-WILLMS, Strafgesetzbuch, Leipziger Kommentar, cit., 26 vor § 22. (69) Tale tesi è sostenuta sia in Italia che in Germania: v. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 427; PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, cit., p. 501; JESCHECK, Wesen und rechtliche Bedeutung der Beendigung der Straftat, cit., p. 687; VOGLER, in JESCHECK-RUß-WILLMS, Strafgesetzbuch, Leipziger Kommentar, cit., 27 vor § 22. (70) V. JESCHECK, Wesen und rechtliche Bedeutung der Beendigung der Straftat, cit., p. 687; VOGLER, in JESCHECK-RUß-WILLMS, Strafgesetzbuch, Leipziger Kommentar, cit., 27 vor § 22; MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 429; PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, cit., pp. 501-502. (71) V. JESCHECK, Wesen und rechtliche Bedeutung der Beendigung der Straftat, cit., pp. 687-688; VOGLER, in JESCHECK-RUß-WILLMS, Strafgesetzbuch, Leipziger Kommentar, cit., 28 vor § 22.
— 153 — momento in cui l’agente stabilisce rapporti con un Governo nell’intento di provocare una guerra contro la Repubblica federale tedesca, mentre la Beendigung si identificherebbe con la realizzazione dell’ultimo rapporto. In questi casi rientra anche il reato abituale, il quale sarebbe perfetto fin da quando la pluralità di azioni acquista rilevanza giuridica, cioè fin dal momento in cui nella fattispecie concreta è presente quel numero minimo di condotte richiesto dalla fattispecie astratta, e si consumerebbe solo allorché cessa la condotta reiterativa o viene meno il nesso di abitualità (72). 3) Infine, nella categoria rientrano i delitti con una struttura della condotta tipica iterativa (Delikten mit iterativer Handlungsstruktur), nei quali l’ampliamento della portata del delitto al di là della perfezione dipende dal fatto che la fattispecie viene ripetuta attraverso più atti di per sé già tipici che formano un’unica condotta (natürliche Handlungseinheit) (73). In tale gruppo si collocano tutte le ipotesi in cui l’iterazione della condotta tipica non è richiesta dalla fattispecie legale — casi, che come abbiamo visto, rientrano nel gruppo precedente (tatbestandliche Handlungseinheit) — per cui la scissione tra perfezione e consumazione dipende dalle modalità di svolgimento della condotta in concreto. Anche in queste ipotesi la perfezione si ha con la realizzazione del primo fatto tipico, mentre la consumazione si verifica con la commissione dell’ultimo: così, ad esempio, un reato di lesioni personali mediante più coltellate inferte contestualmente e contro la stessa persona si perfezionerebbe già con la prima coltellata andata a segno, ma si consumerebbe solo con l’ultima. III) Nel terzo gruppo rientrano i casi in cui il risultato finale o complessivo del fatto è raggiunto attraverso condotte che non corrispondono più alla descrizione in senso formale del fatto tipico (74): così, ad esempio, nel furto la consumazione si avrebbe con l’occultamento o la messa al sicuro della refurtiva; parimenti, il reato di contrabbando, che si perfeziona già con il passaggio della frontiera, si consumerebbe con il trasporto della merce al luogo di destinazione, come pure nel caso di fuga dopo un sinistro la perfezione si avrebbe con l’allontanamento dal luogo del fatto, ma la consumazione solo con il completo sottrarsi all’inseguimento; infine, nel caso di reato di incendio, la perfezione si avrebbe con l’appiccare il fuoco, ma la consumazione materiale si verificherebbe soltanto con la completa distruzione dell’oggetto dell’azione. Queste azioni — si afferma — assumono rilevanza giuridica, nella misura in cui servono al mantenimento della fase successiva alla perfezione del reato, anche se esse, come tali, non hanno più alcun connotato di tipicità e tale rilevanza è ammessa per tutto il tempo in cui dura l’aggressione al bene giuridico, oppure l’offesa tipica si aggrava (75). IV) L’ultimo gruppo di reati nei quali sarebbe possibile riscontrare una scissione tra perfezione e consumazione è costituito dalle ipotesi in cui l’offesa tipica viene « tipicamente » aggravata attraverso la realizzazione di un dato della realtà normativamente previsto (76). Anche a questo gruppo appartengono diverse tipologie di reato. 1) In primo luogo, vi rientrano i delitti aggravati dall’evento, nei quali la perfezione si (72) V. ADORNATO, Il momento consumativo del reato, cit., pp. 91-94; MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., pp. 508; PETRONE, voce Reato abituale, cit., p. 202-203. (73) V. JESCHECK, Wesen und rechtliche Bedeutung der Beendigung der Straftat, cit., p. 689; VOGLER, in JESCHECK-RUß-WILLMS, Strafgesetzbuch, Leipziger Kommentar, cit., 29 vor § 22; MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 427; PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, cit., p. 496. (74) Anche questa tesi è sostenuta soltanto da una parte della dottrina tedesca: cfr. ESER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, cit., p. 336. (75) ESER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, cit., p. 337. (76) Questa tesi è sostenuta da una parte della dottrina italiana: v., per tutti, PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, cit., p. 497.
— 154 — avrebbe nel momento in cui è stato posto in essere l’evento meno grave, mentre il momento consumativo coinciderebbe con quello in cui si verifica l’evento « maggiore » (77). 2) Anche le condizioni obiettive di punibilità c.d. intrinseche, che cioè arricchiscono l’offesa tipica, influirebbero sul momento consumativo del reato, poiché tale momento si verificherebbe quando si realizza la condizione (78). 3) Infine, nel caso in cui venga posta in essere una qualunque circostanza post delictum che provochi un approfondimento dell’offesa tipica del reato, tale reato si perfezionerebbe con l’integrazione della fattispecie incriminatrice e si consumerebbe con il verificarsi della circostanza: così, ad esempio, nel caso di chi, dopo aver ferito una persona, ostacola o cerca di ostacolare i soccorritori ovvero, ai sensi dell’art. 61, n. 8, c.p., aggrava o tenta di aggravare le conseguenze del delitto commesso (79). Per quanto riguarda lo scopo della distinzione tra perfezione e consumazione e le conseguenze che sul piano giuridico ad essa vengono ricollegate, mentre vi è accordo nel ritenere che il momento della perfezione del reato mantiene più che altro il valore di punto di confine con il tentativo o comunque, posto che di perfezione del reato potrebbe parlarsi anche in relazione al delitto tentato (80), un significato di salvaguardia del principio di legalità (81), con riferimento alla consumazione, nonostante l’identica definizione che ne viene data, si riscontra una diversità di opinioni. Secondo alcuni autori il momento consumativo avrebbe rilevanza soltanto al fine di stabilire da quando cominci a decorrere il termine della prescrizione ed al fine di individuare il giudice territorialmente competente (82). Secondo altri, invece, oltre ad indicare il tempo ed il luogo della commissione del reato, la consumazione segnerebbe il momento-limite alla configurabilità del concorso di persone nel reato (83), del concorso formale di reati (84), della legittima difesa (85) etc. In sostanza, mentre per i primi la distinzione avrebbe lo scopo di individuare un semplice punto conclusivo dell’iter criminis del reato al quale si fa riferimento per l’applicazione di istituti che incidono sull’ulteriore vicenda sostanziale e processuale del reato, per i secondi la distinzione tra perfezione e consumazione condurrebbe alla individuazione di una fase, di uno stadio nuovo dotato di specifica rilevanza giuridica. 5.1. Passando ora ad una analisi critica della nozione di consumazione sopra delineata, preliminarmente si deve notare che, se essa, come noi crediamo in conformità alla maggioranza della dottrina, indica il momento in cui il reato viene a cessare, e cioè il punto (77) V. ADORNATO, Il momento consumativo del reato, cit., pp. 132-133; PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, cit., p. 497. (78) V. NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Milano, 1955, p. 157; MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 815; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, cit., pp. 448-449; PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, cit., p. 493. (79) V. SANTORO, Le circostanze del reato, Torino, 1952, p. 214; MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. I, cit., p. 657; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, cit., p. 629; PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, cit., p. 497. (80) V. ADORNATO, Il momento consumativo del reato, cit., pp. 3-5; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, cit., p. 409. (81) V. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., pp. 427-428; PROSDOCIMI, Profili penali del postfatto, cit., pp. 161-162. (82) V. ADORNATO, Il momento consumativo del reato, cit., p. 8; PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, cit., p. 499. (83) V. JESCHECK, Wesen und rechtliche Bedeutung der Beendigung der Straftat, cit., pp. 696-698; KÜHL, Die Beendigung des vorsätzlichen Begehungsdelikts, cit., p. 80 ss.; HAU, Die Beendigung der Straftat und ihre rechtlichen Wirkungen, cit., p. 114 ss. (84) V. JESCHECK, Wesen und rechtliche Bedeutung der Beendigung der Straftat, cit., pp. 698-699; KÜHL, Die Beendigung des vorsätzlichen Begehungsdelikts, cit., p. 176 ss.; HAU, Die Beendigung der Straftat und ihre rechtlichen Wirkungen, cit., p. 137 ss. (85) V. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 428.
— 155 — conclusivo di una fase dotata di specifico rilievo giuridico, i reati che appartengono all’ultimo gruppo non costituiscono ipotesi in cui è riscontrabile una scissione tra perfezione e consumazione. In tali ipotesi, infatti, durante la fase che va dalla perfezione del reato all’aggravamento dell’offesa, non può mai configurarsi, ad esempio, un concorso di persone nel reato oppure una legittima difesa: nei reati aggravati dall’evento quest’ultimo è la conseguenza, sotto il profilo meramente causale, della condotta criminosa che ha realizzato l’evento tipico iniziale, così come le condizioni obiettive di punibilità intrinseche derivano causalmente dalla condotta tipica che si esaurisce con la perfezione del reato. Un discorso a parte meriterebbe l’ipotesi della circostanza di chi aggrava le conseguenze del reato (86). Tutt’al più, comunque, al momento in cui si verifica la condizione estrinseca o l’evento aggravante possono essere ricollegati gli effetti sulla decorrenza del termine della prescrizione o sulla competenza territoriale del giudice. A nostro avviso, pertanto, il momento in cui l’offesa tipica (87) si aggrava « tipicamente », a causa, cioè, della realizzazione di un dato della realtà normativamente previsto, non costituisce il momento della consumazione, ma, considerati gli effetti che ad esso sono ricollegabili (decorrenza del termine della prescrizione, determinazione del giudice competente), può essere ricompreso nella nozione di perfezione: mentre nei casi di reato in cui l’offesa tipica assume consistenza in un solo istante la perfezione si ha allorché si realizzano tutti gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice, nelle ipotesi di reato condizionato o aggravato dall’evento per aversi la perfezione è necessario non solo l’integrazione della fattispecie incriminatrice, ma anche il verificarsi di tutti gli elementi che attengono all’ambito offensivo, anche se essi non sono elementi costitutivi del reato (condizione intrinseca ed evento maggiore). Questa precisazione, apparentemente priva di conseguenze, ci permette, in verità, di definire con maggiore esattezza la nozione di consumazione e la sua differenza con quella di perfezione: mentre quest’ultima — lo ripetiamo — indica il momento in cui il reato viene ad esistenza, la consumazione rappresenta il momento conclusivo di una fase dotata di specifica rilevanza giuridica. Da ciò consegue che la consumazione non può essere identificata con l’istante in cui il reato già perfetto ha raggiunto la sua massima gravità in concreto, in quanto si verrebbe a confondere il profilo della corrispondenza di un fatto (anche se successivo alla perfezione) al modello legale, con la gravità dell’offesa che si manifesta in concreto (88). Né sembra corretto affermare che nei reati istantanei perfezione e consumazione coincidono: in coerenza con quanto affermato fino ad ora, si deve ritenere che in questa categoria di reati la consumazione non è neppure configurabile, in quanto non esiste una fase successiva alla perfezione dotata di specifica rilevanza giuridica. Vero quanto affermato, a questo punto si deve verificare il fondamento, la giustificazione della rilevanza giuridica della fase ricompresa tra la perfezione e la consumazione nei casi che appartengono ai primi tre gruppi di reati: l’esistenza di un’effettiva prosecuzione del fatto storico dopo la perfezione del reato, infatti, non deve indurre a ritenere che sia anche già provata la sua rilevanza giuridica (89). In generale, si può affermare che un differimento della consumazione del reato oltre il momento della perfezione non pone problemi se ciò che accade durante la fase consumativa soddisfa le esigenze del principio di legalità (nullum crimen sine lege) (90), e, più precisa(86) Sul punto, v. PROSDOCIMI, Profili penali del postfatto, cit., pp. 182-184. (87) Sul concetto di offesa da noi adottato, non come elemento costitutivo del reato, ma come contenuto di disvalore espresso dal fatto tipico v. infra § 6. (88) In questo senso, anche se critico nei confronti della distinzione tra perfezione e consumazione, v. RAMPIONI, Nuovi virtuosismi interpretativi in tema di condotta costitutiva e momento consumativo del delitto di corruzione: l’art. 319 c.p. quale disposizione a più norme!, in Cass. pen., 1998, p. 2006. (89) Così KÜHL, Strafrecht, Allgemeiner Teil, cit., Munchen, 1994, p. 339. (90) V. tra i molti ISENBECK, Beendigung der Tat bei Raub und Diebstahl, in Neue Ju-
— 156 — mente, se tale accadimento non vìola il principio di tipicità, non solo nel senso che esso deve essere previsto dalla fattispecie incriminatrice astratta, ma anche, e soprattutto, nel senso che esso deve essere conforme alla stessa (91). Si pensi al classico esempio del furto commesso con una pluralità di atti tipici tendenzialmente contestuali: in tale ipotesi, ogni singolo accadimento risulta conforme alla fattispecie astratta. Si tratta, pertanto, di ricondurre, collegare normativamente tale fase al fatto tipico che si verifica di volta in volta (92). Chi ammette una fase consumativa giuridicamente rilevante in tutti e tre i gruppi di reati individua questo collegamento con il fatto tipico attraverso un’interpretazione teleologica della fattispecie incriminatrice, per cui essa assumerebbe rilevanza giuridica in quanto rientrerebbe nell’ambito delle finalità di protezione del fatto tipico, ovvero essa coinciderebbe con il disvalore materiale del fatto (93). Il legislatore — si afferma — sotto la minaccia della pena vuole vietare il fatto nella sua globalità. La circostanza che a un certo punto, secondo il testo della legge, si verifichi la perfezione del reato e con ciò la piena punibilità del fatto, non significa che la successiva fase del delitto debba rimanere impunita: quando il legislatore descrive soltanto una porzione dell’intero fatto, ponendola in risalto come sufficiente per la perfezione del reato, non comporta che la punizione sia limitata a tale porzione (94). La fase consumativa, in sostanza, non deve essere formalmente descritta nel fatto tipico, ma essa è materialmente compresa nel « senso del divieto insito in esso » e, quindi, inclusa nel fatto tipico (95). A questa interpretazione, tuttavia, è da opporre il principio di legalità e, in particolare, il sottoprincipio del divieto di analogia (96). Essa, infatti, non costituisce una interpretazione teleologico-estensiva della norma penale, ma una vera e propria operazione analogica. Come è noto, il divieto di analogia pone dei limiti alla interpretazione in materia penale: quest’ultima, infatti, deve chiarire o tutt’al più estendere il significato delle espressioni utilizzate dal legislatore nella descrizione del fatto tipico, ma non può mai uscire dai confini posti dal testo della legge (97). Il criterio utilizzato per distinguere l’interpretazione estensiva dall’analogia è quello della attribuzione ai termini che compongono la norma del più ampio siristische Wochenschrift (NJW), 1965, pp. 2326-2327; HRUSCHKA, Die Dogmatik der Dauerstraftaten und das Problem der Tatbeendigung, cit., p. 205; GÖSSEL, Über die Vollendung des Diebstahl, in Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft (ZStW), 1973, p. 646; JESCHECK, Wesen und rechtliche Bedeutung der Beendigung der Straftat, cit., p. 690; KÜHL, Die Beendigung des vorsätzlichen Begehungsdelikts, cit., pp. 37-43; ID., Strafrecht, Allgemeiner Teil, cit., p. 440; KÜPER, Grenzfragen der Unfallflucht, in Juristenzeitung (JZ), 1981, p. 252; BITZILEKIS, Über die strafrechtliche Bedeutung der Abgrenzung von Vollendung und Beendigung, cit., p. 733. (91) In senso analogo, v. KÜHL, Strafrecht, Allgemeiner Teil, cit., p. 440. (92) V. KÜPER, Grenzfragen der Unfallflucht, cit., pp. 251-252; KÜHL, Strafrecht, Allgemeiner Teil, cit., p. 440. (93) Sul punto, v. ampiamente JESCHECK, Wesen und rechtliche Bedeutung der Beendigung der Straftat, cit., pp. 690-691; HAU, Die Beendigung der Straftat und ihre rechtlichen Wirkungen, cit. p. 36 ss.; ESER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, cit., p. 334. (94) JESCHECK, Wesen und rechtliche Bedeutung der Beendigung der Straftat, cit., pp. 669-690. (95) JESCHECK, Wesen und rechtliche Bedeutung der Beendigung der Straftat, cit., p. 691. (96) V., per tutti, KÜHL, Die Beendigung des vorsätzlichen Begehungsdelikts, cit., pp. 37-38 e p. 43; ID., Strafrecht, Allgemeiner Teil, cit., p. 441; BITZILEKIS, Über die strafrechtliche Bedeutung der Abgrenzung von Vollendung und Beendigung, cit., p. 733. (97) Sul punto, cfr. KÜHL, Die Beendigung des vorsätzlichen Begehungsdelikts, cit., p. 37; BITZILEKIS, Über die strafrechtliche Bedeutung der Abgrenzung von Vollendung und Beendigung, cit., p. 733; VOGLER, in JESCHECK-RUß-WILLMS, Strafgesetzbuch, Leipziger Kommentar, cit., 34 vor § 22. In generale, sulla distinzione tra analogia e interpretazione estensiva, v. per tutti MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 108.
— 157 — gnificato tra quelli linguisticamente possibili, nel senso che è ammissibile solo quella interpretazione che resta legata al significato delle parole legislativamente espresse, anche se non si tratta di un significato strettamente letterale, ma ispirato a criteri di diversa natura (quali, ad esempio, lo scopo o il bene giuridico tutelato), ragion per cui si deve ritenere analogia tutto ciò che esce da tale significato (98). L’interpretazione in esame, invece, comporta l’introduzione nel fatto tipico di elementi addizionali, i quali non trovano nel testo della legge una sufficiente e determinata espressione: in questo modo non si interpretano gli elementi costitutivi del fatto tipico, ma si sostituiscono con altri (99). Certamente anche i requisiti del fatto tipico legale debbono essere interpretati e l’interpretazione può essere orientata sul disvalore materiale. Quest’ultimo, però, non può essere identificato con la sola offesa del bene giuridico, poiché altrimenti si finisce per trascurare la funzione limitativa, di garanzia del disvalore della condotta e, quindi, del fatto tipico (100). Concludendo, se si ammettesse un’interpretazione teleologica fondata soltanto sul disvalore materiale, si avrebbe un ampliamento inammissibile dell’ambito di applicazione del fatto tipico, al di là del tipo stesso. Vero quanto affermato, a questo punto si possono trarre alcune importanti conclusioni. In primo luogo, risulta evidente che, anche durante la fase successiva alla perfezione del reato, il criterio valido per distinguere ciò che è penalmente rilevante da ciò che non lo è, resta quello della tipicità, per cui una fase consumativa giuridicamente rilevante, dalla quale, cioè, derivano le conseguenze illustrate, può essere ammessa solo se essa soggiace ulteriormente al fatto tipico (interpretato anche estensivamente, ma mai analogicamente) (101), ovvero se risulta pienamente conforme alla descrizione degli elementi costitutivi contenuta nella fattispecie incriminatrice. In particolare, ciò può avvenire solo nelle ipotesi in cui, in maniera discontinua o senza soluzioni di continuità, si ha una reiterazione o una protrazione ininterrotta del fatto tipico con tutti i suoi elementi costitutivi, dando luogo ad un unico reato (c.d. reati con struttura del fatto tipico iterativa), vale a dire soltanto nelle ipotesi che appartengono al secondo gruppo di reati: reati permanenti, reati a condotta plurima e reati a condotta iterativa (102). Da ciò si ricava, inoltre, che l’alternativa al reato istantaneo, ammesso che si debba ancora chiamare così, non è più soltanto il reato permanente, ma tutta una serie di ipotesi che possono esser fatte rientrare in un genus denominato reato di durata (103). In secondo luogo, con riferimento alla struttura della permanenza, si può affermare che essa, per essere riconducibile all’unico precetto contenuto nella fattispecie incriminatrice e, (98) V. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 108; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, cit., pp. 93-94. (99) Così BITZILEKIS, Über die strafrechtliche Bedeutung der Abgrenzung von Vollendung und Beendigung, cit., p. 733. (100) KÜHL, Strafrecht, Allgemeiner Teil, cit., p. 441. (101) V. MAURACH-GÖSSEL-ZIPF, Strafrecht, Allgemeiner Teil, Teilbd. 2, cit., p. 10; VOGLER, in JESCHECK-RUß-WILLMS, Strafgesetzbuch, Leipziger Kommentar, cit., 35 vor § 22; RUDOLPHI, in RUDOLPHI-HORN-SAMSON, Systematischer Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 9 vor § 22. (102) V. MAURACH-GÖSSEL-ZIPF, Strafrecht, Allgemeiner Teil, Teilbd. 2, cit., pp. 1011; VOGLER, in JESCHECK-RUß-WILLMS, Strafgesetzbuch, Leipziger Kommentar, cit., 35 vor § 22; RUDOLPHI, in RUDOLPHI-HORN-SAMSON, Systematischer Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 9 vor § 22. In questo senso v. anche BITZILEKIS, Über die strafrechtliche Bedeutung der Abgrenzung von Vollendung und Beendigung, cit., p. 749, il quale, però, sostiene che « la consumazione (Beendigung) del fatto penale è una figura giuridica fallita ». Analogamente, v. KÜHL, Strafrecht, Allgemeiner Teil, cit., p. 441. (103) Sulla categoria del reato di durata, v., per tutti, PETRONE, voce Reato abituale, in Noviss. dig. it., vol. XIV, Torino, 1967, pp. 945-946; ID., voce Reato abituale, in Dig. disc. pen., cit., pp. 194-195. Per ulteriori approfondimenti, v. infra § 8.
— 158 — quindi, per assumere rilevanza giuridica, non può che consistere nella ininterrotta protrazione nel tempo di tutti gli elementi costitutivi del fatto tipico (104). Come accennato, infatti, la permanenza indica la durata della violazione della norma penale, una fase, cioè, durante la quale un fatto, conforme al giudizio di disvalore espresso dall’unico precetto contenuto nella fattispecie incriminatrice, si protrae nel tempo. Ma in materia penale, tale giudizio è determinato proprio e soltanto da tutti gli elementi costitutivi del fatto tipico. Non sembra pertanto da condividere la tesi di chi, pur affermando che la permanenza indica la durata della violazione dell’unico precetto contenuto nella fattispecie incriminatrice, ritiene che essa consista nella protrazione ininterrotta della condotta (105). All’interno di questa tesi si deve distinguere tra chi afferma che si debba trattare della condotta tipica (azione od omissione) (106), e chi, diversamente, fa riferimento alla sola azione che contrasta con l’unico imperativo espresso dalla norma (107). Contro quest’ultima ricostruzione, è facile constatare che la permanenza del reato può essere assicurata tanto da un’azione quanto da un comportamento omissivo, a seconda che la relativa fattispecie astratta sia tale da poter essere realizzata attraverso una delle due forme della condotta, ovvero a seconda che la condotta tipica possa essere commissiva od omissiva. Contro la prima, che pure ha il merito di essere diretta a conformarsi al principio di tipicità, per cui è giuridicamente rilevante soltanto ciò che è conforme alla fattispecie tipica, si deve notare che essa finisce per violarlo, in quanto conforme al fatto tipico non deve essere soltanto la condotta tipica, ma l’intero accadimento. Inoltre non si può negare che esistono fattispecie permanenti in cui a protrarsi nel tempo non è solo la condotta tipica, ma anche l’evento naturalistico cagionato, come nel caso del sequestro di persona. Infine, il riconoscimento dell’esistenza di una fase consumativa al di fuori della categoria del reato permanente, se, da un lato, ci permette di individuare con maggiore precisione le differenze strutturali tra reato istantaneo e reato permanente, dall’altro, rende ancora più difficile l’individuazione della struttura di quest’ultimo reato, in quanto ne esce rafforzata l’analogia con quelle ipotesi in cui si ha una reiterazione della condotta successiva al momento della perfezione (reato abituale e reato unico realizzato con pluralità di atti tipici) (108). 6. A questo punto, posto che la permanenza indica l’eventuale durata della violazione della norma e che consiste nella ininterrotta protrazione nel tempo di tutti gli elementi costitutivi del fatto tipico, prima di analizzare nei dettagli la sua struttura, occorre precisare il criterio di individuazione del reato permanente. Originariamente, la differenza tra il reato permanente e quello istantaneo è stata colta nella protrazione, nel primo reato, della violazione del diritto (offesa al bene giuridico) an(104) V. DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato permanente, cit., p. 576 e p. 582. In questo senso, v. anche COPPI, voce Reato permanente, cit., p. 318. Alla permanenza come protrazione di tutti gli elementi costitutivi del reato aveva già accennato MARSICH, Sulla nozione di reato permanente e sul carattere istantaneo della bigamia, in Scuola pos., 1926, II, p. 296 ss. (105) V. PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., p. 411 e p. 431; PROSDOCIMI, Profili penali del postfatto, cit., p. 175. (106) V. PROSDOCIMI, Profili penali del postfatto, cit., p. 175, secondo il quale « ciò che contraddistingue il reato permanente è soltanto questo: che nel reato permanente la condotta tipica prosegue senza soluzioni di continuità anche dopo che si sono realizzati gli estremi necessari per il configurarsi del fatto tipico ». Nello stesso senso, con qualche differenza, v. anche PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., p. 411 e p. 431. (107) V. PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., p. 411 e p. 431. (108) V. PROSDOCIMI, Profili penali del postfatto, cit., pp. 179-185.
— 159 — che dopo il momento della consumazione (perfezione), ovvero nella protrazione degli effetti del reato stesso (109). Successivamente, constatata l’insufficienza di questo criterio (protrazione degli effetti del reato), il quale portava a confondere il reato permanente con il reato ad effetti permanenti (110), è stato ritenuto che fossero reati permanenti soltanto quelli che offendevano determinati diritti (beni giuridici) dotati di particolare rilevanza, quali, ad esempio, la personalità umana, la pubblica morale, l’assetto giuridico e politico dello stato etc. (111), adottando così un criterio metagiuridico, di carattere sostanziale, decisamente relativo e, quindi, inaccettabile (112). Recentemente, la maggioranza della dottrina afferma che per stabilire la natura del reato, se permanente o meno, occorre riferirsi alla fattispecie astratta (113). Il rilievo è da condividere, ma deve essere precisato. Se, infatti, il richiamo alla fattispecie astratta viene compiuto al fine di ricavarne il secondo precetto che incriminerebbe la permanenza (114), ovvero quell’obbligo di rimozione o di non mantenimento che, come abbiamo visto, non esiste, tale affermazione non può essere condivisa. Per inciso, poi, si deve notare che secondo alcuni autori il riferimento alla fattispecie astratta sarebbe indispensabile per verificare se si è in presenza di un reato necessariamente permanente oppure eventualmente permanente (115). Nella prima categoria si farebbero rientrare le ipotesi in cui la realizzazione della fattispecie criminosa esige la protrazione nel tempo del reato. Nella seconda categoria, invece, verrebbero incluse quelle figure di reato che ammettono un’ulteriore prosecuzione dell’illecito. A nostro avviso, però, la categoria del reato c.d. necessariamente permanente, non può essere accolta. Se, infatti, con l’espressione « la fattispecie esige la protrazione nel tempo del reato », si intende che la norma incrimina anche la fase della permanenza, si ritorna a quanto detto sopra (§ 4.1.1.). Adottando questo significato, poi, la distinzione tra reati necessariamente permanenti ed eventualmente permanenti, come del resto è stato recentemente notato (116), non avrebbe alcun senso, essendo logicamente concepibile soltanto la prima figura. Se, al contrario, con tale espressione ci si riferisce al fatto che la fattispecie esige la pro(109) V. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, parte generale, vol. I, Firenze, 1907, § 515, il quale, inoltre, è stato uno dei primi autori italiani a distinguere la categoria del reato permanente da quella del reato continuato. (110) V. POLETTI, La nozione giuridica di reato permanente, cit., p. 191. (111) V. ESCOBEDO, Concetto e definizione del reato permanente, in Giust. pen., 1900, c. 1527; ID., Sulla nozione di reato permanente, specie in rapporto all’uso di atto falso, ivi, 1916, c. 1 ss.; ID., Ancora sulla distinzione fra reato istantaneo e reato permanente, ivi, 1917, c. 276 e c. 278; ID., Ancora sulla nozione del reato permanente, specie in rapporto al reato di bigamia, ivi, 1927, c. 819 e c. 824. (112) V. POLETTI, La nozione giuridica di reato permanente, cit., p. 191. (113) V. per tutti LEONE G., Del reato abituale, continuato e permanente, cit., pp. 387-388; RAGNO, I reati permanenti, cit., pp. 30-31; PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., p. 419 ss.; DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato permanente, cit., p. 565; PROSDOCIMI, Profili penali del postfatto, cit., p. 177; MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 429. (114) V., per tutti, LEONE G., Del reato abituale, continuato e permanente, cit., p. 388; MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 429. (115) Su tale distinzione, v. POLETTI, La nozione giuridica di reato permanente, cit., p. 197; GALLO M., Reato permanente ed omesso conferimento di grano all’ammasso, cit., p. 333; RAGNO, I reati permanenti, cit., pp. 311-335; PADOVANI, Diritto penale, cit., pp. 345346. (116) V. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 429; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, cit., p. 169; BERNASCONI, Il reato permanente, cit., pp. 669670.
— 160 — trazione per un tempo apprezzabile degli elementi costitutivi che la compongono, come abbiamo visto nelle pagine iniziali, il rilievo della durata, al quale qui ci si riferisce, non concerne ancora la permanenza che può assumere il reato, bensì la fase della sua esecuzione. In sostanza, la categoria del reato c.d. necessariamente permanente è da respingere (117), sia che dietro tale espressione si nasconda l’idea per cui la norma incriminerebbe anche la condotta di mantenimento, sia che con tale espressione si faccia riferimento ai reati che per perfezionarsi esigono un periodo di tempo giuridicamente apprezzabile. Ma anche la categoria del reato c.d. eventualmente permanente suscita alcune perplessità. Se in essa, infatti, si fanno rientrare le ipotesi in cui un reato di per sé istantaneo viene realizzato senza che vi sia un apprezzabile intervallo di tempo tra i vari atti tipici, dando luogo ad un unico reato, si finisce per confondere due situazioni analoghe, ma pur sempre diverse: mentre il reato permanente si caratterizza per una continuità, quanto meno tendenziale, della condotta, la figura del reato unico realizzato con pluralità di atti tipici presenta, al contrario, una condotta discontinua (118). Inoltre: mentre in quest’ultima ipotesi la condotta è unica e l’elemento tempo serve a ricondurre ad unità i singoli episodi di per sé tipici, nella prima la condotta è unica, ma l’elemento tempo non svolge alcun ruolo nella determinazione di tale unità. Il riferimento alla fattispecie astratta, pertanto, deve ritenersi indispensabile soltanto per verificare se il reato sia o meno suscettibile di permanenza, suscettibile, cioè, di protrarsi nel tempo senza soluzione di continuità: « se dopo l’integrazione di tutti gli elementi costitutivi del fatto, non è più possibile ipotizzare una prosecuzione nel tempo della violazione della norma, il reato deve considerarsi istantaneo; mentre si dovrà concludere per la natura permanente dell’illecito, se la fattispecie consente che il reato, una volta realizzato, possa continuare a svolgersi ininterrottamente per un tempo potenzialmente indeterminato » (119). D’altra parte, si deve rilevare che non esiste un’opinione comune sull’ulteriore criterio valido per stabilire quando la norma consente che il reato si protragga nel tempo. Per una parte della dottrina un reato sarebbe suscettibile di permanenza se la fattispecie incriminatrice astratta tutela un bene giuridico comprimibile, ovvero nel limite in cui l’oggetto di tutela presenta qualità intrinseche che escludono una sua distruttibilità in via definitiva per la realizzazione del reato (120). Tale tesi, che presuppone una concezione della struttura della permanenza incentrata sulla protrazione dell’offesa, suscita, però, delle perplessità. In primo luogo, ammessa e non concessa la validità del suo contenuto, ciò che non convince sarebbe la sua portata, nel senso che la natura indistruttibile del bene giuridico non può costituire un presupposto necessario ed indefettibile dell’intera categoria del reato permanente, in quanto esistono reati suscettibili di permanenza, quali, ad esempio, il reato di detenzione di sostanze stupefacenti, in cui il bene giuridico è del tutto estraneo alla formulazione della fattispecie incriminatrice (121): in tali ipotesi il bene giuridico non costituisce l’oggetto tutelato, ma la scopo perseguito dalla norma. Vero quanto affermato, pertanto, seguendo il criterio in esame si dovrebbe conclu(117)
Cfr. LEONE G., Del reato abituale, continuato e permanente, cit., p. 422; PECO-
RARO ALBANI, Del reato permanente, cit., pp. 421-422; GRISOLIA, Il reato permanente, cit.,
pp. 5-7, i quali, però, giungono ad affermare che tutti i reati non necessariamente istantanei sono suscettibili di permanenza. (118) Per ulteriori approfondimenti, v. infra § 8. (119) V. DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato permanente, cit., p. 565. (120) In questo senso, v., tra i molti, CAMPUS, Studio sul reato permanente, Sassari, 1902, pp. 25-26; LEONE G., Del reato abituale, continuato e permanente, cit., p. 387 ss.; RAGNO, I reati permanenti, cit., p. 67 ss.; RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., p. 9; COPPI, voce Reato permanente, cit., p. 323; BERNASCONI, Il reato permanente, cit., p. 670. (121) Sui reati di scopo come reati privi di offesa, v., per tutti, MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 226; PADOVANI, Diritto penale, cit., pp. 101-106.
— 161 — dere o che l’intera categoria dei reati di scopo non è suscettibile di permanenza o che, al contrario, lo è nella sua totalità. In secondo luogo, se noi accogliessimo il principio che un reato è permanente quando il bene giuridico tutelato è indistruttibile, dovremmo affermare che tutti i reati posti a tutela di un bene di tale natura sono suscettibili di permanenza, dato che, però, è contraddetto dalla realtà (122): così, ad esempio, il furto, nonostante che tuteli il patrimonio, e cioè un bene comprimibile, o quanto meno reintegrabile, non è un reato permanente, poiché, nonostante la protrazione dell’offesa, la condotta tipica non può durare nel tempo e quindi non è suscettibile di permanenza. In terzo luogo, questa tesi non può essere accolta perché ha come presupposto l’idea per cui l’offesa al bene giuridico rappresenta un elemento costitutivo del reato (123). A nostro avviso, invece, l’offesa al bene giuridico non è un elemento strutturale del reato, ma rappresenta il contenuto di disvalore del fatto tipico, contenuto che, appunto, si ricava dall’intera fattispecie incriminatrice, ovvero da tutti gli elementi costitutivi (124). Non solo, ma se anche si aderisse alla concezione dell’offesa come elemento costitutivo del reato, la tesi in esame risulterebbe inaccettabile, in quanto, se la permanenza consiste nella protrazione di tutti gli elementi costitutivi del reato, è necessario che tutti gli elementi, e non solo l’offesa del bene giuridico comprimibile, siano suscettibili di durare nel tempo. Per un’altra parte della dottrina, invece, un reato sarebbe suscettibile di permanenza quando la condotta tipica descritta dalla fattispecie incriminatrice può protrarsi nel tempo (125). Anche questa tesi, che presuppone una concezione della struttura della permanenza fondata sulla protrazione della condotta, pur avendo il merito di possedere una portata generale (la condotta è un elemento costitutivo necessario ed indefettibile del reato), non può essere accolta. Poiché la permanenza, come abbiamo appena detto, consiste nella protrazione di tutti gli elementi costitutivi del reato, si deve ritenere che un reato sia suscettibile di permanenza quando tali elementi, nessuno escluso, possono protrarsi nel tempo, ovvero quando, dopo la perfezione del reato, il verificarsi di uno degli elementi contenuti nella fattispecie astratta non rende impossibile l’ulteriore protrazione dell’illecito (126): così, ad esempio, nel furto la condotta di impossessamento può, a ben vedere, durare oltre il momento della perfezione, ma è la particolare modalità della condotta (l’impossessamento deve avvenire mediante sottrazione) che rende impossibile la protrazione dell’intero fatto tipico. Dovendosi peraltro notare che quando si passa alla individuazione concreta delle fattispecie su(122) V. POLETTI, La nozione giuridica di reato permanente, cit., p. 192; DALL’ORA, Condotta omissiva e condotta permanente nella teoria generale del reato, cit., pp. 157-162; PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., p. 394. (123) A questa concezione dell’offesa aderiscono LEONE G., Del reato abituale, continuato e permanente, cit., pp. 382-385; MANTOVANI, Diritto penale parte generale, cit., p. 206 e p. 326; in modo implicito RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., p. 9. (124) V. DALL’ORA, Condotta omissiva e condotta permanente nella teoria generale del reato, cit., p. 163; PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., pp. 402-406; DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato permanente, cit., p. 564. In generale, sul punto, v. ampiamente ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, cit., p. 405 ss. e pp. 480-481; PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 175 e p. 225. (125) V. PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., p. 424; PROSDOCIMI, Profili penali del postfatto, cit., p. 175, secondo il quale l’impossibilità di una permanenza dipenderebbe sempre dall’impossibilità di protrarsi della condotta tipica, e ciò anche per quei reati che offendono un bene la distruzione del quale è necessaria perché il reato si configuri. (126) V. GALLO M., Reato permanente ed omesso conferimento di grano all’ammasso, cit., p. 333; CARACCIOLI, Condotta permanente e permanenza di effetti nella fattispecie criminosa, cit. pp. 221-222; SINISCALCO, Tempus commissi delicti, reato permanente e successione di leggi penali, cit., pp. 1102-1103.
— 162 — scettibili di permanenza, la condotta costituisce l’elemento su cui si concentra la maggiore attenzione (127), anche se poi altri elementi possono offrire importanti spunti interpretativi (es. la previsione di una particolare disciplina della prescrizione). Inoltre, si deve osservare che per affermare la natura permanente di un reato non è sufficiente rilevare la sua idoneità a protrarsi nel tempo, essendo soprattutto necessario accertare anche la sua, quanto meno tendenziale, capacità a protrarsi ininterrottamente nel tempo. E forse è questo il vero ed ultimo dato che contraddistingue il reato permanente da tutte la altre categorie, dato che si ricava essenzialmente dal tipo di condotta descritto nella norma (128). Se per stabilire la suscettibilità di un reato a protrarsi ininterrottamente nel tempo, è necessario rifarsi alla fattispecie astratta, al contrario, dato il carattere eventuale della permanenza, per stabilire se e quanto un reato, in astratto suscettibile di permanenza, si sia concretamente protratto senza soluzioni di continuità nel tempo, è necessario riferirsi al fatto storico (129), e più precisamente è necessario accertare la continua corrispondenza del fatto storico alla fattispecie legale. Tale analisi, pertanto, da un lato, ci consentirà di verificare se un reato suscettibile di permanenza sia, in concreto, permanente. In questo senso, tutti i reati permanenti sono eventualmente permanenti, se con tale espressione si vuole indicare il fatto che la permanenza è un carattere eventuale del reato già astrattamente suscettibile di permanenza, ovvero se si vuole ribadire che un reato suscettibile di permanenza può esaurirsi anche nel momento della perfezione. Dall’altro, ci permetterà di stabilire il momento in cui la permanenza è venuta a cessare, momento che coinciderà con l’istante in cui uno qualsiasi degli elementi costitutivi del reato è venuto a mancare (130). Con riferimento alla durata del reato suscettibile di permanenza, pertanto, i reati possono essere distinti nel modo seguente: a) reati necessariamente istantanei, che si hanno quando la fattispecie incriminatrice astratta esclude l’eventualità della permanenza perché anche uno soltanto degli elementi costitutivi del reato non è suscettibile di protrarsi nel tempo (es. omicidio; furto). b) reati suscettibili di permanenza, i quali possono essere istantanei, quando, nonostante che la fattispecie astratta non escluda l’eventualità della permanenza, non si ha una concreta protrazione del fatto tipico successiva alla perfezione del reato; oppure permanenti, quando non solo la fattispecie astratta ammette l’eventualità della permanenza, ma l’agente protrae un fatto conforme al modello legale oltre il momento della perfezione. Concludendo, per la sussistenza del reato permanente sono necessarie le seguenti componenti: preliminarmente, è necessario che tutti gli elementi costitutivi del fatto tipico siano, sul piano astratto, suscettibili di protrarsi nel tempo; secondariamente, come abbiamo visto nelle prime pagine, è indispensabile che il reato descritto nella fattispecie incriminatrice sia stato integrato sul piano concreto mediante la realizzazione di tutti gli elementi costitutivi del reato; infine, sempre su quest’ultimo piano, è necessario che l’agente abbia protratto il fatto tipico oltre il momento della perfezione. (127) Cfr. Corte costituzionale, sentenza 5 marzo 1998, n. 46, in Cass. pen., 1998, p. 1885. Cfr. anche Corte costituzionale, sentenza 26 novembre 1987, n. 520, in Giur. cost., 1987, pp. 3395-3396. (128) Sul punto, v. infra § 8. (129) In questo senso, v. PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., p. 420 ss.; RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., p. 10 ss. (130) V. DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato permanente, cit., p. 575, il quale osserva che « per potersi parlare di reato permanente si devono riconoscere nel fatto tutti gli elementi costitutivi di cui un reato si compone, oggettivi e soggettivi. Se uno qualsiasi di tali elementi viene meno ciò significa che il reato permanente è, in quanto reato, cessato ».
— 163 — 7. Venendo ora alla analisi vera e propria della struttura della permanenza, poiché essa consiste nella protrazione nel tempo del reato, è necessario che, durante questa fase, il fatto tipico, l’antigiuridicità e la colpevolezza si protraggano nel tempo, ovvero si caratterizzino per il requisito della durata. A) Circa l’elemento oggettivo del fatto tipico, è assolutamente pacifico che la condotta, essendo una componente costitutiva indefettibile del reato, debba necessariamente permanere oltre il momento della perfezione. Alcuni problemi, però, sono sorti con riferimento alla tipologia di condotta idonea ad integrare la fase della permanenza. a) In primo luogo, si è posta la questione se la condotta costitutiva del reato e quella della permanenza debbano essere entrambe omissive oppure la prima indifferentemente commissiva od omissiva e la seconda necessariamente omissiva oppure entrambe commissive. Secondo la prima tesi, « reati permanenti possono essere soltanto i reati di mera condotta, acausali » (131) e, poiché la condotta attiva è essenzialmente istantanea, mentre quella omissiva è ontologicamente, naturalisticamente permanente (132), « il reato permanente è sempre omissivo » (133). Questa teoria, rimasta pressoché isolata (134), è stata oggetto di numerose critiche. In primo luogo, è stato osservato che reati permanenti possono essere sia i reati di azione (135) (es. associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p.), sia quelli di evento, e, quindi, anche i reati omissivi impropri (136), quando la fattispecie incriminatrice commissiva sia suscettibile di essere convertita in omissione ai sensi dell’art. 40, comma 2o, c.p. (es. sequestro di persona di cui all’art. 605 c.p.). In secondo luogo, poiché questa tesi sostiene che « il prologo attivo, quello che accidentalmente consente o condiziona l’inizio dello stato permanente, sia fuori dalla descrizione legale » (137), ovvero che penalmente rilevante sia soltanto la fase che si sviluppa dopo la perfezione del reato, è stato posto in evidenza come essa finisca per estromettere dalla struttura dell’illecito la fase in cui si realizza la fattispecie incriminatrice, per cui il soggetto agente sarebbe destinatario non tanto del divieto contenuto nella norma, ma soltanto di un generico comando di rimuovere lo stato antigiuridico prodotto, con ciò svilendo del tutto la funzione della fattispecie legale (138): così, ad esempio, nel reato di sequestro di persona non avrebbe rilevanza strutturale l’atto con il quale l’agente priva la vittima della libertà personale, ma solo il comportamento successivo consistente nel non liberare il soggetto passivo. Per un’altra tesi, basata sulla convinzione secondo cui, mentre l’azione è sempre di natura discontinua, l’omissione è di natura necessariamente continua, la condotta costitutiva precedente alla realizzazione del reato potrebbe presentare natura commissiva od omissiva, mentre la permanenza potrebbe essere integrata soltanto da un comportamento omissivo, e questo perché, in alcune ipotesi (es. sequestro di persona), durante la fase della permanenza, (131) DALL’ORA, Condotta omissiva e condotta permanente nella teoria generale del reato, cit., p. 176, ma v. anche le pagine precedenti. (132) DALL’ORA, Condotta omissiva e condotta permanente nella teoria generale del reato, cit., pp. 204-206. (133) DALL’ORA, Condotta omissiva e condotta permanente nella teoria generale del reato, cit., p. 220. (134) Alla conclusione secondo la quale i reati permanenti sono reati omissivi giunge anche GIULIANI, La struttura del reato permanente, cit., pp. 89-90. (135) Sul punto, v. RAGNO, I reati permanenti, cit., p. 153. (136) V. PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., p. 448; RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., p. 28. (137) DALL’ORA, Condotta omissiva e condotta permanente nella teoria generale del reato, cit., p. 190. (138) V. RAGNO, I reati permanenti, cit., p. 153; DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato permanente, cit., pp. 563-564; RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., p. 31; COPPI, voce Reato permanente, cit., p. 322.
— 164 — la condotta può presentarsi in una forma discontinua (ad esempio, dopo aver sequestrato una persona, il soggetto attivo può compiere altre azioni senza che l’illecito si esaurisca), ragion per cui, se non si facesse ricorso al c.d. « momento omissivo », la permanenza non potrebbe essere spiegata (139). Contro questa tesi è stato osservato che anche la condotta commissiva può avere un carattere continuo: così, ad esempio, nel caso del sequestro di persona, chi tiene stretto tra le sue braccia per alcune ore consecutive la vittima oppure compie un’azione di ininterrotta vigilanza, pone in essere una condotta commissiva la continuità della quale non può essere posta in dubbio (140). Secondo altri autori, infine, la condotta del reato permanente è sempre l’azione che contrasta con l’unico imperativo espresso dalla norma: così, ad esempio, l’art. 605 c.p., vietando di privare taluno della libertà personale, sottende una realizzazione commissiva dell’illecito, la condotta costitutiva del quale sarà necessariamente rappresentata da un’azione anche durante la permanenza. Inoltre, anche nell’ipotesi in cui la permanenza del reato possa essere assicurata da un comportamento omissivo, la condotta resterebbe di tipo « attivo », poiché permarrebbe la « volontà » di continuare nella violazione della norma (141). Contro questa ricostruzione, in primo luogo, si deve rilevare, come già abbiamo fatto, che la permanenza del reato può essere assicurata tanto da un’azione quanto da un comportamento omissivo, a seconda che la relativa fattispecie astratta sia tale da poter essere in concreto realizzata attraverso un’azione od un’omissione. In secondo luogo, è facile obiettare che non si può identificare la condotta, la quale è un elemento costitutivo oggettivo del reato, con una realtà psichica, ovvero con il dolo, che è un elemento costitutivo soggettivo (142): il connotato psichico di tipo volitivo, la volontà, cioè, di continuare la violazione della norma, infatti, non può essere identificato con la condotta, ma, tutt’al più, può esprimere la necessità della persistenza dell’elemento soggettivo durante tutta la fase della permanenza. Dalla critica delle tesi sopra esposte, emerge che il tentativo di individuare forme di condotta ontologicamente idonee ad integrare la fase della permanenza è del tutto sterile se non addirittura errato e che l’unico criterio valido è, ancora una volta, quello della tipicità. Pertanto, nelle ipotesi di reati a condotta libera o causalmente orientati, come la condotta integratrice della fattispecie può essere commissiva od omissiva, così la condotta permanente potrà essere sia commissiva che omissiva, in quanto entrambe le forme sono tipiche; nelle ipotesi di reati a condotta vincolata, come la condotta costitutiva è necessariamente commissiva, essendo impensabile la descrizione di modalità di una condotta che naturalisticamente consiste in un non facere, così la condotta permanente sarà necessariamente commissiva, in quanto solo tale condotta eseguita con le modalità descritte nella fattispecie incriminatrice è tipica. Infine, nell’ipotesi di reati omissivi, la condotta che integra la permanenza dovrà restare logicamente omissiva, nel senso che l’agente non dovrà compiere l’azione giuridicamente dovuta, in quanto l’eventuale realizzazione di tale azione farà venire meno l’omissione (condotta tipica) e produrrà l’effetto della cessazione della permanenza. b) Altra questione è poi quella concernente la compatibilità tra la categoria del reato permanente ed i reati omissivi propri. Secondo una parte della dottrina, la permanenza non sarebbe compatibile con i reati omissivi, per cui tale categoria di reati dovrebbe ritenersi sempre istantanea. All’interno di tale concezione si deve compiere una distinzione tra gli autori che sostengono una incompatibilità « assoluta », nel senso che dalla categoria del reato (139) In questo senso, v., per tutti, MASSARI, Il momento esecutivo del reato. Contributo alla teoria dell’atto punibile, cit., p. 89 ss. (140) Sul punto, v., per tutti, PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., pp. 431432. (141) V. PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., pp. 417-419 e pp. 431-432. (142) V. DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali processuali del reato permanente, cit., p. 566.
— 165 — permanente resterebbero esclusi sia i reati omissivi propri sia quelli impropri (143), e quelli che escludono soltanto i reati omissivi propri (144). Rinviando a quanto si dirà tra poco per ciò che concerne la compatibilità tra reato permanente e reati omissivi impropri e, più in generale, di evento o materiali, la tesi della incompatibilità si fonda sull’assunto per cui il termine entro il quale l’azione deve essere compiuta costituisce un elemento essenziale della fattispecie omissiva, in quanto la stessa condotta tipica non potrebbe configurarsi senza un termine ultimo per l’adempimento. In particolare, essendo l’omissione un concetto normativo che si specifica in relazione all’azione comandata (obbligo giuridico) e nell’istante in cui tale azione deve essere compiuta, il termine, sia esso esplicito o implicito, viene ad essere componente essenziale ed indefettibile della stessa condotta omissiva: poiché non esiste omissione senza obbligo giuridico e non esiste obbligo giuridico senza termine, si deve ritenere che non possa esistere omissione tipica senza termine (145). Sulla base di questa convinzione si conclude che il reato di pura omissione è necessariamente istantaneo in quanto la condotta comandata deve essere effettuata sempre entro un certo termine, per cui tipica è solo l’omissione nell’istante in cui il termine scade, e a nulla rileva, dal punto di vista della tipicità, che successivamente il soggetto possa adempiere tardivamente al comando: la condotta omissiva tipica è istantanea per definizione, essendo verificabile solo nel momento della scadenza del termine (146). D’altra parte, secondo alcuni di questi autori, nonostante che la quasi totalità dei reati omissivi propri debba essere considerata di natura istantanea, si possono immaginare rare ipotesi in cui il reato di pura omissione va effettivamente considerato permanente (147). Poiché — si afferma — la fattispecie di un reato omissivo proprio contempla una condotta tipica di natura normativa, che « prende forma » dall’azione che doveva compiersi e che non viene compiuta, nel valutare la permanenza o meno della condotta tipica, si deve guardare all’azione che si sarebbe dovuta compiere: se l’azione comandata ha natura permanente, la condotta omissiva tipica avrà natura permanente; se l’azione comandata ha natura istantanea, la condotta omissiva tipica avrà natura istantanea (148). Così, ad esempio, nell’ipotesi in cui un soggetto sia obbligato a conservare oggetti o scritture di vario genere oppure a soggiornare in un determinato comune per un certo periodo di tempo, si può affermare che l’omissione ad essa speculare si protragga, nella sua tipicità, nel tempo (149). In sostanza, se l’azione doverosa consiste in un’attività dinamica, modificatrice della realtà, che, se perdurante, mutilerebbe la libertà del soggetto non potendo egli, per tutto il tempo, fare altro che adempiere al precetto, saremo in presenza di un reato istantaneo; al contrario, se l’azione doverosa consiste in un’attività statica, non comportante una vera e (143) In tal senso v., per tutti, CARACCIOLI, Condotta permanente e permanenza di effetti nella fattispecie criminosa, cit., pp. 222-223. (144) V. tra i molti GALLO M., Reato permanente ed omesso conferimento di grano all’ammasso, cit., p. 331 ss.; GROSSO C.F., Brevi note su di un aspetto problematico del reato omissivo proprio: il luogo della consumazione (osservazioni in margine alla fattispecie di omesso versamento di contributi sociali o assicurativi), in questa Rivista, 1964, p. 243; ROSI, Premesse dogmatiche e soluzioni giurisprudenziali in tema di reato permanente omissivo, ivi, 1988, II, c. 348; CADOPPI, Il reato omissivo proprio, vol. II, Padova, 1988, p. 878 ss. (145) Sull’argomento v. ampiamente, per tutti, CADOPPI, Il reato omissivo proprio, vol. II, cit., pp. 865-889. (146) CADOPPI, Il reato omissivo proprio, vol. II, cit., pp. 883-884. (147) CADOPPI, Il reato omissivo proprio, vol. II, cit., pp. 894-899; MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., pp. 430-431. (148) CADOPPI, Il reato omissivo proprio, vol. II, cit., p. 894; BRUNELLI, Il reato portato a conseguenze ulteriori, cit., pp. 135-136. (149) CADOPPI, Il reato omissivo proprio, vol. II, cit., pp. 894-895.
— 166 — propria modificazione della realtà, che, se perdurante, non preclude al soggetto di svolgere altre attività, saremo in presenza di un reato permanente (150). Secondo un’altra e opposta tesi, la permanenza non è, in linea di principio, incompatibile con i reati omissivi propri (151), ragion per cui la vera problematica da affrontare concerne l’individuazione del criterio idoneo ad identificare le fattispecie omissive proprie permanenti. Secondo alcuni autori (152) ed un indirizzo giurisprudenziale meno recente (153), tale criterio sarebbe dato dalla natura del termine entro il quale l’agente deve compiere l’azione dovuta: se nella fattispecie si fa riferimento ad un termine c.d. perentorio, il reato omissivo è istantaneo, poiché dopo la scadenza di tale termine il soggetto non può più utilmente ottemperare; al contrario, se l’adempimento è assoggettato ad un termine c.d. meramente ordinatorio, il reato omissivo è da considerarsi permanente, in quanto la scadenza di questo termine vale solo a stabilire il momento iniziale in cui il comportamento omissivo diviene penalmente perseguibile, e la permanenza perdura fino a quando l’omettente non la faccia cessare compiendo, anche se tardivamente, ciò che in precedenza ha omesso. Contro tale tesi è stato giustamente sostenuto che in diritto penale sostanziale non può essere recepita una distinzione (quella, appunto, tra termine ordinatorio e termine perentorio) elaborata in ambito di diritto processuale civile (154). In primo luogo, si deve notare che non è ipotizzabile la violazione di un obbligo di agire al quale non corrisponda la determinazione di un termine finale, per cui tale termine deve considerarsi sempre perentorio e mai ordinatorio (155). Inoltre, poiché nel campo del diritto processuale civile il « termine ordinatorio » implica la possibilità di ottemperare validamente ed efficacemente anche in un momento successivo, in ambito penalistico, con riferimento alle fattispecie incriminatrici omissive, si dovrebbe poter sostenere che il soggetto destinatario dell’obbligo mantenga la facoltà di adempiere anche dopo la scadenza del termine, nel senso che egli non dovrebbe essere punito anche se adempie in un momento successivo: ma questa conclusione non può essere accolta, in quanto o si ritiene che, scaduto il termine, la fattispecie sia stata integrata, e che pertanto il soggetto debba essere punito anche se, superato il limite temporale, pone in essere il comportamento, oppure si ammette che il reato non sia stato ancora realizzato, proprio perché l’agente, se adempie, può evitare di essere punito. (150) V. CADOPPI, Il reato omissivo proprio, vol. II, cit., pp. 896-899; MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 431. (151) In questo senso, nella letteratura italiana, v. tra i molti LEONE G., Del reato abituale, continuato e permanente, cit., p. 396 ss.; BATTAGLINI, Osservazioni in tema di reato permanente, in Giust. pen., 1949, II, c. 149; ID., Sulla rilevanza del termine nel reato omissivo, ivi, 1952, II, c. 358 ss.; RAGNO, I reati permanenti, cit., p. 120; PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., pp. 444-446; BOSCHI, Sulla pretesa natura permanente di taluni reati in materia di assicurazioni sociali, in Giust. pen., 1961, II, cc. 830-831; ID., Sulla pretesa natura istantanea o permanente dei reati omissivi propri, in Foro it., 1964, II, c. 237 ss.; ID., Sulla pretesa natura permanente del reato previsto dall’art. 8 legge 14 luglio 1959 n. 741, ivi, 1968, II, c. 194 ss.; PADOVANI, La condotta omissiva nel quadro della difesa legittima, in questa Rivista, 1970, p. 686 ss.; DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali processuali del reato permanente, cit., pp. 567-568; COPPI, voce Reato permanente, cit., p. 324. Nella letteratura tedesca, v. MAURACH-GÖSSEL-ZIPF, Strafrecht, Allgemeiner Teil, Teilbd. 2, cit., p. 419; STREE, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, cit., p. 692. (152) V., per tutti, MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, a cura di P. Nuvolone e G.D. Pisapia, vol. I, Torino, 1981, p. 657. (153) Cfr. Cass. 1 giugno 1983, in Cass. pen., 1984, p. 2196; Cass. 21 gennaio 1976, ivi, 1977, p. 1000; Cass. 16 gennaio 1976, ivi, 1977, p. 216. (154) V. BOSCHI, Sulla pretesa natura permanente di taluni reati in materia di assicurazioni sociali, cit., p. 826; CADOPPI, Il reato omissivo proprio, vol. II, cit., p. 881. (155) V. RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., p. 38.
— 167 — Secondo altri autori (156), e secondo anche un indirizzo giurisprudenziale più recente (157), il criterio valido per identificare le fattispecie omissive permanenti sarebbe dato, ancora una volta, dalla natura del bene giuridico tutelato dalla fattispecie incriminatrice: se il bene giuridico è indistruttibile, poiché l’offesa può perdurare nel tempo oltre la scadenza del termine, il reato è suscettibile di permanenza; al contrario, se l’oggetto di tutela può essere distrutto in via definitiva, il reato è istantaneo, in quanto l’offesa non può essere protratta nel tempo. Più precisamente, « il reato omissivo proprio assume(rebbe) il carattere della permanenza allorquando il dovere di compiere l’azione, in considerazione del particolare bene protetto, persiste anche dopo il momento di perfezionamento della condotta tipica » (158). Contro questo criterio si deve ancora una volta sottolineare che la prosecuzione dell’offesa all’interesse tutelato non è sufficiente per la configurazione del reato permanente. Come notato, infatti, perché un reato sia permanente è necessario che tutti gli elementi costitutivi del fatto tipico si protraggano nel tempo. L’affermazione, poi, secondo la quale il dovere di compiere l’azione persiste anche dopo il momento di perfezionamento della condotta tipica, si dimostra una contraddizione in termini, se si considera che la violazione di un obbligo, così come quella di un divieto, si protrae nel tempo solo se la condotta tipica contemplata nella fattispecie permane. Per risolvere la questione della compatibilità tra reato permanente e reato omissivo proprio, a nostro avviso, occorre fare riferimento ancora una volta al criterio della tipicità. In particolare, premesso che gli elementi costitutivi del reato omissivo proprio sono la condotta dovuta e la situazione tipica che attualizza l’obbligo di tenere tale condotta, appare evidente come un reato omissivo proprio sia suscettibile di protrarsi nel tempo allorquando la situazione tipica può durare oltre il momento della sua verificazione. In altre parole, se la situazione tipica consiste in un termine, il reato omissivo proprio è da considerarsi istantaneo, in quanto la situazione tipica si esaurisce con la scadenza del termine; se, al contrario, consiste in una situazione suscettibile di protrarsi nel tempo, il reato omissivo proprio è permanete. Così, ad esempio, si deve qualificare come permanente il delitto di indebita limitazione di libertà personale, in quanto l’obbligo dura fintantoché si protrae la limitazione della libertà personale. Al contrario si deve ritenere istantaneo la contravvenzione di cui all’art. 650 c.p, allorquando il provvedimento consiste in un ordine di presentarsi all’autorità di polizia. Ciò detto, occorre ulteriormente notare che in alcuni reati omissivi propri, la situazione tipica non consiste né in un termine (es. art. 650 c.p.), né in un accadimento fattuale capace di protrarsi nel tempo (es. art. 607 c.p.), bensì in un arco di tempo delimitato da un termine iniziale e da un termine finale, come accade, ad esempio, nel delitto di omissione di atti d’ufficio. Ebbene, in questa ipotesi, siamo in presenza ancora di un reato istantaneo, in quanto l’arco di tempo che trascorre tra il termine iniziale e quello finale altro non è che il minimum temporale necessario ai fini della perfezione della fattispecie (v. retro § 3). B) Come abbiamo accennato, secondo alcuni autori, la permanenza non sarebbe ammissibile nei reati c.d. materiali o di evento, e questo perché il nesso di causalità, per quanto lungo e articolato possa essere il suo decorso, produce il suo risultato in un momento cronologico determinato: « i reati di condotta e di evento sono costruiti su un rapporto causale; sulla causalità riposa la loro struttura, poggia la loro essenza [...] Il rapporto di causalità aborrisce dalla permanenza [...] Ciò che può permanere nel tempo è invece [...] il comporta(156) V., per tutti, RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., pp. 38-39; ROMANO, in ROMANO-GRASSO-PADOVANI, Commentario sistematico del codice penale, vol. III, cit., p. 74. (157) In giurisprudenza, cfr. Cass. 22 marzo 1995, in Cass. pen., 1996, p. 2218; Cass. 29 settembre 1987, ivi, 1988, p. 2144; Cass. 9 luglio 1985, in Riv. pen., 1986, p. 558; Cass. 19 giugno 1985, ivi, 1986, p. 164; Cass. 20 maggio 1985, in Cass. pen., 1986, p. 1953; Cass. 23 novembre 1981, in Riv. pen. 1981, p. 539. (158) V. RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., p. 39.
— 168 — mento, la condotta umana [...] Reati permanenti possono essere soltanto i reati di mera condotta, acausali » (159). A nostro parere, invece, non solo i reati di evento sono compatibili con la permanenza (160) — si pensi, ad esempio, al reato di sequestro di persona — ma è anche necessario che l’evento e il nesso di causalità si protraggano nel tempo insieme alla condotta. D’altra parte, se la protrazione dell’evento non può essere posta in dubbio, circa il nesso di causalità si deve riconoscere una certa difficoltà nell’ammettere la sua durata. A nostro avviso, però, nei reati di evento permanenti deve sempre esistere un legame tra la condotta dell’agente e l’evento, nel senso che l’evento già cagionato deve restare nel « dominio » dell’agente. Invero, la necessità del perdurare di un certo legame tra la condotta e l’evento ai fini dell’esistenza della permanenza era già stata messa in evidenza da una parte meno recente della dottrina, là dove si affermava che « lo stato antigiuridico deve potersi far cessare per sola volontà del colpevole » (161). Nonostante che si faccia impropriamente riferimento alla volontà dell’agente, tale assunto è da condividere se lo si intende nel senso che la permanenza perdura solo se l’evento può cessare a causa della condotta dell’agente: così, ad esempio, la fuga del sequestrato fa venire meno l’evento e, conseguentemente, la posizione di dominio che l’agente ha sulla situazione, così come il sequestro del sequestratore, se da un lato non fa cessare l’evento, dall’altro fa venire meno la condotta dell’agente ed il legame che intercorreva tra quest’ultima e la privazione della libertà del soggetto passivo. Da ciò deriva che l’indagine sull’esistenza del nesso causale nella fase della permanenza dovrà svolgersi all’insegna di un accertamento tipicamente negativo, volto, cioè, a stabilire se si siano avverate determinate situazioni incompatibili con la persistenza di un rapporto di causa ed effetto tra la condotta e l’evento. C) Infine, se alla formulazione del giudizio di disvalore concorrono altri elementi costitutivi, anch’essi devono protrarsi nel tempo e nel momento in cui vengono meno cessa la permanenza. Così, ad esempio, il reato di indebita limitazione di libertà personale (art. 607 c.p.) si protrarrà se, oltre alla condotta, il soggetto agente continuerà a rivestire la qualità di pubblico ufficiale, ragion per cui, nel momento in cui tale soggetto non sarà più un pubblico ufficiale, il reato si dovrà ritenere cessato. 7.1. Per quanto concerne l’elemento soggettivo del fatto tipico, una volta rifiutata la tesi di chi soggettivizza la fase della permanenza (162) e quella di chi inquadra la materia in esame nella teoria dell’actiones liberae in causa (163) oppure del dolus in re ipsa (164), si deve rilevare come oggi sia divenuta pacifica l’opinione per cui l’elemento soggettivo nella fase della permanenza rientra nello schema « classico » in tema di elemento psicologico del reato (165), nel senso che anche durante tale fase è necessario che vi sia una persistente cor(159) V. DALL’ORA, Condotta omissiva e condotta permanente nella teoria generale del reato, cit., pp. 170-176; CARACCIOLI, Condotta permanente e permanenza di effetti nella fattispecie criminosa, cit., p. 223. (160) In questo senso, v. PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., p. 448; RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., p. 28. (161) V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. I, cit., p. 703. (162) In questo senso, v. PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., p. 419. (163) In questo senso, v. ESCOBEDO, Sulla nozione di reato permanente, specie in rapporto all’uso di atto falso, cit., c. 19; ID., Ancora sulla distinzione fra reato istantaneo e reato permanente, cit., c. 277; MARSICH, Sulla nozione di reato permanente e sul carattere istantaneo della bigamia, cit., p. 298; RENDE, Il reato permanente, cit., p. 950 ss., secondo i quali chi ha realizzato una fattispecie incriminatrice e non sia, poi, in grado di farne cessare la permanenza, risponderà comunque delle ulteriori conseguenze dannose causate dalla propria condotta iniziale. (164) V. RAGNO, I reati permanenti, cit., p. 54 ss. (165) V., per tutti, DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato per-
— 169 — relazione tra l’elemento oggettivo del fatto tipico e la realtà psichica del soggetto agente. Da ciò deriva che nel momento in cui questa correlazione viene meno, viene meno anche la permanenza: così, ad esempio, un errore sul fatto, che esclude il dolo, può interrompere il reato permanente, come nel caso in cui il sequestratore sia convinto erroneamente di aver ridato la libertà alla vittima, ritenendo di aver fatto pervenire ai suoi parenti le istruzioni ed i mezzi per liberarlo (166), oppure come quello in cui il sequestratore non restituisca la libertà al sequestrato perché convinto che quest’ultimo sia entrato in possesso di un arma e pertanto, una volta liberato, voglia ucciderlo (scriminante putativa di cui all’art. 59, comma 4, c.p.). D’altra parte, vi sono ancora alcune questioni non del tutto risolte. In primo luogo, si pone il problema della compatibilità tra l’elemento soggettivo della colpa e la categoria del reato permanente. Per una parte della dottrina, infatti, senza peraltro che venga addotta alcuna argomentazione, reati permanenti potrebbero essere soltanto quelli dolosi (167). Tale tesi, a ben vedere, trova la propria origine nell’idea secondo la quale per aversi reato permanente è necessario che l’agente sia sempre nella possibilità di far cessare la situazione antigiuridica prodotta (168), ovvero, detto in altri termini, che la cessazione dello stato antigiuridico possa dipendere dalla volontà del soggetto agente (169). Sennonché, la necessità di individuare nell’agente il potere di far cessare la situazione antigiuridica da lui creata discende dall’accoglimento della concezione c.d. bifasica e, più in generale, dell’idea per cui la norma incriminatrice del reato permanente è costituita da due precetti. Ma negato il fondamento dogmatico di tale idea, anche i corollari che si intendono far discendere dal principio si rivelano inaccettabili, per cui non sembra possibile escludere la compatibilità della permanenza anche con riferimento ai reati colposi (170): così, ad esempio, deve ritenersi suscettibile di permanenza la contravvenzione di detenzione di misure e pesi illegali colposa di cui all’art. 692 c.p. Altro problema è, poi, quello concernente il contenuto dell’elemento soggettivo durante la fase della permanenza. Se per la colpa si può ritenere che durante tale fase i coefficienti psichici sono identici a quelli del momento della realizzazione del reato (mancanza della volontà del fatto, violazione di una regola cautelare), e questo perché la responsabilità colposa ha natura normativa, per quanto concerne il dolo, invece, si deve rilevare che la stessa pienezza dei coefficienti psichici presente al momento della realizzazione del fatto non è riscontrabile anche nell’ulteriore fase della permanenza, nel senso che non è ontologicamente possibile l’esistenza di una continuità assoluta delle componenti volitive o rappresentative, né una loro identica e costante pienezza (171) (si pensi all’ipotesi in cui il sequestratore dorme). D’altra parte, come è stato giustamente notato, « negare la presenza del dolo durante la permanenza sarebbe possibile solo se tale fase venisse considerata completamente a sé stante; se, invece, si pone mente al fatto che essa rappresenta la prosecuzione di un reato già realizzato in tutti i suoi elementi costitutivi, sembra potersi rilevare che ciò che interessa, perché essi continuino a sussistere, non è tanto la loro attuale, effettiva presenza lungo tutto manente, cit., pp. 583-584; RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., p. 45 ss.; COPPI, voce Reato permanente, cit., p. 322; GRISOLIA, Il reato permanente, cit., p. 53. (166) L’esempio è tratto dal COPPI, voce Reato permanente, cit., p. 324. (167) V. ALIBRANDI, voce Reato permanente, cit., p. 3. (168) V. LEONE G., Del reato abituale, continuato e permanente, cit., p. 433. (169) V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. I, cit., pp. 701-702. (170) V. PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., pp. 442-443; RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., p. 52; GRISOLIA, Il reato permanente, cit., p. 55; COPPI, voce Reato permanente, cit., p. 324. Nella letteratura tedesca: MAURACH-GÖSSELZIPF, Strafrecht, Allgemeiner Teil, Teilbd. 2, cit., p. 419; STREE, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, cit., p. 687; VOGLER, in Strafgesetzbuch, Leipziger Kommentar, cit., 17 vor § 52. (171) In questo senso, v. DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato permanente, cit., p. 583; RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., pp. 42-52.
— 170 — il decorso della permanenza, quanto piuttosto che non insorga un elemento nuovo la cui presenza faccia venir meno la persistenza ulteriore delle componenti dell’illecito » (172). Infine, nell’ipotesi in cui durante la permanenza si verifichi un mutamento dell’elemento psicologico, si pone il problema se sia possibile supporre un unico reato oppure se si debba sempre ammettere l’esistenza di una pluralità di illeciti. Sul punto si deve distinguere. Nel caso in cui un fatto tipico sia realizzato con dolo e protratto colposamente, è pacifico che si realizza una pluralità di reati; ragion per cui fino a quando permane il dolo, siamo in presenza di un fatto tipico doloso permanente; nel momento in cui il dolo viene meno e subentra la colpa, il reato doloso permanente si esaurisce e, se il fatto è previsto dalla legge come colposo, viene integrato un nuovo reato colposo, che a sua volta potrà essere permanente o meno. Qualora, poi, il fatto non sia previsto come colposo, la condotta non potrà che risultare penalmente irrilevante (173). Nel caso in cui, invece, un fatto tipico sia realizzato con colpa e protratto dolosamente, mentre secondo alcuni si verificherebbe una pluralità di reati (174), secondo altri si avrebbe un unico reato, in quanto il dolo « consumerebbe », assorbirebbe la colpa (175). A nostro avviso, anche in questa ipotesi ci troviamo in presenza di due fatti distinti, poiché, abbandonata l’idea per cui il reato colposo costituisce soltanto una forma di colpevolezza meno grave rispetto al dolo, si deve ritenere che dolo e colpa diano vita a fatti dotati di struttura e caratteristiche proprie, che emergono già sul piano della tipicità e che si riflettono su quello della colpevolezza. Pertanto, fino a quando permane la colpa, siamo in presenza di un fatto tipico colposo permanente; nel momento in cui la colpa viene meno e subentra il dolo, il reato colposo permanente si esaurisce e viene integrato un nuovo reato doloso che potrà essere permanente o meno. Per quanto concerne le contravvenzioni, nessun problema è posto da quelle ipotesi che possono essere ontologicamente realizzate soltanto con dolo o con colpa, in quanto, una volta mutato l’elemento soggettivo, il fatto diviene giuridicamente irrilevante. Diversamente, con riferimento alle ipotesi suscettibili di essere realizzate indifferentemente con dolo o con colpa, alcuni autori sostengono che il passaggio dall’una all’altra forma di colpevolezza non comporti una pluralità di reati, a causa, appunto, della loro fungibilità (176). A nostro avviso, invece, quanto precedentemente affermato per i delitti, vale anche per le contravvenzioni. Nonostante che l’inciso « sia essa dolosa o colposa » contenuto nell’art. 42, comma 4, c.p. indichi che per la commissione delle contravvenzioni è indifferente il dolo o la colpa, si deve ritenere che la distinzione tra dolo e colpa abbia comunque rilievo, sia perché dolo e colpa danno vita a fatti dotati di struttura e caratteristiche proprie, sia perché tale soluzione è imposta dall’articolo 43, ultimo comma, c.p. (177). 7.2. Per aversi in concreto un reato permanente, è necessario altresì che anche la contrarietà del fatto all’intero ordinamento giuridico si protragga nel tempo, per cui il requisito (172) DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato permanente, cit., pp. 583-584. (173) V. PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., p. 442; RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., p. 52; GRISOLIA, Il reato permanente, cit., pp. 55-56; BERNASCONI, Il reato permanente, cit., p. 672. Implicitamente, v. STREE, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, cit., p. 687; VOGLER, in JESCHECK-RUß-WILLMS, Strafgesetzbuch, Leipziger Kommentar, cit., 17 vor § 52. (174) V. PECORARO ALBANI, Del reato permanente, cit., pp. 442-443; RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., p. 52; BERNASCONI, Il reato permanente, cit., p. 672. (175) V. STREE, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, cit., p. 687; VOGLER, in JESCHECK-RUß-WILLMS, Strafgesetzbuch, Leipziger Kommentar, cit., 17 vor § 52, secondo i quali « una commissione colposa può trasformarsi in una commissione dolosa senza che per questo venga interrotta l’unità del reato permanente ». (176) V. GRISOLIA, Il reato permanente, cit., pp. 56-57. (177) In questo senso, v. RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., p. 52 nota 99.
— 171 — della durata dovrà investire anche l’assenza di cause di giustificazione; ne deriva come logica conseguenza che, perché un fatto tipico permanente sia (interamente) scriminato, è necessario che la causa di giustificazione sia presente con tutti i suoi elementi costitutivi per tutto il periodo di protrazione dello stesso (178). D’altra parte, secondo una parte della dottrina, la concezione unitaria del reato permanente mostrerebbe tutta la sua debolezza proprio in tema di cause di giustificazione. Si osserva, infatti, che, se si ammette una visione unitaria del reato permanente, si impone il riconoscimento dell’applicabilità di una causa di giustificazione del reato all’intero iter criminis, anche se essa sussiste solo per un certo periodo della permanenza. L’unica via per risolvere il problema sarebbe, quindi, quella di accogliere una concezione pluralistica del reato (179). Tale assunto, a nostro parere, non può essere condiviso. Poiché il reato permanente consiste nella protrazione di tutti gli elementi costitutivi (180), è giocoforza concludere che, se uno qualsiasi di tali elementi (in questo caso l’antigiuridicità) viene meno, ciò implica che il reato permanente è cessato, e, viceversa, se uno qualsiasi di tali elementi non è ancora venuto ad esistenza, ciò significa che il reato permanente non è stato ancora integrato. In sostanza, una causa di giustificazione può estendersi a tutto il reato permanente solo se essa è presente per tutto il decorso della permanenza (ovvero, nel reato permanente, la causa di giustificazione ha un’efficacia limitata nel tempo, corrispondente al suo perdurare). Sul punto si possono distinguere alcune ipotesi. Nel caso in cui la scriminante non sia presente né al momento della perfezione né durante la fase della permanenza, saremo in presenza di un fatto tipico, antigiuridico e permanente; al contrario, nell’ipotesi in cui la scriminante sia presente, sia al momento della perfezione, sia durante la fase della permanenza, saremo in presenza di un fatto tipico permanente, ma non antigiuridico. Nell’ipotesi in cui la scriminante sia presente al momento della perfezione, ma venga meno durante la fase della permanenza, saremo in presenza di un fatto tipico permanente, ma non antigiuridico, fino a quando la non contrarietà all’ordinamento del fatto tipico permane; nel momento in cui la scriminante viene meno, l’agente perfeziona un fatto tipico, antigiuridico il quale potrà essere permanente o meno: si pensi al caso di chi, mentre è minacciato con un arma da una persona, riesce a rinchiuderla in una stanza e protrae la limitazione della libertà della vittima anche dopo che gli estremi della legittima difesa sono venuti meno. Infine, nell’ipotesi in cui la scriminante non sia presente al momento della perfezione, ma venga ad esistenza durante la fase della permanenza, siamo in presenza di un fatto tipico, antigiuridico e permanente, fino a quando la contrarietà all’ordinamento del fatto tipico permane; nel momento in cui viene ad esistenza la scriminante il reato permanente si esaurisce: così, ad esempio, se la vittima, dopo un primo periodo, acconsente ad essere rinchiusa nella stanza, il fatto, dal quel momento in poi, non è più antigiuridico. Ovviamente, perché una scriminante sia applicabile al reato permanente, è necessario che essa sia suscettibile di protrarsi nel tempo. Al riguardo si può osservare che tutte le cause di giustificazione tipizzate nel nostro codice hanno tale caratteristica. In particolare, per quanto concerne il consenso dell’avente diritto, si deve ritenere che esso deve intervenire prima della perfezione del reato e persistere durante tutta la fase consumativa. Anche l’attività dell’agente di cui all’art. 51 c.p. deve essere espressione dell’esercizio di un diritto o dell’adempimento di un dovere che si protraggono nel tempo. Infine, il requisito dell’attualità (178) V. DE FRANCESCO G.A., Profili strutturali e processuali del reato permanente, cit., pp. 574-575; RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, cit., p. 94 ss.; COPPI, voce Reato permanente, cit., p. 324; BERNASCONI, Il reato permanente, cit., p. 674. (179) Così GIULIANI, La struttura del reato permanente, cit., pp. 15-16. Si vedano anche le osservazioni dell’Autore in tema di imputabilità (op. cit., pp. 11-14). (180) In questo caso per elementi costitutivi non si devono intendere quelli necessari per integrare il fatto tipico, ma quelli dell’intero reato, fra i quali, oltre al fatto tipico, vi rientrano anche l’antigiuridicità e la colpevolezza.
— 172 — del pericolo, necessario per integrare sia la legittima difesa che lo stato di necessità, deve essere inteso non solo nel senso che non si deve trattare di un pericolo passato o futuro, ma anche nel senso che esso può essere persistente, perdurante, come ad esempio nel caso in cui la lesione è già in corso, ma possono esserne evitati gli ulteriori sviluppi (181). 7.3. Per quanto riguarda la rimproverabilità del fatto tipico antigiuridico, è necessario che anche l’imputabilità, essendo presupposto della colpevolezza, si protragga nel tempo. Anche in questo caso si possono distinguere diverse ipotesi. Nell’ipotesi in cui un fatto tipico contrario all’ordinamento venga realizzato e protratto da un soggetto imputabile, saremo in presenza di un fatto tipico, antigiuridico, colpevole e permanente; al contrario, nell’ipotesi in cui un fatto tipico antigiuridico venga realizzato e protratto da un soggetto non imputabile, saremo in presenza di un fatto tipico, antigiuridico, permanente, ma non colpevole. Nell’ipotesi in cui un fatto tipico contrario all’ordinamento venga realizzato da un soggetto imputabile, ma durante la permanenza venga protratto senza la capacità di intendere e di volere, saremo in presenza di un fatto tipico, antigiuridico, colpevole e permanente fino a quando il soggetto è imputabile; nel momento in cui l’imputabilità viene meno, il reato permanente verrà ad esaurirsi. È importante notare che si dovrà trattare di una incapacità dovuta ad una infermità riconducibile agli artt. 88 e 95 c.p. (rispettivamente vizio totale di mente e cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti), con la particolarità, però, che l’infermità non dovrà essere transitoria, legata, cioè, a stati del tutto passeggeri o, addirittura, momentanei. In particolare, occorre rilevare che mentre la sopravvenienza di un’autentica psicosi farà venire meno la capacità di intendere e di volere e quindi la permanenza del reato, al contrario, la presenza di psicopatie, nevrosi o disturbi degli impulsi, nonostante la sua incidenza sulla capacità d’intendere e di volere, non è detto che comporti l’esaurimento della permanenza, e questo perché anche per l’imputabilità vale la regola per cui ciò che nel reato permanente interessa, affinché il giudizio di disvalore continui a sussistere, non è tanto l’attuale effettiva presenza di tutti gli elementi costitutivi del reato lungo tutto il decorso della permanenza, quanto piuttosto che non insorga un elemento nuovo la cui presenza faccia venir meno la persistenza ulteriore del disvalore del fatto espresso dalla norma. Infine, nell’ipotesi in cui un fatto tipico contrario all’ordinamento venga realizzato da un soggetto non imputabile, ma protratto con la capacità di intendere e di volere, siamo in presenza di un fatto tipico, antigiuridico e permanente, ma non colpevole, fino a quando il soggetto non è imputabile; nel momento in cui l’imputabilità viene ad esistenza, siamo in presenza di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole che potrà essere permanente o meno. Decisamente più complesse sono le problematiche poste dagli eventuali mutamenti di età dell’agente. Una prima ipotesi è quella in cui il reato è perfezionato da un soggetto di età inferiore ai quattordici anni e viene protratto oltre tale limite fino al momento del compimento del diciottesimo anno di età escluso. In questa ipotesi è chiaro che il soggetto non sarà punibile per quella parte di reato commessa in età inferiore ai quattordici anni ai sensi dell’art. 97 c.p., mentre sarà punibile per quella realizzata tra gli anni quattordici e gli anni diciotto esclusi, potendo usufruire della diminuzione di pena di cui all’art. 98 c.p. Un’altra ipotesi è quella in cui il reato è perfezionato tra gli anni quattordici e gli anni diciotto e viene protratto oltre il compimento del diciottesimo anno di età. In questo caso si discute se sia applicabile all’agente, ritenuto imputabile nella fase intermedia, la diminuente prevista dall’art. 98 c.p. A nostro parere, la risposta deve essere negativa, in quanto la diminuzione della pena è collegata soltanto alla minore età del soggetto e non anche alla sua imputabilità, la quale si presenta identica sia nella fase intermedia, sia in quella successiva, per cui, compiuto il diciottesimo anno di età e protrattosi il reato, il soggetto non potrà beneficiare della diminuzione di pena. (181) V. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 267; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, cit., p. 246.
— 173 — Lo stesso problema si pone anche quando il reato è perfezionato da un soggetto pienamente imputabile e viene proseguito con capacità d’intendere e di volere grandemente scemata: è applicabile la diminuente di cui all’art. 89 c.p.? A nostro avviso, affinché la diminuente possa essere estesa all’intero reato è necessario che il vizio di mente che non esclude del tutto l’imputabilità si sia protratto per un apprezzabile lasso di tempo, il quale, ovviamente, muterà a seconda della durata dell’intero reato. Così, ad esempio, se trascorso un anno il soggetto diviene semimputabile per tre giorni, dopo di che cessa la permanenza, è evidente che la diminuente non sarà applicabile in quanto la circostanza non è stata integrata; al contrario, se trascorsi tre giorni il soggetto diviene semimputabile per un anno, dopo di che cessa la permanenza, a nostro avviso la circostanza sarà applicabile. Per quanto concerne l’errore sulla legge penale, mentre è possibile che durante la permanenza un soggetto venga a conoscenza dell’esistenza di un precetto che incrimina il fatto che si protrae, per cui da quel momento la permanenza stessa assumerà quel carattere colpevole prima escluso dalla scusante, al contrario, si deve ritenere impossibile che durante la permanenza un soggetto perda la coscienza dell’antigiuridicità del fatto in precedenza avuta, a meno che l’ignoranza (oltretutto inevitabile) non dipenda da determinate circostanze del tutto eccezionali (es. perdita della memoria) oppure dal venir meno della stessa capacità di intendere e di volere del soggetto (in quest’ultimo caso, peraltro, la permanenza sarà interrotta dalla mancanza dell’imputabilità). È opportuno, infine, accennare al fatto che la permanenza assume rilevanza anche ai fini della commisurazione della pena, poiché, se già al postfatto viene attribuita un’influenza sul quantum di pena (182), a maggior ragione tale influenza deve essere riconosciuta ad un’entità tipica quale è appunto la permanenza del reato. In particolare, la sua durata può essere valutata come fattore di maggiore gravità oggettiva del fatto, con riferimento sia alla natura ed alle modalità della condotta, sia alla gravità del danno o del pericolo cagionato. Ma essa è indice anche di una maggiore colpevolezza, in quanto rivela una più intensa adesione partecipativa al fatto e, soprattutto, una maggiore consapevolezza della violazione dell’ordinamento. 8. Come abbiamo visto in precedenza, il reato permanente non è l’unico illecito penale in cui è riscontrabile una fase successiva al momento della perfezione e giuridicamente rilevante. Uno « stadio consumativo », infatti, può essere presente anche nel reato abituale e nel reato realizzato con una pluralità di comportamenti tipici, ciascuno dei quali, cioè, integra già di per sé la fattispecie incriminatrice, ma che, sulla base di determinati requisiti, si ritiene unitario. Da ciò deriva che la figura oggetto della nostra indagine presenta alcuni punti in comune con queste due figure, per cui occorre verificare, da un lato, se il reato realizzato con una pluralità di atti tipici costituisce un reato eventualmente permanente, in quanto, pur essendo di per sé istantaneo (es. ingiuria), nel caso in cui si protragga nel tempo senza che vi sia un apprezzabile intervallo tra l’uno e l’altro episodio, la perfezione non coincide con la consumazione (183); dall’altro, quali sono le differenze che intercorrono tra il reato abituale e quello permanente (184). Per quanto concerne, in primo luogo, i rapporti tra reato permanente e reato abituale, si è fatto notare come il momento perfezionativo del reato c.d. necessariamente permanente e del reato c.d. necessariamente abituale presenti identiche particolarità, poiché in entrambe le (182) Sul punto, v. ampiamente PROSDOCIMI, Profili penali del postfatto, cit., p. 226 ss. (183) PADOVANI, Diritto penale, cit., pp. 345-346. Di avviso contrario, MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 430. (184) V. PETRONE, voce Reato abituale, cit., pp. 194-195. Di opinione diversa, FORNASARI, voce Reato abituale, in Enc. giur. Treccani, vol. XXVI, Roma, 1991, pp. 2-3.
— 174 — ipotesi ad esso non si arriverebbe se non dopo che il fatto si sia protratto per un certo periodo di tempo, per cui, senza tale protrazione, si dovrebbe parlare di tentativo ovvero di altra figura criminosa (185). D’altra parte, noi abbiamo già visto come la categoria del reato c.d. necessariamente permanente non abbia alcun fondamento, soprattutto se con tale espressione si vuole intendere proprio che la fattispecie, ai fini della perfezione, esige la protrazione per un tempo apprezzabile degli elementi costitutivi che la compongono: il rilievo della durata al quale qui ci si riferisce — lo ripetiamo — non concerne ancora la permanenza e la presenza di tale fenomeno anche nei reati c.d. necessariamente abituali ne è un’ulteriore conferma. L’unico dato, pertanto, che accomuna le due categorie è la presenza di una fase consumativa successiva al momento della perfezione, ovvero il fatto che in entrambe le ipotesi si può avere una protrazione della violazione del precetto, la quale dà luogo ad un reato unitario. Tuttavia, anche per quel che riguarda la struttura della fase consumativa, le due categorie di reato differiscono — e non di poco — in ordine alle modalità di protrazione del fatto tipico. E infatti: mentre nel reato permanente la protrazione è continua, ininterrotta, nel reato abituale, invece, si ha una reiterazione di più fatti omogenei, per cui il reato abituale si caratterizza per una discontinuità del fatto tipico (186). In sostanza, mentre l’unità del reato permanente è data dalla protrazione senza soluzioni di continuità del fatto tipico, quella del reato abituale deriva dal nesso di abitualità, che consiste nel rapporto di persistente frequenza tra i vari episodi della serie (187). Tale dato non ha effetti soltanto sul piano della struttura, ma ha anche importanti conseguenze applicative. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui dopo la perfezione del reato di maltrattamenti, per la quale è necessaria la reiterazione di un certo numero di fatti omogenei (reato c.d. necessariamente abituale proprio), un terzo istighi l’agente a porre in essere un altro episodio riconducibile all’art. 572 c.p. Una parte della dottrina ritiene giustamente che il terzo non possa essere considerato concorrente nel reato globalmente inteso, ma che ciò sia possibile solo se ha contribuito al compimento di episodi sufficienti ad integrare una nuova serie minima (188). La stessa cosa varrebbe anche per un reato c.d. necessariamente abituale improprio (es. relazione incestuosa di cui all’art. 564, comma 2, c.p.), nel quale la perfezione si ha dopo la reiterazione di un certo numero di fatti già dotati, ma ad altro titolo, di rilevanza penale. In effetti, la circostanza che il terzo partecipante a un solo episodio successivo alla perfezione non possa essere considerato concorrente nell’intero reato costituisce una notevole differenza tra la fase consumativa del reato abituale e quella del reato permanente, in quanto, in tema di reato permanente, è rilevante la partecipazione anche se limitata ad un momento della fase della permanenza. E ciò si spiega considerando che la partecipazione (es. istigazione) ad un singolo fatto omogeneo del reato necessariamente abituale, non solo è atipica rispetto alla fattispecie plurisoggettiva eventuale, ma risulta essere atipica anche rispetto alla fattispecie monosoggettiva, e ciò dipende proprio dal fatto che la fase consumativa del reato abituale è discontinua. Per quanto concerne i rapporti tra reato permanente e reato realizzato con una pluralità di atti tipici, la situazione è meno chiara. Se è vero che anche queste due figure si differenziano per le modalità della protrazione, nel senso che anche il reato realizzato con pluralità di atti tipici, come il reato abituale, si caratterizza per una reiterazione discontinua del fatto, (185) Così PETRONE, voce Reato abituale, cit., p. 194. (186) V. PETRONE, voce Reato abituale, cit., p. 194; FORNASARI, voce Reato abituale, cit., p. 3. (187) Per questa nozione del nesso di abitualità, v., per tutti, PETRONE, voce Reato abituale, cit., p. 193. Per un’ampia ricostruzione delle varie concezioni del requisito dell’abitualità, v. FORNASARI, voce Reato abituale, cit., pp. 1-2. (188) V. PETRONE, voce Reato abituale, cit., p. 206.
— 175 — è anche vero che il confronto tra di esse dimostra come nel reato permanente non sia riscontrabile in modo così effettivo ed inequivocabile quella ininterrotta realizzazione della fattispecie tipica che di tale reato dovrebbe costituire la nota caratterizzante (189). Si pensi all’ipotesi in cui l’atto dovuto è di natura tale che può essere validamente compiuto solo durante l’orario di apertura di un determinato ufficio (es. liberazione del detenuto): dal momento in cui l’ufficio chiude fino a quello nel quale riapre, l’agente si trova nell’impossibilità di compiere l’atto dovuto. D’altra parte, a nostro avviso, restano sempre alcune differenze. In primo luogo, l’unità del reato realizzato con pluralità di atti tipici non dipende da un dato ricavabile dalla fattispecie astratta, ma dall’applicazione di determinati criteri elaborati dalla dottrina per ragioni di giustizia sostanziale (contestualità, bene giuridico, soggetto passivo); al contrario, l’unità del reato permanente dipende dalla suscettibilità del fatto tipico ad essere protratto nel tempo senza soluzione di continuità (quanto meno in modo tendenziale), dato che invece si ricava dalla fattispecie incriminatrice. In secondo luogo, una volta stabilito che il reato è suscettibile di permanenza, è chiaro che l’indagine sull’esistenza degli elementi costitutivi nella fase consumativa si svolgerà all’insegna di un accertamento tipicamente negativo, volto cioè a stabilire se si siano avverate determinate situazioni incompatibili con la persistenza degli elementi costitutivi. Al contrario, quando si tratta di reato realizzato con pluralità di atti tipici, tale indagine dovrà essere condotta in modo — per così dire — positivo, nel senso che si dovrà verificare che in ogni singolo episodio vi sia stata la presenza attuale ed effettiva di tutti gli elementi costitutivi del reato. Concludendo, la continuità, seppur tendenziale, del reato permanente costituisce un ostacolo per la qualifica di reato eventualmente permanente del reato realizzato con pluralità di atti tipici. D’altra parte, anche quest’ultima figura può essere ricondotta nella più ampia categoria del reato di durata, poiché, come il reato abituale, nonostante la discontinuità della protrazione del fatto tipico, si caratterizza per la presenza di una fase consumativa che dà luogo ad un reato unitario. Infine, alcune brevissime considerazioni possono essere svolte con riferimento ai rapporti tra reato abituale e reato realizzato con pluralità di atti tipici. Le differenze tra quest’ultima figura e quella del reato c.d. necessariamente abituale sono evidenti. Pur trattandosi in entrambi i casi di reati realizzati in modo discontinuo, mentre nel primo ogni episodio è tipico, nel secondo invece ogni accadimento non è tipico, ma omogeneo, in quanto tipica è soltanto la serie minima dei singoli fatti omogenei. D’altra parte, se questo è vero per quanto concerne il reato abituale necessariamente proprio, le affinità tra il reato necessariamente abituale improprio e quello unico realizzato attraverso una pluralità di atti tipici sono maggiori, in quanto in entrambe le ipotesi si ha una reiterazione del fatto tipico. La differenza tra queste due figure, pertanto, si coglie nel fatto che l’unitarietà del reato necessariamente abituale improprio (ma del resto anche di quello proprio) dipende dalla formulazione della fattispecie incriminatrice, ovvero dall’esistenza del nesso di abitualità ricavabile dalla fattispecie incriminatrice; al contrario, quella del reato realizzato con pluralità di atti tipici dipende dall’applicazione di determinati criteri elaborati dalla dottrina per ragioni di giustizia sostanziale. Più difficili da cogliere sono, invece, le differenze tra il reato eventualmente abituale ed il reato realizzato con una pluralità di atti tipici. Sul punto si deve notare che entrambe le figure sono state enucleate per evitare l’eccessivo rigore del concorso materiale di reati, nonché il forzato inquadramento degli episodi nello schema del reato continuato. I criteri utilizzati ai fini dell’unificazione, poi, sono in entrambi i casi il frutto della elaborazione dottrinale, in quanto, non essendo riscontrabile un’unificazione legale, solo attraverso un’attività (189) 182.
Sottolinea questo aspetto PROSDOCIMI, Profili penali del postfatto, cit., pp. 179-
— 176 — interpretativa della singola disposizione è possibile ricavare i limiti di rilevanza della ripetizione di atti di per sé tipici. Nonostante queste analogie, le due figure si differenziano, da un lato, sul piano della discontinuità, la quale è maggiore nell’ipotesi del reato eventualmente abituale, minore nell’altra (si tratta, in verità, di una differenza meramente descrittiva); dall’altro, nell’esistenza nella prima figura di un nesso abituale (persistente frequenza del fatto tipico), il quale, a differenza del reato necessariamente abituale, si ricava solo in via interpretativa (ratio della norma, interesse protetto ecc.). Proprio quest’ultimo dato ha indotto una parte della dottrina a respingere quest’ultima categoria, mettendosi in evidenza come, posta la sufficienza di un solo fatto ad integrare la fattispecie tipica, per unificare i vari episodi senza violare il principio di legalità, si dovrebbe rinvenire un’ulteriore tipicizzazione riguardante la condotta reiterata e, quindi, dovrebbe essere la stessa norma a indicare espressamente l’equivalenza, ai fini della tipicità, tra il fatto singolo e il fatto reiterato (190), cosa che, a nostro avviso, è avvenuta per il delitto di usura con l’introduzione dell’art. 644 ter c.p. (191). ROBERTO BARTOLI Dottorando di ricerca nell’Università di Firenze
(190) V. FORNASARI, voce Reato abituale, cit., p. 5. (191) Il reato di usura, infatti, può essere realizzato sia con il compimento di un singolo fatto tipico, sia attraverso la reiterazione di più fatti di per sé tipici, ma che danno luogo ad un unico reato. Da ciò emerge, pertanto, una natura eventualmente abituale della fattispecie in esame, come del resto, a nostro avviso, già avveniva nella precedente disciplina, dovendosi precisare, però, che con l’introduzione dell’art. 644 ter c.p. il legislatore ha inserito un dato normativo dal quale consegue l’equivalenza, ai fini della tipicità, tra il fatto singolo ed il fatto reiterato ovvero dal quale si ricava la tipicizzazione dell’eventuale condotta reiterata, per cui, se prima l’eventuale nesso di abitualità (persistente frequenza del fatto tipico) poteva essere desunto soltanto in via interpretativa, oggi sembra essere posto dalla legge stessa.
RASSEGNE
a) GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE (*) CODICE DI PROCEDURA PENALE
COMPETENZA ART. 11 Competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati (Sentenza 25 luglio 2000, n. 349, in G.U., 28 agosto 2000, n. 329; Non fondatezza) Con la sentenza n. 349 del 2000 la Corte costituzionale dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11 c.p.p., per violazione degli artt. 3, 24, 101 e 107 Cost., nella parte in cui tale disposizione non prevede che, in caso di tardiva conoscenza della qualità di magistrato, l’eccezione di incompetenza possa essere sollevata oltre il termine stabilito dall’art. 21 c.p.p.. Secondo il giudice a quo, quella prevista dall’art. 11 c.p.p. è competenza di natura territoriale, come tale proponibile, a pena di decadenza, prima della conclusione dell’udienza preliminare (art. 21 c.p.p.) e, se respinta, subito dopo aver compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti (art. 491 c.p.p.). Pur rispondendo alla medesima esigenza di garantire l’imparzialità e la terzietà del giudice, si rileva come ben diversa sia, invece, la disciplina dell’istituto della ricusazione (artt. 37 ss. c.p.p.), per il quale è invece espressamente previsto, al comma 2 dell’art. 38 c.p.p., che la dichiarazione di ricusazione del giudice possa essere proposta dopo il termine stabilito per le questioni preliminari (art. 491 c.p.p.). La Corte dichiara infondata la questione, proprio per la diversità che intercorre tra questi due istituti, la cui disciplina non risulta comparabile. Mentre, infatti, l’art. 11 c.p.p. riguarda l’ufficio giudiziario cui è astrattamente attribuita la competenza a conoscere il reato, l’istituto della ricusazione prende in considerazione la persona del giudice che concretamente è investita del giudizio. Dunque, mentre le deroghe alle regole generali sulla competenza per territorio sono valutate in astratto, la ricusazione di un giudice dipende da una valutazione in concreto. I due istituti, pur rispondendo alla medesima funzione, si fondano su criteri diversi. Inoltre, osserva la Corte, lo stabilire dei termini per la proposizione delle eccezioni processuali rientra nella discrezionalità del legislatore, dovendosi bilanciare la garanzia dell’imparzialità del giudice con l’esigenza della speditezza dei processi. (Ordinanza 21 dicembre 2000, n. 570, in G.U., 27 dicembre 2000, n. 53; Manifesta infondatezza) La Corte costituzionale dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 11 c.p.p., per violazione degli artt. 3, 24, 101, 104, 107, primo comma, e 111, Cost., nella parte in cui non si prevede che tale disposizione si applichi anche ai collaboratori di cancelleria, che assumono nel processo la veste di imputato o di parte lesa. In primo luogo, la Corte rileva che le posizioni del magistrato e del collaboratore di (*)
A cura di Marilisa D’Amico.
— 178 — cancelleria sono assolutamente disomogenee, proprio per la posizione, e le garanzie ad essa connesse, che la Costituzione attribuisce al magistrato, diversamente dagli altri soggetti che pur hanno un qualche ruolo nel processo (si pensi, in particolare, alla garanzia dell’inamovibilità ex art. 107 Cost.). Inoltre, la questione proposta ha come presupposto una situazione di fatto assolutamente patologica che, come tale, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, non può essere oggetto di scrutinio di legittimità costituzionale. Qualora si presentino ipotesi di questo tipo, la Corte suggerisce ai magistrati di valutare la possibilità di astenersi dal giudizio, interpretando la locuzione « altre ragioni di convenienza » di cui all’art. 36, comma 1, lett. h c.p.p., come norma di chiusura del sistema che garantisca l’imparzialità del giudice in tutte le ipotesi non tipicamente individuate [cfr. infra sentenza n. 113 del 2000].
RIUNIONE E SEPARAZIONE DEI PROCESSI ART. 17 Riunione dei processi (Ordinanza 27 aprile 2000, n. 124, in G.U., 3 maggio 2000, n. 19; Restituzione degli atti) La Corte costituzionale ordina di restituire gli atti al giudice rimettente per un riesame della rilevanza relativamente alla questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 2, 3, 24, 25, 97 e 112 Cost., dell’art. 17 c.p.p., nella parte in cui non consente al giudice di sospendere il dibattimento ed ordinare al pubblico ministero di esercitare l’azione penale o di richiedere l’archiviazione nel procedimento la cui prova influisce sulla prova del reato da giudicare, e dell’art. 555, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non consente al giudice di dichiarare la nullità del decreto di citazione a giudizio qualora il pubblico ministero abbia omesso di istruire e prendere le proprie determinazioni in ordine alla notizia di reato la cui prova influisce sulla prova del reato per cui è stata esercitata l’azione penale. La richiesta di riesame del requisito della rilevanza è dovuta al fatto che l’art. 341 c.p. (oltraggio a pubblico ufficiale), reato per cui si procede nel giudizio a quo, è stato abrogato dall’art. 18 della legge 25 giugno 1999, n. 205.
PROVVEDIMENTI SULLA GIURISDIZIONE E SULLA COMPETENZA ART. 23 Incompetenza dichiarata nel dibattimento di primo grado (Ordinanza 20 luglio 2000, n. 312, in G.U., 26 luglio 2000, n. 31; Manifesta infondatezza) Il giudice rimettente, presso il Tribunale di Forlì, osserva che, nel corso di un procedimento penale per il delitto di cui all’art. 416-bis, il Tribunale di Bologna, dopo aver disposto il rinvio a giudizio dell’imputato, aveva declinato la propria competenza e trasmesso gli atti al Tribunale di Forlì, e non al pubblico ministero presso questo, ritenendo che, essendo il giudice dell’udienza preliminare del capoluogo del distretto competente (funzionalmente) per i reati di cui all’art. 51, comma 3-bis c.p.p., la fase delle indagini dovesse ritenersi conclusa e gli atti potessero essere rimessi direttamente all’autorità giudicante. La disciplina che viene in rilievo in queste ipotesi è quella dettata dall’art. 23 c.p.p., come modificato dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 70 del 1996 e n. 76 del 1993, in base alle quali tale disposizione è stata ritenuta incostituzionale nella parte in cui dispone che, quando il giudice del dibattimento dichiara con sentenza la propria incompetenza per territorio o per materia, ordina la trasmissione degli atti al giudice competente anziché al pubblico ministero presso quest’ultimo. Il giudice rimettente, applicando questa norma, si trova costretto a dichiarare la nullità del decreto di rinvio a giudizio, già emesso dal Presidente del Tribunale di Forlì, e a trasmettere gli atti alla direzione distrettuale antimafia di Bologna. Egli rileva tuttavia che la
— 179 — regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari risulta, in queste ipotesi, priva di fondamento, ossia irragionevole: chiede, quindi, la declaratoria di illegittimità costituzionale, per violazione degli art. 3 e 112 Cost., dell’art. 23, comma 1, c.p.p., nella parte in cui prevede la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice competente anche nel caso di reati per i quali, ai sensi del citato art. 51, comma 3-bis, la funzione di pubblico ministero è attribuita a quello presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente. La Corte dichiara la manifesta infondatezza della questione così proposta per inconferenza dei parametri invocati, in quanto l’art. 112 Cost. attiene all’obbligatorietà dell’azione penale ed è quindi estraneo ad una questione che attiene ad un momento successivo al suo esercizio. Inoltre, non viene addotta nessuna ragione di ordine costituzionale affinché venga creato un rito differenziato, materia nella quale, tra l’altro, prevale la discrezionalità del legislatore.
INCOMPATIBILITÀ, ASTENSIONE E RICUSAZIONE DEL GIUDICE ART. 34 Incompatibilità dettata da atti compiuti nel procedimento Le decisioni della Corte costituzionale sull’art. 34 c.p.p. possono essere classificate in base di criteri comuni: A) Secondo la Corte, se i fatti per i quali si procede sono diversi da quelli in relazione ai quali è già stata pronunciata sentenza nei confronti del medesimo imputato, la loro cognizione in successivi giudizi da parte del medesimo giudice non comporta alcuna violazione del principio del « giusto processo ». (Ordinanza 10 maggio 2000, n. 132, in G.U., 17 maggio 2000, n. 21; Restituzione degli atti) Relativamente alla questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3, comma 1, e 24, comma 2, Cost, dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio il giudice che abbia già emesso sentenza di condanna per fatti costituenti « parte » e « continuazione » di altri fatti, oggetto di un successivo procedimento, pendente nello stesso grado avanti allo stesso giudice e nei confronti del medesimo imputato, la Corte ritiene opportuno restituire gli atti al giudice a quo per un riesame della rilevanza, a seguito della sentenza di incostituzionalità parziale n. 241 del 1999 [in questa Rivista 2000, 712]. B) La Corte afferma che l’imparzialità del giudice non può ritenersi intaccata da una valutazione, anche di merito, compiuta all’interno della medesima fase del procedimento. (Ordinanza 26 luglio 2000, n. 370, in G.U., 2 agosto 2000, n. 32; Manifesta infondatezza) La Corte dichiara la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità, sollevata in riferimento all’art. 76 Cost., dell’art. 34 c.p.p., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a procedere al giudizio del giudice che, prima dell’apertura del dibattimento, abbia rigettato la domanda di oblazione per la ritenuta gravità del fatto. Analoga questione, in relazione al medesimo parametro, era già stata dichiarata manifestamente infondata con l’ordinanza n. 232 del 1999 [in questa Rivista 2000, 714]. C) La Corte afferma che, se il pregiudizio che si assume lesivo dell’imparzialità del giudice, deriva da attività da questi compiuta al di fuori del giudizio in cui è chiamato a decidere, si verte nell’ambito di applicazione degli istituti dell’astensione e della ricusazione (ad eccezione, ovviamente, delle ipotesi individuate nella sentenza n. 371 del 1996).
— 180 — (Ordinanza 26 luglio 2000, n. 367, in G.U., 2 agosto 2000, n. 32; Restituzione degli atti). Il giudice a quo aveva sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, comma 2, e 101 Cost., la questione di costituzionalità dell’art. 34 c.p.p., nella parte in cui non prevede quale causa di incompatibilità del giudice l’ipotesi in cui « l’illecito da valutare penalmente sia stato oggetto di un precedente giudizio in sede civile da parte del medesimo magistrato ». La Corte, da una parte, osserva che analoga questione è già stata dichiarata manifestamente inammissibile con l’ordinanza n. 431 del 1999 [in questa Rivista 2000, 716], dall’altra, tuttavia, ritiene che la questione sollevata debba essere oggetto da parte del giudice rimettente di un nuovo giudizio sulla rilevanza, suggerendo di applicare al caso concreto l’istituto della ricusazione di cui all’art. 37 c.p.p., come modificato dalla sentenza n. 283 del 2000 [cfr. infra]. D) Secondo la Corte il termine pregiudicante della relazione di incompatibilità deve sostanziarsi in una valutazione non formale, ma di contenuto, sul merito dell’ipotesi di accusa, con esclusione delle determinazioni assunte in ordine allo svolgimento del processo, sia pure a seguito di una valutazione delle risultanze processuali. (Ordinanza 26 luglio 2000, n. 368, in G.U., 2 agosto 2000, n. 32; Manifesta infondatezza) La Corte costituzionale dichiara manifestamente infondata la questione di costituzionalità, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost., dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità alla funzione di giudizio del giudice che, nel corso di un precedente dibattimento riguardante lo stesso fatto a carico dei medesimi imputati, abbia emesso ordinanza con la quale, nel dichiarare la nullità del decreto che ha disposto il giudizio perché emesso da giudice dell’udienza preliminare funzionalmente incompetente, abbia ordinato la trasmissione degli atti alla procura distrettuale antimafia. Il tipo di atto che il giudice a quo ritiene pregiudizievole dell’imparzialità del giudice è infatti meramente processuale. Qualora, tuttavia, si riscontri in esso una valutazione di merito non richiesta da quel tipo di atto, questa dovrà essere accertata in concreto e, qualora ne ricorrano i presupposti, si potrà ricorrere agli istituti dell’astensione o della ricusazione. E) La Corte costituzionale restituisce gli atti ai giudici rimettenti per un nuovo esame della rilevanza della questione a causa di intervenute modifiche normative. (Ordinanza 22 febbraio 2000, n. 65, in G.U., 1 marzo 2000, n. 10; Restituzione degli atti) (Ordinanza 27 aprile 2000, n. 123, in G.U., 3 maggio 2000, n. 19; Restituzione degli atti) Relativamente alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non stabilisce l’incompatibilità alla funzione di giudice dell’udienza preliminare del giudice che, in precedenza, ha esercitato le funzioni di giudice per le indagini preliminari, la Corte dispone la restituzione degli atti al giudice a quo per un riesame della rilevanza alla luce dell’inserimento, all’art. 34 c.p.p., del comma 2-bis, che appunto prevede questa causa di incompatibilità. (Ordinanza 22 giugno 2000, n. 228, in G.U., 28 giugno 2000, n. 27; Restituzione degli atti) Il giudice a quo aveva sollevato, in un primo momento, la questione di costituzionalità dell’art. 247, comma 2-bis del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 (Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado), come modificato dall’art. 3, comma 3, del d.l. 24 maggio 1999, n. 145 (Disposizioni urgenti in materia di istituzione del giudice unico di primo grado), nella parte in cui differisce il termine di acquisto di efficacia dell’art. 34, comma 2-bis, c.p.p., interpolato dall’art. 171 dal medesimo d.lgs. n. 51 del 1998, dal 2 giugno 1999 al 2 gennaio 2000. Successivamente, il medesimo giudice, relativamente ad altro procedimento, ha proposto, sempre per violazione dell’art. 3 Cost., altra questione di costituzionalità dell’art. 247, comma 2-bis, del d.lgs. n. 51 del 1998, « interpolato » dall’art. 3, comma 3, dl. n. 145 del 1999, nonché dall’art. 3-bis del medesimo decreto-legge, quale convertito, con modificazioni, dalla l. 22 luglio 1999, n. 234, nella parte in cui tali norme di-
— 181 — spongono che, fino al 2 gennaio 2000, l’art. 34, comma 2-bis, c.p.p. non si applica ai procedimenti nei quali l’udienza preliminare è in corso alla data di entrata in vigore della richiamata legge n. 234 di conversione del decreto-legge n. 145 del 2000. Il giudice rimettente, con la seconda ordinanza, corregge dunque la questione di costituzionalità proposta alla luce delle modifiche normative intervenute in sede di conversione del decreto legge. La Corte, tuttavia, ritiene che il fatto di poter applicare l’art. 34, comma 2-bis, c.p.p. anche ai casi in cui l’udienza preliminare è in corso, impone la restituzione degli atti al giudice a quo perché si proceda ad un nuovo esame della rilevanza della questione, poiché i giudizi principali da cui aveva avuto origine la questione erano appunto « in corso ». ART. 36 Astensione (Sentenza 20 aprile 2000, n. 113, in G.U., 26 aprile 2000, n. 18; Incostituzionalità « nei sensi di cui in motivazione ») Il giudice a quo solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 36 c.p.p., per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede, fra le cause di astensione, l’avere il giudice precedentemente pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, ai sensi dell’art. 444 c.p.p., nei confronti di uno o più imputati. Richiamando la giurisprudenza della Corte che, per i casi di incompatibilità del giudice dettati da atti compiuti in procedimenti diversi, invita, pur con le eccezioni individuate nelle sentenze n. 371 del 1996 e n. 241 del 1999 (in questa Rivista 2000, 712), a ricorrere agli istituti dell’astensione e della ricusazione, il giudice rimettente osserva che, in realtà, l’art. 36 non lo consente, poiché le « ragioni di convenienza » di cui al comma 1, lett. h), dell’art. 36 c.p.p. sono esclusivamente extra-processuali, ossia si riferiscono a situazioni che investono il giudice uti privatus. La Corte risponde con una sentenza interpretativa di rigetto. Tra più interpretazioni possibili dell’art. 36, comma 1, lett. h), c.p.p., deve essere preferita dal giudice quella che consente di interpretare la disposizione denunciata in modo conforme a Costituzione: ciò è possibile se, alla luce del principio costituzionale del « giusto processo », si respinge l’interpretazione restrittiva data alla locuzione « gravi ragioni di convenienza », prospettata dal giudice a quo, a vantaggio di una lettura dell’art. 36, comma 1, lett. h), c.p.p., che permette di farvi rientrare anche situazioni di origine processuale. È vero, infatti, che il termine « convenienza » sembra alludere a regole di comportamento sociale, ma l’aggettivo « altre » consente di comparare queste « ragioni » con quelle individuate nelle precedenti lettere dell’art. 36 c.p.p., che prevedono invece motivi di astensione derivanti da situazioni diverse da quelle causate da vicende private del giudice. Così interpretata, la locuzione di cui all’art. 36, comma 1, lett. h), c.p.p., consente al giudice di astenersi qualora ritenga che l’attività processuale esercitata abbia minato la sua imparzialità. Infine, dopo aver interpretato in modo conforme a Costituzione la disposizione impugnata, la Corte chiarisce che quanto detto non significa che sussista un generalizzato obbligo di astensione per il giudice che, in caso di concorso di persone nel reato, ha pronunciato sentenza nei confronti di alcuni concorrenti. Bisognerà valutare, caso per caso, se la decisione presa ha causato un pregiudizio all’imparzialità del giudice. (Ordinanza 6 luglio 2000, n. 256, in G.U., 12 luglio 2000, n. 29; Restituzione degli atti) L’ordinanza risolve la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 3, 24, 25, Cost, dell’art. 36, comma 1, lett. g), e 3, c.p.p., in quanto, in caso di dichiarazione di astensione, consente la valutazione discrezionale del Presidente del Tribunale, della Corte d’Appello o della Cassazione anche nei casi di incompatibilità ex art. 34 c.p.p. di natura oggettiva che non dipendono, anche solo parzialmente, da valutazioni discrezionali del contenuto degli atti emanati. Al giudice rimettente, che aveva già svolto le funzioni di giudice per le indagini preliminari, era stato infatti richiesto di emettere decreto penale di
— 182 — condanna nei confronti dei medesimi imputati. Rilevando una situazione di incompatibilità, il giudice aveva chiesto al Presidente del Tribunale dichiarazione di astensione a norma del combinato disposto degli artt. 36, comma 1, lett. g). e 34 c.p.p. A fronte di un rifiuto in tal senso, il giudice sollevava la questione di legittimità costituzionale di cui sopra. La Corte, tuttavia, ordina la restituzione degli atti per un riesame sulla rilevanza, poiché, in data successiva all’ordinanza di rimessione, è stato inserito, all’art. 34 c.p.p., il comma 2-bis che prevede in via generale che non possa emettere decreto penale di condanna, né tenere l’udienza preliminare il giudice che nel medesimo procedimento ha esercitato le funzioni di giudice per le indagini preliminari. ART. 37 Ricusazione (Sentenza 14 luglio 2000, n. 283, in G.U., 19 luglio 2000, n. 30; Illegittimità costituzionale « in parte qua ») Con la sentenza n. 283 del 2000, la Corte accoglie la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 37, comma 1, c.p.p., nella parte in cui non prevede come causa di ricusazione il fatto che il giudice abbia già manifestato il proprio parere sull’oggetto del processo nell’esercizio delle funzioni giudiziarie nel corso di un diverso procedimento. I giudici rimettenti rilevano come essi fossero stati investiti della funzione di giudizio, nonostante, in relazione ai medesimi fatti, essi avessero già partecipato al procedimento di prevenzione. Respinta la loro dichiarazione di astensione (che oggi, a seguito della sentenza n. 113 del 2000, supra, probabilmente sarebbe stata invece accolta), a fronte di una istanza di ricusazione presentata dagli imputati, sollevano la questione di costituzionalità in quanto l’art. 37 c.p.p. non consente il suo accoglimento, con ciò violando il principio del « giusto processo », sotto il profilo dell’imparzialità del giudice, il diritto di difesa e il principio di uguaglianza tra gli imputati stessi. La Corte costituzionale accoglie la questione proposta, dichiarando, con una sentenza di accoglimento parziale, l’incostituzionalità della norma nella parte in cui non riconosce alle parti la facoltà di ricusare il giudice che in un diverso procedimento, anche non penale, abbia espresso una valutazione di merito sullo stesso fatto e nei confronti del medesimo soggetto. Nella motivazione, si ribadisce, in primo luogo, che qualificare una situazione come causa di incompatibilità ovvero di astensione e di ricusazione dipende dalla possibilità di valutarne preventivamente in astratto l’effetto pregiudicante per l’imparzialità del giudice. Di conseguenza, e in linea generale, le situazioni pregiudizievoli per l’imparzialità riconducibili all’art. 34 c.p.p. operano all’interno del medesimo procedimento, mentre gli istituti della ricusazione e della astensione si riferiscono a situazioni che preesistono al procedimento (art. 36, comma 1, lett. b), d) e f), c.p.p.) oppure si collocano fuori di esso (art. 36, comma 1, lett. c) c.p.p.). Lo stesso deve dirsi per l’ipotesi di cui all’art. 37, comma 1, lett. b), c.p.p. Relativamente al caso verificatosi nei giudizi a quo, tuttavia, nessuna delle citate ipotesi legislative consente di ricusare il giudice, né, in particolare, la lett. c) dell’art. 36, comma 1, c.p.p. (richiamata dall’art. 37, comma 1, lett. a), c.p.p.), in quanto « relativa a consigli e pareri sull’oggetto del procedimento espressi fuori dall’esercizio delle funzioni giudiziarie », né la lett. b) dell’art. 37, comma 1, c.p.p., in quanto « presuppone una manifestazione del convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione espressa indebitamente nell’esercizio delle funzioni giudiziarie ». Potrebbe forse consentire la ricusazione del giudice l’ipotesi prevista dall’art. 36, comma 1, lett. h), c.p.p., come interpretata dalla sentenza della Corte n. 113 del 2000 (cfr. supra), se questa non fosse l’unica lettera non richiamata dall’art. 37 c.p.p. La decisione adottata risulta dunque obbligata. Si precisano, tuttavia, le condizioni per l’operatività della nuova causa di ricusazione individuata nella sentenza: 1) non è sufficiente che il giudice abbia precedentemente conosciuto i fatti di causa o raccolto prove;
— 183 — 2) non è sufficiente che il giudice si sia espresso incidentalmente ed occasionalmente su particolari aspetti della vicenda processuale sottoposta al suo giudizio; 3) l’effetto pregiudicante non può essere limitato al caso in cui la valutazione di merito è stata espressa in una sentenza; 4) la funzione pregiudicata deve essere individuata in una decisione attinente alla responsabilità penale, poiché il giudice nei cui confronti viene rivolta l’istanza di ricusazione deve essere quello che deve esprimere una valutazione di merito collegata alla decisione finale.
ATTI E PROVVEDIMENTI DEL GIUDICE ART. 127 Procedimento in camera di consiglio (Ordinanza 20 dicembre 2000, n. 558, in G.U., 27 dicembre 2000, n. 53; Manifesta infondatezza) La Corte costituzionale dichiara manifestamente infondata per errata premessa interpretativa la questione di legittimità costituzionale — sollevata in riferimento agli artt. 24, comma 2, e 76, Cost. — dell’art. 127 c.p.p., nella parte in cui non prevede l’obbligo di depositare il fascicolo delle indagini preliminari nella cancelleria del giudice per le indagini preliminari e la facoltà dell’imputato di estrarne copia. La Corte rileva come il giudice muova da una interpretazione della norma impugnata che non trova riscontro nel diritto vivente. La Corte di cassazione ritiene, infatti, che il sistema delineato dall’art. 127 c.p.p. comporti implicitamente l’obbligo di depositare gli atti trasmessi dal pubblico ministero al giudice ai fini della decisione da assumere in camera di consiglio e la connessa facoltà per il difensore dell’imputato di prenderne visione.
NOTIFICAZIONI ART. 157 Prima notificazione all’imputato non detenuto (Ordinanza 20 aprile 2000, n. 111, in G.U., 26 aprile 2000, n. 18; Manifesta infondatezza) La questione di legittimità costituzionale ha ad oggetto, per presunta violazione degli artt. 3 e 24 Cost., l’art. 157, comma 8, c.p.p., nella parte in cui, secondo l’interpretazione che ne dà lo stesso rimettente, imporrebbe — in caso di mancato recapito della raccomandata spedita dall’ufficiale giudiziario per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone abilitate alla ricezione — la restituzione del piego al mittente trascorsi dieci giorni dalla data del deposito della raccomandata stessa presso l’ufficio postale. Secondo il giudice a quo, anche nel caso di comunicazione a mezzo di raccomandata, dovrebbe trovare applicazione la disciplina prevista per le notificazioni a mezzo posta, ossia l’art. 8, comma 3, della l. 20 novembre 1982, n. 890 (« Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari »), come modificata dalla Corte costituzionale con la sentenza 23 settembre 1998, n. 346, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di tale disposizione, nella parte in cui prevede che il piego sia restituito al mittente, in caso di mancato ritiro da parte del destinatario, dopo dieci giorni dal deposito presso l’ufficio postale. La Corte costituzionale dichiara manifestamente infondata la questione proposta per errata premessa interpretativa, ben potendo il giudice applicare l’art. 8, comma 3, cit., come modificato dalla sentenza n. 346 del 1998 anche ai casi di notificazione ex art. 157, comma 8, c.p.p.
— 184 — ART. 171 Nullità delle notificazioni (Ordinanza 10 maggio 2000, n. 135, in G.U., 17 maggio 2000, n. 21; Manifesta infondatezza) La questione di legittimità costituzionale proposta, per violazione dell’art. 3 Cost., ha ad oggetto l’art. 171 c.p.p., nella parte in cui non prevede come causa di nullità della notificazione la mancata osservanza della disposizione dettata dall’art. 157, comma 7, c.p.p., il quale, a sua volta, stabilisce che, ove manchi il destinatario della notifica e non siano reperite persone idonee a ricevere la copia dell’atto, l’ufficiale deve tornare nuovamente nei luoghi indicati nei commi 1 e 2 dello stesso articolo e procedere ad una rinnovata ricerca dell’imputato. La Corte ne dichiara la manifesta infondatezza in base a tre argomentazioni. In primo luogo, respinge l’assunto del giudice a quo, in base al quale l’adempimento delle formalità prescritte risulterebbe rimesso all’arbitrio dell’ufficiale giudiziario, in quanto esso costituisce un obbligo giuridico, la cui inadempienza lo può esporre a sanzioni disciplinari e penali, ex art. 328 c.p. Secondariamente, afferma che non ogni irregolarità processuale deve condurre alla sanzione della nullità, tanto più che la legge delega al codice di procedura penale prescrive la semplificazione delle forme. Infine, la Corte ricorda che, oltre al sistema del c.d. « doppio accesso », il codice predispone la garanzia del deposito dell’atto presso la Casa comunale, con affissione del relativo avviso alla porta della casa di abitazione, e dell’ulteriore comunicazione dell’avvenuto deposito a mezzo di lettera raccomandata con avviso di riconoscimento, nonché la possibilità, per il giudice, di disporre la rinnovazione della citazione ex art. 485 c.p.p.
MEZZI DI PROVA ART. 197 Incompatibilità con l’ufficio di testimone (Sentenza 17 luglio 2000, n. 294, in G.U., 26 aprile 2000, n. 31; Non fondatezza) La Corte costituzionale dichiara l’infondatezza per errata premessa interpretativa della questione di legittimità costituzionale degli artt. 197, lett. b), 210, comma 6, e 192, comma 4, c.p.p., nella parte in cui estendono la disciplina ivi prevista anche alle ipotesi in cui il reato collegato a quello per cui si procede sia il reato di calunnia susseguente a denuncia dell’originario denunciato. Secondo il giudice a quo dovrebbe distinguersi il caso in cui il collegamento probatorio nasca dall’apertura in capo al dichiarante di un procedimento sorto a seguito di « controdenuncia » per calunnia nei suoi confronti, dall’ipotesi in cui il collegamento probatorio nasca dalla sottoposizione del dichiarante a procedimento per qualsiasi reato. La Corte risponde con una pronuncia di infondatezza, sottolineando come il giudice rimettente abbia erroneamente interpretato le norme oggetto, trasferendo le conclusioni cui la Corte stessa era giunta, nella sentenza n. 108 del 1992, in relazione all’ipotesi di cui alla lett. a) dell’art. 197 c.p.p., alla diversa ipotesi di cui alla lett. b) della medesima disposizione. Solamente per l’ipotesi di cui alla lett. a) dell’art. 197 c.p.p., relativa all’incompatibilità con l’ufficio di testimone dei coimputati del medesimo reato o delle persone imputate in un procedimento connesso ex art. 12 c.p.p., si prevede, infatti, una « durata » di tale incompatibilità che si prolunga oltre la chiusura del relativo procedimento (nella sentenza n. 108 del 1992 la Corte aveva poi esteso, in via interpretativa, l’incompatibilità con l’ufficio di testimone alla persona sottoposta ad indagini preliminari nei cui confronti era stato pronunciato decreto di archiviazione). Nessuna « durata », invece, è prevista per l’ipotesi di cui alla lett. b), dell’art. 197 c.p.p., relativo all’incompatibilità con l’ufficio di testimone per gli imputati di reati collegati ai sensi dell’art. 371, comma 2, lett. Di conseguenza, in queste ipotesi, e
— 185 — quindi anche nel caso che si è verificato nel processo a quo, l’incapacità di testimoniare cessa con la chiusura del procedimento.
MEZZI DI RICERCA DELLA PROVA ART. 256 Dovere di esibizione e segreti (Ordinanza 24 luglio 2000, n. 344, in G.U., 2 agosto 2000, n. 32; Manifesta inammissibilità) Questa decisione costituisce l’ultimo atto dello scontro tra il Tribunale di Bologna e il Presidente del Consiglio dei ministri in relazione all’opposizione del segreto di Stato su alcuni atti di indagine. La questione era stata già posta all’attenzione della Corte costituzionale. Con la sentenza n. 410 del 1998, infatti, era stato accolto il ricorso per conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato proposto dal Presidente del Consiglio dei Ministri contro la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, in merito all’attività istruttoria diretta ad acquisire elementi di prova coperti dal segreto di Stato. La Corte aveva annullato gli atti di indagine compiuti e la richiesta di rinvio a giudizio che si fondava su tali atti. Con la sentenza n. 410 del 1998, la Corte era tornata sulla vicenda, ancora una volta a seguito di ricorso da parte del Presidente del Consiglio, annullando una nuova richiesta di rinvio a giudizio. Con l’ordinanza in oggetto la Corte viene chiamata dal giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Bologna a decidere della legittimità costituzionale dell’art. 256 c.p.p., per contrasto con gli artt. 3, comma 1, 101, comma 2, e 112 Cost., « nella parte in cui consente di opporre il segreto di Stato anche in relazione ad atti privi del connotato della segretezza in quanto già contenuti ed acquisiti al fascicolo processuale, o comunque ad atti che, venendo contestualmente trasmessi all’autorità giudiziaria, perdono le loro caratteristiche di segretezza, ovvero laddove non prevede che il segreto in precedenza ritualmente e correttamente opposto diventi inefficace nel caso in cui l’atto da esso coperto abbia perso il suo carattere di segretezza ». La Corte dichiara la manifesta inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, dato che la dichiarazione di inutilizzabilità degli atti cui il giudice rimettente si riferisce è già stata dichiarata con la sentenza n. 410 del 1998, tra l’altro inoppugnabile ex art. 137 Cost. Non vi è quindi spazio alcuno per l’applicazione dell’art. 256 c.p.p., né, quindi, per un dubbio di costituzionalità sullo stesso. ART. 271 Divieti di utilizzazione (Ordinanza 19 luglio 2000, n. 304, in G.U., 26 luglio 2000, n. 31; Manifesta infondatezza Manifesta inammissibilità) Con l’ordinanza n. 304 del 2000 la Corte decide due questioni di legittimità costituzionale. La prima ha ad oggetto l’art. 271, comma 1, c.p.p., in relazione all’art. 3 Cost., nella parte in cui tale disposizione commina la sanzione di inutilizzabilità per le intercettazioni eseguite presso un impianto di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria senza l’osservanza del disposto dell’art. 268, comma 3, ultimo inciso, c.p.p. La Corte costituzionale afferma che questa disposizione non è affatto irragionevole, essendo volta ad evitare che possano essere disposte intercettazioni telefoniche al di fuori del controllo della polizia giudiziaria, avuto riguardo al rango costituzionale della libertà e segretezza delle comunicazioni. La seconda censura di incostituzionalità ha, invece, ad oggetto l’art. 266, comma 2,
— 186 — c.p.p., nella parte in cui consente le intercettazioni di comunicazioni tra presenti all’interno di un domicilio, per violazione dell’art. 14 Cost., poiché tali intercettazioni implicano « la preventiva clandestina intrusione nel domicilio stesso degli agenti operanti per la collocazione di microspie e⁄o comunque di apparati di captazione e⁄o di trasmissione di suoni e⁄o immagini ». Tale questione viene dichiarata inammissibile, poiché l’art. 266, comma 2, c.p.p. non prevede le modalità che devono essere seguite per questo tipo di intercettazioni, che, tra l’altro, possono anche non implicare una violazione della libertà di domicilio. Di conseguenza, spetta al giudice verificare nel caso concreto (che, per altro, nell’ordinanza non viene raccontato) se le operazioni di intercettazione sono viziate di illegittimità e trarne le dovute conseguenze.
MISURE CAUTELARI PERSONALI
b) Misure interdittive ART. 289 Sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio (Ordinanza 22 giugno, n. 229, in G.U., 28 giugno 2000, n. 27; Manifesta infondatezza) La questione di legittimità costituzionale decisa con questa ordinanza aveva ad oggetto l’art. 289 c.p.p., nella parte in cui impone al giudice per le indagini preliminari di procedere all’interrogatorio dell’indagato prima di decidere sulla richiesta del pubblico ministero di sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio. Secondo il giudice rimettente tale norma sarebbe in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., poiché l’anticipazione del contraddittorio è previsto solo per questa misura cautelare e solo per questa categoria di indagati. La Corte dichiara la manifesta infondatezza della questione prospetta, non condividendo affatto l’impostazione del giudice a quo, secondo il quale questa disposizione costituisce un « privilegio ». Piuttosto, la ratio di questa disciplina viene individuata « nell’esigenza di verificare anticipatamente che la misura della sospensione dall’ufficio o dal servizio non rechi, senza effettiva necessità, pregiudizio alla continuità della pubblica funzione o del servizio pubblico ».
c) Forma ed esecuzione dei provvedimenti ART. 294 Interrogatorio della persona sottoposta a misura cautelare personale (Ordinanza 27 aprile 2000, n. 125, in G.U., 3 maggio 2000, n. 19; Restituzione degli atti) La questione di legittimità costituzionale proposta aveva ad oggetto l’art. 294 c.p.p., nella parte in cui non prevede l’obbligo del giudice di procedere tempestivamente all’interrogatorio della persona sottoposta a misura cautelare in carcere dopo la trasmissione degli atti al giudice del dibattimento, per violazione degli artt. 3, comma 1, 13, commi 1 e 2, 24, comma 2, Cost. La Corte ordina la restituzione degli atti al giudice a quo per un riesame sulla rilevanza, a seguito della sentenza n. 32 del 1999, con cui la Corte ha accolto identica questione, e del decreto legge 22 febbraio 1999, n. 29, che ha recepito le indicazioni in essa contenute [in questa Rivista 2000, 723].
— 187 — d) Estinzione delle misure ART. 303 Termini di durata massima della custodia cautelare (Ordinanza 19 giugno 2000, n. 214, in G.U., 28 giugno 2000, n. 27; Manifesta infondatezza) La Corte decide la questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., dell’art. 303, comma 4, c.p.p., nella parte in cui non prevede che, oltre al superamento complessivo della durata massima della custodia cautelare, possa essere causa di scarcerazione anche il superamento del doppio del termine di fase, allorché si verifichi la situazione descritta dal comma 2 dello stesso art. 303, e cioè nel caso in cui, a seguito dell’annullamento con rinvio da parte della Corte di cassazione o per altra causa, il procedimento regredisca a una fase o a un grado di giudizio diversi ovvero sia rinviato ad altro giudice. Il giudice rimettente afferma apertamente di non condividere la soluzione interpretativa adottata dalla Corte con la sentenza n. 292 del 1998. L’interpretazione di questa norma è ancora oggetto di contrasti. Eppure, come già nell’ordinanza n. 429 del 1999 (in questa Rivista 2000, 726), di fronte della « ribellione » dei giudici, la Corte risponde nel senso della manifesta infondatezza, ribadendo come l’avverbio « comunque », nell’art. 304, comma 6, c.p.p, imponga di far perdere efficacia alla misura cautelare quando la sua durata ha superato un periodo pari al doppio del termine stabilito per la fase presa in considerazione, anche se quel termine è stato sospeso, prorogato o è cominciato a decorrere nuovamente a seguito della regressione del processo. ART. 304 Sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare (Ordinanza 28 luglio 2000, 397, in G.U., 2 agosto 2000, n. 32; Manifesta infondatezza) Il giudice a quo aveva sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 23 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 304, comma 6, c.p.p., nella parte in cui non prevede che la durata massima della custodia cautelare non possa comunque superare i due terzi della pena concretamente irrogata, allorché questa non risulti più modificabile in peius. Il dubbio di costituzionalità era stato prospettato dal difensore dell’imputato che aveva presentato un’istanza di scarcerazione del proprio assistito, poiché questi aveva già sofferto un periodo di custodia di durata superiore ai due terzi della pena concretamente inflittagli dalla Corte d’appello, pena che, in assenza di ricorso del p.m., non era più modificabile in peius. Per rispondere alla questione proposta, la Corte ripercorre sinteticamente le linee essenziali della disciplina dei termini della custodia cautelare, osservando come questa si fondi sulla distinzione tra termini di fase, termini complessivi e termini finali. Il rispetto della prescrizione di cui all’art. 13, comma 5, Cost. è garantito dalla previsione dei termini di fase, quelli, cioè, commisurati a ciascuna fase o grado del procedimento, e da quelli complessivi, ossia quelli riferiti a tutte le fasi e i gradi cumulativamente considerati. L’introduzione, in casi specifici, di meccanismi di « sfondamento » di questi termini ha indotto il legislatore a prevedere anche ulteriori termini finali « residuali », in ogni caso insuperabili. Si tratta appunto dei termini massimi di cui all’art. 304, comma 6, c.p.p. Alla luce di tale impianto normativo, la Corte esclude di poter accogliere l’intervento « manipolativo » richiesto dal giudice a quo, poiché questo comporterebbe un correttivo verso il basso dei termini di fase e di quelli complessivi e, di conseguenza, i termini previsti dall’art. 304, comma 6, c.p.p. non sarebbero più, come li definisce la Corte stessa, il « massimo dei massimi ». (Ordinanza 22 novembre 2000, n. 529, in G.U., 29 novembre 2000, n. 49; Manifesta infondatezza) Pur risolvendo una diversa questione di costituzionalità, la Corte conferma, con questa decisione, quanto ribadito, in linea di principio, nelle ordinanze che precedono.
— 188 — Il giudice a quo denuncia, per violazione dell’art. 3 Cost., l’illegittimità dell’art. 304, comma 6, c.p.p., « nella parte in cui prevede che il limite del doppio dei termini previsti dall’art. 303, comma 1, c.p.p. sia parimenti applicabile all’ipotesi di regresso del procedimento di cui all’art. 303, comma 2, c.p.p., oltre che all’ipotesi di evasione dell’interessato di cui all’art. 303, comma 3, c.p.p., con conseguente irragionevole equiparazione di situazioni tra loro sostanzialmente eterogenee ». Inoltre, sempre secondo il giudice a quo, sarebbe irragionevole l’intero sistema, poiché questa disciplina avrebbe un limitatissimo ambito di applicazione: prima dello spirare del termine massimo verrebbe sempre raggiunto il termine di fase. La Corte dichiara la manifesta infondatezza della questione per erronea premessa interpretativa. Il giudice a quo muove, infatti, dal presupposto che la disposizione denunciata si riferisca esclusivamente ai termini di custodia cautelare relativi ad una stessa fase. I dubbi prospettati, invece, vengono meno se — come già la Corte aveva implicitamente presupposto nella sentenza n. 292 del 1998 — si considera che l’art. 304, comma 6, c.p.p. non si riferisce esclusivamente a periodi di custodia cautelare tra loro omogenei, relativi cioè ad una stessa fase. Al contrario, ai fini del calcolo dei termini massimi di cui all’art. 304, comma 6, c.p.p., devono essere considerati i periodi di custodia cautelare subiti dall’imputato in tutte le fasi. Ancora una volta, si ribadisce che, proprio in attuazione dell’art. 13 Cost., i termini di cui all’art. 304, comma 6, c.p.p. hanno carattere assoluto, nel senso che costituiscono uno sbarramento finale insuperabile, indipendentemente dalle proroghe e dalle sospensioni di tali termini e indipendentemente dalle fasi cui sono imputabili i periodi di custodia cautelare subiti. Se così interpretato, non solo non può affatto essere considerato irragionevole il sistema complessivo delineato dall’art. 304, comma 6, c.p.p., ma, anche relativamente alla presunta diseguaglianza tra regresso del procedimento ed evasione, è ragionevole che il termine ultimo non differenzi tra loro le diverse ipotesi. e) Impugnazioni ART. 309 Riesame delle ordinanze che dispongono una misura coercitiva (Ordinanza 2 marzo 2000, n. 69, in G.U., 8 marzo 2000, n. 11; Manifesta infondatezza) La questione di legittimità costituzionale decisa con questa ordinanza ha ad oggetto l’art. 309, commi 5 e 10, c.p.p., nella parte in cui non prevede con carattere di perentorietà il termine entro il quale deve essere rivolta la richiesta degli atti ex art. 291 c.p.p. all’autorità giudiziaria procedente e nella parte in cui, all’inosservanza di tale termine, non ricollega esplicitamente alcuna sanzione, per violazione degli artt. 3, 13 e 24, comma 2, Cost. La questione così proposta si fonda sulla controversia interpretativa sul dies a quo da cui decorre il termine in oggetto e sulla natura perentoria dello stesso. Il giudice a quo contesta, infatti, la soluzione interpretativa condivisa dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 232 del 1998 e, successivamente, dalla Corte di cassazione a sezioni unite, con la sentenza 18 gennaio 1999, n. 25 (che, tuttavia, è posteriore rispetto alle ordinanze di rimessione). Come già nelle sentenze nn. 269 e 445 del 1999 [in questa Rivista 1999, 726], la Corte dichiara, dunque, la manifesta infondatezza della questione proposta, ribadendo che il termine di cinque giorni entro il quale l’autorità procedente deve trasmettere, a pena di inefficacia della misura, gli atti previsti dal comma 5 dell’art. 309 c.p.p. al tribunale delle libertà decorre dal giorno della presentazione della richiesta di riesame. FRANCESCA BIONDI Dottoranda di ricerca in Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Ferrara
GIURISPRUDENZA
a) Corte Europea dei diritto dell’uomo
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO Durata della custodia cautelare - Applicazione misure di sicurezza dopo una sentenza di assoluzione. Nella causa Labita contro Italia, La Corte europea dei diritti dell’Uomo, riunita in Grande Camera composta dai seguenti giudici: L. Wildhaber, presidente, E. Palm, Pastor Ridruejo, L. Ferrari Bravo, G. Bonello, J. Makarczyk, P. Kuris, J.P. Costa, F. Tulkens, V. Straznicka, V. Butkevych, J. Casadevall, B. Zupancic, H.S. Greve, A.B. Baka, R. Maruste, S. Botoucharova, e da P.J. Mahoney, vice cancelliere, Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 29 settembre 1999 e il 1o marzo 2000: Ha emesso la seguente sentenza, adottata il 1o marzo 2000: PROCEDURA. — 1. La causa è stata deferita alla Corte conformemente alle disposizioni che si applicavano prima dell’entrata in vigore del Protocollo n. 11 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (‘‘la Convenzione’’) (1), dalla Commissione europea dei diritti dell’Uomo (‘‘la Commissione’’) e dal Governo italiano (‘‘il Governo’’) rispettivamente l’8 marzo 1999 e il 31 marzo 1999 (art. 5 par. 4 del Protocollo n. 11 e artt. 47 e 48 della Convenzione). 2. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 26772/95) presentato contro la Repubblica italiana, con cui un cittadino di questo Stato, il sig. Benedetto Labita (‘‘il ricorrente’’), il 10 aprile 1994 aveva adito la Commissione ai sensi dell’art. 25 della Convenzione. Il ricorrente adduceva una violazione degli artt. 3, 5, 6 e 8 della Convenzione, art. 2 del Protocollo n. 4 e art. 3 del Protocollo n. 1 alla Convenzione. 3. Il 20 ottobre 1997, la Commissione ha dichiarato il ricorso parzialmente ammissibile. Nel suo rapporto del 29 ottobre 1998 (art. 31 della Convenzione), la stessa ha ritenuto che vi era stata una violazione dell’art. 3 della Convenzione (unanimità), dell’art. 5 par. 3 della Convenzione (unanimità), dell’art. 5 par. 1 della Convenzione (unanimità), dell’art. 8 della Convenzione, dato che nessuna questione separata era stata posta relativamente all’art. 6 par. 3 della Convenzione (1)
Nota della Cancelleria: il protocollo n. 11 è entrato in vigore il 1o novembre 1998.
— 190 — (unanimità), dell’art. 2 del Protocollo n. 4 (ventuno voti contro sette) e all’art. 3 del Protocollo n. 1 (ventitre voti contro cinque). 4. Il 31 marzo 1999, il collegio della Grande Camera ha deciso che la causa doveva essere esaminata dalla Grande Camera (art. 100 par. 1 del regolamento della Corte). In sostituzione di B. Conforti, giudice eletto per l’Italia, che aveva preso parte all’esame della causa in seno alla Commissione (art. 28), il Governo ha designato L. Ferrari Bravo, giudice eletto per la Repubblica di San Marino (artt. 27 par. 2 della Convenzione e 29 par. 1 del regolamento). Il ricorrente e il Governo hanno depositato una memoria. 6. Il 29 settembre 1999, presso il Palazzo dei diritti dell’uomo a Strasburgo, è stata tenuta un’udienza pubblica. Sono comparsi: — per il Governo: V. Esposito, magistrato distaccato al servizio del contenzioso diplomatico del Ministero degli affari esteri, coagente; — per il ricorrente: V. Di Graziano, avvocato del foro di Trapani, difensore. 7. Il presidente della Corte ha autorizzato l’avvocato del ricorrente ad utilizzare la lingua italiana (art. 34 par. 3 del regolamento). 8. 9. menti.
La Corte ha sentito le dichiarazioni di Di Graziano e di Esposito. Il ricorrente e il Governo, di loro iniziativa, hanno prodotto vari docu-
IN FATTO. — I. Circostanze del caso. — A) La detenzione del ricorrente e lo svolgimento del procedimento a suo carico. 10. Il 21 aprile 1992, il ricorrente è stato arrestato in esecuzione di un mandato di arresto del Tribunale di Trapani spiccato il 18 aprile 1992 nell’ambito di un’inchiesta riguardante quarantasei persone. Il suddetto era sospettato di appartenere all’organizzazione mafiosa di Alcamo e di dirigere una società finanziaria per conto del cognato, presunto capomafia del principale clan mafioso locale (art. 416-bis del codice penale (‘‘c.p.’’), integrante il reato di associazione di tipo mafioso). Le accuse a carico del ricorrente si basavano sulle dichiarazioni indirette di un certo B.F., anche lui accusato di associazione di tipo mafioso ma che aveva deciso di collaborare con la giustizia (pentito). B.F. era venuto a conoscenza dei fatti relativi al ricorrente tramite un certo G.D. che era stato assassinato dalla mafia il 25 ottobre 1989. A sua volta G.D. aveva saputo di tali fatti da un certo F.M. anche lui assassinato dalla mafia. 11. Il ricorrente è stato incarcerato inizialmente nel carcere di Palermo dove è stato tenuto in isolamento per trentacinque giorni. 12. Una prima richiesta di scarcerazione presentata da lui è stata rigettata dal Tribunale di Trapani il 6 maggio 1992. Il Tribunale ha ritenuto in particolare che, malgrado l’assenza di qualsiasi informazione o elemento di prova oggettivo sul ruolo e sull’attività svolte concretamente dal ricorrente, le dichiarazioni rilasciate da B.F. sull’appartenenza del suddetto alla mafia potevano costituire un indizio sufficiente per giustificare la sua detenzione, tenuto conto dell’attendibilità e affidabilità delle varie dichiarazioni di
— 191 — B.F. riguardo ad altre persone o episodi connessi all’organizzazione criminale sopracitata (criterio dell’‘‘attendibilità complessiva’’). Inoltre B.F. aveva riconosciuto il ricorrente su una foto e aveva fornito delle indicazioni sul suo ruolo preciso nell’ambito dell’associazione mafiosa: lo stesso aveva precisato che il ricorrente, che era il cognato del capo di una delle famiglie mafiose di Alcamo, dirigeva unna società finanziaria ed era comproprietario di una società che gestiva una discoteca in associazione con un’altra persona che B.F. aveva, in precedenza, indicato appartenere alla mafia. Peraltro, la detenzione del ricorrente era giustificata altresì, secondo il Tribunale, dalla necessità di salvaguardare le prove raccolte, tali prove erano costituite soprattutto da testimonianze verbali, che potevano quindi essere distrutte facendo pressione sui testimoni. 13. Il 20 luglio 1992, il ricorrente è stato trasferito con altri cinquantaquattro presunti mafiosi nel carcere dell’isola di Pianosa. 14. In data imprecisata, il ricorrente ha proposto ricorso per cassazione avverso la decisione del 6 maggio 1992. Lo stesso sosteneva in particolare che la sua detenzione si basava unicamente sulle dichiarazioni di B.F., che non erano corroborate da alcun elemento di fatto. Contestava, inoltre, il rifiuto del Tribunale di tener conto del fatto che non era l’amministratore di una società finanziaria — fatto che secondo i giudici confermava la sua posizione di dirigente nella finanza locale e rafforzava l’accusa secondo la quale era il tesoriere di una parte della mafia — ma che era soltanto uno dei suoi dipendenti e nel passato era stato anche sottoposto ad un procedimento disciplinare. Il ricorso è stato comunque respinto il 2 ottobre 1992. 15. Con decisione del 29 dicembre 1992, il giudice per le indagini preliminari (‘‘il G.I.P.’’) ha respinto la domanda di scarcerazione presentata dal ricorrente, ritenendo insufficienti i motivi a sostegno del suo mantenimento in stato detentivo. 16. Quindi il ricorrente ha interposto appello, che è stato respinto dal Tribunale di Trapani il quale, nella sua decisione datata 8 febbraio 1993, ha ricordato che l’art. 275 par. 3 del codice di procedura penale fissa la condizione necessaria per il mantenimento in stato detentivo delle persone accusate di appartenere alla mafia e che di conseguenza spetta all’interessato fornire elementi specifici e concreti per poter variare tale condizione. Ebbene, nella fattispecie, il Tribunale ha ritenuto le argomentazioni del ricorrente — quali il periodo già trascorso — da una parte generiche e dall’altra che esse erano state rigettate con le decisioni precedenti. 17. Su domanda del pubblico ministero, il G.I.P. presso il Tribunale di Trapani, con ordinanza dell’8 aprile 1993, ha prorogato i termini massimi di custodia cautelare in applicazione dell’art. 305 par 2 c.p.p. 18. Nel frattempo, durante l’inchiesta, altri ‘‘pentiti’’ avevano dichiarato di non conoscere il ricorrente. 19. Quest’ultimo ha interposto appello avverso l’ordinanza dell’8 aprile 1993 sostenendone la nullità, in mancanza di una preventiva notifica al suo avvocato della domanda di proroga, contestandone le motivazioni generiche e astratte.
— 192 — 20. Il 22 giugno 1993, il Tribunale di Trapani ha respinto l’appello del ricorrente, poiché la legge si limitava a stabilire che il Tribunale escutesse le parti in contraddittorio, come era avvenuto nella fattispecie, e non imponeva nessuna notifica preventiva e formale di tale domanda. Quanto alla necessità della misura incriminata, il Tribunale ha rilevato che anche se la motivazione dell’ordinanza impugnata era piuttosto succinta, la stessa aveva messo in evidenza il pericolo di inquinamento delle prove, risultante in particolare dalle caratteristiche specifiche del reato di associazione di tipo mafioso, nonché la pericolosità di tutti gli imputati, dato che gli stessi erano sospettati di appartenere ad un’associazione criminosa dedita a reati gravi come gli omicidi. Inoltre il pubblico ministero aveva ampiamente spiegato le esigenze istruttorie che avevano motivato la sua domanda, ossia la necessità di procedere a indagini complesse di natura bancaria e fiscale, al fine di chiarire la vastità del controllo esercitato sul territorio dagli imputati. Il Tribunale ha sottolineato altresì che del resto la natura del reato in questione richiedeva delle indagini riguardanti l’associazione mafiosa nel suo insieme e quindi, necessariamente, tutti gli imputati. 21. Il 28 giugno 1993, il ricorrente ha proposto ricorso per cassazione, adducendo una violazione dei diritti della difesa, che è stato rigettato con sentenza del 18 ottobre 1993. 22. Il 2 ottobre 1993, il ricorrente è stato rinviato a giudizio per associazione di tipo mafioso. Il procuratore della Repubblica ha chiesto, nei suoi confronti una pena di tre anni di reclusione. 23. Con sentenza del 12 novembre 1994, depositata in cancelleria il 9 febbraio 1995, il Tribunale di Trapani ha assolto il ricorrente e ha ordinato la sua scarcerazione se non detenuto per altra causa. Il Tribunale ha sottolineato che le accuse mosse nei confronti del ricorrente si basavano unicamente sui fatti riferiti da B.F. sulla base di quanto costui aveva saputo da G.D., il quale lo aveva saputo a sua volta da F.M. ora, poiché le due fonti d’informazione erano decedute, le dichiarazioni di B.F. non avevano potuto trovare ulteriori conferme. La sola circostanza che era stata provata, era che il ricorrente aveva lavorato in seno alla società finanziaria in questione; quello che non era stato assolutamente provato, invece, era che lo stesso l’avesse amministrata e che ne fosse stato il tesoriere: ciò era stato infatti smentito da altri testimoni e da elementi di fatto. Il Tribunale ha concluso che la colpevolezza del ricorrente non era stata provata. 24. La sentenza era stata emessa nella serata, verso le ore 22. Il ricorrente, che aveva assistito alla pronuncia della sentenza presso il Tribunale di Trapani, era stato ricondotto nel carcere di Trapani Imerese, senza che gli venissero tolte le manette e vi era giunto alle ore 0,25. In assenza dell’impiegato dell’ufficio matricola il cui intervento era necessario nel caso di un detenuto sottoposto a regime detentivo speciale, il ricorrente era stato rimesso in libertà solo alle ore 8,30. 25. tenza.
Il procuratore della Repubblica ha interposto appello avverso detta sen-
26. Con sentenza del 14 dicembre 1995, divenuta definitiva nei confronti del ricorrente il 25 giugno 1996, la Corte d’appello di Palermo ha confermato il
— 193 — suo proscioglimento, poiché le dichiarazioni di B.F. non erano state corroborate da altri elementi specifici ed erano state smentite dai risultati delle indagini. B) I maltrattamenti che il ricorrente sostiene di aver subito nel carcere di Pianosa. — 1. Le accuse di maltrattamenti. 27. Il ricorrente è stato detenuto nel carcere di Termini Imerese fino al 20 luglio 1992, data in cui è stato trasferito nel carcere di Pianosa, per l’adozione da parte del Governo italiano di misure urgenti contro la mafia dopo l’uccisione, da parte della mafia, di due alti magistrati. Il carcere aveva accolto fino ad allora un centinaio di detenuti che beneficiavano di un regime meno severo con possibilità di lavoro all’esterno sull’isola. I detenuti sottoposti al regime di alta sicurezza erano stati raggruppati nel reparto ‘‘Agrippa’’. Erano stati inviati nel carcere anche alcune decine di agenti di custodia provenienti da altri istituti penitenziari. Il ricorrente vi è rimasto ininterrottamente fino al 29 gennaio 1993. In seguito, è stato oggetto di frequenti trasferimenti di breve durata per poter partecipare alle diverse fasi del processo a suo carico. 28. Dal registro medico del carcere di Pianosa risulta che lo stato di salute del ricorrente al suo arrivo era buono. 29. Il ricorrente afferma di essere stato sottoposto, nel carcere di Pianosa, a vari maltrattamenti, in particolare tra luglio e settembre 1992, la situazione era in seguito migliorata; detti trattamenti vengono indicati qui di seguito: — il suddetto sarebbe stato schiaffeggiato e sarebbe stato ferito al pollice destro. Gli avrebbero inoltre schiacciato i testicoli, pratica che, secondo il ricorrente, veniva sistematicamente inflitta a tutti i detenuti; — una volta, mentre il ricorrente veniva picchiato a sangue, il suo maglione sarebbe stato strappato. Il ricorrente avrebbe protestato. Due ore più tardi, un agente di custodia gli avrebbe intimato di tacere, lo avrebbe insultato e poi colpito, danneggiando così una protesi dentaria e gli occhiali dell’interessato; — sarebbe stato malmenato altre volte. I detenuti avevano il permesso di sistemare dei prodotti igienici nei corridoi; a volte gli agenti di custodia del carcere facevano rovesciare tali prodotti sul pavimento e vi facevano cadere dell’acqua per rendere il pavimento scivoloso. Poi i detenuti venivano costretti a correre nel corridoio, tra due file di agenti, cosa che provocava delle cadute alle quali gli agenti reagivano dando manganellate e colpendo i detenuti che erano caduti; — avrebbe subito inoltre delle perquisizioni personali mentre faceva la doccia; — quando chiedeva una visita medica, doveva attendere molto tempo, e restava ammanettato durante la visita; — gli agenti di custodia intimavano ai detenuti di non parlare dei trattamenti che subivano, né tra loro né con i loro avvocati, a pena di rappresaglie; — davanti agli agenti di custodia, i detenuti dovevano tenere la testa e gli occhi bassi, mostrarsi rispettosi, non parlare e mettersi sull’attenti. 30. Infine, secondo il ricorrente, il trasferimento dal carcere ai Tribunali per le udienze si svolgeva in condizioni disumane, ossia nella stiva di imbarcazioni, senza aria, senza luce e senza cibo, e in pessime condizioni igieniche. 2.
Certificati medici.
31.
Dal registro medico del carcere di Pianosa risulta che, il 9 settembre
— 194 — 1992, il ricorrente aveva segnalato un problema a una protesi dentaria. Il medico aveva chiesto di conseguenza una visita dentistica. Nell’aprile 1993 era stata fatta una nuova richiesta di visita dentistica per fissare la protesi instabile. 32. Il 10 agosto 1993, il servizio medico del carcere di Pianosa aveva chiesto delle radiografie e una visita ortopedica, poiché il ricorrente lamentava dei dolori alle ginocchia. Dopo alcuni esami, da una visita ortopedica effettuata il 22 settembre 1993 sono stati riscontrati dei problemi alle ginocchia, anche se lo stato della cartella non ha permesso di determinarne la natura esatta. 33. Il 17 marzo 1994, il dentista aveva constatato che la protesi si era definitivamente rotta e che occorreva ripararla. 34. Da un referto medico datato 24 marzo 1995 risultano calcificazione all’articolazione e del ginocchio. Da un’ecografia del 3 aprile 1996 peraltro si rilevano due piccole lesioni d’origine traumatica nella parte anteriore esterna dello stesso ginocchio. 35. Da un certificato medico datato 20 marzo 1996 risultano problemi psicologici (astenia, stato confusionale, depressione), iniziati tre anni prima. 3.
Il ricorso presentato dal ricorrente.
36. Il 2 ottobre 1993, durante l’udienza preliminare dinanzi al G.I.P. presso il Tribunale di Trapani, il ricorrente aveva sostenuto di aver subito, insieme ad un altro detenuto, dei maltrattamenti, quali ‘‘torture, umiliazioni e sevizie’’, nel carcere di Pianosa, fino all’ottobre 1992. Aveva dichiarato che gli avevano tra l’altro fratturato un dito e rotto dei denti. Anche se la situazione era migliorata dall’ottobre 1992, il ricorrente si lamentava del fatto che il trattamento complessivo al quale era stato sottoposto, trattamento che si basava in particolare sull’art. 41-bis della l. n. 354 del 1975, era disumano e molto pesante dal punto di vista emotivo. 37. Il 6 ottobre 1993, il G.I.P. aveva informato di quanto precede la procura di Livorno che aveva aperto un’inchiesta (n. 629/93) e, il 12 novembre 1993, aveva chiesto ai carabinieri di Portoferraio di interrogare il Labita, perché lo stesso potesse fornire delle precisazioni riguardo alla natura dei maltrattamenti che sosteneva di aver subito e al periodo durante il quale erano stati inflitti, e fornire qualsiasi elemento utile all’identificazione dei responsabili. Aveva chiesto inoltre comunicazione della cartella medica del ricorrente. 38. Il 5 gennaio 1994, l’interessato era stato sentito dai carabinieri di Portoferraio. Lo stesso ha affermato di aver ricevuto, appena rinchiuso a Pianosa, ‘‘botte, torture, sevizie e torture psicologiche’’ da parte degli agenti di custodia. Questi ultimi gli davano tra l’altro dei colpi sulla schiena. Quando usciva dalla cella per l’ora della passeggiata, era obbligato ad attraversare, correndo, un corridoio il cui pavimento era stato reso scivoloso: gli agenti di custodia, disposti lungo il corridoio, gli assestavano allora calci, pugni e manganellate. Lo stesso ha riferito di aver protestato, una volta, poiché gli agenti di custodia avevano strappato il maglione mentre lo colpivano; un agente di custodia gli avrebbe intimato allora di tacere, lo avrebbe insultato e poi colpito, danneggiando così una protesi dentaria e gli occhiali dell’interessato. I detenuti venivano infatti colpiti violentemente ogni volta che uscivano dalle loro celle. Lo stesso ha precisato tuttavia di non essere in grado di riconoscere gli agenti di custodia responsabili, poiché i detenuti erano ob-
— 195 — bligati a tenere la testa bassa quando si trovavano dinanzi agli agenti. Ha dichiarato infine che le botte erano cessate dall’ottobre 1992. 39. Il 7 gennaio 1994, i carabinieri avevano trasmesso alla procura di Livorno il processo verbale relativo all’interrogatorio nonché la cartella medica del ricorrente. Si erano riservati l’invio dell’elenco degli agenti di custodia che avevano lavorato a Pianosa all’epoca dei fatti. 40. Il 9 marzo 1995, il ricorrente era stato convocato dai carabinieri di Trapani per l’esecuzione di una rogatoria della procura di Livorno. Gli erano state mostrate le fotocopie delle fotografie di 262 agenti di custodia che avevano lavorato nel carcere di Pianosa. Il ricorrente aveva dichiarato di non conoscere il responsabile dei maltrattamenti, pur osservando che le fotografie risalivano ad un periodo precedente ai fatti e che, inoltre, si trattava solo di fotocopie. Aveva aggiunto inoltre che non avrebbe avuto alcuna difficoltà a riconoscere l’agente di custodia in questione se avesse avuto la possibilità di vederlo di persona. 41. Il 18 marzo 1995, la procura di Livorno ha chiesto l’archiviazione della denuncia perché ignoti gli autori del reato, richiesta che è stata accolta con decisione del G.I.P. presso il Tribunale di Livorno del 1o aprile 1995. 4. La relazione del magistrato di sorveglianza di Livorno sulle condizioni di detenzione del carcere di Pianosa. 42. Il 5 settembre 1992, il magistrato di sorveglianza di Livorno aveva inviato una relazione al ministro della giustizia e ad altre autorità penitenziarie e amministrative competenti, riguardo alle condizioni di detenzione nel carcere di Pianosa. 43. Tale relazione, risultante da un primo sopralluogo nell’agosto 1992, riferiva in particolare di violazioni ripetute dei diritti dei detenuti e di diversi episodi di maltrattamenti sia nel reparto speciale ‘‘Agrippa’’ sia nei reparti normali. A titolo di esempio si ricorda che tale relazione aveva rilevato: — che le condizioni igieniche erano penose; — che la corrispondenza dei detenuti anche se sottoposta a visto di controllo, era completamente bloccata, e i telegrammi venivano consegnati agli interessati con notevole ritardo; — che i detenuti erano obbligati a recarsi nel cortile per la passeggiata correndo, probabilmente ricevendo delle manganellate sulle gambe; — che i detenuti erano a volte oggetto di manganellate e altri maltrattamenti (per esempio un detenuto sarebbe stato costretto a spogliarsi completamente e ad effettuare degli esercizi a terra, seguiti da un controllo rettale, che secondo il magistrato di sorveglianza non era assolutamente necessario in quanto il detenuto in questione aveva appena terminato un lavoro svolto in presenza di altri agenti di custodia; detto detenuto, che mentre si rivestiva sarebbe stato schiaffeggiato, si era in seguito rivolto al medico del carcere; durante la notte tre agenti di custodia si sarebbero recati nella sua cella e lo avrebbero malmenato); — che altri episodi dello stesso genere risultano essere accaduti successivamente, anche se la situazione risulta essere in seguito migliorata, probabilmente per le azioni intraprese nei confronti degli agenti di custodia. 44.
A seguito delle informazioni riguardanti le violenze sui detenuti nel car-
— 196 — cere di Pianosa, riferite anche dalla stampa, il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Livorno, che si era recato sull’isola per una giornata, ha dichiarato alla stampa di non aver trovato alcun elemento a conferma delle informazioni sopra citate. 45. Peraltro, il 30 luglio 1992, gli ispettori dell’amministrazione penitenziaria per la Toscana avevano informato il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia che, secondo alcune informazioni provenienti da fonti affidabili, nel carcere di Pianosa erano accaduti gravi incidenti di maltrattamenti nei confronti dei detenuti. Il rapporto citava in particolare il caso di un detenuto affetto da handicap trasportato all’interno del carcere su una carriola sotto le battute degli agenti di custodia, o ancora quello di un altro detenuto costretto ad inginocchiarsi davanti a un cero. 46. In una nota datata 12 ottobre 1992 e inviata al capo di gabinetto del ministro, il direttore generale del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia spiegava che le condizioni rilevate dal magistrato di sorveglianza di Livorno si riferivano soprattutto al fatto che cinquantacinque detenuti erano stati tasferiti a Pianosa d’urgenza nella notte tra il 19 e il 20 luglio 1992, cosa che aveva posto dei problemi pratici che potevano spiegare in gran parte gli inconvenienti rilevati. Inoltre, dei lavori di ristrutturazione in corso nel carcere avevano causato alcune ulteriori difficoltà. 47. Il 28 ottobre 1992, lo stesso direttore generale ha consegnato al capo di gabinetto del ministro e alla procura le conclusioni di un gruppo di periti nominati dal dipartimento. Dopo aver interrogato i detenuti, tali periti concludevano che le accuse di maltrattamenti erano prive di qualsiasi fondamento, eccetto l’episodio del trasporto di un detenuto affetto da handicap in carriola, dovuto tuttavia all’assenza nel carcere di una sedia a rotelle. 48. A seguito della relazione del magistrato di sorveglianza è stata aperta tuttavia un’inchiesta e gli atti raccolti sono stati inviati alla procura presso la pretura di Livorno. È stato possibile identificare solo due agenti di custodia che sono stati indagati per il reato di lesioni personali (art. 582 c.p.) e abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 c.p.). 49. La procura ha chiesto l’archiviazione per i due capi d’imputazione, rispettivamente per assenza di denuncia e prescrizione. Tale richiesta è stata accolta per quanto riguarda le lesioni personali ma è stata respinta per quanto riguarda l’altra imputazione e, il 20 dicembre 1996, il G.I.P. ha chiesto ulteriori informazioni. Tale inchiesta sarebbe tuttora in corso. 50. In una nota datata 12 dicembre 1996, allegata alle osservazioni del Governo nel procedimento dinanzi alla Commissione, il presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze precisa che i fatti accaduti nel carcere di Pianosa erano stati voluti o tollerati dal Governo in carica all’epoca dei fatti. Lo stesso ritiene inoltre che le dichiarazioni del ricorrente riguardo alle modalità dei trasferimenti sono del tutto attendibili, e che i trasferimenti dei detenuti nel carcere di Pianosa erano stati effettuati con metodi discutibili e ingiustificati, tendenti in realtà ad intimidire i detenuti. Lo stesso sottolinea inoltre che il reparto di alta sicurezza del carcere di Pianosa è stato creato aumentando il personale con agenti di custodia provenienti da altre carceri, che non erano stati selezionati e che avevano ricevuto
— 197 — ‘‘carta bianca’’; per questo motivo la gestione del reparto in questione sarebbe stata contraddistinta in un primo tempo da abusi e irregolarità. C) Il controllo della corrispondenza del ricorrente. — 1. l’art. 41-bis della legge sull’amministrazione penitenziaria.
L’applicazione del-
51. Il 20 luglio 1992, il ministro della giustizia ha emesso un decreto che ordinava al ricorrente, fino al 20 luglio 1993, il regime detentivo speciale previsto dall’art. 41-bis della l. n. 354 del 1975. Il ministro ha ritenuto tale misura necessaria in particolare per gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblici, tenuto conto dell’azione sempre più violenta e spietata della mafia, che aveva del resto da poco assassinato tre magistrati e otto poliziotti e commesso attentati con autobombe in grandi città italiane. La situazione rendeva quindi necessario tagliare i contatti di alcuni detenuti con il loro ambiente originario. Il ricorrente era oggetto della misura in questione per la sua personalità e pericolosità che facevano ritenere che lo stesso avesse mantenuto dei contatti con l’ambiente criminale da cui proveniva e che avrebbe potuto utilizzarli per dare delle direttive o instaurare dei rapporti con il mondo esterno, che potevano arrecare danno all’ordine pubblico e alla sicurezza degli istituti penitenziari. Inoltre è ragionevole pensare che detti detenuti potevano reclutare degli adepti presso altri detenuti o stabilire con questi ultimi, nel carcere, dei rapporti di supremazia e di umiliazione simili a quelli esistenti in un’organizzazione criminale. 52. Detto decreto, in deroga alla legge sull’amministrazione penitenziaria, imponeva le seguenti restrizioni: — divieto di utilizzare il telefono; — divieto di avere colloqui o di corrispondere con altri detenuti; — controllo di tutta la corrispondenza in arrivo o in partenza; — divieto di avere colloqui con terzi; — limitazione dei colloqui con i familiari (massimo uno al mese della durata di un’ora); — divieto di ricevere o di inviare all’esterno delle somme di denaro eccedenti un determinato importo; — divieto di ricevere dall’esterno pacchi diversi da quelli contenenti biancheria; — divieto di organizzare attività culturali, ricreative e sportive; — divieto di eleggere un rappresentante dei detenuti o di essere eletto come rappresentante dei detenuti; — divieto di esercitare attività artigianali; — divieto di acquistare alimenti da cuocere; — divieto di permanere più di due ore all’aria aperta. 2.
Il controllo della corrispondenza del ricorrente.
54. Fin dal 21 aprile 1992, la corrispondenza del ricorrente era stata sottoposta a controllo come da decisione del Tribunale di Trapani che non conteneva una motivazione specifica. Comunque la corrispondenza del ricorrente non era stata controllata quando si trovava nel carcere di Termini lmerese. 55. Il controllo della corrispondenza dei ricorrenti era stato in seguito ordinato con decreto del ministro della giustizia del 20 luglio 1992 (par. 52 supra).
— 198 — 56. È stata sottoposta a controllo la seguente corrispondenza: — lettera del ricorrente alla moglie datata 21 ottobre 1992, la cui consegna è stata ritardata, poiché il carcere di Pianosa ha per prima cosa inviato la missiva all’autorità giudiziaria per il suo contenuto ritenuto sospetto; — lettera inviata al ricorrente da un primo avvocato, datata 7 maggio 1992 (visto di controllo del carcere di Pianosa); — lettera inviata dal ricorrente alla sua famiglia, datata 28 febbraio 1993 (visto di controllo del carcere di Termini Imerese); — lettera inviata dal ricorrente alla moglie il 2 marzo 1993 e contenente un certificato (le autorità del carcere di Termini Imerese l’avevano intercettata e consegnata al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia chiedendo l’autorizzazione per la restituzione al ricorrente; dato che tale domanda non ha avuto seguito, non si è mai provveduto); — lettera inviata dal ricorrente alla famiglia, inviata il 7 maggio 1993 (visto di controllo del carcere di Pianosa). 57. Con decreto del 15 settembre 1993 in applicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 349 del 28 luglio 1993 (par. 102 infra), il ministro della giustizia ha revocato la misura di controllo della corrispondenza previsto con i suoi decreti di applicazione dell’art. 41-bis. 58. Il controllo della corrispondenza è tuttavia continuato in esecuzione della decisione del Tribunale di Trapani del 21 aprile 1992. 59. Il 21 febbraio 1994, il Tribunale di Trapani ha ordinato la revoca del controllo della corrispondenza del ricorrente che di fatto è invece continuato. 60. Il 10 giugno 1994, il ricorrente è stato nuovamente sottoposto a regime penitenziario ordinario, cosa che comportava tra l’altro la soppressione del controllo della corrispondenza. Per lo meno una lettera inviata al ricorrente dalla moglie, datata 28 luglio 1994, è stata pertanto sottoposta a controllo nel carcere di Pianosa. 61. Il 13 agosto 1994, su richiesta della direzione del carcere di Pianosa, il presidente della sezione penale del tribunale di Trapani ha ordinato nuovamente il controllo della corrispondenza del ricorrente. Sono state sottoposte a controllo le seguenti lettere: — lettera inviata al ricorrente da un secondo avvocato, datata 24 agosto 1994 (visto del carcere di Pianosa); — lettere inviate al ricorrente dalla moglie, datate rispettivamente 18, 21, 29 e 30 agosto 1994 e contenenti due foto dei figli dell’interessato, recanti ciascuna il timbro del visto di controllo (visto del carcere di Pianosa); — lettera inviata dal ricorrente alla sua famiglia, data 31 agosto 1994 (visto del carcere di Pianosa); — lettera inviata al ricorrente dai figli, datata 1o settembre 1994 (visto del carcere di Pianosa); — lettera inviata al ricorrente dalla figlioletta datata 16 ottobre 1994 (visto di controllo illeggibile); — lettere inviate al ricorrente dalla moglie datate rispettivamente 18 e 20 ottobre 1994 (visto del carcere di Termini Imerese); — lettera inviata al ricorrente apparentemente da membri della sua famiglia, datata 20 ottobre 1994 (visto del carcere di Termini Imerese);
— 199 — — lettera non datata, inviata al ricorrente dalla figlioletta (visto del carcere di Pianosa); 62. Riguardo alle due lettere inviate al ricorrente dai suoi avvocati il 7 maggio 1993 e il 24 agosto 1994, la direzione dell’istituto penitenziario di Pianosa ha precisato che le stesse non rientravano nell’ambito della corrispondenza con il difensore ai sensi dell’articolo 35 delle disposizioni transitorie del nuovo codice di procedura penale italiano (paragrafo 97 infra). D) Le misure di prevenzione applicate al ricorrente. 63. A richiesta del procuratore della Repubblica presso il tribunale di Trapani del 9 settembre 1992, con decisione del 10 maggio 1993, detto tribunale ha imposto al ricorrente la misura di prevenzione della sorveglianza speciale della polizia e dell’obbligo di soggiorno ad Alcamo per un periodo di tre anni. Secondo detta decisione, la pericolosità dell’interessato era dimostrata da indizi concreti: infatti lo stesso era perseguito per un reato molto grave ed era stato posto sotto custodia cautelare in carcere; inoltre aveva una partecipazione, con altri presunti mafiosi, nella società che gestiva una discoteca dove si incontravano dei mafiosi. In particolare, il ricorrente era tenuto a: — non allontanarsi dalla sua abitazione senza aver avvertito l’autorità incaricata della sua soveglianza; — vivere onestamente, non destare sospetti; — non frequentare persone oggetto di condanne o sottoposti a misure di prevenzione o sicurezza; — non rientrare la sera dopo le 20.00 e non uscire la mattina prima delle 6.00, eccetto in caso di necessità debitamente comprovata e non senza aver avvertito le autorità in tempo utile; — non detenere o portare armi; — non frequentare caffè e non partecipare a riunioni pubbliche; — portare sempre con sé il foglio contenente gli obblighi specifici risultanti dalle misure di prevenzione applicate nei suoi confronti, e una copia della decisione del tribunale; — presentarsi presso l’ufficio di polizia competente ogni domenica fra le 9.00 e le 12.00. 64. Invece il tribunale ha ritenuto che sulla base del fascicolo processuale non era possibile concludere che la detta società serviva a riciclare denaro sporco proveniente dalle attività illecite della mafia. Di conseguenza ha disposto la separazione del procedimento relativo al sequestro delle partecipazioni del ricorrente nella società in questione nonchè di certi suoi beni immobiliari. 65. Il ricorrente ha interposto appello che è stato rigettato il 7 dicembre 1993. La corte d’appello ha ricordato in primo luogo che la pericolosità di un individuo appartenente alla mafia è presunta, ai sensi della legge n. 575 del 15 maggio 1965, e che, ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione, tale appartenenza può essere dimostrata sulla base di indizi, in quanto le prove concrete sono richieste solo per la condanna. Nella fattispecie, nei confronti del ricorrente sussistevano degli indizi tali da giustificare le decisioni di porlo in stato di custodia cautelare in carcere e di rinviarlo a giudizio. Inoltre, B.F. aveva chiaramente indicato che il ricorrente apparteneva ad un’associazione di tipo mafioso di cui ne era
— 200 — il tesoriere. Altre elementi vi si aggiungevano, quali i rapporti d’affari tra il ricorrente e altri mafiosi. I contratti tra il ricorrente e la mafia erano peraltro confermati dalla circostanza che il ricorrente non aveva disdegnato di sposare la sorella di capomafia e di divenire quindi membro di tale famiglia, cosa che lo esponeva indubbiamente a richieste di collaborazione con l’associazione criminale. 66. Il ricorrente ha proposto ricorso per cassazione che è stato rigettato con sentenza del 3 ottobre 1994, in quanto la valutazione della pericolosità di un individuo si basa sugli elementi che possono portare al convincimento del giudice; orbene il Tribunale di Trapani e la Corte d’appello di Palermo avevano dimostrato la probabile appartenenza del ricorrente al clan mafioso di Alcamo, sulla base degli elementi che avevano motivato il mantenimento in stato detentivo dell’interessato. Nessun vizio di legittimità poteva intaccare il ‘‘libero convincimento’’ del giudice di merito. 67. Nel frattempo, il 22 maggio 1993, il prefetto di Trapani ha ordinato il ritiro del passaporto del ricorrente, ordine che non è stato possibile eseguire poiché l’interessato ha dichiarato di aver perso tale documento. Il prefetto ha ordinato inoltre al ricorrente di consegnare la sua carta d’identità per potervi apporre l’annotazione ‘‘non valida per l’espatrio’’. 68. Il 1o giugno 1993, il prefetto di Trapani ha ordinato il ritiro del permesso di guida del ricorrente. 69. Le misure di prevenzione, sospese fino al termine del processo, sono state applicate il 19 novembre 1994, dopo il proscioglimento del ricorrente da parte del Tribunale di Trapani. 70. Il 13 febbraio 1996, l’interessato si è visto rifiutare l’autorizzazione a lasciare Alcamo per accompagnare la moglie e uno dei figli all’ospedale di Palermo, dove dovevano effettuare degli esami clinici, poiché non riguardavano malattie gravi. 71. Nel frattempo, l’8 gennaio 1996, il ricorrente aveva chiesto al Tribunale di Trapani di revocare le misure di prevenzione disposte nei suoi confronti, facendo rilevare in particolare che era stato definitivamente prosciolto (con sentenza del 14 dicembre 1995) e lamentando l’impossibilità di trovare un lavoro. 72. L’11 giugno 1996, il Tribunale ha respinto la sua domanda. Lo stesso ha ricordato innanzitutto la giurisprudenza costante della Corte di cassazione secondo la quale i fatti provati durante un processo, anche se insufficienti per giustificare la condanna dell’imputato, potevano comunque, connessi eventualmente ad altri elementi, costituire degli indizi significativi che potevano provare la pericolosità di una persona assolta. Secondo il Tribunale, era questa la situazione che si verificava nella fattispecie, poiché dalle dichiarazioni di B.F. risultava che il ricorrente era vicino al clan mafioso di Alcamo, come dimostrato dal fatto che il cognato deceduto era stato il capo del clan principale. Quanto all’impossibilità di trovare un impiego, il Tribunale ha ritenuto che la cosa non riguardasse minimamente le misure di prevenzione, dato che il ricorrente avrebbe potuto chiedere in qualsiasi momento l’autorizzazione per lavorare, a condizione ovviamente che il lavoro fosse compatibile con le prescrizioni derivanti dalle misure di prevenzione. 73. Il 7 ottobre 1996, sulla carta d’identità del ricorrente fu apposta l’annotazione ‘‘non valida per l’espatrio’’.
— 201 — 74. In data imprecisata, il ricorrente ha chiesto di nuovo al Tribunale di Trapani di revocare le misure di prevenzione disposte nei suoi confronti, facendo osservare ancora una volta che era stato ormai definitivamente prosciolto e sottolineando il fatto che non aveva mai avuto comportamenti contrari alle prescrizioni derivanti dalle misure di prevenzione applicate nei suoi confronti. 75. Il 21 ottobre 1997, il Tribunale di Trapani ha rigettato la domanda osservando innanzitutto che la procedura relativa alle misure di prevenzione è totalmente distinta dal procedimento penale; pertanto il proscioglimento non produce effetti automatici sulle misure di prevenzione già decise. Comunque sia, il ricorrente non aveva dimostrato di avere cambiato realmente il suo stile di vita né di essersi effettivamente pentito. 76. L’applicazione delle misure di prevenzione nei confronti del ricorrente è cessata il 18 novembre 1997. E) La cancellazione dalle liste elettorali. 77. In seguito all’applicazione nei confronti del ricorrente della misura della sorveglianza speciale, la commissione elettorale comunale di Alcamo ha deciso, il 10 gennaio 1995, di cancellare il ricorrente dalle liste elettorali per decadenza dai diritti civili, in applicazione dell’art. 32 del decreto del Presidente della Repubblica (‘‘d.P.R.’’) n. 223 del 20 marzo 1967. 78. Il ricorrente ha proposto un ricorso dinanzi alla commissione elettorale di circoscrizione, contestando l’assenza di motivazione della decisione del 10 gennaio e facendo rilevare che l’applicazione di misure di prevenzione nei suoi confronti era stata decisa prima del suo proscioglimento. Tale ricorso è stato respinto con decisione del 27 febbraio 1995, notificata al ricorrente il 7 marzo 1995, poiché la cancellazione dalle liste elettorali è la conseguenza automatica della decadenza dai diritti civili a causa dell’applicazione della sorveglianza speciale, non di una decisione della commissione elettorale. Il ricorrente non ha interposto appello avverso tale decisione. 79. Il 19 novembre 1997, una volta revocate le misure di prevenzione, il ricorrente ha chiesto la reiscrizione nelle liste elettorali. 80. Il 28 novembre 1997, la commissione elettorale della circoscrizione ha informato il sindaco di Alcamo della sua decisione di ammettere il ricorrente a partecipare alle elezioni amministrative imminenti, previste per il 30 novembre 1997. 81. Il 29 novembre 1997, il sindaco ha fatto notificare al ricorrente la decisione della commissione elettorale. 82. L’11 dicembre 1997, la commissione elettorale comunale ha reinserito il nominativo del ricorrente nelle liste elettorali di Alcamo. F) La riparazione per ‘‘ingiusta’’ detenzione. 83. Il 4 febbraio 1997, il ricorrente ha introdotto dinanzi alla Corte d’appello di Palermo una domanda tendente ad ottenere, in applicazione degli artt. 314 e 315 del codice di procedura penale, la riparazione per la detenzione subita dal 21 aprile 1992 al 12 novembre 1994, detenzione ritenuta ‘‘ingiusta’’ poiché l’interessato era stato prosciolto con sentenza del 14 dicembre 1995.
— 202 — 84. La Corte d’appello ha accolto la suddetta domanda con sentenza del 20 gennaio 1998, depositata in cancelleria il 23 gennaio 1998. La stessa ha stabilito un importo di 64.000.000 di lire italiane, tenendo conto della durata e delle modalità particolarmente severe della detenzione, nonché del danno personale — danno arrecato all’immagine — e familiare — necessità di lunghi viaggi per vedere il ricorrente — sofferti dall’interessato. II. Il diritto e la prassi interni pertinenti. — A) Disposizioni pertinenti in materia di custodia cautelare in carcere. 85. Il primo paragrafo dell’art. 273 c.p.p. prevede che ‘‘nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza’’. 86. Ai sensi dell’art. 274, possono essere disposte delle misure cautelari: ‘‘a) quando sussistono inderogabili esigenze attinenti alle indagini, in relazione a situazioni di concreto pericolo per l’acquisizione o la genuinità delle prove (...); b) quando l’imputato si è dato alla fuga o sussiste concreto pericolo che egli si dia alla fuga, sempre che il giudice ritenga che possa essere irrogata una pena superiore a due anni di reclusione; c) quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità dell’imputato, vi è il concreto pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata e della stessa specie di quello per cui si procede (...)’’. 87. Per certi reati quali l’associazione di tipo mafioso, l’art. 275 par. 3 c.p.p., modificato con il d.l. n. 152 del 1991, convertito nella l. n. 203 del 1991, nonché dall’art. n. 292 del 1991, convertito nella l. n. 356 del 1991, presume — fino a prova contraria — la sussistenza delle esigenze suddette. 88. L’art. 303 c.p.p. fissa i termini di durata massima della custodia cautelare in carcere in relazione allo stato del procedimento. Trattandosi del reato previsto all’art. 416-bis del codice penale, tali termini sono di un anno dall’inizio della custodia cautelare fino all’emissione del provvedimento che dispone il giudizio, e di un anno dall’inizio del procedimento fino alla pronuncia della sentenza di condanna di primo grado. Se il provvedimento che dispone il giudizio o la sentenza di condanna di primo grado non vengono emessi prima della decorrenza di tali termini, la custodia cautelare perde efficacia e l’imputato deve essere posto in libertà. 89. Tuttavia, il par. 2 dell’art. 304 c.p.p. dispone che i termini previsti dall’art. 303 possono essere sospesi nella fase del giudizio quando si tratta di alcuni reati fra i quali figura quello previsto dall’art. 416-bis del codice penale, nel caso di dibattimenti particolarmente complessi, durante il tempo in cui sono tenute le udienze o si delibera la sentenza nel giudizio di primo grado o nel giudizio sulle impugnazioni. L’art. 304 dispone che la durata della custodia cautelare non può comunque superare i due terzi del massimo della pena prevista per il reato contestato all’imputato o inflitta con la sentenza di primo grado. 90. Ai sensi del par. 2 dell’art. 305, ‘‘nel corso delle indagini preliminari, il pubblico ministero può altresì chiedere la proroga dei termini di custodia cautelare che siano prossimi a scadere, quando sussistono gravi esigenze cautelari che
— 203 — rendano indispensabile il protrarsi della custodia (...)’’. Questa disposizione prevede inoltre che tale proroga è rinnovabile una sola volta e che, in ogni caso, i termini previsti dall’art. 303 non possono comunque essere superati di oltre la metà. 91. Riguardo alle formalità relative alla scarcerazione, il 29 marzo 1996, il Ministero della giustizia ha informato tutti gli istituti penitenziari della necessità di assicurare alcuni servizi amministrativi anche di notte, per permettere non solo il rilascio dei detenuti, ma anche, tra l’altro, la carcerazione delle persone arrestate o che si presentano spontaneamente, o ancora il ricovero ospedaliero d’urgenza dei detenuti. B) Riparazione per ‘‘ingiusta’’ detenzione. 92. Ai sensi dell’art. 314 par. 1 c.p.p., chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa. 93. La domanda di riparazione deve essere proposta entro diciotto mesi dal giorno in cui la sentenza di proscioglimento o di condanna è divenuta irrevocabile. L’entità della riparazione non può comunque eccedere i cento milioni di lire italiane. C)
Disposizioni in materia di controllo della corrispondenza.
94. Ai sensi dell’art. 18 della l. del 26 luglio 1975, n. 354, come modificato dall’art. 2 della l. del 12 gennaio 1977, n. 1, l’autorità competente a decidere in materia di controllo della corrispondenza dei detenuti è il giudice che procede (sia che si tratti della giurisdizione istruttoria o di quella giudicante) fino al giudizio di primo grado, e il magistrato di sorveglianza nella fase successiva del procedimento. Tale disposizione prevede inoltre che il magistrato competente può ordinare il controllo della corrispondenza di un detenuto, con decisione motivata ma non specifica tuttavia i casi in cui può essere presa una tale decisione. 95. Il controllo in questione consiste concretamente nell’intercettazione e nella lettura, da parte dell’autorità giudiziaria che lo ha ordinato, da parte del direttore dell’istituto o da parte del personale penitenziario da quest’ultimo designato, di tutta la corrispondenza del detenuto oggetto di un tale provvedimento, oltreché nell’apposizione di un timbro sulle lettere, che serve a dimostrare l’avvenuto controllo (vedi altresì l’art. 36 del regolamento di esecuzione della l. n. 354 di cui sopra, d.P.R. del 29 aprile 1976, n. 431). Tale misura di controllo non consiste nella cancellazione di parole o frasi ma, in seguito al controllo, l’autorità giudiziaria può ordinare che una o più lettere non siano consegnate. In questo caso, il detenuto deve esserne informato immediatamente. Quest’ultima misura può anche essere ordinata in via provvisoria dal direttore dell’istituto che deve, tuttavia, darne comunicazione all’autorità giudiziaria. 96. Peraltro l’art. 103 c.p.p. vieta il sequestro e ogni forma di controllo della corrispondenza tra l’imputato e il proprio difensore in quanto riconoscibile dalle prescritte indicazioni, salvo che l’autorità abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato. 97.
L’art. 35 delle norme di attuazione del nuovo codice di procedura pe-
— 204 — nale specifica inoltre che le disposizioni relative al controllo della corrispondenza di un detenuto, previste dalla l. n. 354 e dal d.P.R. n. 431 citati, non si applicano alla corrispondenza tra il detenuto e il suo difensore, a condizione che la busta riporti l’identità dell’imputato e la dicitura ‘‘corrispondenza per ragioni di giustizia’’. Inoltre, tale dicitura deve essere sottoscritta dal mittente, il quale deve indicare il procedimento cui la corrispondenza si riferisce. Quando il mittente è il difensore, la sottoscrizione deve essere autenticata dal presidente del consiglio dell’ordine forense o da un suo delegato. 98. Il controllo della corrispondenza costituisce un atto di natura amministrativa e, poiché non riguarda la libertà personale del detenuto, non è proponibile ricorso per cassazione (Corte di cassazione: sentenze n. 3141 del 14 febbraio 1990 e n. 4687 del 4 febbraio 1992). 99. L’art. 35 della legge sull’ordinamento penitenziario (l. n. 354 del 26 luglio 1975) prevede che i detenuti possono rivolgere istanze o reclami in busta chiusa alle seguenti autorità: — al direttore dell’istituto, agli ispettori, al direttore generale per gli istituti di prevenzione e pena e al ministro della giustizia; — al magistrato di sorveglianza; — alle autorità giudiziarie e sanitarie in visita all’istituto; — al presidente della giunta regionale; — al Capo dello Stato. D) L’incidenza dell’art. 41-bis della l. n. 354 del 1975 sul controllo della corrispondenza. 100. L’art. 41-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, come modificato con la l. del 7 agosto 1992, n. 356, attribuisce al ministro della giustizia la facoltà di sospendere completamente o parzialmente l’applicazione del regime penitenziario ordinario, come previsto dalla l. n. 354 del 1975, con decreto motivato e controllabile da parte dell’autorità giudiziaria per motivi di ordine e di sicurezza pubblici, quando il regime penitenziario ordinario risulta in contrasto con queste ultime esigenze. La stessa disposizione può essere applicata solo nei confronti dei detenuti perseguiti o condannati per i reati indicati dall’art. 4-bis della stessa legge, tra i quali figurano reati connessi alle attività mafiose. La l. n. 446 del 28 novembre 1999 ha prorogato l’applicazione delle disposizioni in questione fino al 31 dicembre 2000. 101. L’art. 41-bis non contiene la lista delle restrizioni autorizzate che deve essere redatta con decreto del ministro della giustizia. Secondo l’interpretazione adottata all’inizio della sua applicazione questa disposizione avrebbe attribuito al ministro della giustizia anche il potere di ordinare il controllo della corrispondenza del detenuto. 102. La Corte costituzionale italiana, chiamata a decidere sulla questione di determinare se tale sistema rispetta l’ambito di competenza riservato al legislatore, nelle sentenze n. 349 e 410 del 1993 ha ritenuto che l’art. 14-bis è compatibile con la Costituzione, ma ha precisato che ai sensi dell’art. 15 della stessa, la limitazione della corrispondenza può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria. Il ministro della giustizia non è pertanto competente per adottare le misure relative alla corrispondenza dei detenuti.
— 205 — E) Disposizioni in materia di misure di prevenzione a carattere personale 103. Le misure di prevenzione, istituite con la l. del 27 dicembre 1956, n. 1423, mirano ad impedire la perpetrazione di reati da parte di individui ritenuti ‘‘socialmente pericolosi’’. Attualmente, la legge prevede tre categorie di individui socialmente pericolosi: a) coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano abitualmente dediti a traffici delittuosi; b) coloro che per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose, e c) coloro che, per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la società, la sicurezza o la tranquillità pubblica. 104. L’art. 3 della l. n. 1423 del 1956 prevede la possibilità di porre un individuo socialmente pericoloso sotto la sorveglianza speciale della pubblica sicurezza. A tale misura può essere aggiunto, ove le circostanze del caso lo richiedano, il divieto di soggiorno in uno o più comuni o in una o più province o se tali persone sono particolarmente pericolose, l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale. 105. Le misure di prevenzione sono di competenza esclusiva del Tribunale avente sede nel capoluogo di provincia, che provvede in camera di consiglio e con provvedimento motivato, con l’intervento del pubblico ministero e dell’interessato; l’interessato può presentare memorie e farsi assistere da un avvocato. La procura e l’interessato possono proporre ricorso alla Corte d’appello entro dieci giorni, tale ricorso non ha effetto sospensivo. Avverso il decreto della Corte d’appelIo è ammesso ricorso in cassazione. 106. Il Tribunale che applica una misura di prevenzione deve precisarne la durata — da un anno a un massimo di cinque anni — e determinare le prescrizioni da osservare da parte della persona sottoposta a tale misura. 107. La l. del 31 maggio 1965, n. 575, come modificata nel 1982, ha introdotto la possibilità di applicare le misure della sorveglianza speciale e l’obbligo o il divieto di soggiorno alle persone indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso. 108. Ai sensi della l. del 3 agosto 1988, n. 327, la misura dell’obbligo di soggiorno attualmente deve essere eseguita nel comune di residenza o di dimora abituale dell’interessato. 109. La l. del 19 marzo 1990, n. 55, autorizza il giudice a sospendere il procedimento relativo all’applicazione delle misure di prevenzione quando è in corso un procedimento penale e fino alla sua definizione. F) Disposizioni in materia di cancellazione dalle liste elettorali. 110. L’art. 2 del d.P.R. del 20 marzo 1967, n. 223, dispone che non possono esercitare il diritto di voto in particolare coloro che sono oggetto di un provvedimento dell’autorità giudiziaria o di polizia che dispone delle misure di prevenzione nei loro confronti. 111. Ai sensi dell’art. 32 par. 1 (3) dello stesso d.P.R., il questore competente notifica il provvedimento relativo alla perdita dei diritti civili nel comune di
— 206 — residenza. La commissione elettorale competente procede alla cancellazione della persona interessata dalle liste elettorali, anche al di fuori del normale periodo di revisione di dette liste. IN DIRITTO. — I. Sulla presunta violazione dell’art. 3 della Convenzione. 112. Il ricorrente lamenta il fatto di aver subito, nei primi mesi della sua detenzione nel carcere di Pianosa, dei maltrattamenti contrari all’art. 3 della Convenzione, che recita: ‘‘Nessuno può essere sottoposto a torture o pene inumane o degradanti’’. A) Sui presunti maltrattamenti nel carcere di Pianosa. 113. Il Governo ha ammesso che la situazione che regnava nel carcere di Pianosa nell’estate e nell’autunno 1992 era molto difficile, in particolare per il clima estremamente teso di quel periodo. 114. Il Governo aveva affermato, in un primo tempo, dinanzi alla Commissione, che ‘‘tali atti deplorevoli [erano] stati commessi da alcuni agenti di custodia di loro iniziativa, e non si può ritenere che tali condotte facessero parte di una politica generale. Tali comportamenti censurabili, non previsti e non voluti ma al contrario condannabili, non possono essere imputati alla responsabilità dello Stato, che invece ha reagito tramite le autorità giudiziarie per ristabilire lo stato di diritto, perturbato da tali episodi’’. 115. Invece, all’udienza dinanzi alla Corte, il Governo ha sottolineato preliminarmente che, in assenza di prove mediche convincenti, non si può ritenere che la soglia di gravità prevista dall’art. 3 della Convenzione fosse stata nella fattispecie raggiunta. 116. In ogni caso, il Governo contesta la conclusione della Commissione secondo la quale lo Stato italiano non avrebbe reagito agli atti di violenza commessi dai suoi dipendenti. Secondo il Governo, il fallimento dell’inchiesta aperta per individuare l’identità degli agenti ritenuti responsabili dei maltrattamenti non costituisce una violazione dell’art. 3, poiché non si può dedurre dalla giurisprudenza della Corte in materia che uno Stato adempie ai suoi obblighi derivanti dall’art. 3 della Convenzione solo nel caso in cui le indagini portano ad una condanna: occorrerebbe piuttosto vedere se le indagini sono state condotte con diligenza e se alle autorità competenti può essere imputata una qualche omissione o negligenza. Nella fattispecie, le autorità che hanno condotto le indagini avrebbero dato prova di determinazione e non avrebbero risparmiato i loro sforzi per identificare i colpevoli: il fallimento sarebbe, al contrario, imputabile al ricorrente, che non ha chiesto le visite mediche dopo aver subito i maltrattamenti in questione. Peraltro, il fatto che il ricorrente, unico testimone, non abbia potuto riconoscere gli agenti di custodia dalle fotografie mostrategli, indica che ogni ulterore attività da parte degli inquirenti si sarebbe rivelata inutile. 117. Il ricorrente afferma di aver subito a Pianosa, in particolare tra luglio e settembre 1992, innumerevoli violenze, umiliazioni, vessazioni, intimidazioni e altre forme di torture, sia fisiche che psicologiche (par. 29 supra). Il suddetto sarebbe stato spesso schiaffeggiato e percosso, sarebbe stato ferito alle dita, alle ginocchia e ai testicoli. Avrebbe subíto delle perquisizioni personali mentre faceva la doccia e sarebbe rimasto ammanettato durante le visite mediche. Le sue proteste
— 207 — erano inutili o addirittura pericolose: una volta per aver protestato per lo strappo dei suoi abiti da parte degli agenti, sarebbe stato minacciato, insultato e percosso da uno di loro. La sua protesi dentaria e i suoi occhiali sarebbero stati danneggiati e gli sarebbe stata rifiutata la possibilità di farli riparare, come risulta dalle cartelle cliniche. I danni fisici di cui soffre dalla sua detenzione a Pianosa sono confermati da un certificato medico del 20 aprile 1996. 118. Il ricorrente sostiene che i fatti di Pianosa erano senza dubbio noti e tollerati dal Governo in carica all’epoca dei fatti; lo stesso si riferisce su questo punto al contenuto della nota redatta dal magistrato di sorveglianza di Livorno: i metodi utilizzati a Pianosa sarebbero stati uno strumento di intimidazione dei detenuti. Peraltro, l’archiviazione della denuncia penale perché ignoti gli autori del reato avallerebbe un illecito e confermerebbe che i fatti di Pianosa sono stati colpevolmente voluti o favoriti da parte del Governo in carica al momento dei fatti. 119. L’art. 3 della Convenzione, come più volte ribadito dalla Corte, consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche. Anche nelle circostanze più difficili, quali la lotta contro il terrorismo e il crimine organizzato, la Convenzione vieta in termini assoluti la tortura e le pene o trattamenti disumani o degradanti. L’art. 3 non prevede restrizioni, in contrasto con la maggior parte delle clausole normative della Convenzione e dei Protocolli nn. 1 e 4, e secondo l’art. 15 par. 2 non ammette alcuna deroga, anche in caso di pericolo pubblico che minaccia la vita della nazione (sentenze Selmouni c. Francia [GC] n. 25803/94, par. 95, CEDU, 1999 — V; Assenov e altri c. Bulgaria del 28 ottobre 1998, Raccolta delle sentenze e decisioni, 1998 — VIII, p. 3288, par. 93). Il divieto della tortura o delle pene o trattamenti disumani o degradanti è assoluto, quali che siano i comportamenti della vittima (sentenza Chahal c. Regno Unito del 15 novembre 1996, Raccolta, 1996 — V, p. 1855, par. 79). La natura del reato ascritto al ricorrente non è pertanto pertinente per quanto riguarda l’esame sulla base dell’art. 3. 120. La Corte ricorda che per rientrare nell’ambito dell’art. 3, un maltrattamento deve raggiungere un minimo di gravità. La valutazione di questo minimo è relativa per definizione; la stessa dipende dall’insieme dei dati relativi al caso, e in particolare dalla durata del trattamento, dai suoi effetti fisici mentali nonché, talvolta, dal sesso, dall’età e dallo stato di salute della vittima. Quando un individuo viene privato della sua libertà, l’uso nei suoi riguardi della forza fisica, quando non è resa strettamente necessaria a causa del suo comportamento, attenta alla dignità umana e costituisce, in linea di massima, una violazione del diritto garantito dall’art. 3 (sentenza Tekin c. Turchia del 9 giugno 1998, Raccolta, 1998 - IV, pp. 1517-1518, parr. 52 e 53, e Assenov e altri citata, p. 3288, par. 94). La Corte ha ritenuto un tale trattamento ‘‘inumano’’, in particolare per essere stato applicato con premeditazione per delle ore e aver causato se non delle vere e proprie lesioni, quanto meno forti soffenze fisiche e morali, e ‘‘degradante’’ perché ha fatto scaturire nelle vittime dei sentimenti di paura, di angoscia e di inferiorità tali da umiliarli e avvilirli. Perché una pena o il trattamento da essa previsto siano ‘‘inumani’’ o ‘‘degradanti, la sofferenza o l’umiliazione devono in tutti i casi andare al di là di quello che comporta inevitabilmente una determinata forma di trattamento o di pena legittima. La questione di determinare se il trattamento aveva lo scopo di umiliare e di deprimere la vittima è un altro elemento da pren-
— 208 — dere in considerazione (vedi, per esempio, le sentenze V. c. Regno Unito [GC], n. 24888/94, par. 71, CEDU, 1999, e Raninen c. Finlandia del 16 dicembre 1997, Raccolta, 1997 — VIII, pp. 2821-2822, par. 55). L’assenza di un tale scopo non potrebbe comunque escludere in modo definitivo un accertamento di violazione dell’art. 3. 121. Le accuse di maltrattamenti devono essere sostenute dinanzi alla Corte da elementi di prova appropriati (vedi, mutatis mutandis, la sentenza Klaas c. Germania del 22 settembre 1993, serie A, n. 269, p. 17, par. 30). Per stabilire i fatti la Corte si serve del criterio della prova ‘‘al di là di ogni ragionevole dubbio’’; una tale prova può tuttavia risultare da un insieme di indizi, o di presunzioni non confutate, sufficientemente gravi, precise e concordanti (sentenza Irlanda c. Regno Unito del 18 gennaio 1978, serie A, n. 25, p. 65, par. 161, in fine). 122. Nella fattispecie, i maltrattamenti denunciati dal ricorrente sono consistiti da una parte in schiaffi, percosse, schiacciamento dei testicoli e manganellate, e dall’altra, in insulti, perquisizioni personali non necessarie umiliazioni quali il fatto di restare ammanettato durante le visite mediche, intimidazioni e minacce. 123. La Corte osserva innanzitutto che all’udienza dinanzi alla Corte, il Governo ha sostenuto l’assenza di qualsiasi prova medica da cui risulti che tali trattamenti abbiano raggiunto la soglia di gravità richiesta dalla disposizione invocata. Orbene, se è vero che tale argomentazione non era stata sollevata nella fase precedente del procedimento, la Corte ritiene tuttavia di doverla esaminare tenuto conto dell’importanza e della gravità di un eventuale accertamento di violazione dell’art. 3 della Convenzione. 124. La Corte nota che in effetti, come sottolineato dal Governo, il ricorrente non ha prodotto elementi di prova esaurienti a sostegno delle accuse di maltrattamenti, né ha fornito spiegazioni dettagliate sulle sevizie a cui sarebbe stato sottoposto da parte degli agenti di custodia del carcere di Pianosa tra luglio e settembre 1992. Lo stesso si limita a descrivere una situazione presumibilmente generalizzata a Pianosa in quel periodo e fa riferimento alla nota del presidente del Tribunale di sorveglianza del 12 dicembre 1996 (par. 50 supra). Dopo tutto, i soli elementi materiali citati dal ricorrente al riguardo, ossia il contenuto del registro medico del carcere di Pianosa (parr. 31-33 supra), un referto medico e il risultato di un’ecografia alle ginocchia, datati rispettivamente 24 marzo 1995 e 3 aprile 1996 (par. 34 supra), nonché un certificato relativo al suo stato di salute psichica redatto il 20 marzo 1996 (par. 35 supra), non sono sufficienti a colmare questa lacuna. Infatti, dal registro medico del carcere non risulta assolutamente che i problemi alla protesi dentaria del ricorrente siano stati la conseguenza delle percosse inflitte dagli agenti. Per quanto riguarda i problemi alle ginocchia, non vi sono prove che gli stessi derivino dai maltrattamenti, tanto più che la prima domanda di cure mediche al riguardo è datata 10 agosto 1993, mentre il ricorrente afferma che i maltrattamenti in questione erano considerevolmente diminuiti, se non cessati, dopo il mese di settembre del 1992. Peraltro, il certificato da cui risultavano dei problemi psicologici è stato redatto tre anni e sei mesi dopo i fatti in questione e non stabilisce alcun nesso di causalità con gli stessi, in quanto si limita a detenninarne l’inizio a tre anni prima (in un periodo, quindi, successivo ai fatti denunciati).
— 209 — 125. Certo, la Corte ammette che può essere difficile per un individuo ottenere prove riguardo ai maltrattamenti inflitti dagli agenti del carcere dove è detenuto; al riguardo, la Corte ha preso nota del fatto che, secondo il ricorrente, gli agenti di Pianosa esrcitavano pressioni sui detenuti perché non li denunciassero, a pena di ritorsioni. La Corte osserva, comunque, in primo luogo che il ricorrente non ha nemmeno indicato, per esempio, che gli sia mai stata rifiutata l’autorizzazione di vedere un medico. Inoltre, si è rivolto più volte alle autorità giudiziarie tramite i suoi avvocati in particolare per chiedere la sua scarcerazione (parr. 14, 15, 19, 21 supra), poco dopo il mese di settembre 1992, ossia poco dopo che i maltrattamenti in questione erano diminuiti se non cessati; il ricorrente ha denunciato tuttavia tali maltrattamenti solo all’udienza preliminare del 2 ottobre 1993 (par. 36 supra). Non ha fornito alcuna spiegazione per questo notevole ritardo. 126. La Corte ha visto la nota del presidente del Tribunale di sorveglianza del 12 dicembre 1996, presentata dal Governo stesso alla Commissione (par. 50 supra). Senza sottovalutare la gravità delle critiche ivi contenute, la Corte non può dimenticare che si tratta di una valutazione di carattere generale che non si fonda su fatti concreti e verificabili: la stessa non può pertanto attribuirle un valore di prova determinante. 127. In tali condizioni, la Corte ritiene che gli elementi di cui dispone riguardo all’affermazione del ricorrente secondo la quale sarebbe stato sottoposto a maltrattamenti fisici e psicologici nel carcere di Pianosa non forniscono indizi di natura tale da portare a una tale conclusione. 128. Tale accertamento non è, peraltro, rimesso in discussione dalle condizioni generali di vita nel carcere di Pianosa all’epoca in questione, così come descritte dal magistrato di sorveglianza di Livorno nella sua relazione del 5 settembre 1992 (parr. 42-43 supra), e nella misura in cui la stessa non contiene alcun elemento riguardante specificamente la situazione del ricorrente e che, d’altra parte, la gravità e l’entità degli abusi ivi descritti sono stati ricondotti a proporzioni meno allarmanti a seguito delle indagini condotte dalle sei autorità penitenziarie competenti (parr. 44-46 supra). 129. Infine, poiché gli elementi di cui la stessa dispone, non permettono di stabilire al di là di ogni ragionevole dubbio che il ricorrente è stato sottoposto a trattamenti abbastanza gravi da rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 3, la Corte ritiene che i fatti non sono sufficientemente provati per permetterle di concludere che vi è stata violazione dell’art. 3 della Convenzione per i maltrattamenti addotti. B) Sulla natura delle indagini condotte. 130. La Corte osserva che, messe insieme, le dichiarazioni rilasciate dal ricorrente al giudice per le indagini preliminari di Trapani all’udienza del 2 ottobre 1993 e le sue dichiarazioni ai carabinieri il 5 gennaio 1994, farebbero sorgere dei plausibili sospetti relativamente al fatto che l’interessato aveva subito dei trattamenti discutibili nel carcere di Pianosa. Non bisogna nemmeno dimenticare che le condizioni detentive a Pianosa erano state al centro dell’attenzione dei mass media nel periodo in questione (par. 44 supra), e che altri detenuti si erano lamentati di trattamenti simili a quelli ri-
— 210 — feriti dal ricorrente (parr. 36 e 43 supra), cosa che rafforza la credibilità delle accuse dell’interessato. 131. La Corte ritiene che quando un individuo afferma in modo plausibile di aver subito, per mano della polizia o di altri servizi equiparabili allo Stato, dei trattamenti contrari all’art. 3, tale disposizione, connessa con il dovere generale imposto allo Stato dall’art. 1 della Convenzione di ‘‘riconoscere a ogni persona sottoposta alla [sua] giurisdizione, i diritti e le libertà indicati (...) [nella] Convenzione’’, prevede, di conseguenza, che vi sia un’inchiesta ufficiale effettiva. Tale inchiesta, come quella risultante dall’art. 2, deve poter condurre all’identificazione e alla punizione dei responsabili (vedi per quanto riguarda l’art. 2 della Convenzione, le sentenza McCann e altri c. Regno Unito del 27 settembre 1995, serie A, n. 324, p. 49, par. 161; Kaya c. Turchia del 19 febbraio 1998, Raccolta, 1998-I, p. 324, par. 86; e Yasa c. Turchia del 2 settembre 1998, Raccolta, 1998 — VI, p. 2438, par. 98). Se così non fosse, nonostante la sua importanza fondamentale (par. 119 supra), l’interdizione legale generale della tortura e delle pene o trattamenti disumani o degradanti sarebbe in pratica inefficace, e sarebbe possibile, in certi casi, per alcuni agenti dello Stato calpestare, godendo di una semimpunità, i diritti degli individui sottoposti al loro controllo (vedi sentenza Assenov e altri citata, p. 3290, par. 102). 132. La Corte rileva che avendo il giudice per le indagini preliminari informato la procura competente delle accuse di maltrattamenti mosse dal Labita nel corso dell’udienza preliminare, le autorità dello Stato hanno condotto delle indagini al riguardo (parr. 37-41 supra). La stessa non è comunque convinta che tali indagini siano state sufficientemente approfondite ed effettive nel rispetto delle esigenze sopra citate dall’art. 3. 133. La Corte osserva innanzitutto che l’istruttoria condotta dalla procura di Livorno è stata molto lunga: dall’escussione del ricorrente da parte dei carabinieri del 5 gennaio 1994, sono trascorsi quattordici mesi prima che il ricorrente fosse nuovamente convocato per l’identificazione dei responsabili, mentre secondo quanto risulta dal fascicolo, la sola attività svolta nel frattempo è stata quella di ottenere non delle fotografie degli agenti di custodia che avevano lavorato a Pianosa, ma le fotocopie di tali fotografie. La Corte sottolinea che, durante questo periodo, il ricorrente è rimasto in stato detentivo a Pianosa. 134. La Corte ritiene particolarmente sorprendente il fatto che, anche se il ricorrente ha dichiarato una seconda volta, il 9 marzo 1995, di essere in grado di riconoscere i responsabili potendoli vedere di persona, nessun passo è stato fatto in tal senso, e che, solo nove giorni più tardi, la procura ha chiesto e ottenuto un’archiviazione perché ignoti gli autori del reato e non per infondatezza. 135. L’inerzia delle autorità italiane è ancor più riprovevole se si considera che la denuncia del ricorrente non era isolata: l’esistenza di pratiche discutibili da parte degli agenti di custodia del carcere di Pianosa era stata pubblicamente ed energicamente messa in discussione anche da parte delle autorità dello Stato (parr. 4245 supra). 136. In tali condizioni, tenuto conto dell’assenza di un’inchiesta approfondita ed effettiva riguardo all’affermazione plausibile del ricorrente secondo la quale lo stesso aveva subito dei maltrattamenti da parte degli agenti durante la sua
— 211 — detenzione a Pianosa, la Corte ritiene che vi è stata violazione dell’art. 3 della Convenzione. C) Sulla presunta natura disumana e degradante dei trasferimenti da Pianosa. 137. Il ricorrente ha altresì ritenuto che le condizioni in cui avvenivano i trasferimenti dei detenuti a Pianosa e in altri istituti penitenziari erano disumane e degradanti. 138. La Corte osserva, tuttavia, che l’interessato non ha fornito indicazioni dettagliate riguardo al numero, alle date e alle condizioni esatte dei suoi tasferimenti da Pianosa. Lo stesso non ha nemmeno denunciato le condizioni di tali trasferimenti dinanzi alle autorità competenti. Come la Commissione, anche la Corte ritiene di conseguenza che i fatti non sono sufficientemente provati per ritenere che vi sia stata violazione dell’art. 3 sotto tale aspetto. II. Sulla violazione dell’art. 5 par. 3 della Convenzione. 139. Il ricorrente lamenta la durata della sua custodia cautelare e invoca la violazione dell’art. 5 par. 3 della Convenzione, che recita: ‘‘3. Ogni persona arrestata o detenuta, conformemente alle condizioni previste dal par. 1 c) del presente articolo, deve essere, al più presto, condotta davanti ad un giudice o ad un magistrato autorizzato dalla legge ad esercitare funzioni giudiziarie ed ha il diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole, o liberata durante il corso del procedimento. La concessione della libertà può essere subordinata ad una garanzia che assicuri la comparizione dell’interessato all’udienza’’. 140.
Il Governo contesta tale tesi, mentre la Commissione la condivide.
A) Sulla perdita di qualità di vittima. 141. Il Governo sostiene che, poiché la Corte d’appello di Palermo ha concesso al ricorrente una somma a titolo di riparazione per la custodia cautelare subita, lo Stato convenuto avrebbe riconosciuto, almeno in sostanza, e riparato l’eventuale violazione dell’art. 5 par. 3 della Convenzione. Il ricorrente non può pertanto più ritenersi vittima di una tale violazione. 142. Nelle sue sentenze Amuur c. Francia del 25 giugno 1996 (Raccolta, 1996 — III, p. 846, par. 36; e Dalban c. Romania [GC], n. 28114/95, par. 44, CEDU, 1999 — VI), la Corte ha riaffermato che ‘‘una decisione o una misura a lui favorevole sono sufficienti, in linea di massima, a privarlo della qualità di vittima solo se le autorità nazionali hanno riconosciuto, esplicitamente o nella sostanza, e poi riparato la violazione della Convenzione’’. 143. Nella fattispecie, anche se la Corte d’appello di Palermo ha accolto la domanda di riparazione presentata dal ricorrente per ingiusta detenzione con decisione del 20 gennaio 1998, depositata in cancelleria il 23 gennaio 1998, la stessa ha applicato l’art. 314 par. 1 c.p.p., che riconosce il diritto ad una riparazione a ‘‘chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile’’ (par. 92 supra). Ora, la natura ‘‘ingiusta’’ della detenzione è una diretta conseguenza dell’avvenuto proscioglimento, e non equivale a constatare che la detenzione non era conforme alle esigenze dell’art. 5 della Convenzione. Anche se la durata della custodia cautelare subita dal ricorrente è stata presa in considerazione per il calcolo dell’importo della riparazione, non vi è, nella sentenza in questione, nessun riconoscimento, esplicito o implicito, della sua eccessività.
— 212 — 144. In conclusione, la Corte ritiene che, malgrado il pagamento di una somma a titolo di riparazione per la custodia cautelare subita, il ricorrente può tuttora ritenersi ‘‘vittima’’, ai sensi dell’art. 34 della Convenzione, di una violazione dell’art. 5 par. 3. B) Sul contenuto del motivo di ricorso. — 1. derazione.
Periodo da prendere in consi-
145. Le parti e la Commissione convengono che il periodo da prendere in considerazione è iniziato il 21 aprile 1992, data in cui il sig. Labita è stato posto in custodia cautelare in carcere. 146. Riguardo al dies ad quem, il ricorrente e la Commissione ritengono che sia da prendere in considerazione la data in cui l’interessato è stato posto in libertà, ossia il 13 novembre 1994 (par. 24 supra); il Governo, invece, ritiene che il periodo è terminato il 12 novembre 1994, data in cui è stata pronunciata la sentenza di primo grado (par. 23 supra). 147. La Corte ricorda che il termine finale del periodo considerato dall’art. 5 par. 3 è ‘‘il giorno in cui è stato deliberato sul fondamento dell’accusa, anche se solo in primo grado’’ (vedi sentenza Wemhoff c. Germania del 27 giugno 1968, serie A, n. 7, p. 23, par. 9). La custodia cautelare di Labita ai sensi dell’art. 5 par. 3 della Convenzione è terminata quindi il 12 novembre 1994. 148. Pertanto, il periodo da prendere in considerazione è di circa due anni e sette mesi. 2. Carattere ragionevole della durata della detenzione. — a) Tesi delle parti. 149. Secondo il sig. Labita, la durata della sua custodia cautelare non può essere ritenuta giustificata in base all’art. 5 par. 3 della Convenzione. Non vi era alcun indizio di colpevolezza rilevante, le accuse si basavano soltanto sulle accuse false di un solo ‘‘pentito’’, né vi era alcun rischio di reiterazione; infatti il ricorrente ha avuto la sfortuna di essere accusato di appartenere alla mafia in un periodo in cui le autorità italiane volevano rendere noti i loro sforzi nella lotta contro la mafia: non vi sarebbe stata alcuna possibilità per il ricorrente di essere rimesso in libertà, malgrado la sua fedina penale pulita. 150. Il Governo è d’accordo per quanto riguarda la durata eccessiva della custodia cautelare subita dal ricorrente, ma la ritiene giustificata nel caso in esame, tenuto conto in particolare dei gravi indizi a suo carico. Il Governo osserva in particolare che quando si tratta, come nella fattispecie, di reati connessi alla mafia, le autorità competenti devono necessariamente condurre delle indagini molto difficili e approfondite nell’ambito di ‘‘maxi processi’’, la cui conduzione comporta inevitabilmente un’istruzione e un dibattimento particolarmente lunghi e complessi. 151. La Commissione ritiene che il presunto pericolo di fuga, di recidiva e di inquinamento delle prove sarebbe dovuto, col passare del tempo, essere sostenuto dalle autorità competenti in modo più concreto e specifico. La presunzione stabilita dall’art. 273 c.p.p. non legittima da sola, secondo la Commissione, la durata della detenzione in questione. Inoltre, la Commissione ritiene che il procedimento in questione non sia stato condotto con la celerità particolare richiesta dall’art. 5 par. 3; infatti benché gli
— 213 — elementi a carico del ricorrente fossero molto deboli, il Governo si è limitato ad invocare la generica necessità di condurre indagini complesse di natura bancaria e fiscale, senza pertanto precisare quali atti si sono rivelati necessari e quali sono stati effettivamente compiuti. b) Valutazione della Corte. — i) Principi derivanti dalla giurisprudenza della Corte. 152. Secondo la giurisprudenza della Corte, il termine ragionevole della custodia cautelare non si presta ad una valutazione astratta. Il carattere ragionevole del mantenimento in stato detentivo di un accusato deve essere valutato in ogni singolo caso in base alle particolarità della causa. Il protrarsi della reclusione si giustifica solo, in una data fattispecie, quando da indizi concreti emerge una reale esigenza di interesse pubblico che prevale, nonostante la presunzione di innocenza, sulla regola del rispetto della libertà individuale (v. tra le altre, la sentenza W. c. Svizzera del 26 gennaio 1993, serie A, n. 254-A, p. 15, par. 30). Spetta, in primo luogo, alle autorità giudiziarie nazionali di vigilare affinché in un determinato caso, la durata della custodia cautelare di un accusato non oltrepassi il limite ragionevole. A tal fine, occorre esaminare tutte le circostanze in grado di provare o escludere l’esistenza di un’effettiva esigenza di interesse pubblico che giustifichi, tenuto conto della presunzione di innocenza, un’eccezione alla regola della libertà individuale e motivarla nelle decisioni che rigettano le domande di remissione in libertà. È essenzialmente sulla base dei motivi risultanti dalle dette decisioni nonché dai fatti non controversi, indicati dall’interessato nelle sue istanze, che la Corte deve determinare se vi è stata o meno violazione dell’art. 5 par. 3 della Convenzione. 153. Il perdurare di fondati motivi di ritenere che la persona arrestata abbia commesso un reato è una condizione sine qua non per la regolarità del protrarsi della sua detenzione. Dopo un certo periodo, però, tale condizione non è più sufficiente. La Corte deve perciò, in questo caso, stabilire se gli altri motivi addotti dalle autorità giudiziarie continuino a legittimare la privazione della libertà. Quando tali motivi si rivelano ‘‘pertinenti’’ e ‘‘sufficienti’’, la stessa deve determinare, inoltre, se le autorità nazionali competenti hanno agito con ‘‘particolare diligenza’’ nel proseguimento del procedimento (vedi in particolare mutatis mutandis, le sentenze Contrada c. Italia del 24 agosto 1998, Raccolta, 1998 - V, p. 2185, par. 54, e I.A. c. Francia del 23 settembre 1998, Raccolta, 1998 - VII, p. 2978, par. 102). ii) Applicazione nella fattispecie. 154. La Corte osserva che le autorità competenti hanno esaminato per tre volte la questione del mantenimento in stato detentivo del ricorrente a seguito delle sue istanze di scarcerazione, il 6 maggio 1992, il 29 dicembre 1992 e l’8 febbraio 1993. Inoltre, il 22 giugno 1993, le stesse hanno esaminato la questione della proroga dei termini massimi di custodia cautelare (parr. 14-20 supra). Riguardo al rifiuto di concedere la libertà al sig. Labita, le suddette hanno sostenuto allo stesso tempo la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico del ricorrente e il rischio di pressioni sui testimoni e di inquinamento delle prove; le stesse hanno sostenuto altresì la presunzione stabilita dall’art. 275 par. 3 c.p.p. (par. 87 supra).
— 214 — Riguardo alla decisione di prolungare la custodia cautelare, le stesse hanno invocato il pericolo di inquinamento delle prove e di pericolosità degli imputati, oltre alla complessità della causa e alla necessità di istruzione, in particolare la necessità di condurre indagini bancarie molto complesse. a) La persistenza di fondati motivi di sospettare del ricorrente. 155. Riguardo ai ‘‘fondati motivi di sospettare’’, citati dall’art. 5, par. 1, c) della Convenzione, la Corte ricorda che l’assenza di imputazione e di rinvio a giudizio non implica necessariamente che una privazione della libertà non persegue un obiettivo conforme all’art. 5, par. 1 c). L’esistenza di un tale scopo deve essere previsto indipendentemente dalla sua realizzazione e il comma c) dell’art. 5 par. 1 non presuppone che la polizia abbia raccolto delle prove sufficienti a formulare delle accuse, sia al momento dell’arresto che durante il fermo (vedi le sentenze Erdaöz c. Turchia del 22 ottobre 1997, Raccolta, 1997 — VI, p. 2314, par. 51, e Brogan e altri c. Regno Unito del 29 novembre 1988, serie A, n. 145-B p. 29, par. 53). Perché i sospetti siano plausibili, devono sussistere fatti o informazioni atti a persuadere un osservatore obiettivo del fatto che l’individuo in causa può aver commesso il reato (sentenze Erdagöz citata, p. 2314, par. 51 in fine, e Fox, Campbell e Hartley c. Regno Unito del 30 agosto 1990, serie A, n. 182, p. 16, par. 32). 156. Nella fattispecie, le accuse mosse a carico del ricorrente provenivano da una sola fonte, un ‘‘pentito’’ che, nel 1992, ha affermato di aver appreso da una fonte indiretta che il ricorrente era il tesoriere di un’organizzazione mafiosa (par. 10 supra). Secondo le autorità competenti, tali dichiarazioni costituirono nel maggio 1992, degli elementi di prova sufficienti a giustificare il mantenimento in stato detentivo del ricorrente, data l’attendibilità e l’affidabilità generali del ‘‘pentito’’ in questione (par. 12 supra). 157. La Corte è consapevole del fatto che la collaborazione dei ‘‘pentiti’’ rappresenta uno strumento molto importante nella lotta delle autorità italiane contro la mafia. L’utilizzo delle loro dichiarazioni pone tuttavia una serie di problemi delicati poiché, per la loro natura, simili dichiarazioni possono essere il risultato di manipolazioni, e perseguire unicamente lo scopo di ottenere i benefici che la legge italiana concede ai ‘‘collaboratori di giustizia’’ o ancora mirare a vendette personali. La natura a volte ambigua di tali dichiarazioni e il rischio che una persona possa essere accusata e arrestata sulla base di alienazioni non controllate e non necessariamente disinteressate non devono pertanto essere sottovalutati (vedi la causa Contrada c. Italia, ricorso n. 27143/95, decisione della Commissione del 14 gennaio 1997. Decisioni e rapporti 88-A, p. 112). 158. Per tali motivi, come riconosciuto dagli organi giudiziari interni, le dichiarazioni dei ‘‘pentiti’’ devono essere corroborate da altri elementi; inoltre, le testimonianze indirette devono essere confermate da elementi oggettivi. 159. Quanto detto, secondo la Corte, è tanto più vero quando si tratta di prorogare la custodia cautelare: se le dichiarazioni di ‘‘pentiti’’ possono validamente giustificare, inizialmente, la detenzione dell’interessato, inevitabilmente le stesse non sono più pertinenti con il passare del tempo, in particolare se con il progredire delle indagini non si scoprono ulteriori elementi di prova.
— 215 — 160. Nella fattispecie, come confermato dal Tribunale di Trapani e dalla Corte d’appello di Palermo nelle loro decisioni di proscioglimento nei confronti del ricorrente, la Corte constata che le dichiarazioni indirette di B.F. non sono state corroborate da alcun elemento; al contrario, la persona che era la fonte principale anche se indiretta, di B.F. era già deceduta nel 1989, e la persona fonte d’informazione, anch’essa indiretta, di tale persona, era stata parimenti assassinata prima di poter essere interrogata; inoltre le dichiarazioni di B.F. erano state già smentite nel corso dell’inchiesta da altri ‘‘pentiti’’, che avevano riferito di non riconoscere il ricorrente (par. 18 supra). 161. In tali circostanze, perché la durata della detenzione del ricorrente (due anni e sette mesi) trovi giustificazione ai sensi dell’art. 5 par. 3 avrebbe dovuto basarsi su giustificazioni più convincenti. b) Gli ‘‘altri motivi’’ del mantenimento in stato detentivo). — 162. Gli organi giudiziari nazionali hanno ricordato il rischio di pressioni sui testimoni e di inquinamento delle prove, la pericolosità degli imputati, la complessità della causa e le necessità di istruzione. Le stesse si sono infatti basate sulla presunzione stabilita dall’art. 275 par. 3 c.p.p. (par. 87 supra). 163. La Corte osserva che le motivazioni delle decisioni pertinenti erano, almeno all’inizio, plausibili, ma anche molto generiche; si riferivano alla totalità dei detenuti e si limitavano a citare astrattamente la natura del reato in causa. Non contenevano alcuna considerazione a sostegno dei rischi evocati e non ne stabilivano la realtà in rapporto al ricorrente, che non aveva alcun precedente ed era accusato di un ruolo minore nell’ambito dell’associazione mafiosa in questione (il procuratore aveva richiesto per lui una pena di tre anni). Le stesse non tenevano conto del fatto che le accuse a carico del ricorrente si basavano su elementi che, col tempo, si affievolivano invece di rafforzarsi. 164. La Corte ritiene pertanto che i motivi invocati nelle decisioni in questione non erano sufficienti per giustificare il mantenimento in stato detentivo del ricorrente per due anni e sette mesi. 165. La detenzione oggetto di causa ha quindi violato l’art. 5 par. 3 della Convenzione. III. Sulla presunta violazione dell’art. 5 par. 1 della Convenzione. 166. Il sig. Labita afferma di aver subito una detenzione illegale di dodici ore dopo il suo proscioglimento. 167. L’art. 5 par. 1 della Convenzione recita: ‘‘1. Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge: a) se è detenuto legittimamente dopo una condanna da parte di un Tribunale competente; b) se è stato oggetto di un arresto o di una detenzione legittima per inosservanza di un’ordinanza emessa, conformemente alla legge, da un Tribunale o per garantire l’esecuzione di un obbligo prescritto dalla legge; c) se è stato arrestato o detenuto per essere condotto avanti l’autorità giudiziaria competente, quando si ha fondato motivo di supporre che abbia com-
— 216 — messo un reato o si ha motivo di credere che è necessario impedire che commetta un reato o che fugga dopo il compimento di questo; d) se si tratta della detenzione legittima di un minore, stabilita per sorvegliare la sua educazione o della detenzione disposta al fine di tradurlo avanti l’autorità competente; e) se si tratta della detenzione legittima di una persona capace di diffondere una malattia contagiosa, di un malato mentale, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo; f) se si tratta dell’arresto o della detenzione legittima di una persona per impedirle di entrare nel territorio clandestinamente o contro la quale è in corso un procedimento di espulsione o di estradizione’’. 168. Il ricorrente sostiene che avrebbe dovuto essere scarcerato immediatamente dopo il suo proscioglimento; infatti, il controllo di eventuali altre cause di detenzione avrebbe dovuto essere effettuato già prima dell’udienza, in previsione di un possibile proscioglimento. Le altre formalità amministrative avrebbero potuto essere effettuate dopo la sua scarcerazione. 169. Il Governo ricorda che, sebbene dopo la pronuncia del suo proscioglimento in udienza, un detenuto sia considerato ‘‘in libertà’’, la sua scarcerazione richiede l’espletamento di alcune formalità amministrative, in particolare e prima di tutto la verifica di eventuali altre cause di detenzione. Poiché tale verifica spetta al personale penitenziario su ordine della procura è indispensabile condurre il detenuto nell’istituto penitenziario prima di scarcerarlo. Nella fattispecie, è stato necessario portare il sig. Labita da Trapani, dove si è svolto il processo, a Termini Imerese, che si trova a circa 120 km. di distanza. Quanto al ritardo nella scarcerazione dovuto all’assenza dell’impiegato dell’ufficio matricola, il ministro della giustizia, nella sua nota datata 31 gennaio 1997 e inviata alla Commissione, ha ammesso che lo stesso era ingiustificato; peraltro, il ministro ha precisato che, dal marzo 1996, sono state date istruzioni ai direttori degli istituti penitenziari affinché la scarcerazione dei detenuti possa avvenire in qualsiasi momento, anche di notte. 170. La Corte ricorda che l’elenco delle eccezioni al diritto alla libertà contenute nell’art. 5 par. 1 è restrittiva e che solo una interpretazione concorda con lo scopo di tale disposizione: assicurare che nessuno venga arbitrariamente privato della propria libertà (vedere, in particolare, le sentenze Giulia Manzoni c. Italia del 1o luglio 1997, Raccolta, 1997 — IV, p. 1191, par. 25; e Quinn c. Francia del 22 marzo 1995, serie A, n. 311, p. 17, par. 42). 171. Se è vero che la detenzione legittima ai sensi dell’art. 5 par. 1 c) termina ‘‘il giorno in cui viene deliberato sulla fondatezza dell’accusa’’ (par. 147 supra), e che, di conseguenza, la detenzione di un individuo successiva al suo proscioglimento non può più essere conforme alla suddetta disposizione, la Corte accetta il fatto che ‘‘un certo termine per l’esecuzione di una decisione di scarcerazione sia inevitabile, anche se deve essere ridotto al minimo’’ (vedi la sentenza Giulia Manzoni citata, p. 1191, par. 25 in fine). 172. La Corte osserva, tuttavia, che nel caso in esame il ritardo nella liberazione del ricorrente è dovuto solo in parte alla necessità di compiere le formalità amministrative legate alla scarcerazione. Infatti, il prolungamento della deten-
— 217 — zione, dell’interessato tra le 0,25 e la mattina del 13 novembre 1993 è stato provocato dall’assenza dell’impiegato dell’ufficio matricola. Solo al ritorno di questo funzionario è stato possibile controllare se il ricorrente doveva essere detenuto per altra causa e sono state espletate le altre formalità amministrative necessarie alla scarcerazione (par. 24 supra). 173. In tali circostanze, il mantenimento in stato detentivo del sig. Labita dopo il suo ritorno nel carcere di Termini Imerese non costituiva un inizio di esecuzione dell’ordine di scarcerazione, e non rientrava quindi né nel comma c) del par. 1 dell’art. 5, né in nessun altro dei suoi commi. 174.
Pertanto, vi è stata violazione dell’art. 5 par. 1 al riguardo.
IV.
Sulla presunta violazione dell’art. 8 della Convenzione.
175. Il ricorrente si lamenta del controllo, effettuato dalle autorità dell’istituto penitenziario di Pianosa, sulla corrispondenza con la sua famiglia e con il suo avvocato. L’art. 8 della Convenzione recita: ‘‘1. Ogni persona ha diritto al rispetto (...) della sua corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di questo diritto a meno che questa ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la sicurezza pubblica, per il benessere economico del paese, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà degli altri’’. 176. La Commissione ha espresso all’unanimità il parere che, nella fattispecie, vi era stata violazione dell’art. 8 della Convenzione, in quanto l’ingerenza nell’esercizio del diritto del ricorrente al rispetto della propria corrispondenza non era ‘‘prevista dalla legge’’ nella misura in cui la legislazione applicabile, ossia l’art. 18 della l. n. 354 del 1975 — che non disciplina né la durata delle misure di controllo della corrispondenza dei detenuti, né i motivi che possono giustificarle — non indica con sufficiente chiarezza l’estensione e le modalità di esercizio del potere di valutazione delle autorità competenti nell’ambito considerato. La Commissione si è basata sulle sentenze della Corte nelle cause Calogero Diana e Domenichini, riguardanti il controllo della corrispondenza dei detenuti (sentenze Calogero Diana c. Italia del 15 novembre 1996, Raccolta, 1996 — V, pp. 1775-1776, par. 29-33, e Domenichini c. Italia del 15 novembre 1996, Raccolta, 1996 — V, pp. 1799-1800, parr. 29-33). 177. Riguardo alla decisione della Corte nelle sentenze Calogero Diana e Domenichini, il Governo non contesta le conclusioni della Commissione. Lo stesso ha precisato che il ministro della giustizia ha presentato al Senato, il 23 luglio 1999, un progetto di legge relativo alla modifica della legge applicabile per confomarsi alle sentenze della Corte sopra citate. 178. Come il Governo e la Commissione, anche la Corte ritiene che vi sia stata ‘‘ingerenza di un’autorità pubblica’’ nell’esercizio del diritto del ricorrente al rispetto della corrispondenza, sancito dal par. 1 dell’art. 8 della Convenzione. 179. Una simile ingerenza disattende tale disposizione salvo se, ‘‘prevista dalla legge’’, persegua uno o più scopi legittimi ai sensi del par. 2 e, inoltre, se sia
— 218 — ‘‘necessaria in una società democratica’’ per il raggiungimento di detti scopi (sentenze Silver e altri c. Regno Unito del 25 marzo 1983, serie A, n. 61, p. 32, par. 84, e Campbell c. Regno Unito del 25 marzo 1992, serie A, n. 233, p. 16, par. 34, Calogero Diana citata, p. 1775, par. 28, Domenichini citata, p. 1799, par. 28, e Petra c. Romania del 23 settembre 1998, Raccolta, 1998 — VII, p. 2853, par. 36). A) ‘‘Previsto dalla legge’’. 1. I periodi dal 21 aprile 1992 al 20 luglio 1992, dal 15 settembre 1993 al 21 febbraio 1994, e dal 13 agosto 1994 al 13 novembre 1994. 180. Per quanto riguarda i periodi suddetti, il controllo della corrispondenza del ricorrente, ordinato con provvedimenti del Tribunale di Trapani, si basava sull’art. 18 della l. n. 354 dd 1975 (parr. 54 e 58 supra). Tuttavia, la Corte non vede alcun motivo per non condividere il parere della Commissione: sebbene si basasse sulla suddetta disposizione, il controllo della corrispondenza del sig. Labita non era conforme all’art. 8 delIa Convenzione. 2.
Il periodo dal 20 luglio 1992 al 15 settembre 1993.
181. Nel periodo in questione, detto controllo si fondava sul decreto del ministro della giustizia disposto conformemente all’art. 41-bis della l. n. 354 del 1975 (parr. 55-56 supra). 182. La Corte constata che, basandosi sull’art. 15 della Costituzione, la Corte costituzionale italiana ha dichiarato che il ministro della giustizia non era competente per adottare le misure riguardanti la corrispondenza dei detenuti e aveva quindi oltrepassato i limiti delle proprie attribuzioni secondo il diritto italiano (par. 102 supra). Il controllo della corrispondenza del ricorrente nel periodo in questione non era quindi conforme al diritto nazionale, non era ‘‘previsto dalla legge’’ ai sensi dell’art. 8 della Convenzione. 3.
Il periodo dal 21 febbraio 1994 al 10 giugno 1994.
183. Durante il periodo suddetto il controllo della corrispondenza del ricorrente era privo di qualsiasi base legale (par. 59 supra). 4. Conclusione. 184. In conclusione, le varie misure di controllo della corrispondenza del ricorrente dallo stesso denunciate non erano ‘‘previste dalla legge’’ ai sensi dell’art. 8 della Convenzione. Vi è stata quindi violazione di tale articolo. B) Finalità e necessità dell’ingerenza. 185. Riguardo alla conclusione che precede, la Corte non ritiene necessario verificare nella fattispecie il rispetto delle altre esigenze del par. 2 dell’art. 8. V. Sulla pretesa violazione dell’art. 6 par. 3 della Convenzione. 186. Il ricorrente lamenta inoltre una violazione dei suoi diritti di difesa per quanto riguarda il controllo della corrispondenza con il suo avvocato. Lo stesso invoca l’art. 6 della Convenzione, la cui parte relativa dispone: ‘‘Ogni accusato ha diritto a: (...); b) disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la difesa;
— 219 — c) difendersi personalmente o con l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire il difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato di ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia; (...)’’. 187. La Corte considera, alla luce della sue conclusioni sopra riportate ai sensi dell’art. 8 della Convenzione, che tale motivo è assorbito dalla precedente. 188. Inoltre, e in ogni caso, la Corte osserva che il ricorrente non ha precisato in che cosa la sua difesa sarebbe stata ostacolata dal controllo della corrispondenza con il suo avvocato e, del resto, al termine del procedimento in questione, lo stesso è stato definitivamente prosciolto. VI. Sulla pretesa violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione. 189. Secondo il ricorrente, l’applicazione nei suoi confronti della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza nonostante il suo proscioglimento ha disatteso l’art. 2 del Protocollo n. 4 in base al quale: ‘‘1. Chiunque si trovi regolarmente sul territorio di uno Stato ha il diritto di circolarvi liberamente e di scegliervi liberamente la propria residenza. 2. Ogni persona è libera di lasciare qualsiasi Paese ivi compreso il proprio. 3. L’esercizio di questi diritti non può essere soggetto ad altre restrizioni che non siano quelle che, previste dalla legge, costituiscono delle misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per la sicurezza pubblica, per il mantenimento dell’ordine pubblico, per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la salvaguardia dei diritti e delle libertà altrui. 4. I diritti riconosciuti al par. 1 possono inoltre, in alcune zone determinate, essere oggetto di restrizioni, previste dalla legge e giustificate dall’interesse pubblico in una società democratica’’. 190. Il Governo sottolinea l’importanza della prevenzione penale per quel che riguarda le persone sospettate di appartenere alla mafia. Lo stesso precisa peraltro che la circostanza che il ricorrente sia stato prosciolto non vizia la legittimità delle misure di prevenzione che sono state applicate nei suoi confronti. Infatti, nell’ordinamento giuridico italiano, la sanzione penale e la misura di prevenzione differiscono sostanzialmente: una costituisce una reazione contro un atto che ha violato il diritto e ha prodotto talune conseguenze; l’altra costituisce un mezzo per evitare il verificarsi di un tale atto. In altre parole, la sanzione è una risposta a un reato già commesso mentre la misura di prevenzione tende ad evitare il pericolo di reati futuri. La Corte lo ha del resto riconosciuto nella sentenza Raimondo (sentenza Raimondo c. Italia del 22 febbraio 1994, serie A, n. 281-A, p. 19, par. 39). Nella fattispecie, benché il ricorrente sia stato prosciolto (il Governo sottolinea al riguardo che la formula ‘‘col beneficio del dubbio’’ è stata ormai abolita), vi erano a suo carico gravi indizi di colpevolezza che avevano giustificato il suo rinvio a giudizio e che non sono stati smentiti nel corso del processo. 191. Il ricorrente osserva che dopo il suo proscioglimento ‘‘per non aver commesso il fatto’’, non vi era più motivo di trattarlo da criminale mafioso, poiché i ‘‘gravi indizi’’ a suo carico erano stati smentiti durante il processo, contrariamente a quanto afferma il Governo.
— 220 — 192. La Commissione ritiene che i motivi addotti dagli organi giudiziari italiani fossero insufficienti, in particolare l’esistenza di rapporti familiari con la mafia. 193. La Corte osserva che il ricorrente ha subito, per tre anni (dal 19 novembre 1994 al 18 novembre 1997: parr. 69 e 76 supra), delle restrizioni molto gravi alla sua libertà di movimento, che si traducono, indubbiamente, in un’ingerenza nei suoi diritti garantiti dall’art. 2 del Protocollo n. 4 (vedi le sentenze Guzzardi c. Italia del 6 novembre 1980, serie A, n. 39, p. 33, par. 92, e Raimondo sopra citata, p. 19, par. 39). 194. Tali misure si basavano sulle ll. n. 1423 del 1956, n. 575 del 1965, n. 327 del 1988 e n. 55 del 1990 (parr. 103-109 supra) ed erano quindi ‘‘previste dalla legge’’ ai sensi del par. 3 dell’art. 2. Le stesse perseguivano evidentemente gli scopi legittimi del ‘‘mantenimento dell’ordine pubblico’’ nonché della ‘‘prevenzione dei reati’’ (sentenza Raimondo citata, p. 19, par. 39). 195. Inoltre occorreva che fossero ‘‘necessarie, in una società democratica’’ per perseguire detti scopi legittimi. Al riguardo, la Corte trova legittimo il fatto che misure di prevenzione e in particolare la sorveglianza speciale siano applicate nei confronti di individui sospettati di appartenere alla mafia anche prima della loro condanna poiché tendono ad impedire il compimento di atti criminali. Peraltro il proscioglimento eventualmente sopravvenuto non le priva necessariamente di ogni ragion d’essere: infatti, elementi concreti raccolti durante un processo, anche se insufficienti per giungere ad una condanna, possono tuttavia giustificare dei ragionevoli dubbi che l’individuo in questione possa in futuro commettere dei reati. 196. Orbene, nella fattispecie, la sorveglianza speciale applicata nei confronti di Labita è stata decisa il 10 maggio 1993, quando esistevano effettivamente degli indizi sulla sua appartenenza alla mafia, ma è stata applicata solo dal 19 novembre 1994, ossia dopo il proscioglimento pronunciato dal Tribunale di Trapani (parr. 63 e 69 supra). La Corte ha esaminato i motivi addotti dagli organi giudiziari competenti riguardo al rifiuto di revocare tale misura nonostante il proscioglimento, ossia la circostanza che secondo B.F. il ricorrente era legato al clan mafioso di Alcamo, come lo provava il fatto che il cognato deceduto era stato il capomafia del clan principale (decisione del Tribunale di Trapani dell’11 giugno 1996, par. 72 supra) e che ‘‘il ricorrente non aveva dimostrato di aver realmente cambiato il proprio stile di vita né di essersi realmente pentito’’ (decisione del Tribunale di Trapani del 21 ottobre 1997; par. 75 supra). La Corte non comprende come mai il semplice fatto che la moglie del ricorrente sia la sorella di un capomafia, nel frattempo deceduto, possa giustificare delle misure così pesanti nei confronti del ricorrente, in assenza di un qualsiasi elemento concreto che testimoni un rischio reale che lo stesso commetta un reato. Quanto al cambiamento di vita e al pentimento, la Corte non può dimenticare che il ricorrente, che non ha alcun precedente penale, è stato prosciolto dall’accusa di appartenenza alla mafia poiché, nel corso delle indagini preliminari e durante il processo, non è stato riscontrato alcun elemento concreto che potesse dimostrare la sua affiliazione alla mafia.
— 221 — 197. Così, senza sottovalutare la minaccia rappresentata dalla mafia, la Corte conclude che le restrizioni della libertà di movimento di Labita non potevano ritenersi ‘‘necessarie in una società democratica’’. Vi è stata quindi violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 4. VII. Sulla presunta violazione dell’art. 3 del Protocollo n. 1 alla Convenzione. 198. Il ricorrente ritiene che la sua cancellazione dalle liste elettorali, malgrado il suo proscioglimento, costituisca una violazione dell’art. 3 del Protocollo n. 1, che dispone: ‘‘Le Alte Parti contraenti si impegnano ad organizzare, ad intervalli ragionevoli, libere elezioni a scrutinio segreto, in condizioni tali da assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo’’. 199. Il Governo sostiene che tale misura tende a impedire che la mafia influenzi i collegi rappresentativi; tenuto conto del rischio reale che persone sospettate di appartenere alla mafia esercitino il loro diritto di voto a favore di altri membri della mafia, la cancellazione temporanea di Labita dalle liste elettorali non era affatto incongrua. 200. La Commissione al contrario trova tale misura incongrua, tenuto conto in particolare del proscioglimento del ricorrente e del rischio di allontanarlo ulteriormente dalla società civile. 201. La Corte ricorda che l’art. 3 del Protocollo n. 1, che prescrive elezioni ‘‘libere’’, tenute ‘‘ad intervalli ragionevoli’’, ‘‘a scrutinio segreto’’ e ‘‘in condizioni tali da assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo’’, implica il diritto all’elettorato attivo e passivo. Per quanto importanti, tali diritti non sono tuttavia assoluti. Come l’art. 3 riconosce senza specificarle esplicitamente né tanto meno le definisce, vi è spazio per delle ‘‘limitazioni implicite’’ (sentenza Mathieu-Mohin e Clerfayt c. Belgio de 2 marzo 1987, serie A, n. 113, p. 23, par. 52). Nei loro rispettivi ordinamenti giuridici, gli Stati contraenti pongono ai diritti di voto e di eleggibilità delle condizioni alle quali l’art. 3 non pone in linea di massima ostacoli. Gli stessi godono in materia di un ampio margine di discrezionalità, ma spetta alla Corte di decidere in ultima istanza sull’osservanza delle esigenze del Protocollo n. 1; la stessa deve assicurarsi che le suddette condizioni non limitino i diritti in questione, al punto tale da colpirli anche nella sostanza e privarli della loro effettività, che perseguano uno scopo legittimo e che i mezzi impiegati non si rivelino sproporzionati (vedi le sentenze Gitonas e altri c. Grecia del 1o luglio 1997, Raccolta, 1997, IV, p. 1233, par. 39, e Matthews c. Regno Unito [GC], n. 24833/94, par. 63, CEDU, 1999, I). 202. La Corte osserva che la cancellazione dalle liste elettorali per decadenza dai diritti civili è una conseguenza automatica dell’applicazione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, quindi sia del carattere ‘‘socialmente pericoloso’’ di un individuo, sia, come nella fattispecie, dei sospetti di appartenenza alla mafia che pesano su di lui (parr. 107 e 110 supra). In effetti, il Governo ha segnalato il rischio che delle persone ‘‘sospettate di appartenere alla mafia’’ esercitino il loro diritto di voto a favore di altri membri mafiosi. 203.
La Corte non può dubitare del fatto che la sospensione temporanea del
— 222 — diritto di voto di una persona su cui pesano degli indizi di appartenenza alla mafia non persegua uno scopo legittimo. La stessa osserva tuttavia che nella fattispecie, anche se decisa durante il processo, la misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza nei confronti del ricorrente è stata applicata solo alla fine del processo, una volta che l’interessato è stato prosciolto ‘‘per non aver commesso il fatto’’; la Corte non può condividere l’opinione del Governo secondo la quale i gravi indizi di colpevolezza del ricorrente non erano stati smentiti durante il processo: tale affermazione è infatti totalmente in contraddizione con il contenuto della sentenza del Tribunale di Trapani (par. 26 supra). Al momento della sua cancellazione dalle liste elettorali, quindi, non vi era alcun elemento concreto che permettesse di ‘‘sospettare’’ il ricorrente di appartenenza alla mafia (vedi, mutatis mutandis, il par. 196 supra). In tali circostanze, la Corte non può ritenere proporzionata la misura in questione. È stato pertanto violato l’art. 3 del Protocollo n. 1. VIII. Sull’applicazione dell’art. 1 della Convenzione. 204. Ai sensi dell’art. 41 della Convenzione, ‘‘Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, e se il diritto interno della Alta Parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, quando è il caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa’’. A) Danni. 205. Il ricorrente chiede la somma di 2 miliardi di lire italiane per il danno fisico e psichico. Lo stesso chiede inoltre la somma di 1 miliardo di lire italiane corrispondente al danno materiale subito per la confisca di alcuni immobili nonché dell’interruzione dell’attività della sua discoteca durante il processo fino al 1995 e del sequestro della sua partecipazione nella società. 206. Il Governo nega l’esistenza di un nesso di causalità tra il danno materiale invocato e le violazioni addotte, sottolineando il fatto che il ricorrente non ha proposto ricorso dinanzi agli organi di Strasburgo avverso la confisca e il sequestro sopra menzionati. Riguardo alla durata della detenzione il Governo sottolinea il fatto che il ricorrente ha già ottenuto una riparazione adeguata a livello nazionale. 207. Riguardo alla confisca dei beni del ricorrente e del sequestro della sua partecipazione nella società, la Corte condivide l’opinione del Governo secondo la quale l’importo richiesto a titolo di danno materiale non ha un nesso di causalità con le violazioni constatate nella fattispecie. La stessa deve altresì tener conto del fatto che il ricorrente ha già ottenuto dalle giurisdizioni nazionali una riparazione per qualsiasi danno eventualmente causato con la custodia cautelare subita. La Corte ritiene tuttavia che, riguardo alla gravità e al numero delle violazioni constatate nella fattispecie, al sig. Labita deve essere concesso un indennizzo per il danno morale subito. Deliberando equamente, come previsto dall’art. 41 della Convenzione, la Corte determina la somma di 75.000.000 di lire italiane.
— 223 — B) Spese. 208. Il ricorrente chiede infine il rimborso delle spese e onorari sostenuti dinanzi alla Commissione e alla Corte, senza tuttavia specificarne l’importo. 209.
Il Governo si rimette al giudizio della Corte.
210. Tenuto conto del fatto che il sig. Labita, che aveva beneficiato dell’assistenza giudiziaria gratuita dinanzi alla Commissione, non indica alcun importo e non ha presentato alcuna nota relativa alle spese e onorari, la Corte respinge la domanda relativa alle spese processuali (sentenza Calogero Diana citata, p. 1778, par. 47, e Papageorgiou c. Grecia del 22 ottobre 1997, Raccolta, 1997, VI, p. 2293, par. 60). Resta tuttavia il fatto che il ricorrente ha necessariamente sostenuto delle spese per la sua partecipazione all’udienza dinanzi alla Corte; a tale titolo, la Corte ritiene ragionevole concedergli la somma di 6.000.000 di lire italiane. C) Interessi moratori. 211. Secondo le informazioni di cui dispone la Corte, il tasso di interesse legale applicabile in Italia alla data di adozione della presente sentenza era del 2,5% annuo. P.Q.M. — La Corte: 1) Dichiara, con nove voti contro otto, che non vi è stata violazione dell’art. 3 della Convenzione per quanto riguarda le accuse di maltrattamenti nel carcere di Pianosa formulate dal ricorrente; 2) Dichiara, all’unanimità che vi è stata violazione dell’art. 3 della Convenzione, riguardo all’assenza di un’inchiesta ufficiale effettiva relativa alle suddette accuse; 3) Dichiara, all’unanimità, che non vi è stata violazione dell’art. 3 della Convenzione, per quanto riguarda le condizioni dei trasferimenti dal carcere di Pianosa; 4) Dichiara, all’unanimità, che il ricorrente può ritenersi ‘‘vittima’’ ai sensi dell’art. 34 della Convenzione per quanto riguarda la durata della custodia cautelare; 5) Dichiara, all’unanimità, che vi è stata violazione dell’art. 5 par. 3 della Convenzione per quanto riguarda la durata della custodia cautelare; 6) Dichiara, all’unanimità, che vi è stata violazione dell’art. 5 par 1 della Convenzione per quanto riguarda la detenzione del ricorrente a partire dalle ore 0.25 del 13 novembre 1994; 7) Dichiara, all’unanimità, che vi è stata violazione dell’art. 8 della Convenzione per quanto riguarda il controllo della corrispondenza del ricorrente; 8) Dichiara, all’unanimità, che non è necessario esaminare la questione relativa al controllo della corrispondenza del ricorrente con i suoi avvocati in base all’art. 6 par. 3 della Convenzione; 9) Dichiara, all’unanimità, che vi è stata violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 4 per quanto riguarda le misure di prevenzione applicate al ricorrente; 10) Dichiara, all’unanimità, che vi è stata violazione dell’art. 3 del Protocollo n. 1 per quanto riguarda la cancellazione del ricorrente dalle liste elettorali;
— 224 — 11) Dichiara, all’unanimità, a) che lo Stato convenuto deve versare al ricorrente entro tre mesi, le somnne di 75.000.000 (settantacinque milioni) di lire italiane per il danno morale e 6.000.000 (sei milioni) di lire italiane per le spese sostenute per la partecipazione all’udienza dinanzi alla Corte; b) che gli importi suddetti dovranno essere maggiorati di un interesse semplice del 2,5% annuo a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento. 12) Rigetta, all’unanimità, per il resto, la domanda di equa soddisfazione. Fatto in francese e in inglese, e pronunziato in pubblica udienza al Palazzo dei diritti dell’Uomo, a Strasburgo, il 6 aprile 2000. Firmato: Luzius WILDHABER, Presidente Firmato: Paul MAHONEY, Vice Cancelliere Alla presente sentenza è allegato, conformente agli artt. 45 par. 2 della Convenzione e 74 par. 2 del regolamento della Corte, il parere parzialmente contrario di Pastor Ridruejo, Bonello, Makarczyk, Tulkens, Stráznicka, Butkevych, Casadevall e Zupancic. PARERE PARZIALMENTE CONTRARIO DEI GIUDICI PASTOR RIDRUEJO, BONELLO, MAKARCZYK, TULKENS, STRÁZNICKA, BUTKEVYCH, CASADEVALL E ZUPANCIC. La maggioranza della Corte ha concluso per la non violazione dell’art. 3 della Convenzione riguardo alle accuse di maltrattamenti subiti nel carcere di Pianosa formulate dal ricorrente. Ci dispiace di non poter condividere tale parere. 1. Secondo la maggioranza della Corte, il ricorrente non ha provato ‘‘al di là di ogni ragionevole dubbio’’ la realtà dei maltrattamenti presumibilmente subiti a Pianosa. Ora, anche se condividiamo il parere della maggioranza secondo cui gli elementi forniti dal ricorrente costituiscono solo degli inizi di prova, desideriamo, tuttavia, sottolineare le difficoltà che un detenuto sottoposto a maltrattamenti da parte delle persone incaricate della sua custodia può incontrare, e i rischi che corre se denuncia tali maltrattamenti. Il ricorrente ha, del resto, precisato che gli agenti di custodia di Pianosa intimavano ai detenuti di non parlare dei trattamenti che subivano, né tra di loro, né con i loro avvocati, a pena di rappresaglie (par. 29 in fine). Almeno in un’occasione il ricorrente avrebbe subito delle ritorsioni (par. 29). In un contesto, quale quello descritto dal magistrato di sorveglianza di Livorno nella sua relazione del 5 settembre 1992 (par. 42), è comprensibile che un detenuto non osi chiedere di essere visitato immediatamente dopo aver subito un maltrattamento, tanto più che quest’ultimo potrebbe eventualmente far parte dell’amministrazione penitenziaria. Crediamo pertanto che il criterio di valutazione della prova impiegata in tale caso sia inadeguato, se non incoerente o perfino impossibile da utilizzare, poiché il ricorrente non ha potuto procurarsi degli elementi di prova per l’assenza di un’inchiesta effettiva: le autorità non hanno nemmeno identificato gli agenti ritenuti responsabili dei maltrattamenti denunciati. Se uno Stato può aspettarsi che, in un caso simile, la Corte si astenga dall’esaminare la questione dei maltrattamenti per-
— 225 — ché le prove non sono abbastanza solide, avrà interesse a non condurre indagini sulle accuse di maltrattamenti, privando così il ricorrente di prove ‘‘al di là di ogni ragionevole dubbio’’. Anche se, in certi casi, riteniamo che un orientamento di natura procedurale possa rivelarsi utile e necessario, in questo tipo di situazione esso potrebbe permettere allo Stato di limitare la condanna a una violazione dell’obbligo procedurale, ovviamente meno grave di una violazione per maltrattamenti. Riteniamo, inoltre, che gli elementi che hanno indotto la Corte a concludere per la violazione della parte procedurale dell’art. 3 (parr. 130-135) sono di per sé sufficienti, per la loro chiarezza ed evidenza, a far ritenere la violazione della parte sostanziale. Riteniamo che quando episodi come quelli contestati possono, in tutto o in parte, essere noti solo alle autorità, come nel caso di persone in stato di detenzione, sussistono seri presupposti che le lesioni e i maltrattamenti siano avvenuti durante la detenzione. Si può anche considerare quindi che l’onere della prova sia a carico delle autorità che devono fornire una spiegazione sufficiente e convincente. In ogni caso, l’onere della prova a carico del ricorrente risulta alleggerita quando le autorità, anche se richieste, non hanno condotto indagini efficaci i cui risultati possono essere conosciuti dalla Corte. È opportuno infine ricordare che il criterio della prova ‘‘al di là di ogni ragionevole dubbio’’ è impiegato, in alcuni sistemi giudiziari, per i procedimenti penali; ora la Corte non è chiamata a giudicare sulla colpevolezza o innocenza di un individuo, né a sanzionare gli autori di una violazione, ma a proteggerne le vittime e a riparare i danni causati dalle azioni dello Stato responsabile: l’accertamento, il metodo e il livello di prova concernente la responsabilità ai sensi della Convenzione sono diversi rispetto a quelli applicabili nei vari sistemi nazionali per quanto riguarda la responsabilità degli individui in materia di reati (sentenza Ribitsch c. Austria del 4 dicembre 1995, serie A, n. 336, parere della Commissione, p. 37, par. 110). 2. Peraltro, tutti i maltrattamenti lamentati dal ricorrente dinanzi alla Corte non sono di natura tale da lasciare tracce fisiche o psichiche e permettere una visita medica: non sono necessariamente di tale natura gli insulti, le minacce o le umiliazioni, o il fatto di essere ammanettato durante le visite mediche, o ancora l’obbligo di correre in un corridoio dove il pavimento è scivoloso, seguito dagli insulti degli agenti, per recarsi alla passeggiata. Si tratta tuttavia di trattamenti che attentano all’integrità psichica di un individuo, che pertanto possono rientrare nell’ambito dell’art. 3 della Convenzione. Le accuse del ricorrente relative ai maltrattamenti di ordine psicologico che avrebbe subito sono corroborate da altri elementi sulla situazione generale regnante nel carcere di Pianosa: la relazione del magistrato di sorveglianza di Livorno (par. 42), redatta nel periodo in cui il ricorrente si trovava a Pianosa denuncia la pratica delle ‘‘corse per la passeggiata’’ e descrive un clima di violenza. Le indagini svolte a seguito di tale relazione hanno portato al rinvio a giudizio di due agenti di custodia anche se dal fascicolo non risulta che vi sia stato alcun esito definitivo (par. 49). Inoltre, nella sua nota del 12 ottobre 1992, il direttore generale del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (par. 46) non aveva negato il fatto che si fossero verificati degli episodi di violenza a Pianosa, ma ne aveva attribuito la causa a problemi di ordine ‘‘logistico’’ dovuti al trasferimento simultaneo e improvviso di molti detenuti e alla conseguente necessità di effettuare dei lavori
— 226 — di ristrutturazione. Ancora, nella sua nota del 12 dicembre 1996 (par. 50), il presidente del Tribunale di sorveglianza aveva spiegato gli ‘‘abusi e irregolarità’’, che erano stati constatati a Pianosa, a causa del ricorso ad agenti di custodia provenienti da altri istituti penitenziari che avevano ricevuto ‘‘carta bianca’’. 3. Diamo, infine, un’importanza particolare al fatto che, dinanzi alla Commissione, il Governo aveva riconosciuto che l’interessato era stato maltrattato e non aveva contestato nessuna delle sue dichiarazioni riguardanti i comportamenti degli agenti di custodia del carcere; peraltro, nelle sue osservazioni inviate alla Commissione, lo stesso Governo aveva qualificato tali comportamenti ‘‘penosi’’. Del resto la Commissione, quando ha concluso per la violazione dell’art. 3, si è basata per la maggior parte sul riconoscimento dei fatti da parte del Governo (par. 120 del rapporto della Commissione). Il Governo non ha nemmeno contestato la realtà di tali trattamenti dinanzi alla Corte, limitandosi a contestare il fatto che gli stessi avessero oltrepassato la soglia di gravità prevista dall’art. 3. Considerato quanto sopra, riteniamo che la Corte avesse a disposizione una gran quantità di indizi sufficientemente gravi, precisi e concordanti da permetterle di ritenere provato il fatto che il ricorrente avesse subito i maltrattamenti denunciati. Siamo inoltre persuasi del fatto che tali maltrattamenti, per la loro odiosa natura e per la loro durata, erano di natura tale da produrre al sig. Labita dei sentimenti di paura, di angoscia e di inferiorità tali da umiliarlo e avvilirlo, e che detti sentimenti non erano necessariamente connessi alla sua condizione di detenuto. Pertanto, riteniamo che i maltrattamenti denunciati hanno causato al ricorrente delle umiliazioni e una prostrazione che raggiungono la soglia di gravità prevista per rientrare nell’ambito della nozione di ‘‘trattamento inumano e degradante’’ ai sensi dell’art. 3, e per i quali lo Stato convenuto è responsabile. (Omissis).
—————— La sentenza Labita era inevitabile? Riflessioni sulla titolarità delle garanzie dei diritti dell’uomo. SOMMARIO: A. Introduzione. — B. Il caso Labita di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo. — I. Ricostruzione dei fatti. - a) Vicende giudiziarie che vedono Labita indagato. - b) Vicende giudiziarie che vedono Labita persona offesa. — II. Doglianze. — III. Argomentazione in diritto. - 1. Sui presunti maltrattamenti subiti dal ricorrente durante la sua detenzione nel carcere di Pianosa. - 1.1. Opinione della Commissione. - 1.2. Opinione del Governo. - 1.3. Opinione della Corte. - i) Opinione della maggioranza. ii) Opinioni parzialmente dissenzienti. - 1.4. Osservazioni. - 2. Sulla censura della corrispondenza del ricorrente ai sensi del regime penitenziario di cui al 41-bis l. pen. - 2.1. Opinione della Commissione. 2.2. Opinione del Governo. - 2.3. Opinione della Corte. - 2.4. Osservazioni. - 3. Sulla durata della custodia cautelare in carcere. - 3.1. Opinione della Commissione. - 3.2. Opinione del Governo. - 3.3. Opinione della Corte. - 3.4. Osservazioni. - 4. Mancato immediato rilascio del ricorrente in seguito alla sentenza di assoluzione. - 4.1. Opinione della Commissione. - 4.2. Opinione del Governo. - 4.3. Opinione della Corte. - 4.4. Osservazioni. - 5. Sull’obbligo di soggiorno imposto dopo l’assoluzione. - 5.1. Opinione della Commissione. - i) Opinione dissenziente del giudice Trechsel. - 5.2. pinione del Governo. 5.3. Opinione della Corte. - 5.4. Osservazioni. - 6. Sulla radiazione dalle liste elettorali. - 6.1. Opinione della Commissione. - 6.2. Opinione del Governo. - 6.3. Opinione della Corte. - 6.4. Osservazioni. — C. Metodi interpretativi della Corte. — D. Conclusioni.
A. Introduzione. — La sentenza in esame impone, in modo più urgente che in passato, una riflessione sui rapporti tra la giurisprudenza di Strasburgo e la condotta degli operatori del diritto in relazione al rispetto dei diritti umani. Con
— 227 — tale pronuncia, infatti, la Corte europea, rilevando per ben sei volte l’incompatibilità di condotte di autorità italiane o di previsioni normative con i dettami convenzionali, ha criticato l’operato sia del legislatore italiano — censurato per la cattiva formulazione della normativa concernente il regime del 41-bis ord. pen. nella parte in cui sottopone a censura la corrispondenza dei detenuti — sia di talune autorità giudiziarie — censurate per l’applicazione di disposizioni che pur non contrastando in astratto con le previsioni convenzionali si sono risolte per la loro attuazione concreta in una violazione delle stesse. Si tratta, pertanto, di una decisione che ben esemplifica sia il ruolo svolto dalla Corte europea nella tutela dei diritti dell’uomo, sia l’inadeguatezza delle autorità italiane competenti (legislative, giudiziarie o amministrative) a svolgere quel ruolo — che loro appartiene di diritto — di primi tutori dei diritti dell’uomo nel loro Paese (1). La giurisprudenza elaborata dagli organi di tutela di Strasburgo ha, invero, creato un patrimonio giuridico comune che costituisce un preciso diritto della libertà. Ma fin dalle sue prime affermazioni, la Corte ha precisato che non intendeva sostituirsi alle giurisdizioni nazionali, volendo solo controllare il rispetto da parte degli Stati membri dei diritti dell’uomo, quali definiti dalla Convenzione e interpretati dalla Corte sulla base di un canone ermeneutico dinamico ed evolutivo. Il sistema della Convenzione assegna, pertanto, a ciascuno Stato contraente il mandato di assicurare, in prima battuta, il rispetto dei diritti garantiti (2). La Corte esercita, dunque, un ruolo di supplenza: gli ordinamenti e gli organi nazionali devono svolgere un intervento prioritario per assicurare a ciascun individuo la tutela dei diritti previsti dalla Convenzione, il diritto convenzionale e la Corte intervengono in seconda battuta per controllare il modo di applicazione dei diritti garantiti, indicando le eventuali lacune nelle disposizioni nazionali. Il giudice interno diventa, quindi, soggetto ad un controllo indiretto da parte del giudice europeo: la Corte ha difatti affermato che suo compito è controllare le decisioni giudiziarie interne nell’ottica della Convenzione (3). Trattandosi di un sistema sussidiario, gli operatori del diritto interno possiedono — o quantomeno dovrebbero possedere — tutti gli strumenti per conformare il proprio diritto alle previsioni convenzionali, evitando in tal modo l’intervento della Corte europea (4). La confor(1) Così il Presidente della Corte, Luzius Wildhaber nel suo discorso pronunciato a Strasburgo il 6 giugno 2000, in occasione della Giornata di riflessione — dedicata alla memoria del giudice Rolv Ryssdal — sulla prospettiva europea della protezione dei diritti fondamentali, cinquant’anni dopo la firma della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Sulla necessità, ormai improcrastinabile, di un’adeguata formazione ai diritti dell’uomo di tutti gli operatori giuridici, e dei giudici in particolare, cfr., per tutti, ESPOSITO V., Il ruolo del giudice nazionale per la tutela dei diritti dell’uomo, in Documenti giustizia, 2000, n. 1. (2) In materia cfr. POLAKIEWICZ e JACOB-FOLTZER, in The European Human Rights Convention in Domestic Law: The Impact of Strasbourg Case-Law in States where Direct Effect is given to the Convention, in Human Rights Law Journal, 1991, p 142 ss. (3) Sentenza del 23 febbraio 1992, Luberti c. Italie in Publications de la Cour européenne des droits de l’homme, Série A (da ora Série A), 275 par. 27. (4) Non si intende affrontare in questa sede il problema relativo all’individuazione della posizione, nella gerarchia delle fonti, della Convenzione e del rango che essa occupa nel nostro ordinamento (per un panorama sulla situazione europea, cfr. CATALDI, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e ordinamento italiano: un tentativo di bilancio, in Divenire sociale e adeguamento del diritto. Studi in onore di Francesco Capotorti, Milano, Giuffrè, 1999, vol. I, p. 55 ss.; e per una sintesi del dibattito in Italia tra dottrina e giurisprudenza cfr. ESPOSITO V., Il ruolo del giudice nazionale, cit. nota 49 e). Si ritiene, infatti, che la comprensione dei rapporti tra il sistema europeo di diritti dell’uomo e l’ordinamento interno esiga il superamento della classica distinzione tra sistema monista-dualista e della tematica connessa dell’incorporazione, o non, del testo convenzionale in diritto interno: ‘‘la thèse du pluralisme juridique est le seul modèle capable d’apprendre la complexité des rapports entre le niveau interne et le niveau européen des droits de l’homme. (...) l’idée de pluralisme... suppose l’existence dans un même cadre social de plusieurs ordres juridiques autonomes, entretenant des rapport de droit entre eux, ces ordres juridiques étant caractérisés ou non par la présence de l’Etat... Dans cette configuration, les ordres étatiques et le systeme européen se superposent dans un cadre social et temporale unique’’ (così LAMBERT E., Les effets des arrêts de
— 228 — mità dovrebbe essere assicurata o attraverso la previsione di disposizioni in astratto già in armonia con il dettato convenzionale, o, quando ciò non avvenisse, attraverso un’interpretazione del diritto interno condotta in base alle disposizioni convenzionali nella loro esatta portata, vale a dire utilizzando il diritto generale europeo, quale formatosi secondo la pratica giurisprudenziale, come parametro interpretativo della norma interna. Si impone, in altri termini, la necessità — per il legislatore, il governo e i giudici nazionali — di tenere sempre presenti, in sede di riforma o di pratica applicazione di singoli istituti, le linee evolutive tracciate dagli organi di Strasburgo. L’alto numero di sentenze di condanna della Corte, anche nei confronti dell’Italia, sembra indicare, viceversa, che spesso i primi tutori non si attengono nel loro operato alle indicazioni provenienti da Strasburgo. La sentenza in esame conferma questa osservazione. Con quest’articolo intendo verificare se lo Stato italiano poteva evitare la sentenza Labita. L’oggetto del mio studio è quindi quello di accertare se le autorità italiane (personale penitenziario, giudici, amministrazione pubblica) avessero gli strumenti per adeguare la loro condotta ai dettami convenzionali. Esporrò, per ogni motivo di censura proposto da Labita nel suo ricorso, le opinioni della Commissione, del Governo e della Corte, comprese le opinioni dei giudici dissenzienti, e, quindi, discuterò le loro posizioni. Mostrerò, infine, il metro interpretativo proprio della Corte e quale fosse il grado di prevedibilità e di conoscenza della decisione in esame. B. Il caso Labita di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo. — I. Ricostruzione dei fatti. — I fatti sono semplici e sono all’origine di due procedimenti penali, l’uno che vede Labita indagato e l’altro che lo vede parte lesa. a) Vicende giudiziarie che vedono Labita indagato. — Indicato da un collaboratore di giustizia quale cassiere della cosca mafiosa di Alcamo, Benedetto Labita fu arrestato in esecuzione di un ordine di custodia cautelare in carcere emesso, in data 18 aprile 1992, dal G.I.P. presso il tribunale di Trapani. La sua detenzione si svolse per i primi 35 giorni in isolamento presso la prigione di Palermo e in regime di cui all’art. 41-bis ordinamento penitenziario, dal 20 luglio 1992 al 12 novembre 1994, presso il carcere di massima sicurezza, sezione Agrippa, di Pianosa. Con sentenza 12 novembre 1994, il Tribunale di Trapani assolse il ricorrente, che il giorno successivo fu rimesso in libertà. La sentenza di assoluzione fu confermata in appello il 14 dicembre 1995. Nel frattempo, su richiesta della Procura della Repubblica, il Tribunale di Trapani aveva emesso a carico del Labita le misure della sorveglianza speciale e dell’obbligo di soggiorno che, rimaste sospese durante lo svolgimento del processo, furono eseguite il 19 novembre 1994 successivamente alla sentenza di assoluzione in primo grado. In seguito all’applicazione della misura della sorveglianza speciale, la commissione elettorale del Comune di Alcamo, radiò, in data 10 gennaio 1995, il ricorrente dalle liste elettorali. Il 18 novembre 1997, le misure la Cour européenne des droits de l’homme, Bruylant, Bruxelles, 1999, p. 44 ss.). La spiegazione dei rapporti tra sistema europeo dei diritti dell’uomo e sistema nazionale secondo la concezione pluralista, che parte dall’analisi dei concreti effetti delle sentenze della Corte negli ordinamenti nazionali, comporta l’idea di una sovranità nazionale controllata cui si contrappone una primazia europea relativa: così DELMAS MARTY in La jurisprudence de la Cour européenne des droits de l’homme et la logique du flou, in Revue de droit pénal et de criminologie, 1992, p. 1033. Per un approccio tradizionale ai rapporti tra Convenzione europea dei diritti dell’uomo e ordinamenti nazionali cfr. CONFORTI-FRANCIONI, Enforcing International Human Rights in Domestic Courts, Dordrecht, Martinus Nijhoff Publishers, 1997.
— 229 — di prevenzione persero efficacia e l’11 dicembre 1997 il nome di Labita fu reinserito nelle liste elettorali. Il 20 gennaio 1998, la Corte di appello di Palermo liquidò al ricorrente, a titolo di indennizzo per ingiusta detenzione, ai sensi degli artt. 314 e 315 c.p.p., la somma di lire 64.000.000. b) Vicende giudiziarie che vedono Labita persona offesa. — Il 2 ottobre 1993 all’udienza preliminare davanti il G.I.P. del Tribunale di Trapani, Labita denunciò di aver subito maltrattamenti nella prigione di Pianosa. Informata per competenza, la Procura di Livorno, il 12 novembre 1993, demandò ai carabinieri di Portoferraio di interrogare Labita per ottenere informazione più dettagliate sui presunti maltrattamenti subiti. Il 7 gennaio 1994 i carabinieri trasmisero alla procura di Livorno i processi verbali dell’interrogatorio ed il dossier medico del ricorrente. Il 9 marzo 1995 i carabinieri di Trapani convocarono il ricorrente per mostrargli le fotocopie delle fotografie di 262 agenti penitenziari, che avevano prestato servizio nel carcere di Pianosa. Non riconoscendo i responsabili dei maltrattamenti Labita osservò che l’identificazione era resa difficile sia dalla qualità delle fotografie — si trattava invero di fotocopie — sia dall’essere le stesse risalenti ad un’epoca molto anteriore ai fatti. Aggiunse anche di ritenere di essere in grado di riconoscere gli agenti autori dei fatti se li avesse potuto vedere di persona. Con decisione del 1o aprile 1995, il G.I.P. del Tribunale di Livorno, su richiesta della procura, emise decreto di archiviazione perché ignoti gli autori del fatto. II. Doglianze. — 1) Maltrattamenti subiti durante la detenzione nella prigione di Pianosa: violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (da ora Convenzione); 2) censura della corrispondenza del ricorrente ai sensi del regime penitenziario di cui all’art. 41-bis ord. pen.: violazione degli artt. 8 e 6 par. 3 della Convenzione; 3) durata della custodia cautelare in carcere: violazione dell’art. 5 par. 3 della Convenzione; 4) mancato immediato rilascio del ricorrente in seguito alla sentenza di assoluzione: violazione dell’art. 5 par. 1 della Convenzione; 5) obbligo di soggiorno imposto dopo l’assoluzione: violazione dell’art. 2 Protocollo n. 4 della Convenzione; 6) radiazione dalle liste elettorali: violazione dell’art. 3 Protocollo n. 1 della Convenzione. III. Argomentazione in diritto. — 1. Sui presunti maltrattamenti subiti dal ricorrente durante la sua detenzione nel carcere di Pianosa. — Il ricorrente denunciava sia il clima di violenza e di sopraffazione presente nel carcere di Pianosa, sia le brutalità cui era stato sottoposto durante la sua detenzione. 1.1. Opinione della Commissione. — Dopo aver ricordato la costante giurisprudenza degli organi di tutela della Convenzione sulla necessità del superamento della c.d. soglia minima di gravità per la configurazione delle condotte vietate dall’art. 3 (5), la Commissione ritenne che nel caso in esame potesse affermarsi l’avvenuta violazione del divieto di trattamenti disumani e degradanti. Tale affermazione di responsabilità a carico dello Stato italiano poggiava, per la Commissione su due considerazioni. La prima concerneva l’accertamento delle condotte vietate. Pur in presenza di un quadro probatorio non completamente chiaro, le dichiara(5) I leading cases sul punto sono Corte sentenza del 18 gennaio 1978, Irlande c. Royaume-Uni, in Série A, n. 25; sentenza del 25 aprile 1978, Tyrer c. Royaume-Uni, ibid., n. 26.
— 230 — zioni del Governo italiano — che, nell’attribuire i maltrattamenti lamentati dal ricorrente alla personale iniziativa di singoli agenti di polizia penitenziaria, riconosceva che questi avevano avuto luogo — insieme ad altri elementi — quali il registro medico allegato dal ricorrente, il rapporto del giudice di sorveglianza (6) di Livorno sulle condizioni della detenzione nel carcere di Pianosa e la nota del presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze (7) — erano tali da far ritenere accertati gli abusi lamentati dal ricorrente. La Commissione si era, poi, soffermata sulle indagini condotte dalle competenti autorità giudiziarie in seguito alla denuncia del Labita per i maltrattamenti subiti rilevandone la loro assoluta inidoneità (8). La valutazione complessiva dei dati probatori e della carenza delle indagini indusse la Commissione a concludere, all’unanimità, per la violazione dell’art. 3 della Convenzione. 1.2. Opinione del Governo. — Nelle sentenza è riportato che all’udienza del 29 settembre 1999 davanti alla Corte, il Governo, arricchendo la posizione assunta davanti alla Commissione, affermò, in primo luogo, che il ricorrente non aveva fornito adeguate e convincenti prove che i maltrattamenti subiti avessero superato la soglia di applicabilità dell’art. 3 e, secondariamente, che nessuna responsabilità potesse ascriversi allo Stato italiano in quanto questo, per il tramite delle autorità giudiziarie, aveva reagito ai presunti atti di violenza allegati dal ricorrente diligentemente e conformemente ai dettami convenzionali. Sul primo punto, il Governo sottolineava, in particolare, che nel caso di specie era mancato ‘‘qualsiasi accertamento medico effettuato nell’immediatezza degli atti di violenza commessi dalle guardie (sic!) che possa in concreto fornire una prova del tipo e della gravità dei maltrattamenti subiti dal ricorrente’’. E dell’assenza di qualsiasi accertamento medico, unico responsabile, per il Governo, era il ricorrente che non aveva mai richiesto una visita medica dopo aver subito i supposti maltrattamenti (9). Quanto alla presunta carenza delle indagini svolte dalle autorità giudiziarie italiane, il Governo contestava la conclusione della Commissione ritenendo che l’esercizio dell’azione penale — quale che fosse il suo esito — combinata con la costituzione di parte civile costituisse un rimedio adeguato offerto dall’ordinamento italiano in confermità all’art. 35 della Convenzione (10) tale da escludere la (6) Si tratta di un rapporto che il giudice di sorveglianza di Livorno aveva, nel settembre 1992, inviato al Ministro di giustizia ed ad altre autorità dell’amministrazione penitenziaria: in esso si evidenziavano le condizioni di violenza e di intimidazione in cui si svolgeva la detenzione nel carcere di Pianosa; cfr. sentenza Labita parr. 42-50. (7) In una nota del 12 dicembre 1996, allegata alle osservazioni del Governo alla Commissione, il presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze precisava che i fatti di violenza avvenuti nel carcere di massima sicurezza di Pianosa erano stati voluti o quantomeno tollerati dal Governo dell’epoca; sul punto, cfr. Commissione, rapp. del 29 ottobre 1998, n. 26772/95, Labita c. Italie, par. 56. (8) Cfr. Commissione, rapporto Labita, cit., parr. 117-122. (9) Cfr. il Promemoria per l’Udienza sul caso Labita del Governo italiano. (10) L’art. 35 della Convenzione, nel fissare le condizioni di ricevibilità di un ricorso, indica, tra le altre, la necessità dell’esaurimento delle vie di ricorso interno. Si tratta di una previsione espressione del principio di sussidiarietà. Nell’affermare tale principio la Corte ha precisato che la ‘‘Convezione affida in primo luogo ad ognuno degli Stati contraenti il compito di assicurare il godimento dei diritti e delle libertà da essi garantiti’’. Le istituzioni create dalla Convenzione contribuiscono alla loro protezione, subentrando alle autorità nazionali mediante una procedura contenziosa e dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interno previsto dall’art. 35 par. 1 della Convenzione. È il diritto interno, quindi, il principale strumento di protezione dei diritti e delle libertà fondamentali; la Convenzione ha la funzione di aggiungersi e sovrapporsi ad esso, di completarlo all’occorrenza, di rimediare se del caso alle sue lacune, carenze o mancanze. Sul significato della regola ripresa dalla Convenzione, cfr. COHEN-JONATHAN, La Convention européenne des droits de l’homme, 1989, Parigi, Economica, p. 105 ss.; PICARD, in PETTITI, DECAUX, La Convention européenne des droits de l’homme, 1995, Parigi, Economica, p. 590 ss.; VELU, ERGEC, La Convention européenne des droits de l’homme, 1990, Bruxelles, Bruylant, p. 846 ss.; SUDRE, Droit international et européen des droits de l’homme, Parigi, PUF, 1997, p. 306 ss. Sul dibattito sul carattere sussidiario ovvero subordinato della Convenzione rispetto ai sistemi nazionali di protezione dei diritti del-
— 231 — responsabilità internazionale dello Stato. Circa l’esito infruttuoso delle indagini non si ravvisava alcuna negligenza imputabile alle autorità italiane, ritenendo che esso fosse piuttosto ‘‘dipeso in maniera determinante dal comportamento del ricorrente il quale, sfortunatamente, non ha saputo offrire elementi concreti agli inquirenti in merito al tipo di violenze subite ed agli autori delle stesse’’. 1.3. Opinione della Corte. — i) Opinione della maggioranza. — Principi generali. Nel ricordare che l’art. 3 della Convenzione consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche, la Corte ha confermato, in primo luogo, la portata assoluta del divieto di tortura e di pene e trattamenti disumani o degradanti in quello contenuto (11): ‘‘anche nelle circostanze più difficili, quali la lotta al terrorismo o al crimine organizzato, la Convenzione proibisce in termini assoluti la tortura e le pene o i trattamenti disumani o degradanti... Il divieto di tortura o delle pene o trattamenti disumani o degradanti è assoluto, quale che sia la condotta della vittima’’ (12). Dopo aver ribadito, al pari della Commissione, che ‘‘un maltrattamento deve raggiungere un minimo di gravità per ricadere nel campo di azione dell’art. 3’’, e aver puntualizzato, ancora una volta, che la posizione della soglia non è determinata in modo fisso, in quanto essa dipende ‘‘dall’insieme dei dati della causa, e in particolare, dalla durata del trattamento, dalle conseguenze fisiche e/o mentali così come talvolta dal sesso, dall’età e dallo stato di salute della vittima’’ (13), la Corte si è riferita ai principi enunciati nelle sentenze Tomasi c. Francia (14), Ribitsch c. Austria (15), Aksoy c. Turchia (16) e Tekin c. Turchia (17), secondo cui nei confronti di persone private della libertà, l’uso della forza (non causata dal comportamento della vittima) rientra sempre nel campo di applicazione dell’art. 3. Ultimo rinvio è all’elemento probatorio, richiamato secondo il criterio della prova al di là di ogni ragionevole dubbio; criterio che si ritiene soddisfatto anche in presenza di indizi sufficientemente gravi, precisi e concordanti (18). l’uomo cfr. DE SALVIA, Sistema europeo e sistemi nazionali di protezione dei diritti dell’uomo. Subordinazione, sussidiarietà?, in RIDU, 1989, p. 36. Cfr. anche UBERTAZZI, Principio di sussidiarietà e Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti del’uomo e delle libertà fondamentali, ivi, 1989, fasc. 1 p. 45. (11) Sulla ricostruzione del diritto in esame come diritto assoluto, v. ADDO, GRIEF, Does Article 3 of the European Convention on Human Rights Enshrine Absolute Rights?, in EJIL, 1998, 9, n. 3, p. 510 ss. L’art. 3, invero, non impiega alcun termine da cui possa farsi derivare l’assolutezza della proibizione in esso contenuta. Che si tratti di un diritto intangibile lo si ricava, piuttosto, dai lavori preparatori, dall’art. 15 della Convenzione e dalla giurisprudenza della Corte e della Commissione. L’art. 15 prevede la possibilità di derogare al rispetto dei diritti garantiti dalla Convenzione nei cd. casi di ‘‘stato d’urgenza’’, quando ricorra dunque la duplice condizione dell’esistenza di un pericolo pubblico minacciante la vita della nazione e della necessità della misura derogativa. Il comma 2 non autorizza, però, alcuna deroga ai diritti previsti dagli artt. 2, 3, 4 comma 1 e 7 della Convenzione, neanche in presenza delle condizioni ‘‘emergenziali’’ di cui al comma 1 dello stesso articolo. L’intangibilità del diritto garantito dall’art. 3 si evince anche dai lavori preparatori. In questi, si legge, infatti, che il delegato del Regno Unito, M. Cocks, in seno alla Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, esortava i relatori della Convenzione a vietare ogni forma di tortura da chiunque e per qualunque motivo posta in essere: ‘‘(L’Assemblea Parlamentare) ritiene che tale proibizione debba essere assoluta e che la tortura non possa essere consentita per nessuno scopo, né per scoprire prove, né per salvare la vita e neanche per la sicurezza dello Stato’’. La portata assoluta dell’articolo in esame è stata più volte affermata, infine, nella giurisprudenza degli organi di tutela della Convenzione. (12) Così la Corte nella sentenza in esame par. 119, ma negli stessi termini si era già espressa in Selmouni c. France, del 28 luglio 1999, in Recueil des arrêts et décisions (da ora Recueil), 1998, V, par. 95; Assenov et autres c. Bulgarie del 28 ottobre 1998, ibid., 1998, VIII, par. 79. (13) Sentenza Labita, cit., par 120. (14) Sentenza del 27 agosto 1992, Tomasi c. France, in Série A, n. 214-A. (15) Sentenza del 4 dicembre 1995, Ribitsch c. Autriche, in Série A, 336. (16) Sentenza del 18 dicembre 1996, Aksoy c. Turquie, in Recueil, 1996, VI. (17) Sentenza del 7 giugno 1998, Tekin c. Turquie, in Recueil, 1998. (18) Sentenza Labita, cit., par. 121.
— 232 — Applicazione dei principi generali. Analizzando il caso di specie, la Corte si è preliminarmente soffermata sull’eccezione sollevata, per la prima volta in udienza, dal Governo italiano circa la mancanza di elementi di prova che i maltrattamenti inflitti al ricorrente avessero superato la soglia minima di gravità. Concordando con l’opinione del Governo, l’organo di tutela della Convenzione ha giudicato, sia pure a strettissima maggioranza (19), insufficienti gli elementi forniti dal ricorrente a sostegno delle proprie denunce. In particolare, i giudici hanno rilevato che le argomentazioni del Labita poggiavano o su certificati medici redatti, tutti, in date di molto successive alla sua detenzione nel carcere di Pianosa o su certificati in cui i problemi sanitari riscontrati non erano in alcun modo collegati a presunte percosse inferte da agenti. Né indicative sono state considerate la nota del presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze e la relazione del giudice di sorveglianza di Livorno perché tratteggianti una situazione generale non in grado di fornire dati concreti e certi a verifica dei comportamenti allegati. In base a tale quadro probatorio la Corte ha concluso che, non potendo stabilire ‘‘al di là di ogni ragionevole dubbio, che il ricorrente sia stato sottoposto a trattamenti sufficientemente gravi per entrare nell’ambito applicativo dell’art. 3’’, non è dato affermare ‘‘la violazione dell’art. 3 della Convenzione in ragione dei maltrattamenti allegati’’ (20). Se la violazione sostanziale dell’art. 3 non è stata riconosciuta, l’Italia non ha, però, potuto evitare una condanna per aver omesso di procedere ad indagini approfondite e effettive tendenti all’identificazione e alla punizione dei responsabili delle condotte incriminate. La Corte, difatti, ha affermato che l’art. 3, in combinato disposto con il ‘‘dovere generale imposto agli Stati dall’art. 1 della Convenzione di riconoscere ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti... richiede l’esistenza di un’adeguata inchiesta ufficiale’’ (21) sui presunti maltrattamenti lamentati. Nelle parole della Corte, l’assenza di un’inchiesta approfondita e effettiva vanifica la concreta portata del divieto di tortura e delle pene o trattamenti disumani o degradanti, sancito nella Convenzione, rendendo possibile che ‘‘in certi casi gli agenti dello Stato calpestino i diritti delle persone al cui controllo sono preposti, godendo di una quasi immunità’’ (22). Nel caso in esame, la lunghezza delle indagini — 14 mesi in cui l’unica attività investigativa svolta è stata la fotocopia delle fotografie degli agenti penitenziari in servizio a Pianosa —, il non aver mai proceduto ad un confronto personale tra il ricorrente e gli agenti, nonostante la richiesta in tal senso del Labita, l’archiviazione perché ignoti gli autori del fatto e non perché il fatto non sussiste, l’inerzia delle competenti autorità, pur in presenza di denunce provenienti da diversi soggetti — anche altre autorità dello Stato — concordanti univoche nel segnalare una preoccupante situazione all’interno del carcere di Pianosa, hanno indotto la Corte ad affermare, all’unanimità, la violazione dell’art. 3 per mancanza di un’inchiesta approfondita e adeguata sui maltrattamenti allegati dal ricorrente. ii) Opinioni parzialmente dissenzienti (23). — Parte del collegio giudicante (otto giudici su diciassette) si è discostata dall’opinione della maggioranza sulla (19)
Sul punto vi è stata una netta spaccatura in seno alla Corte che ha deciso per nove voti contro
otto. (20) Sentenza Labita, cit., par. 129. (21) Così in sentenza Labita, cit., par. 131 ed in precedenza, con riferimento sempre all’art. 3 sentenze Assenov, cit, par. 102; Askoy, cit. par. 96; sentenza del 28 luglio 1999, Selmouni c. France, in Recueil, 1999, par. 79. (22) Sentenza Labita, cit., par. 131. (23) Si tratta dei giudici Pastor Ridruejlo, Bonello, Makarczyk, Tulkens, Străznická, Butekvych, Casadevall, Zupancjc.
— 233 — non violazione dell’art. 3 della Convenzione per i presunti maltrattamenti subiti dal ricorrente. La diversa posizione è stata motivata dai giudici dissenzienti sia sotto il profilo probatorio sia sotto il profilo della gravità dei maltrattamenti inferti dagli agenti penitenziari. Il criterio della prova al di là di ogni ragionevole dubbio nella sua applicazione al caso in esame è stato qualificato ‘‘inadeguato, o anche incoerente o impossibile da utilizzare’’. Intimidazioni, paura di ritorsioni, situazione di violenza diffusa: questi gli umori nel carcere di Pianosa descritti dal Labita e riscontrabili nella relazione del giudice di sorveglianza. Lunghezza delle indagini dimostratesi alla fine inutili anche per l’inerzia delle autorità giudiziarie: questi i fatti accertati e condannati dalla Corte. Nell’opinione di minoranza quei due fatti, materiali e ambientali, rendevano in concreto inutilizzabile il criterio probatorio adottato dalla maggioranza. Pretendere dal ricorrente la prova certa e non meri indizi, ritenuti insufficienti, dei maltrattamenti subiti in assenza di un’indagine effettiva non era, in definitiva esigibile. Il rigore probatorio richiesto — considera la relazione di minoranza — deve essere attenuato quando la lamentata violazione è commessa ai danni di una persona privata della libertà. In tali ipotesi opererebbe, infatti, il principio secondo cui ‘‘quando i fatti possono, in tutto o in parte, essere conosciuti soltanto dalle autorità, come accade quando le persone sono in carcere, esistono serie presunzioni che le lesioni e i maltrattamenti si siano prodotti durante la detenzione’’ (24). Sussisterebbe pertanto una presunzione di responsabilità a carico delle autorità ‘‘che devono fornire una spiegazione sufficiente e completa. In ogni caso, l’onere della prova a carico del ricorrente è diminuito quando le autorità, seppure sollecitate, non hanno condotto delle inchieste efficaci i cui risultati possano essere conosciuti dalla Corte’’ (25). Quanto al superamento della soglia minima di gravità, la relazione di minoranza si è soffermata sul tipo di maltrattamenti inferti e ha sottolineato come, nel caso in esame, si fosse trattato di atti che, pur non lasciando segni fisici o psichici visibili, integravano, comunque, le condotte vietate dall’art. 3, in quanto lesivi della dignità della persona. Le dichiarazioni del ricorrente, il rapporto del giudice di sorveglianza di Livorno, la nota del presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, la nota del direttore generale del dipartimento di polizia penitenziaria che non negava l’esistenza di un clima di violenza nel carcere di Pianosa, ma l’attribuiva a fattori eccezionali e non strutturali e, infine, le affermazioni del Governo alla Commissione che non aveva contestato la veridicità della denuncia del ricorrente, vengono ritenuti elementi sufficienti a provare che ‘‘i trattamenti denunciati hanno causato al ricorrente umiliazioni e avvilimento tali da raggiungere la soglia di gravità richiesta per integrare la nozione di ‘trattamento disumano e degradante’ ai sensi dell’art. 3 e da determinare la responsabilità dello Stato’’ (26). 1.4. Osservazioni. — La decisione della Corte sui maltrattamenti subiti da Labita suscita non poche perplessità: è l’iter argomentativo a non convincere, soprattutto perché sembra discostarsi dai precedenti sul punto. La Corte ha affermato che i maltrattamenti a danno di Labita sono stati commessi, che però egli non ha dato la prova che essi abbiano raggiunto il livello minimo di gravità necessario per rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 3 e che il Governo italiano è, comunque, responsabile di una violazione procedurale di tale articolo perché in presenza di denunce di atti di violenza commessi a danno di un detenuto non è (24) (25) (26)
Opinione dissenziente, cit., par. 1. Opinione dissenziente, cit., par. 1. Opinione dissenziente, cit., par. 3.
— 234 — stato in grado di assicurare un’inchiesta effettiva, un’inchiesta che cioè portasse ‘‘all’identificazione ed alla punizione dei responsabili’’ (27). Due gli aspetti affrontati dalla Corte: a) verifica dell’elemento probatorio; b) accertamento dell’adempimento dell’obbligo positivo imposto dall’art. 3 in combinato disposto con l’art. 1 della Convenzione. a) L’aspetto controverso ha riguardato la valutazione della prova circa il raggiungimento della c.d. soglia minima di gravità richiesta per integrare le condotte vietate dall’art. 3. È opportuno, al riguardo, fare alcuni passi indietro per mostrare come il criterio della c.d. soglia di gravità e il rigoroso criterio probatorio espresso nella formula del al di là di ogni ragionevole dubbio siano stati utilizzati dalla Corte (28). Il criterio della c.d. soglia minima di gravità è stato utilizzato nella giurisprudenza convenzionale sia per stabilire quando una condotta rientri tra quelle vietate, sia per distinguere in tal modo la tortura dagli altri trattamenti contemplati dalla norma in esame. Perché una condotta incorra nel divieto di cui all’art. 3, essa deve raggiungere un livello minimo di gravità; raggiunto tale livello, e stabilita quindi l’applicabilità della previsione convenzionale, la maggiore o minore intensità delle sofferenze inflitte determina la configurazione di una delle tre condotte vietate. E ciò vale quale che sia il tipo di condotta in esame. Da ricercare avendo riguardo alle sofferenze o umiliazioni inflitte alla vittima, la soglia di gravità indica, dunque, da un lato il limite esterno dell’art. 3, individuando gli atti che raggiungono od oltrepassano detta soglia, e dall’altro i paletti che consentono di distinguere la tortura dalle altre condotte vietate (29). La differenza dell’intensità delle sofferenze inflitte è il principale fattore distintivo tra tortura e trattamenti disumani e degradanti: le condotte elencate dall’art. 3 sono distinte dalla Corte in base alla diversa gravità dei comportamenti, dovendosi considerare la tortura una forma aggravata di trattamento disumano e questo, a sua volta, una forma aggravata di trattamento degradante. Quanto al criterio adottato per operare la valutazione delle prove, la Corte, considerando che l’affermazione di una violazione dell’art. 3 nei confronti di un Paese membro costituisca una grave onta a suo carico, ha sempre richiesto una prova molto rigorosa della condotta, ricorrendo, spesso, alla formula ‘‘beyond reasonable doubt’’ e chiedendo la presenza di indizi sufficientemente gravi, precisi e concordanti (30). Il rigore probatorio richiesto è, però, attenuato quando la lamentata violazione sia commessa ai danni di una persona privata della libertà. In tali ipotesi, infatti, la giurisprudenza europea ha stabilito il principio secondo il quale ‘‘quando un individuo afferma di aver subito nel corso di un fermo o sevizie che gli abbiano causato ferite, spetta al Governo fornire una spiegazione completa e sufficiente per la loro origine’’ (31). La mancanza di una spiegazione plausibile (27) Cfr. Assenov, cit., par. 102; Askoy, cit., par. 96. (28) Sul punto mi sia consentito rimandare a ESPOSITO A., Condizioni della detenzione e trattamento dei detenuti: la cultura della detenzione, in Documenti giustizia, n. 1-2, coll. 99-116; ed a ESPOSITO A., Art. 3 CEDU: divieto di tortura e trattamenti disumani e degradanti, in BARTOLE, CONFORTI, RAIMONDI (a cura di), Commentario della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Padova, Cedam, 2000. (29) Cfr. SUDRE, in PETTITI, DECAUX, cit., p. 158. (30) Cfr. Corte, Irlande c. Royaume-Uni, cit., par. 161. (31) In questo senso, tra le altre, cfr. Tomasi, cit., parr. 108-111; Ribitsch, cit., par. 34; Corte 18 novembre 1996, in RIDU, 1997, p. 194, par. 61; Corte 28 luglio 1999, Selmouni c. France, in Recueil, 1999, par. 87. Le sentenze Tomasi e Ribitsch hanno indotto parte della dottrina, in particolare quella francese, ad affermare che la Corte avesse abbandonato il criterio della soglia di gravità (cfr. SUDRE, Droit international, cit., pp. 187-190; RENUCCI, Droit européen des droits de l’homme, 1999, Paris, LGDJ, pp. 72-74). È il caso Tomasi a segnare — secondo tale ricostruzione — il cambiamento giurisprudenziale. In questa sentenza, nell’affermare l’applicabilità dell’art. 3, la Corte non utilizza il criterio della soglia di gravità: non si legge nel testo, in alcun momento, che la gravità delle condotte in questione abbia superato il
— 235 — che collochi la causa delle lesioni ‘‘altrove’’, al di fuori cioè del luogo di detenzione e quindi non a carico di chi aveva in custodia la vittima, determina la manifesta applicazione dell’art. 3. Si opera, pertanto, un presunzione — relativa — di responsabilità a carico dello Stato ogni qualvolta un individuo, che si trovava in buone condizioni fisiche quando la privazione della libertà ha avuto inizio rivela, poi, lesioni. La condizione della detenzione, qualunque ne sia la causa e il titolo giustificativo (fermo di polizia, custodia cautelare, esecuzione di una pena detentiva), e l’esistenza di ferite costituiscono, per i giudici di Strasburgo, indizi sufficientemente gravi, precisi e concordanti per affermare l’applicabilità dell’art. 3, determinando il criterio della soglia minima di gravità la qualificazione delle condotte come tortura o trattamenti disumani o degradanti (32). In breve: nei confronti di persone private della libertà, l’uso della forza (non livello minimo richiesto dalla norma. La mancanza di tale riferimento lasciava intendere che qualunque violenza commessa su persona privata della libertà (così SUDRE, Droit international, cit., p. 187) (e quindi qualunque brutalité, così RENUCCI, Droit européen, cit., p. 73) rientrasse nella sfera di applicazione dell’articolo in esame, salva, poi, la necessità di richiamare quel criterio per qualificare le condotte come tortura o trattamenti disumani o degradanti. La decisione Ribitsch sembrava confermare questa evoluzione. La Corte scrive ‘‘nei confronti di una persona privata della libertà, l’impiego della forza fisica, quando non sia strettamente necessitata dal suo comportamento, viola la dignità umana e costituisce, in linea di principio, una violazione del diritto garantito dall’art. 3’’ (Ribitsch, cit., par. 38). Anche in questa sentenza, come in quella immediatamente precedente, nella sintetica, e sicuramente non soddisfacente, motivazione non vi è alcun richiamo alla soglia minima di gravità delle lesioni causate. Solo sulla base di ciò, a mio parere, non è, però, possibile affermare l’avvenuto superamento da parte della giurisprudenza convenzionale del ricorso a quel criterio. Non è un cambiamento di prospettiva ad aver portato la Corte a ritenere integrate le condotte vietate pur omettendo qualsiasi riferimento espresso all’intensità delle sofferenze inflitte. Questa omissione è piuttosto conseguenza del nomale modo di operare della Corte: ricostruzione delle fattispecie relativizzando le condotte per verificare se, considerate tutte le condizioni, oggettive e soggettive, può affermarsi l’avvenuta violazione dell’art. 3; uso di un linguaggio estremamente laconico nei ragionamenti interpretativi (oltre che ripetizione, a tratti ossessiva, di affermazioni rese in precedenza, che solo in parte si spiega con il timore di rendere decisioni discordanti tra loro). Dall’esame dei casi concreti (sia nel caso Tomasi sia in Ribitsch i ricorrenti lamentavano di aver subito maltrattamenti da parte delle forze di polizie nel corso di un fermo di polizia) è emerso che persone private della libertà avevano subito atti di violenza (e il modo in cui ciò è stato provato, attraverso una presunzione di responsabilità a carico dello Stato, costituisce la vera nuova affermazione di queste sentenze). Due dati certi, allora: privazione della libertà e maltrattamenti inflitti; questi maltrattamenti (accertatati), indipendentemente dalle conseguenze fisiche e morali che a loro sono seguite, combinati con lo stato di restrizione della libertà in cui i ricorrenti si trovavano, sono stati valutati dalla Corte come trattamenti disumani e degradanti, essendo stata implicitamente superata la soglia di applicazione dell’art. 3. Nel caso Tomasi, la Corte espressamente afferma (Tomasi, cit., par. 115, nel punto 2 della parte concernente la violazione dell’art. 3, titolato ‘‘Sur la gravitè des traitements dénoncés’’), di non condividere l’asserzione del Governo francese secondo cui il minimum di gravità richiesto dalla precedente giurisprudenza europea nel caso in esame non era stato raggiunto. In Ribitsch vi è l’espressa indicazione che nei confronti di persone private della libertà, l’uso della forza (non causata dal comportamento della vittima) rientra sempre nel campo di applicazione dell’art. 3, come a voler dire che qualunque atto violento commesso in quelle date condizioni, tali da determinare una situazione di vulnerabilità e inferiorità della vittima (così Comm. rapp. 11 dicembre 1990, Tomasi c. France, par. 105) integra e supera il livello minimo di sofferenza richiesto. In definitiva, in queste pronunce la Corte non si è allontanata dalla sue precedenti statuizioni, affermando, di nuovo, che il quantum di sofferenza necessario per far rientrare una condotta nell’ambito dell’art. 3 è dato dal maltrattamento ‘‘contestualizzato’’, dal considerare, cioè, non solo il ‘‘tipo’’ di maltrattamento inflitto ma anche tutte le altre condizioni presenti, oggettive e soggettive. La successiva giurisprudenza della Corte conferma queste osservazioni. Nel caso Tekin (Corte, sentenza del 7 giugno 1998, Tekin c. Turquie, in Recueil, 1998, parr. 52-53 e questa sentenza è stata poi richiamata, più recentemente nella sentenza Labita, cit., par. 120) — concernente, ancora una volta, atti di violenza subiti dal ricorrente nel corso di un fermo di polizia —, dopo aver ricordato che ‘‘un maltrattamento deve raggiungere un minimo di gravità per ricadere nel campo di azione dell’art. 3’’ e che ‘‘l’apprezzamento di tale minimo è relativo per definizione’’, la Corte conclude affermando che ‘‘nei confronti di una persona privata della libertà l’uso della forza fisica che non si è resa strettamente necessaria per il suo comportamento, viola la dignità umana e costituisce violazione del diritto garantito dall’art. 3’’. E infine nella sentenza in esame la Corte conclude proprio ritenendo che la soglia minima di gravità non sia stata raggiunta e che quindi l’art. 3, nella sua parte sostanziale, non sia applicabile. (32) Si può a tal proposito citare l’opinione concordante espressa dal giudice De Meyer nella sentenza Tomasi, cit., secondo il quale ‘‘sarebbe disdicevole... supporre che le lesioni inferte ad un sospettato in stato di fermo siano vietate solo se sorpassano un certo minimo di gravità, in particolare in ragione
— 236 — causata dal comportamento della vittima) integra e supera il livello minimo di sofferenza richiesto per rientrare nel campo di applicazione dell’art. 3, e in tale ipotesi opera una presunzione di responsabilità a carico dello Stato. Nel caso in commento, nessuna delle parti ha negato che fatti di violenza siano stati perpetrati a danno del ricorrente allorché egli era detenuto nel carcere di Pianosa. Lo stesso governo, nel Promemoria per l’udienza sul caso Labita, non contesta che condotte lesive della dignità del ricorrente siano state tenute o che le stesse non abbiano raggiunto la soglia di gravità necessaria perché possa trovare applicazione l’art. 3 della Convenzione. Il governo scrive, infatti: ‘‘Per quanto riguarda le violenze che il ricorrente afferma di aver subito, esse non hanno certo raggiunto quel grado di intensità che ha portato la Corte a condannare la Francia con la recente sentenza 28 luglio 1999, Selmouni, ove peraltro la valutazione circa la gravità dei trattamenti inflitti è stata condotta sulla base di una serie di riscontri medici seguiti agli episodi censurati. Nel caso di specie manca, invece, qualsiasi accertamento medico effettuato nell’immediatezza degli atti di violenza commessi dalle guardie che possa in concreto fornire una prova del tipo e della gravità dei maltrattamenti subiti dal ricorrente’’. È agevole leggere nelle parole del governo l’ammissione che atti di violenza sono stati realizzati anche se agli stessi non sembrerebbe poter essere data la stessa qualificazione riconosciuta ai comportamenti tenuti dagli agenti di polizia francesi nel caso Selmouni (33), comportamenti ricondotti dalla Corte al genus della tortura (34). In ogni caso, quale che sia l’interpretazione che si intenda dare all’intervento difensivo del Governo, la precedente giurisprudenza convenzionale forniva alla Corte ampie argomentazioni — come giustamente rilevato dagli otto giudici di minoranza — per ritenere dimostrato, sia pure attraverso un iter argomentativo di tipo presuntivo, che le condotte degli agenti penitenziari avessero superato il livello minimo di gravità richiesto per ritenere applicabile l’art. 3. b) Rifacendosi ad una consolidata giurisprudenza in tema di art. 2 (35), la Corte ha ravvisato, invece, la violazione dell’obbligo positivo procedurale di inchiesta approfondita e effettiva sulla denuncia di Labita circa i presunti maltrattamenti subiti. La necessità di rendere effettiva la tutela della dignità umana ai sensi dell’art. 3 della Convenzione ha portato gli organi di tutela di Strasburgo a porre a carico degli Stati membri obblighi positivi di garanzia ‘‘al fine di proteggere l’integrità fisica della persona privata della libertà’’ (36). È con la sentenza Assedella loro intensità e della loro molteplicità. In effetti nei confronti di una persona privata della libertà, ogni uso della forza fisica che non sia reso strettamente necessario dal suo comportamento lede la dignità umana e deve perciò essere considerato come una violazione del diritto garantito dall’art. 3 della Convenzione. La gravità dei trattamenti è tutt’al più pertinente per determinare, ove il caso lo richieda, se vi sia stata tortura’’. (33) Sentenza Selmouni, cit., in cui il ricorrente allegava che durante un fermo di polizia era stato malmenato e sottoposto a sevizie sessuali, sostenendo la propria denuncia esibendo certificati medici, redatti durante il suo interrogatorio, da cui risultavano lesioni di diversa natura (ecchimosi, ematomi, contusioni di diversa gravità). La Corte ha qualificato le condotte incriminate come atti di tortura. Cfr BULTRINI, Maltrattamenti ‘‘gravi e crudeli’’ durante gli interrogatori da parte della polizia, in Corriere giuridico, n. 11, 1999, p. 1418; COHEN-JONATHAM, Un arrêt de principe de la nouvelle Cour européenne des droits de l’homme: Selmouni contre France, in Revue générale de droit international public, 2000, p. 181. (34) Invero, non si vede come la Corte abbia potuto inferire dalla lettura del promemoria che ‘‘il Governo ha sottolineato a titolo preliminare che, mancando delle prove mediche convincenti, non si può ritenere che la soglia di gravità richiesta dall’art. 3 sia stata, nel caso di specie, superata’’, sentenza Labita, cit., par. 115. (35) Corte, sentenza del 27 settembre 1995, McCann et autres c. Royaume-Uni, in Série A, n. 324, par. 161; 19 febbraio 1998, Kaya c. Turquie, in Recueil, 1998, 1, par. 86; 2 settembre 1998, Yasa c. Turquie, ivi, 1998, IV, par. 98. (36) Cfr. Comm. rapp. 8 luglio 1993, H. c. Suisse, par. 79, in cui la Commissione ha qualificato come trattamenti disumani e degradanti l’assenza di adeguate cure mediche.
— 237 — nov (37) che la Corte ha espressamente applicato all’art. 3 la giurisprudenza elaborata in relazione all’art. 2 della Convenzione, imponendo il rispetto, accanto ad un obbligo negativo di astensione, di un obbligo di facere: ‘‘il dovere generale imposto agli Stati dall’art. 1 della Convenzione di riconoscere ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti... richiede l’esistenza di un’adeguata inchiesta ufficiale’’ sui presunti maltrattamenti lamentati. Nella giurisprudenza della Corte, un’inchiesta è adeguata quando ‘‘porta all’identificazione e alla punizione dei responsabili’’ (38). In tal modo la Corte costruisce dall’art. 3 un obbligo positivo procedurale di inchiesta approfondita e effettiva che si impone agli Stati membri ogni qual volta una persona lamenti di aver subito maltrattamenti e che è fonte di responsabilità internazionale distinta da un’eventuale violazione sostanziale del divieto di tortura e di trattamenti disumani e degradanti. Nella successiva giurisprudenza la Corte ha arricchito e precisato tale obbligo procedurale (39). Nel caso Selmouni, la Corte ha ritenuto che perché l’obbligo positivo sia adempiuto, l’inchiesta oltre ad essere imparziale ed efficace deve essere anche rapida (40). Nel caso Labita, la violazione procedurale è stata riscontrata perché le autorità giudiziarie italiane hanno dato prova di inerzia e inefficacia: nessuna attività investigativa (41) è stata infatti realizzata per verificare la fondatezza delle accuse mosse dal ricorrente (42). 2. Sulla censura della corrispondenza del ricorrente ai sensi del regime penitenziario di cui al 41-bis l. pen. — Labita si lamentava che tutta la corrispondenza ricevuta in carcere, compresa quella intercorrente con il suo legale, era stata sottoposta a visto di censura. 2.1. Opinione della Commissione. — La Commissione ha valutato la compatibilità della censura della corrispondenza del ricorrente con la previsione di cui all’art. 8 della Convenzione. Dopo aver ricordato che la censura della corrispondenza dei detenuti configura senz’altro un’ingerenza della pubblica autorità nell’esercizio di un diritto garantito dalla Convenzione, quale il diritto al rispetto della corrispondenza di cui al (37) Assenov, cit. (38) Cfr. Assenov, cit., par. 102; Askoy, cit., par. 96. (39) Occorre precisare che l’obbligo di assicurare l’effettività del diritto protetto deve essere adempiuto dallo Stato anche quando la lesione sia stata realizzata da condotte di terzi. Nel caso A. c. Regno Unito (Corte 22 settembre 1998, A. c. Royaume-Uni, in Recueil, 1998), è stata ravvisata la responsabilità dello Stato per una condotta di maltrattamenti incompatibile con la previsione convenzionale tenuta da un privato. E questo è invero uno degli aspetti nuovi della tutela internazionale dei diritti dell’uomo: la configurazione della responsabilità internazionale dello Stato, nei confronti della Convenzione, anche per condotte tenute dai privati. Riferendosi a precedenti sentenze sull’art. 8 della Convenzione, nel caso A. la Corte ricordò che lo Stato è tenuto ad realizzare una prevenzione efficace che metta al riparo le persone rilevanti della sua giurisdizione da gravi forme di lesione all’integrità fisica. Nel caso di specie, il ricorrente, accusato di maltrattamenti nei confronti di un minore, era stato prosciolto dalle autorità giudiziarie inglesi che avevano ravvisato in quella condotta un ragionevole mezzo di correzione. L’esistenza di tale causa di esclusione della responsabilità penale (défense) non assicurando un’adeguata protezione contro trattamenti contrari all’art. 3 fu dalla Corte considerata incompatibile con la Convenzione. (40) Nella sentenza Selmouni, la Corte precisò, infatti, che il carattere effettivo di un’inchiesta impone che la stessa sia condotta in modo diligente e rapido. La mancanza di tali caratteri ha portato la Corte a ravvisare la violazione dell’obbligo procedurale anche nel caso in cui le autorità giudiziarie interne pur avendo condannato i funzionari accusati di aver torturato il ricorrente, lo avevano fatto con enormi ritardi. (41) Sempre che non si voglia definire atto di indagine richiedere la fotocopia delle fotografie degli agenti in servizio all’amministrazione penitenziaria di Pianosa. (42) Si ritiene opportuno segnalare che è pendente davanti la Corte un ricorso contro l’Italia in cui il ricorrente denuncia di aver subito dei maltrattamenti durante la sua detenzione, avvenuta nello stesso periodo di quella di Labita, nel carcere di Pianosa. Si tratta del ricorso n. 31143/96, Indelicato.
— 238 — comma 1 dell’art. 8 (43), la Commissione ha verificato se tale ingerenza fosse compatibile con le condizioni indicate dal secondo comma dell’art. 8, vale a dire l’esistenza di una previsione legale e la sua necessità in una società democratica per il raggiungimento di uno degli scopi individuati dalla Convenzione (44). Nel constatare che la base legale del visto cui erano sottoposte le lettere del Labita era l’art. 18 della l. n. 354 del 1975 e che tale disposizione legale era già stata censurata nelle sentenze Calogero Diana e Domenichini (45), l’organo di tutela ha affermato la violazione dell’art. 8 perché il titolo della limitazione era una norma poco chiara poiché non indicava le finalità ed i limiti temporali della misura restrittiva. 2.2. Opinione del Governo. — Il Governo non contestava la conclusione della Commissione sul punto, limitandosi a far presente che era stato proposto dal ministro della giustizia un progetto di legge di modifica delle norme in questione (46), e che lo stesso Ministero aveva emanato diverse circolari affinché le autorità giudiziarie e quelle carcerarie si adeguassero alla giurisprudenza della Corte europea sul punto. 2.3. Opinione della Corte. — Concordando con il Governo e la Commissione nel considerare la limitazione ed i controlli della corrispondenza dei detenuti, prevista dalla normativa italiana, come un’ingerenza di una pubblica autorità nell’esercizio del diritto di cui all’art. 8 par. 1, la Corte si è chiesta se nel caso in esame fossero state rispettate le esigenze di cui al comma 2 della medesima disposizione che consente l’ingerenza della pubblica autorità nell’esercizio del diritto alla corrispondenza solo nei casi previsti dalla legge e nei limiti in cui essa sia resa necessaria da particolari esigenze di sicurezza o difesa. Nel valutare la conformità dell’ingerenza a carico del ricorrente alla prima delle condizioni richieste — vale a dire la necessaria presenza di una previsione legale — la Corte ha trattato separatamente la restrizione intervenuta distinguendola in tre diversi periodi temporali, verificando che la censura della corrispondenza aveva trovato la sua fonte ora nell’art. 18 dell’ordinamento penitenziario (47), ora nel provvedimento del ministro di applicazione nei confronti del ricorrente del regime penitenziario di cui all’art. 41-bis (48), ora nella autonoma iniziativa delle autorità penitenziarie (49). La Corte ha constatato la violazione dell’art. 8 rispetto a tutte le diverse misure: sull’art. 18 della l. n. 354 del 1975 la Corte non ha ravvisato motivi per discostarsi dall’opinione della Commissione; sul decreto del ministro ha rilevato come la Corte costituzionale italiana avesse dichiarato l’incompetenza di quella autorità governativa ad emettere siffatti provvedimenti con la conseguente sua ille(43) In questo senso cfr. Corte, sentenza del 20 giugno 1988, Schönenberger et Durmaz c. Suisse, in Série A, n. 137. (44) Cfr. Commissione, rapporto Labita, cit., par. 130. (45) Corte, sentenza del 15 novembre 1996, Calogero Diana c. Italie, in Recueil, 1996, V e Corte, sentenza del 15 novembre 1996, Domenichini c. Italie, ivi, 1996, V. (46) Si tratta del progetto n. 4172, presentato su iniziativa del Ministro della giustizia al Senato il 23 luglio 1999 e, alla data del 20 luglio 2000, non ancora esaminato. Il breve articolato di cui si compone tale disegno prevede la disciplina delle finalità, dei limiti oggettivi e temporali e della competenza all’adozione dei provvedimenti che comprimono il diritto alla libertà e segretezza della corrispondenza, nonché dei relativi mezzi di impugnazione, lasciando all’originario art. 18 della l. n. 354 del 1975 il solo compito preliminare di enunciare — specificandone le condizioni di esercizio — il diritto delle persone in vinculis alla corrispondenza medesima (oltre che ai colloqui e all’informazione). (47) Nei periodi tra il 21 aprile 1992 e il 20 luglio 1992, tra il 15 settembre 1993 e il 21 febbraio 1994 e tra il 13 agosto 1994 e il 13 novembre 1994. (48) Dal 20 luglio 1992 al 15 settembre 1993. (49) Infatti, in data 21 febbraio 1994 il Tribunale di Trapani aveva ordinato la revoca del controllo sulla corrispondenza del Labita. Ciò nonostante, nel periodo 21 febbraio-13 agosto — data alla quale il presidente del Tribunale di sorveglianza di Trapani riapplicò la misura restrittiva — la corrispondenza del ricorrente fu sottoposta a visto.
— 239 — gittimità; sull’autonoma iniziativa delle autorità penitenziaria ha riscontrato la mancanza di qualunque base legale. 2.4. Osservazioni. — L’accertamento dell’incompatibilità delle misure di controllo della corrispondenza imposte al Labita con le previsioni convenzionali era largamente prevedibile. La violazione del diritto al rispetto della corrispondenza è stata, infatti, più volte affermata dalla giurisprudenza europea in riferimento a persone detenute. In merito è possibile tracciare un’evoluzione nella giurisprudenza degli organi della Convenzione che da un’originaria posizione di piena conformità è poi giunta ad accordare un alto grado di protezione al diritto al rispetto della corrispondenza dei detenuti, negando alle autorità penitenziarie la facoltà diritto di invocare la necessità di aprire e censurare le lettere, se non in ipotesi eccezionali come, ad esempio, nel caso in cui sussistano fondati motivi per ritenere che vi sia un abuso di questo diritto, vi sia minaccia alla sicurezza dell’istituto, oppure quando pericolo di commissione di un illecito (50). In una prima fase, la Commissione giudicò tali controlli inerenti alla detenzione e quindi non costituenti un’ingerenza da dover essere giustificata dalle autorità alla luce del par. 2 dell’art. 8 (51). Questa posizione, c.d. delle limitazioni implicite, non è stata però seguita dalla Corte, che con il caso Vagrancy (52) qualificò il controllo e la censura della corrispondenza quali ingerenze, ritenendole però giustificate ai sensi del par. 2 dell’art. 8. Solo nel 1975, con il caso Golder (53), la Corte europea affermò che le normali esigenze della detenzione possono giustificare alcune limitazioni che però, determinando un’ingerenza nell’esercizio di un diritto garantito, devono essere, comunque, giustificate sulla base dell’art. 8 par. 2. È quindi, necessario nel rispetto della c.d. clausola di legittimità o di necessità che siano previste dalla legge e nel contempo necessarie in una società democratica per il conseguimento dei legittimi scopi indicati dalla stessa disposizione convenzionale. La prima condizione è stata, poi, interpretata anche in questo contesto sulla falsariga di quanto affermato dalla Corte in materia di intercettazioni telefoniche, con riferimento alla definizione di legge, alla sua accessibilità ed alla sua prevedibilità. La seconda è stata invece interpretata in maniera autonoma, in ragione delle peculiarità della condizione detentiva. Il controllo della corrispondenza dei detenuti dunque, in sé compatibile con le previsione convenzionali, diventa irragionevole se supera una certa soglia di tolleranza (54). La questione delle legittimità convenzionale delle restrizioni in esame era, poi, già stata affrontata dalla Corte proprio in riferimento alla normativa italiana. Nei casi Calogero Diana e Domenichini, la Corte aveva, infatti, già censurato l’art. 18 della l. n. 354, perché accordante alle autorità competenti eccessivi margini di discrezionalità, limitandosi ‘‘a identificare le categorie di persone la cui corrispon(50) Corte, sentenza del 25 marzo 1992, Campbell c. Royaume-Uni, in Série A, n. 233. (51) In questo senso, Commissione, decisione del 7 febbraio 1967, in Raccolta, n. 22 p. 45; Commissione, decisione del 5 ottobre 1970, in Raccolta, n. 36, p. 83. (52) Corte, sentenza del 18 giugno 1971, De Wilde, Ooms e Nersyp c. Belgique, in Série A, n. 12. (53) Corte, sentenza del 21 febbraio 1975, Golder c. Royaume-Uni, in Série A, n. 18. (54) Parla di soglia di tolleranza in riferimento al margine di apprezzamento di cui godono gli Stati nel limitare i diritti garantiti dagli artt. 8-11 della Convenzione, KASTANAS, Unité et diversité: notions autonomes et marge d’appréciations des Etats dans la jurisprudence de la Cour européenne des droits de l’homme, Bruxelles, Bruylant, 1996, pp. 286-290. Sull’ampiezza del margine nazionale d’apprezzamento in riferimento all’art. 8 della Convenzione cfr. COUSIRAT-COUSTERE, in PETTITI, DECAUX, cit., pp. 324-351. Sulla teoria del margine nazionale di apprezzamento cfr., tra gli altri, SAPIENZA, Sul margine nazionale di apprezzamento nel sistema della Convenzione europea di diritti dell’uomo, in Riv. dir. int., 1991, pp. 571-614; MACDONALDS, The Margin of Appreciation, in The European System for the Protection of Human Rights, MacDonalds (a cura di), Dordrecht, Nijhoff, 1993, pp. 57-88; OLINGA, PICHERAL, La théorie de la marge d’appréciation dans la jurisprudence récente de la Cour européenne des droits de l’homme, in Riv. tr. droit. de l’homme, 1995, pp. 567-604.
— 240 — denza può essere sottoposta a controllo e la giurisdizione competente senza indicare la durata delle misure né le ragioni che la possono giustificare’’ (55). Ciò che in sostanza difettava alla norma in esame, ponendola in contrasto con le previsioni convenzionali, era dunque il requisito delle prevedibilità, mancando l’indicazione sia dei limiti temporali di tali misure, sia delle motivazioni a sostegno dell’ingerenza. Sul punto la sentenza Labita è stata, allora, meramente ricognitiva di principi già affermati in precedenza e formatisi proprio in relazione alla normativa italiana, normativa ancora vigente, nonostante le due precedenti condanne. Stando così le cose, certamente non sorprenderanno le decisioni di quei casi attualmente all’esame delle Camere della Corte (56) in cui i ricorrenti, tutti detenuti, si lamentano proprio del visto di censura cui è sottoposto la loro corrispondenza. 3. Sulla durata della custodia cautelare in carcere. — Il ricorrente si doleva della durata della sua custodia cautelare, iniziata il 21 aprile 1992 e terminata il 12 novembre 1994, e allegava la violazione dell’art. 5 par. 3 della Convenzione. 3.1. Opinione della Commissione. — Ricorrendo come sempre ad un’argomentazione giuridica tesa alla verifica dei fatti, la Commissione ha, in primo luogo, ricordato che per valutare la conformità di una detenzione preventiva alle condizioni richieste dall’art. 5 par. 3, è necessario considerare i motivi invocati per il mantenimento della misura, e in particolare il pericolo di fuga, di reiterazione del reato e di alterazione delle prove, nonché la diligenza delle autorità giudiziarie nel condurre le indagini (57). Quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari nel caso in esame, la Commissione ha rilevato che la situazione di fatto rientrava tra quelle ipotesi in cui l’ordinamento italiano prevede una presunzione relativa di pericolosità dell’imputato in relazione a determinate fattispecie di reato: l’applicazione e la proroga della misura cautelare in carcere nei confronti del Labita erano state tuttavia motivate dalle autorità giudiziarie solo sulla base delle dichiarazioni di un unico pentito. A tal proposito la Commissione ha notato che ‘‘se la presunzione di quei rischi poteva ragionevolmente giustificarsi all’inizio dell’inchiesta, considerando la particolare gravità dei delitti imputati al ricorrente, dopo un certo lasso di tempo non era più sufficiente... e le autorità procedenti avrebbero dovuto motivare la persistenza dei rischi in modo più concreto e specifico’’ (58). Quanto al secondo elemento, constatando, come detto, che l’unico motivo fondante la custodia cautelare erano state, per tutta la sua durata, le dichiarazioni di un ‘‘pentito’’ e che nessun’altra attività investigativa era stata realizzata, l’organo di tutela ha censurato l’operato delle autorità giudiziaria, ritenendo che le stesse non avessero dato prova di quella diligenza e celerità necessarie in situazioni di tal genere. 3.2. Opinione del Governo. — Il Governo ha contestato la conclusione della Commissione basandosi sia su un’eccezione preliminare di carattere procedurale, sia su un’eccezione di merito. Si è, in primo luogo, sostenuto che il ricorrente avrebbe perso la qualità di (55) Cfr. sentenza Domenichini, cit., par. 32. (56) Cfr. le decisioni sulla ricevibilità Moni c. Italie del 25 maggio 1999; Rinzivillo c. Italie del 22 giugno 1999; Messina c. Italie dell’8 giugno 1999. In corso di stampa, in data 28 settembre 2000 nella sentenza Messina c. Italie par. 83, la Corte europea ha, come ampiamente prevedibile, constatato che ‘‘l’ingerenza nel diritto del ricorrente al rispetto della corrispondenza non era ‘prevista dalla legge’ ai sensi dell’art. 8 della Convenzione’’ affermandone quindi l’avvenuta violazione. (57) Rapporto Commissione Labita, cit., par. 141. (58) Rapporto Commissione Labita, cit., par. 147.
— 241 — vittima perché la Corte di appello di Palermo gli avrebbe riconosciuto una somma a titolo di indennizzo per ingiusta detenzione. In secondo luogo, è stato argomentato che ‘‘... le autorità giudiziarie hanno di volta in volta positivamente accertato il permanere di quella forte piattaforma indiziaria che aveva giustificato in origine l’adozione del provvedimento cautelare, anche se motivando sic et simpliciter con riferimento alle dichiarazioni incriminanti del pentito. Proprio l’esigenza di consolidare quegli indizi in una serie di elementi utilizzabili come prove in sede processuale, attività questa affatto agevole in ragione della complessità degli accertamenti da compiere, ha portato il Tribunale di Trapani a concedere la proroga dei termini di durata massima della custodia cautelare’’ (59). 3.3. Opinione della Corte. — Nel sottolineare la diversità dei titoli danti causa rispettivamente all’indennizzo per ingiusta detenzione e ad un eventuale risarcimento per una detenzione incompatibile con le previsioni convenzionali, la Corte ha rigettato l’eccezione preliminare del Governo italiano. Nel merito, i giudici di Strasburgo hanno dapprima ricordato quali siano i principi giurisprudenziali in materia. Dopo aver indicato che la valutazione della ragionevolezza della durata della detenzione preventiva è relativa, dipendendo dalle circostanze della causa, e che essa è in primo luogo affidata ai giudici nazionali cui spetta di esaminare tutte le circostanze tali da ‘‘rilevare o fugare l’esistenza dell’interesse pubblico ad un’eccezione della regola del rispetto della libertà individuale’’, la Corte ha proseguito affermando che la persistenza di ‘‘ragioni plausibili di sospettare che la persona arrestata abbia commesso un reato è una condizione sine qua non della regolarità della detenzione’’ (60). Ma da sola, questa esigenza cautelare non basta a giustificare il prosieguo della detenzione al di là di un certo limite, dovendo, a tal punto, la Corte stabilire se gli altri motivi adotti dalle autorità giudiziarie siano pertinenti e sufficienti e se le autorità nazionali abbiano adottato una diligenza particolare nello svolgimento della procedura. Applicando i principi così enunciati al caso di specie, l’organo di tutela ha notato come le ragioni a sostegno del mantenimento della misura cautelare coercitiva a carico del ricorrente fossero l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza, il pericolo di alterazione delle prove e di pressione sui testimoni e la presunzione di pericolosità di cui all’art. 275, comma 3, c.p.p. Sui gravi indizi di colpevolezza, la Corte ha scritto che le plausibili ragioni di sospettare del ricorrente erano fondate sulla chiamata in correità proveniente da un solo pentito che, nel 1992, aveva affermato di aver ‘‘appreso da una fonte indiretta che il ricorrente era il cassiere di un’organizzazione mafiosa’’. Soffermandosi sul grado di plausibilità di tale fonte di prova, la Corte ha osservato che ‘‘l’uso delle dichiarazioni dei pentiti pone vari delicati problemi poiché, per loro natura, tali dichiarazioni sono suscettibili di essere il risultato di manipolazioni, di perseguire unicamente lo scopo di ottenere i benefici accordati dalla legge italiana ai pentiti o ancora di realizzare delle vendette personali. La natura talvolta ambigua di tali dichiarazioni e il rischio che una persona possa essere accusata ed arrestata sulla base di affermazioni non controllate e non disinteressate non devono essere sottovalutate. Per tali motivi, ..., le dichiarazioni dei pentiti devono essere corroborate da altri elementi. Ciò vale a maggior ragione quando si tratta di prorogare i termini della custodia cautelare: se le dichiarazioni dei pentiti possono validamente fondare la detenzione preventiva, esse perdono necessariamente il loro valore con il trascorrere del tempo, in modo particolare se il corso delle indagini non (59) (60)
Promemoria del Governo per l’udienza sul caso Labita, par. 5.5. Sentenza Labita, cit., parr. 152-153.
— 242 — consente la scoperta di nessun elemento ulteriore’’ (61). Notando che nel caso in esame, nessun riscontro era stato fornito a riprova delle dichiarazioni del pentito, ma al contrario che esse erano state contraddette, la Corte ha concluso ritenendo la lunga detenzione del ricorrente incompatibile con le esigenze di cui all’art. 5 par. 3. 3.4. Osservazioni. — Non è la prima volta che gli organi di tutela della Convenzione hanno valutato — in riferimento alla ragionevole durata di una custodia cautelare — l’attendibilità delle chiamate di correo effettuate dai c.d. collaboratori di giustizia (62). Analoga questione — sufficienza e pertinenza dei sospetti provenienti dalle dichiarazioni dei pentiti ai fini del mantenimento in detenzione preventiva — era stata affrontata dalla Commissione nel caso Contrada (63). Ed anche in quell’occasione i giudici di Strasburgo avevano invitato alla cautela nell’uso di siffatte prove testimoniali, utilizzando le stesse espressioni poi riprese dalla Corte nella sentenza in esame (64). Le ragioni di perplessità degli organi di tutela di Strasburgo nascono dalla difficoltà di ricondurre le sole dichiarazioni accusatorie dei pentiti a quei plausibili sospetti richiesti dall’art. 5 par. 1 lett. c) per fondare, e, quindi, mantenere la custodia cautelare. Le statuizioni convenzionali in materia di limitazione della libertà personale mirano a impedire che la detenzione preventiva si prolunghi indebitamente: scopo principale dell’art. 5 è quello di proteggere la libertà fisica della persona, impedendo che si attenti ad essa in modo arbitrario. Costituendo la detenzione preventiva una deroga sia al principio della libertà individuale sancito dall’art. 5 par. 1, sia alla presunzione di innocenza contemplata dall’art. 6 par. 2, il controllo della Corte sulla ragionevolezza della durata della custodia cautelare è estremamente rigoroso. E la Corte, nell’interpretare tali disposizioni, ha optato per la concezione più liberale: ha affermato, difatti, già dal 1968 (65), che in prima istanza le Corti nazionali e, se del caso successivamente, la Corte europea, devono valutare se la durata della misura cautelare abbia superato il termine segnato dal ‘‘limite ragionevole’’, vale a dire quello del sacrificio che, tenuto conto delle circostanze concrete, può essere ragionevolmente inflitto a una persona presunta innocente. Nell’effettuare il giudizio di ragionevolezza circa la durata delle misure cautelari sopportate, la Corte ha individuato precise regole composte da un principio e tre criteri. Il principio affermato è ancora una volta un precipitato dell’argomentazione giuridica di tipo pragmatico e casistico della Corte: la valutazione della durata della custodia cautelare deve essere fatta in concreto e non in astratto. Occorre (61) Sentenza Labita, cit., parr. 156-157. (62) Sulla ragionevole durata della custodia cautelare nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo cfr. POUGET, Les délais en matière de détention, garde à vue et détention provisoire au regard de la Convention européenne de sauvegarde des droits de l’homme, in Rev. sc. cr. dr. p. crim., 1989, I, pp. 2544; ROMANO, L’istituto della custodia cautelare alla luce della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della normativa italiana, in RIDU, 1996, pp. 333-353; UBERTIS, Principi di procedura penale europea. Le regole del giusto processo, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000, pp. 87-33. (63) Commissione rapporto del 10 luglio 1997, Contrada c. Italia. (64) La Commissione, infatti, scriveva ‘‘le dichiarazioni dei pentiti, per loro natura, impongono una grande prudenza. In effetti tali dichiarazioni sono suscettibili di essere il risultato di manipolazioni, di perseguire unicamente lo scopo di ottenere i benefici accordati dalla legge italiana ai pentiti o ancora di realizzare delle vendette personali’’, Rapporto Labita cit., par. 52. Nel caso Contrada la Commissione affermò la violazione dell’art. 5 par. 3 per la irragionevole durata della detenzione preventiva subita dal ricorrente affermando che le esigenze cautelari a base del provvedimento restrittivo erano venute meno nel corso del processo. La Corte, successivamente intervenuta, non confermò tale opinione ritenendo che nel caso di specie le autorità investite della procedura nazionale avessero ragionevolmente fondato la custodia cautelare di Contrada su motivi pertinenti e sufficienti e che il procedimento, stante la sua particolare complessità, era stato condotto con la particolare diligenza richiesta, cfr. sentenza Corte europea dei diritti dell’uomo del 24 agosto 1998, in Foro it., 1998, IV, col. 409. (65) Corte, sentenza del 27 giugno 1968, Wemhoff c. Allemagne, in Série A, n. 7.
— 243 — dunque far riferimento alle circostanze proprie di ciascun caso per poter valutare la sua conformità, o non, alla Convenzione. Tale principio valutativo si fonda, poi, su di una serie di criteri individuati dalla giurisprudenza. È possibile distinguere tra criteri oggettivi e criteri soggettivi. Tra i criteri soggettivi rientrano la condotta dell’indagato e il comportamento delle autorità nazionali cui si richiede una particolare diligenza nella conduzione delle indagini, quando la persona sospetta è detenuta. Il criterio oggettivo si esaurisce nell’interesse pubblico che nel cui ambito andranno considerati il pericolo di fuga, la collusione o il pericolo di distruzione delle prove (66). L’interesse pubblico — che in tale ipotesi coincide, quindi, con le c.d. esigenze cautelari — assurge, invero, a motivo fondamentale per giustificare la dilazione della detenzione preventiva e deve essere comprovato da elementi precisi e concreti (67). Il controllo sulla ragionevolezza della custodia cautelare è effettuato dagli organi di tutela di Strasburgo tenendo conto sia dei motivi che hanno spinto le autorità giudiziarie nazionali ad adottare i provvedimenti limitativi della libertà sia dei motivi che militano a favore della scarcerazione indicati nei ricorsi avverso quei provvedimenti. Si tratta, pertanto, di una valutazione che considera le circostanze concrete e che prescinde da qualsiasi considerazione circa eventuali limiti temporali previsti dal diritto interno: è un giudizio globale degli elementi a disposizione della Corte. Così, un periodo di detenzione preventiva può essere considerato irragionevole, e pertanto non conforme alla Convenzione, pur non eccedendo i limiti massimi di custodia cautelare previsti dalla legge nazionale. Nel caso in esame, le autorità giudiziarie italiane prima, e il Governo poi, avevano giustificato la permanenza del ricorrente in detenzione preventiva, sulla base della persistenza di esigenze cautelari fondate sulle dichiarazioni di un pentito la cui attendibilità era stata considerata positivamente (68), e le cui parole costituivano, evidentemente, i gravi indizi di colpevolezza legittimanti sia l’adozione, sia la proroga della misura cautelare. La Corte è giunta a una diversa valutazione sul permanere dell’interesse pubblico alla custodia cautelare sofferta dal ricorrente. Ha difatti ritenuto che quelle dichiarazioni, che avevano legittimamente motivato l’adozione di dette misure, non erano più in grado di giustificarle, in mancanza di ulteriori riscontri nel corso delle indagini. I sospetti non erano più plausibili e il sacrificio imposto al ricorrente non più ragionevole. 4. Mancato immediato rilascio del ricorrente in seguito alla sentenza di assoluzione. — Il ricorrente afferma di aver subito una detenzione illegale per le 12 ore successive all’emanazione della sentenza di assoluzione. 4.1. Opinione della Commissione. — Citando la precedente giurisprudenza (69) in materia, la Commissione ha ribadito che è ben possibile che l’esecu(66) In realtà, nell’individuazione dei criteri per la valutazione della ragionevolezza o meno di una custodia cautelare, sembra esserci una divergenza tra la Commissione e la Corte. La prima aveva individuato sette criteri: durata della detenzione, durata della detenzione in relazione alla natura del reato e alla sanzione prevista, condotta dell’indagato, complessità del caso, conduzione delle indagini e comportamento delle autorità nel merito e sui ricorsi de libertate. Tale ricostruzione non è, però, stata seguita dalla Corte. (67) Cfr. tra le altre, Corte, sentenza del 26 giugno 1991, Lettelier c. France, in Série A, n. 207. Il controllo della Corte è poi fatto esaminando le circostanze considerate dalle autorità nazionali nelle decisioni de libertate e i fatti indicati dai ricorrenti nei ricorsi volti ad ottenere la libertà. (68) Nei provvedimenti di proroga della misura cautelare i giudici italiani hanno valutato l’attendibilità delle dichiarazioni del pentito quasi esclusivamente sulla base di valutazioni concernenti episodi esterni all’inchiesta coinvolgente il ricorrente. Così, quali elementi positivi di riscontro sono state considerate le ammissioni di colpevolezza del narrante rispetto a determinati reati e la presenza di conferme oggettive di altre narrazioni fatta dal collaboratore in questione. (69) Corte, sentenza del 1o luglio 1997, Giulia Manzoni c. Italie, in Recueil, 1997, IV; sentenza del 22 marzo 1995, Quinn c. France, in Série A, n. 311: nel primo caso, la Corte non ha ravvisato la viola-
— 244 — zione di una decisione di messa in libertà richieda del tempo, ma è necessario che ‘‘quello sia ridotto al minino’’. Perché un supplemento di esecuzione sia accettabile è necessario, per la Commissione, che esso si traduca in un inizio di esecuzione della decisione di liberazione. Nel caso concreto, invece, l’organo di tutela ha notato che il ritardo nell’esecuzione della sentenza assolutoria era imputabile unicamente all’assenza degli addetti dell’ufficio matricola dell’istituto di pena, e che quindi vi era stata un’inerzia totale delle autorità competenti: il ricorrente è stato, in tal modo, obbligato a subire una detenzione di 12 ore illegittima. 4.2. Opinione del Governo. — Pur riconoscendo che il ritardo nella liberazione del ricorrente dovuta all’assenza dell’impiegato dell’ufficio matricola del carcere era ingiustificato, il Governo italiano ha sottolineato come la necessità di provvedere a taluni adempimenti burocratici richieda inevitabilmente del tempo, e che un certo ritardo nell’esecuzione di un provvedimento di rimessione in libertà possa dunque ritenersi fisiologico e non imputabile a negligenza. 4.3. Opinione della Corte. — Concordando pienamente con l’opinione espressa dalla Commissione, la Corte, nell’affermare l’avvenuta violazione dell’art. 5 par. 1, ha ritenuto che la causa dell’illegittima detenzione subita dal ricorrente, dopo la sentenza di assoluzione, fosse da ritrovarsi unicamente nella negligenza dimostrata dell’ufficio matricola, la cui impossibilità di operare, mancando qualsiasi addetto, aveva reso impossibile l’inizio dell’esecuzione del provvedimento di scarcerazione. 4.4. Osservazioni. — Il ritardo nella scarcerazione del ricorrente ha sollevato problemi di compatibilità con l’art. 5 par. 1 della Convenzione, che sancisce il divieto di privazione della libertà se non nel rispetto delle vie legali e unicamente nelle ipotesi tassative elencate nel par. 1. La previsione convenzionale pone, quindi, due condizioni: compatibilità con le previsioni del proprio diritto interno e necessità che tali previsioni rientrino tra quelle indicate dalle lett. a)-f) del par. 1 dell’art. 5. Quanto alla prima condizione del rispetto delle vie legali, la previsione rimanda evidentemente alla legislazione nazionale, prescrivendo l’obbligo di conformarsi sia alle norme procedurali, sia a quelle sostanziali. È chiaro altresì che una garanzia contro l’arbitrio esige che la legge nazionale da applicare risulti sufficientemente accessibile e precisa, in modo da consentire all’interessato di poter prevedere le conseguenze del suo agire. Analogamente a quanto detto per le ingerenze nella vita privata di cui all’art. 8, perché la limitazione della libertà possa essere prima facie legittima non solo è necessaria la presenza di una norma legittimante, ma altresì che questa presenti particolare qualità. Nel caso in esame la detenzione del ricorrente è stata valutata protrarsi arbitrariamente in quanto non rispettosa delle stesse vie legali: l’inerzia delle autorità italiane di fronte a un provvedimento di rimessione in libertà ha, difatti, realizzato una fattispecie lesiva della previsione convenzionale, privando il ricorrente illegittimamente della libertà. 5. Sull’obbligo di soggiorno imposto dopo l’assoluzione. — Il ricorrente si lamenta, inoltre, che malgrado l’assoluzione, gli sia stata imposta la misura di prevenzione dell’obbligo di soggiorno. 5.1.
Opinione della Commissione. — Nel ritenere che l’applicazione di una
zione dell’art. 5 par. 1 nell’attesa di poco più di cinque ore della ricorrente prima di essere rimessa in libertà; nel caso Quinn, invece, undici ore per iniziare l’esecuzione del provvedimento di rimessione in libertà sono state considerate eccessive e quindi costituenti una detenzione illegittima alla luce dei dettami convenzionali.
— 245 — misura di prevenzione personale costituisca limitazione alla libertà di circolazione prevista dall’art. 2 del Protocollo n. 4, la Comssione ha affermato che si è trattata di un’ingerenza illegittima nel diritto del ricorrente perché, applicata soltanto sulla base del legame di parentela con un membro della mafia, tra l’altro deceduto, non risulta giustificabile in una società democratica. i) Opinione dissenziente del giudice Trechsel. — Rammentando le peculiari caratteristiche di natura criminale e sociologica del fenomeno mafioso, e in particolare la pregnanza che i legami familiari assumono in tale contesto, la particolare gravità della minaccia rappresentata per l’ordine pubblico dalle associazioni criminose, nonché e l’importanza della prevenzione penale, il giudice Trechsel ha ritenuto che le misure di prevenzione adottate nei confronti del ricorrente fossero proporzionate e giustificate anche dopo la sua assoluzione. 5.2. Opinione del Governo. — Ricordando la precedente giurisprudenza, della Commissione (70) come della Corte (71), che legittimava le misure di prevenzione sia sotto il profilo della loro necessità in una società democratica, sia sotto quello della loro proporzionalità allo scopo perseguito in considerazione della pericolosità del fenomeno mafioso, il Governo non riteneva che l’assoluzione del ricorrente dovesse portare a diversa conclusione nel caso in esame. E ciò in considerazione del fatto che la pericolosità di Labita (sub specie dei pericolo di appartenenza ad un’associazione mafiosa) non era venuta meno con la sentenza di proscioglimento del ricorrente ‘‘che non significa che gli indizi gravanti a suo carico siano stati smentiti da una diversa ricostruzione processuale dei fatti ma semplicemente che tali indizi non sono stati corroborati da elementi sufficienti per giungere ad una condanna’’. 5.3. Opinione della Corte. — Dopo aver premesso di ritenere, conformemente ai propri precedenti giurisprudenziali, la legittimità dell’applicazione delle misure di sorveglianza nei confronti anche di chi, pur assolto, mantenga profili di pericolosità, la Corte ha osservato che nel caso in esame difettava il requisito della necessità della misura limitativa del diritto del ricorrente in una società democratica in quanto ‘‘il semplice fatto che la moglie del ricorrente sia la sorella di una capo mafia, tra l’altro deceduto, non può giustificare delle misure così pesanti nei confronti del ricorrente, in mancanza di ogni elemento concreto che testimoni il reale rischio di commettere reati’’ (72). Concludeva, pertanto, che la restrizione alla libertà di circolazione del ricorrente, costituendo un’ingerenza non necessaria in una società democratica, violava l’art. 2 del Protocollo n. 4. 5.4. Osservazioni. — La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo si è interessata più volte della compatibilità delle misure di prevenzione con le previsioni convenzionali (73). Nella sentenza in esame si è soffermata su uno degli aspetti già in precedenza affrontati: quello della compatibilità della misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno con il diritto di libera circolazione sancito dall’art. 2 del Protocollo n. 4. Tale diritto rientra fra quelli per i quali la Convenzione prevede, a certe condizioni, la possibilità dell’ingerenza nel loro esercizio da parte della pubblica autorità. In particolare, le limitazioni consentite devono essere, analogamente a quanto detto per la previsione di cui all’art. (70) Commissione, dec. del 27 maggio 1991, in D.R., 70. (71) Corte, sentenza del 22 febbraio 1994, Raimondo c. Italie, in Série A, n. 281-A. (72) Sentenza Labita, cit., par. 195. (73) Per un’attenta disamina della giurisprudenza della Corte in materia cfr. DEL TUFO, Il diritto italiano al vaglio della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Attuazione dei principi della Convenzione e ruolo del giudice interno, in Critica del diritto 2000.
— 246 — 8, previste dalla legge e necessarie in una società democratica per raggiungere taluno degli scopi legittimi indicati dalla norma. Il requisito della necessità è stato dalla Corte spiegato — e ciò ovviamente non solo in riferimento all’articolo in esame — come espressione di un bisogno sociale imperioso proporzionato allo scopo legittimo perseguito. Emerge, infatti chiaramente, dalla giurisprudenza della Corte, che ‘‘le restrizioni di un diritto sancito dalla Convenzione devono essere proporzionate allo scopo legittimo perseguito’’ (74). Si riconosce, pertanto, un certo margine di apprezzamento agli Stati circa l’esistenza di una simile necessità. A tale potere statuale discrezionale si accompagna, in ogni caso, un controllo europeo: la Corte è dunque competente a decidere in ultima istanza circa la compatibilità di una ‘‘restrizione’’ con le libertà garantite. Nell’esercizio del suo potere di controllo, la Corte esamina tale ingerenza alla luce del caso nel suo insieme. Spetta agli organi di tutela di Strasburgo, dunque, accertare se la misura in oggetto sia ‘‘proporzionata agli scopi legittimi perseguiti’’ e se le motivazioni addotte dalle autorità nazionali per giustificarla siano pertinenti e sufficienti (75). Nell’effettuare il suo controllo, quindi, diversi sono gli aspetti considerati dalla Corte: la natura della misura, la possibilità per lo Stato di adottarne di diverse, la situazione che deriverebbe dalla soppressione della misura stessa. Per la Corte, il requisito della proporzionalità è soddisfatto con la realizzazione di un giusto equilibrio tra i diversi interessi coinvolti. Nelle precedenti decisioni riguardanti l’Italia, la giurisprudenza di Strasburgo ha affermato che le misure di prevenzione personali costituiscono un’ingerenza legittima nei diritti dei ricorrenti perché dans le cadre d’une politique criminelle visant à combattre le phénomène de la grande criminalité ... l’ingérence ... n’est pas disproportionnée par rapport au but légitime poursuivi (76). Con la presente decisione la Corte ha, invece, riscontrato la violazione della norma in esame perché la misura della sorveglianza speciale, imposta solo sulla base del rapporto di parentela con la moglie di un capo mafia deceduto, non è apparsa proporzionata allo scopo perseguito, e dunque non necessaria in una società democratica. In tal modo, si è ancora una volta affermato che non ogni ingerenza è incompatibile con i diritti garantiti (in questo caso il diritto alla libera circolazione). Tutto dipende dal grado dell’ingerenza stessa. 6. Sulla radiazione dalle liste elettorali. — Labita considerava che la radiazione del suo nome dalle liste elettorali, anche successivamente alla sentenza di assoluzione, costituisse violazione dell’art. 3 del Protocollo n. 1. 6.1. Opinione della Commissione. — Ricordando che il diritto garantito dalla norma in esame non è assoluto potendo essere compresso ma non arbitrariamente né attraverso una limitazione alla libertà di espressione, la Commissione evidenziava l’esistenza di un principio generalmente riconosciuto secondo cui la condanna a una pena detentiva può comportare restrizioni al diritto di voto. Pur non contestando la specificità del diritto italiano che prevede la perdita di tale diritto quale automatica conseguenza dell’applicazione di una misura di prevenzione, l’organo di tutela stimava, tuttavia, che quella sanzione fosse sproporzionata nel caso di una persona assolta definitivamente, concludendo, dunque, per l’avvenuta violazione dell’art. 3 del Protocollo n. 1. (74) Corte, sentenza del 24 aprile 1996, Boughanem c. France, in Recueil, 1996, p. 593 ss., par. 41; sentenza del 13 luglio 1995, Nasri c. France, in Série A., n. 320-B, par. 41; cfr anche sentenza del 22 ottobre 1981, Dudgeon c. Royaume-Uni, in Série A, n. 45; sentenza del 7 dicembre 1976, Handyside c. Royaume-Uni, in Série A., n. 24. (75) Cfr. tra le altre, Corte, sentenza del 24 aprile 1990, Huving c. France, in Série A, n. 176-B; sentenza del 24 aprile 1990, Kruslin c. Francia, in Série A, n. 176-A. (76) Commissione, dec. Ciancimino c. Italia del 27 maggio 1991, ric. n. 12541/86.
— 247 — 6.2. Opinione del Governo. — Il Governo ha considerato non ‘‘arbitraria né eccessiva la misura a fronte del pericolo che persone sospettate di appartenere ad organizzazioni di tipo mafioso possano esercitare il loro diritto di voto a favore di altri membri della stessa’’ (77). 6.3. Opinione della Corte. — Nel considerare, con il Governo italiano, che la sospensione del diritto di voto di una persona sospettata di appartenere a un’organizzazione mafiosa persegua uno scopo legittimo, la Corte ha ravvisato che nel caso concreto non vi fosse, dopo la sentenza di assoluzione, alcun motivo concreto di sospettare che il ricorrente appartenesse alla mafia. Pertanto, ha considerato la misura limitativa del diritto di voto come non proporzionata allo scopo perseguito. 6.4. Osservazioni. — Pur in assenza di un’espressa previsione normativa in tal senso, anche il diritto garantito dall’art. 3 del Protocollo n. 1 non è assoluto: ‘‘Gli Stati godono in materia di un largo margine di apprezzamento, ma spetta alla Corte in ultima analisi stabilire se le esigenze del Protocollo n. 1 siano state rispettate: la Corte dovrà assicurarsi che le condizioni (imposte dagli Stati al diritto di voto) non attentino alla sostanza del diritto o lo privino di effettività, che esse perseguano uno scopo legittimo e che i mezzi impiegati non si rilevino sproporzionati’’ (78). È ammissibile una restrizione del diritto garantito, ma questa deve rispettare la c.d. clausola di legittimità. È stata così ritenuta giustificata, alla luce della gravità del fatto di reato commesso, la restrizione al diritto di voto derivante da una condanna a una pena detentiva, anche nell’ipotesi in cui l’ingerenza nel diritto garantito fosse continuata dopo l’espiazione della sanzione penale (79). Nel caso in esame, pur considerandola in astratto giustificata perché tendente al perseguimento di uno scopo legittimo, la limitazione del diritto di voto imposta al ricorrente è stata censurata sotto il profilo della sua necessità in una società democratica in quanto non proporzionata allo scopo perseguito. C. Metodi interpretativi della Corte. — Quel che interessa qui verificare è, in primo luogo l’esistenza della possibilità, per i giudici italiani di evitare che la Corte europea si pronunciasse nei termini ora esposti. Se, in altri termini, le autorità italiane potessero applicare, ove conosciuti, i principi giurisprudenziali a fondamento della sentenza, agendo quali primi tutori del rispetto dei diritti dell’uomo e, nell’assicurare già in prima battuta il loro rispetto, rendere superfluo l’intervento dell’organo europeo. In questo paragrafo intendo analizzare il grado di prevedibilità della decisione della Corte, attraverso l’analisi sia a) del tipo di interpretazione, sia b) del metodo interpretativo utilizzati dalla Corte (80). a) L’interpretazione della Corte è dinamica ed evolutiva (81): il diritto con(77) Promemoria, cit. (78) Corte, sentenza del 2 marzo 1987, Mathieu-Mohin & Clerfyt c. Belgique, in Série A, n. 113. (79) Commissione, rapp. n. 9914/82 c. Paesi Bassi, in DR, 33, pp. 242-244. (80) La tematica legata ai metodi interpretativi adottati dalla Corte europea è complessa, e non rientra tra gli obiettivi di questo scritto un’accurata analisi e spiegazione degli stessi. Intendo, piuttosto, fornire taluni cenni sull’argomento, che ritengo utili per un primo approccio ad un metodo interpretativo essenzialmente di tipo induttivo, e, pertanto, non usuale per giuristi di tradizione di diritto continentale. Per ulteriori approfondimenti rimando alla bibliografia citata di seguito. (81) È la stessa Corte ad essersi riconosciuta la competenza di aggiornare i diritti previsti dalla Convenzione elevando gli standards europei di protezione dei diritti umani, cfr. sentenze Tyrer, cit., par. 31; Soering, cit., par. 102. La dottrina usa i due termini, dinamica ed evolutiva, in riferimento all’interpretazione della Corte e della Commissione, sempre contemporaneamente, a voler indicare che l’uno non ha un significato autonomo dall’altro. Non condivido tale impostazione. Mi sembra, piuttosto, che sia possibile individuare significati autonomi ad ambiti di utilizzazione diversi. E ciò anche in ragione del loro
— 248 — venzionale è diritto vivente, in grado di adeguarsi alle mutevoli esigenze di tutela dei diritti dell’uomo proprie di in una società democratica, così come alle diverse circostanze dei casi concreti. Si tratta dunque di un’interpretazione in nessun modo statica, perché il suo corso risulta dall’evoluzione della coscienza e delle realtà di fatto. La Convenzione contiene norme di contenuto astratto la cui definizione si perfeziona solo in seguito all’interpretazione ed all’applicazione operate dalla Corte. È l’interpretazione giudiziaria a definire i contorni e la portata delle norme convenzionali alla luce delle fattispecie concrete. La variabilità del contenuto di tali norme, sfumate o vaghe (82), ben si presta a un’interpretazione evolutiva. Pensiamo, ad esempio, all’evoluzione giurisprudenziale di un concetto ad alto contenuto emotivo quale quello di tortura di cui all’art. 3. La sua ultima definizione è stata fissata nella sentenza Selmouni (83) che, con quella che è stata chiamata una avancée spectaculaire (84), ha riqualificato la nozione, comprendendovi condotte in precedenza definite dalla Corte all’ambito dei trattamenti disumani e degradanti (85). La Corte ha giustificato tale avanzata affermando che ‘‘il maggior livello di protezione oggi richiesto implica, ineluttabilmente, una maggiore fermezza nella valutazione delle violazioni dei valori fondamentali delle società democratiche’’ e che quindi ‘‘ciò che un tempo sarebbe stato qualificato trattamento disumano e degradante anziché tortura potrebbe ricevere una diversa qualificazione in avvenire’’ (86). È poi un’interpretazione dinamica perché le decisioni sono estremamente sensibili alla variazione degli elementi di fatto caratterizzanti i singoli casi concreti. Le decisioni possono, dunque, essere costruite su variabili la cui mutevolezza determina la dinamicità dell’interpretazione convenzionale. Le decisioni sono, cioè, definite da un numero indeterminato di informazioni (fatti più o meno dettagliati e specifici) contenute nella premessa. La variazione o l’aggiunta di una o più informazioni può comportare una diversa soluzione (87). Espressione deldifferente significato letterale; se entrambe le espressioni danno, infatti, l’idea del movimento, è solo l’evoluzione ad indicare uno sviluppo progressivo che, nel caso della Convenzione, si traduce in un ampliamento o perfezionamento crescente della tutela dei diritti dell’uomo. È solo l’evoluzione che esprime il passaggio tra forme di tutela più semplici a forme di maggiore complessità. L’utilizzazione del termine dinamico implica il concetto di variazione, di un percorso (solo apparentemente) ondivago. Se i due termini rispondono allora a due concetti diversi, è ben possibile, poi, che l’attività interpretativa sia solo evolutiva o solo dinamica o anche, al tempo stesso dinamica ed evolutiva. Sulla nozione di interpretazione evolutiva e sui metodi interpretativi della Corte, cfr., tra gli altri, BERNHARDT, Thoughts on the interpretation of human rights treaties, in Protection des droits de l’homme: la dimension européenne, Mélanges Wiarda, Matscher (a cura di), Cologne, Carl Heymanns, 1988, pp. 65-71; DE SCHUTTER, L’interprétation de la Convention européenne des droits de l’homme: un essai en démolition, in Revue de droit international des sciences diplomatiques et économiques, 1992, pp. 83- 127; MATSCHER, Les contraintes de l’interprétation juridctionnelle. Les méthodes d’interprétation de la Convention européenne, in L’interprétation de la Convention européenne des droits de l’homme, Sudre (a cura di), Bruxelles, Bruylant, 1999, pp. 15-40. (82) Sul concetto di norme vaghe nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo cfr. VAN DER MEERSCH, Le caractére autonome des termes et le marge d’appréciation des gouvernaments dans l’interpétation de la Convention européenne des droits de l’homme, in Protection des droits de l’homme, cit., pp. 201-220; MELCHIOR, Notions vague ou indeterminées et lacunes dans la Convention européenne des droits de l’homme, ivi, cit., pp. 411-419; VALLAURI, Norme vaghe e teoria generale del diritto, in Jus, 1999, 1, pp. 25-32; RUSSO, Norme vaghe e Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo, ibid., pp. 46-50; PETTITI, Norme vaghe e diritti dell’uomo, ibid., pp. 51-56; DE SALVIA, Esistono norme vaghe nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo?, ibid., pp. 57-66. (83) Sentenza Selmouni, cit. (84) COHEN-JONATHAN, Un arrêt de principe de la nouvelle Cour européenne des droits de l’homme: Selmouni contre France, cit., p. 181. (85) Sentenza Tomasi, cit. (86) Sentenza Selmouni, cit. par. 101. (87) VOGLIOTTI, in La logica floue della Corte europea dei diritti dell’uomo tra tutela del testimone e salvaguardia del contraddittorio: il caso delle ‘‘testimonianze anonime’’, in Giurisprudenza italiana, aprile 1999, p. 859 traducendo in linguaggio formalizzato l’argomentazione giuridica di tipo non monotonico, la descrive in questi termini, ‘‘se Π1 (p1, p2, p3... • pn) − q allora può essere possibile Π2 (p1, p2, ... •
— 249 — l’interpretazione dinamica della Corte è, ad esempio, la vicenda convenzionale delle testimonianze anonime. Molteplici sono stati i ricorsi presentati agli organi di tutela di Strasburgo in cui si sollevava la questione della compatibilità di tale mezzo di prova con l’art. 6 par. 3 lett d) (88). La Corte non ha mai affermato l’illegittimità convenzionale in astratto delle testimonianze anonime, ma è arrivata a conclusioni sia di compatibilità (89), sia di incompatibilità (90) in presenza di elementi di fatto differenti tra di loro. Dall’esame delle sentenze in materia emergono, però, i criteri — sotto forma di dati fattuali — cui la Corte è ricorsa per decidere i diversi casi. Ad esempio, la conclusione della Corte può essere diversa, secondo che un giudice imparziale — sia egli un giudice istruttore o un giudice del dibattimento — abbia, o non, conosciuto l’identità del teste anonimo e abbia, o non, potuto interrogarlo. Grande rilievo ai fini della compatibilità con il dettato convenzionale riveste, poi, la motivazione della sentenza e il peso avuto, sul convincimento del giudice dalla testimonianza anonima. Sono state diverse, quindi, le variabili considerate dalla Corte (91), variabili la cui presenza o assenza, il cui diverso combinarsi, può aver condotto a una data conclusione o al suo opposto. b) Quanto al metodo ermeneutico, l’interpretazione giurisprudenziale è attuata attraverso il ricorso a più logiche giuridiche: logica standard o bivalente, quando si tratti di applicare divieti o eccezioni espressamente definiti dalla Convenzione, e una logica giuridica di tipo pluralista (92) o non monotonica (93), quando il confronto sia con nozioni dal contenuto indeterminato o confuso, o sussista la necessità di prendere in considerazione contemporaneamente, e quindi di equilibrare, interessi contrastanti ma tutti in astratto meritevoli di tutela (94). In tali ultime ipotesi, il metodo è lo stesso sia che si tratti di un’interpretazione evolutiva, sia che si tratti di un’interpretazione dinamica: la compatibilità di una condotta statuale con le previsioni convenzionali non può, infatti, essere adeguatamente spiegata con il ricorso a una logica di tipo classico o binaria, che conduca a Pn, Pn−1) − ¬ q cioè l’aggiunta di una nuova premessa (Pn−1) può ribaltare la precedente conclusione, dove ¬ è il funtore di negazione’’. (88) È la disposizione che afferma, tra gli altri, il diritto di ogni accusato ad esaminare o far esaminare i testimoni a carico. (89) Corte, sentenza del 26 marzo 1996, Doorson c. Pays Bas, in Recueil, 1996, p. 446. (90) Corte, sentenza del 27 settembre 1990, Windisch c. Autriche, in Série A, n. 186; sentenza del 20 novembre 1989, Kostovski c. Pays Bas, ivi, n. 166. (91) Per un esame completo dei criteri a base delle decisioni della Corte, cfr. VOGLIOTTI, in La logica floue, cit., pp. 858-859. (92) Parlando delle scelte della Corte, scelte ‘‘tragiche’’, la cui soluzione sacrifica uno degli interessi in gioco, meritevole di tutela, scrive VOGLIOTTI, in La logica floue, cit., p. 853: ‘‘Per gestire nel modo più soddisfacente una scelta di questo genere sembra opportuno ricorrere agli strumenti concettuali forniti da un pensiero della complessità. (...) la Corte europea opta per una logica complessa o del terzo incluso (la testimonianza anonima è, e allo stesso tempo non è, contraria alla Convenzione). Questa nuova logica che, traducendo l’inglese fuzzy, M. Delmas Marty chiama floue, si distinguerebbe dalla logica formale classica per il suo essere appunto una logique de gradation’’. Secondo DELMAS MARTY, Fecondità delle logiche giuridiche sottese ai metodi interpretativi della Corte europea, in DELMAS MARTY (a cura di), Verso un’Europa del diritti dell’uomo, Padova, Cedam, 1994, p. 328, ‘‘Si tratterebbe di un’altra logica, non standardizzata, che potrebbe essere, in base al concetto di parziale appartenenza e di gradazione, la logica generalmente indicata sotto il nome di logica indeterminata (logique floue)’’. (93) Scrive SARTOR, Intelligenza artificiale e diritto, 1996, Milano, Giuffrè, p. 79: ‘‘Un ragionamento è monotonico quando l’aggiunta di nuove premesse non invalida mai le conclusioni derivabili dalle premesse precedenti (...). La logica classica è il tipico formalismo monotonico: essa consente di derivare solo implicazioni logicamente valide, che non possono essere revocate da premesse ulteriori. Pertanto la logica classica è insufficiente qualora si disponga di informazioni incomplete o contraddittorie, dalle quali si debbano derivare conclusioni provvisorie. Questo è il compito del ragionamento non monotonico, che deriva conclusioni che sono giustificate dall’insieme delle conoscenze disponibili ma possono essere revocate da informazioni contrarie’’. (94) Cfr. OST, Originalità dei metodi di interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, in DELMAS MARTY (a cura di), Verso un’Europa dei diritti dell’uomo, 1994, Padova, Cedam, p. 325.
— 250 — una conclusione rigida di liceità o di illiceità, di legittimità o illegittimità. In una realtà normativa in cui sono presenti molti elementi di indeterminatezza (concetti a contenuto variabile, teoria del margine di apprezzamento, metodi del bilanciamento degli interessi, principio di proporzionalità; lo stesso oggetto dell’accertamento giudiziario, il ragionevole, l’accettabile e l’equo è concetto dai contorni indefiniti) è piuttosto una logica non monotonica l’unica in grado di ordinare il molteplice, definendo, in modo fisiologicamente provvisorio, la compatibilità o il grado di appartenenza di una condotta statuale al diritto convenzionale. Si tratta di una logica giuridica che non consente di ottenere un elevato grado di certezza, che non porta alla constatazione di compatibilità o incompatibilità una volta e per tutte di una determinata condotta statuale. Ma che, proprio in ragione della complessità della realtà sottesa alle decisioni giurisdizionali, permette di stabile che quella condotta, caratterizzata da quegli elementi di fatto, avvenuta in quel contesto, sia concretamente compatibile (o incompatibile) con la nozione di giusto processo, sia giustificata (o non giustificata) perché necessaria (o non necessaria) in una società democratica. È, in altri termini, una logica che porta alla definizione di sentenze provvisorie, il cui tenore potrà essere diverso se quella stessa condotta sarà ripetuta in altri contesti e in presenza di diversi elementi (95). È chiaro che se un’interpretazione di tale genere ha l’indubbio vantaggio di ampliare la portata delle disposizioni convenzionali, aumentando il grado di protezione dei diritti garantiti, presenta anche dei limiti. Il confine tra una logica indeterminata e una logica arbitraria non è poi così netto. In risposta ad esigenze di prevedibilità e di coerenza giuridica si impone, allora, che la Corte argomenti in modo rigoroso ed esplicito le sue scelte. È necessario, cioè, uno sforzo argomentativo tale da rendere la giurisprudenza trasparente, prevedibile e coerente. Tale sforzo è dalla Corte compiuto, unicamente, attraverso l’individuazione di criteri logici sotto forma di dettagli dei singoli casi. Sono, infatti, i dati fattuali le informazioni di cui la Corte si serve per distinguere i casi e per legittimare le proprie decisioni. Le parsimoniose motivazioni della Corte, lungi dall’operare qualunque ricostruzione teorica delle questione esaminate, si compongono, invero, di osservazioni concernenti la presenza di determinate circostanze. Se si condivide senz’altro l’assunto secondo il quale più sono ‘‘i criteri che entrano in relazione sinergica, più si riduce il margine di apprezzamento del giudice, con la conseguenza di rendere la decisione più prevedibile e più controllabile’’ (96) è però anche vero che se le ragioni della scelta di taluni criteri fossero fornite, la prevedibilità e controllabilità delle decisioni sarebbero più agevoli. Senza contare, poi, che la Corte non sempre nelle motivazioni esplicita compiutamente i fatti che l’hanno condotta a un certa conclusione. D. Conclusioni. — Le violazioni cui è pervenuta la Corte nella sentenza Labita possono essere distinte in due insiemi. Nel primo a) colloco le violazioni affermate sulla base di statuizioni meramente ricognitive di precedenti giurisprudenziali della Corte o della Commissione, evidentemente prevedibili e conoscibili. Nel secondo b) violazioni che, pur non essendo state puntualmente affermate in precedenza, sono comunque espressione dello sviluppo di dichiarazioni già rese, ri(95) Sembra che la Corte pratichi gli esercizi di autosovversione, suggeriti da HIRSCHMANN, in Autosovversione, 1997, Bologna, Il Mulino. Infatti, parafrasando Hirschmann può dirsi che l’utilizzazione di una logica non monotonica consente alla Corte di affermare che una data regola giuridica è valida o non valida (o valida in una maniera molto diversa) in sottosezioni differenti di realtà normative complesse e ciò perché certe ipotesi valgono in una sottosezione e non in un’altra. (96) VOGLIOTTI, La logica floue, cit., p. 854.
— 251 — sultando dunque prevedibili sulla base del metodo interpretativo descritto in precedenza. a) Nel primo insieme rientrano le affermazioni di violazione dell’art. 3, nel suo aspetto procedurale, dell’art. 5 par. 1 e dell’art. 8. In particolare, l’obbligo positivo di effettuare un’inchiesta approfondita ed effettiva in caso di denuncia di maltrattamenti, oltre ad essere stata affermata molteplici volte in riferimento alla tutela del diritto alla vita (97), è stata ribadita specificamente con riguardo all’art. 3 già nella sentenza Assenov c. Bulgaria e quindi in Selmouni c. Francia. Sul punto bisogna anche segnalare che le autorità italiane erano già sorvegliate speciali da parte del Comitato prevenzione tortura (98). Questo, nel rapporto del 14 giugno 1996 (99), concernente la visita effettuata presso taluni stabilimenti penitenziari tra il 22 ottobre ed il 6 novembre 1995, aveva infatti invitato le autorità italiane ad informarlo delle denunzie per maltrattamenti presentate da detenuti e del loro esito (100). Per quel che riguarda l’art. 5 par. 1 se la violazione non era stata riscontrata nel caso Manzoni c. Italia perché la Corte aveva considerato ragionevole un’attesa di 5 ore prima che la ricorrente venisse scarcerata, nel caso Quinn c. Francia la constatazione di non conformità con i dettami convenzionali aveva riguardato la detenzione di undici ore subite dal ricorrente senza che fosse dato inizio all’esecuzione dell’ordine di liberazione della chambre d’accusation. Per quanto attiene alla censura della corrispondenza, la Corte ha constatato la non conformità della disposizione legislativa italiana con l’art. 8 comma 2 negli stessi termini usati nelle sentenze Calogero Diana e Domenichini. Si tratta, allora, di violazioni più che prevedibili, e quindi evitabili solo se le autorità giudiziarie e il potere legislativo fossero stati più sensibili alla realtà giurisprudenziale di Strasburgo. b) Nel secondo insieme rientrano le affermazioni di violazione dell’art. 5 par. 3, dell’art. 3 del Protocollo n. 1 e dell’art. 2 del Protocollo n. 4. Se è vero che non si riscontrano precedenti puntuali è infatti indubbio che queste costituiscono la coerente conseguenza di affermazioni rese in precedenza dalla Corte. La Corte ha, senza dubbio, completamente assolto l’obbligo di coerenza e prevedibilità nella motivazione concernente la violazione di cui all’art. 5 par. 3. Risultano, infatti, chiaramente indicati i criteri posti a base delle sue decisioni in materia: persistenza di motivi plausibili di sospettare che la persona arrestata abbia commesso un reato come conditio sine qua non, sua insufficienza da sola dopo un certo lasso di tempo e quindi necessità di ulteriori elementi pertinenti e (97) Cfr. giurisprudenza della Corte citata in nota 34. (98) La Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene e trattamenti disumani e degradanti, aperta alla firma a Strasburgo il 26 novembre 1987, prevede, al fine di completare il sistema di protezione stabilito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’istituzione di un Comitato. Questo ha la funzione di visitare, previa notificazione allo Stato interessato, qualunque luogo di detenzione di uno Stato parte, pur in assenza di denuncia: il Comitato può interrogare chiunque sia privato della libertà e indirizzare raccomandazioni agli Stati per rafforzare la tutela delle persone la cui libertà sia ristretta contro la tortura e i trattamenti o le pene disumane e degradanti. Esso è composto da un numero di membri uguale a quello delle Parti, un membro per ciascuno Stato aderente alla Convenzione. La Convenzione stabilisce che i membri del Comitato non sono ‘‘rappresentanti’’ dei loro governi: la loro azione deve essere improntata alla indipendenza e imparzialità. (99) Al termine delle visite che effettua periodicamente nei Paesi membri, il Comitato redige un rapporto in cui, se necessario, formula delle raccomandazioni con cui indica le misure da prendere per prevenire un eventuale trattamento delle persone private della libertà contrario a ciò che può essere ragionevolmente considerato accettabile. Se sono riscontrate violazioni, il Comitato può suggerire i provvedimenti da adottare per evitare il protrarsi di situazioni non accettabili e non conformi ai dettami convenzionali. (100) Rapport au Governement de l’Italie relatif à la visite effectuée par le Comité européen pour la prévention de la torture et des peines ou traitements inhumains ou dégradants (CPT) en Italie du 22 octobre au 6 novembre 1995, par. 75.
— 252 — sufficienti. Dopo aver constatato che la detenzione di Labita era stata sorretta per tutta la sua durata solo e unicamente dagli stessi motivi (dichiarazione di ‘‘un pentito’’) che ne avevano causato l’inizio, ne è stata coerentemente e prevedibilmente sanzionata la sua irragionevolezza. Nelle due ultime violazioni, concernenti rispettivamente l’art. 2 del Protocollo n. 4 e l’art. 3 del Protocollo n. 1, la prevedibilità della decisione della Corte era sicuramente meno agevole. Nel valutare il rispetto alle previsioni convenzionali, sia in tema di sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, sia dell’automatica misura della radiazione dalle liste elettorali, la Corte ha dovuto verificare la necessità democratica di dette misure e stabilire quindi se le stesse rientrassero, o non, nel margine nazionale di apprezzamento. Si è trattato, allora, di una valutazione la previsione del cui esito era sicuramente difficile data la non determinabilità a priori del margine di apprezzamento, dipendendo questo da elementi fortemente eterogenei e in ultima analisi anche fortemente soggettivi. In tale ipotesi, l’assenza di regole o di principi teorici di interpretazione di cui avvalersi, rendeva complicata la determinazione della decisione della Corte. Solo un forte bagaglio di conoscenze della giurisprudenza convenzionale avrebbe, forse, fatto emergere che nel bilanciamento tra legittimi interessi pubblici e sacrificio imposto a un privato la Corte è estremamente rigorosa e severa, ritenendo che il pieno godimento dei diritti garantiti dalla Convenzione costituisca la regola e la limitazione l’eccezione, e che l’oggetto dell’accertamento giudiziario della Corte è un concetto morbido quale quello di ragionevolezza. La limitazione imposta a Labita, quindi, protrattasi per tanto tempo e con motivazioni di pericolosità presunta pur in presenza di due sentenze assolutorie non poteva che apparire un sacrificio non giustificato e pertanto irragionevole. Ritorno alla domanda da cui sono partita: la sentenza Labita era inevitabile? Sulla base di quanto detto direi di no. Al contrario, l’intera vicenda rappresenta un caso esemplare di come il nostro Paese incorra in condanne che potrebbero essere evitate se solo l’ordinamento (giudici, legislatore, autorità amministrative) si adeguasse realmente alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Ma l’applicazione presuppone la conoscenza della Convenzione, delle sentenze degli organi di tutela di Strasburgo e del metodo interpretativo che tali organi utilizzano. Questo studio, lungi dal voler esaurire la problematica, intende dare un contributo in questo senso: sensibilizzare verso l’importanza dello studio, da parte di tutti gli operatori del diritto, della Convenzione e, in particolare, della giurisprudenza formatasi su di essa; informare sui metodi interpretativi della Corte; sollecitare, quindi, verso l’applicazione del diritto convenzionale nell’ordinamento nazionale. ANDREANA ESPOSITO Seconda Università di Napoli
— 253 — c) Giudizi di Cassazione
CASSAZIONE PENALE — SEZIONI UNITE — 22 marzo 2000 (dep. 1 giugno 2000) Pres. Viola - Rel. Losapio P.M. Toscani (conf.) — Ricorrente Finocchiaro Indagini preliminari - Chiusura delle indagini - Archiviazione per infondatezza della notizia di reato - Applicazione di misura cautelare nei confronti della stessa persona - Medesima autorità procedente - Identità del fatto - Assenza di decreto di autorizzazione alla riapertura delle indagini - Illegittimità della misura adottata. È illegittima l’ordinanza impositiva di misura cautelare adottata nei confronti della stessa persona e fondata sullo ‘‘stesso fatto’’ contemplati da non rimosso (precedente) provvedimento di archiviazione, resa dallo stesso giudice delle indagini preliminari che decretò l’archiviazione e su richiesta dello stesso pubblico ministero che la sollecitò (1). Ed invero il provvedimento di archiviazione è connotato da una — sia pure limitata — efficacia preclusiva, onde, senza il preventivo provvedimento autorizzatorio previsto dall’art. 414 c.p.p., non è consentito chiedere, né può essere valutata, la domanda di emissione di un provvedimento di cautela (o di altro provvedimento che implichi l’attualità di un procedimento investigativo); sia che tale richiesta sia fondata su una semplice rilettura degli elementi presenti negli atti archiviati, sia che ponga a base atti compiuti dopo l’archiviazione ed in relazlone allo stesso fatto e, persino, occasionalmente conosciuti (2). (Nell’enunciare tale principio la S.C. ha precisato che nella nozione di ‘‘stesso fatto’’ sono comprese sia le componenti oggettive dell’addebito — condotta, evento, rapporto di causalità — sia gli aspetti esterni al fatto di reato, da identificare nell’autorità che procede o procedette all’investigazione, in quanto l’effetto preclusivo discendente dall’archiviazione condiziona solo la condotta dell’ufficio inquirente che chiese ed ottenne il relativo provvedimento) (Corte cost., 19 gennaio 1995, n. 27) (3). (Omissis). — Rileva la Corte. 1. Con ordinanza di data 7 giugno 1999, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catania dispose l’applicazione della custodia cautelare in carcere nei confronti di Giuseppe Alfio Finocchiaro, sospettato di appartenenza alle associazioni per delinquere (di tipo mafioso: art. 416-bis c.p.) facenti capo, una a tale P. Brunetto (fatto ascritto al capo 1 dell’imputazione) e l’altra a tali G. Scavo e B. La Motta (fatto ascritto al capo 11 dell’imputazione). Il Tribunale distrettuale de libertate di Catania, in sede di riesame sulla misura custodiale, con provvedimento del 20 luglio 1999, confermò l’ordinanza di cautela solo in relazione al delitto associativo contestato al capo 11), esclusa l’aggravante di cui al comma 2 dell’art. 416-bis c.p., e annullò la detta ordinanza in
— 254 — relazione al delitto contestato al capo 1) dell’imputazione, non avendo ravvisato sufficienti indizi di reato. Avverso questa decisione, il Finocchiaro, tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo tre mezzi di annullamento per violazione, rispettivamente, dell’art. 273, degli artt. 274 e 275 e dell’art. 414 c.p.p. 2. In particolare, con il terzo motivo di ricorso, ribadito anche con ‘‘motivi nuovi’’ e con nota di udienza, il difensore del ricorrente evidenzia come l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari e, di conseguenza, quella impugnata, pongono a loro fondamento fatti già oggetto di una precedente investigazione conclusa con provvedimento di archiviazione emesso dalla medesima autorità nei confronti della stessa persona. L’ordinanza custodiale, precisa il deducente, è stata adottata nonostante manchi agli atti l’autorizzazione alla riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p., unico provvedimento idoneo a superare la preclusione veniente dal decreto di archiviazione. Secondo il deducente, il giudice, a fronte della richiesta del pubblico ministero e alla luce dei principi espressi nella sentenza della Corte costituzionale n. 27 del 1995 e nella giurisprudenza di legittimità, avrebbe dovuto dichiarare l’improcedibilità dell azione penale, rigettando, quindi, la richiesta di misura cautelare. 3. La seconda sezione della Corte, alla quale ratione materiae fu assegnata la decisione sul ricorso, ha rilevato l’esistenza di un contrasto di indirizzi, nell’àmbito della giurisprudenza della Corte, sulla questione relativa agli effetti della carenza di autorizzazione alla riapertura preliminari, ex art. 414 c.p.p., quando si proceda per i medesimi fatti oggetto di un precedente provvedimento di archiviazione; pertanto, al fine di comporre il contrasto, ha rimesso la decisione alle Sezioni unite. Il Primo Presidente, con decreto del 21 febbraio 2000, ha fissato per la trattazione in camera di consiglio per l’odierna udienza. 4. Dalla ordinanza impugnata risulta che i fatti posti a base dell’ordinanza cautelare sono gli stessi che sostennero un precedente provvedimento di archiviazione disposto il 23 dicembre 1998 dallo stesso giudice per le indagini preliminari, su conforme richiesta del pubblico ministero formulata il precedente 1o dicembre. Il provvedimento impugnato, infatti, dato atto dell’intervenuta archiviazione, evidenzia che: « [...] in epoca immediatamente successiva, senza che fosse intervenuta alcuna novità, è stata avanzata richiesta di applicazione di misura cautelare per gli stessi fatti e sulla scorta dei medesimi elementi indiziari [...] ». Secondo il Giudice a quo: « [...] effettivamente la vicenda è singolare (e probabilmente risponde a scelte investigative non note) ma di per sé non è causa di nullità dell’impugnata ordinanza » custodiale oggetto del giudizio di riesame. Da quanto avanti riassunto emerge: a) che il pubblico ministero, il 1o dicembre 1998, formulò richiesta di archiviazione, e, ottenuto il provvedimento, in relazione ai medesimi fatti e nei confronti dello stesso soggetto, subito dopo (immediatamente dopo, secondo l’ordinanza del Tribunale dei riesame) chiese l’applicazione della misura cautelare; b) che lo stesso giudice sulla stessa fattispecie e nei confronti dello stesso soggetto, con decreto del 23 dicembre 1998, ordinò l’archiviazione, e con ordinanza del 7 giugno 1999, applicò la misura cautelare detentiva;
— 255 — c) che il pubblico ministero non aveva chiesto l’autorizzazione alla riapertura delle indagini; d) che lo stesso materiale indiziario fu posto a fondamento prima dell’archiviazione e poi all’applicazione della misura cautelare. Così definita la situazione in fatto quale ritenuta dal giudice del merito, può ritenersi che la questione al vaglio del Collegio è centrata sul se, nella permanente validità del decreto di archiviazione, sia legittima l’adozione di un provvedimento cautelare personale per lo stesso fatto sulla base dei medesimi elementi indiziari già oggetto della (precedente) archiviazione e, quindi, in assenza dell’autorizzazione prevista dall’art. 414 c.p.p. 5. Prima di passare alla disamina della specifica questione sottoposta al giudizio del Collegio, giova riassumere i termini del contrasto giurisprudendiale quale emerge dalle motivazioni delle decisioni della Corte che si sono occupate della problematica, spesso connessa ad altri risvolti propri alle singole fattispecie, non sempre separabili senza pregiudizio per la comprensione del significato razionale dell’apparato motivazionale fornito da ciascuna decisione. Intanto, appare opportuno evidenziare la non coincidenza del problema da risolvere rispetto a quello affrontato e deciso dalla recente decisione di queste Sezioni unite all’udienza del 23 febbraio u.s. su ricorso Romeo (n. 37239/99 r.g.); là dove si discusse sul se possa essere posto a fondamento di una misura di cautela personale, seppure previa coeva revoca della sentenza di non luogo a procedere, il [nuovo] materiale indiziario emerso [o raccolto] dopo la sentenza e prima della revoca, con i propedeutici problemi sul se siffatto provvedimento possa essere adottato anche prima della revoca della sentenza di non luogo a procedere e sul limite di operatività della disposizione di cui all’art. 300 comma 5 c.p.p. in tema di ri-applicazione di misura restrittiva nei confronti del prosciolto. Tutti quesiti che scontano la modificazione, all’evidenza in pejus, dell’apparato indiziario a carico del soggetto (prima) inquisito. Nella fattispecie all’odierno esame del Collegio, invece, come si è detto, a fronte dell’elemento positivo ‘‘decreto di archiviazione’’, si evidenzia, in negativo, sia la mancanza del provvedimento di autorizzazione alla riapertura delle indagini, sia l’insussistenza di nuovi (ed ulteriori) elementi indizianti. Sicché l’attuale situazione procedimentale scaturisce, all’evidenza, da una diversa (più severa) lettura (o rilettura) degli elementi preesistenti in carenza del provvedimento ex art. 414 c.p.p. 6. Preliminarmente, va ricordata la giurisprudenza della Corte costituzionale sul tema. Con la sentenza 19 gennaio 1995 n. 27, la Corte delle leggi affrontò la questione, sottoposta allo scrutinio di legittimità costituzionale, concernente la dedotta violazione dei diritto di difesa (art. 24 Cost.) a causa dell’articolazione dell’art. 555 c.p.p. (nella formulazione all’epoca vigente), in relazione all’art. 414 stesso codice, laddove « [...] non consente di rilevare o eccepire la nullità dei decreto di citazione nel caso di mancata autorizzazione alla riapertura delle indagini preliminari »; nella misura in cui, cioè, la disposizione risulta[va] sfornita di sanzione processuale per il caso in cui il pubblico ministero avesse esercitato l’azione penale senza autorizzazione ex art. 414 c.p.p., dovendosi, secondo il remittente, ritenere insufficiente la sanzione della inutilizzabilità degli atti di indagini, posto
— 256 — che un tanto non potrebbe esplicare effetto paralizzante sull’atto di esercizio dell’azione penale in mancanza di una esplicita previsione di nullità (art. 177 c.p.p.). A fronte di questa prospettazione, la Corte costituzionale, nel dichiarare infondata la questione come dedotta, evidenziò che proprio l’art. 414 c.p.p., subordinando la riapertura del procedimento concernente un fatto in precedenza oggetto di archiviazione al placet del giudice, ha attribuito un’efficacia [limitatamente] preclusiva al provvedimento di archiviazione, nella misura in cui, in difetto del provvedimento del giudice, l’eventuale esercizio dell’azione penale è impedito. La Corte costituzionale, dunque, fu dell’avviso che in detta ipotesi, come in ogni ipotesi di preclusione, è la instaurabilità di un nuovo procedimento (la procedibilità) ad essere impedita, secondo un meccanismo riferibile all’istituto del ne bis in idem (art. 649 c.p.p.), mutuabile anche, quanto ad effetti, alla sentenza di non luogo a procedere, in assenza della revoca di cui agli artt. 434 s. c.p.p.; principio condiviso dalla richiamata sentenza di queste Sezioni unite su ricorso Romeo. Conclusivamente, nel pensiero della Corte delle leggi, in presenza di provvedimento di archiviazione, l’art. 414 c.p.p. esprime un duplice comando scaturente dalla preclusione endoprocedimentale: il divieto di agire e, quindi, il divieto di indagare sullo stesso fatto e nei riguardi della stessa persona. 7. Molte decisioni della Cassazione si sono mosse nell’àmbito della ratio decidendi sottesa alla sentenza appena avanti riassunta precisandone non pochi risvolti ed affinando i concetti di valore suggeriti dalla Corte delle leggi. 7.1. Nella prospettiva dell’inquadramento sistematico dell’effetto del provvedimento (decreto od ordinanza) di archiviazione sul procedimento, come causa di preclusione all’esercizio dell’azione penale e, anche, all’attivazione di un atto inquadrabile come atto del procedimento — quale potrebbe definirsi, con il massimo di ampiezza, la richiesta di applicazione di misura di cautela —, come delineato dalla Corte costituzionale, e così valorizzando il meccanismo del ne bis in idem, Sez. I, 30 aprile 1996, Zara, CED n. 205283, in fattispecie di ordinanza di custodia cautelare emessa da un giudice per le indagini preliminari diverso da quello che aveva reso il provvedimento di archiviazione, ha affermato il principio per cui « [...] deve ritenersi precluso, in assenza di autorizzazione alla riapertura delle indagini, l’esercizio dell’azione penale, riguardante un fatto già oggetto di archiviazione atteso che, in tal caso, è l’instaurabilità di un nuovo procedimento ad essere impedito. Con la conseguenza che, qualora il pubblico ministero non abbia dato dimostrazione di aver ottenuto l’autorizzazione predetta, il giudice deve prendere atto della mancanza del presupposto per procedere ». 7.2. Sez. VI, 12 settembre 1996, Taglieri, CED n. 205902, in fattispecie di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), ha ribadito tale scelta ermeneutica correttamente limitando, però, l’effetto preclusivo del decreto di archiviazione solo nei confronti dell’autorità giudiziaria che l’aveva emesso. Ciò in quanto, secondo detta decisione, l’autorizzazione ex art. 414 c.p.p., preordinata a rimuovere gli effetti della precedente valutazione di infondatezza della notizia di reato, si pone come atto equipollente alla revoca, sicché non può provenire se non dallo stesso giudice che ha emesso il provvedimento ed inerire ad un sindacato sul potere di esercizio dell’azione penale riferibile al pubblico ministero titolare delle relative funzioni presso lo stesso ufficio giudiziario. La riapertura delle indagini sarebbe da definire come atto incidentale di quel dato procedimento e, per questo, non potrebbe che
— 257 — riguardare il ‘‘medesimo fatto’’, nella specificità degli elementi apprezzati al momento della prima iscrizione nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. e valutati allorquando fu consentita l’archiviazione. Così inteso, prosegue la decisione, il concetto di ‘‘medesimo fatto’’ non potrebbe prescindere dalle condizioni di luogo, di tempo e di persona che lo contraddistinguono in quel dato procedimento. Ne seguirebbe che se un elemento identificativo del fatto, ai fini che interessano, è il luogo in cui si è verificato, la preclusione non potrebbe avere carattere vagante essendo radicata al fatto quale apprezzato dal giudice dell’archiviazione, con quelle date connotazioni irripetibili in altro fatto altrove considerato e valutato. La preclusione, sempre secondo la decisione in disamina, postulerebbe l’esaurimento del potere decisionale come conseguenza del suo esercizio ovvero del compimento di un atto incompatibile, così generando l’effetto preclusivo. Ma proprio per questo limitato effetto, conclude la decisione in commento, nessuna preclusione potrebbe produrre nei confronti dell’autorità che non abbia esercitato quel potere. La ricostruzione dell’istituto, così operata, risulta ancorata al testo letterale dell’art. 414 comma 2 c.p.p. il quale dispone che ‘‘quando è autorizzata la riapertura delle indagini, il pubblico ministero procede a nuova iscrizione a norma nell’art. 335’’, sicché l’aggettivazione nuova, secondo la plausibile interpretazione fornita dalla sentenza: « [...] postula non solo la successione cronologica delle iscrizioni sullo stesso registro, ma — anche e conseguentemente — l’identità dell’ufficio del pubblico ministero procedente, che abbia iscritto sia la prima che la nuova notizia di reato ». 7.3. Sulla stessa linea si muove, ai fini dell’operatività della preclusione dedotta dal contesto dell’art. 414 c.p.p., Sez. IV, 18 dicembre 1998, Bruno, CED n. 213140, la quale afferma esplicitamente che detta disposizione, per coordinarsi con il concetto di ‘‘stesso fatto’’, è da interpretarsi in stretto collegamento con le regole sulla competenza territoriale. Infatti, l’esattezza delll regola, secondo la quale la competenza a disporre la riapertura appartiene allo stesso giudice che ha emesso il decreto di archiviazione, emerge dalla considerazione che un pubblico ministero, territorialmente diverso, non potrebbe richiedere al giudice delle indagini preliminari di altra sede giudiziaria, che ha emesso il decreto, il provvedimento di riapertura delle indagini, stante lo stretto ed esclusivo collegamento funzionale tra pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari operanti nella stessa sede. Da ciò l’epifonema che l’autorizzazione di cui all’art. 414 c.p.p., non è necessaria allorquando le nuove indagini (sullo stesso imputato e per lo ‘‘stesso fatto’’) siano attivate da pubblico ministero territorialmente diverso. 7.4. Sez. I, 11 giugno 1996, Morici, CED n. 205157, si intrattiene, particolarmente, sulla nozione di ‘‘stesso fatto’’ quale presupposto dell’efficacia preclusiva del provvedimento di archiviazione, in assenza della autorizzazione ex art. 414 c.p.p.. È ivi affermato il principio per cui, in caso di disposta archiviazione, la necessità dell’autorizzazione alla riapertura delle indagini può essere esclusa soltanto quando si sia in presenza di un fatto da qualificare come oggettivamente diverso rispetto a quello cui si riferiva il provvedimento di archiviazione, e non, quindi, quando vi sia una nuova notizia di reato riguardante il ‘‘medesimo fatto’’. La decisione precisa, nella specificità della fattispecie molto somigliante a quella all’odierno esame del Collegio, che quando il decreto di archiviazione, pur
— 258 — investendo astrattamente la medesima imputazione (nel caso, di associazione di tipo mafioso ex art. 416-bis c.p.), concerna fatti storici materialmente diversi, sia sotto il profilo spazio-temporale delle condotte di partecipazione al reato che sotto quello delle persone coinvolte, l’autorizzazione giudiziale (per riattivare l’investigazione) non è necessaria, trattandosi, sostanzialmente, di una diversa notitia crimins, in relazione alla quale il pubblico ministero ha autonomo dovere di procedere alle indagini. Tale conclusione è sorretta da un’attenta analisi della nozione di ‘‘fatto diverso’’, che parte dalla premessa del rilievo attribuibile al nuovo procedimento per gli effetti che ne derivano sia sul piano della utilizzabilità delle acquisizioni investigative, ex art. 191 c.p.p., che sulla procedibilità dell’azione penale. L’essenzialità sta non nel dato, di ordine meramente formale, della iscrizione come nuova di una notizia di reato nell’apposito registro, ma nelle implicazioni sull’elusione del controllo giurisdizionale e sull’aggiramento della disciplina dei termini finali dell’investigazione. Centrato il problema sul contenuto della notitia criminis, vale a dire, sull’identità, o meno, delle componenti oggettive (condotta, evento, nesso causale) del fatto di reato, e non sull’identità della notitia di reato, il ‘‘fatto diverso’’ che esdude la necessità dell’autorizzazione a riaprire l’investigazione, deve essere identificato, prosegue la decisione, proprio attraverso l’analisi delle componenti sostanziali della notizia di reato, vale a dire, appunto, sul suo contenuto. Con la conseguenza che, ove non sussistano i requisiti di ‘‘medesimezza del fatto’’, acquista piena operatività la regola del favor actionis, secondo la regola di obbligatorietà dell’azione penale, a mente dell’art. 112 Cost.; sicché il subordinare la prosecuzione dell’investigazione ad un atto autorizzatorio del giudice costituirebbe un’ingiustificata limitazione all’esercizio dell’azione penale. La decisione opportunamente precisa, per quanto possa apparire ovvio, che il concetto di ‘‘stesso fatto’’ è ancorato non solo alla ‘‘medesimezza del fatto’’ ma, altresì, all’identità dei soggetti, facendo rilevare che, in caso di archiviazione ai sensi dell’art. 415 c.p.p., per esser ignoti gli autori dei reato, la giurisprudenza più recente si è ormai consolidata nel ritenere non necessaria l’autorizzazione di cui all’art. 414 stesso codice, sulla base della considerazione che le garanzie di cui alla detta disposizione operano solo con riguardo al soggetto noto, diverso da quello ignoto, con ciò valorizzandosi la funzione garantista del provvedimento di archiviazione. 7.5. Negli stessi àmbiti ermeneutici si colloca Sez. I, 2 maggio 1996, Carfora, CED n. 205136, la quale, in fattispecie procedimentale alquanto complessa, nel respingere il ricorso avverso una [seconda] ordinanza del tribunale distrettuale de libertate — che aveva annullato il provvedimento di custodia cautelare personale sul rilievo che esso era fondato sugli stessi fatti, oggetto di archiviazione e nella mancanza del decreto ex art. 414 c.p.p. — ha affermato il principio per cui la riapertura delle indagini in base ad una nuova notizia di reato, riguardante il ‘‘medesimo fatto’’, in precedenza archiviato, postula la necessità del decreto autorizzativo del giudice, su richiesta motivata del pubblico ministero. Con condivisibile puntualità, la sentenza precisa che: « [...] è fin troppo evidente che la riapertura delle indagini, successiva ad un provvedimento di archiviazione, non può che avvenire sulla base di nuove acquisizioni, pervenute in un secondo momento a seguito di nuovi apporti provenienti da fonti diverse rispetto a
— 259 — quelle [...] valutate nel procedimento archiviato; apporti normalmente provenienti da una nuova notitia criminis, [ed] è altrettanto ovvio che qualora le nuove acquisizioni riguardino il medesimo fatto, oggetto del procedimento archiviato, la riapertura delle indagini non potrà che avvenire previa autorizzazione da parte del giudice per le indagini preliminari [...] », mentre tale autorizzazione non è necessaria « [...] se la notitia criminis riguardi fatti diversi o, al limite, un soggetto diverso ». Questa decisione, poi, riprende il concetto già espresso dalla sentenza Morici (§ 7.4.), ribadendo la irrilevanza, in sé per sé, della formalità di una nuova iscriziione al registro di cui all’art. 355 c.p.p., perché, pure in presenza di tale formalità, se la notizia di reato concerna lo ‘‘stesso fatto’’, occorre pur sempre l’autorizzazione ex art. 414 c.p.p., poiché, in contrario, da un lato, significherebbe approdare alla violazione sistematica dell’art. 414 c.p.p. e, dall’altro, si incorrerebbe in « [...] una affermazione di per sé contraddittoria ed ambigua, certamente contraria a principi di correttezza processuale ». Dal che consegue, ulteriormente, che la riapertura delle indagini non potrebbe essere supportata solo da una (nuova e diversa) valutazione degli elementi di accusa già acquisiti nel corso della precedente fase procedimentale, in quanto ciò comporterebbe inevitabilmente una violazione delle norme caducative di cui all’art. 407 c.p.p. 7.6. Sez. I, 24 ottobre 1996, Romeo, CED n. 206380, affronta il problema sul rapporto tra decreto di riapertura delle indagini e ordinanza di custodia cautelare, escludendo espressamente che l’applicazione della misura possa svolgere funzione surrogatoria del decreto ex art. 414 c.p.p., implicitamente comprendendolo. Ciò in quanto l’adozione della misura cautelare deve ritenersi conseguente alle nuove indagini compiute dopo l’avvenuta archiviazione e, pertanto, precluse dal difetto della prescritta previa autorizzazione giudiziale con seguente inutilizzabilità dei risultati accusatori degli atti compiuti. La decisione razionalizza l’assunto considerando che: « [...] l’applicazione di misura cautelare [...] non puo ritenersi surrogatoria della predetta autorizzazione o implicitamente comprensiva della medesima, sol che si rilevi come l’adozione della misura sia, di norma, consequenziale all’esito delle nuove indagini compiute dopo l’intervenuta archiviazione e come proprio l’espletamento di dette indagini sia precluso in assenza della prescritta autorizzazione giudiziale, con correlativa inutilizzabilità degli atti compiuti in difetto della stessa, ex art. 343 comma 4 c.p.p., da ritenersi generalmente applicabile a tutte le ipotesi di autorizzazione a procedere e, dunque, anche a quella prevista dall’art. 414 c.p.p. ». 7.7. Più centrata sul problema della esercitabilità, o meno, dell’azione penale in presenza di archiviazione non rimossa, che di quello che direttamente interessa l’odierna decisione, ma utile a considerarsi per le ragioni fondanti ivi espresse, appare Sez. VI, 28 gennaio 1997, Cappello, CED n. 207360, la quale, nel precisare che senza la prescritta autorizzazione del giudice il pubblico ministero non è legittimato alla riapertura delle indagini, di tal che il giudice, investito della richiesta di rinvio a giudizio, o di qualsiasi altra richiesta correlata ad una siffatta non autorizzata riapertura, rilevata la mancanza del relativo decreto e, cioè, di una condizione di procedibilità, deve, ai sensi dell’art. 425 c.p.p., emettere sentenza di non luogo a procedere. Il sostegno razionale parte dalla considerazione che il principio del ne bis in
— 260 — idem, ha carattere e valenza generale, in quanto tale applicabile alle procedure di cognizione e di esecuzione, sia pure con le limitazioni riguardanti i procedimenti incidentali de libertate sfociati in provvedimenti validi allo stato degli atti, per i quali riveste la più modesta portata di un preclusione endoprocedimentale; tale, comunque, da rendere inammissibile la reiterazione di provvedimenti che possano porsi in contrasto con altri, aventi medesimo oggetto e definitivi, senza che si sia modificata la situazione di fatto o di diritto posta a base del primo provvedimento. Da ciò se ne deduce, secondo questa decisione, che l’irrevocabilità, pur non essendo parificabile all’autorità della cosa giudicata, parimenti porta seco il limite negativo della preclusione, nel senso di non consentire il bis in idem, salvo che siano cambiate le condizioni in base alle quali fu emessa la precedente decisione. Da ciò la Corte deduce che la ratio sottesa all’art. 414 c.p.p. è quella di evitare reiterazioni del procedimento fino a quando non intervengano esigenze di nuove investigazioni; il che si traduce nella produzione di una preclusione processuale ispirata al principio del ne bis in idem, superabile soltanto in virtù della richiesta del pubblico ministero, che vi diede causa, e dell’autorizazione dei giudice, che con il decreto di archiviazione vi diede luogo; l’una e l’altra, imprescindibilmente, vincolate all’accertata e oggettiva sussistenza di esigenza di nuove investigazioni. 7.8. Sez. VI, 5 agosto 1997, Audino, CED n. 208863, nel richiamare esplicitamente i principi affermati dalla sentenza Zara, in coerenza con il dictum estraibile dalla richiamata decisione della Corte costituzionale (n. 27 del 1995), ha riaffermato che in assenza di autorizzazione alla riapertura delle indagini, devono ritenersi preclusi sia l’esercizio dell’azione penale sia l’instaurazione di un nuovo procedimento riguardante un fatto già oggetto di archiviazione. Ne consegue che l’inutilizzabilità degli atti — acquisiti in violazione dell’art. 414 c.p.p. — colpisce sia la loro valutazione quali prove per l’affermazione di responsabilità che il loro apprezzamento quali indizi per giustificare una misura di cautela personale. Secondo la decisione — che, all’evidenza, si fa carico di contraddire le diverse ragioni espresse dalla sentenza su ricorso Greco, di cui appresso § 8.1. —, limitare la sanzione al solo profilo probatorio (in senso stretto) equivarrebbe a non tenere nel dovuto conto l’aspetto funzionale dell’effetto preclusivo derivante dal decreto di archiviazione, come provvedimento volto ad istituire un controllo sull’attività del pubblico ministero, non solo al fatto della richiesta (rinvio a giudizio, misura di cautela) ma anche in relazione all’attività prodromica alla richiesta stessa ed a quella successiva, eventualmente, in sede di riapertura delle indagini. Per questo, la preclusione processuale non può essere rimossa che tramite il prescritto atto autorizzatorio ex art. 414 c.p.p., con esclusione di equipollenti, come l’applicazione della misura cautelare, l’adozione della quale, trovando fondamento nelle nuove indagini compiute dopo l’avvenuta archiviazione minate però da inutilizzabilità seguente il difetto della prescritta autorizzazione giudiziale —, risulterebbe irrilevante ai fini autorizzatori. Anche questa decisione, come le sentenze Taglieri, Carfora e Morici sopra riassunte, precisa che, affinché la preclusione processuale operi, è necessario che le nuove indagini siano avviate dalla medesima autorità, nei confronti della medesima persona e per lo ‘‘stesso fatto’’. In proposito la sentenza in commento, partendo dalla considerazione che la riapertura delle indagini non può essere giustificata dalla semplice rivalutazione dello stesso materiale già acquisito al procedimento, poiché ciò comprometterebbe
— 261 — la regola caducatoria di cui all’art. 407 c.p.p., evidenzia come a questo meccanismo rimane estranea l’ipotesi di notitia criminis e di nuove acquisizioni riguardanti fatti diversi o un soggetto diverso. E ciò anche, esplicita la decisione, qualora il pubblico ministero svolga indagini che pure coinvolgano il soggetto nei cui confronti era stato adottato il provvedimento di archiviazione, ma che si assumono diverse, o per la differenziazione di circostanze di fatto che rivestano comunque valore significante, oppure perché il quadro piurisoggettivo risuiti radicalmente diversificato. Anche in tale ipotesi prevale il principio del favor actionis, come aveva rilevato la decisione su ricorso Morici (avanti § 7.4.), perché, il subordinare la prosecuzione degli atti di investigazione all’autorizzazione del giudice, verrebbe a costituire un’ingiustificata limitazione all’esercizio dell’azione penale, con intuibili riverberi anche sul principio di cui all’art. 112 Cost. Nella stessa scia dell’ora richiamata decisione, la sentenza precisa che la ‘‘diversità’’ del procedimento va riferita al contenuto della notizia di reato, vale a dire « [...] al fatto — reato in relazione al quale il pubblico ministero e la polizia giudiziaria svolgono le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale, con la conseguenza che ove il pubblico ministero, autorizzato alla riapertura delle indagini, provveda ad una nuova iscrizione ai sensi degli artt. 414 comma 2 e 335 c.p.p., non si instaura un procedimento diverso e possono essere utilizzati i risultati delle indagini già svolte », richiamando, sul punto, il dictum di Sez. VI, 16 ottobre 1995, Pulvirenti, CED n. 203741. 7.9. Le regole enunciate dalle decisioni sopra esposte, sono state ribadite da Sez. I, 6 luglio 1999, Montalbano, CED n. 214099, la quale, in fattispecie di indiziato per omicidio, colpito da misura cautelare sulla base di dichiarazioni assunte dalla polizia giudiziaria prima dell’autorizzazione alla riapertura delle indagini, ha riaffermato il principio che la pronuncia del decreto di archiviazione determina una preclusione processuale all’utilizzazione degli elementi acquisiti successivamente ad esso e prima dell’adozione dei decreto di autorizzazione alla riapertura della indagini ex art. 414 c.p.p., la cui emissione funge da condizione di procedibilità per la ripresa delle investigazioni in ordine allo stesso fatto e nei confronti delle stesse persone, nonché per l’adozione di ogni consequenziale provvedimento, compresa l’applicazione di misure cautelari. 7.10. Nello stesso filone si inseriscono Sez. IV, 20 marzo 1997, Saltannecchi, CED n. 208528, per la quale l’autorizzazione del giudice delle indagini preliminari alla riapertura delle indagini vale a rimuovere una condizione di improcedibilità dell’azione penale costituita dal provvedimento di archiviazione, e a consentire la riproposizione dell’azione penale con la nuova iscrizione della medesima notizia di reato a carico della medesima persona, e Sez. VI, 14 febbraio 1997, Zagari, CED n. 208122, la quale insiste sulla regola per cui a norma dell’art. 414 c.p.p., dopo il provvedimento di archiviazione il pubblico ministero non può compiere nuove indagini, a pena di inutilizzabilità dei relativi risultati, se il giudice non abbia autorizzato la riapertura. Quest’ultima decisione si premura di evidenziare che l’autorizzazione non è richiesta ove si tratti di fatti successivi a quelli considerati nel provvedimento di archiviazione. 8. Analoga rassegna si impone alle pronunce di legittimità che hanno seguito indirizzi diversi centrati intorno alla riflessione che l’oggetto dell’autorizza-
— 262 — zione giudiziale alla riapertura delle investigazioni riguarda lo svolgimento di attività di indagine e non il potere-dovere di esercitare l’azione penale, sicché la violazione dell’art. 414 c.p.p., colpendo l’utilizzabilità degli atti ‘‘abusivi’’, analogamente a quanto disposto dal’art. 407 s.c., non pregiudicherebbe l’esercizio dell’azione penale. Con l’ulteriore conseguenza che la richiesta di applicazione di misura cautelare, restando fuori — e prima — dell’esercizio dell’azione penale ben potrebbe essere formulata, e l’ordinanza emessa, anche in presenza di non rimosso decreto di archiviazione. 8.1. Così Sez. I, 30 novembre 1995, Greco, CED n. 203871, afferma che il decreto del giudice delle indagini preliminari che autorizza il pubblico ministero, su sua richiesta, a riaprire indagini già oggetto di archiviazione, « [...] si concretizza in un provvedimento giurisdizionale la cui carenza ha unicamente l’effetto di rendere inutilizzabili gli atti compiuti dal pubblico ministero, in mancanza di detta autorizzazione, all’atto della loro valutazione come ‘‘prova’’ in ordine alla responsabilità dell’imputato e non al momento dei loro apprezzamento come ‘‘indizio’’ a carico dell’indagato ex art. 191 comma 2 c.p.p. ». Tesi fortemente resistita, poi, dalla sentenza Audino, come si è avanti evidenziato (cfr.: § 7.8.). Secondo questa decisione, l’eventuale carenza di motivazione in ordine all’eccepita mancata produzione da parte dell’autorità giudiziaria procedente del decreto di autorizzazione, non inficierebbe l’ordinanza del giudice del riesame di uno dei vizi deducibili a mente dell’art. 606 comma 1, lett. c) c.p.p., non essendovi obbligo di motivare sul punto che esula dal thema decidendum sottoposto al giudice de libertate con la procedura di cui all’art. 309 del codice di rito penale, concernente la legittimità e la fondatezza nel merito della misura di cautela. 8.2. Sez. I, 1 ottobre 1996, Palumbo, CED n. 206004, mantiene distinte le conseguenze scaturenti dalla conduzione di indagini in presenza di archiviazione non rimossa rispetto alle condizioni di esercibilità dell’azione penale. Infatti, dopo avere affermato che sono colpiti da sanzione di inutilizzabilità gli atti assunti successivamente ad un provvedimento di archiviazione pronunciato sia ai sensi dell’art. 414 c.p.p. che dell’art. 415 s.c., precisa che tale sanzione va rapportata alla prescrizione dell’art. 191, in riferimento al comma 3 dell’art. 407 c.p.p., senza implicazioni sulla legittimità dell’esercizio del potere di attivazione dell’azione penale, ex art. 178 comma 1 lett. b) c.p.p., in quanto, in siffatte ipotesi, l’azione penale è comunque iniziata dal pubblico ministero; e ciò a prescindere dalla eventualità che la mancanza del provvedimento autorizzatorio del giudice possa configurarsi come difetto di una condizione di procedibilità. 8.3. Nella stessa scia si muove Sez. II, 12 novembre 1996, Palazzo, CED n. 206362. Si afferma, invero, che il pubblico ministero anche in costanza di decreto di archiviazione conserva il potere di agire in quanto « [...] non vi sono previsioni ad hoc di decadenza, né potrebbero esservene perché contrastanti con l’art. 112 Cost. »; tuttavia, quando l’organo dell’accusa « [...] riconsidera casi archiviati deve chiedere al giudice il permesso di indagare, essendo altrimenti gli atti, tardivamente compiuti, sterili in sede istruttoria ». Con l’ulteriore precisazione che quando « [...] l’atto sia stato assunto nell’àmbito di indagini diverse, volte ad individuare gli autori di altri reati », non scatta la sanzione di inutilizzabilità, affer-
— 263 — mando un principio poi condiviso dalla sopra richiamata decisione di queste Sezioni unite su ricorso Romeo. 8.4. Ancor più esplicita appare Sez. VI, 21 gennaio 1998, Cusani, CED n. 210032, la quale, dopo aver premesso che « [...] il decreto di archiviazione ha per oggetto la notizia di reato, non il fatto, e impedisce l’avvio di un procedimento, non il giudizio su un’imputazione », afferma il principio per cui « [...] l’intervenuta archiviazione non può precludere l’integrazione nel dibattimento, a norma degli artt. 516, 517 e 518 c.p.p., dell’oggetto di un’azione penale già esercitata e di un processo già instaurato, quando e nei limiti in cui una tale integrazione sia in quel processo consentita ». Il principio è affermato in relazione alla specifica fattispecie di contestazione integrativa nel dibattimento, ai sensi dell’art. 517 c.p.p., di addebito oggetto di indagine precedentemente archiviata. Infatti, in prosieguo, la motivazione esplicita che « [...] l’art. 414 c.p.p. preclude l’esercizio ex novo dell’azione penale, anche quando non siano necessarie nuove indagini, ma non preclude [...] l’integrazione dell’oggetto di un’azione penale già esercitata e di un processo gia instaurato ». 8.5. Nel filone in esame si inserisce anche la sentenza Sez. VI, 24 giugno 1998, Migliaccio, CED n. 212910, per la quale la mancata osservanza della norma dell’art. 414 c.p.p. non comporta nullità del procedimento, ma determina solamente l’inutilizzabità dei risultati degli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero. Nella specie il ricorrente era stato indagato, nella sua qualità di dirigente dei settore tecnico regionale della pianificazione urbanistica, per avere, tra l’altro, concorso al rilascio di una concessione edilizia in violazione della normativa urbanistica; fatto per il quale era intervenuta archiviazione. Successivamente, lo stesso soggetto fu indagato e condannato per il reato di abuso d’ufficio; in sede di legittimità oppose, tra l’altro, la forza preclusiva dell’intervenuta archiviazione instando per la dichiarazione di nullità del procedimento a causa della violazione dell’art. 414 c.p.p. Il motivo di annullamento fu rigettato sull’affermazione del principio secondo il quale dalla « [...] violazione dell’art. 414 non scaturisce l’improcedibilità dell’azione penale, essendo la stessa collegata ai presupposti di cui al titolo III del libro V del c.p.p. », sicché detta violazione « [...] non inficia la validità della richiesta di rinvio a giudizio ma determina solo la inutilizzabilità degli atti di indagine eventualmente compiuti dal p.m. ». 8.6. Seppure all’esito di un ampio discorso giustificativo, centrato su problemi connessi all’utilizzo di atti di indagine compiuti, in costanza di un provvedimento di archiviazione, riguardanti fatti costituenti il sostrato di non omogenei addebiti in materia urbanistica e sfociati in un provvedimento di sequestro preventivo, Sez. V, 12 febbraio 1999, Rubino, CED n. 212881, ha evidenziato che la sanzione dell’inutilizzabilità degli atti, conseguente ad investigazioni espletate prima che sia intervenuta la formale autorizzazione del giudice alla riapertura delle indagini, non colpisce quegli atti che, sia pure prima della predetta autorizzazione, siano stati regolarmente raccolti nell’àmbito di un diverso procedimento, in quanto essi sono stati assunti nel corso di separate indagini, volte ad individuare la sussistenza di altri reati. Inoltre, secondo questa decisione, colui che assume che il provvedimento impugnato sia stato adottato a seguito di indagini condotte prima del decreto autorizzativo ex art. 414 c.p.p., ha l’onere di dimostrare
— 264 — che il convincimento del giudice del merito si sia fondato su atti acquisiti al di fuori delle regole codicistiche e di specificare quali essi siano. 8.7. Su diverso ordine di argomenti fu fondata la decisione resa da Sez. V, 25 ottobre 1994, Carbone, CED n. 199874, la quale ravvisò abnormità nel provvedimento del giudice che, investito della richiesta di rinvio a giudizio, ne dichiarò l’inammissibilità sulla base della considerazione che il pubblico ministero avrebbe dovuto prima chiedere l’autorizzazione alla riapertura delle indagini, essendo intervenuto decreto di archiviazione per gli stessi fatti e nei confronti degli stessi indagati. Secondo la decisione, a mente dell’art. 424 comma 1, c.p.p., il giudice — all’esito dell’udienza preliminare — deve pronunciare sentenza di non luogo a procedere o decreto che dispone il giudizio. Ergo, tertium non datur. Ne seguirebbe che un siffatto provvedimento del giudice violerebbe il principio di irretrattabilità dell’azione penale, posto che l’inosservanza della disposizione dell’art. 414 c.p.p. potrebbe comportare, ex art. 407 c.p.p., l’inutilizzabilità di quegli atti di indagine eventualmente compiuti dal pubblico ministero dopo la scadenza dei termini, ma non potrebbe sostenere la dichiarazione di inammissibilità della richiesta di rinvio a giudizio. Invero, prosegue la sentenza, la richiesta di rinvio a giudizio fa assumere la qualità di imputato alla persona alla quale è attribuito il reato e, ai sensi dell’art. 405, 1 comma c.p.p., la formulazione della richiesta medesima segna l’inizio dell’azione penale con passaggio dalla fase del procedimento a quella dei processo. Inoltre, ai sensi dell’art. 50 comma 3 c.p.p., l’esercizio dell’azione penale può essere sospeso o interrotto soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge, mentre, in forza dell’art. 60 comma 2 s.c., la qualità di imputato, una volta assunta, si conserva fino a che non sia più soggetta ad impugnazione la sentenza di non luogo a procedere, o sia divenuta irrevocabile la sentenza di proscioglimento o di condanna, o sia divenuto esetutivo il decreto penale di condanna. 8.8. 0pera piuttosto sul piano processuale Sez. I, 24 giugno 1998, Coppola, CED n. 211291, la quale afferma il principio per il quale l’inutilizzabilità degli atti di indagine compiuto dopo l’archiviazione e senza l’autorizzazione alla riapertura da parte del giudice per le indagini preliminari non è rilevabile di ufficio ma solo su eccezione di parte, giacché quest’ultima potrebbe avere anche un interesse opposto all’inutilizzabilità. 9. Prospettato, con la opportuna ampiezza, il quadro della giurisprudenza sulle tematiche connesse al quesito cui deve darsi risposta, resta in evidenza che, pur nella varietà delle fattispecie in giudizio, un contrasto di indirizzi esiste nella giurisprudenza della Corte a riguardo dello specifico quesito cui deve darsi risposta, secondo quanto argomentato dall’ordinanza di remissione a queste Sezioni unite del ricorso proposto dal Finocchiaro. Per le decisioni riassunte sotto il § 7, esplicitamente o implicitamente, è da escludersi che, in assenza del provvedimento di cui all’art. 414 c.p.p., possano condursi utili investigazioni e possa legittimamente esercitarsi il potere dell’organo dell’accusa di chiedere l’emissione di un provvedimento di cautela e persino, per talune decisioni, un qualsiasi provvedimento che implichi l’attualità della fase investigazione. Con la conseguenza in talune decisioni esplicitata in termini, che una rilettura degli elementi indizianti, ritenuti inidonei dal giudice delle indagini preli-
— 265 — minari a sostenere l’accusa e per questo, fatti oggetto di provvedimento di archiviazione, possa poi giustificare, rimosso o no il provvedimento di archiviazione, l’adozione di una misura di cautela; evenienza che, invece, non risulta scartata dalla maggior parte delle decisioni raggruppate nel § 8. Per dare ordine alla razionalizzazione della decisione appare opportuno partire dalla lettura dell’art. 414 comma 1 c.p.p. Detta disposizione codicistica, sotto la rubrica ‘‘Riapertura delle indagini", stabilisce: ‘‘Dopo il provvedimento di archiviazione [...] il giudice autorizza con decreto motivato la riapertura delle indagini su richiesta dei pubblico ministero motivata dalla esigenza di nuove investigazioni’’. Dalla struttura logica del testo normativo si può dedurre, con evidenza, che, se la richiesta di apertura deve essere giustificata dalla esigenza di nuove investigazioni (da prospettare al giudice), queste non possono essere attivate se non dopo avere chiesto ed ottenuto il provvedimento giudiziale. La stringatezza della disposizione e la mancata esplicita indicazione di sanzioni ha provocato in giurisprudenza diversità di indirizzi (come si è visto), sia quanto ai presupposti che all’ampiezza dell’effetto invalidante su eventuali acquisizioni investigative conseguenti alla mancata autorizzazione. Del che, sia pure incidenter tantum, si è occupato la recente sentenza di queste Sezioni unite su ricorso Romeo, sopra richiamata ed alla quale, per il risvolto colà esaminato giova rinviare. 10. Ai fini che interessano la odierna decisione, che concerne non il destino delle investigazioni realizzate in presenza di provvedimento di archiviazione non rimosso ma piuttosto gli effetti, eventualmente paralizzanti, di tale provvedimento sull’attività del pubblico ministero, e di riverbero, sulla legittimità del provvedimento assunto dal giudice a seguito di richiesta formulata nella data situazione procedimentale (di presenza di archiviazione non rimossa), si pone in termini ineludibili il problema sulla risposta da dare al quesito sul se il provvedimento di archiviazione produca una preclusione endoprocedimentale idonea a paralizzare, prima della sua rimozione, l’attività del pubblico ministero, come definita dagli artt. 326 s. c.p.p., e pur dominata dalla prescrizione costituzionale di cui all’art. 112. Non solo, dunque, a impedire l’esercizio dell’azione penale (artt. 405 s c.p.p.), né solo il compimento di specifici atti investigativi, che pure costituisce l’essenzialità dell’attività d’indagine, ma ostacolo in radice a ogni attività, ivi compresa qualsivoglia richiesta al giudice (applicazione di misura di cautela, intercettazioni telefoniche, ecc.). È appena il caso di avvertire che restano estranee alla presente tematica le ipotesi di cui all’art. 345 c.p.p., laddove è la stessa legge che prevede un meccanismo operativo automatico. Pur fermando l’attenzione sull’ultimo profilo della questione, che è quello che specificamente concerne l’odierna decisione, vale a dire sul se sia attribuibile un effetto preclusivo al provvedimento di archiviazione incidente sull’attività di richiesta, da parte del pubblico ministero, di ordinanza cautelare, non va sottaciuto come l’esito della decisione sulla specifica questione si estenda logicamenente e consequenzialmente a qualsiasi richiesta; vale a dire, definisce ab imis la questione sull’effetto endoprocedimentale dell’archiviazione quale conseguenza della riconoscibilità di efficacia preclusiva generale dell’archiviazione (non rimossa).
— 266 — 11. Valutati gli esiti argomentativi della giurisprudenza della Corte sul tema, come sopra esposti, ritiene il Collegio, optando per l’indirizzo espresso dalle decisioni riassunte sotto il § 7, che deve essere affermata la regola secondo la quale, una volta disposta l’archiviazione in ordine a una data notizia di reato, senza il preventivo provvedimento di cui all’art. 414 c.p.p., lo stesso pubblico ministero, da intendersi come medesimo ufficio, non può legittimamente chiedere, e lo stesso giudice delle indagini preliminari, sempre da intendersi come ufficio, non può valutare, accogliendola o rigettandola, la domanda di emissione di un provedimento di cautela o altro provvedimento che implichi l’attualità di un procedimento investigativo); sia che tale richiesta sia fondata su una semplice rilettura degli elementi presenti negli atti archiviati, sia che ponga a base atti compiuti dopo l’archiviazione ed in relazione allo stesso fatto e, persino, occasionalmente conosciuti, senza che prima che sia stato chiesto e pronunciato il decreto di riapertura delle indagini preliminari ex art. 414 c.p.p. Invero, va condiviso e valorizzato quell’indirizzo giurisprudenziale che, nella scia della più volte richiamata sentenza n. 27 del 1995 della Corte costituzionale, ravvisa un effetto (limitatamente, perché subordinato all’assenza del decreto ex art. 414 c.p.p.) preclusivo del provvedimento di archiviazione. Tale guadagno ermeneutico è sostenuto dalla corretta interpretazione logico-sistematica dell’apparato normativo che disciplina l’istituto, sia con riferimento al momento dichiarativo della carenza di elementi idonei a giustificare il prosieguo delle indagini, riassumibile nella formula ‘‘infondatezza della notizia di reato’’ (artt. 408, 409 c.p.p.), sia nel momento della riapertura, condizionato dal presupposto, in fatto, dell’esigenza di nuove (altre, cioè, rispetto alle preesistenti) investigazioni ed assoggettato alla valutazione del giudice che deve provvedere con decreto motivato il quale, pare ovvio, deve dare conto della valutazione effettuata sulla richiesta, pur essa motivata, del pubblico ministero (art. 414 c.p.p.). Né la richiesta può essere formulata sulla base di una semplice rilettura del materiale indiziario utilizzato per la declaratoria di infondatezza della notizia di reato, né il relativo decreto autorizzativo può limitarsi ad assentire una diversa valutazione di quel materiale, poiché l’art. 414 prescrive una motivazione tipizzata, centrata sull’esigenza di nuove investigazioni. Le quali possono esitare anche in modesti risultati che, però, valutati unitamente al materiale preesistente — certamente utilizzabile — ben possono giustificare un sostanziale ribaltamento del quadro indiziario, secondo la regola propria al regime della prova indiretta espresso nell’antico brocardo quae singula non probant et unita probant. 12. Il primo effetto del tale meccanismo è che, una volta autorizzata la riapertura, il pubblico ministero provvede, ex art. 414 comma 2 c.p.p., a nuova iscrizione nel registro degli indagati di cui all’art. 335 s. c., sicché da tale momento iniziano a decorrere i termini indicati dall’art. 405. Già questa constatazione, fondata sul dato testuale, dimostra la valenza garantista che deve essere riconosciuta al provvedimento di archiviazione, come conseguenza operativa del sistema dei termini di chiusura delle indagini (art. 405 commi 2 e 4 c.p.p.), di durata massima delle indagini (art. 407 c.p.p.), con connessa normativa quanto a proroga (art. 406 s.c.) e a sanzione d’inutilizzabilità dei risultati di indagini compiute al di là del tempo massimo (art. 407 comma 3). Siffatto sistema sarebbe facilmente eluso se fosse rituale riesumare dall’archivio, in qualsiasi tempo, una data ‘‘pratica’’ e, senza passare attraverso il controllo
— 267 — del giudice (a sua volta ‘‘controllato’’ dall’obbligo di motivazione sull’esigenza d’ulteriore indagini), rimettere in moto il meccanismo investigativo colpendo la persona direttamente nel suo bene primario della libertà, com’è accaduto nella fattispecie all’esame della Corte; scavalcando, altresì, tutto il sistema di termini massimi (art. 407) che resterebbe obliterato nella sua funzione. Non giova eccepire che il legislatore confida, nel disegnare il sistema procedimentale, sulla lealtà istituzionale e nella deontologia professionale degli operatori preposti alla gestione del processo, poiché ciò che qui rileva è l’argomento ermeneutico che deve trarsi dall’imprescindibile presupposto di coerenza logica del sistema processuale. Non è, all’evidenza, logico ritenere che il legislatore abbia predisposto un articolato e compiuto sistema di garanzie a difesa del cittadino e, poi, abbia lasciato sì ampi varchi attraverso i quali quelle garanzie potrebbero essere vanificate; ed anzi, collegando il dovere di azione investigativa alla regola di cui all’art. 112 Cost., come qualche decisione tra quelle commentante avanti al § 8 ha evidenziato, persino dovrebbe accadere. 13. Quanto al meccanismo paralizzante, va accolta la nozione della preclusione endoprocedimentale quale fornita dalla prevalente giurisprudenza della Corte (ad es., Sez. VI, 28 gennaio 1997, Cappello, cit.) e formatasi, specialmente, in materia di procedimenti incidentali de libertate sfocianti in provvedimenti resi allo stato degli atti, di tal ché l’effetto preclusivo, sempre di natura processuale, rende inammissibile la reiterazione di istanze tese a provocare un nuovo provvedimento che possa porsi in contasto con altro già pronunciato sul medesimo oggetto, senza che si sia modificata la situazione di fatto o di diritto posta a base del primo provvedimento. Dal che si deduce che la delineata situazione processuale, pur non essendo parificabile a quella derivante dall’autorità della cosa giudicata, tuttavia esprime il dato negativo dell’impedimento all’esercizio di una facoltà, in costanza delle condizioni in base alle quali fu emessa la precedente decisione; in sostanza, in una decadenza. Applicando tale regola all’archiviazione della notitia crimins, si costruisce il sostegno sistematico alla regola sopra enunciata, con la precisazione che la modificazione della situazione sulla base della quale il provvedimento fu adottato deve essere certificata dalla decisione del giudice competente ad emettere il provvedimento motivato di cui all’art. 414 c.p.p. su, ugualmente motivata, richiesta del pubblico ministero che aveva sollecitato l’archiviazione. 14. Stabilito, dunque, che dal provvedimento di archiviazione consegue, per logica di sistema, una preclusione endoprocedimentale a qualsiasi iniziativa del pubblico ministero specificamente diretta ad attivare (riattivare) le indagini, in assenza delle sopra descritte condizioni modificative, si pone l’esigenza di ben delimitare l’àmbito di operatività di tale preclusione. Tale delimitazione viene, essenzialmente, dall’analisi del concetto racchiuso nell’espressione ‘‘stesso fatto’’ in correlazione alla reciproca ‘‘fatto diverso’’; analisi appropriatamente sviluppata in plurime decisioni della Corte, sopra menzionate al § 7 (in particolare le sentenze su ricorsi Taglieri, Bruno, Morici e Audino). La prima delimitazione che viene in immediata evidenza è quella connessa alla soggettività dell’ufficio d’accusa investito delle indagini e del suo referente giudice per le indagini preliminari. E stato, infatti, evidenziato come l’interpretazione del sistema codicistico porta necessariamente alla conclusione secondo la
— 268 — quale non può definirsi ‘‘stesso fatto’’ quello in accertamento da parte di autorità investigativa diversa rispetto a quella operante presso il giudice che pronunciò il provvedimento di archiviazione. Come condivisibilmente esplicitano le sentenza sopra ricordate, la nozione di ‘‘stesso fatto’’, ai fini che qui interessano, comprende sia le componenti oggettive dell’addebito (condotta, evento, nesso di condizionamento eziologico), vale a dire il contenuto della notitia criminis, sia gli aspetti esterni al fatto di reato, per tali intendendosi l’autorità che procede (o procedette) alla investigazione, essendo chiaro che l’effetto preclusivo, di cui si è parlato, condiziona solo la condotta dell’ufficio investigativo che chiese ed ottenne il decreto (o l’ordinanza) di archiviazione di quella notizia di reato e che, sopravvenendo ragioni di approfondimento delle indagini, può rivolgersi al suo giudice referente per chiedere ed ottenere il decreto di cui all’art. 414 c.p.p. Certo, ciò non potrebbe essere chiesto da un pubblico ministero diverso, per territorio, rispetto a quello che fu investito della richiesta di declaratoria della infondatezza della notizia di reato. E ciò a prescindere anche dalla considerazione, di puro fatto, che difficilmente un ufficio è in grado di conoscere l’attività svolta da un altro operante in diverso territorio. Sul punto, pertanto, può affermarsi che è estraneo al concetto di ‘‘stesso fatto’’ l’ipotesi di investigazioni condotte, ancorché specificamente, da altro ufficio di procura della Repubblica perché la preclusione procedimentale non può svolgere funzione impeditiva oltre l’àmbito del rapporto pubblico ministero — giudice della data indagine preliminare. 15. Scendendo più in particolare, viene in evidenza il contenuto della notitia criminis, nelle sue già ricordate componenti oggettive dell’addebito (condotta, evento, nesso di causalità) ed in quelle soggettive. Quindi, occorre verificare, da una canto, la identità del soggetto (o dei soggetti) nei cui riguardi fu già condotta investigazione conclusa con l’archiviazione, essendo chiaro che, non ricorrendo tale requisito, l’obbligo (dovere-potere) del pubblico ministero di procedere non subisce condizionamento alcuno; la stessa funzione garantista dell’istituto non ha ragione di esplicarsi. Occorre verificare, poi — il che può presentare aspetti più delicati e complessi —, il contenuto della notizia di reato per saggiarne la medesimezza a confronto degli essenziali elementi costitutivi del reato: la condotta, nei suoi risvolti di azione o omissione e connessi risvolti sull’elemento psichico; l’evento, nella sua essenzialità modificativa del mondo esterno (evento in senso naturalistico o di messa in pericolo) e, oppure o, secondo le teorie accettate, nella offesa (effettiva o esposizione a pericolo) dell’interesse protetto dalla norma; il rapporto di condizionamento tra la condotta (quella data condotta) e la produzione dell’evento, nel senso che questo non si sarebbe verificato senza quella. In mancanza di omogeneità tra uno o più dei descritti elementi, è chiaro che trattasi non dello ‘‘stesso fatto’’ ma di ‘‘stesso diverso’’ e anche in tale ipotesi il potere dovere del pubblico ministero di investigare e poi di esercitare l’azione penale rimane integro e in nulla condizionato. Conclusivamente, dunque, deve affermarsi il principio per il quale è illegittima l’ordinanza impositiva di misura cautelare adottata nei confronti della stessa persona e fondata sullo ‘‘stesso fatto’’ contemplati da non rimosso (precedente) provvedimento di archiviazione, resa dallo stesso giudice delle indagini preliminari
— 269 — che decretò l’archiviazione e su richiesta dello stesso pubblico ministero che la sollecitò. Alla luce di tale principio appare evidente l’errore di diritto nel quale il Tribunale distrettuale de libertate di Catania incorse nel rendere la sua decisione di riesame di data 20 luglio 1999, come sopra impugnata, e, quindi, nel confermare l’ordinanza custodiale adottata dal giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Catania del 7 giugno 1999, che, invece, doveva essere giudicata illegittima e perciò annullata. Questa Corte, pertanto, per le spiegate ragioni, nell’accogliere il ricorso assorbiti gli albi profili di denunzia di illegittimità — deve annullare, senza rinvio, l’ordinanza impugnata e l’ordinanza impositiva della cautela e ordinare l’immediata scarcerazione del ricorrente Finocchiaro Giuseppe Alfio se non detenuto per altra causa. Infine, la Cancelleria provvederà alle comunicazioni di cui all’art. 626 c.p.p. P.T.M. — La Corte, visti gli artt. 611, 615, 620, 626, annulla senza rinvio il provvedimento impugnato e l’ordinanza impositiva della misura di cautela personale nei riguardi del ricorrente resa dal giùdice per le indagini preliminari del Tribunale di Catania il 7 giugno 1999 e, per l’effetto, dispone l’immediata scarcarazione del ricorrente Finocchiaro Giuseppe Alfio se non detenuto per altra causa, Manda alla Cancelleria per le comunicazioni di cui all’art. 626 c.p.p. (Omissis).
—————— (1-3) Efficacia preclusiva del provvedimento di archiviazione e misure coercitive. I. Il filone interpretativo nel solco del quale si colloca la sentenza in esame trae origine da una ricostruzione teorica dell’istituto dell’archiviazione avallata dalla giurisprudenza costituzionale. Nel corso di indagini per reati a sfondo mafioso viene disposta l’applicazione di misura cautelare nei confronti di persona il cui procedimento per il medesimo fatto era già stato definito dalla stessa autorità procedente con provvedimento di archiviazione: il tutto senza che fosse stata previamente disposta la riapertura delle indagini, secondo quanto prescritto dall’art. 414 c.p.p. Il ricorrente lamenta l’illegittimità della misura restrittiva sull’assunto che il provvedimento di archiviazione è connotato da un’efficacia preclusiva, onde, in assenza di autorizzazione alla riapertura delle indagini, non avrebbe potuto essere disposta alcuna cautela, né essere adottato alcun altro provvedimento. La sentenza in esame ripercorre i contrastanti orientamenti interpretativi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità soprattutto alla luce di quanto statuito da una significativa pronuncia della Corte Costituzionale in materia di archiviazione. Chiamata a pronunciarsi sulla mancata previsione della nullità del decreto che dispone il giudizio nell’ambito di un procedimento già definito con provvedimento di archiviazione, senza che fosse stata disposta la riapertura delle indagini ai sensi dell’art. 414 c.p.p., la Consulta ha ricondotto la questione sul diverso piano della carenza di condizioni di procedibilità: ‘‘Diversamente dal previgente ordinamento processuale — sostiene la Corte — il nuovo codice di rito penale as-
— 270 — segna un’efficacia (limitatamente) preclusiva al provvedimento di archiviazione. Ciò è reso esplicito proprio dal citato art. 414 c.p.p., in base al quale, dopo l’archiviazione, l’inizio di un nuovo procedimento è subordinato a un provvedimento autorizzatorio del giudice. Tale provvedimento ha dunque l’effetto di rendere possibile il riaprirsi di un procedimento per il fatto già archiviato e, all’esito di esso, l’eventuale esercizio dell’azione penale, che, in difetto dell’autorizzazione, sarebbe precluso. Ora la caratteristica indefettibile di ogni preclusione è quella di rendere improduttivi di effetti l’atto o l’attività preclusi; ed è naturale compito del giudice quello di sancire tale inefficacia’’. Nel caso quindi di esercizio dell’azione penale non preceduto dal decreto di autorizzazione previsto dall’art. 414 c.p.p. non si profila, ad avviso della Consulta, alcuna ipotesi di nullità, dovendosi collocare il problema sul diverso piano della procedibilità: è la stessa instaurabilità del nuovo procedimento che viene ad essere impedita, con la conseguenza che al giudice non resta che prenderne atto, dichiarando con sentenza che l’azione penale non doveva essere iniziata (1). II. La divergenza tra la disciplina attualmente vigente e quella prevista sotto il codice Rocco, alla quale la sentenza della Consulta si richiama, si giustifica in base alla diversa connotazione che l’istituto dell’archiviazione assume nei due ordinamenti processuali. Vigente il codice Rocco, invero, un problema di efficacia preclusiva dell’archiviazione neanche si poneva, posto che la richiesta di archiviazione veniva formulata dal Pubblico Ministero al giudice istruttore all’esito di una fase preistruttoria, in cui, constatata la superfluità del processo, il Pubblico Ministero medesimo non procedeva a istruttoria sommaria ovvero non disponeva la trasmissione degli atti al giudice istruttore affinchè procedesse con istruttoria formale. Non erano conseguentemente posti limiti alla possibilità di promuovere l’azione penale, che poteva essere esercitata successivamente al decreto di archiviazione anche in base a una nuova valutazione degli stessi fatti: il decreto di archiviazione, configurandosi quale provvedimento di carattere ordinatorio, non determinava preclusioni di alcun genere, né ad esso potevano venire ricondotti gli effetti caratteristici della cosa giudicata (2). L’art. 414 c.p.p., nel prevedere che la riapertura delle indagini sia subordinata ad un provvedimento autorizzatorio del giudice, dà luogo nel vigente quadro normativo a complesse questioni interpretative. L’ambiguità di tale disposizione è peraltro accentuata dal tenore della direttiva n. 56 della legge delega, che così testualmente recita: ‘‘determinazione dei casi e delle forme, con idonee garanzie per l’imputato, in cui si potrà esercitare l’azione penale per fatti precedentemente oggetto delle sentenze di non luogo a procedere...; previsione dei presupposti per l’esercizio dell’azione penale per fatti precedentemente oggetto di provvedimento di archiviazione’’. Per un verso, nella misura in cui distingue gli effetti del provvedimento di archiviazione da quelli della sentenza di non luogo a procedere, la norma sembra favorevole al mantenimento di un sistema analogo a quello adottato dal legislatore del 1930. Per altro verso, la nuova direttiva fa comunque riferimento alla necessità di stabilire taluni ‘‘presupposti’’ per la ripresa delle indagini, con ciò lasciando intendere che il legislatore delegato avrebbe potuto conferire all’archiviazione un’efficacia non dissimile da quella della vecchia sentenza di proscioglimento istruttorio (3). Ciò determina inevitabilmente delle ricadute sul piano appli(1) Corte cost., 19 gennaio 1995, n. 27, in Cass. pen., 1995, 1147, con nota di MACCHIA; ID., in questa Rivista, 1995, 1370, con nota di CAPRIOLI. (2) LUPO, sub art. 74 c.p.p. 1930, in LUPO-CARINCI-LATTANZI, Esposizione di giurisprudenza sul codice di procedura penale, I, Milano, 1969; PISAPIA, Compendio di procedura penale, Padova, 1982, 145. (3) CAPRIOLI, L’archiviazione, Napoli, 1994, 317.
— 271 — cativo. La mancata autorizzazione alla riapertura delle indagini, che rappresenta lo strumento attraverso cui superare lo stallo in cui versa il procedimento a seguito dell’archiviazione, può infatti determinare un duplice ordine di conseguenze: sul piano della procedibilità e su quello della utilizzabilità degli atti di indagine eventualmente espletati. L’originaria interpretazione dell’art. 414 c.p.p. era incentrata proprio su questo secondo profilo. Muovendo dalle indicazioni contenute nella Relazione al progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale, si sosteneva che la richiesta di riapertura delle indagini potesse rinvenire il proprio fondamento giustificativo sia nella emersione di nuovi elementi sia nella prospettazione di un nuovo piano di indagine fondato su di una diversa interpretazione degli elementi già acquisiti (4). Al giudice si richiedeva comunque un’attenta valutazione circa l’effettività delle nuove investigazioni al fine di evitare, attraverso un’impropria applicazione della norma, la possibilità di allungare i tempi delle indagini e consentire così al pubblico ministero, che ben avrebbe potuto già prima compiere le investigazioni, se non avesse lasciato decorrere i termini, di ottenere il raddoppìo degli stessi (5). Difatti il pubblico ministero, nel medesimo giorno in cui viene informato dal giudice che è stata autorizzata la riapertura delle indagini, procede a nuova iscrizione a norma dell’art. 335 c.p.p. e i termini decorrono nuovamente dall’inizio e possono essere prorogati ai sensi degli articoli 406 e 407 c.p.p. Si trattava, secondo i primi orientamenti interpretativi, di contemperare due distinte esigenze: la necessità da un lato di non consentire che il singolo individuo possa essere assoggettato indefinitamente a procedimento penale, la rilevanza dall’altro del principio di obbligatorietà dell’azione penale, che si risolve in un favor actionis inteso a salvaguardare l’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge (6). Il meccanismo sanzionatorio che accompagna lo svolgimento di indagini non preceduto da autorizzazione del giudice è, nell’ottica seguita da questa prima impostazione, l’inutilizzabilità dei relativi atti. Pur in assenza infatti di un’espressa previsione normativa, tale conclusione si giustifica alla luce di quanto previsto per gli atti di indagine compiuti fuori dal termine previsto dalla legge o prorogato dal giudice (art. 407 comma 3 c.p.p.) e, più in generale, in base al principio sancito dall’art. 191 c.p.p. rispetto agli atti compiuti in violazione dei divieti stabiliti dalla legge (7). Dall’insieme di tali considerazioni risulta come la sfera di applicazione dell’art. 414 c.p.p. fosse originariamente circoscritta alle sole indagini: occorre nella sostanza distinguere il piano delle indagini da quello dell’azione, riconducendo le conseguenze sanzionatorie che si accompagnano alla mancata autorizzazione alla riapertura delle indagini al solo profilo dell’inutilizzabilità dei relativi atti. Che questo fosse del resto l’orientamento cui si ispirava lo spirito del codice risulta ancora dalla Relazione al progetto preliminare, ove si nega al provvedimento di archiviazione natura giurisdizionale e si esclude che ad esso possa essere riconosciuta efficacia preclusiva: si tratta invero di connotati che mirano a evidenziare la (4) Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1988, 224. (5) BERNARDI, sub art. 414 c.p.p., in CHIAVARIO, Commento al nuovo codice di procedura penale, IV, Torino, 1990; GREVI, Archiviazione per inidoneità probatoria ed obbligatorietà dell’azione penale, in questa Rivista, 1990, 1324. (6) Proprio l’esigenza di rispettare il principio di obbligatorietà dell’azione penale aveva indotto parte della dottrina a negare l’efficacia preclusiva del provvedimento di archiviazione, sul presupposto che la decisione del Gip non possa condizionare la determinazione del P.M. all’esercizio dell’azione penale: CORDERO, Procedura penale, Milano, 1991, 407; GARUTI, in CHIAVARIO-MARZADURI, Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, Torino, 1999, 472. (7) BERNARDI, sub art. 414 c.p.p., in CHIAVARIO, cit.
— 272 — natura spiccatamente procedimentale di questo provvedimento, avente rilevanza nel solo ambito delle indagini preliminari (8). III. Lo scostamento da tali premesse risulta particolarmente significativo dopo la sentenza n. 27 del 1995 della Corte Costituzionale. Il piano sul quale si pone l’orientamento della Consulta mira a valorizzare proprio quei profili che l’originaria impostazione interpretativa tendeva ad escludere: il riconoscimento di una sia pur limitata efficacia preclusiva al provvedimento di archiviazione, l’accostamento dell’archiviazione al giudicato e alla sentenza di non luogo a procedere non più soggetta ad impugnazione, costituiscono di per sé sintomo di una collocazione di tale istituto al di fuori dello schema strettamente procedimentale. Le oscillazioni giurisprudenziali, testimoniate dalle numerose sentenze richiamate dalla decisione delle Sezioni unite, riflettono le ricadute che sul piano applicativo la sentenza della Corte Costituzionale ha prodotto. Si contrappongono essenzialmente due orientamenti: un primo che mira a valorizzare le implicazioni che scaturiscono dalla decisione della Consulta, affinando una serie di questioni correlate ai principi di diritto ivi affermati; un secondo che, discostandosi dall’indirizzo seguito dalla Consulta, le cui statuizioni non si presentano peraltro vincolanti trattandosi di sentenza interpretativa di rigetto, ha mantenuto fede agli originari orientamenti interpretativi (9). Proprio con riferimento al primo di tali indirizzi, deve anzitutto rilevarsi come corollario della efficacia preclusiva del provvedimento di archiviazione sia la definizione dei limiti entro cui tale efficacia deve operare, sia rispetto al fatto storico che dell’archiviazione ha formato oggetto di accertamento, sia rispetto a determinate circostanze estrinseche. Nel concetto di ‘‘stesso fatto’’ rientrano tanto le componenti oggettive dell’addebito — condotta, evento, nesso di condizionamento eziologico —, quanto gli aspetti esterni al fatto di reato, da identificare nell’autorità che procede o procedette all’investigazione, posto che l’effetto preclusivo discendente dall’archiviazione condiziona solo la condotta dell’ufficio inquirente che chiese ed ottenne il relativo provvedimento (10). Ne consegue che quando il provvedimento di archiviazione, pur investendo astrattamente la medesima imputazione, concerna fatti storici materialmente diversi, sia sotto il profilo spazio-temporale delle condotte di partecipazione al reato, che sotto quello delle persone coinvolte, l’autorizzazione giudiziale non è necessaria, trattandosi di notitia criminis connotata da diverso contenuto. Molteplici sono poi le conseguenze applicative che scaturiscono dal provvedimento di archiviazione: la mancata autorizzazione alla riapertura delle indagini non incide infatti sul solo esercizio dell’azione penale, ma coinvolge a monte qualsiasi attività procedimentale; ne consegue che nessun provvedimento può essere (8) Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, cit., 221. (9) Per una completa rassegna giurisprudenziale, MONTAGNA, Principi di diritto enunciati ai sensi dell’art. 173 comma 3 disp. att. c.p.p., in Dir. pen. e processo, luglio 2000, 819. (10) Cass., sez. I, 11 giugno 1996, Morici, CED 205157: ‘‘In caso di già disposta archiviazione, la necessità dell’autorizzazione alla riapertura delle indagini, prevista dall’art. 414 c.p.p., può essere esclusa soltanto quando si sia in presenza di un fatto da qualificare come oggettivamente diverso rispetto a quello cui si riferiva il provvedimento di archiviazione, e non quindi, quando vi sia solo una nuova notizia di reato riguardante il medesimo fatto’’; Cass., sez. IV, 2 febbraio 1999, Bruno, in Riv. pen., 1999, 1025, CED 213140: ‘‘La norma sulla riapertura delle indagini, di cui all’art. 414 c.p.p., è da interpretarsi in stretto collegamento con le regole della competenza territoriale. Ne consegue che l’autorizzazione del giudice non è necessaria allorchè le nuove indagini (sullo stesso imputato e per il medesimo fatto) siano iniziate da un pubblico ministero diverso’’; Cass., sez. V, 11 novembre 1999, Calvisi, in Arch. n. proc. pen., 2000, 44: ‘‘Il decreto di archiviazione, avendo per oggetto la notizia di reato e non il fatto in sé al quale si riferisce, non impedisce — pur in assenza dell’autorizzazione alla riapertura delle indagini prevista dall’art. 414 c.p.p. — l’esercizio dell’azione penale per il medesimo fatto da parte di un ufficio del pubblico ministero diverso da quello che aveva chiesto e ottenuto l’archiviazione’’.
— 273 — legittimamente adottato in un procedimento relativo ad un fatto per il quale sia stata disposta l’archiviazione, senza che vi sia stata autorizzazione ai sensi dell’art. 414 c.p.p. (11). In questo senso si è negato che l’autorizzazione possa essere sostituita, in funzione surrogatoria, da un provvedimento di tipo diverso, da considerare — sia pure solo implicitamente — comprensivo di questa (12). IV. Tali considerazioni costituiscono il tessuto argomentativo su cui si fonda la pronuncia delle Sezioni unite. In questa prospettiva dal provvedimento di archiviazione deriva un’efficacia preclusiva di particolare intensità, che si riflette tanto sul piano delle indagini quanto su quello dell’esercizio dell’azione penale, ed idonea ad essere rimossa dal solo decreto di autorizzazione alla riapertura delle indagini. La sentenza non affronta, esulando tali profili dal devolutum, le questioni relative ai presupposti che legittimano il diniego alla riapertura delle indagini (limitandosi a negare che la relativa richiesta possa fondarsi su una mera rivalutazione dei medesimi atti su cui si è basata l’archiviazione) (13), e quelle relative alla tipologia del provvedimento per il quale è richiesta la riapertura delle indagini. Sotto questo secondo aspetto le Sezioni unite si limitano ad affermare che restano estranee alla presente tematica le ipotesi di cui all’art. 345 c.p.p., laddove è la stessa legge che prevede un meccanismo operativo automatico. Resta aperto il dubbio sulla applicabilità della disciplina relativa alla riapertura delle indagini nel caso di archiviazione per essere ignoti gli autori del reato. Si sostiene peraltro in dottrina che, soprattutto a seguito della riformulazione dell’art. 415 c.p.p. con l. 479/99, anche in tale ipotesi debba trovare applicazione la disciplina stabilita dall’art. 414 c.p.p.; a favore di tale conclusione militano diversi argomenti esegetici: in particolare la previsione contenuta al comma 3, secondo cui si osservano, in quanto applicabili, le altre disposizioni di cui al presente titolo, sembra definitivamente superare l’impasse che aveva in precedenza suggerito di escludere questa ipotesi di archiviazione dal novero dei casi in cui si rende necessario il decreto di autorizzazione alla riapertura delle indagini. A tale rilievo deve poi aggiungersi come la previsione nel procedimento contro ignoti di rigorose scansioni temporali non consente di ritenere che dopo l’archiviazione sia disposta la riapertura delle indagini in assenza del provvedimento del giudice (14). Rispetto alla questione dedotta in giudizio, le Sezioni unite hanno affermato l’illegittimità del provvedimento impositivo di misura cautelare sulla base appunto (11) Cass., sez. VI, 3 ottobre 1997, in Cass. pen., 1998, 3287, con nota di ORLANDI. (12) Cass., sez. I, 24 ottobre 1996, Romeo, CED 206380, in cui espressamente si è escluso che l’applicazione della misura cautelare possa ritenersi surrogatoria dell’autorizzazione alla riapertura delle indagini o implicitamente comprensiva di essa. (13) Sui problemi connessi al provvedimento di autorizzazione alla riapertura delle indagini, CORDERO, Procedura penale, Milano, 2000, 425; DELLA SALA, Richiesta di riapertura delle indagini: riflessioni sui presupposti, in Foro ambrosiano, gennaio-marzo 2000, 58; LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 2000, 346, secondo il quale la riapertura non può avvenire sulla base di una nuova e diversa valutazione degli stessi elementi probatori in precedenza acquisiti, posto che nella nozione di ‘‘nuove investigazioni’’ non può ricomprendersi una valutazione diversa delle ‘‘stesse investigazioni’’; GARUTI, in CHIAVARIO-MARZADURI, cit., 474; in giurisprudenza, Cass., sez. I, 1 giugno 1990, Vianello, in Giur. it., 1991, II 42; ID., in Foro it., 1991, II, 382, secondo cui il diniego alla riapertura delle indagini non può configurare un’ipotesi di provvedimento abnorme perché, se la legge subordina una procedura a preventiva autorizzazione, è congeniale ed intrinseco a tale sistema sia il provvedimento autorizzativo sia il diniego (per un indirizzo opposto, del tutto minoritario, Cass., sez. II, Ventrilla, in Giur. it., 1992, II, 602: ‘‘Una volta archiviata una notizia di reato, il Gip non può esimersi dall’autorizzare la riapertura delle indagini espressamente richiesta dal P.M., poiché un simile diniego comporterebbe una grave e concreta lesione del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, anche quando non siano emersi nuovi elementi e l’organo dell’accusa si limiti a prospettare al giudice un nuovo piano di indagine’’). (14) CAPRIOLI, in AA.VV., Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, Padova, 2000, 263; GIARDA-SPANGHER, sub art. 414, in Codice di procedura penale commentato, Milano, 1997; in giurisprudenza, per un orientamento pre-riforma, Cass., sez. I, 17 giugno 1997, Giordano, in Giur. it., 1998, 1008, con nota di DE ROBERTO.
— 274 — dell’efficacia preclusiva che scaturisce dall’archiviazione, il cui superamento può realizzarsi solo secondo i canoni fissati dall’art. 414 c.p.p.: ‘‘non è ammissibile la reiterazione di istanze — sostiene la Corte — tese a provocare un nuovo provvedimento che possa porsi in contrasto con altro già pronunciato sul medesimo oggetto, senza che si sia modificata la situazione di fatto o di diritto posta a base del primo provvedimento’’ (15). Affermazione la cui logica si ispira al principio di non contraddizione, non essendo ammissibile che un medesimo fatto sia assunto dalla stessa autorità quale fonte di provvedimenti tra loro inconciliabili. V. Tale decisione non è peraltro immune da rilievi critici. Accanto alle considerazioni suesposte sulla portata dell’efficacia preclusiva dell’archiviazione, possono evidenziarsi una serie di questioni attinenti alle modalità di applicazione delle misure cautelari. Esistono argomenti esegetici per escludere che dal provvedimento di archiviazione derivino conseguenze preclusive rispetto all’adozione di misure cautelari. Si tratta di considerazioni mosse dalla necessità di non pregiudicare le esigenze che ne sono alla base, destinate ad essere vanificate ove fosse eccessivamente appesantito il meccanismo di applicazione delle relative misure. In tal senso si è sostenuto che la soluzione, derivante dalla pronuncia costituzionale n. 27 del 1995, di identificare il provvedimento di riapertura delle indagini con una condizione di procedibilità, comporta l’applicabilità di una misura cautelare anche in seguito alla disposta archiviazione, poiché in pendenza di una condizione di procedibilità devono ritenersi applicabili tutte le misure contenute nel libro IV del codice di procedura penale. Tale teorizzazione troverebbe conferma sia nel dettato dell’art. 273 comma 2 c.p.p. che, nell’escludere l’applicabilità delle misure cautelari in presenza di determinate situazioni non menziona ‘‘l’assenza di una condizione di procedibilità’’, sia dalla disposizione dell’art. 343 c.p.p. che, prevedendo l’impossibilità di disporre misure cautelari personali, in assenza della condizione di procedibilità dell’autorizzazione a procedere, consente di desumere a contrario che tale limitazione non opera nei confronti delle altre condizioni di procedibilità (in senso contrario si è osservato che non avrebbe senso una richiesta di misura cautelare nei confronti di un soggetto a carico del quale non può essere formulata l’imputazione, stante l’assenza di condizioni di procedibilità) (16). Ulteriore questione potrebbe profilarsi con riferimento all’art. 300 comma 5 c.p.p., a mente del quale sono previste determinate cause di illegittimità ab origine della misura cautelare, ove essa sia adottata nei confronti di imputato prosciolto o nei confronti del quale sia stata emessa sentenza di non luogo a procedere, se prima non sia intervenuta, in relazione al medesimo fatto, sentenza di condanna. Si potrebbe argomentare, ragionando a contrario, che il mancato riferimento all’archiviazione legittimerebbe l’applicazione di misure cautelari senza che ricorrano le condizioni previste da tale disposizione: a ben vedere tuttavia il meccani(15) Per un primo commento alla sentenza, BRICCHETTI, Solo il decreto del Gip sblocca la situazione e rende possibile la riapertura delle indagini, in Guida al diritto, 23 settembre 2000, 54, ove si mette in rilievo l’attitudine del provvedimento di archiviazione a produrre una preclusione endoprocedimentale idonea a paralizzare, prima della sua rimozione (con il decreto motivato in cui il giudice per le indagini preliminari autorizza, su richiesta del P.M. motivata dall’esigenza di nuove investigazioni, la riapertura delle indagini), l’attività del P.M. stesso come definita dagli articoli 326 e seguenti del codice di procedura penale: non solo, dunque, l’esercizio dell’azione penale, né solo il compimento di specifici atti investigativi, ma in radice ogni attività, ivi compresa qualsivoglia richiesta al giudice (tra cui, appunto, l’applicazione di misure cautelari). Per un precedente relativo all’applicazione di misura cautelare a seguito di archiviazione, Cass., sez. IV, 8 maggio 1992, Rapisarda, in questa Rivista, 1994, 314, con nota di VALENTINI REUTER. (16) CASACCIA, sub art. 414 c.p.p., in LATTANZI-LUPO, Codice di procedura penale Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, V, Milano, 1998.
— 275 — smo preclusivo cui l’art. 300 comma 5 c.p.p. dà vita, se da un lato esclude la necessità che il provvedimento di archiviazione sia seguito da sentenza di condanna, dall’altro non giustifica forme di intervento non conformi al procedimento di riapertura delle indagini (17). VI. L’orientamento che si è in tal modo affermato risponde a delle istanze di garanzia di indubbio rilievo, sottoponendo al vaglio giurisdizionale la possibilità di un intervento successivo al provvedimento di archiviazione, così preservando l’indagato da iniziative ‘‘fuori controllo’’ del Pubblico Ministero. Potrebbe a ragione affermarsi che la giustificazione di questa decisione ha radici remote e si intreccia con l’evoluzione normativa e giurisprudenziale che ha investito il complessivo sistema delle indagini preliminari (18). In un processo di stampo accusatorio le indagini preliminari assolvono una funzione meramente strumentale, preordinate come sono ‘‘alle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale’’: dovrebbe pertanto escludersi, in via logicamente consequenziale, una compressione dell’attività di indagine, perché ciò finirebbe per imbrigliare il ruolo del Pubblico Ministero, con il rischio di frustrare in concreto lo stesso principio di obbligatorietà dell’azione penale. In questo panorama l’archiviazione svolge una funzione di controllo sul mancato esercizio dell’azione penale, onde, si potrebbe sostenere, definisce solo ‘‘in negativo’’ i risultati cui sono pervenute le indagini, impregiudicata restando la possibilità che a dei risultati di segno inverso, idonei a legittimare l’esercizio dell’azione penale, possa in un secondo momento pervenirsi. L’inserimento di una disposizione, quale quella prevista dall’art. 414 c.p.p., sembra stonare nell’architettura di un sistema accusatorio: non è un caso che in dottrina si sia fortemente stigmatizzata la scelta operata dal legislatore, evidenziando tutte le implicazioni negative che ciò inevitabilmente comporta sul piano applicativo (19). Lo scostamento dalle premesse teoriche sulla valenza delle indagini preliminari, che tale istituto sembra determinare, si giustifica proprio con la particolare fisionomia che la fase delle indagini ha acquisito. La disciplina relativa alla riapertura delle indagini e la correlativa efficacia preclusiva del provvedimento di archiviazione rappresentano infatti la conseguenza della peculiare collocazione che l’istituto dell’archiviazione assume nel sistema processuale vigente. Il bivio archiviazione — azione non si situa più prima della fase inquirente, bensì dopo: ‘‘l’alternativa all’archiviazione non è più inquaerere in vista dell’eventuale giudizio, ma richiederlo sulla base di indagini già svolte. Si potrebbe dire, con consapevole, grossolana semplificazione, che l’attuale provvedimento di archiviazione assomiglia più al vecchio proscioglimento istruttorio. Come questo ha alle spalle indagini virtualmente complete, come questo può essere preceduto dall’adozione di misure cautelari coercitive e di mezzi investigativi incidenti sulle libertà fondamentali dell’inquisito’’ (20). L’esigenza di assicurare al provvedimento di archiviazione un’efficacia preclusiva scaturisce pertanto dalla necessità di sottoporre a controllo l’attività del Pubblico Ministero: in un ordinamento che impone all’attività inquirente cadenze e limiti temporali rigorosi, (17) CAMPOLI, La preclusione cautelare nel caso di sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere tra ambito applicativo residuale ex art. 649 c.p.p. e condizioni legittimanti la nuova coercizione, in Arch. n. proc. pen., marzo-aprile 2000, 119. (18) Per un quadro esaustivo dei problemi legati all’efficacia preclusiva dell’archiviazione: CAPRIOLI, L’archiviazione, cit., 440. (19) CORDERO, Procedura penale, cit., 424. (20) GIOSTRA, L’archiviazione, Torino, 1993, 73.
— 276 — non può essere consentito al Pubblico Ministero di riaprire le indagini, concluse con il provvedimento di archiviazione, secondo sue insindacabili propensioni (21). Una visione d’insieme del sistema mostra del resto quanto lontane siano dalla realtà le premesse sulle quali la scissione tra la fase strettamente procedimentale e quella processuale originariamente si basava. Il principio, affermato dalla Corte Costituzionale, di completezza delle indagini preliminari, quale presupposto delle determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale, le significative modifiche che a livello normativo hanno subito le indagini preliminari, la centralità che nel nostro sistema rivestono l’udienza preliminare ed i riti deflattivi del dibattimento, la conseguente marginalizzazione del dibattimento, recano il segno non equivoco di un radicale sovvertimento del parametro di qualificazione dell’attività investigativa: non più fase meramente strumentale, bensì attività volta a pieno titolo all’accertamento della verità storica del fatto per cui si procede. In questo senso negare efficacia preclusiva al provvedimento di archiviazione significherebbe smentire il valore delle indagini, eludendo l’obiettivo primato che esse hanno conquistato nella procedura penale (22). dott. GAETANO RUTA
(21)
GIOSTRA, L’archiviazione, cit., 74; SAMMARCO, La richiesta di archiviazione, Milano, 1993,
(22)
PADOVANI, Il crepuscolo della legalità nel processo penale, in Indice penale, 1999, 527; PO-
333. TETTI, Il principio di completezza delle indagini nell’udienza preliminare e il nuovo art. 421-bis c.p.p., in
Cass. pen., 2000, 2148.
— 277 — I CORTE DI CASSAZIONE — Sez. IV — 28 settembre 2000, n. 1688 Pres. Pioletti — Est. Battisti — Ric. Baltrocchi Reato in genere - Nesso di causalità tra condotta omissiva ed evento - Identità tra causalità attiva e causalità omissiva - Sussunzione sotto leggi scientifiche Leggi universali e leggi statistiche - Necessità del ricorso a leggi statistiche con un coefficiente percentualistico vicino a cento - Giudizio di alta probabilità logica o elevata credibilità razionale. Sotto il profilo dell’accertamento, il procedimento utilizzato per stabilire se l’omissione è condizione necessaria non è diverso, ma identico, nella sua struttura, a quello cui si ricorre per giustificare la causalità dell’azione, ossia il giudice, avvalendosi del modello della sussunzione sotto leggi statistiche — ove non disponga di leggi universali — dice che è probabile che la condotta dell’agente costituisca, coeteris paribus, una condizione necessaria dell’evento. Una spiegazione statistica adeguata del singolo evento lesivo presuppone una legge statistica con un coefficiente percentualistico vicino a cento e deve sfociare in un giudizio sul nesso di condizionamento di alta probabilità logica o di elevata credibilità razionale, dove alta ed elevata stanno ad indicare un giudizio che si avvicina al massimo, alla certezza (1). II CORTE DI CASSAZIONE — Sez. IV — 29 novembre 2000, n. 2139 Pres. Losapio —- Est. Battisti — Ric. Musto Reato in genere - Nesso di causalità tra condotta omissiva ed evento - Identità tra causalità attiva e causalità omissiva - Sussunzione sotto leggi scientifiche Leggi universali e leggi statistiche - Necessità del ricorso a leggi statistiche con un coefficiente percentualistico vicino a cento - Giudizio di alta probabilità logica o elevata credibilità razionale. Una spiegazione statistica adeguata del singolo evento lesivo presuppone, sia nella causalità attiva, che nella causalità omissiva, una legge statistica con un coefficiente percentualistico vicino a cento e deve sfociare in un giudizio sul nesso di condizionamento di alta probabilità logica o di elevata credibilità razionale, dove alta ed elevata stanno ad indicare un giudizio che si avvicina al massimo, alla certezza (2). III CORTE DI CASSAZIONE — Sez. IV — 28 novembre 2000, n. 2123 Pres. Battisti — Est. Battisti — Ric. Di Cintio Reato in genere - Nesso di causalità tra condotta omissiva ed evento - Sussunzione sotto leggi scientifiche - Leggi universali e leggi statistiche - Necessità del ri-
— 278 — corso a leggi statistiche con un coefficiente percentualistico vicino a cento Giudizio di alta probabilità logica o elevata credibilità razionale. Il giudice, anche nella causalità omissiva, deve accertare il rapporto causale avvalendosi di una legge di copertura che gli consenta di ritenere, grazie al giudizio controfattuale, che una certa condotta-omissione è causa di un determinato evento con una probabilità vicina alla certezza, vicina a cento (3). I (Omissis). — MOTIVI DELLA DECISIONE. — (Omissis). — 2. Questa Suprema Corte da ormai un decennio — Cass., sez. IV, 6 dicembre 1990, Bonetti e, in seguito, tra le altre, Cass. 27 maggio 1993, in Cass. pen., 1995, p. 2900 — ha fatto proprie, in tema di rapporto di causalità, le riflessioni della migliore dottrina e le conclusioni cui la stessa è pervenuta. I. In quella sede la Corte di Cassazione dava ormai per acquisito che, come si esprime, sull’argomento, una delle voci più autorevoli della dottrina, ‘‘il problema causale nel processo penale consiste nello stabilire, attraverso la formulazione di un giudizio controfattuale — di un giudizio, cioè, compiuto pensando assente (contro i fatti) una determina condizione e chiedendosi se, nella situazione così mutata, sarebbe stata da aspettarsi, oppure no, la medesima conseguenza — se la condotta dell’uomo sia oppure no raffigurabile come condizione necessaria dell’evento o, meno tecnicamente, come circostanza responsabile dell’accaduto’’. Si è anche chiarito, in quella sede, che il giudice, con il giudizio controfattuale, può ritenere di aver conoscenza di ciò che sarebbe o non sarebbe accaduto non facendo, però, ricorso ad individualizzazioni, alla ricerca della causa caso per caso, alla ricerca della causa con l’intuizione, con l’immaginazione creatrice, ma, in ossequio al principio di stretta legalità o di tassatività, facendo ricorso al modello generalizzante della sussunzione sotto leggi scientifiche, le uniche in grado di rendere solido l’accertamento del nesso, leggi che, proprio per questa garanzia di solidità, sono denominate leggi di copertura. Si è aggiunto, poi, che ‘‘le leggi generali di copertura accessibili al giudice sono sia leggi universali, che sono in grado di affermare che la verificazione di un evento è invariabilmente accompagnata dalla verificazione di un altro evento, sia le leggi statistiche — che si limitano, invece, ad affermare che il verificarsi di un evento-causa è accompagnato dal verificarsi di un altro evento — l’evento — soltanto in una percentuale di casi, con la conseguenza che questi ultimi sono tanto più dotati di validità scientifica quanto più possono trovare applicazione in un numero sufficientemente alto di casi e di ricevere conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali e controllabili’’. Si è detto, inoltre, che ‘‘il giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto, sicché, per un verso, deve ricorrere ad una serie di assunzioni nomologiche tacite e dare per presenti condizioni iniziali non conosciute o soltanto azzardate e, per altro verso, il nesso di condizionamento potrà essere riconosciuto presente soltanto con una quantità di precisazioni e purché sia ragionevolmente — e non con certezza — da escludere l’intervento di un diverso processo causale’’. Si è concluso asserendo — ed è questo il punto che è in questione nel caso in
— 279 — esame — che ‘‘il giudice, avvalendosi del modello della sussunzione sotto leggi statistiche — ove non disponga di leggi universali — dice che è probabile che la condotta dell’agente costituisca, coeteris paribus, una condizione necessaria dell’evento, probabilità che altro non significa se non probabilità logica o credibilità razionale, probabilità che deve essere di alto grado, nel senso che il giudice dovrà accertare che, senza il comportamento dell’agente, l’evento, con alto grado di probabilità, non si sarebbe, appunto, verificato’’. II. Prima di riflettere sul significato che deve attribuirsi all’espressione con alto grado di probabilità e nel prendere atto che, nel caso in esame, si verte in una fattispecie di causalità omissiva, è da porre in evidenza che sulla natura dell’omissione e sulla conseguente costruzione della causalità omissiva la dottrina, ormai da tempo, non è più pacifica. Se, invero, la dottrina dominante nega che nei reati omissivi il rapporto di causalità sia identico a quello che si riscontra nei reati di evento commessi mediante azione, perché in questi ultimi si deve accertare l’eventuale nesso tra dati reali del mondo esterno, mentre nelle fattispecie omissive improprie quel nesso si accerta con un giudizio ipotetico o prognostico supponendosi realizzata l’azione doverosa e chiedendosi se ove fosse stata presente, l’evento lesivo sarebbe venuto meno, altra parte della dottrina è, invece, dell’avviso che la causalità omissiva, lungi dall’essere causalità ipotetica è anch’essa vera e propria ‘‘causalità reale’’, dovendosi tenere conto che ‘‘in una visione moderna della causalità, le entità che entrano in relazione di causa ed effetto non sono forze o energie materiali, ma processi o eventi, sicché, se ciò è vero, bisogna includere tra quelle entità anche i processi statici — il tavolo che rimane immutato, si dice, è un processo, un processo statico, nel quale le grandezze considerate si mantengono costanti nel tempo — con la conseguenza che, nella relazione di causa ed effetto, entra anche l’omissione, il non-fare, ché una condizione statica è pur sempre una condizione’’. Anche il non-fare, dunque, deve considerarsi causale quando risulti che, senza lo stato della persona costituito dal non compiere l’azione dovuta l’evento lesivo non si sarebbe verificato. Da tutto ciò — aggiunge questa dottrina — consegue che, ‘‘sotto il profilo dell’accertamento, il procedimento utilizzato per stabilire se l’omissione è condizione statica necessaria non è diverso, ma identico, nella sua struttura, a quello cui si ricorre per giustificare la causalità dell’azione’’. ‘‘Identico è, infatti, l’oggetto della spiegazione: un avvenimento del passato; identico il giudizio che si deve compiere per individuare la condizione necessaria: il giudizio controfattuale o ipotetico teso ad appurare se, senza la condotta attiva od omissiva, l’evento si sarebbe o non si sarebbe verificato; identico il procedimento da impiegare, in via strumentale, per compiere il giudizio controfattuale: una spiegazione legata all’oggettivo sapere scientifico, che consenta di ricollegare l’evento lesivo ad un insieme di condizioni empiriche antecedenti, variabili o statiche; identica la struttura probabilistica della spiegazione offerta e identico perciò il carattere probabilistico dell’enunciato esplicativo’’. III. La dottrina dominante, ponendo l’accento, non sull’omissione come stato condizionante della persona, ma sull’azione doverosa omessa, afferma, anch’essa, che, per effettuare il giudizio ipotetico o prognostico necessario per determinare il nesso omissione-evento, ‘‘il giudice suppone mentalmente come realiz-
— 280 — zata l’azione doverosa omessa e si chiede se, in presenza di essa, l’evento lesivo sarebbe venuto meno’’, che il giudice, cioè, si avvale pur sempre del giudizio controfattuale. E anch’essa ritiene che ‘‘il giudice, per effettuare una simile prognosi, non potrà basarsi soltanto sulle sue personali conoscenze, ma, anche dinanzi all’omissione, i criteri di giudizio da adottare non possono che essere quelli del modello della sussunzione sotto leggi’’. Questa dottrina è, però, dell’avviso, quanto al problema del grado di certezza raggiungibile nell’accertamento della causalità omissiva, che questo accertamento, risolvendosi in un giudizio effettuato in termini ipotetici, non può dare lo stesso rigore esigibile nell’accertamento del nesso causale vero e proprio, sicché ‘‘ciò dovrebbe indurre ad accontentarsi di richiedere, in sede di applicazione della formula della conditio, che l’azione doverosa, ove compiuta, valga ad impedire l’evento con una probabilità vicina alla certezza’’. ‘‘Ma — si osserva autorevolmente — se si accoglie la tesi che la stessa spiegazione del nesso causale nei reati commissivi ha struttura probabilistica, stante la rilevanza ai fini della decisione anche di leggi statistiche, ci si accorge che le differenze nel livello di certezza del rispettivo accertamento della causalità reale e della causalità omissiva finiscono, forse, con il ridimensionarsi’’. IV. Preso doverosamente atto di tutto ciò — il giudice non può non tenere conto nell’esaminare le fattispecie concrete dei migliori esiti della ricerca scientifico-giuridica, di quegli esiti la cui applicazione alla fattispecie in esame assicuri, al maggior livello possibile, il rispetto dei principi di tassatività e di stretta legalità — e constatato che, pur prescindendo dalla disputa, tutt’altro che infeconda, sulla natura dell’omissione, le conclusioni cui i due indirizzi pervengono, quanto al grado di certezza raggiungibile nell’accertamento della causalità omissiva, finiscono pressoché per coincidere, il problema del significato da attribuire all’espressione con alto grado di probabilità — il giudice deve accertare che quella azione o quella omissione è stata causa dell’evento con alto grado di probabilità — non può essere risolto se non attribuendo alla espressione il valore, il significato, appunto, che le attribuisce la scienza e, prima ancora, la logica, cui la scienza si ispira, e che non può non attribuirle il diritto. Per la scienza non v’è alcun dubbio che dire ‘‘alto grado di probabilità’’, ‘‘altissima percentuale’’, ‘‘numero sufficientemente alto di casi’’, voglia dire che, in tanto il giudice può affermare che un’azione od omissione sono state causa di un evento, in quanto possa effettuare il giudizio controfattuale avvalendosi di una legge o proposizione scientifica che ‘‘enunci una connessione tra eventi in una percentuale vicina a cento’’, espressione che, come può notarsi, equivale a quella che usa la dottrina che, in tema di causalità omissiva, ritiene che il giudice può ravvisare il nesso causale se l’azione doverosa avrebbe impedito l’evento con una probabilità vicina alla certezza: è, infatti, difficile negare che, sul piano logico, l’espressione vicina alla certezza voglia dire qualcosa di diverso dalla espressione vicina a cento. ‘‘In via conclusiva — osserva sul punto l’autorevole dottrina alla quale si deve anche la costruzione della causalità omissiva come causalità non ipotetica, ma reale — si può dire che una spiegazione statistica adeguata del singolo evento lesivo presuppone una legge statistica con un coefficiente percentualistico vicino a 100 e deve sfociare in un giudizio sul nesso di condizionamento di alta probabilità
— 281 — logica o di elevata credibilità razionale, dove alta ed elevata stanno ad indicare un giudizio che si avvicina al massimo, alla certezza’’. V. Questa stessa dottrina si sofferma anche sulle affermazioni che, sul rapporto di casualità, si incontrano nella giurisprudenza sia di legittimità, sia di merito e le sottopone a critica alla luce del principio che alta probabilità logica o elevata credibilità razionale vogliono indicare un giudizio che si avvicina alla certezza, che si avvicina a cento. ‘‘I giudici — questa la critica — debbono dar addio a due pretese antitetiche, la pretesa di approdare alla formulazione di giudizi di certezza e la pretesa di poter basare l’accertamento del nesso di condizionamento tra omissione ed evento su dei giudizi di mera possibilità, su serie ed apprezzabili possibilità di successo’’. ‘‘La prima pretesa, quella della certezza, — prosegue la critica — è chiaramente utopistica, ché ciò che si può richiedere al giudice, anche sul terreno della causalità omissiva, è unicamente un giudizio provvisto di ‘elevata credibilità razionale’ o ‘alta probabilità logica’’ o ‘‘quasi certezza’ ’’. La seconda pretesa risulta, invece, ‘‘decisamente insostenibile’’. ‘‘I giudizi di mera ‘possibilità’ sono, infatti, del tutto incompatibili con l’idea stessa di spiegazione dell’evento, ché un accadimento storico può ritenersi spiegato, può essere reso intelligibile attraverso una risposta alla domanda ‘perché?’, solo se si ha a disposizione una legge scientifica di forma universale o una legge statistica che enunci una regolarità nella successione di eventi in un’alta percentuale di casi, in una percentuale, cioè, vicina a cento, perché solo così si può pervenire ad un giudizio di elevata credibilità razionale sulla esistenza del nesso di condizionamento: dire che è possibile che senza l’omissione l’evento non si sarebbe verificato si dice che forse gli eventi avrebbero potuto seguire un corso diverso, ma non si dà una risposta razionalmente accettabile in misura elevata al perché l’evento si è verificato’’. ‘‘Troppo poco, dunque, — è la conclusione — dal punto di vista della filosofia della scienza troppo poco dal punto di vista logico e troppo poco dal punto di vista del diritto penale, che non può certo accontentarsi di un giudizio forse di responsabilità penale’’. (Omissis). VII. È il caso di porre in evidenza, a questo punto, che il ‘‘Progetto preliminare di riforma del codice penale’’, elaborato dalla ‘‘Commissione ministeriale per la riforma del codice penale istituita con d.m. 1o ottobre 1998’’, dispone nell’art. 13, dedicato al rapporto di causalità, che ‘‘nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se la sua azione od omissione non è condizione necessaria dell’evento da cui dipende l’esistenza del reato’’ e, nell’art. 14, dove si interessa della causalità nei reati omissivi, che ‘‘non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, se il compimento dell’attività omessa avrebbe impedito con certezza l’evento’’. L’uso delle locuzioni ‘‘condizione necessaria, con certezza’’ dice con chiarezza che le premesse dalle quali muove il progetto, in tema di rapporto di causalità, sono esplicitamente quelle che si sono dianzi riassunte, premesse che la dottrina ha formulato in relazione alle norme, sul rapporto di causalità, del vigente codice, premesse che la ‘‘Relazione’’, che accompagna il Progetto, ribadisce con una serie di osservazioni che meritano di essere riportate per la loro valenza anche a prescindere dal Progetto, il quale, peraltro, non si discosta troppo dal testo del codice penale Rocco, al fine di sottolineare la continuità con una tradizione nor-
— 282 — mativa consolidata ed idonea a fondare applicazioni ‘‘corrette’’, come la Relazione scrive sub 2/2. La Relazione, dopo aver premesso che ‘‘il tema del rapporto di causalità, che per ragioni di tempo non era stato affrontato nella prima fase dei lavori, ha costituito oggetto di una discussione particolarmente ampia da parte della Commissione’’, così prosegue. ‘‘La Commissione ha, innanzitutto, preso atto che la causalità, ed in particolare il modello nomologico-deduttivo, integrato dalla leggi di copertura, sta attaversando una fase critica. Vi sono, infatti, materie in cui l’erosione da parte della giurisprudenza di tale paradigma causale appare evidente e con riferimento, alle quali tende ad affermarsi una ricostruzione della causalità ancorata a fattori di tipo prognostico-probabilistico, se non addirittura consistente nella rilevazione del rischio o dell’aumento del rischio connesso all’esercizio di una determinata attività’’. ‘‘Ciò si verifica, ad esempio, in settori quali: a) l’attività medica, dove, a fronte della pluralità dei fattori causali che sembrerebbero entrare in gioco, lo strumento statistico e l’epidemiologia sono spesso diventati indicatori decisivi agli effetti della rilevazione del rapporto causale; b) le alterazioni ambientali, in cui gli eventi (in genere macro-eventi) dipendono da una serie di condotte e situazioni, spesso differite nel tempo e concorrenti con fenomeni naturali, con riferimento alle quali risulta difficile risolvere il problema causale limitandosi a richiedere se non aver tenuto una di quelle condotte avrebbe evitato l’evento nelle dimensioni verificatesi; c) la fenomenologia del danno da prodotto, nei cui confronti è ricorrente la impossibilità di identificare con certezza, o anche soltanto con elevata probabilità, quale sia stato il fattore produttivo di nocumento’’. ‘‘La giurisprudenza, che si sta orientando verso ricostruzioni della causalità centrate su mere rilevazioni di tipo probabilistico, o su mere correlazioni condotta-rischio (o aumento del rischio), coglie un aspetto sicuramente importante della società moderna, sempre più caratterizzata da attività complesse, professionalizzate, che presuppongono un alto livello di organizzazione, all’interno delle quali non è molto volte agevole provare rigorosamente l’esistenza di un rapporto di condizionalità necessaria. In questo senso essa risponde all’esigenza di rafforzare la tutela penale in materie che coinvolgono beni giuridici di rilevante spessore (vita, salute, ambiente), introducendo una flessibilità applicativa delle norme sulla causalità che consentono di raggiungere livelli di intervento penale altrimenti impensabili in ragione della difficoltà della prova’’. ‘‘Il costo di scelte di questo tipo è, tuttavia elevato sul terreno della salvaguardia del principio di legalità e di tipicità delle fonti di responsabilità penale, rischiando, nei casi più macroscopici di attentare al principio di personalità della responsabilità penale’’. ‘‘Come è stato giustamente rilevato, mentre la causalità ricostruita con il ricorso a leggi di copertura e ancorata al metodo dell’accertamento nomologico-deduttivo, svolge una importante funzione delimitativa della punibilità, consentendo di selezionare, nell’ambito delle fattispecie casualmente orientate, le condotte tipiche, il superamento di questo modello allarga la sfera di applicabilità del precetto, attraendo nella sua orbita anche eventi che non possono essere ritenuti, dal punto di vista logico-scientifico, conseguenza della condotta’’. ‘‘Il principio di tassatività-determinatezza e il principio di personalità della
— 283 — responsabilità, che conformano il sistema penale anche a livello di enunciato costituzionale, impongono pertanto di salvaguardare la funzione selettiva del nesso di causalità e di formulare una disciplina per quanto possibile tassativa’’. ‘‘La soluzione proposta risulta ispirata ai seguenti criteri: — prevedere come principio cardine che ‘nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se la sua azione od omissione non è condizione necessaria dell’evento da cui dipende l’esistenza del reato’: si tratta sostanzialmente dell’enunciazione del principio della condicio sine qua non, già enunciato nel comma 1 dell’art. 40 c.p. Rocco, qualificato dal riferimento al concetto di condizione necessaria (sostanzialmente conforme il progetto Riz, che con espressione un po’ ridondante parla di ‘condizione indispensabile e necessaria’); — separare, in ragione della evidente diversità di struttura e della opportunità di formulare una disciplina specifica che tenga conto delle sue peculiarità, la c.d. causalità nei reati omissivi rispetto alla causalità materiale dei reati di azione, pur sottolineando, nel comma 1 dell’art. 13 che in entrambi i casi ‘il profilo di condizionalità necessaria costituisce requisito indispensabile’. [...]’’. ‘‘Enunciata la disciplina del rapporto causale nei termini sopra menzionati, la Commissione sottolinea che essa, ponendosi in continuità con la tradizione, intende contrastare le tendenze a forzare il criterio della condizione necessaria e ad eludere le esigenze di rigoroso accertamento del nesso causale relativamente all’evento in concreto verificatosi. La Commissione è ben consapevole che tali tendenze si sono manifestate con riguardo a materie in cui sono in gioco esigenze di tutela di beni fondamentali (per es., la salute); ma, ritiene che, di fronte a fenomeni che non si prestino ad essere ricondotti ad un modello verificabile di causalità, strumenti di tutela adeguati vadano ricercati sul terreno della parte speciale: si pensi, in proposito, alla possibile introduzione di specifici e sufficientemente tipizzati ‘delitti di rischio’ ’’. ‘‘Sul problema della causalità nei reati omissivi, la Commissione ha ritenuto di dovere proporre una formulazione che, pur muovendosi nel solco del vigente art. 40 cpv., comporta una meditata presa di distanza dall’interpretazione che ne è data dalla giurisprudenza prevalente’’. ‘‘Secondo l’art. 14 ‘non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, se il compimento dell’attività omessa avrebbe impedito con certezza l’evento [...]’’. ‘‘L’aggiunta apportata al vigente dettato normativo ha funzione restrittiva rispetto all’indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’omissione antidoverosa sarebbe causale quando l’impedimento dell’evento si sarebbe ottenuto con un grado di probabilità apprezzabile, anche lontano dalla certezza. La Commissione è ben consapevole che tale ultimo indirizzo risponde ad esigenze condivisibili di reazione contro inadempimenti colpevoli anche gravi, ma ritiene che una soluzione che rinunciasse al requisito dell’impedimento certo si porrebbe in contrasto non semplicemente con il criterio della condizione necessaria, ma, soprattutto, con il principio di personalità della responsabilità (per l’atteggiamento critico nei confronti della sopra menzionata giurisprudenza è significativo il parere formulato dalla Commissione della Procura Generale)’’. ‘‘Senza la certezza dell’effetto impeditivo (s’intende, quella probabilità confinante con la certezza che può ragionevolmente raggiungersi) è, infatti, logicamente contraddittorio attribuire all’omissione, ancorché antidoverosa, il valore di
— 284 — condizione sine qua non dell’evento, non potendosi escludere che l’evento si sarebbe verificato anche se l’azione doverosa omessa fosse stata compiuta. In tal caso sarebbe, per l’omittente, un fatto altrui che non può essere ascritto a suo carico pena la violazione dell’art. 27 Cost.’’. VIII. Come si è già accennato, non sembra possa dubitarsi che le proposizioni della Relazione valgano, oltre che de jure condendo, de jure condito, consentendo — anzi, potrebbe dirsi, imponendo con il suo rigore — la ricerca scientifica di interpretare le norme del codice vigente sul rapporto di causalità, nel senso che la condotta deve essere condizione necessaria dell’evento ed essendo innegabile che la filosofia della scienza, la logica e il diritto esigano che, in tanto il giudice può affermare il rapporto di causalità, anche nei reati omissivi, in quanto — pena anche il rinnegamento del principio di personalità della responsabilità — abbia accertato che, con probabilità vicina alla certezza, con probabilità vicina a cento, quella condotta, azione od omissione, è stata causa necessaria dell’evento come verificatosi hic et nunc. (Omissis). II MOTIVI DELLA DECISIONE. — (Omissis). — A) Questa Suprema Corte da ormai un decennio — Cass., sez. IV, 6 dicembre 1990, Bonetti e, in seguito, tra le altre, Cass. 27 maggio 1993, in Cass. pen., 1995, p. 2900 — ha fatto proprie, in tema di rapporto di causalità, le riflessioni della migliore dottrina e le conclusioni cui la stessa è pervenuta. Si è detto, in quelle sentenze, che ‘‘il giudice, avvalendosi del modello della sussunzione sotto leggi statistiche — ove non disponga di leggi universali — dice che è probabile che la condotta dell’agente costituisca, coeteris paribus una condizione necessaria dell’evento, probabilità che altro non significa se non probabilità logica o credibilità razionale, probabilità che deve essere di alto grado, nel senso che il giudice dovrà accertare che, senza il comportamento dell’agente, l’evento, con alto grado di probabilità, non si sarebbe verificato’’. Si è anche sottolineato che la dottrina dominante, trattando della causalità nel reato omissivo, pone l’accento sull’azione doverosa omessa e afferma che, per effettuare il giudizio ipotetico o prognostico necessari per determinare il nesso omissione-evento, ‘‘il giudice suppone mentalmente come realizzata l’azione doverosa omessa e si chiede se, in presenza di essa, l’evento lesivo sarebbe venuto meno, che il giudice, cioè, individuata la legge di copertura, si avvale pur sempre del giudizio controfattuale per accertare il nesso di condizionamento. Questa dottrina, poi, ‘‘in ordine al problema del grado di certezza raggiungibile nell’accertamento della causalità omissiva’’ — che è il problema che si presenta nella specie — è dell’avviso che questo accertamento, ‘‘risolvendosi in un giudizio effettuato in termini ipotetici, non può dare lo stesso rigore esigibile nell’accertamento del nesso causale vero e proprio, sicché ciò dovrebbe indurre ad accontentarsi di richiedere, in sede di applicazione della formula della conditio, che l’azione doverosa, ove compiuta, valga ad impedire l’evento con una probabilità vicina alla certezza. ‘‘Ma — si osserva autorevolmente — se si accoglie la tesi che la stessa spiegazione del nesso causale nei reati commissivi ha struttura probabilistica, stante la rilevanza ai fini della decisione anche di leggi statistiche, ci si accorge che le diffe-
— 285 — renze nel livello di certezza del rispettivo accertamento della causalità reale e della causalità omissiva finiscono, forse, con il ridimensionarsi’’. B) Ricordati questi essenziali principi, il problema del significato da attribuire all’espressione con alto grado di probabilità — il giudice deve accertare che quella azione o quella omissione è stata causa dell’evento con alto grado di probabilità — non può essere risolto se non attribuendo alla espressione il valore, il significato, appunto, che le attribuisce la scienza e, prima ancora, la logica, cui la scienza si ispira, e che non può non attribuirle il diritto. Per la scienza non v’è alcun dubbio che dire ‘‘alto grado di probabilità’’, ‘‘altissima percentuale’’, ‘‘numero sufficientemente alto di casi’’, voglia dire che, in tanto il giudice può affermare che un’azione od omissione sono state causa di un evento, in quanto possa effettuare il giudizio controfattuale avvalendosi di una legge o proposizione scientifica che ‘‘enunci una connessione tra eventi in una percentuale vicina a cento’’, espressione che, come può notarsi, equivale a quella che usa la dottrina che, in tema di causalità omissiva, ritiene che il giudice può ravvisare il nesso causale se l’azione doverosa avrebbe impedito l’evento con una probabilità vicina alla certezza: è, infatti, difficile negare che, sul piano logico, l’espressione vicina alla certezza voglia dire qualcosa di diverso dall’espressione vicina a cento. ‘‘In via conclusiva — si osserva sul punto — si può dire che una spiegazione statistica adeguata del singolo evento lesivo presuppone una legge statistica con un coefficiente percentualistico vicino a 100 e deve sfociare in un giudizio sul nesso di condizionamento di alta probabilità logica o di elevata credibilità razionale, dove alta ed elevata stanno ad indicare un giudizio che si avvicina al massimo, alla certezza’’. C) La dottrina, nel fare le puntualizzazioni che precedono, si sofferma anche sulle affermazioni che, sul rapporto di casualità, si leggono nella giurisprudenza sia di legittimità, sia di merito e, alla luce del principio che alta probabilità logica o elevata credibilità razionale vogliono indicare un giudizio che si avvicina alla certezza, che si avvicina a cento, le sottopone a critica. ‘‘I giudici — questa la critica — debbono dar addio a due pretese antitetiche, la pretesa di approdare alla formulazione di giudizi di certezza e la pretesa di poter basare l’accertamento del nesso di condizionamento tra omissione ed evento su dei giudizi di mera possibilità, su serie ed apprezzabili possibilità di successo’’. ‘‘La prima pretesa, quella della certezza, — prosegue la critica — è chiaramente utopistica, ché ciò che si può richiedere al giudice, anche sul terreno della causalità omissiva, è unicamente un giudizio provvisto di ‘elevata credibilità razionale’ o ‘alta probabilità logica’ o ‘quasi certezza’ ’’; la seconda pretesa risulta, invece, ‘‘decisamente insostenibile’’. ‘‘I giudizi di mera ‘possibilità’ sono, infatti, del tutto incompatibili con l’idea stessa di spiegazione dell’evento, ché un accadimento storico può ritenersi spiegato, può essere reso intelligibile attraverso una risposta alla domanda ‘perché?’, solo se si ha a disposizione una legge scientifica di forma universale o una legge statistica che enunci una regolarità nella successione di eventi in un’alta percentuale di casi, in una percentuale, cioè, vicina a cento, perché solo così si può pervenire ad un giudizio di elevata credibilità razionale sulla esistenza del nesso di condizionamento: dire che è possibile che senza l’omissione l’evento non si sa-
— 286 — rebbe verificato si dice che forse gli eventi avrebbero potuto seguire un corso diverso, ma non si dà una risposta razionalmente accettabile in misura elevata al perché l’evento si è verificato’’. ‘‘Troppo poco, dunque, — è la conclusione — dal punto di vista della filosofia della scienza troppo poco dal punto di vista logico e troppo poco dal punto di vista del diritto penale, che non può certo accontentarsi di un giudizio forse di responsabilità penale’’. D) Ebbene, tutto ciò fa sì che si affermi che la corte di merito erra nel fare proprio, per ritenere il nesso causale, il criterio delle serie ed apprezzabili possibilità di successo ed è di tutta evidenza che questo errore imporrebbe l’annullamento della sentenza senza rinvio. La Corte ha anche detto, però, [...] che ‘‘i dati statistici offerti dal perito di ufficio sono tali da far ritenere che un tempestivo intervento avrebbe evitato l’anossia celebrale’’. Ma, questi dati non sono stati indicati allorché la sentenza se ne è occupata e l’indicazione — e l’esame critico — degli stessi è imprescindibile trattandosi dell’indicazione della legge, statistica, di copertura, indicazione, dunque, la cui mancanza impone l’annullamento con rinvio, potendo quei dati non riportati essere tali o essere motivatamente ritenuti tali da far cogliere il nesso di condizionamento con probabilità vicina a cento o vicina alla certezza o potendo non essere tali con tutte le necessarie, ineludibili, conseguenze. E) È il caso di porre in evidenza, sempre in tema di rapporto di causalità, che il ‘‘Progetto preliminare di riforma del codice penale’’, elaborato dalla ‘‘Commissione ministeriale per la riforma del codice penale istituita con d.m. 1o ottobre 1998’’, dispone nell’art. 13, dedicato al rapporto di causalità, che ‘‘nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se la sua azione od omissione non è condizione necessaria dell’evento da cui dipende l’esistenza del reato’’ e, nell’art. 14, dove si interessa della causalità nei reati omissivi, che ‘‘non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, se il compimento dell’attività omessa avrebbe impedito con certezza l’evento’’. L’uso delle locuzioni ‘‘condizione necessaria, con certezza’’ dice con chiarezza che le premesse dalle quali muove il progetto, in tema di rapporto di causalità, sono esplicitamente quelle che si sono dianzi riassunte, premesse che la dottrina ha formulato in relazione alle norme, sul rapporto di causalità, del vigente codice, premesse che la ‘‘Relazione’’, che accompagna il Progetto, ribadisce con una serie di osservazioni che meritano di essere riportate per la loro valenza anche a prescindere dal Progetto, il quale, peraltro, non si discosta troppo dal testo del codice penale Rocco, al fine di sottolineare la continuità con una tradizione normativa consolidata ed idonea a fondare applicazioni corrette’’, come la Relazione scrive sub 2/2. La Relazione, dopo aver premesso che ‘‘il tema del rapporto di causalità, che per ragioni di tempo non era stato affrontato nella prima fase dei lavori, ha costituito oggetto di una discussione particolarmente ampia da parte della Commissione’’, così prosegue. ‘‘La Commissione ha, innanzitutto, preso atto che la causalità, ed in particolare il modello nomologico-deduttivo, integrato dalla leggi di copertura, sta attraversando una fase critica. Vi sono, infatti, materie in cui l’erosione da parte della
— 287 — giurisprudenza di tale paradigma causale appare evidente e con riferimento, alle quali tende ad affermarsi una ricostruzione della causalità ancorata a fattori di tipo prognostico-probabilistico, se non addirittura consistente nella rilevazione del rischio o dell’aumento del rischio connesso all’esercizio di una determinata attività’’. ‘‘Ciò si verifica, ad esempio, in settori quali: a) l’attività medica, dove, a fronte della pluralità dei fattori causali che sembrerebbero entrare in gioco, lo strumento statistico e l’epidemiologia sono spesso diventati indicatori decisivi agli effetti della rilevazione del rapporto causale; b) le alterazioni ambientali, in cui gli eventi (in genere macro-eventi) dipendono da una serie di condotte e situazioni, spesso difterite nel tempo e concorrenti con fenomeni naturali, con riferimento alle quali risulta difficile risolvere il problema causale limitandosi a richiedere se non aver tenuto una di quelle condotte avrebbe evitato l’evento nelle dimensioni verificatesi; c) la fenomenologia del danno da prodotto, nei cui confronti è ricorrente l’impossibilità di identificare con certezza, o anche soltanto con elevata probabilità, quale sia stato il fattore produttivo di nocumento’’. ‘‘La giurisprudenza, che si sta orientando verso ricostruzioni della causalità centrate su mere rilevazioni di tipo probabilistico, o su mere correlazioni condotta-rischio (o aumento del rischio), coglie un aspetto sicuramente importante della società moderna, sempre più caratterizzata da attività complesse, professionalizzate, che presuppongono un alto livello di organizzazione, all’interno delle quali non è molto volte agevole provare rigorosamente l’esistenza di un rapporto di condizionalità necessaria. In questo senso essa risponde alla esigenza di rafforzare la tutela penale in materie che coinvolgono beni giuridici di rilevante spessore (vita, salute, ambiente), introducendo una flessibilità applicativa delle norme sulla causalità che consentono di raggiungere livelli di intervento penale altrimenti impensabili in ragione della difficoltà della prova’’. ‘‘Il costo di scelte di questo tipo è, tuttavia elevato sul terreno della salvaguardia del principio di legalità e di tipicità delle fonti di responsabilità penale, rischiando, nei casi più macroscopici di attentare al principio di personalità della responsabilità penale’’. ‘‘Come è stato giustamente rilevato, mentre la causalità ricostruita con il ricorso a leggi di copertura e ancorata al metodo dell’accertamento nomologico-deduttivo, svolge un’importante funzione delimitativa della punibilità, consentendo di selezionare, nell’ambito delle fattispecie casualmente orientate, le condotte tipiche, il superamento di questo modello allarga la sfera di applicabilità del precetto, attraendo nella sua orbita anche eventi che non possono essere ritenuti, dal punto di vista logico-scientifico, conseguenza della condotta’’. ‘‘Il principio di tassatività-determinatezza e il principio di personalità della responsabilità, che conformano il sistema penale anche a livello di enunciato costituzionale, impongono pertanto di salvaguardare la funzione selettiva del nesso di causalità e di formulare una disciplina per quanto possibile tassativa’’. ‘‘La soluzione proposta risulta ispirata ai seguenti criteri: — prevedere come principio cardine che ‘nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se la sua azione od omissione non è condizione necessaria dell’evento da cui dipende l’esistenza del reato’: si tratta sostanzialmente della enunciazione del principio della conditio sine qua non, già enunciato nel comma 1 dell’art. 40 c.p. Rocco, qualificato dal riferimento al concetto
— 288 — di condizione necessaria (sostanzialmente conforme il progetto Riz, che con espressione un po’ ridondante parla di ‘condizione indispensabile e necessaria’); — separare, in ragione dell’evidente diversità di struttura e dell’opportunità di formulare una disciplina specifica che tenga conto delle sue peculiarità, la c.d. causalità nei reati omissivi rispetto alla causalità materiale dei reati di azione, pur sottolineando, nel comma 1 dell’art. 13 che in entrambi i casi il profilo di condizionalità necessaria costituisce requisito indispensabile’. [...]’’. ‘‘Enunciata la disciplina del rapporto causale nei termini sopra menzionati, la Commissione sottolinea che essa, ponendosi in continuità con la tradizione, intende contrastare le tendenze a forzare il criterio della condizione necessaria e ad eludere le esigenze di rigoroso accertamento del nesso causale relativamente all’evento in concreto verificatosi. La Commissione è ben consapevole che tali tendenze si sono manifestate con riguardo a materie in cui sono in gioco esigenze di tutela di beni fondamentali (per es., la salute); ma, ritiene che, di fronte a fenomeni che non si prestino ad essere ricondotti ad un modello verificabile di causalità, strumenti di tutela adeguati vadano ricercati sul terreno della parte speciale: si pensi, in proposito, alla possibile introduzione di specifici e sufficientemente tipizzati ‘delitti di rischio’ ’’. ‘‘Sul problema della causalità nei reati omissivi, la Commissione ha ritenuto di dovere proporre una formulazione che, pur muovendosi nel solco del vigente art. 40 cpv., comporta una meditata presa di distanza dall’interpretazione che ne è data dalla giurisprudenza prevalente’’. ‘‘Secondo l’art. 14 ‘non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, se il compimento dell’attività omessa avrebbe impedito con certezza l’evento’ [...]’’. ‘‘L’aggiunta apportata al vigente dettato normativo ha funzione restrittiva rispetto all’indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’omissione antidoverosa sarebbe causale quando l’impedimento dell’evento si sarebbe ottenuto con un grado di probabilità apprezzabile, anche lontano dalla certezza. La Commissione è ben consapevole che tale ultimo indirizzo risponde ad esigenze condivisibili di reazione contro inadempimenti colpevoli anche gravi, ma ritiene che una soluzione che rinunciasse al requisito dell’impedimento certo si porrebbe in contrasto non semplicemente con il criterio della condizione necessaria, ma, soprattutto, con il principio di personalità della responsabilità (per l’atteggiamento critico nei confronti della sopra menzionata giurisprudenza è significativo il parere formulato dalla Commissione della Procura Generale)’’. ‘‘Senza la certezza dell’effetto impeditivo (s’intende, quella probabilità confinante con la certezza che può ragionevolmente raggiungersi) è, infatti, logicamente contraddittorio attribuire all’omissione, ancorché antidoverosa, il valore di condizione sine qua non dell’evento, non potendosi escludere che l’evento si sarebbe verificato anche se l’azione doverosa omessa fosse stata compiuta. In tal caso sarebbe, per l’omittente, un fatto altrui, che non può essere ascritto a suo carico pena la violazione dell’art. 27 Cost.’’. F) Come si è già accennato, non sembra possa dubitarsi che le proposizioni della Relazione valgano, oltre che de jure condendo, de jure condito, consentendo — anzi, potrebbe dirsi, imponendo con il suo rigore — la ricerca scientifica di interpretare le norme, sul rapporto di causalità, del vigente codice nel senso che la
— 289 — condotta deve essere condizione necessaria dell’evento ed essendo innegabile che la filosofia della scienza, la logica e il diritto esigano che, in tanto il giudice può affermare il rapporto di causalità, anche nei reati omissivi, in quanto — pena anche il rinnegamento del principio di personalità della responsabilità — abbia accertato che, con probabilità vicina alla certezza, con probabilità vicina a cento, quella condotta, azione od omissione, è stata causa necessaria dell’evento come verificatosi hic et nunc. (Omissis). III MOTIVI DELLA DECISIONE (Omissis). — Premesso che non v’è alcun dubbio che il giudice, anche nella causalità omissiva, deve accertare il rapporto causale avvalendosi di una legge di copertura, scientifica o statistica, che gli consenta di ritenere, grazie al giudizio controfattuale, che una certa condotta-omissione è causa di un determinato evento con una probabilità vicina alla certezza, vicina a cento, non v’è chi non veda che la locuzione vicina alla certezza corrisponda alla locuzione quasi cento. È sufficiente, infatti, scorrere il dizionario per cogliere che, se vicino significa poco discosto, poco lontano, quasi vuol dire poco meno che, per pochissimo, poco manca ed è davvero impossibile non rendersi conto che i due significati sono sovrapponibili, si equivalgono. La Corte, dunque, non ha lasciato trasparire alcun dubbio, ma si è servita di quel quasi, equivalente all’aggettivo vicino, per porre in risalto che, sul piano scientifico, e, quindi, sul piano giuridico, il rapporto di causalità si costruisce non in termini di una scientificamente irraggiungibile certezza, ma in termini di quasi certezza, non in termini di coefficienti percentualistici pari a cento, ma in termini di elevati coefficienti percentualistici, di coefficienti percentualistici vicino a cento, poco meno di cento. E la Corte si è espressa in quel modo recependo quanto affermato dai periti, i quali [...] avevano anche detto che un tempestivo ricovero in ospedale avrebbe consentito, in via di grande probabilità, di migliorare notevolmente la prognosi del paziente ed è innegabile sia che grande probabilità e alto grado di probabilità — espressione, quest’ultima, usata più volte dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte — significhino la stessa cosa, sia che alto grado di probabilità voglia dire probabilità vicino a cento, quasi cento. (Omissis).
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Causalità attiva e causalità omissiva: tre rivoluzionarie sentenze della giurisprudenza di legittimità.
1. Tre rivoluzionarie sentenze della Corte di Cassazione chiudono il cerchio sulla causalità portando a compimento un percorso durato un decennio e inaugurato con la nota sentenza sul disastro di Stava del 1990: i giudici di legittimità sanciscono l’identità strutturale tra causalità omissiva e causalità attiva e riconoscono che la spiegazione statistica del singolo evento lesivo, basata sul modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, presuppone, anche nella causalità omissiva, ‘‘una legge statistica con un coefficiente percentualistico vicino a cento e deve sfociare
— 290 — in un giudizio sul nesso di condizionamento di alta probabilità logica o di elevata credibilità razionale, dove alta ed elevata stanno ad indicare un giudizio che si avvicina al massimo alla certezza’’. La Suprema Corte raggiunge, allora, ‘‘in un sol colpo’’ tre fondamentali risultati tra loro strettamente connessi: innanzitutto, ridimensionare la dottrina prevalente, legata alla visione della causalità omissiva come causalità ‘‘non vera’’, ipotetica o in senso normativo; in secondo luogo, chiarire a quali condizioni il giudice può considerare adeguata una spiegazione statistica e quale deve essere il contenuto della legge statistica su cui si basa la spiegazione; infine, superare il contrasto giurisprudenziale il quale, soprattutto in tema di responsabilità medica, ha portato a quattro diversi orientamenti che spaziano, nelle ipotesi di causalità omissiva, dalla concreta elusione dell’accertamento causale surrogato dal riscontro della sola posizione di garanzia, al superamento della teoria condizionalistica in nome di un criterio di puro aumento del rischio; dalla pretesa di esigere un’inarrivabile certezza, all’accettazione anche della mera possibilità o probabilità che il compimento dell’azione doverosa avrebbe impedito l’evento (1). Nel raggiungere questi tre risultati la Corte non fa mistero di aderire integralmente all’impostazione data al problema causale da Stella, le cui parole sono costantemente riportate nelle tre sentenze (2). Il segnale, dunque, di voler rinnovare quel dialogo tra la prassi giudiziaria e l’elaborazione teorica che sembrava ormai compromesso (3): ‘‘il giudice’’, scrive, infatti, la Corte, ‘‘non può non tener conto, nell’esaminare le fattispecie concrete, dei migliori esiti della ricerca scientifico-giuridica, di quegli esiti la cui applicazione alla fattispecie in esame assicuri, al maggior livello possibile, il rispetto dei principi di tassatività e di stretta legalità’’ (4). Andiamo, allora, ad analizzare, nello specifico, queste sentenze e a ripercorrere, attraverso le illuminanti parole della stessa Cassazione e della ‘‘elaborazione teorica’’ cui essa fa riferimento, il tormentato iter giurisprudenziale e dottrinale sul nesso causale tra omissione ed evento. 2. Accennavamo in apertura alla sentenza del 1990 sul disastro di Stava la quale, esplicitamente richiamata dalle tre pronunce che qui si annotano, ha effettivamente rappresentato, per l’interpretazione dell’art. 40 c.p., la ‘‘svolta copernicana della giurisprudenza’’ (5). Questa pronuncia accoglie, infatti, integralmente il pensiero di quella dottrina che, dal lavoro di Stella del 1975, aveva riconosciuto (1) Per questa giurisprudenza si veda di recente STELLA, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, Padova, 1999, sub art. 40, p. 132 ss.; FIORI, Medicina legale della responsabilità medica, Milano, 1999, p. 598 ss.; PARODI, NIZZA, La responsabilità penale del personale medico e paramedico, Torino, 1996, p. 172 ss.; BARNI, Il giudizio medico-legale della condotta sanitaria omissiva, in Riv. it. med. leg., 1994, p. 3; ID., Dalla valorizzazione scientifica alla vaporizzazione giurisprudenziale del nesso causale, ivi, 1995, p. 1021 ss.; PALIERO, La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, ivi, 1992, p. 821 ss.; FINESCHI, Responsabilità medica per omissione: malintesi e dubbi in tema di nesso di causalità materiale, nota a Cass. 20 ottobre 1999, ric. Casaccio, ivi, 2000, p. 278; GIACONA, Sull’accertamento del nesso di causalità tra colposa omissione di terapia da parte del medico e la morte del paziente, nota a Cass. 12 luglio 1991, ric. Silvestri, in Foro it., 1992, II, c. 363. (2) Si vedano STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1975; ID., La nozione penalmente rilevante di causa, in questa Rivista, 1988, p. 1217 ss., entrambi i lavori oggi in ID., Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, 2a ed., Milano, 2000; ID., Rapporto di causalità (voce), in Enc. giur., vol. XV, 1991; ID., in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, cit., p. 132 ss.; ID., Clinica medica e processo penale: la spiegazione causale di singole malattie, in Riv. it. med. leg., 1999, p. 475 ss. (3) Si vedano, sui limiti di comunicazione tra dottrina e giurisprudenza, gli autorevoli contributi in AA.VV., Le discipline tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale (a cura di Stile), Napoli, 1991. (4) Cass. 28 settembre 2000, ric. Baltrocchi. (5) Così STELLA, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, cit., p. 139.
— 291 — il ruolo insostituibile della conditio sine qua non da individuare attraverso il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche (6). In questa sentenza i giudici di legittimità presero le mosse proprio dal quesito, ‘‘lasciato irrisolto’’ dal legislatore, di quali siano le condizioni che autorizzano a ritenere un certo evento conseguenza dell’azione. Quesito risolto, pressoché unanimemente (7), dalla dottrina con la formula della conditio sine qua non, ossia, con quel procedimento di eliminazione mentale attraverso il quale potrà dirsi che un’azione è condizione necessaria dell’evento se non può essere eliminata senza che l’evento venga meno. Ma è chiaro, rilevava la Corte, che questo processo di eliminazione mentale può essere compiuto solo in quanto ‘‘si sappia in antecedenza, che da una certa azione scaturisce o non scaturisce un certo evento’’, solo in quanto, quindi, possa ricorrere ‘‘non ad individualizzazioni, alla ricerca, cioè, della causa caso per caso, senza riferimento a criteri di generalizzazione, sibbene, in ossequio al principio di stretta legalità o tassatività, facendo ricorso al modello, generalizzante, della sussunzione sotto leggi scientifiche’’. Secondo tale modello, allora, continuava la Corte, ‘‘un antecedente può essere configurato come condizione necessaria solo a patto che esso rientri nel novero di quegli antecedenti che, sulla base di una successione regolare conforme ad una legge dotata di validità scientifica — la c.d. legge generale di copertura — portano ad eventi del tipo di quello verificatosi in concreto’’ (8). D’altra parte, come si diceva, questa era una conclusione obbligata se non altro alla luce della nostra Carta costituzionale: ‘‘poiché il nesso di causalità è un requisito di fattispecie, esso non può essere configurato in modo tale da restare del tutto indeterminato, o da risultare determinabile di volta in volta dal giudice in base ad il suo imperscrutabile apprezzamento: lo vieta il principio costituzionale di legalità-tassatività della fattispecie’’ (9). Certo, il giudice per compiere tale procedimento non deve necessariamente far uso di leggi universali, le quali ‘‘sono in grado di affermare che la verificazione di un evento è invariabilmente accompagnata dalla verificazione di un altro evento’’, ma può legittimamente servirsi anche di leggi statistiche, le quali ‘‘si limitano ad affermare che il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro evento soltanto in una certa percentuale di casi’’ (10). Ma di quali leggi statistiche può servirsi il giudice, qual è il coefficiente percentualistico che rende utilizzabile la legge statistica nel processo penale? Interrogativo cruciale questo che troverà risposta nelle tre sentenze che si commentano. La Corte del 1990 si limita, infatti, a scrivere che queste leggi statistiche ‘‘sono tanto più dotate di validità scientifica quanto più possono trovare applicazione in un numero sufficientemente alto di casi’’, incorrendo, però, in tal (6) Oltre ai lavori di STELLA citati alla nota 2, si vedano, per tutti, ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 1987, sub art. 40, p. 319 ss.; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale. Parte generale, 2a ed., 1989, p. 179 ss; MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, 2a ed., Milano, 1988, p. 176. (7) Si veda per le obiezioni all’uso della conditio sine qua non e per il relativo ridimensionamento STELLA, La nozione penalmente rilevante di causa, cit., p. 1230 ss.; e oggi ID., Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano, 2001, p. 210 ss. (8) Cass. 6 dicembre 1990, ric. Bonetti, in Foro it., 1992, II, c. 45 ed in Cass. pen., 1992, p. 2726 (nelle note successive si farà riferimento alla prima pubblicazione). (9) STELLA, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, cit., p. 136; negli stessi termini ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, 2a ed., Milano, 1995, sub art. 40, pp. 346-347; e le sentenze che si annotano. (10) Cass. 6 dicembre 1990, ric. Bonetti, cit., c. 45. La Corte si è dimostrata, quindi, consapevole della distinzione tra un modello di spiegazione nomologico-deduttivo ed un modello statistico-induttivo, su cui STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale, cit., p. 380 ss.; con rinnovate riflessioni si veda oggi ID., Giustizia e modernità, cit., p. 303 ss.; di recente, su questo punto, si veda l’autorevole intervento di AGAZZI, La spiegazione causale di eventi individuali (o singoli), in questa Rivista, 1999, p. 400 ss.
— 292 — modo, in un fraintendimento: la Corte, infatti, aveva confuso il concetto di validità scientifica con il potere esplicativo della legge, con il ‘‘numero sufficientemente alto di casi’’, cioè, in cui trova applicazione la legge statistica (11). Ai giudici di Stava era, in ogni modo, chiaro che la spiegazione causale fornita del giudice non può essere sempre una spiegazione deduttiva ‘‘che implicherebbe un’impossibile conoscenza di tutti i fatti e di tutte le leggi pertinenti’’, ma implica, viceversa, la necessità di ricorrere ‘‘ad una serie di assunzioni nomologiche tacite e dare per presenti condizioni iniziali non conosciute o soltanto azzardate’’. La Corte concludeva, quindi, affermando che il giudice, ‘‘avvalendosi del modello della sussunzione sotto leggi statistiche — ove non disponga di leggi universali — dirà che è probabile che la condotta dell’agente costituisca, coeteris paribus, una condizione necessaria dell’evento, probabilità che altro non significa se non probabilità logica o credibilità razionale, probabilità che deve essere di alto grado, nel senso che il giudice dovrà accertare che, senza il comportamento dell’agente, l’evento non si sarebbe verificato, appunto, con alto grado di probabilità’’. I giudici hanno, quindi, fatta propria la fondamentale distinzione tra probabilità statistica e probabilità logica: la prima limitata al coefficiente percentuale nella successione tra eventi, la seconda estesa, per usare le parole di Carnap, ‘‘al grado di fiducia che può essere attribuito all’ipotesi esplicativa formulata, rispetto all’evidenza disponibile ed alle pertinenti assunzioni nomologiche’’ (12). Sulla stessa scia i giudici di legittimità e di merito facevano poi seguire una serie ininterrotta di sentenze, che finirono per consolidare definitivamente tale orientamento (13). Ma due questioni, allora, non esplicitamente affrontate dalla sentenza di Stava rimanevano ancora da risolvere: innanzitutto, se le conclusioni appena esposte, pacifiche ormai per la causalità attiva, valessero integralmente anche per la causalità omissiva, come sembra richiedere lo stesso art. 40, comma 1, c.p., per il quale l’evento deve essere conseguenza dell’azione o dell’omissione; in secondo luogo, come accennato, quale fosse, veramente, il coefficiente percentualistico che attribuisce alla legge statistica potere esplicativo nel contesto del processo penale e che permette al giudice di approdare ad un giudizio di ‘‘alta probabilità logica’’. Proprio a tali quesiti la Cassazione ha oggi risposto con straordinaria completezza. 3. Eppure, è bene notarlo, il ‘‘punto di vista’’ della dottrina prevalente era ben diverso da quello poi prescelto dalla Cassazione (14). Innanzitutto per un argomento logico-concettuale: mentre nei reati commissivi, si dice, vi è un nesso di derivazione effettivo tra dati reali del mondo esterno, tra un’azione e la modificazione del mondo esterno, nei reati omissivi, non è riscontrabile un impiego di forze, di energie materiali, dal momento che ex nihilo, nihil fit: ‘‘la condotta omissiva non può produrre alcun risultato, perché essa non ha consistenza materiale’’ (15). (11) Per queste osservazioni si veda STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 188. (12) Su tale differenza e sullo scritto di CARNAP (I fondamenti filosofici della fisica, trad. it., Milano, 1971, p. 52 ss.), si veda ampiamente STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, cit., p. 366 ss.; AGAZZI, La spiegazione causale di eventi individuali (o singoli), cit., p. 400 ss. (13) Oggi raccolte nella 2a ed. di STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale, cit., p. 415 ss. (14) Nelle diverse posizioni si vedano i lavori di GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, p. 384 ss.; MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, 3a ed., Padova, 1992, p. 190 ss.; FIANDACA, Causalità (rapporto di), in Dig. disc. pen., 1988, vol. III, p. 126 ss.; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale. Parte generale, 3a ed., Bologna, 1995, p. 539; PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, 6a ed., Milano, 1998, p. 360 ss.; CONTENTO, Corso di diritto penale, 2a ed., Bari, 1995, vol. II, p. 82 ss. (15) Così, anche di recente, PADOVANI, Diritto penale, 5a ed., 1999, p. 173.
— 293 — L’accertamento del nesso causale non può, allora, secondo questi autori, sottostare allo stesso procedimento: non avendo l’omissione un’effettiva efficacia causale e trattandosi, quindi, di spiegare un evento alla luce di un non fare, del mancato compimento, cioè, dell’azione doverosa, l’accertamento assume un carattere ipotetico o prognostico, ‘‘fuori dalle reali connessioni di natura fenomenica’’ (16), dovendo il giudice appurare se il compimento dell’azione doverosa omessa avrebbe impedito l’evento. Prendendo le mosse, poi, dal carattere ipotetico dell’accertamento tale dottrina arriva alla conclusione che nell’accertamento del nesso causale tra omissione ed evento ‘‘non si possa raggiungere lo stesso livello di rigore esigibile’’ nell’accertamento della causalità attiva, per cui, conseguentemente sarebbe sufficiente richiedere che ‘‘l’azione doverosa, supposta come realizzata, sarebbe valsa ad impedire l’evento con una probabilità vicino alla certezza’’ (17). Il contrasto dottrinale si è, però, inevitabilmente tradotto in incertezza giurisprudenziale, che soprattutto sul terreno paradigmatico della responsabilità medica, ha prodotto, come accennato in apertura, quattro differenti orientamenti, mentre, in particolare, la formula della ‘‘probabilità vicina alla certezza’’, ha finito per avallare nella prassi l’affievolimento del grado di certezza esigibile per imputare l’evento all’omissione dell’agente. D’altronde, ciò era forse prevedibile: ‘‘nel lessico, [...] che è proprio della scienza giuridica, questa formula in apparenza rigoristica corrisponde alla probabilità tout court, per tradursi poi addirittura, nella giurisprudenza, in mera possibilità, a causa dell’assenza di parametri scientificamente fondati di quantificazione della probabilità stessa’’ (18). 4. Le tre sentenze che qui si commentano rispondono ‘‘punto su punto’’ a tali argomenti ed alle incertezze della giurisprudenza. Innanzitutto sulla natura ‘‘reale’’ della causalità omissiva, per illustrare la quale la Corte si giova dell’impostazione proposta da Stella, attraverso la rilettura della teoria causale del filosofo Carnap (19): ‘‘in una visione moderna della causalità’’ scrive la Corte ‘‘le entità che entrano in relazione di causa ed effetto non sono forze od energie materiali, ma processi o eventi, sicché, se ciò è vero, bisogna includere tra quelle entità anche i processi statici [...] con la conseguenza che, nella relazione di causa ed effetto, entra anche l’omissione, il non-fare, che una condizione statica è pur sempre una condizione’’ (20). Il concetto di processo ricomprende, quindi, non solo componenti dinamiche, ma anche componenti statiche ed è questo processo che entra nelle relazioni di causa ed effetto. Raggiunto tale risultato sarebbe stato un non senso continuare a sostenere la diversità strutturale della causalità attiva dalla causalità omissiva. Ed, infatti, la Corte scrive che il procedimento per accertare se una condizione statica, un’omissione, è condizione necessaria di un evento è assolutamente identico a quello in caso di azione. ‘‘Identico è, infatti, l’oggetto della spiegazione: un avvenimento del (16) FIANDACA, Causalità (rapporto di), cit., p. 127. (17) FIANDACA, Causalità (rapporto di), cit., p. 127; nello stesso senso FIANDACA, MUSCO, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 442. Di diverso avviso, però, sul punto GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 397. (18) PALIERO, La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, cit., p. 821 ss.; e l’editoriale di BARNI, Il giudizio medico-legale della condotta sanitaria omissiva, cit., p. 3 ss. (19) STELLA, La nozione penalmente rilevante di causa, cit., p. 1251 ss.; CARNAP, I fondamenti filosofici della fisica, cit., p. 237. (20) Cass. 28 settembre 2000, ric. Baltrocchi; Cass. 29 ottobre 2000, ric. Musto; testualmente STELLA, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, cit., pp. 143-144; ID., La nozione penalmente rilevante di causa, cit., p. 1249; conforme sul punto anche ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, cit., 2a ed., sub art. 40, p. 350; PALIERO, La causalità nell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, cit., p. 839.
— 294 — passato; identico il giudizio che si deve compiere per individuare la condizione necessaria: il giudizio controfattuale o ipotetico teso ad appurare se, senza la condotta attiva od omissiva, l’evento si sarebbe o non si sarebbe verificato; identico il procedimento da impiegare, in via strumentale, per compiere il giudizio controfattuale: una spiegazione legata all’oggettivo sapere scientifico, che consenta di ricollegare l’evento lesivo ad un insieme di condizioni empiriche antecedenti, variabili o statiche; identica la struttura probabilistica della spiegazione offerta e identico perciò il carattere probabilistico dell’enunciato esplicativo’’ (21). D’altra parte, a conferma della bontà di simili argomenti, la stessa Corte nota che alle medesime conclusioni, sul ricorso indefettibile della conditio sine qua non secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche anche per la spiegazione del nesso tra omissione ed evento, era giunta anche parte di quella dottrina che negava l’identità logica e concettuale tra causalità attiva e causalità omissiva, la quale dimenticava, però, che anche nella causalità attiva la condizione necessaria deve essere individuata attraverso un giudizio controfattuale, quindi, ipotetico (22). 5. Rimane da affrontare il nodo problematico di quali siano le condizioni a cui il giudice può considerare adeguata una spiegazione statistica e quale deve essere il contenuto della legge statistica su cui si basa la spiegazione del legame causale tra omissione (o azione) ed evento. Abbiamo visto come anche la sentenza di Stava abbia definitivamente sancito che — stante il fatto che la maggior parte delle leggi scientifiche sono leggi statistiche e che il giudice, non potendo conoscere tutte le leggi e gli antecedenti necessari, dovrà ricorrere all’utilizzo di assunzioni tacite ed alla clausola coeteris paribus — la spiegazione sul nesso di condizionamento ha, il più delle volte, struttura probabilistica. Non può essere, quindi, deduttivamente certa, ma deve essere, comunque, dotata di ‘‘alta probabilità logica’’ o ‘‘credibilità razionale’’. Ma quale deve essere il coefficiente percentualistico che autorizza il giudice ad utilizzare la legge statistica per la spiegazione causale? La sentenza di Stava, come detto, non aveva risposto a tale quesito. I giudici della Cassazione oggi rispondono, invece, senza esitazioni, utilizzando il frutto del pensiero epistemologico contemporaneo sulla spiegazione statistica degli eventi: ‘‘in tanto il giudice può affermare che una azione od un’omissione sono state causa di un evento, in quanto possa effettuare il giudizio controfattuale avvalendosi di una legge o di una proposizione scientifica che enunci una connessione tra eventi in una percentuale vicino a cento’’ (23). Ed in effetti, la Corte ripercorre un sentiero già tracciato con sicurezza dai filosofi della scienza. Se, infatti, può parlarsi di causalità solo in presenza di un nesso necessario e se solo una legge universale può esprimere una necessità, è evidente, scrive anche di recente Agazzi, che ‘‘una legge statistica, proprio perché (21) Cass. 28 settembre 2000, ric. Baltrocchi; STELLA, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, cit., p. 144; ID., La nozione penalmente rilevante di causa, p. 1255; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, cit., 2a ed., sub art. 40, p. 350, per il quale, nonostante ‘‘l’innegabile diversità della condizione iniziale’’ (condizione statica), nell’accertamento del nesso causale nei reati omissivi valgono le ‘‘medesime regole fondamentali viste per la causalità attiva’’; PALIERO, La causalità nell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, cit., p. 839 ss., il quale concorda con questa impostazione: ‘‘si tratta di due modelli identici, perché entrambi basati su di un controfattuale’’, giungendo, però, a individuare una ‘‘peculiarità’’ del paradigma condizionalista omissivo nella sua ‘‘doppia ipoteticità’’. (22) La Corte cita testualmente il pensiero della 3a ed. di FIANDACA, MUSCO, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 540; si vedano anche GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 392; FIANDACA, Causalità (rapporto di), cit., p. 126. (23) Cass. 28 settembre 2000, ric. Baltrocchi; Cass. 29 ottobre 2000, ric. Musto.
— 295 — ammette eccezioni, già indica di per sé l’assenza di necessità ed il minimo che si possa esigere’’, per poter stabilire l’imputazione causale dell’evento, ‘‘è che essa sia vicinissima all’universalità, ossia che la frequenza relativa che essa esprime sia vicinissima a 1’’ (24). Non è difficile, anche in questa parte della motivazione, rintracciare il pensiero di Stella, che, argomentando dai lavori di Hempel (25), Carnap (26), Pasquinelli (27), aveva, infatti, concluso che un giudizio provvisto di rilevanza esplicativa può essere raggiunto solo a condizione che ‘‘una legge scientifica enunci una connessione tra eventi in un’alta percentuale di casi, in una percentuale di casi vicina a cento’’ (28). E si badi: questa conclusione diventa oggi l’unica accettabile non solo alla luce dei principi di tassatività e stretta legalità, già evidenziati dalla Corte, ma, soprattutto, del criterio di giudizio che deve immancabilmente essere proprio del giudice penale: la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Tale regola, ‘‘barriera al libero convincimento del giudice’’ e ‘‘protezione dei valori di immensa portata posti in gioco nel processo penale’’, è stata di recente posta in luce proprio da Stella, il quale ha evidenziato come essa, dimenticata dal legislatore e dalla giurisprudenza italiana, abbia, in realtà, profonde radici nella coscienza dell’uomo occidentale, nonché una precisa vigente dimensione positiva nel nostro ordinamento per il tramite delle fonti internazionali e della stessa Carta costituzionale (essendo, tra l’altro, una diretta conseguenza applicativa della presunzione di non colpevolezza, della funzione della pena e della personalità della responsabilità penale) (29). Non stupisce, allora, che, anche senza farne esplicita e formale menzione, la Cassazione ne abbia fatta concreta applicazione. L’apertura che il giudice fa all’utilizzo delle leggi statistiche è, allora, determinata dalla sua particolare prospettiva, dal ‘‘contesto’’ del processo ed è limitata dalle funzioni e dalle regole del processo stesso. Possiamo, dunque, accettare che vengano emesse sentenze di condanna che utilizzino una legge statistica purché il coefficiente percentualistico della legge statistica utilizzata sia ‘‘vicinissimo a uno’’ (30). Naturalmente non basta l’utilizzo di una legge statistica ‘‘quasi universale’’: è sempre valida la conclusione, anche della sentenza sul disastro di Stava, in ordine alla distinzione tra probabilità logica e statistica. Ed infatti la Corte non manca di precisare che il giudice, utilizzando una legge statistica con un coefficiente percentualistico vicino a cento, comunque deve approdare ad un ‘‘giudizio sul nesso di condizionamento di alta probabilità logica o di elevata credibilità razionale, dove alta ed elevata stanno ad indicare un giudizio che si avvicina al massimo alla certezza’’ (31). In conclusione: solo l’impiego di leggi statistiche ‘‘quasi universali’’ in un giu(24) AGAZZI, La spiegazione causale di eventi individuali (o singoli), cit., pp. 401-402 (corsivo nostro). (25) HEMPEL, Filosofia delle scienze naturali, trad. it., Bologna, 1968, p. 90 ss. (26) CARNAP, I fondamenti filosofici della fisica, cit., p. 19 ss. (27) PASQUINELLI, Nuovi principi di epistemologia, Milano, 1970, p. 102. (28) STELLA, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, cit., p. 143; ID., Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, cit., p. 314 ss. Alla luce del recente lavoro di STELLA, Giustizia e modernità, cit., pp. 180 ss. e 303 ss., il discorso dovrebbe oggi essere arricchito, pur giungendo sul punto alle medesime conclusioni, di nuove argomentazioni tratte dal dibattito dei filosofi della scienza sulla spiegazione degli eventi. (29) Bastino qui questi pochi cenni alla regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, per il cui approfondimento il lettore dovrà fare riferimento alle penetranti pagine che STELLA (Giustizia e modernità, cit., p. 53 ss.) dedica all’argomento. (30) Si veda STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 304 ss. (31) Ancora le stesse parole di STELLA, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, cit., p. 143. Anche per ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, cit., 2a ed., sub art.
— 296 — dizio sul nesso di condizionamento che dovrà risultare conclusivamente vicino al massimo alla certezza, permette, allora, di verificare se davvero l’imputato ha posto in essere, oltre ogni ragionevole dubbio, la conditio sine qua non dell’evento (32): l’impiego di una legge statistica con minori coefficienti percentualistici lascerebbe, per definizione, dei dubbi più che ragionevoli, come d’altronde tali dubbi residuerebbero anche se, adottata una legge statistica ‘‘quasi universale’’, comunque la spiegazione complessiva dell’evento fosse priva di alta (= che si avvicina al massimo alla certezza) probabilità logica o credibilità razionale. 6. Cosa rimane ‘‘in piedi’’, allora, della tormentata giurisprudenza, dei quattro diversi orientamenti sulla casualità omissiva? Ben poco, potremmo dire. Infatti i giudici, nelle sentenze che si commentano, non perdono l’occasione di affermare che la giurisprudenza deve dare addio a ‘‘due pretese antitetiche’’: quella ‘‘di approdare alla formulazione di giudizi di certezza’’ e quella di poter ‘‘basare l’accertamento del nesso di condizionamento tra omissione ed evento su dei giudizi di mera possibilità, su serie ed apprezzabili possibilità di successo’’ (33). La prima pretesa è ‘‘chiaramente utopistica’’: come già aveva messo in luce la sentenza di Stava, al giudice può essere richiesto solo un ‘‘giudizio provvisto di alta probabilità logica o elevata credibilità razionale o quasi certezza’’ (34). La seconda pretesa è, invece, ‘‘decisamente insostenibile’’. I giudizi di mera possibilità, scrive la Corte, ‘‘sono, infatti, del tutto incompatibili con l’idea stessa di spiegazione dell’evento’’. Il giudice non può spiegare l’evento, rispondere alla domanda del ‘‘perché’’ un evento si è verificato, se non ha a disposizione una legge universale o una legge statistica che enuncia una regolarità nella successione di eventi in una percentuale vicina a cento (35). Solo una tale legge può permettere, infatti, di pervenire ad un giudizio di elevata credibilità razionale sull’esistenza del nesso di condizionamento. Affermando, invece, ‘‘che è possibile che senza l’omissione l’evento non si sarebbe verificato, si dice che forse gli eventi avrebbero potuto seguire un corso diverso, ma non si dà una risposta razionalmente accettabile in misura elevata al perché l’evento si è verificato’’ (36). D’altra parte tutta quella giurisprudenza che fa riferimento ad una generica probabilità o che giunge spesso ad enunciare un determinato tasso di probabilità sembra dimenticare la distinzione, implicitamente effettuata anche dalla sentenza di Stava, tra probabilità statistica e probabilità logica. Se il riferimento è, infatti, 40, p. 351, la spiegazione deve essere effettuata ‘‘con argomentazioni dotate di un elevato grado di credibilità razionale’’. (32) STELLA, Giustizia e modernità, cit., pp. 180 ss. e 304 ss. (33) Cass. 28 settembre 2000, ric. Baltrocchi; Cass. 29 ottobre 2000, ric. Musto. Anche per queste affermazioni e per l’ultima parte della motivazione la Corte fa un testuale riferimento al pensiero di STELLA, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, cit., p. 145. (34) Cass. 28 settembre 2000, ric. Baltrocchi; Cass. 29 ottobre 2000, ric. Musto. STELLA, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, cit., p. 145. (35) ‘‘Una correlazione statistica di bassa frequenza non è assolutamente in grado di stabilire l’imputazione causale dell’evento singolo’’, così AGAZZI, La spiegazione causale di eventi individuali (o singoli), cit., p. 402. (36) Cass. 28 settembre 2000, ric. Baltrocchi; Cass. 29 ottobre 2000, ric. Musto. Vediamo il primo caso sottoposto all’attenzione della Corte. Il dott. B. viene rinviato a giudizio per omicidio colposo con l’accusa di non aver effettuato il ricovero del paziente V., presentatosi in pronto soccorso, e, comunque, per non aver sottoposto V. ai più idonei trattamenti sanitari che ne avrebbero impedito la morte. Condotta certamente negligente quella del dott. B., ma i periti in dibattimento rintracciano una legge di copertura di questo tipo: le cure idonee a fronteggiare una crisi cardio-respiratoria del tipo di quella occorsa al V., con le condizioni di età e di salute dello stesso, hanno esito positivo nel 50% dei casi. È chiaro che in questo caso il giudice non può rispondere alla domanda ‘‘perché è deceduto V.?’’. Può solo affermare che forse è deceduto per mancanza delle dovute cure, forse per altre ragioni e, quindi, anche se le cure fossero state somministrate la morte di V. forse si sarebbe verificata comunque.
— 297 — alla prima diventa razionalmente impossibile, senza una legge statistica con un coefficiente percentualistico vicino a cento, compiere poi un giudizio complessivo di alta probabilità logica o elevata credibilità razionale della spiegazione; mentre se il riferimento è alla seconda è ovvio che la spiegazione del perché si è verificato un evento non è tale, non è una ‘‘spiegazione’’, se limitata al forse, alla mera credibilità razionale, tanto che non è scientificamente effettuabile una quantificazione percentualistica della misura di probabilità logica (37). Piuttosto, queste sentenze sembrano dettate da istanze e finalità incompatibili con i principi fondamentali del nostro ordinamento e con i compiti affidati all’organo giudicante. I giudici, in altri termini, mossi da indubbie difficoltà probatorie, sono indotti a piegare le norme sostanziali, le norme sulla causalità, alle esigenze pratiche del processo e a giustificare tale operazione con presunte ragioni di tutela di beni fondamentali: ‘‘là dove è in gioco la vita umana, anche solo poche possibilità di esito favorevole sono sufficienti per far ritenere la sussistenza del rapporto causale’’, troviamo spesse volte scritto nelle pronunce di legittimità e di merito. Ma in questo modo il giudice si sostituisce al legislatore, violando i principi di tassatività e stretta legalità, e ignora la regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, pretendendo di affievolire la presunzione di non colpevolezza e il principio di personalità della responsabilità penale per esigenze di repressione della criminalità o, come nel nostro caso, di responsabilizzazione della classe medica (38). Non è questo il suo compito: ‘‘ciò che la legge gli impone è di stabilire se le prove presentate dall’accusa, oggettivamente considerate, lasciano spazio a dei dubbi [...]. Se le evidenze scientifiche e le leggi della scienza sono incerte al punto da lasciar sussistere dei dubbi ragionevoli sulla responsabilità dell’imputato, il giudice dovrà prosciogliere’’ (39), a prescindere dalla valutazione dei ‘‘beni in gioco’’ rimessa esclusivamente al legislatore. E si badi: la strada intrapresa dalla Corte con le tre sentenze in esame non conduce certamente a difficoltà insormontabili nell’accertamento del nesso causale tra omissione ed evento e, quindi, a limitazioni di tutela dei beni protetti dal nostro ordinamento giuridico. La terza pronuncia (ric. Di Cintio), infatti, pur affermando gli stessi principi di diritto, arriva a confermare la sentenza di condanna dei giudici di merito: la Suprema Corte ha ritenuto di aderire all’impostazione della Corte d’appello, che, sulla scorta delle risultanze dibattimentali, aveva attribuito l’evento lesivo alla condotta omissiva negligente del sanitario, con un giudizio ‘‘di quasi certezza’’. Mentre la seconda sentenza (ric. Musto) giunge ad un annullamento con rinvio non avendo, i giudici della Corte d’appello, svolto due compiti dichiarati dalla Suprema Corte ‘‘imprescindibili’’: ossia, l’indicazione del coefficiente percentualistico della legge statistica di copertura e l’esame critico dei relativi dati. Per concludere, un’ultima annotazione: la Corte non si limita ad una ricogni(37) STELLA, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, cit., p. 146. (38) Sulla possibilità che questa giurisprudenza trovi spiegazione in istanze di responsabilizzazione della classe medica, si veda GIACONA, Sull’accertamento del nesso di causalità tra colposa omissione di terapia da parte del medico e la morte del paziente, cit., c. 366; BARNI, Il giudizio medico-legale della condotta sanitaria omissiva, cit., p. 12. D’altronde tali inclinazioni giurisprudenziali sembrerebbero ben più generalizzate: « posta dinanzi alla realtà e concretezza del caso specifico, la giurisprudenza tende ad assumersi il compito della difesa dei cittadini e dello Stato (anziché quello della mediazione dei conflitti secondo la legge), in una prospettiva che vede il diritto penale come strumento di difesa secondo la legge), in una prospettiva che vede il diritto penale come strumento di difesa sociale. In quest’ottica viene posta più attenzione alle (ritenute) conseguenze della decisione che al rigoroso rispetto dei principi costituzionali », così STILE, Conclusioni, in AA.VV., Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale (a cura di Stile), cit., p. 287. (39) Per lo sviluppo di tali argomentazioni STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 141 ss.
— 298 — zione del diritto vigente, ma si spinge ad analizzare persino le recenti proposte di riforma del codice penale, elaborate dalla Commissione ministeriale presieduta da Grosso, per notare, come esse siano ben consapevoli dei tentativi di ‘‘erosione del paradigma causale’’ da parte della giurisprudenza, tanto da giungere ad un’ipotesi di modifica dell’attuale art. 40, cpv., c.p. con l’inserimento della specificazione ‘‘se il compimento dell’attività omessa avrebbe impedito con certezza l’evento’’ (40). FRANCESCO CENTONZE Assegnista di diritto penale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
(40) Cass. 28 settembre 2000, ric. Baltrocchi; Cass. 29 ottobre 2000, ric. Musto. Si veda la Relazione, della Commissione ministeriale presieduta da GROSSO, al Progetto preliminare di riforma del codice penale del luglio 2000 consultabile in www.giustizia.it/studierapporti/riformacp/comm—grosso2.htm.
— 299 — d) Giudizi di Merito
TRIBUNALE DI CREMONA (sent.) — 14 ottobre 1999 Giud. Bernazzani — Imp. Lucini Omicidio volontario - Trasmissione del virus HIV - Rapporti sessuali non protetti Consapevolezza del proprio stato di salute e delle modalità di trasmissione del virus - Accettazione del rischio del probabile esito letale dell’eventuale infezione - Dolo eventuale - Sussistenza. Risponde di omicidio volontario a titolo di dolo eventuale il soggetto sieropositivo che, nel quadro di una relazione esclusiva di fidanzamento e, in seguito, di matrimonio, pratica ripetuti rapporti sessuali non protetti con il partner ignaro, nella piena consapevolezza del proprio stato di salute e delle modalità di trasmissione del virus, accettando l’elevato rischio non soltanto del contagio, ma anche del probabile esito letale dell’eventuale infezione (1). MOTIVI DELLA DECISIONE. — (Omissis). — I rilievi che si sono esposti orientano indiscutibilmente per l’individuazione di un preciso nesso causale fra la condotta sessuale dell’imputato e l’evento finale costituito dal decesso di Ethel Corbani in seguito ad Aids conclamata. Sarebbe peraltro scorretto circoscrivere la rilevanza causale della condotta ‘‘a rischio’’ del Lucini ad un solo rapporto sessuale, ossia a quello che determinò la trasmissione del virus HIV ad un soggetto precedentemente sieronegativo, escludendo per converso l’influenza (con)causale dei successivi e plurimi rapporti sessuali non protetti avvenuti nel corso della decennale relazione di coppia. I dati desumibili dalla relazione peritale consentono infatti di ritenere che la continuità dei rapporti ha sicuramente inciso sull’instaurarsi e sull’evoluzione della malattia della Corbani. Invero è un’acquisizione epidemiologica dotata di dignità scientifica quella per cui la reiterazione di comportamenti potenzialmente contagianti in epoca successiva alla prima trasmissione del virus accelerano la progressione negativa del male, codeterminando il peggioramento delle condizioni di salute ed il decesso del soggetto passivo. — (Omissis) — Tale connotazione appare di estrema rilevanza proprio nell’ottica della qualificabilità dell’intera condotta a rischio del Lucini come ‘‘condizione conforme ad una legge di copertura’’, giungendo a stabilire una precisa rilevanza causale — di tipo ‘‘addizionale’’ — di tutti i comportamenti a rischio tenuti dall’imputato, quali condizioni senza le quali l’evento non si sarebbe verificato hic et nunc. Ai fini del giudizio di causalità, invero, rilevano tutti i fattori determinanti un’evoluzione più virulenta della malattia ed una correlativa accelerazione del decesso, anche se non è da escludere che la morte si sarebbe verificata in un momento diverso. Nell’ambito del giudizio causale-condizionalistico, infatti, l’evento non deve essere concepito in una dimensione puramente astratta, ma, come appare corretto, muovendo dalla sua dimensione storico-fattuale e procedendo ad una ridescrizione del medesimo effettuata in modo tale da considerarne tutti gli aspetti ripeti-
— 300 — bili rilevanti: causale sarà così ogni antecedente che, in base ad una legge universale o statistica, sia in grado di spiegare almeno uno di tali aspetti dell’evento reale; ossia, ogni antecedente mancando il quale l’evento non si sarebbe verificato ‘‘qui’’ o non si sarebbe verificato ‘‘ora’’. — (Omissis) — Occorre, invero, indagare un’area contigua a quella appena esplorata. Un utile punto d’avvio possono considerarsi le parole con cui il perito ha suggellato il proprio elaborato: nel rispondere al quesito circa l’idoneità di un tempestivo ed adeguato intervento terapeutico a contrastare il rapido evolversi della malattia contratta da Ethel Corbani, egli ha affermato che ‘‘un tempestivo intervento terapeutico con i farmaci antiretrovirali, in conoscenza della malattia del coniuge, avrebbe efficacemente contrastato il rapido evolversi della malattia di Corbani Ethel, che avrebbe potuto usufruire, nella seconda metà del 1997, di presidi terapeutici innovativi, quali i farmaci antiproteasici, gli stessi di cui il Lucini si sta avvalendo attualmente con sicuro vantaggio’’. Invero le cure cui la Corbani fu sottoposta all’atto della individuazione del fattore infettivo causale, per quanto corrette, non hanno potuto incidere positivamente sulla malattia, essendo il suo decorso ormai avanzatissimo. (Omissis). — Con tali parole fa il suo ingresso il tema, di portata affatto trascurabile, relativo all’esistenza di un obbligo non solo morale, ma altresì giuridico, di informazione fra i coniugi circa l’esistenza di una condizione di sieropositività in capo ad uno di essi, tale da esporre al rischio di infezione il partner. Si tratta di un argomento che possiede rilevantissime ricadute sul piano dell’elemento soggettivo e che, peraltro, trova adeguata collocazione dogmatica anche sul piano della causalità. Il rilievo della questione si spiega agevolmente con la considerazione che il Lucini, anche dopo aver dato l’avvio al processo causale che avrebbe determinato la morte della moglie, e parallelamente ai reiterati comportamenti a rischio che, come si è visto, hanno del pari avuto una concreta influenza sull’eventomorte hic et nunc verificatosi, determinando un’evoluzione assai più rapida della malattia a seguito delle continue cariche virali immesse nell’organismo del coniuge, ha tenuto altresì una condotta di stampo omissivo, contrassegnata dall’aver taciuto alla moglie qualsiasi informazione che riguardasse la propria condizione di soggetto sieropositivo a rischio di contagio e dal non aver posto in essere la benché minima forma di intervento che avrebbe, quantomeno, allungato le aspettative di sopravvivenza della moglie. Sotto un profilo probatorio non v’è il minimo dubbio in ordine all’effettivo contegno del Lucini durante tutto il periodo, pre e postmatrimoniale, in cui si sviluppò la relazione con la Corbani. Assodata la piena conoscenza da parte dell’imputato delle proprie condizioni di soggetto sieropositivo e delle modalità di trasmissione del contagio (dimostrata, fra l’altro, dalle sopra evidenziate dichiarazioni del dott. Dario Benzi, medico dell’ospedale di Crema, del dott. Giorgio Barbarini, del Policlinico S. Matteo di Pavia: dichiarazioni che si riesamineranno funditus allorché si passerà a trattare dell’elemento soggettivo), è stato l’imputato stesso, nel corso del proprio interrogatorio, a confermare la veridicità di quanto la moglie aveva dichiarato ai medici circa la sua mancata conoscenza dello stato del coniuge. Non solo. Dalle dichiarazioni degli stretti congiunti dell’imputato emerge altresì che il Lucini si adoperò attivamente e ripetutamente per impedire che la moglie venisse a conoscenza da altri delle sue condizioni e, quindi, dei rischi che correva. (Omissis). La ricostruzione dell’elemento soggettivo — (Omissis). — Richiamate le osservazioni che precedono in tema di natura del rischio ed affrontando per prima,
— 301 — com’è doveroso, l’indagine in ordine alla componente rappresentativa, va osservato come gli elementi probatori acquisiti dimostrino, in modo univoco e concorde, l’adeguato livello informativo dell’imputato in ordine alla propria infezione da HIV, alle modalità di trasmissione del contagio, con particolare riferimento al veicolo costituito da rapporti sessuali non protetti, alle cautele da adottarsi per scongiurare o ridurre sensibilmente tale rischio, e, infine, al fatto che tale infezione porta — per lo più dopo una fase latente di più anni dove mancano i sintomi clinici più evidenti — al quadro clinico completo dell’Aids conclamata; malattia che, allora (1987) come oggi, non è trattabile con alcuna terapia risolutiva e regolarmente assume un decorso letale. Alla considerazione che, oggi come anche nel periodo in esame, tali nozioni rientra(va)no nel patrimonio conoscitivo della generalità delle persone, anche quelle non particolarmente interessate o coinvolte dal problema, deve aggiungersi il rilievo che il Lucini, soggetto sieropositivo e quindi particolarmente interessato, disponeva di precise e specifiche fonti informative. (Omissis). Più specificatamente è ampiamente notoria (e lo era anche un decennio fa) la circostanza che una delle principali vie di trasmissione del virus HIV è rappresentata dai rapporti sessuali non protetti: proprio per tale motivo i mezzi di comunicazione e le istituzioni pubbliche hanno promosso diverse campagne informative volte ad incentivare l’utilizzo del profilattico e di altre precauzioni al fine di evitare, o almeno ridurre, il pericolo di contagio. Non appare dubitabile allora che il Lucini, sin dalla fase iniziale della propria relazione con la Corbani e per tutta la durata di questa, si sia rappresentato in concreto e non in via meramente astratta la possibilità, o meglio, la rilevante probabilità di infettare il partner. Ciò, del resto, non ha potuto essere negato neppure dall’imputato, il quale, nel corso del suo interrogatorio, ha dichiarato di aver saputo ‘‘perfettamente’’ che v’era un rischio di contagio; ha confermato di essersi tenuto informato sulla malattia anche tramite giornali e televisione: alla domanda se non avesse rappresentato per lui un campanello d’allarme il fatto che i medici l’avessero ripetutamente ammonito ad usare il profilattico per ridurre i rischi di contagio e che, in caso di rapporti ripetuti, il rischio aumentasse a dismisura, ha risposto affermativamente, aggiungendo che, peraltro, era subentrata la sua paura di rivelare tutto alla moglie. Nella ricostruzione dell’elemento volitivo occorre valorizzare gli elementi del fatto congruenti con i modelli ricostruttivi del dolo eventuale sopra evidenziati. Appare corretto iniziare dai dati conoscitivi appena fissati. Invero, come è stato osservato anche in una interessante decisione del Bundesgerichtshof tedesco, che ha avuto eco anche nel nostro Paese (BGH, 4 novembre 1988-1 StR 262-88, in Foro it., 1991, IV. c. 148), in ordine ad un caso di trasmissione del virus HIV da parte di un omosessuale che aveva praticato due rapporti solo in parte protetti senza informare il partner, ‘‘nell’ambito di una valutazione globale dei dati concreti effettuata dal giudice di merito, anche il livello di informazione del reo può essere considerato nella misura in cui consente deduzioni relative alla sua volontà’’. Quindi ‘‘si può dedurre dalla qualità ed intensità dell’informazione del reo circa la pericolosità del suo modo di agire nel caso singolo un essenziale accenno indiziale per la presenza dell’elemento volitivo del dolo’’. (Omissis). — Tali osservazioni appaiono ampiamente condivisibili, pur non essendo, ovviamente, esaustive. Nel caso in esame vi sono altri elementi probatori che attestano in modo assai convincente la sussistenza del dolo eventuale in relazione a tutto lo svolgersi della condotta imputabile al Lucini. Si è osservato, trat-
— 302 — tando del nesso di causalità e dell’imputazione obiettiva dell’evento, che la condotta condizionante l’evento hic et nunc deve ricomprendere non soltanto il primo rapporto che ha determinato il contagio, ma l’intera pluralità dei rapporti sessuali a rischio, in quanto idonei ad influenzare il repentino evolversi dell’Aids conclamata in capo alla vittima. Ora occorre aggiungere che il fatto che il Lucini, per tutto l’arco di circa dieci anni, abbia intrattenuto in modo continuativo e niente affatto saltuario una pluralità di rapporti sessuali senza alcuna protezione colora fortemente il contenuto volitivo del dolo. — (Omissis) — Se, dunque, nonostante tale consapevolezza egli ha accettato, ha scelto di continuare ad avere rapporti non protetti con il coniuge, pur di non rivelargli la malattia dalla quale era affetto e, per giunta, facendo di tutto perché anche i familiari a conoscenza del suo stato di salute non lo rivelassero, indubbiamente si configura una condotta accompagnata dall’accettazione piena e completa del rischio di verificazione dell’evento lesivo. (Omissis). — Invero, come ha correttamente ritenuto anche il Tribunale del Riesame (si veda, ad es., l’ordinanza in data 1 ottobre 1997), se il Lucini non perseguiva certo il fine di uccidere la moglie (così escludendosi il dolo intenzionale), certamente era consapevole che, intrattenendo per anni ripetuti rapporti sessuali, vi fosse la rilevantissima probabilità (o, meglio, la quasi certezza) di far contrarre la malattia al coniuge con il suo conseguente decesso, sia pure con incertezza in ordine ai modi ed ai tempi in cui tale conseguenza avrebbe potuto verificarsi. E, ciononostante, il Lucini ha agito, non desistendo neppure di fronte all’agghiacciante prospettiva di trasmettere la malattia al figlio che la moglie desiderava ardentemente. Concludendo sul punto, alla rilevantissima probabilità di contagio sul piano obiettivo, per le caratteristiche virologiche del soggetto e per la ripetizione dei comportamenti a rischio, v’è adeguata corrispondenza anche sul versante soggettivo. V’è di più. La meramente allegata convinzione del Lucini che nulla sarebbe accaduto non poteva trovare riscontro in nessun elemento o dato concreto oggetto di conoscenza da parte dell’imputato. — (Omissis) — Bisogna invece riconoscere che il Lucini non disponeva di alcun motivo, minimamente logico, che, anche nel quadro di una valutazione macroscopicamente errata, facesse sorgere in lui la ragionevole certezza che l’evento non si sarebbe verificato. Al contrario: una volta che il Lucini ha scelto consapevolmente di non adottare alcuna precauzione, alcuna contromisura volta ad ostacolare l’evento, indipendentemente dalla sua efficacia (quindi, uso del profilattico o altro), non v’era più alcuna possibilità di padroneggiare il decorso degli avvenimenti, che aveva ormai libero gioco: volendo utilizzare le espressioni invalse, aveva consapevolmente creato un pericolo ‘‘non protetto’’, ovvero un pericolo di natura ‘‘dolosa’’ nel senso sopra precisato, accettandone le conseguenze. Non solo non esistevano, ma non sono stati neppure considerati dal Lucini fattori interni od esterni che potessero impedire che il nesso potenziale fra la propria condotta e l’evento lesivo si attualizzasse (per esempio, a parte il mancato uso di profilattici, neppure si è preoccupato di riferire la sua condotta sessuale ai medici, che avrebbero potuto somministrargli farmaci in grado di diminuire la carica virale). Anzi: l’imputato ha fatto di tutto per annullare i residui strumenti di salvaguardia, impedendo qualsiasi azione informativa, propria e altrui: condotta anch’essa causale e perciò tipica, come osservato. — (Omissis) I dati probatori ritraibili dal complessivo comportamento dell’imputato appaiono rilevanti anche sotto un altro profilo. Invero, non può sostenersi che il Lu-
— 303 — cini abbia accettato il rischio del contagio e non quello della morte della partner per effetto della malattia trasmessa, circostanza che influirebbe sul titolo di responsabilità configurabile. — (Omissis) — È pacifico che, sin dal suo primo apparire, il tratto caratterizzante dell’Aids, che ha determinato la macroscopica diffusione di notizie ed ha ingenerato un fortissimo allarme sociale, è il fatto che, anche allo stato delle attuali conoscenze scientifiche, l’infezione porta — per lo più dopo una fase latente di più anni dove mancano i sintomi clinici evidenti — in un’altissima percentuale dei portatori del virus, attraverso stadi preliminari, al quadro clinico completo della malattia conclamata. Le terapie sino ad ora adottate, nonostante i rilevantissimi progressi degli ultimi tempi, si propongono soltanto di ritardare per quanto possibile l’evoluzione del male, oltre che di trattare le infezioni opportunistiche; non esistono invece trattamenti specificamente indirizzati a debellare definitivamente il virus HIV presente nell’organismo, sicché la malattia regolarmente prende un decorso letale. Dunque, di fronte alla notevole probabilità di esito letale dell’infezione che ne risulta, il comportamento sessuale a rischio di un soggetto portatore di HIV è fondamentalmente anche idoneo a mettere in pericolo la vita del partner. — (Omissis) — Quelle richiamate sono, dunque, a buon diritto definibili come nozioni di conoscenza comune, indipendentemente dal livello culturale posseduto. Anzi, appare corretto affermare che, proprio nella valutazione, del ‘‘profano’’ di cultura scientifica non propriamente elevata, il trinomio ‘‘contagio da HIV-Aids-morte’’ e avvinto da un legame ancora più ferreo ed indissolubile. Ancora più difficile è ipotizzare l’esistenza di un mero dolo di lesioni in capo al Lucini: difatti, neppure l’imputato si è sentito di addurre una giustificazione di questo tipo, tanto era lontana dalla sua concreta realtà psicologica. Contro tale ipotesi pesa in modo decisivo, ancora una volta, il fatto che il Lucini ha impedito per quanto ha potuto, con ogni mezzo, che la moglie venisse informata, mentre continuava a trasmetterle cariche virali; così facendo, invece di porre in essere utili contromisure, al limite rivelandole il proprio stato anche a contagio già avvenuto, ha annullato qualsiasi strumento di contrasto della malattia, precludendo ogni possibilità che la moglie si sottoponesse ad una qualsiasi terapia che le avrebbe assicurato, almeno, una maggiore (e migliore: la Corbani è morta tra atroci sofferenze) aspettativa di vita. Non pare davvero che in tal modo si possa comportare chi spera nella scoperta di un vaccino anti-Aids o altro rimedio equivalente prima che la malattia travolga il coniuge che sostiene di amare. — (Omissis) In conclusione, il Lucini si è rappresentato seriamente le probabili conseguenze accessorie della propria condotta e, ciononostante, ha scelto di agire ugualmente, perché quello era il prezzo per la realizzazione della sua precisa intenzione: ha, dunque, propeso per la via della lesione del bene giuridico, senza che, come già osservato, il disvalore di tale scelta venga meno o si riduca minimamente per il solo fatto che essa venga accompagnata da un atteggiamento interiore di semplice speranza nella non verificazione dell’evento o di disapprovazione del medesimo.
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Contagio sessuale da virus HIV e responsabilità penale dell’Aids-carrier.
1. La sentenza in esame presenta una duplice rilevanza: da un lato, in essa viene affrontato per la prima volta il problema della punibilità di un soggetto in-
— 304 — fetto che abbia trasmesso il virus al partner attraverso rapporto sessuale non protetto (1); dall’altro, l’iter argomentativo seguito rivela una consapevole e ferma adesione agli orientamenti della più recente dottrina in materia di dolo eventuale. Lo sforzo del Tribunale di Cremona di analizzare una vicenda così delicata in modo assai approfondito merita un particolare apprezzamento, in quanto proprio di fronte al fenomeno dell’AIDS un impiego « disinvolto » degli strumenti giuridici, orientato a scopi di mera prevenzione generale, comporta il rischio di stravolgere tratti e funzioni delle categorie penalistiche. Ed invero, potrebbe essere forte la tentazione di intervenire anticipando la soglia della punibilità attraverso un utilizzo distorto della figura del tentativo e delle fattispecie di pericolo e finendo per deformare i già labili confini di dolo e colpa. Insomma, il trattamento dei casi di Aids non deve dissolversi in preoccupazioni di ordine politico-criminale e sanitario, dando pretesto ad una dogmatica ad hoc (2). Certo il processo di legittimazione dell’intervento del diritto penale incontra (1) In Germania le sentenze principali si collocano prevalentemente alla fine degi anni ’80. II leading case è rappresentato dalla sentenza del BGH (sent. 4 novembre 1988, 1 StR 262/88, in NJW, 1989, p. 781), confermativa della precedente del LG Nürnberg-Fürth (16 novembre 1988, in NJW, 1988, p. 2311), ampiamente commentata: cfr., fra i tanti, HERZBERG, Aids: Herausforderung und Prüfstein des Strafrechts, in JZ, 1989, p. 470 ss.; HASSEMER, Strafbarkeit des Aids-Infizierten bei ungeschütztem Geschlechtsverkehr, in JUS, 1989, p. 761 ss.; SCHLEHOFER, Risikovorsatz und zeitliche Reichweite der Zurechnung beim ungeschützten Geschlechtsverkehr des HIV-Infizierten, in NJW, p. 2017 ss.; HELGERTH, Anmerkung, in NStZ, 1989, p. 117 ss.; SCHÜNEMANN, Riskanter Geschlechtsverkehr eines HIV-Infizierten als Tötung, Körperverletzung oder Vergiftung?, in JR, 1989, p. 89 ss; FRISCH, Riskanter Geschlechtsverkehr eines HIV-Infizierten als Straftat?, in JUS, 1990, p. 362 ss.; da noi CANESTRARI, La rilevanza del rapporto sessuale non protetto dell’infetto HIV nell’orientamento del BGH, in FI, 1991, IV, p. 149 ss. Ulteriori importanti sentenze: AG München (6 maggio 1987, in NJW 1987, p. 2314) commentata da HERZBERG, Bedingter Vorsatz und objektive Zurechnung beim Geschlechtsverkehr des AIDS-Infizierten, in JUS, 1987, p. 777 ss. e da ARLOTH in NStZ, 1987, p. 408 ss.); LG München I (2 marzo 1987 commentata da HERZBERG, Die Strafdrohung als Waffe im Kampf gegen Aids?, in NJW, 1987, p. 1461); AG Kempten (1 luglio 1988, in NJW, 1988, p. 2313, commentata da PRITTWITZ, Strafbarkeit des HIV-Virusträgers trotz Aufklärung des Sexualpartners?, in NJW, 1988, p. 2942 ss. e da HELGERTH, Aids-Einwilligung in infektiösen Geschlechtsverkehr, in NStZ, 1988, p. 261 ss.); BayObLGSt (15 settembre 1989, in JR, 1990, p. 473 ss. con commento di DÖLLING); AG Hamburg (17 febbraio 1989, in NJW, 1989, p. 2017 ss.); BGH, in NJW, 1990, p. 129. Numerosi inoltre i contributi della dottrina tedesca sull’argomento, v. EEBERBACH, Juristische Probleme der HTLV-III.Infektion (AIDS), in JR, 1986, p. 230 ss.; HERZBERG, Zur Strafbarkeit des Aids-lnfizierten bei unabgeschirmten Geschlechtsverkehr, in NJW, 1987, p. 2283; BRUNS, Nochmals: AIDS und Strafrecht, in NJW, 1987, p. 2281 ss.; HERZOG, NESTLER-TREMEL, Aids und Strafrecht — Schreckensverbreitung oder Normstabilisierung?, in StV, 1987, p. 360 ss.; KREUZER, Aids uns Strafrecht, in ZStW, 1988, p. 786 ss.; SCHÜNEMANN/PFEIFFER (a cura di), Die Rechtsprobleme von Aids, Baden-Baden, 1988; MAYER, Forum: Die ungeschützte geschlechtliche Betätigung des Aidsinfizierten unter dem Aspekt der Tötungsdelikte- ein Tabu?, in JUS, 1990, p. 786 ss.; SCHERF, Aids und Strafrecht, Baden-Baden, 1992; SZWARC (a cura di), Aids und Strafrecht, Berlin, 1996; HUBER, Ausgewählte Fragen zur Strafbarkeit der HlV-Übertragung, in SchZStr, 1997, p. 113 ss.; KNAUER, Aids und HIV-Immer noch eine Herausforderung für die Strafrechtsdogmatik, in GA, 1998, p. 428 ss. Quali precedenti in Italia, sebbene non in tema di trasmissione del virus per via sessuale, si possono citare Pret. Torino, 23 marzo 1989, in FI, 1990, II, p. 59 ss. con nota di FIANDACA, Omissione di misure anti-AIDS e contagio di un’infermiera in un reparto ospedaliero; Trib. Roma, 13 novembre 1992, in Cass. pen., 1993, p. 1567. In letteratura, per ampi riferimenti al rapporto tra Aids e diritto penale, v. CASTALDO, AIDS e diritto penale: tra dommatica e politica criminale, in Studi Urbinati, 1988-89/19891990, 7; CORNACCHIA, Profili di responsabilità per contagio da virus HIV, in AA.VV., Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, Bologna, 1998, p. 230. V. inoltre la recentissima nota alla sentenza del Tribunale di Cremona di NICOSIA, Contagio di Aids tra marito e moglie e omicidio doloso, apparsa su FI, 2000, II, p. 348. Per quanto riguarda la rilevata peculiarità del caso italiano basti, per ora, accennare al dibattito, tutt’oggi irrisolto, scatenatosi in Germania intorno alla configurabilità dell’omicidio (Totschlag) in occasione delle isolate sentenze che hanno preso una posizione al riguardo. L’ammissibilità dell’omicidio viene negata da una autorevole minoranza (oltre al BGH, fra gli altri, da Herzberg, Schünemann, Hassemer, Frisch) ora per ragioni di imputazione obiettiva delle Spätfolgen, ora per mancanza dell’elemento soggettivo, in particolare del dolo. L’argomento verrà ripreso più approfonditamente in seguito (v. infra). (2) In questi termini CASTALDO, Aids e diritto penale, cit., p. 29, il quale sottolinea che le ‘‘motivazioni etiche non debbono forzare la mano del legislatore ed incrinare l’asetticità morale, prerogativa irrinunciabile dello Stato laico’’. Cfr. anche KREUZER, Aids und Strafrecht. cit., p. 797; FRISCH, Riskanter Ge-
— 305 — qui maggiori difficoltà, non solo perché il colpevole è prima ancora vittima, ma perché la stessa condotta potenzialmente incriminabile rientra tradizionalmente nella sfera di libera autodeterminazione riconosciuta alla persona (3). Lo stesso atto sessuale, insomma, rischia di acquistare un nuovo e inquietante significato, di trasformarsi in una sorta di moderna ‘‘arma letale’’. Non è certo questa la sede adatta per entrare nel dibattito intorno ai possibili effetti discriminatori o meno della punibilità, per interrogarsi sull’efficacia funzionale o disfunzionale delle soluzioni proposte (4). Una certezza tuttavia c’è: non si tratta di un ‘‘rechtsfreier Raum’’. Si pone dunque il problema di stabilire quali siano i beni giuridici coinvolti e soprattutto meritevoli di tutela e quali le vittime. In un ordinamento giuridico come il nostro, diretto alla obiettiva tutela dei beni giuridici, le norme hanno una funzione di orientamento, sono cioè espressione dell’intenzione del legislatore di influenzare il comportamento dei destinatari. La diffusione del virus HIV minaccia direttamente beni fondamentali quali la salute e la vita dell’individuo. Il diritto penale non può allora non pretendere che, in nome del principio generale del neminem laede, il soggetto sieropositivo, che sia consapevole del proprio stato, adotti tutte le cautele necessarie per neutralizzare, nei limiti del possibile, il pericolo di contagiare il partner sano (5). 2. È alla luce di queste brevi riflessioni che va ora considerata la sentenza in esame. Ad una prima analisi si può constatare che i problemi principali sollevati dal tema Aids riguardano, da una parte, l’inquadramento dogmatico del fatto sul piano della tipicità e l’accertamento del nesso causale tra condotta ed evento, soprattutto in relazione ad effetti che si possono verificare a molta distanza nel tempo; dall’altra, l’attribuibilità del fatto al soggetto incriminato e le varie configurazioni che può assumere l’elemento soggettivo nelle diverse ipotesi. La sentenza del Tribunale di Cremona si misura con la questione, quella dell’imputazione dell’omicidio, teoricamente assai complessa e problematica, che, nel schlechtsverkehr eines HIV-Infizierten als Straftat, cit., p. 367; MEIER, Strafrechtliche Aspekte der HIVÜbertagung, cit., p. 207. (3) Potrebbe rivelarsi infatti complesso il coordinamento con la disciplina prevista a tutela della privacy e dignità del sieropositivo e del diritto alla riservatezza riguardo al proprio stato di salute. Diversamente, il diritto fondamentale alla libera autodeterminazione riconosciuto al singolo può trovare limitazione nell’opposto diritto alla salute sancito nell’art. 32 della Costituzione (v. al riguardo la sentenza della Corte Costituzionale n. 218/1994). Citando un incisivo passo della stessa sentenza in esame, ‘‘occorre intraprendere un processo di bilanciamento ‘interno’ fra esigenze di tutela dei diritti della personalità dei diversi soggetti che interagiscono fra loro (al profilo della riservatezza dell’HIV carrier si contrappone l’esigenza di un’esplicazione veramente libera, e perciò informata, della propria sessualità da parte del partner) ed ‘esterno’, con riferimento ad altri beni giuridici costituzionalmente tutelati, fra i quali un ruolo preminente rivestono la salute e la vita’’. (4) Per i contributi più recenti alla discussione. v. BOTTKE, Sinn oder Unsinn kriminalrechtlicher AIDS-Prävention? Zugleich Versuch eines vorläufigen Resümees, in Aids und Strafrecht (a cura di SZWARC), cit., p. 278 ss.; SCHÜNEMANN, Aids und Strafrecht, ivi, cit., p. 550 ss.; ID., Die Rechtsprobleme der Aids-Eindämmung, in Die Rechtsprobleme von Aids (a cura di Schünemann/Pfeiffer), cit., p. 375 ss. Cfr. pure KREUZER; Aids und Strafrecht, cit., p. 787 ss.; HERZBERG, Aids: Herausforderung und Prüfstein des Strafrechts, cit., p. 470 ss. La dottrina si è ovviamente divisa sul punto: da una parte si auspica un intervento intensivo del diritto penale (Bottke, Herzog, Nestler-Tremel, Kreuzer, Mayer, Huber. Prittwitz), dall’altra si dubita dell’efficacia della minaccia penale e si evidenziano i possibili effetti collaterali e controproducenti (Schünemann, Bruns, Herzberg). (5) È di intuitiva evidenza, infatti, che colui che si trovi nella posizione di poter determinare un pericolo per il prossimo è obbligato a controllare tale fonte di pericolo, affinché da essa non scaturisca un effettivo danno per gli altri. Cfr. SCHÜNEMANN, Aids und Strafrecht, cit., p. 11; HELGERTH, op. ult. cit., p. 118. Ribadisce che il sieropositivo, rimanendo normativ ansprechbar, non può godere di un trattamento speciale che lo liberi dagli obblighi previsti dalle elementari regole di comportamento gravanti indistintamente su tutti i cittadini, BOTTKE, Sinn oder Unsinn kriminalrechtlicher Aids-Prävention, cit., p. 282 ss.
— 306 — caso concreto, appare di agevole soluzione: la vittima, contagiata dal marito nel corso di numerosi e continuativi rapporti sessuali non protetti, svoltisi nel quadro di una relazione di tipo esclusivo, è morta. Il Tribunale può approdare direttamente e senza troppe incertezze all’imputazione di omicidio volontario, saltando, come dire, la fase intermedia della ‘‘compromissoria’’ categoria delle lesioni personali volontarie (6). Si tratta di una decisione indubbiamente controversa, considerata non soltanto la inevitabile scarsa dimestichezza con l’argomento in ambito italiano, ma soprattutto l’esitazione che da sempre la letteratura d’oltralpe dimostra nei confronti dell’ammissibilità dell’omicidio (7). Costituiscono presupposti necessari, perché si possa definire il rapporto sessuale come condotta penalmente rilevante e perseguibile, la consapevolezza del sieropositivo del proprio stato e, quindi, della eventualità di poter contagiare un altro soggetto, l’inadempimento dell’obbligo di informazione nei confronti del partner e/o (8) la mancata adozione di pratiche di safer sex (9). Nel caso di specie è stato possibile accertare come l’imputato, a conoscenza del proprio stato di sieropositività da ben 11 anni (da un’epoca — vale sottolinearlo — precedente all’inizio della relazione con la vittima (10)), non potesse non essere consapevole del pericolo cui regolarmente esponeva la moglie ignara, considerate le numerose ed approfondite informazioni ricevute dalle strutture sanitarie riguardo alle modalità di trasmissione del virus. Si tratta quindi di procedere alla verifica della rilevanza penale di tale condotta e della sua efficacia eziologica rispetto all’evento (il contagio seguito in breve tempo dalla morte della vittima). Il metodo seguito per la ricostruzione del nesso condizionalistico è quello dominante, basato sul modello di sussunzione sotto leggi scientifiche. (6) Il frequente ricorso alla soluzione ‘‘mediana’’ dell’imputazione delle sole lesioni personali rispetto al tentato omicidio trova la sua ragione nell’impossibilità di stabilire con certezza un rapporto di continuità tra il contagio del virus e la evoluzione della malattia e la successiva morte. La scienza non e stata finora in grado di chiarire con quali probabilità si sviluppi uno stato di Aids conclamata destinato a portare al decesso (v. l’incertezza intorno al fenomeno dei portatori sani del virus). Inoltre, la difficoltà di accertare al momento del processo l’effettiva trasmissione del virus HIV al partner in seguito al rapporto sessuale, solitamente occasionale, praticato con l’imputato, ha più volte costretto le corti ad imputare, nel rispetto del principio in dubio pro reo, il solo tentativo, basato sulla mera idoneità ex ante della condotta ad integrare le lesioni personali. In Germania l’applicabilità del reato di (tentata) lesione personale pericolosa (gefährliche Körperverletzung, § 223a), sebbene ancora controversa e criticata in dottrina, viene ormai costantemente ribadita dalla prassi. V., fra le tante, la nota sentenza del BGH del 4 novembre 1988, cit. e i rilievi di CANESTRARI, La rilevanza del rapporto sessuale non protetto, cit., p. 151 ss.; cfr. anche la sentenza del Trib. di Roma, 13 novembre 1992, cit. In dottrina v. per tutti SCHERF, Aids und Strafrecht, cit., p. 61 ss. e CORNACCHIA, Profili di responsabilità per contagio da virus HIV, cit., p. 324 ss. e CASTALDO, Aids e diritto penale, cit., pp. 90-91. Recentemente HERZBERG, Die strafrechtliche Haftung, cit., p. 84 ss. ha cercato di prendere le distanza dal modello di imputazione basato sul tentativo di lesione personale, proponendo una Vollendungslösung grazie ad una interpretazione più ampia del requisito della körperliche Mißhandlung previsto dal § 223. D’accordo nel ritenere il rapporto sessuale non protetto con un partner ignaro una aggressione (consumata!) al bene giuridico della libertà di disporre consapevolmente del proprio corpo, BOTTKE, Sinn oder Unsinn kriminalrechtlicher Aids-Prävention, cit., p. 290 ss. e SCHÜNEMANN, Aids und Strafrecht, cit., p. 30 ss. Critico al riguardo KNAUER, Aids und Hiv, cit., p. 429 ss. (7) Cfr. supra nota 1 e infra. (8) V. infra. (9) Altrettanto interessanti si rivelano le questioni dai complessi risvolti dogmatici e politico-criminali poste da una prospettiva speculare: 1) la piena consapevolezza riguardo al proprio stato sieropositivo, determinata dall’esito positivo del test, può essere validamente sostituita dalla la mera presunzione (Vermutung) o dal semplice timore di esserlo, per via di precedenti comportamenti a rischio tenuti? 2) in caso di adempimento dell’obbligo di corretta informazione riguardo al rischio di contagio nei confronti del partner, vi è spazio per un consenso scriminante? 3) la pratica di safer-sex rende il rischio residuo (Restrisiko) consentito e tollerato dall’ordinamento? Cercheremo, per quanto possibile, di affrontare questi interrogativi nel corso dell’ esposizione. (10) Se l’imputato, infatti, avesse appreso di essere sieropositivo in un momento successivo, si dovrebbe ammettere che la trasmissione del virus sia potuta avvenire nel periodo in cui egli non era consapevole di determinare un rischio di contagio per la moglie. Cambierebbe di conseguenza l’imputazione. Cfr. AG Hamburg (17 febbraio 1989), cit.
— 307 — Allo stato attuale delle conoscenze medico-scientifiche il virus HIV, una volta penetrato all’interno dell’organismo, conduce, in un periodo di incubazione e latenza di durata variabile (in media 5-10 anni), durante il quale il sistema immunitario subisce un progressivo ed irreversibile indebolimento, nonostante l’assenza di qualsiasi sintomo esteriormente rilevabile, allo sviluppo della vera e propria malattia (Aids conclamata). Quest’ultima ha a sua volta, secondo recenti stime, come conseguenza altamente probabile, se non addirittura certa, la morte dell’infetto. Sebbene il rischio di contagio in un singolo rapporto sessuale non protetto sia piuttosto basso (la percentuale si aggira infatti tra l’1% e lo 0,1%) (11), esso è considerato comunque intollerabile dall’ordinamento. Che il pericolo di contagio, come bene ha evidenziato il BGH (12), sia statisticamente scarso, nulla toglie al fatto che ogni rapporto comporti in sé l’intero rischio di una infezione dalle devastanti conseguenze. La pratica di rapporti sessuali non protetti non rientra certo nelle categorie dell’erlaubtes Risiko e della Sozialadäquanz: si potrebbe forse rendere lecita e libera un’attività estremamente pericolosa e lesiva, tuttavia facilmente neutralizzabile da parte del soggetto attivo con un trascurabile sacrificio, ossia attraverso il ricorso a pratiche di safer sex, e negare così protezione al soggetto passivo, che non è invece in grado di dominare quello stesso rischio (13)? L’uso del condom offre pertanto una efficace ‘‘schermatura’’ del pericolo, per usare un termine ormai consolidato, sufficiente a riportare il rischio ad un livello ritenuto sia socialmente che individualmente accettabile (14). A questo proposito è inevitabile aprire una breve parentesi per accennare alla (11) Il grado di probabilità di trasmettere il virus dipende comunque da diversi fattori: tipologia di rapporti (vaginale, orale, anale) e loro frequenza, presenza di microlesioni, infezioni genitali o di altre malattie sessualmente trasmesse, che aumentano la pericolosità del rapporto, tasso di viremia, sesso del partner infetto. (12) V. la già citata sentenza BGH, 4 novembre 1988, 1 StR 262/88 e BGH, in NJW, 1990, p. 129. Cfr. al riguardo anche le osservazioni di HASSEMER, Strafbarkeit eines HIV-Infizierten bei ungeschütztem Geschlechtsverkehr, in JUS, 1989, p. 762; HELGERTH, Anmerkung alla sentenza, in NStZ, 1989, p. 118 e FRISCH, Riskanter Geschlechtsverkehr eines HIV-Infizierten als Straftat?, in JUS, 1990, p. 364. (13) Che di fatto il rischio di contagio nel singolo rapporto non giochi un ruolo importante viene sottolineato da più parti. Ciò che è consentito o meno viene stabilito dall’ordinamento in via generale una volta per tutte, indipendentemente dalla valutazione dei singoli individui riguardo alla tollerabilità di un pericolo. Per quanto riguarda il fenomeno dell’Aids si cerca di sottolineare gli effetti sociali complessivi di una liberalizzazione del rapporto non protetto: la somma dei singoli rischi apparentemente insignificanti rende giustificata una limitazione della libertà di comportamento dei singoli. Usa il termine Risikosummierung KUNZ, Aids und Strafrecht: Strafbarkeit der HIV-lnfektion nach schweizerischem Recht, in Revue penal suisse, 1990, p. 64. Cfr. anche SCHLEHOFER, Risikovorsatz und zeitliche Reichweite der Zurechnung beim ungeschützten Geschlechtsverkehr des HIV-Infizierten, in NJW, 1989, p. 2021, quando ricorre al criterio della Interessenabwägung nello stabilire i confini del rischio socialmente tollerato. Anche HERZBERG, AIDS: Herausforderung und Prüfstein des Strafrechts, in JZ, 1989 p. 474 e da noi CASTALDO, Aids e Diritto penale, cit., p. 95 ss., in particolare p. 118 e s. (‘‘Quando infatti una specifica attività può continuare ad esercitarsi, raggiungendo una (relativa) tranquillità mediante la schermatura del pericolo, il contraccolpo è immediato sulla determinazione del concetto di utilità; utile resta l’attività protetta, non l’attività in sé, libera’’). Vi è pieno accordo in dottrina nel ritenere il rapporto sessuale non protetto escluso dalla sfera di rischio consentito, in virtù di un’opera di bilanciamento di valori, che rivela una evidente sproporzione tra il rango del bene giuridico minacciato e la semplicità delle pratiche di contenimento del rischio; v. per tutti SCHERF, Aids und Stratrecht, cit., p. 105 ss. (14) Diventa pertanto completamente irrilevante anche l’eventuale intenzione del soggetto infetto di contagiare il partner. Qualificano il rapporto sessuale protetto attività consentita e non punibile la dottrina e la giurisprudenza dominanti; v. KNAUER, AIDS und HIV, cit., p. 439; SCHERF, Aids und Strafrecht, cit., p. 102; KUNZ, Aids und Strafrecht, cit., p. 52; HERZBERG, Die Strafdrohung als Waffe, cit., p. 1462 (sebbene recentemente abbia elaborato una soluzione di compromesso, v. Die strafrechtliche Haftung, cit., p. 83); MEIER, Strafrechtliche Aspekte, cit., p. 230; HASSEMER, Strafbarkeit eines HIV-Infizierten, cit., p. 762. Da noi, CANESTRARI, La rilevanza del rapporto sessuale non protetto, cit., p. 152; CORNACCHIA, Profili di responsabilità per contagio, cit., p. 320 e CASTALDO, Aids e diritto penale, cit., p. 118. Contra, in base a motivazioni facenti leva sulla impossibilità di quantificare esattamente il rischio residuo, considerato perciò ancora troppo elevato a fronte del valore del bene vita minacciato, v. BOTTKE, Sinn oder Unsinn kriminalrechtlicher Aids-Prävention, cit., p. 295 ss.; SCHÜNEMANN, Die Rechtsprobleme der Aids-Eindämmung, cit., p. 415; ID.; Riskanter Geschlechtsverkehr, cit. p. 92; MAYER, Die ungeschützte geschle-
— 308 — complessa, e ancora poco esplorata, relazione tra il fenomeno dell’Aids e la categoria del rischio consentito (15). Safer sex non significa safe sex. Sebbene sia vero, infatti, che l’uso del profilattico riduce drasticamente il rischio di contagio, permane tuttavia un margine di Restrisiko (16). Si pone dunque la seguente domanda: tale rischio residuo è consentito, e se no, chi dovrebbe essere chiamato a rispondere di esso e della sua eventuale realizzazione? È necessario ammettere che l’attività sessuale, nonostante possa rivelarsi veicolo di trasmissione di molteplici malattie infettive, è in linea di principio consentita, rientrando in un allgemeines Lebensrisiko (17). Esclusa, per ora, la configurabilità di un generale obbligo di assicurarsi del proprio stato di salute, occorre stabilire la soglia inferiore di intollerabilità del rischio da parte dell’ordinamento. Innanzitutto, il dovere di ricorrere a precauzioni nasce in presenza della mera supposizione (Vermutung) di essere sieropositivo oppure è necessaria la piena consapevolezza derivante dall’esito positivo dell’apposito test ELISA? La dottrina maggioritaria propende, a ragione, per la seconda ipotesi. Sebbene vi sia chi mette in guardia dal pericolo di trasformare il test in una sorta di ‘‘biglietto d’ingresso’’ per la punibilità (18) e chi, comprensibilmente, invita alla prudenza nel valutare il risultato del test, alla luce della sua provvisorietà e, a volte, persino fallibilità (19), soltanto l’accertata sieropositività obbliga ad adottare le pratiche di riduzione del rischio. In secondo luogo, il soggetto infetto che abbia seguito scrupolosamente le indicazioni necessarie per salvaguardare il partner deve rispondere dell’eventuale contagio? Le campagne di informazione e prevenzione promosse dal Ministero della Sanità e dalle competenti strutture sanitarie hanno da sempre posto l’accento sulla efficacia schermante del condom. Dichiararle ora fuorvianti e inaffidabili (20) allo scopo di ammettere la punibilità dell’infetto sarebbe, oltre che conchtliche Betätigang, cit., p. 786; FRISCH, Riskanter Geschlechtsverkehr, cit., p. 364; HUBER, Ausgewählte Fragen, cit., p. 122 ss. In particolare, SCHÜNEMANN, Die Rechtsprobleme der Aids-Eindämmung, cit., p. 489, afferma che il ricorso alle pratiche di safer-sex esclude il dolo non tanto perché riporta il rischio ad un livello consentito, quanto perché esso, sul piano volitivo, è normalmente espressione di una ‘‘rechtsgutsbewahrende Einstellung’’. (15) È necessario in questa sede prescindere dal problema della collocazione della categoria del ‘‘rischio consentito’’ all’interno della tipicità o della antigiuridicità. (16) Anche se non vi è ancora completa certezza intorno al grado di riduzione del rischio, la percentuale di contagio è comunque molto bassa e quasi vicina allo 0%. Ovviamente la protezione fornita dal condom è condizionata da una serie di altre variabili, quali la qualità dello stesso e le modalità di uso. (17) Cfr. KUNZ, op. ult. cit., p. 51 e CASTALDO, op. ult. cit., p. 320. (18) Così KUNZ, op. ult. cit., p. 52. È giustificato il timore che i soggetti a rischio non si sottoporrebbero più al test, se la punibilità dipendesse esclusivamente da questo. Come rileva successivamente l’A., non è neppure immaginabile, tuttavia, imporre alla popolazione un obbligo (morale?) di informare il partner e adottare misure precauzionali in base ad un mero dubbio, dettato a volte dalla diffusa isteria suscitata dal fenomeno dell’Aids. Si tratterebbe evidentemente di un dovere, il cui adempimento non potrebbe essere efficacemente garantito, con inevitabili riflessi sulla credibilità del diritto penale. Critico anche MEIER, Strafrechtliche Aspektes, cit., p. 216. Ritengono sufficiente il ragionevole dubbio di essersi contagiati in precedenza BOTTKE, Strafrechtliche Probleme von Aids, cit., p. 196; HERZBERG, Die Strafdrohung als Waffe, cit., p. 1462; MAYER, Die ungeschützte geschlechtliche Betätigung, cit., p. 786; cenni in FRISCH, Riskanter Geschlechtsverkehr, cit., p. 364. Va inoltre rilevato che l’adesione a questo orientamento restrittivo può portare ad individuare delle categorie a rischio, sulle quali finirebbe per gravare una sorta di presunzione legale di sieropositività solo in virtù dell’appartenenza ad un determinato gruppo sociale (v. prostitute, omosessuali, tossicodipendenti). La dottrina più recente si è occupata delle cosiddette Risikogruppen, soprattutto con riferimento al conflitto tra dovere di informazione e Selbstgefährdung (autoesposizione al pericolo) del partner sano. (19) Cfr. BRUNS, Aids, Prostitution und Strafrecht, in NJW, 1987, p. 694; SCHERF, Aids und Strafrecht, cit., p. 62; KREUZER, Aids und Strafrecht, cit., p. 802; CASTALDO, Aids e diritto penale, cit., p. 75 ss. (20) Così, per esempio, BOTTKE, Sinn oder Unsinn kriminalrechtlicher Aids-Prävention, cit., p. 297 (il rischio residuo ‘‘wird durch Verschweigen in Beratungen nur verdunkelt, nicht jedoch kompetent
— 309 — traddittorio, estremamente controproducente in un’ottica di prevenzione generale, potendo i soggetti malati essere indotti a rinunciare in partenza ad ogni protezione (21). Se è necessario prendere atto dell’influenza esercitata dalla consapevolezza di correre un rischio di contagio, per quanto minimo, sulla scelta di acconsentire al rapporto sessuale, non si può dimenticare che la valutazione di ciò che è consentito o meno spetta all’ordinamento, trattandosi di una decisione normativa di carattere politico-criminale e, pertanto, sottratta alla sfera individuale (22). In opposizione a quella dottrina che richiede sempre e comunque l’adempimento dell’obbligo di informazione nei confronti del partner, anche in caso di rapporto sessuale protetto, va, a mio avviso, accolta la soluzione tradizionale, la quale considera i due obblighi distinti ed alternativi. Il soggetto infetto HIV che voglia evitare di rendersi punibile si trova, insomma, a dover scegliere di fronte ad una alternativa: adottare il condom o informare il partner (23). Per tornare al nostro problema, accertata in via generale l’idoneità del rapporto sessuale non protetto a trasmettere il virus HIV, occorre ora stabilire se proprio la condotta dell’imputato è stata causa dell’evento concreto, considerato hic et nunc. Premesso che non è possibile determinare quale rapporto sia stato quello che effettivamente ha contagiato la vittima, l’indagine è volta a riconoscere la rilevanza eziologica globale della condotta dell’imputato, di natura complessa ed articolata e pertanto non suscettibile di essere valutata ‘‘atomisticamente’’. La ripetitività e continuità dei rapporti incide infatti fortemente sull’instaurarsi e sull’evolversi della malattia accelerandone gli effetti. Il G.U.P. è giunto così alla conclusione che, data la ‘‘rilevanza causale — di tipo addizionale — di tutti i comportamenti a rischio’’ tenuti dall’imputato, la causa del contagio e della morte della vittima è rappresentata dai plurimi rapporti sessuali non protetti avvenuti per tutta la durata della convivenza. È stato altresì possibile escludere l’esistenza di cause di trasmissione alternative (24). zur Verfügung eines erlaubten Risikos freigegeben’’); anche MAYER, Die ungeschützte geschlechtliche Betätigung, cit., p. 786 e HUBER, Ausgewählte Fragen, cit., p. 124. (21) In questi termini KUNZ, Aids und Strafrecht, cit., p. 51; KNAUER, Aids und Hiv, cit., p. 442. Prendono atto della necessità che il diritto penale accolga gli stessi parametri di valutazione adottati dalla campagna di informazione politico-sanitaria, SCHERF, Aids und Strafrecht, cit., p. 101 e HERZBERG, Die Strafdrohung als Waffe, cit., p. 1462. (22) Decisamente contrario, BOTTKE, op. ult. cit., cit. p. 293 ss., il quale contesta la legittimità delle organizzazioni politico-sanitarie di ‘‘fare diritto’’ e sostituirsi al legislatore nello stabilire i confini di liceità di una condotta. Secondo l’A. il Restrisiko si misura in base alla rilevanza che esso riveste per la persona che corre il pericolo del contagio, poiché essa soltanto deve sopportare il rischio e la sua eventuale realizzazione (p. 296). Fa leva sul diritto dell’individuo alla libertà di decisione (Entscheidungsfreiheit) e alla autodeterminazione sessuale (sexuelle Selbstbestimmung), HUBER, op. ult. cit., p. 126, avvertendo che in tal modo si autorizza l’infetto HIV a mentire ed ingannare il partner. (23) Ciò non impedisce certo di ammettere che esista un dovere morale in capo al soggetto infetto di informare sempre e comunque il partner! Al di là di quello che appare giusto ed auspicabile, il diritto non può pensare di intervenire penalmente ogniqualvolta il rapporto sessuale non si svolga tra persone reciprocamente informate e fedeli. Osservazioni diverse si potrebbe forse avanzare riguardo alle stabili relazioni di coppia ed al matrimonio. Il particolare rapporto di fiducia che in questo caso lega i due partners può, secondo alcuni autori, determinare in capo al soggetto infetto, e di quello addirittura soltanto sospettoso di esserlo, l’obbligo di informare sempre e comunque l’altro (cfr. BRUNS, Nochmals: Aids und Strafrecht, cit., p. 2282), anche in considerazione dell’ulteriore rischio per la prole in caso di gravidanza. (24) Le ulteriori modalità note di trasmissione del virus HIV, esclusa quella per via intrauterina dalla donna al feto, sono le trasfusioni di sangue, l’assunzione di prodotti emoderivati e l’uso di aghi ed accessori contaminati. Nel corso delle indagini non sono emersi elementi probatori in grado di attestare che l’infezione di HIV sia derivata da cause diverse dal contagio per via sessuale. Il rapporto tra l’imputato e la vittima era inoltre di carattere esclusivo e si è potuto stabilire con certezza che la vittima non aveva mai intrattenuto rapporti sessuali con soggetti diversi dal marito. Vale la pena ribadire che si tratta di un caso evidentemente eccezionale (ammettono che in caso di rapporti monogami basati sulla reciproca fedeltà possa essere semplificato l’accertamento del nesso eziologico BRUNS, Nochmals: Aids und Strafrecht, cit., p. 2282 e SCHERF, Aids und Strafrecht, cit., p. 66). In genere la difficoltà di risalire al rapporto contagiante e la impossibilità di escludere con certezza altre cause di trasmissione conferma il carattere di
— 310 — La sentenza rileva infine che, nel caso di specie, la condotta presenta una natura complessa: al comportamento attivo dell’imputato, consistente nell’aver avuto numerosi rapporti sessuali non protetti, si aggiunge un comportamento di natura omissiva, costituito dall’aver taciuto alla moglie qualsiasi informazione riguardo al proprio stato di salute e dall’essersi adoperato per impedire qualsiasi forma di intervento (diagnosi tempestiva e cura adatta) capace, se non altro, di allungare le aspettative di vita della moglie (25). Se dunque la penetrazione del virus all’interno del corpo del partner integra di per sé l’evento ‘‘malattia’’ ai sensi dell’art. 582 c.p. (26), la morte del soggetto in seguito al contagio deve necessariamente essere qualificata come ‘‘omicidio’’. Sarebbe una inevitabile contraddizione riconoscere la configurabilità delle lesioni personali e negare allo stesso tempo quella dell’omicidio (27). Eppure nella dottrina e nella prassi la discussione sembra non essersi ancora esaurita. Sebbene le motivazioni siano differenti ed articolate, l’argomentazione principale e ricorrente pare essere quella basata sulla generica ‘‘inopportunità’’ di imputare un evento che si verifica a distanza di molto tempo e sulla necessità di introdurre dei correttivi alla espansione della sfera di responsabilità. Vi è chi fa ricorso alla categoria dell’imputazione obiettiva per affermare che le Spätfolgen cadono al di fuori dell’ambito di protezione della norma (28); chi fa leva sul criterio della impossibile ‘‘prevedibilità’’ (Unvorhersehbarkeit) e ‘‘dominabilità’’ (Unbeherrschbarkeit) del corso successivo degli eventi da parte dell’agente (29); chi infine, più semplicemente, si richiama al diffuso sentimento comune e giuridico che ancora fatica a probatio diabolica dell’individuazione del nesso causale ed obbliga a ricorrere all’imputazione del solo tentativo. V. al riguardo le perplessità di CASTALDO, Aids e diritto penale, cit., p. 79 ss. Cfr. supra nota 6. (25) L’obbligo di informazione tra i coniugi, come ben sottolineato nella sentenza, ha natura non solamente morale, bensì pienamente giuridica e trova la propria fonte nei doveri di reciproca assistenza e collaborazione imposti ai coniugi dall’art. 143 c.c. Nella dottrina tedesca alcuni autori configurano persino una forma di Garantenstellung in capo ai coniugi in relazione alla salute e alla vita dell’altro (cfr. DÖLLING, Anmerkung BayObLG, cit., pp. 476-477). (26) Per quanto riguarda la nozione di ‘‘malattia’’ accolta nel nostro codice e la configurabilità del contagio del virus come tale, v. le esaustive osservazioni di CASTALDO, Aids e diritto penale, cit., p. 31 ss. Per la comparazione con la corrispondente nozione nell’ordinamento tedesco v. SCHERF, Aids und Strafrecht, cit., p. 46 ss, CASTALDO, op. ult. cit., p. 39 ss. e CORNACCHIA, Profili di responsabilità per contagio da virus HIV, cit., p. 322 ss. V. inoltre la sentenza del Tribunale di Roma 13 novembre 1992, cit., p. 1570, il quale ritiene che l’infezione HIV costituisca una malattia ‘‘intesa come alterazione anatomica e funzionale dell’organismo (qual’è la immunodeficienza che la caratterizza) e, in quanto tale, riconducibile alla nozione di cui all’art. 582 c.p. Detta malattia, alla luce delle attuali conoscenze mediche, risulta sfortunatamente, pur con diversi gradi di gravità, quasi insanabile. Ricorre pertanto l’ipotesi aggravata di cui all’art. 583 comma 2 n.1 c.p.’’. (27) Difatti è pur sempre la stessa condotta a causare prima la lesione alla salute e in seguito la morte. Così la dottrina maggioritaria. Paradossalmente è più probabile ammalarsi di Aids e morire che non contrarre il virus attraverso rapporto sessuale. Gli studi scientifici non sono tuttora concordi sulla percentuale di sviluppo dell’Aids conclamata, ma essa oscilla tra il 50% e addirittura il 100%. Ciò nulla toglie al fatto che socialmente al contagio venga regolarmente ricollegata la manifestazione della malattia insanabile e quindi la inevitabile morte del soggetto. (28) SCHLEHOFER, Risikovorsatz und zeitliche Reichweite der Zurechnung, cit., p. 2021 ss. afferma che il tempo riveste un ruolo importante ai fini della imputazione, determinando una sorta di processo di ‘‘storicizzazione’’ del fatto, il cui effetto lesivo va affievolendosi per finire lentamente nel dimenticatoio della società. L’A. introduce anche una serie di criteri utili per stabilire l’inizio di una nuova ‘‘epoca’’ (gravità della lesione, grado del pericolo e caratteristiche del suo evolversi), che non sembrano tuttavia in grado di disegnare con certezza il confine tra il fatto ormai irrilevante e quello ancora imputabile. L’osservazione che, al momento del decesso, l’atto del contagio sia ormai ‘‘acqua passata’’ per via del lungo ed asintomatico periodo di incubazione può essere condivisibile se riferita al caso del soggetto che soltanto alla fine venga a conoscenza della propria malattia, ma non certo a quello del soggetto che lo scopra subito. Aderiscono a questo orientamento anche KUNZ, Aids und Strafrecht, cit., pp. 65-66 e KREUZER, Aids und Strafrecht, cit., p. 797. Critico invece HERZBERG, Aids: Herausforderung und Prüfstein des Strafrechts, cit., p. 479. (29) Così SCHÜNEMANN, Aids und Strafrecht, cit., p. 20 ss. e Die Rechtsprobleme der Aids-Eindämmung, cit., p. 483 ss. L’A. sostiene che l’applicabilità ai casi di infezione da HIV della fattispecie dell’omicidio va esclusa già sul piano dell’objektiven Tatbestand, poiché le conseguenze lesive future non sono ri-
— 311 — concepire il rapporto sessuale come condotta omicida ed esita a identificare la morte del contagiato come effetto riconducibile all’azione del sieropositivo (30). Queste sottili ed articolate teorie rivelano in realtà la chiara intenzione di spostare il fulcro dell’analisi sul solo piano della imputazione obiettiva dell’evento e di scavalcare completamente il problema dell’elemento soggettivo. Non si può certo affermare che la mera distanza temporale tra la condotta e l’evento sia criterio sufficiente per escludere la responsabilità dell’agente, considerato che nell’ordinamento penale non si rinvengono indicazioni al riguardo (31). Per quanto le questioni sollevate dai casi di infezione da virus HIV presentino particolari e delicati problemi di classificazione e interpretazione, non è ammissibile ricorrere ad artifici teorici per garantire soluzioni opportunistiche e desiderabili. Se, una volta accertata, nei limiti delle attuali conoscenze e possibilità (32), l’esistenza del nesso causale, vi è un modo per restringere la responsabilità del soggetto infetto, questo è dato solamente da una approfondita ed attenta analisi del suo atteggiamento psicologico nei confronti dell’evento (33). 3. Occorre ora passare all’esame dell’elemento soggettivo. Prima di affrontare la ricostruzione del concreto atteggiamento psicologico dell’imputato la sencomprese nel Zurechnungszusammenhang. Anche da un punto di vista sociale e ‘‘semantico’’ la morte del contagiato in seguito al lungo periodo di incubazione e di malattia non equivale ad un omicidio. Secondo l’A. è preferibile la fattispecie della Vergiftung che abbia causato una grave ed irreparabile Gesundheitszerstörung (§ 229). (30) HERZBERG, Die Strafdrohung als Waffe, cit., p. 1465, cercando una posizione compromissoria, parla di Protest des Rechtsempfindens, che spinge a riconoscere al rapporto sessuale un margine di Sozialadäquanz e impedisce l’imputazione dell’omicidio. La morte del contagiato, quale lontana conseguenza dell’azione contagiante, ha, ad avviso dell’A., un che di ‘‘fatalistico’’ (v. Die Strafdrohung als Waffe, cit., p. 1466 e Bedingter Vorsatz und objektive Zurechnung, cit., p. 783). Recentemente l’A. ha proposto di fare riferimento alla disciplina della prescrizione per risolvere il problema dell’imputazione obiettiva delle Spätfolgen nei casi di Aids (v. Die strafrechtliche Haftung, cit., p. 66 ss. e 90). (31) S’immagini il caso del chirurgo che durante un’operazione dimentichi un attrezzo o una benda all’interno del corpo del paziente, il quale muoia soltanto dopo molto tempo. Nessuno potrebbe ragionevolmente negare la responsabilità del medico! Sebbene nel nostro caso lo spazio temporale tra la condotta e l’insorgere della malattia letale sia straordinariamente lungo (con le inevitabili ripercussioni sul piano processuale per via del divieto di ne bis in idem e della prescrizione), il criterio della lontananza nel tempo è fuorviante e foriero di incertezze. Da un lato, infatti, esso porterebbe a discriminare ingiustificatamente il soggetto infetto il cui partner muoia dopo breve tempo, dall’altro, non si comprende come sia possibile tracciare una chiara linea di confine tra Spätfolgen imputabili e non. L’infezione da virus HIV porta, nella maggioranza dei casi, direttamente all’instaurarsi della malattia e questa conduce, attraverso una evoluzione continuativa ed ininterrotta alla morte del soggetto (cfr. ROXIN, Zum Schutzzweck der Norm bei fahrlässigen Delikten, in Gallas FS, 1973, p. 241 ss). La morte del contagiato costituisce, quindi, la piena realizzazione del pericolo che le fattispecie delle lesioni e dell’omicidio mirano ad evitare. La circostanza che l’evento si verifichi prima o dopo è variabile che, sebbene influenzata da numerosi fattori (costituzione fisica della vittima, tenore di vita, trattamento terapeutico), non incide sulla efficacia eziologica originaria della condotta né quindi sulla imputazione (cfr. al riguardo le riflessioni di Castaldo, Aids e diritto penale, cit., p. 90 ss.). In breve: con il rapporto sessuale non protetto il soggetto infetto ha fatto tutto ciò che è necessario e sufficiente per causare la morte del partner. In questo senso la dottrina dominante, v. BOTTKE, Sinn oder Unsinn kriminalrechtlicher Aids-Prävention, cit., p. 304; KNAUER, Aids und Hiv, cit. p. 438; SCHERF, Aids und Strafrecht, cit., p. 56 ss.; FRISCH, Riskanter Geschlechtsverkehr, cit., p. 365; MEIER, Strafrechtliche Aspekte der Aids-Übertragung, cit., p. 226; nella dottrina italiana, CANESTRARI, La rilevanza del rapporto sessuale non protetto, cit., p .1552 e CASTALDO, op. ult. cit., p. 92 (‘‘l’imputazione dell’evento è possibile, poiché l’effetto dell’azione originaria non si è mai esaurito, ed ha prodotto lentamente — in fieri — il risultato’’). (32) La constatazione che il contagio conduce nella (quasi) totalità dei casi allo sviluppo della malattia inguaribile e mortale costituisce ancora l’unico argomento decisivo e incontestabile. Ciò chiaramente non esclude che il progresso della ricerca scientifica, favorendo una comprensione sempre maggiore dei meccanismi di evoluzione dell’infezione, possa giungere a mettere in dubbio la sicura correlazione tra infezione da HIV e malattia, influenzando di conseguenza la valutazione giuridica del fenomeno. (33) Quale fattore in grado di escludere l’attribuibilità del fatto all’agente può eventualmente essere preso in considerazione, da una parte, l’istituto del consenso scriminante (Einwilligung) e, dall’altra, il principio di autoresponsabilità e la figura della autoesposizione a pericolo della vittima (Selbstverantwortungsprinzip e Selbstgefährdung). V. infra.
— 312 — tenza in esame ha ritenuto, a ragione, indispensabile soffermarsi brevemente sui criteri differenziatori delle diverse forme di dolo (34), nonché di procedere ad una breve rassegna delle teorie elaborate intorno al concetto di dolo eventuale ed alla individuazione del confine tra questo e la colpa cosciente. La puntuale analisi critica dei singoli orientamenti, anche stranieri, svolta nella sentenza rivela grande attenzione per l’evolversi del pensiero penalistico e costituisce un felice esempio di come una costante collaborazione tra dottrina e prassi possa condurre a soluzioni equilibrate ed innovatrici. L’esposizione delle principali e più consolidate teorie in tema di elemento soggettivo è ovviamente diretta ad un confronto immediato con le risultanze probatorie emerse, così da permettere una esatta comprensione del caso concreto e garantire una sua ponderata soluzione. Esclusi i casi, piuttosto rari, in cui il contagio del partner è perseguito come scopo dal soggetto sieropositivo (35), nella maggioranza delle ipotesi vi è la mera consapevolezza del rischio di contagio, ma questo, così come la propria infezione, non è in alcun modo voluto né desiderato. Si pone quindi in modo evidente il problema di distinguere tra dolo eventuale e colpa cosciente. Le nozioni di dolo e colpa non presentano particolari problemi: se il primo esige non soltanto la previsione ma anche la volontà di produrre l’evento, la colpa, anche se con previsione, richiede come elemento essenziale l’assenza di tale volontà. Da ciò la constatazione che tra il dolo e la colpa non corra soltanto una differenza quantitativa, bensì qualitativa (36). Nel dolo eventuale la coesistenza di entrambi gli elementi costitutivi, quello rappresentativo e quello volitivo, non è tuttavia tanto pacifica e proprio la necessità di adottare il concetto di volontà anche nelle ipotesi in cui non è possibile riscontrare una reale volizione, naturalisticamente intesa, ha dato luogo a profonde contraddizioni. La convinzione della assoluta irrilevanza ed inutilità dell’elemento volitivo e della sufficienza dell’elemento rappresentativo a fornire un utile criterio per determinare il confine tra dolo eventuale e colpa cosciente caratterizza essenzialmente tutte le teorie cognitive. La classica teoria della possibilità (Möglichkeitstheorie) (34) La sentenza aderisce all’orientamento più consolidato che distingue tra dolo intenzionale (evento perseguito intenzionalmente come fine ultimo o mediato, a prescindere dal grado della sua verificabilità), dolo diretto (evento non direttamente perseguito ma previsto e accettato come conseguenza certa o altamente probabile) e dolo eventuale (evento non perseguito ma previsto come conseguenza probabile o possibile, il cui rischio di verificazione è accettato pur di proseguire nella condotta). Un orientamento minoritario separa il dolo intenzionale e dolo diretto (caratterizzato pur sempre dalla preminenza della volontà dell’evento tipico, anche se in quanto mezzo necessario alla realizzazione del fine principale) dal dolo indiretto e dal dolo eventuale (evento non voluto ma previsto come certo o altamente probabile nel primo e come probabile o soltanto possibile nel secondo). La confusione terminologica è data dal fatto che sono spesso considerate figure intercambiabili dolo intenzionale e diretto e dolo indiretto e eventuale. (35) Nei casi in cui il soggetto infetto decide di contagiare intenzionalmente altre persone per desiderio di vendetta o per sentimento di disperazione e di odio verso l’umanità si è soliti parlare di Desperadomentalität. (36) Se la coscienza sociale ed il sentimento di giustizia scorgono nel delitto doloso una carica di pericolosità maggiore rispetto a quella dei delitti colposi e legittimano pertanto una reazione più severa da parte dell’ordinamento, bisogna recuperare prima di tutto la distinzione materiale tra le due forme dell’elemento soggettivo secondo lo schema da aliud a aliud. La questione va oltre una mera precisazione terminologica, in base alla quale dolo e colpa non sarebbero altro che nomi per distinti livelli di colpevolezza. Dolo e colpa, e così il dolo eventuale e la colpa cosciente, contengono infatti uno specifico e distinto grado di rimproverabilità, cosicché non è questione di interrompere in modo arbitrario un continuum, ma di stabilire il punto esatto in cui i due concetti trovano il loro confine, per così dire, naturale. Chiaro in questo senso CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai confini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, 1999, p. 16, quando critica la cristallizzazione del binomio dolo eventuale-colpa cosciente ‘‘quale espressione di realtà normative e confinanti, anziché di due figure accomunate dal fatto di essere poste ‘ai confini’ (inferiore/superiore) dei distinti universi del dolo e della colpa’’. Ribadisce anche PROSDOCIMI, Dolus eventualis. Il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali, 1993, p. 32, che dolo eventuale e colpa cosciente sono in primo luogo dolo e colpa tout court.
— 313 — ritiene sufficiente ai fini dell’imputazione del dolo eventuale la rappresentazione della verificabilità dell’evento in termini di mera possibilità (37). Di conseguenza, da un lato, l’esclusione dell’elemento volitivo dalla definizione del dolo e la sua riduzione alla sola volontarietà dell’azione fa sì che la volontà si inquadri in una rappresentazione più o meno ampia (concreta o astratta) della situazione tipica, dall’altro, la colpa cosciente ed il dolo concepito come coscienza si sovrappongono completamente, avvicinando il confine del dolo a quello della colpa incosciente. Il criterio della possibilità non è in grado di determinare il confine del dolo eventuale con la colpa cosciente, essendo entrambe le figure caratterizzate dalla previsione dell’evento. Nemmeno l’introduzione del correttivo della distinzione tra rappresentazione concreta ed astratta offre una valida indicazione, poiché non si comprende come il processo di rimozione del pericolo possa essere considerato rilevante se non ancorato a precisi e validi elementi di fatto (38). La successiva teoria della probabilità (Wahrscheinlichkeitstheorie) non fa che restringere il criterio per la configurabilità del dolo eventuale ad una previsione dell’evento come conseguenza probabile della condotta (39). Al di là della constatazione che persino la previsione di un’alta probabilità di realizzare l’evento non dice ancora nulla della reale disposizione dell’agente nei confronti della lesione e che essa non può certo essere ritenuta equivalente alla volontà diretta all’evento, il rilievo comunque più evidente è che non si può fondare la differenza tra dolo e colpa, fenomeni psicologici e forme di imputazione diverse, su criteri meramente quantitativi, pena uno stridente contrasto con il nostro ordinamento positivo (40). Nondimeno il criterio, soprattutto quello della probabilità, è molto usato nella prassi, non tanto, come potrebbe apparire a prima vista, in funzione di una evidente semplificazione probatoria (41), quanto perché la previsione di un’alta probabilità di verificazione dell’evento costituisce un indizio fondamentale per verificare la sussistenza dell’elemento volitivo (42). (37)
SCHRÖDER, Aufbau und Grenzen des Vorsatzbegriffs, in Sauer FS, 1949, p. 207 ss.; SCHMI-
DHÄUSER, Die Grenze zwischen vorsätzlicher und fahrlässiger Straftat (dolus eventualis und bewußte Fahr-
lässigkeit), in JUS, 1980, p. 241 ss. Recentemente MORKEL, Abgrenzung zwischen vorsätzlicher und fahrlässiger Straftat, in NStZ, 1981, p. 176 ss. (38) La distinzione tra previsione concreta ed astratta è stata ripresa da M. GALLO, Il dolo, oggetto ed accertamento, in Studi Urbinati, 191-1952; p. 125 ss. e voce Dolo (dir. pen.) in EdD, vol. XIII, 1964, p. 750 ss. L’A. ritiene che si abbia colpa cosciente quando il soggetto è passato da un giudizio dubitativo (‘‘un reato di può verificare’’) ad una previsione negativa (‘‘il reato non si verificherà’’). Il criterio della previsione concreta negativa elaborato per individuare la colpa cosciente è tuttavia profondamente equivoco (un evento negativamente previsto si identifica di fatto con una non previsione) ed in contrasto con il nostro ordinamento, che richiede per l’integrazione dell’art. 61 n. 3 una previsione necessariamente concreta dell’evento. Pretendere infatti per la colpa cosciente una previsione astratta dell’evento significa, di fatto, fondare la sua imputazione sulla mera prevedibilità. Così PAGLIARO, La previsione dell’evento nei delitti colposi, in Riv. giur. circolaz. e trasp., 1963. p. 349; PROSDOCIMI, Reato doloso, cit., p. 240 e CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., p. 38. Il criterio viene tuttavia spesso utilizzato in giurisprudenza, v. Cass. 19 novembre 1999, n. 385; Cass. 25 gennaio 2000, n. 2348; Cass. 27 gennaio 1996, in Cass. pen., 1997, p. 991. V. anche, da ultimo, M. GALLO, Ratio e struttura nel dolo eventuale, in Critica del diritto, 1999, p. 412. (39) MAYER, Strafrecht, AT. Studienbuch, 1967, p. 121 ss.; JAKOBS, Strafrecht, AT. Die Grundlagen und die Zurechnungslehre, 1983, p. 220 ss. (40) Per tutti v. GALLO, Dolo, cit., p. 791. (41) La possibilità e la probabilità possono sembrare elementi osservabili e calcolabili. Lo sono infatti su un piano obiettivo. Quando però si tratta di indagare come un soggetto abbia percepito e valutato un pericolo ed un rischio, si incontrano difficoltà addirittura maggiori rispetto a quelle che emergono in sede di ricostruzione dell’elemento volitivo (cfr. PROSDOMICI, voce Reato doloso, in DDP, vol. XI, 1996, p. 259 e EUSEBI, Il dolo come volontà, 1993, p. 168). Diventa allora inevitabile ricorrere a facili presunzioni e deduzioni, scambiare la previsione con la semplice prevedibilità. In assenza di attendibili dichiarazioni dello stesso soggetto i giudici non dovrebbero fare altro che stabilire quanto riconoscibile fosse obiettivamente il pericolo e concludere che l’imputato non poteva non essere consapevole del rischio. (42) Va precisato, infatti, che nella prassi italiana il criterio trova applicazione all’interno della teoria dell’accettazione del rischio, per la quale rimane pur sempre irrinunciabile il successivo accerta-
— 314 — Ammessa, peraltro, in ipotesi, l’applicazione ai casi di Aids del solo criterio obiettivo fondato sulla probabilità di verificazione del contagio, di cui si presuppone l’attuale consapevolezza presso l’agente, risulta praticamente impossibile ammettere il dolo, a causa dello scarso rischio d’infezione presente in un rapporto sessuale. Non offrono soluzioni più convincenti nemmeno le teorie volontaristiche tradizionali, le quali, a fronte dei talvolta estremi tentativi delle teorie cognitive di svalutare l’importanza del momento volitivo, cercano di specificare ed estendere sempre più il concetto di volontà, con l’effetto di snaturarne il significato originario e di complicare enormemente l’indagine empirica. Le nozioni di consenso, approvazione, indifferenza, rassegnazione hanno di volta in volta sostituito la volontà e la colpa cosciente ha finito con l’essere identificata con la fiducia e la speranza che l’evento lesivo previsto non si verifichi (43). È tuttavia di intuitiva evidenza che l’acconsentire ad un evento non significa dirigere ad esso la propria volontà e neppure il confidare nel fatto che l’evento non si verifichi esclude automaticamente la volontà di cagionarlo. Il requisito del consenso, così come di tutti gli stati ad esso assimilati, facendo in realtà riferimento alla posizione emotiva del soggetto nei confronti dell’evento, non riesce a rendere ragione della maggiore rimproverabilità del dolo e tradisce la funzione di un ordinamento penale democratico diretto alla obiettiva tutela dei beni giuridici e non certo alla valutazione dell’atteggiamento di interiore approvazione o disapprovazione, considerazione o indifferenza degli individui nei confronti dei beni stessi e alla individuazione di particolari ‘‘tipi’’ di autore. Gli stessi argomenti ci portano a negare la decisività ai fini dell’esclusione del dolo dei criteri della speranza e della fiducia. Non è certo sufficiente una mera presa di distanza sul piano psicologico dall’esito della propria azione per ‘‘neutralizzare’’ la consapevolezza di poter provocare con probabilità o certezza la lesione del bene. Sentimenti ed affetti, poiché non costituiscono elementi caratterizzanti del dolo e della colpa, non possono in alcun modo influire sulla valutazione della colpevolezza e legittimare un trattamento diverso (44). Nel caso di trasmissione del virus HIV per via sessuale sarebbe, inoltre, difficile accertare una ‘‘volontà cattiva’’ nei confronti del partner soprattutto se il rapporto è consensuale e si svolge, come nel caso in esame, all’interno di una stabile relazione affettiva. Quale imputato, peraltro, non giurerebbe, anche contro ogni evidenza, di aver seriamente confidato nel buon esito della propria condotta? Soltanto la presenza di fattori in grado di impedire, agli occhi dell’agente, la realizzazione dell’evento può eventualmente giustificare un sentimento di fiducia. L’ affidamento su particolari capacità o abilità proprie o altrui, persino della stessa vittima, e la presenza nella situazione concreta di elementi oggettivi in grado di evitare la lesione del bene, che abbiano determinato il soggetto ad agire nella convinzione di non poter causare l’evento, lungi dal legittimare di per sé un trattamento dell’elemento volitivo (infra). Cfr. la nota sentenza Cassata, Cass. 25 gennaio 1994, in Cass. pen., 1994, 1186. (43) V. la Gefühlstheorie di ENGISCH, Untersuchungen über Vorsatz und Fahrlässigkeit im Strafrecht, 1933, p. 233 ss. Sostiene la teoria del consenso nella letteratura italiana PECORARO-ALBANI, Il dolo, l955, p. 306 ss. Cfr. inoltre la posizione di MORSELLI, Coscienza e volontà nella teoria del reato, in Arch. pen., 1966, p. 432 ss. e più recentemente L’elemento soggettivo del reato nella prospettiva criminologica, in questa Rivista, 1991, p. 96 ss., il quale propone una nuova definizione del dolo in termini di ‘‘atteggiamento interiore di cosciente adesione ai propri meccanismi intrapsichici antisociali’’. In passato anche MALINVERNI, Gli stati affettivi nella nozione del dolo, in Arch. pen., 1955, p. 365. (44) Critici nei confronti della ammissione del dolo sulla base di entità psichiche diverse, CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., p. 45; PAGLIARO, Principi, cit., p. 274 e EUSEBI, Il dolo come volontà, cit., p. 182. V. anche ROXIN, Strafrecht, cit., p. 361 e HASSEMER, Caratteristiche del dolo, cit., p. 496, che parla al riguardo di inutili parafrasi del dolo.
— 315 — mento di favore, possono comunque assumere una notevole rilevanza indiziaria ai fini della ammissione della sola colpa cosciente (45). Applicato ai casi di rapporto sessuale con infetto HIV il criterio basato sulla attuazione di contromisure riveste tuttavia un’importanza limitata: poiché l’uso del profilattico, riducendo efficacemente il pericolo di contagio, è considerato già dalla dottrina, ancor prima che sintomo della volontà dell’agente di evitare la trasmissione del virus, presupposto necessario per rendere il rischio consentito e tollerato, il criterio permette di attribuire rilevanza solamente al ricorso a pratiche di safer-sex alternative, in particolare al coitus interruptus (46). L’orientamento più recente e accreditato ricorre al criterio della accettazione del rischio (47). In base ad esso si ha dolo eventuale quando l’agente, nonostante la previsione della possibile realizzazione dell’evento, agisce comunque, accettandone il relativo rischio; colpa cosciente quando il soggetto, nonostante l’iniziale previsione dell’evento, agisca nella sicura fiducia e convinzione che questo non si verificherà. Come già osservato riguardo al criterio del consenso, si pretende ancora di identificare la volontà con un atteggiamento che in realtà non è volontà, ma una presunta forma meno intensa di essa, con l’unica differenza che non si richiede più una approvazione o accettazione interiore dell’evento lesivo (48). La volontà dell’evento non viene accertata direttamente, ma dedotta dal fatto che il soggetto, (45) V. il concetto di Vermeidewille sviluppato da Armin KAUFMANN, Der dolus eventualis im Deliktsaufbau, in ZStW, 1958, p. 64 ss. L’A. sostiene di aver colto la differenza strutturale tra dolo e colpa grazie ad un criterio obiettivo, non più fondato sulla Gesinnung o sulla Einstellung. L’obiettività è data da una volontà che si deve manifestare necessariamente nel mondo esterno e dal fatto che l’agente debba riconoscere alla propria capacità e abilità di evitare l’evento una reale possibilità (reelle Chance). Apprezza il criterio HILLENKAMP, Dolus eventualis und Vermeidewille, in Armin Kaufmann GedS, 1989, p.351 ss. Ha recentemente sostenuto la decisività del criterio anche SCHROTH, Die Rechtssprechung des BGH zum Tötungsvorsatz in der Form des dolus eventualis, in NStZ, 1990, p. 326 e Die Differenz von dolus eventualis und bewußter Fahrlässigkeit, in JUS, 1992, p. 8. Cfr. per una variante della teoria in termini di ‘‘schermatura’’ del pericolo (Abschirmung der Gefahr) la tesi di Herzberg. Critici HASSEMER, Caratteristiche del dolo, (trad. it. di S. Canestrari) in Ind. pen., 1991, p. 484; CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cociente, cit., p. 42. Sottolineano I’irrazionalità di un atteggiamento di fiducia e speranza HERZBERG, Bedingter Vorsatz und objektive Zurechnung, cit., p. 781 e MEIER, Strafrechtliche Aspekte der Aids-Übertragung, cit., p. 224. La dottrina è ormai unanime nel ritenere la presenza di un’operosa volontà di evitare quale semplice indizio per la sussistenza della fiducia nella non verificazione dell’evento. (46) V. la fattispecie concreta esaminata dal LG Nürnberg-Fürth (16 novembre 1987), in NJW, 1988, p. 2311 e successivamente dal BGH (4 novembre 1988), cit. (47) Nella manualistica ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, 14a ed., 1997, p. 499; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, 3a ed., 1995, p. 323; MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, 3a ed., 1992, p. 321; PADOVANI, Diritto penale, 4a ed., 1998, p. 260. Inoltre ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, 2a ed., 1995, p. 410; G.A. DE FRANCESCO, Dolo eventuale e colpa cosciente, in questa Rivista, 1988, p. 134. Il criterio è usato costantemente in giurisprudenza, v. Cass. 30 ottobre 1997, in CED Cass 208392; Cass. 12 aprile 1996, in Cass. pen., 1997, p. 580; Cass. 25 gennaio 1994, in Mass. dec. pen., 1994, 195804; Cass. 24 febbraio 1994, in CED Cass. 198272; Cass. 24 aprile 1994, in Cass. pen., 1995, 1098 (‘‘si ha dolo eventuale quando la volontà non si dirige direttamente all’evento (dolo diretto), ma quando questo è accettato’’); fra le tante meno recenti v. Cass. 22 maggio 1985, in Cass. pen., 1985, 2017; Cass. 24 maggio 1984, ivi, 1986, 466; Cass. 25 maggio 1981 (Andraous), ivi, 1982, 1535; Cass. 21 dicembre 1981, ivi, 1983, 1335; Cass. 23 settembre 1980, ivi, 1981, 1988 (quest’ultima motiva che il dolo eventuale ‘‘non è una finzione giuridica, ma corrisponde a una realtà psicologica che assimila al dolo diretto o intenzionale il caso di chi, essendosi rappresentato le ulteriori conseguenze della propria azione criminosa, continua ad agire a costo di provocarle, accettandone il rischio e trasferendo nella volontà ciò che era solo nella previsione’’). (48) Questa impostazione è condivisa dalla dominante giurisprudenza tedesca con la Billigungstheorie, v. la nota sentenza BGHSt 7, 363 (Lederriemenfall), in cui si fa chiaro ed esplicito riferimento ad un consenso in senso normativo (billigen im Rechtssinne). La sentenza ha sollevato in Germania numerose critiche da parte di entrambe le correnti, volontarista e cognitivista. Per tutti v. ROXIN, Strafrecht, AT, cit., p. 363; HERZBERG, Das Wollen beim Vorsatzdelikt und dessen Unterscheidung vom bewußt fahrlässigen Verhalten, in JZ, 1988, p. 574 ss.; PUPPE, Der Vorstellungsinhalt des dolus eventualis, in ZStW, 1991, p. 6 ss.
— 316 — sebbene consapevole del rischio, non abbia preso le distanze dall’azione programmata. L’incertezza ed il dubbio intorno alla possibile realizzazione dell’evento non equivalgono tuttavia alla volizione dello stesso, esprimendo piuttosto un atteggiamento ‘‘negativo’’, non certo positivo verso l’evento, quale quello richiesto ai fini dell’imputazione del dolo. L’accettazione del rischio, come bene è stato messo in luce, è in realtà un atteggiamento tipicamente colposo (49). È purtroppo esperienza comune e molto frequente l’agire in stato di dubbio, poiché risulta praticamente impossibile sapere con certezza quale sarà lo sviluppo degli avvenimenti, dipendendo questo dall’interazione di fattori eterogenei e non sempre controllabili. Il soggetto che non persegua intenzionalmente un evento agirà nella maggioranza dei casi comunque sempre col dubbio di poterlo cagionare. Soltanto la certezza assoluta che l’evento non si verificherà sarebbe in grado di escludere il dolo. Ma la certezza assoluta, ammesso che sia configurabile, esclude necessariamente anche la stessa colpa cosciente, poiché agire nella convinzione che un fatto non si produrrà significa, di fatto, agire senza prevederlo. Alla luce di queste considerazioni pare legittimo concludere che il criterio dell’accettazione del rischio cancella la sostanziale differenza intercorrente tra dolo eventuale e colpa cosciente, trascurando la diversa funzione che le due figure svolgono all’interno del nostro ordinamento. Esso irrimediabilmente tradisce il dato normativo che, prevedendo una autonoma figura di colpa aggravata dalla previsione dell’evento, esige ai fini dell’imputazione del dolo qualcosa di più di una mera accettazione del rischio. La sfumatura che distingue l’accettazione del mero rischio dall’accettazione del danno, sebbene solo eventuale, l’accettazione di una situazione potenzialmente pericolosa dall’accettazione di un evento determinato, ‘‘puntualizzato’’, non è davvero di poco conto e, anzi, si rivela decisiva per la vera indagine del dolo, diretta ad accertare se l’evento sia stato oggetto della decisione e risoluzione dell’agente. L’impostazione tradizionale, basata sulla accettazione del rischio (Billigung) viene seguita dalla giurisprudenza sia tedesca che italiana anche nell’ipotesi Aids. In Germania il caso dell’omosessuale sieropositivo che ha avuto diversi rapporti sessuali non protetti con partners ignari del pericolo rappresenta il leadingcase (50): l’imputazione è stata di tentate lesioni personali a titolo di dolo eventuale, perché l’agente, ben consapevole del proprio stato e informato riguardo alle modalità di trasmissione del virus, aveva previsto come possibile l’evento-contagio e, preferendo soddisfare i propri istinti sessuali e persistendo nella condotta pericolosa, aveva dimostrato di aver accettato ed approvato l’eventualità di infettare i partners. Non è stata quindi ritenuta rilevante e decisiva da parte dei giudici la circostanza che l’imputato confidasse, in considerazione dello scarso pericolo di infezione, nella non verificazione del contagio. Nonostante il BGH abbia ribadito la necessità di dimostrare la effettiva volizione dell’evento, sembra piuttosto che questa sia stata desunta dalla mera riconoscibilità e consapevolezza del rischio da parte dell’agente (51). (49) Così espressamente PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, 6a ed., 1998, p. 274 e PROSDOCIMI, Reato doloso, cit., p. 244. (50) V. la sentenza del LG Nürnberg-Fürth, poi confermata dal BGH, 1StR 262/88 (cit., supra nota 1). (51) Critici nei confronti della Billigungsformel e della mera deduzione del Wollen dal Wissen, SCHÜNEMANN, Aids und Strafrecht, cit., p. 16; SCHERF, Aids und Strafrecht, cit., p. 118 ss.; BOTTKE, Strafrechtliche Probleme von Aids, cit., pp. 191-192; FRISCH, Riskanter Geschlechtsverkehr, cit., p. 368; KUNZ, Aids und Strafrecht, cit., p. 59; HASSEMER, Strafbarkeit eines HIV-lnfizierten, cit., p. 762; HERZBERG, Die Strafdrohung als Waffe, cit., p. 1464; SCHLEHOFER, Risikovorsatz und zeitliche Reichweite der Zurechnung, cit., p. 2018; CANESTRARI, La rilevanza del rapporto sessuale non protetto, cit., p. 154.
— 317 — Ancora una volta, quindi, emerge come la evidente manipolabilità del criterio della Billigung serva ad imputare una volontà e una accettazione dell’evento lesivo in casi di difficile accertamento, al fine di giustificare l’ambito di operatività che si vuole assegnare al dolo e la sua continua espansione a scapito della colpa cosciente. Data infatti la bassa percentuale di contagio in un rapporto sessuale occasionale, la fiducia e la convinzione del sieropositivo di non trasmettere l’infezione non può certo considerarsi infondata ed irragionevole e sorprende davvero che qui non se ne tenga conto, quando proprio questi sono i criteri principali solitamente utilizzati per negare il dolo ed imputare la colpa cosciente (52). Suscita inoltre altrettanta perplessità la ferma negazione da parte del BGH del dolo di omicidio. Se si ammette il dolo eventuale di (tentata) lesione personale, sulla base della rappresentazione della possibilità di contagiare l’altro e della presunta accettazione di questa, non si comprende davvero come si possa negare, a questo punto, l’imputazione del dolo eventuale di (tentato) omicidio, data la stretta relazione tra contrazione della malattia e morte (53). Indubbiamente la Corte tedesca si è trovata di fronte ad un’ardua scelta, considerato anche che, nel caso sottoposto al suo esame, la morte del contagiato non si era ancora verificata. Una inconsueta motivazione ha rimosso il dilemma: di fronte all’omicidio vi sarebbe una ‘‘höhere Hemmschwelle’’ (soglia di inibizione), che l’imputato non avrebbe superato in virtù della speranza, definita ragionevole, che nel frattempo venisse scoperto un rimedio per curare la malattia. La sentenza è stata, a ragione, ritenuta frutto di un’incoerente applicazione dei criteri distintivi tra dolo e colpa e quindi espressione di un provvisorio compromesso (54). La speranza, definita prima ‘‘vaga’’, di non trasmettere il virus non è stata sufficiente ad escludere il dolo eventuale di lesione, ma, allo stesso tempo, essa, considerata poi ‘‘ferma’’, è stata ritenuta decisiva per escludere il dolo eventuale di omicidio (55). (52) Afferma che ‘‘il processo di negazione del rischio potrebbe non essere definito superficiale, in quanto fondato sul riconoscimento della scarsa rilevanza statistica della trasmissione del virus’’ e nega conseguentemente il dolo eventuale CANESTRARI, La rilevanza del rapporto sessuale non protetto, cit., p. 154. Nello stesso senso ROXIN, Strafrecht, AT, 2a ed., 1994, p. 383; HERZBERG, Aids: Herausforderung und Prüfstein des Strafrechts, cit., p. 475; SCHERF, Aids und Strafrecht, cit., p. 129; BOTTKE, Strafrechtliche Probleme von Aids, cit., p. 189; KUNZ, Aids und Strafrecht, cit., p. 62; BRUNS, Nochmals: Aids und Strafrecht, cit., p. 2282; KREUZER, Aids und Strafrecht, cit., p. 798. Sottolinea opportunamente come sia ‘‘quantomeno problematica la verifica del passaggio dall’accettazione del rischio di contagio all’accettazione dell’evento letale in quanto tale’’ NICOSIA, Contagio di Aids tra marito e moglie, cit., p. 357. Nega il dolo eventuale anche FRISCH, Riskanter Geschlechtsverkehr eines HIV-lnfizierten, cit., pp. 367-368, il quale osserva che il caso del sieropositivo che consuma un rapporto sessuale non protetto nella consapevolezza di poter trasmettere l’infezione è paragonabile al caso, tradizionalmente riportato alla colpa cosciente, dell’automobilista spericolato che corre a velocità elevata rappresentandosi la possibilità di cagionare un incidente. Cfr. anche CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., p. 77. Scettico di fronte al tentativo di ‘‘ricondurre un simile processo di rimozione, analizzabile con gli strumenti della psicologia del profondo, alla (inevitabilmente) più ‘grezza’ teoria del dolo’’, NICOSIA, op. ult. cit., p. 357. (53) V. supra Il dolo di omicidio è stato negato anche in altri casi, v. AG München (6 maggio 1987), cit.; AG Kempten (1 luglio 1988), cit.; ha ammesso invece il tentato omicidio LG München I (20 luglio 1987), cit. (54) Se infatti il soggetto accetta la scarsa probabilità di contagio, deve necessariamente accettare l’elevata probabilità dell’esito letale del contagio stesso. In questi termini HERZBERG, Die Strafdrohung als Waffe, cit., pp. 1464, 1466; MAYER, Die ungeschützte geschlechtliche Betätigung des Aids-Infizierten, cit., p. 786; KUNZ, Aids und Strafrecht, cit., p. 65; ROXIN, Strafrecht, cit., p. 383; MEIER, Strafrechtliche Aspekte der Aids-Übertragung, cit., p. 223; CANESTRARI, La rilevanza del rapporto sessuale non protetto, cit., p. 157 e ID., Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., p. 53; CORNACCHIA, Profili di responsabilità per contagio da virus HIV, cit., p. 328. Ritengono invece degna di considerazione e credibile la fiducia del soggetto nella scoperta di un rimedio contro l’Aids, BRUNS, Nochmals: Aids und Strafrecht, cit., p. 2282 e HASSEMER, Strafbarkeit des Aids-Infizierten, cit., p. 762. Critici nei confronti del criterio della Hemmschwelle, SCHERF, Aids und Strafrecht, cit., p. 131 ss.; SCHÜNEMANN, Aids und Strafrecht, cit., p. 18 e PUPPE, Die Logik der Hemmschwellentheorie des BGH, in NStZ, 1992, p. 576. (55) In questi termini CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., p. 168. Critico nei con-
— 318 — Vi sarebbe stata, insomma, accettazione rassegnata dell’eventualità del contagio, ma non accettazione dell’eventualità della morte del contagiato. È evidente che la prova dell’elemento volitivo è stata vistosamente aggirata e sostituita dalla valutazione obiettiva della rischiosità della condotta e della prevedibilità astratta dell’evento (56). E proprio nei casi di contagio da virus HIV, casi che a ragione costituiscono vero banco di prova per la dogmatica del dolo, emergono in tutta la loro chiarezza le mancanze della teoria tradizionale, la fragilità e superficialità dei criteri adottati. La prassi, trincerandosi dietro ad un concetto di dolo privato del requisito della volontà dell’evento, di cui vanta un rispetto puramente formale, giunge, di fatto, ad un risultato pratico coincidente con quello delle recenti teorie cognitive del rischio obiettivo. Dalla sentenza del Tribunale di Cremona emergono le stesse riserve nei confronti dell’applicazione della teoria dell’accettazione del rischio al caso esaminato. Sebbene la sentenza aderisca all’orientamento dominante in Italia, essa svela una forte componente innovatrice: il criterio dell’accettazione del rischio viene infatti integrato e aggiornato alla luce delle recenti acquisizioni della più attenta dottrina italiana e tedesca. Partendo dalla iniziale considerazione della ratio del diverso grado di rimproverabilità e punibilità di dolo e colpa, la sentenza si interroga sulla specifica struttura del momento rappresentativo nel dolo eventuale e nella colpa cosciente e sulle diverse condizioni che determinano l’agente ad accettare o meno il rischio. Come limpidamente è scritto in motivazione, ‘‘l’accento deve porsi sulla definizione ‘in negativo’ del dolo eventuale, ricercando a quali condizioni si possa riscontrare la presenza di quella sicura certezza o ferma convinzione (per quanto oggettivamente erronea) nella non verificazione dell’evento che delimita ab extrinseco la sfera del dolo eventuale’’. Secondo autorevole dottrina è necessario accertare se il rischio è stato accettato per negligenza, imperizia o imprudenza o in seguito a un bilanciamento ed una valutazione comparativa di interessi, quale ‘‘prezzo’’ per il raggiungimento di uno scopo (57). L’errore interpretativo che sta alla base del fuorviante binomio ‘‘previsione astratta-previsione concreta’’, consiste nel cercare di individuare il concetto di colpa cosciente in via autonoma, senza tener conto che essa è pur sempre colpa e, quindi, caratterizzata dalla violazione della regola di diligenza. L’agente che agisce con colpa cosciente non desiste dall’azione perché ritiene (erroneamente, s’intende) di poter evitare con certezza la realizzazione dell’evento anche senza osservare la norma cautelare, rappresentandosi l’intervento di elementi impeditivi ed interruttivi del nesso causale (58). Contrariamente, il soggetto versa fronti della trasformazione, a seconda delle esigenze, della mera speranza (irrilevante) in fiducia (rilevante), SCHÜNEMANN, Vom philogischen zum typologischen Vorsatzbegriff, in Hirsch FS, 1999, p. 368. (56) Non si può infatti più parlare di pura teoria dell’accettazione, quanto piuttosto di una Kombinationstheorie, che ricorre ora al criterio della probabilità dell’evento, ora al criterio del rischio obiettivamente riconoscibile, ora al criterio dell’indifferenza. Critico in questo senso SCHÜNEMANN, Riskanter Geschlechtsverkehr, cit., p. 93. (57) Così PROSDOCIMI, Dolus eventualis. Il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali, 1993, p. 32 ss.; ID., Reato doloso, cit., p. 244. (58) Come ben sottolineato nella sentenza ‘‘nella colpa cosciente il soggetto attivo versa in errore non tanto in relazione all’evento in sé e per sé considerato, quanto piuttosto in relazione al nesso di causalità che collega l’evento alla sua condotta, poiché ritiene che, in concreto, tale nesso rimanga allo stadio meramente potenziale, cioè sia ‘paralizzato’ da ben precisi fattori’’ (...) ‘‘la prospettazione del nesso di causalità è quell’elemento che, nella valutazione dell’agente, conferisce concretezza all’evento, poiché lo colloca in una dimensione di accadibilità reale’’. È palese il richiamo alla ricostruzione della nozione di colpa cosciente elaborata da G.A. DE FRANCESCO, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., p. 139 ss., per il quale l’agente deve essere consapevole del significato teleologico della regola cautelare violata valida nella situazione concreta e, non astenendosi dall’agire, ‘‘sostituisce la propria valutazione a quella posta alla base di tale regola, nella convinzione che l’evento che essa mirava appunto ad evitare non avrà tuttavia a
— 319 — in dolo eventuale quando si sia concretamente rappresentato il nesso causale, accettando pertanto non solo il mero rischio, bensì la possibile lesione del bene giuridico. L’evento viene in questo caso ricompreso nel piano dell’agente ed è quindi, oltre che preveduto, voluto come conseguenza della propria azione (59). Il dolo eventuale rientra così perfettamente nella definizione legislativa del dolo contenuta nell’art. 43 c.p. e la colpa cosciente recupera, allo stesso tempo, la sua struttura colposa di fondo. Sul piano dell’accertamento pratico si dovrà allora ricercare la presenza di elementi oggettivi impeditivi o interruttivi, tali da indurre l’agente a escludere ogni possibilità di verificazione del danno, oppure sintomatici e indicativi di una avvenuta decisione per la possibile violazione del bene giuridico. Soltanto questa valutazione permette di superare la semplicistica e riduttiva considerazione del solo momento cognitivo (in termini di previsione astratta o concreta) e di valorizzare pienamente la differenza sostanziale e qualitativa intercorrente tra dolo eventuale e colpa cosciente. Si è dimostrato breve il passo che conduce la prassi a considerare necessariamente concreta la rappresentazione di un evento come certo o probabile, senza sforzarsi di accertare oltre la presenza di una effettiva presa di posizione e volizione nei confronti dell’evento, cedendo a facili deduzioni e comode presunzioni. Una volta stabilito il grado di verificabilità dell’evento e provata la corrispondente consapevolezza presso l’agente, in assenza di altre circostanze, l’accettazione, e di conseguenza il dolo, può dirsi in re ipsa. Un’attenta analisi del nostro sistema penale nel suo complesso ci deve invece portare a concludere che il fattore della maggiore o minore probabilità di realizzazione della lesione può valere, tutt’al più, come indizio della presenza del dolo, non potendosi trarre da esso valide indicazioni per la classificazione delle forme del dolo e per la sua delimitazione dalla colpa cosciente (60). Va sottolineato, infine, come sul giudizio di responsabilità influiscano fattori quali l’illiceità della condotta principale e, soprattutto, l’esito fausto o infausto dell’azione stessa. Si propende infatti a ravvisare il dolo eventuale nel comportamento che abbia causato delle lesioni gravi o addirittura la morte della vittima, verificarsi, in virtù di determinati fattori impeditivi dipendenti da circostanze esterne o da particolari capacità od attitudini di cui l’agente si ritiene in possesso" (op. ult. cit., pp. 140-141). V. anche CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., p. 80, e pp. 298-299 (la colpa con previsione ‘‘rappresenta la sintesi forse più efficace tra misura oggettiva e soggettiva della colpa’’). Inoltre PROSDOCIMI, Dolus eventualis. Il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali, 1993, pp. 38-39; DONINI, Teoria del reato. Una introduzione, 1996, p. 337 ss.; ritiene invece la colpa cosciente una autonoma forma di colpa, PADOVANI, Il grado della colpa, in questa Rivista, 1969, p. 853 ss. (59) Cfr. il concetto centrale di Planverwirklichung usato da Roxin quale unitario criterio per la definizione del dolo (Strafrecht, AT, cit., p. 349). (60) Senza considerare poi il fatto che non appare chiaro se si debba avere riguardo al grado di previsione effettivamente raggiunto dall’agente oppure al grado di obiettiva verificabilità e quindi prevedibilità dell’evento. I due problemi sono in verità strettamente collegati, essendo il primo causa del secondo. Constatato, infatti, che la rappresentazione dipende in buona parte da fattori casuali e incontrollabili, le insormontabili difficoltà di ordine probatorio rendono necessario il ricorso a strumenti di semplificazione nel procedimento di ricostruzione dell’elemento soggettivo. Ha fatto aperto ricorso a presunzioni la sent. della Corte d’Appello di Milano, 22 aprile 1986, in questa Rivista, 1987, p. 1068, con commento di Eusebi; più recentemente Cass. 13 febbraio 1998, in Giust. pen., 1999, II, 311, 162; Cass. 23 ottobre 1997, ivi, 1998, II, 735; Cass. 3 luglio 1996 (Garbin), in Cass. pen., 1997, 991. Accenna alla pericolosa tendenza giurisprudenziale che ‘‘invoca il dolo eventuale coma scappatoia per evitare difficoltà nell’accertamento e nella motivazione della volontà’’, la nota sentenza Cassata (Cass. 25 gennaio 1994, in Cass. pen., 1994, p. 1189). Cfr. anche Cass. 15 dicembre 1992 (Cutruzzolà), ivi, 1993, 1095; Cass. 29 aprile 1989, ivi, 1990, p. 854. In dottrina evidenzia il rischio della sovradilatazione del dolo a scapito della colpa, EUSEBI, In tema di accertamento del dolo: confusioni tra dolo e colpa, in questa Rivista, 1987, p. 1061 ss. Riguardo all’ ‘‘atteggiamento rinunciatario’’ della giurisprudenza sono ancora valide le osservazioni di BRICOLA, Dolus in re ipsa. Osservazioni in tema di oggetto e accertamento del dolo, 1960, p. 5 e nota 28, p. 45; critici anche FORTE, Ai confini fra dolo e colpa: dolo eventuale o colpa cosciente?, in questa Rivista, 1999, p. 233 ss; BATTAGLINI, Considerazioni sul dolo eventuale, in Cass. pen., 1986, p. 470 e BRAMANTE, Sviluppo giurisprudenziali in tema di dolo eventuale, in Ind. pen., 1995, p. 734.
— 320 — mentre in presenza di lesioni di lieve entità lo stesso comportamento viene giudicato con maggior clemenza e imputato a titolo di mera colpa cosciente (61). Ci sono, inoltre, condotte che abitualmente vengono classificate come colpose, indipendentemente da un’indagine diretta all’accertamento dell’effettivo stato psicologico, divenute oramai dei veri e propri ‘‘cliché colposi’’ (v. reati legati al traffico stradale e, recentemente, anche i casi di trasmissione del virus HIV) (62). Rifiutata fermamente ogni deduzione e presunzione dell’elemento volitivo, la sentenza in esame, allo scopo di integrare e specificare ulteriormente il tradizionale criterio dell’accettazione del rischio, aderisce all’orientamento che identifica il quid pluris del dolo eventuale in una decisione personale per la possibile lesione del bene gluridico (63). Le recenti teorie della volontà concentrano la propria attenzione non più sul significato naturalistico e pregiuridico del dolo, bensì sul ruolo che esso svolge all’interno del sistema penale. Si avverte finalmente l’esigenza di superare la rigida e sterile dicotomia tra elemento cognitivo ed elemento volitivo, che per decenni ha paralizzato la dottrina, costringendola a drastici aut-aut, per riunificare rappresentazione e volontà all’interno di un nuovo concetto unitario di dolo. Una descrizione e definizione del dolo (eventuale) basata sul criterio della ‘‘decisione personale per la lesione del bene giuridico’’, oltre che fornire una felice sintesi degli elementi costitutivi del dolo (momento rappresentativo e volitivo), contribuisce a chiarire il nesso che collega la problematica del confine tra dolo eventuale e colpa cosciente con la più generale questione delle valutazioni politico-criminali poste alla base della loro incriminazione. Il soggetto che include nel suo piano la possibile realizzazione del fatto tipico, senza che questa prospettiva lo distolga dall’azione, si starà consapevolmente decidendo contro il bene giuridico protetto. Poiché l’agire umano è il risultato di una precisa scelta tra modelli alternativi di comportamento segnati dalle norme, proprio tale atto di elezione diviene portatore del disvalore ed espressione della personale e cosciente adesione del soggetto al fatto antigiuridico (64). Il nostro sistema penale, funzionalizzato alla protezione dei beni giuridici ed all’orientamento dei destinatari, non può non tenere conto del (61) Cfr. i rilievi di HERZBERG, Aids: Herausforderung und Prüfstein des Strafrechts, cit., p. 477 ss. e Die Strafdrohung als Waffe, cit., p. 1466, in riferimento alle inevitabili oscillazioni nell’imputazione dell’elemento soggettivo, dovute alla discrepanza della valutazione del rischio di contagio in una prospettiva ex ante ed ex post, ed all’ancora irrisolto problema della compatibilità tra dolo eventuale e tentativo. Osserva CANESTRARI, La rilevanza del rapporto non protetto, cit., p. 156, che ‘‘la verificazione o meno dell’evento influisce sulla stessa fisionomia della relazione di pericolo: quando non si produce l’esito è ovvio tendere alla valutazione che il rischio coscientemente corso era minore di quello che appariva nel giudizio ex ante’’. V. anche KUNZ, Aids und Strafrecht, cit., p. 65. Nella sentenza in esame questa considerazione ha giocato indubbiamente un ruolo decisivo ai fini della imputazione dell’omicidio consumato a titolo di dolo eventuale. (62) Così MANTOVANI, Diritto penale, cit. p. 330. Cfr. il concetto di Risikogewöhnung (sorta di assuefazione al rischio) elaborato da JAKOBS, Strafrecht, AT, cit., pp. 226-227. (63) ROXIN, Zur Abgrenzung von bedingtem Vorsatz und bewußter Fahrlässigkeit, in JUS, 1964, p. 53 ss. e Strafrecht, AT, cit., p. 356 ss. Cfr. anche RUDOLPHI, in SK StGB, 6a ed., 1995, sub § 15, n. 1 e 39; HASSEMER, Caratteristiche del dolo, cit., p. 488 ss.; SCHROTH, Die Differenz von dolus eventualis und bewußter Fahrlässigkeit, in JUS, 1992, p. 5, il quale usa il termine Aneignung (appropriazione); BRAMMSEN, Inhalt und Elemente des Eventualvorsatzes-neue Wege in der Vorsatzdogmatik?, in JZ, 1989, p. 78 ss. Lo stesso FRISCH, Vorsatz und Risiko, 1983, p. 482 ss. adotta, in definitiva, la formula come discrimine tra dolo eventuale e colpa cosciente. Accolgono il criterio anche ROMANO, Commentario, cit., p. 412; G.A. DE FRANCESCO, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., p. 120 ss.; LICCI, Dolo eventuale, in questa Rivista, 1990, p. 1507. Recentemente CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., p. 70 ss. e p. 295 ss. (64) Il dolo eventuale si distinge dalla colpa proprio in virtù di tale opzione, poiché nella colpa cosciente manca la consapevolezza della scelta e della subordinazione di un interesse ad un altro. Cfr. PROSDOCIMI, Dolus eventualis, cit., p. 32 ss. L’importanza che riveste la componente di calcolo di tipo economico all’interno del dolo eventuale è stata messa in luce anche da PHILIPPS, Dolus eventualis als Problem der Entscheidung unter Risiko, in ZStW, 1973, p. 27 ss. Espressamente in riferimento alla trasmis-
— 321 — rapporto specifico che il reo doloso instaura con il bene protetto e, di conseguenza, con la norma posta a sua tutela e non nutrire particolari aspettative nei suoi confronti (65). L’opportunità di fare riferimento alle caratteristiche esteriori dei fenomeni psicologici trova, del resto, la propria giustificazione nella natura stessa dell’elemento soggettivo: soltanto attraverso la valutazione di dati esterni, osservabili e verificabili, riusciamo a risalire all’atteggiamento interiore. Per quanto difficile, si tratta di raggiungere quel prezioso equilibrio tra una concezione strettamente psicologica, empirica, ed una normativa (66). I fattori soggettivi ed oggettivi hanno una specifica autonomia e una reciproca funzione limitativa, a cui non è concesso rinunciare se si vuole sfuggire sia ad un diritto penale del puro atteggiamento interiore sia ad un diritto penale fondato sul versari in re illicita (67). Non si tratta certo di svalutare l’importanza dello studio del profili psicologici del dolo, quanto di rivalutare le condizioni esteriori in cui si manifesta la responsabilità dolosa. In questa prospettiva dolo e colpa diventano figure d’imputazione attraverso le quali l’ordinamento formula un giudizio sul comportamento degli individui, giudizio che va ben oltre la considerazione del solo elemento soggettivo ed è frutto di una valutazione complessiva di tutti i fattori rilevanti, interiori ed esteriori. Si rivelano a questo punto preziose le acquisizioni delle moderne teorie del rischio obiettivo. Diversi autori, nel solco delle tradizionali impostazioni dirette alla eliminazione del momento volitivo dalla struttura del dolo (eventuale), hanno avvertito l’esigenza di spostare radicalmente l’attenzione dalla sfera interiore sugli aspetti obiettivi della condotta, concentrandosi sul ruolo dell’elemento del rischio (68). Soprattutto la distinzione elaborata da Herzberg tra rischio schermato (abgeschirmt)e non schermato (unabgeschirmt) pare adattarsi perfettamente ai casi di trasmissione del virus HIV (69), operando a favore di una responsabilità penale a titolo di dolo eventuale. Determinante non è tanto la quantità di rischio, quanto una sua ulteriore qualità: la presenza o meno del fattore schermante (70). L’Autore sostiene, in breve, che la sussistenza del dolo non dipende dal fatto sione del virus HIV, v. KUNZ, Aids und Strafrecht, cit., p. 59 e MEIER, Strafrechtliche Aspekte der AidsÜbertragung, cit., p 214. (65) Osserva che ‘‘il reinserimento del reo doloso presuppone una inversione normativa, un rapporto rovesciato rispetto alle norme’’, HASSEMER, Caratteristiche del dolo, cit., p. 490; da noi CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., p. 73. Cfr. SCHÜNEMANN, Vom philologischen zum typologischen Vorsatzbegriff, cit., pp. 371-372. (66) Condividono l’importanza della considerazione anche di elementi obiettivi e normativi nella ricostruzione del dolo, PROSDOCIMI, Dolus eventualis, cit., p. X (dell’introduzione); PAGLIARO, Principi, cit., p. 276; recentemente SCHÜNEMANN, Vom philologischen zum typologischen Vorsatzbegriff, cit., p. 366 ss.; HASSEMER, Caratteristiche del dolo, cit., p. 487 e CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., p. 8. Con particolare riferimento al contagio da virus HIV, v. KUNZ, Aids und Strafrecht, cit., p. 61; MEIER, Strafrechtlliche Aspekte der Aids-Übertragung, cit., p. 224. (67) Sottolineano la necessità di evitare estremizzazioni sia in un senso che nell’altro EUSEBI, Il dolo come volontà, cit., p. 9 e CANESTRARI, op. ult. cit., p. 305. (68) V. gli studi di Frisch, Herzberg e Puppe. Sostengono la inutilità dell’elemento volitivo e la sufficienza della rappresentazione del rischio per l’imputazione del dolo anche KINDHÄUSER, Der Vorsatz als Zurechnungskriterium, in ZStW, 1984, p. 21 ss. e, specificamente in tema di trasmissione del virus HIV, SCHLEHOFER, Risikovorsatz und zeitliche Reichweite der Zurechnung, cit., p. 2018 e BOTTKE, Strafrechtliche Probleme von Aids, cit., p. 191. Il complesso tema della rilevanza del rischio obiettivo, trascurato dalla nostra dottrina, rimasta ancorata ad una concezione strettamente psicologica del dolo, è stato affrontato da Canestrari nel suo recente e approfondito studio Dolo eventuale e colpa cosciente, cit. (69) Così SCHÜNEMANN, Aids und Strafrecht, cit., p. 17 e Die Rechtsprobeme der Aids-Eindämmung, cit., p. 487 ss., sebbene critico nei confronti della sufficienza del mero criterio quantitativo del rischio. (70) Un rischio si presenta schermato quando esso, in base ad una valutazione razionale, è ancora efficacemente dominabile attraverso un intervento dell’agente stesso o altrui, capace di offrire una adeguata Reservesicherung. Il pericolo va invece considerato non schermato, quando l’intervento umano non è più in grado di influire sullo sviluppo della situazione ed il verificarsi dell’evento è affidato al caso (Zufall). In questa ipotesi neppure la speranza o la fiducia nel buon esito della condotta, la leggerezza o la ri-
— 322 — che l’agente abbia preso sul serio un rischio precedentemente riconosciuto, bensì dal fatto che abbia riconosciuto un rischio da prendersi con serietà. Nell’intenzione di Herzberg il criterio del rischio qualificato e non schermato dovrebbe eliminare gli inconvenienti dell’accertamento e della prova del reale convincimento dell’agente e ancorare l’imputazione del dolo ad un elemento assai più oggettivo e verificabile (71). Pur avendo contribuito a mettere in luce l’importanza della valutazione del rischio obiettivo collegato alla condotta (72), le conclusioni estreme di tale impostazione (la definitiva svalutazione del ruolo dell’elemento volitivo e dell’evento) non paiono condivisibili e, anzi, si pongono in netto contrasto con il nostro ordinamento positivo. Il riferimento esclusivo a elementi oggettivi ed esterni non consente, inoltre, deduzioni sempre automatiche ed esatte. Se è legittimo ipotizzare una distinzione tra dolo e colpa già a livello della tipicità del rischio, non si può certo prescindere dalla necessità di una attenta ricostruzione del momento rappresentativo e, soprattutto, di quello volitivo in rapporto alla tipologia di rischio (doloso e colposo) accettato dall’agente concreto (73). Si tratta, insomma, di evitare, da un lato, impostazioni eccessivamente obiettivizzanti e normativizzanti e, dall’altro, la pericolosa illusione di una indagine esclusivamente psicologica. È necessario prendere atto della ormai dimostrata insufficienza di un unico criterio per la ricostruzione del confine tra dolo eventuale e colpa cosciente, favorendo invece una efficace integrazione dei molteplici criteri elaborati, la cui validità può trovare pieno riconoscimento nella utilizzazione in forma di indicatori esterni di un atteggiamento interno (74). Stabilito che il concetto di ‘‘decisione per la (possibile) lesione del bene giurimozione del pericolo da parte del soggetto possono sottrarlo alla inputazione del dolo. V. HERZBERG, Die Abgrenzung von Vorsatz und bewußter Fahrlässigkeit- ein Problem des obiektiven Tatbestandes, in JUS, 1986, p. 249 ss.; ID., Bedingter Vorsatz und objektive Zurechnung beim Geschlechtsverkehr des Aids-lnfizierten, cit., p. 777 ss.; ID., Das Wollen beim Vorsatzdelikt und dessen Unterscheidung vom bewußt fahrlässigen Verhalten, cit., p. 573 ss. e p. 635 ss. Specificamente in relazione al problema Aids, ID., Bedingter Vorsatz und objektive Zurechnung beim Geschlechtsverkehr des Aids-lnfizierten, cit., e Aids. Herausforderung und Prüfstein des Strafrechts, cit. e Die Strafdrohung als Waffe im Kampf gegen Aids?, cit. (71) Premesso che non è concesso aggirare l’ostacolo della ricostruzione del reale atteggiamento psicologico dell’agente e ritenere sufficiente la valutazione del rischio obiettivo, bisogna riconoscere che nei casi di trasmissione del virus, data la assenza di testimoni e l’unica possibilità di valutare le dichiarazioni rese dal soggetto infetto (il quale difficilmente ammetterà le proprie pessimistiche previsioni o confesserà di essersi affidato al caso, accettando l’eventualità di contagiare il partner), il criterio si rivela un utile indicatore per distinguere tra dolo eventuale e colpa cosciente, contribuendo a delineare soluzioni convinventi e coerenti. (72) In riferimento ai casi di Aids rileva opportunamente CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., p. 5, che proprio ‘‘il manifestarsi di questi modelli ‘ambigui’ di rischio costituisce un significativo fattore di ‘destabilizzazione’ nei confronti delle teorie ancora oggi dominanti sui limiti tra dolo e colpa’’. L’A. indica fra le nuove tipologie di rischio che pongono delicati problemi di classificazione e valutazione le ‘‘sfide automobilistiche’’, le attività ludico-sportive violente e l’utilizzo di sostanze medicinali e chimiche nell’industria e nella sperimentazione sanitaria. (73) Si finirebbe infatti con il punire la semplice violazione del dovere di diligenza e prudenza, la difformità dalle regole e aspettative di condotta, ritornando al versari in re illicita e trascurando completamente la dimensione di interiore e personale partecipazione del soggetto al fatto. Evidenzia opportunamente che la qualità esteriore del rischio ‘‘deve pur sempre riflettersi (quantomeno) nella rappresentazione del reo’’, CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., p. 64. Estremamente critico nei confronti dei continui tentativi di normativizzazione del dolo, EUSEBI, Il dolo come volontà, cit., p. 71 ss. e ID., In tema di accertamento del dolo, cit., p. 1070 ss. (74) Anche la più convincente tesi di Herzberg si basa in realtà su un unico criterio (la presenza del fattore schermante), che può costituire tutt’al più un utile indizio per ritenere giustificata la fiducia dell’agente nella non verificazione dell’evento. In questo senso si esprime anche la sentenza in esame. Cfr. SCHÜNEMANN, Vom philologischen zum typologischen Vorsatzbegriff, cit., p. 370 e CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., p. 63. Numerosi ormai gli autori che ritengono vada ridimensionata l’opposizione tra teorie cognitive e volitive in funzione di un uso congiunto dei criteri elaborati da ciascuna di esse, criteri che, ponendo in luce di volta in volta tratti diversi del fenomeno, possono essere combinati insieme e permettere una comprensione sempre più profonda del fenomeno stesso. Cfr. ROXIN, Strafrecht,
— 323 — dico’’ più si avvicina al reale fenomeno psicologico del dolo eventuale e, allo stesso tempo, meglio esprime la necessità di un riferimento a dati esterni per la identificazione del suo contenuto, si rivela necessario sostituire la prospettiva tradizionale del metodo di analisi, caratterizzato dallo studio separato del versante oggettivo e soggettivo, con una concezione che valorizzi la struttura complessa del dolo eventuale e che risulti coerentemente praticabile sul piano processuale (75). La sentenza accoglie pienamente questa impostazione, una sorta di teoria mista e indicizzata, introdotta nella letteratura italiana dal recente studio di Canestrari, e, applicandola direttamente al caso concreto sottoposto al suo esame, ne attesta la validità (76). L’Autore, allo scopo di attribuire maggiore consistenza allo ‘‘zoccolo normativo’’ del dolo eventuale, sostiene la diversità di dolo e colpa già sul piano della tipicità del rischio e sviluppa la riflessione principale che sia riscontrabile una diversa conformazione normativa del rischio doloso e colposo, la quale conduce, rispettivamente, a ritenere sussistente una decisione per la possibile violazione dei bene giuridico o un legittimo atteggiamento di fiducia nella non verificazione dell’evento lesivo (77). Si tratta allora, ad un primo livello, di attribuire rilevanza al tipo e grado di rischio obiettivamente riconducibile alla condotta, il quale costituirà punto di riferimento del successivo accertamento dell’atteggiamento psicologico del soggetto, caratterizzato dai consueti momenti rappresentativo e volitivo. L’operazione si articola quindi su tre livelli: classificazione del rischio; accertamento della corretta rappresentazione di tale rischio da parte dell’agente; infine, ricostruzione della decisione a favore della possibile lesione del bene giuridico quale concretizzazione del rischio consapevolmente accettato (78). Merita di essere ribadito che ammettere l’esistenza di condotte oggettivamente espressive di una tipicità dolosa eventuale non comporta certo la rinuncia ad una attenta ricostruzione dell’intensità della partecipazione interiore del soggetto, così da evitare pericolosi scivolamenti verso posizioni troppo normativizzanti e verso facili constatazioni di dolus in re ipsa (79). AT, cit., p. 377; HASSEMER, Caratteristiche del dolo, cit., p. 499 e CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., p. 23. Cfr. anche PROSDOCIMI, Reato doloso, cit., p. 245 e PAGLIARO, Principi, cit., p. 277. (75) Oramai l’indagine del dolo eventuale non può piu prescindere dalla considerazione che il problema della sua definizione e del suo accertamento pratico sono strettamente legati e in grado di esercitare una reciproca influenza. Come ben sottolineato da CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., p. 70 e p. 295 ss., ‘‘alla qualificazione astratta del dolus eventualis come ‘decisione’ si può allora attribuire anche il merito di indicare, con coerenza metodologica, una prospettiva di indagine che non si fonda sull’illusoria separatezza tra il problema della definizione del dolo e quello del suo accertamento’’. Cfr. pure SCHÜNEMANN, Vom philologischen zum typologischen Vorsatzbegriff, cit., p. 366. L’A. ha sviluppato (op. ult. cit., p. 370 ss., ma v. anche Aids und Strafrecht, cit., p. 17) una definizione complessa di dolo, basata su due sistemi di riferimento in grado di compensarsi a vicenda: da un lato, la Tatherrschaft e la capacità di controllo (Steuerungskapazität) dell’agente; dall’altro, la Gesinnung, ossia l’atteggiamento ostile nei confronti del bene giuridico, che trova espressione nelle caratteristiche concrete della condotta. Gli elementi obiettivi costituiscono pertanto dei validi indici dell’atteggiamento psicologico dell’agente (v. infra nota 81). Cfr. anche la concezione del dolo quale Dispositionsbegriff elaborata da HASSEMER, Caratteristiche del dolo, cit., p. 497. (76) Critico nei confronti della teoria sviluppata da Canestrari accolta dalla sentenza, ritenenuta ‘‘di non facile applicabilità proprio in sede giudiziaria’’, NICOSIA, Contagio di Aids tra marito e moglie, cit., p. 359. (77) ‘‘L’entità del rischio dovrà assolvere, ad un tempo, una duplice funzione: compensare la ‘diluita’ componente volitiva del dolus eventualis, senza alcuna pretesa di surrogarla; selezionare una qualità di rischi (da valutare ex ante ed in concreto in relazione al comportamento storico) che oltrepassi l’area della pericolosità colposa’’, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., pp. 20-21. (78) Cfr. CANESTRARI, op. ult. cit., p. 75 e pp. 297-298. Anche HASSEMER, Caratteristiche del dolo, cit., pp. 500-501, evidenzia la necessità di una corretta valorizzazione della struttura articolata in tre distinti ed autonomi livelli del dolo eventuale. (79) ‘‘Per ritenere integrato il dolus eventualis si deve in ogni caso richiedere nella fase ‘decisiva’ dell’indagine un accertamento di tipo soggettivo, dove non si può prescindere da una valutazione sulla
— 324 — La natura del rischio si definisce in seguito ad un bilanciamento tra due fattori, in considerazione delle specifiche conoscenze ontologiche e nomologiche e delle capacità psicofisiche dell’agente concreto (80): da una parte rileva l’interesse e il valore socialmente ricondotto alla condotta (la sua ‘‘consuetudine sociale’’) ed il suo scopo; dall’altra il tipo e il livello di rischio, il grado di probabilità di verificazione dell’evento, la gravità del possibile danno ed il rango del bene minacciato, la disponibilità di misure di sicurezza e l’esigibilità di misure cautelari (81). Il rischio è doloso se un ‘‘avveduto osservatore esterno’’, posto nella stessa situazione dell’agente concreto e in possesso delle sue stesse conoscenze e capacità, non avrebbe mai ‘‘preso seriamente in considerazione’’ il fatto di assumere quello stesso rischio nelle vesti di homo eiusdem professionis et condicionis. Si deve trattare, insomma, di un rischio tale che non sia rinvenibile neppure una figura di agente modello cui rapportare la condotta dell’agente concreto. Il pericolo determinato in queste condizioni, poiché socialmente non più prevedibile né definibile (82), fa sì che la fiducia e la speranza nella non realizzazione dell’evento lesivo si rivelino prive di ogni fondamento razionale, rendendo ingiustificata la imputazione della sola colpa cosciente. sussistenza del momento votitivo’’, CANESTRARI, op. ult. cit., p. 19 e ancora ‘‘l’essenza del dolus eventualis non potrà mai essere ricercata nella qualità esteriore del pericolo, senza riferimento alla rappresentazione e alla volontà del soggetto’’ (op. ult. cit., p. 153). Ritiene che la distinzione dei rischi rilevanti ai fini del dolo da quelli rilevanti ai fini della colpa possa essere recuperata ‘‘anche nell’ambito di un orientamento che continui a considerare la volontà fattore discriminante fra le due forme di imputazione’’, EUSEBI, Il dolo come volontà, cit., p. 65. Nei lavori di PUPPE, Der Vorstellungsinhalt des dolus eventualis, in ZStW, 1991, p. 1 ss. e Vorsatz und Zurechnung, 1992, si rinviene un primo tentativo di distinguere rischi dolosi e colposi in una prospettiva realmente normativa. L’assunzione di un rischio che nessuna persona ragionevole e giudiziosa accetterebbe (rischio doloso) legittima da sola l’imputazione del dolo, fornendo il comportamento esteriore un valido indice della presa di posizione interiore (Ausdruckswert des Verhaltens). Il ricorso ad un agente modello tanto generico e la conseguente semplificazione dei contenuti e caratteri esteriori del dolo, pericolosamente assimilati a quelli della colpa, rendono inaccettabile questa posizione. Critico infatti CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., p. 122, quando rileva che ‘‘una simile impostazione finisce per ricalcare percorsi teorici (...) che plasmano il concetto ‘pericolo doloso’ esclusivamente con l’ausilio di astrazioni pertinenti alla sfera colposa’’. (80) ‘‘Un giudizio sulla natura ‘sociale’ di un determinato rischio (...) deve assumere come base tutte (e soltanto) quelle circostanze note al singolo soggetto al tempo della condotta’’, CANESTRARI, op. ult. cit., p. 153. (81) CANESTRARI, op. ult. cit., p. 154. I molteplici dati esteriori osservabili nella situazione concreta fungono da indicatori per la determinazione del tipo di rischio, cui andrà successivamente rapportato l’accertamento dell’elemento soggettivo (momento cognitivo e volitivo). Cfr. gli indici elaborati da SCHÜNEMANN, Vom philologischen zum typologischen Vorsatzbegriff; cit., p. 374, tra i quali il valore dello scopo dell’azione, la disponibilità dell’agente a prendere il rischio anche su se stesso, il grado di dominio e controllo sulla vittima, la Risikogewöhnung della società. V. anche il catalogo di indicatori e controindicatori (indicatori che evidenziano le possibili deviazioni dalla normalità delle cose) proposti da HASSEMER, Caratteristiche del dolo, cit., p. 499 e Einführung in die Grundlagen des Strafrechts, 1990, pp. 183-184, i quali dovranno essere osservabili, rilevanti, esaurienti e completi, oltre che gerarchizzati. La giurisprudenza italiana fa già costante ricorso a indici esteriori per la ricostruzione dell’elemento psicologico. La pericolosità obiettiva della condotta è legata a fattori quali, per esempio, la forza esplosiva di una bomba, il tipo di arma utilizzata, la distanza dal bene minacciato, la parte corporea minacciata, il numero di aggressioni ecc. (cfr. fra le tante Cass. 11 luglio 1988, in Cass. pen., 1990, 234; Cass. 19 febbraio 1985, in Riv. pen., 1985, 1095). Per accertare la avvenuta rappresentazione della possibile lesione del bene giuridico può rivelarsi utile considerare il grado di visibilità del pericolo, la presenza di fattori che diminuiscano la sua percepibilità (alcool, droghe, eccitamento), le particolari capacità e attitudini del soggetto, il tempo a disposizione per comprendere una data situazione ecc. Sul piano della volizione (decisione consapevole per la possibile lesione del bene giuridico) rileveranno allora elementi quali il comportamento diretto ad evitare l’evento, la vicinanza emotiva tra reo e vittima, il comportamento precedente dell’agente in circostanze analoghe ecc. (82) CANESTRARI, op. ult. cit., p. 155 ss. ‘‘(...) nel senso che non è ipotizzabile alcuna valutazione — sia pure ‘negativa’, in termini di astensione dall’azione — da parte di qualsivoglia homo eiusdem professionis et condicionis, proprio perché non si riesce a rinvenire un tipo normativo in grado di ‘impersonificare’, in quella determinata situazione, ‘il punto di vista del diritto’’ (p. 162). Critico nei contronti dell’ ‘‘uso ‘estensivo’ che viene fatto della figura dell’agente modello’’, NICOSIA, op. ult. cit., p. 359.
— 325 — Come bene è sottolineato nella sentenza, ‘‘la fisionomia del rischio doloso non viene ricostruita sulla base dei moduli di accertamento propri della colpa, posto che, in simili casi, non sarebbe neppure possibile rinvenire un tipo normativo cui commisurare la condotta dell’autore’’. Ancorata saldamente ad un elemento normativo quale la conformazione del rischio, diventa allora possibile conservare e valorizzare la sostanziale diversità di dolo e colpa, in risposta alla tendenza al progressivo livellamento delle loro caratteristiche e funzioni specifiche espressa dalle moderne teorie del rischio (83). L’individuazione del confine tra dolo e colpa è un problema, oltre che di definizione dogmatica e precisione concettuale. di natura processuale. Determinare con esattezza il valore e la capacità espressiva dei dati esterni, da cui risalire al processo decisionale interno dell’agente, si rivela allora compito di estrema importanza sia per la dottrina che per la giurisprudenza (84). Per tornare ora al caso in esame, la sentenza sottolinea la rilevanza che acquistano indici quali la frequenza e la tipologia dei rapporti, nonché l’eventuale adozione di precauzioni alternative all’uso del profilattico in grado di ridurre il rischio del contagio. Data la completa assenza di pratiche di safer-sex e la presenza di rapporti a rischio non isolati ed episodici, si dovrebbe optare, nel nostro caso, per la responsabilità dolosa indiretta (85). In conclusione si afferma che gli elementi probatori acquisiti nel corso delle indagini dimostrano, in modo inequivoco, che l’imputato era a conoscenza della propria infezione, della modalità di trasmissione del virus, delle necessarie cautele da adottare per ridurre considerevolmente il rischio e del fatto che l’infezione porta al quadro clinico completo dell’Aids conclamata, malattia tuttora inguaribile e dal decorso letale (86). Constatato che anche il grado di informazione del reo riguardo alla pericolosità obiettiva della propria condotta può costituire forte indizio per la presenza dell’elemento volitivo, pare legittima la conclusione che egli abbia ‘‘scelto’’ consapevolmente di continuare ad avere rapporti non protetti con la moglie, accettando il contagio. Le obiezioni avanzate in proposito dall’imputato sono state respinte con facilità: la fiducia nel buon esito della condotta in virtù del (83) CANESTRARI, op. ult. cit., p. 4 ss. e EUSEBI, In tema di accertamento del dolo, cit., p. 1061 ss. rilevano che la normativizzazione della responsabilità dolosa diffusa in dottrina e in giurisprudenza conduce ad assimilare al dolo la semplice inosservanza di regole precauzionali e di diligenza. Ritiene, invece, il dolo eventuale caratterizzato dalla violazione della regola di diligenza e quindi un inutile ‘‘doppione mascherato della colpa cosciente’’, FORTE, Ai confini tra dolo e colpa, cit., pp. 276-277. (84) Gli indicatori devono possedere una valenza sociale, devono cioè essere riconoscibili dalla cerchia sociale di riferimento (cfr. CANESTRARI, op. ult. cit., p. 161 e SCHÜNEMANN, op. ult. cit., p. 376). Attraverso di essi l’ordinamento, e prima ancora la società, interpreta il comportamento umano e compie una valutazione. È indispensabile allora che il catalogo degli indicatori sia in grado di offrire al giudice un metodo di classificazione delle tipologie di rischio riconducibili, con una certa regolarità e stabilità, al dolo e alla colpa (primo livello d’indagine) ed uno schema di interpretazione socialmente valido dei processi psicologici collegati al dolo ed alla colpa (secondo e terzo livello). Le difficoltà data dalla inidividuazione dell’esatto confine tra dolo eventuale e colpa cosciente deriva a volte non tanto dalle carenze degli strumenti (scientifici e giuridici) di introspezione psicologica, quanto dalla mancanza di schemi di interpretazioni socialmente validi di tali processi psicologici. Non esistono ancora in molti casi (v. tra gli altri proprio la tematica dell’Aids) delle indicazioni sufficienti per stabilire un collegamento tra dato esteriore e stato interiore e ciò dimostra come il processo di trasposizione di fenomeni empirici in categorie sociali e giuridiche necessiti di un periodo, per così dire, di rodaggio. Cfr. le osservazioni di KRAUSS, Der psychologische Gehalt subjektiver Elemente im Strafrecht, in Bruns FS, 1978, pp. 27-28; HRUSCHKA, Über Schwierigkeiten mit dem Beweis des Vorsatzes, in Kleinknecht FS, 1985, pp. 201-202. (85) Cfr. CANESTRARI, op. ult. cit., p. 169 ss. (86) Viene inoltre sottolineato, opportunamente, che tali nozioni rientrano ormai nel patrimonio conoscitivo della generalità delle persone e che l’imputato godeva di un livello di informazione ben superiore alla media, considerati i ripetuti incontri con medici esperti e competenti, in grado di fornirgli informazioni precise ed aggiornate. Riconosce invece nel percorso argomentativo seguito dalla sentenza la ‘‘tendenza a risolvere la ricerca dell’elemento volitivo in quella dell’elemento rappresentativo’’, NICOSIA, Contagio di Aids tra marito e moglie, cit., p. 357.
— 326 — basso rischio di contagio nel singolo rapporto è stata ritenuta irrilevante, data la presenza di un insieme di rapporti sessuali a rischio, sistematici e prolungati nel tempo; la convinzione di non poter trasmettere l’infezione, data l’assenza di sintomi di malessere, non è stata ritenuta credibile a fronte della provata consapevolezza dell’imputato riguardo alla propria contagiosità anche durante il lungo periodo di latenza della malattia. In verità l’imputato ‘‘non disponeva di alcun motivo minimamente logico, che, anche nel quadro di una valutazione macroscopicamente errata, facesse sorgere in lui la ragionevole certezza che l’evento non si sarebbe verificato’’. Egli, piuttosto, ‘‘avendo creato un pericolo non schermato, ovvero un pericolo di natura dolosa’’ nel senso sopra precisato, ha lasciato il corso degli avvenimenti al caso e, anzi, ha fatto di tutto per annullare i residui strumenti di salvaguardia (diagnosi tempestiva e possibilità di cura). Proprio quest’ultima circostanza appare al giudice, nel caso in questione, decisiva ai fini dell’ammissione non soltanto del dolo di lesione, ma anche del dolo di omicidio, poiché preclude inequivocabilmente il ricorso al criterio della speranza o fiducia dell’imputato nel fatto che nel frattempo si potesse trovare un rimedio alla malattia (87). L’imputato, nonostante la piena consapevolezza delle conseguenze della propria condotta e della sproporzione fra ‘‘prezzo’’ sul piano della relazione affettiva e cautele adottabili, ha agito ugualmente, dimostrando, pertanto, di aver preso una decisione per la lesione del bene giuridico. Ed il disvalore di tale scelta non viene certo meno o si riduce per il solo fatto che ad essa si accompagni un atteggiamento di interiore speranza nella non verificazione dell’evento o di disapprovazione dello stesso. 4. Si rivela opportuno accennare, infine, alla eventuale rilevanza della figura della autoesposizione a pericolo (Selbstgefährdung) della vittima e alla sua idoneità ad escludere l’imputazione dell’evento in capo all’infetto HIV (88). Alle ipotesi in cui la vittima sia consapevole della contagiosità del partner e, cionostante, accetti il rapporto sessuale non protetto è stata dedicata finora scarsa attenzione. Abbiamo già visto che l’adempimento dell’obbligo di informazione nei confronti del partner sano da parte dell’infetto costituisce, secondo l’orientamento dominante, condizione necessaria e sufficiente per riportare il rapporto non protetto all’interno della sfera di rischio consentito. Si tratta ora di analizzare se, sul piano della tipicità, residui uno spazio di operatività per il principio di autorespon(87) È necessario richiamare a questo proposito le perplessità, già evidenziate in precedenza, riguardo alla possibilità di imputare automaticamente anche il dolo di domicidio, in considerazione del fatto che la morte del partner non costituisce conseguenza voluta e nemmeno certa. In riferimento alla eventuale configurabilità dell’omicidio preterintenzionale ex art. 584 c.p.v. le osservazioni di CASTALDO, Aids e diritto penale, cit., p. 68 ss. Anche CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., p. 171, nota 267 e CORNACCHIA, Profili di responsabilità per contagio da virus HIV, cit., p. 327. L’argomentazione basata sulla credibile speranza e fiducia dell’imputato nella scoperta di un rimedio alla malattia è stata ritenuta dal BGH, nella già citata sentenza 262/88, decisiva per escludere l’imputazione di omicidio. Vanno tuttavia considerate le profonde differenze esistenti tra il caso oggetto della sentenza italiana e quello esaminato dal BGH (rapporti sessuali isolati e di tipo occasionale, uso del profilattico nella fase finale del rapporto). Cfr. supra nota 54. Si deve, inoltre, notare come, nel caso in esame, il particolare rapporto affettivo abbia generato nella moglie un sentimento di sincera e completa fiducia nei confronti del marito, che ha addirittura agevolato la commissione del reato, rendendo possibile la continuazione dei rapporti sessuali non protetti. (88) In questa sede necessariamente si prescinde dal problema di interpretazione e classificazione degli istituti della eigenverantwortliche Selbstgefährdung e della einverständliche Fremdgefährdung e da quello del loro coordinamento con i principi dell’imputazione obiettiva dell’evento e del rischio consentito. Critici nei confronti del topos della Selbstgefährdung, SCHÜNEMANN, Riskanter Geschlechtsverkehr eines HIV-Infizierten, cit., p. 90 e FRISCH, Riskanter Geschlechtsverkehr eines HIV-Infizierten, cit., p. 369; ID., Selbstgefährdung im Strafrecht, in NStZ, 1992, p. 3 ss.; HUGGER, HIV-Übertragung als mitherrschaftliche Beteiligung an fremder Selbstverletzung, in JUS, 1990, p. 975. Cfr. anche CANESTRARI, La rilevanza del rapporto sessuale non protetto, cit., p .158.
— 327 — sabilità (Selbstverantwortungsprinzip) e, sul piano della antigiuridicità, per l’istituto del consenso scriminante (Einwilligung). Il BGH, nella già citata sentenza-guida, non ha volutamente preso una posizione riguardo alla applicabilità della autoesposizione a pericolo, figura elaborata in tema di droga, anche alle ipotesi di trasmissione del virus HIV (89). Secondo costante interpretazione si è in presenza di una eigenverantwortliche Selbstgefährdung (autoesposizione a pericolo), quando il soggetto intraprende autonomamente una condotta pericolosa per se stesso oppure quando egli si espone ad una preesistente situazione di pericolo. Si parla invece di einverständliche Fremdgefährdung (esposizione a pericolo di terzo con il suo consenso), quando il soggetto si espone consapevolmente ad un pericolo determinato da un altro soggetto, il quale mantiene l’esclusivo controllo di tale pericolo. Il criterio discretivo è dato in ultima analisi dalla Tatherrschaft: rileva, pertanto, chi è in grado di dominare gli accadimenti (90). Nel rapporto sessuale consensuale non è tuttavia facile individuare chi dei due controlli la fonte del pericolo. Escluso, in via preliminare, che una posizione dominante spetti inevitabilmente all’infetto, in virtù della propria contagiosità, e stabilito che il pericolo è dato piuttosto dal rapporto sessuale non protetto in sé (91) — il cui controllo è esercitato congiuntamente dai due partners, ciascuno dei quali è libero di interrompere l’azione in ogni momento oppure di adottare le opportune cautele (92) — è necessario interrogarsi sulla ratio che sorregge il trasferimento della responsabilità per l’eventuale contagio dall’infetto in capo al soggetto sano. Questa viene individuata nella opportunità di non punire l’agente quando l’evento non sia l’effetto esclusivo della propria condotta e quando il nesso causale non sia interrotto a causa dell’intervento di un comportamento volontario e ‘‘autolesionista’’ della vittima (93). Nell’ordinamento tedesco, in cui non è punita la partecipazione al suicidio, (89) V. sent. BGH, 1StR 262/88. La distinzione tra Selbstgefährdung e einverständliche Fremdgefährdung, trattata per la prima volta da ROXIN, Zum Schutzzweck der Norm bei fahrlässgen Delikten, in Gallas FS, 1973, p. 243 ss., è stata sviluppata dalla giurisprudenza tedesca nel contesto dei casi di morte in seguito a consumo di droghe., v. sent. 14 febbraio 1984, BGHSt 32, 262, in NStZ, 1984, p. 410, commentata da ROXIN, ivi, 1984, p. 452 e ivi, 1985, p. 25; STREE, Beteiligung an vorsätzlicher Selbstgefährdung, in JUS, 1985, p. 179; KIENAPFEL,in JZ, 1984, p. 750. Cfr. al riguardo MILITELLO, La responsabilità dello spacciatore per la morte del tossicodipendente, 1984, p. 135 ss. Il criterio della ‘‘autoesposizione a pericolo’’ è stato creato in riferimento ai delitti colposi allo scopo di limitare l’imputazione dell’evento e ai casi in cui vi è una successione temporale tra la condotta dell’agente e l’intervento del comportamento della vittima; così SCHÜNEMANN, Riskanter Geschlechtsverkehr eines HIV-lnfizierten, cit., p. 90. Cfr. CASTALDO, L’imputazione oggettiva nel delitto colposo d’evento, 1989, p. 210 ss. e FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, 1990, p. 607 ss. e soprattutto nota 155. (90) ROXIN, Zum Schutzzweck der Norm bei fahrlässigen Delikten, cit., p. 243 ss. e Strafrecht, AT, 1997, p. 335 ss.; DÖLLING, Fahrlässige Tötung bei Selbstgefährdung des Opfers, in GA, 1984, p. 71 ss.; OTTO, Eigenverantwortliche, Selbstschädigung und-gefährdung sowie einverständliche Fremdschädigung und -gefährdung, in Tröndle FS, 1989, p. 157 ss.; FRISCH, Selbstgefährdung im Strafrecht, cit., 1992, p. 1 ss.; riferimenti in CANCIO MELIÁ, Opferverhalten und objektive Zurechnung, in ZStW, 1999, p. 366 ss.; ALBEGGIANI, Profili problematici del consenso dell’avente diritto, 1995, p. 108, nota 24. In relazione al rapporto sessuale SCHERF, Aids und Strafrecht, cit., p. 77; MEIER, Strafrechtliche Aspekte der Aids-Übertragung, cit., p. 219; PRITTWITZ, Strafbarkeit des HIV-Virusträgers, cit., p. 2942; DÖLLING, Anm. BayObLG, cit., p. 475. (91) In questi termini Scherf, op. ult. cit., p. 78; PRITTWITZ, Strafbarkeit des HIV-Virusträgers, cit., p. 2943; cfr. anche LG Kempten (20 gennaio 1989), in NJW, 1989, p. 2069. (92) V. BayObLG (15 settembre 1989), cit. Sostengono la Mittäterschaft dei due partners SCHERF, op. ult. cit., p. 79; MEIER, Sttrafrechtliche Aspekte der Aids-Übertragung, cit. p. 219; DÖLLING, op. ult. cit., p. 475; HELGERTH, Aids-Einwilligung in infektiösen Geschlechtsverkehr, cit., p. 262; HUGGER, HIV-Übertragung als mitherrschaftliche Beteiligung, cit., p. 975. (93) V. in proposito le riflessioni della c.d vittimo-dogmatica, dirette, nell’ottica di un diritto penale quale ultima ratio, da un lato, a sottrarre alla sfera della punibilità quelle condotte, nei confronti delle quali la vittima sia in grado di proteggersi efficacemente da sola, e, dall’altro, a riscoprire il ruolo della vittima nella realizzazione della lesione. Cfr. per tutti SCHÜNEMANN, Zur Stellung des Opfers im System der Strafrechtspflege, in NStZ, 1986, p. 439 ss.
— 328 — l’esclusione della responsabilità dell’agente viene desunta (attraverso un’argomentazione a maiore ad minus) dal principio per cui non è punibile nemmeno colui che permette, induce o agevola soltanto una altrui autoesposizione a pericolo. Si tratta, insomma, di mera partecipazione (Teilnahme) ad un fatto che non costituisce reato e, pertanto, essa non è coperta dalle fattispecie di lesioni personali e di omicidio (94). La responsabilità dell’agente comincia soltanto là dove sia possibile accertare un suo überlegenes Sachwissen, nel caso in cui egli abbia, cioè, una rappresentazione e consapevolezza del pericolo maggiore rispetto alla vittima (95). Il criterio della autoesposizione a pericolo opera quindi soltanto in caso di piena corrispondenza e congruenza tra il livello di informazione e consapevolezza riguardo ai rischi di contagio del soggetto infetto e di quello sano (96). Un minoritario ed estremo orientamento fa leva sulla considerazione che, data la dimostrata efficacia delle numerose campagne di informazione svolte negli ultimi anni, tutti i cittadini siano oramai a conoscenza dell’elevato rischio connesso alla pratica di rapporti sessuali non protetti e delle gravi conseguenze del contagio da virus HIV e debbano, di conseguenza, essere ritenuti responsabili delle proprie scelte (97). Se è certamente condivisibile l’osservazione che anche un processo di responsabilizzazione dei cittadini sani costituisca presupposto fondamentale per una efficace opera di prevenzione dell’Aids, pare tuttavia discutibile trasferire interamente, in virtù di preoccupazioni legate ad un intervento esclusivamente repressivo, la responsabilità per la realizzazione del rischio su soggetti che, per quanto incoscienti e irresponsabili, rimangono comunque meritevoli di tutela (98). Non incontra meno critiche l’orientamento che classifica il rapporto sessuale (94) Una soluzione di questo tipo è preclusa nel nostro, ordinamento dagli artt. 579 e 580 c.p., che rafforzano il principio di assoluta indisponibilità del bene giuridico vita. Sostiene che un risultato pratico analogo potrebbe comunque essere raggiunto facendo riferimento allo scopo di protezione della norma (Schutzzweck der Norm), CASTALDO, L’imputazione oggettiva nel delitto colposo d’evento, cit., p. 212 ss. (95) V. BGH, 32, 262, cit.; AG München (6 maggio 1987), cit., p. 2314; BGH, 1 StR 262/88, cit. Cfr. SCHERF, op. ult. cit., p. 82; MEIER, op. ult. cit., p. 220; BRUNS, Aids, Prostitution und Strafrecht, cit., p. 694. (96) Ciò indipendentemente dall’atteggiamento psicologico del soggetto infetto. Parlano di Wissenssymmetrie e Wissenskongruenz KUNZ, Aids und Strafrecht, cit. p. 55; SCHERF, op. ult. cit., p. 87; BOTTKE, Strafrechtliche Probleme von Aids, cit., p. 184; MEIER, op. ult. cit., p. 222. Ritengono che il comportamento del soggetto che acconsente ad un rapporto sessuale non protetto nella piena consapevolezza del rischio di contagio integri una einverständliche Selbstgefährdung, BRUNS, Nochmals: Aids und Strafrecht, cit., p. 2282; ID., Aids, Prostitution und Strafrecht, cit., p. 694; HERZOG, NESTLER-TREMEL, Aids und Strafrecht, cit., p. 360 ss.; EBERBACH, Juristische Probleme der HTLV III Infektion, cit., p. 231; SCHERF, Aids und Strafrecht, cit., p. 79; PRITTWITZ, Strafbarkeit des HIV-Virusträgers, cit., p. 2942; MEIER, Strafrechtliche Aspekte, cit., p. 219; KUNZ, Aids und Strafrecht, cit., p. 53; DÖLLING, Anm., cit., p. 475. Anche CORNACCHIA, Profili di responsabilità per contagio da virus HIV, cit., p. 320 ss. La giurisprudenza tedesca (v. LG Kempten, 20 gennaio 1989. in NJW, 1989. p. 2068 ss., confermata dalla successiva sentenza del BayObLG, 15 settembre 1989, in NJW, 1990, p. 131 ss., commentata da DÖLLING, cit.) si è dovuta misurare con il caso in cui una minorenne aveva accettato di praticare rapporti sessuali non protetti con il suo compagno infetto, il quale la aveva precedentemente messa al corrente del rischio di infezione e delle conseguenze dell’infezione. La sentenza si è pronunciata a favore di una autoesposizione a pericolo e ha ritenuto valida la assunzione del rischio del contagio da parte della giovane, considerata sufficientemente responsabile e consapevole, scagionando l’imputato. (97) Così BRUNS, Nochmals: Aids, und Strafrecht, cit. p. 2282; ID., Aids, Prostitution und Strafrecht, cit., p. 694; HERZOG, NESTLER-TREMEL, op. ult. cit., p. 366 ss.; BOTTKE, op. ult. cit., p. 183; KREUZER, Aids und Strafrecht, cit., p. 801 ss.; KUNZ, op. ult. cit., p. 53. Indubbiamente Bruns sostiene la posizione più estrema, affermando che l’invito al Selbstschutz vale per qualsiasi rapporto sessuale al di fuori di una stabile relazione di coppia. (98) Critici nei confronti del trasferimento dell’onere della protezione dal soggetto che determina il rischio a quello che interamente lo subisce, SCHÜNEMANN, Riskanter Geschlechtsverkehr, cit., p. 90; FRISCH, Riskanter Geschlechtsverkehr, cit., p. 369; HERZBERG, Zur Strafbarkeit des Aids-lnfizierten, cit., p. 2284 e Aids: Herausforderung und Prüfstein, cit., p. 473 ss.; SCHERF, Aids und Straprecht, cit., p. 88 ss; HELGERTH, Aids-Einwilligung in infektiösen Geschlechtsverkehr, cit., p. 262; ARLOTH, Anm., cit., p. 409.
— 329 — non protetto praticato con un partner informato e consenziente come einverständliche Fremdgefährdung (99). In relazione a questa seconda figura emerge la problematica del consenso scriminante e del suo oggetto. Non è questa la sede per affrontare l’ancora poco esplorato tema del consenso ad una attività rischiosa per la propria salute e la propria vita, alla luce dei notevoli risvolti dogmatici in tema di disponibilità del bene giuridico e presupposti di validità del consenso. Basti qui osservare che il partner sano che accetti un rapporto sessuale occasionale non protetto, nella considerazione della scarsa probabilità di contagio nel singolo rapporto, non acconsente certo ad una lesione né alla propria morte, bensì ad un mero rischio di infezione, ad una condotta, quindi, che mette in pericolo la vita (Einwilligung in eine Lebensgefährdung) (100). Si potrebbe, infine, riconoscere un residuo spazio applicativo alla ‘‘autoesposizione a pericolo’’ e ritenere, di conseguenza, esclusa la responsabilità dell’infetto in caso di contagio, nell’ipotesi di rapporti sessuali praticati con appartenenti alle cosiddette Risikogruppen. Allo stato attuale il virus HIV pare diffuso prevalentemente negli ambienti della tossicodipendenza e prostituzione e fra persone con una attività sessuale promiscua. Alla luce di questa constatazione alcuni autori sostengono che non sia legittimo ritenere gli appartenenti ai gruppi a rischio, che tacciano la loro infezione al partner, in possesso di un überlegenes Sachwissen. Colui che accetti, infatti, di avere rapporti sessuali non protetti con un soggetto a rischio, anche se non espressamente informato riguardo alla sua contagiosità, agisce, secondo questo orientamento, con leggerezza e, venendo meno ad un elementare obbligo di autotutela, non merita protezione da parte dell’ordinamento (101). Cfr. inoltre la posizione del BGH, 1 StR 262/88. Da noi CANESTRARI, La rilevanza del rapporto sessuale, cit., p. 158 e CORNACCHIA, Profili di responsabilità per contagio da virus HIV, cit., p. 322. (99) ROXIN, Strafrecht, AT, cit., p. 345, il quale tuttavia ammette una equiparazione della Fremdgefährdung alla Selbstgefährdung in presenza di tre presupposti: la lesione deve essere l’effetto del rischio accettato e non di ulteriori comportamenti scorretti; il soggetto che si espone al pericolo e quello che lo determina devono essere egualmente responsabili per la realizzazione della condotta; i due soggetti devono inoltre avere lo stesso grado di consapevolezza del rischio. Ammettono la einverständliche Fremdgefährdung pure SCHÜNEMANN, Riskanter Geschlechtsverkehr eines HIV-Infizierten, cit., p. 90; MAYER, Die ungeschützte geschlechtliche Betätigung des Aids-Infizierten, cit., p. 788; HELGERTH, Aids-Einwilligung in infektiösen Geschlechtsverkehr, cit., p. 262. (100) Così HERZBERG, Die Strafdrohung als Waffe, cit., p. 1462; SCHERF, Aids und Strafrecht, cit., p. 90. Ritiene preferibile l’applicabilità dell’istituto del consenso (Einwilligung), FRISCH, Riskanter Geschlechtsverkehr, cit., p. 369 e Selbstgefährdung im Strafrecht, cit., p. 66. Diversamente si dovrebbe argomentare in presenza di rapporti sessuali continuativi e ripetuti. La situazione si rivelerebbe infatti speculare a quella del partner infetto nel quadro di una relazione di coppia più o meno stabile, quale quella del caso in esame: non si tratterebbe più di mera accettazione di un rischio di contagio, bensì di accettazione della propria eventuale morte, con inevitabili riflessi sulla dibattuta questione dei limiti alla disponibilità della propria vita e al principio di libera autodeterminazione. Per riconoscere validità al consenso ad una condotta che metta in pericolo la stessa vita e per aggirare l’ostacolo rappresentato dal § 226a StGB (Sittenwidrigkeit der Einwilligung, ossia contrarietà del consenso al buon costume) HELGERTH, Aids-Einwiligung in infektiösen Geschlechtsverkehr, cit., p. 262 ss., propone di bilanciare il valore e lo scopo dell’azione (rapporto sessuale) con il disvalore della minaccia ad un bene giuridico di rango elevato quale la vita, giungendo alla conclusione che il consenso al rapporto sessuale non protetto risulta preminente soltanto nel caso di relazione matrimoniale basata su reciproco amore e dedizione. Poggia su simili riflessioni il concetto di consenso qualificato (qualifizierte Einwilligung) sviluppato da DÖLLING, Fahrlässige Tötung bei Selbstgefährdung des Opfers, cit., p. 90 ss. L’A. afferma (Anm. BayObLG, cit., p. 477) che il relativamente scarso rischio di contagio del singolo rapporto può essere bilanciato dal valore positivo socialmente riconosciuto alla realizzazione della propria persona attraverso la attività sessuale. La soluzione riprende chiaramente la impostazione di NOLL, Tatbestand und Rechtswidrigkeit: Die Wertabwägung als Prinzip der Rechtfertigung, in ZStW, 1965, p. 14 ss. Cfr. SCHERF, op. ult. cit., p. 91. Critico al riguardo ROXIN, Strafrecht, AT, cit., p. 346. Nel nostro ordinamento, ammessa una applicazione analogica dell’art. 50 c.p., un eventuale consenso al rapporto sessuale non protetto non potrebbe trovare comunque applicazione oltre il limite dell’art. 5 c.c. Cfr. le osservazioni di ALBEGGIANI, Profili problematici del consenso, cit., p. 110 ss. (101) BRUNS, Aids, Prostitution und Strafrecht, cit., p. 694: ID., Nochmals: Aids und Strafrecht, cit., p. 2282; HERZOG, NESTLER-TREMEL, Aids und Strafrecht, cit., p. 366 ss.; KREUZER, Aids und Straf-
— 330 — In questo modo si confonde, tuttavia, una rappresentazione astratta di un rischio puramente statistico con una rappresentazione concreta di un rischio effettivo, quale necessario presupposto per una efficace Risikoübernahme con effetto liberatorio per il contagiante (102). La presunzione di una tacita accettazione del rischio da parte del soggetto sano si scontra, di fatto, con la realtà psicologica: il soggetto infatti, se fosse a conoscenza del rischio effettivo, quasi certamente rinuncerebbe al rapporto sessuale (non protetto). Ciò non impedisce, peraltro, di riconoscere la legittimità, da un punto di vista materiale e di politica criminale, della riflessione di fondo, diretta a limitare il ricorso allo strumento penale nei casi in cui la prova del contagio si rivelerebbe particolarmente ardua, se non addirittura impossibile (103). Va ribadita, quindi, la legittimazione e la necessità di un intervento del diritto penale, al quale si pongono dei precisi doveri di protezione nei confronti degli individui, anche se irresponsabili ed imprudenti, con la consapevolezza, però, che l’invito al Selbstschutz resta elemento fondamentale all’interno di una efficace campagna di prevenzione e di lotta alla diffusione dell’Aids (104). Allo stesso tempo è indispensabile riconoscere all’infetto un adeguato spazio di ‘‘rischio consentito’’. Se non è pensabile, infatti, un dovere assoluto di astensione dall’attività sessuale, all’infetto dovrà essere comunque garantito un margine di scelta tra alternative di comportamento (informazione del partner o ricorso a pratiche di contenimento del rischio) (105). KOLIS SUMMERER dell’Università degli Studi di Bologna
recht, cit., p. 801 ss. SCHÜNEMANN, Riskanter Geschlechtsverkehr, cit., p. 90, ritiene il rischio di contagio diffuso nelle Risikogruppen ancora troppo basso per l’ammissione dell’autoresponsabilità e richiede un vero e proprio Desperadokontakt, ossia la ricerca di un rapporto sessuale ad elevato rischio (nei cc.dd. darkrooms o con una prostituta tossicodipendente). Cfr. CORNACCHIA, Profili di responsabilità per contagio dal virus HIV, cit., p. 322. (102) In questi termini KUNZ, Aids und Strafrecht, cit., p. 56; SCHÜNEMANN, Die Rechtsprobleme der Aids-Eindämmung, cit., p. 480 e SCHERF, Aids und Strafrecht, cit., p. 86. Critici anche HERZBERG, Die Strafbarkeit des Aids-Infizierten, cit., p. 2284; ID., Aids: Herausforderung und Prüfstein, cit., p. 474; MEIER, Strafrechtliche Apekte der Aids-Übertragung, cit., pp. 221-222; BOTTKE, Strafrechtliche Probleme von Aids, cit., pp. 206-207; PRITTWITZ, Strafbarkeit des HIV-Virusträgers, cit., p. 2942; HASSEMER, Strafbarkeit eines HIV-lnfizierten, cit., p. 763. (103) Nella sentenza dell’AG München (6 maggio 1987), cit., il comportamento imprudente dei clienti della prostituta è stato tuttavia considerato in sede di commisurazione della pena. (104) Sottolinea in questo campo il valore del diritto penale quale ethisches Maximum e la sua funzione simbolica, SCHÜNEMANN, Aids und Strafrecht, cit., p. 50 ss.; HERZBERG, Aids: Herausforderung und Prüfstein des Strafrechts, cit., p. 472; così anche FIANDACA, Omissione di misure anti-Aids, cit., p. 65. (105) Cfr. KUNZ, Aids und Strafrecht, cit., p. 51; MEIER, Strafrechtliche Aspekte, cit., p. 230; CORNACCHIA, Profili di responsabilità per contagio da virus HIV, cit., p. 321.
RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE
COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (*)
L’estradizione in Turchia di Alì Agca. Nell’anniversario dell’attentato al Pontefice del 13 maggio 1981, Alí Agca — secondo quanto riferito dalle cronache del maggio scorso — aveva rivolto un nuovo appello alla sua vittima: ‘‘Padre santo, mi aiuti a ritornare nella mia terra, vicino alla mia famiglia e alla mia anziana madre: ritengo di aver pagato, con 19 anni di duro carcere, il mio grandissimo errore’’. A poca distanza di tempo da quell’appello, la vicenda italiana dell’attentatore (per qualche richiamo alle fasi antecedenti v. Cooperazione europea nel procedimento per l’attentato al Pontefice, in Ind. pen., 1985, p. 642; L’attentato al Pontefice e i rapporti Italia-Bulgaria, ibid., 1990, p. 759) può dirsi, almeno ad oggi, conclusa, con il disposto rientro di lui in Turchia. Secondo quanto riferito dalla stampa del giugno scorso, il presidente Ciampi ha concesso ad Alí Agca la grazia (a quanto risulta: condizionata, entro un arco temporale di dieci anni), e contestualmente il graziato, con provvedimento del ministro della giustizia, è stato consegnato alla Turchia, che l’aveva richiesto in estradizione per altri e precedenti reati (omicidio e rapina a mano armata). Alí Agca aveva espresso il suo consenso all’estradizione, cosicché (artt. 701, comma 2, e 708, comma 1, c.p.p.) non si è resa necessaria la procedura giurisdizionale davanti alla Corte d’appello. Italia-India: un accordo di cooperazione in materia di terrorismo, crimine organizzato e traffico di droga. Muovendo dalla consapevolezza ‘‘che i fenomeni delittuosi connessi con il terrorismo, il crimine organizzato e il traffico di stupefacenti e sostanze psicotrope colpiscono entrambi i Paesi, mettendo in pericolo l’ordine e la sicurezza pubblica, nonché il benessere e l’integrità fisica dei propri cittadini’’, il 6 gennaio 1998 il governo della Repubblica Italiana e il Governo della Repubblica Indiana hanno sottoscritto, a New Delhi, un apposito accordo (se ne può leggere il testo, in lingua italiana e in lingua inglese, nel suppl. n. 111 alla Gazzetta Ufficiale n. 164 del 15 luglio 2000, p. 229 ss., dove si dà conto dell’entrata in vigore alla data del 21 gennaio 2000). A tale scopo è stato istituito un Comitato bilaterale (art. 1), e sono stati tra l’altro specificati i settori nei quali dovrà svolgersi la prevista cooperazione: per la lotta contro il terrorismo (art. 2); per la lotta contro la criminalità organizzata (art. 3); per la lotta contro il traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope (art. 4). Nell’art. 7 è stato assunto l’impegno delle due Parti nel senso di favorire una miglior comprensione delle legislazioni nazionali. Notiamo en passant che il riferimento alla neces-
(*)
A cura di MARIO PISANI.
— 332 — sità di includere in tale impegno la tematica dell’accertamento dei reati (nel testo inglese: ‘‘... including the identification of criminal offences’’) è stato fissato nei seguenti termini: ‘‘... inclusa l’individuazione di reati penali’’ (!). Nell’art. 9 si è specificato che l’impegno di cooperazione ‘‘debba estendersi alla ricerca di latitanti responsabili di fatti delittuosi nonché, fatta salva l’applicazione delle norme in materia di estradizione, al ricorso all’istituto dell’espulsione’’. Domanda di arresto provvisorio a fini estradizionali e Sistema d’Informazione Schengen. ‘‘Una segnalazione nel Sistema d’Informazione Schengen [S.I.S.], effettuata conformemente all’art. 95, ha il medesimo effetto di una domanda di arresto provvisorio ai sensi dell’art. 16 della Convenzione europea di estradizione’’: così stabilisce l’art. 64 della Convenzione (19 giugno 1990) di applicazione dell’Accordo di Schengen del 14 giugno 1985 (v., anche per la legge italiana di ratifica 30 settembre 1993, n. 388, il suppl. ord. alla Gazzetta Ufficiale — serie generale, n. 232 — del 2 ottobre 1993). A sua volta l’art. 16 della richiamata Convenzione europea prevede (al § 3) che la domanda di arresto provvisorio ‘‘sarà trasmessa alle autorità competenti della Parte richiesta o per via diplomatica o direttamente a mezzo posta o telegraficamente mediante l’organizzazione internazionale di Polizia criminale (Interpol) o con ogni altro mezzo purché ne rimanga prova scritta o sia consentito dalla Parte richiesta’’. Per una prima applicazione della disciplina di Schengen, che per l’appunto prevede un nuovo mezzo di trasmissione della domanda, v., con riferimento all’art. 716, comma 1, c.p.p., Cass., sez. VI, 25 giugno 1999, ric. Tepes (in Cass. pen., 2000, p. 3069, n. 1668, con nota di PIERINI). Il presidente della Corte d’appello di Bologna aveva convalidato in via provvisoria l’arresto di un cittadino di nazionalità croata, eseguito (il 24 febbraio 1999) in base a un ‘‘mandato d’arresto’’ emesso, sei anni prima, dal p.m. della Corte distrettuale di Rotterdam. Accordo di Schengen e attività di polizia su commissione rogatoria. Con una sentenza del 14 giugno 2000 (81.386/no 3966 PF), la Cassazione francese ha così deciso: ‘‘Si applicano a tutte le indagini giudiziarie, comprese quelle effettuate su commissione rogatoria di un giudice istruttore, le disposizioni dell’art. 40, al. 1, dell’Accordo firmato a Schengen il 19 giugno 1990, il quale autorizza gli operatori di una delle Parti contraenti che, nel quadro di un’inchiesta giudiziaria, tengono sotto osservazione nel loro Paese una persona sospettata di aver partecipato ad un fatto di reato che può dare luogo ad estradizione, a continuare la loro attività di osservazione sul territorio di un’altra Parte contraente, secondo le modalità previste da tale testo. Quando questi ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria agiscono su commissione rogatoria, nessuna disposizione legale o convenzionale subordina ad una autorizzazione del giudice committente l’esercizio del diritto di osservazione che essi derivano dall’art. 40 dell’Accordo. Nella nota redazionale che accompagna queste massime su Le Dalloz, 2000, n. 34 (del 5 ottobre, p. 245), si fa presente trattarsi di decisione priva di precedenti. Si aggiunge che, nel caso di specie, le informazioni fornite dalla polizia italiana alla gendarmeria nazionale hanno consentito l’apertura, in Francia, di indagini per violazione delle leggi sugli stupefacenti (importazione di cocaina in Europa, di provenienza brasiliana). Sulla domanda di assistenza giudiziaria prevista nell’art. 40 dell’Accordo v. l’art. 4 della nostra retrocitata legge di ratifica. V. anche, nello stesso indicato suppl. della Gazzetta Ufficiale del 1993, il testo di uno specifico Accordo complementare Italia-Francia.
— 333 — Sull’eseguibilità dell’estradizione in pendenza dei termini per il ricorso al Consiglio di Stato (francese). Pubblichiamo una recente ordinanza — in data 9 gennaio 2001 — emessa dal dott. Guido Salvini, giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano (procedim. n. 12535/98 R.G.N.R.; n. 6264/99 R.G.GIP.): « Letta l’istanza presentata nell’interesse dell’indagato in data 21 dicembre 2000 all’esito dell’interrogatorio ex art. 294 c.p.p. Letto il parere del Pubblico Ministero in data 23 dicembre 2000. Letti gli atti processuali ed acquisita presso le Autorità francesi la necessaria documentazione, il Giudice osserva: In sede di interrogatorio ex art. 294 c.p.p. i difensori di Crisafulli Biagio hanno eccepito la nullità dell’esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti dell’indagato in data 2 giugno 1998 dal GIP di Milano e notificata allo stesso il 19 dicembre 2000 presso il carcere di Torino. Le ragioni dell’eccezione si ricollegano alla situazione di Crisafulli che è stato estradato dalla Francia a seguito di decreto del 23 maggio 1997. Tale decreto riguardava altri procedimenti e titoli di custodia riguardanti sempre reati nel campo della cosiddetta criminalità organizzata per i quali è in corso dibattimento dinanzi alla Corte d’Assise di Milano. Successivamente a tale decreto di estradizione l’Autorità Giudiziaria italiana aveva chiesto l’estensione del provvedimento ad altre quattro ordinanze di custodia cautelare tutte emesse fra il 1997 e il 1998, nell’ambito di distinti procedimenti, dall’Ufficio GIP presso il Tribunale di Milano. Una di tali richieste riguardava l’ordinanza di custodia cautelare notificata a Crisafulli il 19 dicembre 2000. I difensori sostengono che tale ordinanza non poteva comunque essere resa eseguibile in quanto non sarebbe ancora completo e definitivo il procedimento di estradizione suppletiva che ne è all’origine non essendo ancora decorsi i termini per il ricorso dell’interessato dinanzi al Conseil d’Etat francese. Sono stati pertanto acquisiti gli atti dell’Autorità Giudiziaria francese riguardanti l’estradizione di Crisafulli, procedimento che è regolamentato in Francia dalla legge sull’estradizione del 10 marzo 1927 integrata dalle norme introdotte dalla Convenzione europea di estradizione ratificata anche dalla Francia. Risulta da tali atti che in relazione alla domanda di estensione dell’estradizione la Chambre d’Accusation di Aix en Provence ha emesso parere favorevole (definito dalla legge francese ‘‘avis’’) in data 8 marzo 2000 e la Corte di Cassazione in data 14 giugno 2000 ha respinto il ricorso presentato contro tale parere. Conseguentemente il primo ministro francese in data 24 novembre 2000 ha accordato con decreto l’estensione dell’estradizione in relazione alle quattro ordinanze di custodia cautelare. Il decreto del primo ministro è stato notificato a Crisafulli presso il carcere di Torino il 18 dicembre 2000 ed il giorno successivo gli è stata notificata l’ordinanza del GIP del 2 giugno 1998 e si è proceduto in data 21 dicembre all’interrogatorio. Sulla base di tale situazione i difensori di Crisafulli sostengono che l’ordinanza di custodia cautelare non poteva essere eseguita in quanto non era ancora trascorso il termine utile di 60 giorni per la presentazione di un ricorso dinanzi al Consiglio di Stato finalizzato a chiedere l’annullamento del decreto ministeriale. Sul punto vi è in primo luogo da rilevare che tanto il diritto italiano quanto, e soprattutto per le sue conseguenze nel caso in esame, il diritto francese considerano il decreto che accorda l’estradizione non un atto politico o di alta amministrazione ma un semplice atto amministrativo sottoposto come tale al controllo giurisdizionale del Consiglio di Stato sotto il profilo della sua legalità interna. Tale linea interpretativa è stata fatta propria dalla decisione del Consiglio di Stato fran-
— 334 — cese del 24 giugno 1977 nel caso Astudillo Calleja (che si era concluso con l’annullamento del decreto di estradizione essendo stato ritenuto motivato da fini politici il reato contestato all’estradando dalle Autorità spagnole richiedenti) e tale decisione del resto è perfettamente sovrapponibile alla decisione del Consiglio di Stato italiano in data 11 maggio 1966 n. 344 (1) che ha anch’essa ritenuto sindacabile il provvidimento del Ministro in quanto potenzialmente lesivo di diritti primari della persona e non rientrante nella ristretta cerchia degli atti strettamente politici. Fatta questa premessa, a conclusioni diverse da quelle prospettate dai difensori deve tuttavia giungersi in ordine al problema dell’eseguibilità dell’estradizione, e quindi della conseguente notifica del relativo titolo custodiale, in pendenza dei termini per il ricorso. Infatti il ricorso al Consiglio di Stato o la pendenza del termine, e nemmeno la richiesta di sospensione dell’atto, in diritto francese, in base ai principi generali, hanno effetto sospensivo o comunque tale da paralizzare l’efficacia dell’atto stesso (2) Il decreto di estradizione è immediatamente valido ed efficace e può essere eseguito dopo la firma del primo ministro con la consegna dell’estradando e la conseguente notificazione del provvedimento restrittivo da parte delle Autorità dello Stato richiedente. È pur vero che, per ragioni di prudenza discrezionalmente valutate, talvolta l’estradizione non viene attivata in pendenza di un possibile ricorso al Consiglio di Stato e, in casi più rari, il Consiglio di Stato può adottare un provvedimento di dilazione (‘‘sursis’’) dell’estradizione, come è avvenuto proprio nel delicato caso Astudillo Calleja in cui era in discussione la natura politica del reato, e quindi il possibile contrasto della richiesta di consegna delle Autorità spagnole con la legge francese. Tuttavia tale prassi concreta non fa venir meno la regola generale, e del resto la consegna dell’estradando è fissata dall’art. 18 della legge francese del 1927 entro il termine di un mese dalla notifica del provvedimento allo Stato richiedente a pena di caducazione del provvedimento stesso e di liberazione della persona richiesta. Ciò significa che, come normalmente avviene, l’estradizione può essere eseguita ben prima della possibilità di un intervento da parte del Consiglio di Stato. Eventuali vizi del decreto di estradizione continueranno a poter essere fatti valere dinanzi a tale organo e, in caso di annullamento, certamente le Autorità richiedenti, e, nel caso che qui interessa, le Autorità italiane, dovranno riconoscere il venir meno del titolo definitivo rimettendo in libertà il soggetto ingiustamente consegnato. Il fatto che nel caso di cui si discute non si tratti di diretta consegna dell’estradato ma di estradizione cosiddetta suppletiva e cioè di estensione dell’estradizione originaria ad altri titoli di custodia non muta tale quadro generale, ma semmai rende più agevole l’applicazione di tale principio in quanto in tale caso il diritto primario alla libertà dell’interessato non è direttamente compromesso, essendo egli già detenuto nel Paese che lo ha richiesto o se per avventura già rimesso in libertà, nella possibilità di allontanarsi. Egli conserva sempre il diritto, coltivando il proprio ricorso sulla legalità del provvedimento dello Stato richiesto, di ottenere l’annullamento del provvedimento viziato e di esigere che lo Stato richiedente si adegui a tale annullamento. Ne consegue che l’eccezione di nullità della notifica dell’ordinanza di custodia cautelare già n. 1598/98 R.G.GIP. presentata dai difensori di Crisafulli Biagio deve essere respinta ». Le Nazioni Unite e il crimine organizzato transnazionale. Nei giorni 12-15 dicembre 2000 si è svolta in Sicilia, facendo centro a Palermo, una conferenza internazionale, promossa dalle Nazioni Unite, sul tema della criminalità organizzata.
(1) Nello stesso senso v. Cons. di Stato, 14 marzo-8 aprile 2000, in questa Rivista, 2000, p. 1254. (2) Sul carattere non sospensivo del ricorso al Consiglio di Stato francese al riguardo, e di contro, sul carattere sospensivo del ricorso in Cassazione contro l’avis (favorevole) della Corte di appello v. i riferimenti di A. HUET/R. KOERING-JOULIN, Droit pénal international, 1994, pp. 411 e 413.
— 335 — Alla fine della conferenza è stata sottoscritta, per l’appunto, la ‘‘Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale’’, nell’intento (art. 1) ‘‘di promuovere la cooperazione per prevenire e combattere il crimine organizzato transnazionale in maniera più efficace’’. Il testo — che è stato sottoscritto dai rappresentanti di 121 Stati — consta di 41 articoli. Segnaliamo il contenuto di alcuni soltanto tra questi: l’art. 13 concerne la cooperazione internazionale ai fini della confisca; l’art. 16 — composto da 17 paragrafi — riguarda il tema dell’estradizione; l’art. 17, il tema del trasferimento delle persone condannate; l’art. 18 — composto da 30 paragrafi — riguarda la mutua assistenza giudiziaria; l’art. 21, il trasferimento dei procedimenti penali; l’art. 27, la cooperazione di polizia. L’art. 38 prevede che la Convenzione entri in vigore il novantesimo giorno successivo al 40o strumento di ratifica, accettazione, approvazione o adesione. Sono stati inoltre sottoscritti — dai rappresentanti di 80 Stati — due protocolli addizionali alla Convenzione: uno (di 20 articoli) ‘‘per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare di donne e bambini’’; l’altro (di 25 articoli) ‘‘per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria’’. Il testo integrale della Convenzione, e dei due Protocolli, è pubblicato, nella versione francese e nella versione inglese, in Rev. int. dr. pén., 2000, p. 505 ss. Male captus bene detentus: il caso di Cesare Rossi (1928). Il detenuto Cesare Rossi (fondatore della Ceka, la polizia segreta fascista) compariva il 27 settembre 1929 davanti al Tribunale speciale per la difesa dello Stato, quale imputato di aver commesso fatti diretti a ‘‘far sorgere in armi gli abitanti del regno’’ ed a ‘‘suscitare la guerra civile o la strage’’; fatti che comportavano la pena di morte. Dopo un dibattimento durato poche ore, ed accogliendo la richiesta dell’accusa, il Tribunale condannava il Rossi alla pena di anni 30 di reclusione. In una recente monografia, Mauro Canali, Cesare Rossi (Da rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo), Bologna, il Mulino, 1991, p. 376 ss., ha così ricostruito l’operazione che aveva portato alla ‘‘cattura’’ del Rossi (3): « ... Nell’agosto del 1928, Filippelli convinse Rossi della necessità d’un abboccamento. Un primo tentativo, ai primi di agosto, fallì per la mancanza da parte di Rossi di documenti per viaggiare liberamente attraverso la Svizzera. È tuttavia interessante notare come Rossi fosse comunque riuscito, in un primo momento, ad entrare in Svizzera con l’aiuto dei suoi amici Chiappe e Le Luc. Rossi spiegherà con la solidarietà massonica l’aiuto ricevuto dalla prefettura parigina. Dopo il tentativo andato a vuoto, s’era fissato un nuovo incontro a Lugano. Il 28 agosto, Rossi e la Durand, forniti di passaporti falsi procurati loro da Filippelli, furono raggiunti nella città elvetica da due sedicenti emissari del giornalista, un’anziana donna e suo nipote, in realtà due agenti della polizia politica fascista. I due avevano l’incarico di condurre Rossi e la sua compagna da Filippelli, che sarebbe giunto più tardi. Giocando su quello scherzo geografico che risponde al nome di Campione d’Italia, un piccolissimo lembo di terra italiana incastrato in territorio svizzero, l’automobile con i quattro fu condotta in territorio italiano e Rossi e la Durand finirono nelle braccia di un nucleo della polizia politica, appostato nel luogo convenuto e diretto dal commissario Polito. La polizia svizzera aveva acconsentito all’operazione sul suo territorio, poiché ingannata dal passaporto falso fornito a Rossi da Filippelli, ed intestato ad una persona esistente, sul cui capo pendevano diversi mandati di cattura internazionali. In un primo momento il governo fascista cercò di avallare, con studiata
(3) Sulla relativa problematica v. POCAR, L’esercizio non autorizzato del potere statale in territorio straniero, 1974, p. 135 ss., p. 147.
— 336 — reticenza, la versione d’una complicità della Durand con la polizia politica fascista, ma quando si conobbe l’effettivo ruolo della compagna di Rossi, il governo francese intervenne energicamente in suo favore. La donna fu tuttavia trattenuta in carcere a Roma per due mesi. Sembra che Bocchini tentasse, tramite Polito, di convincerla, affinché, tornata in Francia, si prestasse a fare l’informatrice ». L’Italia 1935, il terrorismo e la Corte penale internazionale. Alla VI Conferenza internazionale per l’unificazione del diritto penale, svoltasi a Copenaghen nel 1935 (gli Actes de la Conférence sono stati pubblicati a Parigi, nel 1938, ed. Pedone), la Commissione incaricata di mettere a punto la problematica del terrorismo si era espressa nei seguenti termini (p. 284): considerato che i reati di tal genere presentano un carattere gravemente nocivo per l’umanità e sono tali da compromettere le buone relazioni internazionali, fa voto che, ‘‘lorsque l’extradition n’est pas accordée, les delinquants puissent être déférés à une juridiction pénale internationale, à moins que l’État requis ne préfère les faire juger par ses propres tribunaux’’. A seguito di un’osservazione del rappresentante egiziano, nella sua qualità di segretario generale della conferenza Vespasien Pella precisava (e così traduciamo): ‘‘Il voto che ci si propone concerne la creazione di una Corte penale internazionale. Secondo alcuni, questa Corte è considerata come necessaria; altri delegati hanno forse delle riserve in proposito; pertanto, la questione dell’estradizione non si pone. Secondo le concezioni che sono state prospettate alla Società delle Nazioni uno Stato ha la facoltà o di estradare, o di punire, o di deferire il soggetto ad una tale Corte. Per quanto concerne gli Stati che si potrebbero trovare in grandi difficoltà d’ordine politico — nel senso che, da una parte non intendono estradare, e d’altra parte non intendono punire sul loro territorio per la presenza di correnti d’opinioni contrarie — sottoponendo la questione a una giurisdizione internazionale essi si liberano da ogni responsabilità internazionale’’. Prendeva allora la parola, per l’Italia, il presidente Ugo Aloisi, il quale dichiarava — in conformità alle dichiarazioni da lui già rese in sede di Società delle Nazioni — l’intendimento della delegazione italiana di astenersi. Nello stesso senso, e per le stesse ragioni, si esprimeva, per Polonia e Danzica, il delegato Rappaport, e, più tardi, per il Venezuela, il delegato Parra-Perez. Superata un’obiezione di carattere procedurale, la proposta della Commissione veniva approvata all’unanimità, salve le tre segnalate astensioni.
DOTTRINA
L’OBBLIGO DI GARANZIA RICOSTRUITO ALLA LUCE DEI PRINCIPI DI LEGALITÀ, DI SOLIDARIETÀ, DI LIBERTÀ E DI RESPONSABILITÀ PERSONALE (*)
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. — 2. Le teorie formalistica, sostanzialistico-funzionale e mista dell’obbligo di garanzia. — 3. La ricostruzione dell’obbligo di garanzia secondo i principi fondamentali del diritto penale. — 4. L’obbligo di garanzia, l’obbligo di sorveglianza, l’obbligo di attivarsi. — 5. Le fonti dell’obbligo di garanzia: la legge extrapenale. — 6. Il contratto. — 7. L’esclusione dalle fonti della « precedente attività pericolosa » e della « assunzione unilaterale di compiti di tutela ». — 8. Le specie degli obblighi di garanzia: di protezione, di controllo, di impedimento di reati.
1. Considerazioni introduttive (1). — Il problema del reato omissivo consiste — come è noto — nell’ardua individuazione di un punto di equilibrio tra le due opposte esigenze, espresse: 1) dal principio di eccezionalità dei reati omissivi, stante la loro maggiore interferenza nella sfera della libertà individuale rispetto ai reati commissivi; 2) dal principio di solidarietà, che impone agli individui di tenere comportamenti attivi per il soddisfacimento di altrui esigenze solidaristiche. Nella sua storia il reato omissivo ha conosciuto le opposte soluzioni: 1) del diritto penale liberale, che fu un diritto essenzialmente repressivoconservativo, di divieti, poiché il liberalismo classico concepiva nei confronti del cittadino il solo obbligo di « astenersi » dal violare la sfera degli altrui diritti intangibili; non pretendeva da lui, di principio, doveri di attivarsi a favore degli interessi altrui; e limitava i reati omissivi soprattutto alla prestazione del servizio militare, al pagamento delle imposte e all’omissione di soccorso delle persone in pericolo; 2) del diritto penale totalitario, che è anche un diritto costrittivo-propulsivo, di comandi, poiché il totalitarismo, finalizzando il singolo soggetto in funzione di interessi superiori ed assorbenti, gli impone una serie di obblighi di comportamento in (*) Il presente scritto costituisce il testo della Relazione al Congresso internazionale, tenutosi a Madrid il 6-10 novembre 2000, su ‘‘Modernas tendencias en la ciencia del derecho penal y en la criminologia’’. (1) Per una più ampia trattazione degli argomenti, qui esaminati, si rinvia a MANTOVANI, Diritto penale, Parte gen., Padova 2000, e a LEONCINI, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia, obbligo di sorveglianza, Torino 1999.
— 338 — ragione della sua posizione nell’ambito della comunità (familiare, sociale, politica, militare, di lavoro) e delle funzioni pubbliche svolte. Con conseguente moltiplicazione dei reati di omissione. Nei tempi presenti tra i poli opposti del diritto penale liberale classico e del diritto penale totalitario si è venuto collocando il diritto penale dello Stato sociale-solidaristico di diritto. Il quale Stato, addossandosi nuovi compiti in ampie sfere impone ai cittadini l’obbligo di determinate azioni dirette al raggiungimento di alcune finalità che esso assume come proprie, quali innanzitutto l’adempimento dei doveri di solidarietà del corpo sociale in vista della sua omogeneizzazione economico-politico-sociale. Ma si è venuto affermando anche il diritto penale dell’era tecnologica, che ha comportato un progressivo aumento dei rischi per l’incolumità pubblica e dell’ambiente. Con conseguenti ampliamenti della sfera dell’omissione punita (es.: in materia tributaria, di assistenza familiare, di mantenimento e istruzione dei figli, di rapporti di lavoro; in materia previdenziale, economica, industriale, commerciale, nonché di sicurezza del lavoro, della circolazione stradale, aerea, marittima, di tutela dell’ambiente, ecc.). Mentre il « diritto penale dell’azione » reprime il « male », il « diritto penale dell’omissione » persegue il « bene ». Ma fino a che punto? E qui sta un inquietante interrogativo della moderna politica criminale, poiché un diritto penale promozionale, di comandi, rischia oltre certi limiti di trasformarsi da strumento di tutela di beni giuridici a strumento di « governo della società ». Coi connessi pericoli di strumentalizzazioni politiche e le tensioni coi principi di extrema ratio del diritto penale e di eccezionalità dei reati omissivi. 2. Le teorie formalistica, sostanzialistico-funzionale e mista dell’obbligo di garanzia. — Limiteremo la nostra relazione al solo reato omissivo improprio (ovvero di non impedimento dell’evento), il quale richiede per la propria esistenza, cosa ormai riconosciuta da tutti gli ordinamenti moderni: a) non solo la materiale possibilità di impedire l’evento, mediante azione idonea; b) ma anche l’ulteriore requisito dell’obbligo di impedire l’evento (o di garanzia), non potendo il diritto — senza gravi interferenze nella sfera delle libertà individuali e senza compromettere l’« eccezionalità » del reato omissivo improprio — esigere l’intervento impeditivo da parte di ogni soggetto in grado di farlo. Profonde divergenze esistono, però, sulla natura, fonti e portata dell’obbligo di garanzia, a seconda delle concezioni: formalistica, sostanzialistico-funzionale e mista-formale-sostanziale. A) La concezione formalistica, seguita dalla dottrina e giurisprudenza italiana tradizionale ed espressione del liberalismo giuridico classico, muovendo dal postulato dell’eccezionalità della responsabilità omissiva esige l’espressa previsione dell’obbligo di agire da parte di fonti giuri-
— 339 — diche formali, che sono individuate nella legge (penale ed extrapenale) e nel contratto (cui sono andate poi aggiungendosi la negotiorum gestio e, incoerentemente, la consuetudine). Suo merito: è la proclamata esigenza dell’imprescindibile fondamento giuridico-formale dell’obbligo di garanzia, in ossequio al principio di legalità. Ma suo duplice limite: a) di peccare per eccesso, in quanto è incapace di « selezionare », nell’ambito della eterogenea molteplicità, presente in ogni ordinamento giuridico, di obblighi di agire previsti da fonti formali, quelli aventi una reale « funzione di garanzia » e, pertanto, di contraddistinguere e circoscrivere le ipotesi di responsabilità per non impedimento dell’evento; b) di peccare per difetto, in quanto, non essendo in grado di distinguere tra mera obbligazione contrattuale ed obbligo di garanzia, porterebbe ad escludere questo obbligo (e la conseguente responsabilità penale omissiva) nei casi di invalidità del contratto, anche se il soggetto ha preso in carico il bene e vi è stato il conseguente affidamento dello stesso da parte del titolare o del garante originario (es.: la presa in custodia del bambino da parte della bambinaia). E, viceversa, la suddetta tesi porterebbe a ravvisare l’obbligo e la conseguente responsabilità penale per non impedimento nei casi di validità del contratto, ma senza che il soggetto abbia preso in carico il bene e non vi sia stato l’affidamento da parte di terzi (es.: la non presa in custodia del bambino da parte della bambinaia, che non si presenta all’ora stabilita coi genitori). B) La concezione sostanzialistico-funzionale, sorta in Germania negli anni trenta, ivi sviluppatasi nel dopoguerra ed attualmente dominante, individua la funzione della responsabilità per omesso impedimento nell’esigenza solidaristica della tutela « rafforzata » di beni giuridici (per l’incapacità di adeguata protezione da parte dei titolari) mediante la predisposizione di appositi garanti. Ed essa deriva l’obbligo di garanzia non tanto da fonti formali, ma dalla « posizione fattuale di garanzia » del bene, che viene assunta in concreto da specifici soggetti (es.: per convivenza continuativa; presa in carico, consensuale o unilaterale, del bene) e si sostanzia in uno speciale vincolo di tutela tra il bene e il c.d. garante. Suo merito: l’individuazione di un criterio generale per selezionare, tra la molteplicità dei doveri di agire, gli autentici obblighi di garanzia e il conseguente contributo alla delimitazione del reato omissivo improprio. Suoi limiti: a) il contrasto, fondando essa l’obbligo di garanzia su criteri fattuali, col principio di legalità-riserva di legge; b) il non adeguato soddisfacimento del principio di legalità-tassatività, non solo perché tale teoria non consente di circoscrivere la responsabilità per non impedimento entro confini ben precisi, stante la diversità di criteri, elaborati per individuare e delimitare di volta in volta la posizione di garanzia, e di conclusioni raggiunte. Ma anche perché i criteri sostanzialistici, usati in via esclusiva, si sono rivelati, anziché limitativi, più estensivi della suddetta responsabilità di quelli for-
— 340 — mali, come attestano le applicazioni pratiche della dottrina e giurisprudenza tedesche; c) la perpetuazione, attraverso la tendenza a derivare l’obbligo di garanzia anche dalla precedente azione pericolosa del soggetto, della mai dissipata confusione tra causalità attiva e causalità omissiva. C) La concezione mista, formale-sostanziale, attualmente prevalente nella dottrina italiana, ha a suo merito il tentativo della doverosa sintesi tra criterio formale e criterio funzionale, nel senso che la selezione degli obblighi di garanzia va effettuata sulla duplice base della loro previsione in una fonte formale e della loro corrispondenza alla funzione sostanziale di garanzia, come sopraindicata. Ma ha come suo limite la incompiuta sintesi, in quanto cumula in qualche misura certe genericità della vecchia concezione formalistica e le incertezze del criterio sostanzialistico. Con profonde divergenze nella soluzione dei singoli casi. E con manipolazioni aprioristiche dei suddetti manipolabili criteri. Sia nel senso di una eccessiva dilatazione della responsabilità per non impedimento (es.: in materia di tutela infortunistica dei lavoratori; o per la derivazione dell’obbligo di garanzia da vaghe previsioni legislative quale la funzione sociale della proprietà ex art. 41 Cost. italiana; o dell’obbligo dei sindaci delle società per azioni di impedire i reati degli amministratori, desunto dalla loro responsabilità patrimoniale prevista dalla legge). Sia nel senso di una rigorosa restrizione della responsabilità per non impedimento, negandosi l’obbligo di garanzia dei genitori rispetto ai fatti lesivi dell’intangibilità sessuale dei figli minori: degli appartenenti alle forze di polizia rispetto ai reati commessi anche in loro presenza; nonché addirittura qualsiasi obbligo di garanzia rispetto ai beni patrimoniali. 3. La ricostruzione dell’obbligo di garanzia secondo i principi fondamentali del diritto penale. — Le inadeguatezze delle suddette teorie a caratterizzare l’obbligo di garanzia e a differenziarlo da altri tipi di obblighi di agire possono essere superate attraverso la ricostruzione dell’obbligo di garanzia nei suoi precisi requisiti penali costitutivi, alla luce dei principi — che nei vari paesi sono in genere anche principi costituzionali — di legalità, di solidarietà, di libertà, di responsabilità personale. A) In base al principio di legalità-riserva di legge requisito primo è la giuridicità dell’obbligo di garanzia, nel senso che esso deve trovare la propria fonte: a) mai in norme soltanto morali, poiché l’inosservanza dei doveri impeditivi morali, se sovente esprime carente solidarietà umana, non può dare luogo a responsabilità penale per non impedimento (2); b) nep(2) Contro i pericoli di incontrollabili dilatazioni di tale responsabilità, storicamente sperimentate, ferma deve restare la distinzione tra « obblighi giuridici » ed « obblighi morali ». A differenza del medico del servizio pubblico di emergenza, il medico libero professio-
— 341 — pure in mere situazioni fattuali di garanzia (es.: convivenza more uxorio, in comunità); c) ma sempre e soltanto in fonti giuridiche formali, costituite — come fra breve vedremo — dalla sola legge extrapenale e dal contratto. B) In base al principio di legalità-tassatività secondo requisito è la sufficiente specificità dell’obbligo di garanzia (come richiede anche l’art. 11 c.p. spagnolo). Con la conseguente esclusione degli obblighi indeterminati, essendo l’« azione doverosa » che « tipizza » il reato di non impedimento. Compresi gli stessi doveri costituzionali generici (quali i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, sociale, dell’art. 2 Cost. italiana), che costituiscono, oltre che indicazioni di politica legislativa, il fondamento costituzionalmente legittimo della responsabilità omissiva, ma non della diretta punibilità per il singolo reato, come certa dottrina vorrebbe. C) In base al principio di solidarietà terzo requisito è la specificità dei soggetti beneficiari dell’altrui obbligo di garanzia, che attiene alla stessa essenza e funzione di tale obbligo, perché la « tutela rafforzata », solidaristica, va circoscritta ai soli soggetti incapaci di adeguata autotutela. D) In base al principio di libertà il quarto requisito è la specificità dei soggetti destinatari dell’obbligo di garanzia, poiché questo può gravare non mai sulla generalità dei consociati, ma solo su specifiche categorie predeterminate di soggetti, che si trovano in un particolare rapporto giuridico col bene da proteggere (es.: genitori, medici ospedalieri) o con la cosa fonte di pericolo da controllare (es.: proprietario di animali pericolosi o di edifici che minacciano rovina): cioè nella c.d. posizione giuridica di garanzia. Pertanto, il reato omissivo per mancato impedimento è un reato non comune (realizzabile da chiunque), ma un reato proprio di specifiche categorie di soggetti. In base al principio di libertà-eccezionalità dell’obbligo di garanzia certa dottrina italiana ha ritenuto di limitare tale obbligo alla tutela dei soli beni della vita e dell’incolumità individuale. Ma la tesi non appare possa essere condivisa per i risultati inaccettabili dell’esclusione dall’obbligo di garanzia della tutela di tutti i beni diversi dai beni suddetti, si tratti: a) di beni fondamentali personali (es.: libertà, intangibilità sessuale) o di beni patrimoniali; b) di obblighi di garanzia ex lege (dei genitori, degli appartenenti alle forze di polizia, degli amministratori societari) o ex contracto, per cui non dovrebbero rispondere di concorso nei reati, non impediti, di sequestro del datore di lavoro la guardia del corpo, del furto nista non risponde di omicidio per la morte di un malato per non essere accorso alla sua chiamata. Come pure non rispondono della morte del soggetto colpito da emorragia o dello scalatore infortunatosi o per l’incendio del bosco i membri dell’associazione volontaria di donatori di sangue, di salvataggio alpino o di difesa dei boschi per il non prestato soccorso richiesto.
— 342 — la guardia a custodia della villa o della banca e del reato di danneggiamento l’addetto alla alimentazione del bestiame che ne provoca la morte non alimentandolo. E) In base al principio della responsabilità penale personale sono ulteriori requisiti: a) l’imprescindibile esistenza di poteri giuridici impeditivi, sottostanti all’obbligo di garanzia. I quali consistono in poteri di vigilanza circa l’insorgere di situazioni di pericolo e di intervento (personale o tramite terzi: es., il medico chiamato dai genitori) su tale situazione e che sono conferiti al garante da una specifica norma e indispensabili per adempiere l’obbligo di garanzia. Invero l’obbligo di garanzia e, quindi, l’affidamento della tutela dei beni al garante sussistono nei limiti della compresenza di doveri e di speculari poteri giuridici impeditivi, conferiti in via generale (es.: affidamento dei beni personali e patrimoniali dei figli minori ai genitori) o particolare (es.: affidamento dell’incolumità dei lavoratori, nel luogo di lavoro, al datore di lavoro). Poteri, che caratterizzano l’obbligo di garanzia e lo differenziano da ogni altro obbligo di agire; onde imprescindibile è l’accertamento giudiziale se l’evento verificatosi rientri o meno nei poteri impeditivi del soggetto; b) la preesistenza del potere-dovere impeditivo rispetto alla situazione di pericolo, perché solo così il garante può esercitare i poteri-doveri di vigilanza ed intervento e, quindi, di tutela anche preventiva del bene affidatogli; c) la possibilità materiale del garante di compiere l’azione impeditiva idonea, venendo meno altrimenti l’obbligo di garanzia: ad impossibilia nemo tenetur. E in caso di azione impeditiva « libera », in quanto la fonte dell’obbligo non descrive l’azione richiesta, occorre distinguere tra l’impossibilità assoluta, che preclude cioè ogni azione impeditiva ed è quindi liberatoria dell’obbligo (es.: bagnino colto da improvviso svenimento) e l’impossibilità relativa, cioè limitata ad una o a talune delle possibili azioni impeditive (es.: la madre, incapace di nuotare, è pur sempre tenuta ad invocare il soccorso altrui per salvare il figlio caduto in acqua). 4. L’obbligo di garanzia, l’obbligo di sorveglianza, l’obbligo di attivarsi. — Sulla base dei requisiti sopra individuati, l’obbligo di garanzia può essere definito come l’obbligo giuridico, che grava su specifiche categorie predeterminate di soggetti previamente forniti dagli adeguati poteri giuridici, di impedire eventi offensivi di beni altrui, affidati alla loro tutela per l’incapacità dei titolari di adeguatamente proteggerli. E la conseguenza è che solo l’obbligo impeditivo, ricostruito nei suddetti termini, legittima l’equiparazione — secondo la c.d. clausola di equivalenza via via introdotta nei moderni codici penali (es.: art. 40/2 c.p. italiano e art. 11 c.p. spagnolo) — del non impedire al causare: della causalità omissiva alla causalità attiva.
— 343 — A) Ma l’obbligo di garanzia, come sopra ricostruito, si differenzia dall’obbligo di sorveglianza, che è l’obbligo giuridico, gravante su specifiche categorie di soggetti privi di poteri giuridici impeditivi, di vigilare su altrui attività per conoscere dell’eventuale commissione di fatti offensivi e di informare il titolare o il garante del bene. Il presente obbligo, simile all’obbligo di garanzia per gli altri requisiti, si differenzia da esso circa i poteri giuridici, che sono non impeditivi, ma di mera vigilanza e di informazione sulla situazione di pericolo, spettando solo al titolare del bene o al garante, informati dal sorvegliante, i poteri di intervento impeditivi. Esempi paradigmatici: l’obbligo dei sindaci di società per azioni non di impedire, perché privi secondo il diritto italiano dei corrispondenti poteri, ma di vigilare e di informare gli organi societari dei reati commessi nella società. O l’obbligo dei soggetti, incaricati di vigilare e riferire al garantedatore di lavoro circa l’inosservanza delle norme antinfortunistiche in materia di lavoro. Con la quadruplice conseguenza: a) che, per il principio della responsabilità penale personale, l’inosservanza dell’obbligo di sorveglianza non dà luogo a responsabilità per non impedimento dell’evento, perché, in assenza dei poteri impeditivi, si tratterebbe di responsabilità per fatto altrui; b) che il titolare dell’obbligo di sorveglianza non risponde neppure di concorso omissivo nel reato commesso dal soggetto sottoposto a sorveglianza; c) che, de jure condito, l’omessa sorveglianza è punibile nei soli casi espressamente previsti da specifiche norme della parte speciale del diritto penale (es.: per il reato di omissione di atti di ufficio da parte del pubblico ufficiale), stante l’assenza — quanto meno nel codice penale italiano — di una previsione generale sull’obbligo di sorveglianza. Con tutti i vuoti repressivi, non colmabili, anche se non di rado vengono colmati illegittimamente dalla giurisprudenza, attraverso il ricorso alla clausola di equivalenza e al concorso nel reato altrui; d) che, de jure condendo, è sentita l’esigenza di introdurre — come ha fatto lo Schema di un nuovo codice penale italiano del 1992 — sia una disposizione generale sull’obbligo di sorveglianza, che ne stabilisca i requisiti e la rilevanza penale, sia autonome fattispecie incriminatrici delle violazioni di specifici obblighi di sorveglianza (quali quelle commesse nell’attività dell’impresa). B) L’obbligo di garanzia si differenzia, altresì, dal mero obbligo di attivarsi, che comprende, per esclusione, ogni obbligo giuridico di agire per la tutela di certi beni, imposto a soggetti, privi di poteri giuridici impeditivi e di sorveglianza, dalla norma incriminatrice al verificarsi del presupposto di fatto, dalla stessa indicato. Il presente obbligo si differenzia dall’obbligo di garanzia e dall’obbligo di sorveglianza: a) perché il soggetto obbligato manca dei poteri sia impeditivi sia di sorveglianza; b) perché l’obbligo non preesiste, ma insorge al verificarsi del suddetto presupposto di fatto. Esempio paradigma-
— 344 — tico: l’obbligo di soccorso a persona in pericolo previsto da pressoché tutti i codici (es.: art. 593 c.p. italiano e art. 195 c.p. spagnolo), il quale insorge nei confronti di « chiunque soggetto » solo al momento del ritrovamento della persona in pericolo. E distingue il soccorritore occasionale dal garante, perché questi ha il preesistente potere giuridico di inibire il sorgere della stessa situazione di pericolo (es.: vietando al figlio giochi pericolosi), mentre il primo può, di fatto, soltanto impedire che questa si evolva in evento lesivo o più lesivo. Con la duplice conseguenza che l’inosservanza dell’obbligo di attivarsi: a) non rientra nella responsabilità sancita in via generale dalla clausola di equivalenza del non impedire al cagionare; b) ma è punibile solo sulla base della norma incriminatrice, se esiste, del reato omissivo proprio, cioè di mera omissione (es.: art. 593 c.p. italiano e art. 195 c.p. spagnolo) o anche del reato omissivo di evento (es.: art. 593/2 c.p. italiano in caso di omesso soccorso con conseguente morte o lesioni), ma pur sempre fuori della responsabilità per la suddetta clausola. 5. Le fonti dell’obbligo di garanzia: la legge extrapenale. — L’obbligo di garanzia, ricostruito come sopra, ha implicazioni — a maggior tutela del principio della riserva di legge — anche in materia di fonti. Fonte primaria è, innanzitutto, la legge (o l’atto equivalente) la quale va però circoscritta alla sola legge extrapenale, di diritto pubblico (es.: obbligo per certi soggetti di impedire reati) o privato (es.: obblighi dei genitori). Con esclusione, pertanto, non solo delle fonti sublegislative (regolamenti, atti amministrativi, consuetudine), che possono solo specificare obblighi già posti dalla legge (es.: in materia antinfortunistica). Ma anche della stessa legge penale, che come fonte di obblighi di garanzia ha vissuto alterne vicende. Tale legge, esclusa come fonte dalla originaria concezione formale del liberalismo classico (per l’eccezionalità del reato omissivo e per la ritenuta funzione meramente sanzionatoria del diritto penale), è stata poi riabilitata per la incapacità selettiva degli obblighi di garanzia da parte di tale concezione, per la riconosciuta funzione « autonomistica » del diritto penale e per esigenze di ricostruire l’obbligo di garanzia in termini penalistici. Fino ad essere considerata fonte privilegiata, per la diffidenza verso la conversione degli obblighi extrapenali in obblighi penali. Ma di recente è stata di nuovo e fondatamente espulsa: a) per l’inidoneità della norma incriminatrice a costituire fonte originaria e autonoma di obblighi di garanzia, limitandosi essa a imporre l’obbligo di agire, senza prevedere i sottostanti e imprescindibili poteri giuridici impeditivi, che possono essere conferiti solo da una previa e compiuta regolamentazione extrapenale; b) perché le norme penali, considerate fonti di obblighi di garanzia, hanno una funzione meramente sanzionatoria di obblighi di garanzia già originariamente previsti da leggi extrapenali, in quanto esse si limitano a sanzio-
— 345 — narne l’inosservanza come tale. Con rinvio, esplicito o implicito, alle leggi extrapenali per la determinazione (dei destinatari, del contenuto) degli obblighi stessi. Così, ad es., le norme dell’art. 437 c.p. italiano e dell’art. 316 c.p. spagnolo, che incriminano l’omessa predisposizione dei mezzi per evitare pericoli per l’incolumità dei lavoratori, le quali rinviano, per la definizione dei rispettivi obblighi, alla fonte primaria e completa della legislazione extrapenale antinfortunistica. 6. Il contratto. — Oltre alla legge extrapenale, la sola fonte ulteriore dell’obbligo di garanzia è il contratto, il quale comprende: a) sia i comuni contratti tipici (es.: i contratti di prestazione d’opera tra bambinaia e genitori; tra la guardia privata e la banca); b) sia i contratti atipici, che si fondano pur sempre sul consenso tra le parti. Così negli esempi della guida di montagna, dei membri di un’associazione volontaria di pronto soccorso, della persona vicina di casa, che si offrono, senza retribuzione, rispettivamente di accompagnare l’inesperto escursionista in una pericolosa scalata, di trasportare all’ospedale l’ammalato o di custodire presso di sé il bambino in assenza dei genitori, con accettazione del servizio da parte di questi soggetti. Contro gli eccessi della concezione formalistica, che tende a fare coincidere la responsabilità penale con la responsabilità civile da inadempimento del contratto, e contro l’atteggiamento di sfavore della concezione sostanzialistico-funzionale verso la fonte contrattuale, per la capacità di dilatazione pressoché illimitata della responsabilità omissiva sulla mera base di accordi privati, la soluzione corretta è quella, anche qui, di selezionare, nell’ambito degli obblighi contrattuali, gli obblighi di garanzia ex contracto, sulla base dei requisiti penalistici sopra individuati per l’obbligo di garanzia in generale. E alla luce di questi requisiti appaiono corrette le seguenti conclusioni. A) La prima conclusione è che gli obblighi di garanzia ex contracto comprendono: a) sia gli obblighi derivati dal trasferimento di obblighi di garanzia, già previsti ex lege, dal garante originario al garante derivato (es.: dai genitori alla bambinaia), col solo conseguente mutamento del titolare dell’obbligo e, quindi, del penalmente responsabile; b) sia gli obblighi creati ex novo da parte del titolare del bene a carico del soggetto costituito garante (es.: da parte del ricco industriale a carico della guardia del corpo contro i sequestri di persona a scopo di riscossione del prezzo del riscatto; da parte della banca a carico della guardia privata contro le rapine; dell’escursionista a carico della guida di montagna contro i rischi della scalata). Con la conseguente conversione della facoltà di autotutela del titolare del bene in obbligo di tutela per il garante. E ciò: a) perché entrambe le suddette categorie di obblighi trovano il loro fondamento ultimo, in ossequio al principio della riserva di legge, anch’esse nella legge, cioè nelle norme del codice civile (es.: art. 1372 c.c.
— 346 — italiano), che riconoscono al contratto efficacia di legge tra le parti; b) perché, per quanto riguarda gli obblighi creati contrattualmente ex novo, essi trovano il loro fondamento anche nelle norme di legge sui diritti personali e patrimoniali, in quanto in ciascuno di essi è insita la facoltà di protezione degli stessi mediante l’autodifesa preventiva (allarmi sonori, porte blindate, offendicula) o attuale (legittima difesa), ma anche l’eterodifesa delegata ad altri soggetti più capaci; c) perché anche negli obblighi creati ex novo esiste, in conformità al principio di solidarietà, il requisito del bisogno di « tutela rafforzata », in quanto il fatto che tale bisogno sia non prestabilito dal legislatore, ma lasciato alla valutazione del titolare del bene (es.: al ricco industriale, all’escursionista, all’istituto bancario), non esclude che si tratti pur sempre di strumenti di attuazione di esigenze solidaristiche per l’incapacità del soggetto di un’adeguata autotutela. B) La seconda conclusione è che gli obblighi di garanzia ex contracto richiedono, in base al principio della responsabilità penale personale, l’effettivo trasferimento al garante derivato dei poteri-doveri impeditivi, non solo giuridici (non così, ad es., nel caso di conferimento da parte dell’imprenditore industriale al proprio dipendente di un mero obbligo di sorveglianza), ma anche fattuali (non così, ad es., nel caso della bambinaia che non si presenta all’ora stabilita coi genitori). Onde l’obbligo sorge al momento dell’effettivo passaggio dei poteri-doveri impeditivi, giuridici e fattuali, che non coincide necessariamente né col momento della perfezione del contratto (es.: consensuale), né con la mera presa in carico fattuale del bene, come vorrebbero rispettivamente la concezione formale e la concezione sostanzialistico-funzionale. Corollari della suddetta conclusione sono: a) la delegabilità giuridica dei poteri-doveri impeditivi, senza la quale o oltre la quale non si ha trasferimento giuridico dell’obbligo di garanzia. Mentre sono non delegabili gli obblighi connessi a certe pubbliche funzioni (es.: dei militari gerarchicamente superiori rispetto agli inferiori), sono delegabili integralmente, ad es., gli obblighi di custodia di animali o cose pericolose e parzialmente, ad es., gli obblighi di protezione dei figli minori da parte dei genitori; b) la stipulazione del contratto tra l’originario garante o il titolare del bene e terze persone, ma non tra estranei, perché solo i primi, in quanto titolari dei poteri-doveri impeditivi, possono trasferirli a terzi (secondo il classico esempio, non diventa garante il barcaiolo pagato in segreto dal filantropo, affinché vigili sui partecipanti ad una gara di nuoto). Sicché il terzo estraneo sarà tenuto soltanto al doveroso soccorso ex artt. 593 c.p. italiano e 195 c.p. spagnolo, se ne ricorrono gli estremi; c) l’idoneità psicofisica e tecnica della controparte contraente ad adempiere l’obbligo impeditivo, senza la quale (es.: nel caso di bambinaia inferma di mente) non si ha trasferimento liberatorio dall’obbligo di garanzia dell’originario garante; d)
— 347 — l’informazione, da parte del garante originario al garante derivato, dei vizi occulti della cosa trasferita, che la rendono pericolosa (3). C) La terza conclusione è che il controverso problema dell’insorgenza o meno dell’obbligo di garanzia in caso di contratto invalido, ma con la presa in carico del bene o della fonte di pericolo, non va risolto con gli apposti assolutismi aprioristici né della concezione formale (la quale, col suo esclusivo riferimento alla disciplina civilistica del contratto, ammette la nascita dell’obbligo sempre nei casi di annullabilità e mai nei casi di nullità del medesimo, con i rimproverati vuoti di tutela del bene in quest’ultima ipotesi); né della concezione sostanzialistico-funzionale (la quale, col fondare l’obbligo di garanzia sulla assunzione fattuale dello stesso, esclude ogni rilevanza dell’invalidità del contratto e, per ciò solo, ogni vuoto di tutela del bene, ma priva anche qui l’obbligo di garanzia di ogni fondamento giuridico-formale). Ma va bensì risolto, tale problema, in termini relativistici, a seconda cioè che la causa di invalidità faccia o non faccia venire meno anche qualcuno dei requisiti penalistici dell’obbligo di garanzia. Circa le cause di annullabilità, la maggior parte di esse non preclude l’insorgenza dell’obbligo, dato che il contratto annullabile produce, almeno temporaneamente, i propri effetti e può essere convalidato (art. 1444 c.c. italiano). Ma non tutte: quale, ad es., la causa di annullabilità, prevista dall’art. 1425/2 c.c. italiano, dell’affidamento della tutela del bene a soggetto minore, infermo di mente o alcolizzato, la quale non libera, per mancanza del requisito dell’idoneità di tali soggetti, il garante originario. Circa le cause di nullità, molte di esse precludono, viceversa, l’insorgenza dell’obbligo di garanzia: quale, ad es., la causa di nullità dell’indeterminatezza o dell’impossibilità dell’oggetto del contratto (cioè del bene da tutelare o dei poteri-doveri impeditivi), perché essa priva l’obbligo, in contrasto col principio di tassatività o della responsabilità penale personale, del requisito della determinatezza o della possibilità dell’adempimento. Ma non tutte: così nei casi in cui la legge ritiene sufficiente per l’insorgenza dell’obbligo di garanzia la semplice custodia di fatto della cosa pericolosa, onde a tal fine basta che al contratto nullo (es.: vendita abusiva di esplosivi, vietata dall’art. 678 c.p. italiano) faccia seguito la materiale presa in custodia della cosa. D) La quarta conclusione è che il problema se si abbia l’inadempi(3) In caso di trasferimento contrattuale delle cose fonti di pericolo nella sfera di signoria di altri soggetti, si ha trasferimento contestuale dell’obbligo di garanzia se la pericolosità occulta della cosa è stata resa nota dal precedente garante all’acquirente (es.: costruzione di cemento armato carente di ferro; aggressività dell’animale domestico) oppure se la pericolosità è evidente o accertabile in via normale (es.: dell’automobile con gomme consumate o freni inefficienti; della miniera con bacini, pericolanti, di decantazione delle acque).
— 348 — mento o meno dell’obbligo di garanzia nel caso opposto del contratto valido, ma senza la doverosa presa in carico del bene o della cosa fonte di pericolo, non va risolto anch’esso sulla base degli opposti assolutismi aprioristici né della concezione formale (la quale identifica la responsabilità penale del garante con la responsabilità civile da inadempimento contrattuale, a prescindere dall’effettivo passaggio a costui dei poteri impeditivi); né della concezione sostanzialistico-funzionale (la quale esclude la responsabilità penale del garante per il solo fatto della mancata presa in carico del bene, con la conseguenza che l’inadempimento dell’obbligazione di assumere la posizione di garanzia esaurirebbe sempre e soltanto la sua rilevanza al diritto civile). Ma va risolto invece, tale problema, mediante la selezione, nell’ambito degli inadempimenti contrattuali, di quelli che danno luogo e di quelli che non danno luogo all’inadempimento dell’obbligo di garanzia. A questo fine va distinto tra: 1) la mancata presa in carico del bene o della cosa fonte di pericolo, da parte del garante derivato, al momento del compimento del termine iniziale del contratto. Essa costituisce inadempimento del contratto, ma non dell’obbligo di garanzia, per la preclusiva ragione che questo obbligo insorge, come già visto, con e al momento del trasferimento, anche di fatto, dei poteri impeditivi e quindi, del bene o della cosa pericolosa. Momento, che coincide non necessariamente — ripetiamo — con la perfezione del contratto, ma con l’instaurazione della vicinanza fisica col bene o con la cosa (es.: la bambinaia, che non si presenta all’ora stabilita, risponde di inadempimento contrattuale, ma non della morte del bambino, lasciato ciononostante incustodito dai genitori) o con la conferita accessibilità al bene o alla cosa fonte di pericolo (es.: risponde di omicidio per mancata terapia l’infermiere contrattualmente obbligatosi a recarsi in orari prestabiliti presso la persona anziana inferma per praticarle iniezioni, previa consegna a lui delle chiavi dell’appartamento da parte dei parenti); 2) la mancata ripresa in carico del bene o della fonte di pericolo, da parte del garante originario, alla scadenza del termine finale del contratto. Essa costituisce inadempimento non solo contrattuale, ma anche dell’obbligo di garanzia, poiché questo obbligo, in quanto deriva a tale garante direttamente dalla legge, si ripristina automaticamente alla scadenza della delega; perché egli imputet sibi, per la mancata ripresa in carico del bene o della fonte di pericolo, l’impossibilità materiale di esercitare i poteri impeditivi; e perché, altrimenti, la liberazione del garante derivato verrebbe a dipendere non dall’accordo contrattuale, ma dall’unilaterale volontà del garante originario. E nessun vuoto di tutela si apre, poiché il garante originario può rispondere dei delitti omissivi di lesioni o di omicidio e il garante derivato soltanto e pur sempre del delitto minore di omissione di soccorso, se ne ricorrono gli estremi.
— 349 — 7. L’esclusione dalle fonti della « precedente attività pericolosa » e della « assunzione unilaterale di compiti di tutela ». — A) Dalle fonti dell’obbligo di garanzia va, invece, esclusa la propria « precedente attività pericolosa », dalla quale si vorrebbe fare scaturire — secondo la teoria dell’ingerenza — l’obbligo giuridico per il soggetto di impedirne le conseguenze dannose, in quanto egli altrimenti ne risponderebbe per non impedimento. Tale teoria, rielaborata dalla concezione sostanzialistico-funzionale, ma rimasta estranea alla giurisprudenza italiana meno recente e contestata dalla più recente dottrina italiana, va respinta: 1) perché essa contrasta innanzitutto col principio della riserva di legge, allorché non esista, come in Italia e in altri paesi e a differenza della Spagna, alcuna legge che preveda una siffatta condotta pericolosa come fonte di un obbligo generale di garanzia; 2) perché essa contrasta, altresì, con la nozione penalistico-costituzionale dell’obbligo di garanzia, in quanto « chiunque », per il solo suo agire pericoloso, assurgerebbe automaticamente a garante degli altrui beni; 3) perché essa è, comunque, inutile e fuorviante in quanto rispetto alle vere e proprie azioni pericolose ravvisa una causalità omissiva là dove già preesiste una causalità attiva (es.: apertura di una buca in un luogo aperto al pubblico, installazione ed uso di macchinari pericolosi, messa in circolazione di veicolo difettoso); 3) perché essa rispetto alle azioni pericolose già compiute afferma l’esistenza di un obbligo là dove esiste, per così dire, solo un onere di impedimento dell’evento, se l’autore di tale condotta non vuole rispondere del reato commissivo (es.: di omicidio chi non soccorre il soggetto da lui ferito; delle conseguenze dell’incendio chi l’ha provocato e non ne impedisce il propagarsi). E ciò è in contrasto col fatto che l’evitare volontariamente la consumazione del delitto mediante l’impedimento dell’evento costituisce per l’art. 56/4 del c.p. italiano una circostanza attenuante del tentativo ed esclude per l’art. 16/2 c.p. spagnolo la responsabilità per il delitto tentato: cosa che non avrebbe senso se tale impedimento costituisse un obbligo; 4) perché la suddetta teoria contrasta ancor prima con la disciplina degli obblighi di garanzia, che vengono meno in caso di impedimento impossibile dell’evento, mentre l’autore della condotta pericolosa risponde dell’evento anche in caso di impossibilità sopravvenuta di impedirlo (es.: per sopravvenuta paralisi); 5) perché rispetto alle azioni pericolose ancora in atto comporta, la suddetta tesi, la ricorrente confusione tra gli inconfondibili obblighi di garanzia e i c.d. obblighi di diligenza (cioè di inosservanza delle regole cautelari di condotta). Col rischio, non teorico, di convertire in reati omissivi (di non impedimento) i reati commissivi colposi (4), specie da parte della giu(4) La componente omissiva della colpa (non osservanza del c.d. obbligo di diligenza) non può trasformare in omissivi i reati commissivi, perché l’obbligo di garanzia e
— 350 — risprudenza, stante anche la convinzione che la causalità omissiva, in quanto ipotetica, sia più « attenuata » rispetto alla causalità attiva, richiedendo un minore numero di probabilità e accertamenti meno sicuri; 6) perché porta, detta teoria, a convertire il dolus subsequens all’azione pericolosa colposa nell’imputazione dolosa dell’evento, volutamente non impedito, in contrasto col principio che è rilevante solo il dolo concomitante e non il dolo susseguente all’azione causale. B) Dalle fonti dell’obbligo di garanzia resta, infine, esclusa anche l’assunzione spontanea unilaterale di compiti di tutela, al di fuori cioè da ogni preesistente obbligo ex lege o ex contracto; e che si vorrebbe fondare sulla negotiorum gestio, generatrice nel gestore dell’obbligo di condurre a termine la gestione iniziata senza il consenso del soggetto interessato, ma per l’utilità di questi. La presente teoria costituisce il tentativo delle concezioni formalistica e mista di recuperare alla fonte legislativa di « chiusura » sulla negotiorum gestio (costituita nel diritto italiano dall’art. 2028 c.c.) la serie eterogenea: a) inizialmente, dei casi di assunzione dei compiti di tutela in base a contratto nullo; b) poi dei casi, più proprii, di assunzione unilaterale dei suddetti compiti (es.: la persona vicina di casa che, in assenza e all’insaputa dei genitori, si prende cura del bambino; i membri dell’associazione volontaria di pronto soccorso che, avvertiti da terzi, soccorrono il ferito in stato di incoscienza; amico che, senza esserne stato richiesto dal proprietario e prolungandosi il soggiorno all’estero di questi, ne accudisce gli animali affamati; c) dei casi di assunzione di obblighi di tutela a seguito di atto illecito (es.: da parte dell’autore del sequestro verso il sequestrato bisognoso di certi farmaci). La teoria non appare accoglibile: 1) per la ragione che la norma di legge sulla negotiorum gestio non soddisfa il principio della riserva di legge; a) poiché tale istituto, essendo circoscritto per comune opinione ai l’obbligo di diligenza sono distinti e autonomi: nella fonte, destinatari, funzione, momento di insorgenza. Mentre l’o. di g. attiene alla causalità (omissiva), l’o. di d. attiene alla colpa. La sua inosservanza è, pertanto, requisito sia del reato commissivo colposo, sia del reato omissivo improprio colposo. Ed è oggetto di accertamento distinto ed ulteriore rispetto al prioritario requisito delle causalità, attiva ed omissiva, e perciò, dell’inosservanza dell’o. di g. Pertanto, tre sono, innanzitutto, gli accertandi requisiti, in ordine logico e cronologico, del reato omissivo improprio colposo: a) l’impedibilità dell’evento con l’azione idonea, secondo la migliore scienza ed esperienza (es.: di quella malattia con quella terapia); b) l’obbligo giuridico di impedirlo con l’idonea azione impeditiva (es.: da parte del medico curante); c) l’omessa azione impeditiva doverosa per l’inosservanza dell’obbligo di diligenza, cioè delle regole cautelari (es.: omissione dell’idonea terapia per la non sottoposizione del paziente a previ accertamenti diagnostici o per scorretta esecuzione del protocollo terapeutico). La distinzione è comprovata dal fatto che vi può essere omesso impedimento senza violazione dell’o. di d. (es.: omette di impedire il disastro ferroviario, ma non colposamente, il casellante che non abbassa le sbarre perché un sabotatore ha spostato indietro gli orologi a disposizione).
— 351 — beni patrimoniali, non trova applicazione ai fini della tutela dei beni personali, scopo primario se non esclusivo della suddetta teoria; b) poiché rispetto ai beni della vita e dell’incolumità individuale l’istituto della negotiorum gestio non è, comunque, applicabile per la incompatibilità del requisito della facoltatività dell’iniziale assunzione della gestione di negozio con l’obbligatorietà del soccorso, imposto dall’art. 593 c.p. italiano e dall’art. 195 c.p. spagnolo, e, quindi, per la prevalenza del soccorso obbligatorio rispetto all’intervento gestorio inizialmente facoltativo; c) perché l’esclusione dall’obbligo di garanzia, ex negotiorum gestio, dei beni personali primari suddetti non può non valere, a fortiori, per gli altri beni personali e, ancor più, per i beni patrimoniali; 2) perché l’obbligo, derivante dalla negotiorum gestio, è anche rispetto ai connaturali beni patrimoniali un mero obbligo di attivarsi ai soli effetti civili, in quanto esso manca anche dei requisiti della preesistenza del rapporto giuridico tra soggetto e bene e dei poteri-doveri impeditivi rispetto alla situazione di pericolo, nonché dei poteri di vigilanza e di prevenzione di tale situazione, limitandosi i poteri del gestore ai soli poteri di intervento eliminativo della stessa; 3) perché il ricorso alla negotiorum gestio è inutile, non creandosi senza il ricorso ad essa alcun vuoto di tutela. Così in caso di contratto nullo, tali vuoti o non si creano perché l’obbligo di garanzia resta a carico del garante originario. O perché essi sono colmabili pur sempre sulla base di altre fonti formali, in quanto al contratto invalido talora sopperiscono le norme di legge, che pongono l’obbligo di garanzia a chi ha la mera custodia materiale delle cose (es.: degli animali pericolosi), o che prevedono la conversione del contratto nullo in altro contratto valido (es.: della vendita della cosa pericolosa, nulla per mancanza dell’indicazione del prezzo, in comodato gratuito). O perché altrimenti chi ha preso in carico il bene ha pur sempre l’obbligo di soccorso ex artt. 593 c.p. italiano e 195 c.p. spagnolo. Oppure non si ha vuoto di tutela perché si versa nella causalità attiva, poiché l’evento è riconducibile a una condotta attiva del soggetto, che impedisce l’autotutela da parte del titolare del bene (es.: sequestro, che impedisce al sequestrato di assumere i farmaci salvavita o di sottoporsi ai controlli medici periodici indispensabili) o la protezione del bene da parte del garante originario (es.: nel caso del minore sottratto ai genitori). 8. Le specie degli obblighi di garanzia: di protezione, di controllo, di impedimento di reati. — Sulla base dei requisiti sopraindicati e, in particolare, del principio di solidarietà possono essere considerati obblighi di garanzia tre tipi di obblighi di agire: A) gli obblighi di protezione di determinati beni contro tutte le fonti di pericolo, i quali presuppongono un particolare vincolo giuridico tra garante e titolare del bene, in virtù del quale viene a lui affidato il compito di tutela.
— 352 — Sono tali in particolare: a) gli obblighi dei genitori e dei tutori di proteggere i beni personali e patrimoniali dei figli minori e dei pupilli; b) gli obblighi dei coniugi della protezione reciproca della vita e incolumità; c) gli obblighi del personale sanitario della salvaguardia della salute dei pazienti; d) gli obblighi dei dipendenti dell’amministrazione carceraria, tenuti a proteggere la vita e l’incolumità dei detenuti; B) gli obblighi di controllo, di determinate fonti di pericolo per proteggere tutti i beni ad esse esposti, i quali presuppongono che tali fonti cadano sotto i poteri giuridici di signoria di altro soggetto, onde i soggetti minacciati non potrebbero autoproteggersi se non con un’ingerenza nella sfera giuridica altrui. Tali sono gli obblighi dei proprietari (o anche dei possessori, detentori, custodi) di cose (costruzioni, edifici) o di animali pericolosi, di adottare tutte le misure impeditive di danni a persone o a cose altrui (così: artt. 2051, 2052, 2053 c.c. italiano); C) gli obblighi di impedimento dei reati di soggetti sottoposti ai poteri giuridici impeditivi del garante, che risponde di concorso nel reato non impedito. Tali sono: a) gli obblighi dei titolari di un potere di educazione, istruzione, cura, custodia (genitori, tutori, insegnanti, infermieri), di impedire i fatti dannosi dei figli minori, dei pupilli, degli scolari, degli infermi di mente (così: artt. 2047, 2048 c.c. italiano); b) gli obblighi degli amministratori di società di impedire i reati societari (così ex art. 2392 c.c. italiano). FERRANDO MANTOVANI
ERMENEUTICA E APPLICAZIONE GIUDIZIALE DEL DIRITTO PENALE (*)
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Rilievi generali sulla dimensione ‘‘ermeneutica’’ dell’interpretazione delle leggi penali. — 3. Esemplificazione di settori in cui la ‘‘precomprensione’’ ermeneutica giuoca, verosimilmente, un ruolo rilevante nell’applicazione giudiziale delle norme penali: a) questioni vecchie e nuove nell’ambito della criminalità mafiosa. — 4. Segue: b) nuove esigenze di tutela e delitto di false comunicazioni sociali. — 5. Segue: c) soglia minima di rilevanza della violenza sessuale e pregiudizi nell’accertamento probatorio. — 6. Rilievi (problematici) conclusivi.
1. La scelta del titolo della mia relazione ha alla base motivazioni che provo, sia pure in forma sintetica, a esplicitare. Cominciando proprio dal senso del titolo, è forse superfluo precisare che non intendo occuparmi dell’interpretazione in senso strettamente testuale. Il mio interesse è, piuttosto, rivolto all’interpretazione ‘‘operativa’’: cioè all’interpretazione concepita — per dirla con Vittorio Frosini — come ‘‘attività di conversione dal linguaggio’’ normativo ‘‘alla azione pratica, come integrazione della conoscenza con la decisione (o volontà) del giudicare, come inserimento dell’interprete nel contesto della prassi sociale, che è ben più vasto di quello linguistico coincidente con l’insieme normativo della legislazione’’ (1). E, nel fare riferimento all’interpretazione in questo significato operativo, prescelgo come campo d’osservazione il terreno più tipico, che è evidentemente quello dell’applicazione giudiziale delle leggi penali ai casi concreti. Nello stesso tempo, chiarisco che il titolo impiega il termine ‘‘ermeneutica’’ nel senso, appunto, di interpretazione giuridica orientata alla prassi — senza presupporre la pregiudiziale adesione a precisi orientamenti ermeneutici di ascendenza filosofica. Con una aggiunta, tuttavia. Cioè il mio approccio, pur libero da vincoli filosofici stretti, risente indubbiamente dei fondamentali apporti che l’ermeneutica filosofica contemporanea ha fornito alla dottrina dell’inter(*) Il testo riproduce una relazione tenuta al Convegno su ‘‘L’interpretazione della legge alle soglie del XXI secolo’’, organizzato dall’Istituto di diritto privato della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Perugia nei giorni 16-18 dicembre 1999. (1) FROSINI, Prolegomeni all’interpretazione giuridica, in Nomos, 1988, 43.
— 354 — pretazione giuridica. In questo senso, condivido anch’io alcune essenziali premesse di fondo così sintetizzabili: — l’interpretazione e applicazione giudiziale del diritto è attività in qualche modo e in qualche misura ‘‘creativa’’, e ciò vale anche nell’ambito del diritto penale; — l’interpretazione si inscrive sempre in un ‘‘contesto’’ che la condiziona ed è influenzata da fattori extratestuali non direttamente desumibili dalle fattispecie legali in se stesse considerate (2). Non è mio obiettivo sviluppare punti di vista originali nell’ambito dell’ermeneutica penalistica (non ne avrei, oltretutto, le capacità). Il mio proposito è ben più modesto: intendo cioè svolgere alcune riflessioni sulla prassi applicativa nell’ambito del diritto penale, nel convincimento che proprio ragionando sulla prassi si chiariscano le ragioni del possibile divario tra (per dir così) la dimensione astratta e la dimensione effettuale di quei principi-tabù del diritto penale che, com’è noto, vantano una matrice illuministico-liberale (principio di legalità come riserva di legge, principio di tassatività o sufficiente determinatezza, divieto di analogia). Il fenomeno di una possibile divaricazione tra interpretazione fedele al testo, e interpretazione extratestuale di tipo lato sensu teleologico, è andato peraltro accentuandosi nel corso degli ultimi anni (questa tesi, lungi dal poter essere puntualmente dimostrata, costituisce rispetto all’ordinamento italiano almeno un’ipotesi di lavoro che guadagna a livello dottrinale crescenti consensi). E ciò per un insieme convergente di cause, non analizzabili in questa sede, che fanno apparire plausibile (o comunque meritevole di verifica) la seguente diagnosi: si assisterebbe ormai a una crisi profonda del monopolio e della funzione orientativa delle leggi penali scritte e, di conseguenza, a un tendenziale predominio del diritto penale giurisprudenziale e del processo (3). Da qui, un peso politico-istituzionale in crescita della magistratura rispetto a quello, tradizionalmente prevalente, del legislatore: con tutte le immaginabili ricadute in termini di divisione dei poteri istituzionali e di valenza attuale del principio di legalità in materia penale (4). (2) Per una ottima sintesi degli apporti che l’ermeneutica filosofica contemporanea può fornire all’attività interpretativo-applicativa del giurista e del giudice cfr., di recente, VIOLA e ZACCARIA, Diritto e interpretazione. Lineamenti di una teoria ermeneutica del diritto, Roma-Bari, 1999, 105 ss. (con specifico riferimento al diritto penale v. 300-307). (3) Con riferimento al peso crescente del diritto penale giurisprudenziale sia consentito rinviare a FIANDACA, Diritto penale giurisprudenziale e spunti di diritto comparato, in AA.VV., Sistema penale in transizione e ruolo del diritto giurisprudenziale, a cura di G. Fiandaca, Padova, 1997, 1 ss.; riguardo al ruolo tendenzialmente dominante del processo si vedano i lucidi rilievi di NOBILI, Nuovi modelli e connessioni: processo - teoria dello stato epistemologia, in Ind. pen., 1999, 27 ss. (4) Sul punto, più diffusamente, FIANDACA, La legalità penale negli equilibri del sistema politico-costituzionale, in corso di pubblicazione in Foro it.
— 355 — Ritengo che in un simile contesto penalistico, tanto più se corrispondente alla realtà, anche il penalista teorico sempre meno possa sottrarsi all’impegno di analizzare e comprendere il diritto penale ‘‘in azione’’: l’analisi scientifica delle prassi giurisprudenziali dovrebbe oggi trovare più spazio ed essere adeguatamente sviluppata accanto alla più tradizionale interpretazione testuale delle norme e alla elaborazione dogmatica degli istituti. D’altra parte, la centralità del momento giudiziale nell’esperienza penalistica contemporanea è inequivocabilmente confermata, nel nostro paese, da una circostanza a prima vista stupefacente. Alludo al fatto, peraltro noto, che il tema dell’interpretazione-applicazione della legge penale è recentemente riuscito a imporsi addirittura nello scenario delle tentate riforme costituzionali, sino al punto di indurre la Commissione Bicamerale a progettare una apposita disposizione costituzionale, volta nientemeno a introdurre l’obbligo di un’interpretazione ‘‘restrittiva’’ delle norme penali (l’art. 129, comma 3, del testo licenziato il 4 novembre 1997 stabiliva: ‘‘Le norme penali non possono essere interpretate in modo analogico o estensivo’’) (5). Si è in verità trattato dell’inopinato, ma non per questo contingentemente inspiegabile, riaffiorare del sogno vetero-illuministico di legar le mani al giudice penale, riducendolo a passivo esecutore della volontà legislativa: un sogno verosimilmente sempre destinato a non avverarsi, per l’ovvia e stringente ragione che l’obbligo di interpretare restrittivamente la legge penale — ove per avventura introdotto nell’ordinamento — non potrebbe non esser fatto oggetto, esso stesso, di interpretazione. Ancorché discutibile sul piano teorico e di difficile attuabilità pratica, questo tentativo dei Bicameralisti la dice lunga, in ogni caso, sul fatto che la discrezionalità interpretativa in campo penalistico continua a costituire una questione aperta produttiva di conflitti e tensioni politico-istituzionali (anche a prescindere — ho ragione di ritenere — dal clima contingentemente esasperato che caratterizza la persistente contesa nostrana tra politica e giustizia). Nell’analisi seguente cercherò di fornire alcune esemplificazioni, a mio giudizio significative, di come i fattori di contesto (in senso lato) siano suscettibili di condizionare l’applicazione delle norme penali ai casi concreti. Ma, prima di procedere a queste esemplificazioni, mi sia consentito premettere qualche osservazione ancora a carattere generale. (5) Cfr. in proposito FIANDACA, La giustizia penale in bicamerale, in Foro it., 1997, V, 161 ss.; ID., Intervento al seminario su ‘‘Giustizia penale e riforma costituzionale nel testo approvato dalla Commissione bicamerale’’, in Critica del diritto, 1998, 140 ss.; DI GIOVINE, L’evoluzione dell’art. 25 Cost. nel pensiero del nuovo costituente, in Cass. pen., 1998, 356 ss.; PULITANÒ, Quali riforme in materia penale dopo la bicamerale?, in Foro it., 1998, V, 288 ss.; PALAZZO, Le riforme costituzionali proposte dalla Commissione bicamerale (diritto penale sostanziale), in Dir. pen. e proc., 1998, 33 ss.; DONINI, L’art. 129 del progetto di revisione costituzionale approvato il 4 novembre 1997, in Critica del diritto, 1998, 95 ss.
— 356 — 2. Sintetizzando quanto esposto nel capitolo che il manuale Fiandaca-Musco dedica al tema dell’interpretazione delle leggi penali (6), mi preme ribadire i seguenti punti. — Anche nell’ambito del diritto penale hanno fatto ormai il loro tempo sia il vecchio ideale illuministico del giudice ‘‘bocca della legge’’, sia la concezione vetero-positivistica che pretendeva di basare l’applicazione della legge penale su di un sapere puramente sillogistico-deduttivo ancorato alla sola logica rigorosa dei giuristi. — L’interpretazione e l’applicazione delle leggi penali implicano un passaggio dall’astratto al concreto, cioè un procedimento di concretizzazione che obbedisce a criteri valutativi di varia natura, non riducibili al modello classico del sillogismo giudiziario. In questo senso si può dire, ad esempio con Karl Engisch (7), che il procedimento c.d. di sussunzione del fatto concreto nella norma penale generale e astratta trascorre dal caso alla norma, e da questa a quello; onde, la scelta ermeneutica finale rappresenta il risultato di una sorta di mediazione tra norma astratta e caso concreto. — La inevitabile interazione tra fattispecie astratta e fattispecie concreta, e il connesso profilarsi di un processo circolare o a spirale tra norma e caso, accentuano la discrezionalità valutativa dell’interprete e l’incidenza dei fattori extratestuali o di contesto. In questo senso giuocano un ruolo le vedute personali dell’interprete, i suoi pregiudizi, la sua concezione politico-ideologica, la preoccupazione per le conseguenze che la decisione può provocare sulla realtà esterna o sullo stesso reo, le aspettative dell’ambiente o di alcuni gruppi sociali, l’andamento contingente dei rapporti tra i diversi soggetti istituzionali, ecc. — tutti quei fattori, insomma, riconducibili alla categoria-base della c.d. precomprensione di origine gadameriana e, ancor prima, heideggeriana (8). — La prevalente tendenza della giurisprudenza penale a interpretare le fattispecie incriminatrici secondo un metodo teleologico che conduce non di rado a risultati ‘‘estensivi’’ della punibilità, drammatizza il problema del rapporto tra interpretazione estensiva e divieto di analogia in materia penale. Invero, questo problema si complica ulteriormente se si accoglie — così come avviene nel manuale Fiandaca-Musco — un’impostazione teo(6) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte gen., Milano, 1995, 108 ss. (7) ENGISCH, Logische Studien zur Gesetzanwendung, 1963, 15 ss. (8) HEIDEGGER, Sein und Zeit, 9a ed., Tübingen, 1960, 312 ss.; GADAMER, Verità e metodo, trad. it. a cura di G. Vattimo, Milano, 1972, 312 ss. Sui possibili diversi significati del concetto di ‘‘precomprensione’’ nell’ambito dell’interpretazione giuridica cfr. ZACCARIA, Ermeneutica e giurisprudenza. Saggio sulla metodologia di Josef Esser, Milano, 1984, 156 ss. Con riferimento specifico al diritto penale v. HASSEMER, Tatbestand und Typus, Köln, 1967, 81 s., 101, 120, 153 ss.
— 357 — rica, secondo la quale lo stesso procedimento interpretativo ha natura sostanzialmente analogica, per cui tra interpretazione estensiva ed analogia può esservi una differenza non qualitativa, ma di grado. In quest’ottica, infatti, il divieto di analogia non costituisce più un sicuro baluardo, idoneo a fissare dall’esterno i confini delle interpretazioni rispettivamente ammissibili e inammissibili: esso, come osserva Winfried Hassemer (9), si riduce in realtà a semplice ‘‘argomento’’. Un argomento, a sua volta, la cui forza finisce con l’essere inevitabilmente affidata alla capacità di autocontenimento interpretativo dei giudici e dunque, in ultima analisi, al grado di diffusione di una cultura istituzionale favorevole all’instaurazione di rapporti equilibrati tra sistema politico e sottosistema giudiziario. Ribaditi i punti che precedono, aggiungerei, come rilievo in certo senso di sintesi, che la stessa fondamentale categoria penalistica del ‘‘fatto tipico’’ o Tatbestand possiede una intrinseca ‘‘dimensione ermeneutica’’. A condizione, beninteso, di utilizzare tale categoria sistematica non in una accezione logico-classificatoria astratta, bensì in una accezione che tenga appunto conto dell’attività di concretizzazione interpretativa nel rapporto di interazione tra fattispecie astratta e fatto concreto: in questo senso, il singolo tipo legale, cioè ogni singola figura criminosa si plasma, concretizza e specifica secondo lineamenti che sono anche influenzati dalla reale fenomenologia criminosa che viene di volta in volta in questione. Al fatto tipico in senso puramente legale si affianca, così, un fatto tipico in senso ermeneutico che costituisce il riflesso o risultato: per un verso, del convergere di tutti i criteri, compresi quelli di parte generale, necessari per emettere un giudizio di colpevolezza nel singolo caso; e, per altro verso, del condizionamento reciproco tra modello legale astratto e specifica realtà criminosa evocata (10). Fatte queste premesse di ordine generale, passo adesso ad alcune esemplificazioni emblematiche, a mio avviso, del ruolo esercitato dalla ‘‘precomprensione’’ ermeneutica (latamente intesa) nel processo di concretizzazione giudiziale delle norme penali: le esemplificazioni avranno ad oggetto alcuni orientamenti applicativi in tema di criminalità mafiosa, criminalità economica e reati sessuali. 3. Il settore della criminalità mafiosa è emblematico, ai fini della mia analisi, perchè i processi di mafia esemplificano — si può dire da (9) HASSEMER, Diritto giusto attraverso un linguaggio corretto? Sul divieto di analogia nel diritto penale, in Ars interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica, 1997, 192. (10) Per una ricostruzione ermeneutica del fatto tipico, ancorata a premesse filosofiche che risalgono a Georg Gadamer, cfr. HASSEMER, Tatbestand und Typus, cit., passim. Nella dottrina penalistica italiana si vedano i lucidi rilievi di DONINI, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991, 111 ss. Tra i cultori di filosofia del diritto cfr. ZACCARIA,Ermeneutica e giurisprudenza, cit., 31 ss.
— 358 — sempre — un terreno conflittuale o di scontro: nel quale cioè la stessa applicazione giudiziale delle norme incriminatrici finisce, in maniera più evidente che in altri casi, col soggiacere a forti condizionamenti di ordine politico-ideologico e socio-culturale. Da questo punto di vista, la materia fornisce, all’odierno studioso interessato ad approfondire le dinamiche della prassi applicativa in campo penale, non pochi spunti di riflessione e di indagine. Si pensi al problema, controverso e assai dibattuto fino a prima dell’introduzione nel 1982 della nuova fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p., se l’associazione mafiosa potesse o no essere sussunta sotto il paradigma criminoso della tradizionale e generale associazione per delinquere. Le incertezze e resistenze rinvenibili in proposito nella prassi giurisprudenziale derivavano, più che da una inadeguatezza repressiva della fattispecie associativa in se stessa considerata, dalla pregiudiziale concezione sociologica del fenomeno mafioso che tradizionalmente era riuscita ad imporsi nell’ambiente socio-culturale e che, come tale, influenzava anche i giudici: cioè una concezione della mafia come entità non necessariamente criminale e non necessariamente, quindi, finalizzata allo scopo di realizzare programmi criminosi (11). È interessante tuttavia notare come fattori extranormativi, riconducibili alla categoria della ‘‘precomprensione’’ in senso socio-criminologico, abbiano continuato a incidere nella prassi giudiziale anche dopo l’introduzione dell’art. 416-bis c.p. Esplicitamente riconosciuta nel nostro ordinamento la valenza criminosa della mafia, i fattori predetti sembrano cioè esercitare un peso rispetto non già alla astratta qualificazione formale della mafia in termini di illecito penale, bensì alla concreta individuazione delle condotte punibili e, in maniera forse ancora più evidente, al momento di fissare la linea di confine tra la partecipazione c.d. interna e il concorso c.d. esterno nell’associazione mafiosa, Ciò, d’altra parte, non è sicuro sintomo di una deprecabile tendenza sociologizzante di pubblici ministeri e giudici. La necessità di ricostruire il retroterra ambientale e il contesto socio-culturale e socio-economico, come premessa irrinunciabile del procedimento ermeneutico, deriva in realtà anche dal fatto che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 416-bis c.p. è stata legislativamente tipizzata mediante elementi — appunto — a forte connotazione sociologico-ambientale: è dunque la stessa tecnica di redazione legislativa della fattispecie a indurre il giudice ad utilizzare anche saperi e parametri extragiuridici per vagliare la corrispondenza tra fatto concreto e modello delittuoso. Provo a evidenziare alcuni profili tematici che, a mio giudizio, esemplificano significativi punti di emersione del possibile ruolo ermeneutico connesso a pregiudiziali socio-criminologiche. (11) In proposito cfr. INGROIA, L’associazione di tipo mafioso, Milano, 1993, 46 ss.
— 359 — 3.1. Cominciamo dal problema interpretativo-ricostruttivo concernente il concetto-base di ‘‘partecipazione’’, o ‘‘far parte’’ di un’associazione mafiosa, condotta punita in quanto tale dall’art. 416-bis comma 2, c.p.. Dal momento che il legislatore non precisa in che cosa debba consistere il ‘‘far parte’’ di un’associazione ai fini della punibilità, il rinvenimento del significato di questa condotta rientra nella competenza degli interpreti. Schematizzando, si profila una possibile alternativa, che troviamo in realtà rispecchiata nella giurisprudenza anche se in modo non sempre chiaro e univoco (12), e che indicherei nel modo seguente: a) tesi dell’autonomia interpretativa: il giudice deve determinare il concetto di partecipazione all’associazione mafiosa sulla base di criteri e di regole da lui autonomamente individuati con l’ausilio dei consueti metodi giuridici di interpretazione; b) tesi del vincolo socio-criminologico: il giudice, per stabilire se un certo soggetto faccia parte di un’associazione mafiosa, è tenuto a fare riferimento ai criteri di valutazione ‘‘interni’’ alle stesse organizzazioni criminali (così, ad esempio, un soggetto sarà da considerare associato alla mafia di ‘‘Cosa nostra’’ soltanto nel caso di una previa sua sottoposizione al tipico rito di iniziazione e soprattutto in seguito a formale accoglimento da parte degli altri associati, ecc.). L’adesione all’uno o all’altro punto di vista non è, in realtà, privo di riflessi sul piano applicativo. Per cui, nell’optare per la prima o la seconda soluzione, è presumibile che l’interprete si lasci guidare (anche) da una precomprensione concepita come anticipata valutazione del risultato decisorio cui conduce la scelta di un determinato metodo interpretativo. Invero, l’accoglimento di quella che ho sopra definito tesi della pregiudiziale socio-criminologica può contribuire, innanzitutto, a rendere più agevole la soluzione del problema dell’inquadramento penale delle condotte di sostegno o fiancheggiamento da parte di soggetti appartenenti alle classi dirigenti (politici, imprenditori, professionisti ecc.), che si situano nella zona grigia della c.d. contiguità compiacente nei confronti delle organizzazioni mafiose. In questo senso, sarebbero da qualificare partecipi ‘‘interni’’, cioè facenti parte integrante delle organizzazioni mafiose, soltanto i soggetti formalmente affiliati alle cosche; mentre sarebbero da considerare concorrenti ‘‘esterni’’, come tali punibili in base al combinato disposto dell’art. 416-bis e degli artt. 110 segg. c.p., quanti, (12) Per un quadro, sia pure sintetico, degli orientamenti giurisprudenziali in tema di partecipazione, anche con riferimento al ruolo non sempre univoco attribuito agli atti di adesione formale o ai riti di iniziazione cfr. FORTI, sub art. 416-bis, in CRESPI-STELLA-ZUCa CALÀ,Commentario breve al codice penale, 3 ed., Padova, 1999, 1062 ss.; e BARAZZETTA, sub art. 416-bis, in DOLCINI-MARINUCCI, Codice penale commentato, parte spec., Milano, 1999, 2351 ss.
— 360 — pur non essendo formalmente affiliati, realizzano comunque condotte di sostegno in varia guisa utili alle organizzazioni stesse. A ben vedere, un simile orientamento applicativo, oltre a semplificare la distinzione tecnica tra partecipazione e concorso, può però lasciarsi preferire per ragioni ulteriori che trascendono il piano dogmatico-interpretativo inteso in senso stretto. Da un lato, per una maggiore aderenza — appunto — della soluzione giuridica al dato criminologico e — aggiungerei — antropologico. Emblematici, in proposito, i seguenti rilievi di Antonio Ingroia, uno dei magistrati più esperti della Direzione distrettuale antimafia di Palermo: ‘‘Ed ancor meglio percepibile è la distinzione, anche in termini concreti, fra partecipe interno e concorrente esterno in relazione a Cosa nostra, e cioè ad un’associazione spiccatamente gerarchica e dotata di autonome regole formali. E ciò in quanto, al di là della rilevanza della prova della formale affiliazione all’associazione, non è certamente irrilevante che il concorrente esterno (a differenza del partecipe) non subisce alcuna soggezione gerarchica e non aderisce allo statuto formale dell’organizzazione. Per esemplificare, mentre il partecipe, una volta entrato nell’organizzazione, è ‘espropriato’ della sua identità, è dell’associazione, ne persegue i fini e vi resta fino alla morte o ad altri eventi traumatici (come l’estromissione da parte dell’organizzazione medesima), il concorrente entra in rapporto con l’associazione in ragione del suo ruolo sociale o economico, o delle pubbliche funzioni rivestite, e resta ‘a disposizione’ dell’organizzazione finché è in grado di apportare il proprio contributo mediante una ‘strumentalizzazione’ della propria funzione o del proprio ruolo in favore del sodalizio mafioso, nel contempo non condividendone necessariamente le finalità ma — a sua volta — ‘strumentalizzando’ il suo rapporto con l’associazione mafiosa per il perseguimento di proprie finalità. Si tratta dunque di comportamenti speculari ma diversi: il c.d. uomo d’onore mette a disposizione di Cosa nostra tutta la propria vita; il concorrente esterno mette invece a disposizione il proprio ‘personaggio pubblico’, le sue funzioni, il suo ruolo sociale’’ (13). (13) Cfr. INGROIA, Associazione per delinquere e criminalità organizzata. L’esperienza italiana (relazione presentata al 1o workshop del ‘‘Progetto comune europeo di contrasto alla criminalità organizzata - Programma Falcone’’, Palermo 5-6 febbraio 1999), in corso di stampa. A ben vedere, rimane da chiedersi — problematicamente — fino a che punto una spiccata valorizzazione della dimensione criminologica e (aggiungerei) ‘‘antropologica’’ integri il tradizionale metodo dogmatico-interpretativo, arricchendolo di concretezza empirica; ovvero finisca, più o meno surrettiziamente, col soppiantarlo a favore di un approccio applicativo che dissolve la dogmatica nella sociologia criminale. In realtà, a voler essere conseguenti fino in fondo, si dovrebbe pervenire al risultato applicativo di differenziare il concetto di partecipazione punibile in più sotto-fattispecie a contenuto criminologico, in funzione della eventuale diversità delle regole ordinamentali interne ai diversi tipi di organizzazione mafiosa
— 361 — Dall’altro lato, l’impostazione in parola riflette verosimilmente la preoccupazione, tutt’altro che secondaria nei processi di mafia, di rendere compatibile la qualificazione giuridica con un senso comune diffuso (questa preoccupazione, ancorché non esplicitata nella motivazione delle sentenze, mi risulta essere presente anche per ragioni di frequentazione personale di magistrati antimafia): in altri termini, definire ‘‘concorrenti esterni’’, e non mafiosi a pieno titolo, i ‘‘colletti bianchi’’ che si limitano a fiancheggiare dall’esterno la mafia, si prospetta come soluzione giudiziaria più accettabile socialmente anche tenuto conto degli stereotipi socio-culturali a tutt’oggi dominanti. Preoccupazioni simili sono forse però destinate in futuro a perdere peso, se è vero che la più recente evoluzione della giurisprudenza, specie di legittimità, sembra orientarsi nel senso di emancipare la condotta di partecipazione dal previo riferimento alle procedure formali di affiliazione: conterebbe non tanto l’inserimento formale all’interno dell’associazione, quanto l’inserimento organico in essa, comunque avvenuto e comunque provato (14). 3.1.1. È opportuno a questo punto mettere in evidenza un ulteriore aspetto, che si aggiunge a quanto finora osservato: la determinazione del concetto penalistico di partecipazione è suscettibile di essere influenzato, oltre che da pregiudiziali di ordine socio-criminologico, dal materiale probatorio di volta in volta disponibile circa i modi in cui l’imputato ha intrattenuto rapporti con l’organizzazione criminale. Sotto questo profilo sembra plausibile ipotizzare che, a seconda che le fonti di prova (consistenti per lo più in dichiarazioni di collaboratori di giustizia) forniscano informazioni sull’avvenuta affiliazione formale di un soggetto, oppure sulla realizzazione da parte di questi di concrete condotte espressive del ruolo di associato, ovvero ancora sulla prestazione di contributi utili all’associazione, la ricostruzione giudiziale della condotta di partecipe venga contenutisticamente incentrata ora sull’affiliazione formale, ora sull’esplicazione di un ruolo concreto, ora sulla efficacia causale del contributo in termini di conservazione o rafforzamento dell’ente associativo. Da questo punto di vista, si assiste a quella tendenza alla ‘‘processualizzazione’’ delle categorie sostanziali, nel senso di interazione tra logica probatoria e definizione concettuale dei requisiti del fatto punibile, che è andato emergendo come fenomeno tipico di alcuni tra i settori più in movimento (Cosa nostra siciliana, Stidda, ’Ndrangheta, Sacra corona unita, Camorra ecc.): ma ciò sarebbe davvero ammissibile? (14) Cfr. Cass. sez. un. 5 ottobre 1994, Demitry, in Cass. pen., 1995, 858 con nota di IACOVIELLO, Il concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazione per delinquere, e in Foro it., 1995, II, 423 con nota di INSOLERA, Il concorso esterno nei delitti associativi: la ragione di stato e gli inganni della dogmatica. Più di recente, v. Cass. 26 maggio 1999, Mammoliti, in Foro it., 2000, II, 90 con osservazioni di VISCONTI.
— 362 — del diritto penale, come ad esempio anche il diritto penale dell’economia (15). 3.2. Un altro profilo problematico che risente, in maniera ancora più evidente, dell’influsso di pregiudiziali culturali e sociologiche, concerne la questione della punibilità delle ‘‘donne di mafia’’ a titolo di partecipazione o di concorso esterno nel reato associativo. Una giurisprudenza tradizionalmente dominante ha in realtà escluso la punibilità delle donne facendo leva, in sede motivazionale, sulla accettazione di un paradigma sociologico di matrice ambientale: un paradigma, assimilabile a una regola di esperienza, che tendeva cioè a concepire la donna come un essere totalmente succube e subordinato all’interno della struttura criminale, a tal punto da farla apparire priva di qualsiasi autonomia morale e di qualsiasi capacità di autodeterminazione; da qui, l’asserita incompatibilità tra il ruolo passivo rivestito dalla donna e la possibilità di attribuirle ruoli attivi rilevanti ai fini di un’ascrizione di responsabilità penale (16). L’accettazione acritica, da parte della giurisprudenza, di questo ‘‘stereotipo’’ della donna succube ha dunque funto da fattore penalmente immunizzante: inducendo a non valutare o a sottovalutare, in sede di ricostruzione giudiziaria, il significato sintomatico di concrete circostanze di fatto idonee invece a dare risalto processuale a comportamenti attivi delle stesse donne (mogli, madri o compagne dei boss). Questa sorta di concezione organicistica della donna, frutto di un risalente pregiudizio nato dal perverso connubio tra la cultura sicilianista e la sub-cultura mafiosa, ha tuttavia ormai fatto il suo tempo. L’evoluzione della donna e dei suoi modelli di comportamento, registrabile tanto sul piano effettuale quanto su quello delle rappresentazioni simboliche, ha infatti finito con l’investire anche l’universo mafioso (al cui interno è andato crescendo il fenomeno di donne che assumono le redini dell’organizzazione in caso di detenzione o di altro impedimento dei capi maschi). Di ciò comincia invero a dar atto la giurisprudenza, come è comprovato da una recente sentenza della cassazione (17) che ha riveduto criticamente l’orientamento tradizionale affermando due principi significativi: da un lato, che il giudice non è affatto vincolato alla pretesa massima di esperienza ricavabile dall’asserito ‘‘dato sociologico e di costume’’ che vorrebbe la donna meramente passiva all’interno dell’organizzazione mafiosa, ma deve piuttosto sottoporre a ‘‘rigoroso vaglio le concrete e peculiari connotazioni della vicenda che forma (15) Cfr., per tutti, VOLK, Sistema penale e criminalità economica, trad. it., 207 ss. (16) Per un’analisi della giurisprudenza più tradizionale, volta anche a scandagliarne i presupposti socio-culturali cfr. PRINCIPATO e DINO, Mafia e donna. Le vestali del sacro e dell’onore, Palermo, 1997; FIANDACA, La discriminante sessuale tra paradigmi giudiziari e paradigmi culturali, in Segno, 1997, n. 183, 19 ss. (17) Cass. 26 maggio 1999, Mammoliti, cit.
— 363 — oggetto del processo’’; dall’altro, che è necessaria una valutazione giudiziale ‘‘correlata alla configurazione normativa dell’illecito, che prescinde dalle regole interne all’associazione criminale (per le quali la donna è, in quanto tale, incapace di affiliazione) e richiede soltanto lo stabile inserimento de facto nello schema organizzativo e un consapevole contributo, che ben può essere fornito anche da chi non sia regolarmente affiliato’’. Esistono ormai, dunque, le premesse socio-culturali perché un accresciuto rischio penale incomba d’ora in avanti anche sulle componenti femminili delle cosche mafiose. 3.3. Sempre sul versante della criminalità mafiosa, un altro punto assai problematico, intriso di aspetti che rimandano alla precomprensione storico-sociologica del giudice e ai suoi giudizi di valore, riguarda la complessa questione della rilevanza penale dei rapporti di cosiddetta contiguità tra mafia e imprenditori. In proposito, l’esigenza di inquadrare i comportamenti ‘‘contigui’’ in un contesto più ampio, e di interpretarli alla stregua di schemi e categorie ricavabili dall’esperienza storica e dalle conoscenze socio-criminologiche, è non solo comprensibile, ma — direi — inevitabile. La tendenza delle organizzazioni mafiose a presidiare il territorio e ad esercitare forme di controllo e pressione sulle attività economiche è infatti un fenomeno storicamente risalente, che può peraltro dar luogo a strategie reattive diverse da parte degli imprenditori, a seconda delle aree geografiche e delle tradizioni locali: onde, l’analisi dei contesti di riferimento diventa indispensabile anche per far luce sul significato del singolo episodio di contiguità. È opportuno premettere che, nell’ambito della più recente riflessione sociologica, i rapporti tra imprenditori e mafia vengono inquadrati ora in due, ora in tre modelli: alcuni sociologi cioè distinguono, drasticamente, tra imprenditori ‘‘subordinati’’ e imprenditori ‘‘collusi’’ (18); altri invece differenziano, in modo più articolato, gli imprenditori rispettivamente ‘‘acquiescenti’’, ‘‘resistenti’’ e ‘‘conniventi’’ (19). Come subito vedremo, questo tipo di modellistica assume rilievo anche ai fini dell’approccio giudiziario al fenomeno. L’importante — beninteso — è che il giudice sappia fare buon governo delle categorie sociologiche, evitando il rischio di desumerne in modo preconcetto e automatico conseguenze sul duplice piano della sussunzione penalistica e del connesso accertamento probatorio. Al rischio ora segnalato, in effetti, non sempre la prassi applicativa riesce a sottrarsi, come emerge da alcune vicende a mio giudizio sintomatiche di un uso del modello sociologico pregiudizialmente funzionale ai desiderati esiti decisori. (18) Cfr. SCIARRONE, Mafie vecchie, mafie nuove. Radicamento ed espansione, Roma, 1998, 65 ss. (19) Si vedano CENTORRINO-LA SPINA-SIGNORINO, Il nodo gordiano. Criminalità mafiosa e sviluppo nel Mezzogiorno, Roma-Bari, 1999, 46 ss., 92 ss.
— 364 — Ancorché non recentissima, continua a sembrarmi in questo senso meritevole di attenzione una sentenza-ordinanza istruttoria dei primissimi anni Novanta (20), relativa ai ‘‘cavalieri del lavoro’’ catanesi, divenuta celebre sia per l’eco suscitata nei media, sia soprattutto perché emblematica di una concezione di fondo del rapporto mafia-impresa che godeva di molto credito fino a un recente passato. In sintesi, il fatto addebitato agli imprenditori catanesi consisteva nell’avere instaurato rapporti con il più potente clan mafioso locale, in una prospettiva di scambio di reciproci favori tale da ingenerare quantomeno il dubbio che essi (imprenditori) rivestissero il ruolo più di collusi che di vittime. Ci sembra interessante proprio il modo di argomentare sviluppato nel vagliare la rilevanza penale della vicenda. Cioè il giudice istruttore, piuttosto che procedere a un esame rigoroso e dettagliato di tutte le circostanze di fatto emergenti dagli atti processuali, adotta una strategia ricostruttiva volta a selezionare alcuni dati a suo giudizio integranti ‘‘situazioni tipo’’ suscettibili di generalizzazione: per ripetere le parole della sentenza, ‘‘tipologie di emergenze processuali, sicuramente rappresentative di situazioni analoghe e tutte significative al fine di valutare compiutamente la fondatezza dell’ipotesi accusatoria’’. L’attenzione pregiudizialmente rivolta a queste ‘‘tipologie di emergenze’’ forniva la conferma del ricorrere, anche nel caso di specie, di quello che secondo il giudice costituisce il modello tipico di rapporto che nelle zone controllate da ‘‘Cosa nostra’’ si instaura tra mafia e imprese: cioè il modello del ‘‘contratto di protezione’’, che la maggioranza degli imprenditori accetterebbero — sempre secondo l’organo giudicante — in una sorta di stato di necessità ambientale, vale a dire perché costretti a trovare soluzioni ‘‘di non conflittualità’’ con le organizzazioni mafiose, pena il rischio di subire danni e di vedere posta in pericolo la prosecuzione dell’attivita imprenditoriale. L’adesione preconcetta allo schema del compromesso necessitato, come chiave di lettura generalizzante del rapporto mafia-imprenditori in Sicilia, finisce con l’avere un effetto penalmente immunizzante (l’imprenditore costretto dalla situazione ambientale a stipulare patti di scambio con le organizzazioni mafiose non può, per la contraddizione che non lo consente, rivestire nel contempo il ruolo di soggetto colpevolmente colluso). E questo schema interpretativo di presunta matrice storico-sociologica, a ben vedere, costituisce l’aprioristica idea-guida che presiede a due operazioni: da un lato, essa giustifica il giudizio di irrilevanza penale sul piano del diritto sostanziale; dall’altro, essa serve a preselezionare i dati (20) Trib. Catania, sentenza-ordinanza 28 marzo 1991, in Foro it., 1991, II, 472 con nota di FIANDACA, La contiguità mafiosa degli imprenditori tra rilevanza penale e stereotipo criminale.
— 365 — da considerare rilevanti sul piano della ricostruzione probatoria, con conseguente obliterazione o svalutazione delle circostanze di fatto antagonistiche rispetto all’ipotesi ricostruttiva inizialmente privilegiata. Ci troviamo, dunque, di fronte a un ragionamento giudiziario che esemplifica bene il circolo chiuso, peraltro in un continuum che vede strettamente interagire qualificazione penalistica e accertamento probatorio (21). Ma vi è di più. L’interpretazione penalmente immunizzante del giudice catanese, già spiegabile in base alla preconcetta adesione a un determinato schema interpretativo dei rapporti mafia-impresa, potrebbe altresì costituire il riflesso di un pregiudizio concorrente — pregiudizio ben analizzato dal criminologo americano Edwin H. Sutherland con particolare riferimento alla criminalità economica (22). Cioè, tra gli ‘‘effetti di situazione’’ che anche il giudice subisce quale soggetto appartenente ad una cultura socialmente condizionata (23), rientra la pregiudiziale tendenza a percepire determinati individui come ‘‘criminali’’ o come persone ‘‘perbene’’: è merito, appunto, di Sutherland aver posto l’accento sul fatto che la cultura socialmente dominante inclina a negare che lo ‘‘stereotipo del criminale’’ si attagli veramente all’imprenditore. Perché non sospettare che questo pregiudizio favorevole possa contribuire a spiegare la posizione assolutoria del giudice catanese (24)? Tipi di ragionamento giudiziario non dissimili da quello fin qui esaminato si riscontrano, invero, anche in qualche pronuncia più recente. Come ad esempio nel caso di una ordinanza del Tribunale di Napoli del (21) Sulla connessione strutturale tra ‘‘quaestio facti’’ e ‘‘quaestio juris’’ v., di recente, PASTORE, Giudizio, prova, ragion pratica. Un approccio ermeneutico, Milano, 1996, 114 ss. (22) SUTHERLAND, Il crimine dei colletti bianchi, trad. it. a cura di G. Forti, Milano, 1987. (23) Cfr. BOUDON, L’ideologia. Origine dei pregiudizi, trad. it., Torino, 1991, 111 ss. (24) Questa ipotesi esplicativa trae, del resto, spunto dalla lettura di un passo a mio avviso in questo senso sintomatico della motivazione, precisamente dove si afferma: ‘‘Orbene, se si dovesse prescindere dalle valutazioni giuridiche teoricamente aderenti al tema processuale, è facile rendersi conto di come il giudizio sulla ‘mafiosità’ di questo o quel soggetto rimarrebbe ancorato a meri giudizi di valore concernenti la congruità o la convenienza di certi comportamenti e sulla possibilità di evitarli o meno. In altre parole, è evidente che le valutazioni attinenti a scelte su modi e misure nel modulare il rapporto con gli esponenti mafiosi da parte del soggetto ‘protetto’ sfuggono ad una seria collocazione nei parametri di riferimento della fattispecie legale dei reati associativi’’. In termini più sintetici, l’assunto del giudice è dunque compendiabile così: siccome la ‘‘mafiosità’’ dei cavalieri de1 lavoro è ancorabile a giudizi di valore, ne deriva che i loro comportamenti non possono essere ‘‘seriamente’’ ricondotti al reato di associazione mafiosa. A ben guardare, l’equivoco annidato in un siffatto argomentare sta qui: il ricorso a giudizi di valore è in qualche misura inevitabile non solo (come il giudice riconosce) per individuare connotati criminosi nel non univoco atteggiamento degli imprenditori, ma anche (cosa che il giudice invece disconosce) per pervenire al risultato opposto, cioè di escludere che i loro comportamenti assumano rilevanza penale.
— 366 — 10 dicembre 1997 che, in sede di riesame, annullava la custodia cautelare disposta nei confronti di un imprenditore indiziato di collusioni con un clan camorristico, in un contesto di relazioni trilaterali tra ceto politicoamministrativo, imprese e camorra. A ben vedere, a fondamento di guesta pronuncia di annullamento rinveniamo, ancora una volta, l’accettazione preconcetta di un paradigma sociologico che tende ad interpretare i rapporti tra mafia e impresa in termini di contiguità non già compiacente, bensì ‘‘soggiacente’’: con la conseguenza di attribuire in ogni caso agli imprenditori il ruolo di vittime, in quanto soccombenti ad una ineluttabile necessità. Ma tale pronuncia è stata, a sua volta, annullata per alcuni vizi logici che la Cassazione ha ritenuto di riscontrare: la sentenza di annullamento dei giudici di legittimità merita di essere segnalata proprio per lo sforzo di fare chiarezza sui limiti di utilizzabilità in questo campo delle ‘‘massime di esperienza’’ di fonte socio-criminologica (25). Sforzo tanto più commendevole se si considera che le massime di giudizio tratte dall’esperienza finiscono, nei processi per contiguità mafiosa, con l’esercitare una doppia funzione: esse fungono, al tempo stesso, da criterio interpretativo della fattispecie associativa e dei sui rapporti con il concorso c.d. esterno, specie riguardo al requisito dell’assoggettamento alla forza di intimidazione, e da criterio di valutazione delle prove — una sorta di ‘‘cerniera’’ tra l’interpretazione della fattispecie incriminatrice astratta e la ricostruzione del fatto concreto candidato alla sussunzione (26). In sintesi, la tesi della Cassazione è così riassumibile con le stesse parole della motivazione: ‘‘(...) devono considerarsi erronee entrambe le posizioni estreme, sia quella che ammette l’uso indiscriminato di schemi sociologici, avulsi dalle singole e specifiche situazioni probatorie, sia quella che nega, puramente e semplicemente, qualsiasi rilevanza ai dati avvalorati da obiettive realtà ambientali analizzate dalle discipline socio-criminologiche; dovendo, invece, ritenersi che il giudice deve tenere conto, con la doverosa cautela, anche dei predetti dati quali utili strumenti di interpretazione dei risultati probatori, dopo averne vagliato, caso per caso, l’effettiva idoneità ad essere assunti ad attendibili massime di esperienza e, principalmente, dopo avere ricostruito, sulla base dei mezzi di prova a sua disposizione, gli specifici e concreti fatti che formano l’oggetto del processo’’. Una simile impostazione metodologica sembra, invero, teoricamente ineccepibile. Il vero problema continua a consistere, in realtà, nella veri(25) Cass. 5 gennaio 1999, Cabib, in Foro it., 1999, II, 631 con nota di VISCONTI, Imprenditori e camorra: l’‘‘inevitabile coartazione’’ come criterio discretivo tra complici e vittime? (26) Questo aspetto è ben lumeggiato da VISCONTI, Contiguità alla mafia e legge penale, monografia in preparazione.
— 367 — fica giudiziale dell’esistenza di massime di esperienza gnoseologicamente valide: in poche parole, massime ‘‘vere’’, e non false massime destinate a dare copertura a decisioni giustificate altrimenti (27). D’altra parte, se è vero che l’interpretazione giudiziale è condizionata dal singolo caso oggetto di giudizio, è inevitabile che il ricorso alle massime possegga pur sempre un ‘‘carattere valutativo e topico-euristico’’: esso infatti richiede, nell’ambito del procedimento giudiziario, ‘‘una serie di giudizi di esperienza, ossia di attività determinative, in cui rientrano aspetti logici, alogici, extra-logici. La razionalità di tale procedimento risiede, in buona misura, nella sua sottomissione alle condizioni pubbliche di accettabilità definite entro una comunità interpretativa, assiologica e linguistica’’ (28). 4. L’ influenza dei fattori extratestuali riconducibili alla categoria della precomprensione ermeneutica latamente concepita, può avere non soltanto (come in alcuni degli esempi addotti nel paragrafo precedente) l’effetto di restringere l’area della rilevanza penale, ma anche quello — contrario — di dilatarla. Anzi, proprio questo secondo fenomeno viene per lo più criticamente registrato da parte della dottrina maggioritaria, la quale suole rivolgere alla giurisprudenza il rimprovero di utilizzare il metodo d’interpretazione c.d. teleologico soprattutto allo scopo di cavare dalle norme incriminatrici il massimo di punibilità. Un recente e interessante esempio di approccio giurisprudenziale volto a estendere l’ambito della rilevanza penale, in nome di nuove esigenze di politica criminale, è rinvenibile in materia di criminalità economica e concerne, precisamente, il delitto di false comunicazioni sociali (c.d. falso in bilancio) (art. 2621 c.c.). Invero, a dare impulso a una interpretazione (per dir così) dinamico-evolutiva di questa fattispecie incriminatrice, per il passato peraltro scarsamente applicata, è un caso tipico dell’era di ‘‘Tangentopoli’’: l’occultamento nel bilancio consolidato di una holding di fondi riservati; ciò per far fronte, nell’interesse del gruppo di società o di suoi settori, alle richieste di tangenti provenienti dal sistema politico. Com’è noto, il problema relativo alla punibilità di un simile fatto sorge dalla circostanza che la fattispecie di false comunicazioni sociali, così come tipizzata dall’art. 2621 c.c., di per sé non fa alcun cenno né al gruppo di società né al bilancio consolidato, trattandosi di fenomeni non presi in considerazione al momento dell’emanazione del codice civile: il testo della predetta fattispecie si limita a incriminare il falso in bilancio relativo ad una singola società. Da qui, l’interrogativo se la pretesa di sussumere in essa false dichiarazioni relative al bilancio consolidato di un gruppo di società sia operazione interpretativa ammissibile, in quanto pur (27) Rimangono in proposito ancora validi i rilievi di NOBILI, Nuove polemiche sulle cosiddette ‘‘massime d’esperienza’’, in Riv. it. dir. proc. pen., 1969, 180 ss. (28) PASTORE, Giudizio, prova, ragion pratica, cit., 183 s.
— 368 — sempre mantenibile entro l’orizzonte testuale della norma incriminatrice, ovvero sfoci in un’ipotesi di analogia vietata in materia penale. Il caso è stato di recente affrontato dai giudici del tribunale di Torino, che hanno emesso una sentenza meritevole di attenzione, ai fini della mia analisi, per la tecnica argomentativa adottata nella motivazione: da cui traspare un insistente e ripetuto riferimento alle finalità intrinsecamente illecite, vale a dire agli scopi corruttivi cui erano destinati i fondi riservati nell’ambito del gruppo di società — riferimento che lascia, evidentemente, trasparire la preoccupazione dei giudici di utilizzare anche la fattispecie di falso in bilancio come strumento di lotta contro le forme di corruttela che allignano nel rapporto tra imprese e pubblica amministrazione (29). Ecco che questa preoccupazione politico-criminale funge verosimilmente da fattore pregiudiziale, da idea-guida che spinge l’organo giudicante ad interpretare dinamicamente la fattispecie incriminatrice in questione, in modo da renderla applicabile al caso di specie (30). Questo aggiornamento per via ermeneutica del reato di falso in bilancio avviene, fondamentalmente, in due modi. Per un verso, sviluppando un ragionamento circolare — in forma, appunto, di tipico circolo ermeneutico — che muove da una preventiva e astratta ricostruzione estensiva del bene protetto per giustificare una corrispondente dilatazione dei requisiti costitutivi del reato: premesso cioè che la norma sul falso in bilancio appresterebbe tutela a una pluralità di beni giuridici, sfocianti a loro volta nell’interesse generale al regolare funzionamento delle società commerciali nell’ambito dell’economia pubblica — ciò premesso, diventa più agevole inserire interpretativamente il bilancio consolidato fra le comunicazioni sociali di cui all’art. 2621 c.c., in quanto detto bilancio sarebbe in grado di dare informazioni rilevanti proprio in relazione alla molteplicità degli interessi coinvolti. Per altro verso, accogliendo un punto di vista elaborato dalla dottrina aziendalistica, il tribunale torinese aderisce alla seguente tesi: il gruppo di società opererebbe, in sede di redazione del bilancio consolidato, ‘‘come se’’ fosse un’unica società, come un tutt’uno. Se ne deduce che il bilancio consolidato è anch’esso una ‘‘comunicazione sociale’’ nel senso dell’art. 2621 c.c., cioè una comunicazione avente ad oggetto le condizioni economiche di una società, ossia del gruppo inteso, agli effetti della consolidazione, come unica società. (29)
Trib. Torino 9 aprile 1997, Romiti, in Foro it., 1998, II, 657 con nota di VI-
SCONTI, Amministratori di ‘‘holding’’ e falso in bilancio consolidato: note a margine della
sentenza Romiti. La sentenza di secondo grado, App. Torino 28 maggio 1999, si legge sempre in Foro it., 2000, II, 99 con ulteriore nota di VISCONTI, Ancora in tema di ‘‘falso in bilancio consolidato’’ e riserve occulte societarie (a proposito della sentenza d’appello sul caso Romiti). (30) Cfr., più diffusamente, VISCONTI, Amministratori di ‘‘holding’’, cit., 660 ss.
— 369 — In tal modo il gruppo di società e il bilancio consolidato, in virtù della supposta assimilabilità normativa (agli effetti della redazione del bilancio consolidato) del gruppo ad una unica grande società, vengono sussunti sotto una fattispecie incriminatrice che fa letteralmente riferimento al falso in bilancio di una società singola. Interpretazione estensiva lecita — o applicazione analogica giustificata dal ricorrere di una medesima ratio punitiva, ma cionondimeno interdetta in campo penale? In realtà, sono state sostenute e sono forse sostenibili sia l’una che l’altra tesi (31): ciò a ennesima conferma del fatto che il confine tra le due forme di interpretazione, specie nell’ambito di materie tecnicamente molto complesse, è troppo fluido e sottile per essere tracciato con criteri controllabili in sede giudiziaria in maniera davvero incontrovertibile. 5. Una ulteriore esemplificazione, infine, relativa a una materia tecnicamente meno complessa, ma per sua natura da sempre esposta all’influsso degli atteggiamenti etico-sociali e dei mutamenti culturali: alludo al settore dei reati sessuali e, in particolare, al delitto di violenza sessuale nella nuova formulazione introdotta dalla legge di riforma del 1996. Com’è noto, la nuova fattispecie incriminatrice della violenza sessuale è caratterizzata dal superamento della vecchia distinzione tra ‘‘violenza carnale’’ e ‘‘atti di libidine violenti’’ (che configuravano originariamente due fattispecie autonome), e da una tecnica di tipizzazione legislativa conseguentemente incentrata sul compimento, con violenza o minaccia, di ‘‘atti sessuali’’. Ora, la nuova formula sintetica ‘‘atti sessuali’’ solleva, proprio per la sua genericità e indeterminatezza, problemi ermeneutici in sede applicativa. Fuori discussione sembra soltanto il punto di partenza: l’unico atto dotato di significato sicuramente sessuale in senso fisiologico è costituito dalla congiunzione carnale; tutti gli atti che si discostano invece da questo nucleo centrale, e che stanno più o meno ai margini del concetto forte di sessualità, sono suscettibili di assumere maggiore o minore rilevanza sessuale sulla base di parametri valutativi ancorati — a loro volta — a norme culturali storicamente e socialmente condizionate. Ciò implica che, in un’ottica ermeneutica volta a ricostruire la nozione di atti sessuali nell’ambito della nuova fattispecie incriminatrice, non saranno di ausilio soltanto i consueti canoni interpretativi (dal criterio letterale a quello logicosistematico, dalla tradizione storico-interpretativa al criterio teleologico): sono destinati a esercitare un peso anche fattori ulteriori, consciamente o inconsciamente attingibili in forma di ‘‘precomprensione’’ o pregiudizio, come inevitabilmente e a maggior ragione accade quando si abbia appunto a che fare con elementi di fattispecie culturalmente pregnanti. (31) Per la tesi della applicazione analogica, come tale inammissibile, v. GALGANO, False comunicazioni sociali e bilancio consolidato, in Contratto e impresa, l999, 4.
— 370 — 5.1. Il problema della delimitazione del concetto di atti sessuali è concretamente sorto, nella recente prassi applicativa, in occasione dell’inatteso revival della vecchia questione della rilevanza penale del ‘‘bacio’’: questione invero controversa prima della riforma, ma rispetto alla quale era andato emergendo, negli ultimi tempi, un orientamento liberal. Ciò che sorprende — almeno a prima vista — è il riaffiorare di un orientamento punitivo pur dopo l’intervento riformistico (32): tanto più che la migliore dottrina formatasi sulla nuova normativa tende a fornire una interpretazione restrittiva dell’atto sessuale, coincidente con una concezione di tipo oggettivo-naturalistico considerata più corrispondente allo spirito della riforma (33). Orbene: alla stregua di una simile concezione, il bacio è o non è un atto sessuale? L’interrogativo solleva, a dispetto del carattere oggi senz’altro bagatellare della questione, un problema interessante sotto lo specifico profilo della teoria dell’interpretazione. Se ne ha la riprova constatando l’imbarazzo interpretativo in cui al riguardo si cade proprio sul versante della concezione oggettivo-naturalistica: al cui interno si tende infatti a distinguere tra bacio superficiale, sessualmente irrilevante, e bacio ‘‘profondo’’, dotato invece di significato sessuale (34). Senonché, un simile orientamento interpretativo, nello sforzo di ‘‘laicizzare’’ il più possibile oggi la dimensione della sessualità, rischia di svilirla riducendola a fenomeno puramente anatomico o fisiologico. Nonostante si esponga al pericolo di interpretazioni estensive, si prospetta di conseguenza come più adeguata — a mio avviso — una prospettiva ermeneutica diversa: cioè incline a prendere in considerazione anche il ‘‘contesto’’ in cui il contatto fisico si realizza e, dunque, la complessa dinamica intersoggettiva che si sviluppa nell’ambito delle situazioni connotate da fattori coartanti. È in questa più ampia prospettiva ermeneutica che si colloca la recente sentenza della Cassazione che ha inaspettatamente restituito al bacio imposto una valenza illecita: a questa conclusione i giudici di legittimità sono infatti pervenuti facendo leva — per ripetere le parole contenute nella motivazione — sulla ‘‘complessiva valutazione di tutta la vicenda’’ (35). A mio avviso, anche a prescindere dal merito specifico della rilevanza penale del bacio, una simile metodologia interpretativa risponde meglio (32) Sia consentito rinviare a FIANDACA, La rilevanza penale del ‘‘bacio’’ tra anatomia e cultura, in Foro it., 1998, II, 505 e riferimenti giurisprudenziali ivi contenuti. (33) Per tutti, CADOPPI, Commento all’art. 3 l. 15 febbraio 1996, n. 66, in AA.VV., Commentari alle norme contro la violenza sessuale e della legge contro la pedofilia, 2a ed., 1999, 48 ss. (34) Si veda ancora CADOPPI, Commento, cit., 49. (35) Cass. 27 aprile 1998, Di francia, in Foro it., 1998, II, 505 con nota di FIANDACA, La rilevanza, cit.
— 371 — alle esigenze dell’apprezzamento penalistico non solo limitatamente alle ipotesi in cui è dubbia la significatività sessuale dell’atto, ma più in generale in tutti i casi in cui si tratta di vagliare i presupposti della violenza sessuale: quel che assume rilevanza decisiva non è il quantum di violenza materiale insito nella condotta costrittiva, bensì la valutazione del contesto situazionale e della dinamica interattiva in cui il comportamento violento si dispiega. 5.2. Le insidie e i rischi di fraintendimento che si annidano nella ricostruzione probatoria dei fatti di violenza sessuale — prima ancora che nella loro qualificazione giuridica —, a causa di pregiudizi o stereotipi culturali che incidono sulla stessa lettura giudiziale degli eventi, sono ben esemplificati da un caso recente e molto pubblicizzato nel circuito mediatico: è la vicenda ormai notissima della violenza su donna ‘‘in jeans’’, oggetto di una discutibile pronuncia della Cassazione (36). Ciò che inficia il ragionamento ricostruttivo dei giudici di legittimità (al di là dell’evidente straripamento nel merito) non è tanto la possibile incidenza di fattori preconcetti, che sono — come sappiamo — inevitabili. Sorprende, invece, il fatto che questi atteggiamenti pregiudiziali abbiano inciso in modo incontrollato, pretendendo di ancorarsi a supposte regole di esperienza prive in realtà di verosimiglianza empirica. Un primo esempio: il ritardo nel racconto dell’accaduto da parte della ragazza-vittima ai genitori, spiegato dal giudice di secondo grado col senso di colpa e vergogna presumibilmente provato dalla ragazza stessa, viene dalla Cassazione svalutato come elemento sintomatico dello stupro, e ciò in base alla presunta regola di senso comune per la quale una ragazza davvero vittima di violenza non avrebbe alcun motivo di avvertire sensi di colpa. Un secondo esempio: la circostanza, in sé neutra, che la ragazza aveva i jeans sfilati da una sola gamba viene interpretata come sintomatica di una possibile disponibilità all’atto sessuale, in base all’altra presunta regola di esperienza secondo cui ‘‘è quasi impossibile sfilare anche in parte i jeans ad una persona senza la sua fattiva collaborazione’’. A commento di questa singolare decisione (verosimilmente destinata, comunque, a farsi presto dimenticare), altri — in piena sintonia con i rilievi fin qui svolti — ha osservato: ‘‘Un tempo’’ la facoltà del giudice di cogliere repentinamente il fatto si chiamava intuizione: parola nobile, che evocava la capacità prodigiosa di giungere al cuore delle cose. In un linguaggio più aggiornato, si chiama ora ‘precomprensione’. Parola asettica, (36) La sentenza relativa, Cass, 6 novembre 1998, Cristiano, si legge in Foro it., 1999, II, 165 con nota di FIANDACA, Violenza su donna ‘‘in jeans’’ e pregiudizi nell’accertamento probatorio, nonché in Cass. pen., 1999, 2204 con nota di IACOVIELLO, Toghe e jeans. Per una difesa (improbabile) di una sentenza indifendibile, e in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 694 con nota di BERTOLINO, Libertà sessuale e blue-jeans.
— 372 — che serve ad etichettare una realtà molto poco asettica: una realtà che racchiude tutta l’esperienza umana del giudice, i suoi pregiudizi, la sua morale, le sue convinzioni — e perché no? — le sue nevrosi (...)’’ (37). A questo punto, il discorso potrebbe condurci molto lontano, e cioè in un ambito tematico in cui il problema della formazione professionale del magistrato e lo studio psicologico della decisione giudiziaria si congiungono con l’analisi dei processi di ‘‘rinnegamento’’ dell’ideologia esplorati, ad esempio, da studiosi come Duncan Kennedy (38). Ma è tempo, ormai, di avviarsi alle conclusioni. 6. Non so se e fino a che punto le esemplificazioni fatte siano state davvero indovinate; altre avrebbero potuto forse essere più felici, e nello stesso tempo mi scuso per avere omesso di fare riferimento a problematiche oggi di centrale importanza in ambito penalistico (si pensi, ad esempio, al problema del ruolo dei principi costituzionali nell’interpretazione delle norme incriminatrici). Vorrei comunque, a questo punto, tornare a qualche rilievo di ordine generale, pur nei limiti del taglio che ho ritenuto di dover dare a questa relazione. Credo, innanzitutto, che gli esempi addotti valgano a confermare tre cose: i) anche il giudice penale usufruisce di uno spazio ermeneutico, più o meno ampio a seconda dei casi; ii) l’applicazione giudiziale è influenzata dal contesto, non solo istituzionale e normativo, ma comprensivo anche della realtà criminale sottesa alla norma; iii) nel processo applicativo operano fattori preconcetti, riconducibili alla categoria — se vogliamo polivalente e ambigua — della precomprensione. Cercando di esplicitare e specificare questo discorso rispetto ai campi di materia precedentemente presi in considerazione, osserverei quanto segue. a) Nell’ambito delle esemplificazioni giurisprudenziali relative alla criminalità mafiosa, la precomprensione viene in questione soprattutto in una accezione sociologica o socio-criminologica, e cioè come concezione pregiudiziale del fenomeno mafioso (o di alcuni suoi aspetti) che orienta la ricostruzione procesuale dei fatti e/o il loro inquadramento penalistico. Da questo punto di vista, se si vuole evitare il rischio che la concezione pregiudiziale del magistrato sia frutto di valutazioni puramente personali, il problema diventa quello di vagliare la fondatezza empirica del sapere sociologico e di controllare la corretezza della sua utilizzazione nel processo di sussunzione del fatto sotto la fattispecie incriminatrice astratta. (37) IACOVIELLO, Toghe e jeans, cit. (38) KENNEDY, Comportamenti strategici nell’interpretazione del diritto, in AA.VV., Diritto giustizia e interpretazione, a cura di J. Derrida e G. Vattimo, Roma-Bari, 1998, 229 ss.
— 373 — b) Nella esemplificazione relativa alla criminalità economica, e più in particolare nel caso del falso in bilancio interpretativamente esteso alle riserve occulte nell’ambito del gruppo di società, la precomprensione opera come pregiudiziale preoccupazione politico-criminale: vale a dire, come preoccupazione dei magistrati (tanto requirenti che giudicanti) di estendere il controllo penale a fatti avvertiti come meritevoli di sanzione in ogni caso, e cioè — a prescindere dalla loro ‘‘diretta’’ riconducibilità ad una fattispecie incriminatrice preesistente — perché comunque diretti a finalità intrinsecamente illecite quali gli scopi corruttivi. L’operare in questo caso della precomprensione come obiettivo politico-criminale, perseguito a prescindere da una previa presa di posizione espressa del legislatore penale, ripropone evidentemente il vecchio problema dei limiti di ammissibilità delle interpretazioni espansive in diritto penale, in presenza di fenomeni criminosi di nuova emersione che (per dir così) bussano alla porta stretta di modelli di incriminazione preesistenti. c) Nell’ambito delle esemplificazioni relative, infine, al reato di violenza sessuale, la precomprensione è sembrata operare in due possibili modi. Da un lato, come criterio socio-culturale di interpretazione, che integra una concezione (per dir così) anatomo-fisiologica dell’estremo di fattispecie degli ‘‘atti sessuali’’. Dall’altro, e in senso direi più negativo che positivo, come pregiudizio personale del giudice che può indurre a fraintendere il significato dei fatti sottoposti a giudizio. La precomprensione, come fattore che guida o influenza l’attività di concretizzazione giudiziale del diritto penale, puo dunque svolgere — a seconda dei casi — un ruolo positivo o un ruolo negativo. Ora, se si rifiutano quelle posizioni ‘‘panermeneutiche’’ o nichilistiche che teorizzano l’impossibilità di distinguere tra interpretazioni più corrette e meno corrette, e si vuole perciò circoscrivere il rischio che il risultato interpretativo sia frutto della pura inclinazione personale del giudice, non rimane verosimilmente che una strada: cioè cercare di utilizzare la stessa riflessione ermeneutica come strumento di possibile controllo razionale del potere interpretativo del giudice e della sua discrezionalità più o meno creativa. Come è stato ben osservato, la riflessione ermeneutica può in questo senso fornire al giudice la consapevolezza culturale e psicologica per venire essa stessa valorizzata come tecnica di analisi o ‘‘autoanalisi’’ delle presupposizioni personali, come strumento di critica dell’ideologia a livello individuale: ‘‘e del resto, quello di demolire l’arbitrarietà dei propri pregiudizi e di superarla nell’aderenza al ‘fatto’ è uno sforzo inesauribile, che dura tutta la vita, e non certo limitato al giudice, ma tipico anche dello scienziato e di ogni individuo criticamente consapevole’’ (39). (39)
ZACCARIA, Ermeneutica e giurisprudenza, cit., 163.
— 374 — L’esigenza di svelare i pregiudizi interpretativi, e di controllare razionalmente il ruolo sotto diversi aspetti ambiguo della precomprensione, diventa ancora più ineludibile — per ovvie ragioni garantistiche che non è il caso di esplicitare e ribadire — nell’ambito del diritto penale. È in questo specifico settore dell’ordinamento che ci troviamo di fronte ad un paradosso, almeno apparente: se il diritto penale vigente è o pretende di essere ancora figlio dell’ideologia illuministica, e se è vero che l’ideologia illuministica si è storicamente battuta per sconfiggere i pregiudizi, continuare a parlare di ‘‘pregiudizi’’ nell’applicazione delle leggi penali dovrebbe allora suonare come una palese contraddizione o un nonsenso; a meno di non volere sottrarsi alla contraddizione rifugiandosi in questo ulteriore paradosso: cioè l’ermeneutica contemporanea potrebbe prendersi una rivincita bollando come frutto, a sua volta, di radicato ‘‘pregiudizio’’ il modo tradizionale d’intendere il principio di legalità negli ordinamenti di civil law. Ma una rivincita che si spingesse sino al punto di screditare come pura mistificazione il principio di legalità, ci porterebbe su quelle posizioni rinunciatarie o — peggio ancora — nichilistiche che specie in diritto penale non lascerebbero dormire sonni tranquilli. In una prospettiva che voglia utilizzare costruttivamente l’efficacia demistificatrice dell’approccio ermeneutico, il problema diventa allora un altro: com’è facile intuire, si tratta di saggiare i limiti (per dir così) ‘‘realistici’’ del principio di legalità. Come evitare il puro soggettivismo interpretativo, come coniugare creatività e vincolo, discrezionalità e razionalità? Senza avere alcuna pretesa di fornire contributi idonei a dare risposte adeguate a questi interrogativi ricorrenti, provo soltanto ad abbozzare alcuni spunti di riflessione. 6.1. Il punto di partenza mi piace collocarlo in un passo tratto proprio dalle considerazioni che Hans Georg Gadamer dedica, nella fondamentale opera Verità e metodo, all’emeneutica giuridica: ‘‘Il compito dell’interpretazione è la concretizzazione della legge nel caso particolare, cioè l’applicazione. Certo si verifica così un perfezionamento creativo della legge, che è riservato al giudice, il quale però è sottomesso alla legge esattamente come ogni altro membro della comunità giuridica’’ (40). Com’è agevole osservare, lo stesso Gadamer pone i binari entro cui inquadrare il problema di fondo, ma la sua soluzione — com’è ovvio — è un’impresa che va storicamente sperimentata di epoca in epoca. Orbene: nel presente momento storico cosa vuol dire perfezionare creativamente la legge penale, assumendo pur sempre come orizzonte e vincolo la legge scritta? La stessa teoria ermeneutica ci suggerisce che il vincolo del giudice alla legge penale è sottoposto anch’esso a mediazioni interpretative, e che queste mediazioni sono di volta in volta condizionate dal ‘‘contesto’’: contesto costituito — a sua volta — dall’assetto costitu(40)
GADAMER, Verità e metodo, cit., 382.
— 375 — zionale dei poteri e dalla cosiddetta costituzione materiale, dai testi normativi vigenti, dalle fenomenologie criminali da fronteggiare, dagli orientamenti della prassi giudiziaria e dalle culture e ideologie compresenti nell’universo magistratuale, dallo stato della dogmatica giuridica di matrice accademica e dalle connesse ideologie degli scienziati del diritto, dalle tendenze politiche e dalle aspettative sociali del momento (a loro volta, come oggi quasi sempre accade, frammentate in senso pluralistico), dalle mode culturali generali e — infine, ma non per importanza — dalle contingenti logiche di funzionamento del circuito mediatico. Da questo punto di vista, l’obiettivo della legalità penale, concepita in senso conforme alla funzione-guida teoricamente spettante alle leggi scritte, si prospetta come impresa collettiva complessa e articolata, la cui realizzazione e successo dipendono dal fatto che ciascuno dei partners coinvolti riesca a fare adeguatamente la sua parte. Le condizioni ideali di contesto perché tutto ciò avvenga sono approssimativamente così sintetizzabili — almeno, prendendo le mosse da una visione penalistica che intenda prendere sul serio e mantenere fermi il principio costituzionale della divisione dei poteri e il primato del monopolio legislativo nella determinazione dei presupposti della punibilità. — Il legislatore contemporaneo dovrebbe riscrivere pressoché dalle fondamenta la legislazione penale, in modo da conseguire gli obiettivi di una autentica modernizzazione, di una reale deflazione, di una maggiore precisione nella descrizione dei fatti punibili e di una maggiore razionalità e coerenza nelle scelte di politica criminale. Rimarrebbe, in proposito, da verificare più approfonditamente se obiettivi simili siano oggi (almeno in teoria) meglio realizzabili attraverso la strada più tradizionale della ‘‘ricodificazione’’ ovvero ricorrendo ad altre tecniche più sofisticate di legiferazione penale (come, ad esempio, quella per ‘‘sottosistemi’’). — La dottrina penalistica dovrebbe, dal canto suo, astenersi dall’elaborare dogmatiche puramente logicistiche, o peggio, solipsisticamente volte a perseguire l’originalità concettuale fine a se stessa. Piuttosto, la stessa attività dogmatica dovrebbe farsi carico della critica e del controllo razionale dei momenti ‘‘predogmatici’’ e degli eventuali pregiudizi sottesi alla costruzione dei concetti giuridici: e dovrebbe interpretare il suo ruolo funzionale anche, se non soprattutto in termini di predisposizione di modelli e schemi per orientare la prassi applicativa e verificarne i risultati in una prospettiva di dialogo e scambio costruttivo con la giurisprudenza. — La giurisprudenza, per suo conto, oltre a prestare maggiore attenzione al lavoro dei giuristi cosiddetti teorici, dovrebbe riappropriarsi di quella che definirei ‘‘cultura del limite’’ o dell’autocontenimento: interiorizzando più profondamente il principio della divisione dei poteri e, di conseguenza, sottoponendo a vaglio critico e problematizzando le sue cre-
— 376 — scenti vocazioni ‘‘sostanzialistiche’’. La presa d’atto che neppure il legislatore penale è ‘‘onnipotente’’ non giustifica palesi o disinvolti aggiramenti dei testi normativi, sia pure ‘‘a fin di bene’’ e cioè per ragioni di giustizia sostanziale considerate vincenti rispetto alle esigenze di certezza e ai vincoli della legalità formale (41). Sempre sul terreno della prassi applicativa, varrebbe la pena di approfondire — a maggior ragione in una ottica ermeneutica — il problema di come il principio di legalità sia suscettibile di realizzarsi al meglio nell’ambito del diritto in azione: penso in questo senso all’esigenza di rivisitare anche nell’ambito del diritto penale la tematica del ‘‘precedente’’ giurisprudenziale, come viene recentemente auspicato da chi dal versante dottrinale suggerisce — sia pure problematicamente — l’introduzione di meccanismi ordinamentali (ispirati, appunto, alla logica del precedente potenzialmente vincolante) finalizzati a favorire una maggiore certezza e stabilità degli indirizzi interpretativi della giurisprudenza (42). — Ancora più complesso è il discorso relativo alle più generali condizioni politiche e culturali di contesto, che hanno in diversa misura contribuito — specie negli anni più recenti — ad alimentare le note ondate di ‘‘panpenalismo’’ e giustizialismo repressivo. Secondo alcune suggestive analisi sociologiche, difficili da avvalorare quanto da confutare, la tendenza a riversare quasi ogni problema nel teatro penalistico sarebbe, per un verso, conseguenza degli attuali limiti della politica e, per altro verso, effetto del venir meno o della profonda entrata in crisi delle autorità tradizionalmente deputate a svolgere ruoli guida in campo morale e sociale. Se analisi come questa fossero davvero fondate, una ridefinizione dei confini del penale, sul piano tanto legislativo che applicativo, finirebe col presupporre una condizione ‘‘a monte’’, costituita addirittura da un riorientamento della cultura generale della nostra epoca. GIOVANNI FIANDACA Ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo
(41) Per un’analisi sociologica volta a ricostruire con metodo empirico gli orientamenti della magistratura italiana, anche dal punto di vista della preferenza da accordare ai valori della legalità formale e della certezza ovvero a quelli della giustizia sostanziale e dell’equità, cfr. di recente MORISI, Anatomia della magistratura italiana, Bologna, 1999, 63 ss. (42) CADOPPI, Il valore del precedente nel diritto penale. Uno studio sulla dimensione in action della legalità, Torino, 1999, passim.
IL CONSENSO INFORMATO ALL’ATTO MEDICO TRA PRINCIPI COSTITUZIONALI E IMPLICAZIONI PENALISTICHE
SOMMARIO: 1. Consenso informato e attività medica: cenni introduttivi. — 2. L’incoercibilità del trattamento medico-chirurgico alla luce dei principi costituzionali. — 3. I caratteri del consenso. — 4. Il dibattito sull’adeguatezza dell’informazione. — 5. Modalità e delegabilità dell’informazione. — 6. Capacità del paziente e validità del consenso. — 7. Il trattamento medico del minore. — 8. L’irrilevanza penale dell’atto medico c.d. migliorativo. — 9. Il trattamento terapeutico arbitrario con esito avverso tra tipicità oggettiva e giudizio di antigiuridicità. — 10. La carenza di un valido consenso e la sua evitabilità da parte del medico. Implicazioni sul titolo di responsabilità? — 11. L’intervento medico arbitrario sotto il profilo dell’elemento soggettivo.
1. Non diversamente da quanto accade da tempo all’estero e segnatamente negli U.S.A., anche da noi è divenuta affermazione ricorrente — fino ad essere accolta dal codice di deontologia medica, già nella versione del 1995 (1) — che la legittimità del trattamento medico dipende dal ‘‘consenso informato’’ del paziente. L’innovazione — sia chiaro — non è puramente terminologica. In effetti, l’accostamento dell’aggettivo ‘‘informato’’ al concetto di consenso sottende una nuova concezione del rapporto tra medico e paziente, che ambisce a superare la visione puramente filantropica, se non addirittura paternalistica (2), del medico, quale soggetto gravato dal dovere di curare, ma fornito per contro di un potere incondizionato circa la scelta terapeutica e le sue modalità di attuazione, sindacabili, da tale angolazione, solo sotto il profilo della conformità ai dettami della scienza. Del resto, l’insegnamento ippocratico incarna chiaramente quest’ultima concezione dei rapporti tra medico e paziente (3): il primo deve esercitare la sua arte con animo altruistico, non solo perseguendo, ma ad un (1) Il riferimento è in particolare all’art. 31; per un commento, cfr. Codice di deontologia medica, a cura di V. FINESCHI, 2a ed., Milano, 1996, p. 189 s. (2) Per questa definizione, peraltro assai ricorrente, della tradizionale visione del rapporto tra medico e paziente, v. per tutti F. MANTOVANI, Diritto penale, Delitti contro la persona, Padova, 1995, p. 95. (3) Sui diversi modelli del rapporto tra medico e paziente, v. A. SANTOSUOSSO, in Il consenso informato. Tra giustificazione per il medico e diritto del paziente, a cura di A. Santosuosso, Milano, 1996, p. 217 s.
— 378 — tempo interpretando secondo coscienza il bene del paziente e il suo migliore interesse; il secondo beneficia dell’attività medica, subendola e assecondando il medico che si prende cura di lui (4). Da qui, il termine paziente. L’etimo latino patiens — come noto, participio presente del verbo patior — ne spiega l’uso linguistico: paziente non è soltanto colui che sopporta la sofferenza, ma anche chi subisce passivamente l’altrui azione. Non è un caso, dunque, che, cedendo alla moda dei simbolismi, il nuovo codice deontologico del 1998 utilizzi il termine ‘‘paziente’’ con assoluta parsimonia, anche se è velleitario sperare che la sua sostituzione con altri sostantivi più o meno appropriati (per lo più, si parla di cittadino) possa incidere di per sé sulle ragioni culturali, sociali e linguistiche che ne hanno favorito e ne giustificano tuttora l’uso generalizzato. Porre il ‘‘consenso informato’’ alla base del rapporto tra medico e paziente equivale, dunque, a rovesciare quella, che, per ragioni di comodo, si può etichettare come la concezione ‘‘tradizionale’’ dell’attività medica. Nella nuova prospettiva, infatti, i doveri del medico vengono subordinati ai diritti del malato e in primis alla sua libertà di autodeterminazione terapeutica (5), quale aspetto del diritto di ciascuno a disporre dei suoi beni personali e finanche della sua stessa vita. Il consenso informato mira cioè a porre al centro dell’attenzione del medico non tanto, o non soltanto, la malattia, ma la persona bisognosa di cure; cosicché, ai doveri di informazione del medico corrisponde oggi la figura del malato partecipe, che può considerare l’informazione come un suo diritto irriducibile e non più come una gentile concessione. Si comprende allora che, mentre la subordinazione dell’attività terapeutica alla semplice approvazione del soggetto assistito mirava a garantire unicamente contro il pericolo, per il vero estremo e poco realistico, di terapie coattivamente imposte dal medico, il requisito del consenso informato intende scongiurare altresì che, sospinto dalla necessità di una cura, il paziente accetti il trattamento medico in assenza di una chiara e consapevole rappresentazione del rapporto tra i possibili costi e gli sperati benefici della terapia. Questa evoluzione — va da sé — ha un rilievo preminente sul piano culturale e deontologico. Il diritto, però, non può restare estraneo alla trasformazione del rapporto tra medico e paziente. Per via della sua cogenza, infatti, è alla norma giuridica che si chiede di consolidare e rendere effet(4) In argomento v. B. FANTINI, La medicina scientifica e le trasformazioni nelle teorie e nelle pratiche della medicina occidentale, in In principio era la cura, a cura di P. Donghi e L. Petra, Bari, 1995 p. 48 s. (5) In tal senso, v. il documento del Comitato Nazionale per la Bioetica, Informazione e consenso all’atto medico, Roma, 1992, che può leggersi anche in Riv. it. med. leg., 1993, in particolare p. 193. In argomento v. anche: B. MAGLIONA, Il consenso informato: da enunciazione di principio a criterio che legittima l’attività medico-chirurgica, in Dir. pen. proc., 1996, p. 775.
— 379 — tiva questa evoluzione, anche attraverso l’allestimento di sanzioni per i comportamenti inosservanti del nuovo principio. 2. Com’è noto, in Italia manca una disciplina organica del consenso informato. Quest’ultimo concetto, infatti, compare in talune fonti, di rango anche regolamentare, che pongono l’obbligo del consenso informato per specifiche attività sanitarie, tra le quali possono ricordarsi la sperimentazione clinica dei medicinali (6) e il trattamento degli emoderivati (7). Nondimeno, nella nostra letteratura giuridica e nella stessa recente giurisprudenza (8), l’idea che il consenso al trattamento medico debba essere ‘‘informato’’ non ha faticato a radicarsi, anche per la ragione che essa si attaglia perfettamente al principio personalistico che ispira il nostro ordinamento e risulta, tra l’altro, dagli artt. 13 e 32, comma 2, Cost. (9). Infatti, se la prima norma stabilisce il primato della libertà personale, come libertà da costrizioni, la seconda dispone più specificamente che il trattamento medico può essere imposto, in via di eccezione, solo quando risulta necessario per tutelare la collettività dalla pericolosità della malattia e sempre che, in tali e tassativi casi, esso sia previsto dalla legge. Ebbene, secondo una lettura del combinato disposto delle due norme costituzio(6) Limitatamente ai provvedimenti degli ultimi anni, v.: d.m. 15 luglio 1997, Recepimento delle linee guida dell’Unione europea di buona pratica clinica per la esecuzione delle sperimentazioni cliniche dei medicinali; d.l. 17 febbraio 1998, n. 23, Disposizioni urgenti in materia di sperimentazioni cliniche in campo oncologico e altre misure in materia sanitaria; d.l. 16 giugno 1998, n. 186, Disposizioni urgenti per l’erogazione gratuita di medicinali antitumorali in corso di sperimentazione clinica, in attuazione della sentenza della Corte costituzionale n. 185 del 26 maggio 1998. L’espressione « consenso informato » ricorre anche nel d.m. 6 novembre 1998, sulla composizione e determinazione delle funzioni del Comitato etico nazionale per le sperimentazioni cliniche dei medicinali. (7) Cfr. d.m. 15 gennaio 1991, che dà attuazione all’art. 3 l. 4 maggio 1990, n. 107. In argomento, v.: L.P. COMOGLIO, Consenso informato e profili di responsabilità nelle donazioni di sangue, in Foro. it., 1992, V, c. 368 s.; G. SANTACROCE, Trasfusione di sangue, somministrazione di emoderivati e consenso informato del paziente, in Giust. pen., 1997, II, c. 114 s. (8) Cfr., per tutti, i contributi raccolti nel volume collettaneo Il consenso informato, cit. Nella giurisprudenza di legittimità, v. soprattutto Cass. pen., sez. V, 13 maggio 1992, Massimo, in Cass. pen., 1993, p. 63, con nota di G. MELILLO, Condotta medica arbitraria e responsabilità penale, ivi, p. 65 s. In quella di merito, v.: Pret. Lecce, 4 febbraio 1998, Pisanello, in Rass. dir. farmaceutico, 1998, p. 437; Corte App. Firenze, 11 luglio 1995, Gervino, in Foro it., 1996, II, c. 188; Corte Ass. Firenze, 18 ottobre 1990, Massimo, in Giust. pen., 1991, II, c. 163, con nota di G. IADECOLA, In tema di rilevanza penale del trattamento medico-chirurgico eseguito senza il consenso del paziente, ivi, c. 163 s. Per un’ampia rassegna della giurisprudenza, cfr. anche M. POLVANI, Indicazioni giurisprudenziali e considerazioni critiche sul consenso all’attività medica, in Foro it., 1996, II, c. 190 s. (9) V. fondamentalmente F. MANTOVANI, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, 1974. p. 37 s.
— 380 — nali, autorevolmente prospettata (10) e oggi largamente condivisa (11), ne discende che la libertà di autodeterminazione terapeutica assurge a livello di valore implicitamente costituzionalizzato. Quanto all’ampiezza del principio dell’incoercibilità del trattamento medico, per l’opinione prevalente esso è tale da comprendere il diritto di rifiutare le cure, anche quando tale scelta porta alla morte (12). Così, per fare qualche esempio — in linea con l’art. 31, comma 4, del codice di deontologia medica, che impone al medico di desistere dalla terapia di fronte all’esplicito rifiuto del paziente capace di intendere e di volere — si ritiene vincolante la volontà del Testimone di Geova che si oppone all’emotrasfusione, anche quando essa è l’unica terapia in grado di impedirne la morte (13). Semmai, va segnalato che questa conclusione è stata autorevolmente contestata, in relazione all’ipotesi specifica in cui il Testimone di Geova bisognoso di un’emotrasfusione giunga in ospedale in condizioni di incoscienza; in tal caso, al fine di giustificare la doverosità dell’intervento terapeutico, si è proposto di ricorrere allo schema del consenso presunto (14), anche quando la contrarietà del paziente all’emotrasfusione possa ricavarsi da un’apposita e inequivoca manifestazione di volontà, precedentemente espressa. È fin troppo chiaro, però, che una siffatta conclusione non rimette in discussione il principio del diritto di morire. Ciò che si contesta, infatti, è solamente la validità delle dichiarazioni inattuali, aventi ad oggetto atti dispositivi di beni fondamentali della persona; anche se a quest’ultimo proposito va osservato che, per l’opinione oggi prevalente e comunque preferibile, il medico è tenuto a uniformarsi alla dichiarazione inattuale. In effetti, mentre la presunzione di consenso all’emotrasfusione appare in questi casi una fictio (15), non vi sono ragioni per non (10) Cfr. F. MANTOVANI, op. cit., p. 77 s. e p. 92 s. (11) Tra i tanti, di recente, v. ad esempio T. MASSA, Il consenso informato: luci ed ombre, in Questione giust.,1997, p. 412. (12) Cfr. ancora F. MANTOVANI, op. loc. ult. cit.; ID., Eutanasia, in Dig. disc. pen., vol. IV, 1990, p. 427. V. anche: F. STELLA, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, in Riv. it. med. leg., 1984, p. 1018; R. ROMBOLI, op. cit., p. 34; A. MANNA, Trattamento medico-chirurgico, in Enc. dir., vol. XLIV, 1992 p. 1284; S. SEMINARA, Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia, in questa Rivista, 1995, p. 693 s.; F. GIUNTA, Diritto di morire e diritto penale. I termini di una relazione problematica, ivi, 1997, p. 90 s. (13) V.: D. VINCENZI AMATO, Tutela della salute e libertà individuale in Trattamenti sanitari tra libertà e doverosità, Napoli, 1983, p. 39; M. PARODI GIUSINO, Trattamenti sanitari obbligatori, libertà di coscienza e rispetto della persona umana, in Foro it., 1983, I, c. 2660; S. SEMINARA, op. cit.,p. 699. Così anche: Pret. Roma, 3 aprile 1997, De Vivo, in Cass. pen., 1998, p. 950, con nota di G. IADECOLA, La responsabilità penale del medico tra posizione di garanzia e rispetto della volontà del paziente. (In tema di omessa trasfusione del sangue « salvavita » rifiutata dal malato), ivi, p. 953 s. (14) Cfr. F. MANTOVANI, I trapianti, cit., p. 234. (15) Così S. DEL CORSO, Sul consenso del paziente nell’attività medico-chirurgica, in questa Rivista, 1987, p. 539.
— 381 — tenere conto di una volontà espressamente manifestata in condizioni di piena coscienza e peraltro coerente con il credo religioso praticato e profondamente vissuto. Del resto, va pure considerato che, in settori pur sempre riconducibili all’attività medica, la legislazione recente si è evoluta nel senso di dare rilevanza alla volontà espressa a futura memoria, come nel caso della nuova normativa sui trapianti da cadavere (art. 4 l. 1o aprile 1999, n. 91), che consente al cittadino di dichiararsi consenziente o di opporsi al prelievo dei propri organi, con la conseguenza, in quest’ultimo caso, che la volontà manifestata in precedenza prevale sulla presunzione di consenso introdotta dalla legge (16). A ben vedere, dunque, anche in relazione agli atti di disposizione del proprio corpo non vi sono valide ragioni per intendere il concetto di attualità della volontà in senso meramente e necessariamente cronologico, ovvero come sinonimo di contestualità, salvo che, così opinando, non si intenda contenere aprioristicamente l’ambito operativo del consenso informato. Tanto precisato, l’attualità del consenso va affermata piuttosto in senso logico: attuale, cioè, sarà la volontà che, manifestata per valere al sopraggiungere di una condizione di incoscienza, non sia stata revocata prima del verificarsi di una siffatta situazione. E ancora: ad avviso della dottrina recente, un analogo dovere di astensione grava sul medico nell’ipotesi del c.d. sciopero della fame del detenuto, anche quando la protesta rischia di sfociare in un tragico epilogo (17). Qui, la questione dibattuta è se l’amministrazione penitenziaria abbia l’obbligo di impedire l’evento ai sensi degli artt. 41 ord. pen. e 77 reg. (18). In ogni caso, anche ad ammettere un siffatto dovere, v’è da ritenere che esso non prevalga sull’incoercibilità del vivere e sul diritto di lasciarsi morire, di cui il detenuto è titolare al pari di qualunque soggetto libero; a tacer d’altro, infatti, va tenuto presente l’acquisito rango costituzionale del diritto di rifiutare le cure. (16) Sulla nuova regolamentazione dei trapianti da cadavere, v. D. MICHELETTI, in Dir. pen. proc., 1999, p. 545 s. (17) Per il riconoscimento dell’incoercibilità del vivere e l’illegittimità dell’alimentazione coattiva dei detenuti, v.: Trib. Padova, 2 dicembre 1982, Cerica, in Foro it., 1983, II, c. 238, con nota adesiva di G. FIANDACA, Sullo sciopero della fame nelle carceri, ivi., c. 235 s. Nello stesso senso, in dottrina v.: F. BUZZI, L’alimentazione coatta nei confronti dei detenuti, in Riv. it. med. leg., 1982, p. 284 s.; E. FASSONE, Sciopero della fame, autodeterminazione e libertà personale, in Questione giust., 1982, p. 342 s.; V. ONIDA, Dignità della persona e diritto di essere malato, ivi, 1982, p. 364 s.; D. PULITANÒ, Sullo sciopero della fame di imputati in custodia preventiva, ivi, p. 370 s. Un profilo diverso, e di natura squisitamente processuale, è quello relativo all’eventualità che lo sciopero della fame diventi uno strumento ricattatorio nelle mani del detenuto, finalizzato ad ottenere il rinvio dell’esecuzione ex art. 147, comma 2, c.p. o la concessione degli arresti domiciliari; sul punto, v. Cass. pen., sez. I, 22 gennaio 1988, Sotgia, in Cass. pen, 1988, p. 1024, che esclude, in tale ipotesi, l’automatica concessione sia del rinvio dell’esecuzione, sia degli arresti domiciliari. (18) In argomento, v. G. FIANDACA, op. cit., p. 238.
— 382 — Infine, il diritto di lasciarsi morire, liberamente esercitato dal malato terminale in condizioni di coscienza, fa sì che cessi in capo al medico il dovere di curare, con la conseguenza che la sua astensione dallo svolgimento dell’attività terapeutica risulterà non solo lecita, ma addirittura doverosa (19), in quanto rispettosa dell’autodeterminazione del paziente (20). Per questa via, non diversamente da quanto sostenuto nella letteratura tedesca (21), una parte della nostra dottrina equipara sul piano della comune liceità tanto il caso in cui il medico attui l’espressa volontà del paziente desistendo dal proseguire l’attività terapeutica (si pensi all’interruzione di una cura farmacologica), quanto il caso in cui, sempre per rispettare l’intendimento del soggetto assistito, il medico compia un’attività positiva sotto il profilo naturalistico, come quella di disattivare la macchina che tiene in vita il paziente (22). Anche in questa ipotesi, dunque, vale il brocardo voluntas aegroti suprema lex. 3. Come il soggetto bisognoso di cure può rifiutare il trattamento medico, così può acconsentirvi: in tale ultimo caso, il consenso informato, validamente espresso dal paziente, costituisce una fondamentale condizione di legittimità dell’atto medico, dalla quale di regola non potrà prescindersi. Proprio in quanto espressione di autodeterminazione terapeutica, è chiaro che il consenso all’atto medico deve essere personale; di conseguenza esso non può provenire da terzi o dagli stessi familiari (23), i quali tuttavia, con la loro testimonianza, possono contribuire a chiarire la volontà del paziente che non è compos sui. In questa situazione, la dichiarazione dei parenti non assume un valore vicario del consenso personale, ma può acquisire al più una funzione probatoria, se non puramente confermativa, della volontà del paziente precedentemente espressa. Nondimeno, anche così impostata, la questione rimane assai delicata. Ci si chiede infatti se, per ricostruire in modo accurato e attendibile il consenso del paziente attraverso le dichiarazioni dei familiari, il medico debba farsi in qualche modo giudice (24), assumendosi un compito non solo impegnativo, ma anche estraneo alla sua formazione professionale. Ora, è fuor (19) Così F. STELLA, op. loc. cit. (20) Cfr. F. MANTOVANI, Eutanasia, cit., p. 427. (21) Cfr. per tutti A. ESER, Possibilità e limiti dell’eutanasia dal punto di vista giuridico, in Vivere: diritto o dovere?, Riflessioni sull’eutanasia, a cura di L. Stortoni, Trento, 1992, p. 82. Per ulteriori indicazioni bibliografiche, v. F. GIUNTA, op. cit., p. 93 s. (22) V. ad esempio F. STELLA, op. cit., p. 1017. (23) Sul punto vi è larghissima convergenza di opinioni; tra gli altri, v.: M. POLVANI, Il consenso informato all’atto medico: profili di rilevanza penale, in Giust. pen., 1993, II, c. 736; T. MASSA, op. cit., p. 418. Da ultimo, v. A. ABBAGNANO TRIONE, Considerazioni sul consenso del paziente nel trattamento medico chirurgico, in Cass. pen., 1999, p. 322. (24) Risponde affermativamente M. POLVANI, op. ult. cit., c. 736.
— 383 — di dubbio che il medico abbia il dovere di ascoltare quanto di utile possono riferire i familiari del paziente in relazione alla volontà di quest’ultimo. Pare francamente eccessivo, però, che il medico debba aprire una sorta di istruttoria, facendosi promotore di una ricerca intesa a ricostruire l’intendimento del paziente. Oltre tutto, lo svolgimento di un siffatto compito investigativo da parte di improvvisati detectives in camice bianco può ostacolare un sollecito intervento terapeutico e risultare finanche disfunzionale per l’organizzazione complessiva della struttura sanitaria. Tanto considerato, per impostare correttamente la questione, va tenuto presente che nei confronti del soggetto incapace la liceità dell’attività medica può ricondursi al più ampio dovere di solidarietà sociale espresso nell’art. 2 Cost. e alla posizione di garante che, specie nelle strutture pubbliche, il medico assume in relazione alla salute del soggetto assistito. Ne consegue che, in questa prospettiva, la volontà del paziente è un elemento di cui il medico deve tener conto solo quando la si possa facilmente appurare in modo non equivoco, ovvero allorché essa emerga da elementi sufficientemente certi e concordanti. In caso contrario, il medico non ha l’obbligo di svolgere attività istruttorie, addossandosi il compito di stabilire quando gli elementi probatori raccolti sono genuini e sufficienti a provare la volontà del paziente. Egli piuttosto deve intervenire, adempiendo al dovere di solidarietà di cui è gravato, con la conseguenza che, per affermare la legittimità del suo operato, non è necessario ricorrere alla formula, peraltro non unanimemente condivisa, del consenso presunto: a livello di legge ordinaria, infatti, la liceità dell’atto medico discende direttamente delle norme che impongono la posizione di garanzia e il dovere scriminante. Va tenuto presente, però, che il dovere di solidarietà legittima l’intervento medico su persona incapace, unicamente nell’implicita premessa che il trattamento terapeutico costituisca un vantaggio per il paziente. Si comprende pertanto che l’obbligo di intervento terapeutico lascia il campo all’opposto dovere di astensione nell’ipotesi in cui si possa ragionevolmente attendere il ritorno di coscienza del paziente: ovvero allorché l’inizio della terapia risulti rinviabile senza pregiudizio per il bene della salute. Ma è questa un’eventualità che non si verificherà di frequente, dato che il differimento dell’intervento comporta di regola un aumento del rischio per la salute del soggetto bisognoso di cure. Quando il paziente è in grado di esprimere la propria volontà, va da sé che, per potere legittimare il trattamento terapeutico, il consenso deve essere manifestato in modo espresso, con riferimento ad atti medici specifici e determinati; non può trattarsi cioè di un consenso generico avente ad oggetto non meglio definite necessità terapeutiche, né il consenso può ritenersi implicito nell’accettazione della cura da parte del paziente. La questione, però, merita attenzione, poiché sempre più spesso l’attività medica è svolta in équipe o comunque attraverso un riparto di competenze,
— 384 — che avviene in base sia alle necessità della terapia, sia alle diverse specialità dei medici che vi prendono parte. Tanto considerato, è da ritenersi che il dovere di informazione scatta in relazione a ciascun fattore di rischio insito in ogni singola fase della terapia (25), con la conseguenza che, se le diverse fasi del trattamento sono svolte da medici diversi, il dovere di informazione graverà in capo a ciascuno di essi in relazione alla parte di propria competenza e il consenso del paziente dovrà riguardare espressamente ciascuna fase della terapia. Così, nel caso di intervento chirurgico, l’obbligo di informazione compete sia al chirurgo, sia all’anestesista; e il paziente dovrà esprimere il proprio consenso tenendo conto dei fattori di rischio insiti nell’anestesia e nell’intervento chirurgico in sé. Da questo tipo di attività terapeutica — che si può definire complessa, in quanto coinvolge fasi diverse con altrettanti fattori di rischio — devono distinguersi invece i trattamenti terapeutici ciclici, ovvero quelle terapie che richiedono la ripetizione in un dato arco temporale di attività mediche analoghe, aventi i medesimi fattori di rischio, come nel caso della chemioterapia. Ebbene, in relazione allo svolgimento di tali attività mediche, una volta espresso sulla base di un’informazione completa e relativa allo svolgimento dell’intera terapia, il consenso iniziale non deve essere di volta in volta rinnovato, anche ove il medico, che esegue una fase della terapia, sia diverso da quello che all’inizio del trattamento ha ricevuto il consenso espresso. Come noto, per la validità del consenso non è richiesta una forma ad substantiam; è sufficiente pertanto che il consenso venga prestato oralmente, purché in modo inequivoco. Quanto alla prassi di far sottoscrivere al paziente un documento da cui risulta l’accettazione dell’atto medico, essa è di per sé apprezzabile. Si tratta per lo più di moduli che, predisposti per specifiche tipologie di atti medici, talvolta vengono controfirmati da un testimone. Va anche detto però che questa prassi, oramai diffusa e generalizzata, si preoccupa più di garantire il medico provando la liceità del suo operato, che di assicurare l’effettività del consenso del paziente al trattamento terapeutico (26). Proprio perché la sottoscrizione di un siffatto modulo costituisce un espediente probatorio a tutela del medico, essa non deve banalizzare né burocratizzare l’informazione del paziente, sostituendo il dialogo con il terapeuta. In breve: la legittima ricerca di una garanzia per il medico non deve vanificare gli inalienabili diritti del malato. Il consenso, infine, è sempre revocabile. Anche questo insegnamento, (25) Così, sostanzialmente, Cass. civ., sez. III, 15 gennaio 1997, n. 364, Scarpetta c. USL n. 12 Ancona, in Giur. it., 1998, p. 37, con nota di F. GACCIA, ivi, p. 38 s. (26) In argomento, v. M. PORTIGLIATTI BARBOS, Il modulo medico di consenso informato: adempimento giuridico, retorica, finzione burocratica?, in Dir. pen. proc., 1998, p. 894 s.
— 385 — però, richiede qualche precisazione, dato che, se non vi è dubbio che la revoca del consenso sia sempre vincolante quando interviene prima che abbia inizio la terapia, più problematica appare la validità della revoca che sopraggiunge durante lo svolgimento dell’attività medica. In quest’ultimo caso, infatti, può accadere che la revoca del consenso, magari dettata dalle sensazioni di dolore procurate dalla terapia, non corrisponda all’intima volontà del paziente e soprattutto determini una situazione di rischio per la salute del paziente, addirittura maggiore di quella in cui questi versava prima che avesse inizio l’attività medica. Si pensi all’odontoiatra che ha effettuato un’incisione per asportare un molare: nel caso in cui il soggetto assistito revochi in modo categorico il consenso precedentemente prestato, forse che il medico ha il dovere di lasciare il paziente sanguinante e magari soggetto al rischio di una grave emorragia? Ora, per una corretta impostazione della questione, non sembra che si possa addossare al medico il compito di accertare la genuinità della revoca del consenso; tanto più che, nello svolgimento dell’attività terapeutica, il medico ha altro di cui occuparsi, con la conseguenza che non sarebbe davvero esigibile l’osservanza di un dovere così difficile da adempiere, specie nel frangente in cui si compie l’atto medico. È da ritenersi pertanto che vi siano casi in cui la revoca del consenso non rende per ciò stesso illecito il prosieguo dell’atto medico, trattandosi di situazioni nelle quali, mentre il consenso al trattamento terapeutico è libero e informato, il dissenso sopraggiunto è fortemente condizionato. Ma — a ben vedere — le ipotesi cui si fa adesso riferimento sono poco frequenti, in quanto si suppone che la revoca del consenso intervenga durante uno stato di sofferenza, non contenibile attraverso un uso degli antidolorifici conforme alle leges artis, e che il paziente, informato in precedenza del tipo di sofferenza insito nella terapia, l’abbia accettata ugualmente. 4. Ma in cosa consiste il consenso informato? L’interrogativo — va da sé — impone di chiarire quali devono essere l’oggetto e le condizioni di validità del consenso al trattamento terapeutico. Ora, per quanto concerne l’oggetto del consenso, va detto subito che esso costituisce il profilo del rapporto tra medico e paziente, che è stato più profondamente innovato dall’odierno insegnamento, secondo cui il tradizionale requisito del ‘‘consenso’’ può legittimare l’atto medico solo in quanto venga prestato da un paziente ‘‘informato’’. Come si è avuto modo di anticipare, infatti, fino a non molto tempo fa si riteneva che per la validità del consenso fosse sufficiente esclusivamente la consapevolezza del paziente di subire l’attività del medico, come attività genericamente caratterizzata da finalità terapeutiche. Attualmente, l’orientamento prevalente ritiene invece che un’adeguata informazione del paziente funga da presup-
— 386 — posto necessario di un valido consenso (27) e che il consenso informato sia richiesto in linea di principio per qualunque atto medico. Ma quand’è che l’informazione si può dire adeguata? In altri termini: quali e quante informazioni devono essere fornite dal medico al paziente? Com’è intuitivo, la questione è assai delicata e controversa. Si comprende, pertanto, che, in assenza di indicazioni legislative espresse, diverse sono le strade percorse allo scopo di individuare l’ambito di doverosità dell’informazione. E non sono mancati finanche tentativi di risolvere il problema analizzando il rapporto tra medico e paziente sotto il profilo privatistico: mutuando cioè dal diritto civile possibili schemi di valutazione del quantum di informazione doverosa. Più precisamente, muovendo dal rilievo che tra medico e paziente intercorre un contratto d’opera professionale, si è osservato, ad esempio, che sul medico grava il ‘‘dovere di informare la controparte delle circostanze rilevanti dell’affare’’, quale ‘‘tipica espressione del dovere di comportarsi secondo buona fede nella trattava pre-contrattuale’’ (28). Per altro verso, il dovere di informazione è stato ricondotto alla funzione di tutela, che è propria del principio del neminem laedere. Si è ritenuto cioè che il dovere di informazione del medico svolga una ‘‘funzione conservativa, anziché attuativa dell’identità personale concretamente rilevante’’; e si è concluso che l’interesse protetto dal dovere di informazione è costituito dalla salute del soggetto, in sé considerata (29). Sennonché, questa impostazione del problema non risulta appagante, stante l’evidente inadeguatezza dell’approccio civilistico a modellare i contorni e l’ampiezza di un dovere — quello di informare il paziente sulle caratteristiche e i coefficienti di rischio dell’atto medico — la cui funzione si coglie soprattutto sul versante dei rapporti di diritto pubblico, nel cui ambito si inscrive la tutela dei beni fondamentali della persona. Non a caso, infatti, muovendo da una visione meramente negoziale dei rapporti tra medico e paziente, si giunge a impostare il fondamento del dovere di informazione in termini oggettivi, prescindendo cioè dal considerare il bisogno di informazione del singolo paziente; un profilo, quest’ultimo, che perde gran parte della sua rilevanza nel contesto di una visione negoziale dei rapporti tra medico e paziente. Senza contare poi che, assumendo come obiettivo finale del dovere di informazione la tutela della salute in sé, anziché la libertà di autodeterminazione terapeutica, si perviene a conclusioni addirittura in contrasto con lo spirito dei principi costituzionali in (27) Cfr. per tutti M. POLVANI, op. loc. ult. cit. (28) Così T. MASSA, op. cit., p. 412. Analogamente, v. P. LONGO, Responsabilità medica e consenso informato in Germania e in Italia, in Dir. econom. assicur., 1997, p. 261. (29) Cfr. S. VICIANI, L’autodeterminazione « informata » del soggetto e gli interessi rilevanti (a proposito dell’informazione sul trattamento sanitario), in Rass. dir. civ., 1996, p. 283.
— 387 — materia. Il riferimento è alla ritenuta discrezionalità del medico in relazione al quantum di informazione da fornire e alla surrogazione dei parenti del paziente nel ruolo di destinatari dell’informazione medica (30). Del resto, parimenti inadeguato risulta il criterio, per lo più praticato negli U.S.A., che intende modellare la misura dell’informazione doverosa in base al parametro della prassi medica, correlato a sua volta allo stato delle conoscenze scientifiche (31). Si tratta infatti di un criterio di giudizio ancora sfuggente e incerto. Oltre tutto, così ragionando, si rischia di frustrare la ragion d’essere del consenso informato, dato che il parametro della prassi medica, assumendo come punto di riferimento il modello del medico di media diligenza, si attesterà verosimilmente su livelli ancora bassi e approssimativi di informazione. A risultati non molto dissimili, infine, conduce la tesi secondo cui l’adeguatezza dell’informazione va riferita a un astratto modello di paziente, ragionevole e dotato di conoscenze medie (32). È fin troppo evidente che un siffatto criterio, standardizzando l’aspettativa di informazione, mortifica l’esigenza di un’informazione personalizzata e con essa il diritto di ciascun paziente ad essere adeguatamente edotto; non può trascurarsi infatti che i pazienti presentano caratteristiche talvolta assai diverse tra loro sia sotto il profilo culturale, sia per quel che concerne il modo di affrontare la malattia. Sulla scorta di quanto si è osservato, va preso atto dunque che, se non si vogliono banalizzare il significato e le funzioni del consenso informato, non resta che ritagliare il dovere di informazione in base al parametro relativo del bisogno di conoscenza espresso dal paziente concreto, in vista della sua libera decisione di sottoporsi al trattamento medico. Il quantum di informazione doverosa va individuato cioè attraverso un criterio finalistico, che esalta la funzione strumentale dell’informazione rispetto alla consapevole autodeterminazione terapeutica. In questa prospettiva, il medico sarà tenuto a fornire quel complesso di informazioni adeguate al livello culturale del paziente e necessarie affinché questi possa comprendere la situazione clinica e decidere consapevolmente, tenendo conto delle probabilità di successo della terapia, dei suoi coefficienti di rischio (tanto di quelli insiti nel trattamento medico, quanto di quelli che attengono alle possibili complicanze), delle terapie alternative, dell’invasività dell’intervento prospettato, del livello presumibile di sofferenza e via dicendo (33). Di conseguenza, l’impegno che il medico dovrà profondere (30) In tal senso, v. S. VICIANI, op. cit., p. 283 e p. 305. (31) Cfr. in argomento A. SANTOSUOSSO, op. cit., p. 7. (32) Per questa soluzione, v.: S. VICIANI, op. cit., p. 307; T. MASSA, op. cit., p. 417. Sul punto, in senso critico, cfr. U.G. NANNINI, Il consenso al trattamento medico, Milano, 1989, p. 455; e di recente A. SANTOSUOSSO, op. loc. cit. (33) Per non dissimili rilievi, v. M. POLVANI, op. ult. cit., c. 735 s.
— 388 — nell’informazione sarà diverso a seconda che il paziente sia un suo collega, specialista nel tipo di terapia cui verrà sottoposto, o un soggetto dotato di modeste conoscenze mediche e caratterizzato da una forte emotività. In ogni caso, il medico svolgerà egregiamente il proprio compito informativo restando altresì a disposizione del paziente per eventuali chiarimenti, che questi vorrà richiedere. Sennonché, affermare che il compito informativo del medico è subordinato alle esigenze conoscitive di ogni singolo paziente non equivale a imporre al medico un obbligo di informazione illimitato, il cui adempimento risulti finanche vessatorio o sproporzionato rispetto ai coefficienti di rischio insiti nel trattamento terapeutico. La necessità di introdurre dei limiti al dovere di informazione che grava sul medico discende dalla consapevolezza che un’informazione assolutamente completa ed esaustiva non è nemmeno possibile, dato che essa presupporrebbe cognizioni tecniche che si acquisiscono in anni di studio e di esperienza professionale. Pertanto, affinché l’informazione possa dirsi completa è sufficiente che il paziente sia stato messo al corrente di quegli elementi del quadro clinico necessari o anche solo utili per una sua scelta ragionevole; il medico non ha l’obbligo, invece, di assecondare richieste di spiegazione su dati meramente tecnici che, attenendo esclusivamente alle modalità esecutive della terapia, non presentano alcuna incidenza sui fattori di rischio e di successo del trattamento medico. Per l’altro verso, non dovrebbe revocarsi in dubbio che, sebbene il consenso informato sia necessario per qualunque attività medica, lo standard di informazione necessaria possa variare a seconda dell’incidenza del singolo atto medico sulla salute del paziente. Diversamente opinando, infatti, si rischia di burocratizzare inutilmente anche la semplice somministrazione di un analgesico per il mal di testa (34). Sulla scorta di queste considerazioni, è da ritenersi dunque che la completezza dell’informazione debba crescere in proporzione all’importanza dei beni coinvolti e dei coefficienti di rischio dell’atto medico; ragion per cui la sussistenza del consenso informato non potrà che essere apprezzata bilanciando il diritto all’informazione del paziente sia con l’incidenza del trattamento terapeutico sui beni della persona, sia con i coefficienti di rischio insiti nello specifico trattamento terapeutico. 5. È fin troppo evidente che, quale presupposto di un valido consenso all’atto medico, l’informazione del paziente, oltre che adeguata, deve essere veritiera in relazione sia alla diagnosi, sia alla prognosi, che vanno prospettate al soggetto assistito con realismo e tenendo conto — là (34) Ritiene invece che si debbano « comunicare al paziente anche gli effetti positivi e negativi dell’Aspirina o del Lasonil », V. FRESIA, Luci e ombre del consenso informato, in Riv. it. med. leg., 1994, p. 903.
— 389 — dove possibile — dei dati statistici di cui dispone la scienza medica circa le possibilità di riuscita della terapia. Naturalmente, ciò non significa che il medico sia obbligato a un atteggiamento di brutale franchezza, tale da sconvolgere o addirittura scoraggiare il paziente. Pur senza alterare la rappresentazione del quadro clinico e delle sue possibili evoluzioni, nel fornire l’informazione doverosa il medico è tenuto al rispetto di determinate modalità, idonee ad assicurare una decisione del paziente serena e, conseguentemente, una valida formazione del suo consenso alla terapia. In particolare, viene qui in rilievo il momento in cui fornire l’informazione e acquisire il consenso. Va da sé, infatti, che l’importanza dell’informazione e il valore del consenso risultano grandemente scemati se intervengono in un frangente in cui il paziente versa in una condizione di notevole sofferenza. Ne consegue che, ove il sopraggiungere di uno stadio acuto di dolori sia prevedibile, il medico ha il dovere di anticipare l’attività di informazione e la stessa richiesta del consenso, di modo che il paziente possa effettuare le sue valutazioni come meglio è possibile. Così — e per fare un esempio — una prassi in via di affermazione suggerisce di evitare che l’informazione delle partorienti, in relazione ad esempio alla necessità del parto cesareo, avvenga durante lo stress del travaglio; in effetti, in molti casi, potendosi prevedere la data del parto con sufficiente approssimazione, il medico è in grado di informare la donna qualche giorno o anche qualche settimana prima del parto, salvo a chiederle al sopraggiungere delle doglie la conferma del consenso sulla base dell’informazione già fornitale. Con ciò non si esclude che si possano profilare situazioni in cui l’informazione del paziente risulti addirittura pericolosa per la sua salute. Si faccia il caso di un soggetto cardiopatico e fortemente emotivo, che rischi di essere seriamente danneggiato dallo stress emotivo connesso alla conoscenza del suo quadro clinico. Com’è evidente, in tali ipotesi il dovere di informare entra in conflitto con un altro fondamentale dovere giuridico e deontologico che grava sul medico, qual è quello di non pregiudicare la salute del paziente. Ebbene, per inquadrare correttamente la questione, è necessario distinguere a seconda che l’intervento terapeutico risulti o meno indifferibile. Infatti, solo quando l’atto medico non appaia rinviabile, la mancanza di un’informazione adeguata e l’invalidità del consenso eventualmente prestato dal paziente non determinano l’illegittimità dell’atto medico. Diversamente, ove l’intervento terapeutico sia differibile, il dovere di informazione persiste inalterato, talché la particolare vulnerabilità emotiva del paziente rileverà unicamente sul piano, già considerato, della scelta del momento in cui è più opportuno porgere le informazioni e del tatto necessario con cui il medico deve compiere il proprio dovere informativo. Altra questione è invece quella che attiene al diritto del paziente di
— 390 — rifiutare l’informazione e di prestare un consenso all’atto medico, per così dire, in bianco, disgiunto cioè da una rappresentazione delle conseguenze della terapia e dei suoi coefficienti di rischio. È questo, a ben vedere, un autentico limite esterno al dovere di informazione che grava sul medico, sulla cui legittimità non dovrebbero sussistere dubbi. In effetti, se l’informazione del paziente è strumentale alla piena attuazione della sua autodeterminazione terapeutica, è chiaro che essa è oggetto di un diritto disponibile al pari del diritto di curarsi. In breve, se si ammette il diritto di rifiutare le cure (35), deve riconoscersi altresì che il soggetto assistito possa esonerare il terapeuta dal compito informativo, costituendo l’informazione medica un diritto del paziente (36), non un suo dovere. Un ultimo problema riguarda l’individuazione del soggetto tenuto allo svolgimento del compito informativo. Ora, posto che il consenso ha ad oggetto l’atto medico rappresentato al paziente, è certamente preferibile che l’informazione provenga direttamente dal medico che effettuerà la terapia. Non vi sono ragioni, però, per escludere che quest’ultimo possa anche delegare a terzi il compito di informazione (37). Il punto merita attenzione, poiché il meccanismo della delega rischia di vanificare la finalità dell’informazione medica tutte le volte in cui il soggetto delegato non sia in grado di assolvere alla funzione affidatagli, ovvero nelle ipotesi in cui il delegato si limiti a ripetere verbalmente quanto è scritto in un opuscolo, che si offre in lettura al paziente. Sotto il profilo dei risultati, queste modalità informative non differiscono nella sostanza dal freddo rituale, che esaurisce l’informazione medica alle sole e criptiche notizie contenute nel modulo sottoscritto dal paziente. Ne consegue che la delega avrà valore solo allorché il soggetto delegato sia anch’egli un medico dotato di una diretta competenza allo svolgimento della specifica terapia che illustra al paziente, e sempre che, a sua richiesta, il paziente possa conferire direttamente con il medico che effettuerà il trattamento terapeutico. Diversamente opinando, infatti, la delega del compito informativo finisce per creare un’intercapedine tra il paziente e il ‘‘suo’’ medico. 6. Passando a considerare la validità del consenso sotto il profilo della capacità di chi lo presta (38), va tenuto presente che il soggetto giuridicamente capace di agire, ai sensi del codice civile, può perdere parte delle sue facoltà di discernimento a causa della malattia che lo affligge, (35) Per le indicazioni bibliografiche essenziali, v. supra nota n. 12. (36) In tal senso dispone infatti l’art. 30, comma 4, del nuovo codice di deontologia medica: « La documentata volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad un altro soggetto l’informazione deve essere rispettata ». (37) Così anche T. MASSA, op. cit., p. 416. Contra, v. M. BILANCETTI, La responsabilità penale e civile del medico, 3a ed., Padova, 1998, p. 189. (38) In argomento, di recente, v. per tutti A. SANTOSUOSSO, op. cit., p. 186 s.
— 391 — ovvero per effetto dei farmaci somministratigli. Ebbene, poiché la validità del consenso dipende solo dalla capacità reale del paziente, è fin troppo evidente che in questa materia non vi è spazio per presunzioni: né per quelle che — muovendo dalla nozione civilistica di capacità di agire, peraltro concepita con riferimento ad atti di natura patrimoniale — portano ad affermare la piena capacità del paziente non interdetto e non inabilitato; né per quelle che procedono dall’assioma che certi stati patologici e determinate situazioni psicologiche comportino necessariamente una diminuzione delle facoltà di discernimento. In effetti, la questione non ammette altra soluzione che quella di una valutazione in concreto, anche se non va sottaciuta la difficoltà che può presentare tale accertamento in situazioni particolari; si pensi ad esempio al delicato campo della geriatria (39). Di conseguenza, finché le capacità residue del paziente gli consentiranno di effettuare una consapevole scelta terapeutica, il medico è tenuto al suo dovere di informazione e al rispetto delle determinazioni del paziente. Per converso, di fronte al soggetto incapace, la doverosità dell’attività medica prescinde dal consenso informato tutte le volte in cui il trattamento risulta ragionevolmente indifferibile (40). A ben vedere, infatti, in questa ipotesi la legittimità dell’atto medico va rinvenuta nei principi costituzionali di ispirazione solidaristica, e primo tra tutti nel principio generale stabilito dall’art. 2 Cost. La ragione di ciò è evidente: il paziente che si trova in stato di incoscienza, mentre può essere oggetto di un intervento solidaristico effettuato nel suo migliore interesse terapeutico, non può essere soggetto di una libera determinazione terapeutica. Da altra angolazione: nei confronti del paziente incosciente solo il principio solidaristico, che esalta il profilo altruistico dell’attività medica, presenta una precettività diretta e un’attualità incondizionata; non anche l’istanza personalistica, la cui rilevanza è subordinata all’esistenza di un testamento biologico (living will), ovvero alla predisposizione di una dichiarazione con cui un soggetto, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, dà disposizioni in merito alle terapie che desidera ricevere e a quelle che intende rifiutare, nel caso in cui si venga a trovare in uno stato di incoscienza (41). Tanto considerato in termini generali, possono verificarsi situazioni, in cui l’informazione del paziente e l’accertamento del suo consenso informato presentano delle particolarità. (39) Cfr. ampiamente L. DE CAPRIO, R. PRODOMO, P. RICCI, A. DI PALMA, A. BOVE, Consenso informato e decadimento cognitivo, in Riv. it. med. leg., 1998, p. 905 s. (40) Sul punto, v. G. DALLA TORRE, Sperimentazione e consenso. A proposito delle « norme di buona pratica clinica », in Iustitia, 1992, p. 326. (41) Sulla tematica del testamento biologico v., tra gli altri: P. RESCIGNO, La fine della vita umana, in Rass. dir. civ., 1982, p. 651 s.; M. LAGAZZI, Il dialogo ambiguo. Riflessioni sull’eutanasia del paziente terminale, in Rass. criminol., 1986, p. 196; M. BARNI, I testamenti biologici: un dibattito aperto, in Riv. it. med. leg., 1992, p. 171.
— 392 — A) Il riferimento è anzitutto al caso in cui il paziente si trovi in condizioni di sofferenza, tali da attenuare o escludere una libera autodeterminazione terapeutica. Ora, in tali situazioni, non sembra che possa farsi a meno di distinguere a seconda del grado di tollerabilità del dolore, dando necessariamente per scontata l’apprezzabilità di un dato soggettivo e variabile qual è quello della soglia oltre la quale la sofferenza diventa intollerabile. In effetti, quando il medico interviene in presenza di dolori insopportabili e la sua terapia è finalizzata alla loro attenuazione, la subordinazione dell’attività medica al consenso informato del paziente può risultare un epilogo addirittura crudele, specie ove ciò comporti il differimento dell’intervento medico per il tempo necessario all’informazione preliminare del soggetto assistito. Non va trascurato poi che, in tali frangenti, l’adempimento del dovere di informazione da parte del medico rischia di risolversi nell’inflizione al paziente di un patimento anche inutile, stante le diminuite capacità di discernimento del soggetto che è in preda a forti dolori. Ebbene, per evitare conclusioni paradossali, va tenuto presente che, come si è visto, l’informazione è un diritto disponibile, cui il paziente può rinunciare, esonerando conseguentemente il medico dall’attività di informazione. In breve: nel caso in esame, per la liceità dell’intervento terapeutico è sufficiente che il paziente acconsenta all’intervento terapeutico; requisito, questo, ricavabile già dal fatto di essersi recato spontaneamente dal medico o a fortiori dall’aver richiesto il suo intervento. Diversamente, allorché lo stato di sofferenza possa considerarsi sopportabile, il medico non è esentato dall’obbligo di informazione, anche se rimane un diritto del paziente rinunciarvi. A ben vedere, i termini della questione non mutano nell’ipotesi in cui l’attività terapeutica, svolta su un paziente in preda a forti dolori, necessiti il compimento di un atto medico improcrastinabile, che comporta delle ricadute negative sul paziente. In particolare, si ipotizzi il caso in cui il medico abbia di fronte a sé due possibilità di intervento che presentano opposti vantaggi e inconvenienti, in quanto la terapia che consente una guarigione più completa è per contro la più rischiosa e magari anche più dolorosa: nel senso che presenta minori probabilità di riuscita, al prezzo di notevoli sofferenze. Ebbene, là dove il paziente non intenda o non sia in grado di effettuare una scelta terapeutica, è sul medico che grava la decisione relativa al tipo di terapia da praticare, quale implicazione della sua più generale posizione di garanzia. E poiché la vita è un valore non solo supremo, ma anche indisponibile manu alius, il medico dovrà optare per la terapia più idonea alla conservazione della vita, ancorché mutilante e dolorosa, preferendola a quella più rischiosa per la vita, che — in caso di esito positivo — porta a una guarigione ottimale. Il principio in dubio pro vita, infatti, ha una portata generale, che opera in relazione a tutti i casi in cui il paziente non intenda o non sia in grado di autodeterminarsi liberamente.
— 393 — B) Un’altra situazione problematica è quella del malato terminale, ovvero del paziente per il quale sono possibili solo palliativi. In questo caso ci si chiede se è necessario che il medico informi il paziente, rendendolo edotto sulle scarse possibilità di sopravvivenza (42). Ebbene, per un’appropriata impostazione del problema va richiamato ancora una volta il valore strumentale dell’informazione rispetto all’autodeterminazione terapeutica. Ne consegue che, quando il decorso della malattia non ammette speranze di salvezza e rende conseguentemente vana qualunque terapia, l’informazione del paziente perde la sua funzione di presupposto dell’autodeterminazione terapeutica. In questo contesto, dunque, la prosecuzione del trattamento a prescindere dall’informazione non infrange il diritto del paziente all’autodeterminazione terapeutica e mantiene la sua liceità fintanto che il soggetto assistito non vi si opponga. Semmai, l’eventuale laconicità del medico, che pietatis causa tace al paziente l’imminenza della morte, si pone in tensione con un altro diritto dell’uomo, qual è quello di prepararsi al proprio trapasso. Allo stato della legislazione vigente, però, tale diritto non ha una tutela penale. Nondimeno, il nuovo codice di deontologia medica non trascura del tutto questo aspetto; l’art. 30, comma 2, dispone infatti che ‘‘ogni ulteriore richiesta da parte del paziente deve essere soddisfatta’’. È fin troppo evidente, però, che qui il dovere di informare non è incondizionato, poiché esso scatta in capo al medico in tanto che vi sia una richiesta di informazione da parte del paziente. C) Almeno un cenno merita infine la delicata tematica del consenso informato nei confronti del malato mentale (43). Per un corretto sviluppo della tematica, occorre distinguere a seconda che si tratti di persona interdetta o meno. Nel primo caso ci si scontra con una normativa inadeguata per difetto, in quanto, ispirandosi alla tutela degli interessi patrimoniali dell’incapace, trascura i diritti dell’incapace come persona. Le norme del codice civile, infatti, stabiliscono che al soggetto interdetto per abituale infermità di mente provvede il tutore (art. 424 c.c.), il quale si assume la cura della persona dell’incapace. Con questa formulazione, ampia e comprensiva, dunque, l’ordinamento sembra negare in termini troppo rigidi la capacità di autodeterminazione terapeutica dell’incapace, con la conseguenza di svuotare l’importanza del consenso informato nei confronti dell’interdetto. Infatti, solo nel caso in cui la terapia sia differibile, l’eventuale contrasto tra la volontà del paziente interdetto e quella del suo rappresentante legale può dar luogo all’intervento del giudice tutelare: ma è questo (42) In termini generali, v. A. SANTOSUOSSO, op. cit., p. 97 s. (43) In argomento, v. da ultimo G. FERRANDO, Incapacità e consenso al trattamento medico, in Pol. dir., 1999, p. 147 s.
— 394 — un rimedio eccezionale, che, come tale, ha un ambito operativo residuale. Assai opportunamente, dunque, il nuovo codice di deontologia medica provvede ad attenuare i limiti della disciplina vigente, allestendo una tutela surrogatoria affidata a sanzioni disciplinari: invero, fermo restando che nei confronti dell’interdetto il consenso deve essere prestato dal rappresentante legale (art. 33), l’art. 34, comma 3, stabilisce che il medico ha l’obbligo di informare l’infermo di mente e di tenere conto della sua volontà, compatibilmente con la capacità di comprensione e nel rispetto dei diritti del legale rappresentante. Per espressa previsione dell’art. 34, comma 3, questa procedura si applica anche nei confronti del soggetto inabilitato: è fin troppo evidente, però, che, ai fini del consenso informato, ben diversa è la situazione dell’inabilitato rispetto a quella dell’interdetto. L’art. 415 c.c., infatti, oltre a riconoscere al soggetto inabilitato la capacità residua di provvedere ai propri interessi, connette assai chiaramente l’istituto dell’inabilitazione alla tutela di interessi prettamente economici. Ne consegue che, in relazione al soggetto inabilitato, non vi sono elementi normativi per escludere il carattere personale del consenso al trattamento medico. Nel caso di persona incapace non interdetta, invece, la normativa di riferimento appare inadeguata per eccesso, nel senso che, enfatizzando il principio dell’autodeterminazione terapeutica, non tiene conto della situazione di incapacità in cui versa il paziente. Va considerato, infatti, che, per il diritto vigente, il principio dell’incoercibilità del trattamento medico incontra una delle deroghe più significative proprio nel trattamento psichiatrico obbligatorio, che, come noto, scatta in presenza di alcune tassative condizioni e nel rispetto delle procedure stabilite dalla legge 23 dicembre 1978, n. 833. Pertanto, finché non ricorrono i presupposti del trattamento psichiatrico obbligatorio, anche la cura della malattia mentale è soggetta al principio del consenso informato; come viene da più parti sottolineato, infatti, la legge n. 833 del 1978 equipara, sotto il profilo del consenso all’atto medico, il malato di mente a qualsiasi paziente (44). Il problema qui è di tutta evidenza: l’autodeterminazione terapeutica presuppone la piena capacità mentale del paziente, là dove nelle malattie mentali è proprio questa capacità ad essere compromessa dalla patologia. Da qui il rischio che, nei confronti dell’incapace privo di un rappresentante legale, una difesa troppo intransigente del principio personalistico, sub specie dell’autodeterminazione terapeutica del paziente, porti di fatto a privatizzare il dramma del disagio mentale, addossandolo esclusivamente al soggetto disturbato e alla sua famiglia. Il rischio, in breve, è quello di postulare la necessità sempre e comunque di un consenso, che si (44) Cfr. G. MASOTTI, T. SARTORI, G. GUAITOLI, Il consenso del malato di mente ai trattamenti sanitari, in Riv. it. med. leg., 1992, p. 305.
— 395 — fonda su una presunzione di capacità insuperabile. Ora, al fine di scongiurare epiloghi incongruenti, è opportuno distinguere ulteriormente a seconda del tipo di intervento terapeutico di cui necessita l’incapace. Ebbene, se quest’ultimo abbisogna di un trattamento finalizzato alla cura del suo disturbo mentale, il consenso informato del paziente è una condizione da cui non può prescindersi, salvo che non ricorrano gli estremi del trattamento psichiatrico obbligatorio. È proprio questo, infatti, l’epilogo voluto dalla legge n. 833 del 1978, la cui ratio non può essere disattesa dall’interprete. Diversamente, quando l’intervento terapeutico non persegue la salute mentale, ma ha altri obiettivi terapeutici (si pensi a un qualsiasi intervento chirurgico), il consenso informato del paziente sarà necessario nella misura in cui egli sia effettivamente in grado di autodeterminarsi. Almeno in questi casi, cioè, si può ritenere che non operi la presunzione di capacità stabilita dalla legge n. 833 del 1978, sicché la questione va valutata secondo i principi generali, ovvero attraverso un accertamento in concreto della capacità di autodeterminazione terapeutica del paziente. 7. I rilievi fin qui svolti aiutano a impostare il tormentato capitolo della legittimità dell’atto medico, quando ha come destinatario un minore. Anche in questo caso, infatti, bisogna muovere da un tessuto normativo assai inadeguato, dato che — come noto — il codice civile stabilisce una presunzione di incapacità del minore, ritenuta, almeno in linea di principio, vincolante ai fini del suo trattamento medico. Ne consegue che, secondo una parte della dottrina, il consenso all’atto medico deve essere espresso dal rappresentante legale, al quale deve indirizzarsi anche l’informazione necessaria per la formazione del consenso (45). Più precisamente, fermo restando che la titolarità del potere di esprimere il consenso spetta, di regola, ai genitori esercenti la potestà, si ritiene che la disciplina civilistica vada seguita anche nel caso di contrasto tra padre e madre (46); se ne trae la conseguenza che, ai sensi dell’art. 316, comma 4, c.c., il padre può adottare i provvedimenti urgenti e indifferibili tutte le volte che sussiste l’incombente pericolo di un grave pregiudizio per il figlio (47). Sennonché, con riferimento al minore, la tendenza dottrinale a impostare il problema del consenso informato sulla base delle norme civilistiche che regolano la capacità di agire, può condurre a risultati ancora più insoddisfacenti di quelli cui — muovendo dalle stesse premesse normative — si perviene in relazione al soggetto interdetto. Nel caso del minore, infatti, una siffatta incapacità viene affermata dal legislatore in termini (45) Nella letteratura recente, v. V. FRESIA, op. cit., p. 903. In precedenza, v. in tal senso A. CRESPI, La responsabilità penale nel trattamento medico-chirurgico con esito infausto, Palermo, 1955, p. 63. (46) Cfr. T. MASSA, op. cit., p. 419. (47) Cfr. E. CECCARELLI, in Il consenso informato, cit., p. 140.
— 396 — esclusivamente presuntivi, talché essa risulta particolarmente inadatta a fungere da base per una ricostruzione del consenso del minore all’atto medico. Proprio per questa ragione, un orientamento che registra crescenti adesioni ritiene all’opposto che, ai fini del trattamento medico, si debba guardare piuttosto alla concreta capacità di autodeterminazione (48), con la conseguenza che il consenso deve essere prestato anche dal soggetto legalmente incapace e tuttavia capace di intendere e di volere (49). E non manca infine chi, assumendo una posizione per così dire intermedia, individua, anche in base agli spunti offerti della normativa extracodicem (50), tre diverse fasce di età (51), riconnettendo a ciascuna di esse diversi livelli di capacità del minore (52). La questione in esame — va da sé — non è puramente accademica, come dimostra la casistica che è da tempo al centro dell’attenzione della giurisprudenza. In particolare, il tema del consenso al trattamento medico ha assunto la massima problematicità, allorché si prenda in considerazione il comportamento dei genitori, Testimoni di Geova, che si oppongono all’emotrasfusione necessaria per la cura dei figli minori. Com’è fin troppo evidente, infatti, in questi casi la tematica dell’autodeterminazione terapeutica si arricchisce di un ulteriore profilo, avente anch’esso rilevanza costituzionale, qual è il diritto alla libertà religiosa e all’educazione della prole (53). Tanto considerato, per un corretto inquadramento della delicata questione è opportuno ricordare che, quale espressione del principio personalistico, il consenso informato costituisce un elemento di bilanciamento e di contenimento del principio solidaristico che anima l’atto medico. D’altro canto, va pure considerato che il potere conferito dalla legge al rappresentante legale è funzionale al perseguimento del migliore interesse del minore. Ne consegue che quando l’atto medico risulta necessario e indifferibile per evitare un grave danno alla salute del minore, sarà irrilevante l’eventuale volontà contraria sia del minore, sia del suo rappresentante le(48) V. ad esempio: A. BONELLI, A. GIANNELLI, Consenso e attività medico-chirurgica: profili deontologici e responsabilità penale, in Riv. it. med. leg., 1991, p. 15; M. BILANCETTI, op. cit., p. 173. (49) Cfr. S. DEL CORSO, op. cit., p. 559. (50) Si pensi alla l. 22 maggio 1978, n. 194, che, seppure a determinate condizioni, riconosce rilevanza alla volontà della donna minore degli anni diciotto, che intenda interrompere la gravidanza (v. in particolare l’art. 12). (51) V. soprattutto U. NANNINI, op. cit., p. 415 s., il quale distingue a seconda che il minore abbia meno di quattordici anni, meno di sedici anni o non raggiunga ancora la maggiore età. (52) Cfr. anche M. ANGELINI ROTA, G. GUALDI, In tema di consenso del minore al trattamento medico-chirurgico, in Giust. pen., 1980, I, c. 370 s. (53) In argomento, v. G. FURGIUELE, Diritto del minore al trattamento medico-sanitario, libertà religiosa del genitore, intervento e tutela statuale, in Giur. it., 1983, IV, c 349 s.
— 397 — gale. Il medico interverrà e la sua condotta sarà lecita perché imposta dalla posizione di garanzia (semmai, solo ove non ricorra quest’ultima situazione, l’attività terapeutica potrà considerarsi facoltizzata dallo stato di necessità). Diversamente opinando, infatti, si finirebbe per trascurare, da un lato, che per il minore la salute è un bene ancora indisponibile, e dall’altro lato che, opponendosi al trattamento medico necessario e indifferibile, il rappresentante legale verrebbe meno alla sua funzione, talché la sua volontà non potrebbe ritenersi in alcun modo vincolante. In breve: il riferimento all’istituto della rappresentanza legale del minore non trasferisce sul rappresentante un potere incondizionato di disporre della salute del minore, anche perché la disponibilità della propria salute è un diritto personalissimo, che peraltro il minore non ha ancora maturato, con la conseguenza che sulla salute del minore gravano vincoli pubblicistici di indisponibilità, che valgono anche per il suo rappresentante legale. Si spiega così l’irrilevanza della volontà — concorde o meno — sia del minore, sia del suo rappresentante quando il rifiuto del trattamento medico può compromettere seriamente la salute del minore: il bene della salute ha una rilevanza costituzionale, tale da giustificare la presunzione di incapacità di chi non ha raggiunto la maggiore età e da neutralizzare le determinazioni del rappresentante legale, che possono pregiudicare i diritti fondamentali del soggetto rappresentato. Ma allora qual è il potere di intervento del rappresentante legale? Per individuarlo, occorre concentrare l’attenzione sugli atti medici che non presentano almeno una delle caratteristiche anzidette: atti cioè che risultano differibili o che non incidono seriamente sul bene della salute. In tali casi, al rappresentante legale spetta il compito di valutare il miglior interesse terapeutico e di conciliarlo con gli altri doveri che egli ha nei confronti del minore, tra cui spicca quello educativo. Pertanto, il rappresentante legale potrà decidere di differire l’atto medico, purché tale differimento non costituisca di per sé un serio pregiudizio per la salute del soggetto rappresentato. E ancora: nell’ambito delle terapie possibili e parimenti efficaci, il rappresentante legale potrà scegliere quella che, nell’interesse complessivo del minore, ritiene più adatta. Così, quando nella cura di una malattia esistono diverse metodiche terapeutiche, spetta al rappresentante legale esprimere una preferenza nell’interesse del minore. Si pensi alla cura della depressione, che conosce approcci organicistici favorevoli alla terapia farmacologica e orientamenti a sfondo psicoanalitico che inclinano per la psicoterapia. È sempre in questa prospettiva, poi, che va inquadrato e riconosciuto il diritto dei Testimoni di Geova a far sì che i propri figli non subiscano l’emotrasfusione, tutte le volte in cui lo stesso obiettivo terapeutico sia perseguibile con terapie alternative, compatibili con il loro credo religioso. La scelta religiosa, infine, legittima il rappresentante legale a consentire anche un atto medico non necessario dal
— 398 — punto di vista terapeutico, ma non dannoso per la salute del minore, come la circoncisione. Resta da considerare l’eventualità che la volontà del minore contrasti con quella del suo rappresentante legale. È a questo proposito che, là dove l’atto medico sia differibile, viene in rilievo l’effettivo grado di maturità del minore e, conseguentemente, la sua reale capacità di autodeterminazione terapeutica. Ebbene, in tali casi, il medico è tenuto a informare la direzione sanitaria, che a sua volta si rivolgerà al pubblico ministero perché solleciti provvedimenti sostitutivi da parte del tribunale o del giudice tutelare (54), ai sensi dell’art. 333 c.c. Come si è già visto in relazione al soggetto interdetto, questo epilogo è destinato ad assumere connotazioni di eccezionalità. Molto opportunamente, dunque, il codice deontologico prevede che, anche nei confronti del minore, il medico informi il paziente e tenga conto della sua volontà, seppure nei limiti delle reali capacità del minore e sempre nel rispetto dei diritti del suo legale rappresentante. In tal senso, del resto, si è pronunciata anche la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo e la Biomedicina del 1996 (artt. 5 e 7), non ancora ratificata, però, dall’Italia. 8. Passando adesso alle conseguenze penali del trattamento senza consenso o con consenso invalido, vale la pena di ricordare che anche questo profilo manca nel nostro ordinamento di una regolamentazione espressa. Ne consegue che la disciplina penale del trattamento medico arbitrario deve ricavarsi dai principi generali; e si spiegano così le divergenze dottrinali e giurisprudenziali, che per un verso inficiano la certezza del diritto e, per l’altro, accrescono in questo settore il raggio operativo della scusante dell’ignorantia iuris. Non può negarsi, infatti, che, nell’urgenza della decisione, il medico non sempre dispone di parametri comportamentali idonei, specie quando l’orientamento della giurisprudenza locale è difforme da quello della dottrina e della giurisprudenza prevalenti. Né può suggerirsi al medico di astenersi, nel caso di dubbio, dall’intraprendere la terapia; dato il carattere necessario della sua attività per la salvaguardia dei beni fondamentali della persona, gli sarà difficile, infatti, sottrarsi a una responsabilità penale per omissione. In particolare, alcuni eccessi rigoristici della nostra giurisprudenza, su cui si tornerà tra breve, nascono proprio dalla mancanza di un’apposita fattispecie che punisce l’atto medico arbitrario. Ed è questa una lacuna certamente avvertita, come dimostra la proposta — contenuta nel Progetto di legge delega per l’emanazione di un nuovo codice penale (55) — di introdurre nel nostro sistema un’ipotesi autonoma di reato, destinata a (54) Così M. POLVANI, op. ult. cit., c. 736. (55) Il testo del Progetto può leggersi in Documenti Giustizia, 1992, n. 3, p. 305 s.
— 399 — punire, sulla falsariga della soluzione adottata all’estero (56), il trattamento medico svolto senza il consenso informato del paziente (art. 70, lett. d). Esaminando il problema alla luce del nostro attuale assetto normativo, l’attività medica svolta in assenza dell’espressa volontà del paziente si presta ad essere diversamente inquadrata e disciplinata, a seconda che si consideri l’intervento terapeutico arbitrario sotto il profilo della sua incidenza sull’integrità fisica o sotto quello della sua tensione con la libertà di autodeterminazione del paziente. Entrambe le tesi sono state sostenute, con conseguenze applicative sensibilmente diverse. Infatti, per quanti ritengono che il consenso informato presidi l’intangibilità corporale del paziente, l’atto medico arbitrario va valutato alla stregua del reato di lesioni personali. Così, muovendo da questa impostazione, si è ritenuta integrata la fattispecie dell’omicidio preterintenzionale nel caso del medico, che ha effettuato un intervento chirurgico non autorizzato, cui ha fatto seguito la morte del paziente (57). Ma non è tutto: accogliendo questa tesi, si arriverebbe alla conclusione che l’atto medico arbitrario non possa essere ratificato a posteriori dal paziente; per poter scriminare, infatti, il consenso deve intervenire prima che abbia inizio il trattamento sanitario. Ne consegue che, nonostante l’approvazione e magari la gratitudine del paziente per l’atto medico arbitrario e perfettamente riuscito, il pubblico ministero dovrà esercitare ugualmente l’azione penale ogniqualvolta, non ricorrendo gli estremi dello stato di necessità, l’intervento medico corrisponde astrattamente a uno degli eventi di lesione personale perseguibile d’ufficio, ai sensi degli artt. 582 e 583 c.p. Diversamente, per quanti considerano l’atto medico arbitrario lesivo del diritto all’autodeterminazione terapeutica, l’intervento terapeutico abusivo deve essere ricondotto nel quadro delle offese alla libertà morale (58), con la conseguenza di lasciarlo impunito nella gran parte dei casi. Viene qui in rilievo, infatti, la struttura della fattispecie di violenza privata, che, come noto, valorizzando le modalità coattive dell’altrui volontà, tipizza alternativamente e unicamente le condotte della violenza e della minaccia, difficilmente ravvisabili nel trattamento medico arbitra(56) Il riferimento è in particolare al codice penale austriaco (§ 499 a). In argomento, v.: A. ARCERI, Riflessi penalistici dell’esito infausto dell’attività medico-chirurgica, in Giur. merito, 1993, IV, p. 890; G. SANTACROCE, Il consenso informato nella giurisprudenza della Corte di cassazione: attualità e prospettive, in Riv. pol., 1999, p. 10. (57) La vicenda è nota; v.: Corte Ass. Firenze, 18 ottobre 1990, Massimo, cit.; Cass. pen., sez. V, 13 maggio 1992, Massimo, cit. (58) Cfr. già F. GRISPIGNI, La responsabilità penale per il trattamento medico-chirurgico arbitrario, in Scuola pos., 1914, p. 684. Di recente, v. L. EUSEBI, Sul mancato consenso al trattamento terapeutico: profili giuridico-penali, in Riv. it. med. leg., 1995, p. 728 s. Da ultimo v. anche A. ABBAGNANO TRIONE, op. cit., p. 319 s.
— 400 — rio (59). Ne consegue che la pena prevista all’art. 610 c.p. potrà applicarsi a ipotesi, se non inverosimili, comunque rare, come quella dell’atto medico effettuato a insaputa del paziente, allorché quest’ultimo venga previamente sottoposto, senza il suo consenso, a un’anestesia generale con conseguente perdita di coscienza (60). Nell’incertezza del quadro normativo, il problema del trattamento medico arbitrario resta sospeso, dunque, tra le due soluzioni estreme della sua equiparazione alle lesioni personali o della sua sostanziale impunità. E, seppure con disagio, l’interprete è tenuto a effettuare una scelta, chiedendosi quale dei due epiloghi, a fronte della comune incongruenza politico-criminale, risulta il più corretto sotto il profilo ermeneutico. Ora, la tesi rigorista, che equipara ‘‘l’uso del bisturi in mancanza di consenso’’ al ‘‘colpo di pugnale’’ (61), muove da un’interpretazione della fattispecie di lesioni personali attenta alla dimensione puramente materiale ed estrinseca dell’evento di reato. Essa non soltanto intende la lesione personale come resezione dei tessuti e offesa dell’integrità fisica, ma — alla luce di una siffatta nozione — interpreta riduttivamente il concetto di malattia in termini di mera alterazione anatomica (62). Le critiche mosse a una siffatta impostazione non sono certo nuove (63): la malattia — si può osservare — non si identifica con l’alterazione anatomica (se così fosse, infatti, non potrebbero considerarsi malattie alcune patologie psichiche); essa indica piuttosto l’apprezzabile compromissione funzionale dell’organismo (64). Se si condividono questi rilievi, deve riconoscersi di conseguenza che, quando l’atto medico, produttivo di un’alterazione anatomica, ha raggiunto il suo obiettivo terapeutico, esso non potrà integrare la nozione di malattia penalmente rilevante ai sensi dell’art. 582 (59) Per un analogo riconoscimento, v. anche A. MANNA, Profili penalistici del trattamento medico-chirurgico, Milano, 1984, p. 33 s. Recentemente, v. sul punto S. RAMAJOLI, Intervento chirurgico con esito infausto senza che sussistano lo stato di necessità e il « consenso informato » del paziente: conseguenze penali a carico dell’operatore, in Giust. pen., 1996, II, c. 127. (60) Per altre esemplificazioni, v. R. RIZ, Medico. IV) Responsabilità penale del medico, in Enc. giur., vol. XIX, 1990, p. 9. (61) Nell’elaborazione giurisprudenziale, v. le pronunce citate supra nota n. 57. In dottrina, di recente, v. F. MANTOVANI, Diritto penale, delitti contro la persona, Padova, 1995, p. 160, nota 23. (62) Per questa nozione di malattia (peraltro accolta dalla Relazione ministeriale sul Progetto del codice penale, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. V, pt. II, Roma, 1929, p. 379 s.), v. la giurisprudenza prevalente, ancorché meno recente; cfr. ad esempio: Cass. pen., sez. I, 11 giugno 1987, Bellomo, in Giur. it., 1986, II, c. 140; ID., sez. V, 2 febbraio 1984, De Chirico, in Giust. pen., 1985, II, c. 32. (63) V. ampiamente F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte speciale, vol. I, 10a ed., Milano, 1992, p. 71 s. (64) Cfr. ancora F. ANTOLISEI, op. loc. cit. Di recente, v. F. MANTOVANI, op. ult. cit., p. 192. In giurisprudenza v. da ultimo Cass pen., sez. V, 14 novembre 1996, Franciolini, in Cass. pen., 1997, p. 481.
— 401 — c.p. Invero, come la malattia è un processo patologico e non una mera alterazione anatomica, così la salute è una condizione dinamica, che può essere addirittura favorita da atti medici produttivi di alterazioni anatomiche, anche irreversibili. In breve: indipendentemente dalla circostanza che il medico agisca con il consenso del paziente o meno, un atto medico oggettivamente migliorativo della condizione di salute di chi lo subisce non può considerarsi causa di una malattia e, conseguentemente, non può integrare il reato di lesione personale per mancanza di un suo requisito costitutivo, espressamente richiesto dall’art. 582 c.p. 9. Il problema della rilevanza penale dell’atto medico arbitrario, dunque, si pone in tanto che il trattamento terapeutico abbia un esito avverso. Sennonché, per tracciare in quest’ambito il discrimine tra l’area del penalmente indifferente e quella del penalmente rilevante, non pare corretto distinguere a seconda che il medico abbia osservato o meno le leges artis (65). A ben vedere, infatti, non vi sono ragioni per assumere il carattere perito della condotta — un elemento che, come noto, attiene alla tipicità del reato colposo — quale criterio compensativo della mancanza del consenso, con l’intento di escludere in radice la rilevanza penale dell’atto medico arbitrario conforme alle leges artis e di profilare l’eventualità di una responsabilità colposa unicamente in caso di negligenza, imprudenza o imperizia (66). L’osservanza della regola cautelare — è questo l’aspetto di fondo che la tesi in esame lascia in ombra — è sì strumentale al buon esito del trattamento medico, ma di per sé non costituisce ancora il buon esito dell’attività medica; sia perché quest’ultimo può essere anche fortuito, sia perché, come si preciserà meglio tra breve, l’insuccesso della terapia può far seguito alla scrupolosa osservanza delle regole cautelari, senza che tale epilogo possa considerarsi inverosimile. Il punto merita particolare attenzione. Ed invero, per desumere dal rispetto delle leges artis l’irrilevanza penale del trattamento terapeutico arbitrario, la tesi in questione osserva che l’atto medico perito non risulterebbe tipico, ai sensi degli artt. 582 e 583 c.p., per difetto di efficacia causale rispetto all’evento ‘‘malattia’’. Da tale angolazione, si precisa che, procedendo al giudizio controfattuale, necessario per verificare il nesso di condizionamento tra l’azione e l’evento, ed eliminando mentalmente l’atto medico perito, si perverrebbe alla conclusione che il pregiudizio per la salute del soggetto assistito si sarebbe verificato ugualmente (67). Il quadro clinico del paziente — si conclude — peggiorerebbe non già in conse(65) In tal senso, in modo precipuo, v. ad esempio A. MANNA, Trattamento, cit., p. 1287 s. e p. 1291. (66) Cfr. A. MANNA, op. loc. ult. cit (67) Cfr. A. MANNA, op. ult. cit., p. 1289.
— 402 — guenza dell’intervento medico, ma a causa del precedente stato morboso, che la terapia non è riuscita a curare, né poteva arrestare (68). Ora, questi rilievi non tengono nella dovuta considerazione quelle ipotesi in cui l’intervento medico, anche se condotto nel rispetto più scrupoloso delle leges artis, lascia ragionevolmente presagire come possibile un esito avverso. In effetti, dato il carattere empirico dell’attività medica, specie nei casi in cui la prognosi non è formulabile in termini di certezza assoluta, il trattamento medico diligente può determinare e addirittura accelerare il peggioramento dello stato di salute del paziente, che, per un verso, l’attività terapeutica aveva delle chances di impedire e che, per l’altro, in mancanza dell’intervento medico sarebbe avvenuto in un arco temporale più lungo. Ebbene, nel caso di esito avverso, proprio il ricorso alla legge scientifica di copertura porta qui ad affermare che, eliminando mentalmente l’atto medico perito, l’evento non si sarebbe verificato. In tale ipotesi, dunque, la sussistenza del nesso causale non pare contestabile, a meno che nella descrizione dell’evento non si consideri inessenziale il ritardo con cui si sarebbe verificato il peggioramento della salute del paziente; ma sarebbe questa un’obiezione davvero difficile da condividere, in quanto, a tacer d’altro, essa svaluterebbe sensibilmente l’importanza dei beni fondamentali della persona. Per via della sua complessità, la questione richiede qualche ulteriore precisazione. L’impostazione in esame, infatti, muove dall’implicita e più generale premessa che le regole cautelari, di cui le leges artis mediche sono una specie, abbiano la funzione precipua di azzerare il rischio connesso allo svolgimento di un’attività pericolosa lecita (69), ovvero di ricondurla entro l’ambito del caso fortuito. Del resto, solo procedendo da tale premessa è possibile escludere che l’atto medico perito costituisca una condicio sine qua non del peggioramento del quadro clinico del paziente. Sennonché, proprio l’attività medica è uno di quei settori in cui con particolare evidenza può osservarsi come la funzione delle regole prudenziali sia per lo più quella di ridurre — e non già di eliminare — il rischio insito nell’attività socialmente utile. Ne consegue che la decisione del medico di intraprendere un trattamento medico arbitrario equivale alla scelta di far correre al paziente tanto i rischi che le regole cautelari sono in grado di fronteggiare, quanto quelli che, nonostante il rispetto delle leges artis, possono trasformarsi in un’offesa per il bene giuridico. Proprio i coefficienti di rischio che sono insiti nell’agire medico, anche quando esso è conforme alla perizia doverosa, aiutano a comprendere, al(68) V. ancora A. MANNA, op. ult. cit., p. 1289. (69) In termini generali, v. per tutti G. MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa. Morte della « imputazione oggettiva dell’evento » e trasfigurazione nella colpevolezza?, in questa Rivista, 1991, p. 22 s., dove si precisa che l’impedimento dei pericoli è il contenuto normale della regola di diligenza.
— 403 — lora, perché, in mancanza del valido consenso del paziente, scatta in capo al medico il divieto penale di intervenire. Tale divieto non mira solo a tutelare la libertà di autodeterminazione di chi lo subisce (profilo, questo, che, come si è già detto, raramente assume rilevanza penale), ma intende altresì evitare che un terzo possa interferire impunemente sull’integrità del bene tutelato, identificabile con la salute nel suo significato più lato, comprensivo cioè sia del benessere residuo, sia dell’interesse a non accelerare i decorsi patologici. Solamente nelle ipotesi — davvero rare — in cui l’atto medico sia stato condotto nel rispetto di leges artis capaci di azzerare del tutto il rischio insito nel trattamento sanitario, l’eventuale verificazione dell’evento pregiudizievole non sarebbe ascrivibile al medico, in quanto evidente espressione del caso fortuito. In breve: in presenza dell’esito avverso, il problema della rilevanza penale dell’atto medico arbitrario cessa di essere una questione che si esaurisce nell’interpretazione della singola fattispecie oggettiva, che corrisponde all’entità dell’offesa prodotta ai beni fondamentali della persona. Acquisito che, sotto il profilo della tipicità oggettiva, il trattamento terapeutico arbitrario può integrare il reato di lesioni personali e, nel caso di morte del paziente, anche quello di omicidio, è necessario valutare se sussistono anche gli altri requisiti richiesti per la sua rilevanza penale. L’attenzione deve spostarsi pertanto su altri piani di analisi, primo tra tutti quello che attiene ai limiti scriminanti dell’agire medico. Invero, l’equiparazione simbolica del bisturi al pugnale, acquisita sul terreno della tipicità oggettiva quando l’attività medica arbitraria non è coronata da successo, sul versante dell’antigiuridicità è stata negata invocando ancora una volta il consenso presunto, quale schema dottrinale in grado di giustificare l’atto medico arbitrario (70). Muovendo dalla volontà di vivere di ciascun soggetto e dal comune istinto di autoconservazione, si ritiene cioè che il consenso ‘‘presumibile’’ possa surrogarsi a quello reale nella funzione di condizione per la legittimità del trattamento sanitario. Nondimeno, questa soluzione è controversa, dato che il consenso presunto — ovvero il consenso che il titolare del bene non ha dato, ma che si suppone avrebbe prestato se avesse potuto — non ha, come noto, una rilevanza legislativa espressa. Il consenso presunto, infatti, viene ammesso o facendo leva sull’istituto civilistico della negotiorum gestio (art. 2028 c.c.) (71) — nel qual caso la presunzione di consenso potrebbe scriminare solo offese di tipo patrimoniale e non anche quelle personali — oppure ricorrendo all’interpretazione analogica dell’art. 50 c.p., limitatamente ai casi non rientranti nell’art. 2028 c.c. (72); ma è questa (70) V. per tutti F. MANTOVANI, op. ult. cit., p. 104. (71) Cfr. T. PADOVANI, Diritto penale, 5a ed., Milano, 1999, p. 197 s. (72) Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, 3a ed., Padova, 1992, p. 265.
— 404 — una strada che, stante la natura evidentemente patrimoniale degli ‘‘affari altrui’’ cui fa riferimento l’art. 2028 c.c., risulta difficilmente percorribile per mancanza dell’eadem ratio (73). D’altro canto, anche il fondamento penalistico del consenso presunto dà adito a qualche perplessità. Qui non si intende confutare tanto la fondatezza esperienziale della presunzione da cui esso muove e che attiene allo spirito di conservazione dell’uomo, quanto la sua rilevabilità alla stregua dell’id quod plerumque accidit. È questo, infatti, un parametro oggettivo e, come tale, inadeguato ad assicurare la funzione personalistica, che il consenso del paziente è chiamato a svolgere nella legittimazione dell’atto medico pregiudizievole. Scartata allora la via del consenso presunto, ci si deve chiedere se il piano dell’antigiuridicità offra un’altra prospettiva capace, se non di scriminare del tutto l’atto medico arbitrario, almeno di escludere a determinate condizioni che l’uso arbitrario del bisturi equivalga sul piano del diritto penale a un colpo di pugnale, intenzionalmente inferto. Si è ritenuto, infatti, che, quando il consenso non sia valido, per carenza di una previa e corretta informazione da parte del medico in ordine ai rischi del trattamento sanitario, l’atto terapeutico arbitrario con esito avverso sarebbe punibile a titolo di colpa in base al disposto dell’art. 55 c.p. (74). Sennonché, anche questa conclusione non sembra del tutto persuasiva, risultando inappropriato il richiamo operato all’istituto dell’eccesso colposo. E ciò, non tanto perché l’art. 55 c.p. viene da più parti considerato una norma superflua sotto il profilo dello specifico apporto dispositivo (75), quanto perché l’erronea informazione del paziente dovuta a colpa medica non costituisce il presupposto di un eccesso colposo, in nessuna delle due forme in cui esso viene ammesso dalla dottrina prevalente (76): l’erronea esecuzione della condotta giustificata e l’errore di giudizio sui presupposti fattuali della scriminante. A ben vedere, nemmeno quest’ultima forma di eccesso colposo si attaglia al trattamento medico arbitrario per carenza di informazione, dato che il medico qui non erra sull’ampiezza della scriminante, ma più semplicemente impedisce con il suo comportamento antidoveroso che si formi un valido consenso e, dunque, che si realizzi una delle condizioni richieste per la liceità del suo operato. Tirando le fila del discorso, ne esce confermata sia la tipicità oggettiva, sia l’antigiuridicità dell’attività medica compiuta in mancanza del consenso informato del paziente. Ne consegue che, per via del suo carat(73) Sia consentito rinviare a F. GIUNTA, L’applicazione analogica delle scriminanti: un luogo di tensione tra certezza del diritto e favor libertatis, in Studium iuris, 1995, p. 186. (74) Cfr. Pret. Arezzo, 24 marzo 1997, Gervino, in Giust. pen., 1997, II, c. 533. (75) V. ad esempio F. MANTOVANI, op. ult. cit., p. 288. (76) Per un quadro ricognitivo, v. P. SIRACUSANO, Eccesso colposo, in Dig. disc. pen., vol. IV, 1990, p. 185.
— 405 — tere contra ius, il trattamento medico arbitrario può essere legittimamente impedito anche dal soccorso difensivo del terzo, ai sensi dell’art. 52 c.p. 10. Se neanche il piano dell’antigiuridicità offre elementi per escludere la rilevanza penale del trattamento terapeutico arbitrario c.d. peggiorativo, è pur vero che l’approfondimento dei fattori da cui dipende la mancanza di un valido consenso può contribuire a chiarire alcuni profili problematici, relativi al titolo di imputazione in base al quale può essere chiamato a rispondere il medico a causa del suo operato arbitrario. Per rendersene conto, occorre distinguere due ipotesi, la prima delle quali ricorre quando la mancanza di un valido consenso da parte del paziente non sia stata intenzionalmente perseguita dal medico. Vengono qui in rilievo i casi in cui il medico ha agito dimenticando di acquisire previamente il consenso del paziente, omettendo per negligenza la dovuta informazione, avendo fornito un’informazione involontariamente inadeguata, avendo trascurato di verificare che il paziente abbia compreso le caratteristiche dell’intervento terapeutico, e via discorrendo. Com’è evidente, l’invalidità del consenso è attribuibile alla violazione di specifiche regole cautelari, cui il medico è tenuto nello svolgimento del suo compito informativo. A questo punto, è opportuno distinguere ulteriormente a seconda che la colpa del medico, manifestatasi nell’informazione del paziente e nell’assunzione del consenso, dipenda da imperizia o da mera negligenza. Solo, nel primo caso, infatti, opererà il disposto dell’art. 2236 c.c., che, per un orientamento largamente condiviso (77), limita anche a fini penali la responsabilità del professionista alle sole ipotesi di colpa grave, quando la prestazione professionale richiede la soluzione di problemi di notevole complessità. La precisazione ha una sua importanza, soprattutto in relazione all’ipotesi in cui l’inadeguatezza dell’informazione medica dipenda a sua volta da un errore medico, dato che, quando si verifica in questa prima fase della sua attività, l’imperizia del medico può condizionare la valutazione complessiva dei rischi e lo sviluppo dell’intero processo terapeutico. Facilmente, dunque, nello spettro preventivo della prima norma cautelare disattesa dal medico imperito rientrerà l’evento di reato, che corrisponde all’entità dell’esito pregiudizievole; in fondo, quand’è involontaria, l’imperita informazione del paziente non è che l’altra faccia (o, se si preferisce, la conseguenza) dell’errore diagnostico. Nel caso in cui il difetto di informazione dipenda invece da negligenza, la carenza informativa, essendo dovuta a trascuratezza e scarsa considerazione del paziente, potrà risultare perfettamente indipendente dalla correttezza o meno della diagnosi. Ne consegue che una siffatta negligenza in ordine al dovere di (77) Sul punto, di recente v. A. MANNA, Questione n. 49, Colpa professionale, in Studium iuris, 1996, p. 340, cui si rinvia anche per ulteriori indicazioni bibliografiche e giurisprudenziali.
— 406 — informazione potrà fondare una responsabilità colposa per l’esito avverso nella misura in cui le leges artis, che governano il prosieguo dell’attività terapeutica, si limitino a ridurne i fattori di rischio in essa insiti, senza azzerarli, essendo evidente in questi casi la causalità della prima negligenza. In breve: il dovere di diligenza violato in sede di informazione mira a evitare l’insuccesso terapeutico non in sé considerato, ma quale effetto della successiva adozione di ulteriori regole cautelari per così dire ordinarie, in quanto intese semplicemente a bilanciare i rischi dell’attività pericolosa socialmente utile con l’interesse al suo svolgimento. Ai fini dell’ascrizione a titolo di colpa, dunque, lo spettro preventivo della regola cautelare violata dal medico in sede di informazione e la sua capacità di evitare l’esito infausto della terapia dovranno essere valutati alla luce dei coefficienti di rischio, che lasciano residuare le leges artis adottabili nel prosieguo dell’attività medica. Considerazioni in parte diverse vanno fatte in relazione a un secondo ordine di ipotesi: il riferimento è anzitutto ai casi in cui l’informazione del paziente in relazione ai rischi dell’intervento sia stata deliberatamente incompleta, lacunosa, non rispondente al vero. In secondo luogo, vengono in rilievo le situazioni in cui il medico agisca omettendo intenzionalmente di richiedere il consenso del paziente. In terzo luogo, può farsi rientrare in quest’ambito anche il caso del medico che con il suo comportamento esorbiti volontariamente dai confini del consenso prestato dal paziente o che approfitti di un errore del paziente per equivocare consapevolmente la disapprovazione (o il più ristretto ambito di approvazione) del soggetto interessato. Ora, fermo restando che la terapia così realizzata rimane non scriminata, ci si deve chiedere se la volontà del medico di prescindere da un valido consenso del paziente condizioni il titolo di responsabilità, cui potrà essergli imputato l’esito avverso della terapia. Questo problema è tanto delicato, quanto poco esplorato (78). Per tentare di impostarlo, si potrebbe ricordare che — per insegnamento pacifico (79) — la preordinazione dolosa di una situazione scriminante non fa venir meno la responsabilità a titolo di dolo per il fatto così realizzato, costituendo essa solo una delle modalità in cui può estrinsecarsi l’esecuzione dolosa del fatto tipico. E muovendo da questa premessa, si potrebbe concludere che, a fortiori, dovrebbe ritenersi tipica ai sensi di una fattispecie dolosa, corrispondente all’entità dell’evento pregiudizievole causato, la condotta del medico, il quale — omettendo l’informazione doverosa — impedisce deliberatamente che si verifichino le condizioni perché il suo (78) Con riferimento agli accertamenti prenatali, v. però F.C. PALAZZO, Accertamenti diagnostici prenatali e responsabilità penale per eventi abortivi: considerazioni sul consenso « informato », in Studium iuris, 1997, p. 479. (79) Per tutti, in modo specifico, v. G. SPAGNOLO, Gli elementi soggettivi nella struttura delle scriminanti, Padova, 1980, p. 71 s.
— 407 — successivo operato sia giustificato. Sennonché, questa impostazione della questione non risulta convincente. Essa trascura il seguente dato di fondo: affermare che la preordinazione di una causa di giustificazione rende inoperante il limite scriminante ad essa connesso, ha un senso in tanto che la condotta dell’agente sia diretta esclusivamente alla realizzazione dell’evento finale; una condizione, questa, che non ricorre di regola nell’attività terapeutica, dove il medico che agisce arbitrariamente non persegue intenzionalmente il pregiudizio del paziente, ma al più prende in considerazione l’esito avverso come epilogo possibile. Ne consegue che il titolo di responsabilità del medico dipenderà dall’atteggiamento che, rispetto all’evento pregiudizievole, egli ha assunto nel prosieguo del trattamento terapeutico, secondo quanto si dirà di seguito. 11. In relazione all’eventualità che il trattamento sanitario abbia esito avverso, resta adesso da chiedersi, invero, se e a quali condizioni l’equiparazione tra l’uso arbitrario del bisturi e il fendente del pugnale regga sotto il profilo del dolo. La questione sarà esaminata ipotizzando che l’insuccesso della terapia si concretizzi in una offesa all’integrità fisica, essendo questa l’eventualità più complessa, a causa della particolare formulazione testuale dell’art. 582 c.p. Mutatis mutandis, però, le conclusioni cui si perverrà possono agevolmente adattarsi al caso in cui al trattamento arbitrario segua la morte del paziente. Ebbene, è opinione pacifica che, per la sua sussistenza, il dolo delle lesioni personali non richiede la diretta volontà di produrre conseguenze lesive, essendo sufficiente che l’agente accetti il rischio di poter offendere con la propria condotta l’altrui integrità fisica (80). Questa impostazione del problema, peraltro di per sé corretta e assai diffusa in giurisprudenza, subisce però delle distorsioni applicative ove si trascuri che l’evento del reato di lesioni personali non risiede nella resezione dei tessuti in sé considerati, ma nella malattia intesa come processo patologico (81); non può condividersi pertanto l’orientamento riduttivo della giurisprudenza che identifica l’oggetto del dolo delle lesioni personali nella mera coscienza e volontà dell’alterazione anatomica (82). Non è richiesto, invece, che il dolo abbracci l’entità della malattia, ovvero gli eventi aggravatori previsti dall’art. 583 c.p., stante la loro natura di elementi circostanziali (83), come tali imputabili in base ai criteri previsti dall’art. 59, comma 2, c.p. e sui quali si tornerà tra breve. (80) V. ad esempio Cass. pen., sez. VI, 3 marzo 1990, Lavera, in Giust. pen., 1990, II, c. 622; ID., sez. I, 12 novembre 1987, Tarando, ivi, 1989, II, c. 30. (81) Cfr. F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte speciale, vol. I, 10a ed., Milano, 1992, p. 73. (82) Cfr. ad esempio, Cass. pen., sez. VI, 3 marzo 1990, Lavera, cit., che riduce il dolo a mera intenzione di infliggere all’altrui persona una violenza fisica. (83) Contra, muovendo dalla premessa che l’art. 583 c.p. prevederebbe ipotesi auto-
— 408 — Ne consegue che, per poter rispondere di lesioni personali dolose, il medico, il quale opera arbitrariamente, deve rappresentarsi, anche solo al livello di dubbio, che la propria condotta arrechi al paziente un pregiudizio valutabile in termini di malattia ovvero di peggioramento del suo quadro clinico. Ora, è a questo proposito che risulta di aiuto distinguere a seconda che l’atto medico arbitrario e pregiudizievole sia stato eseguito o meno nella convinzione di rispettare le leges artis (84). Da un tale distinguo, infatti, è possibile desumere l’atteggiamento psicologico del medico che agisce arbitrariamente. E precisamente, se il dolo di lesioni personali deve abbracciare l’evento ‘‘malattia’’, nel senso che l’agente deve rappresentarsi l’eventualità di un peggioramento del quadro clinico e quantomeno accettarne il rischio, è chiaro che quando il medico agisce nella consapevolezza o nella convinzione di osservare le regole cautelari doverose, seppure egli si rappresenti un siffatto rischio, non per questo si potrà ritenere che abbia accettato la verificazione dell’evento. In breve: si potrà affermare che il medico ha voluto la resezione dei tessuti, ma non già che sussiste il dolo di lesioni personali, ovvero la coscienza e la volontà dell’evento ‘‘malattia’’. Ovviamente, la conclusione non muta ove il medico sia pienamente consapevole che lo svolgimento della terapia intrapresa richiede l’adozione di cautele, capaci solo di contenerne il rischio; si dovrà pur sempre ritenere che egli abbia fiducia nel buon esito dell’intervento e, dunque, che non sia in dolo. Allorché, invece, il medico si renda conto di violare le leges artis, la rappresentazione dell’esito pregiudizievole è pienamente compatibile con l’accettazione dell’evento e con il dolo eventuale. Può anche verificarsi che il medico agisca rappresentandosi un peggioramento della salute del paziente, corrispondente a uno degli eventi previsti dagli artt. 582 e 583 c.p., e che invece il paziente muoia, nel qual caso ricorreranno gli estremi dell’omicidio preterintenzionale. Al di fuori di queste ipotesi, infine, l’atto medico arbitrario può configurare una responsabilità colposa, sempre che ricorra in concreto la violazione delle regole cautelari richieste dallo svolgimento della terapia. Ma non è tutto: l’accertamento della conformità o meno dell’atto medico arbitrario alle leges artis può aiutare a stabilire quand’è che possono ascriversi all’agente gli eventi aggravatori previsti dall’art. 583 c.p. Va tenuto presente, infatti, che, in base al disposto dell’art. 59, comma 2, c.p., quale risulta a seguito della legge 7 febbraio 1990, n. 19, le circostanze nome di reato, v.: F. ANTOLISEI, op. cit., p. 76 s.; F. MANTOVANI, Diritto penale, parte speciale, cit., p. 190. (84) Qui — si badi — non si intende affermare che la mancanza di colpa impedisce di configurare il dolo, secondo l’insegnamento « non c’è dolo senza colpa » (v. G. MARINUCCI, op. cit., p. 3 s.), poiché, a tacer d’altro, non si fa riferimento all’effettiva assenza di colpa, ma alla mera rappresentazione di agire diligentemente.
— 409 — aggravanti possono essere imputate solo se conosciute dall’agente, ignorate per colpa ovvero ancora ritenute inesistenti per colpa. Ora, l’attenzione si è concentrata soprattutto sulla corretta interpretazione dei due requisiti della conoscenza e della conoscibilità. Posto che, per l’opinione prevalente, il ‘‘nuovo’’ art. 59, comma 2, c.p. avrebbe accolto un criterio di valutazione unitario delle aggravanti, indipendente cioè dalla natura dolosa o colposa del reato cui accedono (85), ci si è chiesti in cosa consiste la conoscibilità, quale coefficiente minimale di imputazione delle circostanze. E a questo proposito, su un punto vi è assoluto accordo: la distinzione tra l’ignoranza per colpa e la ritenuta inesistenza per errore determinato da colpa deve considerarsi pleonastica, data l’unitarietà del fenomeno cui fanno riferimento le due espressioni, ovvero la situazione di colposa ‘‘non conoscenza’’ dell’aggravante oggettivamente esistente. In particolare, rispetto a circostanze aggravanti estrinseche e susseguenti, quali sono per l’appunto quelle previste all’art. 583 c.p., l’orientamento prevalente in dottrina e in giurisprudenza ritiene che il concetto di conoscibilità della circostanza deve intendersi nel senso di rappresentabilità e di prevedibilità dell’evento aggravatore (86). Se questi criteri di imputazione coincidano o meno con quelli tipici della colpa generica è un quesito assai controverso e non privo di ripercussioni in relazione agli eventi aggravatori imputabili al medico, che agisce in assenza del necessario e valido consenso. Ed invero, ove si ritenga che la conoscibilità (rectius: la prevedibilità) della circostanza aggravante evochi l’impiego di una misura di diligenza non molto dissimile da quella richiesta per la sussistenza della colpa generica (87), è chiaro che all’autore di un atto terapeutico arbitrario, ma conforme alle leges artis, non potranno addossarsi le circostanze aggravanti previste dall’art. 583 c.p. Diversamente, se si ritiene che il giudizio di prevedibilità, che presiede all’imputazione delle circostanze susseguenti, vada effettuato in concreto, a prescindere cioè dal filtro costituito dal previo accertamento della regola cautelare disponibile, il rispetto delle leges artis da parte del medico non potrà escludere di per sé la prevedibilità dell’evento aggravatore, essendo quello della prevedibi(85) Così per tutti A. MELCHIONDA, La nuova disciplina di valutazione delle circostanze del reato, in questa Rivista, 1990, p. 1441 s. e 1446 s. In tal senso v. anche Cass. pen., sez. V, 18 febbraio 1992, Cremonini, in Foro it., 1992, II, c. 489. Contra, per la tesi che l’art. 59, comma 2, c.p. differenzi l’imputazione soggettiva, a seconda che la circostanza aggravante acceda a un reato doloso o a un reato colposo, v. G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, 3a ed., Bologna, 1995, p. 377. (86) Cfr., tra le prime pronunce in argomento, Cass. pen., sez. V, 18 febbraio 1992, Cremonini, cit. (87) In tal senso, v. la dottrina prevalente; così ad esempio: T. PADOVANI, op. cit., p. 331; G. MARCONI, Il nuovo regime d’imputazione delle circostanze. La struttura soggettiva, Milano, 1993, p. 262 s., che nondimeno sottolinea la problematicità della colpa come criterio di imputazione delle circostanze.
— 410 — lità in concreto dell’esito avverso un criterio meno selettivo del giudizio di evitabilità condotto alla luce della regola cautelare. Non va trascurato, però, che l’eventuale imputazione dell’evento aggravatore ai sensi dell’art. 583 c.p. deve pur sempre svilupparsi in concreto (88), tenendo conto cioè delle circostanze e dei coefficienti di pericolo effettivamente conoscibili ex ante da parte del medico; una precisazione, questa, che ha una portata generale, valendo anche per le conseguenze pregiudizievoli dell’atto medico arbitrario che risulti ad un tempo imperito. FAUSTO GIUNTA Ordinario di diritto penale dell’economia nell’Università di Firenze
(88) Sia consentito rinviare a F. GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, Padova, 1993, p. 383.
DOGMATICA PENALE E POLITICA CRIMINALE IN PROSPETTIVA EUROPEA (*)
SOMMARIO: I. Introduzione. — 1. Il rilievo della questione ed i suoi termini di riferimento. — II. La griglia di partenza, ovvero l’inaccettabile separazione. — 2.1. Il paradigma deduttivo-idealistico della dogmatica penale tradizionale. — 2.2. (Segue): ... ed i suoi principali inconvenienti: a) il nazionalismo penalistico ed il ruolo ancillare della comparazione; b) l’irrisolto dilemma fra naturalismo e normativismo; c) il deficit di efficacia nella sfida della complessità. — III. Il presente, ovvero l’impossibile identificazione. — 3. I diversi percorsi del recupero dell’assiologia come trait d’union fra le due discipline. — 3.1. Il collegamento funzionale, ovvero il paradigma empirista-induttivo. — 3.2. Il collegamento a livello costituzionale, ovvero il paradigma dell’intangibilità ed i suoi paradossi. — 3.3. Un’alternativa: la dogmatica metanazionale e metapositiva, ovvero l’eterno ritorno del paradigma ontologico. — IV. Il futuro, ovvero i bisogni di integrazione. — 4. Un esempio: l’impegno europeo nel contrasto a fenomeni criminali contemporanei. — V. Un possibile bilancio, ovvero il dialogo necessario. — 5. I compiti della dogmatica e gli obiettivi della politica criminale negli ordinamenti democratici dell’Europa unita.
I.
Introduzione.
1. Una riflessione sui rapporti fra scienza del diritto penale e politica criminale a cavallo dei secoli XX e XXI si presenta non facile ed al contempo necessaria. Non facile a causa tanto della complessità che le due discipline hanno progressivamente assunto nel corso dell’intero secolo XX, quanto della pluralità di significati e di funzioni che caratterizza l’intreccio dei rapporti reciproci al varco del nuovo secolo. Ciò indica anche l’importanza di un chiarimento in proposito, specie per verificare la legittimazione del sistema che affida alla pena la risposta ai conflitti sociali ancora oggi più incisiva sulle posizioni dei singoli individui. Persino chi volesse sbrigativamente affrontare la questione che è oggetto del nostro incontro di studio — ‘‘Critica e giustificazione del diritto penale al cambio del secolo’’ — fermandosi al mero dato fattuale della permanenza di tale forma di controllo sociale nel tempo presente e nei probabili scenari prossimi, deve riconoscere che la società delle nuove tecnologie incide profondamente sui termini del problema penale. Un mutamento che (*) Testo, rivisto e completato dei riferimenti, della relazione presentata al Convegno spagnolo-tedesco-italiano ‘‘Critica y justificación del derecho penal en el cambio del siglo’’ (Universidad de Castilla - La Mancha, Toledo, 13-15 aprile 2000).
— 412 — non può restare irrilevante né per la scienza del diritto penale, né tanto meno per la politica criminale. Di seguito, per scienza del diritto penale si userà come sinonimo il termine dogmatica (penale) ed il riferimento alla politica del diritto penale sarà inteso come fungibile con quello alla politica criminale. Usi diversi e più specifici sono certo pensabili, ma quelli scelti hanno il vantaggio di rifarsi ad una tradizione di pensiero europeo, che accomuna in particolare i giuristi spagnoli, tedeschi ed italiani riuniti nella presente occasione. Si evidenzia così che la questione di fondo da esaminare si colloca in una dimensione non confinata nel particolare ordinamento di rispettiva provenienza, ma proiettata piuttosto su scala metanazionale e più precisamente europea. Una prospettiva i cui termini vanno di seguito meglio precisati ed approfonditi, ma che induce subito a lasciare sullo sfondo altre possibili — e non meno interessanti — chiavi di lettura della relazione fra scienza e politica del diritto penale: tanto quella rivolta ad approfondire i rapporti fra teoria e prassi del sistema penale, quanto quella che ad un sistema chiuso e formalmente esente da contraddizioni logiche contrappone un sistema aperto a valutazioni differenziate, in quanto fondato sulla pluralità dei soggetti e delle forme di creazione, interpretazione ed applicazione delle norme. Per orientarsi in una materia tanto ampia, si seguirà un percorso che identifica alcuni atteggiamenti caratteristici secondo una progressione ideale. Come ogni schematizzazione convenzionale, anche questa sfronda a colpi di accetta un intreccio ben più ramificato di posizioni e soluzioni; ma sarebbe velleitario puntare ad un’esaustiva ricostruzione dell’oggetto nei limiti del presente contributo. La griglia di partenza è fornita dalla lunga stagione di netta separazione fra diritto penale e politica criminale: situazione della quale — più che gli innegabili risultati rispetto alla confusa situazione metodologica precedente — saranno evidenziati gli inconvenienti più salienti (infra II). Verranno quindi considerate alcune reazioni di apertura della dogmatica penale, che possono raffigurarsi come riferibili o all’output o all’imput del sistema in esame: nelle prime si collocano quelle che hanno richiamato l’attenzione sulle conseguenze a cui va orientato l’ordinamento penale, segnalando dunque l’apporto della politica criminale già in sede di costruzione dogmatica; le altre comprendono i tentativi di ampliare i confini di validità del cuore del sistema penale, considerando la teoria del reato condizionata non dalle volubili scelte del singolo legislatore nazionale, ma solo dalla natura della materia regolata, e rivitalizzando così una visione di tipo ontologico (infra III). Si volgerà poi l’attenzione all’esigenza di assicurare nel prossimo futuro un dialogo fra le due discipline, assumendo come banco di prova alcuni ambiti di applicazione a livello europeo che appaiono più significativi (infra IV). A quel punto, il materiale preso in
— 413 — considerazione sarà, se non esaustivo di una questione tanto ampia, almeno sufficiente per un bilancio sui compiti del diritto penale e sugli obiettivi della politica criminale. Una valutazione da formulare nella prospettiva di un penalista europeo, che non intenda abdicare di fronte alla sfida posta dalla complessità moderna rispetto alle questioni di fondo della propria disciplina (infra V). II.
La griglia di partenza, ovvero l’inaccettabile separazione.
2.1. Il quadro dei rapporti fra diritto penale, sua elaborazione teorica e scelte di politica criminale da cui prendere le mosse è quello definito nella prima parte del secolo ventesimo, quando il riconoscimento di uno statuto autonomo delle due discipline e la conseguente accettazione di una rigida linea divisoria fra di esse posero fine ad un prolungato periodo di incertezza metodologica di fondo. Come rette parallele impossibilitate già sul piano logico ad avere anche solo un punto di contatto, la dogmatica penale, in quanto elaborazione concettuale dei requisiti del reato definiti dalle norme vigenti, si sviluppa distintamente dalla politica criminale, intesa come insieme delle strategie finalizzate a prevenire la commissione di reati. L’una si occupa di conoscere il diritto positivo ed elaborare i relativi concetti, al fine precipuo di una più sicura applicazione dello stesso. L’altra analizza i bisogni di tutela presenti nella società ed è volta a riformare le norme valide nel relativo ordinamento ed in un determinato momento. Retrospettivamente, ogni possibile bilancio di quella stagione non può cancellare un dato di fondo: l’astratta competenza del penalista su entrambi i versanti, pur inizialmente affermata in via di principio (1), non tardò a rivelarsi illusoria. I propositi di non volere restringere ‘‘i confini della cultura del penalista’’ (2) restarono vaghe intenzioni; di fatto, il tecnicismo giocò a favore di una formalizzazione dell’indagine giuridica e finì per trascurare ogni dato della vita reale che non fosse riflesso nella formulazione positiva della norma. Un esito difficilmente comprensibile per chi non si accorga che i maggiori vantaggi dell’impostazione tecnico-giuridica implicano al contempo i suoi limiti più gravi, o quantomeno sono a questi inscindibilmente connessi: quella concezione riesce a garantire al massimo il rispetto delle esigenze di legalità penale ed al contempo ad affermare l’assoluta (1) Per tale affermazione ad esempio ROCCO, Il problema ed il metodo della scienza del diritto penale (1910), in Opere giuridiche, III, Roma, 1933, p. 263 s., 289-294. La sintesi di Rocco non solo penetrò anche nell’orientamento positivista — v. ad es. GRISPIGNI, Diritto penale italiano, Milano, 1952, 2a ed., I, p. 7 s. — ma ha a lungo dominato lo scenario teorico: in termini analoghi ancora ad es. GIMBERNAT ORDEIG, Concepto y método de la ciencia del derecho penal, Madrid, 1999, pp. 13, 32 s. (2) ROCCO, op. cit. nt. 1, p. 294, nt. 2.
— 414 — ‘‘maestà’’ di una pena ‘‘libera da scopi’’ (3). Il modello di diritto penale a cui si adatta è quello liberale, che aspira a tutelare il cittadino, vittima o autore del fatto che sia. L’obiettivo è perseguito mediante il ricorso ad un edificio teorico di tipo formale-idealistico, costruito secondo un procedimento concettuale dove induzione e deduzione si integrano a vicenda. I principi di base del diritto penale sono elaborati per successive astrazioni dalle norme di un particolare ordinamento ed a loro volta rappresentano le ‘‘colonne d’Ercole’’ invalicabili in sede applicativa (4). In tal modo, si ottiene uno sbarramento all’irrompere dell’idea di scopo nella repressione penale, ma si lascia sullo sfondo ogni interrogativo sul perché ricorrere alla sanzione penale in presenza di un’offesa a beni socialmente rilevanti. La purezza dell’approccio idealistico che impregnò le teorie penali nel primo novecento — peraltro non esclusivo del terreno penalistico (5), né limitato al secolo XX nelle sue ascendenze teoriche (6) — fu messa in crisi dalle esperienze dei sistemi penali negli stati totalitari. Talmente tragiche che in Germania ‘‘all’indomani del 1945 nessuna giurisprudenza e nessuna dommatica poteva più essere come prima’’ (7). Pur con le dovute diversità, anche nella dottrina giuridica italiana della seconda metà del ’900 si diffonde un atteggiamento di ‘‘rivolta contro il formalismo giuridico’’ (8). Nel cercare di mettere a fuoco i punti di minore resistenza di quel sistema di partenza, almeno tre appaiono gli elementi più rilevanti nel tramonto del paradigma deduttivo-idealistico connesso al tecnicismo giuridico. (3) Secondo la nota immagine di MAURACH, Deutsches Strafrecht, A.T., Karlsruhe, 1971, p. 77. (4) Anche la funzione esplicativa e razionalizzatrice del diritto positivo, che è propria della dogmatica tradizionale — per quanto riduttiva rispetto alle potenzialità complessive della dogmatica: cfr. NAUCKE, Grundlinien einer rechtsstaatlich-praktischen allgemeinen Straftatlehre, Wiesbaden, 1979, p. 33 — non esprime solo un ordine formale ed esteriore. Consentendo infatti di verificare la fondatezza delle decisioni giudiziarie, essa contribuisce al funzionamento dello stato di diritto: su tale perduranti profili garantistici della dogmatica si tornerà infra § 5. (5) Cfr. per esempio PARESCE, Dogmatica giuridica, in Enc. dir., vol. VI, Milano, 1964, p. 678 s. (6) Per una compiuta affermazione si può risalire già alla concezione kantiana della legge penale come ‘‘imperativo categorico’’, in cui la pena non deve perseguire alcuna utilità sociale, ‘‘se non vuole svendere per un qualche prezzo’’ la Giustizia: cfr. KANT, Metaphisik der Sitten, 1797, Das Staatsrecht, § 49 Allgemeine Anmerkung, E 1. Ed anche in HEGEL si trova uno sbarramento alle concezioni utilitaristiche: cfr. i suoi Grundlinien der Philosophie des Rechts oder Naturrecht und Staatswissenschaft im Grundrisse, 1821, § 97 s. ed aggiunte al § 99. (7) HASSEMER, Strafrechtswissenschaft in der BRD, in SIMON (ed.), Rechtswissenschaft in der Bonner Republik, Frankfurt, 1994, p. 259. (8) BOBBIO, Il positivismo giuridico, Torino, 1977, p. 79.
— 415 — 2.2. a) Il ripiegarsi della riflessione teorica sul materiale normativo vigente in un determinato ordinamento positivo implica una prima conseguenza: una scienza del diritto penale che limita in tal modo il proprio campo di osservazione si autocondanna ad una chiusura nazionalistica. L’orizzonte giuridico è segnato dall’ambito di applicabilità delle norme vigenti nell’ordinamento di appartenenza (9); le costruzioni concettuali elaborate in sistemi positivi diversi sono considerate, salvo rare eccezioni, con una diffidenza di fondo, in quanto pur sempre legittimate dal materiale normativo retrostante, più che dalla ragionevolezza politico-criminale delle soluzioni a cui portano. Reciprocamente, si delinea un ruolo ancillare per la comparazione, tanto sincronica, quanto diacronica, che viene sostanzialmente espulsa dalla dogmatica penale e relegata fra le discipline non giuridiche, ma latu sensu culturali. A sua volta, lo svalutare la comparazione come strumento nell’arsenale del giurista conduce a rafforzare la segnalata chiusura nazionalistica della stessa scienza penale. Ne risulta una prolungata mancanza di consapevolezza in quest’ultima delle possibilità e dei limiti dell’apporto comparatistico al proprio sviluppo (10). Il circolo non tarda a diventare vizioso: una volta confinata in una sorta di iperuranio del giurista, la comparazione rischia di ridursi a mero enciclopedismo e stenta a sua volta ad imporsi come elemento di confronto e stimolo critico per l’elaborazione dogmatica. b) In secondo luogo, l’attenzione privilegiata al mondo delle norme induce a sfocare il rilievo che la materia regolata gioca in sede di elaborazione dogmatica. La risalente obiezione alla scuola classica del diritto penale — entificare la nozione di reato, dimenticando invece l’autore ‘‘in carne ed ossa’’ — cela un problema ancora più arduo: il rapporto fra normativismo e naturalismo, che rimane un dilemma irrisolto anche per il metodo tecnico-giuridico. Causalità, colpevolezza, condotta umana, afflittività delle sanzioni penali sono tutti pilastri dell’edificio concettuale penalistico che comportano costruzioni diverse a seconda dei caratteri costitutivi attribuiti ai fatti rispettivamente considerati. Le formulazioni normative riflettono determinate rappresentazioni dei contenuti materiali a fondamento dei vari isti(9) Tale ancoraggio nazionale assicurerebbe anzi il carattere di conoscenza empirica della dogmatica, che per il resto sarebbe solo scienza formale ed astratta: così GRISPIGNI, op. cit. nt. 1, p. 10 s. ed ancora di recente POTACS, Rechtsdogmatik als Empirische Wissenschaft, Rechtstheorie, 1994, p. 191 s. Si svela così il collegamento fra l’aspetto esaminato e la seconda aporia, subito oltre segnalata nel testo, concernente l’insufficiente attenzione prestata ai contenuti materiali dei vari istituti regolati. (10) Nello stesso incontro di Toledo una convergenza sul punto ho registrato con la relazione di DONINI, Metodo democratico e metodo scientifico nel rapporto fra diritto penale e politica, p. 2 (del dattiloscritto).
— 416 — tuti e sono di conseguenza sottoposte all’usura del tempo via via che emergono nuovi paradigmi extragiuridici. Il processo di invecchiamento dei testi positivi comporta poi inevitabili tensioni su una dogmatica che è stata elaborata esclusivamente in relazione ad essi. c) Entra in crisi infine lo sforzo di vincolare il volto del sistema penale ai tratti caratteristici delineati dal compromesso liberale fra garanzia dell’autore del reato e tutela della vittima. L’emersione di una dimensione collettiva di entrambi tali protagonisti dell’illecito riesce difficilmente inquadrabile dalla dogmatica fondata sull’approccio idealistico-deduttivo. Inadeguata sempre di più si rivela l’idea-guida di un diritto penale che, per porre la barriera invalicabile della politica criminale, si fondi su una dogmatica penale ancorata ad un ‘‘modello bipolare di reato’’. In esso, l’autore del reato e la sua vittima sono soggetti individuali, il cui trait d’union è una condotta del primo che cagiona una offesa al secondo. Sul primo versante, all’autore individuale si affiancano i soggetti collettivi tanto nell’ambito delle attività ordinariamente legali (si pensi al rilievo assunto nelle attività economiche dai gruppi di società), quanto in quello delle attività programmaticamente illegali (ad esempio, la criminalità terroristica ed organizzata) (11). Ed anche in sede di esclusione della responsabilità emergono nuove considerazioni materiali tanto in relazione alla consapevolezza della vittima rispetto ai rischi a cui si espone nella società contemporanea, quanto rispetto alla rilevanza dell’intervento di terze persone nel determinare il risultato offensivo (12). Parallelamente, l’accezione tradizionale del bene giuridico manifesta una crescente incapacità ad assolvere il proprio ruolo di limite all’incriminazione. Le ragioni sottese all’intervento penale nella società complessa, del rischio, dell’informazione, della nuova economia si rivelano irriducibili alla logica che sorregge la categoria liberale del bene giuridico. Una (11) L’ampiezza delle trasformazioni accennate nel testo induce a rinviare a precedenti ricerche per gli svolgimenti ulteriori: cfr. MILITELLO, Attività del gruppo e comportamenti illeciti: il gruppo come fattore criminogeno, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1998, p. 367 s. (ed. spagn. La responsabilidad penal en los grupos de empresas: la experiencia italiana, in atti del I Congreso hispano-italiano de derecho penal economico, Universidade da Coruña Collecion: cursos, congressos e simposios, n. 45 1998, p. 28 s.) e rispettivamente ID., Agli albori di un diritto penale comune in Europa: il contrasto al crimine organizzato, in ID. ed al. (cur.), Il crimine organizzato come fenomeno transnazionale, Milano-Freiburg i.Br., 2000, p. 11 s. (ed. ted. ID., Europäische Einsatz und organisierte Kriminalität, in ID. ed al. (Hrsg.), Organisierte Kriminalität al transnationales Phänomen, Freiburg i.Br., 2000, p. 8). (12) Si pensi alla rilevanza dell’autodeterminazione della vittima rispetto ai casi decesso derivanti dall’asssunzione di sostanze stupefacenti: cfr. MILITELLO, Responsabilità penali per morte o lesioni da stupefacenti, in INSOLERA (coord.), Le sostanze stupefacenti, Torino 1998, pp. 37-77. Sui casi invece di esclusione della responsabilità dovuti all’intervento di un terzo, si rinvia a MILITELLO, Rechtfertigung, Entschuldigung oder sonstige Straffreistellung aufgrund von Drittverhalten, in ESER ed al. (Hrsg.), Einzelnverantwortung und Mitverantwortung im Strafrecht, Freiburg i.Br., 1998, p. 261 s.
— 417 — logica in sé coerente, ma posta in crisi dalle trasformazioni tanto degli oggetti di tutela, quanto dei relativi titolari: quella logica era infatti ancorata ad un’idea di bene materiale ed afferrabile che appare riduttiva nella società contemporanea, nella quale molteplici interessi non sono incorporati in un bene fisico, ma ciò non di meno appaiono bisognosi di tutela anche penale. Inoltre, la concezione tradizionale del bene giuridico era modellata sull’individuo singolo e non sulle collettività indeterminate di soggetti; come tale essa difficilmente può delimitare l’ambito di tutela da apprestare alle offese di interessi sovraindividuali diffusi nella società contemporanea (13). Sarebbe erroneo negare il valore che l’impostazione liberale ritagliata sulla considerazione del singolo mantiene rispetto all’impianto complessivo del sistema penale, come è stato confermato in modo fondamentale dalle tragiche esperienze dei totalitarismi nella prima metà del secolo XX. Il significato di quella stessa impostazione rischia però di essere sminuito quando il sistema penale non riesce a contrastare adeguatamente le offese a collettività intere di soggetti. Si corre così il rischio di vanificare in misura crescente la stessa ragion d’essere per cui la società ricorre allo strumento penale: la tutela delle potenziali vittime. Attenzione alle garanzie individuali ed efficacia del sistema penale devono dunque restare due aspetti inscindibili nel lavoro intellettuale del penalista, che aspiri ad incidere sul diritto vivente. III. Il presente, ovvero l’impossibile identificazione. 3. Chi cerchi di mettere a fuoco le vie attraverso le quali la dottrina penalistica nella seconda metà del XX secolo si è impegnata a superare le aporie segnalate nel metodo idealistico e tecnico-giuridico, non tarda ad individuare un punto chiave sufficientemente comune. Esso consiste nel peso specifico attribuito all’assiologia tanto nell’attività interpretativa, quanto in sede di elaborazione dogmatica. L’apertura ai valori della società rivitalizza quelle norme penali, che la purezza del metodo deduttivoidealistico rischiava di ridurre a schemi esangui. Una volte rotte le rigide barriere metodologiche innalzate in passato, le porte si sono aperte ad una pluralità di possibili approcci nella ricerca dei caratteri della dogmatica penalistica e nella definizione del suo rapporto con la politica criminale. Fra i molteplici percorsi teorici riconducibili al genere assiologico, se ne indicano di seguito tre fra i più significativi. 3.1. Il primo è quello che ribalta la precedente impostazione idealistico-deduttiva, per propugnarne una orientata alle conseguenze e dunque (13) Sugli aspetti accennati cfr. ad es. PALAZZO, I confini della tutela penale: selezione dei beni e criteri di penalizzazione, in questa Rivista, 1992, p. 462 s.
— 418 — di tipo empirico-induttivo. A tale paradigma si può riportare il pressante invito a ripensare la dogmatica penale a partire dalle esigenze politico-criminali. Esso riunisce e dà voce organica ad inquietitudini serpeggianti nella dottrina penalistica di diversi Paesi almeno a partire dagli anni sessanta, e che in Germania in particolare si erano scontrate frontalmente con l’opposta posizione idealistica su quel campo di battaglia politico-criminale che sempre rappresenta ogni codificazione penale. Così, l’appello a considerare gli scopi della pena nella costruzione degli istituti dogmatici pone in crisi certezze consolidate. Tipicità, antigiuridicità e colpevolezza cessano di essere schemi teorici indistinti sul piano delle rispettive funzioni e scoprono le rispettive, distinte fattezze politico-criminali. Le classificazioni astratte e le relazioni formali fra concetti sono verificate alla luce delle scelte di valore politico-criminali ricavabili dall’ordinamento. Al contempo, la costruzione teorica considera i contenuti sostanziali delle condotte penalmente rilevanti. L’intento programmatico è quello di adeguare la dogmatica allo scopo dell’intero sistema penale, quello cioè di prevenire le offese ai beni giuridici, senza per questo rinunciare ad un quadro di certezza del diritto (14). L’equilibrio di una tale sintesi unitaria fra scienza e politica del diritto penale risulta tuttavia precario. Ciò già in relazione a singoli capitoli di teoria del reato: esemplari in proposito sono i difficili rapporti fra colpevolezza ed esigenze preventive, i quali oscillano fra limite e fondamento reciproco e rendono così incerte le conseguenze penali per l’autore di un reato. Più in generale, risulta problematico l’andamento complessivo assunto dalla politica dei beni giuridici nelle società occidentali contemporanee, dove l’estesa penalizzazione si richiama al bisogno di tutelare adeguatamente zone sempre più ampie di attività. In breve, l’emersione del fine sullo scenario normativo rischia di trasformarsi in tirannia e scavalcare gli argini segnati dalla tradizione dogmatica di matrice liberale (15). Il richiamo a considerare le funzioni politico-criminali del diritto penale non ha del resto comportato un superamento del radicato pregiudizio nazionalistico nell’elaborazione teorica. Le soluzioni normative e teoriche di altri sistemi restano prevalentemente estranee alle considerazioni dog(14) Per la più matura formulazione di quanto affermato da ROXIN sin da Kriminalpolitik und Strafrechtsystem del 1970, cfr. ID., Strafrecht A.T. I, München, 19973, § 7 n. 51 s., p. 167 s. Non va trascurato che più ampio fu il fronte degli autori che negli anni settanta segnalarano con varietà di accenti, ma sempre con vigore, l’esigenza di una sistematica teleologica: cfr. SCHMIDHÄUSER, Strafrecht. Lehrbuch A.T., 2a ed., Tübingen, 1975, p. 52 s. 139 s. Con particolare riferimento alla colpevolezza anche JAKOBS, Schuld und Prävention, Tübingen, 1976 ed in termini più generali, ID., Strafrecht A.T., Berlin-New York, 1991, 2a ed., p. V s. (15) Che le impostazioni teleologiche comportassero un indebolimento nell’ordinata applicazione del diritto e nel carattere generale della teoria del reato fu presto segnalato da NAUCKE, op. cit. nt. 4, p. 18.
— 419 — matiche che pure si vogliono rendere consapevoli delle esigenze di politica criminale. Cosicché, nonostante ogni dichiarata presa di distanza, il cambio di metodo si rivela solo parziale, in quanto si continua a trascurare l’apporto della comparazione nell’arsenale del penalista (16). 3.2. Un ulteriore sforzo per coniugare il superamento del formalismo con le esigenze di contenimento dell’ambito penalmente rilevante segna il punto di equilibrio più avanzato fra il teleologismo e l’ancoraggio a fonti che appartengono pur sempre all’ordinamento positivo. Il collegamento fra dogmatica e politica criminale si realizza in tale ordine di idee a livello costituzionale, dove si rinviene la tavola dei valori fondamentali della società. L’ancoraggio costituzionale si trasforma in programma politico-criminale: i beni giuridici costituzionali delimitano una materia pe(16) Da ultimo, è lo stesso caposcuola della dogmatica improntata alla ‘‘razionalità di scopo’’ a riconoscere che la teoria del reato costituisce ‘‘un bene d’esportazione della dottrina tedesca’’: ROXIN, Die Strafrechtswissenschaft vor den Aufgaben der Zukunft, in ESER ed al. (Hrsg.), Die deutsche Strafrechtswissenschaft vor der Jahrtausendewende, München, 2000, 37, il quale riprende una fortunata espressione di SCHÜNEMANN, Einführung in das strafrechtliche Systemdenken, in ID. (Hrsg.), Grundfragen des modernen Strafrechtssystems, Berlin, 1984, p. 1. Che tale scuola — forse anche per smentire con la forza dei fatti il rilievo teorico che essa avrebbe messo in pericolo la diffusione internazionale della dottrina tedesca (HIRSCH, 25 Jahre Entwichklung des Strafrechts, in 25 Jahre Rechtsentwicklung in Deutschland, München, 1993, p. 50 e gli altri contributi cfr. infra nt. 25 e 27) — abbia concepito il dialogo internazionale in termini di discussione sui propri assunti dogmatici è emerso in diverse occasioni di incontro: esemplare l’impostazione del simposio di Coimbra sui fondamenti di un diritto penale europeo (espressa chiaramente nella prefazione: SCHÜNEMANN-DE FIGUEIREDO DIAZ (Hrsg.), Bausteine des europäischen Strafrechts, Coimbra-Symposium für Claus Roxin, Köln et al. 1995, specie p. V) e la recisa affermazione — nel corso di un Convegno a Madrid fra studiosi spagnoli e tedeschi — che ‘‘la teoria funzionale dell’azione e dell’imputazione di Roxin è capace di fondare una nuova dogmatica internazionale del diritto penale’’ (WOLTER, Objektive Zurechnung und modernes Strafrechtssystem, in GIMBERNAT ed al. (Hrsg.), Internazionale Dogmatik der objektiven Zurechnung und der Unterlassungsdelikte, Heidelberg, 1995, p. 24). L’influenza della dottrina tedesca su quelle degli altri Paesi viene del resto riconosciuta anche dagli osservatori stranieri: da ultimo MUÑOZ CONDE, Presente y futuro de la dogmática jurídico-penal, in Revista penal, 2000, p. 45 (ed. ted. Geglückte und folgenlose Strafrechtsdogmatik? Kommentar, in ESER et al. (Hrsg.), op. ult. cit., p. 199). Sta forse in tale situazione una causa non secondaria della mancanza di un pari sviluppo della comparazione penalistica nello stesso ambiente tedesco, che considerato nel suo complesso — e dunque al di fuori di singole, per quanto luminose, eccezioni — le ha invece ritagliato un ruolo marginale (come da ultimo lucidamente riconosciuto da HASSEMER, Das Selbstvertändnis der Strafrechtswissenschaft gegenüber den Herausforderungen ihrer Zeit, in ESER et al. (Hrsg.), op. ult. cit., p. 22 s. e denunciato in termini graffianti da FLETCHER, Die deutsche Strafrechtswissenschaft im Spiegel der Rechtsvergleichung, in ESER et al. (Hrsg.), op. ult. cit., p. 239 s., il quale non ha esitato a parlare di ‘‘provincialismo autoconsapevole’’ della dottrina tedesca di fronte agli ‘‘stati generali’’ di quest’ultima tenuti a Berlino nell’ottobre del 1999).
— 420 — nale debordante già al tempo della prima formulazione della teoria, pure risalente ai primi anni settanta (17). Il recupero in ottica costituzionale della funzione limitante della categoria del bene giuridico si rivela però quantomeno ingannevole. L’evoluzione delle società contemporanee non tarda a pervenire a stadi non prevedibili al tempo in cui hanno visto la luce le carte costituzionali che vigono nella maggioranza degli Stati Europei. Il fenomeno fa emergere la più generale problematicità dogmatica della nozione stessa di bene giuridico (18); in particolare, si evidenzia il dato che quelle costituzioni nulla possono dire rispetto alla meritevolezza di pena di comportamenti che o aggrediscono beni del tutto nuovi o quantomeno creano nuove modalità di offesa a beni già esistenti. La rivoluzione informatica, la diffusione delle sostanze stupefacenti, le manipolazioni genetiche e larga parte della materia dei trapianti d’organi, l’irrompere dell’AIDS rappresentano altrettanti campi problematici: in ciascuno di essi i dadi dell’intervento penale non si giocano sul tavolo del mero riconoscimento costituzionale dei beni di volta in volta in gioco, ma richiedono sia ulteriori bilanciamenti fra gli interessi in gioco sia la messa a fuoco di tecniche di tutela adeguate ai caratteri delle rispettive offese (19). Le difficoltà a cui va incontro l’approccio costituzionale alla scienza penale integrata si riflettono in un punto significativo: piuttosto che un’ac(17) In specie, BRICOLA, voce Teoria del reato, in Noviss. Dig. it., Torino, 1973, vol. XIX, c. 7 s.; ed anche, per il confronto con le altre impostazioni teleologiche, ID., Rapporti tra dommatica e politica criminale, in questa Rivista, 1988, p. 3 s. Rispetto al suo significato politico-criminale la teoria richiamata ha ricevuto un’attenzione tutto sommato limitata nel dibattito penalistico internazionale. In particolare, nella dottrina di lingua tedesca, anche alla luce dell’atteggiamento segnalato alla nota precedente, v. TIEDEMANN, Verfassungsrecht und Strafrecht, Heidelberg, 1991, p. 4 s. Particolarmente grave il ruolo marginale attribuito nell’ampia abilitazione di LAGODNY, Strafrecht vor den Schranken der Grundrechte, Tübingen, 1996 ed ancor più la mancanza di qualsiasi riferimento nella monografia austriaca di LEWISCH, Verfassung und Strafrecht, Wien, 1993. Ampi riconoscimenti comunque si trovano nel volume in memoria del maestro bolognese: CANESTRARI (cur.), Il diritto penale alla svolta di fine millennio, Torino, 1998 (cfr. sopratutto la critica puntuale di JESCHECK, Franco Bricola e la sua opera vista dalla Germania, p. 14-15; ed anche ARROYO ZAPATERO, I delitti contro l’ordine socio economico nel nuovo codice penale del 1995, p. 123; DE FIGUEIREDO DIAS, Sullo stato dei rapporti fra politica criminale e dogmatica giuridico-penale, p. 217; MAIWALD, Criteri guida per una teoria generale del reato, p. 233). (18) Una problematicità insuperata nonostante le energie dedicate al chiarimento della nozione: cfr. di recente l’accurata rassegna critica di STRATENWERTH, Zum Begriff des ‘‘Rechtsgut’’, in ESER ed al. (Hrsg.), FS-Lenckner, München, 1998, p. 377 s., il quale conclude considerando insolubile il problema di pervenire ad una definizione sostanziale di bene giuridico (p. 388). (19) Cfr. in generale PAGLIARO, Principi di diritto penale, P.G., Milano, 2000, 7a ed., p. 234; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, vol. 1, Milano, 2001, 3a ed., p. 499 s.; DONINI, voce Teoria del reato, in Digesto pen., 1999, p. 268 s.; e, per una esemplificazione, MILITELLO, Nuove esigenze di tutela penale e trattamento elettronico delle informazioni, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1992, p. 365 s.
— 421 — cezione forte del vincolo superiore imposto all’attività del legislatore penale, si è costretti a propugnarne una versione debole. Non solo si riconosce la legittimità di tutti i beni riconosciuti anche solo implicitamente nella carta costituzionale, ma si riconduce al testo costituzionale una serie di principi di politica criminale, ad esempio in tema di offensività, frammentarietà e sussidiarietà. L’ideale dell’intangibilità costituzionale cede così il passo ad un ricorso a strumenti, come i principi di politica criminale, caratterizzati da un’invincibile porosità ed adattabilità alle caratteristiche dell’ordinamento in cui devono operare, pur se in grado di stimolarne indefinitamente una progressiva evoluzione (20). Al di là di tale paradosso, l’approccio costituzionale rappresenta un terreno fertile per aprire finalmente la dogmatica penale ad un confronto comparatistico: a livello di norme fondamentali è più facile trovare corrispondenze significative, almeno nella vasta cerchia di ordinamenti di tradizione occidentale. I principi penalistici così ricavati, pur se positivamente fondati, hanno tuttavia una portata non contingente, il che agevola la comparazione fra le concretizzazioni che quei principi hanno ricevuto nei singoli sistemi penali. Da ciò peraltro la stessa teoria costituzionale dei beni giuridici non trae il beneficio che si potrebbe pensare a prima vista. Va in proposito richiamato il dato che l’ampia comunanza delle tradizioni costituzionali negli Stati dell’Unione Europea ha influito sulla recente approvazione di una ‘‘Carta dei diritti fondamentali’’ (21). L’importante documento non ha la validità formale di una costituzione, ma ne esprime comunque un nucleo quantomeno politicamente impegnativo nell’intera Unione Europea. Si ripropone così in termini aggiornati un interrogativo di fondo dell’approccio costituzionale al diritto penale ed ai suoi confini. La Carta — oltre ad affermare alcuni importanti punti fermi in (20) Si parla così di rinvenire nella costituzione il fondamento di ‘‘direttive programmatiche di tutela potenzialmente vincolanti’’: FIANDACA, Il bene giuridico come problema teorico e come problema di politica criminale, in STILE (cur.), Bene giuridico e riforma della parte speciale, Napoli, 1985, p. 11 s., 35. Sull’impossibilità di ricavare dalla costituzione tedesca la precisa formulazione della norma di condotta contenuta in una fattispecie penale ed il conseguente riconoscimento di un ampio ambito di discrezionalità al legislatore v. anche LAGODNY, op. cit. nt. 17, p. 271 s., 274, che parallamente ritiene infruttuoso il punto di vista del bene giuridico rispetto al problema della tutela dei diritti fondamentali: p. 294. Conclude analogamente anche FIANDACA, Il sistema penale tra utopia e disincanto, in CANESTRARI (cur.), op. cit. nt. 17, p. 54. (21) La volontà di redigere una Carta dei diritti fondamentali è stata affermata dal Consiglio europeo di Köln del giugno 1999 e precisata sul piano organizzativo alla riunione speciale del Consiglio dedicata alla Giustizia (Tampere, 15-16 ottobre 1999). La carta è stata infine approvata nel Consiglio di Nizza del dicembre 2000. Per una ricostruzione dei lavori preparatori cfr. ALBER-WIDMEIER, Die EU-Charta der Grundrechte und ihre Auswirkungenn auf die Rechtsprechung, in Europäische Grundrechte Zeitschrift, 2000, p. 497. Sui rapporti fra il nuovo documento e gli ordinamenti nazionali degli Stati membri, v. ZULEEG, Zum Verhältnis nationaler und europäischer Grundrechte, ivi, p. 511.
— 422 — materia penale: legalità e proporzionalità del reato e della pena, divieto della pena di morte, della tortura, di pene inumane, divieto di bis in idem — riconosce ai cittadini dell’Unione Europea numerosi diritti fondamentali: alla vita, alla libertà, alla sicurezza, al domicilio, al rispetto della vita privata, alla riservatezza delle comunicazioni, alla protezione dei dati personali, alla proprietà privata (artt. 1-19). È facile osservare che attualmente tali diritti, ancorché per lo più riconosciuti nelle fonti costituzionali dei singoli Stati membri, sono poi da questi variamente tutelati in base alle rispettive valutazioni sull’opportunità di ricorrere agli strumenti penali per garantire una protezione adeguata degli interessi in gioco. I confini della tutela penale non sono dunque fissati dalla rilevanza dei diritti fondamentali — indiscussa ed anzi tale da da meritarne la menzione nella Carta europea — ma pur sempre dalla differenziate valutazioni politicocriminali dei vari legislatori nazionali. Né pare, d’altra parte, possibile ancorare al nuovo documento sovranazionale un vincolo di tutela penale a favore di alcuni diritti fondamentali: tale prospettiva non solo non si accorda con la tradizionale funzione dei diritti fondamentali quali strumenti di difesa (Abwehrrechte) del cittadino contro gli abusi statuali (22), ma anche e più specificamente smentirebbe la funzione limitante con cui è sorta la qui ricordata teoria dei beni giuridici costituzionali. 3.3. L’indicata verifica a livello di comparazione offre lo spunto per considerare un diverso percorso attraverso cui l’assiologismo penetra nella dogmatica penale e ne ridisegna il rapporto con la politica criminale. Il riferimento è questa volta ad una concezione del reato derivata essenzialmente da nozioni ontologiche della realtà, la cui forza cogente si impone al di fuori di particolari coordinate spazio-temporali. Una teoria in cui il tradizionale attributo di ‘‘generale’’ è inteso proprio come espressione di (o meglio, aspirazione a) una validità potenzialmente universale ed astorica (23). Chi ha di recente riaffermato la validità di una tale concezione non è certo tanto ingenuo da chiudere semplicemente gli occhi di fronte alle divergenze dei vari ordinamenti penali, oltre che alle rispettive elaborazioni teoriche; si è tuttavia ritenuto di ricondurle solo ad una casuale e non rilevante maggiore o minore distanza rispetto ad una scala di progressione ideale nel riconoscimento degli schemi predati. In tal modo, nulla si opporrebbe alla possibilità di principio di prospettare la dogmatica penale come disciplina per sua natura ‘‘internazionale’’ (24), o meglio (22) Per tale funzione cfr. da ultimo MANSSEN, Grundrechte, München, 2000, p. 11. (23) Così, ad esempio, NAUCKE, op. cit. nt. 4, p. 13-14 (e nt. 6), il quale differenzia fra una teoria del reato davvero generale, svincolata da un diritto nazionale, e le sue mutevoli manifestazioni nei singoli ordinamenti (p. 20). (24) Così espressamente FLETCHER, Criminal Theory as a International Discipline, in ESER-FLETCHER (Hrsg.), Rechtfertigung und Entschuldigung - Justifications and Excuse. Re-
— 423 — ‘‘indipendente’’ dai contesti nazionali (25) e dunque, per ricorrere ad una formula in voga, ‘‘transnazionale’’ (26). Nella più coerente formulazione della teoria, l’elaborazione concettuale in materia penale è considerata compatibile solo con giudizi di verità-falsità, ancorati ad una ‘‘natura delle cose’’ che può essere rispettata o tradita, ma non diversamente valutata all’interno di una rosa di alternative tutte potenzialmente parimenti legittime. Inammissibili, di conseguenza, sarebbero — almeno rispetto alla prevalenza della parte generale ed a larghi settori della parte speciale — differenziazioni dogmatiche, formulate in relazione alle specifiche valutazioni operate dai singoli contesti normativi o comunque influenzate dalle particolarità culturali presenti nei vari ordinamenti (27). Variabili possono essere invece le specifiche politiche criminali, che ciascun ordinamento è libero di perseguire in piena autonomia. Solo così si potrebbe garantire che la ‘‘scienza’’ penale non degradi a mero prodotto occasionale del ‘‘tratto di penna del legislatore’’ (28), ed occupi piuttosto un posto a fianco delle altre discipline scientifiche, per loro natura internazionali (29). chtsvergleichende Perspektiven - Comparative Perspectives, vol. I, Freiburg i. Br., 1987, p. 1597. La formula ricorre anche in WOLTER, Menschenrechte und Rechtsgüterschutz in Europäischen Strafrechtsystem, in SCHÜNEMANN-DE FIGUEIREDO DIAS (Hrsg.), op. cit. nt. 16, p. 31; v. anche il volume curato da GIMBERNAT ed al. (Hrsg.), op. cit., nt. 16. (25) Anche qui una formula scolpita in un titolo: HIRSCH, Gibt es eine national unabhängige Strafrechtswissenschaft?, in SEEBODE (Hrsg.), FS-Spendel, Berlin-New York, 1992, p. 43. Una eco in PERRON, Sind die nationalen Grenzen des Strafrechts überwindbar?, in ZStW, 1997, p. 281. (26) Etichetta sempre più impiegata nel dibattito politico-criminale con riferimento a fenomeni come quello della criminalità organizzata: cfr. la convenzione delle Nazioni Unite destinata proprio alla criminalità organizzata transnazionale, ed aperta alla firma a Palermo nel dicembre 2000. Indicativa anche la nascita di riviste ad hoc, come Transnational Organized Crime, London, dal 1995. (27) Per la formulazione più approfondita v. HIRSCH, op. cit. nt. 25, specie p. 46 s., 55 s.; in precedenza, anche ID., Die Entwicklung der Strafrechtsdogmatik in der Bundesrepublik Deutschland in grundsätzlicher Sicht, in HIRSCH-WEIGEND (Hrsg.), Strafrecht und Kriminalpolitik in Japan und Deutschland, Berlin, 1989, p. 74; e, lapidariamente, HIRSCH, Die Stellung von rechtfertigung und Entschuldigung in Strafrechtssystem, in ESER-PERRON (Hrsg.), Rechtfertigung und Entschuldigung, III, Freiburg i. Br., 1991, p. 54 (trad. it. di FORNASARI, La posizione di giustificazione e scusa nel sistema del reato, in questa Rivista, 1991, p. 785). (28) Il richiamo al noto passo di KIRCHMANN posto ad incipit dello studio di HIRSCH, op. cit. nt. 25, p. 43, è in perfetta continuità ideale con quello analogo operato da WELZEL, Vom Bleibenden und vom Vergänglichen in der Strafrechtswissenschaft, in H. KAUFMANN ed al. (Hrsg.), Erinnerungsgabe für Max Grünhut, Marburg 1965, p. 189-190, per difendere l’ontologismo finalista contro l’obiezione che segnala la libertà del legislatore nelle proprie costruzioni concettuali e normative. Sul collegamento con l’impostazione welzeliana v. oltre nel testo. (29) Per un espresso parallelismo con la medicina ancora HIRSCH, op. cit. nt. 25, p. 45.
— 424 — La connessione così operata tra vecchio e nuovo è indubbiamente suggestiva: al risalente contrasto sullo status scientifico attribuibile in generale alle discipline giuridiche, la teoria in esame tenta di rispondere, ancor prima che in relazione a singoli problemi penalistici (30), proiettando l’intera teoria del reato, vale a dire il ‘‘cuore’’ del diritto penale classico e della connessa dogmatica, in un orbita segnata da internazionalizzazione e scientificità, caratteri fra i più tipici della ‘‘modernità’’ (31). L’apertura alle prospettive più recenti sul ‘‘diritto penale moderno’’ (32) non può fare trascurare le radici teoriche risalenti di una dogmatica penale sovranazionale ed unitaria. È facile osservare come tale concezione porti alle estreme, ma coerenti, conseguenze la fondamentale idea welzeliana della preesistenza al diritto positivo di strutture ontologiche, che la dogmatica deve individuare e che il legislatore non può esimersi dal rispettare (33). L’eterno ritorno del paradigma ontologico non riesce però a delegittimare il primato della fonte normativa rispetto all’elaborazione teorica, le cui ragioni ho cercato di motivare in una precedente occasione (34). (30) Ad esempio, la disputa in tema di azione ha risentito della preoccupazione di fondo in merito alla ‘‘scientificità’’ del diritto penale: cfr. NAUCKE, op. cit. nt. 4, p. 16. (31) La tendenza all’internazionalizazione come carattere della modernità è sottolineata, fra i contributi penalistici, da SIEBER, Memorandum für ein Europäisches Modellstrafgesetzbuch, in Juristenzeitung, 1997, p. 369. (32) A partire dal contributo di HASSEMER, Kennzeichen und Krisis des modernen Strafrechts, in Zeit. für Rechtspolitik, 1992, p. 318. Un’arguta smitizzazione del contrapposto modello di un diritto penale del ‘‘buon tempo andato’’ in PADOVANI, Spunti polemici e digressioni sparse sulla codificazione penale, in CANESTRARI (cur.), op. cit. nt. 17, p. 96 s. Contro un’accentuazione delle differenze fra le due epoche penalistiche e dei relativi presupposti teorici v. pure SCHÜNEMANN, Kritische Anmerkungen zur geistigen Situation der deutschen Strafrechtswissenschaft, in Goltdammer’s Archiv, 1995, p. 204, 218. (33) Per una difesa puntuale dalle numorose critiche, WELZEL, op. cit. nt. 28, p. 173 s. Fra i seguaci, fondamentale il contributo di ARMIN KAUFMANN, Lebendiges und Totes in Bindings Normentheorie. Normlogik und moderne Strafrechtsdogmatik, Göttingen, 1954, pp. VII, 195. A sua volta, questi tornerà approfonditamente sul punto in uno degli ultimi scritti, quasi a segnalare implicitamente l’importanza di tale cornice filosofica di fondo nell’arco della propria produzione scientifica (ARMIN KAUFMANN, Das Übernationale und Überpositive in der Strafrechtswissenschaft, in Gedächtnisschrift für Tjong, JESCHECK et al. (Hrsg.), Tokio 1985, p. 100 s.). Qui, assumendo l’esistenza di ‘‘dottrine generali e di strutture predate, che sono svincolate dalle particolarità nazionali, dai mutamenti storici, dalle stesse codificazioni particolari’’, erano delineati ampi spazi di presenza del ‘‘sovranazionale’’ e del ‘‘sovrapositivo’’ nella scienza penale, specialmente nella parte generale per ciò che riguarda l’illecito e la colpevolezza. Ciò peraltro non precludeva ogni possibilità che in questo stesso settore sussistano ‘‘soluzioni di pari strigenza, cioè più possibilità di pari efficacia nella realizzazione dello stesso scopo’’ (ivi, p. 111). Non va poi trascurato che quell’idea fondamentale è condivisa da autori anche esterni alla scuola welzeliana: significativi richiami al diritto naturale come base di una teoria generale del reato sono contenuti ad es. in NAUCKE, op. cit. nt. 4, p. 14 (nt. 6). (34) Cfr. MILITELLO, L’errore del non imputabile fra esegesi, dommatica e politica
— 425 — Qui sembra opportuno richiamare criticamente un profilo ulteriore della teoria in esame e relativo in particolare all’affermata unicità della dogmatica penale. Un tale atteggiamento di ‘‘assolutismo dogmatico’’, se sul piano storico si lascia comprendere come tentativo di porre un limite invalicabile all’impiego arbitrario del sistema penale in uno stato totalitario (35), appare ormai inconciliabile con lo statuto pluralista che caratterizza ed accomuna i fondamenti costituzionali delle democrazie occidentali contemporanee (36). Ciò non può non valere anche in sede di elaborazione teorica degli elementi attinenti al rapporto fra stato e cittadini in materia penale: negare alla dogmatica penale la possibilità di godere della libertà costituzionalmente assicurata ad ogni scienza sarebbe una palese contraddizione, in quanto equivarrebbe ad abbandonare i principi a base dell’ordinamento democratico proprio sul terreno in esame, dove l’intervento dello stato sulla posizione dell’individuo si fa più incisivo (37). Se poi un punto di vista in proposito non può erigersi ad unica dottrina astrattamente concepibile già all’interno di uno stesso ordinamento giuridico (38), a maggiore ragione questo peculiare ‘‘diritto alla diversità’’ delle opinioni deve valere quando le teorie sono formulate in contesti normativi non identici (39). criminale, in questa Rivista, 1996, p. 553 s. (trad. spagn., El error del inimputabile entre dogmatica exegesis y politica criminal, Anuario da Facultade de Direito da Universidade da Coruña, 1999, p. 405 s.). Per considerazioni critiche di altro tenore, connesse al carattere eccessivamente generale delle strutture ontologiche rispetto alle possibilità di ricavarne un’intera costruzione penalistica, cfr. PERRON, op. cit. nt. 25, p. 300. (35) Significativa appare la concordanza fra le aspirazioni sovranazionali della dottrina penalistica richiamata alla nota 33 e la vigorosa ‘‘professione di fede nel sovranazionale’’ di HEINRICH MANN. L’opera (Das Bekenntnis zum Übernationalen) fu pubblicata nel dicembre 1932 su Neuen Rundschau, dunque ‘‘prima della catastrofe’’ della deriva nazionalsocialista in Germania (come scrisse lo stesso Autore nella raccolta dei suoi lavori pubblicata dall’esilio francese già nel dicembre 1933). Con impressionante lucidità nell’antivedere i pericoli imminenti, Mann si scagliava contro l’irrazionalistica esaltazione dello spirito nazionalistico, esprimendosi in termini quasi identici a quelli riferiti sessanta anni dopo alla dogmatica penale da Hirsch (infra testo relativo a nt. 56): ‘‘Vi è soltanto uno spirito sovranazionale, essendovi solo uno spirito, il quale non è né francese né tedesco’’ (H. MANN, Der Haß. Deutsche Zeitgeschichte, Frankfurt a.M. 1987, p. 35). (36) Sottolinea le conseguenze per la dogmatica giuridica di quel pluralismo ideale, che caratterizza gli ordinamenti contemporanei, PAWLOWSKI, Zur Aufgabe der Rechtsdogmatik im Staat der Glaubensfreiheit, in Rechtstheorie, 1988, p. 409. In relazione all’ambito propramente penalistico v. già ARNDT, Strafrecht in einem offenen Gesellschaft, München, 1968, specie p. J 10. (37) Che la scienza penale — ‘‘al pari di ogni scienza’’ — goda di uno statuto di libertà costituzionalmente riconosciuto è ricordato da HASSEMER, op. cit. nt. 16, p. 29. (38) La coesistenza di diversi sistemi concettuali in seno alla scienza penalistica è in generale riconosciuta da PULITANÒ, Quale scienza del diritto penale?, in questa Rivista, 1993, p. 1222. Anche FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, P.G., Bologna, 1995, 3a ed., p. 150 sottolineano la ‘‘convenzionalità’’ delle ricostruzioni possibili in tema di struttura del reato. (39) Paventare del resto che un tale atteggiamento ponga in pericolo la possibilità di
— 426 — Per evitare equivoci è forse opportuno aggiungere che quanto qui osservato non va confuso con l’atteggiamento intuizionistico che, anche quando non arriva a considerare del tutto superfluo ogni procedimento analitico che disperda ‘‘l’unitarietà della valutazione’’ (40), ritiene quantomeno ‘‘intercambiabili a piacere’’ le categorie del reato (41). L’idea di ‘‘relativismo’’ dogmatico qui prospettata richiede invece che la preferenza all’una o all’altra teoria del reato vada accordata sulla base della rispettiva razionalità e dunque su un piano essenzialmente argomentativo, sul quale influiscono e si confrontano fattori diversi: ad es. il grado di aderenza ai principi costituzionali, la capacità esplicativa e l’efficacia risolutiva dei problemi giuridici posti dalle norme positive, la razionalità logica dei rispettivi assunti, la praticabilità processuale delle soluzioni prospettate, e così via. IV.
Il futuro, ovvero i bisogni di integrazione.
4. Nessuno degli approcci assiologici ricordati riesce a trovare un equilibrio convincente tra elaborazione dogmatica e politica criminale, sebbene l’esigenza di assicurare un dialogo in proposito accomuni le tre diverse impostazioni. Sarebbe peraltro riduttivo pensare che l’affermazione ed il radicamento di una tale consapevolezza sia solo frutto di elaborazioni teoriche e si produca nel chiuso di uno studio. Un ruolo non trascurabile nella progressione del dialogo in esame spetta invece ai nuovi spazi di integrazione fra formulazioni teoriche e direttrici di politica criminale che si aprono nella realtà. Fra gli ambiti in cui il processo in questione sembra profilarsi con maggiore nitidezza, la cooperazione penale in seno all’Unione Europea esemplica bene le trasformazioni più generali del rapporto fra scienza e politica in materia penale. Il terreno indicato si presenta di grande interesse alla luce del dato notorio, che il radicamento nazionale dei vari sistemi penali ha a lungo rappresentato un serio ostacolo tanto al sorgere di un autonomo diritto esportare i risultati di una particolare teoria — ed in particolare ‘‘la possibilità di irradiare internazionalmente la scienza penalistica tedesca’’: HIRSCH, op. cit. nt. 25, p. 47 — non appare argomento in grado di convincere almeno tutti coloro che non condividano qualche aspetto della teoria assunta come unica, svelando piuttosto l’aspirazione ad egemonizzare il dibattito teorico, interno o internazionale che sia. (40) Così SCHAFFSTEIN, Die materielle rechtswidrigkeit im kommenden Strafrecht, in ZStW, 1936, p. 31; contro questa ed altre estremizzazioni della Kieler Richtung, SCHWINGEZIMMERL, Wesensschau und konkretes Ordnungsdenken im Strafrecht, Bonn, 1937, specie pp. 8 s., 27 s., 43 s. (41) Segnala i rischi di tale ulteriore posizione MARINUCCI, Fatto e scriminanti. Note dogmatiche e politico-criminali, in MARINUCCI-DOLCINI (cur.), Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, p. 182 s.
— 427 — penale europeo (42), quanto all’impianto e soprattutto alla diffusione di una teoria del reato generalmente condivisa in ambito europeo (43). Una situazione normativa e teorica che non ha però impedito la graduale crescita di attenzione sovranazionale nei confronti di temi che, come la criminalità organizzata o la corruzione, presentano indubbi risvolti penalistici. In proposito, appare particolarmente significativa la precisa assunzione di responsabilità nel campo della politica criminale che si registra nell’ultimo decennio da parte delle istituzioni europee, dapprima con documenti programmatici e poi con interventi destinati a stimolare risposte adeguate dagli Stati membri. Esemplari le ‘‘azioni comuni’’ che il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato alla fine del 1998 in tema di contrasto dei profitti illeciti (44), di estensione della punibilità alla corruzione nel settore privato (45), e soprattutto di punibilità della partecipazione ad un’associazione criminale (46). In particolare, l’impegno europeo sul fronte della criminalità organizzata interessa direttamente la stessa questione penale nei suoi termini attuali, come emerge non appena si riflette sul ruolo di ‘‘banco di prova’’ che il contrasto alla criminalità organizzata riveste per il diritto penale moderno. È noto che l’evoluzione recente dei sistemi penali nazionali è stata segnata proprio dagli interventi in tema di criminalità organizzata in relazione tanto al diritto penale sostanziale, quanto a quello processuale e penitenziario. Il tema ha così assunto un valore emblematico per misurare senso, limiti e scelte di contenuto, che caratterizzano la tutela penale in un ordinamento contemporaneo e che prevedibilmente ne condizioneranno anche in futuro gli sviluppi ulteriori (47). Inoltre, le richiamate prese di posizione europee, nel considerare la maggiore complessità dei (42) Sintetizza da ultimo questo diffuso rilievo JUNG, Konturen und Perspektiven des europäischen Strafrechts, in Juristische Schulung, 2000, p. 417. (43) La perdurante mancanza di una scienza penale europea è segnalata da KÜHL, Europäisierung der Strafrechtswissenschaft, in ZStW, 1997, p. 779. Le difficoltà di assumere una singola tradizione teorica nazionale (per quanto autorevole, come quella tedesca) come paradigma di una scienza penale europea sono riconosciute da PERRON, Hat die deutsche Straftatsystematik eine europäische Zukunft?, in ESER ed al. (Hrsg.), op. cit. nt. 18, p. 228, 246. (44) Azione comune, del 3 dicembre 1998, sul riciclaggio di denaro e sull’individuazione, il rintracciamento, il congelamento o sequestro e la confisca degli strumenti e dei proventi di reato adottata dal Consiglio sulla base dell’art. K.3 del Trattato sull’Unione europea, in GUCE, L 333 del 9 dicembre 1998. (45) Azione comune, del 22 dicembre 1998, adottata dal Consiglio sulla base dell’art. K.3 del Trattato sull’Unione europea, sulla corruzione nel settore privato, in GUCE, L 357 del 31 dicembre 1998. (46) Azione comune, del 21 dicembre 1998, adottata dal Consiglio sulla base dell’art. K.3 del Trattato sull’Unione europea, relativa alla punibilità della partecipazione a un’organizzazione criminale negli Stati membri dell’Unione Europea, in GUCE, L 351 del 29 dicembre 1998. (47) La riflessione sui caratteri del ‘‘diritto penale moderno’’ o ‘‘dell’efficienza’’ ha
— 428 — soggetti penalmente rilevanti, la inquadrano anche in quel ‘‘mutamento di scala’’ da tempo auspicato per le misure di contrasto alla criminalità organizzata, che le proietta al di là dei confini nazionali sulla base di un argomento difficilmente falsificabile: solo una dimensione sovranazionale può evitare che gli sforzi dei singoli ordinamenti siano vanificati dalla mancanza di coordinamento reciproco (48). In particolare, sin dal trattato di Maastricht l’obiettivo di contrastare il crimine organizzato ed i conseguenti fenomeni di infiltrazione-alterazione nella vita politica e nel mondo economico hanno rappresentato un polo di attrazione per l’affermarsi, se non ancora di un vero e proprio ‘‘diritto penale comunitario’’ (49), quantomeno di una politica criminale europea (50). Il quadro ha poi assunto cadenze temporali ed obiettivi di armonizzazione precisi con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam. In esso, al fine di creare uno ‘‘spazio di libertà, sicurezza, giustizia’’ (art. 2, comma 1, al. 4, Trattato U.E.), fra le competenze ricondotte ai meccanismi operativi comunitari (sia pure con alcuni adattamenti) si prevede anche l’adozione di misure volte a fissare norme minime comuni concernenti gli elementi costitutivi dei reati e delle sanzioni nelle materie del terrorismo, della criminalità organizzata e del traffico illecito di stupefacenti assunto proprio l’intervento in tema di criminalità organizzata come esempio privilegiato: cfr. HASSEMER, Das Schicksal der Bürgerrechte im ‘‘effizienten’’ Strafrecht, in Strafverteidiger, 1990, p. 328 s.; ID., op. cit. nt. 32, p. 318. In Italia, ad esempio, FIANDACA-MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, in questa Rivista, 1994, p. 28 s.; MOCCIA, Aspetti involutivi del sistema penale, in CANESTRARI (cur.), op. cit., nt. 17, p. 268. In Spagna, cfr. SILVA SÁNCHEZ, La expansión del derecho penal, Madrid, 1999, pp. 22, 70, il quale collega esattamente la tematica della criminalità organizzata alla globalizzazione delle istanze di tutela attualmente affidate al diritto penale. Il rilievo assunto dal tema si è riflesso nella scelta di dedicare ad esso alcuni fra i principali incontri internazionali degli ultimi anni: oltre alla già ricordata (supra nt. 26). Conferenza di Palermo in occasione della firma della Convenzione ONU sul crimine organizzato transnazionale, anche l’ultimo congresso dell’Association International de droit pénal ha approfondito il tema nei suoi risvolti di diritto penale sostanziale, processuale e criminologici (Budapest, 5-11 settembre 1999). (48) In tal senso ad es. PISANI, Criminalità organizzata e giustizia organizzata, in Indice pen., 1992, p. 494. Per un quadro aggiornato cfr. KRAUSE, Perspektiven der internationalen OK-Bekämpfug, in Kriminalistik, 1998, p. 12. (49) A tutt’oggi la locuzione ‘‘diritto penale comunitario’’, pur se presente da tempo nel lessico dei giuristi (ad es. SGUBBI, Diritto penale comunitario, in Noviss. Dig. it., app., Torino 1980, p. 1220) esprime una nozione ancora inesistente sul piano giuridico-formale: così BERNARDI, I tre volti del diritto penale comunitario, in PICOTTI (cur.), Possibilità e limiti di un diritto penale europeo, Milano, 1999, p. 41 s. Il che peraltro non è incompatibile con il riconoscimento di una progressiva incidenza del diritto di fonte comunitaria sui sistemi penali dei Paesi membri: cfr. ad es. RODGER FRANCE, The Influence of European Community Law on the Criminal Law of the States Members, in European Journal of Crime, Criminal Law and Criminal Justice, 1994, p. 324. (50) In proposito v. GRASSO, L’incidenza del diritto comunitario sulla politica criminale degli Stati membri: nascita di una ‘‘politica criminale europea"?, in Indice pen., 1993, p. 67, 81 s.
— 429 — (art. 31, lett. E, Trattato U.E. richiamato dall’art. 29, comma 2, al. 3, Trattato C.E.) (51). Si ritorna a questo punto al rapporto fra sistema penale e politica criminale, ma questa volta i fattori si presentano invertititi. Elemento coagulante a livello sovranazionale non è più la teoria del reato come costruzione concettuale, fondata o meno su strutture ontologiche o su finalità sanzionatorie generalmente condivise. Sono piuttosto specifiche esigenze di tutela a sollecitare i vari sistemi penali nazionali ad approntare un risposta comune e in virtù di ciò meglio adeguata alle caratteristiche di determinati fenomeni criminali. Possono essere interessi direttamente ascrivibili alla nuova entità instituzionale europea (come quelli considerati dal Corpus juris a protezione delle finanze europee) (52) oppure beni già regolati in modo omogeneo a livello extrapenale fra i vari ordinamenti degli Stati membri (ad esempio, in campo economico e della disciplina dei mercati finanziari) o comunque aggrediti in forme nuove da soggetti collettivi operanti senza barriere nazionali (è il caso appunto della criminalità organizzata). In ognuno dei settori indicati, le connesse richieste di tutela assumono con evidenza una funzione catalizzatrice per lo sviluppo di un diritto penale europeo. Quali che siano nei vari settori le difficoltà di concretizzare effettivamente un tale obiettivo, rileva in ogni caso la soluzione avanzata nei confronti di alcune incognite teoriche connesse proprio al rapporto fra dommatica e politica criminale nell’attuale contesto storico. In particolare, un paradosso sembra celarsi nelle prospettive di unificazione penale in materie come quelle ricordate e segnatamente in tema di criminalità organizzata: i rischi di facili entusiasmi e fughe in avanti rispetto alla realtà di (51) I settori richiamati mettono fuori gioco la tradizionale obiezione all’intervento degli organi europei, che è pur sempre condizionato al principio di sussidiarietà rispetto alle competenze nazionali (ricordata ancora dopo il trattato di Amsterdam ad es. da DELMASMARTY, Les défis d’un droit pénal européen, in EISKANEN-KULOVESI (eds.), Function and future of European Law, Helsinki, 1999, p. 186). È chiaro infatti che gli ordinamenti dei singoli Stati membri sono strutturalmente inadeguati a contrastare fenomeni criminali non limitati ai singoli confini nazionali, rispetto ai quali dunque l’intervento sovranazionale è l’unico adeguato. (52) L’esperienza sviluppata in relazione alla tutela degli interessi finanziari dell’Unione Europea appare istruttiva della nuova dimensione del rapporto fra elaborazione dommatica e scelte di politica criminale. In materia, il cammino teorico ha già percorso un tratto non breve: di fronte alla crescente importanza di un’adeguata protezione degli interessi in gioco, un gruppo di giuristi europei ha messo a punto un testo che, sotto l’impegnativo titolo di Corpus juris, comprende norme sostanziali e processuali rivolte a definire una parte generale comune, specifiche fattispecie incriminatrici ed organi inquirenti su scala europea. La proposta, dopo un confronto con altre posizioni teoriche (cfr. HUBER (Hrsg.), Das Corpus Juris als Grundlage eines Europäischen Strafrechts, Freiburg i. Br., 2000) ed una verifica della compatibilità rispetto ai singoli ordinamenti degli Stati membri, è stata quindi ripresentata in una nuova versione ampliata: DELMAS-MARTY-VERVAELE (eds.), The implementation of the corpus juris in the member states, Antwerp, 2000, p. 187 s.
— 430 — una perdurante mancanza di una vera e propria competenza penale dell’Unione Europea si coniugano al timore di abbassare il livello di civiltà nei rispettivi sistemi giuridici coinvolti. In altre parole, introdurre strumenti normativi unitari che, al fine di rendere più incisivi gli strumenti di contrasto alla criminalità organizzata, trasformano il quadro tradizionale di tutela può sembrare un cattivo prodotto delle sempre più diffuse aspettative per un diritto penale europeo. Infatti, la consistenza del fenomeno ‘‘criminalità organizzata’’ non si presenta uniforme nel contesto dell’Unione Europea, anche per la diversità dei caratteri costitutivi attribuiti alla relativa nozione (53). Più in generale poi si osserva che la logica dell’efficienza come direttrice politico-criminale volta ad inasprire la risposta repressiva — logica che anima le proposte nelle materie ricordate — contrasta radicalmente con la funzione critica di matrice liberale, ancorata invece al ruolo frenante delle garanzie rispetto ad una realtà penalistica bisognosa di contenimento e mitigazione (54). Si può in proposito osservare che non va trascurata la permanenza di discrasie normative nei singoli sistemi europei; una adeguata considerazione di tale stato di fatto è anzi presupposto indispensabile per qualunque prospettiva anche solo di armonizzazione fra i vari ordinamenti. Sarebbe però erroneo ricavare dalle riserve surricordate l’idea che l’alternativa praticabile alle prospettive di diritto penale europeo possa essere quella di un ritorno ideale ad un nazionalismo penalistico. Un dato rappresenta in realtà il nocciolo dell’intera questione teorica: l’unificazione normativa non è causa, ma piuttosto prodotto delle trasformazioni nella società e nella criminalità, che tendono a mettere in comune profili ed attività sempre più numerose (55). (53) Sulla varietà di manifestazioni della criminalità organizzata in ambito europeo FINJAUT, Organisierte Kriminalität: eine wirkliche Bedrohung für die europäischer Union?, in H.-J. ALBRECHT ed al. (Hrsg.), Festschrift für Kaiser, Berlin, 1999, p. 518 s. Sull’esigenza di non ricavare da considerazioni del genere una generale impossibilità di mettere a fuoco alcuni elementi strutturali comuni cfr. comunque MILITELLO, Agli albori, cit., nt. 12, p. 19. (54) Per il rilievo generale v., ad es., SEMINARA, Diskussionsbericht, in ESER ed al. (Hrsg.), op. cit. nt. 12, p. 384. L’unilateralità della logica dell’efficienza è criticata in specie da P.A. ALBRECHT-BRAUM, Defizite europäischer Strafrechtsentwicklung, in Kritische Vierteljahreschrift für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft, 1998 p. 464; ed anche con specifico riguardo al corpus juris da HASSEMER, ‘‘Corpus Juris’’: Auf dem Weg zu einem europäischen Strafrecht?, ivi, 1999, p. 133 s. (55) Fra chi sostiene dunque che motore dell’unificazione sia una teoria del reato adeguatamente generale, magari fondata sulla rapida diffusione internazionale delle fondamentali decisioni di politica criminale (per un tentativo in tal senso ad es. SCHÜNEMANN, Strafrechtssystem und Kriminalpolitik, in FS-Schmitt, Tübingen, 1992, p. 137), e chi invece considera preminenti le profonde trasformazioni dell’economia e le connesse esigenze di globalizzazione (specie in ambito europeo: PERRON, op. cit. nt. 43, p. 246), appare più convincente quest’ultima impostazione. Ne rappresenta un’originale applicazione il contributo di PALIERO (La fabbrica del golem, in questa Rivista, 2000, p. 467 s.) alla progettazione di una
— 431 — Alla luce di ciò, un problema come quello della criminalità organizzata sembra offrire il terreno più indicato per capovolgere la conclusione secondo cui l’innegabile differenziazione delle singole legislazioni, condizionata dalla mutevolezza delle singole realtà politico-criminali, non scalfisce l’unitarietà della dogmatica penalistica, ispirata a comuni principi di razionalità (56). Sono convinto invece che una tale preminenza della dogmatica sulla politica criminale sia ingannevole, perché, in relazione all’elaborazione del diritto vivente, solo dove le scelte politiche criminali si sono formalizzate in una comune piattaforme normativa è corretto elaborare una dogmatica integralmente unitaria. In mancanza di quel presupposto normativo, è attraverso una sviluppata sensibilità comparatistica ed una puntuale analisi dei sistemi vigenti che si deve verificare quando l’unificazione dei concetti è possibile sul piano della scienza penalistica ed in prospettiva di riforma del quadro positivo. Se così è, una riflessione che prenda spunto dai caratteri della criminalità organizzata e dal connesso impegno sovranazionale di contrasto induce ad invertire la posizione teorica surrichiamata: Hirsch la scolpiva nella formula ‘‘non esiste una dogmatica italiana, spagnola o tedesca, ma solo una dogmatica giusta o sbagliata’’ (57). A mio avviso, una tale irrilevanza delle distinzioni nazionali concerne invece in primis la politica criminale contemporanea: le attività della criminalità organizzata costituiscono nel modo più chiaro un problema che va affrontato in termini non di una politica criminale italiana, spagnola o tedesca, inglese o francese, ma solo di una politica criminale giusta o sbagliata (58). La cartina al tornasole per una tale verifica non può certo essere quella di un’astratta uniformità negli interventi normativi, che copra inparte generale di un codice penale europeo. L’A. richiama opportunamente in proposito il processo di ‘giuridicizzazione’ dei fenomeni sociali, che rende lo sviluppo di un sistema penale europeo « funzione delle dinamiche sociali » operanti nel contesto di riferimento (ivi, p. 485). Meno condivisibile appare però la programmatica limitazione dello sforzo di elaborazione delle categorie generali al solo diritto penale economico e la contemporanea esclusione del fascio di problemi commessi alla criminalità organizzata (ivi, p. 489 s.). Invece, al di là dell’obiettiva comunanza delle questioni connesse ai due ambiti (basta pensare alla cruciale tematica della responsabilità collettiva: v. lo stesso PALIERO, op. cit., p. 421 s.) l’esigenza di principi garantistici in entrambi i settori menzionati appare una sfida ineludibile nel momento in cui si progetta una parte generale penale per l’Unione Europea. (56) La tesi venne espressa da HIRSCH, Die Stellung, cit. nt. 27, p. 54 (ed in trad. it. p. 785) proprio in un incontro internazionale ormai di oltre dieci anni fa, la cui struttura era molto simile a quella del presente Convegno di Toledo quanto a provenienza dei partecipanti (pure Germania, Spagna, Italia, oltre al Portogallo). (57) Cfr. nota precedente (i corsivi sono aggiunti). (58) Nei confronti della dogmatica, la qualifica di giusta o sbagliata dipenderà dunque anche dell’aderenza al rispettivo sistema di appartenenza, che andrà analizzato con sensibilità comparatistica. Per un tale approccio al problema proprio in un comparatista, sia pure di ambito privatistico, cfr. KÖTZ, Rechtsvergleichung und Rechtsdogmatik, in RabelsZ, 1990, p. 203 s., 215.
— 432 — coerenze normative o peggio eccessi di criminalizzazione. D’altra parte, la complessità dei compiti a cui sono chiamati la politica criminale e la crisi stessa del modello bipolare del reato su cui si è sviluppata la dogmatica penale classica rendono impraticabile il vagheggiare un ritorno ad un modello di diritto penale ‘‘classico’’, almeno se inteso come limitato alle forme tradizionali di offesa e di risposta repressiva, tanto più se si riflette sul dato che un simile modello non è forse mai esistito allo stato puro. Né l’idea di affiancare a questo nucleo penalistico ‘‘duro e puro’’ un autonomo ‘‘diritto dell’intervento’’, capace di rispondere alle nuove esigenze di tutela tipiche della società contemporanea senza ‘‘imbastardire’’ i tratti classici del diritto penale, riesce ad affrancarsi ad un’alternativa comunque inappagante (59). In una prima possibilità, un tale futuribile ramo dell’ordinamento potrebbe infatti ridursi ad una mera operazione nominalistica, in cui cioè l’etichetta ‘‘diritto dell’intervento’’ serve solo ad indicare il sottoinsieme penalistico rivolto a soddisfare le nuove esigenze di tutela. Altrimenti quella formula non potrebbe che esprimere in sintesi un diverso rapporto fra lo stato ed il cittadino, nel quale le garanzie dei soggetti destinatari dell’intervento pubblico siano significativamente meno stringenti di quelle che caratterizzano il diritto penale di tipo liberale. La traccia da seguire va invece in una direzione esattemente opposta: è proprio il diritto penale — e non un ramo diverso dell’ordinamento — che deve bere sino in fondo il calice della modernità, senza rinchiudersi a riccio per respingere ogni sfida che ponga in crisi vecchi e nuovi ‘‘ontologismi’’ penali. La concordia di fondo sulla necessità di verificare le possibilità di depenalizzare parti significative dell’arcipelago penalistico, non deve fare dimenticare l’esigenza di aggiornare i caratteri dell’intervento penale per la parte residua in cui la tutela di questo tipo rimane necessaria (60). Un obiettivo certo ambizioso, la cui realizzazione richiede in primo luogo una vigile apertura agli apporti delle altre forme di conoscenza e di intervento che concernono gli stessi fenomeni sociali (61). D’altra parte, l’esigenza di adottare risposte adeguate alla gravità delle of(59) L’idea risale, come è noto, ad HASSEMER, op. cit., nt. 38, p. 318 s. (60) Che la via maestra della depenalizzazione non risolva magicamente tutti i problemi, ma ponga la scienza penale di fronte a nuove responsabilità è segnalato da DONINI, La riforma della legislazione penale complementare: il suo significato ‘‘costituente’’ per la riforma del codice, in ID. (cur.), La riforma della legislazione penale complementare. Studi di diritto comparato, Padova, 2000, p. 14 s. (61) L’orientamento del diritto penale alle scienze sociali è più in generale l’integrazione fra le questioni normative e quelle empiriche sono stati con vigore avanzati dalla c.d. scuola di Francoforte (a partire già da HASSEMER, Theorie und Soziologie des Verbrechens, Frankfurt a.M., 1973, spec. p. 103 s. e v. anche i contributi raccolti in ID. ed al., Fortschritte im Strafrecht durch die Sozialwissenschaften?, Heidelberg, 1983). Si tratta di un’ottica ormai condivisa da una cerchia più ampia di autori, fra cui non a caso spesso quelli con maggiore sensibilità per la comparazione (p.es. PERRON, op. cit., nt. 25, p. 301).
— 433 — fese in gioco non può cancellare la necessità di contemperare adeguatamente garanzia dei diritti individuali ed esigenze collettive di tutela. Infine, la stessa risposta penale va adeguatamente verificata nella sua idoneità a raggiungere un determinato risultato, ancorché un tale giudizio non possa essere formulato senza risentire dei diversi punti di vista valutativi rispetto alle cause dei problemi sociali ed alle relative soluzioni preferibili. V.
Un possibile bilancio, ovvero il dialogo necessario.
5. È tempo di ricavare alcune indicazioni conclusive da quanto fin qui osservato. I rapporti fra scienza e politica del diritto penale appaiono segnati dalle due grandi opzioni di fondo nello studio dei problemi penali e più in generale giuridici: il positivismo, con il suo tipico ancoraggio al dato normativo, ed all’estremo opposto l’assiologismo, in cui sono i valori ad assumere un ruolo preminente rispetto alle scelte positive di tutela operate da un concreto ordinamento. Una tale opposizione può indicare le coordinate di massima che inquadrano una storia del pensiero giuridico, e penalistico in particolare, dai complessi svolgimenti. Quando però il compito sia quello di analizzare un particolare materiale normativo, almeno come base di partenza per considerazioni ulteriori, la prospettiva più fruttuosa appare quella che è in certo grado intermedia fra i suddetti estremi, in quanto volta ad individuare i valori riconosciuti nell’ordinamento mediante il ricorso alle particolari norme corredate da sanzioni penali (62). Scopi, modalità, limiti e potenzialità di tutela devono quindi essere verificati alla luce dei principi più generali dell’ordinamento e dei rispettivi valori fondanti, i quali negli ordinamenti contemporanei trovano il loro precipitato normativo nelle rispettive carte costituzionali (63), oltre che, sempre più spesso, in atti internazionali di valore generale (64). L’individuazione delle categorie dogmatiche diventa allora un processo in cui il materiale normativo, molteplice numericamente e spesso (62) In proposito, si potrebbe parlare di metodo teleologico di valore (così ANGIONI, Condizioni di punibilità e principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1989, pp. 1440-1534, 89, p. 1440 s.). (63) Di una diffusa tendenza alla ‘‘costituzionalizzazione’’ del diritto penale e dei suoi principi parla PRADEL, Droit pénal comparé, Paris, 1995, p. 49 s. Di conseguenza il ricorso a tali principi ben si presta per condurre indagini relative a tendenze e sviluppi comuni a diversi ordinamenti positivi: in altre parole, come metodo per studi di comparazione penalistica (così BERNARDI, ‘‘Principi di diritto’’ e diritto penale europeo, in Annali Ferrara, 1988, pp. 87, 100 s.; e per alcune applicazioni MILITELLO, Il diritto penale nel tempo della ‘‘ricodificazione’’, in questa Rivista, 1995, p. 789 s.). Per una significativo ricorso ai principi in sede di rivisitazione della tradizionale teoria costituzionale del reato cfr. invece DONINI, Teoria del reato. Un’introduzione, Padova, 1996, p. 25 s. (64) Esemplare, di recente, la ‘‘Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea’’ (supra, nt. 21).
— 434 — differenziato qualitativamente in relazione all’efficacia delle rispettive fonti, viene ricondotto ad una rete di concetti, i quali si estendono a comprendere un numero significativo di disposizioni. Nella misura in cui ciò facilita la leggibilità dell’ordinamento giuridico da parte dell’interprete, la dogmatica contribuisce in primo luogo alla traduzione applicativa delle stesse norme alla luce dei valori dell’ordinamento; al contempo, essa permette un controllo critico rispetto agli sviluppi di tale processo ermeneutico ed alle sue possibili conseguenze (65). Gli inconvenienti delle due opposte assolutizzazioni, rappresentate dal metodo positivistico e da quello assiologico, possono dunque evitarsi solo mediante uno sforzo continuo volto a collegare formulazioni positive e considerazioni di valore, in un processo dialettico che rispecchia l’approssimarsi ad una soluzione, la cui scelta finale presenta comunque ineliminabili margini di opinabilità sul piano argomentativo. Tale eco di incertezza, alla quale la moderna riflessione giusfilosofica è ormai abituata (66), non può impaurire il penalista contemporaneo, almeno quello che non sia disposto a sacrificare sull’altare dell’aspirazione ad un ‘‘sistema chiuso’’ ed ‘‘unitario’’ (67) la realistica consapevolezza di due fattori che ostacolano la possibilità di assolutizzare le conclusioni dommatiche: per un verso, le molteplici possibilità combinatorie fra le varie norme, anche in relazione ai diversi schemi valutativi che operano nei rispettivi contesti (68); per altro verso, il ruolo svolto da elementi extratestuali ed in primo luogo da principi che orientano le scelte interpreta(65) In tale prospettiva, può risultare equivoca l’idea che la dogmatica penale moltiplichi il numero di proposizioni a disposizione del giudice per giudicare i casi concreti (BACIGALUPO, Delito y punibilidad, Madrid, 1983, p. 17). Tale dato puramente formale trascura che la funzione della dogmatica è esattamente opposta, di ridurre cioè la complessità dell’insieme normativo che un giudice deve dominare: ciò è ottenuto proprio mediante una griglia concettuale che orienta l’applicazione delle norme al caso concreto. Segnala esattamente che tale funzione limitante dei criteri di soluzione dei problemi accomuna la teoria del reato a tutti i sistemi scientifici, PUPPE, in Nomos Kommentar zum Strafgesetzbuch, 1995, vor § 13 n. 1. (66) V. ad es. GIULIANI, Logica (teoria dell’argomentazione), in Enc. dir., vol. XXV, Milano, 1975, p. 33 ed anche, pur in un contesto fortemente giuspositivistico, POTACS, op. cit. nt. 9, p. 198. (67) Prospettata ad es. da HIRSCH, Die Entwicklung der Strafrechtsdogmatik nach Welzel, in Festschrift Rechtswiss. Fakultät Köln, Köln ed al., 1988, p. 418, in contrapposizione al ‘‘sistema aperto’’ di cui parla SCHÜNEMANN, op. cit. nt. 16, p. 8, che sicuramente contrasta con l’idea di una dogmatica tanto unitaria da essere sovranazionale (v. supra § 3.3.). (68) La necessità di considerare adeguatamente le specifiche componenti telelogiche delle varie branche del diritto in sede di interpretazione è segnalata da ultimo da PAGLIARO, Testo ed interpretazione nel diritto penale, in questa Rivista, 2000, p. 434 s.
— 435 — tive (69) e condizionano i necessari bilanciamenti fra interessi in contrasto (70). Si svela così l’illusorietà dell’idea di evitare i rischi di indeterminatezza normativa ‘‘formalizzando’’ il linguaggio legislativo (71): solo se non si trascura l’almeno in parte ineliminabile presenza di componenti valutative nell’operazione di qualificazione giuridica, può assumere un significato non riduttivo lo schema logico della sussunzione sillogistica, ancora diffuso per indicare il collegamento di un fatto ad una norma al fine di verificarne le relative conseguenze (72). Non meno erroneo sarebbe d’altronde svalutare il contributo offerto dal quadro di riferimento normativo rispetto alle cadenze del ragionamento giuridico: senza tale mediazione le operazioni di scelta e valutazione di fini e mezzi di tutela di volta in volta compiute dal singolo interprete comporterebbero evidenti rischi di arbitrarietà nel trattamento. Questi per di più presentano una speciale gravità proprio sul terreno penalistico, tanto per il particolare tipo di interessi della persona coinvolti, quanto perché tali disparità applicative indeboliscono la fiducia dei cittadini sul funzionamento della tutela penale (73). (69) Su tale ruolo delle componenti valutative nel processo ermeneutico, che rendono inapplicabile al diritto l’ideale scientifico fondato sul metodo assiomatico, a favore di un procedimento fondato su argomenti di ragionevolezza, v. già ENGISCH, Sinn und Tragweite juristischer Sistematik, in Studium Generale, 1957, p. 173 s. (70) Esemplare, in relazione ai bilanciamenti richiesti nello stato di necessità, LENCKNER, Der rechtfertigende Notstand, Tübingen, 1965, p. 185 s., il quale parla espressamente di un ‘‘residuo di incertezza’’ (p. 186). (71) I fallimenti di tali tentativi sono sintetizzati da ORRÙ, Le definizioni del legislatore e le ridefinizioni della giurisprudenza, in CADOPPI (coord.), Il problema delle definizioni legali nel diritto penale, Padova, 1996, p. 147 s., 158. (72) Senza una tale precisazione (per la quale ad es. FIKENTSCHER, Methoden des Rechts in vergleichender Darstellung, Band IV, Tübingen, 1977, pp. 182 s., 185; e fra i penalisti JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts AT, 5a ed., Berlin, 1996, p. 42), diventa poco comprensibile il riferimento — di per sé pur corretto — alla necessità di considerare il modo in cui la norma è interpretata nella prassi, operato in relazione alla struttura del sillogismo giuridico da PERRON, Rechtfertigung und Entschuldigung im deutschen und spanischen Recht, Baden Baden, 1988, p. 35. D’altra parte, la consapevolezza di tale ineliminabile componente valutativa non deve indurre al radicale rifiuto dello schema sillogistico, quasi si trattasse di due punti di vista inconciliabili (come invece lascia trasparire FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990, p. 233). Non è difficile ammettere che proprio l’incontestabile natura formale del giudizio sillogistico, lascia del tutto aperta la questione di individuare e discutere i valori che ne sono a fondamento; d’altra parte, proprio quello schema rappresenta un importante modello logico di controllo che può contribuire ad una verifica in termini di certezza o almeno di prevedibilità dei giudizi. Per una riaffermazione recente della necessità di integrare momento logico e momento teleologico dell’interpretazione, proprio in relazione alle possibilità ed ai limiti dello schema sillogistico cfr. PAGLIARO, op. cit. nt. 68, p. 440 s. (73) I rischi segnalati non sembrano adeguatamente considerati assumendo come punto di partenza della dogmatica non le norme positive — e solo per tale tramite gli scopi
— 436 — In altri termini, anche a fronte delle caratteristiche dei fenomeni criminali contemporanei ed alle connesse risposte sovranazionali che incidono su tratti significativi dei sistemi penali (si è in proposito richiamato l’intervento dell’Unione Europea nel contrasto alla criminalità organizzata), non si tratta di abbandonare il rapporto fra le tradizionali funzioni sistematica e critica della dogmatica, bensì di attualizzarlo, arricchendolo dell’insostituibile apporto della comparazione (74). Necessaria rimane dunque l’attività teorica che muove dalla comprensione del diritto vigente, lo elabora in modo concettuale e sistematico, per sviluppare quindi proposte di soluzione dei problemi giuridici (75). Ciò serve tanto per delimitare l’ambito operativo dell’organo chiamato ad applicare la legge in relazione ad un caso concreto, quanto per determinare la base legale per la relativa soluzione giuridica (76). Si contribuisce in tal modo alla calcolabilità delle conseguenze giuridiche e che sono in esse obiettivati, ma anche inevitabilmente filtrati dalla formulazione legale — ma un continuum fra la ‘‘determinazione degli scopi politici ultimi’’ l’articolarsi di questi ‘‘nel sistema legale’’ ed infine il ‘‘concretizzarsi nella qualificazione giuridico-penale dei casi di specie’’ (così invece PULITANÒ, Politica criminale, in MARINUCCI-DOLCINI (cur.), op. cit., nt. 41, p. 37 s.; e più di recente, in relazione alle vicende divenute internazionalmente note con le etichette di ‘‘tangentopoli’’ e ‘‘mani pulite’’, ID., La giustizia alla prova del fuoco, in questa Rivista, 1997, p. 16). Se bene intendo questa integrazione di momenti, si legittima così una diretta scelta di fini politici ultimi da parte dell’interprete, almeno ogni volta che la relativa concretizzazione legislativa sia (reputata come) insufficiente. Così ragionando, però, si rischia di trascurare l’esigenza che la formulazione della norma funga da limite invalicabile in sede applicativa: l’innegabile porosità della formulazione testuale non deve infatti assurgere a pretesto per legittimare ogni arbitrio nella lettura della norma mediante il diretto riferimento ai fini politici ultimi che l’interprete ritenga di individuare. (74) Per una chiara riaffermazione di tale duplicità di funzioni, cfr. MAIWALD, Dogmatik und Gesetzgebung im Strafrecht der Gegenwart, in Gesetzgebung und Dogmatik, BEHRENDS-HENKEL (Hrsg.), Göttingen, 1989, p. 120 s. Da ultimo elenca ben sette funzionicompiti attribuiti alla dogmatica penale nel dibattito tedesco (senza che in nessun punto rilevi la comparazione) BURKHARDT, Geglückte und folgenlose Strafrechtsdogmatik, in ESER ed al., op. cit. nt. 16, p. 118 s. (ed a p. 117, nt. 24 ne vengono richiamati ancora di ulteriori, pure menzionati in dottrina). Ma di un’adeguata integrazione della comparazione all’esame dogmatico e politico criminale non mancano esempi, quale quello magistrale di JESCHECK, Neue Strafrechtsdogmatik und Kriminalpolitik in rechtsvergleichender Sicht, in ZStW, 1985, p. 1 s. (trad it., di DONINI, Dogmatica penale e politica criminale nuove in prospettiva comparata, in Indice pen., 1985, p. 507 s.; trad. spagn. in Anuario de derecho penal y ciencias penales, 1986, p. 9 s.). (75) Così, in generale, ALEXY, Theorie der juristischen Argumentation, Frankfurt a.M., 1991, p. 308. Sul ruolo centrale che continua a spettare alla dogmatica fra i compiti del penalista e sulle possibilità di sua ulteriore evoluzione, cfr. ROXIN, op. cit. nt. 16, p. 370. (76) Non si disconosce il rilievo che l’intervento dell’interprete assume nel processo di concretizzazione della regola giuridica, ma ci si preoccupa di restringerne i margini in termini compatibili con le istanze garantistiche affidate in diritto penale al principio di legalità. A tal fine si tratta di indicare le condizioni che legittimano la specificazione delle regole di condotta contenute nelle più astratte proposizioni legali (per una esemplificazione BACIGALUPO, op. cit. nt. 65, p. 17).
— 437 — dunque si incrementa la capacità dell’ordinamento di orientare le condotte dei consociati (77). Un contribuito, quest’ultimo, il cui peso specifico aumenta enormemente in un tempo di alluvione normativa: un quadro concettuale di riferimento è indispensabile sia per ordinare l’inarrestabile flusso di nuove regole sia per segnalarne le contraddizioni interne, le erosioni allo stato di diritto, l’inadeguatezza a realizzare gli obiettivi politico-criminali talvolta solo simbolicamente proclamati (78). Distinzioni come quelle fra logica ed ermeneutica, o fra la stessa dommatica e la casistica, possono allora rappresentare solo utili agganci per indicare i poli principali del metodo giuridico; al contempo occorre evitare di assumerle quali alternative necessarie ed inconciliabili: accertata ormai la centralità dei valori e degli scopi che la norma penale tutela ed afferma con ogni sua applicazione, non va trascurato che un controllo logico e sistematico di tali molteplici concretizzazioni costituisce pur sempre un fondamentale fattore di garanzia per i cittadini (79). In tale operazione complessa è certo possibile il riferimento a schemi linguistici e concettuali elaborati al di fuori dei confini nazionali, quando ciò accresca la razionalità del sistema concettuale o la sua adeguatezza ad individuare una soluzione applicativa e sempre a condizione di non trascurare la cornice normativa obiettivata nel testo di legge vigente nell’ordinamento considerato. Quando invece dal suddetto confronto emerga un contrasto insuperabile nel quadro delle alternative compatibili con il testo positivo, ad entrare in gioco sarà la funzione critica e propositiva della dogmatica. La formulazione di soluzioni innovative è sorretta essenzialmente dall’idea di scopo, la quale può svolgersi in modo libero dal quadro positivo ricevuto, quando si tratta non di applicare una norma vigente, ma (77) Sottolineava con vigore tale profilo già GIMBERNAT ORDEIG, Hat die Strafrechtsdogmatik eine Zukunft?, in ZStW, 1970, p. 405-406. Cfr. pure MAURACH-ZIPF, Strafrecht AT, vol. 1, 8a ed., Heidelberg, 1992, p. 40; ZIPF, Kriminalpolitik. Lehrbuch (1980), trad. it. di BAZZONI, Politica criminale, Milano, 1989, p. 20. (78) Sulla necessità per la scienza penale di non distogliere lo sguardo da tali sviluppi della più recente politica criminale, HASSEMER, op. cit. nt. 16, p. 41. (79) La diffusa critica alla Begriffjurisprudenz come costruzione logica dei concetti giuridici tale da formare un sistema da cui ricavare soluzioni per casi concreti, ed il più recente riconoscimento di eccessi concettualistici in categorie di limitata rilevanza applicativa (in campo penalistico ad es. HIRSCH, op. cit. nt. 67, p. 426 s.; JESCHECK-WEIGEND, op. cit. nt. 72, p. 196 s.) non intendono negare l’impiego di argomenti concettuali e sistematici. Questi vanno piuttosto applicati accanto ad altri, specie argomenti connessi alla dimensione pratica del diritto (v. lo stesso ALEXY, op. cit. nt. 75, pp. 308, 312 e, con più diretto riferimento al diritto penale, NAUCKE, op. cit. nt. 4, p. 35 s.). Anche chi ha dimostrato l’impossibilità di un sistema concettuale ‘‘assiomatico-deduttivo’’ nel settore della scienza giuridica, non intende rinunciare ad un sistema di pensiero, che considera anzi irrinunciabile per chiunque debba elaborare concettualmente un ordinamento giuridico effettivo (ENGISCH, op. cit. nt. 69, p. 173 s.; ZIPPELIUS, Recht und Gerechtigkeit in der offenen Gesellschaft, Berlin, 1996, p. 404 s).
— 438 — di prospettarne una futura e più adeguata. In tale fase potranno rilevare tanto l’esigenza di meglio concretizzare principi costituzionali o sovranazionali, come tali non vincolati dalla normazione ordinaria, quanto il confronto con diverse soluzioni approntate in altri ordinamenti, ancora una volta nazionali o sovranazionali. In relazione a quest’ultimo riferimento è bene precisare che non si tratta di uniformarsi al vagheggiato modello unitario di teoria scientifica del reato, ma di verificare come un determinato problema sostanziale venga affrontato nei vari ordinamenti; in caso di accertata diversità, si dovrà quindi precisare quali soluzioni appaiono preferibili tanto sul piano dell’inquadramento concettuale, quanto e soprattutto sul piano dell’efficacia. Su tale base, si schiude una nuova dimensione di politica criminale, sorretta però da una più matura consapevolezza dei problemi e delle praticabili alternative di soluzione. Né una tale integrazione con la politica criminale e con la comparazione deve ottenersi a costo di un indebolimento della dogmatica: un tale risultato deriverebbe piuttosto tanto da un asservimento di quest’ultima all’idea positivistica del primato della legalità (80), quanto trascurando i risvolti sostanziali delle molteplici costruzioni teoriche potenzialmente riconducibili al sistema normativo considerato (81). Contro ogni apparenza, la dogmatica si rafforza e diviene più matura alle condizioni che sono state qui tratteggiate: per un verso, se impara dalla comparazione come metodo a rispettare la diversità di teorie del reato, tutte parimenti legittime finché prive di contraddizioni interne ed adeguate allo scopo di garantire certezza applicativa e rispetto dei valori guida dell’ordinamento, e per altro verso, se considera la politica criminale come indispensabile elemento per completare il proprio apporto alla vita dell’ordinamento. Un metodo, dunque, che vive della continua integrazione fra i punti di vista in gioco e la cui applicazione non conduce a risultati che aspirano ad esaurire tutte le possibili combinazioni di valore. Ma senza un richiamo alla propria responsabilità, il penalista europeo chiamato ad operare nel XXI secolo difficilmente potrebbe trovare una risposta adeguata alla complessità dei rapporti fra dogmatica e politica criminale. VINCENZO MILITELLO Università di Palermo (80) Un’idea ‘‘davvero rispettabile, ma anche un po’ bugiarda’’, come osserva acutamente DONINI, Illecito e colpevolezza nella teoria del reato, Milano, 1991, p. 366. (81) I rischi di un relativismo politico, come risvolto del metodo positivistico, vengono sottolineati da NAUCKE, Die Aushöhlung der strafrechtlichen Gesetzlichkeit durch den relativistischen, politisch aufgeladenen strafrechtlichen Positivismus, in P. ALBRECHT et al. (Hrsg.), Vom unmöglichen Zustand des Strafrechts, Frankfurt, 1995, p. 494 (ed. spagn. La progresiva pérdida de contenido del principio de legalidad penal como consecuencia de un positivismo relativista y politisado, in La insostenible situación del derecho penal, Granada, 2000, p. 531 s.).
SENTENZA DI PATTEGGIAMENTO, ACCERTAMENTO SEMPLIFICATO DEI FATTI E RIFLESSI SUL GIUDIZIO CIVILE
SOMMARIO: 1. La sentenza di patteggiamento come « provvedimento giurisdizionale senza giudizio »: le ragioni dell’orientamento maggioritario della Cassazione penale. — 2. Opportunità di rivedere l’orientamento maggioritario della Cassazione alla luce del quadro normativo: la ricostruzione del patteggiamento come « giudizio ad accertamento semplificato ». — 3. Il confronto con la giurisprudenza della Corte costituzionale. — 4. Il confronto con l’orientamento « minoritario » della stessa Cassazione penale. — 5. Conseguenze sul valore dell’ammissione dell’imputato nel successivo processo civile: « argomento di prova » o « comportamento confessorio »? — 6. L’ammissione dell’imputato come relevatio ab onere probandi per la parte civile. — 7. L’ammissione dell’imputato come « comportamento extra-processuale » (e quindi irrilevante) per il danneggiato non costituitosi parte civile.
1. È affermazione ricorrente, nelle sentenze della Cassazione penale degli ultimi tempi, che il provvedimento conclusivo del procedimento di c.d. patteggiamento (art. 444 e ss. c.p.p.), pur essendo espressione della funzione giurisdizionale, non possa essere considerato una vera e propria sentenza di accertamento del reato e di condanna del responsabile, e questo perché esso non implicherebbe, né presupporrebbe l’accertamento della sussistenza del fatto-reato e della sua riferibilità ad un determinato soggetto, risolvendosi in una pronuncia giurisdizionale « senza giudizio » (1). Proprio sulla base di simili considerazioni le sezioni unite penali della Cassazione, in diverse occasioni, hanno negato che dalla sentenza penale di patteggiamento possano ricavarsi le medesime conseguenze che, generalmente, si ricavano dalla sentenza penale di condanna (2). (1) In questo senso si sono espresse per prime Cass., sez. un., 8 maggio 1996, De Leo, in Dir. pen. e proc., 1996, p. 1229, con nota di PERONI, Il patteggiamento senza revoca della sospensione condizionale concessa in precedenza, ed in Foro it., 1997, II, c. 28 ss. Questa pronuncia è nata dal quesito sulla possibilità di revoca, con la sentenza di patteggiamento, del beneficio della sospensione condizionale della pena precedentemente concesso. (2) In questo senso, Cass., sez. un., 26 febbraio 1997, Bahrouni, in Dir. pen. e proc., 1997, p. 1484, con nota di TREVISSON LUPACCHINI, Sospensione condizionale della pena: il successivo patteggiamento ne comporta o no la revoca?; Id., sez un., 20 giugno 1997, Lisuzzo, e Id., sez. un., 8 luglio 1998, Palazzo, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1998, p. 1377, con nota critica di LOZZI, Il patteggiamento e l’accertamento di responsabilità: un equivoco cbe
— 440 — I giudici di merito, dal canto loro, mentre nella maggior parte dei casi — seguendo le indicazioni provenienti dalla Suprema Corte — hanno rilevato la non coincidenza tra la sentenza di patteggiamento e quella di condanna, per l’assenza di un vero e proprio accertamento sui fatti di causa (3), in alcuni casi hanno riconosciuto, invece, natura ed essenza di sentenza di condanna alla pronuncia di patteggiamento, in considerazione persiste; ld., sez. un., 25 marzo 1998, Giangrasso, in Dir. pen. e proc., 1998, p, 2897; Id., sez. un., 27 maggio 1998, Bosio, in Cass. pen., 1999, p. 833, ed in Giur it., 2000, 153 ss., con nota di SANFELICI; Id., sez. un., 25 novembre 1998, Messina, in Cass. pen., 1998 p. 1746, con nota di PERONI, Ribadita dalle Sezioni unite l’incompatibilità tra patteggiamento e schemi negoziali diretti al proscioglimento; Id., sez. un., 22 febbraio 1999, Messina, in Gazz. Giuridica, n. 11/99, IV, p. 57. In senso contario, però, v. Cass., sez. VI, 11 novembre 1991, AIbanese, in Riv. pen., 1992, p. 452, secondo la quale la sentenza che applica la pena su richiesta delle parti, ai sensi del comma 2 dell’art. 444 c.p.p., irrogando una sanzione penale non può che essere considerata di condanna, a ciò non ostando il fatto che si fondi sulla richiesta dell’imputato medesimo (la quale ha il valore di una confessione di responsabilità per fatti concludenti) né che non produca — ai sensi dell’art. 445, comma 2, di detto codice — taluni degli effetti delle pronunce di condanna. Siffatta conclusione — ha osservato ancora la Corte — risulta ancora più chiara quando si ponga mente di fatto che il giudice può e deve valutare la congruità della pena richiesta (v. la sentenza della Corte costituzionale del 2 luglio 1990, n. 313, sulla quale ultra, nota 9) e deve condannare l’imputato al pagamento delle spese in favore della parte civile (v. la sentenza della Corte costituzionale del 12 ottobre 1990, n. 443); d’altro canto va rilevato che l’art. 445, comma 2, c.p p. disciplina la successiva estinzione del reato, da ritenersi accertato, evidentemente, con la sentenza, la quale, quindi, accertando il reato ed infliggendo una pena al suo autore, si atteggia necessariamente come una decisione di condanna. Su questa stessa lunghezza d’onda mi pare si pongano oggi le sezioni unite penali nella sent. 3 dicembre 1999, Fraccari, inedita, ma di prossima pubblicazione in Resp. civ. e prev., 2000, con mia nota, Sui limiti dell’accertamento del giudice nel patteggiamento: tra giudizio « allo stato degli atti » e « pronuncia giurisdizionale senza giudizio », quando rilevano — a proposito della possibilità di dichiarare la falsità di atti o documenti anche attraverso una sentenza di patteggiamento — che nel patteggiamento « i poteri decisori del giudice risultano diversificati nell’oggetto con riguardo agli atti esaminati ed agli esiti della decisione, ma non può ritenersi che in essi manchino l’accertamento dei fatti e la valutazione di merito della regiudicanda, sia pure non finalizzata all’affermazione della colpevolezza dell’imputato e alla pronuncia della condanna ». (3) G.i.p. Trib. Trento, 18 dicembre l996, Scalperi, in Foro it., 1997, II, c. 501, in Giust. pen., 1997, III, c. 184, e in Giur. it., 1997, II, c. 678, con nota di TREVISSON LUPACCHINI; Trib. Campobasso, 20 aprile 1995, in Nuovo dir., 1997, p. 447, con nota di RUSSO; Pret. Catania-Acireale, 21 febbraio 1997, in G.U., 1a S.S., n. 21 del 1997, il quale, proprio sul presupposto del mancato accertamento della responsabilità penale nella sentenza di patteggianento, solleva questione di costituzionalità per violazione degli artt. 3 e 77 Cost., questione dichiarata manifestamente inammissibile da C. cost., ord. 11 dicembre 1997, n. 399, in Riv. dir. proc., 1999, p. 259 ss.; Corte d’assise d’appello Catania, 21 maggio 1998, in Giur. merito, 1999, p. 1040 ss., con nota di INZERILLO, la quale, sulla base della connotazione negoziale del patteggiamento, esclude la possibilità di revoca unilaterale del consenso prestato dal p.m. sulla richiesta di patteggiamento presentata dall’imputato; Pret. Caltanissetta-Gela, 19 ottobre 1990, in Riv. giur. urbanistica, 1991, p. 87, con nota di ALDOVRANDI; Trib. Treviso, 9 luglio 1990, in Cass. pen., 1990, II, p. 346.
— 441 — del fatto che essa presupporrebbe, comunque, l’accertamento pieno della responsabilità dell’imputato rispetto al reato contestatogli (4). Peraltro, la stessa dottrina processual-penalistica, sebbene abbia tratto argomento dalla circostanza che il comma 1 dell’art. 445 c.p.p. « equipari » la sentenza di patteggiamento ad una pronuncia di condanna per negare l’identica natura fra i due tipi di sentenza penale (5) e per sottolineare l’atipicità della prima rispetto alla seconda (6), non ha mancato di evidenziare come il legislatore, nel prevedere espressamente e tassativamente — nell’art. 445, comma 1, c.p.p. — gli effetti della ordinaria sentenza di condanna che non possano farsi scaturire dalla sentenza di patteggiamento, abbia implicitamente fatto salvi tutti gli altri effetti (7). (4) Pret. Trento-Borgo Valsugana, 23 novembre 1994, in Foro it., 1996, II, c. 397; Trib. Verona, 26 ottobre 1989, in Cass. pen., 1989, II, p. 22 e in Critica del diritto, 1990, fasc. 1, p. 44; Pret. Avezzano-Tagliacozzo, 27 ottobre 1989, in Cass. pen., 1990, II, p. 344 e in Temi romana, 1990, p. 254, con nota di FRONTINI; Trib. Tortona, 2 febbraio 1990, in Arch. circolaz., 1990, p. 845, e in Arch. nuova proc. pen., 1990, p. 537. V. anche T.a.r. Lazio, sez. III, 20 maggio 1993, n. 791, in Riv. amm., 1994, p. 128, con nota di MELILLO, e in Ammin. it., 1994, p. 10l2. (5) AMODIO, in Commentario del nuovo c.p.p., diretto da Amodio e Dominioni, II, Milano, 1989, p. 78. Nel senso che la sentenza di patteggamento non possa essere equiparata ad una vera e propria sentenza di condanna v. anche MACCARRONE, Ancora sulla natura della semenza emessa ex art 444 c.p.p., in Giust. pen., 1994, III, c. 416; PERONI RANCHET, L’applicazione della pena su richiesta delle parti nella giurisprudenza costituzionale, in Indice penale, 1994, p. 134; STANIZZI, Natura giuridica della sentenza di c.d. patteggiamento e suoi effetti nel procedimento disciplinare, in Trib. Amm. Reg., 1994, II, p. 205. (6) FANIZZI, Atipicità della sentenza di « patteggiamento » e principi costituzionali, in Riv. pen., 1994, p. 120; BOSCHI, Sentenza di condanna atipica per l’applicazione di pena patteggiata, in Giust. pen., 1990, III, c. 647. (7) CORDERO, Procedura penale, 4a ed., Milano, 1998, p. 935, il quale puntualmente rileva che « condanna significa che a N sia inflitta una pena, l’abbia chiesta lui o mirasse a schivarla, l’esito è un provvedimento a contenuto penale », e quindi che « invertirebbe il senso delle parole » chi ritenesse che la sentenza di patteggiamento fosse una sentenza di proscioglimento. Nel senso che la sentenza di patteggiamento sia assimilabile ad una vera e propria sentenza di condanna v., oltre a Cordero, LOZZI, L’applicazione della pena su richiesta delle parti, in I riti differenziati nel nuovo processo penale, Atti del convegno di Salerno, 30 settembre-1 ottobre 1988, Milano, 1990, p. 49; ID., La legittimità del c.d. patteggiamento, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, p. 1600; ID., Il patteggiamento tra anomalie ed eccessi, in Dir. pen. e proc., 1995, p. 862; MACCHIA, Il patteggiamento, Milano, 1992, p. 98; MARZADURI, Brevi considerazioni sui poteri del giudice nell’applicazione della pena su richiesta delle parti, in Cass. pen., 1990, p. 729; TAORMINA, Qualche riflessione in tema di natura giuridica della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, in Giust. pen., 1990, III, c. 279; ID., Qualche altra riflessione sulla natura giuridica della sentenza di patteggiamento, ivi, 1990, III, c. 650; RICCIO, Procedimenti speciali, in Profili del nuovo c.p.p., a cura di Conso e Grevi, Padova, 1996, p. 511; FANCHIOTTI, Il « nuovo patteggiamento » alla ricerca di un’identità, in Cass. pen., 1991, II, p. 34; ID., Osservazioni sul patteggiamento previsto dal nuovo codice di procedura penale e sui suoi modelli, ivi, 1992, p. 727; LORUSSO, Procedimenti « allo stato degli atti » e processo penale di parti, Milano, 1995, p. 628; TREVISSON LUPACCHINI, Natura ed effetti della sentenza che applica la pena su richiesta delle parti, in Riv. dir. proc., 1996, p. 108; PERONI, La sentenza, in AA.VV., Il patteggia-
— 442 — È indubbio, perciò, che solo il preliminare chiarimento su questo essenziale profilo dell’istituto del patteggiamento consentirà di comprendere se e quali effetti possa esplicare la sentenza di patteggiamento all’interno del (successivo) giudizio civile che verta sui medesimi fatti, sui quali si è pronunciato il giudice penale. 2. La Cassazione penale è pervenuta alla conclusione, sopra succintamente riassunta, richiamando a sostegno della sua opinione, da una parte, la relazione al progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale, e, dall’altra, le osservazioni che la Corte costituzionale ha avuto modo di fare, nelle diverse occasioni nelle quali è stata chiamata ad intervenire sul punto, in riferimento all’istituto del patteggiamento. Nella relazione al progetto preliminare — hanno osservato i giudici della legittimità — si rileva come nella sentenza di patteggiamento « il compito del giudice è quello di accertare, sulla base degli atti ... se esistono le condizioni per il proscioglimento e, in caso negativo, se è esatto il quadro nel cui ambito le parti hanno determinato la pena, mentre non occorre un positivo accertamento della responsabilita penale » (8). E questo, evidentemente, non può significare altro — hanno aggiunto ancora i giudici della legittimità — che considerare la sentenza di patteggiamento diversa, per natura ed effetti, dalla vera e propria sentenza di condanna. La stessa Corte costituzionale, d’altro canto, — hanno rilevato, poi, i giudici della Cassazione — sebbene abbia riconosciuto l’illegittimità costituzionale dell’art. 444 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva la possibilità per il giudice di valutare, ai fini e nei limiti di cui all’art. 27, comma 3, Cost., la congruità della pena indicata dalle parti (9), sembra essersi ademento, Milano, 1999, p. 142; VIGONI, Sulla natura della sentenza ex art. 444 c.p.p., in Riv. dir. proc., 1999, p. 259 ss., spec. p. 289. (8) Relazione al progetto preliminare del c.p.p., in Gazz. Uff., Serie generale, del 24 ottobre 1988, n. 250, Supplemento ordinario n. 2, p. 107 e ss. Sulle profonde divergenze tra il modello del « patteggiamento » italiano e il plea bargaining dell’esperienza statunitense, cfr., per tutti, FANCHIOTTI, Spunti per un dibattito sul « plea bargaining », in Il processo penale negli Stati Uniti d’America, a cura di Amodio e Bassiouni, Milano, 1988, p. 271 e ss.; GREVI, Riflessioni e suggestioni in margine all’esperienza nordamericana del « plea bargaining », ivi, p. 299 e ss.; PALAZZO, Qualche riflessione su « plea bargaining » e semplificazione del rito, ivi, p. 323 e ss. V. anche BROWN, Meriti e limiti del patteggiamento, ivi, p. 132 ss. (9) Il riferimento è alla sent. 2 luglio 1990, n. 313, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, p. 1596, con nota di LOZZI, in Foro it., 1990, I, c. 2385, con note di FIANDACA e di TRANCHINA, in Corr. giur., 1990, p. 901 ss., con nota di GIARDA, in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 363, con nota di MUSSO. V. anche C. cost., 12 ottobre 1990, n. 443, in Corr. giur., 1990, p. 1247, con nota di GIARDA, e in Foro it., 1992, I, c. 1010, la quale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 24, comma 1, Cost., l’art. 444, comma 2, secondo periodo, c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice penale condanni l’imputato al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile, salvo che ritenga di di-
— 443 — guata all’orientamento giurisprudenziale favorevole ad escludere un’identità ontologica fra la sentenza di patteggiamento e quella di condanna (10). Le considerazioni svolte dai giudici penali meritano di essere approfondite perché presentano alcuni profili non pienamente condivisibili, sia per quel che concerne il meccanismo processuale alla base del patteggiamento, sia per la possibilità di utilizzare la sentenza penale di patteggiamento ai fini della pronuncia di una sentenza civile di condanna al risarcimento dei danni derivanti dal reato. A tal fine è opportuno prendere le mosse dall’art. 445, comma 1, c.p.p. e dalla previsione, ivi contenuta, dell’inefficacia della sentenza di patteggiamento « nei giudizi civili o amministrativi ». Ora, questa previsione vale ad escludere rispetto alla sentenza di patteggiamento l’applicazione di quanto previsto in via generale dagli artt. 651 e ss. c.p.p., e cioè ad escludere che essa possa avere « efficacia di giudicato, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso » sia nel giudizio civile o amministativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato o del responsabile civile (artt. 651 e 652 c.p.p.), sia nel giudizio per responsabilità disciplinare (art. 653 c.p.p.), ed inoltre che possa avere efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo « quando in questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale » (art. 654 c.p.p.) (11). Proprio alla luce di una simile previsione si comprende anche l’esclusione, prevista dall’art. 444, comma 2, c.p.p., dell’applicazione — al giudizio di patteggiamento — della sospensione dell’evenalale giudizio civile contro l’imputato instaurato da chi si sia costituito parte civile nel prosporre, per giusti motivi, la compensazione totale o parziale. Successivamente alla presente decisione, la Corte costituzionale ha riaffermato gli stessi principi in relazione al patteggiamento nelle ordd. 28 dicembre 1990, n. 564, in Rassegna, a cura di M.G. Civinini, in Foro it., 1991, II, 331, n. 33; 22 ottobre 1990, n. 481, G.U., 1a s.s., n. 43 del 1990. (10) V., per il richiamo in questo senso della giurisprudenza della Corte costituzionale, da ultimo, Cass., sez. un., 25 marzo 1998, Giangrasso, cit.; Id., sez. un., 20 giugno 1997, Lisuzzo, cit.; Id., sez. un., 8 luglio 1998, Palazzo, cit. (11) Sul problema dell’utilizzazione della sentenza di patteggiamento nell’ambito del giudizio disciplinare v., nel senso che sia necessaria una autonoma valutazione dei fatti, ex multis, Cons. Stato, sez. I, 2 marzo 1994, n. 199, Rep. Foro it., 1997, voce Impiegato dello Stato, n. 1024; ld., sez. VI, 16 ottobre 1995, n. 1149, ivi, 1996, voce cit., n. 879; Trib reg. g. a. Trentino-Alto Adige, sez. Bolzano, 21 aprile 1997, n. 103, ivi, 1997, voce cit., 1026. Invece, nel senso che sia sufficiente il richiamo alla sentenza di patteggiamento Cons. Stato, sez. VI, 24 agosto 1996, n. 1067, ivi, 1996, voce cit., n. 983.
— 444 — cesso penale, sospensione disciplinata in via generale dall’art. 75, comma 3, c.p.p. (12). E tuttavia, la circostanza che il codice di rito escluda l’efficacia di giudicato nei giudizi civili, amministrativi e disciplinari della sentenza penale di patteggiamento non significa anche e necessariamente — come, invece, sembra doversi ritenere ove si segua l’orientamento della Cassazione penale — che essa non possa produrre alcun altro effetto all’interno dell’eventuale giudizio civile, amministrativo o disciplinare che si instaurasse successivamente alla conclusione di quello penale, perché argomentare in questo modo significherebbe ridurre all’irrilevanza giuridica (al di fuori del giudizio penale) un atto, come quello del riconoscimento — da parte dell’imputato — della propria responsabilità per fatti penalmente rilevanti, il quale, se compiuto in un diverso contesto giudiziale, non potrebbe non influire (nei limiti che vedremo) sulla formazione del convincimento del giudice. In altri termini, solo a costo di inaccettabili forzature si può rinvenire una correlazione logica e giuridica fra la previsione dell’art. 445 dell’esclusione del giudicato nel processo civile, amministrativo o disciplinare della sentenza di patteggiamento e la conclusione, alla quale si dovrebbe pervenire seguendo l’orientamento maggioritario della Cassazione penale, dell’assoluta irrilevanza per la formazione del convincimento del giudice civile (ma anche amministrativo o disciplinare) del riconoscimento di responsabilità dell’imputato. Per limitare il discorso al rapporto fra la sentenza penale di patteggiamento ed il successivo giudizio civile sui danni derivati dal reato (anche se il problema si pone in termini non dissimili per il processo amministrativo e per quello disciplinare), è opportuno — a me pare — tenere conto di due rilevanti circostanze: da un lato, che l’imputato ha riconosciuto espressamente davanti ad un organo giurisdizionale che i fatti, da cui sono derivati — al contempo — la responsabilltà penale e i danni civili, si sono effettivamente verificati nei termini indicati ed accertati nella sentenza di patteggiamento; dall’altro, che di quei fatti egli si è riconosciuto pienamente responsabile, anche a prescindere dall’accertamento giudiziale della responsabilità penale, alla quale, normalmente, si perviene attraverso la sentenza penale di condanna. Ed entrambe queste circostanze — sebbene non possano vincolare con forza di giudicato, per espressa previsione del(12) In proposito v. TOMMASEO, Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale e MERLIN, Sospensione per pregiudizialità ed effetti civili dipendenti dalla pretesa punitiva dello Stato, in Nuovi profili nei rapporti fra processo civile e processo penale (Atti del convegno di studio Trento, 18 e 19 giugno 1993), Milano, 1995, rispettivamente p. 31 ss. e p. 157 e ss.; v. anche CONSOLO, Ancora sulla sospensione per pregiudizialità penale, ivi, p. 75 segg.; ID., Del coordinamento fra processo penale e processo civile: antico problema risolto a metà, in Riv. dir. civ., 1996, I, p. 277 ss.
— 445 — l’art. 445, un giudice che successivamente dovesse essere chiamato a pronunciarsi sui medesimi fatti, ma a fini diversi da quelli dell’applicazione della sanzione penale — non possono essere trascurate da quest’ultimo, così come non potrebbero essere trascurate se fossero avvenute davanti a lui. Qui, in realtà, il problema è duplice: da una parte, occorre valutare la possibilità di considerare oppure no la sentenza di patteggiamento come una vera e propria sentenza di condanna e quindi l’accertamento (non « pieno » come quello alla base dell’ordinaria sentenza penale di condanna, e tuttavia esistente) compiuto dal giudice, a seguito del riconoscimento, derivante dall’imputato, dei fatti costituenti reato e della responsabilità come un vero e proprio accertamento giudiziale; dall’altra parte, ed in connessione — direi — con le conclusioni che si ritenga di assumere sulla natura della sentenza penale di patteggiamento, occorre distinguere la posizione del danneggiato, che si sia costituito parte civile nel processo penale e che, a seguito dell’accoglimento della richiesta di patteggiamento, si trovi costretto a proseguire il giudizio sulla domanda di risarcimento davanti al giudice civile, perché in questo caso il giudice penale « non decide sulla relativa domanda » (art. 444, comma 3, c.p.p.), e quella del danneggiato che, invece, non ha esercitato in sede penale questa domanda. 3. Per quel che riguarda il problema della natura della sentenza penale di patteggiamento e delle sue differenze rispetto all’ordinaria sentenza penale di condanna, come abbiamo visto, la Cassazione penale — in prevalenza, anche se non mancano spunti recenti di segno contrario (13) — richiama la relazione preliminare al progetto del nuovo c.p.p. e soprattutto la giurisprudenza della Corte costituzionale al fine di giustificare la conclusione che il patteggiamento si possa considerare come « una pronuncia giurisdizionale senza giudizio » (14) e quindi per escludere non solo che alla base della sentenza di patteggiamento vi sia una plena cognitio, ma addirittura che vi sia una sia pur minima cognitio, sia sui fatti oggetto dell’imputazione e della sentenza, sia sulla responsabilità penale del condannato. Ora, escluso — come detto — che un qualche argomento possa trarsi a sostegno della tesi della Cassazione dal testo dell’art. 445, che fa esclusivo riferimento agli effetti derivanti dalla sentenza di patteggiamento, la conclusione alla quale pervengono i giudici della legittimità non solo non risulta affatto supportata dalle pronunce sul patteggiamento della Corte costituzionale, ma sembra essere in contrasto con altre pronunce che le (13) (14)
V., retro, in nota 2. Così, in particolare, Cass., sez. un., 8 maggio 1996, De Leo, cit.
— 446 — stesse sezioni unite penali della Cassazione assunsero nei primi anni di applicazione del nuovo rito alternativo. Va, anzitutto, rilevato che, sebbene la Cassazione sostenga il contrario, l’orientamento in materia dei giudici delle leggi sembra essere piuttosto nel senso di una vicinanza della sentenza di patteggiamento ad una vera e propria sentenza di condanna soprattutto per quel che riguarda il necessario accertamento dei fatti costituenti reato e della responsabilità dell’imputato. lnfatti, sebbene ai fini degli effetti scaturenti dalla sentenza di patteggiamento la Corte costituzionale sembra assecondare — in applicazione di una sia pur discutibile interpretazione del c.d. « diritto vivente » (15) — gli orientamenti della Cassazione, e questo in considerazione del fatto che essa non assume mai le caratteristiche proprie della sentenza di condanna (16), la stessa Consulta, però, continua a ribadire — e questo in pieno contrasto con gli approdi della Cassazione penale — quanto fin dal suo primo intervento aveva rilevato, e cioè che « la decisione di cui all’art. 444 c.p.p. quando non è decisione di proscioglimento, non può prescindere dalle prove della responsabilità » (17) e quindi che il patteggiamento (al pari dell’ordinaria sentenza di condanna) presuppone comunque l’accertamento della responsabilità penale ed un vero e proprio giudizio di merito, in quanto il compito del giudice penale, nel nostro ordinamento, non può limitarsi ad una mera « ricezione e certificazione della volontà ritualmente espressa dalle parti ». (15) Su questo aspetto mi sia consentito il rinvio a CARRATTA, ‘‘Diritto vivente’’ e (il-)legittimità costituzionale della prededucibilità dei crediti nel fallimento successivo ad amministrazione controllata, in Giur. it., 1995, I, 1, c. 241 ss. ed ivi altre indicazioni dottrinali e giurisprudenziali. V., però, per una più puntuale applicazione di questo principio, soprattutto la motivazione di C. cost., 21 gennaio 1999, n. 3, in Foro it., 1999, I, c. 404. (16) In questo senso sembra orientata C. cost., ord. 30 luglio 1997, n. 297, in Foro it., 1997, I, c. 3462, la quale ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 168, comma 1, c.p., nella parte in cui nell’ambito delle cause di revoca della sospensione condizionale della pena, non equipara alla sentenza di condanna la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti di cui all’art. 444 c.p.p. Osserva la Corte, infatti, che « la scelta discrezionale operata dal legislatore non può ritenersi espressione di mero arbitrio, poiché la disposizione censurata è coerente con il carattere premiale del ‘patteggiamento’, ed è suscettibile di controllo giurisdizionale nel momento in cui al giudice chiamato a pronunciare sentenza ex art. 444 c.p.p. è imposta la valutazione della congruità del trattamento sanzionatorio negoziato tra le parti »; nello stesso senso v. anche C. cost., ord. 11 dicembre 1997, n. 399, in Riv. dir. proc., 1999, p. 259 ss., con nota di VIGONI, che ha dichiarato manifestamente innammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 444 c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice, nel pronunciare la sentenza di patteggiamento, accerti la colpevolezza dell’imputato. In questa circostanza, tuttavia, la stessa Consulta ha aggiunto che la sentenza additiva richiesta dal rimettente finirebbe per incidere « sui meccanismi predisposti dal codice di rito per creare un opportuno equilibrio tra la struttura negoziale dell’istituto dell’applicazione della pena, basato sull’iniziativa delle parti, e gli irrinunciabili accertamenti e controlli giurisdizionali » (c.vo mio). (17) Così, in motivazione, C. cost., 2 luglio 1990, n. 313, cit.
— 447 — Significativo in questo senso è quanto i giudici della Consulta hanno sostenuto di recente nel dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che non possa (tra l’altro) disporre l’applicazione della pena su richiesta delle parti il g.i.p., che abbia disposto la modifica, la sostituzione o la revoca di una misura cautelare personale ovvero che abbia rigettato una richiesta di questa natura (18). In quella circostanza i giudici delle leggi hanno espressamente affermato che la pronuncia « patteggiata integra un vero e proprio giudizio » e proprio per questo impone il rispetto del principio sancito dall’art. 34, comma 2, c.p.p.: il giudice, infatti, « pur essendo il suo compito condizionato dall’accordo intervenuto tra imputato e pubblico ministero e quindi in questo senso circoscritto e indirizzato », svolge comunque « valutazioni, fondate direttamente sulle risultanze in atti, aventi natura di giudizio non di mera legittimità ma anche di merito concernenti tanto la prospettazione del caso contenuta nella richiesta di parte, quanto la responsabilità dell’imputato, quanto infine la pena ». E del resto, la stessa Corte costituzionale, se nel 1990 respinse l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 444 c.p.p., prospettata in riferimento agli artt. 101, comma 2, 102, comma 2, 13, comma 1, 24, comma 2, 27, comma 2, e 111, comma 1, Cost., lo fece proprio negando che, nell’ambito della sentenza di patteggiamento, il « giudice resti estaneo alla determinazione della pena » e rilevando che, anzi, deve valere per la sentenza patteggiata « il modello generale di sentenza di cui all’art. 546 c.p.p. e le prescrizioni della lett. e) del comma 1, dove si esige che il giudice indichi (18) C. cost., 20 maggio 1996, n. 155, in Foro it., 1996, I, c. 1898, con osservazioni di DI CHIARA, in Cass. pen., 1996, p. 2858, con nota di RIVELLO e di CARRERI, in Corr. giur., 1996, p. 757, con nota di SPANGHER. In argomento v. anche Cass., 13 gennaio 1999, Compagnon, in Rep. Foro it., 1999, voce Astensione e ricusazione, n. 25, a proposito dell’incompatibilità per il giudice che abbia pronunciato sentenza di patteggiamento rispetto ad alcuno dei correi. In questa circostanza la Corte ha aggiunto che, anche se in ipotesi di patteggiamento il giudice recepisce l’accordo intercorso fra le parti, è pur sempre necessaria una sua delibazione circa la sussistenza di alcuna tra le ipotesi previste dall’art. 129 c.p.p., la quale costituisce giudizio incidentale sulla posizione dei concorrenti necessari ovvero di quei correi la cui posizione è strettamente collegata a quella di chi ha patteggiato la pena. Posizione, quest’ultima, che mi pare ripresa anche dalla Corte costituzionale nella motivazione della sent. 20 aprile 2000, n. 113, in Guida al diritto, n. 19/2000, 58 ss. con la quale la Corte ha respinto l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 36 c.p.p. nella parte in cui non prevede, tra le cause di astensione, l’avere il giudice precedentemente pronunciato sentenza di patteggiamento nei confronti di uno o più concorrenti nel reato. Rilevano i giudici di Palazzo della Consulta con una interpretativa di rigetto, che, in realtà, l’eccezione è infondata in quanto l’art. 36, lett. h), c.p.p. trova applicazione tutte le volte che « per il peculiare atteggiarsi delle singole fattispecie, l’accertamento che il giudice abbia compiuto in una precedente sentenza possa determinare un pregiudizio alla sua imparzialità nel successivo procedimento a carico di altro o di altri concorrenti » implicitamente riconoscendo — in questo modo — che detto « accertamento » è contenuto anche nella sentenza di patteggiamento.
— 448 — le prove che intende porre a base della sua decisione ed enunci le ragioni per le quali non ritiene attendibili le prove contrarie ». In quell’occasione, peraltro, la Corte, richiamandosi alla funzione rieducativa della pena (art. 27, comma 3, Cost.), arrivò ad escludere che il ruolo del giudice possa ridursi, nel patteggiamento, ad una mera « funzione notarile » (e quindi estranea all’accertamento giudiziale), e sottolineo che il patteggiamento va considerato un giudizio nel quale si compie una valutazione piena delle risultanze degli atti, e quindi un controllo di merito — sulla base di tali risultanze — che investe sia l’eventuaIe sussistenza delle condizioni per il proscioglimento nel merito ex art. 129, sia la correttezza della definizione giuridica del fatto, la ricorrenza di circostanze attenuanti ed aggravanti ed il loro bilanciamento. Proprio sulla base di un simile ragionamento, la Corte riconobbe che « il giudice possa valutare la congruità della pena indicata dalle parti, rigettando la richiesta in caso di sfavorevole valutazione »: ciò perché — ebbe ad affermare — la finalità rieducativa della pena non rileva solo nella fase esecutiva, ma deve far parte anche del giudizio di cognizione ed essere quindi considerata in sede di irrogazione della sanzione. In sostanza, in quella sentenza la Corte non solo ha sottolineato l’esigenza di motivazione della sentenza (che, peraltro, non avrebbe alcuna funzione se si escludesse — come sembra fare la Cassazione penale — una sia pur minima cognitio dei fatti e della responsabilità da parte del giudice) (19) ed ha affermato che si tratta di un provvedimento giurisdizionale motivato « che spazia dalla legittimità al merito », ma ha anche aggiunto — ed è quello che più interessa in questo contesto — che la decisione del giudice (anche quando sia pronunciata a seguito di patteggiamento) « non può prescindere dalle prove della responsabilità », prove che nel giudizio di patteggiamento — evidentemente — si fondano esclusivamente sul riconoscimento di responsabilità fatto dal medesimo imputato. Né si può sostenere che su quest’ultimo punto, che senza dubbio rappresenta una rilevante correzione del carattere pattizio del rito, la stessa Corte costituzionale abbia fatto un sostanziale revirement sia nella sent. n. (19) E, del resto, la stessa Cassazione penale (27 gennaio 1999, Forte, in Rep. Foro it., 1999, voce Pena (applicazione su richiesta), n. 24) ha riconosciuto che l’obbligo della motivazione, imposto al giudice dall’art. 111 Cost. e dall’art. 125, comma 3, c.p.p. per tutte le sentenze, opera anche rispetto a quelle di patteggiamento, sebbene, in tal caso, esso non possa non essere conformato alla particolare natura giuridica di questa sentenza. Ed a tal fine, ha osservato la Corte, pur non potendo ridursi il compito del giudice ad una funzione di semplice presa d’atto del patto concluso tra le parti, lo sviluppo delle linee argomentative della decisione nella formulazione della motivazione è necessariamente correlato all’esistenza dell’atto negoziale con cui l’imputato dispensa l’accusa dall’onere di provare i fatti dedotti nell’imputazione.
— 449 — 251 del 1991 (20), con la quale ha escluso che per il patteggiamento la pubblicità del giudizio sia imposta dalla legge delega o dal principio di uguaglianza, sia nella sent. n. 499 del 1995 (21), con la quale ha dichiarato infondata la questione di legittimità cosutuzionale dell’art. 10, comma 5, d.p.r. 30 giugno 1965, n. 1124, nella parte in cui non consente che, ai fini dell’esercizio del diritto di regresso dell’Inail, l’accertamento del fatto-reato sia compiuto dal giudice civile quando nei confronti del datore di lavoro sia stata pronunciata sentenza di patteggiamento. Infatti tanto nella prima, quanto nella seconda occasione la Corte si è limitata a rilevare che, per la specialità che caratterizza il patteggiamento, l’accertamento della responsabilità dell’imputato è riservata solo ad alcuni profili determinati (qualificazione giuridica, adeguatezza della pena, esclusione del proscioglimento, ecc.) e non investe « quell’accertamento pieno ed incondizionato sui fatti e sulle prove che rappresenta, nel rito ordinario, la premessa necessaria per l’applicazione della sanzione penale », ribadendo — comunque — che il giudice ha « autonomi e consistenti poteri di controllo » sull’accordo intervenuto (22), i quali si giustificano proprio alla luce della limitata cognitio riservata al giudice del patteggiamento. 4. Ancor più significativo è, poi, il contrasto fra la conclusione, alla quale sono pervenute le sezioni unite della Cassazione penale nel considerare la sentenza di patteggiamento come una « pronuncia giurisdizionale senza giudizio », e l’atteggiamento mostrato nei primi anni di applicazione dalle stesse sezioni unite e da alcune sezioni semplici. Queste, infatti, rilevarono subito come nel giudizio di patteggiamento il giudice non debba limitarsi a conformarsi alle richieste delle parti, ma debba dare atto sia della correttezza della qualificazione giuridica del (20) C. cost., 6 giugno 1991, n. 251, in Rep. Foro it., 1991, voce Pena (applicazione su richiesta), n. 148. (21) C. cost., 11 dicembre 1995, n. 499, in Resp. civ. e prev., 1996, p. 265 e ss., con nota di MERLIN, Sentenza penale di patteggiamento e azione civile di rivalsa Inail: torna all’esame della Consulta l’art. 10 d.p.r. 1124/1965. Peraltro, va rilevato come con questa sent. la Corte ha respinto l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 10, d.p.r. n. 1124/1965 rilevando che la questione era stata già decisa da una precedente sent. (la n. 102 del 1981, in Foro it., 1981, 1, c. 2693), con la quale la Corte aveva ammesso la possibilità che il giudice civile accerti autonomamente il reato ai fini dell’azione di regresso dell’Inail « nel caso in cui la sentenza di condanna non faccia stato nel giudizio civile instaurato dall’Inail ». E nella motivazione alla sent. n. 499 del 1995 la Corte osserva che una simile situazione si verifica anche nel caso della sentenza di patteggiamento proprio per effetto dell’art. 445, comma 1, c.p.p., il quale ne esclude l’« efficacia nei giudizi civili o amministrativi ». (22) Nello stesso senso anche C. cost., ord. 11 dicembre 1998, n. 399 in Cass. pen., 1998, p. 1061, con la quale è stata dichiarata manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 444 c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice, nel pronunciare la sentenza di patteggiamento, accerti la colpevolezza dell’imputato, ovvero lo dichiari colpevole del reato, ovvero ne pronunci condanna alla pena concordata.
— 450 — fatto, nonché della applicazione e della comparazione di eventuali circostanze, sia della congruità della pena patteggiata ai fini e nei limiti di cui all’art. 27, comma 3, Cost., ed inoltre che non ricorrano gli estremi per una sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p., e questo perché la sentenza di patteggiamento — osservarono — si fonda sull’implicito accertamento della responsabilità dell’imputato per il reato ascrittogli basato sulla non contestazione delle affermazioni dell’accusa (23). Alla luce di queste riflessioni, quindi, la sentenza di patteggiamento, lungi dal poter essere ridotta ad un « provvedimento giurisdizionale senza giudizio » (e « senza cognitio »), come sostengono oggi le sezioni unite penali della Cassazione, sembra integrare — piuttosto — una vera e propria sentenza pronunciata all’esito di un giudizio, speciale finché si vuole, ma sempre giudizio. E questo — come ebbe a rilevare la stessa Cassazione nei primi anni di applicazione del nuovo codice di rito penale — sia perché anche il patteggiamento presuppone comunque un accertamento di insussistenza delle condizioni legittimanti il proscioglimento nel merito ex art. 129 c.p.p., sia perché lo stesso comporta una valutazione non di mera legittimità, ma anche di merito rebus sic stantibus circa la correttezza della definizione giuridica del fatto, la sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti ed il loro bilanciamento, sia perché impone al giudice di valutare la congruità della pena indicata dalle parti, sia, infine, perché il provvedimento del giudice, spaziando dal merito alla legittimità, sebbene privo — proprio per effetto dell’ammissione dell’imputato — dell’accertamento dibattimentale (altrimenti necessario) del fatto-reato e della responsabilità del medesimo imputato proprio della sentenza penale di condanna, e quindi della consistenza probatoria dell’imputazione e della responsabi(23) Così Cass., sez. un., 27 marzo 1992, Di Benedetto. in Cass pen., 1992, p. 2063, in Foro it., 1993, II, c. 9, con nota di richiami, e in Giur. it., 1993, II, 203, con nota di DE ROBERTO. Nello stesso senso, in precedenza, Cass., sez. VI, 13 novembre 1990, Palladini, in Giur. it., 1991, II, c. 409, con nota di TREVISSON LUPACCHINI; Cass., sez. VI, 15 ottobre 1990, Moncef, in Cass. pen., 1992, p. 236. Nel senso che la richiesta o il consenso dell’imputato al patteggiamento siano da considerare come un’ammissione del fatto-reato v. CRISTIANI, Manuale del nuovo processo penale, Torino, 1989, p. 331; NAPPI, Guida al codice di procedura penale, Milano, 1997, p. 492; ID., Riti alternativi: I) Applicazione della pena su richiesta delle parti, in Enc. Giur. Treccani, XVII, Roma, 1991, p. 2. Anche per SIRACUSANO, Diritto di difesa e formazione della prova nella fase dibattimentale, in Cass. pen., 1989, p. 1594 ss., il patteggiamento si fonderebbe sul c.d. fatto pacifico; nello stesso senso sostanzialmente TAORMINA, Qualche riflessione, cit., c. 271; ID., Qualche altra riflessione, cit., c. 649; BOSCHI, Sentenza di condanna atipica, cit., c. 647. In senso contrario, invece, LOZZI, L’applicazione della pena su richiesta delle parti, cit., p. 49 e ss. V. anche, contro i rischi della eccessiva contrattualizzazione del patteggiamento, M.A. RICCI, Patteggiamento e contratto (le tentazioni del civilista), in Contratto e impresa, 1994, p. 1143 ss., la quale esclude che, accettando il patteggiamento, l’imputato « confessi implicitamente la sua responsabilità ».
— 451 — lità, non per questo può essere considerato privo del — costituzionalmente (ex art. 27 Cost.) (24) necessario (ai fini dell’applicazione della sanzione penale) — accertamento giurisdizionale di simili elementi e non per questo può essere considerato frutto di una sorta di vincolo del giudice all’accordo fra imputato e p.m. Piuttosto, — come è stato opportunamente sottolineato — va rilevato che anche il giudice del patteggiamento « stabilendo se l’asserito reato esista, quale pena meriti e fin dove l’imputato sia degno del favore, applica canoni legali » (25). Quel che manca — ed in questo consiste la specialità del rito — è semmai il dibattimento e l’accertamento dibattimentale e quindi « pieno » (ed ordinario) dei fatti e della responsabilità, non anche l’accertamento giurisdizionale, che è « semplificato » per la sola ragione che l’imputato, richiedendo il patteggiamento, non contesta la fondatezza dell’imputazione, ma anzi ammette tanto le circostanze fattuali quanto la propria responsabilità. E se così è, allora un simile accertamento « semplificato » — sebbene non possa arrivare, proprio per questa ragione ed in applicazione dell’art. 654 c.p.p., a vincolare con forza di giudicato il giudice civile (amministrativo o disciplinare) (26) — non può essere considerato del tutto irrilevante dal giudice civile attivato dalla parte civile per ottenere il risarcimento dei danni derivanti dal reato sul quale l’imputato ha chiesto ed ottenuto il patteggiamento. (24) Sul punto v. sia la motivazione di C. cost., 2 luglio 1990, n. 313, cit., sia i rilievi di FERRUA, Studi sul processo penale, Torino, 1997, p. 137; di MACCARRONE, Ancora sulla natura della sentenza emessa ex art. 444 c.p.p., in Giust. pen., 1994, III, p. 413 ss.; di FANIZZI, Atipicità della sentenza di « patteggiamento », cit., p. 117 ss.; di PIGNATELLI, Patteggiamento e giurisdizione: il punto di vista della Corte costituzionale, inQuestione giustizia, 1990, I, p. 348 ss., e, nell’ambito della discussione sul progetto del nuovo c.p.p., di FERRAJOLI, Patteggiamenti e crisi della giurisdizione, ivi, 1989, p. 371 ss. (25) Così CORDERO, Procedura penale, cit., p. 925, il quale aggiunge anche che, ove si sostenesse il contrario, si avrebbe che la sentenza di patteggiamento « cadrebbe su ficta crimina, ed è ipotesi aliena al sistema », perché « ripugnano al sistema sottomissioni convenzionali alla pena ». V. anche CONSO, Il nuovo processo penale. Accadeva un anno fa, in Giust. pen., 1990, III c. 485, il quale osserva che « mai l’oggetto del processo penale (a differenza di quanto accade nel processo civile) può essere nella piena disponibilità delle parti ». In senso contrario, però, v. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, cit., p. 492; ID., Riti alternativi: I) Applicazione della pena su richiesta delle parti, cit., p. 2. (26) E questo, peraltro, come ha riconosciuto di recente la stessa Cassazione civile (13 dicembre 1999, n. 13917, in Gius. 2000, p. 525), vale per tutte le ipotesi in cui la sentenza, di condanna o di assoluzione, non sia stata resa a seguito di dibattimento, come, ad es., la sentenza maturata in sede di udienza preliminare ai sensi dell’art. 425 c.p.p. Nello stesso senso anche Cass., 4 marzo 2000, n. 2464, in Mass. Foro it., 2000, c. 291, a proposito della possibilità di utilizzare in sede civile (al fine di valutare la legittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore sulla base di un addebito configurabile in astratto come reato) la sentenza di proscioglimento, pronunciata dal giudice penale all’esito dell’udienza preliminare e quindi senza dibattimento.
— 452 — Infatti, se è vero che la sentenza penale di condanna su richiesta delle parti, ai sensi dell’art. 445 c.p.p., non ha efficacia automatica nei giudizi civili o amministrativi, è altrettanto vero, però, che, per effetto del raggiunto patteggiamento, l’imputato ammette la propria responsabilità rispetto ai fatti contestati e che la funzione dell’art. 445 c.p.p. è quella di limitare taluni degli effetti delle pronunce di patteggiamento. È evidente, quindi, che, se l’imputato non possiede elementi per poter affermare la propria innocenza, rinuncia, per conseguire gli effetti premiali del rito, ad avvalersi della facoltà di contestare l’accusa, riconoscendo che le prove acquisite in sede di istruzione preliminare sono sufficienti a farlo dichiarare colpevole del reato contestatogli. Una simile conclusione appare ancora più chiara ove si consideri che il giudice penale può (ed anzi deve) sempre valutare la congruità della pena richiesta alla gravità del reato e della responsabilità riconosciuta (27), valutazione di congruità che, invece, sarebbe da escludere se si ammettesse — insieme alla Cassazione penale — che il giudice del patteggiamento non compie alcun accertamento, neppure « semplificato » o « sommario », dei fatti e della responsabilità, ed inoltre deve — dopo l’intervento della Corte costituzionale (28) — condannare l’imputato al pagamento delle spese in favore della parte civile, conseguenza, quest’ultima, difficilmente giustificabile se si escludesse una qualsiasi efficacia dell’ammissione dell’imputato nei confronti (non solo dell’azione penale esperita dal p.m., ma anche) dell’azione esperita dalla parte civile all’interno del processo penale prima dell’accoglimento dell’istanza di patteggiamento. 5. Se si condividono le considerazioni che precedono sulla configuabilità, alla base della sentenza di patteggiamento, di un accertamento giurisdizionale « semplificato » e speciale dei fatti e della responsabilità del condannato, e quindi se si esclude l’assimilazione — sostenuta dalla Cassazione penale — della sentenza di patteggiamento ad una sentenza penale « senza giudizio » e « senza cognitio », non si può prescindere dall’esaminare l’ulteriore problema dell’efficacia, per il successivo giudizio civile instaurato dalla parte civile, dell’ammissione dei fatti oggetto di imputazione compiuta dall’imputato in sede di giudizio penale. Ed infatti, proprio in considerazione delle ambiguità che abbiamo visto caratterizzare la connotazione del giudizio di patteggiamento avanzata dalla Cassazione penale, nell’esperienza giurisprudenziale soprattutto civile sono emerse non poche incertezze quando si è posto il problema di individuare gli effetti, per il giudizio civile, dell’ammissione dei fatti alla base della sentenza di patteggiamento. (27) (28)
C. cost., 2 luglio 1990, n. 313, cit. C. cost., 12 ottobre 1990, n. 443, cit.
— 453 — Nonostante il quasi unanime orientamento dei giudici penali a considerare la sentenza di patteggiamento come « provvedimento giurisdizionale senza giudizio », non sono mancate isolatamente pronunce dei giudici civili orientate nel senso di riconoscere alla sentenza di patteggiamento un qualche valore (sia pur minimo) in sede di giudizio civile per il risarcimento dei danni, ai fini dell’accertamento dei fatti alla base della condanna penale. In un simile contesto si è osservato — sia da parte della Cassazione civile, sia da parte di qualche giudice di merito (29) — come la sentenza di condanna a pena concordata ex art. 444 c.p.p. non possa ritenersi (29) Cass., sez. lav., 10 giugno 1998, n. 5784, in Rep. Foro it., 1998, voce Prova civile in genere, n. 33, per la quale il comportamento processuale ed extraprocessuale delle parti può costituire argomento di prova e può perciò essere utilizzato come elemento di valutazione di risultanze probatorie già acquisite (nella specie, la Suprema Corte ha ritenuto utilizzabile come argomento di prova il comportamento extraprocessuale consistente nell’aver chiesto il c.d. « patteggiamento » ai sensi dell’art. 444 c.p.p. nel processo penale svoltosi per imputazioni corrispondenti agli addebiti mossi nel giudizio di responsabilità in sede civile). Invece, per Cass., 11 novembre 1991, Albanese, cit., la richiesta dell’imputato ha il valore di confessione di responsabilità per fatti concludenti; in questo stesso senso v. anche Cass., sez. un., 27 marzo 1992, Di Benedetto, cit.; Cass., 14 maggio 1991, Criscuolo, in Riv. pen., 1992, p. 491; Cass., 12 luglio 1995, Fiorani, in Cass. pen., 1996, p. 1715; Cass., 26 giugno 1995, Donazzolo, in Cass. pen., 1996, p. 1905; Cass., 3 novembre 1995, Nulli Moroni, in Rep. Foro it., 1996, voce Pena (applicazione su richiesta), n. 99. Anche per C. cost., 20 luglio 1990, n. 313, cit., con la richiesta di patteggiamento l’imputato « non nega sostanzialmente la sua responsabilità ». Anche per quel che riguarda l’efficacia della sentenza di patteggiamento ai fini della decadenza da cariche pubbliche elettive, l’orientamento giurisprudenziale maggioritario è nel senso della piena equiparazione della sentenza penale pronunciata a seguito del patteggiamento rispetto alla sentenza di condanna emessa a seguito di un processo celebrato con rito ordinario: v. Cass., 10 marzo 1999, n. 2065, in Rep. Foro it., 1999, voce Elezioni, n. 11, la quale, a proposito della ineleggibilità alla carica di sindaco di persone che abbiano riportato condanna per un delitto commesso con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico ufficio, ha osservato come non rileva, a tal fine, la circostanza che essa sia stata emessa in sede di « patteggiamento » ex art. 444 c.p.p., anziché in esito a giudizio ordinario; e questo perché — ha aggiunto la Corte — la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, se non può essere posta dal giudice civile a fondamento di pronunce che postulino l’accertamento del fatto-reato e la responsabilità penale dell’imputato, né può spiegare effetti penali che siano subordinati a detto accertamento, in quanto priva dell’autorità propria del giudicato sostanziale nel processo civile ed amministrativo, è, però, del tutto equivalente alla condanna originaria, in mancanza di disposizione derogativa, rispetto a quegli effetti extrapenali che l’ordinamento automaticamente ricollega al fatto giuridico della condanna, indipendentemente dai presupposti e dalle modalità procedimentali con cui sia stata adottata. Nello stesso senso v. anche Cass., 5 dicembre 1995, n. 12511, ivi, 1995, voce Elezioni, n. 66; Cass., 18 ottobre 1994, n. 8489, ivi, 1994, voce cit., n. 172: Cass., 28 ottobre 1993, n. 10741, ivi, 1994, voce cit., n. 166; Trib. Monza, 2 marzo 1996, in Foro it., 1997, I, c. 967. In senso contrario, invece, Tar Piemonte, sez. II, 10 febbraio 1993, n. 73, in Rep. Foro cit., 1993, voce Impiegato dello Stato, n. 1126; Trib. Potenza, 29 ottobre 1992, ivi, 1993, voce Elezioni, n. 87; Trib. Grosseto, 8 ottobre 1992, in Giur. it., 1994, I, c. 506, con nota di VERRINA.
— 454 — estranea ad un accertamento giurisdizionale, sia pure sommario, di responsabilità in ordine ai fatti contestati all’imputato, e contenga un riconoscimento del fatto, almeno implicito, ad opera di quest’ultimo. Proprio per questa ragione, secondo alcune pronunce, la sentenza di patteggiamento ben può fornire — alla luce degli artt. 116, comma 2, e 310, comma 2, c.p.c. — argomenti di prova nel giudizio civile, in quanto l’art. 445, comma 1, c.p.p., escludendo che la sentenza a pena concordata possa esplicare automaticamente effetti vincolanti in tale sede, non impedisce che un diverso accertamento dei fatti sia sempre consentito alla stregua delle prospettazioni ed istanze delle parti (30). (30) Trib. Roma, 5 maggio 1997, in Notiziario giuriprudenza lav., 1997, p. 279, e in Orient. giur. lav., 1997, I, p. 500, il quale, riformando una sentenza di primo grado del pretore del lavoro, che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento del dipendente di una banca a seguito di patteggiamento per il reato di usura e di estorsione, osservava come — sebbene non sia condivisibile la tesi che la stessa richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato possa costituire un elemento di prova, cioè un comportamento confessorio della responsabilità del fatto addebitato in sede civile — « la sentenza ex art. 444 c.p.p. ben poteva avere rilievo sotto il profilo dell’accertamento storico dei fatti ». Questa sentenza del Trib. di Roma è stata poi confermata da Cass., sez. lav., 8 ottobre 1998, n. 9976, in Rep. Foro it., 1998, voce Giudizio (rapporto), n. 27, la quale — rigettando il ricorso — ha escluso che la richiesta di patteggiamento possa valere nel giudizio civile come elemento di prova e precisamente come comportamento confessorio della responsabilità del fatto addebitato, mentre ha condiviso l’orientamento del giudice d’appello secondo cui, anche di fronte ad una sentenza di patteggiamento, il giudice civile può procedere ad un’autonoma valutazione dei fatti di causa (nell’ambito della quale, tuttavia — osserva ancora la Corte — il giudice civile deve valutare il comportamento tenuto dal ricorrente che, a fronte degli illeciti contestatigli, non contesta « la sussistenza nel profilo ontologico degli stessi addebiti ». Dalla lettura della motivazione della sentenza della Cassazione emerge, quindi, l’adesione alla tesi, sviluppata dal Tribunale di Roma, secondo cui — sebbene la richiesta di patteggiamento non possa costituire elemento di prova o « comportamento confessorio » nel giudizio civile — possa comunque assumere la natura di « comportamento non contestativo » quando l’imputato-convenuto nel processo civile non contesti l’esistenza degli addebiti (rectius, i fatti storici a sostegno degli addebiti). In questo caso, però, la non contestazione del convenuto nel processo civile prescinde dal riconoscimento di un qualsiasi valore alla sentenza di patteggiamento, in quanto è di per sé sufficiente — in applicazione del c.d. principio della non contestazione, al quale, evidentemente, la Cassazione fa riferimento —, a rendere non bisognosi di prova i fatti portati a sostegno della domanda di risarcimento. Invece, quel che non è chiaro nella motivazione della sentenza della Cassazione è: a) se il convenuto, anche in presenza di una sentenza di patteggiamento, avrebbe potuto contestare l’esistenza (ovvero il « profilo ontologico ») degli addebiti, possibilità, questa, che — per quanto si dirà nel prosieguo — mi pare sia da escludere; b) ove si ammetta che ciò sia possibile, quale valore potrebbe avere, per il convincimento del giudice, l’esistenza della sentenza di patteggiamento (rispetto ad un simile profilo, un po’ più chiara è la motivazione del Tribunale di Roma che — come detto — considera rilevante la sentenza di patteggiamento ai fini dell’« accertamento storico dei fatti »). Nel senso che il giudice civile, anche in presenza di una sentenza di patteggiamento, possa procedere all’autonoma valutazione di fatti v. anche Cass., sez. lav., 27 febbraio 1996, n. 1501, in Foro it., 1997, I, c. 1758 ss., con osservazioni di TRISORIO LIUZZI, nella quale la
— 455 — Secondo altre pronunce, invece, la stessa richiesta di patteggiamento costituirebbe un vero e proprio elemento di prova e precisamente un comportamento confessorio da valutarsi unitamente alle altre richieste istruttorie, nonostante la relativa sentenza non abbia efficacia diretta nei giudizi civili (31). Corte osserva anche, contro l’opinione del ricorrente, che l’art. 445 c.p.p. non esclude anche che il danneggiato possa agire in un autonomo giudizio civile per ottenere il risarcimento del danno derivante dal reato sul quale è stata pronunciata sentenza di patteggiamento. In questo stesso senso anche Cass., sez. un., 9 luglio 1997, n. 6223, in Rep. Foro it., 1997, voce Professioni intellettuali, n. 204, la quale, a proposito dell’efficacia del patteggiamento all’interno del procedimento disciplinare, ha respinto il ricorso presentato contro una decisione dlsciplinare del Consiglio Nazionale degli architetti, condividendo la conclusione di quest’ultimo sulla possibilità di valutare il patteggiamento in sede disciplinare anche nel contesto delle altre risultanze, specialmente quando vi sia già stata in tal sede ammissione dei fatti da parte del professionista; Cass., 27 agosto 1999, n. 8993, in Rep. Foro it., 1999, voce Professioni intellettuali, n. 8993, per la quale la disposizione dell’art. 445 c.p.p. trova applicazione anche nel giudizio disciplinare, dove l’accertamento dei fatti addebitati al professionista, allo scopo di valutare la rilevanza in sede disciplinare, avviene in modo del tutto autonomo rispetto alla sentenza di patteggiamento emessa nei confronti dello stesso in relazione ai medesimi fatti, sebbene tale accertamento possa avvalersi degli elementi che risultino dal contenuto della predetta sentenza. In proposito v. anche App. Milano, 5 febbraio 1999, in Fam. e dir., 1999, p. 475 ss., con commento di PERONI, la quale ha escluso che la sentenza di patteggiamento possa di per sé costituire titolo per fondare la domanda di divorzio, ritenendo che essa costituisca un mero fatto storico la cui esistenza concorre a formare l’accertamento del giudice sulla cessazione irreversibile della comunione spirituale fra i coniugi. (31) Trib. Torino, 15 maggio 1996 in Foro it., 1996, I, c. 1868, il quale, in motivazione, aggiunge che, se è vero che la sentenza penale di condanna su richiesta delle parti ai sensi dell’art. 444 c.p.p. non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi, è altrettanto vero che la richiesta dell’imputato medesimo ha il valore di una confessione di responsabilità per fatti concludenti (come sostenuto anche dalla Cassazione penale: v., retro, in nota 29), la funzione dell’art. 445 c.p.p. essendo quella di limitare taluni degli effetti delle pronunce di condanna, e che, all’interno del giudizio civile, la confessione, resa nel gludizio penale, può essere utilizzata dal giudice « come elemento di riscontro di altri elementi se non oppugnata da contrarie e più attendibili risultanze » (Cass., 9 aprile 1993, n. 4337, in Rep. Foro it., 1993, voce Prova civile in genere, n. 29; in argomento v. anche Cass., 1 ottobre 1998, n. 9760, ivi, 1998, voce cit., n. 37, per la quale la confessione resa nel giudizio penale non ha efficacia di piena prova in quel processo e nel giudizio civile può essere considerata solo quale elemento indiziario, salvo che a quel procedimento l’avversario abbia partecipato come parte civile). Nello stesso senso, in precedenza, Trib. Torino, 8 febbraio 1994, in Rep. Foro it., 1994, voce Previdenza sociale, n. 613. Mentre, a proposito dell’utilizzabilità del patteggiamento all’interno del processo tributario, v. Comm. trib. reg. Emilia-Romagna, 25 giugno 1998, in Fisco, 1998, 14048, per la quale nel contenzioso tributario può essere liberamente valutata dal giudice la confessione resa da un imputato nel corso di un processo penale, non occorrendo altre prove a corredo della confessione stessa e tale conclusione non è scalfita dalla circostanza che l’imputato abbia chiuso il procedimento penale con il c.d. patteggiamento. Ma un simile orientamento — evidentemente — è da far risalire, come detto, a quell’orientamento minoritario della Cassazione penale inaugurato da Cass., 11 novembre 1991, Albanese, cit., sul quale v., retro, in nota 2 e in nota 29.
— 456 — Ebbene, se è da condividere, proprio alla luce dell’art. 445 c.p.p., la tesi dell’ammissibilità di un’autonoma ricostruzione dei fatti (alla base della sentenza di patteggiamento) da parte del giudice civile, è difficile riconoscere che la richiesta di patteggiamento da parte dell’imputato sia identificabile — proprio in relazione al successivo giudizio civile — come un comportamento extra-processuale idoneo, quindi, ad incidere in qualche modo sulla formazione del convincimento del giudice civile, o attraverso la qualificazione di una simile richiesta in termini di « argomenti di prova » ex art. 116, comma 2, c.p.c., oppure attraverso, addirittura, la qualificazione in termini di « comportamento confessorio » da valutarsi liberamente da parte del giudice civile. Non mi pare, cioè, che l’efficacia nel giudizio civile dell’accertamento contenuto nella sentenza penale di patteggiamento possa manifestarsi sul piano probatorio (32), e questo perché delle due l’una: o si identifica il comportamento dell’imputato assunto in sede di patteggiamento come comportamento extra-processuale, ma allora è difficile ritenerlo idoneo a fornire — nell’ambito del giudizio civile — « argomenti di prova » ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p c., visto che questa disposizione riserva la possibilità di ricavare argomenti di prova solo dal comportamento (infra) processuale delle parti; oppure lo si identifica come « comportamento (processuale) confessorio », ma allora si deve anche rilevare che la confessione (sia essa emersa in sede penale, o in sede civile) si estrinseca non in un comportamento, ma in una declaratio contra se di fatti, circostanza che, evidentemente, non ricorre nel caso della richiesta di patteggiamento (33). Piuttosto, attraverso la richiesta di pattegiamento l’imputato, se espli(32) Se così fosse, ovviamente, il problema del valore da riconoscere nel giudizio civile alla richiesta di patteggiamento dovrebbe essere impostato in termini di valore, nel giudizio civile, delle prove assunte in altro processo (civile o penale), soprattutto alla luce dell’art. 310, comma 2, c.p.c. Che così non possa essere impostato il problema però, emerge — oltre che da quanto detto nel testo — anche dal fatto che solo a costo di inevitabili forzature del testo normativo la richiesta di patteggiamento potrebbe essere valutata alla stregua di una prova penale (sia pure atipica). (33) Tradizionalmente, infatti, si identifica la confessione come dichiarazione di verità di fatti sfavorevoli al dichiarante: v., per tutti, FIORELLI, Confessione (storia), in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, p. 864 ss.; FURNO, Confessione (dir. proc. civ.), ivi, VIII, Mlano, 1961, p. 870 ss.; COMOGLIO, Confessione: I) Dir. proc. civ., in Enc. Giur. Treccani, VIII, Roma, 1988, § 1; DOSI, Confessione: III) Dir. proc. pen., ivi, VIII, Roma, 1988, § 1; MACCHIA, Confessione nel diritto processuale penale, in Dig. disc. pen., III, Torino, 1989, p. 25 ss. La stessa Cassazione ha più volte evidenziato come la dichiarazione confessoria debba essere esplicita, non potendo risultare da un comportamento o da fatti concludenti, né potendo consistere in una « dichiarazione solo implicitamente o indirettamente ammissiva dei fatti in discussione »: v., ex multis, Cass., 26 maggio 1992, n. 6301, in Rep. Foro it., 1992 voce Confessione civile, n. 1; v. anche Cass., 4 giugno 1998, n. 5485, ivi, 1998, voce cit., n. 2, per la quale non equivale a confessione la mancanza di contestazione di un fatto.
— 457 — citamente ammette la responsabilità penale e quindi l’imputazione formulata nei suoi confronti dal p.m., solo implicitamente, invece, riconosce la fondatezza dei fatti indicati nel capo di imputazione, nel senso che pone a fondamento della sua istanza di patteggiamento la rinuncia a difendersi ed a contestare con prove contrarie i fatti allegati dall’accusa. E che l’ammissione esplicita della responsabilità penale implichi (o meglio, debba implicare) anche ammissione implicita o non contestazione dei fatti a sostegno dell’imputazione si ricava da due specifiche circostanze. E cioè: anzitutto, dalla circostanza che, in tanto vi può essere applicazione di pena (anche concordata), in quanto vi sia un reato o meglio dei fatti « accertati » o « riconosciuti » come reato all’interno di un giudizio (nulla poena sine iudicio). In secondo luogo, si ricava dalla circostanza che, se il giudice penale deve — prima di procedere all’applicazione concordata della pena — verificare che non sussistano le condizioni legittimanti il proscioglimento a favore dell’imputato ex art. 129 c.p.p., valutare la correttezza della configurazione giuridica del fatto-reato, la congruità della pena rispetto ai fatti compiuti, l’esistenza di circostanze aggravanti ed attenuanti, se il giudice deve fare tutto ciò ai sensi dell’art. 444, comma 2, c.p.p. — ripeto — e deve farlo senza passare per l’accertamento dibattimentale dei fatti e delle circostanze, e quindi senza dare la possibilità all’imputato di contestare la ricostruzione che dei fatti offre il p. m., evidentemente è perché comunque i fatti posti a sostegno della richiesta di patteggiamento sono considerati dal legislatore, e vanno considerati dal giudice penale, come fatti non bisognosi di accertamento dibattimentale perché — attraverso l’esplicita ammissione della responsabilità penale — implicitamente ammessi o non contestati da chi poteva contestarli e consapevolmente (e — dal suo punto di vista — convenientemente) non l’ha fatto: l’imputato. Ma — è da chiedersi —, se il giudice civile può procedere all’autonoma ricostruzione dei fatti di causa, anche quando vi sia stato il patteggiamento, l’ammissione implicita o la non contestazione dei fatti costituenti reato può rimanere ferma anche all’interno del processo civile quando la parte civile utilizzi gli stessi fatti per fondare la propria domanda di risarcimento dei danni derivanti dal reato oppure, trattandosi di due situazioni processuali diverse, si deve riconoscere all’imputato la possibilità di contestare quel che ha ammesso (o non contestato) in sede di patteggiamento? Per rispondere al quesito è opportuno distinguere — a me pare — a seconda che vi sia stata oppure no costituzione della parte civile. 6. Nel caso di costituzione nel giudizio penale della parte civile, questa ha esercitato in sede penale la sua domanda di risarcimento, ma
— 458 — l’art. 444, comma 2, c.p.p. inibisce al giudice penale di decidere sulla relativa domanda, sebbene, per effetto dell’intervento della Corte costituzionale, il giudice penale sia comunque tenuto alla condanna dell’imputato al pagamento delle spese giudiziali sopportate dalla parte civile. Volendo schematizzare, quindi, si dovrebbe ritenere che nel giudizio penale, a seguito della costituzione della parte civile, siamo in presenza della proposizione cumulativa di due diverse domande: la prima del pubblico ministero e diretta alla condanna penale dell’imputato, la seconda della parte civile e diretta alla condanna al risarcimento dei danni del medesimo imputato. Ora, la domanda della parte civile si fonda evidentemente sugli stessi fatti che formano oggetto dell’imputazione e che saranno oggetto del giudizio penale. Di conseguenza, nel momento in cui l’imputato, accordandosi con il p.m., patteggia la pena per i fatti di cui si è reso penalmente responsabile ed esplicitamente riconosce la sua responsabilità, dà la possibilità al giudice penale di pronunciare la sentenza di patteggiamento per quel che riguarda l’azione penale, ma nel contempo ammette implicitamente i fatti costitutivi della domanda di risarcimento della parte civile, la quale, però, per espressa previsione dell’art. 444, comma 2, c.p.p., non può essere decisa dal giudice penale, in quanto — in presenza del patteggiamento — va comunque garantita al giudice civile la possibilità di procedere ad un’autonoma ricostruzione dei fatti di causa. E se così è, allora, non si può negare che, per effetto dell’ammissione esplicita di responsabilità penale da parte dell’imputato e dell’ammissione implicita di fondatezza dei fatti a lui addebitati, si abbia una relevatio ab onere probandi sia rispetto ai fatti portati in contestazione dal p.m. ed a fondamento dell’azione penale, sia rispetto ai medesimi fatti costitutivi della domanda di risarcimento della parte civile. Con la conseguenza che quei fatti, alla base tanto dell’azione penale, quanto di quella civile, possono dirsi accertati dal giudice penale — in modo « semplificato » — attraverso il meccanismo dell’ammissione implicita, in applicazione del tradizionale principio per cui i fatti pacifici non hanno bisogno di essere provati (34). Che poi la parte civile debba — per espressa previsione legislativa — chiedere al giudice civile di decidere sulla sua domanda di risarcimento, significa solo che la parte civile non può far valere in sede penale quella relevatio ab onere probandi derivante a suo favore dall’ammissione implicita dell’imputato, ma deve farla valere in un autonomo giudizio civile, proprio per consentire che il giudice civile possa procedere ad un’auto(34) Sul quale mi permetto di rinviare a CARRATTA, Il principio della non contestazione nel processo civile, Milano, 1995, dove altre indicazioni di dottrina e giurisprudenza in argomento.
— 459 — noma ricostruzione dei fatti allegati, nell’ambito della quale la stessa relevatio continuerà a manifestare i suoi effetti. Solo in questo modo, trova piena giustificazione, anche dal punto di vista costituzionale, sia la previsione dell’art. 444, comma 2, c.p.p., che ammette la possibilità per la parte civile di proporre la propria domanda all’interno del giudizio penale, ma impedisce al giudice penale di « decidere » detta domanda una volta accertati i fatti di causa attraverso l’ammissione implicita dell’imputato, sia il rilievo della Corte costituzionale secondo cui il giudice penale deve comunque condannare l’imputato al pagamento delle spese processuali sopportate dalla parte clvile. Quanto al primo profilo, infatti, non si può sottovalutare la circostanza che, nell’ipotesi presa in considerazione finora, la costituzione della parte civile e la proposizione della relativa domanda è avvenuta prima della richiesta di patteggiamento e quindi all’interno di un ordinario giudizio penale e che l’art. 444, comma 2, c.p p., inibendo al giudice penale, che abbia accolto l’istanza di patteggiamento, di « decidere » sulla domanda della parte civile, non impedisce certo che, fino alla pronuncia della sentenza di patteggiamento, quest’ultima continui a mantenere il ruolo di parte attrice rispetto all’azione civile e che, perciò, possa — proseguendo il giudizlo su quest’azione davanti al giudice civile — far valere a proprio favore comportamenti o dichiarazioni del convenuto-imputato all’interno del giudizio penale. Quanto al secondo profilo, quello della condanna al pagamento delle spese processuali a favore della parte civile, va ancora rilevato che, anche alla luce dell’art. 541 c.p.p. e della disciplina della condanna alle spese relative all’azione civile, molto vicina a quella dell’art. 92 c.p.c., essa appare giustificata solo se si ammette che, pronunciando sentenza di patteggiamento, il giudice penale ritiene fondata — allo stato degli atti e salva una diversa valutazione del giudice civile — la domanda della parte civile. È solo sulla base di una simile argomentazione che il giudice penale può giustificare la condanna alle spese processuali a favore della parte civile e che appare fondato il rilievo della Corte costituzionale (35) sul dovere dello stesso giudice penale di condannare l’imputato a rifondere le spese processuali da questa sostenute, sempre che non ricorrano giusti motivi per compensarle. 7. Ben diversa è, invece, la situazione che vede la parte danneggiata estranea al processo penale. In questo caso, infatti, il patteggiamento, se può continuare ad essere considerato come un’implicita ammissione dei fatti oggetto dell’imputazione, e quindi rispetto all’azione penale, non può sortire alcun effetto ri(35)
C. cost., 12 ottobre 1990, n. 443, cit.
— 460 — spetto all’azione civile, mancando l’esercizio di una simile azione all’interno del giudizio di patteggiamento. In questo caso, effettivamente, se un qualche valore può riconoscersi all’ammissione implicita dell’imputato, non può che essere quello di un comportamento ammissivo extra-processuale (36). E, se così è, allora si pone l’ulteriore problema del valore da riconoscere, nell’ambito del processo civile, al comportamento extra-processuale della parte, visto che è emerso all’interno della giurisprudenza della cassazione, soprattutto negli ultimi tempi, un orientamento — al momento minoritario, ma che va sempre più diffondendosi — per il quale anche il comportamento extra-processuale della parte può essere utilizzato dal giudice per trarre argomenti di prova ai fini della decisione della controversia (37), orientamento la cui pericolosità risulta ancor piu evidente se si considera che, talvolta, gli stessi giudici della legittimità ritengono gli argomenti di prova idonei, da soli, a fondare la decisione (38). Ebbene, ove si volessero condividere simili conclusioni della Cassazione anche rispetto al profilo del valore degli effetti del patteggiamento nel processo civile, si dovrebbe riconoscere che, in quanto comportamento extra-processuale (perché tenuto all’interno di un altro processo), la richiesta di patteggiamento possa fornire al giudice civile argomenti di prova e possa, di conseguenza, essere idonea a fondare una sentenza civile di condanna. In realtà, ad escludere che la richiesta di patteggiamento possa essere idonea, come comportamento extra-processuale, a fornire argomenti di prova al giudice civile, e possa — seguendo il ragionamento della Cassazione — fondare da sola la decisione del giudice civile, sono proprio le ar(36) In questo senso v. Cass., sez. lav., 10 giugno 1998, n. 5784, cit. (37) V. Cass., 7 marzo 1997, n. 2086, in Rep. Foro it., 1997 voce Prova civile in genere, n. 17, in riferimento alla distruzione di scritture contabili della parte; Cass., 15 maggio 1997, n. 4284, in Foro it., 1997, I, c. 3257, con nota di FABIANI, in riferimento a scritti stragiudiziali del difensore; Cass., 1 aprile 1995, n. 3822, in Rep. Foro it., 1995, voce cit., n. 32; Cass., 5 giugno 1991, n. 6344, ivi, 1991, voce cit., n. 12 (sulla quale v. le osservazioni critiche di TARUFFO, L’istruzione probatoria, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1993, p. 321 ss.); Cass., sez. lav., 25 giugno 1985, n. 3800, in Giust. civ., 1986, I, p. 1445, con nota di FERRONI. In dottrina, sull’argomento, v. TARUFFO, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Riv. dir. proc., 1973, p. 389 ss., spec. p. 419, il quale sottolinea come la giurisprudenza sia andata molto più in là del disposto dell’art. 116, comma 2, c.p.c., affermando che elementi di convincimento possano trarsi anche dal comportamento extra-processuale delle parti. In senso possibilista, invece, CHIARLONI, Riflessioni sui limiti del giudizio di fatto nel processo civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1986, p. 819 ss., spec. p. 850 s., v. anche COMOGLIO, Le prove civili, Torino, 1998, p. 68 ss. e p. 407; G.F. RICCI, Prove ed argomenti di prova, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1988, p. 1036 ss., spec. p. 1068. (38) Cass., 15 maggio 1997, n. 4284, cit.; Cass., 1 aprile 1995, n. 3822, cit.; Cass., 5 gennao 1995, 193, in Rep. Foro. it., 1995, voce Prova civile in genere, n. 34; Cass., sez. lav., 25 giugno 1985, n. 3800, cit.
— 461 — gomentazioni portate a sostegno di un simile ragionamento, sia perché non si riesce a comprendere come si possa trascurare il limite che lo stesso art. 116, comma 2, c.p.c. pone circa la possibilità di desumere argomenti di prova dal contegno tenuto dalle parti « nel processo » (non « in un processo »), sia perché — ammesso (e non concesso) che gli argomenti di prova possano essere assimilati a vere presunzioni semplici, come sostiene da tempo una parte della dottrina (39), ed in quanto tali assurgere a primarie fonti di prova — non si può prescindere dal riconoscere il giusto valore ai requisiti che l’art. 2729 c.c. indica perché le presunzioni possano assurgere al valore di prova primaria. In conclusione, la richiesta di patteggiamento, se è idonea ad assumere il valore di ammissione implicita dei fatti a sostegno dell’azione civile esercitata nell’ambito del processo penale, e come tale a portare ad una relevatio ab onere probandi per la parte civile che sia costretta — dopo il patteggiamento — a proseguire il giudizio sul risarcimento dei danni derivanti dal reato davanti al giudice civile, nel successivo processo civile non può avere altro valore — in caso di mancata costituzione della parte civile nel processo penale — che quello di comportamento extraprocessuale e come tale del tutto irrilevante per il giudice civile, anche ai fini, limitati, dell’applicazione dell’art. 116, comma 2, c.p.c. ANTONIO CARRATTA Associato di diritto processuale civile nell’Università di Macerata
(39)
Per gli opportuni approfondimenti ed anche per le indicazioni dottrinali, v. TA-
RUFFO, La prova dei fatti giuridici, Milano, 1992, p. 453 ss.; CAVALLONE, Critica alla teoria
delle prove atipiche, in Riv. dir. proc., 1978, p. 679 ss. (ora in ID., Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, 1991, p. 379 ss.); G.F. RICCI, Prove ed argomenti di prova, cit., p. 1036 ss.; ID., Le prove atipiche, Milano, 1999, p. 312 ss.; COMOGLIO, Le prove civili, cit., p. 69; MONTELEONE, Diritto processuale civile, Padova, 2000, p. 272 ss., e, se vuoi, CARRATTA, Il principio, cit., p. 175 ss.
L’ESAME DELL’IMPUTATO SUL FATTO ALTRUI, TRA DIRITTO AL SILENZIO E DOVERE DI COLLABORAZIONE
SOMMARIO: 1. La l. n. 267 del 1997: l’autonomia concettuale delle dichiarazioni del coimputato sul fatto altrui. — 2. Il contraddittorio polisenso. — 3. L’equiparazione tra coimputato aliunde e teste. — 4. Le tensioni verso il dovere di collaborazione. — 5. Gli sviluppi: a) la falsa antitesi tra diritto al silenzio e contraddittorio. — 6. b) la revisione dell’art. 111 Cost. — 7. L’area del diritto al silenzio nel nuovo assetto costituzionale. — 8. La testimonianza dell’imputato. — 9. La disciplina nella fase delle indagini. — 10. Conclusioni.
1. La l. n. 267 del 1997: l’autonomia concettuale delle dichiarazioni del coimputato sul fatto altrui. — L’intrinseca fragilità delle dichiarazioni del coimputato sul fatto altrui spinge a rafforzarne la capacità persuasiva tramite una tecnica di assunzione improntata al contraddittorio. Così, nel testo originario del codice il metodo eletto per l’ingresso in giudizio della prova era l’esame, mentre le ipotesi alternative di recupero dibattimentale risultavano sorvegliate con estremo rigore. La costruzione franò rovinosamente quando la sentenza costituzionale n. 254 del 1992, allargò a dismisura l’impiego delle conoscenze raccolte nelle indagini preliminari, ivi comprese quelle provenienti da separate vicende processuali. Il diritto al silenzio, degradato a presupposto per la lettura, si prestava a veicolare al dibattimento le dichiarazioni rese nel dialogo segreto con l’accusatore, al riparo dall’apporto difensivo del chiamato in correità. Un simile meccanismo, consegnato alla parte pubblica, veniva a sua discrezione attivato secondo opportunità tattiche che, sottraendo il teste d’accusa alle falsificazioni della controparte, pesavano sul grado di attendibilità dell’accertamento. Si comprende così come la legge 7 agosto 1997, n. 267 abbia colto nell’art. 513 c.p.p. lo spazio privilegiato per compiere una prima inversione di rotta rispetto alle linee che si andavano consolidando. La riforma mirava a ripristinare il legame tra l’uso in giudizio delle chiamate di correo ed il rispetto del contraddittorio nel momento formativo della conoscenza. Nondimento la sentenza n. 254 del 1992 era destinata a rappre-
— 463 — sentare il punto di riferimento obbligato di ogni intervento legislativo che volesse sottrarsi ad una nuova censura del giudice costituzionale (1). Il legislatore del 1997 percorre, quindi, la strada indicata dalla Consulta, ma ne inverte il senso di marcia: nella sentenza n. 254 del 1992, i limiti all’uso del contributo della persona aliunde imputata ex art. 513, comma 2, c.p.p., tacciati di irragionevolezza rispetto al regime contemplato dal comma precedente per le dichiarazioni dell’imputato nel corso del processo cumulativo, venivano travolti dall’estensione della disciplina dettata dall’art. 513, comma 1, c.p.p. Una norma eccezionale — poiché consentiva la lettura degli atti di indagine — veniva in tal modo estesa a disciplinare ipotesi extravaganti rispetto al proprio perimetro. Nella novella del 1997 non si forza l’ambito dell’eccezione ma la si fa cadere. Il silenzio del coimputato sul fatto altrui, tanto nel processo cumulativo (art. 513, comma 1, c.p.p.), quanto nell’ipotesi di separazione delle regiudicande (art. 513, comma 2, c.p.p.), non legittima la lettura del contributo reso in assenza di contraddittorio nel corso delle indagini preliminari. Il legislatore esplicita, così, ciò che un’accorta interpretazione aveva già tratto dall’originario testo del codice (2): l’uniformità di disciplina circa l’uso delle dichiarazioni rese dal correo sull’altrui responsabilità. A tal punto, l’argomento utilizzato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 254 del 1992, circa l’irrazionalità di un regime probatorio difforme a seconda delle scelte processuali compiute dalle parti, perde ogni vigore. L’uso delle dichiarazioni ai fini del giudizio è, come regola, subordinato allo svolgersi dell’esame incrociato benché la parte, rinunciando al proprio diritto al contraddittorio, possa acconsentire ad un impiego esteso nei suoi riguardi (cfr. art. 513, comma 1 e 2, c.p.p.). Si è parlato, a proposito, di una sorta di disponibilità della prova in capo all’imputato, libero di selezionare a suo piacimento il materiale dell’accusa (3). L’argomento è, però, inficiato da un equivoco di base poiché ruota attorno all’equiparazione tra la prova e l’atto investigativo unilateralmente formato. Il divieto di lettura del materiale raccolto nella fase di indagine non dipende dalla (1) Gli spazi aperti al contraddittorio nelle fasi anteriori al dibattimento — l’incidente probatorio e l’udienza preliminare — servivano a proteggere il fianco dai contrasti con il canone — nuovo quanto singolare — della dispersione dei mezzi di prova: cfr., sul punto, O. DOMINIONI, Un nuovo idolum theatri: il principio di non dispersione probatoria, in questa Rivista, 1997, p. 738. (2) Cfr. M. NOBILI, sub art. 513, in Commento al codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, Secondo aggiornamento, Torino, 1991, p. 273. (3) Lo scenario di una ‘‘giustizia in ostaggio’’ viene a caldo prospettato dal procuratore della Repubblica di Palermo, G.C. CASELLI (in La Repubblica, 19 agosto 1997, p. 6): con la nuova disciplina ‘‘padrone esclusivo del processo diviene l’imputato che può, a suo arbitrio, aprire e chiudere il rubinetto delle prove, prima parlando, poi tacendo’’.
— 464 — volontà dell’imputato bensì dai principi guida del sistema. Sono questi, e non gli inediti contenuti dell’art. 513 c.p.p., ad essere il vero oggetto di controversia. Per altro verso, il legislatore del 1997 giunge ad una ridefinizione della categoria dell’irripetibilità ex post (4): si punta a restringerne i confini, svincolando l’esercizio dello ius tacendi dalle cause idonee a legittimare la lettura delle dichiarazioni sull’altrui responsabilità (5). 2. Il contraddittorio polisenso. — La novella del 1997 ha sollevato una forte eco in parte tradottasi in una nutrita serie di ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale, tutte imperniate sui nuovi limiti all’ingresso in giudizio del contributo del correo sull’altrui responsabilità. Il comune bersaglio era l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal coimputato silente a dibattimento e, in particolare, il disegno legislativo che aveva, sotto questo profilo, equiparato le ipotesi di cumulo processuale agli itinera separi. Non potendosi più far leva sulla disarmonia interna alla disciplina dell’art. 513 c.p.p., si sposta la mira verso un bersaglio esterno, ossia la divergenza delle regole d’uso rispetto alle dichiarazioni testimoniali rese in fase di indagine. Il colpo va a segno: muovendo dall’art. 3 Cost., la sentenza n. 361 del 1998 seppellisce il sistema di regole poste a limitare l’uso in giudizio delle dichiarazioni rese dal coimputato sul fatto altrui. Il primo a cadere è l’art. 513, comma 2, c.p.p., secondo un percorso che si svolge dalle fondamenta fino a travolgere via via l’intera costruzione normativa appena messa a punto. Il coefficiente di arbitrarieà della disciplina censurata è colto rispetto alla ‘‘funzionalità del processo’’, ossia ad un programmatico principio che la Corte trae dal complessivo tenore della Costituzione (6). Non è conforme al principio di ragionevolezza ‘‘una disciplina che precluda a priori l’acquisizione in dibattimento di elementi di prova raccolti legittimamente nel corso delle indagini preliminari e nell’udienza preliminare’’ (7). (4) Che le modifiche all’art. 513 c.p.p. investissero in primis ‘‘la portata della categoria dell’irripetibilità’’ fu ben consapevole lo stesso legislatore: v. Atti Parlamentari, Camera dei deputati, Seduta del 16 luglio 1997, p. 338. (5) Si ribadisce così ‘‘che il rifiuto di rispondere non costituisce forma tipica di irripetibilità, esprimendo avviso diverso dalla Corte costituzionale’’: G. RICCIO, Letture più circoscritte e forme ‘‘alternative’’ di acquisizione probatoria, in Dir. pen. proc., 1997, p. 1184. (6) L’esigenza di funzionalità del processo ‘‘può considerarsi sottostante a tutto il complesso delle norme (anche costituzionali) sulla giurisdizione, così da legittimare il riferimento ad essa anche nei bilanciamenti propri dei giudizii di costituzionalità’’, v., in tal senso, M. CHIAVARIO, Dichiarazioni a carico e contraddittorio tra l’intervento della Consulta e i progetti di riforma costituzionale, in Leg. pen., 1998, p. 931. (7) Si noti, peraltro, come la Corte non ricalchi lo schema ternario tipico del giudizio di irragionevolezza: ‘‘la norma legislativa da valutare, un’altra norma giuridica di raffronto e
— 465 — La censura investe le fondamenta del codice, ossia la separazione funzionale delle fasi e l’inettitudine probatoria degli atti di indagine. Si tratta di un passo avanti rispetto a quello compiuto allorché si coniò il principio della non dispersione della prova. Là il recupero degli atti investigativi, sebbene generalizzato oltre misura, restava pur sempre un’eccezione alla regola. Il panorama muta questa volta se la Corte boccia il disegno legislativo che intendeva ovviare alla perdita di sapere attraverso l’anticipazione del contraddittorio nelle fasi anteriori al giudizio (8) e, per altro verso, indica nella valenza probatoria degli atti raccolti dall’accusa l’unico metodo costituzionalmente compatibile di accertamento.. Stando al pensiero della Corte, altro valore di rango costituzionale compresso dall’art. 513 c.p.p., come modificato dal legislatore del 1997, è il diritto di difesa, la cui tutela impone che l’ingresso in dibattimento degli elementi di prova raccolti legittimamente nel corso delle indagini (o nell’udienza preliminare) ‘‘sia subordinato alla possibilità di instaurare il contraddittorio’’. Qui il lettore smarrisce l’orientamento: non era questo il fine che il divieto d’uso ex 513, comma 2, c.p.p., ambiva a perseguire? No, risponde la Corte, ‘‘la perdita definitiva delle precedenti dichiarazioni’’ ostacola ‘‘la formazione dialettica della prova davanti al giudice’’. Il discorso sfiora il paradosso. In antitesi rispetto al contraddittorio non sta affatto ‘‘la perdita definitiva delle precedenti dichiarazioni’’ o, per meglio dire, l’irrilevanza probatoria degli atti di indagine, bensì il loro recupero, per l’appunto vietato dall’art. 513, comma 2, c.p.p. Per rendere comprensibile il ragionamento della Corte occorre, evidentemente, riempire di significati diversi da quelli comuni i termini impiegati. Se la ‘‘formazione dialettica della prova’’ a cui si allude è, a quanto pare, conciliabile con l’uso in giudizio degli elementi raccolti dall’accusa, il significato del contraddittorio, da strumento per la genesi della prova finisce per coincidere con l’esercizio retorico-argomentativo compiuto dalle parti sui risultati altrove raggiunti (9). È solo questo concetto il principio costituzionale di razionalità che impone l’eliminazione della norma irrazionale’’ (G. ZAGREBELSKY, voce Processo costituzionale, in Enc. dir., vol. XXXVI, Milano, 1987, p. 558). Qui lo schema è binario poiché si svolge tra norma giuridica e parametro costituzionale: l’art. 513, comma 2, c.p.p. è illegittimo perché irrazionale rispetto ad un certo obiettivo — la funzionalità del processo — costituzionalmente sancito. (8) L’art. 392 c.p.p., nel testo modificato dalla l. n. 267 del 1997, disegna un incidente probatorio liberamente attivabile dalle parti che intendano in quella sede assumere dalla persona imputata (art. 392, comma 1, lett. c), c.p.p.) ovvero da uno dei soggetti elencati all’art. 210 c.p.p. (art. 392, comma 1, lett. d), c.p.p.) dichiarazioni sull’altrui responsabilità. Si assiste così al progressivo sganciamento dell’incidente probatorio dall’area della non rinviabilità lungo la direttrice già tracciata dalla l. n. 66 del 1996 in tema di violenza sessuale: cfr. sul punto, C. QUAGLIERINI, Le modifiche in materia di incidente probatorio, in Le nuove leggi penali, a cura di A. GIARDA, G. SPANGHER, P. TONINI, Padova, 1998, p. 215. (9) Lo sottolinea G. GIOSTRA, Quale contraddittorio dopo la sentenza n. 361/1998
— 466 — blando di contraddittorio che la nuova disciplina ex art. 513, comma 2, c.p.p., si presta a compromettere. Resta, tuttavia, ancora da spiegare come i limiti alla lettura dessero luogo ad un contrasto con l’art. 24 Cost. Niente poteva lamentare la difesa dell’imputato dall’esclusione dall’orizzonte decisorio di dichiarazioni formate in sua assenza. Al contrario, il divieto di lettura, salva l’ipotesi del consenso prestato dalla parte all’uso esteso nei suoi riguardi, realizzava al massimo grado il diritto di difesa. L’imputato poteva subire dalla disciplina un pregiudizio solo indiretto, quando il contributo del dichiarante, poi silente al giudizio, avesse fornito illo tempore le basi per un provvedimento de libertate. Qui, però, il danno non derivava dalle regole probatorie poste a presidio del contraddittorio dibattimentale ma da un certa disinvoltura nell’applicazione delle misure cautelari, spesso disposte senza un’adeguata ponderazione del fumus di colpevolezza. Insomma, l’art. 24 Cost. è dalla Corte invocato in modo pretestuoso. L’art. 513, comma 2, c.p.p., così come concepito dalla novella, non era affatto lesivo per la parte chiamata in causa dal contenuto delle dichiarazioni del correo. Viceversa, la disciplina, nell’escludere il valore probatorio degli atti raccolti al di fuori del metodo dialogico, si poneva in felice armonia con il diritto di difesa. Solo in seguito, quando la norma viene interpolata nella parte in cui esclude a priori l’uso degli atti investigativi che il pregiudizio si delinea. La Corte, in altre parole, nella sentenza n. 361 del 1998, ha censurato sé stessa. 3. L’equiparazione tra coimputato aliunde e teste. — I giudici costituzionali non si sottraggono all’impegno di individuare spazi dove operi il contraddittorio ‘‘postumo’’. Il meccanismo capace di ricondurre ad armonia regole processuali e principi costituzionali viene colto nel previgente testo dell’art. 500, commi 2-bis e 4, c.p.p. Ne segue l’illegittimità dell’art. 513, comma 2, c.p.p., laddove, nel caso in cui il dichiarante taccia circa i fatti concernenti l’altrui responsabilità, già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, non prevede l’applicabilità della disciplina prevista per l’esame testimoniale. Qui le parti potevano procedere alle contestazioni anche quando la fonte non rispondesse alle domande rivoltele, con l’effetto di attribuire una valenza probatoria alle dichiarazioni rese in precedenza e non ribadite nei contenuti (10). della Corte costituzionale?, in Quest. giust., 1999, p. 198. Sulle molteplici facce del contraddittorio, cfr. in generale, P. FERRUA, Studi sul processo penale. III. Declino del contraddittorio e garantismo reattivo, Torino, 1997, p. 95. (10) La regola posta all’art. 500, comma 4, c.p.p., non risultava indenne da critiche. Il guaio è che il presupposto sulla cui base la dichiarazione difforme è valutata come prova ‘‘non garantisce affatto la sua veridicità’’. Una volta verificate — e supponendo che real-
— 467 — La parte addittiva dell’intervento si fonda sull’equiparazione tracciabile sul piano teorico tra coimputato aliunde e teste, chiamati entrambi a deporre in ordine al fatto altrui. La Corte enfatizza i tratti comuni delle rispettive discipline (citazione, obbligo di presentazione, accompagnamento coattivo), ma tace sul profilo discriminante del diritto al silenzio, riconosciuto in un caso e negato nell’altro. L’equiparazione non è dunque spinta fino alle sue estreme conseguenze — che avrebbero portato a negare il diritto di tacere in capo al coimputato dichiarante sul fatto altrui (11) — bensì piegata al limitato fine di rendere applicabile l’art. 500, comma 2bis, c.p.p. A farne le spese è la praticabilità delle contestazioni nell’ambito dell’esame, non già del testimone, ma del soggetto ex art. 210 c.p.p. Si dimentica che l’imputato aliunde deve essere previamente avvertito del proprio diritto di tacere (art. 210, comma 4, c.p.p.) (12) e che, nell’eventualità in cui scelga il silenzio, lo farà quasi sempre in toto, fino ad impedire l’assunzione del mezzo di prova (13). Quando ciò avviene, le dichiarazioni non sono contestate, bensì lette. In tal modo l’innesto nell’art. 210 c.p.p. di un corpo estraneo — id est l’art. 500, comma 2-bis, c.p.p. — reagisce provocando effetti distorsivi, trasformando il titolare dell’accusa in un ‘‘accanito ed artificioso lettore’’ e riducendo l’esame da cuore del contraddittorio ad una misera quanto inutile parodia (14). mente lo siano — le attività ostruzionistiche all’assunzione della prova, resta comunque da dimostrare l’attendibilità delle dichiarazioni pregresse. In altre parole, ‘‘la verità bandita dalla testimonianza dibattimentale non rifluisce per incanto nelle dichiarazioni difformi’’: P. FERRUA, Studi sul processo penale. II. Anamorfosi del processo accusatorio, Torino, 1992, p. 182. (11) Non a caso, a simili conclusioni approdava la dottrina più critica verso la riforma del 1997, cfr., fra gli altri, V. GREVI, Il diritto al silenzio dell’imputato sul fatto proprio e sul fatto altrui, in questa Rivista, 1998, p. 1145. (12) Sicché ‘‘ove preventivamente e subito egli dichiari che di tale facoltà intende avvalersi, si dovrebbe ignorare questa dichiarazione e iniziare ugualmente, da parte di chi ha introdotto la prova, a contestargli singolarmente tutti i fatti e le circostanze oggetto delle dichiarazioni anteriori’’. Ne scaturisce ‘‘un’immagine fittizia e caricaturale del contraddittorio per la prova’’: G. FRIGO, Un’involuzione dell’impianto accusatorio con il pretesto di tutelare la difesa, in Guida dir., 1998, n. 44, p. 62. (13) È vero che il legislatore prevede le contestazioni anche qualora il teste non risponda ma, in tal caso, il silenzio rappresenta un’eccezionale comportamento contra ius. Se la patologia dell’evento giustifica la confluenza nel fascicolo, non altrettanto può dirsi riguardo al silenzio dell’imputato, che, costituendo l’espressione di un diritto, è viceversa classificabile alla stregua di una fisiologica eventualità. Di qui l’ostacolo all’applicabilità dell’art. 500, commi 2-bis e 4, c.p.p.: cfr., sul punto P. TONINI, Il diritto a confrontarsi con l’accusatore, in Dir. pen. proc., 1999, p. 16. (14) È l’immagine riflessa dalla pratica giudiziaria: cfr., al riguardo, le osservazioni di G. COLOMBO e G. FRIGO, nel corso del forum « Lotta alla corruzione: oltre l’emergenza la sfida alla legalità », in Guida dir., 1999, n. 5, p. 4. Ciononostante alcuni sostengono con forza la diversità tra i due meccanismi di acquisizione probatoria, l’uno — le letture — dove
— 468 — 4. Le tensioni verso il dovere di collaborazione. — Ridisegnata la disciplina dell’art. 513, comma 2, c.p.p., occorreva restituire coerenza all’intera norma, estendendo le nuove regole d’uso al contributo reso dall’imputato nel processo cumulativo circa l’altrui responsabilità. La Corte ha buon gioco nel riconoscere che le dichiarazioni rese dal coimputato sul fatto altrui configurino un mezzo gnoseologico autonomo. Il profilo, già abbozzato nel disegno originario del codice, si delineava con maggior nitidezza a seguito della l. n. 267 del 1997 (15). Sembra, quindi, coerente che l’ingresso della prova in giudizio avvenga secondo moduli uniformi. Su questa strada l’ostacolo principale veniva dalla libertà riconosciuta all’imputato di non presentarsi al dibattimento ovvero di rifiutare l’esame (art. 208 c.p.p.), laddove il coimputato aliunde è sottoposto ad una pregnante servitus iustitiae ed è chiamato ad esprimere in maniera espressa la volontà di tacere. Tanto basta per tacciare l’art. 210 c.p.p. di irragionevolezza nella parte in cui non estende la disciplina ivi prevista all’imputato che si determini a parlare in ordine al fatto altrui. Anche in tale ipotesi il congegno è inadeguato: quale rimedio all’assenza di contraddittorio potrà offrire l’accompagnamento coattivo ove il coimputato scelga di avvalersi della facoltà di non rispondere? In realtà, ancora una volta, dietro lo schermo del contraddittorio sta l’esigenza del recupero delle dichiarazioni pregresse, qui soddisfatta dalla presenza coatta ad un esame trasfigurato in veicolo per la lettura. Tuttavia il perimetro soggettivo tracciato dalla Corte con riferimento all’art. 210 c.p.p., lascia intravedere un altro e diverso motivo ispiratore già echeggiante nel corso del dibattito che ha accompagnato la novella n. 267 del 1997, all’interno ed all’esterno delle aule parlamentari. Si è detto come la disciplina dell’art. 513 c.p.p., come riscritta dalla sentenza n. 254 del 1992, intendendo il diritto al silenzio alla stregua di un presupposto per la lettura delle chiamate in correità rese al coperto del si prescinde dal metodo dialettico, l’altro — le contestazioni — in cui si realizza una forma, sia pure imperfetta, di contraddittorio, così V. GREVI, Dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, diritto al silenzio e garanzia del contraddittorio (dagli insegnamenti della Corte costituzionale al progettato nuovo modello del ‘‘giusto processo’’), in questa Rivista, 1999, p. 831. (15) La disciplina sull’incidente probatorio ne offre l’esempio più eloquente: l’art. 392 c.p.p., nel delimitare l’ambito dell’istituto, enuclea con precisione il contributo reso ‘‘dalla persona sottoposta ad indagini sui fatti concernenti la responsabilità di altri’’, distinguendolo rispetto a quello reso dal medesimo soggetto sul fatto proprio. All’unicità del mezzo acquisitivo (entrambi i contributi vengono assunti nelle forme dell’esame dell’imputato ex art. 208 c.p.p.), non corrisponde l’identità della prova, mutando l’oggetto della narrazione. Simile identità sussiste, invece, tra le dichiarazioni dell’imputato circa il fatto del terzo e quelle offerte dal coimputato aliunde sul medesimo tema, a nulla rilevando l’avvenuta separazione delle regiudicande.
— 469 — segreto investigativo, spingesse a denunciare l’atteggiamento ‘‘tirannico’’ del teste di accusa (16). Di qui l’insofferenza verso il diritto al silenzio, trasfigurato da emblema del metodo accusatorio a rettaggio di un ‘‘autoritarismo’’ travestito (17), e le numerose proposte tese a restringere la sfera del diritto in capo all’imputato chiamato a deporre in ordine al fatto altrui. Parte della dottrina, ravvisando nella tutela del nemo tenetur se detegere la sola ragione giustificativa della facoltà di tacere, proponeva di disconoscerla nell’ipotesi in cui l’imputato avesse reso piena confessione in ordine alla propria responsabilità. Qui la parte avrebbe fruito di una garanzia ormai sfornita di una ragionevole ratio (18). La tesi implicava il riconoscimento del valore di prova legale alla confessione (19). La necessità di garantire il nemo tenetur se detegere si avverte per tutto il corso dell’accertamento, fino alla sentenza irrevocabile di condanna: predicarne la superfluità, allorché l’imputato confessi, significa vincolare per legge il giudice a ritenere provata l’ipotesi accusatoria di fronte ad un tipo di conoscenza — le ammissioni dell’inquisito — definito a priori, secondo lo schema artificioso delle regole legali di valutazione (20). Altri negavano che la facoltà di tacere si estendesse alle circostanze sulle quali il coimputato avesse già deposto nelle fasi anteriori al giudizio: entro questo perimetro la garanzia contro l’autoincriminazione non avrebbe più avuto ragione d’essere (21). La tesi finiva per rappresentare solo una variante della precedente, condividendone l’iniziale percorso logico. L’affermazione per cui il lo schermo del nemo tenetur se detegere debba cadere di fronte ai fatti già oggetto di precedenti dichiarazioni, implica il valore intangibile del contributo raccolto e il definitivo accertamento dei temi di prova investiti. Simili opinioni finivano, inoltre, per scordare come il principale ostacolo al contraddittorio non consiste nell’esercizio del diritto al silenzio ma nell’uso processuale degli atti di indagine. In tal senso la l. n. 267 del (16) Libero di attivare, mercè il rifiuto di rispondere, il recupero delle dichiarazioni extradibattimentali (O. DOMINIONI, op. cit., p. 751). (17) Cfr., ancora, O. DOMINIONI, op. cit., p. 753 e, nel medesimo senso, E. MARZADURI, Il diritto al silenzio del coimputato, in Dir. pen. proc., 1998, p. 1513. (18) V. GREVI, Diritto al silenzio ed esigenze cautelari nella disciplina della libertà personale dell’imputato, in Libertà personale e ricerca della prova nell’attuale assetto delle indagini preliminari, Milano, 1995, p. 41. (19) Lo sottolineava prontamente G. UBERTIS, Nemo tenetur se detegere e dialettica processuale, in Giust. pen., 1994, III, p. 99. (20) Sull’inconsistente valore epistemologico della categoria delle prove legali, che ‘‘escludono l’indagine e la libera valutazione del giudice surrogandole con un giudizio infallibile e superiore’’, cfr., per tutti, L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 1990, p. 112. (21) V., con specifico riguardo alla situazione del coimputato nel corso di separata vicenda processuale ancora in itinere, O. DOMINIONI, op. cit., p. 759.
— 470 — 1997, incentrandosi sul regime delle letture ebbe il sicuro merito di reimpostare la questione nei corretti termini (22). Ma a ben vedere, il diffuso favore verso il dovere collaborativo dell’imputato non è spiegabile con il solo intento di salvaguardare il contraddittorio, ma affonda le sue radici in un preciso contesto storico, segnato da un deciso sbilanciamento all’indietro del rapporto tra le diverse fasi processuali. Non si può dimenticare come nei procedimenti in materia di corruzione, che in quegli anni si andavano accatastando sui tavoli delle procure (nonché sulle pagine dei giornali), l’ammissione di responsabilità dell’imputato era raramente disgiunta da una chiamata in correità (23). E che solo questo contributo, per così dire, allargato al fatto altrui, fosse ritenuto parametro indicatore di una cessata pericolosità sociale e, quindi, preludio alla revoca della misura cautelare già adottata nei confronti del dichiarante. La chiamata in correità diveniva così il perno su cui ruotavano le indagini preliminari: non solo ne indirizzava il corso, ma spesso vi produceva i primi, tangibili effetti, sfociando in provvedimenti limitativi della libertà personale delle persone coinvolte. Si comprende, quindi, come la reversibilità della scelta offerta al dichiarante ripugnasse alla morale (24) e, prima ancora, al senso comune: non a caso si parlava di disponibilità del processo in capo al collaboratore capriccioso. Benché sul piano tecnico il soggetto non disponesse di un bel niente, ma si limitasse a non fornire le basi promesse per suffragare l’ipotesi accusatoria, l’opinione corrente esprimeva un’istintiva ripulsa verso comportamenti del genere. Sull’onda di simili vicende giudiziarie, s’affermava l’esigenza che il patrimonio di conoscenze raccolto dal p.m. non sfumasse al dibattimento: la confessione, snodo delle indagini e presupposto delle decisioni de libertate, doveva trovare uno sbocco nell’ambito dell’accertamento di merito. Si nutrono anche di questo humus le opinioni favorevoli a disconoscere il diritto al silenzio in capo al correo loquace davanti agli organi investigativi. Mal ancorate ai canoni dei sistemi continentali, esse echeg(22) Ancora una volta però il messaggio del legislatore è caduto in un clima culturale ostile. Sulle resistenze che ‘‘la mediazione culturale dei giuristi’’, tradottasi nell’attuale codice di rito ha sollevato all’interno della magistratura — ordinaria e costituzionale — e del ceto forense, cfr. E. AMODIO, Affermazioni e sconfitte della cultura dei giuristi nell’elaborazione del nuovo codice di procedura penale, in questa Rivista, 1996, p. 914. (23) Si osserva come nelle grandi inchieste sulla corruzione ‘‘confessioni e chiamate in correità sono ritenute decisive per la scoperta e la documentazione dei reati, per la rottura di una vasta rete di complicità...’’: P. FERRUA, Studi sul processo penale. III, cit., p. 69. (24) Sotto questa luce, l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese durante le indagini è stata intesa alla stregua di una ‘‘legittimazione del diritto al silenzio ed alla menzogna da parte dell’imputato accusatore’’ (P. TONINI, Riforma del sistema probatorio: un’attuazione parziale del ‘‘giusto processo’’, in Dir. pen. proc., 2001, p. 270).
— 471 — giano la disciplina della common law, che intende la scelta collaborativa dell’imputato quale adesione ad una sorta di contratto siglato con la pubblica accusa (25), non più reversibile in sede dibattimentale. I segni di simili tensioni si rintracciano nella sentenza n. 361 del 1998, nel richiamo pressante alla conservazione degli atti legittimamente compiuti dal p.m. ed, in particolare, della chiamata in correità. Il cammino della Corte non è però agevole, dovendosi il discorso incanalare tra gli spazi esigui concessi dal codice: nei sistemi di common law l’adempimento del contratto con l’imputato collaboratore dipende dalla pubblica accusa, che conta molte frecce al suo arco per indurre la parte al rispetto degli accordi (26). Nel nostro sistema, i poteri persuasivi dell’accusatore, certo temibili nella fase delle indagini, si riducono di molto in sede di giudizio. Qui l’imputato può negare l’apporto a suo tempo promesso alla controparte senza il timore paralizzante di quei pregiudizi — si pensi al dissolversi dell’immunità — che solo un processo improntato alla discrezionalità dell’azione è capace di innescare. In tal modo, il diritto al silenzio finisce per rappresentare una grossa incognita per la costruzione accusatoria. Ecco perché chi ha già parlato davanti al p.m. deve essere, nella logica seguita dalla Corte costituzionale, coattivamente condotto al dibattimento ed ivi sollecitato a collaborare: si esige l’adempimento del patto. Non a caso, nell’ipotesi di cumulo processuale l’esame dell’imputato ex art. 210 c.p.p. aveva ad oggetto le circostanze sulle quali la parte aveva già deposto davanti agli organi inquirenti, mentre sulle circostanze nuove continuava ad espandersi il diritto al silenzio nella sua originaria portata, consentendo al dichiarante di sottrarsi al colloquio con l’autorità. È come se la Corte avesse riconosciuto che, determinandosi a collaborare, l’imputato rinunciava alla garanzia contro l’autoincriminazione, nei limiti dell’accordo sottoscritto in sede di indagini con gli organi investigativi. Poiché nel dibattimento l’armamentario dell’accusa si fa più scarno, l’arbitro del gioco diveniva il giudice: dove il dichiarante non avesse adempiuto scattava la lettura-acquisizione. (25) Ne traccia uno schema esauriente, E. AMODIO, La testimonianza del coimputato nell’esperienza di common law: modelli premiali, prassi negoziali e collaborazione coatta, in La legislazione premiale, Milano, 1987, p. 191. (26) Nel modello nordamericano ad es., immunity e non-prosecution agreements impediscono l’inzio dell’azione penale nei confronti del collaboratore e lo stesso plea bargaining opera in via principale nello spazio tra la condanna e la determinazione della pena, configurando istituti, sì gestiti dall’accusatore, ma inquadrabili nell’ambito della fenomelogia processuale. L’indisponibilità dell’azione e l’importanza del ruolo rivestito dal giudice ‘‘impediscono al nostro ordinamento di muoversi con altrettanta decisione e disinvoltura nella direzione tracciata dall’esperienza statunitense’’, con la conseguenza che il procedimento costituisce solo ‘‘il tramite per il riconoscimento delle condotte cooperatorie e l’applicazione di benefici altrove applicati:’’ v. A. BERNASCONI, La collaborazione processuale. Incentivi, protezione e strumenti di garanzia, Milano, 1995, p. 131 ss.
— 472 — Questo ragionamento, portato alle sue estreme conseguenze, avrebbe richiesto la negazione del diritto al silenzio: l’imputato accordandosi con il p.m. perde il suo status e si trasforma in testimone. Come detto la sentenza n. 361 del 1998 si ferma a metà del percorso, conscia degli ostacoli normativi e preoccupata delle implicazioni che ne sarebbero scaturite (27). Se da un lato, non poteva ignorarsi la portata del divieto illo tempore posto dall’art. 197 c.p.p., ci si chiedeva quale senso avrebbe avuto la prescrizione dell’obbligo di deporre senza quello, conseguente, di farlo secondo verità (28). Il risultato appariva ambiguo e tale, come accade spesso in simili ipotesi, da non soddisfare nessuno. Non i fautori del contraddittorio come metodo maieutico per la formazione della prova, ma neppure i favorevoli al dovere collaborativo dell’imputato sul fatto altrui, che avrebbero auspicato un passo più coraggioso in tale direzione (29). 5. Gli sviluppi: a) la falsa antitesi tra diritto al silenzio e contraddittorio. — In bilico tra l’esigenza di tutelare la posizione del coimputato — nel processo cumulativo o aliunde — e la volontà di garantire al p.m. l’intangibilità del patrimonio investigativo, la sentenza n. 361 del 1998 non era riuscita a trovare un equilibrio appagante. Le critiche riguardavano, in particolare, il pregiudizio per la difesa dell’imputato, privata del diritto a confrontarsi con il correo accusatore. Ma, con un curioso ribaltamento di piani, i rimedi prospettati dalla dottrina si appuntarono non già sulla causa prima di una simile disfunzione, ossia sul meccanismo farsesco delle contestazioni ad un soggetto muto — con il conseguente ingresso dei contributi raccolti unilateralmente dall’accusatore — ma sul diritto al silenzio come riconosciuto dall’art. 210 c.p.p. (27) Sulla scelta ha per alcuni pesato anche la sensibilità corrente della nostra cultura giuridica ‘‘che spesso esaspera alcune valenze del diritto al silenzio’’: cfr., in senso critico, E. MARZADURI, op. cit., p. 1512. Ci si chiede però se dietro all’apparente irrazionalità di certe posizioni non vi sia la consapevolezza della posta in gioco: già durante l’iter parlamentare della l. n. 267 del 1997, non mancarono voci propense a limitare il diritto al silenzio, eppure si finì per non recepirle ‘‘non tanto perché il tema debba considerarsi una sorta di tabù ma perché esso è tanto delicato e fondamentale da richiedere un ampio, approfondito e specifico dibattito’’ (G. FRIGO, Ritornano l’oralità e il contraddittorio mentre cresce il rischio di una controriforma, in Guida dir., 1997, n. 32, p. 71). (28) S’imponeva l’esigenza di salvaguardare l’attendibilità del giudizio: v. A. SCELLA, Una novella dal significato non univoco, in Leg. pen., 1998, p. 295. (29) Sebbene in verità fossero costoro ad uscire vincitori in seguito alla censura costituzionale. Benché la Corte si erigesse formalmente a difesa del diritto al silenzio riconosciuto dall’art 210 c.p.p., (« non suscettibile di censure’’ non essendo altro che il riflesso della posizione dell’imputato aliunde ‘‘non identificabile sul piano sostanziale con la figura del testimone’’), il messaggio complessivo era ben diverso, come riconosce V. GREVI, A proposito di una recente iniziativa legislativa sui rapporti tra gli artt. 210 e 513 c.p.p., in Gazz. giur., 1999, n. 10, p. 5.
— 473 — Si tornò, quindi, a sollecitare una riforma che restringesse gli spazi concessi allo ius tacendi. Muovendo dalle fondamenta gettate dalla Corte, qualcuno patrocinava una sorta di rinuncia alla garanzia del nemo tenetur se detegere da parte dell’imputato che si determinasse a collaborare già davanti al p.m. in sede di indagini (30). Altri, più cautamente, proponevano — fermo il diritto al silenzio sul fatto proprio — di introdurre un obbligo di testimonianza nei limiti dell’oggetto delle dichiarazioni precedentemente rese a carico di altri (31). A prescindere da qualsiasi questione in punto di praticabilità, il dubbio di fondo investiva l’effettiva utilità di simili proposte. L’obbligo del coimputato di deporre nei limiti del fatto altrui, di per sé non risolve la contrapposizione esistente tra diritti del dichiarante ex art. 210 c.p.p., e quelli della persona investita dalla chiamata in reità, la cui difesa non è pregiudicata dal rifiuto di rispondere, ma dalle conseguenze da esso indotte, quale presupposto per il recupero di conoscenze investigative. L’obbligo sanzionato di deporre, pur restringendo l’eventualità di atteggiamenti silenti, non può escluderla. In tal caso, ammessa la lettura dei contributi già resi (32), il pregiudizio per la difesa resta immutato. Invero, le questioni aperte dalla sentenza n. 361 del 1998 non erano riconducibili alla sola contrapposizione evidenziata tra le garanzie riconsciute al dichiarante ex art. 210 c.p.p. e quelle dell’imputato investito dalla chiamata in reità. Il quadro era più composito e vedeva sullo sfondo la ricerca di un equilibrio tra l’esigenza di evitare la perdita del sapere investigativo, da un lato, e quella di garantire il metodo del contraddittorio dall’altro. Le proposte incidenti sulla sfera del diritto al silenzio eludevano la seconda questione, lasciando che la bilancia continuasse a pendere a tutto vantaggio del primo termine: l’obbligo di deporre non guadagna spazi al metodo dialettico (33) se il silenzio prelude, in ogni caso, alla lettura dibattimentale. D’altro canto, riconoscere e valorizzare il valore euristico dell’esame non significa affatto incentrare il processo sulle dichiarazioni dei cor(30) P. TONINI, Il diritto a confrontarsi, cit., p. 15; all’indirizzo sembra aderire M. CHIAVARIO, op. cit., p. 937 secondo il quale vi sarebbe ‘‘il bisogno di responsabilizzare il dichiarante a corrente alternata’’, mentre altri affermavano la necessità che ‘‘l’imputato o l’indagato in procedimento collegato debba essere in qualche modo costretto a rendere dichiarazioni’’, così G. COLOMBO, op. cit., p. 4. (31) In tal senso, V. GREVI, Dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, cit., p. 841, che qui ripropone la tesi già avanzata prima della sentenza n. 361 del 1998 (cfr. Il diritto al silenzio, cit., p. 1145). Sposa il medesimo indirizzo F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 2000, p. 702. (32) Cfr., in tal senso, V. GREVI, Il diritto al silenzio, cit., p. 1142. (33) Il diritto al silenzio in capo al coimputato chiamato a deporre sul fatto altrui, nei contenuti ribaditi dalla sentenza n. 361 del 1998, avrebbe spinto il sistema lontano ‘‘dalle logiche del metodo dialettico-contestativo’’: E. MARZADURI, op. cit., p. 1513.
— 474 — rei (34), apprestando strumenti coattivi o premiali per ottenere ad ogni costo il loro apporto conoscitivo. L’inquietante equivalenza conduce lontano, fino ad accogliere in nome del contraddittorio qualsiasi tecnica che induca la parte a collaborare, nel segno della migliore tradizione inquisitoria. Forte è qui il rischio di confondere il piano sostanziale con quello processuale. Se il correo accusa altri in fase di indagine e poi tace o ritratta al dibattimento, potrebbe in taluni casi configurarsi il reato di calunnia (35). Ciò, però, non risolve ma lascia impregiudicata la questione circa l’uso delle dichiarazioni rese in fase di indagine (36). Si tratta di profili diversi: da un lato la sanzione punitiva di comportamenti delittuosi, dall’altro, le regole processuali che escludono l’impiego di contributi raccolti al di fuori delle forme dialettiche. Confonde, quindi, i piani del discorso chi pretende di perorare i valori sottesi al contraddittorio imponendo l’obbligo sanzionato di deporre. Modellata una fattispecie penale sul silenzio del coimputato, niente esclude che questi decida, comunque, di tacere al dibattimento o di ritrattare quanto detto in precedenza. In sintesi, la testimonianza del correo sul fatto altrui, inserita nel contesto normativo emerso dalla sentenza n. 361 del 1998, non solo incideva pesantemente sull’intangibilità del nemo tenetur se detegere ma non appagava neanche sul piano dei risultati (37). Bisognava prender atto che l’obbligo di collaborare non assicura affatto il contraddittorio — inteso nella sua forma piena — né questo è in sé pregiudicato dalla scelta di tacere. Si poteva discutere circa la necessità di più adeguati rimedi nei confronti del dichiarante assai loquace in fase di indagini e viceversa silente al dibattimento, ma con la consapevolezza dei limiti insiti in simili soluzioni. Al riguardo non era trascurabile la circostanza per cui le pene già previste dall’ordinamento nei confronti del collaborante, calunniatore o comunque falso, fossero rimaste pressoché sulla carta (38), né l’opinione di quanti dubitavano circa l’efficacia di ulteriori (34) L’equivoco sembra trapelare dalle parole di O. DOMINIONI, op. cit., p. 765. (35) Cfr. sul punto, D. PULITANÒ, Nemo tenetur se detegere: quali profili di diritto sostanziale?, in questa Rivista, 1999, p. 1291. (36) Come sottolinea G. ILLUMINATI, Lineamenti essenziali delle più recenti riforme legislative del codice di procedura penale, in Profili del nuovo codice di procedura penale. Seconda appendice di aggiornamento, a cura di G. CONSO e V. GREVI, Padova, 1988, p. 8. (37) Si ‘‘svalorizza una delle componenti essenziali del diritto di difesa, ottenendo poco o nulla in cambio’’: A. SCELLA, op. cit., p. 295. (38) Al riguardo si rammenta come l’art. 8, comma 6, l. n. 203 del 1991, preveda l’aumento fino ad un terzo della pena prevista per la calunnia quando risulta che il colpevole ha commesso il fatto allo scopo di usufruire dei benefici della legislazione premiale, e fino alla metà, se uno dei benefici è stato raggiunto. Il presidio non sembra ‘‘aver funzionato bene, se si considera l’estrema rarità dei procedimenti penali iniziati a seguito della falsa incolpazione’’. Nello stesso destino è incorso un ulteriore strumento, la revisione della sen-
— 475 — apparati sanzionatori nei riguardi di persone su cui già pesavano gravi accuse (39). La strada della riprovazione morale e giuridica per i comportamenti omertosi o farisaici del correo distoglieva dal tema davvero rilevante per il processo penale. Il nodo prioritario non riguardava la misura delle garanzie poste a tutela del coimputato ex art. 210 c.p.p. (40), ma il metodo prescelto per la raccolta delle fonti decisorie e prima ancora la tensione, costante quanto irrefrenabile, a caricare di valenze improprie le fasi anteriori al giudizio. 6. b) la revisione dell’art. 111 Cost. — Di fronte all’affermazione, profferita senza veli dalla Corte costituzionale, circa il valore probatorio degli atti di indagine e al conseguente abbandono del progetto che puntava al meccanismo ex art. 392 c.p.p. quale rimedio generalizzato alla perdita del sapere investigativo, diventava arduo riguadagnare spazi al metodo dialettico di accertamento. Si fece a tal punto strada l’idea di una riforma da introdurre nel corpo della Costituzione, allo scopo di tracciare in maniera inequivoca i contenuti del contraddittorio per la prova, così proteggendolo da interpretazioni riduttive (41). Benché accolta da uno scetticismo diffuso (42), se tenza a danno del condannato; cfr., per simili riflessioni, E. MUSCO, I collaboratori di giustizia tra pentitismo e calunnia: problemi e prospettive, in Le risposte penali all’illegalità, Atti dei convegni lincei, Roma, 1998, p. 89. (39) Cfr. G. ILLUMINATI, op. cit., p. 8 e A. SCELLA, op. cit., p. 295. (40) ‘‘Sicché il vero problema risulta non tanto quello relativo alla garanzia del diritto al silenzio sul fatto altrui... bensì quello relativo alla garanzia del contraddittorio in capo ai soggetti ‘chiamati in causa’ ’’: V. GREVI, Il diritto al silenzio, cit., p. 1144. (41) Si mirava ad evitare un’esegesi alla stregua di quella che ha interessato le garanzie in materia di giusto processo riconosciute dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Con particolare riguardo al metodo del contraddittorio, la giurisprudenza della Corte europea si attesta, infatti, su posizioni moderate, negando che il diritto a controesaminare i testi a carico implichi la partecipazione dell’imputato all’atto genetico della prova: G. UBERTIS, Verso un ‘‘giusto processo’’ penale, Torino, 1997, p. 101. (42) Ci si interrogava, in particolare, sul significato dell’inserimento nel testo costituzionale dei principi già scritti nella Convenzione europea e nel Patto internazionale sui diritti civili e politici (E. PACIOTTI, Modelli processuali e costituzione, in Quest. giust., 1999, p. 211), riconducendo il valore dell’iniziativa al piano simbolico (P. FERRUA, Garanzie del giusto processo e riforma costituzionale, in Crit. dir., 1998, p. 171). D’altro canto, si osservava come le norme delle Convenzioni non possono costituire, di per sé sole, parametro nel giudizio sulle fonti primarie, potendo al più fornire utili ausilii interpretativi, mentre la revisione avrebbe attribuito ‘‘a quei principi il valore di parametri nel giudizio sulle leggi’’: NICOLÒ ZANON, Il dibattito sull’art. 513 c.p.p. nelle prospettive costituzionalistiche, in Dir. pen. proc., 1999, p. 243. Né si può trascurare come la l. cost. n. 2 del 1999, traduca le garanzie del giusto processo in canoni oggettivi, così accogliendo una differente impostazione rispetto agli Atti internazionali sui diritti umani ‘‘principalmente focalizzati sul riconoscimento di diritti soggettivi’’: cfr. G. UBERTIS, Le riforme costituzionali proposte dalla Commissione Bica-
— 476 — non da aperte critiche (43), l’iniziativa percorre speditamente l’iter legislativo sfociando nell’approvazione della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2. Il disegno mira a sciogliere il nodo pregiudiziale ad ogni tentativo di risolvere le questioni circa l’uso probatorio delle chiamate di correo. Dopo aver stabilito che ‘‘ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti’’ (art. 111, comma 2, Cost.), la disposizione si volge al processo penale per postulare una disciplina improntata al ‘‘principio del contraddittorio nella formazione della prova’’, nonché alla regola per cui ‘‘la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base delle dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio dell’imputato e del suo difensore’’ (art. 111, comma 4, Cost.). Sul piano interpretativo alta risulta la valenza della duplice previsione del metodo del contraddittorio, ciascuna connotata da enunciati diversi. Così se la più stringata formula che figura al comma 2 della disposizione, sembra compatibile con un intervento delle parti esercitabile a posteriori sui verbali degli atti (44), il riferimento alla formazione della prova contenuto all’art. 111, comma 4, Cost., elegge il processo penale quale terreno di dominio del concetto forte di contraddittorio, ostacolando qualsiasi tentativo teso a neutralizzare il metodo dialettico. Più arduo, invece, risulta cogliere la ratio della regola formulata al secondo periodo dell’art. 111, comma 4, Cost. (45): il divieto per il giudice di fondare una condanna sulla prova unilateralmente assunta dall’accusa altro non è che un corollario del contraddittorio. La sua traduzione espressa si spiega solo attraverso le coordinate storiche della legge di rimerale. c) La previsione del giusto processo, in Dir. pen. proc., 1998, p. 44. In tal modo i principi contenuti all’art. 111 Cost. perdono il carattere di disponibilità proprio dei loro omologhi recepiti dai documenti internazionali. (43) Motivate dalla rigidità di un modello costituzionale di processo che lascia ‘‘al futuro legislatore pochissimi spazi di adeguamento e di articolazione rispetto alle svariate realtà processuali’’: V. GREVI, Quelle rigidità del ‘‘giusto processo’’ che portano a risultati paradossali, in Guida dir., 1999, n. 42, p. 11. Altri, pur muovendo dalla premessa circa la necessità di un’esplicita ‘‘costituzionalizzazione’’ delle norme di fonte internazionale, censuravano ‘‘la diretta riscrittura... di talune — ma di talune soltanto — fra le garanzie previste dalla Convenzione’’: M. CHIAVARIO, op. cit., p. 944. (44) Né potrebbe essere altrimenti considerato che l’art. 111, comma 2, Cost. esprime un principio valido per tutti i processi, inclusi quello civile e amministrativo (P. FERRUA, Rischio contradddizione sul neo-contraddittorio. Troppi dettagli nel ‘‘111’’, in Dir. giust., 2000, n. 1, p. 78). (45) All’interno dei canoni del giusto processo recepiti dall’art. 111 Cost. sono, infatti, distinguibili i principi, intesi quali norme a fattispecie aperta improntate a valori, e le regole, che traducendosi in fattispecie definite, tese a disciplinare ‘‘comportamenti abbastanza circostanziati’’, sono applicabili grazie alla ‘‘corrispondenza tra gli enunciati normativi e gli enunciati empirici, riconosciuti come veri o provati’’: P. FERRUA, Garanzie del giusto processo e riforma costituzionale, cit., p. 168.
— 477 — forma costituzionale. Se la tormentata vicenda della disciplina ex art. 513 c.p.p. ha costituito il motore del disegno teso ad introdurre nella Costituzione regole di natura processuale, il senso dell’art. 111, comma 4, Cost., si coglie solo leggendo gli enunciati ivi racchiusi in chiave di risposta alle due fondamentali sentenze della Corte costituzionale in materia. La consacrazione del metodo di accertamento dialogico è destinata a sbarrare la strada a quel concetto edulcorato di contraddittorio, compatibile con il recupero degli atti investigativi, che emergeva dalla sentenza n. 361 del 1998. Nient’altro occorreva aggiungere per cogliere l’obiettivo, se è vero che il riconoscimento della formazione dibattimentale della prova era quanto di più categorico, ‘‘di mirabilmente limpido si potesse dire’’ (46), almeno a volersi muovere sul piano delle norme costituzionali, di per sé aperte all’opera dell’interprete. Ma il limite intrinseco deve essere parso inappagante a un Parlamento timoroso di esser, ancora una volta, disatteso nella sua volontà. Così, allo scopo di vincolare la disciplina codicistica, il legislatore costituzionale si sostituisce a quello ordinario costruendo una norma di dettaglio. L’art. 111, comma 4, secondo periodo, Cost., vietando di porre a fondamento della condanna il contributo di chi si sottragga per libera scelta al controesame dell’imputato, funge da monito a non ricalcare le orme della sentenza n. 254 del 1992, riproponendo l’equiparazione tra ostacoli oggettivi alla formazione dibattimentale della prova e impedimenti riconducibili a condotte volontarie della persona esaminata. La ratio del divieto sta, quindi, nell’escludere expressis verbis l’ipotesi del dichiarante che rifugga le confutazioni della difesa dalle cause di ‘‘impossibilità di natura oggettiva’’ legittimanti una deroga al metodo del contraddittorio (art. 111, comma 5, Cost.) e, dunque, la lettura dell’atto unilateramente assunto dall’accusa (47). Si torna, in altre parole, alla disciplina accolta agli esordi del codice e poi brevemente ripristinata dalla l. n. 267 del 1997. Ma se l’intento è encomiabile, l’ispirazione contingente rischia di compromettere l’obiettivo principe della riforma costituzionale, id est il riconoscimento del valore euristico del contraddittorio. La portata dell’art. 111, comma 4, parte seconda, Cost., suona, infatti, riduttiva rispetto al metodo dialogico di accertamento: si contempla l’ipotesi del coimputato sottrattosi all’esame condotto dalla difesa, mentre s’ignora la circostanza in cui sia il controesame dell’accusa ad essere negletto, sebbene anche in tal caso il contributo già reso si sottragga al vaglio incrociato delle parti. La formulazione è spiegabile ove si consideri che la regola di cui trattasi nasce ed è desti(46) Cfr., ancora, P. FERRUA, Rischio contraddizione sul neo-contraddittorio, cit, p. 79. (47) Contra, ritenendo che una simile conclusione sia ‘‘già ricavabile mediante un’interpretazione letterale e sistematica dell’eccezione al contraddittorio per impossibilità oggettiva’’: P. TONINI, Riforma del sistema probatorio, cit., p. 273, nota 27.
— 478 — nata ad operare in via prioritaria nei confronti dei contributi dal contenuto accusatorio, la cui incisiva verifica, perlopiù condotta per modus tollens (48), è affidata al controesame svolto dalla difesa del chiamato in reità e non certo a quello guidato dal p.m. che ha richiesto la citazione del coimputato. Sotto questo profilo, l’omesso riconoscimento dei diritti dell’accusa non comporta un costo apprezzabile sul piano cognitivo, poiché la garanzia del diritto dell’imputato a confutare le dichiarazioni a carico assolve, da sola e in maniera adeguata, all’interesse generale all’accertamento (49). Ad ogni modo, il carattere unidirezionale della garanzia ex art. 111, comma 4, parte seconda, Cost., spinge ad individuarne la ratio nell’accezione di contraddittorio già accolta dalle Convenzioni pattizie (art. 6, comma 3, lett. c), Conv. eur. dir. uomo) ed oggi dall’art. 111, comma 2, Cost., laddove riconosce il diritto dell’imputato a controesaminare i testi a carico. Non si punterebbe, in altri termini, a salvaguardare la rilevanza epistemica dell’esame incrociato, cogliendosi nel contraddittorio solo una garanzia per la difesa (50). Ad intenderla in tal modo, però, la regola probatoria ex art. 111, comma 4, Cost., si dimostra limitativa rispetto al right of confrontation: occupandosi della situazione in cui, ammessa la difesa a confutare la prova a carico, l’esame non si svolga perché inibito dal silenzio del dichiarante, non considera affatto l’ipotesi più macroscopica in cui sia il giudice a disconoscere il diritto dell’imputato al controesame, ritenendolo, ad esempio, superfluo. Entrambe le costruzioni esaminate incappano, quindi, in limiti analoghi. Il disposto dell’art. 111, comma 4, Cost., non tutelando pienamente nessuna delle due accezioni del contraddittorio — metodo di accerta(48) Ossia attraverso le prove contrarie addotte dalla controparte (L. FERRAJOLI, op. cit., p. 123). (49) Si noti, peraltro, come la regola non sia necessariamente circoscritta alle sole dichiarazioni rese dall’imputato o da una delle persone indicate all’art. 210 c.p.p., rivelandosi capace di comprendere anche il contributo testimoniale. Il termine interrogatorio è impiegato dalla norma in senso atecnico, ad indicare le forme dibattimentali di audizione del coimputato (nel medesimo o in diverso procedimento) o del testimone. La formulazione del testo è, infatti, mutuata dalle convenzioni internazionali ed è in linea con l’art. 111, comma 2, Cost., dove si consacra il diritto dell’imputato ‘‘di interrogare o di far interrogare’’ i testimoni a carico. (50) C. CONTI, Le due ‘‘anime’’ del contraddittorio nel nuovo art. 111 Cost., in Dir. pen. proc., 2000, p. 198. D’altro canto, secondo alcuni il novellato art. 111 Cost. definisce sopratutto le garanzie del ‘‘giusto processo’’ dal punto di vista dell’imputato, ‘‘senza particolare attenzione per l’esigenza di tale accertamento’’: V. GREVI, Spunti problematici sul nuovo modello costituzionale di ‘‘giusto processo’’ penale (tra ‘‘ragionevole durata’’, diritti dell’imputato e garanzia del contraddittorio), in Pol. dir., 2000, p. 432. La concezione euristica del contraddittorio sembra, infatti, disattesa dalla ‘‘facoltà di rinuncia attribuita (si badi) al solo imputato’’: R. ORLANDI, Le peculiarità di tipo probatorio nei processi di criminalità organizzata, in Crit. dir., 1999, p. 12, nota 12.
— 479 — mento e diritto alla confutazione delle testimonianze a carico — si rivela, per questo verso, controproducente spingendo verso una lettura in chiave riduttiva dei canoni accolti dal testo costituzionale. Si comprende così la preoccupazione che il legislatore ordinario fosse indotto ad apprestare una minor tutela di quei canoni nelle ipotesi rimaste estranee all’ambito il divieto probatorio (51). Il pericolo si faceva tangibile con riguardo al metodo del contraddittorio, di cui si è proposta una lettura mortificante grazie al ‘‘grimaldello’’ offerto dall’art. 111, comma 4, secondo periodo, Cost. La disciplina ivi sancita avrebbe, infatti, esaurito le ipotesi di inutilizzabilità dei contributi raccolti al di fuori del metodo dialogico. Si pensi al caso del dichiarante che, sottopostosi diligentemente al vaglio dell’esame, nel rispondere alle domande delle parti contraddica il contenuto dell’interrogatorio reso in fase di indagine. Qui la regola posta dall’art. 111, comma 4, secondo periodo, Cost., non vale ad escludere dall’orizzonte decisionale i contributi racchiusi nei verbali ed impiegati ai fini delle le contestazioni, né un divieto in tal senso potrebbe direttamente desumersi dal principio del contraddittorio per la prova, da ritenersi conciliabile con il meccanismo di acquisizione-lettura ex art. 500, comma 4, c.p.p., nel testo abrogato. Si misurano, a tal punto, gli effetti perversi di simili opinioni: se quella regola costituisce l’emblema del contraddittorio inteso come dialettica postuma sugli elementi conoscitivi altrove raccolti, il legislatore avrebbe fallito nell’obiettivo primario della riforma costituzionale (52), ossia l’indicazione di un concetto univoco di contraddittorio, inteso come metodo per la genesi delle fonti decisorie (53). Né si dica che l’implicazione desunta dal primo periodo dell’art. 111, comma 4, Cost., di un generale divieto probatorio, svuoterebbe, renden(51) Si è detto, ad esempio, come il disposto dell’art. 111, comma 4, Cost., paia autorizzare il legislatore ad attribuire valore di prova ‘‘alla dichiarazione segretamente raccolte dalla difesa presso una persona che sistematicamente rifiuti di rispondere al pubblico ministero’’: P. FERRUA, Rischio contraddizione sul neo-contraddittorio, cit., p. 80. (52) Il rischio era percepibile nel testo adottato dalla commissione giustizia della Camera come base per il dibattito intorno alla legge attuativa dei principi del giusto processo, dove l’art. 500, comma 4, c.p.p. era riprodotto nella sostanza. La mossa appariva singolare nell’ambito di ‘‘un un disegno dichiaratamente destinato all’attuazione del principio costituzionale del contraddittorio’’: A. NAPPI, Il contraddittorio dimenticato. L’attuazione del ‘‘111’’ sembra limitarsi a un corollario, in Dir. giust., 2000, n. 26, p. 5. (53) Elementari criteri ermeneutici impongono, peraltro, il rifiuto di letture abrogatrici di precetti legislativi, specie se a venire in gioco sono principi di rango costituzionale. Il disposto dell’art. 111 Cost., incentrando il processo penale sul contraddittorio per ‘‘la formazione della prova’’ vieta — al di fuori di tassative eccezioni — l’acquisizione di qualsivoglia materiale investigativo, non importa se saggiato a posteriori attraverso il dialogo tra le parti: cfr., in tal senso, P. FERRUA, Il contraddittorio è salvo, ora va circoscritto il diritto al silenzio. Il testo della Camera rispetta la riforma costituzionale, in Dir. giust., 2000, n. 37, p. 9.
— 480 — dola inutile, la regola stabilita dal secondo periodo del medesimo comma (54). Gli spazi per ritagliare a quest’ultima disposizione una ratio autonoma esistono purché si adotti una chiave di lettura storicamente orientata. Si è detto come il legislatore costituzionale abbia inteso in tal modo ostacolare interpretazioni alla stregua di quella emergente dalla sentenza n. 254 del 1992, esprimendo la volontà di escludere dalla sfera delle deroghe al contraddittorio ex art. 111, comma 5, Cost., ed, in particolare, dalle fattispecie di accertata ‘‘impossibilità di natura oggettiva’’ i comportamenti volontari della parte. Che ciò sia vero lo dimostra la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale. Chiamata ad intervenire sulla compatibilità dell’art. 512 c.p.p. con i canoni del giusto processo (55) la Consulta supera, colpendola come anacronistica, un’interpretazione della norma che consenta la lettura dei contributi resi dai prossimi congiunti astenutisi dal deporre a dibattimento (56). Una simile conclusione è desunta dal dato testuale contenuto nell’art. 111, comma 4, secondo periodo, Cost., che espressamente esclude dal quadro probatorio esibito a sostegno della colpevolezza le dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre sottratto al controesame. Ne deriva che tra le cause di natura oggettiva ‘‘non può essere compreso l’esercizio della facoltà legittima di astenersi dal deporre’’. La Corte torna in tal modo sui suoi passi, non tanto rispetto agli enunciati della sentenza n. 179 del 1994, quanto rispetto ai dicta della pronuncia n. 254 del 1992, dove si consentiva la lettura dei contributi del correo silente al dibattimento. E un simile risultato diviene incontrovertibile in virtù della regola ex art. 111, comma 4, Cost.: non si dimentichi che sul medesimo terreno — quello delle eccezioni alla formazione dibattimentale della prova — la Corte non aveva esitato a ricondurre l’esercizio della facoltà di astenersi dal deporre a ‘‘quella oggettiva e non prevedibile impossibilità di ripetizione dell’atto dichiarativo’’ prevista all’art. 512 c.p.p. La regola di dettaglio inserita all’art. 111, comma 4, Cost., coglie, dunque, nel segno, offrendo all’interprete un appiglio sicuro per disegnare la mappa delle deroghe al contraddittorio per la prova, integrando per questo verso il disposto dell’art. 111, comma 5, Cost. Sulle orme della Consulta, orientata senza remore verso la tutela del significato forte di contraddittorio, si pone, dopo un iniziale tentennamento, il legislatore ordinario impegnato nell’attuazione di canoni costituzionali del giusto processo. In particolare, la disciplina delle letture, come (54) P. TONINI, Riforma del sistema probatorio, cit., p. 273. (55) Si tratta della sentenza 12 ottobre 2000, n. 440, in Dir. giust., 2000, pp. 39, 41; cfr., al riguardo, il commento di G.M. BACARI, Astensione tardiva del congiunto dell’imputato e nuovo art. 111 Cost., in Dir. pen. proc., 2001, p. 346. (56) Cfr. in tal senso la sentenza costituzionale del 16 maggio 1994, n. 179, in Giur. cost., 1994, p. 1589.
— 481 — infine modificata dalla legge 1o marzo 2001, n. 63, non pare discostarsi molto da quella a suo tempo introdotta con la novella n. 267 del 1997, già ispirata al ripristino del contraddittorio per la prova (57). Quanto al meccanismo delle contestazioni, il nodo dell’acquisibilità dei contributi a suo tempo resi dalla persona non sottrattasi alle domande delle parti, è stato sciolto in maniera conforme al metodo prescritto all’art. 111, comma 4, Cost. Si ripristina così la regola generale a suo tempo accolta nel testo originario del codice: salve tassative eccezioni, l’impiego dei verbali risulta circoscritto al vaglio sulla ‘‘credibilità del teste’’ (art. 500, comma 2, c.p.p.) (58). 7. L’area del diritto al silenzio nel nuovo assetto costituzionale. — Il tema circa il perimetro da assegnare al diritto al silenzio assume sfumature diverse nel mutato panorama costituzionale. L’attuazione piena del contraddittorio per la formazione della prova mal si concilia con dibattimenti mortificati nel proprio ruolo, ridotti a lussuosa scenografia per un defilé di coimputati muti. Di qui la convinzione che l’enunciato ex art. 111, comma 4, Cost., implichi, quale corollario, la necessità di restringere i confini del nemo tenetur se detegere come disegnati dal codice di rito (59). Sul piano strettamente logico, l’antitesi contraddittorio-diritto al silenzio continua a non persuadere. Che il metodo dialettico di accertamento risulti solo in via indiretta pregiudicato dalla scelta di tacere nell’ambito di un sistema in cui al mancato svolgersi dell’esame dibattimentale si accompagni il recupero delle dichiarazioni pregresse, si è detto. Qualora, viceversa, il silenzio del coimputato inneschi quale unica conseguenza la mancata assunzione della prova non si configura alcun dissidio con l’epistemologia del contraddittorio. La regola che esclude dal panorama del giudice gli elementi raccolti al di fuori dell’esame, lungi dall’essere violata, trova in tal caso un puntuale accoglimento. (57) La più importante novità che fa mostra di sé all’art. 513 c.p.p. è costituita dal recupero delle dichiarazioni raccolte nelle precedenti fasi, ove si ritenga l’esistenza di violenze, minacce o lusinghe varie tese ad impedire lo svolgimento dell’esame ovvero a comprometterne il risultato. Al riguardo si ripropongono immutate le delicate questioni in punto di accertamento delle condotte inquinanti che spinsero il legislatore del 1997 ad escludere l’ipotesi de qua tra le cause legittimanti la lettura: sul punto, cfr., se del caso, A. SANNA, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nei procedimenti connessi, Milano, 2000, p. 202. (58) L’opzione sfocia, tuttavia, in una formula ‘‘di per sé monca’’ che richiede l’opera integratrice dell’interprete: cfr. sul punto i rilievi critici di M. NOBILI, Giusto processo e indagini difensive: verso una nuova procedura penale?, in Dir. pen. proc., 2001, p. 11. La norma, benché realizzi ‘‘a livello più elevato il contraddittorio per la prova’’ (P. FERRUA, Giusto processo: i primi dubbi. Da Firenze una discutibile questione di costituzionalità, in Dir. giust., 2001, n. 16, p. 8), è già stata investita da una questione di incostituzionalità: cfr. Trib. Firenze, ordinanza 6 aprile 2001, ivi, p. 66. (59) Cfr., in particolare, P. FERRUA, Il contraddittorio è salvo, cit., p. 9.
— 482 — In realtà, il perimetro assegnato al diritto al silenzio si presta ad intaccare non già il metodo del contraddittorio ma, semmai, la funzionalità di un processo che quel metodo prediliga (60). Se così è, la posta in gioco non è rappresentata dal rispetto dell’enunciato ex art. 111, comma 4, Cost., bensì dall’esigenza di non disperdere il sapere investigativo. Non a caso l’oggetto di cura è la facoltà di tacere al dibattimento dei coimputati che abbiano offerto il loro contributo nelle fasi anteriori. Detto altrimenti, l’area del nemo tenetur se detegere, estesa fino a comprendere il coimputato chiamato a deporre sul fatto altrui, non compromette il valore euristico dell’esame dibattimentale, ma le chances di successo dell’ipotesi accusatoria. D’altro canto, neppure il contraddittorio inteso in senso soggettivo, quale diritto dell’imputato a confrontarsi con l’accusatore risulta pregiudicato dalla scelta di tacere (61). Quale danno potrà lamentare la difesa ove il chiamante in reità nulla dichiari al dibattimento così dissolvendo gli elementi che il p.m. intendeva porre a supporto della ricostruzione dei fatti? A ben vedere, l’antitesi diritto al silenzio-contraddittorio conserva validità solo laddove si intenda il secondo termine nel significato di esercizio retorico-argomentativo sugli atti raccolti in fase di indagine; ma si tratta di un significato che non trova più asilo nel nostro sistema, ormai superato dal disposto dell’art. 111, comma 4, Cost. A tal punto, le proposte dirette a circoscrivere l’area del diritto al silenzio si muovevano sul piano delle scelta di opportunità politica ma non erano cogenti sul piano costituzionale (62). Del resto, si è detto come il modello elaborato dalla l. n. 267 del 1997, nel contemperare il metodo del contraddittorio con le esigenze di non dispersione del materiale investigativo, realizzasse un equilibrio che appariva compatibile con i principi costituzionali del giusto processo. È, tuttavia, prevalso il timore che la funzionalità del modello processuale improntato al metodo dialettico potesse essere compromessa dal depauperamento del bagaglio accusatorio causato dall’esercizio diffuso della facoltà di tacere ex art. 210 c.p.p. Bollato come incostituzionale il rimedio del recupero probatorio attraverso i meccanismi delle letture e/o delle contestazioni con conseguente allegazione al fascicolo, la scelta a favore di un diritto al silenzio ad ampio spettro può — l’esperienza insegna — (60) In tal senso il diritto al silenzio riconosciuto all’art. 210 c.p.p., testo abrogato, poteva dirsi sul piano sistematico incoerente rispetto ad ‘‘un modello processuale fondato sul principio del contraddittorio nella formazione della prova’’: cfr. V. GREVI, Spunti problematici, cit., p. 444. (61) Per una diversa opinione: C. CONTI, Le prospettive di riforma del sistema probatorio, in Dir. pen. proc., 2000, p. 1027 e P. TONINI, ‘‘Giusto processo’’: modifiche costituzionali e regime transitorio, in St. iuris, 2000, p. 638. (62) Cfr., per la medesima conclusione, M. DANIELE, Primi contrasti sull’applicazione dell’art. 111 Cost. e sul principio del contraddittorio, in Cass. pen., 2000, p. 2452.
— 483 — ‘‘agire da fattore di crisi’’ (63). Occorreva, quindi, salvaguardare la tenuta del sistema mediante nuovi congegni rispettosi del dettato costituzionale ma, al contempo capaci di ridurre l’alea incombente sul sapere investigativo. Davanti al legislatore si aprivano molte strade, accomunate dal presupposto teorico per cui il nemo tenetur se detegere non ha ragione di esistere oltre il limite del fatto proprio. D’altro canto, nelle ipotesi di nessi qualificati tra procedimenti, il coimputato chiamato a deporre sull’altrui responsabilità corre costantemente il rischio di rilasciare dichiarazioni autoincriminanti. Di fronte ad una simile situazione il legislatore del 1988, aveva disegnanto una facoltà di tacere ad ampio raggio estesa a tutte le categorie di soggetti ex art. 210 c.p.p. In tal modo si scaricava per intero sul sistema il rischio di attentati al divieto di testimoniare contra se, accettando che il silenzio del dichiarante paralizzasse la formazione dibattimentale della prova. Né il meccanismo delle letture, rigorosamente sorvegliato, consentiva in tale ipotesi il recupero dei contributi resi dal coimputato aliunde nelle fasi anteriori. Si voleva che simili conoscenze fossero temprate nel contraddittorio tra le parti e si coniava allo scopo un mezzo probatorio ad hoc: l’art. 210 c.p.p., il cui perimetro ricalca le linee dell’art. 12 c.p.p., nasceva per acquisire le dichiarazioni del coimputato aliunde, non convogliabili nell’esame testimoniale. Gli effetti della connessione sull’incompatibilità sono, infatti, svincolati dall’andamento cumulativo ovvero separato delle regiudicande. Neppure pareva lecito subordinare all’instaurarsi del cumulo processuale le garanzie riconosciute all’imputato chiamato a deporre sul fatto altrui. L’esame ex art. art. 210 c.p.p., possiede, quindi, una natura surrogatoria rispetto all’omologo dell’imputato nel processo cumulativo, mutuandone per quanto possibile la fisionomia. Non vi era, peraltro, un nesso sinallagmativo tra la connessione e lo speciale strumento probatorio, la cui area si allargava agli imputati nei procedimenti collegati ex art. 371, comma 2, lett. b), c.p.p. Disgregatasi la costruzione — senza dubbio sbilanciata a favore del nemo tenetur se detegere — sotto l’urto di contrapposte esigenze, si è chiesto al legislatore di ripartire in maniera diversa il rischio di dichiarazioni autoindizianti, addossandolo almeno in parte sulle spalle del coimputato. In vista di un simile scopo un intervento sostanzialmente conservativo delle scelte originarie del codice avrebbe potuto muovere da un’accorta riduzione dei nessi tra regiudicande destinati a rifluire nell’area dell’incompatibilità a testimoniare. Laddove i vincoli in questione coincidessero con le ipotesi di collega(63)
O. DOMINIONI, op. cit., p. 766.
— 484 — mento ex art. 371 c.p.p., si poteva direttamente operare sull’art. 197, comma 1, lett. b), c.p.p., sfrondandolo dalle figure in cui la posizione dell’imputato risultasse marginale rispetto ai fatti oggetto di accertamento. Qualora, invece, il divieto a testimoniare originasse dal vincolo connettivo, la riduzione dell’area dell’art. 197 c.p.p. doveva procedere parallela a quella dell’art. 12 c.p.p., pena un difforme trattamento dell’imputato aliunde rispetto a chi figurasse tale nel processo cumulativo (64). Ad ogni modo, le ipotesi di connessione, ben potevano tollerare la cesura sia del vincolo occasionale, sia del nesso strumentale ad altrui vantaggi ex art. 12, comma 1, lett. b), ultima parte, c.p.p., fino a rientrare nei confini tracciati dal testo originario del codice (65). L’agevole praticabilità di simili soluzioni non è evidentemente valsa a renderle appetibili agli occhi del legislatore. Non solo la l. n. 63 del 2001, attuativa del giusto processo, mostra di ignorarle entrambe, ma le disposizioni in gioco subiscono rimaneggiamenti che finiscono per ampliare il novero delle situazioni capaci di radicare l’incompatibilità a testimoniare e, quindi, il diritto al silenzio (66). Si guardi alle modifiche apportate all’art. 371 c.p.p. e, in particolare, al parziale travaso dalla lett. a) alla lett. b) della disposizione. Ciò comporta uno speculare allargamento del divieto probatorio ex art. 197, comma 1, lett. b), c.p.p., il quale — costruito per relationem attraverso il richiamo all’art. 371, comma 2, lett. b), c.p.p. — è oggi comprensivo dell’ipotesi di ‘‘reati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre’’. Allo stesso modo, la scomparsa del nesso occasionale e teleologico dall’alveo dell’art. 12, comma 1, lett. c), c.p.p., non si traduce in una corrispondente contrazione dell’incompatibilità a testimoniare poiché l’ipotesi è recuperata in toto nell’ambito del collegatamento tra indagini (art. 371, comma 2, lett. b), c.p.p.) per poi confluire — in virtù del menzionato rinvio — nel corpo dell’art. 197, comma 1, lett. b), c.p.p. La strada imboccata dal legislatore si snoda lungo un’altra direttiva, ovvero la limitazione temporale imposta alle garanzie riconosciute all’imputato — aliunde o nel medesimo procedimento — chiamato a deporre sul fatto altrui. In altre parole, ferma la titolarità del diritto al silenzio in capo ad un numero assai esteso di soggetti, un simile privilegio non si configura più come immutabile per tutto il corso del procedimento ma è destinato a cadere al verificarsi di eventi dotati di un’efficacia estintiva. Uno di questi è rappresentato dalla definitiva espulsione dell’impu(64) A meno di non proseguire nel percorso — per molti versi ambiguo (cfr. supra, § 4) — intrapreso dalla sentenza n. 361 del 1998, dove lo spazio dell’art. 210 c.p.p. si allarga agli imputati nella medesima vicenda processuale chiamati a deporre sul fatto altrui. (65) Si ricorderà come l’ambito del vincolo connexitatis causae fosse stato notevolmente ampliato dalla l. 20 gennaio 1992, n. 8. (66) Lo sottolinea M. NOBILI, Giusto processo e indagini difensive, cit., p. 8.
— 485 — tato dal circuito processuale. Invero, la tutela forte del nemo tenetur se detegere, spinta fino a coprire l’esame del correo sul fatto altrui, si giustifica solo nell’ambito di un accertamento ancora in fieri, laddove è attuale il rischio di deporre contra se. Viceversa si fatica a comprendere allorché la parabola del processo abbia ormai toccato l’epilogo del giudicato. In tal caso emerge sì l’esigenza di salvaguardare la posizione della persona esaminata rispetto a nuove e diverse responsabilità, ma a tal fine rispondono adeguatamente le ordinarie garanzie riconosciute al testimone ex art. 198, comma 2, c.p.p. In effetti, sulla scelta a suo tempo compiuta dal legislatore del 1988 pesò, non già l’istanza di tutela del nemo tenetur se detegere, ma quella di disinnescare il pericolo di dichiarazioni ad arte orientate ai fini di una revisione del processo (67). Se così è, il rischio illo tempore paventato risulta altrimenti fronteggiabile con i severi filtri a cui l’art. 630 c.p.p. sottopone la domanda della parte, mentre si dissolve, addirittura, rispetto al provvedimento ex art. 444 c.p.p., non aggredibile — stando all’ultima giurisprudenza (68) — attraverso la revisione. Merita, dunque, consensi l’intervento del legislatore volto ad escludere dall’alveo dell’art. 197 c.p.p. e, specularmente, dall’ambito dell’esame ex art. 210 c.p.p., le persone destinatarie di una sentenza irrevocabile di condanna e di applicazione della pena concordata. Ben altre considerazioni induce l’ulteriore evento estintivo del diritto al silenzio: l’aver liberamente reso nel corso dell’interrogatorio contributi ‘‘su fatti che concernono la responsabilità di altri’’. In tal caso l’imputato, nel medesimo o in diverso procedimento non importa, purché si versi nelle ipotesi di connessione ex art. 12, comma 1, lett c), c.p.p., ovvero di collegamento ex art. 371, comma 2, lett. b), c.p.p., assumerà ‘‘in ordine a tali fatti’’, l’ufficio di testimone (art. 64, comma 3, lett. c), c.p.p.). Anche lo spazio dibattimentale si presta ad accogliere un simile evento qualora i medesimi soggetti vengano chiamati a deporre nel separato procedimento ex art. 210 c.p.p. e ‘‘non si avvalgano della facoltà di non rispondere’’. Si noti per inciso come la condizione estintiva dello ius tacendi parrebbere in tal caso consistere nell’aver reso dichiarazioni, quale che sia il loro thema probandum (69). La mancata menzione circa il limite del fatto altrui, tuttavia, si spiega considerando come un simile requisito sia implicito (67) Sulle motivazioni storiche del divieto cfr. M. BARGIS, L’esame di persona imputata in un procedimento connesso nel nuovo codice di procedura penale, in Giur. it., 1990, IV, p. 35. (68) Cfr. Cass., Sez. un., 8 luglio 1998, Giangrasso, in Dir. pen. proc., 1998, p. 1078. Si tratta, peraltro, di un indirizzo non esente da critiche: v. M. BUSETTO, Davvero incompatibili ‘‘patteggiamento’’ e revisione?, in Gazz. giur., 1998, n. 44, p. 5. (69) Cfr., in tal senso, V. SANTORO, Il cambio da coimputato a teste esalta il confronto, in Guida dir., 2001, n. 13, p. 47.
— 486 — nella natura dell’esame ex art. 210 c.p.p., di per sé deputato a raccogliere i contributi dell’imputato aliunde sui fatti oggetto del processo ad quem. Ad ogni modo, qui il mancato esercizio dello ius tacendi innesca una vera e propria metamorfosi dell’esame in testimonianza, dove la persona aliunde imputata sarà pure assistita dalle garanzie ex art. 197-bis c.p.p., ma è comunque chiamata ad assumere l’impegno di deporre secondo verità (art. 497, comma 2, c.p.p., come richiamato dall’art. 210, comma 6, c.p.p.). Ci si chiede se una simile disciplina trovi spazio anche nel corso dell’esame ex art. 208 c.p.p, qualora le ipotesi di connessione previste all’art. 12, comma 1, lett. c), c.p.p. e di collegamento sub art. 371, comma 2, lett. b), c.p.p., sfocino nel cumulo processuale e l’imputato renda al dibattimento dichiarazioni sull’altrui responsabilità. Il dubbio nasce perché l’art. 208 c.p.p. tace al riguardo, non richiamando né l’art. 64, comma 3, lett. c), c.p.p., né il meccanismo di metamorfosi accolto dall’omologa disciplina ex art. 210 c.p.p. Né si tratta di questione agilmente risolvibile attraverso una lettura per via analogica: lo schema dell’interrogatorio, come integrato dalla l. n. 63 del 2001, mal si adatta all’esame, mezzo di prova ontologicamente contrapposto all’ atto di indagine ex artt. 64 e 65 c.p.p. (70). Non a caso l’art. 64, comma 3, lett. c), c.p.p., è expressis verbis richiamato dall’art. 210, comma 6, c.p.p. Meglio sarebbe appigliarsi a quest’ultima norma, intendendola come regola generale di riferimento per tutti i casi in cui il correo si determini solo in giudizio a deporre sul fatto altrui, così abdicando al diritto al silenzio. Inutile però nascondersi come il trapianto della disciplina nell’ambito dell’art. 208 c.p.p., amplifichi la stonatura rappresentata dall’obbligo solennemente assunto dell’imputato di deporre secondo verità. Simili vicende, estintive della facoltà di tacere, non toccano invece le persone imputate in procedimenti connessi ex art. 12, comma 1, lett. a), c.p.p., nel testo sfrondato dalla legge attuativa del giusto processo. Nei confronti di costoro l’incompatibilità a testimoniare resta intangibile, sicché il loro contributo sarà convogliato nelle forme dell’art. 210 c.p.p., nel caso di itinera separati, ed in quelle ex art. 208 c.p.p., qualora si sia proceduto al cumulo delle regiudicande. Il quadro tracciato mostra come il legislatore abbia accolto i suggerimenti della dottrina, configurando una sorta di rinuncia al diritto al silenzio da parte del correo che interloquisca in ordine al fatto altrui. In tal modo la persona esaminata perde la tutela forte del nemo tenetur se dete(70) Propende, invece, per l’applicazione dell’art. 64 c.p.p. nel corso dell’esame dell’imputato nel medesimo processo: P. FERRUA, La dialettica Camera-Senato migliora il ‘‘giusto processo’’. Ma ormai il sistema è frammentato e il codice è illegibile, in Dir. giust., 2001, n. 1, p. 81.
— 487 — gere — propria dello status di imputato — per accedere alle più modeste garanzie predisposte dall’art. 197-bis c.p.p. Si sposa, in altri termini, la costruzione teorica che nega la necessità dello ius tacendi rispetto ai temi oggetto di deposizioni pregresse, sul presupposto per cui il nemo tenetur se detegere si attenua davanti al contegno collaborativo dell’imputato. Non sembra, tuttavia, possa parlarsi al riguardo di un atto dispositivo in senso proprio: così come configurata all’art. 64, comma 3, lett. c), c.p.p., la perdita dalla facoltà di tacere non implica affatto in capo al coimputato la consapevolezza — e, quindi, la volontà — di rinunciare ad un proprio diritto. L’approdo allo status di testimone c.d. garantito rappresenta l’effetto di un atto concludente (71), manifestatosi nell’aver reso dichiarazioni che investano, sia pure in via indiretta, il tema del fatto altrui. Si pensi all’imputato che, nel corso delle indagini circa un episodio di ricettazione di merce proveniente da una rapina, abbia ammesso le proprie responsabilità senza, tuttavia, fare i nomi dei presunti rapinatori, e sia perciò citato quale testimone nel corso del processo a carico di costoro (art. 371, comma 2, lett. b), c.p.p.). Non varrebbe obiettare come la confessione raccolta dagli organi investigativi, non includa in tal caso una chiamata di correo. Quel che conta non è la volontà di coinvolgere terze persone ma il dato oggettivo di un thema probandum allargato a circostanze anche indirettamente rilevanti per l’accertamento di altrui responsabilità (72): si pensi, nell’esempio proposto, al tipo di accordi intercorsi tra rapinatori e ricettatore, alle modalità di consegna della merce o del corrispettivo concordato. In tal caso è la fisionomia del reato che, postulando l’esistenza di un illecito pregresso, finisce inevitabilmente per far slittare il tema delle dichiarazioni sul fatto del correo. Ma le medesime conseguenze si registrano qualora la narrazione, pur non coinvolgendo in via diretta terze persone, illumini circa una circostanza del fatto storico che risulti rilevante ai fini dell’accertamento di altrui responsabilità. Così l’enunciato avente ad oggetto lo svolgersi di una riunione in un dato contesto di tempo e luogo, benché muto circa i nomi dei partecipanti, potrebbe contribuire ad avvalorare l’ipotesi che il mandato a compiere una serie di reati, consumatisi nei giorni immediatamente successivi, provenga dai presunti capi di un’associazione criminale. Bisogna a tal punto misurare quali siano gli effetti di una simile — e talora involontaria — perdita del diritto al silenzio. La testimonianza del(71) Cfr., in tal senso, M. NOBILI, Giusto processo e indagini difensive, cit., p. 10. (72) Perfino quando la rilevanza erga alios delle dichiarazioni ‘‘si manifestasse in un momento successivo, si attiverebbe ugualmente l’obbligo di deporre’’: P. FERRUA, La dialettica Camera-Senato migliora il ‘‘giusto processo’’, cit., p. 81.
— 488 — l’imputato — aliunde o nel medesimo procedimento — come disciplinata dalla l. n. 63 del 2001, implica senz’altro una parziale rinuncia alla garanzia contro l’autoincriminazione. Il rischio di deporre contra se è, infatti, insito nella difficoltà di discernere tra fatto proprio e fatto altrui in ciascuna delle ipotesi di legami tra regiudicande confluenti nell’art. 197-bis c.p.p. Si pensi al caso in cui le dichiarazioni rilasciate nelle fasi anteriori al giudizio riguardino, oltre all’altrui, la propria responsabilità (ad esempio, perché rese nell’ambito di una confessione). Ma anche al di fuori di una simile eventualità, supponendo un netto discrimine tra i diversi temi trattati nel corso dell’interrogatorio, il confine ivi tracciato non è intangibile, potendo l’esame dibattimentale travalicarlo investendo il fatto del dichiarante (73). Di fronte a domande mirate ad accertare il fatto dei correi, l’imputato potrebbe essere inconsapevolmente indotto a rivelare nuove circostanze — illuminanti, ad esempio, circa il proprio apporto al reato oggetto di accertamento — che amplino il quadro delle proprie responsabilità (74). L’obbligo di deporre nei limiti delle dichiarazioni già rese in ordine al fatto altrui non pone al riparo dal rischio che il tema della prova dibattimentale si estenda a ricomprendere il fatto proprio. Le domande poste dalle parti nel corso dell’esame potrebbero facilmente scivolare da l’un tema all’altro, per la difficoltà pratica di tracciare in maniera nitida i rispettivi confini. Qui il tentativo di assoggettare a vincoli di tipo ‘‘contrattuale’’ l’esercizio del diritto al silenzio — circoscrivendolo ai temi non esplorati nel corso dell’interrogatorio — si risolve in un’effettiva amputazione dell’ambito del nemo tenetur se detegere. In tal modo la difesa del coimputato — aliunde o nella medesima vicenda processuale — chiamato a deporre in veste di testimone nel corso del dibattimento, diviene altamente aleatoria. Ne è consapevole il legislatore che appronta allo scopo una serie di garanzie, alternative al diritto al silenzio e destinate ad integrare l’ordinaria disciplina della testimonianza. L’attenzione si sposta, quindi, sulle inedite forme di assunzione del contributo del correo sul fatto altrui. 8. La testimonianza dell’imputato. — L’art. 197-bis c.p.p., è destinato a convogliare i contributi di natura testimoniale resi delle persone (73) Il punto è che ‘‘i fatti su cui si rendono dichiarazioni sono qualcosa di più ampio dei fatti propriamente dichiarati. Gli uni aprono un tema, gli altri sono definiti dalle singole risposte fornite su quel tema’’: P. FERRUA, L’indagine entra in dibattimento solo attraverso il contraddittorio. Il codice di procedura penale ritrova lo spirito accusatorio, in Dir. giust., 2001, n. 7, p. 81. (74) Qui si coglie l’inadeguatezza del criterio di ammissibilità della testimonianza del correo, fondato sull’oggetto delle precedenti dichiarazioni: cfr., sul punto, V. GREVI, Il diritto al silenzio, cit., p. 1140.
— 489 — che, illo tempore imputate in un procedimento connesso ex art. 12 c.p.p. ovvero collegato ex art. 371, comma 2, lett. b), c.p.p., abbiano concluso in via definitiva la vicenda a loro carico. Altra categoria interessata, è quella dei soggetti che, pur titolari delle qualifica di imputato — o persona sottoposta ad indagini — nei procedimenti connessi ex art. 12, comma 1, lett. c), c.p.p. ovvero collegati ex art. 371, comma 2, lett. b), c.p.p., non usufruiscono più dell’incompatibilità a testimoniare legata ad un simile status, avendo reso nel corso di un interrogatorio dichiarazioni in ordine al fatto altrui (art. 64, comma 3, lett. c), c.p.p.). Le persone in discorso, pur assumendo l’ufficio di testimone, sono assisite da un difensore (art. 197-bis, comma 3, c.p.p.) e di fronte a domande tese ad ottenere dichiarazioni per sé pregiudizievoli potranno rifiutarsi di deporre, opponendo la garanzia ex art. 197-bis, comma 4, c.p.p. (75). In particolare, nel corso dell’esame dell’imputato in vicende conesse o collegate oramai definitivamente concluse, si esime il destinatario di una sentenza di condanna — ma non di applicazione della pena su richiesta delle parti — dall’obbligo di deporre sui fatti coperti dal giudicato, qualora illo tempore egli avesse ‘‘negato la propria responsabilità’’ ovvero si fosse rifiutato di rendere dichiarazioni. A ben guardare, una simile garanzia — tesa evidentemente a salvaguardare il buon esito di un’eventuale revisione (76) — possiede un ambito più ristretto rispetto a quella omologa dettata all’art. 198 c.p.p. Circoscritta ai fatti accertati in virtù di una sentenza di condanna, non si estende all’ipotesi in cui le dichiarazioni finiscano per rivelare responsabilità nuove rispetto a quelle coperte dal giudicato. Analoghe osservazioni valgono nei confronti delle persone che rivestano la qualifica di imputato nell’iter cumulativo o separato tuttora in corso, la cui tutela copre i soli fatti per cui si procede o si è proceduto (art. 197-bis, comma 4, c.p.p.) (77), laddove l’ultimo inciso parrebbe riguardare le ipotesi in cui non sia ancora intervenuta una sentenza irrevocabile. (75) Secondo alcuni il diritto al silenzio sul fatto altrui sarebbe una garanzia sovrabbondante: sin dalla fase delle indagini il coimputato, nel processo cumulativo ovvero aliunde, potrebbe rendere dichiarazioni che vertano sulla responsabilità del correo con il solo schermo degli artt. 198, comma 2 e 63, comma 1, c.p.p. (cfr. E. MARZADURI, op. cit., p. 1513). (76) Si fa notare come la norma lasci ‘‘del tutto disarmato il teste che provenga da un processo comunque chiuso con una sentenza di proscioglimento’’, il quale ‘‘potrà trovarsi nella spiacevole alternativa di smentire quanto detto, o non detto, nel suo processo... oppure di commettere una falsa testimonianza’’: V. SANTORO, op. cit., p. 46. (77) Sul punto si registra una significativa modifica rispetto al testo (C 463-B) licenziato in seconda battuta dalla Camera il 6 novembre 2000, dove il fronte della tutela dell’imputato si presentava del tutto sguarnito non ovviandovi neppure una norma ad hoc. Il pesante contrappunto che ne derivava sul piano delle garanzie suonava come un paradosso poi-
— 490 — Per colmare la lacuna apertasi sul piano delle garanzie, potrebbe invocarsi l’applicabilità in via analogica dell’art. 198, comma 2, c.p.p., benché la presenza di una disciplina connotata da elementi di specialità, quale l’art. 197-bis c.p.p., costituisca un ostacolo non trascurabile in tal senso (78). La strada si potrebbe spianare classificando le modalità di assunzione ex art. 197-bis c.p.p. come integrative — non già sostitutive — delle corrispondenti dettate per l’ordinaria testimonianza (79), rispetto alla quale esse prescriverebbero un surplus di garanzie. In tal caso, l’art. 198, comma 2, c.p.p. troverebbe asilo nell’ambito dell’esame testimoniale del coimputato, fornendo uno schermo verso domande mirate a porre in luce profili di responsabilità estranei ai fatti per cui si procede. Il divieto generale ex art. 198, comma 2, c.p.p. e quello speciale ex art. 197-bis, comma 4, c.p.p., integrandosi a vicenda, impediscono all’autorità procedente di sollecitare dichiarazioni incriminanti, ma se ciò si verificasse, il coimputato non sarebbe disarmato, potendo pur sempre rifiutarsi di deporre. Il punto dolente, capace di minare l’efficacia della soluzione, sta, ancora una volta, nella prova a tema multiplo, comprensiva pure del fatto proprio. Ci si domanda se la garanzia contro l’autoincriminazione legittimi il silenzio di fronte a quesiti tesi a sollecitare simili contributi. Per chi opti per una risposta negativa, è realistico prevedere che un numero elevato di casi l’esame sfumerà nel nulla: specie nelle ipotesi ex art. 197-bis, comma 2, c.p.p., dove la persona esaminata accentra in sé le qualifiche di imputato e testimone, accadrà spesso che il quesito formulato appaia ex ante capace di sortire in dichiarazioni autoincriminanti. Qui il congegno garantista fornito dagli artt. ex artt. 197-bis, comma 4 e 198, comma 2, c.p.p., si dimostra inadeguato: modellato sulla disciplina dell’esame testimoniale, si attaglia a situazioni eccezionali ma vale poco nei contesti in cui il rischio di autoincriminazione è in re ipsa perché insito nella natura della fonte di prova (80). L’innesto di simili disposizioni nell’ambito dell’art. 197-bis c.p.p. offrirà una copertura accettabile ché le maggiori carenze sul piano della difesa del dichiarante si manifestavano laddove sarebbero state più necessarie, causa un accertamento ancora in fieri. (78) Sotto questo profilo non può dirsi raggiunta ‘‘l’indispensabile schietezza sul perdurare dell’esonero ex art. 198, comma 2, c.p.p.’’: M. NOBILI, Giusto processo e indagini difensive, cit., p. 9. (79) Sembra deporre in tal senso il silenzio serbato circa la disciplina caratterizzante l’esame testimoniale, come se il legislatore considerasse ‘‘assodato che anche al teste ex art. 197-bis, c.p.p., si applichino le ‘altre’ disposizioni sulla testimonianza, dal giuramento all’inclusione nelle liste testimoniali’’: D. CARCANO e D. MANZIONE, Il giusto processo. Commento alla l. 1o marzo 2001, n. 63 (attuazione della legge di riforma dell’art. 111 Cost.), in Dir. giust., suppl. al n. 15 del 2001, p. 24. (80) È di fronte all’ipotesi tipica di esame del coimputato, quando il tema probandum si svolge costantemente in bilico tra fatto proprio e fatto altrui, che il legislatore fu in-
— 491 — solo nell’ipotesi, macroscopica e piuttosto astratta, in cui si formulino domande deliberatamente tese ad estorcere una confessione. Laddove, invece, l’input di chi conduce l’esame miri a dichiarazioni inscindibili, la legittimità del silenzio opposto dall’esaminato non sarà affatto pacifica. Del resto qui si verte sui ‘‘fatti che concernono la responsabilità di altri’’ rispetto ai quali vige l’obbligo di testimoniare illo tempore assunto dall’imputato (art. 64, comma 3, lett. c), c.p.p.). Il vero è che, una volta ammessa la testimonianza del coimputato, il divieto posto all’autorità procedente di formulare domande estese anche al fatto del dichiarante e lo speculare diritto della parte di tacere, innesca un vero e proprio contrasto logico. Intendendo in modo rigoroso la garanzia contro l’autoincriminazione si finirebbe per riprodurre lo status quo ante, con i conseguenti effetti paralizzanti sulle acquisizioni dibattimentali. Ne deriva che i contributi a tema multiplo cadono al di fuori del privilege against self incrimination, in virtù della ‘‘rinuncia’’ consumatasi ex art. 64, comma 3, lett. c), c.p.p. In un simile contesto la più efficace forma di tutela della posizione del dichiarante si dimostra il meccanismo ex art. 197-bis, comma 5, c.p.p., destinato a scattare solo a posteriori, inibendo ‘‘in ogni caso’’ l’impiego delle dichiarazioni raccolte nel procedimento a carico della persona esaminata, nonché in quello di revisione della sentenza di condanna ed ‘‘in qualsiasi giudizio civile o amministrativo relativo al fatto oggetto dei procedimenti e delle sentenze suddette’’. Quanto all’ambito della disciplina, non sembra che il confine segnato dalla formula ‘‘procedimento a suo carico’’ — evidentemente dettato per l’ipotesi di estinzione del diritto al silenzio ex art. 64, comma 3, lett. c), c.p.p. — si spinga oltre la vicenda in cui il dichiarante figuri imputato. Vi osta il dato testuale: dove l’inciso dovesse intendersi come comprensivo di qualsiasi iter — in corso o futuribile — nei confronti della persona esaminata, il successivo richiamo al giudizio di revisione suonerebbe superfluo (81). Senza contare che un divieto di così vaste dimensioni ritagliarebbe una sorta di zona franca al cui interno la persona esaminata potrebbe rilasciare qualsiasi dichiarazione confessoria — anche riguardante fatti né connessi, né collegati a quello per cui si procede — senza il timore di incorrere in alcuna responsabilità. D’altra parte, la clausola ‘‘in ogni caso’’ sembra sganciare la discidotto ad abbandonare lo schema della testimonianza per disegnare all’art. 210 c.p.p. un mezzo probatorio ad hoc. (81) Né si dica che tale precisazione riguardi le sole persone definitivamente condannate. Ove la formula ‘‘nel procedimento a suo carico’’ ex art. 197-bis, comma 5, c.p.p., delineasse un’inutilizzabilità senza confini, non vi sarebbe motivo per ammetterla a favore dei soggetti che ancora rivestono la qualità di imputato per escluderla, invece, a favore di quanti abbiano dismesso simile qualità.
— 492 — plina ex art. 197-bis, comma 5, c.p.p., dalla violazione delle garanzie previste dal comma precedente. Se così è, l’inutilizzabilità ivi prevista non sanziona il mancato rispetto del prilege against self incrimination fondatamente opposto dall’imputato, ma possiede un ambito ben più ampio, colpendo qualsiasi contributo acquisito secondo le regole e, in particolare, quello reso liberamente dalla persona esaminata. Qui si coglie la distanza della disposizione in parola rispetto alla disciplina ex art. 63 c.p.p., dove si sanziona il mancato rispetto delle forme dettate per il dialogo con l’imputato (82), inibendo l’uso dei contributi offerti senza la piena consapevolezza dello status ricoperto nel corso dell’esame (83). Diversa è la situazione in cui il coimputato sia chiamato a deporre sul fatto altrui, dove egli, edotto della qualifica ormai rivestita, si determina scientemente a collaborare assistito da speciali garanzie. In tal caso, il divieto d’uso non segue alla violazione di una regola probatoria, posta a tutela del nemo tenetur se detegere, ma trova il suo fondamento in una logica premiale. L’inutilizzabilità della prova raccolta diventa il corrispettivo offerto all’imputato in cambio dell’apporto fornito all’accertamento. Si tratta di una ratio che stride con il principio di obbligatorietà dell’azione. L’inefficacia ex art. 191 c.p.p. opera a tutela di esigenze ‘‘politiche’’ ovvero epistemologiche di attendibilità della conoscenza (84) mentre risulta estraneo al sistema un divieto d’uso inteso alla stregua di moneta di scambio per la collaborazione prestata dall’imputato. L’art. 197-bis, comma 5, c.p.p. finisce così per rappresentare l’anello debole dalla catena perché smentisce il presupposto dell’intero istituto, ossia l’intangibilità del nemo tenetur se detegere rispetto alle deposizioni contra alios. L’inutilizzabilità ivi prevista denuncia l’esistenza in taluni casi di un obbligo di testimoniare in causa propria: da un lato si costringe l’imputato a deporre, dall’altro gli si accorda una sorta di immunità per le dichiarazioni eventualmente rese. Si tratta di un meccanismo non lontano da quello della statutory immunity accolta nel sistema statunitense, dove il sacrificio del privilege (82) La cui sfera di operatività copre in tal modo uno spazio addirittura precedente l’assunzione della qualifica di imputato. Sotto questo profilo l’art. 63, comma 1, c.p.p., può definirsi una norma regolatrice del quomodo della prova, cfr., più diffusamente, A. SANNA, op. cit., p. 99. (83) V. GREVI, Nemo tenetur se detegere. Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Milano, 1972, p. 137. (84) Si tratta più in generale delle esigenze sottostanti il diritto sulle prove, v. sul punto, E. AMODIO, Libertà e legalità della prova nella disciplina della testimonianza, in questa Rivista, 1973, p. 320. Il carattere politico delle regole probatorie si richiama ‘‘al compito del legislatore di fissare un equilibrio tra l’interesse processuale alla verifica del thema probandum e la tutela di ben precisati diritti, magari costituzionalmente tutelati’’: G. UBERTIS, Verso un ‘‘giusto processo’’ penale, Torino, 1997, p. 97.
— 493 — against self incrimination, imposto autoritativamente, è compensato dal divieto per il prosecutor di utilizzare a carico dell’imputato le dichiarazioni rese nell’ambito della compelled testimony (85). Benché nella versione nostrana, accolta dalla l. n. 63 del 2001, non si giunga a configurare una testimonianza coatta, non può dirsi neppure che la deposizione derivi da un atto negoziale, considerando l’irrilevanza normativa della volontà espressa dall’imputato. Ne emerge un istituto ambiguo, dove i tratti della coercizione a deporre si mescolano ad elementi premiali: l’inutilizzabilità contra se spinge il giudice ad un controllo meno vigile sul rispetto della garanzia contro l’autoincriminazione prevista dall’art. 197-bis, comma 4, c.p.p., mentre rende appetibile per l’imputato la scelta di non avvalersi della facoltà di tacere. Di un simile congegno non sono trascurabili le ricadute sul piano dell’attendibilità della conoscenza (86). Così circoscritta nella sua sfera oggettiva, l’inutilizzabilità ex art. 197-bis, comma 5, c.p.p., sconta il rischio, insito nell’assenza di qualsiasi pregiudizio per la posizione del dichiarante, di accuse imbastite ad arte contro terzi (87). Si ricordi come nel progetto preliminare al codice del 1988 comparisse il divieto d’uso contra se riguardo alle dichiarazioni rese dai coimputati aliunde nel corso dell’esame e come il seguito della vicenda vide quella proposta cadere perché ritenuta lesiva della genuinità della prova (88). Un simile pericolo diviene concreto in presenza delle previste (85) Sul piano federale l’istituto è disciplinato nell’Organized Crime Control Act 1970 (§ 6002. U.S. Code): cfr., in argomento, E. AMODIO, La testimonianza del coimputato nel sistema di common law, cit., p. 196; I. CALAMANDREI, La collaborazione processuale di imputati e testimoni nei sistemi di common law, in questa Rivista, 1986, p. 242; A. BERNASCONI, op. cit., p. 44. (86) Si elimina, infatti, alla radice ‘‘il profilo dell’assunzione di responsabilità verso sé stesso che solo consente di riconoscere una credibile assunzione di responsabilità anche nelle dichiarazioni sul fatto di terzi’’: D. PULITANÒ, op. cit., p. 1295. Non si può fare a meno di osservare come attraverso la riduzione dell’area del diritto al silenzio si puntasse, viceversa, ad accrescere la responsabilità in capo all’imputato-accusatore, cfr. P. TONINI, ‘‘Giusto processo’’, diritto al silenzio ed obbligo di verità: la possibile coesistenza, in Ind. pen., 2000, p. 35. (87) Qui si coglie un’ulteriore differenza rispetto alla disiplina ex art. 63 c.p.p. che, al comma 2, prevede un’inutilizzabilità a tutto campo, così consentendo un’anticipazione della tutela riconosciuta ai coimputati dall’art. 197 c.p.p. (cfr. Sez. un., 9 novembre 1996, Carpanelli, in Dir. pen. proc., 1997, p. 603) e neutralizzando il rischio di ‘‘dichiarazioni compiacenti o negoziate a carico di terzi’’ (così: Cass., Sez. VI, 11 aprile 1994, Curatola, in Giur. it., 1996, II, p. 176). La testimonianza dell’imputato sul fatto altrui cade al di fuori dall’ambito precettivo dell’art. 63, comma 2, c.p.p. e, in mancanza di una norma ad hoc, le dichiarazioni comunque raccolte — anche in dispregio dei diritti del dichiarante — sono utilizzabili nei confronti del correo chiamato in causa. (88) Si temeva di offrire al dichiarante una sorta di ‘‘preassicurazione di impunità’’ foriera di atteggiamenti persecutori nei confronti di altri soggetti (v. L. D’AMBROSIO, sub art. 210, in Comment. al codice di procedura penale, cit. vol. II, cit., 1990, p. 513) nonché di spazi
— 494 — sanzioni contro i contributi mendaci del coimputato — sotto questo profilo in tutto equiparabile al testimone — con la spinta che ne deriva a ribadire quanto già dichiarato nella fase di indagine. Nell’improvvido silenzio della legge, resta da interrogarsi sulla residuale applicabilità dell’art. 63 c.p.p., per reati nuovi e diversi rispetto a quelli già oggetto del procedimento a carico del dichiarante. Non è affatto peregrina l’ipotesi in cui l’imputato in una vicenda connessa ex art. 12, comma 1, lett. c), c.p.p. o collegata ex art. 371, comma 2, lett. b), c.p.p., sentito in veste di testimone, finisca per rilasciare dichiarazioni autoincriminati in ordine al reato oggetto di accertamento: qui l’operatività dell’art. 197-bis, comma 5, c.p.p. — dalla portata circoscritta all’iter nel cui ambito la persona esaminata rivesta la qualifica di imputato — va esclusa. L’applicabilità dell’art. 63 c.p.p., nello spazio lasciato scoperto dalla disciplina ex art. 197-bis c.p.p. è, invece, sostenibile, poiché le due disposizioni, ispirandosi a ratio in parte diverse, non si pongono in termini di esclusione reciproca. Dove la prima interviene a sanzionare comportamenti contra legem, la seconda mira a neutralizzare gli effetti pregiudizievoli dell’obbligo di deporre imposto ex lege. Perciò, laddove cessa lo schermo di tutela riconosciuto dall’art. 197-bis, comma 5, c.p.p, torna ad espandersi quello offerto dall’art. 63 c.p.p. Così, nell’ipotesi considerata, in cui la deposizione dell’imputato sul fatto altrui scivoli verso la testimonianza in re sua, come tale inammissibile ex art. 197, comma 1, lett. a), c.p.p., l’autorità procedente dovrà interrompere l’esame testimoniale e rendere edotto il dichiarante delle nuove e ulteriori responsabilità prospettabili a suo carico. Segue l’inutilizzabilità dei contributi resi, contra se oppure estesa ad altrui posizioni qualora il soggetto dovesse essere sentito sin dall’inizio in qualità, non già di teste, ma di imputato del medesimo reato ex art. 12, comma 1, lett. a), c.p.p. In tal modo, si sbarra la strada a poco edificanti tentativi di aggirare il disposto dell’art. 197 c.p.p., giocando sui margini di discrezionalità concessi al titolare dell’accusa nel formulare l’imputazione per concorso di reati. Come si vede la rete di garanzie offerta all’imputato che fornisca apporti sui temi dell’altrui responsabilità, conosce larghe smagliature, rimediabili solo attraverso soluzioni interpretative, peraltro prive di forza cogente. Più in generale, l’analisi della disciplina ex art. 197-bis c.p.p., svela l’esistenza di sacche destinate ad accogliere lo scambio delazione-immunità. E se il rischio sotteso ad istituti del genere è quello di un regresso del modo — qualificante per un sistema processuale — di intendere la posiper ‘‘l’interesse a difendersi mediante la menzogna’’: cfr. Parere del C.S.M., in Il nuovo codice di procedura penale. Dalla legge delega ai decreti delegati. Il progetto preliminare del 1988, a cura di G. CONSO, V. GREVI, G. NEPPI MODONA, vol. IV, Milano, 1990, p. 605.
— 495 — zione dell’imputato, bisognava almeno prevedere che siffatto scambio si perfezionasse in uno spazio garantito dalla presenza del giudice. Non è stata questa la scelta del legislatore che, non solo privilegia l’interrogatorio quale sede dell’evento estintivo del diritto al silenzio (art. 64, comma 3, lett. c), c.p.p.), ma acconsente, infine, anche all’innesto della testimonianza dell’imputato nella fase preprocessuale. 9. La disciplina nella fase delle indagini. — Ad un primo sguardo, la l. n. 63 del 2001 sembra investire marginalmente la fase delle indagini, operandovi solo poche e frammentarie modifiche. Si tratta di un risultato in linea teorica coerente rispetto alla ratio ispiratrice dell’intero disegno: il tentativo di riaffermare sul piano ordinario il valore euristico del contraddittorio, non poteva che focalizzarsi sul dibattimento, quale sede privilegiata di formazione della prova. Un vaglio più approfondito rivela, tuttavia, come quelle scarne innovazioni in materia siano destinate ad un impatto tutt’altro che marginale. È accaduto che il legislatore, impegnato nell’attuazione dei canoni del giusto processo, si sia imbattuto in una riforma organica del codice nata da spinte opposte rispetto a quelle sottese alla riscrittura dell’art. 111 Cost. Invero, la legge 24 novembre 1999, n. 479, individuando — non già nel dibattimento ma — nel giudizio abbreviato la sede ordinaria per la definizione del processo, ha finito per rivitalizzare la fase delle indagini come luogo di raccolta delle fonti decisorie. La circostanza, dapprima pressoché ignorata nel corso dei lavori preparatori, si è via via imposta all’attenzione, non senza che tale tardiva reviviscienza lasci traccia di sé. Le modifiche apportate, non maturando nel contesto di un dibattito, si riducono al frettoloso innesto nella fase delle indagini di istituti concepiti per il dibattimento. La disciplina che ne risulta, disorganica e inadeguata, finisce per delegare all’interprete il compito di sciogliere numerosi nodi. Ad ogni modo, superando le ambiguità del testo licenziato in seconda battuta dalla Camera (89), l’attuale normativa contrae l’arco temporale del diritto al silenzio anticipando alla fase delle indagini l’obbligo per l’imputato di deporre secondo verità. Così l’art. 64, comma 3, lett. c), c.p.p., smarrito qualsiasi riferimento alla presenza del giudice, subordina la compatibilità con l’ufficio di testimone all’aver reso dichiarazioni in ordine al fatto altrui. (89) Nella versione contenuta nel disegno di legge C 463-B, l’art. 64, comma 3, lett. c), c.p.p., non illuminava circa il momento in cui doveva scattare per la persona esaminata l’obbligo di deporre secondo verità. In particolare non era chiaro se il limite dello spazio giurisdizionale ivi previsto dovesse intendersi riferito al solo onere di sottoporsi all’esame o viceversa riguardasse anche l’obbligo di non rendere dichiarazioni mendaci; cfr., sul punto, P. FERRUA, Contraddittorio forte per ridurre il silenzio, in Il Sole-24 Ore, 23 novembre 2000, p. 27.
— 496 — Sulla medesima linea si colloca l’art. 362, comma 1, c.p.p., che si presta ad accogliere le forme dell’art. 197-bis c.p.p., nonché l’art. 363, comma 1, c.p.p., il quale, a sua volta, richiama l’art. 210, comma 6, c.p.p., dove l’esame del coimputato aliunde si stempera nella testimonianza c.d. garantita. Ciò significa che il titolare dell’accusa — o la polizia giudiziaria da questi delegata — potrà esaminare colui nei cui confronti si svolgono le indagini — non importa se uniche ovvero separate — in qualità di persona informata sui fatti, pur nel rispetto delle garanzie suppletive ex art. 197-bis c.p.p. Condizione essenziale è che il soggetto sia ormai privo della titolarità del diritto al silenzio sul fatto altrui, essendosi integrata la vicenda estintiva ex art. 64, comma 3, lett. c), c.p.p. Il che avverrà presumibilmente nell’ambito dell’interrogatorio condotto dal medesimo p.m. o, su delega, dalla polizia giudiziaria. In tali ipotesi, dove la persona sottoposta alle indagini è intuitivamente sovraesposta alle influenze degli organi investigativi, è forte la necessità di tutelare l’imputato rispetto ad illecite pressioni strumentali ad un contegno collaborativo. Sotto questo profilo, certo non conforta il dato per cui l’audizione del correo — aliunde o nella medesima vicenda processuale — non contempli l’obbligatoria presenza del difensore (artt. 363 e 364 c.p.p.). Il guaio è che i presupposti per il parziale dissolversi dello schermo fornito dal nemo tenetur se detegere risultano sfuggenti: desumibili in via implicita dal contenuto delle dichiarazioni richiedono competenze squisitamente tecniche per l’oggettiva difficoltà di discernere — specie nella fase fluida delle indagini — i temi su cui spaziano i singoli contributi. Non è perciò pensabile lasciare gli organi investigativi unici arbitri nel configurare in capo all’inquisito un obbligo di rispondere secondo verità: l’ausilio del difensore diviene essenziale per garantire alla persona esaminata un’effettiva libertà di scelta (90). Si consideri, inoltre, che l’argine — di per sé assai fragile — dell’incompatibilità ‘‘rigida’’ configurata per l’imputato concorrente nel medesimo reato (art. 197, comma 1, lett. a), c.p.p.) potrebbe essere travolto, causa lo sviluppo ancora acerbo del procedimento, a cui ben si attagliano imputazioni dalle linee sfumate. Anche la persona di fatto indagata nel medesimo reato, che in sede di interrogatorio abbia rilasciato dichiarazioni sull’altrui responsabilità, potrebbe essere, quindi, indotta dagli organi inquirenti a rendere il proprio contributo in qualità di persona informata sui fatti, non senza che il più forte nesso tra le regiudicande si rifletta in un maggior pericolo di deporre contra se. In tal caso, solo il tem(90) Giudica la soluzione accolta sul punto dalla l. n. 63 del 2001 come ‘‘lesiva del diritto di difesa e dei principi del giusto processo’’, P. TONINI, Riforma del sistema probatorio, cit., p. 271.
— 497 — pestivo intervento del difensore, teso a far valere la reale qualifica del dichiarante, sventerebbe sul nascere un’applicazione distorta della disciplina codicistica. Né agli inconvenienti denunciati potrebbe in alternativa porre rimedio l’art. 64, comma 3-bis, c.p.p., dove l’inutilizzabilità dei contributi resi e l’incompatibilità a testimoniare risultano ancorati all’omissione degli avvisi previsti ai precedenti commi e non già all’aver travalicato i limiti posti a tutela del nemo tenetur se detegere. È lecito, peraltro, dubitare che il passaggio di status — da persona sottoposta alle indagini a soggetto con obblighi testimoniali — possa compiersi nell’ambito dell’interrogatorio ex art. 364 c.p.p. Si rammenti come la contestuale metamorfosi da un atto — l’esame — all’altro — la testimonianza — prevista all’art. 210, comma 6, c.p.p., sia richiamata per il solo interrogatorio della persona imputata — o indagata — in un separato procedimento (art. 363 c.p.p.), mentre resta estranea a quello condotto nei confronti dell’inquisito nella vicenda ad quem. In tal caso è necessario che l’atto volga al termine prima di far spazio all’audizione ex art. 197-bis c.p.p. La differenza di disciplina sembra ragionevole: dove gli itinera si svolgano separatamente la confluenza dell’interrogatorio nell’esame di natura testimoniale è meno traumatica, complice l’identità del tema di prova, costituito in via esclusiva — almeno a priori — dall’altrui responsabilità (91). Inoltre, laddove il dichiarante cumuli in sé le due qualifiche — indagato e testimone — maggiore è il pericolo di un pretestuoso passaggio dall’una all’altra figura, allo scopo di carpire dichiarazioni contra se. Quando, senza soluzione di continuità, l’interrogatorio mutasse in esame ex art. 362 c.p.p., i confini tra fatto proprio e fatto altrui — già intrisecamente precari — sfumerebbero fino a scomparire. Potrebbe, peraltro, obiettarsi come una simile situazione si presti ad essere fronteggiata in virtù del divieto d’uso contra se previsto dall’art. 197-bis, comma 5, c.p.p.. Più in generale, la norma in discorso consente di paralizzare l’uso improprio dell’obbligo di deporre, intervenendo ogniqualvolta la testimonianza dell’indagato sia maliziosamente impiegata per svuotare il diritto al silenzio sul fatto proprio. Si pensi, oltre ai casi già evidenziati dell’imputato chiamato a testimoniare benché protetto dall’incompatibilità ex art. 197, comma 1, lett. a), c.p.p., alle ipotesi in cui il p.m. o la polizia giudiziaria procedenti, a torto ritengano non fondata la garanzia contro l’autoincriminazione opposta dal dichiarante (art. 197bis, comma 4, c.p.p.). (91) Sotto un altro profilo il trapianto dell’art. 197-bis c.p.p. nell’area delle indagini solleva un’ulteriore questione. Ci si riferisce al coimputato aliunde chiamato ad assumere l’impegno di deporre secondo verità davanti al p.m. o alla polizia giudiziaria: cfr, sul punto, M. NOBILI, Giusto processo e indagini difensive, cit., p. 10.
— 498 — Purtroppo, nonostante il rinvio alla disciplina racchiuso agli artt. 362 e 363 c.p.p., non è pacifica l’applicabilità dell’inefficacia in discorso nell’ambito della fase preprocessuale. Se è vero che la forma c.d. patologica dell’inutilizzabilità parrebbe ormai destinata a spaziare per tutto l’arco del procedimento (92), è lecito dubitare che il divieto d’uso configurato all’art. 197-bis, comma 5, c.p.p. — sganciato com’è da qualsiasi vizio dell’iter probatorio — si presti ad operare rispetto a contributi non formatisi nel contesto del giudizio. In altre parole, sfuggono i confini di quella sorta di immunità concessa dal legislatore all’imputato che attivamente collabori. Si dirà che nelle ipotesi esemplificate — aggiramento dell’incompatibilità a testimoniare e della garanzia contro l’autoincriminazione — residua l’applicabilità dell’ordinaria disciplina ex art. 191 c.p.p., trattandosi pur sempre di divieti probatori. Ma se ciò dimostra ancora una volta l’indefettibilità della presenza del difensore, sollecito nel far rilevare l’esistenza del vizio, bisogna riconoscere che neanche la più zelante attività difensiva può svolgersi efficacemente in questa fase embrionale. Per esemplificare, a fronte di un’imputazione monosoggettiva a carico del proprio assistito quali elementi possiederà il difensore per sostenere l’esistenza dei presupposti per la fattispecie concorsuale e, dunque, dell’incompatibilità ex art. 197, comma 1, lett. a), c.p.p.? Ed ancora, nel quadro fluido delle indagini diviene assai arduo cogliere l’insidiosità di una domanda tesa in via surretizia a sollecitare contributi contra se. Ma, se ciononostante, un difensore dotato di particolare acume o prudenza, opponga la garanzia ex art. 197-bis, comma 4, c.p.p., il p.m. potrà legittimamente disattenderla sulla base di un quadro conoscitivo che quasi mai sarà univoco nell’indicare l’esistenza del rischio di dichiarazioni autoincriminati. In quest’ultimo caso, qualora l’eccezione difensiva si riveli a posteriori fondata, scatterà l’inefficacia ex art. 191 c.p.p. (93). Ne risulta inibito l’uso dei contributi contra se ai fini dei provvedimenti limitativi della libertà personale o delle decisioni conclusive dei riti speciali, ma non già un’impiego utile ad indirizzare il corso delle indagini (94). In sintesi, sembra che le insufficienze rilevabili nella disciplina ex art. 197-bis c.p.p., intrinseche all’inedito mezzo di prova, legate come sono al fragile discrimine tra fatto proprio e fatto altrui, siano destinate ad aggra(92) Cfr., per tutti, A. SCELLA, Prove penali e inutilizzabilità. Uno studio introduttivo, Torino, 2000, p. 187. (93) Qui l’inutilizzabilità contra se diviene ‘‘un’inevitabile conseguenza’’: P. FERRUA, Gli incerti confini dell’ ‘‘impumone’’. Le ambiguità del testo lasciano spazi eccessivi all’interpretazione, in Dir. giust., 2000, n. 43-44, p. 98. (94) Al riguardo, non si sottovalutino ‘‘le conseguenze di un eadere contra se, seppure coperto... da un’inutilizzabilità soggettiva. Tanti sono i canali e gli effetti, magari inavvertiti: sviluppi probatori ulteriori; atti e provvedimenti della fase preliminare; il soppesare diversamente... un residuo quadro probatorio incerto ecc.’’ (M. NOBILI, Giusto processo e indagini difensive, cit., p. 7).
— 499 — varsi quando l’esame si svolga al di fuori dello spazio giurisdizionale e per di più in una fase in cui gli addebiti mossi all’imputato risultano, per definizione, sfuocati. Gli effetti del delicato trapianto sono stati forse sottovalutati dal legislatore, complice l’evidenziata assenza di dibattito in ordine alle questioni aperte sul terreno delle indagini preliminari. Una simile trascuratezza finisce col pesare anche sulle modifiche incidenti sull’attività ad iniziativa della polizia giudiziaria, affette da vistosi difetti di coordinamento. Si pensi, in particolare, alle sommarie informazioni assunte dalla persona sottoposta alle indagini, dove l’ufficiale procedente è chiamato al rispetto dell’art. 64 c.p.p. e il cui contesto può, quindi, fungere da scenario all’assunzione di obblighi testimoniali da parte della persona sottoposta alle indagini. Non altrettanto accade quando si esaminino le persone aliunde imputate poiché non si è provveduto ad integrare la laconica disciplina dell’art. 351, comma 1-bis, c.p.p. attraverso il rinvio allo schema dell’interrogatorio (95). La discrasia parrebbe irragionevole: si stenta a comprende il motivo per cui l’accadimento ex art. 64, comma 3, lett. c), c.p.p., si debba verificare nell’un caso e non nell’altro, dove pure — esaminandosi una persona non indagata nell’ambito del medesimo procedimento — si attenuano le esigenze di garanzia. Per altro verso, tuttavia, quella che presumibilmente rappresenta una dimenticanza del legislatore si dimostra un insperato, quanto utile, rimedio rispetto ad un’altra e più grave lacuna. Si allude all’indefettibilità della presenza del difensore, prevista solo nell’ambito del colloquio ex art. 350 c.p.p., e non già dell’omologo ex art. 351, comma 1-bis, c.p.p. Qualora le sommarie informazioni rese dalla persona sottoposta alle indagini ex art. 350 c.p.p. investano l’altrui responsabilità, la polizia giudiziaria potrà, al termine dell’atto, sentire la medesima persona in qualità di persona informata sui fatti nelle forme dell’art. 351 c.p.p., integrate dall’art. 197-bis c.p.p.. E simile facoltà potrà esercitare nei confronti di tutti coloro che abbiano ormai perso l’incompatibilità a testimoniare, per essere usciti dal circuito procedimentale ovvero per avere, in altre sedi, reso dichiarazioni in ordine al fatto altrui. Sul piano delle garanzie ciò comporta una caduta ancora maggiore di quella insita nella titolarità del medesimo potere in capo al pubblico ministero a causa delle competenze altamente tecniche necessarie a discernere gli oscillanti confini tra responsabilità propria e quella altrui. Quanto detto dimostra ad abundantiam la necessità che la parziale perdita del privilegio contro l’autoincriminazione, con il conseguente im(95) Propendono, invece, per l’applicabilità anche in tale sede dell’art. 64 c.p.p., D. CARCANO e D. MANZIONE, op. cit., p. 46.
— 500 — pegno a deporre al dibattimento con gli obblighi di carattere testimoniale, discendessero da un atto compiuto di fronte ad un giudice (96). Ne avrebbe guadagnato l’effettività della difesa oltre alla coerenza della fase investigativa, imbrigliata dalla legge in un reticolo di scordinate disposizioni. 10. Conclusioni. — Il disegno che mirava a restringere l’area del diritto al silenzio è approdato ad una costruzione in cui l’obbligo di deporre contra se non è adeguatamente bilanciato da congrue garanzie. In particolare, la più forte tra queste, la pur opinabile forma di inutilizzabilità ex art. 197-bis, comma 5, c.p.p., conosce lacune. Assimilabile alle forme di immunità d’oltreoceano non ne mutua completamente — né lo potrebbe — il raggio di tutela (97), che solo consente in quel sistema di conciliare la coercizione a deporre con il privilegio against self incrimination di marca costituzionale. Ne discende uno schermo difettoso che se con riguardo al dibattimento impone di porre mano ad una generosa opera di interpretazione analogica — si pensi all’applicabilità in via integrativa dell’art. 63 c.p.p. — nell’ambito delle fasi anteriori fatica a trovare spazi. Ciò comporta un indubbio regresso nei modi di intendere la posizione dell’imputato, del resto non ascrivibile per intero alle lacune e insufficienze registratesi. Lo slittamento verso un obbligo di deporre contra se privo di adeguati contrappesi è, in certa misura, insito nell’idea di innestare l’obbligo di deporre contra alios all’interno di un sistema ancorato al principio di obbligatorietà dell’azione e, quindi, refrattario a forme di immunità. Potrebbe dirsi che questo era il prezzo da pagare per garantire al ripristinato processo d’ispirazione accusatoria un accettabile grado di funzionalità, altrimenti posto a rischio da un diritto al silenzio dilatato oltremisura. Ma, considerato l’obiettivo, la risposta del legislatore si dimostra ultra petita laddove innesta la testimonianza dell’imputato nella fase delle indagini. Se l’intenzione era di salvaguardare il ruolo del dibattimento (96) Come proponeva P. TONINI (‘‘Giusto processo’’, diritto al silenzio ed obbligo di verità, cit., p. 37) sulla base dell’esperienza della common law. (97) Si allude alla disciplina della derivative use immunity del sistema statunitense, attenta nel precisare i rispettivi obblighi delle parti e in particolare il divieto per il prosecutor di qualunque uso dell’immunized testimony, a sua volta inteso dalla giurisprudenza in modo molto rigoroso sino a negare ogni valenza del contributo offerto ‘‘non solo come prova contro il suo autore (evidentiary use)’’ ma altresì ‘‘come elemento utile nel decidere se iniziare un procedimento a suo carico, nel preparare il processo, nel rifiutare il patteggiamento, nell’interpretare le altre prove raccolte, nell’impostare la cross-examination e, in generale, per ogni decisione sulla strategia processuale (non-evidentiary use)’’: A. BERNASCONI, op. cit., p. 56.
— 501 — come luogo privilegiato di formazione della prova, l’obbligo sanzionato di deporre davanti agli organi investigativi non è spiegabile sotto questa luce. In realtà, alla l. n. 63 del 2001 non è estranea la diversa prospettiva di un rafforzamento della fase delle indagini in vista dell’imbocco dei riti alternativi ed, in specie, del giudizio abbreviato. Un obiettivo questo, in aperta antitesi rispetto al metodo del contraddittorio di cui la novella dovrebbe consentire l’attuazione. D’altro canto, la disciplina pare meno risolutiva di quanto si vorrebbe rispetto alle esigenze proprie dell’accertamento. Piuttosto, le lacune riscontrabili nella rete di garanzie approntate a favore di quanti si determinino a collaborare, favoriscono quale strategia difensiva la scelta di serbare per tutto l’arco del procedimento un totale silenzio, giacché qualsiasi parola potrebbe imprevedibilmente condurre sullo scomodo scranno del testimone. Prevale nel lettore il rimpianto per l’occasione perduta di scrivere in modo linerare l’impianto codicistico. Così l’ostracismo alle dichiarazioni raccolte in fase di indagine poteva trovare un adeguato compenso, oltre che nell’estensione della categoria dei testimoni ai soggetti definitivamente condannati, nella ragionevole potatura delle ipotesi di connessione e collegamento capace di sfoltire l’art. 197 c.p.p. — e, in via speculare, accrescere l’area della testimonianza — delle figure in cui la posizione del coimputato è più defilata rispetto al fatto da accertare. Senza trascurare le opportunità offerte, sia dall’incidente probatorio, su cui si sarebbe potuto ancora operare, snellendone la procedura, sia dalla legge sui collaboratori di giustizia di recente novellata (98), che individua nel comportamento del correo sottrattosi all’esame dibattimentale una causa di revoca delle misure di protezione (art. 13-quater, comma 2, l. n. 45 del 2001) nonché dei benefici penitenziari (art. 16-nonies, comma 7, l. n. 45 del 2001). Si è preferito, invece, incentrare l’intera riforma sull’inedita testimonianza dell’imputato sul fatto altrui, approdando così ad una disciplina di dubbia funzionalità e di ardua esegesi che aggrava, sotto questo profilo, l’immagine di un codice di rito dall’ispirazione composita (99). Da un (98) Si allude alla l. 5 marzo 1991, n. 82, che ha tracciato, tra l’altro, le linee di uno speciale programma di protezione per coloro che scelgano di collaborare ai fini dell’accertamento dei reati ex art. 380 c.p.p. La disciplina ha subito da ultimo ampi quanto attesi rimaneggiamenti ad opera della l. 13 febbraio 2001, n. 45 (cfr., sul punto, P. GIORDANO, Dalla costruzione del progetto sui pentiti un buon esempio per il pacchetto sicurezza, in Guida dir., 2001, n. 5, p. 5) destinati a ripercuotersi anche sul codice di rito. Il tema, tuttavia — ampio e complesso — non si presta ad essere affrontato in questa sede. (99) E, dunque, pressoché illegibile (lo sottolinea P. FERRUA, La dialettica CameraSenato migliora il ‘‘giusto processo’’, cit., p. 82). Non si tratta, tuttavia, di un risultato inconsapevole: le perplessità espresse dal legislatore storico all’atto di licenziare la novella (cfr. sul sito Internet del Senato della Repubblica il resoconto stenografico della seduta del 14 febbraio 2001 in sede di Commissione giustizia e, in particolare, gli interventi dei senatori
— 502 — lato, i severi limiti al recupero a dibattimento degli atti di indagine, dall’altro, una fase anteriore al giudizio dal peso preponderante, dove la raccolta delle fonti decisorie, strumentale all’adozione dei riti speciali, finisce oggi per ruotare sull’apporto dell’imputato. Resta da dimostrare quanto ciò sia compatibile con una struttura del processo che possa dirsi dialettica. dott. ssa ALESSANDRA SANNA
Pecorella, Mantovano e Pisapia) si accompagnano alle voci (cfr. l’editoriale La Camera senza entusiasmo approva il ‘‘giusto processo’’ secondo il Senato. Ma nella prossima legislatura il rito penale andrà risistemato, in Dir. giust., 2001, n. 7, p. 10) intorno ad un’imminente nonché integrale riscrittura del sistema.
NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO
TECNICHE SANZIONATORIE DI TUTELA DEL PATRIMONIO STORICO-ARTISTICO NEI SISTEMI STRANIERI: IL MODELLO SPAGNOLO E QUELLO TEDESCO
SOMMARIO: Premessa. — 1.1. Il sistema spagnolo. — 1.2. Il ‘‘patrimonio histórico, cultural y artístico’’ nella Costituzione Spagnola. — 1.3. La Ley de 25 de Junio de 1985 n. 16 (Código del Patrimonio Cultural). — 1.4. L’oggetto di protezione: « bienes de valor histórico, cultural o artístico ». — 1.5. La scelta della tecnica sanzionatoria. L’obbligo costituzionale di tutela penale. — 1.6. Gli illeciti sanzionati amministrativamente. — 1.7. Illecito penale ed illecito amministrativo nell’ordinamento giuridico spagnolo. — 1.8. La necessità, derivante dalla disposizione costituzionale, di configurare il patrimonio storico, artistico e culturale quale bene giuridico autonomo. — 1.9. L’aggravante delle « cosas de valor artístico, histórico, cultural o científico » nei delitti contro il patrimonio. — 1.10. Il patrimonio culturale quale bene giuridico autonomamente tutelato: il capitolo II del titolo XVI del libro II del nuovo codice penale. — 1.11. Le altre fattispecie contenute nel Nuevo Código Penal. — 1.12. Il contrabbando di opere d’arte. — 2.1. Il sistema tedesco. — 2.2. La normativa federale. Le disposizioni dello Strafgesetzbuch e le leggi in tema di circolazione verso l’estero dei beni culturali. — 2.3. Le Denkmalschutzgesetze. Il concetto di bene culturale (‘‘Kulturgut’’) e le forme di tutela. — 2.4. Il modello tedesco: passaggio dall’illecito penale all’illecito amministrativo e distribuzione di competenza in tema di beni culturali tra Stato federale (Bund) e Länder.
Premessa. — Il recente Testo Unico in materia di beni culturali e ambientali (d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, entrato in vigore l’11 gennaio 2000) ha lasciato inalterata la struttura del sistema di tutela. In particolare le tecniche sanzionatorie non hanno subito modificazioni rispetto a quanto risultava dalla precedente l. 1o giugno 1939, n. 1089. Permangono dunque le critiche che la dottrina italiana da tempo ha rivolto a tale sistema, ponendo in evidenza l’inadeguato rilievo attribuito al patrimonio storico-artistico quale oggetto di tutela e l’utilizzo di tecniche sanzionatorie (in particolare le fattispecie di pericolo astratto) rivolte alla tutela del sistema amministrativo piuttosto che direttamente del bene culturale. La tutela dei beni culturali costituisce un tema in continua evoluzione negli ordinamenti stranieri, ed al quale corrisponde un sempre maggiore approfondimento da parte della dottrina, soprattutto del diritto pubblico. Prima di analizzare i sistemi normativi di tutela è necessario illustrare quali sono le esigenze, le quali poi si traducono nelle sue finalità, che motivano l’introduzione di questa che può essere definita una nuova disciplina giuridica (1). Esigenza fondamentale che muove questa disciplina è la conservazione delle testimo-
(1) FECHNER, Prinzipien des Kulturgüterschutzes - Eine Einführung, in AA.VV., Prinzipien des Kulturgüterschutzes - Ansätze im deutschen, europäischen und internationalen Recht, a cura di Fechner-Oppermann-Prott, Berlin 1996, p. 11 ss.
— 504 — nianze del passato e delle opere dell’arte umana. La conservazione dei beni culturali nella loro originaria sostanza viene ritenuta obiettivo primario, dato il carattere di unicità e non reintegrabilità che è proprio di essi. Lo sforzo di conservazione si ritiene esprima la considerazione per le opere di altri uomini e di precedenti culture ed accresca l’interesse per il proprio passato. Seconda causa di emersione del tema è stata l’esigenza di tutela dei beni culturali in caso di conflitto armato, che ha provocato l’emanazione di convenzioni internazionali sul tema (fondamentale la Convenzione UNESCO del 1954) (2). Terzo elemento fondante, collegato al precedente, può infine ritenersi il desiderio di fissare determinati beni mobili ai rispettivi paesi di appartenenza, che ha generato la normativa in tema di esportazione dei beni culturali e di diritti di restituzione. Tale normativa è tesa a contrastare il fenomeno delinquenziale dell’illecito traffico internazionale di opere d’arte, che costituisce possibile oggetto di proventi così elevati da seguire in questa spiacevole graduatoria solo il traffico di stupefacenti e quello di armi (3). Le esigenze fondamentali appena segnalate, soprattutto la seconda e la terza, richiedono l’intervento di accordi tra Stati. Tali accordi, sotto l’egida UNESCO, sono stati stipulati. L’oggetto dell’indagine sarà però costituito dalle disposizioni che ogni singolo paese prevede per la conservazione del proprio patrimonio storico-artistico. A tale proposito, data la dimensione per sua natura nazionale del diritto penale, si può condividere l’osservazione, compiuta dalla dottrina relativamente al tema ambientale, che l’unica prospettiva concreta sia quella di una omogeneizzazione delle normative penali nazionali, prescindendo pertanto da obiettivi difficili e poco realistici quali l’istituzione di un diritto internazionale penale in senso stretto e di un diritto penale europeo (4). La necessità di una dimensione nazionale deriva dal fatto che la tutela dei beni culturali comporta scelte di fondo in ordine, tra gli altri, alla funzione della proprietà privata ed alla disciplina degli scambi economici, scelte che sono riservate ai singoli Stati. Gli accordi internazionali intervengono pertanto in settori che riguardano il rapporto tra Stati, quali la restituzione di beni culturali illecitamente sottratti o la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato. Gli ordinamenti stranieri comprendono generalmente nella legge fondamentale la previ(2) Le vicende tragiche della seconda guerra mondiale avevano posto all’attenzione degli Stati un problema in realtà sempre storicamente esistito ma in ordine al quale finalmente si formava una nuova progredita coscienza. Trattandosi di accordi internazionali essi vincolano, naturalmente, solo gli Stati aderenti. (3) In questo settore il nostro Stato, data la qualità di Stato ‘‘produttore’’ di opere d’arte, assume prevalentemente il ruolo di vittima delle illecite esportazioni (8.000 opere d’arte sono state recuperate dall’estero). I dati del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Artistico segnalano però anche un’illecita importazione nel nostro paese di opere d’arte: negli ultimi anni sono state restituite ad altri paesi circa 800 opere illecitamente importate nel nostro paese. (4) STORTONI, L’ambiente: aspetti penali della legislazione europea, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1998, pp. 884-885. L’Autore osserva come sia incontestabile che l’esigenza di protezione giuridica dell’ambiente tenda per sua natura ad una dimensione internazionale, sia per motivi propri dell’oggetto di tutela (si pensi al carattere internazionale di molti fiumi) sia per non dare luogo a disparità di trattamento fra soggetti a seconda dello Stato in cui si trovano ad agire. L’intervento normativo in prospettiva internazionale servirebbe ad evitare che si creino luoghi in cui l’inquinamento tende a concentrarsi perché lì esso non è punito o è punito meno gravemente e che si alteri l’equilibrio degli scambi e della concorrenza economica. Vi sarebbero quindi profonde ragioni perché la disciplina dell’ambiente abbia una dimensione internazionale, più precisamente che le discipline penali nazionali siano uniformi o, quanto meno, coordinate tra loro. In generale sul tema, limitando la segnalazione ai contributi più recenti, TIEDEMANN, L’europeizzazione del diritto penale, in questa Rivista, 1998, p. 3 ss.; AA.VV., Possibilità e limiti di un diritto penale dell’Unione europea, a cura di Picotti, Milano 1999; AA.VV., Prospettive di un diritto penale europeo, a cura di Grasso, Milano 1999.
— 505 — sione della tutela e valorizzazione del proprio patrimonio storico-artistico, in quanto elemento essenziale della specifica identità nazionale (5). Da questa previsione fondamentale si dipartono le legislazioni di tutela, le quali presentano spiccate differenze per l’intervento di numerose variabili relative innanzitutto al tipo di Stato. Le legislazioni più lontane dalla tradizione giuridica italiana sono sicuramente quelle dei paesi orientali nei quali gli attentati ai beni culturali vengono equiparati, anche per alcuni aspetti di diritto internazionale, alle offese al sovrano ed alle istituzioni nazionali. L’acquisita coscienza del rilievo delle attività delinquenziali legate al traffico di opere d’arte ha poi portato a disposizioni particolarmente rigide ed alla previsione di sanzioni inaccettabili. Così accade in Cina, paese dotato di eccezionale patrimonio culturale, dove la legge di riforma del codice penale del 14 marzo 1997 ha confermato l’inflizione della pena capitale nel caso di furto di preziosi beni di interesse storico-artistico. Altri ordinamenti assai differenti da quello italiano sono quelli che si rifanno alla tradizione giuridica anglosassone. In essi certamente non manca l’interesse per la tutela del patrimonio storico-artistico, ma con esso concorre il tradizionale rispetto per la proprietà privata, l’osservanza delle regole di Common Law e l’intervento dell’associazionismo privato nelle iniziative di conservazione. Maggiore assonanza giuridica con il nostro sistema hanno quelli dell’Europa continentale, che si valgono di una legislazione raffinata e spesso evoluta attraverso adattamenti nel corso di centinaia di anni. È poi ben nota, soprattutto in tema di circolazione dei beni culturali fuori dai confini nazionali, la differenza tra Stati ‘‘produttori’’ di opere d’arte (p.es. Italia, Spagna, Grecia) e Stati ‘‘importatori’’ di tali opere (p.es. Giappone). Questa differenza si riflette sui sistemi, più o meno rigidi, in tema di esportazione, attraverso la distinzione tra il regime ‘‘liberistico’’, seguito soprattutto dai paesi poveri artisticamente e ricchi economicamente, ed il regime ‘‘protezionistico’’ proprio dei paesi ricchi artisticamente, ma non altrettanto economicamente (6). Nella dottrina anglosassone si parla, corrispondentemente, di ‘‘source states’’ e di ‘‘market states’’: in aggiunta esistono ‘‘transit states’’ (p.es. Hong Kong e Macao) in cui è facilitato il movimento dei beni culturali tra ‘‘source states’’ e ‘‘market states’’. Sebbene i paesi ricchi artisticamente (‘‘source states’’), come p.es. l’India, abbiano sviluppato regimi protezionistici, è stato osservato come ciò non sia valso ad impedire la depredazione delle proprie risorse culturali, invece assai meglio conservate in Stati con regime ‘‘liberistico’’, come p.es. il Giappone (7). Oltre che a proposito della circolazione tra Stati dei beni culturali, queste distinzioni influenzano anche i sistemi interni di tutela, con legislazioni tendenzialmente più rigide nei paesi produttori di opere d’arte (p.es. in Grecia ed Italia). La distinzione peraltro non può essere intesa in modo rigido, poiché vi sono paesi ricchi sia artisticamente che economicamente (si pensi alla Francia) e nei quali dunque la disciplina in tema di beni culturali dipende da scelte differenti nei singoli momenti storici (8). La storia, più o meno recente, dei singoli Stati condiziona i rispettivi ordinamenti ed i (5) Una ricca e aggiornata descrizione delle disposizioni costituzionali in tema di beni culturali negli ordinamenti stranieri, completa anche di quelli nuovi risultanti dalla disgregazione dell’U.R.S.S., è compiuta da HABERLE, National-verfassungsstaatlicher und universeller Kulturgüterschutz - ein Textstufenvergleich, in AA.VV., Prinzipien des Kulturgüterschutzes, cit., p. 93 ss. Nella dottrina italiana, CORDINI, La protezione dei beni culturali e ambientali: profili di diritto costituzionale comparato e dimensione sopranazionale, in AA.VV., Manuale dei beni culturali, a cura di Assini e Francalacci, Padova, 2000, p. 21 ss. (6) MANTOVANI, Lineamenti della tutela penale del patrimonio artistico, in questa Rivista, 1976, p. 105. (7) Su questo tema MURPHY, Plunder and Preservation, Hong Kong-Oxford-New York, 1995, p. 2. (8) In Francia, per lungo tempo nessuna regolamentazione era prevista in questo settore. Anzi il dinamismo della produzione artistica, la ricchezza del paese e del suo mercato
— 506 — contributi dottrinali. In Germania, per esempio, grande attenzione è posta dalla dottrina sul tema della restituzione dei beni culturali sottratti in caso di conflitto armato, data la terribile esperienza della seconda guerra mondiale (9). In Grecia ed Egitto il sistematico spoglio delle testimonianze delle grandi civiltà di quei paesi ha motivato rigide discipline in tema di esportazione e scavi archeologici. Più in generale si assiste alla difficile conciliazione tra l’esigenza di difesa della specifica identità nazionale, attraverso la conservazione nei paesi di origine delle tracce del passato ed una nuova nozione di cultura, che rifiuta confini ed indulge all’internazionalismo culturale (10). Altro carattere che può essere messo in risalto è l’influenza che sul sistema di tutela esercita la distribuzione di competenze in tema di cultura e di tutela del patrimonio storico e artistico tra Stato centrale ed enti locali. Sempre riservata allo Stato centrale è la tutela in tema di circolazione ed esportazione illecita dei beni culturali nazionali; in vario modo distribuite sono invece le competenze in tema di protezione e salvaguardia interna, spettando esse talvolta allo Stato centrale ed altre volte agli organismi locali, in base ai diversi tipi e livelli di federalismo. Il sistema di distribuzione di competenze non è privo di conseguenze sul piano dei sistemi di tutela: attribuire le competenze in tema di tutela agli enti locali può sidi opere d’arte ha fatto della Francia un paese importatore di beni culturali. La situazione cambiò all’inizio del XX secolo, in particolare con l’esportazione verso gli Stati Uniti. La l. del 19 luglio 1909 interdì l’esportazione degli immobili classati, mentre la legge fondamentale del 1913 dichiarò l’inalienabilità dei beni di proprietà pubblica. Fu però la l. del 31 agosto 1920, subito dopo la I guerra mondiale, a porre disposizioni assai restrittive, le quali rimasero però in vigore un solo anno poiché vennero abrogate a causa della crisi che generò nei mercati d’arte francesi a vantaggio di quelli inglesi. La fuga di opere d’arte verso la Germania nazista portò nel 1941 all’emanazione di una legge che introduceva ancora una volta disposizioni protezionistiche. Infine l’apertura delle frontiere come conseguenza del mercato unico europeo, unita alla volontà politica di rivitalizzare il mercato dell’arte in Francia, ha condotto alla l. 31 dicembre 1992 che regola attualmente la materia, ma della quale è attualmente in discussione la modifica. (9) In Germania opera un importante centro di ricerca, nell’Universität des Saarlandes, in tema di tutela dei beni culturali, il Forschungsstelle Internationalen Kulturgüterschutzes, diretto dal Prof. Fiedler. (10) Sul tema dell’internazionalismo culturale osserva LEMME, La tutela internazionale dei beni culturali e ambientali, in AA.VV., Manuale dei beni culturali, cit., p. 8, che è un prodotto, anzi un mito, dell’Illuminismo. « Esso non si è realizzato di fatto in nessun paese e costituisce un approdo finale del cammino della ragione, al quale ci si potrà forse avvicinare ma che non si potrà mai completamente raggiungere ». Particolarmente attiva è in questo periodo una politica di prestiti di opere d’arte da parte dei paesi nei quali esse sono conservate da istituzioni museali per consentirne l’esposizione in altri paesi. Questa politica espositiva, pur condivisibile perché risponde ad un’esigenza di massima fruizione dei beni culturali, non risolve certamente il problema della rivendicazione da parte dei paesi di origine delle opere d’arte trafugate nel passato, anche remoto, in quanto i paesi che ricevono questi prestiti raramente sono anche paesi di appartenenza degli autori. In proposito si può osservare che dovrebbe essere posta in modo differente la questione nei confronti delle opere d’arte rese mobili mediante distacco dal bene immobile che le conteneva (si pensi ai marmi del Partenone o alle numerose statue sottratte dai luoghi di destinazione): l’opera staccata dal suo contesto originario perde parte della sua natura o comunque tale distacco danneggia gravemente il contesto originario. Differente potrebbe essere il discorso per altre opere, p.es. i dipinti, il cui frequente peregrinare da un paese all’altro fa parte della loro storia, e pertanto meno pressante si pone un’esigenza di restituzione. Si può osservare infine che questa politica espositiva ‘‘prudentemente’’ non viene attuata nei confronti degli Stati che maggiormente pongono il problema della restituzione, quale p.es. la Grecia e l’Egitto. Sempre LEMME, op. cit., p. 11, a proposito della salvaguardia dei contesti, segnala tra i possibili problemi giuridici la contestazione della legittimità della pretesa: « la Grecia può razionalmente rivendicare i reperti del Partenone asportati dagli inglesi nel secolo scorso, quando — a tacer d’altro — non esiste (o almeno non appare) alcun legame tra l’attuale identità del popolo greco e quella dei popoli achei e bizantini? ».
— 507 — gnificare una scelta di campo per un sistema di tutela amministrativa anziché penale, sempre che ricorra un sistema simile a quello italiano, con riserva di competenza statale in campo penale; diversa è però la situazione, come vedremo, p.es. in Germania, dove i Länder hanno potestà normativa penale (della quale peraltro in questo settore fondamentalmente non si avvalgono). La tutela dei beni culturali, dato che essi costituiscono espressione dell’identità nazionale, trova sempre un riferimento a livello centrale (perlomeno in tema di allontanamento di tali beni dai confini nazionali); la distribuzione poi delle competenze dipende dalla storia oltre che dalle scelte di sistema dei singoli Paesi. Nell’analizzare il tema della tutela dei beni culturali negli ordinamenti stranieri, particolare attenzione deve essere riservata a due aspetti fondamentali, così come individuati dalla dottrina italiana (11): a) la scelta tra un sistema di tutela del patrimonio culturale ‘‘dichiarato’’ o di quello ‘‘reale’’ (12); b) l’opzione per un sistema di tutela penale diretta o indiretta. In ordine a quest’ultimo punto già adesso si può anticipare che solo in ordinamenti penali recentemente riformati sono presenti forme di tutela diretta, cioè autonoma, del patrimonio storico-artistico, mentre la scelta assolutamente prevalente è quella di tenere in conto la peculiarità dei beni culturali attraverso l’aggravamento di fattispecie comuni quali furto e danneggiamento. Esempi di tutela diretta si trovano nel codice spagnolo del 1995, che prevede un capitolo espressamente intitolato « De los delitos sobre el patrimonio histórico », ma che non comprende certamente tutte le fattispecie riferibili a tale tutela, nel codice penale peruviano del 1991, che contiene un capitolo dedicato ai « Delitos contra los bienes culturales » e nel codice penale cubano, che infine prevede un titolo riguardante i « Delitos contra el Patrimonio Cultural ». L’assoluta maggioranza degli ordinamenti stranieri è congegnata nel seguente modo: previsione di un certo numero di fattispecie penali e/o amministrative, consistenti solitamente nella sanzione per l’inosservanza di prescrizioni amministrative di conservazione (e dunque soprattutto in norme penali in bianco e reati di pericolo astratto), nella legge fondamentale di tutela; aggravamento di fattispecie base comprese nel codice penale, perlopiù danneggiamento e furto, in dipendenza del carattere culturale dell’oggetto materiale; previsione nella legislazione complementare delle fattispecie di contrabbando. Sotto il profilo sanzionatorio, si può fin da ora anticipare che oltre a sanzioni penali (di tipo detentivo e pecuniario) e sanzioni amministrative, residuano spazi per la confisca, la rimessione in pristino ed il risarcimento del danno. L’analisi che segue prenderà in esame naturalmente solamente una parte di questi ordinamenti. In particolare l’attenzione sarà centrata su ordinamenti particolarmente evoluti sul (11) Fondamentale, MANTOVANI, Lineamenti della tutela penale del patrimonio artistico, cit., p. 55 ss. (12) Tutela del patrimonio culturale dichiarato significa « circoscrivere la tutela ai soli beni il cui valore artistico è oggetto di previa dichiarazione »; in un sistema di tutela del patrimonio culturale reale le cose ricevono invece tutela in virtù del loro intrinseco valore, indipendentemente dunque dal previo riconoscimento di esso da parte delle autorità competenti. Sotto il profilo dell’identificazione dell’oggetto, la situazione più spesso ricorrente è una elencazione di carattere meramente esemplificativo ed il riferimento ad un interesse pubblico (variamente connotato), il quale dovrebbe fungere da criterio giustificatore della sottoposizione dei beni culturali ad un particolare regime vincolistico e di tutela. Può ritenersi costante l’esigenza della ricomprensione dei beni in appositi elenchi, per una necessità di certezza, che deriva dalla consapevolezza dell’inadeguatezza di qualsiasi definizione che aspiri all’esaustività. Sempre questa coscienza motiva discipline contraddittorie, nelle quali coesistono definizioni generalissime e cataloghi specifici, con la costante preoccupazione di salvaguardare comunque gli oggetti non catalogati, perlomeno in attesa dell’inserimento nei cataloghi. Manca pertanto una scelta netta tra tutela del patrimonio storico dichiarato, reale o presunto e si può pertanto parlare di semplice prevalenza, quando esiste, di un sistema su un altro.
— 508 — tema e con tradizioni giuridiche simili alla nostra, quali Spagna e Germania. L’ordinamento spagnolo, oltre a contenere nella Costituzione un obbligo di tutela penale dei beni culturali, prevede un sistema di tutela diretta del patrimonio storico-artistico attraverso la previsione nel recente codice penale di un titolo dedicato specificamente ai reati contro il patrimonio culturale. Nel sistema tedesco si trova invece una risposta alla scelta tra sanzione penale e sanzione amministrativa quale tecnica di tutela: tale risposta consiste nel prevedere quale illecito penale le fattispecie di furto o danneggiamento e quale illecito amministrativo le fattispecie di inosservanza di provvedimenti amministrativi. Le singole analisi partiranno dallo studio del concetto di bene culturale, per definire l’oggetto di questa che, come osservato, viene ritenuta una nuova disciplina giuridica, per poi passare ad analizzare il sistema di tutela. È da sottolineare infine che approfondimenti della materia da parte della dottrina penalistica esistono solamente in Spagna. Negli altri paesi il tema viene studiato nell’ambito del diritto pubblico e del diritto internazionale, dalle cui elaborazioni dottrinali sono state tratte le notazioni specificamente riguardanti il sistema sanzionatorio penale ed amministrativo. 1.1. Il sistema spagnolo. — Il sistema spagnolo di tutela dei beni culturali merita un approfondimento particolare per vari motivi: in primo luogo in quanto è l’unico nel quale è presente un obbligo costituzionale di tutela penale; inoltre e conseguentemente perché vi sono contributi della dottrina penale (13); infine poiché la tematica è affrontata in modo simile a quanto avviene nella dottrina italiana, la quale anzi viene spesso posta a base di tali elaborazioni. Un altro aspetto significativo è che si tratta di un sistema di recente elaborazione poiché la Costituzione spagnola è del 1978, la legge fondamentale in tema di tutela dei beni culturali del 1985 ed il vigente codice penale del 1995. Nella trattazione che segue si esamineranno il fondamento costituzionale del sistema di tutela dei beni culturali, l’oggetto di tale tutela e gli strumenti di controllo sociale previsti, con speciale attenzione, nel sistema spagnolo ancora più che in altri data la segnalata particolarità costituzionale, al diritto penale. 1.2. Il ‘‘patrimonio histórico, cultural y artístico’’ nella Costituzione Spagnola. — L’art. 46 della Costituzione del 1978 detta il seguente precetto: « I poteri pubblici garantiranno la conservazione e promuoveranno il riconoscimento del patrimonio storico, culturale e artistico dei popoli della Spagna e dei beni che lo integrano, qualunque sia il suo regime giuridico e la sua titolarità. La Legge penale sanzionerà gli attentati contro questo patrimonio ». La dottrina costituzionale riconosce come ragione dell’inclusione nella legge fondamentale di tale previsione la trasformazione intervenuta nel contenuto, nel significato e nella funzione delle carte fondamentali moderne, nelle quali diritti e libertà fondamentali, attraverso un mutamento concettuale e materiale, sono concepite come facoltà di esigere un’a(13) Sul tema si segnalano: VAELLO ESQUERDO, La defensa del Patrimonio HistóricoArtístico y el Derecho Penal, in Derecho y proceso: Estudios jurídicos en honor del Prof. Martínez Bernal, Murcia, 1980; FERNÁNDEZ ALBOR, El Patrimonio artístico y su protección penal, in Estudios penales. Libro Homenaje al Prof. Antón Oneca, Salamanca, 1982; ORTS BERENGUER, Exportación sin autorización de obras y objetos de interés histórico o artístico, in Comentarios a la Legislación Pénal, III, Madrid, 1984; MUÑOZ CONDE, El tráfico ilegal de obras de arte, in Estudios penales y criminológicos, num. XVI, Universidad de Santiago de Compostela, 1993. Fondamentali, ultimamente, PÉREZ ALONSO, in OROZCO PARDO-PÉREZ ALONSO, La tutela civil y penal del Patrimonio histórico, cultural o artístico, Madrid, 1996 e SALINERO ALONSO, La protección del Patrimonio Histórico en el Código Penal de 1995, Barcelona, 1997. Dalla prospettiva del diritto amministrativo, BARRERO RODRÍGUEZ, La ordenación jurídica del Patrimonio histórico, Madrid, 1990 e ALONSO IBAÑEZ, El Patrimonio histórico. Destino público y valor cultural, Madrid, 1992.
— 509 — zione positiva e dinamica dei pubblici poteri. Il mutamento concettuale è dovuto alla crisi dello Stato liberale e dunque al superamento della funzione di sussidiarietà assegnata in tale tipo di Stato all’intervento dei pubblici poteri (14). Nel nuovo modello di Stato sociale la tutela dei beni culturali viene ritenuta comportare i seguenti effetti: a) costituzionalizzazione della protezione di essi; b) sottomissione della proprietà privata alla protezione dei beni culturali (15); c) sostituzione delle vecchie tecniche amministrative di intervento (di polizia soprattutto) con nuove politiche attive; d) ampliamento della nozione di beni culturali; e) collegamento della normativa di tutela con settori affini, come quello urbanistico e ambientale. La nozione di ‘‘patrimonio histórico, cultural y artístico’’ viene ritenuta comprensiva di un aspetto materiale e di uno ideale. Non è solo, inoltre, l’interesse culturale inerente le cose, che impone la protezione dei beni culturali ma anche la loro funzione di strumenti per l’accesso alla cultura. Infatti nel concetto di bene culturale si raggruppano in una categoria unitaria tutti quei beni che costituiscono testimonianza materiale di civiltà, beni perlopiù eterogenei, il cui comune denominatore è il riferimento alla storia della civiltà e l’accesso alla cultura che la loro conoscenza suppone (16). La nuova prospettiva in cui inserire la tutela dei beni culturali si chiarisce attraverso l’analisi di altre disposizioni costituzionali (17). In particolare viene in rilievo la norma dell’art. 44, la quale afferma: « I poteri pubblici promuoveranno e tuteleranno l’accesso alla cultura, al quale tutti hanno diritto. I poteri pubblici promuoveranno la scienza e la ricerca scientifica e tecnica a beneficio dell’interesse generale ». Scopo di tale norma è riconoscere in maniera chiara, concreta e precisa il diritto di tutti i cittadini a partecipare alla vita ed alla politica culturale, a conoscerla ed ad usufruire di essa. Solo attraverso la garanzia della possibilità di accesso alla vita culturale viene ritenuto possibile parlare di ‘‘Estado de Cultura’’. Un’altra disposizione costituzionale che conferma il carattere dinamico attribuito alle libertà ed ai diritti fondamentali nella nuova Costituzione Spagnola è contenuta nell’art. 45, che così reca: « Tutti hanno diritto di avere un ambiente adeguato per lo sviluppo della persona, così come hanno il dovere di conservarlo. I poteri pubblici vigileranno sull’utilizzazione razionale di tutte le risorse naturali, al fine di proteggere e migliorare la qualità della vita e difendere e restaurare l’ambiente, appoggiandosi all’indispensabile solidarietà collettiva. (14) Sul tema, GARCÍA FERNÁNDES, Presupuestos jurídico-constitucionales de la legislación sobre el Patrimonio Histórico, in Revista de Derecho Político, 1988, pp. 190-191. (15) La dottrina spagnola pone un collegamento tra la funzione sociale della proprietà e la tutela del patrimonio storico, culturale ed artistico spagnolo. La funzione sociale costituzionale della proprietà in ordine ai beni integranti il patrimonio storico, culturale e artistico si sostanzia nel rendere tali beni accessibili a tutti i cittadini e nell’offrire la possibilità di usufruirne, in quanto patrimonio comune. L’accento in ordine alla tutela è pertanto da porre non sui titolari, pubblici o privati, ma in funzione dei suoi beneficiari, cioè la collettività nel suo insieme. Sul tema, OROZCO PARDO, in OROZCO PARDO-PÉREZ ALONSO, La tutela civil y penal del Patrimonio histórico, cultural o artístico, cit., p. 25 ss. (16) Il patrimonio storico spagnolo deve dunque essere considerato uno strumento di promozione culturale: così ALONSO IBAÑEZ, El Patrimonio Histórico. Destino público y valor cultural, Madrid, 1992, p. 56 ss. Sul tema BARRERO RODRÍGUEZ, La ordenación jurídica del Patrimonio Histórico, Madrid, 1990, p. 170. (17) Osserva ROLLA, Bienes culturales y Constitución, in Revista del Centro de Estudios Constitucionales, 1989, p. 167, che la costituzionalizzazione della promozione e protezione pubblica della cultura e degli strumenti per la sua realizzazione, determina un cambio linguistico da ‘‘cosas de interés artístico o histórico’’ a ‘‘bienes culturales’’.
— 510 — Per coloro i quali violino le disposizioni precedenti, nei termini fissati dalla legge si stabiliranno sanzioni penali, o nel caso, amministrative, così come l’obbligazione di riparare il danno causato ». Anche nel sistema spagnolo si ripropone la questione del rapporto tra beni culturali e ambiente, ed anche in questo paese si contrappongono due concetti, uno più ristretto ed uno più ampio, che comprende l’unione di elementi naturali e/o culturali che determinano le condizioni di vita degli uomini ed il contorno nel quale si sviluppano e dispiegano le attività. La nozione più ampia pare giustificata dal collegamento che la norma costituzionale pone tra l’ambiente e lo sviluppo della persona e la qualità della vita, cosicché ambiente adeguato per lo sviluppo della persona dovrebbe ritenersi non solo quello naturale tradizionale ma quello che soddisfi le necessità artistiche, estetiche e culturali dell’individuo (18). L’affermazione però dell’ampliamento costituzionale della nozione di ambiente e dell’incorporazione del patrimonio culturale, non viene ritenuta significare anche che tutti i beni integranti il patrimonio culturale formino parte dell’ambiente né che di tutti i beni ambientali possa affermarsi il carattere culturale: tutto ciò è infatti smentito dalla legislazione che, come vedremo, in vario modo separa e talvolta armonizza la tutela delle varie componenti (19). In ordine alle competenze, l’art. 149 Cost. assegna allo Stato competenza esclusiva in tema di difesa del patrimonio culturale, artistico e monumentale spagnolo, senza pregiudicare la gestione di tale patrimonio da parte delle comunità autonome. La Corte costituzionale spagnola (Tribunal Constitucional) è stata investita della decisione di numerosi ricorsi sulla distribuzione di competenza tra amministrazione centrale e locale in tema di cultura (20). A tal proposito, la sentenza del Tribunal Constitucional 31 gennaio 1991, n. 17 ha portato al Real Decreto 21 gennaio 1994, n. 64, il quale conferisce ampie attribuzioni alle Comunidades Autónomas ed espressamente afferma che le potestà dell’amministrazione centrale dello Stato si esercitano solo nel caso in cui le Comunidades Autónomas non adottino misure sufficienti ad evitare la expoliación del patrimonio storico spagnolo (principio de intervención mínima). 1.3. La Ley de 25 de Junio de 1985 n. 16 (Código del Patrimonio Cultural). — La l. 25 giugno 1985, n. 16 ha inteso dare attuazione all’esigenza costituzionalmente sancita di tutela del patrimonio culturale spagnolo. Essa costituisce una sorta di testo unico che riunisce ed innova la legislazione precedente in materia (21). Tale legge definisce nel preambolo il patrimonio storico spagnolo come « la principale (18) SALINERO ALONSO, La protección del Patrimonio Histórico en el Código Penal de 1995, cit., p. 36. Nello stesso senso, GARCIA DE ENTERRIA, Consideraciones en torno a una nueva legislación del patrimonio artístico, histórico y cultural, in Revista de Derecho Administrativo, 1983, p. 581. Analizzando sistematicamente le norme costituzionali, assume rilievo anche la disposizione dell’art. 47, la quale dispone che: « Tutti gli spagnoli hanno diritto a condizioni di vita degne ed adeguate. I poteri pubblici promuoveranno le condizioni necessarie e stabiliranno le norme pertinenti per rendere effettivo questo diritto, regolando l’utilizzazione del suolo in accordo con l’interesse generale per impedire la speculazione. La comunidad parteciperà alle plusvalenze che genera l’azione urbanistica degli enti pubblici ». (19) SALINERO ALONSO, op. cit., p. 37 e dottrina ivi citata. (20) Particolarmente problematiche le disposizioni della l. n. 13/1985 in tema di prelazione sui beni di interesse storico, la quale è attribuita allo Stato, con ciò invadendo, secondo le Comunidades Autónomas, le proprie sfere di competenza. (21) Su tale legge, tra i numerosi contributi, fondamentale ALEGRE AVILA, Evolución y régimen jurídico del patrimonio histórico (La configuración dogmática de la propíedad histórica en la Ley 16/1985, de 25 de junio del Patrimonio Histórico Español), Ministerio de Cultura, Madrid, 1994.
— 511 — testimonianza del contributo storico degli spagnoli alla civiltà universale e della loro capacità creativa contemporanea ». Aggiunge poi che « La protezione e l’arricchimento dei beni che lo compongono costituiscono doveri fondamentali e vincolanti per tutti i pubblici poteri, in base al mandato ad essi rivolto dall’art. 46 della norma costituzionale ». Nell’art. 1 comma 1 determina l’obiettivo della legge nella « promozione, accrescimento e trasmissione alle generazioni future del patrimonio storico spagnolo ». Al comma 2 considera integranti il patrimonio storico spagnolo gli immobili e gli oggetti mobili di interesse artistico, storico, paleontologico, archeologico, etnografico, scientifico o tecnico. Definisce poi parti del medesimo anche il patrimonio documentale e bibliografico, i giacimenti e le zone archeologiche, così come i siti naturali, giardini e parchi, che abbiano valore artistico, storico o antropologico. Le note fondamentali della l. n. 16/1985 sono così descritte (22): 1) ampia formulazione del concetto di patrimonio storico spagnolo, come definito nell’art. 1; 2) determinazione di distinte categorie e ordini di protezione: da questo punto di vista il regime di massima protezione corrisponde ai cosiddetti ‘‘Bienes de Interés Cultural’’, beni mobili ed immobili che costituiscono la categoria più importante e nuova nella legge, ed in ordine ai quali si prescrive una dichiarazione formale, ancora non possibile per le opere di autori viventi, salvo che esista autorizzazione espressa del suo proprietario o l’opera sia stata acquisita dall’amministrazione; norme meno rigide sono volte a tutelare i beni mobili inseriti nell’Inventario General, in virtù della loro ‘‘singular relevancia’’, tuttavia non dichiarati appartenere alla categoria precedente; una terza categoria è residuale e contiene i beni non forniti della rilevanza assegnata alle due categorie precedenti ma che tuttavia rivestono importanza sotto i profili indicati nell’art. 1 comma 2; infine un regime speciale è previsto per i beni integranti il patrimonio archeologico e per quelli componenti il patrimonio documentale e bibliografico (23); 3) rinvio (e raccomandazione), per la protezione dei siti storici, dei complessi storici e delle zone archeologiche, alle disposizioni urbanistiche e di pianificazione degli interventi sul territorio; 4) determinazione delle tecniche di intervento amministrativo. Essenziali in tale ambito le misure cautelari per evitare che beni culturali non dichiarati di interesse culturale né inventariati ma in possesso dei requisiti per ottenere tali riconoscimenti, possano essere distrutti o posti in pericolo; 5) partecipazione popolare alla tutela del patrimonio culturale attraverso la previsione di doveri di denuncia e di azioni popolari; (22) SALINERO ALONSO, op. cit., pp. 69-73. (23) Il grado di tutela più intenso spetta naturalmente ai beni della prima categoria. Gli effetti della dichiarazione di interesse culturale sono per i beni mobili l’iscrizione del bene in un registro generale, la proibizione assoluta della sua esportazione, restrizioni in ordine al suo commercio all’interno del paese, obbligo di permettere l’accesso a tali beni, doveri di conservazione e cautele nell’utilizzazione, la cui violazione può comportare come massima sanzione l’espropriazione forzata del bene. Simili effetti, compatibilmente con la natura del bene, sono previsti per i beni immobili. In particolare si prevede una fitta rete di autorizzazioni per gli atti da compiere in ordine ai beni. Per i beni di interesse storico, artistico, archeologico, ecc. non dichiarati tali formalmente sono previste una serie di disposizioni di tutela, tra le quali si segnalano: quella dell’art. 5, comma 2, che prescrive un’autorizzazione espressa per la loro espropriazione ed introduce quale criterio presuntivo di appartenenza al patrimonio storico la loro antichità (cento anni); le disposizioni degli artt. 25 e 37 che danno facoltà all’amministrazione di intervenire sospendendo per un termine di sei mesi le opere di demolizione di immobili o quelle che comportino il mutamento di uso di essi; infine la norma generica dell’art. 36, comma 1, relativa a beni mobili ed immobili, che stabilisce che tutti i beni integranti il patrimonio storico spagnolo devono essere conservati, curati e custoditi dai rispettivi proprietari, titolari di altri diritti reali o possessori. Definisce tale ultima norma « una novità nella legislazione spagnola, nel segno del diritto comparato », ALONSO IBAÑEZ, op. cit., p. 266.
— 512 — 6) infine riconferma della distribuzione di competenze costituzionalmente fissata: in particolare l’art. 2 conferisce all’Administración Central del Estado il compito di garantire la conservazione dei beni culturali, promuoverne il riconoscimento e favorire e tutelare l’accesso dei cittadini ad essi; sempre allo Stato è attribuita la competenza in tema di protezione dall’esportazione illecita e di expoliación (24). Residua alle Comunidades Autónomas un compito di cooperazione, iniziativa ed impulso alle attribuzioni statali, e, per esclusione, la potestà legislativa nelle materie su cui non si esercitano i poteri statali. 1.4. L’oggetto di protezione: « bienes de valor histórico, cultural o artístico ». — Il tema dell’oggetto di protezione viene affrontato dalla dottrina spagnola nel più generale ambito della scelta delle tecniche legali di definizione e del rispetto del principio di legalità. Viene ritenuto essenziale premettere, prima di ogni approfondimento, che il centro di gravità del regime giuridico del patrimonio storico spagnolo risiede nel valore culturale, in quanto nota di civiltà, insito nei beni che lo integrano e le cui manifestazioni si incontrano nel carattere artistico, storico, ecc.; ciò che qualifica questo patrimonio non è solo l’apprezzamento che possano meritare gli oggetti materiali che lo integrano, ma anche e soprattutto la funzione che essi svolgono come strumento di promozione culturale, di « fruición colectiva » (25). Premesso ciò, ed avendo ben presente la distinzione posta nella dottrina italiana tra patrimonio storico-artistico dichiarato, patrimonio storico-artistico reale e patrimonio storicoartistico presunto (26), il problema dell’oggetto di tutela viene affrontato sotto il profilo dei differenti sistemi e delle varie tecniche legali per formulare le fattispecie penali che tutelano il patrimonio storico e per definire l’oggetto di protezione (27). Un primo possibile sistema di individuazione dell’oggetto di tutela è quello casistico, che si caratterizza per l’impiego di regole precise in ordine alle condotte proibite ed alla determinazione della pena e per l’utilizzo di concetti formali per definire l’oggetto di tutela (inserimento in registri, dichiarazione formale, antichità, ecc.). Il valore storico, culturale o artistico assume la veste di ‘‘elemento normativo ya valorado legalmente’’, cioè di elemento legalmente descritto nell’attuale legge sul patrimonio storico spagnolo del 1985. Nella versione più rigida della tesi, e con riferimento specifico all’aggravante, come vedremo, del furto, si sostiene che solo quei beni rispetto ai quali il titolare sia tenuto a particolari doveri costituiscono oggetto materiale del delitto di furto (28). Tale sistema, minoritario nella dottrina spagnola, presenterebbe il vantaggio dell’assoluto rispetto del principio di legalità, ma porterebbe diversi effetti negativi: in primo luogo ridurrebbe al massimo l’elaborazione giudiziale; in secondo luogo la legge penale non avrebbe nessun compito autonomo ma servirebbe solo come rafforzamento della protezione amministrativa dei beni; infine l’utilizzo di un concetto formale per l’individuazione dell’oggetto tutelato potrebbe portare a lacune legali ed all’impiego del procedimento analogico. Un secondo sistema, accolto dalla maggioranza della dottrina, è quello ‘‘generalizzatore’’, che si caratterizza per l’impiego di una formula indeterminata e flessibile per la descri(24) La nozione di ‘‘expoliación’’ è così precisata dall’art. 4: « ogni azione ed omissione che ponga in pericolo di perdita o di distruzione tutti o alcuni dei valori che integrano il patrimonio storico spagnolo, o turbi il compimento della sua funzione sociale ». (25) SALINERO ALONSO, op. cit., 78. (26) Fondamentalmente MANTOVANI, Lineamenti della tutela penale del patrimonio artistico, cit., p. 64 ss. e PALAZZO, La nozione di cosa d’arte in rapporto al principio di determinatezza della fattispecie penale, in La tutela penale del patrimonio artistico. Atti del sesto Simposio di studi di diritto e procedura penale (Como, 25-26 ottobre 1975), Milano, 1977, p. 232 ss. (27) PÉREZ ALONSO, op. cit., p. 147 ss. (28) BAJO FERNÁNDEZ-PÉREZ MANZANO-GONZÁLES SUÁREZ, Manual de Derecho Penal. Parte especial (Delitos patrimoniales y económicos), Madrid, 1993, pp. 90-91.
— 513 — zione dei presupposti tipici. La definizione dell’oggetto protetto avviene mediante un concetto materiale o autonomo, basato sul valore intrinseco dei beni: si tratta di un ‘‘concepto normativo pendente de valoración’’. Si parla pertanto di beni culturali ‘‘por naturaleza’’. Il sistema generalizador viene giudicato contenere un serio inconveniente, che coincide con quello che si ritiene il principale vantaggio della tecnica precedente: suppone un chiaro attentato al principio di legalità, al « mandato de determinación », che non consente la sua utilizzazione, perlomeno in modo esclusivo. Con questo metodo si assegna il ruolo di protagonista all’elaborazione giudiziale, la legge penale riacquista tutto il suo vigore ed infine questo sistema si approssima a quella che dovrebbe essere l’idea di giustizia materiale per il caso concreto. Se l’obiettivo è, come deve essere, una protezione penale reale, efficace ed integrale, risulta evidente che la norma penale non può essere interpretata esclusivamente in chiave amministrativa (29). L’ultimo possibile sistema è quello intermedio o misto, che tende a combinare gli aspetti positivi del sistema casistico e di quello ‘‘generalizzatore’’. Esso si caratterizza per una definizione relativamente determinata dei contorni penali e per una descrizione relativamente elastica degli elementi tipici. L’oggetto tutelato viene identificato mediante una combinazione di aspetti formali (requisiti amministrativi) e materiali (caratteri intrinseci del bene). Con questo sistema è frequente l’uso di elementi normativi, che vengono valutati dal giudice tenendo conto dei criteri fissati nella legislazione amministrativa di tutela. Il sistema spagnolo viene ritenuto non classificabile a pieno titolo in nessuno di questi descritti, poiché le norme sono state introdotte in tempi diversi, nei quali dunque imperavano concezioni politico-legislative e politico-criminali differenti. Esso ha abbandonato con la legge fondamentale del 1985 il tradizionale sistema della dichiarazione formale e pare oggi rispondere, perlomeno in linea tendenziale, alle direttrici della tecnica legislativa esemplificatrice o mista, in quanto le fattispecie non descrivono in forma precisa e particolareggiata i propri elementi, né usano clausole assolutamente indeterminate (30). Pur con approssimazione, si ritiene che nel sistema spagnolo possano dirsi presenti circostanze o casi esemplari « obbligatori, ma non decisivi ». I presupposti tipici cioè hanno carattere obbligatorio, nel senso che in caso di realizzazione sono di immediata applicazione da parte del giudice e, inoltre, appaiono descritti legalmente in forma non decisiva (no terminante), per cui si tratta di elementi normativi che necessitano di valutazione giudiziale (31). La possibile violazione del ‘‘mandato de determinación’’ viene ritenuta inserirsi in un quadro normativo in cui le leggi penali devono necessariamente avere un certo grado di generalizzazione, per potere regolare la pluralità di fatti che si verificano nella vita reale. Le fattispecie penali sono formulate attraverso un processo di astrazione che prende come punto di partenza i fatti verificatisi nella realtà sociale: in questo modo si vuole conseguire un maggiore avvicinamento all’idea di giustizia materiale, contemperando la rigidità della legge generale con una considerazione individuale ed evitando così l’esistenza di lacune legali, vale a dire che fatti simili a quelli previsti legalmente rimangano impuniti. Inoltre in questo modo si arriva ad un trattamento uguale per casi della medesima gravità. Date queste osservazioni, si ritiene necessario (29) Così VIVES ANTÓN, Derecho Penal. Parte especial, Valencia, 1993, p. 806. Secondo l’Autore « l’interesse collettivo al quale la norma penale intende dare tutela, non aumenta né diminuisce per il fatto che il bene di cui si tratta sia stato o meno inventariato ». (30) Sul tema SALINERO ALONSO, op. cit., p. 93 e PÉREZ ALONSO, op. cit., p. 152 ss. (31) PÉREZ ALONSO, op. cit., p. 153. Osserva SALINERO ALONSO, op. cit., pp. 78-79, che si tratta di concetti « mutables, flexibles y elásticos », suscettibili di diversi punti di vista e interpretazioni a seconda del tempo e luogo in cui si presentino. Pertanto è necessaria un’attenta opera ermeneutica da parte del giudice con l’ausilio di specialisti della materia. Sotto un profilo generale, l’Autrice avverte che la legge del 1985 sul patrimonio storico spagnolo, nell’enumerare i diversi interessi che formano parte del concetto di patrimonio storico spagnolo non cita mai il termine « cultural », con ciò confermando la tesi secondo cui il « valor cultural » è il genere e che le distinte manifestazioni — artistica, storica, archeologica — sono la specie.
— 514 — un apporto combinato di generalizzazione e differenziazione, il quale risponde a quella che viene definita l’attuale realtà legislativa: « generalidad de la ley y necesidad de concreción judicial » (32). Con riferimento specifico alla formula impiegata dal legislatore spagnolo per descrivere l’oggetto di tutela nel settore del patrimonio culturale, si conclude che essa, pur migliorabile, è adeguata e non contraria all’esigenza di certezza che deriva dal principio di legalità (33). 1.5. La scelta del sistema sanzionatorio. L’obbligo costituzionale di tutela penale. — Come più volte osservato, la scelta del sistema sanzionatorio nell’ordinamento spagnolo è dettata dall’art. 46 della Costituzione, che fissa un obbligo di tutela penale: « La ley penal sancionará los atentados contra este Patrimonio ». La disposizione citata riveste carattere eccezionale, non solo nell’ordinamento costituzionale spagnolo, ma anche in una visione di diritto costituzionale comparato (34). Nella dottrina spagnola questa constatazione ha portato a dubitare della necessità di tale espressa scelta di tutela. Non è stata solo l’eccezionalità a motivare le critiche, ma anche e soprattutto l’assunto secondo il quale è indubitabile che la Costituzione consacra una serie di diritti e libertà la cui violazione è sanzionata penalmente, senza necessità di ricorrere ad una previsione espressa (35). Da altra parte della dottrina si ribatte che la previsione costituzionale ha voluto confermare l’elevato rango costituzionale degli interessi collettivi, il cui inquadramento giuridico si andava negli anni dell’emanazione della Costituzione (1978) sviluppando: di fronte al rischio che venissero posti a margine della tutela, si è preferito affermarne ecce(32) Così PÉREZ ALONSO, op. cit., p. 157. Sul tema in generale, MIR PUIG, Introducción a las bases del Derecho Penal, Barcelona, 1976, p. 146; CEREZO MIR, Curso de Derecho Penal español. Parte General. I. Introducción. Teoría jurídica del delito/I, Madrid, 1985, p. 168; BACIGALUPO, Principios de Derecho Penal. Parte General, Madrid, 1990, p. 137. Le giustificazioni per il passaggio ad un sistema di libera valutazione da parte del giudice vengono da SALINERO ALONSO, op. cit., 190 ss. così esposte: a) la Costituzione non pone alcun limite di tutela: anzi espressamente afferma la necessità di prescindere dal regime giuridico dei beni e dalla loro titolarità; b) dall’art. 1 della legge fondamentale del 1985 si può dedurre che in via di principio fanno parte del patrimonio storico spagnolo tutti quei beni che abbiano una delle qualità menzionate, senza necessità di alcun previo atto amministrativo, e che solo quando si tratti di beni di speciale rilevanza ed ai fini di una maggiore tutela, è necessaria una previa dichiarazione amministrativa; c) la sentenza del Tribunal Supremo del 6 giugno 1988 ha affermato che il mandato costituzionale di tutela penale si estende a tutti i beni che per se siano forniti del valore culturale, quale che sia la situazione giuridica degli stessi ed indipendentemente dall’appartenenza pubblica o privata; d) ultimo argomento a favore della tesi sostenuta si ritrova nel codice penale del 1995: infatti l’espressa esigenza di una previa dichiarazione formale nel delitto di malversazione, dimostra che quando il legislatore ha voluto richiedere la previa dichiarazione lo ha fatto in modo espresso, e che pertanto, deducendo a contrariis, deve intendersi che in tutti gli altri casi (furto, danneggiamento, ecc.) se ha optato per non citarla è perché essa non è necessaria. (33) PÉREZ ALONSO, op. cit., p. 158. L’Autore aggiunge che ciò che è realmente importante è stabilire quali beni hanno effettivamente valore storico, culturale o artistico, per ricevere tutela penale. (34) Anche nell’art. 45, a proposito della tutela dell’ambiente, è contenuta la previsione di una scelta sanzionatoria in senso penale, ma è prevista altresì la possibilità di sanzioni amministrative e della riparazione del danno. Tale norma, oltre a confermare che i casi eccezionali di previsione espressa del tipo di tutela riguardano interessi collettivi, offre una base costituzionale al ‘‘principio de intervención mínima’’ ed all’assunto del carattere frammentario del diritto penale. (35) VAELLO ESQUERDO, La defensa del Patrimonio Histórico-Artístico y el Derecho Penal, cit., pp. 697-698. L’Autore definisce la previsione costituzionale come « precipitada y extravagante ». Nello stesso senso GONZÁLES RUS, Puntos de partida de la protección penal del patrimonio histórico, cultural y artístico, in ADPCP, 1995, fasc. 1, 35.
— 515 — zionalmente la rilevanza e l’esigenza di particolare tutela (36). Non completamente fondata neppure l’asserzione che la previsione costituzionale rappresenti un’elusione del ‘‘principio de intervención mínima’’ (37). Viene ritenuto indiscutibile che il diritto penale, per il suo carattere frammentario, debba intervenire nei confronti degli attacchi maggiormente intollerabili dei valori e dei beni fondamentali dell’ordine sociale; nello stesso tempo deve riconoscersi che il patrimonio storico, culturale ed artistico rappresenta uno dei valori fondamentali dell’ordine sociale, un diritto (dei cittadini)-dovere (dei pubblici poteri) di carattere sociale: pertanto anche per questo valore si richiede una protezione penale frammentaria, così come prevista nell’attuale legislazione, di fronte agli attacchi più gravi. L’invocazione del ‘‘principio de intervención mínima’’ potrebbe anzi nascondere un secondo fine: potrebbe cioè servire da alibi per continuare ad attribuire al diritto penale una funzione conservatrice di beni giuridici individuali classici anziché, come richiesto dal carattere sociale dell’attuale ‘‘Estado de Derecho’’, una funzione promozionale di beni giuridici collettivi (38). Date queste considerazioni, si può concludere che seppure il costituente spagnolo ha optato da un punto di vista politico-criminale per la via penale, questo non significa che ogni azione lesiva o pericolosa per il patrimonio culturale debba essere sanzionata penalmente: solo quelle maggiormente dannose o pericolose per il bene tutelato rileveranno dal punto di vista penale. Prima dell’intervento penale, e nel rispetto della sua sussidiarietà, verranno in considerazione altri strumenti di controllo sociale: primaria esigenza sarà lo sviluppo di una politica rivolta a rendere cosciente la società dell’importanza e ‘‘trascendenza’’ dei beni culturali per la migliore formazione culturale dei suoi membri. Solo quando tale politica di educazione, sensibilizzazione e prevenzione fallisca il suo scopo interverranno i mezzi repressivi a disposizione dello Stato, con una gradualità di interventi che parte dall’utilizzo di tecniche amministrative di vigilanza, controllo e polizia, per finire quale ultima ratio al diritto penale. A tale gradualità di intervento si attiene la legge fondamentale del 1985, prevedendo una serie di sanzioni amministrative per la violazione degli obblighi da essa imposti, salva però l’eventuale responsabilità penale che possa derivare da tali azioni (39). 1.6. Gli illeciti sanzionati amministrativamente. — Nel titolo IX della legge sul patrimonio storico del 1985, dopo il rinvio che l’art. 75 effettua alla legislazione speciale in tema di esportazione illegale dei beni del patrimonio storico (40), si prevedono nell’art. 76 una serie di infrazioni sanzionate amministrativamente, salva la possibile rilevanza penale. La fatti(36) PÉREZ ALONSO, op. cit., p. 133. (37) Su tale principio nella dottrina spagnola, MUÑOZ CONDE, Introducción al Derecho penal, Barcelona, 1975, p. 59 ss.; MIR PUIG, Sobre el principio de intervención mínima del Derecho penal en la reforma penal, in Derecho penal en el Estado social y democrático de Derecho, Barcelona, 1994. (38) PÉREZ ALONSO, op. cit., pp. 133-134. L’Autore, in risposta alla critica secondo la quale il diritto comparato non conosce esempi come quello spagnolo di previsione espressa della scelta sanzionatoria in senso penale (nota 113), osserva in prospettiva opposta che l’ ‘‘eccentricità’’ potrebbe rappresentare un pregio e non un difetto e che pertanto la previsione dell’art. 46 della Costituzione spagnola si caratterizzerebbe come « progresista y anticipadora » rispetto ad altre legislazioni, senza escludere che possa servire da esempio per altre legislazioni. (39) SALINERO ALONSO, op. cit., p. 134. (40) L’art. 75, in tema di esportazione illegale dei beni del patrimonio storico, afferma: « L’esportazione di un bene mobile integrante il Patrimonio Storico Spagnolo che si realizzi senza l’autorizzazione prevista nell’art. 5 di questa legge costituirà delitto, o se del caso, infrazione di contrabbando, in conformità con la legislazione in questa materia. Saranno responsabili solidarmente dell’infrazione o delitto commesso quanti siano intervenuti nell’esportazione del bene e coloro i quali, attraverso azioni od omissioni, dolose o negligenti, l’abbiano facilitata o resa possibile ».
— 516 — specie comprende una serie di violazioni di obblighi imposti dalla legge ai titolari, proprietari o possessori, dei beni tutelati. Secondo una scala di gravità, le infrazioni, assai eterogenee, vengono raggruppate in faltas (‘‘mancanze’’) lievi, gravi e molto gravi (41). Le infrazioni di minore importanza, previste nelle lett. a) e b) del n. 1 dell’art. 75 consistono nella violazione o mancato adempimento di obblighi imposti dalla stessa legge del 1985 ai titolari, proprietari o possessori, dei beni e pur nella loro eterogeneità recano come carattere comune il riferimento ad un’esigenza di conservazione. Esse si sostanziano, per esempio, con riferimento generale ai beni integranti il patrimonio storico, nell’inadempimento dei doveri di conservazione, mantenimento e custodia assegnati ai titolari dei beni e nel non permettere l’esame di beni mobili che potrebbero accedere all’Inventario General; in relazione a beni dichiarati di interesse culturale o inventariati, e sempre a titolo esemplificativo, nel non consentirne l’ispezione, studio o visita pubblica gratuita e nel non comunicare all’autorità competente la trasmissione per atto tra vivi o mortis causa di un bene incluso nell’Inventario General; infine con riferimento ai beni archeologici viene sanzionata amministrativamente la mancata comunicazione da parte degli scopritori del ritrovamento di beni archeologici. Quelle che vengono definite faltas graves, previste nelle lett. c), d), e) ed f) del n. 1 dell’art. 76, riguardano il rilascio di licenze e la realizzazione di opere e di scavi o prospezioni archeologiche senza la previa autorizzazione. Infine faltas muy graves sono rappresentate dalla distruzione del bene culturale o dalla sua illecita esportazione (lett. g), h), i) e j) del n. 1 dell’art. 76). In ordine alle sanzioni, l’art. 76, comma 2 prevede che in caso di valutabilità economica del danno causato la sanzione consista in una multa fino al quadruplo di esso, mentre nel caso tale valutazione non sia possibile la multa, secondo la scala di gravità segnalata, andrà dai 10.000.000 ai 100.000.000 di pesetas. 1.7. Illecito penale ed illecito amministrativo nell’ordinamento giuridico spagnolo. — La descrizione appena fatta delle sanzioni amministrative previste per la violazione degli obblighi imposti dalla legge fondamentale del 1985 rende necessario chiarire la distinzione tra illecito amministrativo ed illecito penale nell’ordinamento spagnolo. Il dibattito dottrinale è concentrato anche in Spagna sul carattere quantitativo o qualitativo della distinzione (42). La prima ipotesi, maggioritaria, afferma l’identità ontologica di illecito penale ed illecito amministrativo, e fonda la distinzione sulla gravità del fatto. La seconda ipotesi ravvisa una differenza qualitativa tra i due tipi di illecito, in quanto diversi sono ritenuti gli oggetti tutelati, distinta è la funzione ed il fondamento di entrambi gli ordinamenti, e pertanto distinti sono presupposti e conseguenze. La questione non viene ritenuta puramente accademica, ma porta con sé importanti conseguenze pratiche. I punti di emersione del problema sono il continuo aumento dei poteri sanzionatori delle amministrazioni pubbliche, la possibile mancanza di garanzie per i cittadini e la crisi del sistema penale (43). L’asserita identità ontologica tra illecito amministrativo ed illecito penale consente di estendere i principi tradizionalmente propri del diritto pe(41) Così SALINERO ALONSO, op. cit., pp. 136-139. (42) CEREZO MIR, Limites entre Derecho penal y Derecho administrativo, in Anuario de Derecho penal y Ciencias penales (ADPCP), 1985, n. 28. Osserva MIR PUIG, Derecho Penal. Parte general, Barcelona, 1998, p. 6, che de lege lata l’unico punto fermo è che le sanzioni amministrative si distinguono dalle pene in ragione dell’organo deputato ad applicarle: se la sanzione è inflitta da un organo dell’Administración Pública, p.es. Alcalde, Subdelegado del Gobierno o Ministro, saremo di fronte ad una sanzione amministrativa, mentre invece si tratterà di una pena se questa è inflitta da un Juez o da un Tribunal judicial con una condanna penale. (43) PARADA VÁSQUEZ, El poder sancionador de la Administración y la crisis del sistema judicial Penal, in RAP, 1972, n. 67, pp. 41-42.
— 517 — nale (legalità, irretroattività, colpevolezza, ecc.) e le garanzie del processo penale anche al procedimento amministrativo di irrogazione della sanzione. In questo senso si pone la l. 26 novembre 1992, n. 30, la quale non è una organica legge sull’illecito amministrativo come quelle esistenti in Italia e Germania, ma contiene le disposizioni generali sul regime giuridico delle amministrazioni pubbliche e sul procedimento amministrativo comune: in tale contesto, il titolo IX, « De la Potestad Sancionadora », fissa quali principi guida del potere repressivo dell’amministrazione quelli di legalità (art. 127), di irretroattività (art. 128), di tipicità (art. 129), di responsabilità (art. 130), di proporzionalità (art. 131), di prescrizione (art. 132) e di non bis in idem (art. 133). Coloro i quali sostengono la differenza qualitativa tra i due tipi di illecito pongono in luce, sempre sotto un profilo pratico, quelli che sarebbero i pregi del procedimento amministrativo, rappresentati dalla sua flessibilità, rapidità ed effettività, a fronte dell’inadeguatezza dell’attuale sistema penale, caratterizzato da lentezza, rigidità e da due opposti rischi, cioè da un lato la scarsa effettività delle sanzioni e dall’altro il possibile eccessivo rigore ed il contenuto sociale infamante (44). Indipendentemente dall’analisi dei risvolti pratici, derivanti anche in Spagna dal cattivo funzionamento del sistema penale, la tesi della distinzione quantitativa prevale per la mancata prova, in Spagna come in Germania ed in Italia, della differenza ontologica degli elementi costitutivi dei due tipi di illecito. L’identità ontologica appare confermata dal trattamento unitario contenuto nell’art. 25 della Costituzione del 1978, il quale contiene (al comma 3) una sola limitazione al potere sanzionatorio dell’amministrazione, cioè l’impossibilità di irrogare sanzioni privative della libertà personale. Tale interpretazione è stata confermata dal Tribunal Constitucional che, nella sentenza n. 18 dell’8 giugno 1981, esplicitamente afferma: « I principi ispiratori dell’ordinamento penale sono da applicare, con certe gradazioni (matices), al diritto amministrativo sanzionatorio, dato che entrambi sono manifestazioni dell’ordinamento punitivo dello Stato ». L’affermazione dell’omogeneità tra illecito amministrativo ed illecito penale non viene però ritenuta necessariamente comportare l’eguaglianza, equiparazione o parità di rango degli interessi tutelati, conseguenza questa come subito vedremo particolarmente rilevante nel settore specificamente indagato, quello della tutela dei beni culturali. Vengono individuati due settori di esclusiva competenza dei due tipi di illecito. Per l’illecito penale il settore dei comportamenti lesivi o pericolosi per beni essenziali quali la vita, la libertà, l’integrità fisica, la proprietà, ecc.; per l’illecito amministrativo la gamma dei comportamenti riconducibili alla violazione di doveri interni all’amministrazione, ivi comprese le violazioni disciplinari. Vi è però un settore, quello che viene definito ‘‘línea fronteriza’’, in cui i beni tutelati sono sostanzialmente uguali e l’ascrizione del fatto al tipo penale o a quello amministrativo dipende dal concreto programma politico-criminale disegnato dal legislatore. Il legislatore deciderà ‘‘libre pero non caprichosamente’’, in quanto sarà guidato dai principi di intervención mínima e, quindi, di sussidiarietà e frammentarietà del diritto penale, ed opterà per la via penale solo quando la sanzione amministrativa si sia rivelata inefficace o quando si tratti degli attacchi più gravi al bene tutelato (45). Date queste premesse generali, e con riferimento specifico al campo che a noi interessa, esisteranno casi di coesistenza di illecito se i beni tutelati debbano ritenersi differenti (46). Così quando il proprietario di un edificio storico catalogato come bene di interesse culturale lo distrugge con intento speculativo, tale condotta sarà al medesimo tempo costitutiva di ille(44) GARCÍA DE ENTERRÍA, El problema jurídico de las sanciones administrativas, in Revista de Derecho Administrativo, 1976, p. 405. (45) SALINERO ALONSO, op. cit., p. 147 ss. (46) Con riferimento specifico al settore in esame, LESMES SERRANO, Derecho penal administrativo: (ordenación del territorio, Patrimonio Histórico y medio ambiente), Granada, 1997; AA.VV., Sanción penal y sanción administrativa en materia de ordenación del territorio, a cura di Terradillos Basoco, Sevilla, 1998.
— 518 — cito amministrativo (art. 36, comma 1, lett. g) della legge del 1985) e di illecito penale (artt. 319 o 289 del codice penale) solo se si riconosca quale bene tutelato dall’illecito amministrativo il sistema amministrativo di tutela dei beni, perché altrimenti si porrebbe un caso di bis in idem. Solo quando esista identità di oggetto tutelato si presenterà la necessità di scegliere la via penale o quella amministrativa in base al criterio quantitativo della gravità del fatto. Così in materia di contrabbando la l. 12 dicembre 1995, n. 12 considera l’esportazione senza autorizzazione di opere ed oggetti di interesse storico o artistico delitto o infrazione amministrativa a seconda che si varchi o no una soglia di valore dell’opera pari a tre milioni di pesetas. Questione intimamente connessa con il tema della distinzione tra illecito penale ed amministrativo, ed anzi da questo derivante, è quella, particolarmente approfondita nella dottrina spagnola, della vigenza o meno del principio del non bis in idem. Affermare infatti l’identità ontologica, qualitativa dei due tipi di illecito comporta la negazione della possibilità di punizione duplice per lo stesso fatto. Il principio del non bis in idem pur non riconosciuto costituzionalmente, nonostante che nei lavori preparatori ne fosse stata prevista l’inclusione espressa, viene ritenuto implicitamente vigente nell’ordinamento spagnolo in virtù del dettato dell’art. 25, comma 1, Cost. e intimamente legato ai principi di legalità e tipicità (47). Il principio è stato definito nella sua essenza e nei suoi contorni dalla giurisprudenza costituzionale. La sentenza del Tribunal Constitucional n. 2 del 30 gennaio 1981 ha innanzitutto vietato la duplicità di sanzioni rispetto ad uno stesso contenuto di illecito: l’applicazione del principio in esame comporta pertanto identità assoluta di fatto, soggetto attivo e fondamento rispetto ad entrambe le sanzioni e che non sussista rapporto di supremazia speciale da parte dell’amministrazione nei confronti dell’autore del fatto. Sempre il Tribunal Constitucional, in un’altra sentenza, la n. 77 del 3 ottobre 1983, oltre a considerare vietato alle amministrazioni pubbliche di stabilire norme dirette a sanzionare fatti costitutivi di delito o falta, per i quali indica come preferibile la via giudiziale, ha fissato i principi giurisdizionali in ordine ai rapporti tra i due procedimenti, affermando la vincolatività per l’amministrazione della ricostruzione del fatto effettuata dai tribunali e la precedenza della giurisdizione penale rispetto a quella amministrativa, la quale è assolutamente impedita dall’avvio del procedimento penale. L’impostazione segnalata trova applicazione nell’art. 76 della legge sul patrimonio storico spagnolo: esso, interpretato secondo la visione costituzionale accennata, nell’affermare che « salvo che siano costitutivi di delitto, i fatti di seguito menzionati costituiscono infrazioni amministrative... » intende confermare il principio che quando l’attentato al patrimonio storico ha rilevanza penale, il diritto amministrativo sanzionatorio cede il passo al diritto penale (48). 1.8. La necessità, derivante dalla disposizione costituzionale, di configurare il patrimonio storico, artistico e culturale quale bene giuridico autonomo. — Il riconoscimento costituzionale della necessità di tutela penale del patrimonio storico, artistico e culturale spagnolo ha portato la dottrina ad affrontare il conseguente tema della rilevanza autonoma di tale bene, e dunque della sua novità costituzionale, o della sua ricomprensione in altri valori già tutelati. Pertanto si discute se la Costituzione ratifichi con la sua previsione un interesse prepositivo elevandolo a bene giuridico o piuttosto affermi la necessità di tutela di un aspetto particolare di un bene avente carattere però patrimoniale (49). (47) ARROYO ZAPATERO, Principio de legalidad y reserva de Ley en materia penal, in Revista Española de Derecho Constitutional, 1983, n. 8. (48) Così SALINERO ALONSO, op. cit., p. 154. (49) SALINERO ALONSO, op. cit., p. 178 ss. La seconda ipotesi, quella cioè del carattere derivato della tutela, si inserisce nella tematica ampiamente trattata nella dottrina pubblicistica e civilistica spagnola dello statuto assegnato alla proprietà dalla Costituzione. La
— 519 — La disputa non è puramente accademica ma da essa deriva la possibile configurazione di due differenti sistemi di tutela dei beni culturali. Partire da posizioni meramente patrimonialistiche, che pongono in enfasi il pregiudizio economico-patrimoniale che deriva dagli attentati al patrimonio storico, artistico e culturale, significa dare luogo ad un sistema di tutela penale che (come in Italia da Mantovani) viene definita ‘‘indirecta’’, dove prevale il regime privatistico dei beni e l’interesse individuale rispetto a quello collettivo. La forma classica di tale tipo di tutela è la previsione di aggravanti per determinate fattispecie quando oggetto del reato sia un bene culturale. La critica che veniva e viene mossa a questa impostazione è di relegare sullo sfondo il patrimonio storico nazionale contraddicendo il dettato costituzionale, il quale afferma che i beni culturali rappresentano mezzi per l’accesso alla cultura e per lo sviluppo della personalità e dunque pone in rilievo l’interesse collettivo ad essi inerente (50). Il precedente sistema di tutela, ancora presente parzialmente nel vigente ordinamento post riforma, non rispetta dunque l’indirizzo costituzionale. Si afferma pertanto che « solo dalla considerazione del patrimonio culturale come bene giuridico indipendente ed autonomo potranno derivare precetti penali che soddisfino il mandato costituzionale » e che un sistema penale così disegnato « non solamente tenderà alla conservazione dei beni storici, ma anche ad assicurare la fruizione pubblica da parte della collettività, rendendo possibile l’accesso alla cultura e la partecipazione dell’individuo ai processi sociali e culturali di un sistema pluralista e democratico » (51). La funzione culturale si manifesta non solo in una prospettiva statica, ma soprattutto dinamica e tale funzione determina « la doble naturaleza, ideal-cultural y patrimonial-económica, del patrimonio histórico, cultural y artístico » (52), con ciò acuendo con riferimento ai beni culturali la distinzione tra oggetto materiale, quale realtà empirica (substrato real) e oggetto giuridico, quale substrato ideal valorado (53). Un sistema di tutela penale diretta e specifica dei beni culturali, il quale solo sarebbe pienamente rispettoso del dettato costituzionale, non risulta realizzato neanche con il nuovo codice penale del 1995: esso segna un importante innovazione con l’introduzione di un capitolo, il II del tit. XVI del libro II, intitolato « De los Delitos sobre el Patrimonio Histórico », ma l’innovazione non significa il superamento del tradizionale sistema di tutela indiretta, poiché le fattispecie contenute nel titolo non coprono certamente la gamma di possibili attentati al patrimonio culturale, la maggior parte dei quali continuano ad essere previsti come figure aggravate di reati comuni. Costituzione del 1978 ha segnato un profondo cambiamento nella concezione del diritto di proprietà. Il contenuto essenziale della propriedad constitucional è formato da due aspetti fondamentali che si trovano riuniti in modo armonico: l’aspetto di libertà individuale e la funzione sociale collettiva, la quale segna il contenuto del diritto di proprietà dall’interno e non quale limite esterno. In ordine a tale tematica, nella dottrina civilistica, MONTES, La propriedad privada en el sistema de Derecho Civil contemporaneo, Madrid, 1980 ed in quella pubblicistica, BARNES VASQUEZ, La propriedad constitucional. El estatuto jurídico del suelo agrario, Madrid, 1988. (50) QUINTERO OLIVARES, Delitos contra intereses generales o derechos sociales, in Revista de la Facultad de Derecho de la universidad Complutense, Madrid, 1983, p. 580; SORIANO SORIANO, Las agravaciones especificas comunes al robo y hurto (Legislación vigente y proyecto de 1992), Valencia, 1993, pp. 162-164. (51) SALINERO ALONSO, op. cit., pp. 180-181. Sostengono pertanto GONZÁLES RUS, Puntos de partida de la protección penal del patrimonio histórico, cultural y artístico, cit., p. 54 e TAMARIT SUMALLA, Comentarios a la Parte Especial del Derecho Penal, Pamplona, 1996, p. 855, che il carattere sociale, collettivo e dunque indisponibile del bene culturale porta ad escludere l’efficacia del consenso del titolare di esso quale causa di giustificazione. (52) Così MUÑOZ CONDE, El tráfico ilegal de obras de arte, in Estudios penales y criminológicos, cit., p. 403. (53) In ordine a tale distinzione, MIR PUIG, Objeto del delito, in Nueva Enciclopedia Jurídica, XVII, 1982, p. 765.
— 520 — 1.9. L’aggravante delle « cosas de valor artístico, histórico, cultural o científico » nei delitti contro il patrimonio. — Il nuovo codice penale del 1995 prevede quale aggravante dei delitti di hurto (furto, art. 235, comma 1), robo con fuerza en las cosas (furto con forza sulle cose, art. 241), estafa (truffa, art. 250, comma 5), apropriación indebida (appropriazione indebita, art. 252) e apropriación de cosa perdida (appropriazione di cosa smarrita, art. 253), la circostanza che oggetto del delitto siano « cosas de valor artístico, histórico, cultural o científico » (54). Tale tecnica di tutela non viene ritenuta adeguata al rango costituzionale assegnato al patrimonio culturale (55). Infatti il patrimonio culturale si configura quale « elemento especificador del injusto » in relazione alla lesione del bene giuridico principale e fondamentale delle diverse fattispecie, e la sua tutela dipenderà dal fatto che si realizzino tutti gli elementi costitutivi della fattispecie base. Quelli che vengono definiti « elementos especificadores del injusto », e che costituiscono dati, caratteristiche, relazioni o circostanze previamente determinate e valutate, inserite dal legislatore nell’ambito penale, sono ricondotti dalla dottrina spagnola in differenti schemi (56). Ad un primo gruppo appartengono le circostanze attenuanti e aggravanti previste nella parte generale del codice (circustancias ‘‘genéricas’’). Il secondo gruppo è costituito dagli elementi che aggravano o che attenuano la pena contenuti nella parte speciale del codice penale: essi vengono chiamati « elementos típicos accidentales » e si differenziano dalle precedenti circostanze perché esistono disposizioni applicabili solo ad esse. All’interno di questo secondo gruppo si distingue ulteriormente tra elementi che contrassegnano penalmente in modo distinto la fattispecie (così conducendo ad una pena inferiore o superiore nel grado) ed altri elementi che si limitano a graduare la medesima pena base: solo a questi ultimi si addice la qualifica di vere circostanze (e pertanto solo a questi si applicheranno le regole proprie di esse, quale per esempio la possibile compensazione le une con le altre), mentre i primi danno luogo a « delitos cualificados » o « privilegiados » con regole proprie (57). I « delitos cualificados » sono quelli che si incorporano al tipo base formando una ‘‘unidad valorativa’’ con caratteri propri, senza perdere però la propria connessione con la fattispecie principale (58). Estranei al concetto di « elementos típicos accidentales » sono infine quegli elementi che danno luogo a « delitos sui generis », figure di delitto distinte ed indipendenti, in quanto in essi tali elementi sono essenziali. Date queste osservazioni generali, si ritiene che quando il legislatore prevede espressamente le aggravanti prima descritte in tema di delitti contro il patrimonio, egli stia configu(54) Il precedente codice penale prendeva in considerazione il rilevante interesse storico, artistico o culturale degli oggetti attraverso una circostanza aggravante prevista per i delitti di danneggiamento ed in generale per tutti i delitti contro il patrimonio (su di essa, ampiamente, PÉREZ ALONSO, op. cit., p. 279 ss.). Tale disposizione, criticata per il suo eccessivo rigore (prevedeva l’applicazione della pena massima o di quella di grado immediatamente superiore) e per la sua collocazione sistematica, è stata sostituita dalla presente che lascia però dei vuoti di tutela, quali per esempio il mancato aggravamento delle ipotesi di alterazione del prezzo in aste riguardanti beni culturali (ipotesi base l’art. 262 c.p.), l’alterazione del prezzo di beni storici attraverso la diffusione di notizie false (art. 284 c.p.) ed infine la ricettazione di beni culturali. (55) La via scelta dal legislatore, oltre a non dare piena attuazione al dettato costituzionale, viene ritenuta foriera di problemi che derivano dalla mancanza di « trascendencia penal o punitiva » degli attentati contro tale tipo di beni: quali principali aspetti problematici vengono indicati la rilevanza del consenso nei delitti contro il patrimonio in senso stretto, l’impossibilità di applicare le regole sul concorso di delitti, le previsioni degli artt. 268 e 269 c.p. Sul tema, SALINERO ALONSO, op. cit., pp. 227 ss. e 291. (56) MIR PUIG, Derecho Penal. Parte general, cit., p. 628 ss. (57) ALONSO ÁLAMO, El Sistema de Circustancias del delito. Estudio general, Valladolid, 1981, pp. 274 ss. e 755 ss. (58) MAQUEDA ABREU, El error sobre las circustancias. Consideraciones en torno al art. 6-bis a) del Código Penal, in Cuadernos de Política criminal, n. 21, 1983, p, 313.
— 521 — rando « delitos cualificados ». Attraverso tale previsione il legislatore dà attuazione all’art. 46 della Costituzione ed esprime uno speciale giudizio di disvalore che non si ritiene pensabile possa essere espresso configurando semplici circostanze comuni, le quali potrebbero essere messe nel nulla attraverso il giudizio di bilanciamento. In applicazione del principio di proporzionalità, le fattispecie degli artt. 235, 241, 250, 252 e 253 del Código Penal del 1995 stabiliscono un « marco penal autónomo », e dunque tali circostanze producono effetti penali speciali e più gravi (art. 22 c.p.) rispetto alle circostanze aggravanti generiche (59). La configurazione come tipos cualificados comporta sul piano pratico importanti conseguenze (60): 1) trattandosi di fattispecie derivate, dipendenti da fattispecie base, perché possa realizzarsi il tipo qualificato è necessario che insieme all’elemento speciale, rappresentato dal carattere culturale dell’oggetto, concorrano tutti gli elementi costitutivi della fattispecie base; 2) la configurazione quale elemento del tipo dell’aggravante del carattere culturale dell’oggetto comporta che tale elemento debba essere abbracciato dal dolo: le aggravanti potranno essere imputate solo a chi le conosceva. Considerato che l’art. 14, comma 2, c.p. non distingue tra errore vincibile ed invincibile, l’errore sul carattere storico, culturale od artistico dell’oggetto porterà all’applicazione delle fattispecie base escludendo l’aggravante. Il giudice potrà però prendere in considerazione il maggior disvalore del fatto nell’ambito consentito dall’art. 66, comma 1, c.p.; 3) in caso di partecipazione e forme imperfette di esecuzione la determinazione della pena assumerà come base quella stabilita per le fattispecie qualificate e non quella del delitto base; 4) la considerazione delle circostanze specifiche dei delitti contro il patrimonio quali « elementos típicos accidentales », che danno luogo a « tipos cualificados », porta necessariamente a negare, secondo la dottrina assolutamente prevalente e la giurisprudenza, la possibilità di compensazione di queste con le circostanze attenuanti generiche che eventualmente concorrano nel fatto; 5) in materia di comunicabilità ai partecipi, tali circostanze ricadono nella previsione dell’art. 65 c.p., secondo il quale se oggettive si comunicheranno a tutti i partecipi, mentre se soggettive solo a coloro nei quali ricorrono. La natura storica, culturale e/o artistica della cosa nei delitti citati, perché possa esplicare il suo effetto aggravante, deve essere conosciuta da colui il quale interviene in un delitto (fatto tipico e antigiuridico) di cui altri tiene il dominio del fatto. Se tale circostanza aggravante, di carattere materiale, non è conosciuta dai partecipi, non sarà ad essi imputabile, e solo incorreranno nella eventuale responsabilità per il delitto base. Al di fuori dei delitti contro il patrimonio, in tema di malversación, l’art. 432 c.p. al nu(59) SALINERO ALONSO, op. cit., p. 237. Il particolare disvalore penale è espresso anche dalle sanzioni previste. Così nel caso di furto, la pena ordinaria è la reclusione (prisión) da sei a diciotto mesi; la presenza di una circostanza aggravante comune dà luogo ad una pena base superiore della metà (art. 66, comma 3 c.p.), e perciò da dodici a diciotto mesi di reclusione; l’aggravante degli oggetti di valore artistico, storico, culturale e scientifico determina invece l’applicazione di una pena della reclusione da uno a tre anni. In modo simile al furto, il maggior disvalore è espresso sotto il profilo sanzionatorio anche nelle altre fattispecie in cui ricorre l’aggravante in questione. (60) SALINERO ALONSO, op. cit., p. 238 ss. Nello stesso senso, ritiene derivare dalla configurazione delle circostanze dell’art. 235 c.p. (hurto) quali elementos del tipo le conseguenze indicate nel testo, MUÑOZ CONDE, Derecho Penal. Parte Especial, Valencia, 1996. Sotto il profilo del bene giuridico tutelato, osserva PÉREZ ALONSO, op. cit., p. 161, con riferimento alle fattispecie aggravate di hurto e robo, che con la sottrazione di una cosa di valore storico, culturale o artistico, si lede sia l’aspetto di libertà (individuale) del diritto di proprietà, in quanto il titolare si vede privato delle sue facoltà di disposizione e godimento, sia, allo stesso tempo, la funzione sociale (collettiva) che la cosa è chiamata ad assolvere, conculcando così la possibilità dei cittadini di usufruire di essa.
— 522 — mero 2 contiene un aggravamento della pena base quando « las cosas malversadas hubieran sido declaradas de valor histórico o artístico » (61). La disposizione costituisce una novità rispetto al codice precedente, ma l’innovazione non viene ritenuta raggiungere gli scopi di tutela preventivati. Si tratta di un reato proprio, nel quale è prevista la violazione di un dovere da parte di un funzionario pubblico. Il bene giuridico tutelato è rappresentato dall’Administración Pública, dal suo corretto funzionamento attraverso l’adeguata e regolare gestione dei fondi pubblici da parte dei funzionari competenti. Un primo vizio della disposizione in esame è costituito dal suo riferimento ai soli beni oggetto di un provvedimento amministrativo di dichiarazione dell’interesse culturale: infatti l’applicazione del precetto viene giudicata risentire in maniera decisiva della tradizionale inattività e lentezza delle autorità competenti nelle operazioni di catalogazione. Un secondo difetto della fattispecie è giudicata la sola comprensione del valore storico o artistico e non anche, come in altre disposizioni, di quello culturale o scientifico, creando così il rischio che per esempio i beni archeologici possano essere esclusi dall’ambito della disposizione (62). 1.10. Il patrimonio culturale quale bene giuridico autonomamente tutelato: il capitolo II del titolo XVI del libro II del nuovo codice penale. — Si è già analizzato l’orientamento della dottrina spagnola secondo il quale la piena attuazione all’obbligo, fissato dalla Costituzione, di tutela del patrimonio storico-artistico può essere data solamente attraverso la configurazione di tale patrimonio quale bene giuridico autonomamente tutelato. A tale risultato arriva il nuovo codice penale con la previsione all’interno del titolo XVI (dedicato a « Los Delitos contra la Ordenación del Territorio y la Protección del Patrimonio Histórico y del Medio Ambiente ») di un apposito capitolo che reca come rubrica: « De los delitos sobre el patrimonio histórico ». La magniloquenza del titolo viene però ritenuta nascondere un contenuto assai inferiore alle aspettative. Infatti il capitolo II del titolo XVI del libro II non raggruppa certamente l’intero novero delle fattispecie lesive del patrimonio culturale, ma solo quattro ipotesi (artt. da 321 a 324) di condotte di danneggiamento, le quali tra l’altro non coprono nemmeno la gamma delle diverse tipologie di danneggiamento. La previsione autonoma costituisce comunque un primo passo, da accentuare in sede di possibile riforma, verso la considerazione corretta di tale bene giuridico (63). La prima delle fattispecie previste (art. 321) costituisce un delito de resultado material, che come tale ammette forme imperfette di esecuzione e pertanto la configurabilità del tentativo (64). Soggetto attivo può essere chiunque, anche se la legge attraverso la fissazione ac(61) In generale sulla fattispecie di malversazione, DE LA MATA-ETXEBERRIA, Malversación y lesión del patrimonio público, Barcelona, 1995. (62) SALINERO ALONSO, op. cit., p. 286 ss. La via per includere nell’ambito di tutela i beni archeologici è indicata dall’Autrice nell’estensione del concetto di « beni di valore storico ». Altro settore problematico della fattispecie viene poi individuato nella possibilità di concorso con le norme sull’appropriazione indebita. (63) Così SALINERO ALONSO, op. cit., pp. 295-296. Secondo l’Autrice, al momento della redazione del nuovo codice, il legislatore aveva due strade per strutturare il capitolo in modo coerente: o prevedere una fattispecie base ed intorno ad essa figure qualificate; o distinguere tra beni mobili ed immobili. Nessuna di queste due vie è stata scelta e si è preferito elencare quattro figure che, data la loro diversità, conducono ad una previsione scarsamente coerente sotto il profilo sistematico. Altro elemento di novità del codice penale del 1995 è dato dalla considerazione dei danni riferita ad una nozione ampia di patrimonio storico, artistico e culturale, quale risulta dalla descrizione dell’art. 15 della legge fondamentale: « Conjuntos históricos, Sitios históricos, Jardines arqueológicos o Zonas arqueológicas ». La previsione delle fattispecie a tutela di questi beni è contenuta nel capitolo I, relativo ai « delitos contra la ordenación del territorio », e contribuisce ad una protezione integrale di questo bene giuridico. (64) Su questa fattispecie e sulle altre contenute nel capitolo II del titolo XVI del libro II, SALINERO ALONSO, op. cit., p. 305 ss.; MUÑOZ CONDE, Derecho Penal. Parte Especial,
— 523 — canto a reclusione o multa di una pena accessoria quale l’interdizione dalla professione o dall’ufficio dimostra di avere in mente soprattutto figure professionali legate al mondo delle costruzioni. La condotta tipica consiste nel « derribar o alterar gravemente », cioè nel demolire totalmente o parzialmente l’immobile e nell’alterare gravemente l’essenza della cosa. Oggetto materiale sono « edificios singularmente protegidos »: tale limitazione lascia fuori dell’ambito di tutela altri beni immobili egualmente meritevoli (si pensi p.es. a sculture), così come l’avverbio ‘‘singularmente’’ farebbe pensare alla ricomprensione di soli edifici il cui valore culturale sia stato riconosciuto da un provvedimento amministrativo. La dottrina ritiene però superabile quest’ultima limitazione, in quanto il legislatore quando ha voluto fare riferimento a beni culturali dichiarati tali dall’autorità amministrativa ha utilizzato termini differenti ed espliciti. L’art. 322 prevede un’ipotesi di favoreggiamento da parte di quelle autorità e quei funzionari pubblici che abbiano competenza in tema di rilascio di concessioni o comunque le cui attribuzioni permettano di evitare la distruzione o il danneggiamento dei beni tutelati. Si tratta di una fattispecie plurioffensiva, in cui risulta tutelato tanto l’interesse pubblico alla legalità dell’azione amministrativa quanto quello alla conservazione del patrimonio storico. Si tratta di un delitto doloso, rimanendo esclusa la possibile commissione colposa dall’inciso, riferito all’autore, « a sabiendas de su injusticia ». Una generica previsione di danneggiamento al patrimonio culturale è contenuta nell’art. 323. In tale norma si prevede una fattispecie comune che, come quella dell’art. 321, reca un risultato materiale, ammettendo per questa ragione la possibilità di forme imperfette di esecuzione (tentativo): essa può essere realizzata anche attraverso un comportamento omissivo. L’azione tipica viene delimitata in modo negativo mediante il riferimento alle condotte sanzionate nell’art. 321: vengono punite pertanto tutte quelle condotte causative di danno e che non consistano nel demolire o alterare gravemente edifici singolarmente protetti. L’oggetto materiale è individuato stavolta in modo ampio, comprendendo beni mobili ed immobili di valore storico, artistico, scientifico, culturale o monumentale, così come i giacimenti archeologici; l’ulteriore allargamento anche ai danni ad oggetti contenuti in « archivo, registro, museo, biblioteca, centro docente, gabinete científico e institución análoga » è ritenuto però ingiustificabile, in quanto rende incoerente la fattispecie. Sotto il profilo sanzionatorio assume rilievo la previsione, contenuta anche nell’art. 321, della possibilità da parte del giudice di ordinare misure rivolte al restauro del bene danneggiato. Infine l’art. 324 contempla espressamente la punibilità a titolo colposo delle stesse condotte descritte nel precedente art. 323. Il coefficiente psicologico richiesto si sostanzia in un’imprudenza grave. Perché la fattispecie entri in azione è necessario un limite minimo di danno, che consiste in 50.000 pesetas: si tratta di una manifestazione del principio di intervención mínima del diritto penale. Manca nella fattispecie, e ciò è giudicato un vizio di essa, la previsione di misure atte a riparare il danno, per cui si applicheranno, se del caso, le disposizioni dell’art. 112 in tema di riparazione civile dei danni. 1.11. Le altre fattispecie contenute nel Nuevo Código Penal. — Oltre alle fattispecie contenute nel capitolo I del titolo XVI, che proteggono, in tema di ordenación del territorio e di urbanistica, ciò che si trova intorno (potremmo chiamarle zone di rispetto) a beni culturali di carattere immobiliare, una disposizione assai rilevante è quella contenuta nell’attuale art. 289, che punisce le azioni dannose intenzionali su cosa propria che comportino la privazione in tale cosa dell’utilità sociale o culturale. Trattandosi di un delitto di risultato qualunque modalità attraverso la quale si giunga al risultato vietato rientrerà nell’ambito di punibilità. La dimensione sociale della proprietà e la collocazione tra i delitti contro il pacit., p. 494 ss.; TAMARIT SUMALLA, Comentarios a la Parte Especial del Derecho Penal, cit., p. 856 ss.
— 524 — trimonio e l’ordine socio-economico fanno ritenere che il bene tutelato abbia una dimensione sociale e collettiva (65). L’art. 319 comma 1 del nuovo codice penale prevede quello che viene definito delitto di « construcción ilegal ». Trattandosi di un delitto proprio dei « promotores, constructores o técnicos directores » è necessario riferirsi per l’identificazione dei soggetti attivi al settore urbanistico: rispetto a soggetti attivi così qualificati particolare deterrenza viene giudicata esercitare la previsione, accanto a reclusione e multa, della pena (principale e non accessoria) dell’inhabilitación especial dalle specifiche professioni. L’azione tipica consiste nel realizzare costruzioni non autorizzate oltre che su suoli destinati a viali e zone verdi, in luoghi di cui sia stato riconosciuto legalmente o amministrativamente il valore paesaggistico, ecologico, artistico, storico o culturale: la previa dichiarazione legale o amministrativa costituisce dunque condizione per la sottoposizione alla particolare tutela disposta dalla norma e costituisce sotto il profilo penale « elemento normativo valorado ». Infine, tra le disposizioni comuni ai capitoli I e II del titolo XVI è prevista un’attenuante (art. 340) la quale collega la diminuzione di pena alla riparazione volontaria del danno causato. 1.12. Il contrabbando di opere d’arte. — Storicamente regolato in sede esterna al codice penale, il delitto di contrabbando è oggi punito secondo le disposizioni della l. 13 luglio 1982, n. 7 (66). Nell’ambito di tale legge, a cui rinvia anche la legge fondamentale del 1985 nel suo art. 75 (67), viene tipizzato espressamente all’art. 1, comma 1, n. 5 il delitto di « exportación sin autorización de obras u objetos de interés histórico o artístico ». La formulazione della condotta tipica appena descritta segnala immediatamente l’impiego da parte del legislatore della tecnica delle norme penali in bianco, per cui è necessario completare il precetto ricorrendo alla normativa amministrativa in tema di esportazione di beni culturali, e dunque in particolare all’art. 5 della legge fondamentale. La dottrina descrive il delitto come commissivo e non omissivo: la mancanza di autorizzazione, che rende illegale l’azione positiva di esportare, è un elemento che non pertiene all’azione bensì alla illiceità del fatto, ed intendere il contrario significherebbe confondere il concetto di azione con l’antigiuridicità (68). La mancanza di autorizzazione viene ritenuta un elemento dal quale dipende l’antigiuridicità della condotta, vale a dire un « elemento de valoración global (65) Afferma MUÑOZ CONDE, Derecho Penal. Parte Especial, Valencia, 1993, p. 367, che « il bene giuridico qui protetto non è l’altrui diritto di proprietà, posto che il soggetto attivo è il medesimo proprietario della cosa danneggiata. Si tratta piuttosto di un delitto contro gli interessi sociali, o più concretamente contro la funzione sociale della proprietà, e pertanto contro l’economia nazionale ». Su tale fattispecie, seppur prima della riforma del 1995, PÉREZ ALONSO, op. cit., p. 256 ss. (66) Particolare risonanza ha avuto, e non solo in Spagna, il caso del dipinto di Goya ‘‘La Marquesa de Santa Cruz’’. Tale quadro, per lungo tempo conservato dai discendenti dell’autore, fu venduto nel 1983 per circa 200.000 $ ad uno spagnolo. Violando la normativa spagnola in tema di esportazione, il quadro fu esportato via Zurigo a Londra e fu consegnato ad una società liberiana avente sede in un paradiso fiscale quale le British Virgin Islands, per essere poi inserito dalla casa d’aste Christie’s in un proprio catalogo. La Spagna intraprese un’azione legale in Inghilterra contro la Christie’s (Kingdom of Spain v. Christie’s) per ottenere la restituzione del dipinto: l’esito fu la restituzione, ma dietro versamento di un prezzo di 6 milioni di dollari (20 volte l’originario importo) ed a condizione che il quadro venisse esposto pubblicamente al Prado di Madrid. In tale caso si mescolano quelle che sono le più comuni problematiche in tema di circolazione dei beni culturali: libertà di circolazione delle opere d’arte, divieti di esportazione, pubblica fruizione di opere che costituiscono patrimonio non solo del paese di origine ma dell’intera umanità. (67) Vedi nota 40. (68) Così PÉREZ ALONSO, op. cit., p. 292. Nello stesso senso, BAJO FERNÁNDEZ, El co-
— 525 — del hecho » che non può imputarsi globalmente né al tipo né all’antigiuridicità, ciò che assume speciale importanza in tema di errore. Il nucleo della fattispecie non consiste infatti nel non possedere l’autorizzazione all’esportazione dei beni culturali, in quanto la condotta che il legislatore ha inteso proibire consiste nell’esportare e non nel non adempiere a specifici obblighi (« exportar y non en encumplir ») (69). L’esportazione illecita è diversamente sanzionata, come già visto a proposito dei rapporti tra illecito penale ed illecito amministrativo, secondo un criterio quantitativo: infatti se il valore del bene è uguale o superiore ad un milione di pesetas, il fatto sarà sanzionato penalmente, mentre al di sotto di questo limite ricorrerà un’infrazione amministrativa (art. 12 della legge sul contrabbando) (70). In ordine all’oggetto materiale, la legge sul contrabbando non distingue tra beni mobili ed immobili mentre la legge fondamentale di tutela, nel suo art. 5 fa riferimento unicamente ai beni mobili. In ordine a questi l’art. 5 proibisce espressamente l’esportazione dei beni dichiarati di interesse culturale, così come di quegli altri che, per la loro pertinenza al patrimonio storico spagnolo, l’amministrazione statale dichiari espressamente inesportabili, come misura cautelare in attesa di inclusione in qualcuna delle categorie specialmente protette dalla legge. Con riguardo ai beni facenti parte del patrimonio storico spagnolo aventi più di cento anni, non dichiarati di interesse culturale, ed a quelli inseriti nell’Inventario general, si dispone la necessità di una previa autorizzazione espressa per l’esportazione. È da segnalare infine che la disposizione in esame trova applicazione solo per le condotte di « exportación », mentre la violazione delle norme in tema di importazione e commercio di tali beni è diversamente sanzionata nelle disposizioni dei numeri 1, 2, 4 e 8 dell’art. 1 della legge sul contrabbando. 2.1. Il sistema tedesco. — Il tema della tutela dei beni culturali (Kulturgüterschutz) conosce in Germania un recente notevole sviluppo, sia sotto il profilo normativo che dell’approfondimento da parte della dottrina del diritto pubblico. Prima di analizzare il sistema normativo di tutela è necessario illustrare quali sono le premesse che vengono poste a fondamento di questa nuova disciplina giuridica (71). Settore classico di competenza e finalità originaria della tutela dei beni culturali viene ritenuta la conservazione della sostanza storica dei monumenti (Denkmäler). A tale fine erano rivolte le prime disposizioni di tutela, le quali risalgono all’epoca del Rinascimento, mentre più tardiva è stata la tutela dei beni culturali mobili. La conservazione dei beni culturali nella loro originaria sostanza viene ritenuta obiettivo primario, dato il carattere di unicità e non reintegrabilità che è proprio dei beni culturali. Lo sforzo di conservazione si ritiene esprima la considerazione per le opere di altri uomini e di precedenti culture ed accresca l’interesse per il proprio passato. Seconda causa di emersione del tema è stata l’esigenza di tutela dei beni culturali in mercio, tenencia o circulación de géneros de lícito comercio, in Comentarios a la Legislación Pénal, III, Madrid, 1984, p. 63. (69) PÉREZ ALONSO, op. cit., p. 317. L’Autore afferma che l’esportazione dei beni culturali assume tipicità solo quando il soggetto attivo non abbia ottenuto la prescritta autorizzazione, perché solo con il mancato adempimento di quest’onere saranno completi gli elementi necessari per determinare il carattere antigiuridico del fatto. (70) Si discute in dottrina se tale limite quantitativo rappresenti, sotto il profilo della sua ‘‘naturaleza jurídico-penal’’, una condizione obiettiva di punibilità, in ordine alla quale secondo le regole non sarebbe necessario il dolo, o un elemento oggettivo del tipo, che deve essere abbracciato dal dolo. Per quest’ultima soluzione propende PÉREZ ALONSO, op. cit., pp. 299-301. (71) FECHNER, Prinzipien des Kulturgüterschutzes - Eine Einführung, in AA.VV., Prinzipien des Kulturgüterschutzes - Ansätze im deutschen, europäischen und internationalen Recht, a cura di Fechner-Oppermann-Prott, Berlin, 1996, p. 11 ss.
— 526 — caso di conflitto armato, che ha provocato l’emanazione di convenzioni internazionali sul tema (fondamentale la Convenzione UNESCO del 1954) (72). Terzo elemento fondante, collegato al precedente, può infine ritenersi il desiderio di fissare determinati beni mobili ai rispettivi paesi di appartenenza, che ha generato la normativa in tema di esportazione dei beni culturali e di diritti di restituzione (73). Da queste tre radici si è sviluppata quella che è divenuta una vera e propria nuova disciplina giuridica, la quale come ogni nuova disciplina ha concentrato l’analisi sulla definizione del proprio oggetto. La definizione del concetto (Begriff) di ‘‘bene culturale’’ (‘‘Kulturgut’’) viene ritenuta necessaria anche per soddisfare l’esigenza di unitaria impostazione, a livello nazionale ed a livello internazionale, della tutela dei beni culturali. È infatti riconosciuta l’essenzialità, per l’effettività del sistema di tutela, di un’azione coordinata delle legislazioni interne dei singoli paesi e delle convenzioni internazionali (74). A livello costituzionale la tutela dei beni culturali non trova un riconoscimento espresso, esistente invece in altre più recenti costituzioni, soprattutto di area mediterranea, ma solo in occasione della distribuzione di competenze (art. 74, comma 5, GG) viene citata la difesa del patrimonio culturale tedesco. Il sistema tedesco di tutela dei beni culturali si caratterizza infatti per una distinzione di competenze tra Stato Federale (Bund) e Länder. In Germania, la ‘‘Legge Fondamentale’’ (Grundgesetz) detta, all’art. 70, il principio secondo il quale i Länder hanno competenza legislativa generale, a patto che non si tratti di materie riservate al Bund. Non esistendo tale riserva, né essendo prevista la materia dei beni culturali tra quelle oggetto di legislazione concorrente o di legislazione-quadro federale, i poteri in tema di cultura e quindi di protezione interna dei beni culturali sono attribuiti ai Länder, i quali hanno sviluppato ed attualmente fissano, attraverso le Denkmalschutzgesetze, il sistema di tutela dei beni culturali in Germania. Rimangono invece di competenza centrale, del Bundesminister des Innern (Ministro federale dell’Interno) i poteri in ordine al trasferimento dei beni al di fuori dei confini nazionali (75). Dato pertanto che il sistema di tutela è fondamentalmente contenuto nelle Denkmalschutzgesetze, sarà in occasione dell’analisi di queste che verranno approfondite le tematiche dottrinali, ed in primis quella relativa all’oggetto della tutela. (72) In tema AA.VV., Internationaler Kulturgüterschutz und deutsche Frage - völkerrechtliche Probleme der Auslagerung, Verstreuung und Rückführung deutscher Kulturgüter nach dem Zweiten Weltkrieg, a cura di Fiedler, Berlin, 1992 e FIEDLER, Vom territorialen zum humanitären Kulturgüterschutzes - Zur Entwicklung des Kulturgüterschutzes nach kriegerischen Konflikten, in AA.VV., Prinzipien des Kulturgüterschutzes, cit., p. 159 ss. Particolarmente vivo è in Germania il problema dei ‘‘bottini di guerra’’ (‘‘Kriegsbeute’’) e dunque in primis della restituzione dei beni culturali sottratti alla Germania dalle nazioni vincitrici (ed in particolare dall’ex Unione Sovietica) all’epilogo del secondo conflitto mondiale: la Germania richiede la restituzione di circa 200.000 beni culturali, 2.000.000 di libri e 3 km di beni archivistici. (73) In tema FIEDLER, Neue völkerrechtliche Ansätze des Kulturgüterschutzes, in Internationaler Kulturgüterschutz - Wiener Symposium 1990, a cura di Reichelt, Wien, 1992, pp. 69-79; FREYTAG, ‘‘Cultural Heritage’’: Rückgabeansprüche von Ursprungsländern auf ‘‘ihr’’ Kulturgut?, in AA.VV., Prinzipien des Kulturgüterschutzes, cit., p. 175 ss.; WYSS, Rückgabeansprüche für illegal ausgeführte Kulturgüter, ivi, p. 201 ss. Una delle principali difficoltà è determinare come e secondo quali criteri attribuire i beni culturali (oggetti d’arte, scoperte archeologiche, archivi) a certi popoli, Stati o territori e prevedere poi le conseguenze giuridiche della scelta effettuata. (74) ABELE, Ist das Verhältnis von Kulturgüterschutz und Eigentum ein Finanzierungsproblem? - Daneben auch ein Beitrag zum Begriff des Kulturgüterschutzes, in AA.VV., Prinzipien des Kulturgüterschutzes, cit., p. 78 ss. (75) L’art. 74 comma 5 della Grundgesetz cita come caso di competenza concorrente la difesa del patrimonio culturale tedesco dall’esportazione illegale. In ordine a tale settore lo Stato federale ha regolato legislativamente, come vedremo, la materia.
— 527 — 2.2. La normativa federale. Le disposizioni dello Strafgesetzbuch e le leggi in tema di circolazione verso l’estero dei beni culturali. — Il sistema di tutela è suddiviso dunque tra legislazione federale e legislazione dei singoli Stati. Iniziando dall’ambito federale, lo Strafgesetzbuch contempla la fondamentale norma del § 304, la quale prevede il reato di danneggiamento di cose con pregiudizio per la collettività (Gemeinschädliche Sachbeschädigung) e due ipotesi (§ 243, nn. 4 e 5) di aggravamento del furto che prendono in considerazione beni culturali. a) Il danneggiamento di cose con pregiudizio per la collettività. — La fattispecie del § 304 StGB dispone che: « Chiunque illecitamente danneggia o distrugge oggetti di culto di una comunità religiosa esistente nello Stato, ovvero cose che siano destinate al servizio religioso, oppure tombe, monumenti pubblici, bellezze naturali, oggetti dell’arte, della scienza o dell’industria custoditi in pubbliche raccolte o collocati in luogo pubblico, oppure oggetti di pubblica utilità o che servano ad abbellire pubbliche vie, piazze o giardini, è punito con la pena detentiva fino a tre anni o con la pena pecuniaria. Il tentativo è punibile » (76). La disposizione tende a preservare dalla distruzione o da danni che ne diminuiscano l’utilizzabilità beni culturali o altri beni ritenuti significativi dalla comunità, ed indicati nella norma in modo tassativo. Essa è volta a tutelare valori propri della collettività e non dei singoli proprietari dei beni: pertanto anche il proprietario può essere soggetto attivo del reato. L’oggetto materiale del reato è costituito innanzitutto da oggetti di culto di comunità religiose esistenti nello Stato. Poi da monumenti pubblici: per tali sono da intendere quelli che servono a ricordare persone, eventi o situazioni, sia che questo carattere sussista al momento della loro creazione sia che venga acquistato in seguito. Ricadono nell’oggetto di protezione anche i monumenti naturali, costituiti da creazioni uniche della natura, le quali, per motivi scientifici, storico-naturali o specifici della zona, o ancora per la loro bellezza, rarità o particolarità, sono riconosciute come tali da disposizioni legislative. Protetto è anche l’ambiente, in quanto la valutazione di esso viene giudicata ricompresa nella motivazioni che fondano la protezione dei monumenti naturali. Sono tutelati anche oggetti dell’arte della scienza o dell’industria, purché collocati o custoditi in raccolte o luoghi liberamente accessibili, anche se a determinate condizioni. Presupposto fondamentale per ricadere nel fuoco di protezione è che le cose servano ad una utilità pubblica (77). Ciò si verifica quando la destinazione attuale torni utile alla collettività, così da potere attribuire alla cosa una funzione di bene comune (Gemeinwohlfunktion). L’utilità da trarre dalla cosa deve avere carattere immediato: sussistono dubbi invece quando la collettività tragga utilità dalla cosa in modo mediato. Il rischio di allargare in modo incontrollabile la fattispecie del § 304, considerato che tutte le cose hanno la potenzialità di recare vantaggi alla collettività, porta a sostenere che solo le cose immediatamente utili ad essa ricadono nella fattispecie in oggetto. Tale utilità si può riferire non solo alla cosa in sé ma anche ai suoi prodotti o ai suoi effetti, sempre che gli uni e gli altri siano conformi alla destinazione di essa. Infine il riferimento deve essere ad interessi propri della comunità tedesca, in quanto il diritto penale tedesco non può che proteggere valori che conosce. Il riferimento a cose che « servano ad abbellire pubbliche vie, piazze o giardini » presuppone una corrispondente destinazione delle cose a tale scopo, cosicché non è sufficiente un effetto di abbellimento fortuito. La condotta punibile consiste nel danneggiare o distruggere: una cosa può considerarsi (76) In ordine a tale norma, STREE, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch - Kommentar, § 304, pp. 2084-2086, München, 1997. La menzione esplicita della punibilità del tentativo deriva dalla previsione del § 23 StGB, che impone per i crimini (Vergehen) l’espressa indicazione di tale punibilità. (77) Circa tale presupposto, cfr. MAURACH-SCHROEDER-MAIWALD, Strafrecht - Besonderer Teil, II, Heidelberg, 1991, p. 57.
— 528 — danneggiata quando il particolare scopo a cui la cosa serve risulta, attraverso l’agire del reo, pregiudicato. L’antigiuridicità persiste anche quando il danneggiamento ha per oggetto la cosa propria, in quanto il proprietario non può liberamente disporre di essa. Conseguentemente il consenso del proprietario non ha effetto giustificante. Per quanto concerne la fattispecie sotto il profilo soggettivo, è necessario il dolo; l’autore deve inoltre conoscere la particolare destinazione della cosa; è sufficiente il dolo eventuale. L’erronea convinzione del proprietario di potere disporre della cosa rappresenta errore sul divieto. Infine la misura del danno o la irreparabilità di esso non incide sul giudizio di riprovevolezza che fonda la fattispecie e perciò sulla commisurazione della pena, ma può essere preso in considerazione quale elemento aggravante. b) Le circostanze aggravanti del furto. — Tra le disposizioni sul furto (Diebstahl), sono contenuti due casi di particolare gravità, che concernono beni rientranti nella nozione di beni culturali. Secondo il § 243 ricorrono casi di particolare gravità, puniti con la pena detentiva da tre mesi a dieci anni (78), quando l’autore « da una chiesa o da un altro edificio o spazio adibito alla pratica del culto, ruba una cosa che è destinata al servizio religioso o al culto » (n. 4) o quando « ruba una cosa di rilievo per la scienza, l’arte o la storia o per l’evoluzione tecnica, facente parte di una raccolta accessibile a tutti o esposta al pubblico » (n. 5). L’aggravante del n. 4 del § 243 conferma l’accostamento sotto il profilo delle iniziative di tutela degli oggetti di interesse religioso ai beni culturali in senso stretto, così come avviene nelle norme sul danneggiamento. L’ipotesi del n. 5 riguarda invece specificamente i beni culturali (79). Essa configura un caso particolare di furto quando oggetto della condotta siano cose di interesse culturale, di generale accessibilità. Non viene qui apprestata tutela agli interessi del proprietario, quanto piuttosto al generale interesse alla conservazione dei valori culturali (non condizionabile dai valori di mercato delle opere). La tutela interviene solo quando le cose, data la loro generale accessibilità, si trovino in uno stato di minore difendibilità e siano maggiormente esposte ai rischi di furto. Oggetto del furto sono qui cose che rivestono importanza per la scienza, per l’arte o per lo sviluppo tecnico. In particolare vengono in considerazione cose collocate in musei o mostre e che rivestano valore culturale o per l’intrinseco valore artistico o per il loro riferimento alla storia o alla scienza (80). Si tratta di una definizione che viene giudicata imprecisa e non chiara, e pertanto bisognevole di intervento legislativo chiarificatore (81). Il requisito fondamentale è comunque che la cosa si trovi o in una collezione generalmente accessibile o sia esposta al pubblico: le raccolte private, così come le cose custodite nei depositi chiusi dei musei, non ricadono sotto la protezione del § 243 (82). Risulta pertanto confermato che l’intento legislativo che emerge dalle fattispecie penali speciali in tema di furto e di danneggiamento è quello di tutelare la libera fruizione dei beni culturali e dunque quella che costituisce la funzione di bene comune (Gemeinwohlfunktion). c) L’esportazione illecita di beni culturali. — Sempre in ambito federale, le due fondamentali leggi di tutela, concernenti la circolazione dei beni culturali, sono la ‘‘Legge per la protezione dei beni culturali tedeschi da allontanamento illecito’’ (‘‘Gesetz zum Schutz deut(78) La pena ordinaria per il furto è la detenzione fino a cinque anni o la pena pecuniaria. (79) In ordine a tale norma, ESER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch - Kommentar, cit., § 243, p. 1730. (80) La necessità di interpretare restrittivamente la norma, viene affermata in MAURACH-SCHROEDER-MAIWALD, Strafrecht - Besonderer Teil, I, Heidelberg, 1988, p. 330. (81) Di tale precisazione necessita anche la nozione di collezione (‘‘Sammlung’’): così ESER, op. cit., p. 1730. (82) Vi ricadrebbero invece se costituissero oggetto di un prestito ad un museo e pertanto fossero esposte al pubblico.
— 529 — schen Kulturgutes gegen Abwanderung’’) del 6 agosto 1955, modificata con leggi del 1974, 1986 e 1998, e la ‘‘Legge sulla tutela dei beni culturali’’ (‘‘Kulturgutsicherungsgesetz’’) del 1998 (attuativa della Direttiva CEE del 1993). La ‘‘Legge per la protezione dei beni culturali tedeschi da allontanamento illecito’’ contiene nel suo art. 1 una disposizione che non definisce i beni culturali ma impone l’obbligo dell’iscrizione in appositi elenchi. Nello stesso senso la ‘‘Legge sulla tutela dei beni culturali’’ (‘‘Kulturgutsicherungsgesetz’’) del 1998 dichiara al § 2 (‘‘Geschützte Gegenstände’’) beni tutelati tutti quelli iscritti negli appositi elenchi (‘‘Verzeichnis national wertvollen Kulturgutes’’ e ‘‘Verzeichnis national wertvoller Archive’’), ed inoltre quelli per i quali sia iniziato il procedimento di registrazione e tale avvio del procedimento sia stato reso pubblico. La dottrina osserva come in tema di circolazione dei beni culturali mobili si contrappongano due possibili principi: il primo riassumibile nella formula ‘‘Erlaubnis mit Verbotsvorbehalt’’ (‘‘permesso con riserva di divieto’’) ed il secondo in quella ‘‘Verbote mit Erlaubnisvorbehalt’’ (‘‘divieti con riserva di permesso’’). Il primo, introdotto con la legge del 1955, pone come base la libera iniziativa del proprietario del bene; il secondo inverso principio afferma che l’esportazione è di regola vietata e solo in casi particolari può venire concessa. Al secondo principio si adeguano le legislazioni di molti paesi europei, quali fra gli altri l’Italia e la Grecia. La Germania ha attenuato, attraverso successive modifiche, l’impostazione originaria, anche a causa dell’adesione alla Comunità europea (83). Tralasciando la specifica disciplina, è invece importante, ai fini della nostra analisi, verificare le conseguenze sanzionatorie dell’inosservanza dei precetti contenuti nelle leggi che regolano questa materia. Le disposizioni dei §§ 16 e 17 della legge del 1955 (quale risulta dalle modifiche succedutesi negli anni) possono ritenersi significative di un’impostazione che si ritrova anche a proposito delle violazioni delle norme delle Denkmalschutzgesetze. Attraverso la previsione del § 16 viene tutelato penalmente l’interesse ad un’efficace protezione dall’allontanamento dai confini nazionali dei beni tutelati (84). Presupposto della punibilità è che l’autore (trattandosi di reato comune, esso può essere commesso dal proprietario, possessore, spedizioniere, ecc., ma anche dal ladro) violi dolosamente un divieto di esportazione, anche temporaneo, del bene culturale o archivistico. Oggetto del fatto possono essere, come già osservato, solo beni iscritti in appositi elenchi o per i quali sia iniziato il procedimento di registrazione. La fondatezza di tale procedimento non ha rilevanza: ciò dimostra il carattere essenzialmente formale della violazione. Il giudice penale viene liberato dal difficile compito, il quale richiede una specifica competenza, di ponderare gli interessi (83) Sul tema, MUßNUG, Europäischer und nationaler Kulturgüter-Schutz, in AA.VV., Aktuelle Fragen des Kulturgüterschutzes, a cura di Mußgnug e Rollecke, Heidelberg, 1998, pp. 11-30 e BERNDT, Internationaler Kulturgüterschutz: Abwanderungsschutz, Regelungen im innerstaatlichen Recht, im Europa- und Völkerrecht, Köln, 1998. (84) Su tale disposizione, RIEGEL, Gesetz zum Schutz deutschen Kulturgutes gegen Abwanderung, in ERBS-KOHLHAAS, Strafrechtliche Nebengesetze, München, 1993, § 16; BERNSDORFF-KLEINE TEBBE, Kulturgutschutz in Deutschland - Ein Kommentar, Köln, Berlin, Bonn, München, 1996, pp. 128-131. Il testo del § 16 è il seguente: « Chi, a) senza autorizzazione, un bene culturale o archivistico registrato o b) contro un temporaneo divieto di espatrio, un bene culturale o archivistico di cui è iniziata la registrazione, esporta o in altro modo viola le disposizioni di questa legge, è punito con la privazione della libertà personale fino a tre anni o con la pena pecuniaria. Il tentativo è punibile. Il bene culturale o archivistico a cui si riferisce il fatto può essere confiscato. La confisca viene disposta a favore del Land, nel quale è protetto il bene culturale o archivistico attraverso la registrazione nell’elenco od in cui era iniziata la sua registrazione. Si applica il § 74 a StGB ».
— 530 — privati con quelli al mantenimento del bene nei confini nazionali. Un successivo conferimento del permesso di espatrio si ritiene faccia venire a mancare retroattivamente la fattispecie. La condotta vietata consiste nell’esportare o in altro modo oltrepassare l’ambito di validità della legge. L’elemento soggettivo richiesto è il dolo, e dunque accanto agli altri elementi del fatto la conoscenza del procedimento di registrazione. La legge, la quale prevedeva originariamente una fattispecie omissiva pura, equipara oggi, per motivi politico-criminali, consumazione e tentativo ed esclude la possibilità prevista dal § 23 comma 2 StGB di una diminuzione di pena per il caso di solo tentativo. La delimitazione tra atti preparatori non punibili e tentativo punibile è in alcuni casi difficoltosa: in particolare si ritiene che non configuri tentativo il semplice svolgimento di trattative volte all’esportazione del bene; in questa fase possono eventualmente sussistere degli obblighi di comunicazione, la cui violazione costituisce Ordnungswidrigkeit e non fattispecie penale. La confisca, discrezionale, del bene prevista nel comma 3 del § 16 assume poi la veste oltre che di misura di protezione per il bene anche di pena supplementare per l’autore del reato. La disposizione del § 17, che sanziona amministrativamente la violazione dei doveri di comunicazione previsti nei §§ 9 e 14 della legge, si ritiene abbia funzione repressiva, ma anche general- e specialpreventiva (85). Il contenuto e l’estensione del dovere di comunicazione non possono essere determinati in astratto ma dipendono dal caso concreto. Di regola il dovere di comunicazione non si esaurisce in una semplice comunicazione, ma l’obbligo comprende la comunicazione di tutte le circostanze conosciute utili al raggiungimento dello scopo. Il dovere di comunicazione si considera violato non solo in caso di totale mancanza di comunicazione, ma anche quando essa sia incompleta o in ritardo. In conformità con il § 10 della legge del 1968 sulle Ordnungswidrigkeiten l’infrazione viene perseguita solo se dolosa. Infine, la Ordnungswidrigkeit può, non deve, essere sanzionata con un’ammenda. Le disposizioni dei §§ 16 e 17 sanzionano, la prima penalmente, la seconda amministrativamente, l’inosservanza dei precetti contenuti nella legge. Il tipo di condotta sanzionato ha la stessa struttura: mutano le norme violate. Si può ritenere che la scelta della risposta sanzionatoria dipenda da una differente valutazione della gravità dell’infrazione, secondo quel criterio quantitativo che, come si vedrà, serve a distinguere la reazione penale da quella amministrativa nel sistema tedesco (86). Nel caso specifico rientrano nell’ambito amministrativo le condotte più lontane dall’effettiva lesione del bene. La natura formale della violazione conferma come anche in questo caso, così come accade nel sistema italiano, venga tutelato ancor prima del bene culturale, l’interesse dell’amministrazione all’osservanza dei procedimenti che regolano la materia. 2.3. Le Denkmalschutzgesetze. Il concetto di bene culturale (‘‘Kulturgut’’) e le forme di tutela. — La protezione dei beni culturali all’interno del Paese è invece assicurata dalle Denkmalschutzgesetze (« Leggi per la protezione dei monumenti ») di competenza dei Länder (87). La tutela dei monumenti è giudicata meritevole di attenzione in quanto essi forniscono un fondamentale orientamento storico e la comprensione degli sviluppi e dei cambiamenti (85) BERNSDORFF-KLEINE TEBBE, op. cit., p. 132. Il testo del § 17 è il seguente: « Commette Ordnungswidrigkeit, chi viola il proprio dovere di comunicazione previsto nei §§ 9 o 14. La Ordnungswidrigkeit può essere sanzionata con un’ammenda ». (86) Differente è invece, come vedremo, la scelta del tipo di risposta con riferimento ad illeciti con questa medesima struttura nelle Denkmalschutzgesetze. (87) Tutte le disposizioni legislative citate sono contenute in Denkmalschutzgesetze, 3. Auflage, in Schriftenreihe des deutschen Nationalkomitees für Denkmalschutz, Band 54, a cura di Eberl e Kleeberg, Bonn 1998.
— 531 — culturali (88). I monumenti recano inoltre una forte carica emozionale oltre all’oggettivo interesse storico (89). La più recente letteratura identifica un altro fondamentale motivo di protezione: la funzione di incentivo all’identità (identitätsstiftenden Funktion). I beni culturali infatti possono costituire un fondamento per la coesione di una data società, per la sua identità collettiva (90):« essi offrono, attraverso uno sguardo retrospettivo al passato, la possibilità di identificazione del singolo con la collettività » (91). Le leggi di protezione, attraverso comandi e divieti, secondo le regole dettate ai Länder nell’art. 70 GG, tendono ad impedire la distruzione o la modifica dei monumenti, a sanzionare la trascuratezza nella cura di essi, a fornire assistenza nella gestione attraverso l’indicazione di modalità per la conservazione. Tali leggi concorrono con le speciali normative federali, le quali riguardano soprattutto il campo urbanistico e quello tributario. Gli accordi internazionali vincolano poi, sotto l’egida UNESCO o di apparati europei, sia lo Stato federale che i Länder alla protezione dei monumenti e in generale dei beni culturali (92). Le concezioni delle Denkmalschutzgesetze, pur differenziandosi per particolari non secondari, seguono tuttavia le medesime idee fondamentali. Le differenze perdono poi di importanza nella prassi amministrativa e nella giurisprudenza (93). Il primo problema che, a livello normativo, dottrinale e giurisprudenziale, viene affrontato è la definizione del concetto di bene culturale, e più specificamente di monumento. In particolare in dottrina si giudica necessario distinguere tra ‘‘Kulturgut’’ e ‘‘Schutzwürdigkeit’’ (‘‘dignità di protezione’’) dei beni culturali, in quanto un concetto troppo ampio priverebbe di sicurezza giuridica il titolare del bene. Elemento generale per attribuire la dignità di protezione viene ritenuto l’interesse pubblico alla conservazione del bene (94). Un bene rientra nell’ambito di protezione quando sia conforme alla definizione legale di monumento, che in tutte le leggi si ritiene derivare da tre elementi: l’idoneità monumentale (‘‘Denkmalgeeignetheit’’), la capacità monumentale (‘‘Denkmalfähigkeit’’) e la dignità monumentale (‘‘Denkmalwürdigkeit’’) (95). Idonee ad assumere la qualità di monumento sono solo, secondo le Denkmalschutzgesetze, cose materiali (mobili o immobili) nel senso indicato dal § 90 BGB. Tale scelta viene giudicata in dottrina non rispondente a criteri logici né ad impedimenti giuridici, quanto piuttosto rispondente alla tradizione giuridica europea (96). Il carattere monumentale può (88) MYKLEBUST, Denkmale und Kulturelle Identität, Berlin, 1987, p. 123. (89) HAMMER, Das Schutzsystem der deutschen Denkmalschutzgesetze, in JuS, 1997, p. 971. (90) FECHNER, Prinzipien des Kulturgüterschutzes, cit., p. 23. Altre dibattute finalità della protezione dei beni culturali sono, secondo l’Autore, l’esigenza di garantire l’accessibilità alla comunità ed alla ricerca scientifica. (91) ABELE, op. cit., p. 85. Lo stesso Autore pone in guardia dal pericolo di ‘‘nazionalismi’’ ed ‘‘egoismi’’ culturali ed indica quale direttrice fondamentale la necessità di elaborare un concetto universale di bene culturale. (92) La Germania non ha mai aderito alla Convenzione UNESCO di Parigi del 1970, riguardante le misure per vietare ed impedire ogni illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà concernenti beni culturali. (93) MOENCH, Die Entwicklung des Denkmalschutzrechts, in NVwZ, 1988, p. 304. (94) ABELE, op. cit., pp. 82-84. L’Autore indica poi quali elementi speciali della Schutzüwrdigkeit, il fondamento scientifico, l’interesse per la storia patria, il valore artistico ed infine il rafforzamento dell’identità collettiva. (95) Pongono in guardia dall’insufficienza di definizioni astratte del bene culturale, MÜLLER-KATZENBURG, Internationale Standards im Kulturgüterverkehr und ihre Bedeutung für das Sach- und Kollisionsrecht, Berlin, 1996, p. 131 ss. e ROELLECKE, Warum schützen wir Kulturgüter?, in AA.VV., Aktuelle Fragen des Kulturgüterschutzes, cit., a cura di Mußgnug e Roellecke, Heidelberg, 1998, p. 31. (96) HAMMER, op. cit., p. 972. Per esempio, la legge fondamentale giapponese in tema di tutela dei beni culturali (n. 214 del 30 maggio 1950 mod. con legge n. 78 del 2 dicembre 1983) è volta invece alla protezione anche di prodotti culturali intangibili e di beni
— 532 — essere proprio di singoli oggetti oppure essere dato dal loro costituire un insieme, e si estende spesso alle pertinenze degli oggetti tutelati. L’indicazione di differenti categorie dovrebbe motivare diversi meccanismi di protezione: questo non sempre avviene e pertanto le differenziazioni servono piuttosto a spiegare il concetto di monumento ed a definire con certezza l’oggetto dei comandi e dei divieti (97). La capacità monumentale, e quindi di protezione, spetta alle cose che siano dotate di determinati presupposti, riassumibili in una triade concettuale, storicamente risalente al diritto prussiano e a quello ecclesiastico: la qualità di monumento (‘‘Denkmaleigenschaft’’) esige il significato storico, artistico o scientifico (98). Tali qualità devono essere sempre presenti; l’aspetto storico è proprio anche del significato linguistico del termine ‘‘monumento’’ (‘‘Denkmal’’). I tre criteri sono comunque indipendenti l’uno dall’altro e non devono cumulativamente essere presenti, anche se ciò spesso avviene (99). Inoltre poiché lo studio della storia è sicuramente una scienza, e questa sviluppa sempre nuovi ambiti, è ben possibile che il significato storico sia da attribuire a prodotti da inquadrare nella storia sociale, dell’arte, della tecnica, delle scienze naturali, ecc. (100). Il riferimento a categorie scientifiche non significa che l’interesse scientifico, sebbene ad esso si accompagni il valore di testimonianza storica, sia da solo sufficiente. Infatti i monumenti vengono protetti non tanto per la scienza ma per la comunità (‘‘Allgemenheit’’), la quale fornisce i fondi per la loro conservazione. Pertanto il monumento deve trovare interesse in ampie cerchie di popolazione e ad esso si può spesso attribuire un carattere emozionale: esistono dunque valori monumentali fondati psicologicamente e non su obiettive conoscenze storiche, da tenere in conto. Anche oggetti costituenti testimonianza di epoche ripugnanti possono assumere qualità monumentale. Le Denkmalschutzgesetze non si occupano della tutela delle bellezze naturali, sebbene sotto il vigore della Legge Fondamentale questa possibilità sia consentita ai Länder, avendo il Bund, in tema di protezione delle bellezze naturali, soltanto una competenza legislativa quadro (art. 75, n. 3, GG) (101). Pertanto la protezione delle bellezze naturali, anche culturali folkloristici. FECHNER, op. cit., pp. 18-20, pone in rilievo che la limitazione della protezione a beni materiali è frutto di un luogo comune politico e non deriva da impedimenti giuridici. L’Autore non condivide la presenza di un rischio di eccessivo allargamento del concetto e ritiene anzi auspicabile, dato il collegamento della cultura con la personalità umana, la ricomprensione di beni immateriali nell’ambito della tutela. A tale proposito propone di utilizzare come ‘‘Oberbegriff’’ (‘‘concetto superiore’’) la nozione di ‘‘Schutz kulturellen Erbes’’, la quale, così come quella anglosassone di ‘‘cultural heritage’’ rimanda all’idea di un’eredità di valori e non solo di beni. Nello stesso senso, ABELE, Ist das Verhältnis von Kulturgüterschutz und Eigentum ein Finanzierungsproblem?, cit., p. 80. (97) MOENCH, op. cit., p. 304; ÖKRNER, Denkmalschutz und Eigentumsschutz, Berlin, 1992, p. 22; HAMMER, op. cit., p. 972. (98) In molte leggi di tutela si è cercato di estendere tale fondamentale scelta concettuale, improntando la legislazione ad un metodo casistico privo di conseguenze pratiche. Così sono stati indicati il valore patriottico, storico-tecnico, folkloristico, quello legato ai culti, il significato per lo sviluppo delle condizioni di lavoro e di produzione, ecc. Si tratta in sostanza di specificazioni del valore storico. (99) FECHNER, op. cit., pp. 22-24, ritiene tali elementi costitutivi dell’importanza (Bedeutung) del bene, la quale importanza a sua volta costituisce elemento fondamentale del concetto di bene culturale. Lo stesso Autore (pp. 24-25) nega la natura di elementi costitutivi ad altri criteri pure spesso proposti in dottrina. Così per quanto riguarda la ‘‘qualità’’ dell’oggetto, molti oggetti di interesse storico non hanno alcun pregio artistico; lo stato di conservazione non incide sulla importanza del bene; privo di importanza ai fini della determinazione del concetto di bene culturale, è il suo valore di mercato, così come la sua origine spaziale o temporale. (100) Oggi ogni disciplina scientifica ha la sua storia, documentata da cose che rientrano pertanto nell’ambito di protezione. (101) Ciò deriva non dall’impossibilità di ricondurre alla definizione di Denkmal le bellezze naturali, ché anzi questa possibilità esiste, ma da un’interpretazione storico-sistema-
— 533 — quando abbiano valore storico, è contenuta in apposite leggi a livello federale e dei singoli Länder (102). La « dignità monumentale » (‘‘Denkmalwürdigkeit’’) si concreta nell’interesse pubblico alla conservazione del monumento. Questo interesse attribuisce alle leggi di tutela l’accettazione e la tollerabilità sociale, e concentra la tutela oggettivamente sul monumento e non sull’interesse di cerchie limitate di specialisti. Per quanto intervengano diversi criteri per l’attribuzione della qualità di monumento (rarità della cosa, qualità di tipico rappresentante di una determinata epoca storica, ecc.), deve rimanere ferma l’esistenza, in una cerchia culturale aperta, di un attuale, persistente interesse alla conservazione del monumento. Interessi pubblici e privati che concorrono con quelli alla conservazione del monumento non devono essere presi in considerazione nel momento dell’attribuzione della qualità di monumento, ma possono eventualmente assumere rilevanza nell’indicazione delle modalità per la cura e la conservazione di esso. L’attribuzione della qualità di monumento può avvenire secondo tre diversi sistemi. Il primo sistema richiede soltanto l’esistenza dei presupposti della definizione legale di monumento (Ipso-Iure- oder Tatbestandssystem). Il secondo (Verwaltungsaktssystem) oltre all’esistenza dei predetti requisiti presuppone un atto amministrativo attributivo della qualità di monumento. Infine il terzo sistema (Listen- oder Classementsystem) prevede l’inserimento in apposite liste od elenchi. Alcune Denkmalschutzgesetze prevedono differenti sistemi per diverse categorie di beni, altre attribuiscono tutela rafforzata nel caso di inclusione negli elenchi. La differenza di sistemi rileva soprattutto a proposito dell’elemento psicologico di chi contravviene amministrativamente (Ordnungswidrigkeit) o penalmente (Straftat) alle disposizioni contenute nelle leggi di tutela: infatti la mancanza di dolo ed eventualmente anche di colpa, può essere più facilmente provata nell’ambito del Tatbestandssystem che in quello del Verwaltungsaktssystem e del Classementsystem, nei quali l’attribuzione della qualità monumentale è certificata e resa pubblica. Un’altra conseguenza penalmente rilevante è che l’attribuzione della qualità di monumento attraverso una registrazione in elenchi trasforma la fattispecie del § 304 StGB in una norma penale in bianco, il cui precetto, appunto, attende il suo completamento da una disposizione amministrativa (103). Le conseguenze della qualità di monumento in un bene consistono nell’attribuzione al proprietario o comunque agli aventi diritto all’utilizzazione del bene di doveri di conservazione e nella necessità di autorizzazioni per interventi di qualsiasi natura. Sono poi previsti poteri delle autorità amministrative di visita ai monumenti, doveri di informazione da parte dei possessori dei beni e obblighi di denuncia ove compaiano danni nelle cose tutelate. Il limite interno ai doveri di conservazione dettati dalle Denkmalschutzgesetze è dato dalla ragionevolezza (Zumutbarkeit) degli interventi. Attraverso tale criterio è consentito dare ingresso agli interessi individuali (costituzionalmente riconosciuti) concorrenti con l’interesse pubblico, come per esempio la proprietà privata, la libera espressione dell’arte e della scienza, la libertà di espressione religiosa. In ordine alla proprietà privata è da segnalare che essa è già sottoposta costituzionalmente ad ampie limitazioni (art. 14, I 2, II, GG) ed il riconoscimento di essa non comprende la pretesa ad ottenere dal bene le massime utilità economiche possibili (104). Le limitazioni dovute alla qualità di monumento sono pertanto assolutamente giustificate. Limite agli interventi di conservazione è da considerare l’irragionevotica delle leggi. Mentre infatti le più antiche leggi di protezione dei monumenti comprendevano anche le bellezze naturali, l’intervento di leggi speciali al tempo del Reich le rese prive di oggetto. Le più recenti leggi hanno ritenuto di non occuparsi più di questo settore, anche quando le bellezze naturali assumono valore storico. (102) Fanno eccezione talvolta le testimonianze paleontologiche. Giardini e parchi storici invece ricadono nell’ambito di protezione in quanto segnati dall’intervento dell’uomo. (103) KELLER, Der strafrechtliche Schutz von Baudenkmälern, Diss. Würzburg, 1987, p. 53. (104) Solo interventi insignificanti sono consentiti senza autorizzazione. Il confine di
— 534 — lezza economica, quando infatti i costi di conservazione e gestione superano i proventi derivanti da esso ed il suo valore intrinseco, e non sia possibile intervenire con agevolazioni fiscali o di altro genere. Il coinvolgimento del proprietario nell’attività di conservazione del bene, per esempio attraverso agevolazioni fiscali, può far sì che spesso derivi dallo stesso proprietario la migliore tutela del bene culturale (105). La conservazione dei monumenti può poi confliggere con altri interessi pubblici propri delle amministrazioni comunali: in osservanza delle disposizioni della Legge Fondamentale in tema di cultura le costituzioni dei Länder attribuiscono però carattere essenziale e prevalente alla tutela dei monumenti. Per garantire il rispetto delle disposizioni contenute nelle leggi di tutela, sono previste fattispecie penali e fattispecie amministrative. Dall’analisi della legislazione dei singoli Länder emerge nettamente una preferenza per lo strumento dell’illecito amministrativo. Fattispecie penali sono previste nel § 34 della Niedersächsisches Denkmalschutzgesetz, nel § 35 della Sächsisches Denkmalschutzgesetz e nel § 21 della Denkmalschutzgesetz des Landes Sachsen-Anhalt. In tutte le altre leggi, ma anche in quelle citate accanto alle previsioni penali, vengono contemplate violazioni amministrative (Ordnungswidrigkeiten). Le fattispecie penali consistono in genere in condotte di distruzione di monumenti o di parti essenziali di essi e gli autori vengono colpiti con pene detentive (fino a due anni) e pecuniarie: viene prevista inoltre la possibilità di acquisizione da parte dello Stato dei resti dei monumenti. La norma più articolata è quella del § 35 della Sächsisches Denkmalschutzgesetz, la quale oltre alla condotta citata prevede l’ipotesi degli scavi clandestini e sanziona più lievemente (pena detentiva fino ad un anno) anche comportamenti colposi distruttivi. La concorrenza tra la disposizione del § 304 StGB e quelle dei Länder è risolta a favore della prima: pertanto la norma del § 34 della Niedersächsisches Denkmalschutzgesetz rimane, a causa della disposizione conclusiva del § 304 StGB, senza valore (106). Il settore dei beni culturali non è uno di quelli attribuiti (art. 4, commi 3 ss. EGStGB) all’esclusiva competenza sanzionatoria dei Länder, pertanto la possibilità di emanare norme penali deriva dalla generale attribuzione per materia contenuta nell’art. 74 della Grundgesetz. In questo settore i Länder possono emanare però disposizioni penali solo fino al momento in cui interviene il legislatore federale regolando positivamente o negativamente la materia, così come ha fatto attraverso la previsione del § 304 StGB. Le Ordnungswidrigkeiten sono costituite dalle classiche ipotesi di inosservanza delle disposizioni amministrative previste nelle Denkmalschutzgesetze. Pertanto vengono punite l’inosservanza da parte del proprietario delle prescrizioni in tema di interventi sugli edifici tutelati, l’inosservanza degli obblighi di denuncia in caso di ritrovamenti, i comportamenti privi di autorizzazione modificativi del bene protetto, come la sua rimozione, restauro, destinazione ad uso diverso, l’omissione di notifica del suo trasferimento, la violazione degli obblighi di informazione e di accesso ai monumenti. 2.4. Il modello tedesco: passaggio dall’illecito penale all’illecito amministrativo e distribuzione di competenza in tema di beni culturali tra Stato federale (Bund) e Länder. — Come emerge dall’analisi svolta, il sistema tedesco di tutela dei beni culturali si segnala per la distribuzione di competenze tra Stato federale (Bund) e Länder. A parte sporadiche eccezioni, la direttrice fondamentale in ordine alla scelta tra illecito penale ed illecito amministrativo consiste nel prevedere in forma di illecito penale il danneggiamento del bene culturale e le condotte inosservanti delle prescrizioni in tema di allontanamento di beni culturali, con un residuo spazio per l’illecito amministrativo con riferimento alle violazioni minori: liceità è superato quando viene sensibilmente disturbata l’impressione generale o si interviene pesantemente sulla sostanza del monumento. (105) FECHNER, op. cit., pp. 36-37. (106) TRÖNDLE, Strafgesetzbuch und Nebengesetze, München, 1997, p. 1537.
— 535 — danneggiamento del bene e sua illecita esportazione costituiscono settori di applicazione del diritto penale ed ambiti di competenza statale. Mentre la gamma delle fattispecie presenti nell’ordinamento italiano comprende delitti, contravvenzioni ed illeciti amministrativi, l’ordinamento tedesco compie una scelta più netta, non prevedendo crimini (Verbrechen) ma distinguendo solamente tra delitti (Vergehen) e, residualmente, illeciti amministrativi (Ordnungswidrigkeiten) (107). Il passaggio dalla competenza statale a quella dei singoli Länder significa anche, nell’ordinamento tedesco, assunzione del ruolo di protagonista del sistema di tutela da parte dell’illecito amministrativo. Si tratta di una scelta dovuta ad una valutazione di gravità in ordine al tipo di condotta sanzionata (inosservanza di provvedimenti amministrativi relativi alla gestione del bene) ed alla struttura della fattispecie (pericolo astratto). Ogniqualvolta la tutela del bene culturale rimane sullo sfondo e si presenta invece in primo piano l’esigenza di sanzionare le violazioni delle prescrizioni amministrative, la scelta è per l’illecito amministrativo e non per l’illecito penale, ribaltando così la scelta di fondo del sistema italiano. Si tratta di una scelta e non di una conseguenza dovuta al passaggio dalla competenza federale a quella regionale. Infatti nell’ordinamento tedesco, a differenza di quello italiano dove le Regioni non hanno competenza in campo penale per la riserva di legge statale contenuta nell’art. 25, comma 2, Cost. e nell’art. 1 c.p. (108), anche i Länder hanno competenza penale, seppure non piena: l’art. 3 EGStGB limita la potestà sanzionatoria dei Länder alla potestà di comminare pene detentive non superiori ai due anni, pene pecuniarie non superiori al massimo previsto nel § 40 StGB ed infine la confisca (109). Ma di tale competenza (107) Nell’ordinamento tedesco la differenza tra Verbrechen e Vergehen non risiede, come invece accade nell’ordinamento italiano tra delitti e contravvenzioni, nella previsione di un diverso tipo di pena, ma nella durata minima della pena detentiva (superiore o inferiore ad un anno) e nella possibilità di prevedere nei Vergehen la pena pecuniaria. Le condotte bagatellari prima previste come contravvenzioni (Übertretungen) ricadono ora, con l’abrogazione della 29a sezione del vecchio codice che raggruppava le contravvenzioni, tra le violazioni amministrative. (108) Dottrina e giurisprudenza indicano come decisivi i seguenti argomenti: la competenza in tema di restrizioni a diritti fondamentali non può essere che dello Stato; il principio di uguaglianza dell’art. 3 Cost. impone parità di condizioni nell’intero Stato; argomentando ex art. 5 Cost., un eventuale pluralismo di fonti regionali violerebbe il principio dell’unità politica dello Stato; infine l’art. 120 commi 2-3 vieta alle Regioni di adottare provvedimenti che sono di ostacolo al libero esercizio dei diritti fondamentali dei cittadini. Sul tema, per tutti FIANDACA-MUSCO, Diritto Penale. Parte generale, Bologna 1995, pp. 54-55. (109) Il rapporto tra diritto penale federale e diritto penale regionale è ancora dominato dal principio ‘‘Bundesrecht bricht Landesrecht’’, cioè della prevalenza del primo sul secondo (il verbo brechen esprime un concetto più forte della semplice prevalenza, letteralmente significa ‘‘rompere’’, ‘‘spezzare’’). La clausola fondamentale che regola il rapporto è quella c.d. di ‘‘necessità’’ (Bedürfnisklausel): il legislatore federale interviene solo quando ciò sia necessario (art 72, comma 2, GG). A parte i casi di competenza esclusiva dell’uno o dell’altro potere, nei casi di concorrenza legislativa, Bund e Länder possono dirsi concordare nella conclusione che il diritto penale è fondamentalmente federale (Bundesrecht), per evitare violazioni del principio di uguaglianza, e che solo speciali circostanze possono giustificare l’emanazione di disposizioni penali da parte dei Länder. Analoghe conclusioni valgono per le Ordnungswidrigkeiten. Sul rapporto tra Bundesstrafrecht e Landesstrafrecht, per tutti JESCHECK-WEIGEND, op. cit., pp. 113-115. Le norme che regolano i rapporti tra i due poteri sono contenute nell’art. 1, comma 2 e nell’art. 4, commi 2-5, EGStGB. In breve, la parte generale dello Strafgesetzbuch vale anche per il diritto regionale presente e futuro. A proposito della parte speciale, si distinguono quattro gruppi di disposizioni penali dei Länder: nel primo rientrano quelle disposizioni che abbiano ad oggetto materie di non esclusiva competenza del codice penale; nel secondo e nel terzo gli speciali settori tributario, dei campi e delle foreste; l’ultimo gruppo riguarda i casi in cui la competenza penale dei Länder deriva dall’attribuzione della relativa materia. In questo ultimo caso la competenza legislativa federale e locale è concorrente (art 74, n. 1,
— 536 — penale nel settore in esame, a parte sporadiche eccezioni limitate ad ipotesi però di effettiva lesione del bene, i Länder ritengono di non avvalersi. La scelta della tecnica sanzionatoria in tema di tutela dei beni culturali rientra appieno nella logica che guida il diritto penale complementare (Nebenstrafrecht) in Germania, dove il diritto penale amministrativo (Ordnungswidrigkeitenrecht), il quale rappresenta un sistema punitivo omologo e parallelo a quello penale, è divenuto vero e proprio nucleo centrale (Kernbereich) della legislazione complementare (110). La scelta tra illecito penale (Straftat) ed illecito amministrativo (Ordnungswidrigkeit) avviene sulla base dei criteri indicati dalla dottrina per distinguere tali forme di illecito (111). Le Ordnungswidrigkeiten, illeciti amministrativi sanzionati con ammenda (Geldbuße), sono state introdotte nell’ordinamento tedesco nel 1945 ed esse si ricollegano, in modo adattato alle esigenze moderne, al vecchio Verwaltungsstrafrecht (Diritto penale amministrativo), previsto già nella legislazione prussiana del 1794. La linea di confine tra questo genere di infrazioni e le fattispecie penali, soprattutto a proposito delle fattispecie bagatellari, ha costituito oggetto di dibattito dottrinale. La distinzione viene da taluno ritenuta di ordine qualitativo, da altri di ordine quantitativo. Dal punto di vista qualitativo si afferma che le Ordnungswidrigkeiten sarebbero poste a tutela non di beni giuridici ma di beni dell’amministrazione; da altri che esse non provocano un danno individuale ma un danno sociale; oppure che esse si esauriscono in semplici disubbidienze, senza residuare alcun giudizio di disvalore etico. Dal punto di vista quantitativo, si afferma che esse presentano un contenuto minore di illiceità rispetto alle fattispecie penali. In realtà nessuno di questi criteri viene ritenuto esauriente, in quanto vengono classificati come Ordnungswidrigkeiten non solo violazioni di precetti amministrativi, ma pure altri delitti di pericolo astratto, come nel caso in cui si tratti di disposizioni a tutela della vita e della salute individuale. Né si può ritenere che le fattispecie si risolvano sempre in mere disobbedienze, in quanto la materia del traffico stradale comprende condotte causative di danno. Date queste osservazioni, si ritiene che il criterio di distinzione sia dato dalla ‘‘dignità penale’’ (Strafwürdigkeit) del fatto: le Ordnungswidrigkeiten hanno in comune con le fattispecie penali un grado intenso di pericolosità per il bene giuridico tutelato o per l’interesse dell’amministrazione, così da richiedere l’intervento di una sanzione punitiva statale e così distinguendosi dalle violazioni contrattuali e dagli illeciti di polizia; il loro grado di pericolosità è però minore di quello delle fattispecie penali ed il pregiudizio che esse recano all’oggetto tutelato è perlopiù insignificante. In definitiva ciò che caratterizzerebbe questo tipo di illecito sarebbe la mancanza di un alto grado di riprovevolezza (Verwerflichkeit) nell’atteggiamento interiore dell’autore (112). La scelta dell’illecito amministrativo significa anche una scelta di disciplina (113). La GG), ed i Länder possono emanare le corrispondenti disposizioni penali sino a che la materia in questione non viene regolata positivamente o negativamente dal legislatore federale. (110) Sul diritto penale complementare, sul ruolo assunto dal penale amministrativo e sugli sviluppi più recenti, DE SIMONE, Il diritto penale complementare nel sistema tedesco: un primo sguardo d’insieme, in AA.VV., La riforma della legislazione penale complementare. Studi di diritto comparato, a cura di Donini, Padova, 2000, p. 87 ss. (111) Su tale rapporto nel campo ambientale, cfr. CATENACCI-HEINE, La tensione tra diritto penale diritto amministrativo nel sistema tedesco di tutela dell’ambiente, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1990, 921 ss. (112) JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts - Allgemeiner Teil, Berlin, 1996, pp. 58-59. Nella dottrina italiana, DOLCINI-PALIERO, L’illecito amministrativo (Ordnungswidrigkeit) nell’ordinamento della Repubblica Federale di Germania: disciplina, sfera di applicazione, linee di politica legislativa, in questa Rivista, 1980, p. 1134 ss. (113) DOLCINI-PALIERO, op. cit., pp. 1141-1143. Gli Autori osservano come la disciplina dell’illecito amministrativo ricalchi il modello penalistico. Significativa viene però giudicata l’innovazione in tema di concorso di persone rispetto alla tradizione dogmatica tedesca, prevalentemente ancorata alla rigida distinzione di ruoli dei partecipi: viene infatti introdotta una concezione formale unitaria, del tutto simile a quella propria del codice penale ita-
— 537 — struttura dell’illecito amministrativo è particolarmente consona ai comportamenti previsti nelle Denkmalschutzgesetze: le Ordnungswidrigkeiten consistono generalmente in illeciti di pura condotta e sono solitamente configurate in termini di pericolo astratto. In ordine alla punibilità del tentativo, possibile solo in caso di previsione espressa e costruito in chiave soggettiva, le disposizioni delle Denkmalschutzgesetze non recano alcuna disposizione in proposito. La regola in tema di imputazione soggettiva è della responsabilità dolosa, costituendo l’imputazione colposa l’eccezione, anche se nella realtà la prospettiva muta in quanto è di gran lunga prevalente l’imputazione colposa. Le fattispecie previste nelle Denkmalschutzgesetze prevedono nella assoluta maggioranza dei casi la possibilità di una duplice imputazione, dolosa o colposa, in quanto le disposizioni iniziano in questo modo: « Ordnungswidrig handelt, wer vorsätzlich oder fahrlässig... ». Si assiste poi spesso, in generale, ad una prassi applicativa che, a proposito della responsabilità dolosa ricorre agli schemi del dolus in re ipsa, ed in tema di responsabilità per colpa a vere e proprie presunzioni. GIAN PAOLO DEMURO Dottore di ricerca in Diritto penale italiano e comparato Università di Sassari
liano. In ordine infine al possibile concorso tra illecito penale ed illecito amministrativo è sancita la prevalenza dell’illecito più grave, cioè del reato.
GIURISPRUDENZA
c) Giudizi di Cassazione
CORTE DI CASSAZIONE — Sez. I pen. — 2 dicembre 1999, n. 1075 Pres. Pirozzi — Ricorso proposto da Cucitro Mario + altri Annullamento parziale con rinvio - Autorità di cosa giudicata delle parti non investite dall’annullamento - Sussistenza - Connessione essenziale con la parte annullata - Esclusione - Acquisibilità della sentenza come prova documentale Sussistenza (C.p.p., artt. 624 e 238-bis). È legittima l’acquisizione al fascicolo del dibattimento, ai fini della prova dei fatti in esse accertati, di sentenze che siano state oggetto di annullamento parziale con rinvio da parte della Corte di cassazione, allorquando la loro utilizzazione come prova documentale sia limitata a quelle parti di sentenza su cui deve ritenersi già formato il giudicato: poiché nel caso di specie l’unico punto della decisione ancora in discussione era quello riguardante l’esistenza della continuazione, mentre i punti dell’accertamento del fatto e della responsabilità dell’imputato — per il principio della formazione progressiva del giudicato penale — avevano già acquisito autorità di cosa giudicata, deve ritenersi rispettato il disposto dell’art. 238-bis c.p.p., che subordina l’utilizzazione di una sentenza come prova documentale al requisito dell’intervenuta irrevocabilità (1). (Omissis). — Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso, Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere dr. Giordano, Udito, per la parte civile, l’avv. ..., Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale dr. Galgano che ha concluso per il rigetto dei ricorsi, Uditi i difensori avv. Alfano, Aricò, Calabrese, Dambrosio, Del Vecchio, Falci, Fulco, Gabola, Mazzuca e Cirese in sostituzione dell’avv. Pansini. Osserva: gli otto attuali ricorrenti sono stati rinviati a giudizio davanti alla Corte di assise di Salerno per rispondere di quattro episodi delittuosi avvenuti nel 1990 in ambienti camorristici della zona di Pagani e Nocera. Tutti i predetti episodi hanno avuto origine da iniziative criminali del gruppo radicato a Nocera Inferiore, tra i cui esponenti di spicco vi era Pepe Mario, tendenti prima ad eliminare al suo interno personaggi ritenuti eccessivamente ambiziosi o inaffidabili — questa è la lettura che secondo l’ipotesi accusatoria recepita dai giudici del merito va data al duplice omicidio aggravato di Caldarese Giuliano e Risi Michele (capi F-G-H-I) avvenuto in Nocera Superiore il 9 marzo 1990 e al-
— 539 — l’omicidio di Coppola Raffaele (capi L-M-N-O) avvenuto in Pagani il 23 marzo 1990 e ai contestuali reati di sequestro di persona, violazione delle leggi sulle armi e occultamento di cadavere — e poi, dopo le spaccature verificatesi nella consorteria denominata « Nuova Famiglia » dominante in quel territorio, a contrastare il gruppo rivale (prima alleato) capeggiato da Olivieri Giuseppe — il che ha dato luogo al duplice omicidio aggravato di Olivieri Gradinoro e Fezze Salvatore (capi A-B-C e, per l’Archetti, 1-2) avvenuto in Pagani il 19 ottobre 1990 e all’omicidio aggravato di Citarella Gennaro (capi D-E) avvenuto in Nocera Inferiore il 15 dicembre 1990 e ai contestuali reati di violazione delle leggi sulle armi e spari in luogo pubblico (contravvenzione di cui ai capi C e 2 per cui è stata dichiarata già in primo grado la prescrizione). La prova nei confronti degli attuali ricorrenti è stata desunta dalle dichiarazioni del Pepe Mario e di alcuni affiliati al suo gruppo — Cesa Marco, De Vivo Bruno (coimputato in questo processo non ricorrente), Gaudio Giovanni, Giordano Pietro e Marcello Vincenzo — i quali, divenuti collaboratori di giustizia, hanno ammesso il loro coinvolgimento negli episodi di cui si tratta (il Pepe come mandante e gli altri con vari ruoli) e hanno chiamato in correità, ribadendo la loro versione in sede di esame dibattimentale, altre persone. In esito al giudizio di primo grado, ritenuta la continuazione tra i vari fatti e concesse le attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulle aggravanti per l’Archetti e di mera equivalenza per tutti gli altri, con sentenza in data 22 luglio 1997 il Bisogno e il Carusone sono stati condannati rispettivamente a 26 anni e a 24 anni di reclusione per concorso nell’episodio in danno del Caldarese e del Risi, il Nocera e il Saggese a 26 anni ciascuno per concorso nell’episodio in danno del Coppola, il Paolillo a 24 anni per concorso in quest’ultimo episodio, l’Archetti a 16 anni per concorso nell’episodio in danno dell’Olivieri Gradinoro e del Fezza, il Cucitro a 30 anni per concorso in tutti gli episodi oggetto del procedimento tranne quello in danno del Caldarese e del Risi; il Ruggiero invece è stato assolto per carenza di prove dell’elemento soggettivo dei reati dalle imputazioni relative all’episodio in danno del Citarella. Proposto ricorso dal Procuratore Generale di Salerno e dagli imputati, con sentenza in data 29 dicembre 1998 la locale Corte di assise di appello ha adottato le seguenti statuizioni: ha dichiarato inammissibile l’appello incidente del Paolillo; ha confermato la decisione di primo grado nei confronti del Bisogno, del Nocera, del Saggese e dell’Archetti; escluse, in accoglimento del gravame del P.G., le attenuanti generiche concesse al Bisogno e al Cucitro li ha condannati alla pena dell’egastolo; ha dichiarato il Ruggiero colpevole di concorso nell’omicidio del Citarella e nelle strumentali violazioni delle leggi sulle armi e, concesse le attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulle aggravanti, lo ha condannato a 14 anni e 6 mesi di reclusione. Questa in sintesi la ricostruzione dei vari episodi che i giudici del merito hanno operato sulla base delle dichiarazioni auto ed eteroaccusatorie dei menzionati collaboratori che sono state ritenute soggettivamente ed intrinsecamente attendibili, concordanti sul piano della prova generica con le risultanze delle indagini di polizia giudiziaria e degli accertamenti peritali e idonee, sul piano della prova specifica, a reciprocamente riscontrarsi. L’eliminazione del Caldarese, già da tempo decisa (il Risi fu vittima occasionale solo perché si trovava in sua compagnia), era stata attuata in occasione di una
— 540 — sua visita nella fabbrica del Citarella, dal quale si era recato per saldare un debito; nelle fasi del sequestro delle due vittime, che si protrasse in un capannone della fabbrica per alcune ore, e della loro uccisione eseguita con colpi di arma da fuoco in altro luogo ove era stata scavata una fossa erano intervenuti, oltre al predetto Citarella, il Cesa, il De Vivo, il Fezza, il Gaudio, l’Olivieri Giuseppe, l’Olivieri Gradinoro e il Pepe nonché, con mansioni esecutive diverse dall’azione omicida che venne posta in essere dal Fezza e dall’Olivieri Gradinoro, il Bisogno e il Carusone (a parlare della presenza di questi ultimi sono stati il Cesa, il De Vivo, il Gaudio e il Pepe). Quanto al Coppola, giovane tossicomane che aveva tenuto comportamenti sgraditi al gruppo, era stato indotto dal Cesa e da Montagna Marcello a seguirli in un edificio in costruzione appartenente al Cucitro dove era stato immobilizzato da costui, dal De Vivo, dal Giordano, dall’Olivieri Giuseppe, dall’Olivieri Gradinoro, dal Nocera, dal Paolillo e dal Saggese (a parlare della presenza di questi tre ultimi sono stati il Cesa, il De Vivo, il Giordano e il mandante Pepe, il quale aveva programmato anche l’eliminazione del padre della vittima, rinunciandovi solo all’ultimo momento); a sparare era stato l’Olivieri Gradinoro con una pistola cal. 6,35 appartenente alla stessa vittima, il cui corpo era stato poi seppellito in un luogo vicino; e, quando erano iniziate le propalazioni del Pepe, il cadavere era stato tolto da tale luogo dal De Vivo che ha detto di averlo ritrovato seguendo le indicazioni del Saggese. L’eliminazione a colpi di arma da fuoco del Fezza e dell’Olivieri Gradinoro era avvenuta, mentre i due rientravano a Pagani in auto da Poggiomarino dove avevano partecipato a una riunione del proprio gruppo divenuto ormai avversario di quello del Pepe, da parte di un commando formato dal Cesa, dal Giordano, dal Marcello e dal Gaudio coordinati dal Cucitro e supportati da Guidone Marco, dal Montagna, da Monti Salvatore e dall’Archetti (dell’attività di avvistamento delle vittime svolta da quest’ultimo hanno parlato gli esecutori materiali e il mandante Pepe). Il Citarella infine era stato ucciso, per vendicare la morte di Sale Antonio, mentre insieme alla moglie faceva rientro nella sua abitazione nel cui giardino si erano appostati, in esecuzione di ordini trasmessi dal Cucitro, il Marcello, il Montagna e il Monti allertati dal Ruggiero che si era prestato a un lungo appostamento vicino alla casa, pur essendo estraneo all’organizzazione, per fare un favore al Pepe al quale era devoto e che dopo l’azione aveva provveduto anche a prelevare e a riportare in auto a Pagani il Montagna e il Monti (di questi suoi compiti hanno parlato il Giordano, il Marcello e, sia pure in termini riduttivi, il Pepe nonché il Cesa e il Gaudio). I ricorsi per cassazione proposti dai difensori degli imputati avverso la pronuncia della Corte di assise di appello investono tutti, con censure di violazione di legge e vizio di motivazione, la valutazione delle chiamate in correità da cui sono stati raggiunti i rispettivi assistiti. Sotto tale profilo la difesa del Bisogno ha negato attendibilità intrinseca alle varie chiamate, e particolarmente a quella del Pepe, per difetto di spontaneità e precisione e ha sostenuto l’inconsistenza del riscontro esterno rappresentato da un credito che il Citarella effettivamente vantava nei confronti del Caldarese, in quanto sarebbe stato estinto prima del fatto. E la chiamata del Pepe è oggetto di critiche anche da parte della difesa del
— 541 — Carusone, la quale avanza il sospetto che il dichiarante fosse animato dall’intento di nuocere a costui in quanto figlioccio del suo nemico Olivieri Giuseppe e gli abbia quindi attribuito un comportamento, l’accompagnamento delle vittime nel luogo ove furono uccise, che non aveva potuto vedere essendosi allontanato prima dalla fabbrica del Citarella. La stessa difesa sottolinea ancora il fatto che un altro chiamante, il Cesa, ha dimostrato incertezze sulla presenza del Carusone al momento del duplice omicidio. Da parte della difesa del Bisogno sono stati inoltre formulati motivi: in ordine all’esistenza dell’aggravante della premeditazione, che si vorrebbe fosse esclusa per l’estemporaneità della visita del Caldarese al Citarella; in ordine alla mancata rinnovazione del dibattimento per sentire Pagano Nicola e Nappo Gennaro, due operai del Citarella che erano in fabbrica il giorno del fatto; in ordine all’esclusione delle attenuanti generiche, per cui si lamenta ingiustificata disparità di trattamento con il Carusone; ed in ordine al mancato assorbimento del reato di sequestro di persona in quello di omicidio. La difesa del Paolillo contesta la legittimità della declaratoria di inammissibilità dell’appello da costui proposto in via incidentale. Per il Nocera vi è un unico motivo che attiene alla valutazione delle chiamate, cui si nega il requisito dell’autonomia, e si sostiene che comunque da essa emergerebbe solo una partecipazione dell’imputato al sequestro del Coppola e non al suo omicidio. Da parte della difesa del Saggese vi sono critiche all’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni dei collaboratori, soprattutto di quelle del Cesa e di quelle del De Vivo in punto di indicazioni che costui avrebbe ricevuto dallo stesso Saggese sul posto ove era sepolto il Coppola, e si evidenzia che dai predetti collaboratori sono state indicate differenti causali del crimine. La stessa difesa ha inoltre formulato motivi con i quali si duole della mancata rinnovazione del dibattimento per procedere a confronto tra il Saggese e il De Vivo e solleva una questione di carattere processuale con riferimento all’acquisizione delle sentenze di condanna emesse in primo e secondo grado a carico dei collaboratori, utilizzate dai giudici del merito per la verifica della loro attendibilità, che si assume avvenuta in violazione dell’art. 238-bis c.p.p. non essendo dette sentenze ancora irrevocabili. La difesa dell’Archetti ha formulato un unico motivo con il quale contesta l’affermazione di responsabilità del prevenuto, in quanto fondata unicamente su chiamate incrociate, e ne evidenzia la scelta collaborativa come ragione per attribuire attendibilità alla sua negativa di avere partecipato all’omicidio del Fezza e dell’Olivieri Gradinoro. Si fonda su una critica delle chiamate in correità anche il motivo principale della difesa del Cucitro — l’unico, si è visto, che è stato condannato per più di un episodio — che evidenzia in particolare l’assenza di riscontri oggettivi ed anzi l’esistenza, su questo piano, di una smentita non avedo l’edificio in costruzione appartenente all’imputato le caratteristiche di quello descritto dai collaboratori come luogo in cui venne portato il Coppola. La stessa difesa si è inoltre doluta dell’irrogazione dell’ergastolo come conseguenza dell’esclusione delle attenuanti generiche che erano state concesse in primo grado e, in sede di discussione del ricorso, ha invocato come precedente fa-
— 542 — vorevole la sentenza di annullamento con rinvio emessa da questa Sezione il 28 settembre 1999 nei confronti di Guidone Marco, altro imputato condannato per il duplice omicidio del Fezza e dell’Olivieri Gradinoro la cui posizione è stata in secondo grado giudicata separatamente. La difesa del Ruggiero infine ha riproposto in via preliminare l’eccezione di nullità del giudizio di secondo grado, già respinta dalla Corte di assise di appello, per violazione dell’art. 178, lett. c), c.p.p. in quanto non sarebbe stato rispettato il termine di cui all’art. 601, comma 5, c.p.p., secondo cui l’avviso della data fissata per il giudizio di appello deve essere notificato ai difensori almeno venti giorni prima, poiché nel caso di specie il periodo intercorso tra detta notifica e l’inizio del dibattimento (7 dicembre 1998) ha coinciso con quello in cui i termini processuali erano sospesi in forza dell’art. 3, l. 3 agosto 1998, n. 267, che ha convertito con modificazioni il d.l. 11 giugno 1998, n. 180 recante norme urgenti per la prevenzione del rischio idrogeologico ed a favore delle zone colpite da disastri franosi nella regione Campania. Quanto all’affermazione di responsabilità, la difesa del Ruggiero assume in sostanza che le dichiarazioni dei collaboratori non sarebbero sufficienti a provare gli estremi oggettivi e soprattutto quelli soggettivi del concorso del prevenuto nell’omicidio del Citarella. Nessuna di queste censure ha fondamento, e tutti i ricorsi devono quindi essere rigettati con le conseguenze in ordine alle spese processuali previste dall’art. 616 c.p.p. Correttamente il giudice di secondo grado ha dichiarato inammissibile l’appello proposto ai sensi dell’art. 595 c.p.p. con il quale il Paolillo, mentre il gravame del Procuratore Generale nei suoi confronti riguardava solo l’entità dell’aumento di pena per la continuazione, aveva fatto oggetto di censura l’affermazione di responsabilità e la ritenuta esistenza dell’aggravante della premeditazione di cui non si era doluto nel normale termine per impugnare. Secondo la giurisprudenza di questa Corte nettamente prevalente, che il Collegio ritiene senz’altro condivisibile (cfr. in particolare le sentenze della III Sezione 13 novembre 1995, Giacomazzo e 17 febbraio 1993, Sembolini), l’appello incidentale deve invero inerire ai capi e punti della decisione oggetto di quello principale, poiché altrimenti sarebbero travalicati i limiti del devoluto e si determinerebbe la vanificazione di fatto dei termini fissati tassativamente per proporre impugnazione. Non sussiste la nullità del giudizio di secondo grado eccepita nell’interesse del Ruggiero. La Corte di assise di appello ha in proposito esattamente osservato che l’art. 3 della l. n. 267/1998 non ha sospeso indistintamente tutti i termini processuali in scadenza nel periodo dal 5 maggio al 31 dicembre 1998, bensì solo quelli « comportanti decadenze da qualsiasi diritto, azione od eccezione », evento che per il Ruggiero (che ha presenziato al dibattimento) e il suo difensore non si è affatto verificato poiché l’unico termine decorso in detto periodo è quello per comparire di natura dilatoria. Anche la questione processuale sollevata nell’interesse del Saggese è priva di fondamento. Il fatto che le sentenze di condanna a carico dei chiamanti in correità della cui acquisizione il ricorrente si duole non fossero ancora irrevocabili, pendendo giudi-
— 543 — zio di rinvio in seguito all’annullamento parziale deciso da questa Corte, non ha invero rilievo in quanto la ratio della limitazione posta dall’art. 238-bis c.p.p. risulta essere stata in concreto pienamente rispettata, l’unico punto ancora in discussione essendo l’esistenza della ritenuta continuazione mentre si era ormai formato il giudicato in ordine all’affermazione di responsabilità dei predetti, e quindi in ordine alla loro partecipazione ai vari episodi criminosi che è l’aspetto che interessa in questo procedimento. (Omissis). P.Q.M. — Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali. (Omissis).
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Ennesimo intervento della Corte di cassazione in tema di formazione progressiva del giudicato penale: acquisibili ex art. 238-bis c.p.p. anche le sentenze parzialmente irrevocabili.
1. La pronuncia che si commenta fornisce l’occasione per alcune riflessioni su due argomenti classici del diritto processuale penale, i cui destini vengono oggi singolarmente ad incrociarsi: la sentenza penale irrevocabile come mezzo di prova da un lato, la formazione progressiva del giudicato penale dall’altro. Che la sentenza penale irrevocabile potesse valere come prova dei fatti in essa accertati è, infatti, affermazione ricorrente anche se, fino all’introduzione dell’art. 238-bis c.p.p. (1), non era suffragata da un’esplicita disposizione di legge e risultava pertanto priva di uno specifico e stabile inquadramento in una delle categorie generali del diritto probatorio. In quest’ordine di idee, parte della dottrina ha ritenuto di rinvenire nell’ipotesi di efficacia del giudicato penale in giudizi extrapenali non di danno (disciplinata dall’art. 654 c.p.p. e dall’art. 28 c.p.p. abr.) un fenomeno di natura probatoria rientrante, per la precisione, nell’alveo delle prove legali. Evidentemente, il rinvio agli elementi contenuti nella motivazione della sentenza irrevocabile — imposto allorquando a rilevare non sia il semplice fatto che un imputato sia stato condannato o assolto, ma « alcune questioni che costituirono gli antecedenti logici della vera e propria pronuncia » (2) — è parso « contraddittorio agli occhi di chi ritiene che la sentenza dovrebbe valere (...) per la decisione sul reato in essa contenuta, e dovrebbe rivestire efficacia di giudicato entro questi limiti(...) »; si è così creduto più consono « alla reale natura del fenomeno considerarlo come sintomo di una situazione di natura probatoria » (3), fino a fare affermare come « più che res iudicata, questo vincolo è effetto probatorio-legale » (4), innanzi al quale al giudice civile non resterebbe che « credere nella verità degli accertamenti operati in sede penale » (5). Con riguardo, poi, all’abrogato (1) Ad opera del d.l. n. 306/1992, convertito nella l. n. 356/1992. (2) E.T. LIEBMAN, L’efficacia della sentenza penale nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1957, p. 12. (3) Entrambe le citazioni sono tratte da G. TRANCHINA, L’esecuzione, in AA.VV., Diritto processuale penale, II, Milano, 1999, p. 593. (4) F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 2000, p. 1151 (nonché pp. 1153-1155) e, con riguardo all’art. 28 c.p.p. abr., Procedura penale, Milano, 1987, p. 1095. (5) M. VARADI, La sentenza penale come mezzo di prova, in Riv. dir. proc. civ., 1943, p. 262, il quale, secondo M. CENERINI, Introduzione storica allo studio dell’autorità del giudicato penale nel giudizio civile, in Riv. dir. proc., 1989, p. 781, ha sviluppato una tesi originariamente dovuta a P. TUOZZI, L’autorità della cosa giudicata nel civile e nel penale, Torino, 1900, pp. 411-501, per il quale in alcuni
— 544 — regime della pregiudizialità ‘‘omogenea’’, sul valore che il giudicato emesso nel processo pregiudicante doveva assumere nei confronti del procedimento pregiudicato si era avanzata l’ipotesi di considerarlo alla stregua di un elemento probatorio liberamente valutabile dal giudice, senza, cioè, alcun vincolo di giudicato o prova legale; in assenza di esplicite disposizioni — ed esclusa l’eventualità che il rinvio del procedimento pregiudicato fosse dettato dalla necessità che il giudicato pregiudiziale vi facesse stato (6) — si era ritenuto che il giudice del procedimento pregiudicato potesse « utilizzare i risultati dell’indagine e quindi il materiale probatorio già vagliato dal giudice del primo procedimento » (7), la cui pronuncia lo metteva in condizione di « decidere nel migliore dei modi, e cioè tenendo presenti tutti i dati della situazione, ivi incluso il responso sulla questione pregiudiziale, dal quale potrebbero emergere utili suggerimenti » (8). Un altro caso di sentenza penale come mezzo di prova poteva e può continuare a individuarsi nel campo della revisione: l’art. 630, comma 1, lett a), c.p.p. prevede, come ipotesi di esperibilità di tale mezzo di impugnazione, il conflitto teorico di giudicati, che si configura allorquando « i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto penale di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un’altra sentenza penale irrevocabile », dove con l’espressione « fatti » il legislatore si è riferito « non semplicemente ad un contrasto relativo agli elementi delle fattispecie giudiziali enunciate nel dispositivo, ma anche (anzi, soprattutto) ad un contrasto tra i giudizi storici effettuati nell’iter logico compiuto dal giudice per giungere alla conclusione » (9). Secondo quanto disposto dal comma 2 dell’art. 633 c.p.p., con la rigiudizi civili la sentenza penale irrevocabile « viene esibita non per essere messa in esecuzione, ma probationis causa, allo stesso modo come si esibirebbe un istrumento di acquisto, una deliberazione consiliare, un verbale di possesso, nel caso che da uno di questi atti si volesse cavare la prova dell’assunto giuridico » (op. cit., p. 427); P. CALAMANDREI, La sentenza civile come mezzo di prova, in Riv. dir. proc. civ., 1938, p. 128; E. ALLORIO, Problemi di diritto, I, Milano, 1957, p. 409; G. DE LUCA, I limiti soggettivi della cosa giudicata penale, Milano, 1963, p. 76. Più di recente si vedano G. DE ROBERTO, La pregiudizialità penale tra « vecchio » e « nuovo » codice, in Giust. pen., 1989, III, p. 249; G. DI CHIARA, Premesse in facto nella motivazione della sentenza penale e dinamiche del vincolo extrapenale sugli « altri » giudizi civili od amministrativi, in Dir. fam pers., 1995, p. 90; C. CONSOLO, Del coordinamento fra processo penale e processo civile: antico problema risolto a metà, in Riv. dir. civ., 1996, p. 240; G. SPANGHER, Nuovi profili nei rapporti fra processo civile e processo penale, in AA.VV., Nuovi profili nei rapporti fra processo civile e processo penale, Atti del Convegno di studio di Trento (18-19 giugno 1993), Milano, 1995, pp. 60 e 62; L. MONTESANO, Il « giudicato penale sui fatti » come vincolo parziale all’assunzione e alla valutazione delle prove civili, ivi, p. 72, il quale, affrancandosi da interpretazioni legate a una visione di prova legale in senso stretto, è giunto fino al punto di ammettere la possibilità, per il giudice civile, di servirsi, al fine di una più approfondita cognizione dei medesimi fatti già oggetto di un giudicato penale, « di mezzi istruttori diversi da quelli usati nel giudizio penale » (op. cit., p. 73; in senso conforme, C. CONSOLO, op. cit., p. 255). (6) Infatti, « l’efficacia di giudicato non è un’efflorescenza spontanea ma un effetto giuridico che (...) suppone una norma che lo statuisca (...), sarebbe ingenuo supporre che l’efficacia vincolante (...) sia implicita nel dovere, imposto dall’art. 18, di sospendere il processo pregiudicato »: così F. CORDERO, Procedura, 1987, cit., pp. 1086-1087. Alla medesima conclusione giungono G. DE LUCA, op. cit., p. 225 « la conclusione, alla quale pervengono i fautori della tesi dell’efficacia riflessa del giudicato penale rispetto ai terzi, si basa sullo scambio tra connessione e pregiudizialità in senso tecnico »; G. LOZZI, Profili di un’indagine sui rapporti tra « ne bis in idem » e concorso formale di reati, Milano, 1974, pp. 10-14, il quale mette particolarmente in luce come « se nel procedimento per ricettazione fosse preclusa la dimostrazione della non provenienza delittuosa della res ne risulterebbe vanificato il diritto di difesa » (op. cit., p. 13). (7) G. DE LUCA, op. cit., p. 217; in questo modo il giudice « può valutare liberamente, senza sottostare a vincoli di sorta » (op. cit., p. 218) gli elementi di prova e gli accertamenti contenuti nella sentenza irrevocabile. (8) F. CORDERO, op. ult. cit., p. 1087; nello stesso senso G. LOZZI, op. cit., pp. 12-13; E. MARZADURI, sub art. 479, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, V, Torino, 1991, p. 106. La conseguenza, secondo G. DE ROBERTO, op. cit., p. 249, è che il giudice del processo pregiudicato, nel valutare le prove, « non potrà non tenere conto — pena il difetto di motivazione della sentenza — delle acquisizioni disposte nel procedimento pregiudiziale » dovendo, se del caso, « motivare il suo contrario avviso rispetto al precedente giudizio » (op. cit., p. 248). (9) G. LOZZI, op. cit., p. 23.
— 545 — chiesta di revisione è necessario produrre la copia autentica della sentenza che si ritiene in contrasto con quella impugnata: orbene, si è giustamente affermato che in tal caso la precedente sentenza « si presenta come mezzo di prova, nel senso che dalla sua motivazione può arguirsi l’esistenza di quel contrasto logico che condiziona l’ammissibilità del ricorso » (10). Infine, un’ulteriore ipotesi di giudicato come mezzo di prova è rinvenibile, come è stato autorevolmente dimostrato, nell’art. 596 u.c. c.p. il quale prevede che, ove sia stata provata la verità del fatto attribuito dall’offensore all’offeso dal reato di ingiuria o diffamazione o questi sia per esso condannato, l’autore dell’imputazione non è punibile e la condanna a carico dell’offeso comporta l’obbligo per il giudice di assolvere l’autore del fatto ingiurioso o diffamatorio: la natura dell’esenzione da pena deve rinvenirsi, perlomeno per le ipotesi contemplate nell’art. 596 c.p. nelle quali si riscontri « la simultanea pendenza di due processi nei quali un medesimo fatto giochi il ruolo di oggetto dell’indagine giudiziaria, sia pure in due diverse spoglie » (11), nella sentenza di condanna pronunciata a carico dell’offeso, la quale si atteggia « come una prova incontrovertibile della verità dell’addebito » cui « l’ordinamento (...) ricollega le medesime conseguenze che, nel campo del processo civile, discendono dalla confessione o dal giuramento » (12). Anche al di fuori delle suindicate forme legali di efficacia probatoria dei giudizi di fatto contenuti nella motivazione, si era poi teorizzata una loro generale riconducibilità allo schema delle presunzioni, « in ossequio alla massima di esperienza secondo la quale è probabile che i giudizi di fatto contenuti in una sentenza passata in giudicato corrispondano alla verità » (13): in questo modo il secondo giudice verrebbe legittimato ad « utilizzare le asserzioni di fatto del primo giudice, come fonte di convinzione, valutandole come si fa delle prove semplici » (14). Se questo breve excursus ha svelato la ricorrenza dell’opinione per la quale la sentenza penale irrevocabile può costituire prova dei fatti in essa accertati, con l’art. 238-bis c.p.p. il legislatore ha provveduto ad includerla espressamente nel catalogo di quei particolari mezzi di prova che sono i documenti (capo VII, titolo II del libro delle prove): la conseguenza è che in presenza di un testo, seppure (10) G. DE LUCA, op. cit., p. 108; nello stesso senso A. CRISTIANI, La revisione del giudicato nel sistema del processo penale italiano, Milano, 1970, p. 158; R. VANNI, Revisione del giudicato, in Enc. del dir., XL, Milano, 1989, p. 180. Un discorso analogo sembra possa essere avanzato anche: a) per l’ipotesi di revisione determinata dalla revocazione di un precedente giudicato di un giudice non penale che abbia definito una questione pregiudiziale posta a fondamento della pronuncia penale (art. 630, lett. b) c.p.p.) ove, secondo E. MARZADURI, op. cit., p. 106, « nei casi in cui non viene disposta la sospensione del dibattimento (...) la sentenza definitiva del giudice extrapenale sulla pregiudiziale sembra poter entrare nel processo penale come mezzo di prova » (nello stesso senso G. DI CHIARA, Aspetti sistematici delle questioni pregiudiziali di status nel nuovo codice di procedura penale, in Foro it., 1989, V, p. 292); b) con riferimento all’istituto dell’applicazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato da parte del giudice dell’esecuzione (art. 671 c.p.p.), ove la prova dell’esistenza della pluralità di violazioni di legge penale ad opera dello stesso soggetto ovvero della medesimezza del disegno criminoso non può che essere desunta dalle varie sentenze irrevocabili. (11) F. CORDERO, Il giudizio d’onore, Milano, 1959, p. 292. (12) F. CORDERO, op. ult. cit., p. 300, nonché, per ulteriori approfondimenti, pp. 301-310. Al contrario, nell’ipotesi in cui l’offeso sia stato prosciolto, il processo a carico dell’offensore si svolge secondo le normali regole, non essendo attribuibile a tale giudicato alcun valore di prova legale: in questo caso « nel quadro conoscitivo del processo si profila un ‘‘precedente’’, da cui il giudice può trarre vari suggerimenti in sede probatoria, ma sempre attraverso il diaframma d’una valutazione criticamente atteggiata » (op. ult. cit., p. 301). (13) P. CALAMANDREI, op. cit., p. 124. (14) M. VARADI, op. cit., p. 257; in applicazione di questa massima è stato affermato da A. ATTARDI, Riconoscimento e dichiarazione della falsità di una prova nel giudizio di revocazione, in Giur. it., 1957, I, 1, p. 689 ss., che l’accertamento del dolo del giudice (art. 395, n. 6, c.p.c.) contenuto in un giudicato e la dichiarazione di falsità di una prova che risulti indirettamente da una sentenza irrevocabile (art. 395, n. 2, c.p.c.) non vincolano il giudice deputato a decidere sulla revocazione, ma si limitano a rendere probabile o verosimile la relativa domanda.
— 546 — scarno, è oggi possibile condurre l’indagine su un piano ‘‘positivo’’, anche se non si è mancato di sottolineare come la disposizione non brilli per chiarezza, a causa della confusione ingenerata tra « dato istruttorio, decisione, argomenti addotti dal motivante, cosa giudicata » (15), al punto di essere stata definita frutto di « un equivoco » (16). Non può, invero, negarsi che il sintetico testo dell’art. 238-bis c.p.p. coinvolga varie e importanti tematiche quali « ratio e funzione del giudicato penale, accertamento e libero convincimento, mezzi di prova e giudizio, contraddittorio e poteri del giudice » (17), e contribuisca altresì a facilitare quei fenomeni di osmosi, di cui si accennava in principio, tra la ‘‘inedita’’ disciplina della sentenza irrevocabile come prova documentale e quella ‘‘classica’’ riguardante più precipuamente il tema dell’irrevocabilità della sentenza: è proprio quanto accaduto con la pronuncia in commento che per la prima volta, a quanto consta, ha esteso alla sentenza irrevocabile considerata come prova documentale la teoria del giudicato parziale, fino ad ora appannaggio pressoché esclusivo della dottrina classica dei rapporti tra sentenza di annullamento della Corte di cassazione e giudizio di rinvio (18). Nella sentenza in commento, infatti, una delle censure avanzate dai ricorrenti riguardava proprio l’acquisizione, ad opera dei giudici di merito, delle sentenze di condanna pronunciate a carico di alcuni collaboratori di giustizia, sulla base delle cui dichiarazioni si era in gran parte fondata la pronuncia emessa all’esito del processo a quo: tali sentenze, utilizzate nel giudizio per corroborare le chiamate in correità sul punto della partecipazione dei chiamanti ai fatti di reato oggetto del processo a carico dei chiamati, non avrebbero dovuto essere acquisite, non avendo ancora conseguito l’irrevocabilità a causa della pendenza del giudizio di rinvio, disposto ex art. 624 c.p.p. dalla Corte di cassazione per accertare l’esistenza della continuazione tra i vari episodi attribuiti ai dichiaranti. Rigettando i ricorsi, la prima sezione della Corte di cassazione ha ritenuto non sussistere la violazione dell’art. 238-bis c.p.p., essendo « l’unico punto ancora in discussione (...) l’esistenza della ritenuta continuazione mentre si era ormai formato il giudicato in ordine all’affermazione di responsabilità dei predetti, e quindi in ordine alla loro partecipazione ai vari episodi criminosi che è l’aspetto che interessa in questo procedimento ». Chiara la ricezione di quell’orientamento, ormai dominante, secondo il quale si è in presenza di un vero e proprio giudicato sul punto dell’accertamento del fatto e della responsabilità dell’imputato nel caso in cui il giudizio debba proseguire in sede di rinvio sulle sole questioni attinenti la pena, asseritamente non connesse con quelle non annullate neanche nel caso in cui ad essere ancora in discussione sia l’esistenza o meno del nesso della continuazione. Dal poco che sul punto emerge dalla motivazione sembra che il giudice di rinvio, trovandosi innanzi ad un accertamento già irrevocabile sui vari fatti componenti la struttura del reato continuato, dovesse limitarsi a valutare il solo profilo sanzionatorio derivante dall’applicazione dell’aumento inflitto a titolo di continuazione per la violazione più grave: se così fosse, la soluzione adottata risulterebbe coerente con le premesse sistematiche da cui muove, anche in considerazione della mancanza di dati testuali orientati a richiedere l’irrevocabilità della sentenza nel suo complesso per l’apprezzamento in chiave probatoria (19). Alcune riflessioni e precisazioni si (15) F. CORDERO, Procedura, 2000, cit., p. 751, il quale nel complesso giudica « infelice » il testo dell’art. 238-bis c.p.p. (16) M. BARGIS, Le dichiarazioni di persone imputate in un procedimento connesso. Ipotesi tipiche e modi di utilizzabilità, Milano, 1994, p. 175. (17) L. MARAFIOTI, Trasmigrazione di atti, prova ‘‘per sentenze’’ e libero convincimento del giudice, in AA.VV., Studi sul processo penale in ricordo di Assunta Mazzarra, Padova, 1996, p. 249. (18) Sulla quale si rinvia a D. SIRACUSANO, I rapporti fra « cassazione » e « rinvio » nel processo penale, Milano, 1967, passim. (19) Mentre deve sicuramente escludersi la possibilità, pure ammessa da parte della giurispru-
— 547 — rendono tuttavia necessarie da un lato per le incertezze che da tempo travagliano la teoria della formazione progressiva del giudicato (ovvero, con espressione pressoché equivalente, del giudicato parziale) (20), dall’altro per le peculiarità che discendono dall’applicazione di questa teoria alla sentenza irrevocabile intesa quale mezzo di prova. 2. Disciplinando l’ipotesi di annullamento parziale con rinvio, l’art. 624 c.p.p. stabilisce che se il giudizio rescindente non ha riguardato tutte le disposizioni della sentenza, « questa ha autorità di cosa giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata »: molte sono le discussioni sorte sia sul significato da attribuire alla locuzione « parti » sia, soprattutto, sulla natura giuridica del vincolo nascente dalla sentenza di annullamento parziale. La questione è stata per lo più affrontata dall’angolo visuale della possibilità, per il giudice di rinvio, di dichiarare una delle cause di non punibilità di cui all’art. 129 c.p.p. (id est: art. 152 c.p.p. abr.) nell’ipotesi in cui, non avendo l’annullamento della Corte di cassazione riguardato la sentenza nel suo complesso, devono ritenersi non più sub iudice quelle parti di sentenza non scalfite dal giudizio rescindente: poiché il termine ‘‘parte’’ riferito alla sentenza può indicare letteralmente « una qualunque entità del provvedimento che non si identifichi con la sua totalità » (21), esso risulta utilizzato « in senso atecnico » (22) e richiede, pertanto, le necessarie puntualizzazioni. Secondo un primo orientamento, per « parti » devono intendersi sia il ‘‘capo’’ della sentenza che il ‘‘punto’’ (23), coincidendo il primo denza (Cass., sez. VI, 11 giugno 1992, Taurino, in Foro it., 1993, II, p. 435; Cass., sez. II, 10 maggio 1996, Romeo, in Dir. pen. e proc., 1996, p. 1380; Cass., sez. III, 4 dicembre 1996, Eviani, in Giust pen., 1998, III, p. 160; Cass., sez. V, 6 marzo 1997, Russi, in Dir. pen. e proc., 1997, p. 560; Cass., sez. I, 2 maggio 1997, Dragone, in Cass. pen., 1998, p. 2998; Cass., sez. VI, 30 luglio 1998, De Michelis, in Arch. nuova proc. pen., 1999, p. 215) di acquisire ex art. 238-bis c.p.p. sentenze ancora revocabili: in tal senso Cass., sez. VI, 27 agosto 1999, Arcadi, in Arch. nuova proc. pen., 2000, p. 467; Cass., sez. II, 28 giugno 1996, Lento, in Dir. pen. e proc., 1996, 1381; Cass., sez. VI, 28 agosto 1996, Iannece, ibidem, p. 1206 e, in dottrina: D. SIRACUSANO, Le prove, in AA.VV., Diritto processuale penale, cit., I, 1994, p. 426; P. TONINI, La prova penale, Padova, 1999, p. 191, nota n. 139; F. PERONI, Disorientamenti giurisprudenziali in tema di acquisizione di sentenze non irrevocabili, in Dir. pen. e proc., 1996, p. 1383 ss.; G. DI CHIARA, nota di commento a Cass., sez. VI, 11 giugno 1992, Taurino, cit., in Foro it., 1993, II, p. 435; N. TRIGGIANI, Sull’impossibilità di acquisire come documenti le sentenze penali non irrevocabili, in Cass. pen., 1997, p. 1768; E. GIRONI, Linee sistematiche ed orientamenti giurisprudenziali sull’inutilizzabilità della prova nel processo penale, in Foro it., 2000, II, p. 220. (20) L’equivalenza delle due espressioni dipende dall’angolo visuale da cui si prendono le mosse: la ‘‘formazione progressiva’’ mette dinamicamente in risalto la tensione dell’iter processuale verso la configurazione del giudicato nella sua totalità mentre il ‘‘giudicato parziale’’ si fonda sulla stasi determinata dalla già intervenuta irrevocabilità di alcune parti della sentenza. Per l’apprezzamento dei fenomeni processuali nella prospettiva statica o dinamica si vedano: G CONSO, I fatti giuridici processuali penali. Perfezione ed efficacia, Milano, 1955, p. 49 ss. nonché ‘‘Atti processuali penali’’, in Enc. del dir., IV, Milano, 1959, p. 145; A. GALATI, ‘‘Atti processuali penali’’, in Dig. pen., I, Torino, 1987, p. 357; G. UBERTIS, Premessa al titolo I del libro II, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, diretto da E. AmodioO. Dominioni, II, Milano, 1989, p. 3; P. RIVELLO, La struttura, la documentazione e la traduzione degli atti, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Ubertis e G.P. Voena, Milano, 1999, p. 30 ss. (21) G. CONSO, Questioni nuove di procedura penale, I, Milano, 1959, p. 149, nota n. 63. (22) E. FASSONE, La declaratoria immediata delle cause di non punibilità, Milano, 1972, p. 121. (23) Si sottolinea fin d’ora la presenza di dati testuali che militano a favore di questa interpretazione: a) l’individuazione all’interno della sentenza di capi e punti è espressamente prevista nella lett. a) dell’art. 581 c.p.p. riguardante la forma dell’impugnazione; b) l’art. 628 c.p.p., nel disciplinare l’impugnazione della sentenza del giudice di rinvio, vieta espressamente la proposizione di motivi riguardanti « i punti già decisi dalla Corte di cassazione » con la sentenza di annullamento parziale sicché, indicando una parte per il tutto, la sineddoche sembra svelare il significato minimo che al termine « parti » contenuto nell’art. 624 c.p.p. può essere attribuito; c) dall’esatta riproposizione del termine « parti », così dibattuto nella vigenza dell’art. 545 c.p.p. abr., si può dedurre che « se il suo contenuto doveva essere riduttivamente limitato alle sole decisioni che esaurivano il giudizio in relazione ad uno o più capi d’imputazione, non v’era occasione migliore della riformulazione della norma » da parte di un legislatore « pur così doverosamente cauto nel riproporre il contenuto della preesistente normativa e pur così sensibile nel recepire i suggerimenti interpretativi offerti dall’elaborazione dottrinale e dall’interpretazione giurisprudenziale »:
— 548 — con il complesso di disposizioni costituenti la decisione « su un reato attribuito ad un imputato » (24), e cioè con un atto giurisdizionale « tale da poter costituire da solo, anche separato dagli altri capi, il contenuto di una sentenza » (25); il secondo con le « singole questioni risolte nell’ambito del medesimo capo » (26), in considerazione del fatto che tutte le sentenze di merito constano di « una pluralità di punti corrispondenti alle diverse statuizioni positive o negative, espresse o implicite » (27). Poiché « un giudizio (...) si esaurisce con la stessa simmetrica progressività con la quale si riduce il suo oggetto, e sia quando la pronuncia di annullamento ha ad oggetto uno o più capi d’imputazione, che quando la stessa decisione interviene in relazione ad uno o più ‘‘punti’’ concernenti una singola accusa, perché sia nell’uno che nell’altro caso la irrevocabilità della decisione rappresenta l’effetto conseguente all’esaurimento del giudizio », il giudicato può, di conseguenza, « avere una formazione non simultanea, ma progressiva » (28). La pervicacia delle Sezioni unite nel ribadire la tesi della formazione progressiva del giudicato penale sul punto (29) sembra far tramontare una volta per tutte l’opposta tesi per la quale « non esiste giudicato sul ‘‘punto’’ e tanto meno sulla ‘‘questione’’ (poiché) i giudicati nascono sull’intera res iudicanda » (30): la situazione ancosì Cass., sez. un., 23 novembre 1990, Agnese, in Cass. pen., 1991, p. 733. Sottolinea in dottrina il profilo esegetico, alla stregua del quale non è mai casuale « la conferma della precedente versione d’una norma ovvero l’introduzione nel nuovo testo di elementi diversi o inediti » G. SPANGHER, Bis in idem delle Sezioni unite sui limiti di applicabilità dell’art. 152 c.p.p. 1930 nel giudizio di rinvio con annullamento parziale, in Cass. pen., 1993, p. 2506; in argomento si vedano pure i rilievi di M. CHIAVARIO, Nel nuovo regime delle impugnazioni i limiti ed i mancati equilibri di una riforma, in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., VI, 1991, p. 3 ss. (24) Nonché con quello concernente « le misure di sicurezza o la decisione sull’azione civile riparatoria »: citazioni entrambe tratte da G. PETRELLA, Le impugnazioni nel processo penale, II, Milano, 1965, p. 547. (25) P. CALAMANDREI, Appunti sulla ‘‘reformatio in peius’’, in Riv. dir. proc. civ., 1929, p. 300. A conferma di ciò si noti come l’art. 604 c.p.p., disciplinando le declaratorie di annullamento della Corte d’appello, stabilisca al comma 3 l’annullamento del capo della sentenza relativo a una condanna per un reato definito dall’art. 517 c.p.p. concorrente (figura nella quale, secondo l’espresso rinvio operato dall’art. 517 c.p.p. all’art. 12 lett. b) c.p.p., è compresa anche l’ipotesi del reato continuato). (26) G. LOZZI, Favor rei e processo penale, Milano, 1968, p. 81; E. FASSONE, op. cit., pp. 123-124; G. SPANGHER, op. loc. ult. cit.; A. GALATI, Le impugnazioni, in AA.VV., Diritto processuale penale, II, cit., p. 460 e p. 489. Ma in giurisprudenza Cass., sez. V, 17 novembre 1999, Kardhiqi, in Arch. nuova proc. pen., 2000, p. 303, affermando che nella locuzione ‘‘punti della decisione’’ di cui all’art. 597 c.p.p. devono ricomprendersi « non solo i ‘‘punti della decisione’’ in senso stretto, e cioè le statuizioni suscettibili di autonoma considerazione nell’ambito della decisione relativa ad un determinato reato, ma anche quelle riguardanti capi della sentenza che sebbene non investiti in via diretta con i motivi — che riguardano altro reato — risultino tuttavia legati con i primi da un vincolo di connessione essenziale logico-giuridica » svela la varietà delle possibili combinazioni che dalla prospettata distinzione concettuale tra ‘‘capo’’ e ‘‘punto’’ possono in concreto discendere: sul punto G. SPANGHER, Appello nel diritto processuale penale, in Dig. pen., I, Torino, 1987, pp. 204-205. (27) G. PETRELLA, op. loc. cit. In argomento si vedano le digressioni di E. ALLORIO, Gravame incidentale della parte totalmente vittoriosa?, in Giur. it., 1956, I, 1, p. 542 e F. CARNELUTTI, Capo di sentenza, in Riv. dir. proc. civ., 1933, p. 117 ss. (28) Così Cass., sez. un., 23 novembre 1990, Agnese, cit., p. 731. In dottrina G. CONSO, op. ult. cit., p. 165, in particolare nota n. 100; di « formazione di un vero e proprio giudicato sulla questione risolta » con riferimento alle parti non oggetto di annullamento che non siano in connessione essenziale con quelle annullate parlano G. LOZZI, op. ult. cit., p. 83 nonché, più di recente, Lezioni di procedura penale, Torino, 2000, p. 603; O. VANNINI-G. COCCIARDI, Manuale di diritto processuale penale italiano, Milano, 1986, pp. 659-660; A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, Milano, 2000, pp. 686 e 733. (29) Al già citato intervento delle Sezioni unite, infatti, si sono aggiunte le seguenti altre pronunce del plenum: Cass., sez. un., 11 maggio 1993, Ligresti, in Cass. pen., 1993, p. 2499; Cass., sez. un., 19 gennaio 1994, Cellerini, ivi, 1994, p. 2027; Cass., sez. un., 9 ottobre 1996, Vitale, ivi, 1997, p. 691; Cass., sez. un., 23 maggio 1997, Attinà, ibidem, p. 2684. (30) F. CORDERO, Procedura, 2000, cit., p. 1090. Nello stesso senso, tra i tanti, G. PETRELLA, op. cit., p. 549; S. COSTA, Sui limiti e sui poteri del giudice di rinvio penale, in Riv. it. dir. pen., 1934, p. 691; A. GALATI, op. ult. cit., p. 545; G. CIANI, sub art. 624, in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., VI, p. 305; M. BUSETTO, Annullamento parziale e declaratoria della prescrizione nel giudizio di rinvio, in Cass. pen., 1997, p. 2483; E. JANNELLI, La definizione costituzionale del giudicato penale: conse-
— 549 — drebbe piuttosto inquadrata « nel concetto di preclusione; e non in quello di cosa giudicata (...) (che) concerne la decisione irrevocabile sull’oggetto del rapporto processuale, e cioè sull’imputazione; postula la possibilità dell’esecuzione; e si pone come causa di estinzione dell’azione penale » (31). Nucleo minimo comune a entrambe le tesi è che in caso di sentenza (soggettivamente od oggettivamente) cumulativa dopo l’annullamento con rinvio esistono capi di sentenza già passati in giudicato e capi non ancora passati in giudicato (32): ma l’analogia si ferma qui. Sostenere che i punti non annullati del capo annullato (non importa se di sentenza unica o plurima) non passano in giudicato ma restano semplicemente preclusi, significa riconoscere il potere del giudice di rinvio di dichiarare le cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p. anche nel caso in cui l’annullamento non abbia investito questioni attinenti l’accertamento del fattoreato e la responsabilità dell’imputato, giusta la considerazione per la quale « le sentenze che non esauriscono il giudizio in relazione all’esercizio dell’azione penale per un determinato reato non sarebbero suscettibili di assumere il carattere della res iudicata » (33) e risulterebbero, di conseguenza, inidonee « a derogare al principio ex art. 129, comma 1, c.p.p. » (34). In senso opposto si è precisato che l’applicazione dell’art. 129 c.p.p. postula l’esistenza di « un ‘‘procedimento’’ in punto esistenza del reato-affermazione di responsabilità dell’imputato e (...) detto ‘‘procedimento’’ più non esiste una volta che la Corte di cassazione abbia annullato solo su altri punti, rigettando il ricorso su quello relativo alla responsabilità sul quale, quindi, la sentenza diviene irrevocabile » (35): poiché le declaratorie d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento sottintendono pur sempre « la limitazione del giudicato formale », l’art. 129 c.p.p. potrà conseguentemente trovare applicazione nel giudizio di rinvio successivo ad annullamento parziale « soltanto qualora le parti non annullate siano in connessione essenziale con le parti annullate » (36). In quest’ultimo caso, infatti, è « l’annullamento che si estende alle parti della sentenza che hanno connessione essenziale con la parte annullata » (37). 3. Contrariamente a quanto accade in tema di impugnazione parziale, ove nessuna disposizione contiene « dati che rivelino nel legislatore l’intenzione di considerare immutabile la parte del provvedimento non resa oggetto di impugnazione », e se è vero che « il prodursi del giudicato formale è fenomeno troppo importante perché lo si possa ravvisare di fronte al più assoluto silenzio legislativo » (38), l’art. 624 c.p.p. con la sua espressa menzione dell’autorità di cosa giuguenze sull’ammissibilità del c.d. giudicato parziale ovvero progressivo, in Cass. pen., 1996, pp. 132-133; A. BARGI, Il ricorso per cassazione, in AA.VV., Le impugnazioni penali, Trattato diretto da A Gaito, II, Torino, 1998, pp. 648-652. (31) G. LEONE, Trattato di diritto processuale penale, III, Napoli, 1961, p. 235. (32) G. LOZZI, Favor rei e processo penale, cit., p. 83; G. CONSO, op. ult. cit., p. 153; G. PETRELLA, op. cit., p. 548; G. LEONE, op. loc. cit. (33) G. DI CHIARA, nota di commento a Cass., sez. un., 11 maggio 1993, Ligresti, in Foro it., 1993, II, p. 612. In senso conforme A. BARGI, op. cit., p. 652; G. CIANI, op. cit., p. 306. In giurisprudenza Cass., sez. I, 28 settembre 1994, Ponzetta, in Cass. pen., 1996, p. 127. (34) M. BUSETTO, op. cit., p. 2484. (35) Così Cass., sez. un., 11 maggio 1993, Ligresti, cit., 2503. (36) G. CONSO, op. ult. cit., rispettivamente pp. 157 e 165, nota n. 101. (37) Gius. SABATINI, Connessione di disposizioni nella sentenza annullata parzialmente e poteri del giudice di rinvio, in Giust. pen., 1954, III, p. 214. (38) Entrambe le citazioni sono tratte da G. CONSO, op. ult. cit., p. 159. Nello stesso senso: F. CORDERO, Procedura, 2000, cit., p. 1042; A. GALATI, op. ult. cit., pp. 470-472; G. SPANGHER, ‘‘Impugnazioni penali’’, in Dig. pen., VI, Torino, 1992, pp. 229-230; C. VALENTINI, Le disposizioni sulle impugnazioni in generale, in AA.VV., Le impugnazioni penali, Trattato diretto da A. Gaito, cit., I, pp. 266-268; V. MELE, sub art. 587, in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., VI, p. 120. Secondo gran parte della giurisprudenza, invece, nel caso di impugnazione parziale di una sentenza cumulativa l’impu-
— 550 — dicata appare davvero insuperabile nel far ritenere passati in giudicato i capi e i punti della sentenza che non siano stati oggetto di annullamento né si trovino con le parti annullate in rapporto di connessione essenziale. Sembra, dunque, che su quest’ultimo « elastico » (39) requisito sia necessario portare l’attenzione al fine di verificare quali siano quelle parti di sentenza che, per ritenersi ancora allo stadio di res iudicanda, difettano del requisito dell’irrevocabilità e non possono, pertanto, ricadere nell’ambito di applicazione dell’art. 238-bis c.p.p., la cui operatività è inequivocabilmente limitata alle sole sentenze passate in giudicato (40). Senonché l’individuazione di tale rapporto di connessione essenziale è tutt’altro che pacifica, dovendo essere il relativo concetto « ricostruito in via interpretativa, poiché non risulta legislativamente definito » (41): saranno il concreto modo di concepire l’estensione delle interferenze possibili tra le parti annullate della sentenza e quelle rimaste intonse insieme all’ampiezza dei poteri riconosciuti al giudice di rinvio a rivelare entro che limiti e con quali strumenti processuali la nuova decisione sarà condizionata (o potrà eventualmente discostarsi) da quella pronunciata all’esito della fase rescindente. Questo fenomeno di connessione, prima ancora che su quello giuridico, si fa apprezzare sul piano logico, limitandosi al quale, però, atteso « il vincolo logico che lega tutto il processo dal principio alla fine, ne deriverebbe un’inopportuna ed inutile suddivisione di tutto il materiale processuale (...), smembrandosi il processo e facendosi d’altra parte un fascio di qualunque relazione di dipendenza tra una questione giuridica e un’altra » (42). Non del tutto appaganti sembrano, quindi, le affermazioni che definiscono come connessione essenziale « quel particolare collegamento tra le disposizioni della sentenza per cui l’una si pone come dato causale ovvero funzionale delle altre » (43), alla stregua di una « relazione tra premessa e conseguenza » (44); ovvero quella « negnazione proposta dal coimputato, ancorché sostenuta da motivi non personali, « non è di ostacolo alla formazione dell’esecutorietà della sentenza penale (a riguardo del non impugnante), essendo già verificata la condizione di irrevocabilità quanto al rapporto processuale che lo riguarda », risolvendosi l’estensione dell’impugnazione « nella prospettazione di un evento (quale il riconoscimento, in sede di giudizio conclusivo sull’impugnazione, della fondatezza del motivo non esclusivamente personale dedotto dall’impugnante diligente), al verificarsi del quale, operando di diritto come rimedio straordinario capace di revocare il giudicato in favore del non impugnante, rende questi partecipe del beneficio conseguito dal coimputato »: così Cass., sez. un., 24 marzo 1995, Cacciapuoti, in Cass. pen., 1995, pp. 2500 e 2505 e, in dottrina, A. NAPPI, op. cit., p. 685. Portando alle estreme conseguenze tale linea interpretativa si è poi affermato che, ove la proposta impugnazione riguardi non l’affermazione di responsabilità ma il solo trattamento sanzionatorio, interviene l’immutabilità della decisione « sul punto per giudicato interno, a somiglianza di quanto accade per effetto del meccanismo previsto dall’art. 624 c.p.p. » poiché « una volta ammessa la formazione progressiva del giudicato nella complessità della sentenza penale in forza del meccanismo di cui all’art. 624 c.p.p., non (è) possibile negare uguale efficacia all’acquiescenza »: così Cass., sez. IV, 5 febbraio 1999, Marano, in Cass. pen., 2000, pp. 938 e 940 e, nello stesso senso, Cass., sez. VI, 21 ottobre 1998, D’Amore, ibidem, p. 941; Cass., sez. I, 24 settembre 1997, Di Landro, in Riv. pen., 1998, p. 88. In senso contrario: Cass., sez. III, 28 febbraio 2000, Levatino, in Arch. nuova proc. pen., 2000, p. 445; Cass., sez. VI, 15 maggio 1998, Vetrano, in Cass. pen., 1999, p. 2883; Cass., sez. III, 3 ottobre 1996, Di Maria, ivi, 1997, p. 1044 e recentemente anche le Sezioni unite, 19 gennaio 2000, Tuzzolino, in Arch. nuova proc. pen., 2000, p. 381, secondo le quali l’orientamento riportato sarebbe caduto nell’errore di « avere compiuto un’indebita trasposizione delle regole sul giudicato conseguente all’annullamento parziale ex art. 624, comma 1, c.p.p., nell’ambito proprio delle preclusioni derivanti dall’effetto devolutivo dell’impugnazione e dalla disponibilità del rapporto processuale in sede di gravame » (cit., p. 386). (39) Così lo definisce E. FASSONE, op. cit., p. 121. (40) Supra, nota n. 19. (41) M. BUSETTO, op. cit., p. 2488. (42) Con l’ulteriore conseguenza di creare « una divisione in punti pregiudiziali che, o si conduce all’infinito, ed in tal caso è impossibile, o viene regolata da semplici criteri soggettivi, ed in tal caso è inaccettabile »: così G. FOSCHINI, La pregiudizialità nel processo penale, Milano, 1942, p. 42. (43) Gius. SABATINI, op. cit., p. 215. (44) M. BUSETTO, op. cit., p. 2489, che individua il significato « minimo » della connessione essenziale nell’« indefettibile dipendenza di un giudizio — sul singolo elemento pur giuridicamente autonomo — da un altro » (op. loc. cit.).
— 551 — cessaria interdipendenza logica e giuridica tra le diverse statuizioni, di guisa che l’annullamento di una di esse rende inevitabile il riesame di quelle parti che, perché non suscettibili di autonoma decisione, impongono un rinnovato giudizio » (45); quelle che individuano la connessione allorquando le parti non annullate « si trovino in tale concatenazione logica con la parte o la disposizione annullata da doversene considerare necessariamente dipendenti per rapporto di causalità » (46); o che la escludono « solo quando la decisione del giudice di rinvio non può coinvolgere anche le statuizioni che la precedono logicamente » (47). All’inadeguatezza di un approccio puramente logico deve aggiungersi quella derivante da un punto di osservazione che si limitasse ad analizzare i « ‘‘rapporti’’ individuabili, nella sistematica del reato, fra elementi accidentali ed elementi essenziali » (48): dalla dogmatica degli elementi del reato, infatti, potrebbe dedursi una volte per tutte l’esclusione di qualsivoglia rapporto di connessione tra essentialia e accidentalia delicti con conseguente surrettizia creazione di una gerarchia tra gli oggetti dell’accertamento processuale di cui non v’è traccia nell’art. 187 c.p.p. Questa disposizione individua nei fatti che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della sanzione l’oggetto della prova così come delineato dalle allegazioni dei fatti che si intendono dimostrare (art. 493 c.p.p.): nella prospettiva delle parti, poi, è variabile il rilievo che un qualsiasi elemento del reato, sia esso principale ovvero secondario, può assumere in concreto sul piano processuale, e ciò anche a causa del carattere relativo della verità, quale risultante « della struttura di riferimento costituita dal processo e dalle norme che lo regolano » (49). La conclusione è che se il giudice di rinvio sia chiamato a giudicare su un elemento secondario del fatto-reato, non per questo dovrà escludersi tout court la possibilità di rinvenire un rapporto di connessione necessaria con uno degli elementi principali: a far luce sarà « l’effettivo processo di ricerca compiuto dal giudice di rinvio nel risolvere la quaestio facti relativa all’accertamento dell’elemento accidentale » dal quale ben potrà emergere la suddetta connessione, ove le risoluzioni delle questioni relative agli elementi secondari e a quelli essenziali si siano intrecciate in modo tale da dare vita a « combinazioni » (50). Partendo da un altro angolo visuale, ma giungendo sostanzialmente alle medesime conclusioni, si è sottolineato come l’estensione che assume l’ambito della devoluzione al giudice di rinvio sia maggiore rispetto a quella che emerge espressamente dai motivi dell’annullamento; questi motivi, infatti, estendendosi alle parti non annullate in connessione essenziale con quella annullata, portano a concludere che la devoluzione « non trova il suo limite in una elencazione di quesiti (45) Cass., sez. un., 23 novembre 1990, Agnese, cit., p. 733 che aggiunge come il rapporto di necessaria connessione « non può essere dilatato al punto da comprendere in esso l’ipotesi prevista dall’art. 45, n. 2 dello stesso codice, giacché quest’ultima forma di connessione, idonea a giustificare la riunione dei procedimenti (...), nulla ha a che vedere con quella imprescindibile interdipendenza che deve sussistere in relazione all’oggetto delle diverse decisioni » (cit., p. 734). Oltre a ribadire l’assunto appena riportato Cass., sez. un., 19 gennaio 1994, Cellerini, cit., p. 2036 sottolinea che l’uso dell’aggettivo ‘‘essenziale’’ è di per sé « indicativo dell’eccezionalità dell’ipotesi considerata dalla legge ». (46) U. ALOISI, ‘‘Cassazione penale’’, in Nuovo Dig. it., II, Torino, 1937, p. 1075. Nello stesso senso, più di recente, G. CIANI, op. cit., p. 307; A. BARGI, op. cit., p. 651. (47) E. FASSONE, op. cit., p. 124: questo accade perché il giudice di rinvio « è investito della piena cognizione relativa a quel tema di indagine che, qualunque sia la soluzione che egli adotterà, non si ponga in antitesi col punto che logicamente lo precede nella serie di enunciazioni, espresse o implicite, costituenti la sentenza » (op. loc. cit.). (48) D. SIRACUSANO, Giudizio di rinvio limitato all’accertamento di una circostanza e possibilità d’applicazione dell’art. 152 c.p.p., in questa Rivista, 1962, p. 1241. (49) M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu-F. Messineo-L. Mengoni, III, t. 2, sez. I, Milano, 1992, p. 54. (50) Entrambe le citazioni si devono a D. SIRACUSANO, op. ult. cit., p. 1242. Nello stesso senso E. FASSONE, op. cit., p. 126.
— 552 — logici o giuridici, ma in tutta o in parte della stessa materia di giudizio, alla quale quei quesiti si riferiscono » (51) e, pertanto, la connessione « è più frequentemente ravvisabile di quanto non appaia a prima vista » (52). In presenza di parti connesse della regiudicanda, infatti, le « indagini alle quali era autorizzato in funzione del rinvio disposto dalla Corte di cassazione » (53) consentono al giudice competente ex art. 623 c.p.p. di riesaminare — più o meno globalmente a seconda dei singoli casi — i fatti di causa: in tal modo « l’indagine sui punti connessi (...) potrebbe portare ad ogni tipo di proscioglimento perché, attraverso la valutazione o l’elaborazione istruttoria sul punto (non annullato) concernente l’accertamento della responsabilità, essa renderebbe possibile una nuova ricostruzione dell’intera situazione di fatto (e un conseguente proscioglimento in factum) o la sussunzione di essa in una nuova norma di legge (e un conseguente proscioglimento in ius) » (54). Assunta l’esattezza di quanto finora premesso, bisogna ribadire che, in ogni caso « il nucleo della questione resta, dunque, nelle parti che hanno o no connessione essenziale con la parte annullata » (55): meno rigorose di quella puramente logica, le linee interpretative da ultimo illustrate rischiano di portare a rinvenire con eccessiva facilità nessi di connessione tra parti della regiudicanda affatto collegate tra di loro, onde è necessario combinare i vari criteri esposti, con la consapevolezza che, data l’impossibilità di rinvenire una regola generale valida in tutti i casi, le conclusioni varieranno a seconda delle peculiarità delle singole ipotesi volta per volta prese in considerazione. 4. Quando l’annullamento riguarda la sussistenza del nucleo essenziale del fatto-reato ovvero la sua riferibilità all’imputato, l’indagine condotta dal giudice di rinvio potrà (rectius: dovrà) estendersi anche a quegli altri elementi del reato il cui accertamento si atteggia, dal punto di vista logico, come un posterius rispetto a quello sull’elemento principale: per esempio, intanto potrà indagarsi sull’esistenza o meno di una circostanza del reato in quanto si sia giunti all’accertamento del fatto-base, poiché « l’ordine logico con cui vanno trattate le questioni imporrà la precedenza del controllo sul punto relativo all’elemento essenziale e consentirà la verifica dell’altro punto, relativo all’elemento accidentale » (56). Nel caso inverso — di annullamento diretto, cioè, ad accertare la sussistenza o meno di una circostanza del reato — risulterebbe affrettata la conclusione che inibisse al giudice in via generale di prendere in considerazione la questione relativa all’esistenza del reato: infatti « non infrequentemente si danno casi di annullamento, in seguito ai quali (...) il giudice di rinvio è tenuto a celebrare da capo l’intero giudizio per giungere all’accertamento della esistenza o meno anche di una sola circostanza che dalla sentenza del primo giudice non risultava, per difetto o contraddizione di motivazione, legalmente affermata o negata » (57). (51) G. FOSCHINI, Limiti del giudizio di rinvio e declaratoria di innocenza, in Riv. It. Dir. Pen., 1953, p. 505 il quale, analizzando l’aspetto pratico della questione, sottolinea in modo particolare — similmente a quanto fatto da D. SIRACUSANO, op. loc. ult. cit. — le « indagini alle quali (il giudice di rinvio) era autorizzato in funzione del rinvio disposto dalla Corte di cassazione » (op. loc. cit.): anche E. FASSONE, op. cit., p. 120, ribadisce che « la devoluzione al giudice di rinvio non si esaurisce necessariamente nella cognizione dei soli punti annullati, ma si arricchisce di tutti gli altri poteri che la legge stessa gli affida ». (52) G. CONSO, op. ult. cit., p. 165, nota n. 101 e, nello stesso senso, M. BUSETTO, op. cit., p. 2488. (53) G. FOSCHINI, op. ult. cit., p. 505. (54) D. SIRACUSANO, nota di commento a Cass., sez. IV, 12 dicembre 1961, Monte, in questa Rivista, 1962, p. 635; ID., I rapporti fra « cassazione » e « rinvio » nel processo penale, cit., p. 194. (55) Così, giustamente, G. CONSO, La cosiddetta delimitazione logica dei motivi d’appello e suoi riflessi sui poteri del giudice di rinvio, in Riv. Dir. Proc. Pen., 1956, p. 463, nota n. 4. (56) D. SIRACUSANO, Giudizio di rinvio limitato all’accertamento di una circostanza e possibilità d’applicazione dell’art. 152 c.p.p., cit., p. 1241. (57) U. ALOISI, op. cit., p. 1075.
— 553 — In questa prospettiva si è, da parte della dottrina, non senza fondamento affermato che: disposto l’annullamento sul solo punto riguardante l’accertamento della sussistenza della circostanza attenuante della cosiddetta provocazione, il giudice di rinvio potrà accertare l’esistenza della scriminante della difesa legittima e pronunciare conseguente sentenza di assoluzione (58); « se la corte ha annullato il punto relativo ad un’esimente, qualsiasi esimente potrà essere riconosciuta e dichiarata » (59); annullata la sentenza per carenza di motivazione sull’esistenza di una circostanza aggravante, ove questa fosse ritenuta insussistente dal giudice di rinvio e per ciò risultasse applicabile l’amnistia egli « potrà dichiarare non punibile ex art. 129, comma 1, c.p.p. l’imputato posto che l’applicabilità dell’amnistia dipende dalla sussistenza o no della circostanza aggravante e, pertanto, è ravvisabile la connessione essenziale richiesta dall’art. 624, comma 1, c.p.p. » (60); annullato il punto relativo all’esistenza, nei delitti contro il patrimonio, della circostanza attenuante della restituzione del maltolto, il giudice di rinvio deve pronunciare sentenza di assoluzione nel caso in cui emerga che « l’imputato non solo ha restituito, ma (...) ha restituito ciò che egli non aveva sottratto » (61); demandato al giudice di rinvio « di accertare se un bene appartenga alla Pubblica Amministrazione ovvero al privato, al fine di qualificare il reato come peculato o come malversazione, egli potrà eventualmente dichiarare che l’oggetto apparteneva all’agente, e quindi escludere ogni reato » (62). In giurisprudenza i maggiori contrasti sono sorti proprio per quei casi in cui l’annullamento ha riguardato parti della sentenza diverse da quelle concernenti l’accertamento del fatto-reato e la penale responsabilità dell’imputato: ebbene in tutti questi casi la già riportata giurisprudenza delle Sezioni unite, seguita da quelle semplici, ha affermato che, quale che sia l’ampiezza delle parti non annullate, queste acquistano autorità di cosa giudicata nonostante il giudizio sul reato debba proseguire sulle questioni lato sensu attinenti la pena (63), asseritamente non connesse con quelle non annullate. Corollario dei principi suesposti è che sarebbe preclusa la possibilità di applicare l’art. 129 c.p.p. nel giudizio di rinvio con riferimento a cause estintive preesi(58) U. ALOISI, op. loc. cit.; ciò accade perché la circostanza in questione, « involgendo un apprezzamento complesso sia sulla condotta della persona, la quale si pretende lesa dal reato, sia sulla reazione che tale condotta ha potuto esercitare nell’animo del colpevole del reato stesso, esige che il giudice di rinvio, chiamato a decidere anche soltanto di questa circostanza, rifaccia da capo l’intero dibattimento ». In senso adesivo G. CONSO, op. ult. cit., pp. 461-462; D. SIRACUSANO, op. ult. cit., p. 1242; G. FOSCHINI, op. ult. cit., pp. 505-506; contra, S. COSTA, op. cit., p. 693 e, inizialmente, E. FASSONE, op. cit., p. 125, sulla base della considerazione che « vertendosi in tema di circostanza, non potrà (...) (l’) esame (del giudice di rinvio) riverberarsi sul punto dell’antigiuridicità del fatto, che è logicamente preliminare alla questione deferitagli », ma aderendo alla fine alla tesi maggioritaria (op. cit., p. 127). (59) E. FASSONE, op. cit., p. 125. (60) G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., p. 605. (61) G. FOSCHINI, op. ult. cit., p. 506, il quale di seguito puntualizza che una diversa soluzione sarebbe assurda, « perché imporrebbe al giudice al quale risulta la innocenza dell’imputato di condannarlo concedendogli un’attenuante che non ha senso se non sul presupposto di un pentimento e quindi di una colpevolezza ». Nello stesso senso, D. SIRACUSANO, op. loc. ult. cit. (62) E. FASSONE, op. cit., p. 124. (63) Si è esclusa l’esistenza di quella connessione essenziale in grado di attrarre alla cognizione del giudice di rinvio le disposizioni della sentenza non annullate allorquando la fase rescissoria abbia ad oggetto statuizioni della sentenza relative: alla concedibilità delle attenuanti generiche e all’applicabillità di una misura di sicurezza (Cass., sez. un., 23 novembre 1990, Agnese cit.); quelle che per qualsiasi motivo attengano alla determinazione della misura della pena (Cass., sez. un., 11 maggio 1993, Ligresti, cit.; Cass., sez. un., 19 gennaio 1994, Cellerini, cit.; Cass., sez. un., 9 ottobre 1996, Vitale, cit.; Cass., sez. un., 26 marzo 1997, Attinà, cit.; Cass., sez. I, 1o luglio 1993, Agostoni, in Cass. pen., 1995, p. 619; Cass., sez. I, 24 settembre 1997, Di Landro, cit.), al giudizio di comparazione delle circostanze (Cass., sez. I, 5 ottobre 1995, Barbieri, in Cass. pen., 1997, p. 2479), alla sussistenza dell’aggravante della premeditazione (Cass., sez. I, 7 luglio 1987, Di Giovine, in Giust pen., 1988, p. 531). In dottrina, per l’affermazione che nega l’esistenza del vincolo di connessione essenziale tra la parte di sentenza non annullata relativa all’accertamento di responsabilità e quella annullata concernente la circostanza aggravante dell’art. 61, n. 7, c.p., D. SIRACUSANO, op. ult. cit., p. 1240.
— 554 — stenti o sopravvenute (64), per la considerazione che dette cause non possono travolgere il giudicato già formatosi sull’accertamento del reato e sulla responsabilità del condannato. La maggiore obiezione mossa all’iter motivazionale dei diversi pronunciamenti del plenum della Suprema Corte è che non ci si può ritenere in presenza di una sentenza di condanna fintantoché sia in discussione la questione della pena, atteso il nesso di connessione essenziale fra il reato e l’applicazione della relativa sanzione (65); nel caso di annullamento su punti diversi da quello concernente l’accertamento del fatto e la responsabilità dell’imputato, pertanto, non si sarebbe in presenza di una condanna perché, mancando l’inflizione della pena, la sentenza non potrebbe essere eseguita con conseguente violazione del combinato disposto degli artt. 648 e 650 c.p.p., che individua un nesso inscindibile tra irrevocabilità della sentenza (passaggio in giudicato) e sua esecutività (forza esecutiva). Ma a siffatte argomentazioni si è risposto: da un lato smentendo l’affermata simbiosi irrevocabilità-eseguibilità in considerazione del fatto che « una cosa è la possibilità dell’attuazione delle definitive decisioni contenute in una sentenza, ed altra cosa, ben diversa, è la irrevocabilità della pronuncia » (66), anche perché « l’applicabilità della pena non è una costante del reato » (67); dall’altro affermandosi che « la competente autorità giudiziaria può porre legittimamente in esecuzione il titolo penale per la parte divenuta irrevocabile, nonostante il processo, in conseguenza dell’annullamento parziale, debba proseguire » (68). La giurisprudenza ha per lo più escluso la ravvisabilità del rapporto di connessione essenziale (64) Per le due ipotesi si vedano, rispettivamente, Cass., sez. un., 11 maggio 1993, Ligresti, cit., e Cass., sez. un., 23 novembre 1990, Agnese, cit. (65) Così, in giurisprudenza, Cass., sez. I, 28 giugno 2000, D’Agostino, in Arch. nuova proc. pen., 2000, p. 523; Cass., sez. V, 19 dicembre 1997, Magnelli, in Cass. pen., 1999, p. 2911; Cass., sez. I, 30 maggio 1994, Antonini, ivi, 1996, p. 568; Cass., sez. I, 28 settembre 1994, Ponzetta, cit.; Cass., sez. I, 14 aprile 1993, P.G. in proc. Fracapane, in Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 769; Cass., sez. VI, 29 marzo 1988, Cucci, in Cass. pen., 1990, p. 887. (66) « Nel primo caso la definitività del provvedimento, in tutte le sue possibili componenti, va posta in relazione alla formazione di un vero e proprio titolo esecutivo, e quindi alla materiale e giuridica possibilità dell’esecuzione della sentenza nei confronti di un determinato soggetto; nel secondo caso, invece, la definitività della pronuncia è conseguente all’esaurimento del giudizio e prescinde dalla concreta realizzabilità della pretesa punitiva dello Stato »: così Cass., sez. un., 23 novembre 1990, Agnese, cit., p. 733. Conformemente Cass., sez. un., 11 maggio 1993, Ligresti, cit., p. 2502; Cass., sez. un., 19 gennaio 1994, Cellerini, cit., p. 2037; Cass., sez. un., 26 marzo 1997, Attinà, cit., p. 2689. Sull’argomento, in dottrina, da ultimo, A. GAITO-G. RANALDI, Esecuzione penale, Milano, 2000, p. 38 ss. (67) Cass., sez. un., 26 marzo 1997, Attinà, cit., p. 2687. (68) Ciò avviene perché « nel caso in cui la sentenza, pur documentalmente unica, ricomprenda una pluralità di capi e di imputazioni a carico dello stesso imputato, dalla autonomia di ciascuno di essi deriva il passaggio in giudicato di quei capi della sentenza non investiti dall’annullamento con rinvio »: così Cass., sez. un., 9 ottobre 1996, Vitale, cit., p. 693. Nello stesso senso, si è anche sottolineato il carattere obsoleto della tesi che postula « il rinvio della formazione del giudicato sostanziale, anche per i reati ‘‘in continuazione’’ o ‘‘assorbibili’’, al momento della definitiva conclusione del processo e l’impossibilità di porre in esecuzione, prima di tale momento, la pena inflitta con i capi non annullati. Ne consegue che, se la definitiva condanna per alcuni reati (...) viene eventualmente ad essere assorbita (...) da una condanna complessivamente più grave per gli ulteriori reati (...) sui quali è chiamato a pronunciare il giudice di rinvio, uniti ai primi dal vincolo della continuazione (...), non par dubbio che l’annullamento concernente esclusivamente questi ultimi reati non preclude la formazione della res iudicata, riguardo ai primi non investiti dall’annullamento; né l’immediata eseguibilità della pena ad essi relativa (...). La condanna irrevocabile ed eseguibile per i reati esclusi dall’annullamento (...) non può essere eliminata o ridimensionata nel giudizio di rinvio, restando semmai assorbita, con riferimento ai fatti oggetto di annullamento, in una condanna di maggiore entità per effetto della continuazione (...); ma la pena non potrà in nessun caso essere inferiore a quella già inflitta (...) per i capi non annullati »: Cass., sez. I, 10 dicembre 1990, Teardo, in Cass. pen., 1992, p. 2771. Nello stesso senso: Cass., sez. I, 9 dicembre 1986, Russo, in Giust pen., 1988, III, p. 178; Cass., sez. I, 9 dicembre 1986, Iemulo, in Cass. pen., 1987, p. 916, con nota adesiva di V. ZAGREBELSKY; Cass., sez. VI, 14 novembre 1997, Maddaluno, in Riv. pen., 1998, p. 188. Contra: in dottrina, variamente G. LEONE, op. cit., p. 235; G. PETRELLA, op. cit., p. 548; E. JANNELLI, op. cit., pp. 132-133; in giurisprudenza cfr. in particolare, tra le pronunce citate alla nota n. 65, Cass., sez. I, 14 aprile 1993, P.G. in proc. Fracapane, cit., che ha escluso l’esecuzione di una condanna annullata con rinvio sul
— 555 — quando la parte annullata oggetto del giudizio di rinvio verta sulla sussistenza della continuazione tra più ipotesi delittuose facenti parte di differenti capi di sentenza (69): non sarebbero, infatti, più in discussione nel giudizio rescissorio né la commissione del fatto né la responsabilità dell’imputato bensì la sola concreta determinazione della pena quale risultante dell’applicazione del cumulo giuridico previsto dalla disciplina del reato continuato. In tal caso la Corte non sempre potrà provvedere da se medesima alla determinazione della pena — come pure le è consentito in via generale dall’art. 620, lett. l) c.p.p. in tema di annullamento senza rinvio (70) — atteso che la relativa decisione può involgere l’apprezzamento di questioni di merito per la risoluzione delle quali potrebbe anche rivelarsi necessaria « una tecnica d’indagine diversa da quella adottabile dalla Corte » (71). Non può, infatti negarsi che l’individuazione della medesimezza del disegno criminoso possa comportare valutazioni riservate di solito al giudice di merito, fondata com’è su emergenze fattuali come il lasso di tempo intercorrente tra le diverse azioni, l’anticipata programmazione di esse da parte dell’agente e la loro finalizzazione verso un unico obbiettivo delinquenziale: resta da vedere se davvero tali punti non possano eventualmente trovarsi in connessione essenziale con quelli concernenti l’accertamento del fatto e la responsabilità dell’imputato, facendo venire meno la loro asserita intangibilità. Orbene, se la Corte — ritenendo di non dovere trattenere a sé il giudizio — ha cassato con rinvio sul presupposto della già accertata esistenza di una pluralità di azioni commesse dal medesimo soggetto nell’ambito di un unico programma criminoso, tale connessione non appare rinvenibile e il nuovo giudizio verterà effettivamente solo sulla quantificazione della pena determinata dal regime sanzionatorio della continuazione, con il correlativo obbligo del giudice di rinvio di uniformarsi ai criteri indicati dalla sentenza di annullamento per l’individuazione della violazione più grave; qualora, invece, risultino ancora in discussione i presupposti del reato continuato — pluralità di azioni od omissioni, medesimezza del disegno criminoso — il giudizio di rinvio non potrà non coinvolgere l’intera regiudicanda, potendo configurarsi, all’esito del rinvio, un unico reato in luogo della supposta pluralità di reati ovvero un diverso numero di ipotesi legate dalla continuazione (72), evesolo punto attinente la concedibilità delle attenuanti di cui all’art. 62-bis c.p.p. « sia pur limitatamente alla parte di pena che sarebbe residuata in caso di applicazione nella massima possibile estensione delle attenuanti generiche ». D’altra parte, lo scarto temporale tra la già intervenuta irrevocabilità sul punto della responsabilità penale e la non ancora definitiva determinazione della pena — con conseguente inutilizzabilità della sentenza come titolo esecutivo — è stato ritenuto fenomeno dipendente dai tempi tecnici processuali necessari per la definizione del giudizio di rinvio: pertanto secondo Cass., sez. un., 26 marzo 1997, Attinà, cit., p. 2689, « l’eventuale ritardo anomalo della conclusione di questo si rivela questione di mero fatto non tutelabile facendo ricorso a pretese costituzionalmente presidiate in maniera diretta ». (69) Cass., sez. VI, 14 novembre 1997, Maddaluno, cit.; Cass., sez. I, 10 dicembre 1990, Teardo, cit. (70) Tale evenienza si verificherà allorquando per l’applicazione dell’art. 81 c.p. « basti la rilevazione dell’error in procedendo o l’eliminazione dell’error in iudicando in facto o in iure »: D. SIRACUSANO, op. ult. cit., p. 1244. Sulla disposizione dell’art. 620, lett. l), c.p.p. si veda M. BARGIS, Rettificazione e merito nel giudizio di cassazione penale, Milano, 1989, p. 232 ss. mentre in giurisprudenza Cass., sez. V, 27 novembre 1990, Managò, in Cass. pen., 1991, p. 1241 e Cass., sez. II, 15 maggio 1990, Ceccarini, ibidem, p. 1240 hanno ammesso la possibilità per la Corte di cassazione di procedere direttamente alla determinazione della pena per i reati residui nel caso di declaratoria di estinzione di alcuni degli altri reati ritenuti già avvinti ai primi dal vincolo della continuazione. (71) Così D. SIRACUSANO, op. loc. ult. cit. Secondo F. CORDERO, Procedura, 2000, cit., p. 1088, la Corte sostituisce a quella annullata una propria decisione allorquando « applica norme più favorevoli all’imputato, ignorate dalla decisione de qua » (per l’affermazione che la valutazione di favore collegata al reato continuato « deve costituire un criterio indefettibile per l’interprete »: F. COPPI, ‘‘Reato continuato’’, in Dig. pen., XI, Torino, 1996, p. 225); A. GALATI, op. ult. cit., p. 538, sostiene esplicitamente che nel caso della lett. l) dell’art. 620 c.p.p. è consentito alla Corte « di diminuire la pena, ravvisando l’identico disegno criminoso negato dal giudice a quo ». (72) Così in Cass., sez. V, 15 dicembre 1997, Pipicella, in Cass. pen., 1999, p. 193, ove all’esito
— 556 — nienze tali da alterare la struttura del reato continuato e obbligare il giudice di rinvio a ricostruire l’unità ontologica della continuazione, con conseguenti ricadute sull’accertamento di responsabilità e la dichiarazione di colpevolezza (73). In entrambi i casi, quindi, vi sarà un annullamento con rinvio, ma solo nel secondo sarà ravvisabile quel nesso di connessione essenziale che impedisce il formarsi del giudicato parziale e attrae nella sfera di cognizione del giudice di rinvio l’intera regiudicanda: è appena il caso di sottolineare come, non potendosi ritenere già formato il giudicato, resterebbe preclusa ab origine la possibilità di un’acquisizione ex art. 238 bis c.p.p. della sentenza parzialmente annullata. dott. LUCA IAFISCO
del giudizio di rinvio è venuto meno il reato-base; in Cass., sez. un., 12 maggio 1995, Pellizzoni, in Cass. pen., 1995, p. 3329, invece, ad essere stati esclusi sono i reati-satelliti. (73) Con riferimento all’applicazione dell’art. 152 c.p.p. abr. (id est: art. 129 c.p.p.) si è affermato da D. SIRACUSANO, op. ult. cit., p. 1245, che la Corte non potrà procedere alla declaratoria suddetta « quando si appalesi indispensabile un’indagine del giudice di rinvio su di un punto connesso a quello investito dal ricorso: indagine che potrà consistere in una nuova valutazione del fatto di reato (già ricostruito con le prove assunte nel pregresso giudizio di merito) e che potrà anche tendere ad una nuova ricostruzione del fatto (effettuabile attraverso un’ulteriore elaborazione probatoria) »: un discorso analogo sembra possa attagliarsi anche all’ipotesi in cui gli accolti motivi di ricorso abbiano lamentato il mancato riconoscimento del vincolo della continuazione e del conseguente regime sanzionatorio. Per alcuni approfondimenti si veda, del medesimo Autore, Rapporti tra questione di fatto e questione di diritto, con particolare riguardo all’applicabilità dell’art. 152 c.p.p. nel giudizio di rinvio, in questa Rivista, 1962, p. 895 ss.
RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE
COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (*)
In tema di assunzione all’estero delle prove da parte dell’autorità giudiziaria italiana. 1. Che l’istituto della rogatoria dall’estero, in materia di prove, fosse da tempo in fase critica, e pertanto soggetto ad un crescente logorio, è un dato di riflessione non particolarmente recente (1). Deve anche dirsi, però, che l’esigenza di superare quella fase critica, da qualche tempo e più di una volta aveva trovato e trova spazio, attraverso alcune convenzioni di assistenza giudiziaria. Tali convenzioni hanno facilitato ed accelerato un fenomeno di grande rilievo: più precisamente, il passaggio dal regime dell’antica, e per così dire classica, rogatoria ‘‘a distanza’’, ad un regime caratterizzato da ampie aperture verso un tipo di rogatoria che abbiamo ritenuto di poter definire ‘‘rogatoria partecipata’’. Rogatoria ‘‘a distanza’’ era (ed è) la rogatoria che ha per oggetto l’assunzione di prove, alla stregua della lex loci, da parte dell’autorità giudiziaria straniera: assunzione di prove le cui risultanze vengono poi recepite nell’ambito del processo del Paese richiedente, e cioè, nella nostra prospettiva, nel processo italiano (2). La rogatoria ‘‘partecipata’’ è invece quella che si caratterizza per uno, o per entrambi, dei seguenti profili: la presenza attiva, o compartecipazione, allo svolgimento della rogatoria all’estero da parte dell’autorità richiedente (nella nostra prospettiva: dell’autorità giudiziaria italiana); la possibilità (secondo profilo) di richiedere, e di ottenere, l’applicazione di ‘‘forme speciali’’, in deroga ai canoni della lex loci (3). 2. L’attività di acquisizione probatoria all’estero, ha però percorso anche altri itinerari alternativi, al di fuori degli schemi, antichi od aggiornati, delle rogatorie. Col passare degli anni si è venuta infatti affermando ed intensificando una vera e propria prassi di trasferte dei nostri magistrati all’estero, mirate verso l’obiettivo dell’assunzione di prove in via ‘‘diretta’’, e tali dunque da presentare un ruolo da protagonisti (e non da semplici compartecipi) dei magistrati italiani (4).
(*) A cura di MARIO PISANI. (1) ‘‘... non si può negare — scrivevamo — che la rogatoria sia, oggi, un istituto in crisi: per quante valutazioni, di ammissibilità e di merito, si vogliano compiere sui dati ex post, essa, nella sua originaria impostazione, è piuttosto agli antipodi con l’esigenza moderna della formazione della prova nel contraddittorio degli interessati’’ (PISANI, La rogatoria attiva in materia penale: un istituto in crisi, in Giur. ital., 1968, II, c. 355. Si trattava del testo di una parte dell’intervento svolto all’VIII convegno nazionale degli studiosi del processo civile: v. i relativi Atti, 1971, n. 3, p. 192 ss.). (2) Sta facendo i primi passi una sorta di rogatoria del terzo tipo, che potremmo dire ‘‘a distanza ravvicinata’’. Intendiamo riferirci all’utilizzo del sistema audiovisivo: v. Ind. pen., 1993, p. 683; 1995, p. 396. (3) Per l’illustrazione (a suo tempo operata in sede internazionale) di questo itinerario tematico v. PISANI, in MOSCONI-PISANI, Le convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale (linee di sviluppo e prospettive di aggiornamento), 1984, p. 159 ss. In senso adesivo v. PRADEL e CORSTENS, Droit pénal européen, 1999, p. 181. (4) Su tale profilo — ed anche per le discordanti, e in qualche modo estreme, reazioni giurispru-
— 558 — 3. Nella fase, in qualche modo finale, di quegli itinerari, meritano segnalazione, da ultimo, due prese di posizione da parte della nostra magistratura di legittimità, che rappresentano un importante revirement rispetto alla giurisprudenza antecedente. Dapprima la sez. V della Cassazione (14 ottobre 1996, ric. Colecchia, in Cass. pen., 1998, p. 913), e, poi (a seguito di dichiarata ed integrale recezione della pronuncia), la sez. VI (13 luglio 1999, Pafumi, ibid., 2000, p. 3106, con nota di PIERINI; in Giur. ital., 2000, II, c. 1470, con nota di DIOTALLEVI) hanno così ritenuto: ‘‘L’art. 727 c.p.p., che prevede la rogatoria internazionale per l’attività di acquisizione probatoria all’estero, non impedisce che, col consenso dell’autorità dello Stato straniero, le prove siano raccolte direttamente dall’autorità giudiziaria italiana’’. Da ciò si è fatta derivare la conseguenza che ‘‘l’esame all’estero di testi ivi residenti, disposto nella fase dibattimentale ed eseguito direttamente dal giudice italiano’’, mentre ‘‘non configura in senso tecnico-giuridico, per il principio di sovranità territoriale, un’udienza dibattimentale tenuta fuori dal territorio nazionale né uno strumento non regolamentato di acquisizione della prova’’, costituisce ‘‘una rogatoria eseguita con particolari modalità consentite dallo Stato straniero. Questa atipica (la sottolineatura è nostra) forma di rogatoria non è sottratta alle norme convenzionali e consuetudinarie che regolano i rapporti tra gli Stati’’. Con il che la Corte vorrebbe dire che la ‘‘atipicità’’ di questa rogatoria consiste nella semplice circostanza che oggetto della ‘‘rogatio’’ è solo il consenso dello Stato estero a che l’autorità giudiziaria italiana svolga la propria attività fuori dai confini territoriali. Senonché (per quanto possa giovare il rilievo) non pare che una tale dilatazione dell’istituto della rogatoria — conseguente ad un certo sforzo di sistematizzazione di stampo codicistico (5) — si avvalga di una giustificazione adeguata. 4. In realtà, la Corte sembra trovare, in tale puntualizzazione, il supporto teorico alla successiva proposizione risultante dalla ‘‘massima’’: ‘‘In tema di rogatoria internazionale, anche se eseguita con la diretta partecipazione del giudice italiano, trovano applicazione per il principio locus regit actum e in conformità ai canoni di diritto internazionale della prevalenza della lex loci sulla lex fori, non le norme del codice di rito del Paese richiedente, che disciplinano il processo, bensì quelle dello Stato in cui l’atto viene compiuto’’. Senonché, può notarsi che la conseguenza, sul piano applicativo, alla quale giustamente si è ritenuto di approdare — trattasi, infatti, di approdo del tutto pacifico e consolidato — per la sua attinenza con i criteri dell’ordine pubblico internazionale — utilmente ribaditi in diversi accordi internazionali (6) —, non necessita del supporto teorico-sistematico prospettato dalla Corte (7). 5. A parte questi rilievi marginali, non può che convenirsi almeno in ordine al primo dei ‘‘due postulati’’ che hanno sorretto la formulazione dei successivi passaggi attraverso i quali si articola, in concreto, la formulazione del ‘‘principio di diritto’’. La prova — questo il primo postulato, tendenzialmente in linea con la sentenza n. 379/1995 della Corte costituzionale (8) — non può essere acquisita in contrasto coi principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano e, quindi, con l’inviolabile ‘‘diritto di difesa’’.
denziali a quella prassi — ci si consentirà di rinviare ad un nostro precedente contributo: Dall’Italia: le trasferte all’estero dei magistrati, in Ind. pen., 1983, p. 668. V. anche, ibid., 1983, p. 397, una circolare ministeriale del 1981 in tema di ‘‘missioni all’estero’’ dei magistrati. (5) E non è un caso che, in entrambe le occasioni, la Corte regolatrice abbia omesso di evocare le particolari convenzioni, multilaterali o bilaterali, entro cui l’attività all’estero dei nostri giudici trovava un suo possibile inquadramento o coordinamento. (6) A titolo esemplificativo ricordiamo l’art. 3 della Convenzione europea di assistenza giudiziaria, laddove si precisa (§ 1): ‘‘La Parte richiesta farà eseguire, nelle forme previste dalla propria legislazione, le rogatorie relative ad un procedimento penale che verranno a lui dirette dalle autorità giudiziarie della Parte richiedente ecc.’’. (Quanto al giuramento di testi e periti v. poi il § 2). (7) Del tutto inopportunamente, inoltre, la Cassazione ha (per due volte) fatto richiamo, sul piano argomentativo, agli artt. 27 e 31 delle preleggi, dimenticandone l’intervenuta abrogazione (l. 31 maggio 1995, n. 218). (8) V. in Ind. pen., 1995, p. 793 (Le prove assunte all’estero: assunzione e utilizzabilità).
— 559 — Più fragile sembra invece, nella sua portata generalizzante, il secondo dei due ‘‘postulati’’, secondo cui ‘‘le concrete modalità di assistenza difensiva sono regolate, per la prevalenza della lex loci, dalla legge dello Stato in cui viene compiuto l’atto’’. Quasi che, tra l’altro, il sistema delle convenzioni non preveda delle deroghe. Gli accordi N.A.T.O.: come rivedere il trattato di Londra. ‘‘... Rimangono (...) aperte, e suscettibili di revisione in sede di negoziato internazionale, alcune questioni. La Commissione ritiene di indicare molto sinteticamente i punti che seguono. Con riferimento al trattato di Londra, emerge, in primo luogo, l’esigenza di definire nel modo più completo e chiaro possibile le situazioni che consentono l’esercizio della giurisdizione prioritaria da parte dello Stato di appartenenza allorché si sia in presenza di attività riconducibili ad un ‘official duty’. Tale circostanza è rilevante sia ai fini dell’esercizio della giurisdizione penale, sia ai fini dell’esercizio della giurisdizione civile. Individuare con chiarezza i casi nei quali si esercita un ‘official duty’ potrebbe avere conseguenze rilevanti tanto in relazione all’assunzione da parte dello Stato di appartenenza degli oneri economici derivanti dall’evento, quanto sotto il profilo della priorità di esercizio della giurisdizione da parte del medesimo Stato. È necessario, inoltre, valutare l’opportunità di meglio precisare i casi di concorso di giurisdizione tra Stato di origine e Stato territoriale nelle situazioni in cui tale concorso riguarda la tutela di valori chiaramente sperequati o risulti addirittura solo apparente. Si tratta dei casi in cui la presenza di tale concorso è fatta valere di fatto, per escludere l’esercizio della giurisdizione dello Stato territoriale, piuttosto che per giudicare o eventualmente punire i presunti colpevoli, invocando al riguardo, ad esempio, la sola circostanza che, comunque, la violazione di una legge dello Stato ospite costituisce anche una forma di ‘infrazione e negligenza che arrechi pregiudizio al buon ordine e alla disciplina delle forze armate — all disorders and neglects to the prejudice of good order and discipline in the armed forces’, punibile nell’ambito e da parte dello Stato di appartenenza dei militari (come ad esempio si verifica a sensi dell’art. 134 dell’Uniform Code of Military Justice). In tali casi se il valore violato nell’ambito dello Stato territoriale è più significativo ed importante rispetto a quello tutelato nello Stato di appartenenza del militare, tale circostanza dovrebbe giustificare la prevalenza dell’esercizio della giurisdizione da parte dello Stato territoriale, anche se si tratta di illecito compiuto nell’ambito di un ‘official duty’, ferma la responsabilità civile dello Stato di appartenenza dei militari, secondo i parametri di cui al Trattato di Londra, se l’illecito è avvenuto nello svolgimento di un ‘official duty’. Occorre, altresì, prevedere forme di indennizzo e modalità di liquidazione particolarmente favorevoli per i danneggiati con totale ed esclusivo onere a carico dello Stato di appartenenza dei militari allorché l’evento dannoso sia intervenuto in violazione di norme locali al riguardo rilevanti e/o di procedure e criteri comportamentali concordati nell’ambito dei vari strumenti convenzionali. (...) Concludendo sul punto, appare emergere l’esigenza di riformulare e/o completare in maniera più precisa nel senso sopra indicato la normativa attualmente esistente. Tale riformulazione deve avvenire sulla base di un negoziato da condurre unitariamente da parte di tutti gli Stati appartenenti all’U.E., al fine di garantire al riguardo sia un’azione comune di politica di sicurezza a proposito della presenza di militari nello spazio europeo, sia comuni criteri relativi all’esercizio della giurisdizione penale e civile nello spazio giudiziario europeo, avvalendosi delle nuove competenze previste in merito a questi profili dal Trattato di Amsterdam’’. (Dalla Relazione conclusiva — trasmessa al Presidente della Camera l’8 febbraio 2001 — della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle responsabilità relative alla tragedia del Cermis, in Atti parlamentari - Camera dei Deputati - XIII Legislatura - Disegni di legge - Documenti, pp. 237-238).
— 560 — Il caso Baraldini, la Corte costituzionale e il seguito (9). A) Con ordinanza 24 novembre 2000 (10) il Tribunale di sorveglianza di Roma sollevava, ‘‘in riferimento agli artt. 2, 3, comma 1, 25, comma 2, 27, comma 3 e 32, comma 1, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della l. 25 luglio 1988, n. 334 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sul trasferimento delle persone condannate, adottata a Strasburgo il 21 marzo 1983), nella parte in cui, nel dare piena ed intera esecuzione alla Convenzione di cui al titolo, consente — ad avviso dello stesso rimettente — che gli accordi tra lo Stato di condanna e lo Stato di esecuzione, previsti dall’art. 3, par. 1, lett. f), della medesima Convenzione, possono derogare all’applicazione dell’art. 147, comma 1, n. 2), del codice penale, che prevede il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena in presenza di condizioni di grave infermità fisica del condannato’’. Abbiamo così riferito la parte iniziale della sentenza della Corte costituzionale — la sentenza n. 73/2001 — che ha deciso la questione. B) Depositata in cancelleria la sentenza della Corte, in data 22 marzo, il 18 aprile la vicenda Baraldini tornava di nuovo davanti al Tribunale di sorveglianza di Roma, che (presid. Mattei, rel. Centofanti) pronunciava la seguente ordinanza (nella quale si riepiloga utilmente anche la presa di posizione della Corte): ‘‘1. Silvia Baraldini [S.B.] — condannata a pena detentiva negli U.S.A., con due sentenze riconosciute in Italia, e reclusa nel nostro Paese ai sensi della Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, sottoscritta a Strasburgo il 21 marzo 1983 — ha chiesto, con istanza in data 20 ottobre 2000, il rinvio dell’esecuzione della pena ai sensi dell’art. 146, comma 1, n. 3) c.p., o, in subordine, l’applicazione della detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1-ter, l. 26 luglio 1975, n. 354, allegando una grave infermità fisica. L’istanza torna alla valutazione del collegio, dopo l’incidente di legittimità costituzionale, avente ad oggetto la norma interna di esecuzione della predetta Convenzione (l. 25 luglio 1988, n. 334, art. 2), promosso da questo Tribunale con ordinanza 24 novembre 2000, incidente definito dalla Corte costituzionale con sentenza 19 marzo 2001. Richiamato in ordine alla posizione giuridica della Baraldini quanto più diffusamente esposto al § 2 della citata ordinanza 24 novembre 2000, va rammentato che l’accordo tra i governi italiano e statunitense — accordo che ha consentito il trasferimento della detenuta in Italia, in base alle previsioni dell’art. 3, comma 1, lett. f), della Convenzione — è accompagnato da un protocollo, contenente clausole che prevedono e l’impossibilità di concedere all’interessata benefici comportanti l’allontanamento, sia pur temporaneo, dallo stabilimento carcerario, e l’applicabilità di tali limitazioni anche in caso di malattia, dovendo in questo caso le cure avvenire in strutture ospedaliere penali. Siffatte clausole sono state espressamente recepite, all’atto del riconoscimento giudiziario italiano (operato con sentenza Corte d’appello di Roma 7 luglio 1999), ai fini dell’esecuzione ulteriore della pena inflitta. 2.1. Ciò premesso ai fini di un inquadramento generale, con riguardo alle condizioni di salute della B(...), risulta in atti che la medesima — già operata nel 1988 per neoplasia della cervice uterina (trattata con isteroannessiectomia allargata, associata a radioterapia endocavitaria) — ha sviluppato nuova forma tumorale maligna alla mammella di destra, in relazione a cui si è reso necessario, il 20 ottobre 2000, intervento di quadrantectomia con dissezione del cavo ascellare (eseguito presso il Policlinico romano Agostino Gemelli, ove l’interessata trovasi da allora ininterrottamente ricoverata, sotto scorta armata, in regime ex art. 11 l. 26 luglio 1975, n. 354)’’. (Seguono, nel testo dell’ordinanza, altri dettagli riguardanti diagnosi e trattamenti sanitari di vario ordine).
(9) Per il richiamo di alcuni degli antecedenti sviluppi della vicenda v. Il trasferimento in Italia di Silvia Baraldini, in questa Rivista, 1999, p. 1535. (10) V. in Cass. pen., 2001, p. 1042 ss.
— 561 — ‘‘2.2. Apprezzato il quadro clinico di cui sopra — ancora una volta esauriente, oltre che corredato da dati di riscontro obiettivo (sicché, già con provvedimento reso all’odierna udienza, è stato ritenuto non necessario procedere a perizia medico-legale, chiesta in via principale dalla Procura Generale requirente) — il Tribunale non può che ribadire la valutazione circa l’attuale incompatibilità del medesimo rispetto ad una detenzione di tipo carcerario. La peculiarità e la delicatezza del trattamento terapico in essere, innestato su pena detentiva in esecuzione, raffrontate alla natura e gravità della patologia cancerosa recidivante, alle complicanze ordinariamente riconnesse al trattamento stesso e puntualmente insorte, nonché ai già sottolineati profili psicologici, così pregnanti nella malattia oncologica, fanno apparire veramente inumano, e contrario alla dignità della persona, il protrarsi dell’espiazione in ambiente intramurario (o in ambiente ad esso equiparato, come è da considerarsi la permanenza in ospedale sotto stretto piantonamento) ed integrano la fattispecie sostanziale della grave infermità fisica, rilevante ai fini del differimento dell’esecuzione della pena ex art. 147, comma 1, n. 2, c.p. (più propriamente riferibile al caso di specie, in luogo dell’invocato art. 146, comma 1, n. 3, c.p., in assenza di patologia in fase terminale) o della detenzione domiciliare a tempo, ex art 47- ter, comma 1-ter, l. 26 luglio 1975, n. 354. 3.1. La questione giuridica dell’operatività di istituti siffatti nei confronti della B(...), pur a fronte delle condizioni apposte dai governi (e sottoscritte dall’interessata) all’accordo di trasferimento e sopra richiamate (vietanti ogni forma di rilascio, anche provvisorio, dalla carcerazione, foss’anche per malattia), impegnò questo Tribunale in una complessa esegesi, culminata nella rimessione alla Corte costituzionale di un dubbio di legittimità costituzionale, investente la legge di esecuzione della Convenzione di Strasburgo, da cui l’accordo traeva legittimazione. 3.2. La Corte, nel dichiarare infondato quel dubbio, ha operato una ricognizione, alla luce dei valori costituzionali coinvolti, del significato precettivo della Convenzione di Strasburgo e della forza giuridica degli accordi di trasferimento applicativi di essa, che, in chiave di diversa interpretazione, fa salva l’applicazione, in favore dell’odierna richiedente, delle norme fondamentali del nostro ordinamento penitenziario a protezione dei diritti di rango costituzionale. Muovendo da una premessa generale, secondo cui l’orientamento di apertura dell’ordinamento italiano nei confronti delle norme del diritto internazionale, generali o pattizie, incontra i limiti necessari a garantirne l’identità, e quindi anzitutto i limiti derivanti dalla Costituzione, la Corte costituzionale reputa che la Convenzione di Strasburgo, interpretata alla luce delle singole sue disposizioni e della sua ratio, non autorizzi, in linea di principio, i governi (dello Stato di condanna e di quello d’esecuzione) a concordare condizioni personali speciali, da applicarsi ad opera dell’autorità giudiziaria nei confronti della persona detenuta trasferita, con preferenza rispetto alle norme legislative interne vigenti nello stato d’esecuzione in materia di diritti dei detenuti. Nello spirito della Convenzione — osserva la Corte — lo Stato di condanna può potestativamente prestare o negare il suo consenso al trasferimento del condannato, quando ritenga che il regime legale dell’esecuzione penale nel potenziale Paese d’esecuzione, rispettivamente, sia o non sia conforme alle sue aspettative, e a tal fine, perché possa prendere cioè le proprie determinazioni con cognizione di causa, sarà informato circa i caratteri di tale regime nello Stato d’esecuzione (come per la B(...) è puntualmente avvenuto); quel che esula dalle previsioni della Convenzione è invece che lo Stato di condanna chieda ed ottenga garanzie vincolanti circa leggi e procedure dello Stato d’esecuzione, e tantomeno garanzie circa eccezioni a tali leggi e procedure. Una volta dato il consenso, l’esecuzione continuerà nello Stato consegnatario (ove si sia scelto, come per l’Italia, siffatto sistema della continuazione, in luogo di quello della conversione, ex art. 9, comma 3, della Convenzione), Stato vincolato, di massima, a natura giuridica e durata della sanzione, ma titolare del potere di adattare, tramite apposita decisione giudiziaria o amministrativa (art. 10, comma 2, della Con-
— 562 — venzione), la sanzione stessa (intesa in senso lato, come condizione giuridica globale del condannato, costituita dal complesso delle situazioni soggettive, attive e passive, che ne determinano lo status) ogniqualvolta la legislazione del medesimo Stato d’esecuzione, per questioni d’incompatibilità, lo esiga. Ove, comunque, voglia ammettersi il potere dei governi di concordare fra loro particolari modalità d’esecuzione, inserendole quali condizioni del trasferimento (sul presupposto per cui la libertà d’accordarsi o di non accordarsi non potrebbe non includere quella di accordarsi sotto determinate condizioni), quel che è certo — rileva infine la Corte — è che siffatte convenzioni non possono fondare un vero e proprio regime d’esecuzione speciale e personale, concernente i diritti, e i doveri, del detenuto trasferito, e non possono oltrepassare il limite oltre il quale si determinerebbe una rottura dell’ordinamento dello Stato d’esecuzione (come avverrebbe, per l’Italia, con la negazione dell’applicazione di norme fondamentali a tutela del diritto alla salute): nel qual caso, dovendosi necessariamente operare, per scongiurare una siffatta conseguenza, quell’adattamento che la salvaguardia di detto ordinamento rende strettamente necessario. 3.3. A tale autorevole e persuasiva esegesi (11) questo Tribunale intende attenersi, sicché può conclusivamente ritenersi sul punto che l’accordo intergovernativo, stipulato rispetto alla B(...) in applicazione dell’art. 3, comma 1, lett. f), della Convenzione di Strasburgo, ed al quale pure la medesima prestò il suo consenso, non abbia la forza giuridica d’impedire l’applicazione, nei suoi confronti, di istituti basilari dell’ordinamento penitenziario interno, posti a tutela della salute di ogni detenuto, quali quelli ex art. 147, comma 1, n. 2) c.p. o ex art. 47-ter, comma 1-ter, l. 26 luglio 1975, n. 354, non potendo tale forza derivargli dalla Convenzione citata, di cui si sono precisati finalità e limiti, né essendogli attribuita da altre fonti normative a tanto abilitate dal diritto interno italiano. All’assetto precettivo complessivo delineato dall’accordo in discorso dovrà pertanto essere apportato quel necessario adattamento, che eviti l’inammissibile rottura ordinamentale cui si è riferito il giudice delle leggi: adattamento che evidentemente postula la recessività, a cospetto del bene salute, di qualunque prescrizione pattizia che, pretendendo di imporsi sulle corrispondenti norme interne, di quel bene limiti la più efficace tutela. 3.4. Tanto appare sufficiente, pur in costanza dell’accordo intergovernativo più volte menzionato nel suo tenore originario, a consentire l’adozione di misure a tutela del diritto alla salute della B(...), nei modi che saranno appresso precisati. Questo Tribunale prende comunque atto che i termini dell’accordo suddetto risultano allo stato integrati, per effetto di una nota ufficiale della competente Autorità statunitense (v. documento del Ministero della giustizia U.S.A., datato 16 aprile 2001, prodotto in udienza dalla Procura Generale), la quale Autorità, informata da parte italiana sulle condizioni di salute della B(...), ha precisato di non volersi opporre allo stato ad un rimedio provvisorio, quale il rilascio temporaneo dalla carcerazione, per il tempo indispensabile ad assicurare le cure del caso. 4. Nei confronti di S.B. ricorrono, dunque, i presupposti per far luogo al rinvio, facoltativo, dell’esecuzione della pena, ai sensi dell’art. 147, comma 1, n. 2 c.p. In tale ipotesi, l’art. 47-ter, comma 1-ter, l. 25 luglio 1975, n. 354 autorizza il tribunale di sorveglianza ad applicare, per un tempo determinato, in deroga ad ogni limite di pena, la misura alternativa della detenzione domiciliare. Ritiene il collegio, conformemente alla richiesta subordinatamente avanzata dalla Procura Generale, che la detenzione domiciliare sia il rimedio più appropriato al caso in esame. Essa — modulata secondo un congruo regime autorizzatorio, che potrà essere ulteriormente
(11) Tale esegesi potrà apparire assai meno persuasiva per la dottrina internazionalistica, la quale ritiene che l’inosservanza di un accordo concreti un illecito internazionale quand’anche si alleghi, a fondamento di quell’inosservanza, la doverosa applicazione di una norma interna, sia pure di rango costituzionale.
— 563 — calibrato in fase d’esecuzione — tutela adeguatamente il diritto dell’interessata a curarsi, consentendole di mantenere i dovuti costanti contatti con i presidi sanitari territoriali e di affrontare le ulteriori terapie al riparo da forme di coercizione personale diretta ed in luogo domestico; meglio risponde all’esigenza di un adattamento dei termini dell’accordo intergovernativo nei limiti dello strettamente necessario a garantire il rispetto dei valori costituzionali, secondo l’indicazione ermeneutica offerta dalla Corte costituzionale; evita soluzioni di continuità nel corso dell’espiazione, che, stante la rigida predeterminazione della sanzione residua ex Convenzione di Strasburgo, appaiono non lungimiranti. Tenuto conto della rimanente durata del trattamento terapico e dei necessari tempi di ripresa psicologica, appare adeguato fissare, al momento, la scadenza del beneficio alla data del 20 settembre 2001’’ (12). C) A proposito di quella che il Tribunale romano (sub 3.3) ha chiamato la ‘‘recessività’’ delle prescrizioni pattizie, merita segnalazione il comunicato, in senso critico, del Dipartimento di Giustizia americano (13): ‘‘Quando gli Stati Uniti hanno negoziato l’accordo sulla Baraldini il governo italiano si impegnò a farle scontare la condanna come se si trovasse in America ovvero consentendole di ricevere tutte le necessarie cure mediche o in prigione o fuori ma comunque in condizioni di detenzione. (...) Quando abbiamo appreso che il sistema carcerario italiano non poteva provvedere alle necessarie cure e che la legge italiana non le consentiva di ricevere le cure in carcere né tantomeno fuori sotto sorveglianza abbiamo fatto presente al Ministero della giustizia che gli Stati Uniti considerano ogni rilascio dal carcere una violazione dell’accordo sottoscritto. Tuttavia date le circostanze — continua il comunicato ufficiale — abbiamo fatto presente che se fosse stata rilasciata, sotto stretta sorveglianza, per un periodo temporaneo per ricevere le cure necessarie, gli Stati Uniti non avrebbero insistito per il momento, [il corsivo è nostro] per ottenere il ritorno della Baraldini, previsto dall’accordo, dove avrebbe potuto ricevere le cure in detenzione’’. E da ultimo: ‘‘Ci attendiamo da tutte le parti che rispettino l’accordo grazie al quale la B. è stata trasferita’’. Commenta il giornalista: ‘‘Il tutte le parti non è casuale: è riferito non solo al governo italiano ma anche alla stessa ex terrorista che accettò, per iscritto, le condizioni previste dall’accordo bilaterale’’. Italia-Perù: l’ ‘‘accantonamento’’ del trattato di estradizione. 1. Il 24 novembre 1994 erano stati sottoscritti a Roma tre trattati in tema di cooperazione col Perù: un trattato di estradizione; un trattato di assistenza giudiziaria in materia penale; un trattato sul trasferimento di persone condannate e di minori in trattamento speciale.
(12) Nell’ammettere S.B., fino a tale data, al regime di detenzione domiciliare, il Tribunale delineava le seguenti prescrizioni: ‘‘— L’interessata si tratterrà in modo continuativo nel luogo della detenzione domiciliare, che sarà dalla stessa indicato all’atto della scarcerazione entro l’ambito territoriale del comune di Roma, salvo quanto in appresso; — l’interessata potrà recarsi in ogni momento presso ambulatori, servizi sanitari ed ospedalieri per interventi, accertamenti diagnostici e cure; se sarà necessario il suo ricovero in tali luoghi, il luogo del ricovero diverrà quello di detenzione domiciliare; in ogni caso l’interessata ne darà preventivo avviso agli organi di polizia competenti, cui segnalerà poi il rientro al domicilio; — l’interessata potrà lasciare l’abitazione, per provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita, tutti i giorni dalle ore 9,00 alle ore 14 00’’. Dal Corriere della Sera dell’11 maggio 2001, p. 14: ‘‘Silvia Baraldini è andata ieri mattina in visita per poco più di un’ora alla redazione del quotidiano di Rifondazione, Liberazione. Nessuna intervista, ma solo una chiacchierata fra amici’’(!). (13) Esso viene riferito e commentato, in un servizio da New York, pubblicato — a firma di M. Molinari — su La Stampa del 25 aprile 2001, p. 4 (sotto il titolo: ‘‘Avete violato le intese sulla Baraldini’’).
— 564 — Con l. 24 marzo 1999, n. 90, era stata autorizzata la ratifica di questi due ultimi trattati (14), mentre il trattato di estradizione risultava accantonato. 2. La spiegazione di questo accantonamento è offerta dai lavori preparatori riguardanti l’iter congiunto delle ratifiche. 2.1. Nella relazione sul disegno di legge ministeriale concernente le tre ratifiche, comunicato alla Presidenza del Senato il 17 luglio 1996 — in quella sede assumerà il n. 976, e in esso verrà assorbito un precedente disegno di legge (n. 677) a firma del sen. Migone —, quanto al trattato di estradizione si era segnalato il suo porsi ‘‘in linea con la più avanzata regolamentazione internazionale della materia’’. Più in particolare, quanto al tema cruciale della pena di morte si dava conto che: ‘‘In base all’art. 6, quando l’estradizione sia richiesta per un reato per il quale la legislazione della Parte richiedente prevede la pena capitale, tale pena non sarà inflitta, o, se inflitta, non sarà eseguita’’ (15). 2.2. Prendendo posizione, il 23 luglio 1996, sul citato disegno di legge (Migone) n. 677, la Commissione Affari costituzionali del Senato (est. Andreolli) esprimeva parere favorevole per l’approvazione, ‘‘salvo che — aggiungeva — in riferimento all’art. 6 del Trattato di estradizione, sostanzialmente coincidente (sic) con il corrispondente articolo del Trattato di estradizione con gli Stati Uniti d’America, in tema di pena di morte’’. A tale riguardo si ricordava ‘‘che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 223 del 1996, ha dichiarato l’illegittimità della legge che autorizza la ratifica di quest’ultimo Trattato, nella parte relativa alla disposizione in questione’’ (16). Ciò premesso, veniva formulato ‘‘parere contrario sul disegno di legge, limitatamente — si noti — alla parte che autorizza la ratifica del citato art. 6’’: il tutto — si aveva l’amabilità di precisare — in senso conforme ‘‘al condivisibile indirizzo assunto dalla Corte costituzionale’’. Si trattava — come è ben noto — del travagliatissimo ‘‘caso Venezia’’, non per nulla portato a definizione in modo ampiamente opinabile (17). 2.3. Sembra comunque il caso di precisare quanto segue: a) il riferito (2.1) testo dell’art. 6 non poteva certo dirsi ‘‘sostanzialmente coincidente con il corrispondente articolo’’ del Trattato con gli Stati Uniti, posto che in quest’ultimo — art. IX — si era scritto: ‘‘... l’estradizione sarà rifiutata salvo che la Parte richiedente non si impegni, con garanzie ritenute sufficienti dalla Parte richiesta a non fare infliggere la pena di morte oppure, se inflitta, a non farla eseguire’’ (18); b) il riferito testo dell’art. 6 era invece, se mai, sostanzialmente coincidente con i testi di cui all’art. 35 della convenzione del 1972 con la Romania e con l’art. 14 della poi abrogata convenzione del 1977 con l’Ungheria (19): testi in ordine ai quali non si è fatta in alcun modo sentire la portata, diretta o indiretta (art. 27, l. 11 marzo 1953, n. 87), di una pronuncia della Corte costituzionale. 2.4. In linea di fatto, proprio sulla base del parere espresso dalla Commissione Affari costituzionali, nel riferire al Senato la relatrice (De Zulueta) dava conto della decisione,
(14) V. Italia-Perù: assistenza giudiziaria e trasferimento di condannati e di minori, in questa Rivista, 1999, p. 1144. (15) Poco oltre, nella stessa relazione capita di imbattersi in alcune formulazioni linguisticamente eterodosse: ‘‘pena erogata dal giudice straniero’’; ‘‘pena ‘comminata’ dall’Autorità giudiziaria dello Stato trasferente’’. (16) N.d.r.: la sentenza, datata 25-27 giugno 1996, era stata pubblicata nella Gazz. Uff. del 3 luglio, e dunque in data anteriore alla trasmissione al Senato (2.1) del disegno di legge ministeriale (n. 976). (17) PISANI, Pena di morte ed estradizione nel trattato Italia-USA: il caso Venezia, in Ind. pen., 1996, p. 671. (18) V. il testo dell’art. IX in PISANI-MOSCONI, Codice delle convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, 3a ed., 1996, p. 298. (19) Per i vari riferimenti v. ibid., p. 268 e p. 353.
— 565 — adottata dalla Commissione Affari esteri, nel senso di accantonare, non soltanto, come proposto (2.2), l’art. 6, ma tutto quanto ‘‘il trattato di estradizione’’. E ciò ‘‘in attesa di un approfondimento o di una rinegoziazione da parte del Governo’’. A quanto è dato di sapere, l’attesa continua... La Francia e la riparazione della détention extraditionnelle. Gli artt. 70 e 71 della legge francese del 15 giugno 2000 (entrata in vigore il 16 dicembre) hanno modificato in misura ragguardevole la disciplina in tema di riparazione della ‘‘carcerazione provvisoria’’ ingiusta. Tra le regole più importanti vanno ricordate quelle che ineriscono ai temi seguenti: pubblicità dell’udienza e della decisione; motivazione di quest’ultima; messa in opera di un duplice grado di giudizio. Per effetto delle modifiche in ordine a questo terzo tema, il contenzioso viene trasferito (in primo grado) ai presidenti delle Corti d’appello, le cui decisioni sono suscettibili d’impugnazione davanti alla ‘‘Commission d’indemnisation’’ istituita presso la Corte di cassazione, che continuerà dunque ad operare, ma come giudice di secondo grado (ed ovviamente anche con funzioni di unificazione sul piano interpretativo). Nel presentare un quadro delle recenti innovazioni, D.N. COMMARET (L’indemnisation de la détention provisoire, in Rev. sc. crim., 2001, p. 117 ss.) richiama la giurisprudenza già formatasi, e ricorda fra l’altro: ‘‘Benché la Francia non abbia, in materia di estradizione richiesta ad un altro Stato, la pleine maîtrise circa la durata della detenzione, sappiamo però, grazie alle motivazioni delle decisioni, che tale durata è tenuta in considerazione nel calcolo dell’indennizzo (dec. 99 IDP 195 e 235 del 17 agosto 2000): l’art. 716.4, al. 2, c.p.p. assimila infatti il suo regime a quello della carcerazione provvisoria e la Cassazione penale ha riconosciuto la qualità di detenuto per le persone incarcerate in tali condizioni (Cass. 16 giugno 1992, B 237). Nella direzione inversa, la Commissione ha dichiarato inammissibile la domanda di riparazione fondata su una carcerazione extraditionelle subíta in Francia a richiesta delle autorità giudiziarie di uno Stato straniero (dec. 98 IDP 072 del 5 ottobre 2000)’’ (20). Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa e il ruolo dei pubblici ministeri nella cooperazione internazionale. Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, nella riunione svoltasi, a livello dei delegati, il 6 ottobre 2000, ha adottato una corposa Raccomandazione (REC - 2000/19) ‘‘Sul ruolo del Pubblico Ministero nell’ordinamento penale’’ (21). Ne riproduciamo, per la parte che più direttamente concerne la nostra rubrica, i para-
(20) Per qualche riferimento alla situazione italiana v., anche per i rinvii, in questa Rivista, 1998, p. 1438; 2000, p. 1259. (21) Attingiamo al testo della traduzione (dall’originale nelle lingue francese e inglese) curata dal nostro Ministero per gli Affari Esteri. Ancor prima riproduciamo il preambolo di tutta la Raccomandazione: ‘‘Il Comitato dei Ministri, in forza dell’art. 15.b dello Statuto del Consiglio d’Europa, Ricordando che lo scopo del Consiglio d’Europa è di realizzare una maggiore unione fra i suoi membri; Tenendo a mente che il Consiglio d’Europa ha anche lo scopo di promuovere la prevalenza del diritto, fondamento di qualsiasi vera democrazia; Considerando che l’ordinamento penale ha un ruolo predominante per la salvaguardia dello Stato di diritto; Consapevole della necessità comune a tutti gli Stati membri di meglio combattere la criminalità a livello nazionale ed internazionale; Considerando che a tal fine conviene accrescere l’efficacia sia degli ordinamenti penali nazionali sia della cooperazione penale internazionale, nel rispetto dei principi definiti nella Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali;
— 566 — grafi che riguardano la cooperazione internazionale, riportando in calce a ciascuno di essi l’esposizione dei ‘‘motivi’’ prospettati a supporto del loro contenuto: ‘‘(...) Cooperazione internazionale. 37. A prescindere dal ruolo che può essere impartito ad altri organi in materia di cooperazione giudiziaria internazionale, devono essere favoriti i contatti diretti fra i membri dell’ufficio del Pubblico Ministero nei vari paesi nel quadro di convenzioni internazionali in vigore o, a difetto, in forza di intese pratiche (22). 38. Dovrebbero essere prese misure in un certo numero di settori al fine di favorire i contatti diretti fra i Pubblici Ministeri nell’ambito della cooperazione giudiziaria internazionale. Tali misure, in particolare dovrebbero consistere nel: a) diffondere la documentazione; b) compilare una lista di contatti e di indirizzi indicando i nomi degli interlocutori competenti nelle varie Procure nonché la loro specializzazione, il loro settore di responsabilità, ecc.; c) istituire contatti personali e periodici fra i Pubblici Ministeri dei vari paesi, in particolare lo svolgimento di riunioni regolari fra i Procuratori generali; d) organizzare sedute di formazione professionale e di sensibilizzazione; e) creare e potenziare l’incarico di magistrato di collegamento, in sede all’estero; f) insegnare le lingue straniere; g) sviluppare trasmissioni per via elettronica; h) organizzare seminari di lavoro con altri Stati sia sulle questioni di assistenza giudiziaria che sulle questioni penali comuni (23). 39. Al fine di migliorare la razionalizzazione ed ottenere il coordinamento delle procedure di reciproca assistenza giudiziaria, occorre fare ogni sforzo per: a) promuovere, fra i membri dell’ufficio del Pubblico Ministero, la consapevolezza di dover attivamente partecipare alla cooperazione internazionale; b) favorire la specializzazione di alcuni membri del Pubblico Ministero nel settore della cooperazione internazionale. A tal fine gli Stati devono fare in modo che il Pubblico Ministero dello Stato richiedente, quando è incaricato della cooperazione internazionale, possa rivolgere domande di assistenza giudiziaria direttamente all’autorità dello Stato richiesto, competente per l’attuazione e che quest’ultima possa rimandargli direttamente gli elementi di prova raccolti’’ (24).
Consapevole inoltre che il Pubblico Ministero ha un ruolo determinante nell’ordinamento penale come pure nella cooperazione penale internazionale, Convinto che a tal fine occorre promuovere la definizione di principi comuni per i Pubblici Ministeri degli Stati membri; Tenendo conto dell’insieme di principi e di norme che emergono dai testi che ha adottato nel settore dei problemi penali, Raccomanda ai governi degli Stati membri di ispirarsi nelle loro legislazioni e nelle prassi relative al ruolo del Pubblico Ministero nell’ordinamento penale, ai seguenti principi’’. (22) Dall’esposizione dei ‘‘motivi’’: ‘‘... Il Comitato non ignora che attualmente, ed in forza degli accordi internazionali esistenti, alcuni Stati fanno appello ad autorità centrali. Occorre tuttavia privilegiare i contatti diretti, in particolare nell’ambito dei rapporti fra gli Stati membri del Consiglio d’Europa’’. (23) Dall’esposizione dei ‘‘motivi’’: ‘‘La documentazione dovrebbe ad esempio includere documenti contenenti informazioni sulla legislazione applicabile nei vari Paesi. Le sedute di formazione professionale e di sensibilizzazione consistono nell’organizzare ad intervalli regolari, sotto gli auspici del Consiglio d’Europa, seminari di formazione internazionali per i membri degli uffici del Pubblico Ministero nei vari Paesi ed anche formazioni linguistiche. L’obiettivo a medio termine dovrebbe essere di creare una rete giudiziaria paneuropea’’. (24) Dall’esposizione dei ‘‘motivi’’: ‘‘Fra le misure che potrebbero essere prese utilmente, citiamo le seguenti: — il Pubblico Ministero è abilitato a ricevere le domande di assistenza giudiziaria reciproca che pervengono nella sua giurisdizione; — il Pubblico Ministero è abilitato a coordinare le inchieste, se del caso;
— 567 — Il caso Öcalan a Strasburgo: la (parziale) ammissibilità del ricorso. Il 14 dicembre 2000 la I sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato la parziale ammissibilità del ricorso — n. 46221/99 — presentato da Abdullah Öcalan contro la Turchia (REF 00008177) (25). Riproduciamo, in versione italiana, la parte di quella decisione che più direttamente attiene alla tematica di questa nostra rubrica (26). 1. La Corte esordisce riassumendo i fatti di causa, ‘‘così come sono stati esposti dalle Parti’’: ‘‘A. Arresto e trasferimento del richiedente in Turchia. — Il 9 ottobre 1998, il richiedente [Öcalan], capo del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan), fu espulso dalla Siria, dove risiedeva da diversi anni. Il 12 novembre 1998, egli si recò (il se rendit) a Roma, via Mosca. Pur rifiutando di estradarlo verso la Turchia, le autorità italiane respinsero la domanda di asilo politico presentata dall’interessato. Costui, pertanto, lasciò l’Italia (27). Secondo il Governo convenuto (‘il Governo’), le autorità giudiziarie turche avevano emesso sette mandati d’arresto nei confronti di Öcalan, e l’Interpol aveva diffuso un avviso di ricerca (bollettino rosso) nei suoi confronti. In seguito il richiedente fu bloccato, dopo un soggiorno presso la residenza dell’ambasciatore greco a Nairobi, Kenya. A suo dire, il suo arresto ebbe luogo il 15 febbraio 1999, prima delle ore 23, sempre a Nairobi, per effetto di un’operazione effettuata in circostanze controverse. Egli fu trasferito in Turchia e, il 16 febbraio 1999, collocato in custodia nel carcere di Imrali. Secondo le autorità turche, dal momento del suo arresto il ricorrente fu accompagnato da un medico militare. La stampa ha pubblicato una registrazione video e delle foto di Öcalan realizzate all’atto del suo trasferimento verso il luogo della sua detenzione in Turchia. Nel frattempo, i detenuti del carcere di Imrali erano stati trasferiti in altre carceri. All’atto del suo trasferimento dal Kenya all’isola di Imrali, il ricorrente viaggiò ad occhi bendati. Secondo il Governo, la benda fu tolta dal momento in cui l’aereo entrò nello spazio aereo turco. Öcalan afferma, d’altro canto, che gli furono anche somministrati dei tranquillanti’’. (Seguono la narrativa di molti altri dettagli, in linea di fatto, in ordine a tutti gli sviluppi della vicenda in territorio turco, e la disamina di diversi profili di vario genere, fino a giungere alla trattazione in linea di diritto — en droit —, articolata in varie parti).
— nel suo ruolo di custode degli interessi propri della cooperazione internazionale il Pubblico Ministero è abilitato a partecipare (direttamente o per mezzo di note e di memorie) a tutte le procedure inerenti alla messa in opera di domande di assistenza giudiziaria reciproca; — infine, occorrerebbe studiare la possibilità di estendere i dispositivi esistenti, favorendo lo scambio spontaneo d’informazioni fra gli uffici del Pubblico Ministero dei vari Paesi. Al fine di rafforzare la cooperazione poliziesca e giudiziaria in questo settore, quando l’ordinamento giuridico lo consente, il Pubblico Ministero deve avere accesso e se del caso essere rappresentato nelle istanze nazionali che gestiscono le informazioni utili per la reciproca assistenza giudiziaria internazionale, nonché nelle organizzazioni internazionali di cooperazione poliziesca.’’ (25) Sul tema v. Interrogativi sul caso Öcalan, in questa Rivista, 1999, p. 742. (26) Sembra il caso di specificare che, il 30 novembre 1999 — dopo che la Corte turca per la sicurezza dello Stato aveva emesso una pronuncia di condanna alla pena di morte, poi confermata dalla Cassazione — la Corte europea ha deciso di suggerire al Governo la seguente misura provvisoria: ‘‘La Corte chiede allo Stato convenuto di adottare tutte le misure necessarie perché la pena di morte non venga eseguita, affinché la Corte possa proseguire efficacemente l’esame dell’ammissibilità e del merito delle lagnanze che il ricorrente formula nell’ambito della Convenzione’’. (27) In realtà, peraltro, le vicende ebbero uno sviluppo assai diverso. Infatti, il Tribunale civile di Roma, con sent. 1o ottobre 1999 (in Riv. dir. int., 2000, p. 240; cfr., ibid., p. 157, la nota di CANNIZZARO) concedeva il diritto d’asilo a Öcalan, pur prendendo atto che il medesimo si era ormai da tempo allontanato dal territorio italiano. Il (volontario) allontanamento dell’interessato era dunque da ricondursi a ragioni diverse dall’asserito diniego del diritto d’asilo (e, se mai, va ricondotto al timore di un processo penale in Italia).
— 568 — 2. La parte IV è attinente alla tematica dell’art. 5 della CEDU, e più in particolare di alcuni dei suoi paragrafi. ‘‘A. Articolo 5 §§ 1, 3 e 4. — Il ricorrente lamenta di essere stato privato della libertà senza il rispetto delle vie legali e senza che venissero osservate le formalità di estradizione. Lamenta inoltre di non essere stato ‘tradotto al più presto’, dopo il suo arresto, davanti ad ‘un giudice o un altro magistrato’ ai sensi dell’art. 5 § 3 della Convenzione. Lamenta, infine, di non aver avuto la possibilità di proporre un ricorso allo scopo di far controllare la legalità della custodia, in violazione dell’art. 5 § 4 della Convenzione. (...) La tesi del Governo. — A questo riguardo il Governo solleva un’eccezione relativamente al non esaurimento delle vie di ricorso interne (...). Quanto poi alla fondatezza delle lagnanze concernenti la legalità della privazione della libertà del ricorrente, il Governo afferma che costui è stato arrestato e detenuto secondo le vie legali, per effetto della collaborazione tra due Stati, la Turchia e il Kenya. Fa presente che il ricorrente è entrato in Kenya non in qualità di richiedente asilo, ma con documenti falsi; che il Kenya è uno Stato sovrano e che la Turchia non dispone di mezzo alcuno per esercitare la sua sovranità su questo Paese. Il Governo ricorda anche che non esiste un trattato di estradizione tra il Kenya e la Turchia. Il ricorrente è stato bloccato dalle autorità keniote e consegnato alle autorità turche nel quadro di una cooperazione tra questi due Stati. Quando poi è stato portato in territorio turco, è stato sottoposto a detenzione in base ai mandati d’arresto emessi dalle autorità giudiziarie regolari e legittime della Turchia, per poi essere tradotto davanti a un giudice. (...) Il Governo insiste sul fatto che non si tratta di una extradition déguisée: la Turchia ha accettato la proposta delle autorità del Kenya di consegnarle il ricorrente, che del resto si trovava da clandestino in quel Paese. A tale riguardo il Governo fa riferimento all’affaire Illich Ramirez Sanchez c. Francia, che la Commissione aveva dichiarato inammissibile (no 28780/95, dec. 24 giugno 1996, D.R. 86, p. 155). Esso sostiene che la cooperazione in tale affaire tra Francia e Sudan, in vista dell’arresto dell’interessato, presenta grandi somiglianze con la cooperazione tra Turchia e Kenya che ha portato all’arresto di Öcalan. Il Governo propone di seguire la giurisprudenza della Commissione secondo la quale, in questo tipo di vicende, la cooperazione tra Stati chiamati a fronteggiare il terrorismo è cosa normale e non viola la Convenzione. Esso dunque conferma che il ricorrente è stato presentato all’autorità giudiziaria turca a seguito di una procedura regolare, sulla base degli usi internazionali e della cooperazione tra Stati sovrani nella lotta contro il terrorismo. (...) La tesi del ricorrente. — Il ricorrente contesta le argomentazioni del Governo. Quanto alla legalità del suo arresto, egli sostiene che esistono dei principi di prova di un ‘rapimento’ (enlèvement) effettuato dalle autorità turche operanti all’estero fuori dal loro ambito e che spetta al Governo dimostrare che tale arresto non era irregolare. Secondo l’interessato, i mandati d’arresto emessi dalle autorità turche o il bollettino rosso emesso da Interpol non attribuiscono la competenza agli agenti dello Stato turco per operare all’estero. Nessuna procedura di estradizione nei suoi confronti è stata avviata in Kenya e le autorità di questo Paese hanno rifiutato ogni responsabilità relativamente al trasferimento verso la Turchia. Una semplice collusione tra funzionari del Kenya non autorizzati ed il governo turco non può rappresentare una cooperazione tra Stati. Il ricorrente pone l’accento sulla necessità di proteggere la libertà e la sicurezza contro l’arbitrio. Egli fa rilevare che, nel caso di specie, la sua espulsione forzata in realtà costituisce un’extradition déguisée che lo priva di ogni protezione processuale o sostanziale. A questo proposito osserva che l’esigenza di legalità ai sensi dell’art. 5, § 1 concerne tanto il diritto internazionale che il diritto interno. Lo Stato contraente ha l’obbligo, non soltanto di applicare le proprie leggi in modo non arbitrario, ma anche di renderle conformi alle norme del diritto internazionale pubblico. Il ricorrente aggiunge che la certezza della responsabilità
— 569 — penale non può eliminare le garanzie di cui ogni individuo deve beneficiare per essere al riparo da una privazione abusiva di libertà. (...) Valutazione della Corte. — Riguardo alla regola dell’esaurimento delle vie di ricorso interne, la Corte osserva che (...) la questione deve essere trattata congiuntamente al merito. La Corte ha proceduto a un esame preliminare dell’insieme delle rimostranze e delle argomentazioni delle parti. Essa ritiene che tali rimostranze sollevano delle questioni di diritto e di fatto di natura complessa, che non potrebbero venire risolte in questa fase dell’esame del ricorso, ma impongono un esame di merito. Questa parte del ricorso, pertanto, non può essere dichiarata manifestamente infondata ai sensi dell’art. 35, § 3 della Convenzione. La Corte rileva inoltre che a questa parte del ricorso non fa ostacolo alcun’altra ragione di inammissibilità’’. 3. Giunta alla fine dell’itinerario della motivazione in ordine ai vari aspetti della vicenda che erano stati sottoposti al suo esame, la Corte, composta da sette giudici, quanto ai profili di cui all’art. 5, §§ 1, 3 e 4, a maggioranza dichiara ammissibile la richiesta di Öcalan, riservata la decisione nel merito (‘‘tous moyens de fond réservés’’). Francia-Germania: il caso Sirven e il Sistema Schengen. 1. Alfred Sirven, già direttore degli affari generali del gruppo Elf-Aquitaine, era perseguito dalla Francia per aver distratto un miliardo e mezzo di franchi. Erano stati emessi nei suoi confronti diversi mandati d’arresto a diffusione internazionale e, in particolare, sempre a cura delle autorità francesi, i suoi dati erano stati inseriti nel Sistema d’Informazione Schengen (S.I.S.) (28). Il S.I.S. è disciplinato nel capitolo 2 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen. Alla stregua dell’art. 95, i dati ‘‘relativi alle persone ricercate per l’arresto ai fini di detenzione sono inseriti a richiesta dell’autorità giudiziaria della Parte contraente richiedente’’, previa verifica (§ 2) che l’arresto è ‘‘autorizzato dal diritto nazionale delle Parti contraenti richieste’’. Una tale segnalazione — dice l’art. 64 — ‘‘ha il medesimo effetto di una domanda di arresto provvisorio ai sensi dell’art. 16 della Convenzione europea di estradizione’’ (29). 2. Dopo circa quattro anni di latitanza, il 2 febbraio 2001 ‘‘l’homme le plus recherché de France’’ viene raggiunto nelle Filippine, e più precisamente nella banlieue residenziale di Manila, dove una quindicina di agenti della polizia filippina lo prendono in custodia per poi trasferirlo nella capitale, presso la sede del National Bureau of Investigation. In quella sede, a quanto risulta — ricaviamo tutte queste notizie dai dettagliati resoconti offerti da Le Monde del 6 febbraio 2001, p. 8 ss. — matura l’intesa, alla presenza e con l’intervento di diversi funzionari di polizia francese, per un rapidissimo rimpatrio di Sirven, in buona sostanza a mezzo di una procedura di espulsione. Questa — per quanto sorprendente possa risultare — la giustificazione fornita in ordine alla scelta di una tale procedura: a Parigi viene subito fissata una priorità (‘‘une priorité’’): ‘‘fare in modo che Alfred Sirven lasci l’arcipelago al più presto. Le autorità francesi e i giudici istruttori incaricati dell’affaire Elf temono gli effetti della legge filippina, la quale impone che, entro il termine massimo di sei ore, ogni persona arrestata dalla polizia locale nel quadro dell’esecuzione di un mandato d’arresto internazionale debba essere presentata davanti a un giudice’’. In tale situazione, Sirven ‘‘avrebbe avuto la possibilità (sic) di interporre
(28) Diversi riferimenti al dossier Elf sono contenuti (pp. 15, 149, 181) nel volume di Eva JOLY, Notre affaire à tous, Parigi, 2000. (L’A. è stato il primo dei tre giudici istruttori che si sono occupati del caso). (29) Sul primo caso italiano di applicazione di tale disciplina v. Domanda di arresto provvisorio a fini estradizionali e Sistema d’Informazione Schengen, in questa Rivista, 2001, p. 332.
— 570 — dei ricorsi, così ritardando il rientro in Francia e aprendo anche la possibilità di ottenere la libertà sotto cauzione. Uno scenario catastrofico dal punto di vista francese’’ (30). 3. Un contrattempo di carattere amministrativo (la mancanza del visto per l’agente di polizia locale che, insieme ai colleghi francesi, deve scortare l’espulso verso la sua finale destinazione), non consente di imbarcare Sirven sul primo volo Air France in partenza per Parigi. Il volo successivo parte a distanza di ventiquattro ore. C’è però a disposizione, a breve, un aereo di linea Lufthansa per Francoforte. E questi sono il mezzo e l’itinerario che, per rispettare ‘‘la priorità’’ di cui si diceva, vengono scelti. 4. Nel frattempo, le autorità francesi spediscono un aereo militare Falcon verso Francoforte, allo scopo di realizzare un disegno operativo in tutta fretta prospettato alle omologhe autorità della Repubblica Federale: trasferire direttamente Sirven dall’aereo Lufthansa all’aereo francese, senza... fargli toccare il suolo tedesco. Si tratterebbe di un’estemporanea procedura definita ‘‘bord à bord’’, che — a quanto sembra — in un primo tempo sarebbe stata accettata dalle autorità tedesche. Ma interviene, da parte di queste ultime, un ripensamento (stimolato dalle critiche della stampa, oltretutto non ignara delle attinenze tedesche dell’affaire Elf), cosicché, a mezzo di un comunicato congiunto dei due ministri competenti, la Germania manda a dire oltre-Reno che, proprio a cominciare dall’itinerario imposto dall’Accordo Schengen, si dovrà procedere all’interrogatorio di Sirven, sulla base dei mandati d’arresto francesi. Si dovrà cioè dare corso proprio alla domanda francese di arresto provvisorio, così come attestato dalla tempestiva segnalazione S.I.S. di cui s’è detto (31). Più in particolare, va ricordato che l’art. 66 di quell’Accordo prevede che, col consenso della persona interessata, la Parte contraente richiesta — qualora l’estradizione ‘‘non è manifestamente vietata’’ dalla sua disciplina interna — ‘‘può autorizzare l’estradizione senza procedura formale di estradizione’’. 5. Al magistrato tedesco che gli notifica i provvedimenti coercitivi francesi, Alfred Sirven dichiara l’intendimento di rientrare in Francia il più presto possibile. I quotidiani francesi dei giorni successivi hanno presentato Sirven come ‘‘détenu à la maison d’arrêt de la Santé’’, a decorrere dal 7 febbraio, indicando anche il suo numero di matricola carceraria (32). Il caso Lockerbie: un ergastolo. Riprendendo il filo della narrazione riguardante la singolare vicenda processuale (33) — con riferimento alla ‘‘Consegna dei due presunti autori dell’attentato’’ v. in questa Rivista,
(30) Manille-Francfort-Paris: les vingt-quatre heures d’incomprension franco-allemandes qui ont retardé le retour du prisonnier, in Le Monde del 6 febbraio 2001, p. 8. Va però anche tenuto presente che le Filippine (v. Svizzera-Filippine: il trattato di estradizione, in Ind. pen., 1990, p. 761) ‘‘non possono procedere ad un’estradizione in assenza di trattato (art. 3 della l. del 1977), mentre in effetti non risulta che vi sia un trattato tra Filippine e Francia’’ (v. MINISTRE DE LA JUSTICE, Entraide répressive internationale, I, 1979, p. 373, alla voce Philippines). (31) L’escogitazione dell’alternativa ‘‘bord à bord’’ è stata vivacemente criticata, come priva di fondamento giuridico, anche dalla stampa francese. V. l’editoriale (Une leçon de droit), del citato Le Monde del 6 febbraio, p. 18, che, al confronto della Germania, delinea una Francia ‘‘juridiquement moins sourcilleuse et plus confiante dans les bons vieux arrangements d’Etat à Etat, de police à police, d’administration à administration’’. Nello stesso numero del quotidiano, a p. 8, si segnala anche un’intervista del ministro tedesco degli interni, Otto Schily (‘‘Jai decidé que l’on procéderait en respectant les accords de Schengen’’). (32) Nel suo primo incontro con un giudice istruttore, Sirven ha protestato contro la sua espulsione dalle Filippine, parlando di rapimento (enlèvement), e contro l’apparato spettacolare della sua presentazione alle autorità giudiziarie francesi (H. GATTEGNO, Alfred Sirven a déclaré au juge Van Ruynbeke avoir disposé d’appuis pour échapper à la justice, in Le Monde del 6 marzo 2001, p. 12). (33) KLIP and MACKAREL, The Lockerbie Trial - A Scottish Court in the Netherlands, in Rev. int.
— 571 — 1998, p. 1449; 1999, p. 741 — sulla scorta delle cronache giornalistiche riepiloghiamo come segue gli ultimi sviluppi: ‘‘... L’accusa ha presentato più di 200 testimoni. La difesa s’è limitata a tre, rinunciando improvvisamente a tutti gli altri previsti e accelerando la conclusione del processo. Gli avvocati dei libici sostengono l’inattendibilità di importanti testi dell’accusa. Attribuiscono l’attentato di Lockerbie a un organismo di estremisti palestinesi, che avrebbe agito per conto dell’Iran, decisa a vendicare l’abbattimento nell’88 di un Airbus iraniano da parte degli Stati Uniti. In caso di condanna, si prevede un automatico appello, da tenersi in Scozia o, se i due libici vorranno essere presenti, sempre a Camp Zeist. Ma alle responsabilità personali sembrano interessati principalmente i parenti degli imputati e delle vittime che hanno seguito numerose udienze del processo, portando una componente umana (soprattutto di dolore) nella surreale atmosfera dell’ex base americana in Olanda, trasformata in un improbabile spicchio di Scozia nel mezzo della boscaglia alla periferia di Utrecht’’. (I. CAIZZI, Oggi in Olanda verdetto sui libici accusati della strage di Lockerbie, in Corriere della Sera del 31 gennaio 2001, p. 16). ‘‘Camp Zeist (Olanda) - Si è concluso con una condanna e un’assoluzione il processo ai due libici accusati di aver messo una valigia con una bomba a orologeria sul volo Pan Am Londra-New York, che esplose il 21 dicembre 1988 nel cielo del villaggio scozzese di Lockerbie, provocando 11 morti a terra e 259 tra i passeggeri e l’equipaggio. Abdel Basset Al-Megrahi, considerato dai magistrati alto esponente dei servizi segreti della Libia è stato condannato all’ergastolo. I tre giudici scozzesi hanno applicato il diritto del loro Paese in un tribunale-bunker costruito appositamente nella ex base militare USA di Camp Zeist in Olanda. Al-Amin Khalifa Fhimah, ex dirigente della sede di Malta della compagnia aerea libica, è stato invece prosciolto, dopo aver passato quasi due anni nella prigione di massima sicurezza approntata accanto al tribunale. (I. CAIZZI, Lockerbie, ergastolo a un agente libico, in Corriere della Sera del 1o febbraio 2001, p. 15). ‘‘Un’assoluzione e una condanna che portano una sola certezza: sull’attentato di Lockerbie non sapremo mai la verità. O per lo meno tutta la verità. Condannando un agente dei servizi segreti libici e assolvendone un altro la Corte scozzese accredita la tesi che si sia trattato di un gesto individuale, isolato. Durante il processo i legali dei Governi inglese e americano (non quelli delle vittime però) hanno infatti rinunciato alle accuse contro il leader libico Gheddafi e i giudici si sono pronunciati contro la teoria della cospirazione internazionale, scartando così anche altre ipotesi credibili (terroristi palestinesi, mandanti siriani o iraniani). Verdetto ambiguo ma messaggio politico chiaro: la questione, nella sostanza, è chiusa’’ (A. NEGRI, Ma il Colonnello, ormai, è stato ‘‘sdoganato’’, in Il Sole-24 Ore del 1o febbraio 2001, p. 2). Le bandiere e l’intrusione (il C.S.M. e il diritto penale internazionale). Come si è potuto apprendere dal Notiziario 1-2/2000 del C.S.M. (distribuito nel gennaio scorso), nei giorni 21-23 febbraio 2000 si era svolto a Frascati un incontro di studio, dal titolo (invero piuttosto inconsueto) ‘‘Il diritto penale internazionale nella giurisdizione italiana’’. Dal predetto Notiziario (p. 182 ss.) riportiamo la ‘‘Nota illustrativa’’ dell’incontro: ‘‘I radicali e talora traumatici mutamenti che l’ordinamento internazionale ha subito in questi ultimi anni hanno indubbiamente rappresentato un elemento di forte accelerazione verso la ricerca (non soltanto di nuovi equilibri politici, ma anche) di nuovi assetti ordinamentali e giuridici.
dr. pén., 1999, p. 777; SHIELS, Scots Criminal Law in the Netherlands, in The Journal of Criminal Law, vol. 63, 1999, p. 154.
— 572 — Si è così assistito alla profonda evoluzione di tradizionali principi, quale quello di non ingerenza negli affari interni, a causa dell’affermarsi di nuove regole e dell’introduzione di nuovi soggetti di giurisdizione allorché entrino in gioco valori che, come i diritti umani, prescindono e trascendono le singole ‘bandiere’ per porsi quali fattori di catalisi tra i soggetti che compongono l’ordinamento internazionale. Catalisi che ben si spiega per essere quei diritti — ed i principi che essi evocano — posti a base di tutte le moderne costituzioni e, dunque, agevolmente iscrivibili nel novero dei valori fondanti un’identità comune tra le diverse nazioni. I diritti dei popoli e delle nazioni si raccordano, dunque, nel comune alveo dei diritti dell’umanità, così da generare la teorica configurabilità e, in taluni casi, la concreta configurazione di una specifica categoria di delitti contro l’umanità o sue componenti collettive. Si affaccia, quindi, la prospettiva di un diritto penale internazionale avente ormai, forse, una dignità scientifica pressoché autonoma [sic] ed il cui costante evolversi ha finito per comportare l’intrusione di principi in parte nuovi rispetto a quelli coniati dalla tradizione. L’impossibilità di pervenire a conclusioni definitive, specie sul piano dogmatico, non incide però sull’importanza di individuare taluni snodi che appaiono di centrale rilievo e, tra questi, risalto preminente deve essere assegnato all’ampia tematica relativa all’istituzione di tribunali penali internazionali. In tale prospettiva assume uno specifico risalto la disamina dell’importante statuto istitutivo della Corte penale internazionale, adottato dalla Conferenza diplomatica delle Nazioni Unite a Roma, il 17 luglio 1998, e ratificato con la l. 12 luglio 1999, n. 232, avuto riguardo alle significative novità che per più profili tale organismo presenta nel panorama dell’ordinamento internazionale ed alla conseguente opportunità di approfondirne sin d’ora gli aspetti di maggior pregnanza e le problematiche connesse alla sua compiuta attuazione. Nel medesimo quadro adeguata attenzione andrà pure riservata all’analisi degli strumenti istitutivi del Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia e di quello per il Ruanda, al fine, anche, di verificare le esperienze sin qui maturate, analizzando, all’esito, gli eventuali riflessi che da tali esperienze possano essere tracciati anche sul piano del diritto sostanziale. Sempre nell’ambito delle relazioni che possono stabilirsi tra l’ordinamento interno e quello internazionale e con particolare riferimento ai limiti che la giurisdizione penale può subire in dipendenza di norme derivanti dal diritto internazionale, l’attenzione dovrà essere anche rivolta al tema, spesso trascurato, delle immunità di derivazione internazionale, sia per la varietà di situazioni che esso può coinvolgere, sia per la notevole importanza pratica che non di rado presenta. Occorrerà, quindi, puntualizzare le fonti dalle quali deriva il riconoscimento della condizione di immune, la portata di tale condizione, l’atto da cui essa deriva, e quali siano le modalità attraverso le quali accertarne l’esistenza, specie nei casi in cui ciò debba essere effettuato con particolare urgenza (si pensi ad ipotesi di perquisizione, sequestro o arresto). Una tematica, questa, che non potrà non investire la disamina dello specifico status dei militari della N.A.T.O., avuto riguardo all’attualità dei problemi che quel peculiare regime presenta e dei dubbi di costituzionalità cui esso ha dato luogo. Occorrerà, più in generale, chiedersi se la Convenzione della N.A.T.O. sullo statuto delle relative forze armate sia un’evoluzione (eventualmente ancora da modificare) o lo sbiadito residuato dell’antico principio ubi signa est iurisdictio, il quale evoca l’antica immunità assoluta dalla giurisdizione che tradizionalmente accompagnava le truppe straniere transitanti o stazionanti in territorio estero (34). A completamento del percorso, non potranno essere trascurati, inoltre, alcuni accenni alla generale tematica dei rapporti giurisdizionali con le autorità straniere, con particolare riguardo ai problemi più comuni che si pongono in tema di rogatorie ed estradizioni, tanto attive che passive. In tale contesto una specifica attenzione dovrà essere tuttavia riservata alle peculiarità riguardanti l’assistenza giudiziaria tra Paesi dell’Unione Europea, anche alla luce della nuova Convenzione in corso di elaborazione, avuto riguardo alla possibilità di enu-
(34)
Sul tema v. retro: Gli accordi N.A.T.O.: come rivedere il Trattato di Londra.
— 573 — cleare uno jus singulare che tende ormai a permeare ed armonizzare fra loro i singoli e tradizionali istituti di cooperazione, per riconvertirli all’interno di un ‘sistema europeo’ dai contorni sempre più definiti. A quest’ultimo proposito non può non sottolinearsi come l’articolo K.1 del titolo VI del Trattato di Maastricht — il noto ‘terzo pilastro’, profondamente innovato dal Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997 — abbia previsto quale obiettivo dell’Unione quello di ‘fornire ai cittadini un livello elevato di sicurezza in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia’, sviluppando, a tal fine, un’azione in comune nel settore della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, da realizzarsi pure attraverso ‘la garanzia della compatibilità delle normative applicabili negli Stati membri’. In tale contesto appare dunque conclusivamente utile una generale riflessione sul tema di un possibile ‘diritto penale europeo’ così come su quello di un’eventuale armonizzazione dei sistemi processuali. Tematiche, queste, che ovviamente andranno sviluppate tanto sul piano degli strumenti già elaborati e operativi che su quelli in corso di approntamento’’.
LEGGI E DOCUMENTI
I LAVORI DELLA COMMISSIONE MINISTERIALE PER LA RIFORMA DEL CODICE PENALE ISTITUITA CON D.M. 1o OTTOBRE 1998
1. La Commissione Ministeriale per la riforma del codice penale, composta dai Prof. Carlo Federico Grosso (presidente), Francesco Palazzo, Paolo Pisa, Domenico Pulitanò, Sergio Seminara, Filippo Sgubbi, dai dott. Giovanni Canzio, Giovanni Silvestri, Giuliano Turone, Vladimiro Zagrebelsky, dagli avv. Fabrizio Corbi, Ettore Randazzo, Filippo Siciliano, Giampaolo Zancan, è stata istituita dal Ministro Flick con D.M. 1 ottobre 1998 con l’incarico di elaborare un documento che indicasse le linee di una riforma del codice penale, tenendo conto dei lavori svolti dalle Commissioni Ministeriali e Parlamentari (Commissione Pagliaro, Progetto Riz), dei progetti di legge all’esame del Parlamento, delle elaborazioni in corso presso il Ministero della Giustizia, degli orientamenti recenti della legislazione penale dei Paesi europei. 2. Il 15 luglio 1999 la Commissione ha consegnato al Ministro Diliberto il testo di un documento nel quale erano tracciate le linee di una possibile riforma della parte generale del codice penale ed impostati i problemi del suo coordinamento con la parte speciale e la legislazione penale speciale (documento pubblicato su questa Rivista, 1999, p. 600 ss.). 3. Il Ministro Diliberto ha subito dopo incaricato la Commissione di procedere ad una consultazione con le Università e gli organismi della Magistratura e della Avvocatura sul contenuto del documento. Successivamente, rilevate alcune reazioni positive alla pubblicazione del documento 15 luglio 1999, con lettera 29 settembre 1999 ha dato incarico alla Commissione di procedere altresì alla stesura dell’articolato della parte generale del codice penale. 4. La Commissione ha proceduto alla consultazione (convegni e pareri scritti, fra i quali quelli di due Commissioni rispettivamente istituite presso la Corte di Cassazione e la Procura Generale della Cassazione), ed alla stesura dell’articolato della parte generale del codice penale (per la parte relativa alla responsabilità delle persone giuridiche ha partecipato anche la Prof. Cristina De Maglie). L’articolato e la relativa Relazione illustrativa sono stati consegnati al Ministro Fassino il 12 settembre 2000. 5. Il Ministro Fassino con lettera 16 settembre 2000 ha pubblicato l’articolato e la Relazione 12 settembre 2000 sotto la veste di « Progetto preliminare di riforma del codice penale. Parte generale », ed ha disposto che il Progetto preliminare fosse a sua volta sottoposto a pubblico dibattito con le Università e gli organismi della Magistratura e della Avvocatura, in vista della elaborazione di un Progetto definitivo, incaricando ulteriormente la Commissione di procedere ai necessari coordinamenti della nuova parte generale del codice con il diritto penitenziario ed alcuni istituti processuali, ed alla stesura della parte speciale. 6. La Commissione ha quindi proceduto alla consultazione richiesta dal Ministro, ed ha apportato talune modificazioni al testo originario dell’articolato 12 settembre 2000 tenendo conto delle osservazioni emerse nel corso del dibattito. Il nuovo testo dell’articolato della parte generale del codice penale, corredato da una Relazione illustrativa delle ragioni delle modificazioni apportate (nonché delle ragioni di alcune conferme di punti controversi della disciplina originaria) è stato approvato dalla Commissione nella seduta del 26 maggio 2001, e successivamente consegnato al Ministro Fassino per la pubblicazione.
— 575 — 7. Nelle pagine che seguono vengono pubblicati i seguenti documenti: a) Relazione al Progetto preliminare di riforma del codice penale, parte generale, del 12 settembre 2000; b) Relazione al testo modificato del Progetto preliminare di riforma del codice penale, parte generale, approvato dalla Commissione il 26 maggio 2001; c) Articolato della parte generale approvato dalla Commissione il 26 maggio 2001, con indicazione (in nota) degli articoli modificati del testo originario del 12 settembre 2000. Le parti aggiunte dal testo approvato il 26 maggio 2001 sono in corsivo. Fra parentesi quadre le parti soppresse.
Relazione al ‘‘Progetto preliminare di riforma del codice penale’’ - Parte generale. (12 settembre 2000)
SOMMARIO: A) CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE. — 1. I lavori della Commissione ministeriale. — 2. I principi ispiratori della riforma — B) RELAZIONE SULL’ARTICOLATO. — 1. La legge penale. — 2. Il reato. - 2.1. Principi generali. - 2.2. Responsabilità per omissione. - 2.2.1. Le posizioni di garanzia. - 2.2.2. Posizioni di garanzia nell’ambito di organizzazioni complesse. - 2.2.3. Reati a mezzo stampa o radiotelevisione. - 2.3. Colpevolezza. - 2.4. Le cause di giustificazione. - 2.5. Delitto tentato. - 2.6. Concorso di persone nel reato. — 3. Pena. - 3.1. Sistema delle pene. - 3.2. Circostanze aggravanti e attenuanti. - 3.3. Commisurazione della pena. - 3.4. Concorso di reati. - 3.5. Sospensione condizionale della pena. - 3.6. Condizioni di procedibilità e di estinzione degli effetti penali. — 4. Non imputabilità e capacità ridotta. - 4.1. Non imputabilità. — 5. Trattamento dei minori imputabili. — 6. Confisca e sanzioni riparatorie. - 6.1. Confisca. - 6.2. Conseguenze civili del reato. — 7. Responsabilità delle persone giuridiche. — 8. Disposizioni di attuazione e coordinamento.
A) CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE 1. I lavori della Commissione ministeriale. — Con d.m. 1o ottobre 1998 il ministro della giustizia Giovanni Flick ha nominato una Commissione per la riforma del codice penale, presieduta dal prof. Carlo Federico Grosso, e composta da cinque professori universitari (proff. Francesco Palazzo, Paolo Pisa, Domenico Pulitanò, Sergio Seminara, Filippo Sgubbi), da quattro magistrati (dott. Giovanni Canzio, Giovanni Silvestri, Giuliano Turone, Vladimiro Zagrebelsky), da quattro avvocati rappresentativi di organismi ufficiali della avvocatura (avv. Fabrizio Corbi, Ettore Randazzo, Filippo Siciliano, Giampaolo Zancan), assistita da un Comitato scientifico (1), e chiamata ad operare con la partecipazione del Capo di Gabinetto, del Capo dell’Ufficio Legislativo e del Direttore Generale degli Affari penali del Ministero di grazia e giustizia. Tale Commissione aveva il compito di provvedere, entro il 30 giugno 1999, alla stesura di un documento che approfondisse i temi della riforma del codice penale, tenendo conto dei lavori svolti da Commissioni Ministeriali e Parlamentari (Commissione Pagliaro, Comitato Riz), dei provvedimenti all’esame del Parlamento, delle elaborazioni in corso presso il Ministero su aspetti collegati, della più recente elaborazione della dottrina e della legislazione penale europea. La Commissione, valutato che i tempi stretti concessi alla stesura del documento non consentivano una elaborazione in grado di affrontare con la medesima attenzione la parte
(1) Coordinato prima dalla dott. Cesqui, poi dal dott. Fidelbo, e composto dai dott. Cantone, Colli, De Crescenzio, Di Giovine, Fumu, Piergallini, Masi, Padalino, Vardaro.
— 576 — generale e la parte speciale del codice penale, ha ritenuto di privilegiare la prima, e di riservare alla seconda considerazioni riguardanti soprattutto i criteri generali ai quali dovrebbe ispirarsi la relativa disciplina. Il 15 luglio 1999 la Commissione ha consegnato al ministro della giustizia Oliviero Diliberto il testo di un documento nel quale erano tracciate le linee di una possibile riforma della parte generale del codice penale ed impostati i problemi di necessario coordinamento con la parte speciale e la legislazione penale speciale. Nel frattempo il ministro, ritenendo opportuno che la Commissione si confrontasse con la Avvocatura, la Magistratura e le Università, in quanto la riforma di un codice non può costituire il mero risultato di una attività di studio di una ristretta Commissione ministeriale, ma deve essere aperta ad un ampio dibattito, e sostenuta dall’apporto costruttivo della cultura giuridica del Paese, con d.m. 22 giugno 1999 aveva proceduto a prorogare al 30 giugno 2000 la Commissione stessa, conferendole l’incarico di dare ampia diffusione al documento in via di completamento, e di attivare la discussione sui suoi contenuti. Con lettera 29 settembre 1999 il ministro, rilevate alcune reazioni positive alla pubblicazione del testo del documento 15 luglio 1999, ritenuto necessario procedere rapidamente alla predisposizione di norme che rivedessero la parte generale del codice penale Rocco, ha dato incarico alla Commissione di procedere altresì alla stesura del relativo articolato, tenendo conto delle osservazioni che fossero nel frattempo pervenute sul documento di base. La Commissione ministeriale ha quindi attivato una serie di incontri con docenti universitari, magistrati ed avvocati, che si sono concretati in numerosi convegni sull’intera impalcatura della riforma della parte generale del codice, o su singoli suoi aspetti. La Corte di cassazione e la Procura Generale presso la Corte di cassazione, per parte loro, hanno fatto pervenire al Ministero della giustizia due pareri sulla bozza di riforma, elaborati da Commissioni rispettivamente presiedute dal Presidente di Sezione dott. G. Viola e dall’Avvocato Generale U. Toscani. A partire dall’ottobre 1999 la Commissione ha, nel contempo, proceduto alla stesura dell’articolato della parte generale secondo lo schema predisposto nel documento del 15 luglio 1999, integrato per le parti da esso non trattate, e modificato in più punti anche alla luce dei suggerimenti e delle critiche emerse nel corso del dibattito che si era nel frattempo aperto sul testo del documento stesso. Con d.m. 22 giugno 2000 il ministro della giustizia Piero Fassino, considerato che la Commissione stava completando la stesura dell’articolato della parte generale del codice penale, preso atto delle dimissioni presentate per ragioni personali dal dott. Turone, ritenuta la opportunità di consentire che la Commissione operasse anche con la prof. Cristina De Maglie limitatamente alla stesura definitiva delle norme riguardanti la responsabilità delle persone giuridiche, ha prorogato la Commissione stessa sino al 31 dicembre 2000, affinché terminasse il lavoro concernente l’articolato della parte generale del codice e la redazione della relativa relazione esplicativa. Nel contempo la ha incaricata di verificare (successivamente) ‘‘la possibilità di un intervento, specie sull’apparato sanzionatorio previsto dalle norme della parte speciale, che consentisse di rendere immediatamente utilizzabile nella sua interezza l’articolato della parte generale’’. Nella riunione del 22 luglio 2000 la Commissione ha licenziato il testo dell’articolato, dando mandato al Presidente di stendere la relazione esplicativa. Il Presidente ha redatto la relazione con la collaborazione del prof. Pulitanò, che ha steso le parti, recepite con poche variazioni, concernenti la causalità nei reati omissivi, le posizioni di garanzia, le pene, la non imputabilità, la confisca e le sanzioni riparatorie, la responsabilità delle persone giuridiche e le disposizioni di attuazione e di coordinamento. La relazione e l’articolato della parte generale nella sua formulazione definitiva sono stati quindi approvati dalla Commissione nella seduta del 12 settembre 2000. 2. I principi ispiratori della riforma. — 1. In via preliminare si osserva che, rispettando una specifica indicazione contenuta nel decreto ministeriale 1 ottobre 1998, la Commissione ha dato ampio spazio a valutazioni di tipo comparativistico, cercando di adeguare,
— 577 — per quanto possibile, la legislazione penale italiana a scelte che sono state compiute dalla più recente codificazione europea, o comunque confrontandosi con tali scelte; nella convinzione che soltanto seguendo questa strada sia possibile porre le premesse per ulteriori, più penetranti, tentativi di omogeneizzare lo spazio giuridico del paesi comunitari. Questo tipo di approccio allo studio dei problemi troverà specifico riscontro nella parte della relazione esplicativa dei singoli istituti, con riferimento ad alcuni dei quali una delle ragioni delle scelte compiute è ravvisabile proprio nella loro connotazione europea. 2. Fra gli obbiettivi primari della riforma si colloca la configurazione di un codice penale fortemente caratterizzato dalla impronta garantista della tradizione liberal-democratica. Questo obbiettivo è stato perseguito innanzitutto prestando grande attenzione alla realizzazione dei principi di tipicità e certezza nella disciplina dei presupposti della responsabilità penale: non soltanto attraverso la enunciazione delle tradizionali norme generali di garanzia (principio di legalità, principio di stretta legalità, irretroattività della legge penale), ma soprattutto attraverso una definizione più tassativa di istituti tradizionalmente affidati ad una ampia discrezionalità giudiziale. Come esempio significativo di questo orientamento può essere individuato, innanzitutto, lo sforzo compiuto nel tentativo di tipizzare le c.d. ‘‘posizioni di garanzia’’, e di realizzare, attraverso questa operazione, una selezione dei reati omissivi ed una riduzione dei margini di discrezionalità che contraddistinguono la applicazione della causalità nei reati commissivi mediante omissione, oggi interamente affidata agli incerti confini del generico ‘‘obbligo giuridico di impedire l’evento’’ di cui al comma 2 dell’art. 40 c.p. Il punto più delicato, ed in certo senso qualificante, della proposta è stato d’altronde il tentativo di tipizzare le posizioni di garanzia nell’ambito delle organizzazioni complesse, che si è concretata a sua volta nella doppia previsione di un catalogo di adempimenti cui tali organizzazioni sono obbligate allo scopo di prevenire che vengano commessi reati con violazione di norme pertinenti all’attività della organizzazione stessa, e di una articolazione delle posizioni di responsabilità individuale al suo interno. Si può ricordare, in secondo luogo, la nuova disciplina di tentativo e concorso di persone nel reato. Ancorando il primo al concetto di inizio di esecuzione, si è cercato di dotare di maggiore determinatezza una tipica norma di espansione della responsabilità penale: con una definizione che, pur non risolvendo ogni problema di riduzione dei margini di discrezionalità giudiziale, ha comunque il pregio di mutuare, per così dire, la tipicità del tentativo da quella della fattispecie di riferimento, e di impedire un arretramento eccessivo dell’inizio dell’attività punibile. Procedendo ad una moderata tipizzazione delle fattispecie di concorso di persone nel reato, si è cercato di lasciarsi alle spalle una disciplina che ha consentito una incontrollata, talvolta arbitraria, dilatazione giudiziale dell’ambito della responsabilità penale; prevedendo una articolazione normativa che, senza imporre schematismi eccessivi, costringe comunque il giudice a rilevare effettivamente, a verificare attentamente, ed a motivare, la presenza ed il tipo di apporto causale alla realizzazione del reato di ciascun concorrente, si è imboccata la strada di un difficile, ma proficuo, equilibrio fra esigenze di tutela e necessità di una sufficiente tassatività dei presupposti della responsabilità penale. Si può menzionare, ancora, la ricerca di intervenire sulla disciplina della pena, e soprattutto della sua applicazione in concreto, nel tentativo di ridurre ragionevolmente l’ambito della discrezionalità giudiziale nella commisurazione della pena, oggi smisuratamente ampio. È vero che tale esigenza può essere soddisfatta soprattutto sul terreno della parte speciale, attraverso una adeguata riduzione della forbice fra minimo e massimo edittale di ciascun reato. Un buon risultato può essere ottenuto tuttavia già sul terreno della parte generale, attraverso un articolato complesso di interventi coordinati: criteri più precisi per la determinazione della pena in concreto, ma soprattutto modifica del regime delle circostanze del reato, del concorso di reati, della continuazione nel reato. In questa prospettiva la Commissione ha previsto una serie di modificazioni significative della normativa vigente: tendenziale diminuzione del numero delle circostanze, eliminazione delle circostanze attenuanti generiche, sottrazione delle circostanze ad effetto speciale al regime del bilanciamento, limitazione della
— 578 — entità dell’aumento e della diminuzione di pena collegata alle circostanze ad effetto ordinario, limiti più rigorosi negli aumenti di pena dipendenti dal cumulo giuridico delle pene. Va da sé che questo tentativo di massima tipizzazione possibile doveva fare necessariamente i conti con i limiti logici di una disciplina penale ‘‘ragionevole’’, ragionevolmente applicabile ai singoli casi. Vi sono infatti settori nei quali non si può andare oltre certi limiti di determinatezza se non si vuole privare il sistema penale di una sufficiente capacità di adattamento alla varietà dei casi concreti. Vi sono materie in cui la configurazione di una disciplina dettagliata rischierebbe addirittura di nuocere, ed in cui è giocoforza affidarsi alla prudente valutazione del giudice nella decisione sul singolo caso. La Commissione ha preso realisticamente atto di questa realtà, e dove non ha potuto, o ritenuto di non dovere entrare in eccessivi dettagli di disciplina lo ha fatto, spiegando le ragioni della scelta. 3. Il tentativo di rendere il codice penale conforme al modello di una legislazione contraddistinta dall’impronta garantistica di stampo liberale è stato ulteriormente perseguito attraverso una ampia realizzazione del principio di colpevolezza, secondo una linea su cui si erano già correttamente orientati i progetti Pagliaro e Riz. Il nuovo progetto, scontata la necessità di eliminare ogni traccia di responsabilità oggettiva, si è peraltro preoccupato di cancellare anche ogni anomalia rispetto all’esigenza che vi sia piena corrispondenza fra forma di colpevolezza e titolo di responsabilità. In questa prospettiva sono stati eliminati, o profondamente modificati, gli istituti nei quali la responsabilità penale si fondava comunque sulla colpevolezza dell’autore, ma a costui, che aveva agito con colpa, veniva applicata la pena prevista per un delitto doloso (esempio tipico, la disciplina di cui al vigente art. 116 c.p. Rocco). Ed in sede di disciplina della commisurazione della pena si è stabilito che ‘‘la pena viene determinata dal giudice, entro il limite della proporzione con la colpevolezza per il fatto commesso’’. Enunciato dunque come principio fondante di ogni forma di responsabilità penale che ‘‘la colpevolezza dell’agente è presupposto indefettibile della responsabilità penale’’ (art. 28, comma 1), la Commissione ha ritenuto conseguentemente superflue norme come quelle che prevedono la coscienza e volontà della condotta da un lato, il caso fortuito e la forza maggiore dall’altro, sulla cui previsione si basava sostanzialmente la responsabilità penale per rischio all’interno di un sistema fortemente caratterizzato dalla presenza di ipotesi di responsabilità senza colpa. E non ha esitato ad eliminare istituti quali la preterintenzione, l’aberratio delicti, la responsabilità ex art. 117 c.p., e ad auspicare la eliminazione dei delitti aggravati dall’evento, salva ovviamente la possibilità di fare fronte sul terreno della parte speciale a specifiche esigenze di tutela che dovessero emergere con riferimento a settori particolari dell’ordinamento (es., delitti contro la persona). Mentre istituti come la aberratio ictus, o la responsabilità per reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, pur conservati, sono stati comunque ricondotti nell’alveo di una rigorosa applicazione dei principi generali. Dello stesso segno sono d’altronde talune delle innovazioni introdotte in materia di imputabilità e di non imputabilità, fra le quali in questa sede preme segnalare la totale cancellazione di ogni profilo di quella ‘‘finzione di imputabilità’’ che tanto caratterizza il codice penale del 1930, anche su questo terreno poco attento a commisurare la responsabilità penale alla colpevolezza ed ai suoi presupposti. Nelle parti relative alla legge penale e al reato, il progetto ha una sua autonomia e compiutezza, che teoricamente ne consentirebbero l’entrata in vigore anche indipendentemente dalla riforma del sistema sanzionatorio e da riforme di parte speciale. Si tratterebbe, ovviamente, solo dell’avvio di una riforma che è stata pensata come complessiva, e che anzi abbisogna di essere ulteriormente sviluppata con interventi sulla parte speciale. 4. Profilo di forte caratterizzazione della riforma è, per altro verso, il nuovo sistema delle pene. La Commissione ha disegnato un complesso di sanzioni profondamente rinnovato, muovendo dalla convinzione della urgenza di modificare il sistema punitivo vigente, giudicato deficitario sotto ogni aspetto: ineffettivo e, là dove efficace, vessatorio. L’obbiettivo di fondo in vista del quale la riforma è stata pensata, è il potenziamento
— 579 — delle capacità di risposta alle esigenze di prevenzione generale (capacità dissuasiva dal commettere reati) e speciale (rieducazione, che ha trovato un forte riconoscimento nelle stesse norme sulla commisurazione della pena), nel rispetto dei principi di proporzione e di ragionevolezza delle pene e delle garanzie dei diritti della persona. Sulla base di questa premessa sono state realizzate alcune scelte di fondo: necessità di ridurre la (inutile) gravità delle pene detentive; opportunità di affiancare, come pene principali oltreché come pene accessorie, un articolato complesso di pene diverse (pene interdittive, detenzione domiciliare), alle tradizionali pene detentive e pecuniarie; tendenziale abbandono di un sistema di pene ancorato alla centralità del carcere, che, là dove non è necessario, bene può essere sostituito, già nella fase del giudizio di cognizione, dalla applicazione di pene diverse; ampia utilizzazione della pena pecuniaria, profondamente mutata nella sua struttura con l’introduzione del sistema delle ‘‘quote giornaliere’’, il solo che teoricamente consente di raccordare misura della sanzione e condizioni economiche del condannato, favorendo di conseguenza maggiore equità e maggiore effettività. A questo punto appaiono necessarie alcune ulteriori osservazioni. In primo luogo occorre sottolineare che un sistema penale caratterizzato da cautela nel ricorso alla reclusione e da un elevato affidamento in pene diverse non è affatto per definizione un sistema penale più debole. È sicuramente un sistema più umano, che, senza usare inutilmente il carcere, può esplicare una consistente efficacia preventiva mediante strumenti più articolati e più idonei allo scopo. Fra questi strumenti va inserita anche la sospensione condizionale della pena, opportunamente rimodellata. Tale istituto è oggi applicato come un ‘‘quasi-diritto’’ del condannato, in un’ottica di fuga dalla sanzione e secondo meccanismi pressoché automatici. Nel progetto è stato arricchito di contenuti positivi, con la imposizioni di obblighi quale condizione per la sua concessione, così da diventare strumento importante di rafforzamento dell’incisività di un sistema penale che utilizzi anche sanzioni diverse dalla reclusione. In questa prospettiva il progetto prevede che la sospensione condizionale della pena abbia una autonoma collocazione e grande rilievo. Stabilito che in via di principio essa sia obbligatoriamente subordinata alle restituzioni ed al risarcimento del danno, alla consegna dei profitti del reato, alla consegna del prezzo del reato, ed in determinati casi ad altri obblighi qualificati, prevista (e per soli motivi di legittimità costituzionale) in una dimensione circoscritta nei confronti delle pene pecuniarie, il nuovo istituto dovrebbe dunque diventare uno dei cardini attorno al quale fare ruotare l’incisività del nuovo, profondamente cambiato, sistema di penalità. È d’altronde quasi superfluo osservare che la disciplina della nuova sospensione condizionale ha senso nella misura in cui si inserisca nel quadro interamente nuovo di forte mitigazione e di diversificazione qualitativa del sistema sanzionatorio previsto dalla riforma. Se dovesse essere estrapolata, ed innescata su trame di vecchi tessuti normativi, rischierebbe di produrre effetti distorcenti, se non addirittura di boomerang. Il che non vale certo per tutti i profili nuovi della riforma, ma sicuramente per quanto attiene una parte consistente della nuova disciplina delle sanzioni. Ultima considerazione. È evidente che il modello prospettato sul terreno della parte generale, pur rispondendo a precise indicazioni politico-legislative, e pur prevedendo ampi profili di disciplina, non è del tutto autoreferente. Presuppone invece, per diventare concretamente operativo, scelte coerenti quantomeno sul terreno della individuazione delle singole pene previste nei confronti di ciascun reato. Si può dire, anzi, che in un certo senso il volto effettivo e reale del nuovo sistema sanzionatorio dipenderà in larga misura dalla specificità di tali scelte. La Commissione, per il momento, dato il carattere del mandato conferitole, per valutare la praticabilità e le realizzazioni possibili delle opzioni di carattere generale compiute non ha potuto fare altro che simulare possibili discipline di parte speciale, riservandosi di entrare in maniera più penetrante nel vivo di questa problematica nell’adempimento del mandato ulteriormente ricevuto nell’ultimo decreto ministeriale di proroga. 5.
Su altre innovazioni previste dalla riforma ci si limita, in questa sede preliminare,
— 580 — ad alcune indicazioni di carattere ancor più sintetico, rinviando alla lettura della relazione esplicativa delle singole norme. Soluzioni innovative sono state realizzate nella disciplina della non imputabilità, della capacità ridotta e del trattamento dei minori imputabili, con riferimento ai quali si è ritenuto di recepire nel codice i principi di fondo di una disciplina speciale fortemente contraddistinta dall’idea della risocializzazione. Si è, ovviamente, superato del tutto il c.d. sistema del doppio binario, utilizzando nei confronti dei soggetti a capacità ridotta pene fortemente connotate dai contenuti che avrebbero dovuto possedere le misure di sicurezza, e circoscrivendo comunque entro confini circoscritti la utilizzazione di misure penali nei confronti dei soggetti non imputabili. Soluzione molto innovativa è stata compiuta in materia di confisca, che è diventato istituto a sé stante caratterizzato da una valenza di contrasto forte contro la criminalità con fini di lucro. Nonostante la esistenza di divergenze fuori e dentro la Commissione, la maggioranza ha deciso di optare nel senso del riconoscimento di una responsabilità delle persone giuridiche, non penale, ma da disciplinare e trattare comunque in ambito penale. Essa ha ritenuto che il panorama europeo, dove la responsabilità penale delle persone giuridiche è ormai largamente riconosciuta, e le stesse iniziative legislative in corso per adeguare la legislazione italiana a direttive comunitarie, rendessero pressoché ‘‘vincolata’’ questa scelta. La ragione del modello prescelto, di una responsabilità non penale, il cui accertamento presuppone comunque la realizzazione di un reato, e viene compiuto dalla autorità giudiziaria penale, verrà illustrata in sede di spiegazione delle singole norme. In questa fase di primo approccio ai contenuti della riforma preme comunque sottolineare che la disciplina prevista tende non tanto a perseguire intenti specificamente sanzionatori, quanto ad assicurare, attraverso la imposizione di specifici ed adeguati ‘‘programmi di organizzazione’’, la prevenzione contro la commissione di reati attraverso la attività di impresa; in un contesto in cui la minaccia della sanzione dovrebbe servire soprattutto a garantire l’attivazione di tali programmi. 6. Il progetto Pagliaro aveva indicato come uno dei cardini della riforma del codice penale, tanto da enunciarlo fra i ‘‘principi di codificazione’’ all’inizio della parte generale, la necessità di ritornare ad una disciplina penale che restituisca al codice la tradizionale posizione di centralità normativa. Ciò allo scopo di evitare il proliferare di leggi penali speciali, disomogenee, scarsamente rispettose dei principi generali sulla responsabilità penale e di un impiego corretto delle tecniche della incriminazione. Nel dibattito penalistico degli ultimi anni vi è stato chi, muovendo dal rilievo che non vi sarebbero, oggi, le condizioni per realizzare una nuova codificazione, ritiene che nella attività di doverosa riforma di molte delle discipline penali sia realistico rinunciare ad un modello unitario di disciplina codicistica, ed occorra operare invece per sottosistemi omogenei, settore per settore. La Commissione, pur comprendendo le ragioni di questo orientamento, ritiene importante che il codice penale torni ad essere al centro del sistema di previsione dei reati e delle pene, quale testo in cui siano stabiliti e ordinati a sistema i principi e gli istituti fondamentali. Ritiene perciò necessario cercare di opporsi al proliferare di leggi penali speciali, disomogenee rispetto ai principi generali ed inadeguate sul terreno della tenica incriminatrice. In questa prospettiva, pur non riproponendo, perché giudicata irrealistica, l’idea di codificazione del progetto Pagliaro, ha tenuto ad enunciare comunque alcune norme di principio dirette a salvaguardare, per quanto possibile, omogeneità nelle regole generali sulla responsabilità penale. Ha così riproposto la disposizione di cui all’art. 16 c.p. Rocco, ha cercato di ostacolare la abrogazione tacita delle leggi penali, ha riformulato la norma, enunciata a livello costituzionale dalla Commissione Bicamerale, secondo cui ‘‘nuove norme penali sono ammesse soltanto se modificano il codice penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti organicamente l’intera materia cui si riferiscono’’. Dopodiché, essa ha ritenuto che nulla osti ad una ricomposizione ‘‘per gradi’’ della legislazione penale di parte speciale o di legislazione speciale (ovviamente per quanto possibile: ad esempio, la previsione di un modello sanzionatorio interamente nuovo presuppone co-
— 581 — munque un intervento globale mirato a rivedere le pene dei singoli reati, e di ciò si è fatto carico il ministro Fassino nel suo ultimo decreto di proroga). La Commissione è anzi convinta che vi siano materie che non sia opportuno, o addirittura possibile, inserire nel codice penale a cagione di molteplici fattori: la specificità del loro contenuto, il contenuto non ancora sufficientemente condiviso, la dipendenza dalla disciplina di riferimento, ecc. Ritiene tuttavia auspicabile che sia nella riforma per settori, sia nella disciplina di materie per loro natura estranee ad un processo di codificazione, trovino applicazione i principi generali enunciati in materia di presupposti della responsabilità penale: lo impongono, infatti, oltre che una evidente esigenza di omogeneità, ben più insopprimibili esigenze di rispetto delle garanzie. Un’ultima, sia pure rapidissima, riflessione esige l’osservazione secondo cui sarebbe metodologicamente scorretto affrontare la riforma della parte generale del codice sganciata da quella della parte speciale. La Commissione è convinta che, se esistessero le condizioni, sarebbe in effetti preferibile esaminare congiuntamente l’intero tessuto del codice penale, poiché le connessioni fra parte generale e parte speciale sono innegabili e numerose. Ritiene tuttavia che, non essendovi tali condizioni, di fronte ad una disciplina codicistica vigente di parte generale che, nonostante i ritocchi, rivela tutte la sue rughe, all’inerzia sia comunque preferibile l’avvio del lavoro: evidentemente sul presupposto che chi lavora non sia così sprovveduto dal non farsi costantemente carico dei possibili riflessi sulla parte speciale, prospettandosi possibili implicazioni e possibili scenari di soluzione. 7. In chiusura di questa parte introduttiva della relazione sembra opportuna una rapida illustrazione della struttura della parte generale. Essa è stata ripartita in sette titoli. Il primo dedicato alla legge penale, il secondo al reato, il terzo alle pene, il quarto alla non imputabilità ed alle situazioni di capacità ridotta, il quinto al trattamento sanzionatorio del minore imputabile, il sesto alla confisca e alle sanzioni riparatorie, il settimo alla responsabilità delle persone giuridiche. Seguono disposizioni di attuazione e coordinamento. Tentativo e concorso di persone nel reato sono stati trattati nel titolo secondo. Circostanze del reato e concorso di reati sono stati trattati nel titolo terzo, dedicato alle pene, dando prevalenza alla incidenza che i due istituti hanno sulla determinazione in concreto delle pene. Per le ragioni che saranno spiegate in sede di analisi delle singole norme, nel linguaggio del codice non è stata utilizzata la categoria delle cause estintive del reato e della pena. Gli istituti in essa tradizionalmente compresi hanno conseguentemente ricevuto collocazioni diverse.
B) RELAZIONE SULL’ARTICOLATO 1. La legge penale. — 1. Il principio di legalità è enunciato come norma di apertura in tutti i codici penali europei. Nonostante la sua formulazione nell’art. 25, comma 2, Cost., la Commissione ha ritenuto di riformularlo esplicitamente anche a livello di legislazione ordinaria nella sua collocazione naturale, e cioè nell’art. 1, come segnale univoco della impronta liberal-garantista di derivazione illuministica al quale si intende ispirare la nuova codificazione. Formulato nell’art. 1 comma 1 con riferimento al reato ed alla pena, per ragioni di completezza si è ritenuto di prevederlo nel comma 2 anche con riferimento alle misure di sicurezza (la cui natura giurisdizionale, e pertanto penale, costituisce ormai patrimonio acquisito della cultura giuridica italiana), nonostante che la rilevanza di tali misure sia stata fortemente ridimensionata. Rispetto all’art. 1 del codice penale Rocco, si è inserito nella formulazione del principio di legalità anche il principio di irretroattività, secondo cui le leggi che prevedono reato, pena e misure di sicurezza devono preesistere alla commissione del fatto. In ciò seguendo quanto statuiscono la Costituzione italiana, e i codici penali europei, sul presupposto che il principio di irretroattività della legge penale sia parte integrante di quello di legalità.
— 582 — Il comma 3 dell’art. 1 specifica, allo scopo di evitare ogni dubbio, che il principio di legalità e di irretroattività si applica anche alla confisca (che nel progetto assume una collocazione sistematica autonoma sia rispetto alle pene che alle misure di sicurezza) ed agli effetti penali della condanna, qualunque sia la loro qualificazione giuridica. 2. Subito dopo la enunciazione del principio di legalità sono state formulate norme in materia di applicazione della legge penale, il cui scopo è di indirizzare la attività ermeneutica secondo una impronta garantistica. Nell’art. 2 comma 1 è stato previsto il divieto di analogia, secondo il modello dell’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile. Si è specificato che soltanto le norme ‘‘incriminatrici’’ non si applicano a casi diversi da quelli previsti per rendere manifesto che l’analogia può essere utilizzata nei confronti delle disposizioni di favore secondo quanto già oggi costituisce opinione pressoché pacifica. Nel comma 2 si è trattato del principio di offensività. La Commissione, anche tenendo conto dei pareri espressi dalle Commissioni della Corte di cassazione e della Procura Generale, dopo lunga discussione ha deciso di prevedere che ‘‘le norme incriminatrici non si applicano ai fatti che non determinano una offesa del bene giuridico’’, e di collocare tale disposizione sotto la rubrica della applicazione della legge penale piuttosto che sotto quella di un autonomo principio di irrilevanza penale dei fatti tipici inoffensivi. In questo modo, riconducendo sostanzialmente la regola enunciata entro i confini della interpretazione, si è ritenuto di superare le eccessive tensioni con il principio di legalità che una collocazione diversa avrebbe rischiato di determinare. Una parte della Commissione non era d’altronde aliena, sulle orme di quanto sostenuto dalla stessa Corte di cassazione nel suo parere, dal prevedere altresì il principio generale della irrilevanza penale di fatti contraddistinti da contenuto offensivo esiguo, attribuendo alla magistratura la possibilità di dichiararli (a seconda della specifica scelta compiuta) improcedibili o non punibili. Perplessità di ordine sia teorico che pratico con riferimento ai principi di legalità e di obbligatorietà della azione penale, hanno indotto tuttavia a non avventurarsi lungo questa strada. La Commissione si è pertanto limitata a recepire, inserendolo nel codice, il corrispondente principio già previsto in materia di diritto penale minorile. Essa sottolinea comunque la necessità che il Parlamento valuti con attenzione opportunità e limiti della predisposizione di una disciplina di carattere generale. Il comma 3 ripropone il contenuto dell’art. 16 c.p. vigente. Esso risponde alla finalità di mantenere, per quanto possibile, omogeneità di contenuti e principi applicativi all’intero ordinamento penale. In questo senso esso presenta una valenza generale che giustifica il suo inserimento fra le disposizioni di apertura di una parte generale del codice penale. 3. Il comma 1 dell’art. 3, conformandosi ad una esigenza espressa nell’art. 2 del progetto Pagliaro, tende a contenere il fenomeno della decodificazione cercando di vincolare futuri interventi modificativi del codice penale ad una dichiarazione espressa concernente le singole norme abrogate o modificate. Il comma 2 ripropone sul terreno della legislazione ordinaria quanto la Commissione Bicamerale aveva enunciato su terreno costituzionale: che nuove norme penali sono ammesse soltanto se modificano il codice penale ovvero se sono contenute in leggi disciplinanti organicamente l’intera materia cui si riferiscono. La previsione di questo principio a livello costituzionale avrebbe costituito un vincolo forte per il legislatore futuro, ma avrebbe rischiato di innescare numerose questioni di legittimità costituzionale, ed aveva pertanto suscitato in dottrina perplessità. La sua formulazione a livello di legislazione ordinaria rischia di assumere il segno di un semplice auspicio rivolto al legislatore. La Commissione ha ritenuto comunque importante enunciarlo per ragioni di principio, auspicando che esso possa servire ad indirizzare verso una progressiva modificazione di una situazione che vede una parte consistente della legislazione penale affidata alla casualità e disorganicità delle leggi speciali, all’impiego di tecniche incriminatrici poco confacenti con l’esigenza di una corretta tipizzazione dei reati, ed estesa sovente ad abbracciare fatti di scarsa rilevanza.
— 583 — 4. Il principio secondo cui la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale costituisce regola comunemente riconosciuta da tutte le legislazioni penali europee. Esso, tradizionalmente, si riferisce ai rapporti di c.d. specialità in astratto fra due o più norme penali. L’esperienza giurisprudenziale e dottrinale ha rivelato come il principio di specialità in astratto sia tuttavia inadeguato a rappresentare tutte le ipotesi in cui deve riconoscersi concorso apparente di norme coesistenti: la elaborazione dei criteri della sussidiarietà, dell’assorbimento e della consunzione da un lato, della specialità in concreto e della specialità bilaterale nelle sue diverse specificazioni dall’altro, stanno a dimostrare l’esigenza di impedire che il soggetto agente, pur in assenza di situazioni di specialità in astratto, sia chiamato a rispondere della violazione di più norme penali quando una di esse sia comunque in grado di comprendere per intero il disvalore del fatto (c.d. ne bis in idem sostanziale). In questa prospettiva la Commissione, recependo quanto era già stato previsto dal progetto Pagliaro, ha ritenuto di prevedere nell’art. 4, a fianco del principio di specialità in astratto, che ‘‘quando un medesimo fatto appare riconducibile a più disposizioni di legge, si applica quella che ne esprime per intero il disvalore’’, chiamando in questo modo l’interprete a valutare se, in mancanza appunto della prima ipotesi di concorso apparente di norme, una delle disposizioni in gioco sia in grado di rappresentare nella sua interezza la, o le offese, realizzate dal fatto posto in essere. 5. Enunciato il principio di irretroattività della legge penale quale articolazione del principio di legalità (art. 1), il progetto di riforma nell’art. 5 regola il fenomeno della successione di leggi penali nel tempo nel caso in cui la legge successiva abroghi un reato o sia più favorevole al reo. Rimasta inalterata la disciplina dell’abolizione di una incriminazione preesistente, quella della successione di leggi modificative è stata ritoccata rispetto alla disciplina del c.p. Rocco, formalizzando quanto già ritengono pacificamente in via interpretativa dottrina e giurisprudenza, e cioè che la valutazione di maggiore favore della disposizione successiva deve essere operata ‘‘unitariamente e in concreto’’. Si è ritenuto di mantenere invece fermo il principio di intangibilità del giudicato soprattutto per ragioni pratiche (anche se il favor libertatis avrebbe potuto indurre a stemperare, sia pure in parte, la rigidezza del principio secondo le indicazioni del progetto Pagliaro), preferendo comunque parlare di ‘‘pronuncia irrevocabile’’ anziché di ‘‘sentenza irrevocabile’’ allo scopo di fare riferimento ad ogni ipotesi di decisione definitiva. Ribadita la norma di cui all’art. 2, comma 4, del c.p. Rocco, per esigenze di chiarezza si è specificato che le leggi eccezionali e temporanee possono operare retroattivamente quando le disposizioni più favorevoli contenute in leggi successive hanno il medesimo oggetto. Dato il meccanismo di funzionamento del decreto-legge non convertito o convertito con emendamenti e della legge dichiarata incostituzionale, che sfugge allo schema della successione delle leggi nel tempo, si è resa necessaria una considerazione espressa dei due fenomeni. Nel primo caso, ferma restando la necessità di adeguamento alla sentenza della Corte costituzionale n. 51/85, la Commissione: a) preso atto della diversità di posizioni emerse in dottrina in ordine al problema della applicabilità del decreto-legge non convertito contenente norme penali più favorevoli ai fatti commessi sotto la sua vigenza, applicabilità che secondo taluni presupporrebbe una revisione dell’art. 77, comma 3, Cost., e consiglierebbe a tutt’oggi di astenersi da qualsiasi disciplina espressa; b) considerato che la assenza di una disciplina espressa aprirebbe comunque la strada a spazi di pericolosa incertezza interpretativa, in quanto l’interprete si troverebbe stretto fra una applicazione rigida del principio secondo cui i decreti-legge non convertiti nei termini perdono efficacia ‘‘sin dall’inizio’’, e la spinta ad una estensione analogica dei principi di favor rei enunciati in materia di sopravvenienza di leggi penali più favorevoli; c) ha ritenuto, pur giudicando opportuna una revisione della formulazione del comma 3 dell’art. 77 Cost., di stabilire che le disposizioni enunciate in caso di successione di leggi penali nel tempo si applicano altresì nei casi di conversione di un decreto-legge con emendamenti, limitatamente alle norme emendate, o di mancata conversione
— 584 — di un decreto-legge, ferma tuttavia, per quest’ultimo caso, l’applicabilità della legge del tempo per i fatti commessi prima dell’emanazione del decreto-legge (soluzione già proposta dal progetto Pagliaro). Analogamente, la Commissione ha ritenuto di richiamare i commi 1, 2, e 3 dell’art. 5 con riferimento ai casi di dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge penale, pur rilevando anche qui la opportunità di procedere ad una revisione della disciplina costituzionale (art. 136 Cost.). La definizione di tempus commissi delicti agli effetti del fenomeno della successione di leggi penali nel tempo corrisponde a soluzioni ampiamente accettate, e risolve un problema oggi controverso a proposito dei reati permanenti. 6. L’art. 6 ripropone, con alcune modificazioni e semplificazioni, il contenuto degli artt. 3, 4 e 6 del c.p. Rocco, i quali nel loro insieme definiscono i reati che si considerano commessi nel territorio dello Stato, e risultano assoggettati alla legge italiana in forza del principio di territorialità. Il comma 1 del nuovo testo ripropone il contenuto dell’art. 3 c.p. Rocco con alcune modificazioni: a) l’inciso ‘‘cittadini o stranieri’’ è stato omesso in quanto pleonastico; b) è stato ugualmente omesso il comma 2, che si limita ad anticipare la disciplina di cui ai successivi artt. 7-10 c.p. Rocco; c) l’espressione ‘‘obbliga’’ di cui al comma 1, che evocava superate concezioni imperativistiche della legge penale, e rischiava di richiamare sopite dispute dogmatiche sul concetto di capacità penale, è stata sostituita con quella più neutra di ‘‘si applica’’. Per quanto concerne il concetto di territorio dello Stato, si fa (implicito) ovvio riferimento alle norme (concernenti il suolo, il sottosuolo, lo spazio aereo sovrastante, le acque interne, il lido del mare, il mare territoriale) che si ricavano da altri settori dell’ordinamento e dal diritto internazionale. Il comma 2, corrispondente alla disciplina della maggioranza dei codici europei, ripropone il testo dell’art. 4, comma 2, c.p. Rocco. Il comma 3 ripropone con alcune variazioni il principio di ubiquità enunciato dall’art. 6, comma 2, c.p. Rocco, e sancito, sia pure in diversa misura, dalla quasi totalità dei codici penali europei. Le modifiche riguardano: a) la introduzione della clausola ‘‘salvo quanto stabilito in trattati internazionali in vigore per l’Italia’’; b) la precisazione che il reato tentato si considera commesso nel territorio dello Stato quando l’evento avrebbe dovuto verificarsi in tale territorio nella rappresentazione dell’agente; c) la specificazione che l’evento cui si fa riferimento è quello ‘‘naturalistico’’, allo scopo di evitare interpretazioni dirette a comprendere nel concetto di evento anche le circostanze aggravanti, o a dilatare tale nozione fino ad intenderla come lesione giuridica. Il comma 4 tende a circoscrivere, seguendo il modello del codice francese, la dilatazione della responsabilità penale che il criterio della ubiquità produce in caso di concorso di persone nel reato (punibilità secondo la legge italiana non solo di colui che realizza nel territorio italiano una condotta atipica di partecipazione ad un fatto principale commesso all’estero, ma anche del concorrente che, agendo all’estero, viene considerato come se avesse operato in Italia pure se il fatto da lui commesso non è punibile secondo la legge dello stato in cui ha agito, ovvero non sarebbe perseguibile se fosse stato interamente commesso all’estero, perché inferiore ai limiti edittali di cui all’art. 10 c.p. Rocco). La Commissione ha ritenuto, infine, di non riproporre la anacronistica definizione di cittadino italiano di cui all’art. 4, comma 1, c.p. Rocco, potendosi, agli effetti del concetto di cittadinanza italiana, fare più utilmente (implicito) rinvio alle norme della l. n. 91/1992 che definiscono l’acquisto della medesima. Unico problema potrebbe risultare dalla mancata indicazione degli apolidi, considerati nel codice Rocco cittadini italiani ‘‘se residenti nel territorio dello Stato’’. In realtà, agli effetti della responsabilità penale generale la distinzione fra cittadini e stranieri assume rilievo esclusivamente con riferimento ai reati commessi all’estero, per cui a tale effetto pare sufficiente menzionare la posizione dell’apolide nei confronti di tale realizzazione all’estero (art. 8, comma 4, del nuovo testo normativo). In relazione alla
— 585 — estradizione, nei cui confronti viene in considerazione il problema della non estradabilità del cittadino (art. 26, comma 1, Cost.), come si chiarirà in seguito l’intera materia dovrebbe costituire oggetto di apposita legge organica all’interno della quale potrà essere appositamente considerata la posizione dell’apolide, mentre nelle more di tale legge organica il problema potrà trovare soluzione transitoria in una disposizione di attuazione e coordinamento. Problemi minori riguardanti norme penali che prevedono oggi come soggetto attivo esclusivamente il cittadino (artt. 242 e 246 c.p.) o la misura della espulsione dello straniero (art. 312 c.p.), potranno trovare a loro volta specifica soluzione in disposizioni di attuazione e coordinamento. 7. La Commissione ha discusso lungamente il problema concernente la punibilità in Italia di delitti commessi all’estero, che il c.p. Rocco aveva dilatato, nella prospettiva nazionalistica cui si ispirava la legislazione del 1930, utilizzando in diverso modo i criteri della universalità, della cittadinanza e della difesa. Fra le contrapposte tendenze ad una riduzione consistente dell’area di punibilità, ed il mantenimento di una rilevante possibilità di intervento della giustizia penale italiana nei confronti dei reati commessi all’estero, ha prevalso la seconda linea. Si è giudicato infatti che fino a quando non si realizzerà la creazione di un ampio spazio di tutela penale internazionale, o quantomeno comunitaria europea, insopprimibili esigenze di protezione penale di interessi primari consigliano prudenza nel privarsi della possibilità di utilizzare giustizie penali nazionali per prevenire e reprimere anche reati commessi oltre confine. A favore di tale scelta ha d’altronde pesato la considerazione che numerosi codici penali europei non si sono preclusi la possibilità di intervenire penalmente nei confronti di reati commessi all’estero, ma anzi la hanno potenziata nella prospettiva della sopra menzionata esigenza di protezione di beni giuridici di rilievo. La Commissione ha ulteriormente osservato che la perdurante assenza di una protezione giuridica autonoma degli interessi della Comunità Europea crea un vuoto di tutela che deve essere per il momento colmato attraverso la modificazione delle legislazioni nazionali, sia con norme di carattere generale nella parte dedicata alla disciplina della punibilità di reati commessi all’estero (in questo senso si è pronunciato il progetto Riz), sia nella parte speciale con la predisposizione di specifici strumenti di tutela. Determinatasi a confermare, sia pure nel quadro di una ratio completamente diversa, e con alcune significative modificazioni rispetto alla disciplina del c.p. Rocco, la tendenza a non precludere la applicabilità della giustizia italiana nei confronti di reati gravi commessi all’estero, la Commissione si è orientata ad eliminare la normativa del codice penale Rocco concernente il delitto politico e la estradizione, in entrambi i casi superata dalla evoluzione del diritto internazionale. Sulle orme di quanto già statuito da numerosi codici penali europei, essa ha infatti ritenuto che si tratti di materie che devono essere disciplinate, piuttosto che dal codice penale, da specifiche leggi organiche in grado di assicurare, con una disciplina articolata, puntuale rispondenza alle convenzioni internazionali sui diritti umani ed agli artt. 10 e 26 Cost. In materia di estradizione, la preoccupazione di non creare vuoti di disciplina che avrebbero potuto essere interpretati in senso ostativo alla applicabilità dell’istituto, hanno tuttavia indotto la Commissione ad inserire comunque nelle norme di attuazione e di coordinamento una disposizione di carattere transitorio destinata a regolare la materia fino al momento della entrata in vigore della sopra menzionata legge organica (art. 4, comma 2, disp. att. e coord.). Nella prospettiva sopra menzionata, l’art. 7: — nelle lett. a) e b) sancisce il principio di universalità della legge italiana con riferimento a gravissimi delitti ‘‘contro le genti’’ (delitti in materia di prevenzione e repressione del genocidio; tratta, commercio, alienazione e acquisto di schiavi); — nelle lett. c), d), e), f), g) e h) utilizza il principio di difesa per tutelare rilevanti interessi italiani in parte coincidenti con quelli considerati dall’art. 7, nn. 1-4, del c.p. Rocco. Rispetto alla codificazione Rocco si possono tuttavia rilevare alcuni cambiamenti: 1) che nelle
— 586 — lett. c), d) e f) si dà rilievo agli interessi della Comunità Europea, ovviamente rinviando ad una modifica delle corrispondenti fattispecie incriminatrici; 2) che stante la profonda riforma cui dovrebbe essere sottoposto il titolo I del Libro II codice penale (v. documento di base 15 luglio 1999 di questa Commissione), il numero dei reati richiamati dalla lett. c) dovrebbe risultare, per quanto concerne i delitti contro lo Stato, drasticamente ridotto; 3) che nel testo della lett. f) l’espressione ‘‘Stato’’, figurante nel n. 4 dell’art. 7 c.p. Rocco, è stata sostituita con quella ‘‘pubblica amministrazione’’, più confacente ad una concezione moderna dei rapporti fra cittadino ed esercizio dell’attività pubblica; che ai pubblici ufficiali sono stati parificati gli incaricati di un pubblico servizio; che pubblici ufficiali e incaricati di un pubblico servizio sono stati considerati non soltanto sotto il profilo della commissione di reati, ma anche sotto quello di soggetti passivi; 4) che nell’intento di adeguare la disposizione in esame all’avvenuta integrazione del nostro sistema in una economia di mercato internazionale, sono state inserite, alla lett. g), le ipotesi di abuso di informazioni privilegiate e aggiotaggio attinenti a strumenti finanziari ammessi alla negoziazione nei mercati regolamentati italiani; 5) che nell’intento di tutelare rilevanti interessi di cittadini la lett. h) propone (secondo un suggerimento che era già presente nel progetto Pagliaro) la punibilità in Italia di delitti quali l’omicidio doloso, le lesioni dolose gravissime, il sequestro di persona a scopo di estorsione e violenza sessuale mediante congiunzione carnale in danno di un cittadino italiano; — nella lett. i) prevede una formula di chiusura, idonea a dare rilievo a tutte le ulteriori ipotesi di reato per le quali speciali disposizioni di legge, trattati internazionali in vigore per lo Stato o regolamenti comunitari stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana. Stante la particolare gravità dei reati considerati, si è ritenuto di non subordinare la loro punibilità in Italia né alla presenza del colpevole nel territorio dello Stato, né alla richiesta del ministro della giustizia. 8. Seguendo una scelta, come si è già rilevato, comune alla quasi totalità dei sistemi penali europei, la Commissione nell’art. 8 ha previsto la punibilità in Italia di altri reati posti in essere dal cittadino all’estero, sul presupposto che nei confronti di tale soggetto che si sia reso colpevole di reati all’estero, e si trovi nel territorio dello Stato, la collettività non può assumere un atteggiamento di indifferenza, ma deve optare per la applicazione di sanzioni in grado di neutralizzare la pericolosità del reo. Quando il reato assume un livello di particolare gravità, è sembrato giusto subordinare la procedibilità alla sola presenza nel territorio dello Stato (comma 1); nei casi di minore gravità, di subordinarla altresì alla richiesta del ministro, ovvero alla istanza o querela della persona offesa (comma 2). Qualora il delitto sia stato commesso a danno di uno Stato estero o di uno straniero, allo scopo di evitare inutili doppioni di intervento giudiziario, si è altresì subordinata la procedibilità alla condizione che non abbia avuto luogo la estradizione del colpevole (comma 3). Recependo il modello seguito da alcuni recenti codici penali europei, si è infine previsto che la punibilità in Italia scatti anche nei confronti di colui che abbia acquisito la cittadinanza italiana successivamente al fatto di reato. Ipotesi cui si è aggiunta quella del rifugiato o dell’apolide che abbia la sua residenza o dimora abituale nel territorio dello Stato, salvo che abbia avuto luogo la estradizione (comma 4). Questa disciplina, pur riproducendo quella dell’art. 9 c.p. Rocco, introduce comunque alcune variazioni rispetto alla normativa vigente: a) la clausola di apertura di cui al comma 2 ‘‘salvo quanto stabilito in trattati internazionali’’, che mira ad evitare possibili contrasti fra la disciplina nazionale e quella internazionale; b) la previsione espressa, sempre nel comma 2, del requisito della presenza nel territorio dello Stato; c) la locuzione ‘‘salvo che abbia avuto luogo l’estradizione’’ contenuta nei commi 3 e 4, che per un verso sopprime il riferimento alla desueta offerta di estradizione e, per altro verso, mira ad evidenziare con chiarezza che l’estradizione rappresenta solo un ostacolo alla punizione e non alla procedibilità dell’azione penale; d) la sopra menzionata disciplina di cui al comma 4; d) la circostanza che l’ipotizzato abbassamento dei valori edittali della reclusione avrà l’effetto di circoscrivere la punibilità in Italia svincolata dalla richiesta del ministro della giustizia.
— 587 — 9. Anche la punibilità dello straniero che commette reati all’estero trova la sua ratio nella opportunità che lo Stato non assuma un atteggiamento di indifferenza rispetto alla commissione di delitti gravissimi commessi da stranieri che si trovino nel territorio dello Stato, e dei quali non sia stata disposta la estradizione (comma 1 dell’art. 9), o da reati meno gravi commessi a danno di interessi italiani o di interessi stranieri, alle condizioni, rispettivamente, che il reo si trovi nel territorio dello Stato e vi sia stata richiesta del ministro, ovvero istanza o querela della persona offesa (comma 3), o che si trovi nel territorio dello Stato, vi sia stata richiesta del ministro e non sia stata disposta la estradizione (comma 4). 10. Con l’art. 10 comma 1 si è inteso chiarire che il requisito della presenza del reo nel territorio dello Stato costituisce una condizione di procedibilità e non una condizione di punibilità. L’ulteriore puntualizzazione che il requisito in parola deve sussistere al momento dell’esercizio dell’azione penale (salvo il disposto dell’art. 346 c.p.p.) tende a contrastare l’orientamento giurisprudenziale che ritiene sufficiente la sua ricorrenza prima della sentenza di primo grado, con un’evidente violazione delle garanzie di difesa. La formulazione proposta rende irrilevante che la presenza del reo sia venuta meno dopo l’inizio dell’azione penale. In tema di richiesta del ministro della giustizia per connessione di materia è stato collocato nell’art. 10 quanto stabilito dall’art. 128, comma 2, c.p. Rocco (comma 1, lett. b)). È noto che sussistono ancora forti contrasti in ordine alla vigenza del principio della doppia incriminazione nei confronti delle ipotesi considerate dal c.p. Rocco (la sua operatività è pacifica solo nei confronti dell’art. 9, comma 3, c.p.). Tale principio è invece enunciato nella quasi totalità dei sistemi penali europei, e, come già aveva fatto il progetto Pagliaro, si è pertanto ritenuto di inserirlo nel codice penale (comma 1, lett. c)). È quasi superfluo affermare che la sua enunciazione comporta comunque, semplicemente, che il fatto sia genericamente qualificato come reato nel Paese in cui è commesso, senza una necessaria identità né di titolo giuridico, né di conseguenze penali. In materia di computo della pena, al fine di prevenire ogni incertezza, l’art. 10, lett. d), enuncia una regola precisa. 11. Quasi tutti i codici penali europei prevedono che le sentenze definitive rese da autorità giurisdizionali straniere e, in caso di condanna, l’esecuzione o la prescrizione della pena, operano come limite all’esercizio dell’azione penale per reati commessi all’estero. Lo stesso principio è stato previsto dai Progetti Pagliaro e Riz. La Commissione ha recepito questo radicato orientamento nell’art. 11, comma 1, del progetto, prevedendo altresì, nel comma 3, che nel giudizio rinnovato nello Stato, la pena detentiva espiata e la custodia cautelare sofferta all’estero sono sempre computate. Con riferimento ai reati parzialmente commessi nel territorio dello Stato (art. 6, commi 3 e 4) si è optato per rinnovare il giudizio a richiesta del ministro della giustizia. 2.
Il reato.
2.1. Principi generali. — 1. La Commissione, seguendo un’opinione largamente condivisa nel dibattito seguito alla pubblicazione del documento di base 15 luglio 1999 (v. ad esempio il parere formulato dalla Corte di cassazione), ha optato per il mantenimento della dicotomia delitti-contravvenzioni, ritenendo prevalenti le considerazioni a suo tempo prospettate a sostegno di questa scelta: a) pericolo di un appesantimento della categoria dei delitti a fronte della difficoltà di realizzare una depenalizzazione che superi determinate soglie di incisività; b) persistente validità del modello contravvenzionale in ragione della sua specifica idoneità a recepire le esigenze di una configurazione dinamica delle fattispecie di reato (fattispecie di mera condotta e di pericolo astratto, con una tipicità soggettiva poco marcata e tale da giustificare la previsione indifferenziata, ecc.); c) esistenza di contravvenzioni non trasformabili agevolmente in delitti (es., contravvenzioni concernenti la sicurezza del lavoro), e che è opportuno sottrarre comunque alla depenalizzazione allo scopo di continuare a sottoporle al controllo giurisdizionale; d) validità del modello di reato contravvenzionale
— 588 — individuato dal progetto Pagliaro nelle tre categorie dei reati consistenti nella violazione di regole cautelari, dei reati integranti un irregolare esercizio di attività sottoposte a poteri amministrativi di concessione, autorizzazione, controllo o vigilanza, e dei fatti di ridotta offensività. 2. Il tema del rapporto di causalità, che per ragioni di tempo non era stato affrontato nella prima fase dei lavori, ha costituito oggetto di una discussione particolarmente ampia da parte della Commissione. La Commissione ha innanzitutto preso atto che la causalità, ed in particolare il modello nomologico-deduttivo (integrato dal rinvio alle leggi di copertura), sta attraversando una fase critica. Vi sono infatti materie in cui l’erosione da parte della giurisprudenza di tale paradigma causale appare evidente, e con riferimento alle quali tende ad affermarsi una ricostruzione della causalità ancorata a fattori di tipo prognostico-probabilistico, se non addirittura consistente nella rilevazione del rischio, o dell’aumento del rischio connesso all’esercizio di una determinata attività. Ciò si verifica, ad esempio, in settori quali: a) l’attività medica, dove, a fronte della pluralità dei fattori causali che sembrerebbero sovente entrare in gioco, lo strumento statistico e la epidemiologia sono spesso diventati indicatori decisivi agli effetti della rilevazione del rapporto causale; b) le alterazioni ambientali, in cui gli eventi (in genere macro-eventi) dipendono da una serie di condotte e situazioni, spesso differite nel tempo e concorrenti con fenomeni naturali, con riferimento alle quali risulta difficile risolvere il problema causale limitandosi a richiedere se non avere tenuto una di quelle condotte avrebbe evitato l’evento nelle dimensioni verificatesi; c) la fenomenologia del danno da prodotto, nei cui confronti è ricorrente l’impossibilità di identificare con certezza, o anche soltanto con elevata probabilità, quale sia stato il fattore produttivo di nocumento. La giurisprudenza che si sta orientando verso ricostruzioni della causalità centrate su mere rilevazioni di tipo probabilistico, o su mere correlazioni condotta-rischio (o aumento del rischio), coglie un aspetto sicuramente importante della società moderna, sempre più caratterizzata da attività complesse, professionalizzate, che presuppongono un alto livello di organizzazione, all’interno delle quali non è molte volte agevole provare rigorosamente l’esistenza di un rapporto di condizionalità necessaria. In questo senso essa risponde alla esigenza di rafforzare la tutela penale in materie che coinvolgono beni giuridici di rilevante spessore (vita, salute, ambiente, ecc.), introducendo una flessibilità applicativa delle norme sulla causalità che consentono di raggiungere livelli di intervento penale altrimenti impensabili in ragione della difficoltà della prova. Il costo di scelte di questo tipo è tuttavia elevato sul terreno della salvaguardia del principio di legalità e di tipicità delle fonti di responsabilità penale, rischiando, nei casi più macroscopici, di attentare addirittura al principio di personalità della responsabilità penale. Come è stato giustamente rilevato, mentre la causalità ricostruita con il ricorso a leggi di copertura, e ancorata al metodo dell’accertamento nomologico-deduttivo, svolge una importante funzione delimitativa della punibilità, consentendo di selezionare nell’ambito delle fattispecie causalmente orientate le condotte tipiche, il superamento di questo modello allarga la sfera di applicabilità del precetto, attraendo nella sua orbita anche eventi che non possono essere ritenuti, dal punto di vista logico-scientifico, conseguenza della condotta. Il principio di tassatività-determinatezza e il principio di personalità della responsabilità, che conformano il sistema penale anche a livello di enunciato costituzionale, impongono pertanto di salvaguardare la funzione selettiva del nesso di causalità, e di formulare una disciplina per quanto possibile tassativa. Determinatasi a riproporre una disciplina del rapporto causale improntata alla necessità di provare il nesso di condizionalità necessaria tra condotta ed evento, la Commissione ha esaminato diversi possibili modelli. Dopo ampia discussione, ha ritenuto di non discostarsi troppo dal testo del codice penale Rocco, al fine di sottolineare la continuità con una tradizione normativa consolidata ed idonea a fondare applicazioni corrette. In questa prospettiva, la Commissione ha ritenuto superfluo precisare normativamente che ‘‘nella ricostruzione del nesso di causalità il giudice deve tenere conto delle conoscenze
— 589 — scientifiche disponibili al momento del giudizio’’, come era stato suggerito in un primo momento da qualche componente della Commissione; e non ha recepito la discussa categoria dell’imputazione oggettiva dell’evento (‘‘nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato quando l’evento, conseguenza della sua azione od omissione, non costituisca la realizzazione del pericolo illecitamente determinato dalla condotta’’). La soluzione proposta risulta ispirata ai seguenti criteri: — prevedere (art. 13, comma 1) come principio cardine che ‘‘nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se la sua azione od omissione non è condizione necessaria dell’evento da cui dipende l’esistenza del reato’’. Si tratta sostanzialmente della enunciazione del principio della conditio sine qua non, già enunciato nel comma 1 dell’art. 40 c.p. Rocco, qualificato dal riferimento al concetto di ‘‘condizione necessaria’’ (sostanzialmente conforme il progetto Riz, che con espressione un po’ ridondante parla di condizione ‘‘indispensabile e necessaria’’); — separare, in ragione della evidente diversità di struttura, e della conseguente opportunità di formulare una disciplina specifica che tenga conto delle sue peculiarità, la c.d. causalità nei reati omissivi rispetto alla causalità materiale dei reati di azione, pur sottolineando nel comma 1 dell’art. 13 che in entrambi i casi il profilo di condizionalità necessaria costituisce requisito indispensabile; — riproporre (art. 13, comma 2) il principio secondo cui ‘‘il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità tra l’azione o l’omissione e l’evento’’, già previsto dall’art. 41, comma 1, c.p. Rocco; — eliminare il contenuto dell’art. 41, comma 2, c.p. Rocco, in considerazione del coro unanime di critiche, del tutto condivisibili, che ha investito tale disposizione; — prevedere (art. 13, comma 3) che ‘‘la disposizione di cui al comma precedente si applica anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui’’ (corrispondente al contenuto dell’art. 41, comma 1, c.p. Rocco); — stabilire (art. 13, comma 4) che ‘‘l’imputazione dell’evento è comunque esclusa quando esso costituisce conseguenza eccezionale della condotta’’, attribuendo in questo modo rilevanza normativa alla c.d. ‘‘causalità umana’’ (secondo la quale non può essere addebitato ad un soggetto ciò che secondo le regole normali sfugge al suo dominio), che, come aveva rilevato il progetto Pagliaro, appartiene ormai alla tradizione della dottrina italiana ed è recepita da una parte consistente della giurisprudenza. Enunciata la disciplina del rapporto causale nei termini sopra menzionati, la Commissione sottolinea che essa, ponendosi in continuità con la tradizione, intende contrastare le tendenze a forzare il criterio della condizione necessaria e ad eludere le esigenze di rigoroso accertamento del nesso causale relativamente all’evento in concreto verificatosi. La Commissione è ben consapevole che tali tendenze si sono manifestate con riguardo a materie in cui sono in gioco esigenze di tutela di beni fondamentali (per es. la salute); ma ritiene che, di fronte a fenomeni che non si prestino ad essere ricondotti a un modello verificabile di causalità, strumenti di tutela adeguati vadano ricercati sul terreno della parte speciale: si pensi, in proposito, alla possibile introduzione di specifici e sufficientemente tipizzati ‘‘delitti di rischio’’. Ultima considerazione. Di fronte alla difficoltà di fornire risposte adeguate al problema della delimitazione del rapporto di causalità, taluno ha avanzato l’ipotesi che, seguendo le orme del codice penale tedesco, si rinunciasse a disciplinare l’istituto. La proposta è stata unanimemente superata. Un codice penale muto nei confronti di un elemento fondamentale della teoria del reato come la causalità, mal si concilierebbe con la tradizione giuridica italiana, e proprio il silenzio in tema di causalità potrebbe d’altronde aprire davvero una stura senza limiti a prassi applicative basate sugli incerti confini della prognosi probabilistica e sul concetto del maggior rischio, come tali gravemente lesive del principio di legalità. 3. Sul problema della causalità nei reati omissivi, la Commissione ha ritenuto di dovere proporre una formulazione che, pur muovendosi nel solco del vigente art. 40 cpv., com-
— 590 — porta una meditata presa di distanza dall’interpretazione che ne è data dalla giurisprudenza prevalente. Secondo l’art. 14 ‘‘non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, se il compimento dell’attività omessa avrebbe impedito con certezza l’evento’’ (s’intende, l’evento verificatosi hic et nunc, da individuare secondo i normali criteri in materia di causalità). Il mantenimento della formula del codice Rocco, là dove fa riferimento all’obbligo giuridico di impedire l’evento, intende facilitare la comprensione del principio affermato, mostrandone la continuità con l’ordinamento vigente, e ribadendo che la questione della causalità dell’omissione acquista rilievo penalistico soltanto in presenza dell’inadempimento di obblighi giuridici di attivarsi (i quali fondano non già la causalità, bensì la tipicità dell’omissione ‘‘non impeditiva’’). L’aggiunta apportata al vigente dettato normativo ha funzione restrittiva rispetto all’indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’omissione antidoverosa sarebbe causale quando l’impedimento dell’evento si sarebbe ottenuto con un grado di probabilità (apprezzabile), anche lontano dalla certezza. La Commissione è ben consapevole che tale ultimo indirizzo risponde ad esigenze condivisibili di reazione contro inadempimenti colpevoli anche gravi, ma ritiene che una soluzione che rinunciasse al requisito dell’impedimento certo si porrebbe in contrasto non semplicemente con il criterio della condizione necessaria, ma, soprattutto, con il principio di personalità della responsabilità (per l’atteggiamento critico nei confronti della sopra menzionata giurisprudenza è significativo il parere formulato dalla Commissione della Procura Generale). Senza la certezza dell’effetto impeditivo (s’intende, quella probabilità confinante con la certezza che può ragionevolmente raggiungersi) è infatti logicamente contraddittorio attribuire all’omissione, ancorché antidoverosa, il valore di condizione sine qua non dell’evento, non potendosi escludere che l’evento si sarebbe verificato anche se l’azione doverosa omessa fosse stata compiuta. In tal caso l’evento sarebbe, per l’omittente, un fatto altrui, che non può essere ascritto a suo carico pena la violazione dell’art. 27 Cost. Ovviamente (anche se non sempre è chiaro alla giurisprudenza) all’accertamento della causalità dell’omissione è preliminare l’accertamento del nesso di causalità materiale, ovvero degli antecedenti positivi dell’evento, in relazione ai quali si pone il problema dell’eventuale obbligo d’impedimento (es., soltanto dopo che sia stata accertata l’eziologia ‘‘professionale’’ di una data patologia sorge la questione dell’eventuale responsabilità omissiva dell’operatore). La soluzione adottata è dunque volta a ricondurre l’ambito della responsabilità ‘‘commissiva per omissione’’ entro limiti imposti da principi garantisti inderogabili, a prezzo di aprire lacune di tutela di fronte ad inadempimenti colpevoli ma dei quali sia dubbia la rilevanza causale (‘‘non impeditiva’’). Emerge qui un limite di funzionalità del modello del reato ‘‘commissivo per omissione’’, che dovrebbe indurre il legislatore alla ricerca (già lo si è rilevato nel paragrafo che precede trattando in generale del rapporto causale) di alternative più idonee, come la previsione ‘‘mirata’’ di figure di reato omissivo proprio, di mera condotta: tecnica che consentirebbe, a differenza del reato ‘‘con evento’’, di anticipare l’intervento penale in funzione del pericolo derivante dall’antidoverosa omissione. 4. Del tutto nuova, rispetto al codice vigente, è la proposta di introdurre una disposizione in materia di pericolo concreto (art. 15). Il testo proposto intende ovviare al deficit di determinatezza ed al rischio di applicazioni dilatate o incontrollabili di fattispecie le quali, in modo esplicito od implicito, assumono il pericolo (più o meno) concreto quale elemento di fattispecie, senza però dare indicazioni testuali sui criteri di determinazione concettuale (prima ancora che di accertamento) del pericolo. Il problema, allo stato, si pone in particolare nell’ambito dei delitti contro l’incolumità pubblica, ma ha portata più generale. La Commissione ha ritenuto che, in assenza di criteri affidabili di elaborazione dottrinale o giurisprudenziale, sia necessario un chiarimento legislativo, che aiuti a individuare, per così dire, una soglia tipica di concretezza del pericolo, cui riferirsi ogni volta che il testo normativo ’di parte speciale’ non additi una soglia diversa.
— 591 — Secondo il criterio proposto, ‘‘il pericolo concreto di un determinato evento dannoso deve ritenersi sussistere se la condotta ha determinato o sensibilmente aumentato il rischio del verificarsi dell’evento, e questo non si è verificato per la presenza di circostanze eccezionali o casuali, o per la mancanza di circostanze normalmente esistenti, ovvero si è verificato per altra causa’’. Questa formula intende additare un elevato livello di concretezza del pericolo, limitando l’estensione delle fattispecie ‘‘con evento di pericolo concreto’’ ai soli casi in cui l’evento di danno non si è verificato a causa di circostanze eccezionali o casuali (cioè sulle quali non si può fare affidamento). L’adozione di un criterio restrittivo poggia su esigenze garantiste, e lascia impregiudicata la possibilità del legislatore ‘‘di parte speciale’’ di adottare, dovunque lo ritenga necessario, un criterio meno selettivo, purché definito. L’espresso riferimento all’ipotesi in cui l’evento di danno si è verificato per altra causa rende infine esplicito (ma ciò è implicito nei principi sulla causalità) che l’idoneità di una condotta ad aumentare il rischio (del verificarsi di un certo tipo di evento) non è e non può logicamente essere, di per sé, criterio di attribuzione causale. 2.2. Responsabilità per omissione. 2.2.1. Le posizioni di garanzia. — 1. Un intero capo del titolo sul reato è dedicato alla responsabilità per omissione. È questo uno dei punti di maggiore novità, e anche di maggiore complessità. In materia di reati omissivi, la proposta della Commissione ha cercato di sviluppare l’indirizzo di fondo enunciato nel documento di base 15 luglio 1999: quello di una ‘‘forte selezione delle figure di reato omissivo, per la più penetrante incidenza dei comandi di agire nella sfera di libertà dei destinatari e per il peculiare rischio di forzatura dei criteri della responsabilità personale’’ (per un convinto apprezzamento di questa scelta v. parere della Commissione della Corte di cassazione al documento di base 15 luglio 1999). La peculiare intrusività dei comandi di agire (che non solo delimitano dall’esterno, come i divieti, ma vincolano internamente le scelte d’azione) pone l’intero capitolo dei reati omissivi, propri ed impropri, sotto il segno di una peculiare problematicità rispetto ai principi d’un ordinamento liberale. D’altra parte, per quanto si voglia limitare il campo della responsabilità per omissione, un’estensione non piccola è sollecitata da esigenze e vincoli di solidarietà, o di comune appartenenza ad organizzazioni o comunità, o da esigenze di controllo di fonti di pericolo ormai ubiquitarie. Il problema cruciale, per una disciplina ‘‘di parte generale’’ dei reati omissivi, è quello della responsabilità ‘‘commissiva per omissione’’. Problema ‘‘di parte generale’’ perché, secondo il modello di disciplina generalmente adottato (anche dal codice Rocco), tale figura viene costruita sulla base di una clausola generale che dà rilievo penalistico ad obblighi giuridici il cui fondamento sta al di fuori del diritto penale, e che, combinandosi con le fattispecie di parte speciale, ne estende la portata all’ipotesi dell’omesso impedimento dell’evento. L’impegno dedicato dalla Commissione alla ricerca di soluzioni nuove ha preso le mosse dalla condivisa valutazione di inidoneità del sistema vigente a soddisfare ineludibili esigenze di determinatezza delle fattispecie legali e di controllabilità delle applicazioni. Il rispetto del principio di legalità, e comunque esigenze di certezza del diritto esigono che le ‘‘posizioni di garanzia’’ penalmente rilevanti abbiano fondamento legale e siano identificabili con sufficiente precisione. Di fatto, nel diritto vigente tali condizioni appaiono precarie. Il modello adottato dal codice Rocco comporta, formalmente, un rinvio del diritto penale ad altri settori dell’ordinamento, mediante una disposizione (l’art. 40 cpv.) costruita come clausola generale. Ma il rinvio è ‘‘in bianco’’: la formula legislativa non riesce a dare all’interprete indicazioni sufficienti a risolvere i dubbi; il prezzo pagato, e denunciato dalla dottrina, è un deficit di determinatezza. Di più: l’attestarsi su di una clausola generale di rinvio ‘‘in bianco’’ — dal diritto penale ad altri settori dell’ordinamento, ai quali in definitiva è rimessa la scelta sostanziale — equivale a rinuncia, o comunque si presta ad essere interpretato come rinuncia a selezionare le
— 592 — posizioni di garanzia rilevanti secondo valutazioni specificamente penalistiche. Rispetto all’idea della tutela penale come extrema ratio, la tecnica normativa adottata dal codice Rocco è strumento di espansione dell’intervento penale secondo ragioni radicate al di fuori del diritto penale. È parso perciò doveroso tentare una strada alternativa: quella di una tendenziale tipizzazione delle posizioni di garanzia rilevanti, operata dal diritto penale secondo suoi specifici criteri, e non in modo pedissequo a scelte pensate per altri settori dell’ordinamento (scelta anch’essa apprezzata dalla Commissione della Corte di cassazione nel parere sopra menzionato). Su queste premesse, è stato elaborato un catalogo di posizioni tipiche di garanzia, che sostituisca la tecnica della clausola generale di rinvio. L’utilizzazione del concetto di ‘‘posizioni di garanzia’’, estraneo al linguaggio del codice Rocco, è stata ritenuta possibile ed utile, alla luce della ricca elaborazione dottrinale e ricezione giurisprudenziale; del resto, il contesto in cui è utilizzato è di per sé esplicativo. La via della tipizzazione, imboccata dalla Commissione, è suscettibile di sviluppi sia entro la ‘‘parte generale’’ — con l’individuazione di posizioni di garanzia, matrici di doveri di attivarsi — sia nella parte speciale, con la diretta formazione di nuove fattispecie di reati omissivi puri. Esigenze di continuità con la tradizione, necessarie a rendere comprensibile la svolta, hanno condotto a proporre nella parte generale un catalogo che aspira ad essere esaustivo, ma consapevole del possibile insorgere di esigenze di tutela non ancora considerate, e perciò aperto ad eventuali ulteriori apporti, da stabilirsi con disposizione espressa. Ciò non esclude che, in determinate materie, possano risultare più idonee, per migliore capacità di tipizzazione, soluzioni ‘‘di parte speciale’’, cioè la configurazione di nuove fattispecie omissive pure (per alcuni esempi, infra, n. 4 di questo n. 2.2.1). 2. Motivato da ragioni specifiche del diritto penale, che inducono a ricercare soluzioni penalistiche formalmente autonome, il tentativo di tipizzazione non può peraltro prescindere dallo sfondo normativo ‘‘extrapenale’’, ogni volta che questo concorra a plasmare i rapporti giuridici e/o fattuali che danno luogo a problemi ‘‘di garanzia’’. La rivendicazione di non subalternità della tutela penale, rispetto a quella apprestata in altro modo, si accompagna ad un’esigenza di coerenza interna dell’ordinamento: coerenza fra l’ultima ratio di tutela, quale l’intervento penale dovrebbe essere, e le strutture anche normative cui il ‘‘penale’’ accede. L’autonomia del penale, nel definire le ‘‘posizioni di garanzia’’, è una autonomia relativa: attiene alla selezione ultima degli oggetti e delle tecniche di tutela penale, ma deve fare i conti con tutto ciò che fa parte dello sfondo, anche normativo, nel quale le esigenze di tutela prendono corpo. Per il diritto penale, il nesso con le discipline extrapenali costituisce un ulteriore criterio di delimitazione: i doveri di agire, nei quali si articolano le singole posizioni di garanzia, sono quelli determinati dalla disciplina speciale delle situazioni considerate. Il codice penale stabilisce la rilevanza penale della posizione di garanzia, ma ne recepisce i contenuti ed i limiti preformati dai diversi settori dell’ordinamento. È questo il senso della disposizione dell’art. 16, comma 2, introdotta come espresso chiarimento di un principio generale di coerenza dell’ordinamento giuridico (art. 16, comma 1). Va da sé che la disciplina delle posizioni di garanzia attiene all’aspetto oggettivo (alla tipicità) delle fattispecie, e non è l’unico, ma uno fra i presupposti della responsabilità penale ‘‘commissiva per omissione’’. Già sul piano oggettivo, viene in rilievo la questione della causalità dell’omissione. Infine, per fondare la responsabilità del ‘‘garante’’ deve concorrere in ogni caso la sua colpevolezza, secondo i principi generali di cui al capo III del titolo II. Ad una lettura superficiale, il catalogo delle posizioni di garanzia, con la sua inconsueta ampiezza, potrebbe dare l’impressione di avere esteso l’area della responsabilità penale. È vero il contrario: la sostituzione della clausola generale con ipotesi più definite, a un minore livello di genericità, è strumento di restrizione dell’area della responsabilità penale per omissione. Un’area che è poi ulteriormente ristretta dagli altri testé richiamati criteri di delimitazione, dal cui necessario convergere dipende l’affermazione di responsabilità nel caso concreto.
— 593 — 3. Per quanto concerne le ‘‘posizioni di protezione’’, viene in considerazione, innanzi tutto, l’esigenza della protezione di soggetti incapaci di provvedere a sé stessi, per età o per infermità. Le figure di garanti, che possono e debbono ragionevolmente essere recepite dal sistema penale, nascono dentro il diritto di famiglia e delle persone, e comunque dentro la realtà di rapporti personali elementari, dai quali scaturiscano aspettative di protezione meritevoli di riconoscimento e sanzione. Qualsiasi interesse dell’incapace può teoricamente venire in rilievo. Nella prospettiva della responsabilità penale omissiva, è parsa peraltro opportuna una delimitazione agli interessi fondamentali della persona: vita, integrità fisica, libertà personale, integrità sessuale. Il garante primario è stato ovviamente individuato (art. 17, comma 1) nel genitore esercente la potestà, o in chi lo abbia sostituito. La posizione di garanzia si configura altresì in capo a chi abbia assunto la custodia di un minore o di altra persona incapace, per infermità o per vecchiaia, di provvedere a se stessa (art. 17, comma 2). Risolvendo una questione controversa in dottrina, la Commissione ha ritenuto che l’esigenza di piena responsabilizzazione sorga solo quando l’incapace sia stato concretamente preso in carico dal garante: solo in tal caso questi dà concreto affidamento nell’effettività, efficienza e sufficienza della sua prestazione, e l’interesse tutelato resta completamente nelle sue mani. Là dove la concreta presa in carico vi sia stata, ponendo la persona dell’incapace nelle mani del terzo, la posizione di garanzia deve ritenersi sorta sia nel caso in cui il terzo si sia a ciò contrattualmente impegnato, sia nel caso di ‘‘assunzione volontaria’’ ma con carattere impegnativo e produttivo di affidamenti. Anche in questo caso, infatti, l’interesse in gioco (e si tratta dei più vitali interessi della persona) passa nelle mani di chi lo ha preso in carico, e non si può più accettare che questi, interrompendo la sua prestazione, lasci l’incapace senza più tutela in una situazione ‘‘esposta’’; ovviamente, la garanzia cessa legittimamente quando l’incapace sia stato preso in carico (in modo impegnativo) da altri. Analoghi criteri sono stati adottati (art. 22) con riferimento alle funzioni di guida o di sorveglianza nello svolgimento di attività implicanti pericolo da parte di altri (esempio scolastico, quella della guida alpina). La disposizione è stata pensata con riferimento ad attività (implicanti pericolo) che non necessariamente sono di per sé pericolose, ma possono diventarlo in certe condizioni, o se tenute da persone non all’altezza. 4. Nell’ambito delle posizioni di protezione viene in rilievo anche l’esercizio delle professioni sanitarie (art. 18). Anche qui, il presupposto della garanzia è la concreta presa in carico, negli stessi termini e per le stesse ragioni che valgono in genere per posizioni di protezione aventi origine in scelte volontarie. Il medico (o l’esercente altra professione sanitaria) diviene garante della salute del paziente, dal momento in cui lo abbia effettivamente ‘‘preso in carico’’; e l’ambito della garanzia è segnato dai termini della concreta presa in carico e dei conseguenti affidamenti. Per quanto concerne i casi di inadempimento di doveri legali di presa in carico da parte del medico o di una struttura sanitaria, una disciplina ‘‘di parte speciale’’ appare più adeguata a tipizzare situazioni del genere, e a definire condizioni di rilevanza penale che possono anche prescindere da concrete conseguenze lesive, attestandosi sulla configurazione di fattispecie di mera condotta (omissiva). Per la stessa ragione, si suggerisce una soluzione ‘‘di parte speciale’’ per il caso di inadempimento di doveri di soccorso (caso paradigmatico, gli interventi in caso di incendio, o di calamità ‘‘naturali’’). A titolo esemplificativo, si potrebbe pensare a fattispecie di questo tipo: — Rifiuto d’intervento terapeutico. Colui che, nell’esercizio della professione di medico o di altra attività terapeutica, pur essendovi tenuto, indebitamente rifiuta, omette o ritarda o comunque non assicura che altri effettui un intervento diagnostico e terapeutico necessario in una situazione di pericolo attuale per la salute, è punito con... Se il fatto è commesso in una situazione di pericolo per la vita, si applica anche la pena dell’interdizione fino a due anni dalla professione sanitaria nel cui esercizio è stato commesso il reato. Nel caso derivino
— 594 — morte o lesioni personali, si applicano le disposizioni in materia di omicidio o di lesioni personali. — Rifiuto di soccorso. Colui che, essendo tenuto ad interventi di soccorso in occasione di incidenti o di calamità naturali, indebitamente rifiuta, omette o ritarda interventi necessari per la salvezza di persone coinvolte, è punito con... Se il fatto è commesso in una situazione di imminente pericolo per la vita, si applica anche la pena... Se dall’omissione o ritardo derivano eventi di morte o lesioni personali, o disastri previsti nel titolo dei delitti contro l’incolumità pubblica, si applicano le disposizioni in materia rispettivamente di omicidio, o di lesioni personali, o di disastri previsti nel titolo dei delitti contro l’incolumità pubblica. 5. Con riguardo all’esercizio di pubbliche funzioni, la Commissione, a maggioranza, ha ritenuto di dover prevedere nella parte generale (in alternativa a una ipotizzata soluzione ‘‘di parte speciale’’) una posizione di garanzia degli appartenenti a forze di polizia (art. 19), nonché degli esercenti funzioni pubbliche di controllo su aspetti che interessano la sicurezza delle persone o dell’ambiente (art. 20). Ovviamente, le formule proposte vanno interpretate — alla luce del criterio generale di cui all’art. 16, comma 2 — come attribuzione selettiva di rilevanza penale ad obblighi derivanti dalla disciplina speciale delle funzioni considerate. Per gli appartenenti alle forze di polizia, la responsabilità penale è limitata all’omesso impedimento di reati della cui programmazione od esecuzione abbiano conoscenza. Per gli esercenti funzioni pubbliche di controllo, la delimitazione è per campi di materia: delitti contro la vita, l’integrità fisica, l’incolumità pubblica e l’ambiente. In entrambi i casi, l’opzione per il modello ‘‘di parte generale’’ della responsabilità ‘‘commissiva per omissione’’, attribuendo rilevanza alla causalità rispetto ad eventi determinati, è mirata sui casi più gravi, coprendo un ambito più ristretto di quello che può essere assegnato a fattispecie omissive pure, di parte speciale. 6. Di particolare rilievo, nella prassi, è il tema delle posizioni di controllo su fonti di pericolo. Come interessi da tutelare vengono in rilievo, ancora una volta, la vita e l’incolumità delle persone, nonché l’integrità dell’ambiente. Gli eventi da impedire sono stati individuati nei reati di danno o di pericolo per la vita o l’incolumità personale, o nei disastri che, nel codice riformato, integrino delitti contro l’incolumità pubblica o contro l’ambiente. Per quanto concerne l’individuazione dei garanti, secondo il criterio generale adottato è garante colui che abbia il controllo di cose pericolose o fonti di pericolo (art. 23), a qualsiasi titolo. Non necessariamente, dunque, il proprietario della cosa: a fondare l’esigenza di garanzia, e insieme a consentirne l’adempimento, non è un dato formale, ma il potere fattuale che taluno abbia sulla cosa. Il controllo, cui qui ci si riferisce, si lega ad un potere diretto sulla cosa o fonte di pericolo, a differenza del ‘‘controllo’’ di competenza di organi pubblici che è invece legato a un potere di verifica e di impartire disposizioni. Non è stata inserita fra le posizioni di garanzia la situazione, su cui v’è controversia, della attività pericolosa precedente. Viene prospettata, al riguardo, una soluzione ‘‘di parte speciale’’, selettivamente mirata sugli eventi più gravi: — Mancata eliminazione di una situazione di pericolo incolpevolmente cagionata. Colui che, dopo avere incolpevolmente determinato una situazione concretamente pericolosa per la vita o l’incolumità delle persone, non si adopera per eliminare il pericolo cagionato, risponde ai sensi dell’art. 23 degli eventi di morte o lesioni personali, o disastri previsti nel titolo dei delitti contro l’incolumità pubblica, che ne siano derivati. 2.2.2. Posizioni di garanzia nell’ambito di organizzazioni complesse. — 1. Il punto più delicato e più qualificante della proposta è il tentativo di meglio tipizzare le posizioni di garanzia nell’ambito di organizzazioni complesse (sull’importanza di affrontare questo tema ha particolarmente insistito il parere della Commissione della Cassazione sul documento di base 15 luglio 1999, apprezzando l’impostazione già allora data alla relativa problematica). Questo tema si intreccia con altri snodi fondamentali per la costruzione di un adeguato
— 595 — sistema di responsabilità penale e non: da un lato, con la questione della responsabilità delle stesse organizzazioni, sulla quale la Commissione ha elaborato soluzioni innovative; dall’altro lato, con questioni attinenti ai presupposti ‘‘soggettivi’’ della responsabilità, cioè alle condizioni nelle quali il verificarsi di eventi penalmente sanzionati possa essere attribuito a colpa del soggetto indicato dalla legge come garante. Come già si è detto, la tipizzazione delle posizioni di garanzia concerne semplicemente l’individuazione dei destinatari dei comandi di attivarsi, attiene cioè ai presupposti oggettivi di una potenziale responsabilità, che potrà divenire responsabilità effettiva esclusivamente nel caso di realizzazione colpevole di un reato. La determinazione dell’ambito della garanzia, dovuta dai soggetti agenti entro organizzazioni complesse, è stata esplicitamente raccordata con la garanzia dovuta dalle organizzazioni stesse, con una disposizione di carattere generale (art. 24, comma 1): ‘‘le persone giuridiche, le associazioni non riconosciute, gli enti pubblici o privati, le imprese anche individuali debbono adottare e attuare modelli organizzativi idonei a evitare che vengano commessi reati con inosservanza di disposizioni pertinenti all’attività dell’organizzazione, o comunque nell’interesse dell’organizzazione da persone agenti per essa’’. La formula proposta addita un duplice campo di applicazione: da un lato, i reati commessi con inosservanza di disposizioni pertinenti all’attività dell’organizzazione (per l’essenziale, i reati colposi in materia di ambiente e sicurezza); dall’altro, i reati commessi nell’interesse dell’organizzazione da persone agenti per essa (per l’essenziale, delitti economici). Anche su questo punto vi è corrispondenza con la disciplina della responsabilità delle persone giuridiche. I requisiti contenutistici e di idoneità del modello organizzativo saranno ovviamente diversi, in funzione della natura e delle dimensioni dell’organizzazione, e del tipo di attività svolta. L’art. 24, comma 2 delinea uno schema di articolato, pensato per le situazioni più complesse, e sufficientemente rigoroso da evitare il rischio che possano essere invocati a discolpa modelli inefficaci o non seriamente applicati. La disposizione sui modelli organizzativi, inserita nel capitolo sulla responsabilità per omissione, è stata pensata con precipuo riferimento alla responsabilità dell’organizzazione, ed è richiamata (art. 126) nel titolo sulla responsabilità delle persone giuridiche, dove svolge un ruolo fondamentale. Rispetto alla responsabilità delle persone fisiche, essa costituisce una premessa: l’indicazione di un obiettivo cui i diversi garanti sono chiamati a cooperare, nell’ambito di ruoli e competenze differenziati, e quindi in misura che va ulteriormente definita in relazione alle singole posizioni. 2. Vediamo, brevemente, i contenuti del modello organizzativo idoneo, la cui adozione e concreta attuazione costituisce adempimento della garanzia dovuta dalla ‘‘organizzazione complessa’’: a) verifica e valutazione delle situazioni che comportano rischi di violazione della legge penale. Questa indicazione recepisce e generalizza l’impostazione di base (non invece i dettagli tecnici) del sistema del d.lgs. n. 626/1994 in materia di sicurezza e igiene del lavoro, dove adempimento fondamentale del datore di lavoro è per l’appunto la valutazione dei rischi, e la conseguente redazione di un documento che rifletta gli esiti della valutazione e delinei programmi e procedure per il raggiungimento degli obiettivi di sicurezza. La disposizione proposta lascia libertà per quanto concerne le forme, mentre pone come vincolante l’esigenza della verifica e valutazione dei rischi, non solo per la sicurezza, ma con riferimento a qualsiasi rischio di violazione della legge penale che possa ragionevolmente essere ricollegato all’attività dell’organizzazione (per es., rischi di frode nei confronti di clienti); b) un’adeguata articolazione di funzioni, che assicuri in particolare le competenze tecniche e i poteri necessari per la verifica e valutazione, la gestione e il controllo delle situazioni di rischio. Questo punto verrà approfondito quando si parlerà della delega di funzioni (§ 6 di questo n. 2.2.2); c) un’adeguata formazione e informazione del personale, sugli aspetti rilevanti ai fini
— 596 — dell’osservanza della legge nello svolgimento dell’attività dell’organizzazione. Anche questa indicazione è tratta dalla normativa in materia di sicurezza del lavoro; d) misure materiali e organizzative e protocolli di comportamento atti a garantire lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge, ed a scoprire ed eliminare tempestivamente eventuali situazioni irregolari. È questo il punto d’approdo dell’analisi dei rischi, e l’elemento fondamentale per l’efficienza del modello organizzativo; e) un idoneo sistema di controllo sull’attuazione del modello organizzativo e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate; f) il riesame e l’eventuale modifica del modello organizzativo, quando siano scoperte violazioni significative della legge penale, o in relazione a mutamenti nell’organizzazione o nell’attività, o in relazione al progresso scientifico e tecnologico. Queste due ultime indicazioni hanno riguardo, l’una all’esigenza di controllo quale condizione essenziale per la ‘‘tenuta’’ del sistema, e l’altra alle esigenze di aggiornamento in funzione di eventi sia interni che esterni all’organizzazione; g) un adeguato sistema disciplinare. È un requisito che l’esperienza addita come necessario per la credibilità, la tenuta e in definitiva la effettività del modello organizzativo. 3. Nell’ordinamento vigente, la più articolata disciplina di ‘‘soggetti responsabili’’ è quella in materia di sicurezza e igiene del lavoro. Le leggi speciali prevedono figure nominate di ‘‘garanti’’, a diversi livelli (datore di lavoro, dirigenti, preposti, ecc.), e cercano di specificare l’oggetto della garanzia con la previsione di un’ampia rete di regole cautelari, e con clausole generali di chiusura. Sull’individuazione in concreto dei garanti, sui rapporti fra le diverse sfere di garanzia e sui presupposti soggettivi della responsabilità, la prassi ha elaborato, anche se non senza incertezze e contrasti, una sorta di teoria della delega e degli effetti della delega di funzioni, in termini passabilmente omogenei. Ulteriori importanti indicazioni sono desumibili dal d.lgs. n. 626/1994 e successive modificazioni. Per l’elaborazione delle proposte qui presentate, disciplina ed esperienza in materia di lavoro hanno rappresentato il principale punto di riferimento. La Commissione ha ritenuto opportuno, per esigenze di certezza e di coerenza sistematica, che i principi portanti sui ‘‘soggetti responsabili’’ nelle organizzazioni complesse (impresa et similia) vengano definiti in via generale nel codice penale. La selezione dei punti da inserire nel codice è stata oggetto di attenta riflessione, trattandosi di intervenire su materie che restano essenzialmente disciplinate da leggi speciali, per le quali potrebbero talora essere preferibili principi differenziati, e comunque si aprirebbero problemi di raccordo con il codice riformato. L’inserzione di disposizioni codicistiche intende essere una selezione mirata di ‘‘principi portanti’’, in risposta a problemi di disciplina fondamentali, comuni ai diversi campi, e bisognosi di espressa soluzione al più alto livello di generalizzazione e di visibilità, così da lanciare un messaggio legislativo chiaro e certo. 4. Per la determinazione delle posizioni di garanzia nelle organizzazioni complesse, il criterio fondamentale seguito dalla Commissione è stato quello (peraltro già leggibile nel diritto vigente) della corrispondenza fra poteri e doveri. La garanzia dei beni in gioco, là dove esiga la statuizione di doveri di attivarsi, non può che essere affidata a soggetti i quali abbiano il potere (giuridico e fattuale) di assicurare l’adempimento. Correlativamente, i limiti del potere segnano, per ciascun obbligato, il limite invalicabile della garanzia esigibile. Il testo proposto (art. 25) rende esplicita la pluralità delle posizioni di garanzia e la differenziazione obiettiva dei loro contenuti. Al livello più basso, ma anche più ravvicinato, la garanzia attiene all’esecuzione o al controllo immediato sull’esecuzione di determinate attività; al livello più lontano, ma anche più elevato, attiene alla predisposizione delle condizioni per così dire strutturali del rispetto della legalità (della sicurezza) nel complessivo modo di essere e di operare dell’organizzazione; a livello intermedio, sono pensabili svariate combinazioni fra i due poli dell’esecuzione diretta e della decisione a livello dirigenziale. Queste distinzioni, già leggibili in una razionale interpretazione del diritto vigente, sono state rese esplicite e (si confida) più certe.
— 597 — La garanzia dovuta dal soggetto ‘‘al vertice’’ (colui che, per legge o per statuto, abbia il potere di direzione dell’organizzazione) resta una garanzia a tutto campo per quanto concerne gli obiettivi. Tale non può essere, invece, quanto ad adempimenti ‘‘personalmente dovuti’’. Il garante ‘‘al vertice’’, il più lontano dai luoghi della garanzia, è tenuto, come tutti gli altri a livelli sottoordinati, ad esercitare i propri poteri, quelli che consentono (esigono) di costituirlo come garante. Egli è dunque tenuto ad assicurare le condizioni di base dell’osservanza dei precetti legali, che dipendano dall’esercizio dei suoi poteri di direzione. È qui che la disciplina delle posizioni di garanzia entro l’organizzazione si salda con quella della responsabilità dell’organizzazione, là dove costituita in forma di persona giuridica. La garanzia è dovuta innanzi tutto dall’organizzazione, e dalle persone fisiche in quanto agenti per essa. La garanzia dovuta dal vertice è di assicurare che il sistema funzioni, secondo un modello organizzativo idoneo alla salvaguardia degli interessi penalmente protetti. Va da sé che, pur essendo il soggetto al vertice tenuto ad assicurare l’adozione e attuazione del modello, non potrà essere reso responsabile di ogni e qualsiasi insufficienza del modello stesso, e men che meno di difetti nella sua attuazione, essendo in ogni caso decisiva, ai fini della responsabilità penale, la questione della colpevolezza soggettiva. 5. Fra gli aspetti qualificanti della garanzia dovuta (dall’organizzazione, e quindi da chi la dirige) vi è la costituzione di una adeguata rete di garanti, ai diversi livelli. Lungi dall’essere un fatto eccezionale e da considerare con disfavore, la delega di funzioni deve essere considerata, ed è considerata nella presente proposta, come modalità normale di adempimento. Del sistema delle deleghe, il testo qui presentato definisce non la struttura, ma la funzione: un modello organizzativo idoneo deve prevedere un’adeguata articolazione di funzioni, che assicuri in particolare le competenze tecniche e i poteri necessari per la verifica e valutazione, la gestione e il controllo delle situazioni di rischio. L’adempimento di questo dovere di buona organizzazione è la matrice delle diverse posizioni di garanzia sottoordinate a quella del soggetto ‘‘al vertice’’: tutte quante traggono fondamento nella attribuzione di poteri secondo le regole legali o statutarie o comunque operanti nell’organizzazione data. L’attribuzione di doveri ne è conseguenza legale. È dunque l’assunzione di un ruolo dentro l’organizzazione, caratterizzato da una data corona di poteri e doveri aventi a che fare con la sicurezza di terzi, che obbliga all’esercizio dei poteri inerenti al ruolo, a garanzia del bene in gioco. Per fondare la posizione di garanzia, l’assunzione del ruolo è condizione necessaria e, insieme, sufficiente. Il sistema delineato consente modelli diversi di ripartizione di poteri. L’ammissione generalizzata della possibilità di delega, indipendentemente dalle dimensioni dell’organizzazione, intende riaffermare la discrezionalità tecnica di chi abbia i poteri di decisione, nella scelta fra modelli organizzativi diversi, all’unica condizione ch’essi siano idonei alla protezione degli interessi in gioco. Ciò comporta la possibilità e legittimità di criteri diversi di ripartizione dei poteri (e conseguentemente dei doveri) fra delegante e delegato. Il topos talora affiorante in giurisprudenza, che vorrebbe un trasferimento pieno al delegato dei poteri del delegante, deve lasciare il campo alla possibilità ed all’uguale legittimità di deleghe di contenuto diversificato. Pensiamo, in particolare, alla questione dei poteri di spesa: non c’è bisogno di una puntuale enunciazione per concludere che, nel quadro del principio di correlazione fra poteri e doveri, limitazioni di poteri di spesa, in sede di delega, sono pienamente legittime, e non ostano alla valida attribuzione di altri poteri e dei correlativi doveri. Con l’ovvio risvolto che ogni riserva di poteri — di spesa o d’altro genere — definisce un ambito di residua garanzia dovuta dal delegante, vale a dire, un ambito residuo di sua potenziale responsabilità. La discrezionalità organizzativa, che il modello delineato riconosce, comporta anche la possibilità di modelli differenziati di vigilanza e controllo. Il testo qui presentato si limita a dire, in proposito, che la delega ‘‘non esclude i doveri di controllo in conformità al modello organizzativo adottato’’. Ciò, ad un tempo, riafferma che tali doveri sono parte di qualsiasi
— 598 — modello idoneo, e che la loro disciplina è rimessa alla discrezionalità tecnica dell’organizzazione, con il solo vincolo della funzionalità allo scopo, come ribadito nell’art. 24, comma 1. Altro corollario che si è ritenuto opportuno esplicitare, è che il delegato è tenuto a segnalare al delegante eventuali necessità di intervento, ai fini dell’osservanza della legge, che eccedano i propri poteri (art. 25, comma 6). È controverso, in giurisprudenza, se la delega debba essere espressa. Non vi sono ragioni sostanziali che impongano forme particolari; solo esigenze probatorie, peraltro superabili là dove l’attribuzione di dati compiti sia evidenziata dall’effettivo e stabile svolgimento dell’attività corrispondente. Il silenzio sul punto, nel contesto di una positiva disciplina dell’istituto, dovrebbe inequivocabilmente significare non necessità di requisiti formali. E lo stesso dicasi per ogni altro eventuale aspetto che non fosse esplicitamente previsto, salve, s’intende, eventuali diverse statuizioni in discipline di settore. Per inciso: non è requisito della delega — cioè della costituzione della posizione di garanzia in capo al delegato — nemmeno l’idoneità del delegato stesso. Il problema attiene, caso mai, al diverso profilo della eventuale culpa in eligendo del delegante, e non abbisogna di esplicita considerazione nel contesto d’una disciplina delle posizioni di garanzia sorte in base a delega. 6. La formula adoperata nell’art. 24, comma 2, lett. b) a proposito della ripartizione di funzioni, richiedendo che siano assicurati le competenze tecniche e i poteri necessari, evoca il problema dei rapporti fra potere e sapere, quali condizioni entrambe necessarie per l’adempimento della garanzia, ma di regola scisse fra di loro. Il modello prospettato assume come inevitabile la scissione fra potere decisionale e sapere tecnico. La garanzia richiesta dal detentore di potere non passa per l’acquisizione, inesigibile e anche inutile, di un personale sapere specialistico in qualsivoglia campo, ma passa attraverso l’impegno di assicurare che i saperi specialistici occorrenti siano reperiti e funzionino. Sorge, allora, l’esigenza di inserire inequivocamente anche i portatori di sapere, sui quali l’organizzazione della sicurezza faccia affidamento, nella rete dei garanti, accanto ai detentori di potere. A ciò si è provveduto con una apposita disposizione, relativa a coloro cui siano attribuite funzioni di consulenza tecnica, che implica anche il controllo tecnico (art. 25, comma 3). È appena il caso di notare che la posizione di garanzia del consulente — cioè del garante dell’apporto dei saperi — può e deve aggiungersi, ma non può ragionevolmente surrogare la garanzia dovuta dai detentori di potere, per la semplice ragione che anche l’attivazione dei saperi passa attraverso atti di esercizio di potere. Se il sapere è necessario ad individuare i contenuti ultimi della garanzia, il potere è il prius, per la stessa acquisizione e attivazione dei saperi. Ed è appunto questa priorità che resta alla base del modello che qui viene presentato. 7. Nel d.lgs. n. 626/1994, novellato nel 1996, alcuni adempimenti, dovuti dal datore di lavoro, sono espressamente dichiarati come non delegabili. Anche il documento di base 15 luglio 1999 ipotizzava che la determinazione della garanzia dovuta dal soggetto al vertice avvenga ‘‘mediante la selezione di un ristretto nucleo di adempimenti non delegabili propri del ruolo di direzione complessiva dell’organizzazione’’. Parlando di ‘‘non delegabilità’’, non si è ovviamente pensato ad obblighi di adempimento personale, in solitudine. Ciò sarebbe semplicemente assurdo, già per il solo fatto che gli adempimenti concernenti la programmazione e organizzazione generale esigono conoscenze scientifiche, tecniche e normative che il detentore del potere decisionale non possiede e non è tenuto a possedere. Di ciò il d.lgs. n. 626 tiene conto, proprio nel disciplinare l’adempimento fondamentale e ‘‘non delegabile’’ della valutazione dei rischi: il datore di lavoro vi deve provvedere ‘‘in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e con il medico competente nei casi in cui sia obbligatoria la sorveglianza sanitaria, previa consultazione del rappresentante per la sicurezza’’ (art. 4, comma 6, d.lgs. n. 626).
— 599 — La cooperazione di soggetti qualificati è dunque modalità necessaria — e resa obbligatoria — dell’adempimento ‘‘non delegabile’’ nel sistema vigente. Ma le esigenze di cooperazione vanno ben oltre la partecipazione del responsabile del servizio di prevenzione alla valutazione del rischio. Tutti gli adempimenti, nei quali si articola il dovere del garante primario — di programmazione della sicurezza — sono adempimenti che per loro natura (per complessità tecnica, per complessità fattuale, per mole) esigono ampia cooperazione. Di più: sono adempimenti il cui stesso oggetto è, in gran parte, la costruzione di un idoneo modello di cooperazione dell’intera struttura (anche) rispetto all’obiettivo dell’osservanza della legge. La formula utilizzata nell’art. 25, comma 1, sottolinea questo profilo, parlando di dovere di assicurare certi risultati: a tal fine, il garante di vertice deve fare il mestiere suo proprio, che è quello di adottare decisioni organizzative. Per tutte le questioni che richiedono il contributo di conoscenza, di esperienza, o anche semplicemente di puntuale lavoro di altri, il dovere del vertice non è (e sarebbe insensato che fosse) un dovere di fare da sé, ma un dovere di assicurare — esercitando il proprio potere decisionale — il contributo di chi sia in grado di darlo utilmente. Lo stesso vale per il dovere di chiunque eserciti funzioni dirigenziali (art. 25, comma 2). Porre limitazioni specifiche alla delega di ciò che altri possano fare, e fare meglio, sarebbe perciò senza senso. Resta fermo che, fino a che la posizione ‘‘di vertice’’ venga mantenuta, non tutto è stato delegato: resta, per definizione, ciò che caratterizza tale posizione, vale a dire, il potere decisionale, e, correlato a questo, il dovere di esercitarlo in modo coerente con la garanzia dovuta. In questo sistema, la posizione di garanzia del soggetto al vertice dovrebbe trovare, allo stesso tempo, un più solido ancoraggio ed una precisa delimitazione, rispetto al rischio di scivolamento verso una ‘‘responsabilità di posizione’’. Carenze di sicurezza, o esiti lesivi che ne siano derivati, potranno essere ascritti a responsabilità personale del soggetto al vertice, solo in quanto siano causalmente ricollegabili a carenze colpose nell’esercizio dei suoi poteri non delegati di decisione e organizzazione generale. Per il resto, entrano in gioco esclusivamente responsabilità a livello esecutivo. 8. Un’indicazione innovativa, nel documento della Commissione, concerne l’identificazione dell’organizzazione cui riferire, ed in cui ricercare, la posizione di garanzia. Si propone di avere riguardo non alla forma giuridica di per sé considerata (struttura societaria) ma alla effettiva articolazione organizzativa e di potere, immutando schemi consolidati, che si attestano sul dato formale (sullo schermo) dell’autonomia della persona giuridica. È stata così aperta la strada per una diretta rilevanza anche penale della direzione unitaria di gruppi di società o di imprese: chi eserciti la direzione unitaria, relativamente ad aspetti che interessano la sicurezza delle persone o dell’ambiente, è reso garante degli adempimenti a ciò relativi nell’intero ambito su cui si esercita la sua direzione (art. 26). Allo stato, la rilevanza della direzione unitaria, nella dottrina più autorevole e nei rari casi in cui il problema è affiorato in sede penale, è ammessa nei limiti dell’ingerenza: un criterio che, a ben vedere, attiene alla responsabilità ’’commissiva’’, per le conseguenze dell’essersi ingerito. Ma quando l’ingerenza sia stabile, fondata su poteri di direzione effettivamente esercitati al di là dei confini della singola società, è ragionevole che — secondo il criterio generale più volte enunciato — sia ristabilita la corrispondenza fra potere e dovere, anche ai fini penali. 2.2.3. Reati a mezzo stampa o radiotelevisione. — Nel capo relativo alla responsabilità per omissione è stata inserita una disposizione (art. 27) in materia di omesso impedimento di reati commessi col mezzo della stampa o della radiotelevisione, che sostituisce gli attuali artt. da 57 a 58-bis. c.p. Rocco. La collocazione nella parte generale si pone in continuità con il diritto vigente. Nei contenuti, si segnalano le modifiche. Come ‘‘garante’’ è indicato il soggetto tenuto al controllo della pubblicazione ‘‘in base alla legge o alle disposizioni organizzative dell’impresa editoriale o radiotelevisiva’’ (art. 27, comma 2). Ciò intende evitare l’indicazione di un modello rigido, in cui la responsabilità sia
— 600 — sempre e comunque concentrata sul direttore, e si coordina con il sistema adottato in via generale a proposito delle posizioni di garanzia entro organizzazioni complesse. In via sussidiaria è prevista la responsabilità dello stampatore (art. 27, comma 3), limitatamente al caso in cui né l’autore né l’editore siano indicati (stampa clandestina). La responsabilità per colpa, alla quale soltanto si riferisce la disposizione in esame, è limitata all’ipotesi che l’autore del reato non sia indicato o non sia punibile per qualsiasi causa. La responsabilità penale per omesso controllo diviene così solo sussidiaria: ciò ne restringe di molto l’ambito di applicazione, e sottolinea la responsabilità primaria dell’autore. Ovviamente, resta ferma la possibilità di un concorso doloso nel reato: in tal caso, anche il concorrente risponde secondo le regole generali (come precisato, ad abbondanza, nell’art. 27, comma 1). La pena resta agganciata a quella prevista per il reato commesso, ma con una diminuzione sensibile: della metà. È stata presa in esame la possibilità di estendere una soluzione di questo tipo ai reati commessi via Internet. La Commissione non ha ritenuto di potere avanzare al momento proposte. In assenza di una normativa ad hoc, vale ovviamente anche per Internet la regola della responsabilità dell’autore dei messaggi, secondo i principi generali. Quanto all’individuazione di ulteriori ipotesi di responsabilità, la materia è ancora oggetto di studio, anche a livello internazionale, e presenta una complessità tecnica che non consente, o non consente agevolmente nonostante alcune diverse prese di posizione giurisprudenziali, la pura e semplice trasposizione di criteri elaborati per gli altri tipi di comunicazione. Se e quando verranno emanate normative di settore, anche non penali, esse potranno acquistare comunque rilievo penale, nella misura in cui concorrano a definire i presupposti di posizioni di garanzia entro organizzazioni complesse. Sarebbe in ogni caso da escludere l’attribuzione di doveri di controllo — risolventisi in compiti di censura — in capo a chi svolga attività di mera gestione tecnica della rete. 2.3. Colpevolezza. — 1. Che il principio di colpevolezza costituisca uno dei principi fondamentali ed inderogabili di garanzia del diritto penale costituisce opinione assolutamente pacifica in dottrina. La Commissione ha considerato la realizzazione piena di tale principio fra gli obbiettivi primari della riforma. Realizzare fino in fondo il principio di colpevolezza significa eliminare non soltanto le ipotesi di responsabilità oggettiva, ma altresì le ipotesi di responsabilità anomala, nelle quali la sanzione è commisurata ad un grado di colpevolezza diverso da quello rinvenibile nel soggetto chiamato a rispondere penalmente (es., art. 116 c.p. Rocco, in forza del quale chi ha voluto un reato diverso da quello realizzato da taluno dei concorrenti risponde con una pena, sia pure ridotta, prevista per un reato doloso, nonostante che la sua responsabilità si fondi sulla colpa), e bandire per quanto possibile dall’area del diritto penale ipotesi di responsabilità per rischio. In questa prospettiva la Commissione, recependo l’orientamento già imboccato dai progetti Pagliaro e Riz, ma andando oltre le loro indicazioni, nel perseguire l’obbiettivo di salvaguardare sempre la correlazione fra grado di colpevolezza e specifica responsabilità penale cui il colpevole è chiamato a soggiacere ha eliminato la responsabilità oggettiva (art. 42, comma 3, c.p. Rocco) e la preterintenzione (art. 43, comma 2, c.p. Rocco); ha previsto di eliminare i delitti aggravati dall’evento; ha dettato una disciplina diversa delle condizioni oggettive di punibilità; pur non riuscendo ad abolirla del tutto, ha preveduto in una dimensione residuale ridotta la responsabilità penale colposa per omesso od inadeguato controllo sulla stampa e la radiotelevisione (retro, n. 2.2.3); ha eliminato l’aberratio delicti, ritenendo sufficiente la disciplina del concorso formale di reati, e cioè la responsabilità per il reato doloso se realizzato, e la responsabilità per il reato diverso a titolo di colpa nei soli casi in cui esso sia previsto come reato colposo; in tema di aberratio ictus ha stabilito che qualora oltre la offesa voluta il colpevole realizza l’offesa a danno di persona diversa si applicano le norme sul concorso di reati, con conseguente responsabilità per la seconda offesa soltanto nel caso
— 601 — in cui essa sia prevista come delitto colposo; ha disciplinato il reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti in modo assolutamente coerente alla necessità di una completa correlazione fra colpevolezza e responsabilità; ha abolito la disposizione contenuta nell’art. 117 c.p. Rocco, ritenendo che sia giusto che chi non possiede la qualifica richiesta per la commissione di un reato a soggettività specifica, per risponderne debba rappresentarsi di concorrere con persona che possiede tale qualifica. In coerenza a quanto indicato, la parte concernente l’elemento soggettivo del reato inizia con la enunciazione secondo cui ‘‘la colpevolezza dell’agente per il reato commesso è presupposto indefettibile della responsabilità penale’’ (art. 28, comma 1). Indicazione netta, che dovrebbe troncare ogni perplessità in ordine ai limiti soggettivi della responsabilità penale. Enunciato nei termini menzionati il presupposto soggettivo indefettibile della responsabilità penale, alla Commissione è d’altronde sembrato che fosse inutile continuare a prevedere la coscienza e volontà della condotta di cui all’art. 42, comma 1, c.p. Rocco, ed il caso fortuito, la forza maggiore ed il costringimento fisico di cui, rispettivamente, agli artt. 45 e 46 c.p. Rocco. Esigere la coscienza e volontà della condotta come presupposto indispensabile di ogni forma di responsabilità penale aveva senso in un sistema che prevedeva la responsabilità oggettiva, una forma di responsabilità che, pur essendo ‘‘altro’’ rispetto al dolo e alla colpa, presupponeva pur sempre la realizzazione di una condotta cosciente e volontaria; enunciato il principio di colpevolezza, e cioè una responsabilità necessariamente ancorata alla presenza del dolo o della colpa, è implicito che la condotta dovrà essere cosciente e volontaria, secondo i contenuti propri dell’uno o dell’altra. Ugualmente inutile è prevedere il caso fortuito, la forza maggiore ed il costringimento fisico. Il primo non significa infatti altro se non mancanza di colpa; il mancato insorgere della responsabilità penale in caso di forza maggiore e di costringimento fisico è a sua volta implicito nella enunciazione del principio di colpevolezza. L’art. 28, commi 2 e 3, enuncia i due corollari del principio di colpevolezza in materia, rispettivamente, di delitti e di contravvenzioni. Con riferimento ai delitti stabilisce che ‘‘nessuno può essere punito per tale tipo di reato se non lo ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto colposo espressamente preveduti dalla legge’’; con riferimento alle contravvenzioni che ‘‘nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come contravvenzione se non lo ha realizzato con dolo o con colpa’’. In materia di contravvenzioni non si è ritenuto di prevedere che la realizzazione colposa può dare luogo a diminuzione di pena (così invece il progetto Pagliaro), ritenendosi sufficiente ad adeguare la responsabilità al grado della colpevolezza un impiego corretto dei criteri di commisurazione in concreto della pena. 2. L’art. 29, recependo il contenuto della sentenza della Corte costituzionale n. 364/1988 in tema di errore sulla legge penale, dispone che ‘‘la colpevolezza è esclusa nel caso di errore sulla illiceità del fatto commesso, derivante da ignoranza o errore scusabile sulla legge penale’’. La Corte costituzionale aveva parlato di errore ‘‘inevitabile’’; coerentemente il progetto Riz parla di errore che non può essere evitato, il progetto Pagliaro parla di errore ‘‘invincibile’’. L’espressione ‘‘scusabile’’, con la sua lieve sfumatura di diversità, sottende che l’errore sul precetto penale deve essere valutato secondo lo stesso metro che, in materia di errore sul fatto, corrisponde ai principi sulla colpa, e non secondo un metro più severo. Si tratta dunque di una indicazione tendenzialmente ‘‘ampliativa’’, coerente con quanto enunciato in linea generale in tema di realizzazione del principio di colpevolezza. È quasi inutile osservare che, fuori dai casi considerati, l’errore sul precetto penale non esclude la colpevolezza. 3. La Commissione, coerente con la impostazione del documento di base 15 luglio 1999, e considerato il consenso emerso nei confronti di tale orientamento, ha definito le nozioni di dolo e di colpa. La definizione del dolo ‘‘risponde a titolo di dolo chi, con una condotta volontaria attiva od omissiva, realizza un fatto costitutivo di reato: a) se agisce con la intenzione di realizzare
— 602 — il fatto, b) se agisce rappresentandosi la realizzazione del fatto come certa ovvero come altamente probabile’’ (art. 30), risponde alla esigenza di procedere ad una formulazione in grado di identificare le diverse possibili gradazioni del dolo. Il dolo intenzionale, interamente coperto dalla volontà dell’agente (che vuole la condotta e agisce con la intenzione di realizzare il reato); il dolo diretto, che si verifica quando l’agente vuole la condotta, rappresentandosi come certa (e quindi implicitamente volendo) la realizzazione del reato; il dolo eventuale, in cui l’agente vuole la condotta ma non si rappresenta come certa la realizzazione del reato. Il punto più delicato della disciplina enunciata riguarda la configurazione del dolo eventuale (che il progetto Pagliaro aveva giustamente indicato come oggetto necessario di esplicita considerazione, ma non aveva specificamente definito) data la varietà di opinioni esistenti in dottrina e le oscillazioni rinvenibili nella prassi giudiziaria. La Commissione, escluso di utilizzare formule inutilmente complicatorie talvolta affiorate in dottrina, ha ritenuto di confermare l’orientamento già enunciato nel documento di base 15 luglio 1999, e cioè che agli effetti della realizzazione della ipotesi marginale di dolo occorre una rappresentazione della realizzazione del fatto (ovviamente il fatto realizzato in concreto, e non una generica rappresentazione di qualcosa di illecito) in termini di probabilità. L’indicazione della probabilità come ‘‘alta’’, scelta dopo ampia discussione, tende a qualificare il dolo in termini restrittivi, opponendosi alle tendenze, non estranee alla giurisprudenza, a dilatare l’area del dolo eventuale sulla base di una generica previsione dell’evento come possibile. L’aggiunta ‘‘accettandone il rischio’’, pur nella consapevolezza della sostanziale superfluità della specificazione, è stata inserita, dietro suggerimento di taluni commissari, da un lato per sottolineare ulteriormente, con una formula retorica comunque ricorrente nella elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, la necessità che la rappresentazione in termini di probabilità deve essere davvero qualificata; dall’altro per sottolineare che il dolo eventuale è comunque cosa diversa dal dolo diretto, dove non ci si accontenta di una accettazione di rischio, ma si esige la prova della certezza del verificarsi dell’evento. La Commissione auspica che con queste specificazioni risultino superate le obbiezioni di perdurante incertezza da un lato, e di rischio (parlando di ‘‘alta’’ probabilità) di confondere dolo eventuale e dolo diretto dall’altro, prospettate dalle Commissioni della Cassazione e della Procura Generale nei loro pareri al documento di base 15 luglio 1999. La Commissione non ha ritenuto di dare spazio all’indicazione del progetto Pagliaro secondo cui la definizione di dolo doveva ‘‘esprimere in ogni caso la necessità del significato del fatto’’. A prescindere dalla difficoltà di interpretare espressioni quali ‘‘significato’’ del fatto, si è osservato che la circostanza secondo cui la legge penale non è applicabile a fatti che non determinano una offesa del bene giuridico (art. 3, comma 2) implica che il soggetto, per rispondere a titolo di dolo, deve volere e/o rappresentarsi comunque un fatto concreto dotato di offensività, e che questa volontà e/o rappresentazione è sufficiente ad esprimere la volontà dolosa penalmente rilevante. La Commissione si è posta infine il problema se fosse necessario enunciare regole particolari in materia di dolo dei reati commissivi mediante omissione. Essa ha escluso che con riferimento a tale categoria di reati abbia senso negare rilevanza al dolo eventuale (come sembrerebbe suggerire la Commissione della Procura Generale nel suo parere), perché esso bene si concilia con numerosi casi di reati causalmente orientati (si pensi, fra i tanti prospettabili, a quello della infermiera cui sia stato affidato un paziente, che omette di somministrargli medicine prescritte rappresentandosi come altamente probabile che ne potrà scaturire una lesione personale). E si è piuttosto domandata se fosse opportuno richiedere esplicitamente il dovere di rappresentarsi la situazione di obbligo giuridico di impedire l’evento che costituisce presupposto perché l’omissione acquisti efficacia causale. Dopo avere in un primo tempo prospettato una norma di questo tipo, ha valutato che essa sarebbe stata inutile, in quanto la soluzione è comunque desumibile dalla disciplina generale del dolo e dell’errore. 4.
In tema di colpa il documento di base poneva una serie di interrogativi: scontato
— 603 — che la colpa consiste nella inosservanza di regole cautelari codificate o non codificate, si può ritenere esistente colpa, sulla base di un normale concetto di diligenza, imprudenza, imperizia (prevedibilità), anche in ipotesi di osservanza delle regole cautelari scritte? È sufficiente, per valutare la colpa, il riferimento al criterio oggettivo dell’agente modello, diversificato per tipi di attività, o si può (o deve) riconoscere rilevanza a condizioni personali di incapacità? In materia di colpa professionale è opportuno introdurre il limite della colpa grave previsto dal codice civile? Quid iuris in materia di colpa nelle attività pericolose, dove la evidente insufficienza del criterio della prevedibilità ha indotto la prassi a cercare un difficile bilanciamento, caso per caso, tra l’interesse allo svolgimento della attività e la misura del rischio consentito in funzione della natura e probabilità del verificarsi di eventi lesivi? Nello stendere l’articolato si è dovuto ovviamente rispondere a questi interrogativi. La formula proposta è la seguente (art. 31, comma 1): ‘‘risponde a titolo di colpa chi, con una condotta che viola regole di diligenza, o di prudenza, o di perizia, ovvero regole cautelari stabilite da leggi regolamenti, ordini o discipline, realizza un fatto costitutivo di reato che è conseguenza prevedibile ed evitabile dell’inosservanza della regola cautelare’’. La norma riecheggia elementi presenti nella definizione di cui all’art. 43, comma 3, c.p. Rocco. Si discosta tuttavia da tale definizione in più punti significativi: — innanzitutto la colpa generica e la c.d. colpa specifica vengono unificate dal riferimento, in entrambi i casi, al concetto della ‘‘violazione di regole’’; — si parla specificamente di regole ‘‘cautelari’’, allo scopo di evitare (sempre possibili) allargamenti arbitrari delle regole la cui inosservanza può fondare la colpa (l’aggettivo ‘‘cautelare’’ è stato formulato con riferimento alla sola colpa specifica, in quanto è implicito che la violazione in cui si sostanzia un comportamento negligente, imprudente o imperito sia violazione di una regola sociale di doverosa cautela); — si fa specifico riferimento alla realizzazione di un fatto costitutivo di reato che è conseguenza ’prevedibile ed evitabile dell’inosservanza della regola cautelare’. In questo modo si sottolinea da un lato espressamente che a fondare la colpa non è sufficiente la prevedibilità, ma occorre anche la evitabilità del reato; si chiarisce dall’altro che il fatto, per risultare colposo, deve essere conseguenza della inosservanza della regola cautelare. I commi 2 e 3 dell’art. 31 cercano di dare risposta ad alcuni problemi inerenti alla disciplina di attività pericolose: tema cruciale nell’ambito della colpa, su cui la Commissione ha discusso approfonditamente, concludendo per l’inutilità di formule generiche, che sostanzialmente sarebbero di mero (superfluo) rinvio al criterio del bilanciamento d’interessi su cui fanno leva la dottrina e la giurisprudenza. Indicazioni concrete sono invece state ritenute possibili ed opportune con riguardo a questioni specifiche connesse alla previsione — o all’assenza di previsione — di regole cautelari specifiche. L’art. 31, comma 2 affronta il problema se il rispetto delle regole cautelari scritte, dove esistenti, sia sufficiente ad escludere la colpa relativamente agli aspetti disciplinati da dette regole. Recependo considerazioni sviluppate dal parere espresso dalla Commissione della Cassazione sul documento di base 15 luglio 1999, il progetto accoglie il punto di vista secondo cui la regola cautelare scritta è comunque cristallizzazione normativa di giudizi di prevedibilità ed evitabilità ripetuti nel tempo, per cui normalmente la prevedibilità non può non ritenersi necessariamente assorbita nella violazione delle regole cautelari scritte, e il rispetto di queste costituisce, in via di principio, adempimento idoneo del dovere di diligenza nello svolgimento dell’attività regolata. Questa statuizione, che molti (ma non tutti) ritengono desumibile già dal diritto vigente, dovrebbe ridurre le incertezze nello svolgimento — e nella valutazione — di attività pericolose che siano state opportunamente fatte oggetto di una disciplina specifica di settore. È parso peraltro necessario prevedere una limitata eccezione alla regola, per il caso, teoricamente non impossibile, che a causa del progresso scientifico e tecnologico le regole enunciate siano divenute obsolete. Si è perciò previsto che ‘‘il rispetto delle regole cautelari specifiche di cui al comma precedente esclude la colpa relativamente agli aspetti disciplinati da dette regole, salvo che il progresso scientifico e tecnologico, nel periodo successivo alla loro emanazione, non le abbia rese palesemente inadeguate’’.
— 604 — L’art. 31, comma 3, concerne il problema della disciplina di attività che richiedono l’adozione di cautele, nell’ipotesi di inesistenza di regole cautelari formalizzate. Tali lacune di disciplina dovrebbero essere evitate, o comunque ridotte al minimo da un buon legislatore; d’altra parte, non appare ragionevole equiparare la eventuale mancanza di regole specifiche ad indifferenza rispetto alla tutela dei beni giuridici in gioco. Con tutti i rischi di insufficiente determinatezza che ciò comporta, è giocoforza trovare soluzioni sul terreno della colpa generica. Secondo la soluzione prospettata, ‘‘relativamente agli aspetti non considerati da regole cautelari specifiche, non può essere ascritta a colpa l’adozione di misure di generale applicazione, salvo che esse siano riconoscibilmente inidonee’’. Questa soluzione, con il dare rilievo agli standard in concreto adottati nei diversi settori in un determinato momento storico, si muove nel solco delle indicazioni date dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 312/1996, senza peraltro disperdere la dimensione normativa (non riducibile a mero dato della prassi) delle regole cautelari: la rilevanza delle prassi restando infatti condizionata ad una valutazione di non inidoneità. Quanto al problema se il limite della colpa grave stabilito dal codice civile per le prestazioni professionali, che implicano la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, la Commissione, dopo ampia discussione, ha ritenuto opportuno non riprodurre una disposizione analoga a quella dettata dall’art. 2236 c.c., contrariamente a quanto previsto nel disegno di legge Riz, nel quale è contenuta un’esplicita limitazione della responsabilità penale all’imperizia grave. Sarà compito della dottrina e della giurisprudenza specificare i limiti del grado di colpa per le ipotesi di prestazioni professionali, assumendo come necessari punti di orientamento il principio di unitarietà dell’ordinamento e le esigenze di coerenza interna del sistema, nella consapevolezza che, in mancanza di tali parametri di riferimento, le scelte interpretative risulterebbero contraddittorie e non ragionevoli, dato che si ammetterebbe l’illiceità penale di condotte colpose, qualificate da imperizia lieve, che, non costituendo illecito civile, non possono rappresentare titolo per il risarcimento del danno in favore della persona offesa dal reato, costituitasi parte civile nel processo penale. Peraltro, affidabili e convincenti indicazioni interpretative — seguite da talune decisioni, anche recenti, della Corte di cassazione — sono state offerte, nella materia in esame, dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 166 del 28 novembre 1973, con cui la coerenza del sistema è stata assicurata precisando che il limite della colpa grave ex art. 2236 c.c. concerne unicamente l’imperizia e non anche l’imprudenza e la negligenza. Il problema del metro di valutazione della colpa è stato oggetto di discussione particolarmente ampia. Una parte della Commissione ha insistito nel rilevare la correttezza della posizione espressa (genericamente) dal progetto Pagliaro, secondo il quale occorrerebbe ‘‘formulare la definizione della colpa in modo che in tutte le forme di essa l’imputazione si fondi su di un criterio strettamente personale’’. Pur condividendo in linea di principio tale enunciato, la Commissione ha incontrato difficoltà ad enunciare una regola scritta che fosse in grado di individuare una linea di equilibrio di tipo generale fra la esigenza di configurare comunque un modello ideale cui ancorare il giudizio di riprovevolezza soggettiva, ed il grado di concretezza ‘‘personalistica’’ del modello stesso. In particolare, è stata respinta la proposta di introdurre un’ipotesi di inesigibilità in concreto del seguente tipo: ‘‘la colpa è esclusa, nonostante l’oggettiva inosservanza della regola cautelare, quando l’agente si è trovato costretto ad agire, senza sua colpa, in una situazione eccezionale di panico o di fortissimo stress emotivo, tale da rendere inesigibile l’osservanza della regola’’. Alla maggioranza della Commissione una simile formulazione è sembrata introdurre profili di incertezza e discrezionalità applicativa incompatibili con il principio di stretta legalità. 5. In tema di errore che esclude il dolo e, se scusabile, anche la colpa, si è confermata la linea di fondo della disciplina del c.p. Rocco, introducendo tuttavia alcune significative modifiche formali tendenti a rendere più esplicito, e conseguentemente più chiaro, il contenuto dell’articolato. In questa prospettiva:
— 605 — — sono stati trattati congiuntamente l’errore sul fatto e l’erronea supposizione di cause di giustificazione, così da evidenziare l’assoluta identità della disciplina delle due ipotesi; — si è precisato che ‘‘esclude il dolo, e se scusabile anche la colpa, l’ignoranza o l’errore sulla sussistenza di elementi del fatto costituivo del reato, nonché la supposizione erronea della presenza di cause di giustificazione’’ (art. 32, comma 1), allo scopo di evidenziare esplicitamente l’efficacia specifica dell’errore di fatto; — in materia di errore sulla legge extrapenale si propone una modifica del testo normativo, allo scopo di rendere evidente che è applicabile a tale tipo di errore l’intera disciplina dell’errore di fatto (e pertanto anche la sua possibile fonte di responsabilità per colpa, se inescusabile), e soprattutto di cercare di superare finalmente la tenace interpretazione giurisprudenziale che attraverso il principio della incorporazione della norma extrapenale in quella penale ha abrogato di fatto l’art. 47, ult. cpv., c.p. Rocco. In questo senso, dovrebbe ritenersi inequivoca la formula adottata nell’art. 32, comma 2; essa chiarisce che ‘‘costituisce errore rilevante ai sensi del comma precedente l’ignoranza o l’errore su qualificazioni giuridiche di elementi del fatto costitutivo di reato, derivanti da errore su leggi diverse dalla legge penale violata’’. Si confida in questo modo di avere esplicitato in maniera sufficientemente univoca la volontà di dare rilievo ad ogni ipotesi di errore sulla legge extrapenale che determini un errore sul fatto (più specificamente, sulle qualificazioni giuridiche che caratterizzano i c.d. elementi normativi). La specificazione ‘‘leggi diverse dalla legge penale violata’’ serve altresì a chiarire che nel concetto di legge extrapenale rientrano anche le leggi penali richiamate da quella penale incriminatrice del reato del cui dolo si discute. In conformità a quanto già indicato dal progetto Pagliaro, l’art. 32, comma 3 chiarisce che l’erronea rappresentazione di un elemento differenziale fra più reati comporta la responsabilità per il reato rappresentato soltanto se esso è meno grave, poiché non è consentito addebitare ad un soggetto fattori di maggiore gravità ai quali non corrisponde una loro reale realizzazione. 6. L’art. 33 prevede una disciplina della imputazione soggettiva delle circostanze diretta a salvaguardare anche nei confronti di tali elementi la applicazione del principio di colpevolezza. Riproducendo quanto già oggi disposto dall’art. 59 comma 2 c.p. (come modificato dalla l. n. 19/1990), prevede che ‘‘le circostanze aggravanti sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa’’. La Commissione in un primo tempo aveva pensato di distinguere la disciplina dell’imputazione soggettiva delle circostanze aggravanti ad effetto ordinario e di quelle ad effetto speciale. Rilevata l’eccessiva complicazione di tale normativa, ha preferito ribadire la disciplina unitaria, auspicando tuttavia nel contempo che in sede di redazione della parte speciale si proceda ad una drastica riduzione delle circostanze ad effetto speciale, optando per quanto possibile per la configurazione di titoli autonomi di reato. 7. Nonostante il diverso avviso di qualche commissario, la Commissione ha deciso di mantenere la previsione dell’aberratio ictus soprattutto per ragioni di chiarezza: evitare che, in assenza di una disciplina dell’istituto, in caso di realizzazione del reato in danno di persona diversa da quella cui l’offesa era diretta dottrina e giurisprudenza rischiassero di invischiarsi in complesse questioni interpretative in ordine allo specifico tipo di responsabilità cui tale situazione avrebbe dovuto dare luogo. Poiché deve essere chiaro che in caso di offesa diretta contro una persona, e che si realizza invece nei confronti di persona diversa a causa di errore nei mezzi di esecuzione o per altra causa, il soggetto deve rispondere, e soltanto, per il reato che ha voluto e di fatto ha realizzato sia pure a danno di persona diversa (voleva cagionare la morte di una persona, e la ha comunque cagionata: responsabilità penale per omicidio volontario), si è appunto ritenuto opportuno riproporre la norma prevista nel comma 1 dell’art. 82 c.p. Rocco (art. 34, comma 1). Il comma 2 dell’art. 34 si richiama, per i casi di aberratio ictus e di errore sulla persona dell’offeso, alla disciplina prevista dall’art. 60 c.p. Rocco.
— 606 — Il comma 3 dell’art. 34 prevede una rilevante novità dispetto alla disciplina di cui all’art. 82 comma 2 c.p. Rocco. Allo scopo di eliminare ogni scarto tra responsabilità penale e colpevolezza dispone che ‘‘qualora oltre che l’offesa voluta, il colpevole realizza l’offesa anche a danno di persona diversa, si applicano le norme sul concorso di reati’’. Il che significa che della offesa a persona diversa il colpevole risponderà soltanto se il fatto è preveduto come reato colposo, e con la pena prevista per tale reato, calcolata secondo i principi del cumulo giuridico previsti in materia di concorso formale di reati. 8. Eliminato l’art. 44 c.p. Rocco, tautologico in quanto è ovvio che una condizione, se ‘‘oggettiva’’, si applica indipendentemente dalla eventuale volontà e rappresentazione da parte dell’agente, la Commissione si è preoccupata di circondare di cautele formali l’eventuale ricorso a un tale istituto, che per sua natura pone problemi di compatibilità con il principio di colpevolezza. Ad esigenze, ad un tempo, di certezza applicativa e di delimitazione garantista guarda la formula dell’art. 35, comma 1, secondo cui ‘‘condizioni oggettive di punibilità possono essere previste con disposizione espressa di legge, che utilizzi tale definizione’’. Alla luce di questa disposizione generale, se mancano le menzionate indicazioni l’elemento dovrebbe essere, interpretativamente, considerato costitutivo essenziale del reato. La Commissione non ha ritenuto di specificare che la condizione oggettiva deve consistere in un elemento estraneo all’oggetto della tutela penale (come aveva invece previsto il progetto Pagliaro), facendo affidamento sui vincoli costituzionali posti al legislatore dalla rilevanza costituzionale del principio di colpevolezza. È ovvio, infatti, che tale principio risulterebbe violato, ove mai il legislatore prevedesse condizioni oggettive di punibilità che interferissero significativamente con il bene giuridico tutelato. L’art. 35, comma 2 risponde all’esigenza di evitare che attraverso una sorta di scambio delle etichette si sottraggano i presupposti di aumenti di pena ai principi di imputazione soggettiva. Non essendo prevista la categoria delle ‘‘condizioni di maggior punibilità’’, si stabilisce che se alla sussistenza di un determinato elemento di fattispecie dovesse risultare collegato un aumento di pena, in via interpretativa esso dovrebbe essere considerato una circostanza aggravante, ed essere di conseguenza soggetto alla disciplina di cui all’art. 33. 2.4. Le cause di giustificazione. — 1. La Commissione, in ciò confortata dal parere espresso dalla Commissione della Cassazione, ha ritenuto di confermare la sua originaria posizione negativa sull’ipotesi, prospettata nel progetto Pagliaro, di distinguere la categoria delle esimenti in cause oggettive di giustificazione e cause soggettive di esclusione della colpevolezza. Nonostante che nel dibattito che è seguito alla pubblicazione del documento di base, e nella più recente elaborazione dottrinale, non siano mancate voci favorevoli allo sdoppiamento, si è ritenuto che la suddivisione, forse corretta su piano teorico, sollevi eccessivi problemi pratici soprattutto con riferimento alla duplicazione dello stato di necessità, e non esiga comunque una rilevazione a livello di regolamentazione codicistica, che deve preoccuparsi della disciplina degli istituti più che del loro inquadramento dogmatico. Individuata una rubrica unitaria di ‘‘cause di giustificazione’’, saranno poi la dottrina e la giurisprudenza a stabilire se sia possibile distinguere ipotesi che operano oggettivamente sul fatto (o sulla antigiuridicità) o soggettivamente sulla colpevolezza, ed in caso affermativo quando si tratti dell’una e quando dell’altra figura. Anche in ciò confortata dal parere espresso dalla Commissione della Cassazione, è stata mantenuta posizione negativa in ordine all’introduzione di una nuova scriminante generale dell’esercizio della attività terapeutica e degli interventi chirurgici, che era stata invece prevista dal progetto Pagliaro. L’art. 36 disciplina l’esercizio di un diritto e l’adempimento di un dovere introducendo alcune modificazioni rispetto al testo dell’art. 51 c.p. Rocco. Nel comma 1 esso prevede che ‘‘l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo dell’autorità esclude la punibilità’’;
— 607 — nel comma 2 che ‘‘se un fatto costituente reato è commesso per ordine di un superiore, del reato rispondono sia chi ha dato l’ordine, sia chi lo ha eseguito’’. La soppressione dell’inciso ‘‘ordine dell’autorità’’ nel comma 1 e la sostituzione della locuzione ‘‘superiore’’ a quella ‘‘autorità’’ nel comma 2, rispondono alla esigenza di coinvolgere nella disciplina codicistica anche l’ordine impartito al di fuori di organizzazioni pubbliche. Come era già stato rilevato nel documento di base, è infatti opportuno che la disciplina generale coinvolga ogni ipotesi di ordine, poiché delle due, comunque, l’una: o il contenuto dell’ordine privato è conforme alle leggi, ed allora deve (o può) essere eseguito, o non è conforme alle leggi, ed allora in caso di esecuzione comporta responsabilità, a seconda dei casi civile o penale, sia a carico di chi lo ha impartito sia a carico di chi lo ha eseguito. Il comma 3 dell’art. 36 ribadisce che ‘‘l’ordine illegittimo esclude la punibilità di chi lo esegue quando la legge non gli consente di sindacare l’illegittimità dell’ordine’’, il che ovviamente avverrà con riferimento a specifici settori di attività pubblica. La Commissione ha ritenuto opportuno esplicitare altresì che ‘‘sono sempre sindacabili la competenza ad emanare l’ordine, la competenza ad eseguirlo, la forma in cui l’ordine deve essere impartita se richiesta dalla legge’’, formalizzando in questo modo una regola comunque già chiaramente recepita da dottrina e giurisprudenza. Il comma 4 dell’art. 36 formalizza a sua volta il principio secondo cui ‘‘chi esegue l’ordine illegittimo non sindacabile è punibile quando la criminosità dell’ordine è manifesta o è comunque nota all’esecutore’’. 2. L’art. 37 comma 1 ripropone la formulazione dell’art. 50 c.p. Rocco in tema di consenso dell’avente diritto. La Commissione non ha ritenuto di definire i requisiti di efficacia del consenso in relazione alla natura dell’atto, come in un primo tempo aveva pensato di fare sulle orme di quanto previsto nel progetto Pagliaro, e nonostante il parere favorevole manifestato dalla Commissione della Corte di cassazione. Essa ha infatti valutato che, con riferimento sia ai vizi della volontà che all’età, indicazioni idonee possano essere desunte dal diritto civile, e in genere dalla disciplina specifica delle diverse situazioni che possano venire in rilievo. Ha invece previsto che ‘‘non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto patrimoniale senza il consenso della persona che può validamente disporne, in una situazione di evidente ed oggettiva utilità della stessa e salvo che essa abbia manifestato dissenso all’intervento ed il dissenso sia noto all’autore’’ (art. 37, comma 2). È stato dato in questo modo rilievo al consenso presumibile secondo una indicazione già emersa nel progetto Pagliaro. 3. La disciplina della difesa legittima è stata arricchita rispetto a quella dell’art. 52 c.p. Rocco allo scopo di risolvere normativamente alcuni problemi che si erano presentati alla attenzione della dottrina e della prassi. Precisamente: — il comma 1 dell’art. 38 prevede che non è punibile ‘‘chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale, percepito dall’agente, di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa’’. Con la aggiunta dell’inciso ‘‘percepito dall’agente’’ la Commissione ha risolto il problema se la scriminante possa o non possa operare indipendentemente dalla consapevolezza della situazione di pericolo da parte dell’agente, risolvendo il problema nel secondo senso dell’alternativa; — il comma 2 prevede che ‘‘la proporzione deve essere valutata fra i beni contrapposti. L’interesse leso dalla reazione può essere moderatamente superiore rispetto a quello tutelato’’. L’indicazione relativa all’oggetto della proporzione mira a sancire definitivamente che essa deve essere valutata con riferimento ai beni contrapposti. La precisazione secondo cui la reazione può essere moderatamente superiore rispetto all’interesse contro cui si reagisce, tende a sua volta a considerare la posizione di minore dignità di tutela in cui si trova l’aggressore a cagione della sua condotta illecita; la formulazione specificamente configurata (reazione moderatamente superiore), nonostante la sua relativa elasticità è stata preferita ad altre (ad esempio quelle utilizzate nei progetti Pagliaro e Riz) allo scopo di contrastare, per
— 608 — quanto possibile, la legittimazione di reazioni smodate a tutela di interessi patrimoniali, ancorché consistenti; — il comma 3 prevede che ‘‘chi interviene a difesa propria o altrui a parità di efficacia difensiva è obbligato a scegliere la difesa meno lesiva per l’aggressore’’. Con questa norma si è dato espressamente rilievo anche in materia di legittima difesa al principio secondo cui il pericolo non deve essere altrimenti evitabile, limitando tuttavia l’obbligo di impiegare il mezzo di difesa meno dannoso soltanto a parità di efficacia difensiva, in quanto è parso giusto che un aggredito innocente non sia costretto a subire un nocumento a causa della condotta di un ingiusto aggressore; — il comma 4 prevede che ‘‘qualora l’aggredito possa sottrarsi all’aggressione con la fuga senza correre nessun rischio per la sua persona, egli è tenuto ad evitare la reazione’’. In questo modo si sono superate le annose discussioni in ordine alla diversità di valutazione della fuga e del c.d. commodus discessus nella difesa legittima, recependo, anche in eventuale funzione ‘‘educativa’’, un concetto moderno di onore agli effetti del quale fuggire di fronte ad un aggressore non deve essere considerato di per sé un disonore. Poiché l’aggredito non può essere costretto a subire danni, è stato comunque precisato che la fuga non deve fargli correre nessun rischio; — il comma 5 prevede, come già facevano i progetti Pagliaro e Riz, che ‘‘la difesa legittima non è applicabile a chi ha suscitato ad arte l’aggressione allo scopo di potere colpire impunemente l’aggressore’’. 4. L’art. 39, comma 1, configura lo stato di necessità con alcune rilevanti modificazioni rispetto alla disciplina di cui all’art. 54 comma 1 c.p. Rocco: — come in tema di legittima difesa, per la medesima ragione, è espressamente richiesto che il pericolo deve essere ‘‘percepito dall’agente’’; — i beni la cui salvaguardia è stata legittimata risultano ridotti e tipizzati: anziché parlare genericamente di pericolo attuale di un danno grave alla persona, si parla infatti di ‘‘pericolo attuale alla vita, all’integrità fisica, alla libertà individuale o alla libertà sessuale’’; — il pericolo ‘‘non deve essere volontariamente causato, né evitabile con una condotta in assoluto meno dannosa’’. La precisazione ‘‘in assoluto’’ è stata inserita per sottolineare che in materia di stato di necessità, che legittima penalmente la offesa di beni appartenenti a terzi innocenti, la persona in pericolo è comunque costretta a subire un nocumento quando la condotta reattiva (che non gli evita di subire tale danno) è in grado di neutralizzare il pericolo con un danno che è comunque meno rilevante di quello che sarebbe costretto a subire un terzo innocente ove fosse stata scelta una reazione diversa al pericolo; — nell’indicazione della proporzione la espressione ‘‘sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo’’ di cui all’art. 54 c.p. Rocco è stata sostituita con quella ‘‘sempre che il danno cagionato sia proporzionato al pericolo’’ per sottolineare che la proporzione deve essere valutata fra i beni contrapposti. Trattandosi di proporzione fra beni contrapposti di persone tutte innocenti, il giudizio di proporzione non può ammettere scompensi a favore di nessuno, come accade invece in materia di legittima difesa. L’art. 39, comma 2, recependo quanto già aveva suggerito il progetto Pagliaro, allo scopo di superare la eccessiva rigidezza della disciplina di cui all’art. 54, comma 2, c.p. Rocco prevede che ‘‘questa disposizione non si applica a chi, essendo tenuto ad esporsi al pericolo, agisca per salvare un interesse proprio la cui superiorità non sia di particolare rilevanza’’. Nonostante che alcuni commissari suggerissero di prevedere e disciplinare l’ipotesi di ‘‘dovere di soccorso’’, che secondo una parte della dottrina sarebbe desumibile dall’art. 593 c.p. Rocco, la Commissione ha ritenuto che i rapporti fra il soccorso di necessità previsto dall’art. 39 e l’eventuale rilevanza di una figura di dovere di soccorso potessero trovare comunque adeguata soluzione nel quadro dei principi generali concernenti il concorso di norme. Non si è riprodotta la norma di cui all’art. 54, comma 3, c.p. Rocco ritenendo che essa, come le analoghe figure di cui agli artt. 48 e 86 c.p. Rocco, trovino adeguata soluzione nella applicazione delle norme generali sul concorso di persone nel reato.
— 609 — 5. In conformità a quanto è stato sostenuto da ampia parte della dottrina, l’uso legittimo delle armi è stato incisivamente ridisegnato rispetto al testo di cui all’art. 53 c.p. Rocco, come modificato dalla l. n. 152/1975; — la rubrica è stata cambiata in ‘‘uso legittimo della coazione’’, allo scopo di sottolineare fin dalla intestazione della norma che l’uso delle armi deve costituire l’extrema ratio, per cui le armi possono essere utilizzate soltanto quando la violenza o la resistenza alla autorità non può essere vinta con mezzi meno pericolosi; — all’espressione ‘‘pubblico ufficiale’’ è stata sostituita quella ‘‘forza pubblica’’, allo scopo di delimitare l’ambito soggettivo delle persone cui è consentito l’uso della coazione, ed eventualmente delle armi; — all’espressione ‘‘al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio’’ è stata sostituita quella ‘‘nell’adempimento di un dovere del suo ufficio’’, per chiarire che non è sufficiente il fine di adempimento, ma occorre una situazione oggettiva in atto di adempimento di un dovere di ufficio; — all’uso legittimo delle armi o di altro mezzo di coazione sono state imposte due condizioni: che ‘‘il fatto sia proporzionato alla situazione’’, che esso ‘‘non determini un concreto pericolo per la vita o per l’incolumità fisica di persone estranee’’; — è stata eliminata la parte della norma introdotta dalla legge di emergenza n. 152/1975 (i casi ivi considerati mantengono rilievo in quanto riconducibili alla legittima difesa); — non è stato riproposto, perché superfluo, il comma 2 dell’art. 53 c.p. Rocco, secondo cui la stessa disposizione si applica a qualsiasi persona che legalmente richiesta dal pubblico ufficiale gli presti assistenza. L’art. 40 comma 2 specifica che ‘‘l’uso delle armi non è consentito quando a realizzare l’obbiettivo è sufficiente l’impiego di un altro mezzo di coazione fisica meno pericoloso’’. A fortiori deve ritenersi che in caso di uso legittimo delle armi, queste devono essere utilizzate nel modo meno dannoso possibile. Qualche commissario ha proposto di specificare ulteriormente i limiti dell’uso delle armi o di altro mezzo di coazione in caso di inseguimento di un fuggitivo. La Commissione ha tuttavia ritenuto che tale situazione potesse già trovare adeguata soluzione nella previsione di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 40. 6. L’art. 41 ripropone, semplificata, la disciplina dell’eccesso colposo previsto dall’art. 55 c.p. Rocco. 7. L’art. 42 dispone che, quando non è specificato altrimenti dalla legge (come ad esempio nei casi di cui agli artt. 38 e 39), le cause di giustificazione sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute. 2.5. Delitto tentato. — 1. Un inventario dei principali profili dell’istituto del tentativo suscettibili di riforma può essere redatto ordinandoli in quattro grandi gruppi. Profili attinenti: a) al campo di applicazione del tentativo; b) alla struttura del tentativo; c) al trattamento sanzionatorio; d) alla disciplina degli istituti connessi o interferenti col tentativo (desistenza volontaria, recesso attivo). 2. Con riferimento al campo di applicazione della norma sul tentativo, la Commissione ha confermato la posizione assunta nel documento di base 15 luglio 1999, e cioè di non introdurre nessuna delimitazione di carattere generale dell’area di applicazione del tentativo continuando a prevedere in linea di principio la punibilità a tale titolo di tutti i delitti. 3. Con riferimento alla struttura dell’istituto, la Commissione, valutate le osservazioni emerse nel dibattito sul documento di base 15 luglio 1999, dopo ampia discussione ha deciso di confermare l’orientamento già assunto. La proposta di modificare la nozione di delitto tentato fornita dall’art. 56 c.p. Rocco risponde al proposito garantista di questo progetto di riforma di dotare di maggiore determinatezza possibile le norme di espansione della responsabilità, come appunto quelle sul tenta-
— 610 — tivo e sul concorso di persone nel reato, mediante un più rigoroso ancoraggio a requisiti di tipicità oggettiva, senza comunque dimenticare che la capacità regolativa di norme siffatte è sempre mediata dall’insopprimibile opera della giurisprudenza. La Commissione, convinta che i requisiti dell’idoneità e della univocità non siano in grado di fornire un criterio sufficientemente definito, e soprattutto oggettivo, di delimitazione dell’area della attività punibile, e consentono di fatto al giudice eccessiva libertà nella determinazione di contenuto e limiti dell’istituto e nell’anticipazione dell’inizio dell’attività punibile, ritiene opportuno ritornare, in sostanza, alla formula dell’inizio di esecuzione prevista dai codici penali liberali. Pur non costituendo ‘‘formula magica’’ utilizzando la quale ogni problema di riduzione dei margini della discrezionalità giudiziale risultano risolti, essa ha comunque il pregio di mutuare, per così dire, la tipicità del tentativo da quella della fattispecie di riferimento e di impedire un arretramento eccessivo dell’inizio della attività punibile. Tale proposta nel corso del dibattito che è seguito alla pubblicazione del documento di base 15 luglio 1999 ha ricevuto critiche isolate. Cionondimeno occorre prenderle in considerazione in ragione del loro collegamento a principi fondamentali del sistema penale. Costituisce infatti opinione abbastanza diffusa che l’attuale norma sul tentativo esprima oggi adeguatamente una concezione del reato fondata sulla offesa del bene giuridico, che nel tentativo verrebbe appunto esplicitata attraverso il riferimento al pericolo insito nel requisito dell’idoneità, ed in quanto tale sarebbe in grado di soddisfare altrettanto adeguatamente alle esigenze di tipizzazione della fattispecie. Se è vero che atto idoneo significa atto concretamente pericoloso, e pertanto teoricamente offensivo (in termini di pericolo) del bene giuridico, la Commissione dubita che nella realtà tale elemento sia tuttavia in grado di assolvere alle esigenze di sufficiente tipizzazione della fattispecie generale del tentativo, tanto più che il giudizio deve necessariamente avvenire ex ante sulla base degli incerti parametri dell’uomo medio di categoria, integrati dalle particolari capacità del singolo soggetto agente. E osserva che, essendo la idoneità riferibile pure a fattispecie di reato prive di contenuto offensivo per il bene giuridico, anche come indice di una concezione del reato necessariamente fondata sulla offesa del bene protetto la sua efficacia appare tutt’altro che sicura. Il requisito della univocità si rivela d’altronde a sua volta inadeguato rispetto all’obbiettivo di una maggiore tipizzazione del tentativo. Invero, la nozione di univocità degli atti non solo si presta alla alternativa tra interpretazione in chiave oggettiva ed interpretazione in chiave soggettiva, ma anche affermandone la natura oggettiva il parametro di determinazione del grado di sviluppo esecutivo necessario e sufficiente alla esistenza del tentativo rimane concettualmente indeterminato. Attenta considerazione merita, per altro verso, la proposta formulata in sede di dibattito sul documento di base 15 luglio 1999 di mantenere il requisito della univocità in aggiunta a quello dell’inizio di esecuzione. Ciò allo scopo di risolvere i casi in cui ‘‘persino l’inizio della condotta tipica può non denotare ancora il carattere oggettivamente non equivoco degli atti’’ (si fa l’esempio di una violenza che potrebbe essere esecutiva di una molteplicità di fattispecie). A tale considerazione si può tuttavia obbiettare che, in ogni caso, la constatazione della tipicità oggettiva della condotta di tentativo presuppone necessariamente l’accertamento della finalità criminosa, con la conseguente individuazione della fattispecie ‘‘di riferimento’’. 4. Determinatasi a costruire la fattispecie di delitto tentato sul modello dell’inizio di esecuzione, con l’ulteriore pregio di allineare così la legislazione penale italiana alla maggioranza delle legislazioni europee, la Commissione si è posta un ulteriore problema. Come è noto, il vantaggio rilevabile sul terreno di una maggiore delimitazione concettuale della condotta punibile viene in qualche modo controbilanciato dalla impossibilità di ricondurre all’inizio di esecuzione gli atti che, pur essendo totalmente atipici, sono però immediatamente antecedenti all’inizio di esecuzione, e con riferimento a molti dei quali si pone concretamente una esigenza di punibilità. Era stata d’altronde proprio la denuncia di questa esigenza (o di esigenze simili) a giustificare nel 1930 la scelta di abbandonare la formula dell’inizio di
— 611 — esecuzione utilizzata dal codice penale Zanardelli con quella dell’idoneità ed univocità degli atti. Il diritto comparato offre tuttavia esempi di soluzioni legislative che tendono a conciliare le contrapposte esigenze di tipizzare le fattispecie penali attraverso la utilizzazione del criterio dell’inizio di esecuzione della condotta tipica, e di non creare vuoti di tutela utilizzando in una dimensione troppo rigida tale criterio. Nel codice tedesco del 1975 ed in quello austriaco del 1974, ad esempio, il criterio base di individuazione della condotta rilevante come tentativo continua ad essere costituito dal concetto di ‘‘esecuzione della fattispecie’’, ma la soglia di punibilità è anticipata agli atti che precedono ‘‘direttamente’’ e ‘‘immediatamente’’ quelli esecutivi; analogamente il codice portoghese equipara agli atti esecutivi ‘‘quelli che, secondo la comune esperienza, sono di natura tale da far prevedere che ad essi seguano’’ gli atti esecutivi. La Commissione ha ritenuto che questa sia la strada preferibile, in grado di conciliare le sopramenzionate contrapposte esigenze, optando per il criterio sussidiario della ‘‘immediatezza’’ in quanto dotato, più di altri possibili, di efficacia delimitativa. Nella scelta è stata attentamente considerata, per la autorevolezza della fonte, la posizione manifestata dalla Commissione della Cassazione. Dimostrato ‘‘favore al ritorno alla formula dell’inizio di esecuzione’’, condiviso ‘‘il rilievo sulla insufficienza della proposta contenuta nello schema Pagliaro della semplice aggiunta dell’avverbio ‘oggettivamente’ ai requisiti degli atti idonei diretti in modo non equivoco’’, essa ha soggiunto che ‘‘può ritenersi, in questo contesto, superabile la preoccupazione che siffatta scelta lasci fuori dell’area della punibilità atti che, pur essendo atipici, sono però immediatamente antecedenti all’inizio dell’esecuzione, posto che una tale conseguenza costituisce conseguenza calcolata ed inevitabile di una scelta di garanzia operata e posto, peraltro, che una qualche soluzione di intervento ‘sanzionatorio’ potrebbe essere in tali casi individuata sul terreno del ricorso alle misure di sicurezza (in conformità a quanto previsto per le ipotesi di reato impossibile)’’. La Commissione, pur riconoscendo che quanto enunciato riflette una posizione di massima garanzia per l’imputato, ritiene che esigenze di difesa sociale inducano ad optare comunque per la soluzione proposta (leggermente) estensiva dell’area di punibilità a titolo di delitto tentato. Soggiunge che fare riferimento all’applicazione di misure di sicurezza contraddirrebbe d’altronde scelte chiaramente operate, in generale oltre che nei confronti del reato impossibile, di eliminazione, o comunque di forte riduzione, dell’impiego di tale tipo di sanzione penale. L’art. 43, comma 1, per il quale ‘‘chi intraprende l’esecuzione di un atto previsto dalla legge come delitto, o si accinge ad intraprenderla con atti immediatamente antecedenti, risponde di delitto tentato se l’azione non si compie o l’evento non si verifica’’ costituisce il risultato delle riflessioni predette. 5. In materia di dolo la Commissione si è limitata a prendere atto che vi è consenso pressoché generalizzato, in giurisprudenza come in dottrina, circa la incompatibilità fra dolo eventuale e tentativo, il che, secondo il parere espresso dalla Commissione della Cassazione sul documento di base 15 luglio 1999, ‘‘consente di evitare una specifica previsione normativa’’. 6. L’art. 43, comma 2 prevede che ‘‘il colpevole è punito con la pena prevista per il delitto consumato diminuita da un terzo alla metà’’. La sostituzione della indicazione dei due terzi con quella della metà risponde all’orientamento generale di circoscrivere per quanto possibile la discrezionalità giudiziale nella commisurazione della pena. 7. L’art. 43, comma 3, prevede che ‘‘la punibilità per delitto tentato è esclusa quando, per l’inidoneità della condotta o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile la consumazione del delitto’’. La riproposizione della norma sul reato impossibile (limitata ai delitti, e specificamente inserita all’interno della disciplina del tentativo) è apparsa utile allo scopo di contribuire ulteriormente alla delimitazione dell’area della punibilità, enunciando formalmente che se la consumazione del delitto risulta impossibile a causa della inidoneità (ex
— 612 — ante) della condotta, o dell’inesistenza dell’oggetto materiale della stessa, il soggetto non può essere comunque soggetto a pena, anche se ha iniziato la esecuzione di una condotta tipica. Nel quadro di una scelta generale in tema di utilizzazione delle misure di sicurezza, si è comunque eliminata la norma prevista nel comma 3 dell’art. 49 c.p. Rocco. 8. Per quanto concerne gli istituti della desistenza volontaria e del recesso attivo, è parso cogliere un consenso generalizzato, avallato pure dal parere della Commissione della Corte di cassazione, alla loro parificazione sul terreno della non punibilità. In questa prospettiva, anche considerato il panorama europeo, in cui tale parificazione costituisce principio ampiamente riconosciuto, la Commissione ha formulato l’art. 44, comma 1, che prevede che ‘‘la punibilità per delitto tentato è esclusa quando l’autore volontariamente desiste dalla condotta o impedisce la realizzazione dell’evento’’. Considerato il panorama europeo, in cui pure è diffusa la previsione della non punibilità nei casi in cui, nonostante il ravvedimento dell’autore, il reato non sia venuto a consumazione per altre cause, la Commissione ha formulato l’art. 44, comma 2, che prevede che ‘‘la punibilità è altresì esclusa quando, in presenza di un volontario ed idoneo ravvedimento dell’autore, l’evento non si realizza per altra causa’’. L’art. 44, comma 3, si preoccupa di precisare che ‘‘resta salva la punibilità degli atti compiuti che costituiscono un diverso reato’’. 2.6. Concorso di persone nel reato. — 1. La Commissione ha affrontato il problema di una relativa tipizzazione delle condotte punibili a titolo di concorso di persone nel reato. Costituisce infatti opinione largamente condivisa che l’accoglimento della soluzione causale nei termini generici espressi dall’art. 110 c.p. Rocco ha dato luogo a pessima prova, determinando un eccessivo deficit di tassatività e di tipicità delle fattispecie concorsuali, ed una corrispondente eccessiva discrezionalità applicativa del giudice nella individuazione delle condotte penalmente rilevanti, con il risultato di una eccessiva, talvolta incontrollata ed arbitraria, dilatazione della responsabilità a titolo di concorso di persone nel reato. Una discrezionalità che, come ha osservato la Commissione della Cassazione che ha espresso un parere sul documento di base 15 luglio 1999, rischia ‘‘addirittura di far ritenere passibile di eccezione di costituzionalità l’intero capo III del titolo IV nel nostro codice’’. Occorre dunque procedere ad una tipizzazione delle condotte punibili che, pur evitando schematismi eccessivi, i quali rischierebbero, all’eccesso opposto, di escludere dall’area della responsabilità penale contributi causali alla realizzazione del reato che sarebbe fuori luogo lasciare impuniti, costringa comunque il giudice a rilevare effettivamente, verificare con attenzione, e motivare adeguatamente, la presenza e il tipo di apporto causale alla realizzazione del reato di ciascun concorrente. In questa prospettiva la Commissione ha riproposto la definizione che aveva già indicato in via esemplificativa nel documento di base: ‘‘concorre nel reato chiunque partecipa alla sua esecuzione, ovvero determina o istiga altro concorrente, o ne agevola l’esecuzione fornendo aiuto o assistenza’’ (art. 45, comma 1), ritenendo che essa configuri tipi di concorso sufficientemente elastici, tali da non rischiare di circoscrivere arbitrariamente l’area della punibilità creando vuoti di tutela, comunque idonei ad assicurare quella esigenza di provare la realizzazione di un apporto causale significativo che costituisce presupposto indispensabile di tipicità della disciplina del concorso di persone nel reato. Avendo, in questa scelta, il conforto autorevolissimo del parere predisposto dalla Commissione della Corte di cassazione. La Cassazione infatti, giustamente preoccupata della eccessiva rigidezza di un sistema di ‘‘dettagliata elencazione’’ dei tipi di concorso che poteva trasparire dalla lettura di parte del documento di base, ha significativamente osservato che ‘‘la soluzione prospettata ‘in via esemplificativa’ può costituire (invece) una soluzione senz’altro accettabile sul terreno di una ragionevole mediazione fra esigenze di (un minimo di) determinatezza ed inevitabili margini di prudenziale genericità nella configurazione delle condotte concorsuali. Non può certo affermarsi che la formula proposta contenga — come in premessa richiesto — una ‘dettagliata’ elencazione dei ‘tipi’ di condotta concorrente (restando innegabile la persistente
— 613 — genericità delle formule della ‘partecipazione’, della ‘agevolazione’, del ‘rafforzamento’, ecc.), ma non vi è dubbio che essa appaia sufficientemente esaustiva sul piano di quel minimo di determinatezza necessario ai fini del rispetto del principio di tassatività e tipicità legale’’. Questa tipizzazione è, da un lato, sufficientemente elastica per non creare vuoti di tutela, e nel contempo sufficientemente ‘‘orientativa’’ in sede di applicazione della legge penale: alla sua stregua il giudice sarà infatti in ogni caso obbligato a provare la esistenza di una reale determinazione o istigazione di altro concorrente, ed a motivare tale esistenza; sarà obbligato a provare la presenza di una agevolazione che si sia concretata in specifiche condotte di ‘‘aiuto o assistenza’’, e motivare tale esistenza, ecc. 2. L’art. 45, comma 2, prevede che ‘‘ciascun concorrente risponde nei limiti della sua colpevolezza’’. In questo modo la Commissione ha recepito la posizione, ormai pressoché pacifica, che esclude che fra i concorrenti debba esservi identità di elemento soggettivo, e ritiene che, verificata oggettivamente la realizzazione di un reato in conseguenza dell’apporto di più persone, nel momento in cui si verifica la posizione di responsabilità penale di ciascuna di esse ciascuna risponderà appunto nei limiti della sua colpevolezza individuale. L’art. 45, comma 3, prevede che ‘‘le disposizioni sul concorso di persone si applicano anche se taluno dei concorrenti non è imputabile o non è punibile per cause personali’’. Si tratta di una disposizione che conferma la linea testè evidenziata della diversità dei piani in cui si pone il problema della individuazione se si è verificata una situazione oggettiva di concorso di persone nel reato e quello dell’individuazione della responsabilità penale dei concorrenti. La Commissione non ha ritenuto di prevedere espressamente che colui che determina persona non imputabile o non punibile ‘‘ne risponde’’ (così, invece, art. 111, comma 1, parte 1, c.p. Rocco), valutando che la responsabilità si ricavi direttamente dall’applicazione dell’art. 45, comma 1, che configura la responsabilità penale di ogni ipotesi di dolosa ‘‘determinazione o istigazione di altro concorrente’’ (per analoga soluzione nei confronti delle norme previste dagli artt. 48, 54 comma 3, 86 c.p. Rocco, v. retro, n. 2.4., § 4). A differenza di quanto previsto dai progetti Pagliaro e Riz, ha ritenuto di non riproporre neppure la figura della cooperazione nel delitto colposo, in quanto la punibilità in tali casi si ricava agevolmente dal combinato disposto della norma che prevede il concorso di persone e di quelle che prevedono i singoli reati colposi; nonché di non prevedere una figura di concorso doloso in fatto colposo altrui, che trova anch’essa adeguata soluzione nella applicazione dei principi generali in materia di concorso di persone nel reato e di responsabilità soggettiva, ed una figura di concorso colposo in fatto doloso altrui, la cui specifica rilevanza è negata da univoche prese di posizione assunte dalla giurisprudenza. 3. In tema di trattamento sanzionatorio la Commissione ha ritenuto che, in conformità a quanto previsto dalla maggioranza dei codici penali europei, occorra differenziare la pena a seconda del tipo di partecipazione alla realizzazione del reato. In linea generale lo specifico tipo di apporto prestato rileverà sul terreno della determinazione in concreto della pena entro i limiti edittali previsti. Come aveva già previsto il progetto Pagliaro, pare tuttavia opportuno collegare a specifiche modalità concrete di operare del concorrente la previsione di circostanze attenuanti e aggravanti, che consentono di parametrare in modo più penetrante la pena applicabile in concreto allo specifico apporto prestato all’esecuzione criminosa. In questa prospettiva l’art. 46, comma 1, prevede che ‘‘la pena è diminuita per le condotte attive di rilevanza oggettivamente modesta’’; questa formula è stata ritenuta più adatta del concetto di ‘‘minima importanza’’ utilizzato dall’art. 114, comma 1, c.p. Rocco a rappresentare la natura del contributo personale che giustifica una speciale diminuzione di pena (parere conforme della Commissione della Cassazione sul documento di base). L’art. 46, comma 3, prevede a sua volta che ‘‘la pena è aumentata a carico degli organizzatori e dirigenti dell’attività criminosa, nonché di coloro che abbiano determinato al reato persone a loro soggette o totalmente o parzialmente incapaci’’, sostituendo in questo modo la ridon-
— 614 — dante disciplina delle circostanze di cui al c.p. Rocco con una disciplina più semplice, ed eliminando la figura del numero delle persone, che senza risultare particolarmente utile aveva determinato una serie di problemi interpretativi ed applicativi con riferimento a numerosi reati. L’art. 46, comma 2, prevede che ‘‘la pena può essere diminuita per le condotte omissive di concorso nel reato commissivo doloso, fuori dei casi di previo accordo’’. La Commissione, rilevato che la consapevole inerzia da parte del titolare di una posizione di garanzia rispetto alla realizzazione di un reato rileva penalmente secondo i principi generali anche al di fuori di previo accordo con gli autori del reato, ha considerato espressamente tale ipotesi nel capo relativo al concorso di persone nel reato disponendo che essa, a cagione della sua potenziale marginalità, possa dare luogo ad una specifica diminuzione di pena. Questa posizione è stata condivisa dalla Commissione della Procura Generale presso la Cassazione nel parere sul documento 15 luglio 1999. 4. Trattando dell’istituto del reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, nel documento di base la Commissione aveva affermato che la disciplina vigente di cui all’art. 116 c.p. Rocco, pur interpretata secondo le indicazioni della sentenza n. 42/1964 della Corte costituzionale, costituisce espressione tipica di responsabilità penale anomala. In questa prospettiva aveva suggerito la eliminazione dell’istituto di parte generale, affidando eventualmente a disposizioni di parte speciale la salvaguardia di specifiche esigenze di tutela penale che dovessero profilarsi in materie quali i delitti contro la persona, la rapina, o altre ipotesi ‘‘nominate’’. Se proprio si volesse ‘‘mantenere una (sostanzialmente inutile) disciplina di carattere generale, aveva soggiunto, essa non potrebbe che riflettere i principi generali sulla responsabilità soggettiva (ciascuno dei concorrenti risponde nei limiti della sua colpevolezza; se è commesso un reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, questi ne risponde quando nel suo comportamento sia ravvisabile la colpa, ed il fatto sia previsto come reato colposo)’’. In sede di stesura dell’articolato, dopo ampia discussione, avendo percepito alcune reazioni alla posizione abolizionista della disciplina della responsabilità penale di chi ha voluto un reato diverso da quello realizzato dai concorrenti, la Commissione ha deciso a maggioranza di inserire comunque nel codice una disposizione di parte generale concernente tale situazione. La norma enunciata, conformandosi doverosamente al principio di colpevolezza, non fa tuttavia altro che riflettere quanto sarebbe risultato in ogni caso sulla base dell’applicazione dei principi generali sulla responsabilità penale: l’art. 47 comma 1 prevede infatti che ‘‘se è commesso un reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, questi ne risponde quando il reato sia a lui imputabile a titolo di colpa, sempre che il fatto sia preveduto dalla legge come reato colposo’’, l’art. 47, comma 2, prevede a sua volta che ‘‘se oltre il reato diverso risulta commesso anche il reato voluto, si applica la disciplina del concorso di reati’’. La Commissione ha confermato la prevista eliminazione della norma contenuta nell’art. 117 c.p. Rocco. 5. L’art. 48 riafferma espressamente, per ragioni garantiste, il principio di non punibilità dell’accordo per commettere un reato non seguito dalla commissione dello stesso e della istigazione a commettere un reato quando l’istigazione è stata accolta ma il reato non è stato commesso. Seguendo quanto già stabilito con riferimento al reato impossibile (retro n. 2.5, § 7), non ha tuttavia previsto la applicabilità di misure di sicurezza, ipotizzata invece dall’art. 115 c.p. Rocco con una disposizione rimasta priva di applicazioni concrete. 6. In tema di ravvedimento del concorrente il quadro europeo rivela, analogamente a quanto accade con riferimento agli istituti della desistenza volontaria e del recesso attivo, una accentuazione dell’ambito della non punibilità, riconosciuta non solo quando si sia determinato l’impedimento del reato, ma anche quando il concorrente si sia limitato ad attivarsi in modo serio senza riuscire nell’intento. In questa prospettiva l’art. 49, comma 1, prevede che ‘‘la punibilità è esclusa per il concorrente che volontariamente desiste, neutraliz-
— 615 — zando del tutto gli effetti della propria condotta’’; l’art. 49 comma 2 prevede che ‘‘la punibilità è altresì esclusa per il concorrente che abbia posto in essere un volontario e idoneo ravvedimento, quando il reato non viene a consumazione per altra causa’’; l’art. 49, comma 3, prevede che ‘‘resta salva la punibilità degli atti compiuti che costituiscono un diverso reato’’; l’art. 49, comma 4, dispone che ‘‘qualora il concorrente si adoperi volontariamente e in modo idoneo per impedire la consumazione del reato, ma questo sia nondimeno consumato, la pena è diminuita’’. 7. L’art. 50 ripropone in tema di applicazione delle circostanze e delle cause di giustificazione la disciplina configurata dai progetti Pagliaro e Riz, prevedendo che ‘‘le cause di giustificazione e le circostanze oggettive, nonché le circostanze soggettive che sono servite ad agevolare la commissione del reato, hanno effetto per tutti coloro che sono concorsi nel reato’’. Si tratta di una scelta che recepisce le critiche rivolte dalla dottrina all’art. 118 c.p. Rocco e gli esiti interpretativi cui è pervenuta la più recente giurisprudenza, coinvolgendo in una disciplina unitaria quanto il c.p. Rocco disciplinava negli artt. 118 e 119. 8. La Commissione non ha ritenuto di disciplinare nella parte generale del codice penale l’istituto del c.d. concorso esterno in reato associativo, lasciando spazio alla applicazione delle norme generali sul concorso di persone, e condividendo l’opinione manifestata in particolare dalla componente forense della Commissione secondo cui una eventuale disciplina specifica della materia possa trovare una previsione più confacente alle esigenze di tipicità nella eventuale configurazione di fattispecie di favoreggiamento nella parte speciale del codice. Nonostante il suggerimento della Commissione della Corte di Cassazione, la Commissione non ha ritenuto di procedere ad una disciplina specifica dell’agente provocatore, ritenendo che si tratti di ipotesi in cui una regolamentazione rischierebbe di creare rigidezze non funzionali ad una razionale soluzione dei casi concreti. 3.
Pena.
3.1. Sistema delle pene. — 1. La Commissione ha elaborato il disegno di un sistema sanzionatorio largamente rinnovato, muovendo dalla condivisa convinzione della assoluta urgenza di una profonda revisione del sistema punitivo vigente, ritenuto deficitario sotto ogni aspetto: ineffettivo e (là dove applicato) vessatorio. L’obiettivo fondamentale, in vista del quale la riforma del sistema sanzionatorio è stata pensata, è quello di potenziare la capacità di risposta alle esigenze di prevenzione generale (capacità dissuasiva) e speciale (‘‘risocializzazione’’), nel rispetto dei principi di proporzione e di uguaglianza, e delle garanzie dei diritti della persona che costituiscono il fondamento inviolabile dell’ordinamento giuridico. Il disegno che qui viene presentato sottende un chiaro distacco dalla aspirazione autoritaria a realizzare una giustizia ‘‘assoluta’’ (sciolta da scopi) e vede nel diritto penale uno strumento di difesa delle condizioni di una civile e libera convivenza fra uomini di uguale dignità e con uguali diritti. La pena non è considerata come un valore o un fine in sé, ma come strumento, che in tanto si legittima in quanto necessario per la ‘‘tenuta’’ del sistema legale. I valori guida del sistema sanzionatorio — giustizia e certezza della risposta al reato — sono anch’essi visti come legati all’esigenza di tenuta e di credibilità del sistema, ed al rispetto del principio d’uguaglianza. La certezza da perseguire è, innanzi tutto, quella del law enforcement, come accertamento effettivo di reati e responsabilità. Quanto ai contenuti ‘‘di giustizia’’, gli istituti proposti intendono apprestare la cornice normativa di una prassi sanzionatoria i cui risultati siano: — razionali rispetto agli scopi di prevenzione generale e/o speciale; — accettabili come giusti, in relazione alla gravità dei fatti, alla colpevolezza dell’agente e agli altri elementi che possano venire in rilievo nel definire meritevolezza e bisogno di pena;
— 616 — — prevedibili, sulla base di criteri legali capaci di delimitare e orientare la discrezionalità giudiziale. Sotto tutti gli aspetti, la proposta si iscrive dunque entro l’orizzonte della tradizione liberaldemocratica, di matrice illuministica, con sviluppi coerenti con esigenze e principi del moderno Stato sociale (finalità ‘‘risocializzatrice’’ assegnata alla pena). 2. Su tutti i punti la Commissione ha discusso in modo approfondito, con piena consapevolezza dei bisogni ‘‘di sicurezza’’ provenienti dalla società (ma anche del peso di fattori emotivi e talora francamente irrazionali) e della complessità dei problemi. Costruire un sistema di strumenti idonei di prevenzione e repressione dei reati è un compito che non può mai ritenersi risolto una volta per tutte. Esso implica scelte di valore e bilanciamenti fra interessi contrapposti; i principi della Costituzione pongono vincoli e indirizzi, ma lasciano aperte alternative diverse alla discrezionalità politica (oltre che tecnica) del legislatore. Sul piano tecnico, una progettazione razionale esige conoscenze approfondite della realtà su cui si va a incidere, e prognosi d’efficacia degli strumenti progettati; il prodotto che si può offrire è una scommessa sul futuro, che chiede di essere fondata su buone ragioni, ma è sempre esposta alla verifica dei fatti. Le premesse del lavoro si ritrovano nel documento di base presentato nell’estate 1999, che peraltro non esauriva tutti gli argomenti, e lasciava aperte talune opzioni anche di rilievo. Durante i lavori diversi orientamenti sono stati motivatamente rettificati, anche alla luce delle osservazioni emerse nel corso del dibattito che è seguito alla pubblicazione del documento. Nella maggior parte dei casi sono maturate soluzioni condivise, talvolta di mediazione fra approcci diversi. Su qualche punto, anche di rilievo, le decisioni sono state adottate a maggioranza. Il disegno complessivo della riforma è comunque frutto di un lavoro comune e di una comune assunzione di responsabilità; esso viene sottoposto alla discussione come avvio di un processo aperto, che ha bisogno di verifiche, integrazioni ed eventuali correzioni. Si è già rilevato che, mentre le riforme della disciplina generale della legge penale e del reato hanno una loro autosufficienza, le riforme in materia di sanzioni sono indissolubilmente legate a interventi sulla parte speciale. La parte generale, individuando e disciplinando i diversi tipi di pena, costruisce modelli a disposizione del legislatore ‘‘di parte speciale’’; è dall’uso che questi ne farà, che dipenderà in ultima analisi il nuovo volto del sistema penale. Peraltro, già l’elaborazione dei modelli implica precise opzioni di politica del diritto, oltre che vincoli di coerenza per gli ulteriori, necessari interventi legislativi. 3. Fra le opzioni di fondo, unanimemente condivise, della revisione del sistema sanzionatorio c’è il superamento del sistema del ‘‘doppio binario’’ (pene e misure di sicurezza) che caratterizza, sulla carta, il codice Rocco. Dal binario delle misure di sicurezza sono stati recuperati, con consistenti modifiche, solo gli istituti relativi al trattamento dei soggetti non imputabili, e la confisca, cui viene riconosciuta una collocazione autonoma e di grande rilievo. Per il resto, il sistema delle misure del codice Rocco è stato abbandonato. Esso prefigurava interventi molto penetranti, svincolati dal criterio della proporzione con il reato; nella prassi non si è mai dimostrato vitale, ed è stato poi sostanzialmente svuotato dal superamento delle ‘‘presunzioni di pericolosità’’. È perciò parso naturale abbandonare istituti che uniscono una teorica potenzialità vessatoria a una pratica ineffettività. La risposta al reato — quale fatto offensivo di beni giuridici, colpevolmente commesso — è affidata alla sola pena, classicamente (e garantisticamente) intesa come reazione delimitata dalla proporzione con il reato, ma anche in grado di assumere le finalità (di prevenzione speciale) legittimamente assegnabili a misure ‘‘di sicurezza’’. 4. Il catalogo delle pene è strutturato in modo diverso che nel codice vigente (artt. 51 e 52), e si caratterizza per i seguenti aspetti, largamente innovativi: — eliminazione dell’ergastolo, che viene sostituito con la reclusione speciale da 25 a 30 anni;
— 617 — — riduzione dei limiti edittali massimi della reclusione (fino a 18 anni) e previsione di limiti edittali ragionevolmente moderati per tutti i tipi di pena; — introduzione della detenzione domiciliare come nuova pena principale; — introduzione del lavoro di pubblica utilità come pena sostitutiva; — eliminazione della pena detentiva per le contravvenzioni; — strutturazione della pena pecuniaria secondo il sistema delle quote giornaliere, adottato in tutti i codici europei recenti; — ampia gamma di pene interdittive, che possono essere applicate sia come pene principali che come pene accessorie. La determinazione dei limiti delle diverse specie di pena risulta, come nel codice vigente, da un complesso di disposizioni, relative rispettivamente ai limiti minimo e massimo delle pene edittali che possano essere comminate nella parte speciale (art. 53), ai limiti modificati da eventuali circostanze aggravanti (art. 70), ai limiti in caso di concorso di reati (art. 78). Come si è sopra osservato, per la concreta riforma del sistema sanzionatorio un nuovo catalogo delle pene non è che un punto di partenza: un arsenale di strumenti a disposizione del legislatore ‘‘di parte speciale’’, per le scelte relative a ogni singolo reato. Ciò non toglie che già le indicazioni della ‘‘parte generale’’ — con il proporre un catalogo ampio ed aperto di tipi di pena, e col ridurre i limiti edittali — additino un preciso indirizzo di politica sanzionatoria, verso un sistema che cerchi di prendere sul serio l’idea del punire come extrema ratio, e riduca al minimo, in particolare, il ricorso alla pena carceraria, sia con riferimento alla qualità ed al numero dei reati cui essa risulterà applicabile, sia con riferimento alla quantità della sua irrogazione (che si vorrebbe generalmente meno elevata già sul terreno della previsione edittale, e caratterizzata da una minore forbice fra minimo e massimo). Funzionale a questo indirizzo è anche il tentativo di rivitalizzare la pena pecuniaria, con una profonda modifica strutturale che dovrebbe renderla, ad un tempo, più equa e più effettiva. Le applicazioni ‘‘di parte speciale’’ potranno essere diverse, anche in funzione delle scelte relative ai diversi campi di materia (ai diversi interessi da tutelare). La novità del modello proposto ne accentua inoltre, per così dire, il profilo ‘‘sperimentale’’: saranno le concrete applicazioni di parte speciale a consentire una verifica della funzionalità dei singoli istituti, e in particolare della congruità dei diversi tipi di pena rispetto alle diverse tipologie d’illecito. Va da sé che in assenza di indicazioni generali di segno contrario, il legislatore di parte speciale sarà libero di prevedere nei confronti dei singoli reati una sola pena, ovvero pene diverse congiunte o alternative. 5. La questione dell’ergastolo è stata oggetto di viva discussione. Il documento di base aveva lasciato aperta l’alternativa fra il mantenimento dell’ergastolo e la sostituzione con una pena detentiva a scadenza definita, più severa della ‘‘normale’’ reclusione. L’esigenza di pervenire ad una proposta compiutamente delineata ha indotto a sciogliere l’alternativa. Entro la Commissione sono state sostenute posizioni diverse: agli estremi opposti, l’opinione della illegittimità costituzionale dell’ergastolo, per asserito contrasto con il principio della rieducazione, e quella della necessità non solo di mantenerlo come pena edittale, ma di renderne effettiva l’esecuzione. La maggioranza della Commissione ha ritenuto che il principio della rieducazione richiede comunque la possibilità che la pena venga a cessare, in funzione di progressi del condannato sulla via della effettiva ‘‘rieducazione’’. Purché sia fatto salvo questo principio, il mantenimento dell’ergastolo potrebbe risultare costituzionalmente legittimo, ovviamente alle condizioni che lo hanno fatto ritenere tale dalla Corte costituzionale (sent. n. 168/1994). Posta la necessità di prevedere comunque, a condizioni ben definite, la possibile cessazione dell’esecuzione, l’alternativa fra l’ergastolo e una pena detentiva lunghissima appare questione di rilievo prevalentemente simbolico. L’opzione per la abolizione dell’ergastolo è parsa preferibile, a larga maggioranza, appunto come indicazione simbolicamente forte e chiara a favore di un sistema sanzionatorio
— 618 — fondamentalmente ispirato all’idea di una risocializzazione possibile, anche con riguardo agli autori dei delitti più gravi, e contro ogni irrigidimento secondo criteri astrattamente ‘‘retributivi’’, che rischiano in realtà di veicolare istanze di pura vendetta. Alla proposta di abolire l’ergastolo, la Commissione è pervenuta pur nella consapevolezza dei rischi che essa non sia ben compresa, o non accettata per timori di indebolimento della difesa dai delitti più gravi. Il testo presentato dovrebbe porre al riparo da simili timori. La pena formalmente ‘‘a vita’’ è sostituita (sul modello del disegno di legge all’esame del Parlamento) con una pena di lunghissima durata, formalmente differenziata dalla ‘‘normale’’ reclusione: una ‘‘reclusione speciale’’ da 25 a 30 anni, che equivale praticamente alla previsione di una pena a vita, e che anche sul piano simbolico dovrebbe essere idonea a veicolare la valutazione di ’massima gravità’ dei delitti per i quali sia stabilita. La Commissione segnala al legislatore ‘‘di parte speciale’’ l’esigenza che una pena così prolungata abbia un ambito di applicabilità ristrettissimo: per es., gravissimi delitti contro lo Stato che abbiano comportato atti di volontaria aggressione contro la vita delle persone; omicidio premeditato, o commesso con crudeltà, o legato da nesso teleologico con altri reati. Resta esclusa in ogni caso l’applicabilità ai minori di 18 anni (art. 92, comma 3). 6. A proposito delle pene detentive, si è ritenuto opportuno proclamare espressamente nel codice penale alcuni principi cardine, relativi alle modalità e alle finalità dell’esecuzione, dalla cui scrupolosa osservanza dipende la civiltà del sistema penitenziario (art. 54). Viene previsto, in via generale, che le pene detentive debbono essere espiate negli stabilimenti a ciò destinati, separati da quelli destinati all’esecuzione di misure cautelari. Gli stabilimenti destinati all’esecuzione delle pene detentive debbono essere idonei ad assicurare il rispetto della dignità e della riservatezza personale. Il regime di esecuzione deve rispettare la dignità e la riservatezza della persona. Non sono ammesse restrizioni dei diritti del condannato fuori dei casi e dei limiti stabiliti dalla legge. Precise indicazioni finalistiche nel senso della funzione rieducativa sono date dalle disposizioni in materia di commisurazione della pena e di altre decisioni discrezionali del giudice (artt. 71 e 72), nonché nelle disposizioni relative al trattamento dei minori e delle altre persone in stato di capacità ridotta (artt. 87 e 91). La concreta attuazione dei principi posti dal codice richiede scelte coerenti in sede di ordinamento penitenziario e di concreta politica penitenziaria, anche al di là di quanto possa essere ricondotto a categorie giuridiche ben definite. Le disposizioni di principio, peraltro, dovranno essere considerate dagli applicatori come norme di legge vincolanti, dalle quali derivano precisi diritti dei condannati, e doveri di conformazione dell’esecuzione penale che l’ordinamento penitenziario ha il compito di concretizzare in disposizioni più specifiche. 7. Di nuovo inserimento, nel catalogo delle pene, è la detenzione domiciliare: istituto nato nell’ordinamento penitenziario, e recentemente recepito nello schema di legge delega sulla competenza del giudice di pace. La proposta di farne una pena principale, ritenuta adatta per reati di non elevata ma non insignificante gravità, trae origine dalla condivisa preoccupazione di ridurre l’ambito di applicazione della pena carceraria. In seno alla Commissione su questa proposta vi sono stati dissensi (come dissensi si erano d’altronde manifestati nel corso del dibattito che era seguito alla pubblicazione del documento di base 15 luglio 1999): dissensi non sull’utilizzazione come modalità esecutiva in situazioni soggettive particolari, sì invece sull’uso come pena edittale. In alternativa, si è prospettata l’ipotesi di introdurre la reclusione saltuaria o del fine settimana, sul modello di codici stranieri recenti. La Commissione ha scartato questa ipotesi, ritenendola poco praticabile, e ha tenuto ferma la proposta della detenzione domiciliare, già presentata nel documento di base. A conforto di questa scelta sta l’orientamento già maturato in sede di ordinamento penitenziario. A suo fondamento, l’esigenza pressante di ‘‘decarcerizzare’’ quanto più possibile. Secondo il testo proposto (art. 55) la detenzione domiciliare comporta l’obbligo di per-
— 619 — manenza continuativa nella propria abitazione, o in altro luogo indicato dal giudice. Quest’ultima possibilità tiene conto della condizione di chi non abbia un domicilio idoneo, ma possa essere altrimenti ospitato (per es., in comunità). Il giudice è legittimato ad autorizzare deroghe alla permanenza nel luogo indicato in ragione di inderogabili esigenze di vita del condannato. Per il caso di allontanamento dal luogo di permanenza obbligata, la soluzione preferibile è parsa quella di stabilire che la pena residua si converte automaticamente nella pena della reclusione. La Commissione tiene a precisare ulteriormente che nella disciplina dell’esecuzione della detenzione domiciliare occorrerà introdurre norme che tengano conto delle garanzie già oggi offerte dalle figure di cui agli artt. 47-ter ord. penitenziario e 284 c.p. 8. Per quanto concerne la pena pecuniaria, anche tenuto conto di alcune osservazioni critiche emerse nel corso del dibattito che è seguito alla pubblicazione del documento di base sulla disciplina prevista delle pene pecuniarie e sul ruolo che sembrava loro assegnato, il progetto di riforma recupera (art. 56) il modello della determinazione ‘‘per quote giornaliere’’, adottato nei codici europei recenti. La struttura del sistema emerge nelle disposizioni sulla commisurazione della pena (art. 73): il giudice determina il numero delle quote giornaliere (per così dire, la ‘‘durata’’ della pena pecuniaria) secondo le disposizioni generali in materia di commisurazione della pena, mentre determina l’importo della quota giornaliera in ragione delle condizioni economiche del condannato. Questa soluzione si è imposta nel corso dei lavori della Commissione, come la sola che teoricamente consente il raccordo fra la misura della sanzione e le condizioni economiche del condannato; dovrebbe quindi favorire, ad un tempo, una maggiore equità e una maggiore effettività. L’opzione per il sistema ‘‘a quote giornaliere’’ è perciò scaturita, pur nella consapevolezza delle difficoltà applicative che potrebbe comportare, dal tentativo di ricostruire un modello di pena pecuniaria che consenta di superare l’attuale grave crisi di effettività, e di fare della pena pecuniaria uno dei pilastri del rinnovato sistema sanzionatorio. La considerazione delle condizioni economiche concorre a determinare una misura della pena la cui afflittività per il condannato sia proporzionata al reato commesso. Sarebbe improprio attribuirvi valenza di misura correlata all’illecito arricchimento; a tal fine soccorre il diverso istituto della confisca. Nel sistema qui delineato, le comminatorie di pene pecuniarie elevatissime, che caratterizzano diversi recenti interventi legislativi, non hanno spazio né ragion d’essere. Sulla misura delle quote giornaliere, sono stati indicati un minimo di lire 5 mila (scendere al di sotto sarebbe eccessivamente lassista) e un massimo di un milione di lire, ritenuto idoneo a coprire le ipotesi di maggiore ricchezza. Rispetto alla situazione attuale, la determinazione degli importi delle quote giornaliere costituisce un problema nuovo e non facile, che coinvolge la discrezionalità del giudice, e per il quale è parso opportuno indicare qualche criterio orientativo. Si è perciò previsto (art. 73, comma 2) che la quota giornaliera deve essere determinata in modo tale da non pregiudicare le condizioni elementari di vita del condannato, e secondo un criterio di progressività in relazione alle condizioni economiche dello stesso. Non può essere determinata in misura tale che la pena inflitta incida sulle condizioni economiche del condannato in modo sproporzionato rispetto alla gravità del fatto. Coerente con la nuova struttura della pena pecuniaria è il criterio di ragguaglio con altre pene: una quota giornaliera di pena pecuniaria corrisponde a un giorno di pena detentiva o interdittiva. È prevedibile che, nelle applicazioni concrete, la determinazione delle quote giornaliere si attesterà prevalentemente sui livelli bassi, adeguati alle condizioni economiche della maggior parte della popolazione. Tendenzialmente, il sistema delle quote giornaliere comporta ammontari di pena pecuniaria non insignificanti per il condannato, ma sostenibili in relazione alla ‘‘durata’’. Si è per-
— 620 — ciò ritenuto opportuno prevedere (art. 74) come normale il pagamento rateale della pena pecuniaria eccedente le 30 quote giornaliere, ogni volta che il condannato ne faccia domanda. Al fine di facilitare il più possibile il pagamento, si è prevista anche la possibilità di una ulteriore diluizione della rateazione. Per converso, il mancato pagamento di una rata comporta la scadenza di tutte le rate residue. Al fine di recuperare un buon livello di efficienza della pena pecuniaria, si è infine imposto un ripensamento dei meccanismi di conversione per il caso di insolvibilità del condannato. Attualmente, la pena pecuniaria è una pena ineffettiva, e il meccanismo di conversione in libertà controllata è del tutto evanescente. Il testo proposto prevede (art. 75) una disciplina differenziata, secondo che l’insolvenza sia colpevole o incolpevole. Nel primo caso, si ritiene opportuno, e non illegittimo, un meccanismo di conversione che assicuri l’effettività della pena, e quindi una percepibile valenza di prevenzione generale e speciale. Come pene ‘‘da conversione’’ si è pensato alla semidetenzione, e (subordinatamente al consenso del condannato) al lavoro di pubblica utilità (art. 63). La Commissione ritiene che la disciplina proposta regga al controllo di legittimità costituzionale, in quanto la conversione è fatta dipendere dal fatto colpevole del condannato: non sarebbe più, dunque, una discriminazione in danno dei più poveri, come era invece nel sistema su cui è giustamente intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza n. 131/1979; ma sarebbe una conseguenza che chiunque è in grado di evitare, e che appare giustificata perché necessaria ad assicurare l’effettività della minaccia penale e della condanna. Per il caso (che dovrebbe essere l’eccezione) di insolvenza incolpevole perdurante nel tempo, la Commissione non ravvisa ragioni per una soluzione diversa da quella dell’estinzione della pena per decorso del tempo, secondo la regola generale. 9. Le pene interdittive possono essere, nel testo proposto, sia pene principali che pene accessorie. Il senso della distinzione si precisa nella disposizione dell’art. 65, che nel porre il principio di tassatività delle disposizioni sulla pena (ciascuna specie di pena si applica solo nei casi in cui sia espressamente stabilita) ne prevede una specificazione o deroga, con l’individuazione di ipotesi nelle quali certe pene interdittive ‘‘sono sempre applicate come pene accessorie’’, in aggiunta alla pena principale prevista dalla disposizione di parte speciale. Questa disposizione ha lo scopo evidente di assicurare alle pene interdittive un campo ‘‘naturale’’ di applicazione, in aggiunta a pene di natura diversa, indipendentemente da opzioni del legislatore di parte speciale sulla loro utilizzazione come pene principali in alternativa alle altre. Le pene interdittive sono di regola temporanee. Sono perpetue solo nei casi espressamente stabiliti dalla legge. La loro commisurazione segue le regole generali (art. 71, comma 1), e non il sistema ‘‘automatico’’ previsto dal vigente c.p. Rocco. La categoria delle pene interdittive per i delitti comprende l’interdizione da uno o più uffici pubblici, l’interdizione dagli uffici direttivi di persone giuridiche o imprese, l’interdizione da una professione o mestiere, l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione. Comprende inoltre il ritiro o sospensione della patente di guida; il divieto di allontanamento dal territorio dello Stato, o di una Regione, o di una Provincia, o di un Comune; il divieto di accesso a determinati luoghi. Pena interdittiva per le contravvenzioni è la sospensione da uno o più uffici pubblici, o da una professione o mestiere, o dagli uffici direttivi di persone giuridiche o imprese. La differente terminologia adoperata serve a tenere fermo il tradizionale criterio ‘‘formale’’ di distinzione fra delitti e contravvenzioni, ma non comporta alcuna differenza di disciplina: ‘‘interdizione’’ e ‘‘sospensione’’ sono disciplinate unitariamente, negli artt. 57, 58 e 59. I contenuti delle pene interdittive sono stati disciplinati sulla falsariga del diritto vigente, non senza modifiche. L’interdizione o sospensione temporanea dai pubblici uffici (art. 57) può essere limitata ad uffici nominativamente indicati (nella sentenza), e non comprende cariche elettive, se non nei casi specificamente previsti dalla legge. L’interdizione perpetua comprende invece qual-
— 621 — siasi ufficio pubblico, e comporta anche la perdita del diritto di elettorato passivo e la decadenza da qualsiasi carica pubblica. L’interdizione o sospensione da una professione o mestiere (art. 58) riguarda (salvo che la legge disponga diversamente) la professione o mestiere nel cui esercizio è stato commesso il reato. L’interdizione o sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese (art. 59) priva il condannato della capacità di svolgere attività d’impresa, e di esercitare qualsiasi ufficio che comporti poteri di direzione, controllo o rappresentanza della persona giuridica, o di rappresentanza dell’imprenditore, o di direzione o controllo nell’impresa. L’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione (art. 60) priva il condannato della capacità di stipulare contratti con i quali assuma la fornitura di beni o servizi alla pubblica amministrazione o ad imprese, in qualsiasi forma costituite, controllate dalla pubblica amministrazione. Priva altresì della capacità di ricoprire uffici direttivi in imprese o in società le quali abbiano posto in essere i contratti sopra indicati. Questi quattro tipi di pena interdittiva trovano una disciplina unitaria nella già citata disposizione (art. 74), che ne consente la applicazione come pene accessorie nel caso di condanna per reati commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti a un pubblico ufficio o servizio, o a un ufficio direttivo delle persone giuridiche o imprese, o a una professione o mestiere. In ciascuno di tali casi le pene sopra indicate possono essere applicate congiuntamente o disgiuntamente: ciò per la considerazione che gli abusi di potere o violazioni di dovere, caratterizzanti il reato commesso, possono essere significativi per tutte le attività cui le pene interdittive si riferiscono. Più ristretto è lo spazio delle altre pene interdittive. Il ritiro e la sospensione della patente si applicano nel caso di condanna per delitti commessi con violazione delle norme sulla circolazione stradale (art. 65). Il divieto di accesso a determinati luoghi ha il suo ambito tipico di applicazione (anche come pena accessoria) nel caso di condanna per reati la cui causa od occasione sia specificamente legata ad un determinato luogo (per es., la dimora di una certa persona) o a un determinato tipo di luogo (per es. gli stadi sportivi). In tal caso (art. 61) il divieto concerne i luoghi nei quali è stato commesso il reato, o nei quali abbia dimora o svolga la propria attività la persona offesa (fino a poter comprendere il territorio del comune). Una più ampia utilizzazione del divieto di accesso come pena principale, con riguardo a luoghi pubblici o aperti al pubblico destinati a manifestazioni sportive, spettacoli, attività ricreative di qualsiasi genere, dipende da scelte sanzionatorie puntuali del legislatore di parte speciale. Non è stata prevista una pena interdittiva relativa alla potestà dei genitori, essendosi preferito lasciare la materia degli interventi sulla potestà a provvedimenti del Tribunale per i minorenni nell’esclusivo interesse del minore. Completa il sistema delle pene la pubblicazione della sentenza di condanna (art. 62). Essa si applica, come pena accessoria, nel caso di condanna per delitti commessi col mezzo della stampa o di altro mezzo di comunicazione rivolta al pubblico o accessibile al pubblico. Si esegue in un sito appositamente costituito su di una rete telematica accessibile al pubblico dall’intero territorio nazionale, oltre che mediante pubblicazione, per estratto o per intero, su uno o più giornali che abbiano diffusione nel luogo del commesso reato, o mediante comunicazione del dispositivo via radio o televisione. Oltre che come pena, la pubblicazione della sentenza di condanna viene in considerazione come modalità di riparazione dell’offesa (art. 122 comma 3). 10. La Commissione è stata concorde sulla proposta di introdurre nell’arsenale sanzionatorio il lavoro di pubblica utilità, come pena sostitutiva delle pene detentive non superiori ad un anno e delle pene pecuniarie (art. 63). La qualificazione come pena sostitutiva presuppone la richiesta dell’imputato. Si tratta di istituto che, se bene attuato, potrebbe risultare appetibile, e acquistare uno
— 622 — spazio d’applicazione ampio, entro una fascia di reati non gravi per i quali appare risposta adeguata. La misura della prestazione ‘‘sostitutiva’’ è data dal criterio di ragguaglio con le pene di specie diversa: 4 ore di lavoro per giorno di pena ‘‘sostituita’’ (per es.: la sostituzione di una pena pecuniaria di 60 quote giornaliere comporterebbe 240 ore di lavoro sostitutivo). Ciò non significa che la prestazione debba essere effettuata nella misura di 4 ore giornaliere. Sulle modalità di esecuzione, viene proposto un modello flessibile: il giudice determina, col consenso del condannato, i tempi di svolgimento e le modalità della prestazione in modo che non ne risulti pregiudicata la normale giornata lavorativa e non ne derivi un carico di lavoro eccessivo. In caso di inosservanza, la pena sostitutiva si riconverte nella pena sostituita. In materia di lavoro di pubblica utilità non sono state al momento previste le necessarie norme di attuazione perché dovrebbe essere quanto prima emanata, con d.m., apposita normativa con riferimento all’analogo istituto previsto dalla legislazione in materia di competenza penale del giudice di pace, disciplina che potrà essere mutuata, o comunque adattata, nei confronti dell’istituto previsto dall’art. 63 c.p. 11. Una disposizione di mero rinvio alle leggi speciali è stata introdotta con riferimento all’espulsione dello straniero (art. 64). L’argomento è di viva attualità, in quanto connesso con il problema dell’immigrazione. In sede di parte generale del codice penale, è parso opportuno segnalare che l’istituto, già previsto da leggi speciali, viene considerato un istituto ‘‘normale’’ del sistema, e definirne la natura di pena accessoria o pena sostitutiva. 3.2. Circostanze aggravanti e attenuanti. — 1. Il testo proposto contiene, in continuità con la tradizione, una disciplina ‘‘di parte generale’’ delle circostanze aggravanti e attenuanti. In considerazione della funzione dell’istituto, esso è stato collocato (a costo di qualche improprietà) nel titolo sulla pena, in stretto raccordo con il tema della commisurazione. L’elaborazione della disciplina delle circostanze si è dimostrata di notevole complessità tecnica. L’obiettivo della riforma è stato concordemente individuato nella riduzione degli attuali amplissimi spazi di discrezionalità giudiziale. Esso è stato perseguito in più modi. A livello di fattispecie, si è cercato di realizzare uno sfoltimento del catalogo delle circostanze ‘‘di parte generale’’. Di particolare rilievo è l’eliminazione delle attenuanti generiche, la cui originaria funzione ‘‘equitativa’’ è stata sfigurata dalla prassi in un indulgenzialismo gestito in modi non uniformi e non controllabili. Quanto agli effetti delle circostanze, è stato introdotto, per le circostanze ad effetto ordinario, un criterio assai più restrittivo dell’attuale (art. 69, comma 2): gli aumenti o diminuzioni di pena corrispondenti a una circostanza ad effetto ordinario sono fino a un quarto della pena che il giudice applicherebbe in assenza di circostanze; se concorrono due o più circostanze aggravanti, ovvero due o più circostanze attenuanti, ad effetto ordinario, gli aumenti o le diminuzioni di pena sono complessivamente fino alla metà. La Commissione sottolinea con forza che queste proposte sono state pensate per un sistema sanzionatorio rinnovato, caratterizzato da cornici edittali più contenute e più conformi all’attuale sentire. Non possono intendersi come un possibile correttivo del sistema vigente, ma come avvio di una riforma che deve toccare l’intero sistema delle pene edittali. 2. Un catalogo di circostanze, aggravanti e attenuanti, ‘‘di parte generale’’, è stato mantenuto in conformità alla tradizione e per evitare lacune, nel contesto di un disegno che non tocca la parte speciale. È un catalogo complessivamente più ristretto di quello previsto dal vigente c.p. Rocco: sono state considerate soltanto ipotesi ben profilate, nelle quali appare plausibile l’opportunità di andare oltre i limiti edittali, mentre la valutazione di altre situazioni è stata lasciata alla discrezionalità del giudice entro la ‘‘normale’’ cornice della commisurazione della pena, Come circostanze aggravanti (art. 66) vengono considerati, in continuità con il diritto vigente, elementi che denotano una particolare gravità del reato: le fina-
— 623 — lità di più spiccato significato criminale (terrorismo, mafia, discriminazione razziale; nesso teleologico con altri reati); nei delitti che offendono il patrimonio, la particolare gravità del danno cagionato; nei delitti dolosi contro la persona, o comunque commessi con violenza alla persona, l’avere agito per motivi abietti o futili, o con sevizie; nei delitti colposi, l’avere agito nonostante la previsione dell’evento (questa ipotesi aggravante è stata mantenuta in ragione della soluzione restrittiva introdotta a proposito di dolo eventuale). Del sistema delle circostanze aggravanti fa parte anche la disciplina della recidiva (art. 67). L’effetto di aumento sulla pena è peraltro, nel sistema delineato, assai meno importante di altre conseguenze dell’avere già riportato condanna (vedi disciplina del concorso di reati e della sospensione condizionale). La maggior parte delle circostanze attenuanti comuni (art. 68) sono situazioni in cui è ridotta la colpevolezza dell’agente. Sono recuperate innanzi tutto le classiche ipotesi dell’avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale, o dell’avere reagito in stato d’ira determinato dal fatto ingiusto altrui (provocazione). Vengono poi introdotte ipotesi parzialmente nuove: l’avere commesso il reato perché indotto da persona alla cui autorità l’autore del reato era sottoposto; l’avere, nell’esercizio di una prestazione lavorativa subordinata, commesso il reato perché condizionato da disposizioni impartite da un superiore; l’avere commesso il fatto per evitare un pericolo grave di danno alla persona o al patrimonio, in una situazione particolare nella quale era sensibilmente diminuita la possibilità di tenere un comportamento conforme alla norma. Vengono qui evidenziate situazioni parzialmente scusanti che, nel diritto vigente, non trovano riconoscimento (se non eventualmente come ragione di concessione delle ‘‘generiche’’), ma che appaiono meritevoli di specifica considerazione. Vi sono poi la classica figura attenuante del danno lieve, e le circostanze relative a condotte successive al reato. Accanto alla tradizionale ipotesi del risarcimento, o dell’efficace attivarsi per elidere o attenuare le conseguenze del reato, si è ritenuto di poter dare rilievo attenuante, in termini generali, alla collaborazione con l’autorità inquirente nella raccolta di elementi decisivi per la individuazione o la cattura degli altri autori del reato, ovvero per il recupero delle cose che costituiscono il prezzo, prodotto o profitto del reato. 3. Per quanto concerne gli effetti delle circostanze, si è cercato di elaborare soluzioni tecniche atte ad evitare i difetti dell’attuale procedimento di commisurazione della pena, che è frammentato in una aritmetica sanzionatoria in cui non è dato ravvisare alcun contenuto razionale. A tal fine, in un primo momento è stata presa in considerazione l’idea di fissare sui limiti edittali l’incidenza di tutte le circostanze, comprese quelle ‘‘ad effetto ordinario’’ (la formula è nuova, ma autoesplicativa), e di recuperare il significato delle circostanze nell’ambito di un unitario procedimento di commisurazione, quali criteri ‘‘nominati’’. Difficoltà tecniche, e anche rischi di fraintendimento di un tale sistema, hanno infine portato a recuperare (per le circostanze ad effetto ordinario) il modello tradizionale degli aumenti o diminuzioni sulla pena in concreto inflitta (sia pure in misura più contenuta che nel diritto vigente). Per il caso di concorso di circostanze sia aggravanti che attenuanti, la Commissione era partita dall’idea dell’integrale superamento del sistema del bilanciamento. L’alternativa ipotizzata era quella dell’applicazione integrale di tutte le circostanze, con successivi aumenti e diminuzioni di pena. Come ha rilevato, fra gli altri, la Commissione della Procura Generale nel suo parere al documento di base 15 luglio 1999, tale soluzione è parsa però impraticabile, in quanto avrebbe esaltato i difetti della aritmetica sanzionatoria, frammentando (e complicando) eccessivamente il procedimento di commisurazione della pena. Per esclusione, si è recuperato parzialmente il sistema del bilanciamento (art. 69, commi 6 e 7): una soluzione non ottimale, ma che è parsa meno problematica e più facilmente comprensibile delle altre venute in discussione, e che alla luce della disciplina complessiva delle circostanze (eliminazione delle attenuanti generiche, sfoltimento delle circostanze generali, riduzione degli aumenti e delle diminuzioni di pena collegati alla presenza di circostanze, esclusione dal bilanciamento delle circostanze ad effetto speciale) evita gli eccessi di discrezionalità giudiziale che caratterizzano la disciplina vigente. Con una sorta di ritorno al sistema originario del codice Rocco, sono state riportate
— 624 — fuori del bilanciamento le circostanze ad effetto speciale: quelle per le quali l’aumento o diminuzione di pena è determinato in maniera autonoma, o in misura superiore al quarto. È stata quindi ripristinata la regola secondo cui, se una circostanza ad effetto speciale concorre con una o più circostanze ad effetto ordinario, gli aumenti o diminuzioni di pena corrispondenti alle circostanze ad effetto ordinario si applicano sulla pena in concreto determinata con riferimento alla circostanza ad effetto speciale. Un criterio nuovo è stato introdotto per l’ipotesi (forse solo teorica) che concorrano più circostanze aggravanti, ovvero più circostanze attenuanti, ad effetto speciale: si applica la circostanza che comporta l’aumento o la diminuzione maggiore, e le altre circostanze vengono applicate come se fossero circostanze ad effetto ordinario. Per il caso (forse pur esso solo teorico) che ricorrano circostanze ad effetto speciale sia aggravanti che attenuanti, e la legge non disponga diversamente, si è previsto che anche le circostanze ad effetto speciale possano eccezionalmente rientrare nel bilanciamento. Completa la disciplina delle circostanze la statuizione dei limiti di pena per il reato circostanziato (art. 70). 4. Il testo proposto non contiene disposizioni relative allo spinoso problema della distinzione fra reato circostanziato e titolo autonomo di reato. Tale problema dovrebbe, peraltro, risultare sdrammatizzato dalla nuova disciplina delle circostanze aggravanti ad effetto speciale: la sottrazione al ’bilanciamento’ rende stabile l’effetto aggravante. 3.3. Commisurazione della pena. — 1. La riforma proposta si prefigge l’obiettivo di ricostruire un rapporto equilibrato fra vincolo legale e discrezionalità giudiziale, e di assicurare la coerenza delle scelte sanzionatorie rispetto alle funzioni del sistema penale. Attualmente, la prassi della commisurazione della pena (sia in senso stretto, avendo cioè riguardo alla misura della pena inflitta, sia in senso ampio, avendo riguardo alle diverse scelte sanzionatorie) è dominio di una amplissima e difficilmente controllabile discrezionalità giudiziale. All’opzione per un modello di discrezionalità vincolata, pur leggibile negli artt. 132 e 133 del c.p. Rocco, corrisponde una prassi nella quale l’obbligo di motivazione è largamente eluso, e poco o punto leggibili sono i criteri seguiti dal giudice. Il rispetto del principio di legalità appare precario. Questa situazione, che la dottrina è unanime nel deplorare, è il frutto di cause molteplici, in parte radicate nel codice (carattere onnicomprensivo, e perciò ben poco orientativo, dei criteri ‘‘fattuali’’ enunciati dall’art. 133, e mancata indicazione di criteri finalistici), in parte aggravate dalle riforme dagli anni ’70 in avanti (novella del 1974, riforma penitenziaria, l. n. 689/1981) che hanno dilatato al massimo gli spazi di discrezionalità del giudice. Un effetto distorcente è infine ravvisabile nella struttura squilibrata delle pene edittali, rispetto alla cui severità l’intervento giudiziario si è posto spesso in chiave di (problematica) correzione equitativa. In conformità ad indirizzi dottrinali largamente condivisi, il testo proposto individua nella ‘‘colpevolezza per il fatto’’ il limite garantista invalicabile nella commisurazione della pena (art. 71, comma 2), e ne sottolinea il significato con la riaffermazione espressa che le valutazioni e decisioni sulle scelte sanzionatorie non possono essere piegate a esigenze di ‘‘esemplarità punitiva’’ o di risposta ad un ritenuto ‘‘allarme sociale’’ (art. 72, comma 2). Certo, il criterio della proporzione con la colpevolezza non è sufficiente a definire una misura punitiva ‘‘giusta’’ in assoluto. Ma potrà non essere (come non deve essere) una delega in bianco al giudice, se le cornici edittali ‘‘di parte speciale’’ sapranno definire tipi e livelli di pena adeguati a comprendere e differenziare le ‘‘gravità relative’’ dei reati commessi. I presupposti ‘‘fattuali’’ della commisurazione della pena recepiscono (art. 71, comma 3) alcune indicazioni del diritto vigente. Sono state eliminate categorie ambigue come il riferimento alla ‘‘capacità a delinquere’’. Il giudice dovrà valutare, innanzi tutto, la gravità del reato e delle sue conseguenze dannose, in quanto riflesse nella colpevolezza. Vengono in considerazione, a tal fine, l’intensità del dolo o il grado della colpa, e i motivi che hanno determinato la commissione del reato. Possono venire in rilievo le eventuali condotte di ripara-
— 625 — zione totale o parziale dell’offesa che il colpevole o altri per esso abbia tenuto dopo il fatto; i comportamenti del colpevole anteriori al reato, e le sue condizioni di vita al momento del fatto; i comportamenti successivi al reato, e le attuali condizioni di vita, possono essere presi in considerazione nella misura in cui siano rilevanti rispetto alle finalità di prevenzione speciale. 2. Pur non essendo un criterio ‘‘finalistico’’, il riferimento alla gravità del fatto e della colpevolezza offre una griglia di base per la commisurazione della pena secondo un criterio di graduazione razionale, entro la cornice segnata dalla determinazione legislativa delle pene edittali (e delle eventuali ragioni di aggravamento o diminuzione). Come criterio finalistico della commisurazione della pena, indicazioni desumibili dalla Costituzione (art. 27, comma 3) additano il primato della prevenzione speciale: nei casi in cui il commesso reato indichi un bisogno di ‘‘rieducazione’’ (sotto qualsiasi forma possa presentarsi: istruzione, terapia, formazione al lavoro, ecc.) il perseguimento della finalità ‘‘rieducativa’’ deve essere il criterio finalistico fondamentale della commisurazione della pena, e in genere delle scelte rimesse al giudice. Tale criterio, peraltro, incontra limiti segnati da altri principi e funzioni dell’ordinamento penale. Da un lato, il limite garantista segnato dal principio di colpevolezza: il perseguimento di obiettivi di ‘‘rieducazione’’ può giustificare un distacco dal criterio della proporzione fra pena e colpa, esclusivamente a favore del condannato. Dall’altro lato, un limite più flessibile è segnato dall’esigenza di tenuta del modello della prevenzione generale. Anche se, secondo il prevalente orientamento dottrinale, condiviso dalla Commissione, la prevenzione generale non può essere un criterio legittimo di commisurazione della pena, sta di fatto che essa è criterio fondamentale di legittimazione dell’ordinamento penale; e la Corte costituzionale ha affermato che ‘‘tra le finalità che la Costituzione assegna alla pena non può stabilirsi a priori una gerarchia statica ed assoluta che valga una volta per tutte ed in ogni condizione’’ (Corte cost. n. 306/1993). Individuare i punti di equilibrio fra prevenzione generale e prevenzione speciale rientra fra le scelte di politica del diritto rimesse alla discrezionalità del legislatore; e le soluzioni possono essere diverse per fasce di reati o di situazioni. Nella parte generale, esigenze di ’tenuta’ del modello generalpreventivo si concretizzano nella posizione di limiti di applicabilità degli istituti finalizzati alla prevenzione speciale. Per tutte le valutazioni non di carattere ‘‘commisurativo’’ in senso stretto, ma relative alla applicazione o meno di istituti ‘‘alternativi’’, è stato posto come esclusivo il criterio della prevenzione speciale, con una disposizione (art. 72, comma 1) che nel nuovo sistema aspira ad un ruolo chiave, e che, additando una precisa direzione finalistica, dovrebbe poter sfuggire allo svuotamento pratico cui è andato incontro il vigente art. 133 c.p. Rocco. Va da sé che la finalità di prevenzione speciale è, innanzi tutto, quella che la Costituzione definisce ‘‘rieducazione’’, e che il testo proposto definisce reintegrazione del condannato nella società. Essa comprende, peraltro, anche l’effetto di ammonimento che la sentenza dovrebbe avere nei confronti del condannato; esige dunque attenzione alla persona del condannato, ma non si identifica affatto in indulgenzialismo, né si contrappone alle esigenze di prevenzione generale, rettamente intese. 3. Alcune disposizioni consentono, a particolari condizioni, sostituzioni o esclusioni di pena. Recependo in parte un’indicazione dello schema Pagliaro, viene prevista (art. 76) la possibilità di esclusione facoltativa di pene concorrenti con la pena detentiva, ‘‘quando quest’ultima risulti sufficiente in relazione alla colpevolezza del reo e alle finalità di prevenzione speciale’’ (non si è prevista la possibilità di esclusione facoltativa della pena detentiva: è parso sufficiente prevedere la possibilità di non applicazione, nell’ambito e nei limiti della sospensione condizionale). L’art. 80 disciplina istituti relativi alla sostituzione di pene. La reclusione fino a un anno
— 626 — si esegue di regola in regime di semidetenzione; ciò può essere disposto anche per pene fino a due anni. Inoltre, il condannato a pena detentiva non superiore a un anno può ottenere (non più di due volte) che la pena detentiva sia sostituita con una prestazione di pubblica utilità, o con la pena pecuniaria, per un periodo di durata uguale alla pena detentiva inflitta. La disciplina di questi istituti è strettamente coordinata con quella della sospensione condizionale della pena, stante l’analoga funzione e l’incidenza nel medesimo campo. Per evitare incongruenze, si applicano alle pene sostitutive i medesimi obblighi che il nuovo sistema prevede per la sospensione condizionale della pena (art. 80, comma 6). I commi 7, 8 e 9 dell’art. 80 dettano regole sui rapporti fra sostituzione e sospensione della pena, in modo da evitare, da un lato, che la condanna a pena sostituita sia d’ostacolo alla condizionale, e dall’altro che la sostituzione di pena possa essere disposta in casi in cui la sospensione condizionale debba essere revocata. S’intende che, in forza del principio generale stabilito dall’art. 72, anche i provvedimenti in materia di sostituzione di pene debbono essere orientati alla finalità di prevenzione speciale. La discrezionalità ampia, che il sistema delineato comporta, è parsa giustificata dall’esigenza di prevedere istituti che consentano, fin dove possibile, di sostituire la pena detentiva con alternative ritenute idonee. Così ristrutturati i meccanismi di sostituzione delle pene detentive, viene meno la ragion d’essere delle pene sostitutive di cui alla l. n. 689/1981: istituti dimostratisi poco vitali, di cui si propone l’abrogazione (art. 7 delle disposizioni di coordinamento). 3.4. Concorso di reati. — 1. Nel capo relativo al concorso di reati, il testo messo a punto dalla Commissione, sciogliendo una alternativa lasciata aperta nel documento di base, propone il superamento del criterio del cumulo materiale, e la generalizzazione del criterio del cumulo giuridico, secondo la linea di tendenza prevalente nei codici europei recenti. L’adozione, nel codice Rocco, del cumulo materiale (temperato ‘‘dall’esterno’’, nel massimo, dal limite del quintuplo della pena per il reato più grave) è stata una scelta di grandissimo rigore, effettuata in coerenza con una complessiva concezione autoritaria, diversa da quella oggi prevalente nel movimento internazionale di riforma; una scelta, peraltro, largamente svuotata dalla novella del 1974, che ha riportato all’area del cumulo giuridico il concorso formale ed il ‘‘nuovo’’ reato continuato eterogeneo. Ragioni di equità, rilevanti anche sul piano della prevenzione speciale, additano l’esigenza di sostituire al criterio rigido del cumulo materiale criteri più flessibili, che consentano, ove occorra, di ricondurre il carico sanzionatorio complessivo entro limiti sostenibili, in rapporto alla qualità dei reati compresi nel cumulo, alla colpevolezza dell’agente e al corrispondente ‘‘bisogno di pena’’. Storicamente, il superamento del sistema del codice Rocco in punto di concorso di reati è già stato avviato dalla novella del 1974, con la fortissima dilatazione dell’ambito di applicazione del cumulo giuridico, che ha inglobato l’area del concorso formale e la nuova figura del reato continuato eterogeneo. Da un rapporto da eccezione a regola fra il principio del cumulo materiale e la limitata deroga del reato continuato omogeneo, siamo passati ad una ripartizione paritaria, fra due principi di uguale dignità e di ambito applicativo consistente, ma fra i quali è incerto e insoddisfacente il regolamento di confini. La persistenza di tensioni irrisolte è chiaramente leggibile nello slabbramento giurisprudenziale della figura del reato continuato, mediante interpretazioni estensive dell’unità di disegno criminoso. La tendenza, largamente diffusa fra i giudici di merito, ad un’estrema dilatazione del reato continuato — cioè dell’ambito di applicazione del cumulo giuridico — sottende una chiara resistenza ad applicare il criterio del cumulo materiale, ritenuto di eccessiva severità e rigidezza. Ed è una tendenza tanto più significativa, come indice di un sentire diffuso fra gli operatori di giustizia penale, quanto più precaria ne è la base normativa, e percepibile il rischio che, con la dilatazione applicativa del reato continuato, si finisca per dare un trattamento privilegiato a situazioni nelle quali il c.d. disegno criminoso unitario, sganciato da
— 627 — contesti decisionali ben definiti e stemperato in una generica scelta di delinquere, potrebbe caso mai costituire la base di un rimprovero di maggiore colpevolezza. Per tutte queste ragioni, la Commissione ritiene necessaria una riforma, fondata sulla generalizzazione del criterio del cumulo giuridico. 2. La disciplina proposta per il concorso di reati, imperniata sul principio del cumulo giuridico, è delineata nell’art. 77. Il criterio di base è quello attualmente valido per il concorso formale e il reato continuato: nel caso di condanna per più reati si applica la pena corrispondente alla violazione in concreto più grave, aumentata fino al triplo, e comunque non oltre la somma delle pene corrispondenti a ciascun reato. Di fronte alla irrisolta controversia se la violazione più grave, per la quale applicare la pena base, sia da determinare in astratto (con riguardo alla pena edittale) o in concreto, con riguardo alla pena inflitta, si è optato per quest’ultima soluzione, in quanto più adeguata al reale disvalore dei reati commessi. È parso opportuno stabilire che gli aumenti di pena si effettuino sulle diverse specie di pena corrispondenti ai diversi reati per cui è pronunciata condanna. È da escludere, dunque, che dal cumulo possano derivare trasformazioni di una specie di pena in un’altra. In conformità a un’indicazione che il documento di base riferiva al reato continuato, ma che è stata trasferita all’ambito complessivo del cumulo giuridico, si è prevista una misura minima dell’aumento corrispondente a ciascun reato unificato nel cumulo. Esso non può essere inferiore alla quarta parte del minimo (fermo restando il limite massimo del triplo). Ciò intende introdurre un elemento di relativa rigidezza, al fine di evitare prassi applicative eccessivamente lassiste, e circoscrivere in una certa misura la discrezionalità giudiziale. Per ogni effetto giuridico diverso dalla pena si ha riguardo ai singoli reati per i quali è stata pronunciata condanna (comma 4). 3. Anche nel nuovo sistema sono state mantenute (art. 78) le figure del reato continuato e del concorso formale, quali ipotesi ‘‘privilegiate’’ rispetto alla normale disciplina del cumulo giuridico, secondo una linea già adottata nel progetto Pagliaro. L’esigenza sottesa è di evitare l’applicabilità dell’aumento minimo obbligatorio per ciascun reato satellite, in situazioni che possono ragionevolmente valutarsi come un fatto unitario cui corrisponde, tendenzialmente, un significato criminale minore e un minore bisogno di pena. Tali situazioni sono state identificate nel concorso formale (reati commessi con un’unica azione o omissione) e nel reato continuato, definito però in termini restrittivi: non soltanto dall’unità di disegno criminoso, ma altresì dalla unità di contesto temporale. Non si è ulteriormente precisato questo criterio, apparendo preferibile lasciare spazio all’elaborazione giurisprudenziale. Oltre che nella esclusione del limite minimo degli aumenti per i reati ‘‘satelliti’’, il trattamento ‘‘privilegiato’’ si esprime nell’apposizione di un tetto più basso per l’aumento complessivo (fino alla metà, invece che fino al triplo). Inoltre, ai fini del cumulo giuridico con altri eventuali reati, reato continuato e reati in concorso formale si considerano come un reato unico (vale a dire, comportano un unico aumento di pena nella misura obbligatoria ex art. 77, comma 3). 4. L’adozione del criterio del cumulo giuridico trae con sé l’esigenza di consentirne l’applicazione, ogni volta che ne sussistano i presupposti sostanziali, anche nel caso in cui i reati rientranti nel cumulo siano stati oggetto di procedimenti separati. A ciò provvede l’art. 77, comma 6: le disposizioni sul cumulo giuridico si applicano anche quando una persona, già condannata per uno o più reati, riporta una nuova condanna per uno o più altri reati, commessi prima della precedente sentenza di condanna. Tale disposizione segna anche il limite entro il quale vale l’opzione per il cumulo giuridico: questa non è incondizionata, ma delimitata entro un preciso ambito temporale, come nei codici che hanno già introdotto tale principio. L’ambito di ragionevole unificazione del trattamento sanzionatorio è quello dei reati che siano giudicati con unica sentenza, o anche con più sentenze, quando la stessa persona, già
— 628 — condannata per uno o più reati, riporti una nuova condanna per uno o più altri reati, commessi prima (quanto meno) della precedente sentenza di condanna. Fare rientrare nel cumulo anche fatti commessi successivamente potrebbe portare ad annullare del tutto, per questi ultimi fatti, la reazione penale, e quindi la stessa efficacia generalpreventiva della minaccia legale. Sotto questo aspetto, è il codice Rocco che detta una disciplina lassista, là dove, nell’art. 80, rende applicabili le disposizioni sul cumulo delle pene — e in particolare quelle sui limiti massimi che temperano il rigore del cumulo materiale — anche nel caso in cui, dopo la prima condanna, ‘‘si deve giudicare la stessa persona per un altro reato commesso anteriormente o posteriormente alla condanna medesima’’. La portata amplissima di questa disposizione è stata ristretta dalla giurisprudenza, con un’interpretazione che esclude dal limite del quintuplo i reati commessi dopo l’inizio dell’esecuzione della precedente sentenza: un correttivo che la dottrina giustamente reputa inadeguato, rispetto all’esigenza di sottrarre dal cumulo tutti i reati commessi successivamente alla prima sentenza. Come soglia temporale ultima, oltre la quale il cumulo giuridico non è più possibile, è parso preferibile scegliere — per ragioni di praticabilità e di equilibrio — la sentenza anche non definitiva che, per la prima volta, abbia accertato la responsabilità penale per taluno dei reati. Per i reati successivi alla soglia temporale di riferimento, si ritorna al cumulo materiale con le pene per i reati precedenti: è una disciplina più severa di quella vigente, e coerente con il rilievo attribuito nella bozza, in via generale, alla recidiva quale presupposto di risposte sanzionatorie più rigorose. Completa la disciplina del concorso di reati la determinazione dei limiti massimi delle diverse specie di pena in caso di cumulo (art. 79). 3.5. Sospensione condizionale della pena. — 1. Autonoma collocazione e grande rilievo, nel riformato sistema sanzionatorio, ha la sospensione condizionale della pena. Alla conservata denominazione corrisponde un istituto largamente trasformato, caratterizzato non semplicemente ‘‘in negativo’’ (pena sospesa) ma da contenuti positivi. La sospensione condizionale è stata pensata come strumento atto ad evitare l’applicazione di pene detentive e/o interdittive, in situazioni nelle quali, pur in presenza di reati di qualche gravità, le finalità di prevenzione speciale possano essere meglio perseguite evitando l’applicazione della pena corrispondente alla gravità del reato, ma anche senza le attuali cadute in un indifferenziato indulgenzialismo. Per le pene pecuniarie, la sospensione condizionale è stata prevista nei limiti in cui è parso necessario per rispettare il principio d’uguaglianza. A tal fine, si è ritenuto sufficiente ammettere la sospendibilità (a richiesta dell’interessato) nel caso di condanna alla sola pena pecuniaria. Quando questa concorre con la pena detentiva o interdittiva, la mancata sospensione della pena pecuniaria non comporta alcun problema di discriminazione, che invece sorgerebbe ove non venisse ammessa la sospensione della pena pecuniaria inflitta in via esclusiva: in tale ipotesi, il condannato per un reato di minore gravità in concreto (quello punito con la pena pecuniaria) si troverebbe sottoposto a un trattamento deteriore (pena da eseguire in ogni caso) rispetto al condannato per reati più gravi, puniti con pena detentiva o interdittiva. 2. L’ambito di applicazione della sospensione condizionale è strutturalmente lo stesso che nel codice vigente. Effetti di ampliamento potranno derivare dalla adozione di limiti edittali più contenuti nella auspicata riforma della parte speciale. L’art. 81, comma 1, prevede che l’esecuzione della pena detentiva o interdittiva inflitta, non superiore a due anni, possa essere sospesa quando — in assenza di precedenti condanne a pena detentiva non sostituita o a pena interdittiva per delitto doloso, per le quali non sia intervenuta la riabilitazione — l’affermazione di responsabilità, accompagnata dalle ulteriori
— 629 — statuizioni di cui al presente capo, appare sufficiente a realizzare le finalità di prevenzione speciale. Per i reati commessi da persona in stato di capacità ridotta, o di età inferiore ai 21 anni, o maggiore di 70 anni, può essere sospesa la pena detentiva o interdittiva non superiore a tre anni (art. 81, comma 2). La sospensione condizionale della pena può altresì essere concessa a chi abbia riportato una precedente condanna a pena detentiva o interdittiva non sospesa, qualora la pena da infliggere, cumulata con la precedente, non superi i limiti di cui ai commi precedenti. Il venir meno, a seguito della riabilitazione, dell’effetto ostativo di precedenti condanne a pena detentiva, è parso un criterio equilibrato, atto ad assicurare un campo di applicazione ragionevole. Innovando rispetto alla rigidità della normativa introdotta nel 1990, si è previsto che la sospensione della pena detentiva possa essere disposta separatamente dalla sospensione della pena interdittiva, e viceversa (art. 81, comma 4). Come nel diritto vigente, si prevede (art. 81, comma 2) che la sospensione condizionale possa essere concessa una seconda volta, qualora la nuova condanna, cumulata con la precedente, non superi il limite massimo di pena sospendibile. Per evitare casuali (e perciò discriminatorie) difformità di trattamento, si prevede che, qualora per reati unificabili in un unico cumulo giuridico siano pronunciate separate sentenze di condanna, ai fini della sospensione condizionale si considerano come un’unica sentenza (art. 81, comma 3). 3. Il nucleo della nuova disciplina è costituito dalla previsione di obblighi (artt. 83 e 84) diretti ad assicurare, nella misura del possibile, la riparazione del danno, e comunque la adeguatezza dell’istituto rispetto alle finalità di prevenzione generale e speciale. In via di principio si è previsto (art. 83, comma 1) che la sospensione della pena sia obbligatoriamente condizionata alle restituzioni o al risarcimento del danno, di cui le persone danneggiate abbiano fatto richiesta; alla consegna del profitto del reato, di cui il condannato abbia beneficiato; alla consegna del prezzo del reato. Per il caso che il danneggiato non ne abbia fatto richiesta, si è prevista la possibilità di imporre il risarcimento o restituzione nell’ambito degli obblighi qualificati di cui all’art. 84, sulla base di una valutazione discrezionale del giudice. La non obbligatorietà è motivata da considerazioni di ordine pratico (difficoltà di procedere senza eccessivo dispendio di attività ad una attendibile quantificazione) e dall’opportunità di riconoscere rilievo a libere scelte del danneggiato. La possibilità di imporre comunque un risarcimento non richiesto è stata prevista pensando a possibili casi in cui il danneggiato si sia astenuto dal chiederlo perché intimidito. Il risarcimento (se richiesto), la riparazione delle conseguenze del reato e la perdita del profitto da reato sono parse alla Commissione le condizioni di base perché il condannato possa essere ammesso al ‘‘beneficio’’ della sospensione condizionale. È parso peraltro realistico ed opportuno tenere conto di situazioni in cui un integrale adempimento dell’obbligazione risarcitoria e/o riparatoria non sia possibile. Per tale ipotesi è stata cercata una via intermedia fra le opposte alternative (entrambe inaccettabili) dell’imposizione di un onere inesigibile e della rinuncia al risarcimento. La soluzione proposta è elastica: potrà essere ritenuto sufficiente un risarcimento o pagamento nei limiti di quanto esigibile, seguito da un concreto attivarsi per integrare il risarcimento o pagamento nel periodo di sospensione condizionale, nei termini di un impegno previamente assunto dal condannato e ritenuto idoneo dal giudice (art. 83, comma 2). Nel sistema delineato, gli obblighi di riparazione sono condizione necessaria, ma non sempre sufficiente per l’ammissione al beneficio. Obblighi qualificati sono previsti per il caso in cui ciò sia ritenuto necessario per finalità di prevenzione speciale (viene qui in primo piano il profilo dell’ammonimento insito nella sanzione), e comunque nel caso di sospensione di una pena detentiva superiore a un anno di reclusione, o di seconda concessione della condizionale.
— 630 — L’imposizione di obblighi qualificati è, sussistendone le premesse, obbligatoria nell’an, ma è discrezionale l’individuazione delle prestazioni, entro l’elenco di cui all’art. 84. L’arco di possibilità è ampio, e comprende prestazioni anche di una certa severità, corrispondenti a specie di pena diverse dalla detentiva. La sospensione condizionale si allontana in tal modo decisamente dall’ottica indulgenziale, e acquista caratteri che la avvicinano ad istituti di probation. Si è previsto che l’imputato possa richiedere di svolgere, in sostituzione di taluno degli obblighi indicati dalla legge, altre prestazioni che il giudice ritenga equivalenti rispetto alle finalità di prevenzione speciale. Anche qui emerge la linea dell’affidamento in assunzioni di autoresponsabilità, sempre, s’intende, sotto il controllo del giudice. Per il caso di seconda sospensione della pena pecuniaria, non potendosi introdurre obblighi più onerosi della pena sospesa, si è previsto (art. 86, comma 2) che la sospensione debba essere limitata a una parte della pena, non eccedente la metà della pena inflitta. 4. Durata ed effetti della sospensione condizionale sono disciplinati dall’art. 85. La durata del periodo di sospensione è stata prolungata a sette anni, nel caso di condanna a pena detentiva per delitto doloso (ciò fra l’altro, lascia a disposizione più tempo per gli adempimenti di cui all’art. 83). Negli altri casi il termine è stabilito dal giudice, fra un minimo di tre e un massimo di cinque anni. È di tre anni nel caso di sospensione della pena pecuniaria. Si è previsto (comma 3) che delle condanne a pena condizionalmente sospesa non sia fatta menzione nel certificato del casellario giudiziale spedito a richiesta di privati, non per ragioni di diritto elettorale. L’attuale beneficio della ‘‘non menzione’’ diviene in tal modo una conseguenza tipica della sospensione condizionale. La revoca della sospensione condizionale è disciplinata secondo i medesimi criteri del diritto vigente, con l’aggiunta dell’ipotesi del grave inadempimento degli obblighi cui il beneficio sia stato condizionato (comma 4). Al fine di evitare che, in caso di revoca, il regime della sospensione condizionale si traduca in un aggravio, si è introdotta (comma 5) la regola della detrazione, dalla pena da espiare, di un periodo corrispondente agli adempimenti di cui all’art. 84, comma 1, consistenti nel pagamento di una somma di denaro a favore dello Stato o in una prestazione di pubblica utilità. Si è rimessa al giudice la possibilità di disporre una ulteriore detrazione, non superiore a un mese, in ragione dell’adempimento di altri obblighi. Per il caso di esito positivo, la pena sospesa si estingue. L’opzione per l’estinzione della pena, con l’abbandono della attuale configurazione come causa di estinzione del reato, esclude formalmente che l’istituto costituisca un ‘‘colpo di spugna’’ su una responsabilità (per reati non bagatellari) che esso presuppone accertata, e ne sottolinea la funzione tutta interna al sistema sanzionatorio. 3.6. Condizioni di procedibilità e di estinzione degli effetti penali. — 1. Nel capo intitolato ‘‘condizioni di procedibilità e di estinzione degli effetti penali’’ sono disciplinati istituti alla cui presenza è subordinata la procedibilità del reato (querela, richiesta, istanza), che il codice vigente colloca in un capo dedicato alla persona offesa del reato, ed istituti (remissione di querela, oblazione, prescrizione, amnistia) che il codice vigente raggruppa, insieme ad altri, nella categoria delle cause di estinzione del reato. Tale seconda categoria non è più utilizzata, nel linguaggio del codice, per gli istituti che possono essere applicati indipendentemente da un compiuto accertamento del reato. Gli istituti in essa tradizionalmente compresi hanno ricevuto collocazioni diverse. La sospensione condizionale della pena è stata qualificata come causa di estinzione della pena, e disciplinata in un separato capo del codice. In una disposizione di coordinamento è stata trasferita l’ipotesi della morte dell’imputato (non più del ‘‘reo’’): l’espunzione dal codice intende sottolineare che, in un sistema penale fondato sulla ‘‘personalità’’ della responsabilità, la morte dell’imputato è questione esclusivamente processuale, la cui soluzione, assolutamente ovvia, è l’improcedibilità dell’azione.
— 631 — Gli istituti che restano raggruppati nel capo in esame hanno, per tradizione, la comune caratteristica di potere essere applicati indipendentemente da un compiuto accertamento del reato e delle responsabilità conseguenti. Dal mantenimento di tale caratteristica discende che essi trovano applicazione, oltre che quando un reato è stato commesso, anche in casi in cui il reato è stato solo ipotizzato, ma di fatto non sussiste (è per questa ragione che la prescrizione e l’amnistia debbono essere rinunciabili, pena l’illegittimità costituzionale). La formula della ‘‘estinzione del reato’’, che sarebbe appropriata nei casi in cui il reato c’è e l’imputato ne è responsabile, negli altri è fuorviante e comporta una carica impropria di stigmatizzazione. È per questo che si propone di eliminarla (nello stesso senso si era orientato il progetto Pagliaro). Ciò che viene meno in ogni caso, e perciò definisce la normale operatività degli istituti, è la procedibilità o proseguibilità dell’azione penale, in applicazione, peraltro, di regole relative non al procedimento, ma a fatti la cui rilevanza è stabilita dal diritto sostanziale. Malgrado il loro carattere anfibio, fra il processuale e il sostanziale, gli istituti in esame fanno dunque parte, per funzione e per nessi sistematici, del complesso degli istituti relativi alla risposta ‘‘sostanziale’’ al reato. Da ciò la loro naturale collocazione nel codice penale, e segnatamente nel titolo relativo alla pena. Le soluzioni proposte per i singoli istituti in esame recepiscono (in una riscrittura che vorrebbe essere di semplificazione) le linee di fondo della disciplina vigente, peraltro con innovazioni di rilievo, non solo nella sistematica ma anche nei contenuti. 2. In materia di querela e di remissione di querela, gli artt. 87 e 88 seguono sostanzialmente la disciplina vigente. È stato mantenuto, per la querela, il termine di tre mesi dalla notizia del fatto, con la specificazione che, qualora la persona offesa si trovi in una oggettiva situazione di soggezione nei confronti dell’autore del reato, il termine non decorre fino a che perduri lo stato di soggezione. Innovativa rispetto al codice Rocco è la previsione della scindibilità degli effetti sia della querela (art. 87, comma 7) che della remissione della querela (art. 88, comma 4). Ciò è stato ritenuto opportuno al fine di dare rilievo ad accordi anche separati (con un possibile e auspicabile effetto di incentivazione). Per la remissione e l’accettazione della remissione si prevede che debbano essere fatte in forma espressa. Anche in materia di richiesta ed istanza è stata mantenuta la disciplina vigente. 3. L’oblazione è stata ridisegnata (art. 89) in coerenza con le indicazioni del documento di base: eliminazione della oblazione ‘‘automatica’’ e mantenimento della figura dell’oblazione discrezionale, condizionata all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato. L’eliminazione della forma tradizionale di oblazione (quella automatica) poggia sulla premessa (sulla attesa) di una drastica restrizione dell’area dell’illecito penale, in coerenza con i principi ispiratori della auspicata riforma dell’intero sistema penale. Espunte dall’orizzonte penalistico le fattispecie ‘‘bagatellari’’, un meccanismo di deflazione automatica non avrebbe più ragion d’essere, e risulterebbe anzi in contrasto con le ragioni sottese alla opzione penalistica. L’oblazione ‘‘discrezionale’’, invece, risponde ad una funzione che il disegno di riforma ritiene importante e da potenziare: quella dell’incentivazione di condotte di riparazione dell’offesa, perseguibile mediante istituti lato sensu premiali. La disciplina proposta è modellata sulla falsariga del vigente art. 162-bis, con modifiche in parte legate all’inserimento in un nuovo sistema, in parte ad esigenze di una migliore strutturazione dell’istituto. L’ambito tipico di applicazione resta quello delle contravvenzioni punite con l’ammenda. Poiché la pena dell’arresto viene eliminata, l’oblazione diverrebbe applicabile alla generalità delle contravvenzioni, e in tale ambito potrebbe (auspicabilmente) diventare una modalità preferenziale di definizione dei procedimenti.
— 632 — È stata rimessa al legislatore di parte speciale la possibilità di stabilire l’applicabilità dell’oblazione a delitti puniti con la multa, anche alternativa o congiunta ad altra pena non detentiva, ovvero alternativa a una pena detentiva. Non si è ritenuto di andare oltre, perché un’ipotetica applicabilità generalizzata dell’oblazione potrebbe indebolire l’opzione per un uso largo della pena pecuniaria. La soluzione prospettata lascia perciò a valutazioni puntuali del legislatore, relative a singole materie, la scelta se e come valorizzare, a un livello per così dire intermedio fra la attenuazione della pena e l’esonero da qualsiasi conseguenza sanzionatoria, condotte di riparazione dell’offesa nell’ambito dei delitti (per es., di delitti patrimoniali anche perseguibili d’ufficio). Viene mantenuta le regola secondo cui la domanda di oblazione deve essere presentata prima dell’apertura del dibattimento. Essa è integrata da alcune nuove disposizioni volte ad assicurare l’applicabilità dell’istituto nel caso di nuove contestazioni in corso di dibattimento (comma 4) e quando, pur essendo stato contestato un reato non suscettibile di oblazione, l’imputato ritenga applicabile l’oblazione, in base a una diversa qualificazione giuridica o ad elementi di fatto non considerati nell’imputazione (comma 5). In quest’ultima ipotesi, è onere della difesa indicare la qualificazione giuridica ritenuta corretta, e le eventuali prove dei fatti affermati nella domanda. Tale sistema (il cui funzionamento richiede una effettiva difesa tecnica) è parso il più idoneo a conciliare esigenze di non facile conciliazione: evitare che l’applicabilità dell’oblazione sia preclusa dalla formulazione di contestazioni non fondate, ma anche evitare qualsiasi sfondamento del termine per la presentazione della domanda. L’oblazione non è ammessa quando non sia stato risarcito il danno o permangano conseguenze dannose o pericolose del reato eliminabili da parte di chi abbia chiesto di essere ammesso all’oblazione. È questa la regola fondamentale, che definisce la funzione dell’istituto. Altre ragioni di diniego dell’oblazione sono strutturate in chiave discrezionale. La domanda di oblazione può essere respinta quando sia stata chiesta da persona già condannata a pena detentiva, o in caso di recidiva specifica, nonché avendo riguardo alla gravità del fatto, qualora la pena pecuniaria sia prevista congiuntamente ad altra pena, ovvero in alternativa a una pena detentiva. L’importo della somma da pagare a titolo di oblazione è stato fissato nel terzo del massimo edittale. Entro il sistema delle ‘‘quote giornaliere’’ anche la determinazione di detto importo passa attraverso valutazioni rimesse al giudice. Di ciò tiene conto la disciplina degli aspetti processuali dell’istituto (comma 9). Col provvedimento che ammette l’oblazione, il giudice determina l’importo della quota giornaliera, ed assegna un termine, non superiore a 15 giorni, per il deposito della prima rata mensile e delle spese del procedimento. Il pagamento è rateizzato, secondo le medesime regole concernenti la pena pecuniaria; ciò trae con sé l’esigenza di stabilire che il procedimento è sospeso (e quindi la prescrizione non decorre) dalla data del provvedimento che ammette l’oblazione alla data del pagamento dell’ultima rata. Il mancato pagamento anche di una sola rata entro il termine dovuto comporta di diritto la revoca dell’ammissione all’oblazione. 4. In materia di prescrizione, in seno alla Commissione vi è stato un vivace dibattito, fra posizioni che hanno accentuato l’uno o l’altro dei diversi poli del problema. Una ragionevole disciplina dei termini e degli effetti della prescrizione deve infatti contemperare esigenze tendenzialmente contrapposte: — da un lato, evitare una persecuzione penale troppo lontana dal fatto, quando l’interesse alla repressione del reato sia venuto meno; — dall’altro lato, evitare che l’istituto della prescrizione si risolva in strumento di denegata giustizia verso interessi sia pubblici che privati (compreso quello dell’imputato innocente). Anche il criterio della ragionevole durata dei processi, reso esplicito nel ‘‘nuovo’’ art. 101 Cost., comporta l’esigenza di evitare che la prospettiva della prescrizione (che dovrebbe
— 633 — essere un rimedio eccezionale) possa essere realisticamente assunta a obiettivo di strategie difensive, con effetti pratici di appesantimento e prolungamento dei processi. Insomma: l’istituto della prescrizione risponde a esigenze di giustizia, che saranno tanto meglio soddisfatte quanto più esso solleciti e favorisca il funzionamento efficace di altri istituti del sistema penale, in modo che i processi siano definiti in tempi brevi e le declaratorie di prescrizione siano ridotte al minimo. La congruità dei termini di prescrizione non può perciò essere valutata in astratto, ma solo in connessione con gli altri istituti del sistema penale, e sullo sfondo di una realistica considerazione del sistema processuale. Il testo proposto (art. 90) mantiene, nei tratti essenziali, la struttura della disciplina vigente, con una tendenziale riduzione dei termini di prescrizione. Questa linea potrebbe apparire poco realistica rispetto alla attuale capacità di lavoro delle istituzioni di giustizia penale. La Commissione, a maggioranza (poiché alcuni commissari avrebbero preferito un allungamento consistente dei termini della prescrizione), ha tuttavia inteso dare un segnale: la situazione attuale non è sostenibile, un efficiente funzionamento del sistema penale esige la capacità di pervenire in tempi più rapidi a sentenze definitive ed eseguibili. Eliminata le pena dell’ergastolo, la previsione di imprescrittibilità è rimasta per i delitti contro l’umanità, e i delitti di strage e di omicidio doloso aggravato commessi per finalità di terrorismo o di mafia. Il termine di 20 anni è stato limitato agli altri casi di omicidio doloso. Per gli altri reati, sono previste le fasce dei 15, 10 e 5 anni, rispettivamente per: delitti puniti con la reclusione superiore nel massimo a 10 anni; con la reclusione superiore nel massimo a 5 anni; con pena detentiva non superiore nel massimo a 5 anni, o con pena non detentiva, e per le contravvenzioni. Agli effetti della prescrizione si tiene conto delle circostanze ad effetto speciale. Non si tiene conto delle altre circostanze. Questa proposta intende eliminare qualsiasi influenza, sui termini di prescrizione, del bilanciamento fra circostanze. Per raggiungere tale risultato, è stato necessario prevedere inoltre che nel caso di concorso di circostanze aggravanti e attenuanti ad effetto speciale si tiene conto delle sole aggravanti. Verrebbe così posto rimedio a uno degli aspetti più difettosi della attuale disciplina, la quale finisce per attribuire alla decisione sul bilanciamento di circostanze l’effetto improprio di poter determinare discrezionalmente l’estinzione del reato, rendendo aleatori l’an e il quando della prescrizione. Il sistema proposto dovrebbe assicurare una maggiore prevedibilità, e, soprattutto, l’indipendenza assoluta dei termini di prescrizione da decisioni discrezionali del giudice. L’esclusione di influenza delle circostanze attenuanti è compensata dallo spostamento di fasce di delitti verso un termine di prescrizione più rapido (ciascun termine di prescrizione si riferisce ai delitti puniti con pena massima superiore, invece che non inferiore a una data durata). Per le contravvenzioni, il termine di prescrizione è stato portato a 5 anni, essendo stato ritenuto ingiustificato mantenere un termine più breve di quello previsto per l’illecito amministrativo. Si è inoltre considerato che per le contravvenzioni non è più prevista la pena detentiva, e che il nuovo sistema ‘‘punta’’ fondamentalmente sull’oblazione, donde la necessità di non indebolire tale prospettiva con il mantenimento di termini di prescrizione troppo stretti. Sul decorso della prescrizione si è conservata la disciplina vigente, anche per quanto concerne le cause di sospensione e interruzione. Per queste ultime si è peraltro preferita una formula sintetica, invece che un rinvio pedissequo ad atti processuali ‘‘nominati’’: interrompono il corso della prescrizione gli atti del procedimento contenenti l’enunciazione del fatto contestato, e le sentenze di condanna. È stata mantenuta la regola — determinante per la struttura dell’istituto — secondo cui il termine di prescrizione, che dopo l’interruzione ricomincia a decorrere da capo, non può essere prolungato oltre la metà. È stata pure mantenuta la regola secondo cui la sospensione e l’interruzione della pre-
— 634 — scrizione hanno effetto per tutti coloro che hanno commesso il reato. È stato escluso l’effetto sui reati connessi previsto dal vigente art. 161 c.p. Rocco. Secondo la nuova impostazione sistematica, si è stabilito che il decorso del termine di prescrizione comporta l’improcedibilità o improseguibilità dell’azione penale. È stata infine espressamente statuita la rinunciabilità della prescrizione, in conformità alle indicazioni della Corte costituzionale. Nel corso dei lavori della Commissione, è stata avanzata la proposta di considerare come causa di estinzione della pena la prescrizione maturata dopo la sentenza di primo grado. Tale proposta è stata respinta per l’aggravio di lavoro che ne deriverebbe. 5. In materia di amnistia e indulto viene proposta una disciplina sussidiaria, ridotta al minimo, che non incide (né lo potrebbe) sulle scelte di competenza della legge che emani il provvedimento di clemenza, ma intende comunque delineare un modello orientativo di base, tendenzialmente restrittivo (artt. 91 e 92). Completano il titolo le disposizioni sull’estinzione della pena per decorso del tempo (art. 93), sulla non menzione della condanna (art. 94), e sulla riabilitazione (art. 95), istituto, quest’ultimo, che potrebbe assumere un rilievo maggiore dell’attuale anche in ragione del più limitato effetto (estinzione della pena, e non del reato) previsto per la sospensione condizionale. 4.
Non imputabilità e capacità ridotta.
4.1. Non imputabilità. — 1. La Commissione ha già espresso nel documento di base la ferma opzione per il mantenimento della distinzione fra soggetti imputabili e non imputabili, cioè fra soggetti cui possa o non possa essere mosso un rimprovero di colpevolezza, in ragione delle loro condizioni soggettive al momento del fatto. Discostandosi dal codice vigente, la disciplina proposta rinuncia a definire ‘‘in positivo’’ l’imputabilità, limitandosi a disciplinare le condizioni inabilitanti, in presenza delle quali l’imputabilità (l’assoggettabilità alla pena) è esclusa. Resta ferma la struttura formale delle fattispecie di non imputabilità, articolata nella individuazione di particolari situazioni incapacitanti, e nella determinazione del tipo di incapacità, conseguente a quelle situazioni, che esclude la colpevolezza e l’assoggettabilità a pena. L’effetto cui si ricollega la non imputabilità è definito nel vigente codice come ‘‘incapacità di intendere e di volere’’. Tale formula lascia nel vago l’oggetto dell’intendere e del volere, che invece è esplicitato da formulazioni più ‘‘mirate’’ di altri codici. Il codice tedesco, seguito dai più recenti codici spagnolo e portoghese, parla di incapacità di comprendere das Unrecht (il contenuto illecito) del fatto, e di agire in conformità a tale rappresentazione. Pur trattandosi di soluzione raggiungibile (e raggiunta) in sede di interpretazione razionale, è parso preferibile esplicitarla nel testo normativo (art. 96). Ciò rende chiaro in tal modo che l’incapacità (d’una data persona in un dato momento) potrebbe essere affermata o esclusa in relazione a fatti diversi. Per quanto concerne le modalità di individuazione delle condizioni inabilitanti, l’esigenza di tipizzazione si combina con quella di indicazioni, per quanto possibile, esaustive delle diverse situazioni che, alla luce del sapere scientifico e di criteri di valutazione morale storicamente acquisiti, appaiano incompatibili con la possibilità di un rimprovero di colpevolezza e rendano irragionevole il ricorso alla pena. A tal fine si è scelto di utilizzare concetti ‘‘aperti’’, che, nel rispetto del principio di legalità, consentano un flessibile adeguamento al mutare (al progresso) delle conoscenze scientifiche e in genere delle concezioni pertinenti. 2. Il primo e fondamentale campo problematico, per la disciplina della (non) imputabilità, è quello delle situazioni soggettive di ‘‘non normalità psichica’’ (con riferimento al momento del commesso reato). Le applicazioni del diritto vigente riflettono le incertezze e le divergenze di opinione nel
— 635 — mondo della scienza psichiatrica attorno alla malattia di mente e alle sue implicazioni. Di fronte alla diversità di paradigmi nel dibattito scientifico, e al coesistere di tendenze sia all’allargamento che alla restrizione dei casi di non imputabilità, la Commissione ha ritenuto che la scelta legislativa più ragionevole sia quella di assicurare le condizioni di adeguamento del sistema giuridico al sapere scientifico, evitando prese di posizione troppo rigide e adottando formule atte a recepire la possibile rilevanza dei diversi paradigmi cui nel dibattito scientifico sia riconosciuta serietà e consistenza. In questa prospettiva, è parso utile introdurre, accanto all’infermità, la formula della grave anomalia psichica, con l’intento di rendere più sicura la strada per una possibile rilevanza — come eventuali cause di esclusione dell’imputabilità — di situazioni oggi problematiche, come le nevrosi o psicopatie, o stati momentanei di profondo disturbo emotivo, che fossero tali da togliere base ad un ragionevole rimprovero di colpevolezza. La formulazione del criterio in forma di clausola generale (art. 96) fa affidamento, qui come altrove, sulla capacità della giurisprudenza di elaborare criteri applicativi adeguati e scientificamente fondati. L’aggettivo ‘‘grave’’ intende comunque dare un preciso segnale di cautela. 3. Innovativa è la proposta di ricondurre ai principi generali la disciplina delle ipotesi di ubriachezza e di intossicazione da stupefacenti. Nel documento di base sono state richiamate le ragioni di critica verso la disciplina vigente, caratterizzata — con riferimento all’ipotesi normale di ubriachezza o intossicazione non accidentale — da quelle che vengono definite ‘‘finzioni di imputabilità’’, contrastanti con il principio di colpevolezza, e dettate da preoccupazioni di prevenzione generale e speciale che potrebbero essere altrimenti soddisfatte. Considerazioni critiche sono state svolte anche verso le soluzioni alternative proposte da altri codici (come la soluzione ‘‘di parte speciale’’ del codice tedesco) e da progetti di riforma. La Commissione ritiene che una soluzione adeguata non solo al principio di colpevolezza, ma anche alle esigenze di prevenzione generale e speciale, possa venire fondata sulla coerente applicazione dei principi generali. Schematizzando, dai principi deriva la possibilità di affermare la responsabilità penale per il fatto commesso in stato di incapacità piena: — quando l’incapacità sia stata preordinata, e il fatto sia poi stato commesso nel modo preordinato (art. 96, comma 2); — quando l’essersi messo (non accidentalmente) in stato di incapacità possa essere considerato un comportamento inosservante di una regola cautelare, rispetto al fatto poi realizzato, e questo sia stato realizzato (volontariamente o con obiettiva violazione di regole di buon comportamento) ‘‘a causa’’ dello stato di procurata incapacità (art. 96, comma 3). In tali ipotesi, appare senz’altro possibile considerare il mettersi in stato di incapacità come condotta causale e colpevole rispetto al fatto poi realizzato. Nell’ipotesi di incapacità preordinata, il titolo della colpevolezza sarà da individuare per l’appunto nella dolosa preordinazione. Fuori di tale ipotesi, l’imputazione non potrà essere che per colpa, anche quando il fatto sia poi (nello stato di incapacità piena) commesso volontariamente: il titolo di colpevolezza dovendo ravvisarsi nell’inosservanza (causale rispetto al fatto realizzato) della regola cautelare del ‘‘non assumere alcool o droghe’’ in quella data situazione ‘‘di pericolo’’. Ritenere, con presunzione assoluta, che il mettersi in stato di ubriachezza costituisca sempre e comunque la violazione di una regola cautelare, non sembra ragionevole, né sostenuto da reali indicazioni di politica criminale. Vi sono, peraltro, situazioni in cui un rimprovero di colpa appare possibile e plausibile: per es., quando taluno si sia messo in stato di incapacità in un contesto riconoscibilmente ‘‘pericoloso’’, in relazione ad attività da svolgere (per es., prima di mettersi alla guida di veicoli), o avendo riguardo ad altri elementi della situazione concreta. La Commissione ha ritenuto perciò inutile, oltre che di dubbia compatibilità col prin-
— 636 — cipio di colpevolezza, mantenere una indiscriminata disciplina derogatoria sull’imputabilità di fatti commessi in stato di ubriachezza o intossicazione non accidentale. L’eliminazione delle finzioni di imputabilità fa venire meno i presupposti su cui poggia la vigente disciplina dell’ubriachezza o intossicazione abituale, e rende superflua una disposizione sull’intossicazione cronica. Tale soluzione va incontro all’auspicio di una profonda revisione della materia, espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 114/1998. 4. Per quanto concerne i minorenni, la Commissione ritiene che non vi siano ragioni per abbandonare il sistema vigente, che colloca a 14 anni la soglia minima dell’imputabilità, e per gli adolescenti fra i 14 e i 18 anni impone un accertamento in concreto della capacità, al di fuori di presunzioni in un senso o nell’altro (art. 97). Questo sistema è un contemperamento — certo, non l’unico possibile — fra esigenze di certezza, meglio soddisfatte dalla fissazione di soglie di età, ed esigenze di adeguamento ai casi singoli, di cui si tiene conto nella fascia di età ritenuta più problematica. Le soglie d’età indicate, pur con quanto d’arbitrario v’è in esse, rappresentano un ragionevole punto d’equilibrio nella ricerca delle condizioni di una possibile responsabilizzazione dei minori, né eccessivamente prematura né lassisticamente tardiva. 5. Per gli autori di reato non imputabili si pone il problema di eventuali misure non punitive. La questione non è di etichette, ma di sostanza: misure per i ‘‘non imputabili’’, comunque denominate, non possono legittimamente essere strutturate secondo criteri ‘‘retributivi’’ di proporzione con la colpevolezza, né in vista di fini di prevenzione generale. Resta uno spazio legittimo per misure specialpreventive, per le quali la Commissione propone l’etichetta di misure di sicurezza e riabilitative, sulla falsariga di denominazioni adottate altrove (Sicherung und Besserung). L’opzione di fondo è quella di una riduzione delle eventuali misure al minimo strettamente indispensabile: extrema ratio rispetto agli istituti orientati alla risocializzazione o alla terapia, che del resto caratterizzano la legislazione più recente (in ambito psichiatrico, la svolta avviata dalla l. n. 180/1978; in ambito minorile, i nuovi istituti introdotti con la c.d. procedura penale minorile. d.P.R. n. 448/1988). La risposta al ‘‘bisogno di trattamento’’ del non imputabile deve essere affidata, in prima istanza, ad istituti e istituzioni diversi da quelli della giustizia penale, e competenti a operare per il superamento delle situazioni di disagio e incapacità (terapia, riabilitazione, rieducazione, e simili). In quest’ottica si prevede (art. 98, comma 4) che non si fa luogo alla applicazione di una misura, e la misura applicata viene revocata, quando la sua finalità possa essere efficacemente perseguita con strumenti di carattere non penalistico. Escluso il ricorso alla pena, la giustizia ‘‘penale’’ ha motivo di occuparsi dei non imputabili soltanto in quanto sia necessario il ricorso a forme di coercizione personale. Le misure ‘‘di sicurezza e riabilitative’’ coprono uno spazio ristretto e residuale, trovando applicazione solo in presenza di esigenze comprovate e prioritarie di prevenzione di delitti gravi, tali da rendere insufficiente l’affidamento ai ‘‘normali’’ approcci e istituti miranti alla riabilitazione, e da fare apparire non sproporzionato il recupero di momenti di coercizione, peraltro da inserire comunque nell’ottica riabilitativa. In questa prospettiva, l’art. 98 comma 1 stabilisce che misure di sicurezza e riabilitative possono essere applicate agli autori di delitto, che siano stati prosciolti perché non imputabili, quando la misura risponda a un bisogno di trattamento o di controllo, determinato dal persistere delle condizioni di incapacità che hanno dato causa al delitto. Vengono poi fissati i tipi di misura per le diverse categorie di soggetti: — per i non imputabili per infermità o altra grave anomalia, o per ubriachezza o intossicazione da stupefacenti: il ricovero in una struttura chiusa o aperta con finalità terapeutiche o di disintossicazione; l’obbligo di sottoporsi ad un trattamento ambulatoriale presso strutture sanitarie; l’obbligo di sottoporsi a visita periodica presso strutture sanitarie o di presentazione periodica ai servizi sociali (art. 98, comma 2); — per i minori: il collocamento in una comunità chiusa o aperta, e l’affidamento al servizio sociale (art. 98, comma 3).
— 637 — I presupposti per l’applicazione delle misure sono disciplinati dagli artt. 99 e 100. Le misure più invasive (ricovero in una struttura chiusa) sono agganciate alla commissione di delitti gravi di aggressione all’incolumità personale o pubblica, e ad esigenze di prevenzione, non altrimenti soddisfacibili, di delitti analoghi. Per i minori, l’elenco è esteso ai delitti concernenti la disciplina delle armi o delle sostanze stupefacenti, e a quelli commessi nell’ambito di una associazione criminale. Per le misure non coercitive (trattamenti in libertà) è previsto un ambito d’applicabilità più ampio. Esse possono essere disposte se è stato commesso un diverso delitto per il quale sia prevista la pena della reclusione, sempre che persista lo stato di incapacità e vi sia concreto pericolo che il soggetto, in assenza della misura, commetta nuovamente un delitto doloso o colposo contro la persona o contro l’incolumità pubblica, o un delitto contro il patrimonio. Per il caso di grave o reiterato inadempimento delle prescrizioni inerenti alla misura, si prevede possa essere disposto il ricovero in una struttura chiusa per il tempo strettamente necessario, e comunque non oltre sei mesi. Per quanto concerne le regole ‘‘di garanzia’’, il testo proposto (art. 101) delinea il seguente modello: — con la sentenza che accerta il reato e la non imputabilità dell’autore, il giudice valuta la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura, con riferimento al momento del giudizio, e determina la specie e la durata minima della misura. Questa, di regola, sarà compresa fra 6 mesi e un anno; fino a due anni nell’ipotesi più grave, quella dei delitti di aggressione commessi dall’infermo di mente. La determinazione delle ulteriori condizioni di esecuzione delle misure compete al magistrato di sorveglianza, sentiti i servizi presso i quali o sotto il cui controllo la misura debba essere eseguita. Il nesso con tipologie circoscritte di delitti — realizzati e temuti — dovrebbe dare al giudizio di pericolosità, il cui fondamento empirico è molto controverso, un ancoraggio meno aleatorio; — le misure, anche di ricovero, vengono eseguite preferibilmente presso strutture terapeutiche, o con finalità educativa o riabilitativa, facenti parte del normale circuito assistenziale; — alla scadenza del termine fissato in sentenza, il giudice verifica se persistano i presupposti per il mantenimento della misura, e ne dispone la cessazione se ne risulta venuta meno la necessità. Può modificare la specie di misura, in conformità ai criteri di cui all’articolo precedente. Nel caso di prosecuzione della misura, indica un nuovo termine per il riesame, che però dovrà essere effettuato anche prima, quando sussistano elementi che ne facciano apparire venuta meno la necessità. Esigenze di proporzione e di garanzia hanno indotto ad introdurre un termine massimo per le misure sia restrittive che non. Per i non imputabili per infermità o altra anomalia, la durata massima è di 5 anni; tale limite potrà essere eccezionalmente superato, per il tempo strettamente necessario, in presenza di un pericolo concreto e non altrimenti fronteggiabile di atti gravemente aggressivi contro la vita o l’incolumità delle persone. Per le misure nei confronti dei non imputabili per età minore è parso congruo il limite di 3 anni. 4.2. Capacità ridotta. — 1. Il testo proposto mantiene una disciplina differenziata di ipotesi (tipo ‘‘seminfermità’’) di ridotta capacità, individuandone i presupposti in situazioni sovrapponibili o comunque vicine a quelle che possono dare luogo a incapacità piena, e distinguendo poi in ragione della diversa incidenza (esclusione totale o grande riduzione) sulla capacità di comprendere l’illiceità del fatto o di agire in conformità a tale valutazione (art. 102, comma 1). Escluso per gli imputabili il ‘‘doppio binario’’ (pena più misura di sicurezza), in conformità alle indicazioni prevalenti in dottrina e alle più recenti proposte di riforma, per i casi di capacità grandemente ridotta è stato delineato un modello unitario di risposta, che, per essere rivolto a soggetti imputabili, è formalmente costruito in termini di pena, ma assume su di sé le funzioni assegnate dal codice Rocco alla misura di sicurezza, ed è strutturato in
— 638 — modo più flessibile, in vista del migliore perseguimento degli obiettivi di prevenzione speciale. 2. Per i semi-imputabili per infermità o altra anomalia, i tratti essenziali del sistema sono i seguenti: a) orientamento marcatamente specialpreventivo: qualsiasi provvedimento deve essere essenzialmente finalizzato al superamento delle condizioni di ridotta capacità esistenti al tempo del commesso delitto (art. 102, comma 2); b) previsione di una pena diminuita, così da proporzionare la pena alla minore colpevolezza conseguente allo stato di ridotta capacità (art. 102, comma 3); c) nei casi in cui possa essere concessa la sospenzione condizionale della pena, e un trattamento terapeutico o riabilitativo sia possibile o opportuno, il beneficio è subordinato alla accettazione, da parte del condannato, di un programma di trattamento in libertà (art. 103); d) possibilità di pronunciare sentenza di condanna con rinuncia alla pena, qualora, per la modesta gravità del fatto commesso in stato di ridotta capacità e/o per essere venute meno le condizioni soggettive che lo hanno determinato, non sussistono esigenze di prevenzione generale o speciale tali da richiedere una qualsiasi misura nei confronti dell’autore del fatto (art. 104). Su questo punto, alcuni componenti della Commissione hanno espresso riserve. Per alcuni degli istituti sopra richiamati si propone (art. 105) l’estensione, anche indipendentemente dall’incidenza sulla capacità d’intendere e di volere, al caso di condanna per reati commessi da persona in stato di tossicodipendenza o di alcoolismo abituale, o in grave difetto di socializzazione o di istruzione. In tale ipotesi, i programmi di trattamento sono rivolti al superamento della specifica condizione deficitaria. 5. Trattamento dei minori imputabili. — 1. Per quanto concerne le sanzioni per i minori imputabili, il testo proposto intende riaffermare e sviluppare un orientamento primariamente e fortemente orientato alla ‘‘rieducazione’’ del minore che abbia violato la legge. L’ordinamento vigente già prevede un ampio arsenale di misure, entro cui il giudice può scegliere quella che appaia più adeguata. Accanto a istituti disciplinati nel codice penale (perdono giudiziale) vengono in rilievo quelli introdotti nel c.d. codice di procedura penale minorile (d.lgs. n. 448 del 1988, artt. 27 e 28): non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, ‘‘quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne’’, e sospensione del processo con messa alla prova, che può essere disposta per qualsivoglia reato, anche il più grave, in presenza di idonee indicazioni. Formalmente costruiti come ‘‘processuali’’, questi istituti hanno però valenza sostanziale, nel senso che pongono le regole alla cui stregua si determinano gli esiti del procedimento. Si tratta di soluzioni molto ‘‘spinte’’, che danno al vigente diritto penale minorile una caratterizzazione totalmente dominata dalla finalità rieducativa, fino a poter sacrificare completamente l’aspetto propriamente ‘‘punitivo’’, anche in presenza di reati gravi. La Commissione ritiene opportuno che tutti gli istituti del diritto penale minorile siano raggruppati in un corpus normativo unitario. Da ciò l’inserzione nel codice penale degli istituti che attualmente ne sono fuori. Le disposizioni sono state riscritte in un linguaggio più consono a un codice penale, senza incidere sostanzialmente sui contenuti; relativamente alla messa alla prova si è cercato di meglio precisare i presupposti, e di prevedere tempi di durata che ne assicurino l’effettività. 2. Nel corso del lavoro di stesura degli articoli è emersa l’esigenza, non considerata nel documento di base, di adattare il sistema delle sanzioni alla particolare condizione dei minorenni. Il testo proposto si caratterizza per diversi aspetti innovativi. L’esigenza di una risposta meno severa si traduce nella esclusione, per i minori, della reclusione speciale. Resta inoltre ferma, per la reclusione, la previsione di una diminuzione di pena (art. 107 comma 3). Caratterizzano il nuovo sistema (art. 107, comma 1) l’eliminazione della pena pecunia-
— 639 — ria, non adeguata per soggetti che ancora non hanno capacità di agire, e la previsione di sanzioni (collocamento in comunità aperta o chiusa, e affidamento al servizio sociale) di contenuto corrispondente a quello delle misure per i minori non imputabili. Ne risulta un sistema omogeneo di risposte, decisamente orientate alla prevenzione speciale, nel quale dovrebbe (fra l’altro) risultare sdrammatizzato il vessato problema dell’imputabilità dei minori fra i 14 e i 18 anni. Sul piano tecnico, si sono rese necessarie regole sull’ambito di applicabilità delle sanzioni tipiche del diritto minorile (art. 107, commi 2 e 4). Il collocamento in una comunità e l’affidamento al sevizio sociale si prevedono applicabili, in alternativa alla pena detentiva, in tutti i casi in cui la legge prevede una pena detentiva non superiore nel minimo a 4 anni, e dovrebbe inoltre costituire la pena per i minori, per i reati per cui sia prevista una pena pecuniaria o altra pena ad essi inapplicabile. Per tali sanzioni si propone una durata da 6 mesi a 3 anni. 3. L’affidamento al servizio sociale (art. 108) dovrebbe divenire colonna portante di un sistema che resta sì ‘‘sanzionatorio’’, ma fondamentalmente orientato alla persona del minore. La gestione dell’istituto è affidata ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia, o ai servizi socio-sanitari degli enti locali, o ad altri enti idonei indicati dal giudice. L’affidamento si esegue sulla base di un programma elaborato dall’ente affidatario, che deve in ogni caso prevedere le modalità di coinvolgimento del minore, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita; gli impegni specifici che il minore assume; le modalità di partecipazione al progetto degli enti e degli operatori cui il minore sia affidato. Possono essere previste, se ciò appare possibile per il minore, ed utile per il conseguimento della finalità rieducativa, eventuali modalità di riparazione delle conseguenze del reato ed iniziative tendenti a promuovere la conciliazione con la persona offesa. Questa disposizione, nel riconoscere uno spazio per pratiche di ‘‘mediazione’’, del tipo attualmente sperimentato in alcuni uffici, ne segna anche presupposti, limiti, e una finalità centrata in ogni caso sul minore, non sulla persona offesa. Per il caso che il minore si renda gravemente inadempiente agli obblighi, è parso necessario prevedere che la pena residua si converta nel collocamento in una comunità aperta o chiusa. 4. Dal codice penale viene recepito l’istituto del perdono giudiziale, con modifiche volte a evidenziare formalmente un contenuto che è pur sempre di affermazione di responsabilità. Di detto istituto viene ribadita la finalità specialpreventiva; è indicato uno spazio d’applicazione abbastanza ampio; è prevista la applicazione non più di una volta (art. 110). Dalla c.d. procedura penale minorile sono recepiti gli istituti del non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, applicabile a fatti di particolare tenuità (art. 109) e della messa alla prova, applicabile invece a qualsiasi reato (art. 111). Il testo proposto chiarisce che la messa alla prova presuppone elementi sufficienti per l’affermazione di responsabilità. Ne evidenzia la finalità ‘‘rieducativa’’. Non richiede formalmente la confessione né il consenso del minore, che non costituiscono dunque presupposti vincolanti, ma potranno essere presi in considerazione nella valutazione prognostica sulla idoneità della misura, da effettuare ‘‘avendo riguardo alla personalità e alla situazione familiare e sociale del minorenne’’. Nei contenuti, la messa alla prova è strutturalmente analoga all’affidamento al servizio sociale. Considerata peraltro l’applicabilità anche ad autori di delitti gravi, si sono previste possibilità di ricorso a modalità coercitive, corrispondenti alle misure cautelari previste dalla legge processuale, o alle misure di sicurezza e riabilitative previste per i minori non imputabili. La durata della prova è determinata dal giudice, fra un anno e quattro anni nei casi in cui si proceda per delitti puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a 10 anni; negli altri casi è fra i sei mesi e i tre anni. L’esito positivo della prova, verificato dal giudice, comporta l’estinzione del reato. Que-
— 640 — sta disposizione intende evidenziare (analogamente a quanto previsto per il perdono giudiziale) il carattere sostanziale dell’istituto, che, se pure non passa per una formale pronuncia di condanna, presuppone pur sempre un accertamento del reato commesso. Il messaggio per il minore deve essere, pur nella rinuncia a punire, un messaggio capace di fare appello al senso di responsabilità. 6.
Confisca e sanzioni riparatorie.
6.1. Confisca. — La confisca assume, nel sistema delineato, una collocazione sistematica autonoma, e riceve una disciplina articolata, che dovrebbe farne un istituto di centrale importanza nel contrasto alla criminalità con fini di lucro. La ragione della collocazione autonoma (fuori del catalogo delle pene) non è astrattamente ‘‘dogmatica’’, ma di chiarezza. I presupposti e la funzione della confisca sono diversi da quelli delle pene in senso stretto. Alla funzione specifica di ablazione dei profitti del reato corrisponde una struttura diversa da quella della pena: la confisca non è commisurata alla colpevolezza (può avere senso anche nei confronti di soggetti non imputabili o non punibili), e nemmeno alla gravità del reato, trovando (di regola) fondamento e limiti nel profitto da reato, che è cosa diversa dalla gravità del reato e della colpevolezza. Proprio per questa caratteristica, la confisca è l’istituto che meglio si presta a contrastare lo sfruttamento dell’illecito a fini di lucro. La correlazione con il profitto da reato, piuttosto che con la colpevolezza, consente interventi più penetranti, ma pur sempre sulla base di un ragionevole criterio di legittimazione. La disciplina proposta, assai più articolata di quella vigente, cerca di distinguere le diverse ipotesi di confisca, cui corrispondono funzioni in parte diverse, e di proporre una soluzione per i principali problemi derivanti dalla molto maggiore importanza che l’istituto dovrebbe acquistare. Vengono separatamente disciplinate le seguenti ipotesi: a) Confisca dello strumento del reato (art. 112). È tendenzialmente obbligatoria in caso di condanna, se la cosa appartiene a uno degli autori del reato. Può non essere disposta nel caso di contravvenzione, o se si tratta di cose di valore insignificante. Non viene disposta qualora, per il valore della cosa, e tenuto conto anche della pena inflitta, risulterebbe sproporzionata alla gravità del fatto: questa delimitazione tiene conto della valenza ‘‘punitiva’’ di questo tipo di confisca, non commisurato al profitto derivante dal reato. Qualora, per espressa disposizione di legge, la confisca sia ammessa anche su cose appartenenti a persona diversa dall’autore del delitto, può essere disposta soltanto se la destinazione o utilizzazione della cosa per la commissione del reato è dovuta a colpa del proprietario. Un caso particolare e più delicato è quello delle cose destinate ad attività produttiva (art. 113). Qui l’esigenza fondamentale è il ripristino delle condizioni di corretta utilizzazione, e a tal fine si prevede che, se il reato è stato realizzato mediante cose, impianti o macchinari sprovvisti di requisiti di sicurezza richiesti dalla legge, nell’esercizio di attività soggette ad autorizzazioni o controlli dell’autorità amministrativa, l’autorità amministrativa impartisce le prescrizioni opportune per la messa in sicurezza. La confisca è disposta solo in seconda battuta, ove mai le cose vengono nuovamente utilizzate senza che sia stata data attuazione alle prescrizioni dell’autorità o comunque alla messa in sicurezza. b) Confisca del profitto, prodotto, prezzo del reato (art. 114). È disposta a carico del condannato o del prosciolto perché non imputabile. Del profitto del reato è confiscata la parte che non debba essere restituita al danneggiato. Di centrale importanza è la previsione che la confisca può essere eseguita su di una somma di denaro o su altri beni di valore equivalente a quello delle cose che costituiscono il prezzo o il prodotto o il profitto del reato. Qualora il valore del prezzo, prodotto o profitto del reato non sia più, in tutto o in parte, a disposizione del condannato, la confisca viene disposta limitatamente all’importo disponibile, e a quello che possa prevedersi disponibile da
— 641 — parte del condannato in un prossimo futuro; non viene disposta, o viene disposta in misura ridotta, qualora ciò sia necessario per evitare di incidere in modo sproporzionatamente gravoso sulle condizioni elementari di vita della persona colpita. La possibilità di confisca per equivalente, e il rilievo dato alle prevedibili disponibilità future, dovrebbe assicurare una migliore, più ampia e più temibile applicazione dell’istituto. Per ovvie ragioni di economia dei mezzi rispetto al fine, si prevede che possa non essere disposta la confisca del profitto del reato che abbia valore insignificante, se la sua esecuzione appare difficoltosa. L’esigenza di far sì che ‘‘il delitto non paga’’ fonda la previsione che la confisca del profitto, prezzo o prodotto del reato è disposta anche a carico della persona, estranea al reato, che ne abbia beneficiato, nei limiti in cui il valore corrispondente sia disponibile, se il beneficiario poteva rendersi conto della provenienza illecita del profitto conseguito. Infine, il tipo di confisca in esame può cadere anche su beni passati in proprietà di persona diversa dall’autore del reato, per diritto successorio. In tal caso la confisca è disposta limitatamente ai beni dei quali l’erede abbia l’attuale disponibilità. c) Confisca di cose intrinsecamente illecite (art. 115). Segue il modello del codice vigente. d) Confisca di beni di provenienza non giustificata (art. 116). Viene inserite nel codice una disposizione di rinvio a norme particolari. Allo stato, viene in considerazione l’art. 12-sexies del d.l. n. 306/1992. e) Scioglimento di organizzazioni illecite e confisca (art. 117). La drastica misura colpisce le società o associazioni le quali siano state utilizzate esclusivamente o prevalentemente per la realizzazione di attività delittuose. Per assicurare una adeguata operatività all’istituto, si è resa esplicita (art. 118) l’irrilevanza di una eventuale intestazione fittizia: ai fini della confisca, i beni che l’autore del reato abbia intestato fittiziamente a terzi, o comunque possieda per interposta persona, sono considerati come a lui appartenenti. Evidenti esigenze di garanzia fondano infine la statuizione (art. 119) che la confisca non pregiudica i diritti di terzi in buona fede sulle cose che ne sono oggetto. 6.2. Conseguenze civili del reato. — Per quanto concerne le conseguenze civili del reato, la Commissione ha ritenuto sufficiente una normativa sobria (artt. 121 e 122), la quale si limita sostanzialmente a richiamare il principio che il reato — quale fatto ingiusto — se è produttivo di danno obbliga alle restituzioni e/o al risarcimento secondo le regole generali. Nessuna disposizione specifica è parsa necessaria, salvo la riaffermazione che l’obbligo di risarcimento del danno da reato si estende al danno non patrimoniale. È parso utile stabilire — nel tentativo di ridurre l’amplissima discrezionalità prevista in materia — che il danno non patrimoniale viene determinato dal giudice in via equitativa, con motivazione espressa, tenendo conto della sofferenza cagionata dal reato e della natura dolosa o colposa di questo. Merita ricordare che, nel sistema delineato, il risarcimento del danno acquista un forte rilievo, come condizione dell’ammissione a trattamenti ‘‘di favore’’ (sospensione condizionale ecc.), in una prospettiva che vede nella riparazione del sacrificio sofferto dalla vittima un obiettivo di tutela prioritario. In vista della riparazione delle conseguenze del reato, è parso inoltre opportuno assicurare il collegamento della giustizia penale con le competenze di altre autorità. Il sistema delineato, incentrato su obblighi di trasmissione della sentenza anche non definitiva, sottolinea la priorità, per quanto concerne la ‘‘gestione’’ degli interessi offesi dal reato, degli interventi delle autorità cui quegli interessi sono affidati. Fuori dei casi di competenza di altre autorità, con la sentenza di condanna il giudice può impartire al condannato disposizioni volte ad eliminare, per quanto oggettivamente possibile e soggettivamente esigibile, eventuali conseguenze dannose o pericolose per l’interesse pubblico offeso dal reato, non riparabili mediante restituzione o risarcimento.
— 642 — È stata infine mantenuta la previsione della pubblicazione della sentenza di condanna, a spese del condannato, come modalità di riparazione del danno, o di reintegrazione dell’interesse offeso dal reato. 7. Responsabilità delle persone giuridiche. — 1. Fra i punti più innovativi della proposta qui presentata c’è la previsione di un sistema di responsabilità delle persone giuridiche, ancorata al diritto e al processo penale ancorché non qualificata e allo stato non qualificabile come responsabilità penale. La questione della responsabilità delle persone giuridiche è ritornata d’attualità anche sul terreno politico-legislativo, in sede di ratifica di atti internazionali (convenzioni sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, e sulla lotta contro la corruzione internazionale) che sollecitano una positiva presa di posizione del legislatore nazionale sulla responsabilità (non altrimenti aggettivata) delle persone giuridiche, con riferimento ai reati oggetto delle convenzioni. Il disegno di legge all’esame del Parlamento, nei diversi testi via via approvati, ha optato per un sistema di responsabilità definita amministrativa, affidandone peraltro l’applicazione al giudice penale. Sul punto della responsabilità delle persone giuridiche, si tratta di una legge delega, contenente principi direttivi analitici. La Commissione ha assunto come riferimento importante, per i suoi lavori, l’indirizzo emergente dai lavori parlamentari, fermo restando l’impegno di ricerca di soluzioni tecniche coerenti con il complessivo disegno di riforma. Uno sguardo comparatistico mostra una sempre più diffusa ammissione della responsabilità penale delle persone giuridiche (così, per restare all’Europa, in Francia, Regno Unito, Olanda, Danimarca, Portogallo, Irlanda, Svezia, Finlandia). Nella discussione pro e contro l’introduzione di un sistema di responsabilità penale delle persone giuridiche, pesano fortemente aspetti simbolici. La Commissione ha preferito guardare alla sostanza dei modelli di disciplina, e ai principi che si ritiene di dover seguire. L’etichettatura dell’istituto è stata ritenuta di secondaria importanza, al punto da poter evitare una esplicita qualificazione entro gli schemi tradizionali. Le riflessioni della Commissione muovono dai problemi, per i quali la responsabilità delle persone giuridiche viene in discussione. Essi sorgono dentro il terreno penalistico: la questione della responsabilità delle persone giuridiche è direttamente raccordata al presupposto penalistico della commissione di reati. Da ciò l’esigenza di un raccordo coerente fra le diverse risposte che si ritenga opportuno dare alla commissione del reato. Anche gli strumenti sanzionatori che vengono in predicato, come sanzioni per le persone giuridiche, sono istituti corrispondenti a sanzioni e misure del diritto penale classico. Per tale contenuto pongono problemi ‘‘di garanzia’’, corrispondenti a quelli cui sono rivolti i principi fondamentali del diritto penale (in questa prospettiva l’art. 124 prevede che ‘‘alla responsabilità della persona giuridica si applicano le disposizioni dell’ordinamento penale, in quanto compatibili’’). L’eventuale responsabilità ‘‘da reato’’ delle persone giuridiche trova dunque collocazione, sia per i suoi presupposti, che per gli strumenti disponibili, in ambiente penalistico. Per tale ragione, è stata ritenuta una materia di competenza del codice penale, indipendentemente dalla etichetta ritenuta appropriata, e tale da porre in ogni caso la serie di problemi, soprattutto di garanzia, che la natura penalistica dei presupposti e il contenuto fortemente sanzionatorio traggono con sé. 2. Contro la responsabilità penale delle persone giuridiche, viene invocato da parti non trascurabili della dottrina italiana (e non solo) il principio di personalità della responsabilità, nella dimensione pregnante che esige, quale presupposto indefettibile della responsabilità penale, la colpevolezza del soggetto punibile. Nel corso del dibattito che è seguito alla pubblicazione del documento di base 15 luglio 1999 sono state in effetti numerose le posizioni critiche assunte anche soltanto nei confronti della progettata previsione di una responsabilità (non necessariamente penale) degli enti collettivi (fra queste si colloca sostanzial-
— 643 — mente la posizione assunta dalla Commissione della Procura Generale nel parere sul documento; di ben diverso tenore è stata tuttavia la posizione assunta dalla Commissione della Corte di cassazione, sensibile ai profili positivi di una previsione della responsabilità delle persone giuridiche). Ed anche all’interno della Commissione sono emerse, nelle parole e nei documenti di taluni commissari, le perplessità sopra menzionate. Le questioni in tal modo sollevate rimettono in discussione, a ben vedere, non semplicemente i limiti garantisti del diritto penale, ma le stesse condizioni di razionalità di un corpus normativo rivolto alle persone giuridiche, che intenda adempiere a funzioni di prevenzione generale mediante la tecnica della posizione di precetti e sanzioni, amministrative o penali che siano. Gli ordinamenti giuridici dei paesi più importanti, le convenzioni internazionali, la legge di ratifica in corso di approvazione in Italia, presuppongono la razionalità e utilità di un sistema di forme di responsabilità penale o amministrativa delle persone giuridiche. La maggioranza della Commissione ha condiviso tale indirizzo, ritenendo realistico ipotizzare la sussistenza di condizioni di funzionalità generalpreventiva, atte a legittimare un modello di disciplina di tipo penalistico, rivolto alla persona giuridica. Questa viene considerata, indipendentemente da schemi di astratta dogmatica giuridica, quale autonomo centro d’interessi e di rapporti giuridici, punto di riferimento di precetti di varia natura, e matrice di decisioni ed attività dei soggetti che operano in nome, per conto o comunque nell’interesse dell’ente. L’esperienza ha evidenziato le potenzialità ‘‘criminogene’’ di strutture organizzate, rispetto all’agire di chi vi sia implicato. Spesso l’illecito è frutto di condizionamenti sull’agire del singolo, connessi all’operare per l’organizzazione: condizionamenti che possono derivare, e di regola derivano, da vincoli organizzativi, stili di comportamento, ‘‘politiche’’ imposte o additate ai portatori di determinati ruoli. Sotto altro aspetto, l’ordinamento giuridico conosce varie e importanti tipologie di illeciti che, penalisticamente riferiti a persone fisiche, costituiscono violazione di doveri che per l’ordinamento giuridico complessivo fanno capo all’ente. Le disposizioni proposte in materia di responsabilità per omissione hanno espressamente evidenziato questo aspetto. Appare perciò ragionevole supporre che sanzioni comunque significative, rivolte alla persona giuridica, possano venire in rilievo per le decisioni e le attività dei soggetti che, associati nella persona giuridica, o comunque operando entro la persona giuridica, sono il tramite necessario per l’adempimento dei doveri gravanti sulla persona giuridica stessa, e debbono assumere e assumono gli interessi della persona giuridica fra i criteri (non certo secondari) di orientamento della propria attività. Per quanto concerne il rispetto del principio di personalità, l’identità fra autore dell’illecito e destinatario della sanzione può ritenersi assicurata (in via di prima approssimazione) quando la persona fisica autore dell’illecito sia un soggetto che ha ‘‘agito per’’ la persona giuridica, avendo ‘‘competenza a impegnarla’’. I requisiti di questo doppio legame, del fatto e dell’autore, con la persona giuridica possono essere diversamente disciplinati; ma la possibilità di individuare un legame rilevante appare tutt’uno con la stessa possibilità di identificare la persona giuridica come soggetto di diritto e protagonista di concrete vicende nella vita della società (quanto alle condizioni di un possibile rimprovero di colpevolezza nei confronti della persona giuridica, infra, n. 6). Infine, la sanzione applicata alla persona giuridica colpisce il medesimo centro d’interessi che ha dato causa alla realizzazione dell’illecito. Alla personalità dell’illecito corrisponde la personalità della sanzione. La maggioranza della Commissione è dell’avviso che le considerazioni sopra menzionate consentirebbero di sostenere la piena legittimità della introduzione nel sistema giuridico italiano di un modello penalistico della responsabilità delle persone giuridiche. Per non forzare una situazione che appare a tutt’oggi oggetto di discussioni aperte anche all’interno della Commissione stessa, ha tuttavia scelto di non utilizzare tale modello. Il sistema delineato, che evita di parlare anche di responsabilità amministrativa, introduce una sorta di tertium genus, che è sì ancorato a presupposti penalistici (commissione di un reato) e governato
— 644 — dalle garanzie forti del diritto penale, ma che rispetto al diritto penale classico presenta inevitabili diversità, dovute alla diversità dei destinatari. La soluzione tecnica adottata è sembrata d’altronde alla Commissione pienamente coerente con l’indirizzo della legge di ratifica. Nei contenuti, vi è sostanziale corrispondenza di disciplina: le sanzioni per la persona giuridica sono le stesse, collegate a un commesso reato, e applicate dall’autorità giudiziaria nel processo penale. Le differenze nelle concrete soluzioni sono differenze tecniche, delle quali verrà data puntuale motivazione. 3. Per quanto concerne le ragioni a sostegno della responsabilità delle persone giuridiche, il documento di base è partito da ragioni interne al sistema penale, e segnatamente di razionalizzazione di diversi istituti del sistema sanzionatorio penale. Vengono in rilievo, innanzi tutto, esigenze di riequilibrio delle sanzioni pecuniarie del diritto penale d’impresa, là dove (e ciò accade con frequenza nell’ordinamento vigente) esse attingono limiti edittali elevatissimi, chiaramente pensati in relazione a un patrimonio cospicuo: quello dell’impresa, e non quelli dei dirigenti o dipendenti sui quali si appunta la responsabilità penale. Di fatto, è l’impresa che si accolla il costo delle sanzioni pecuniarie penali, cui è comunque sussidiariamente obbligata. In concreto, dunque, già oggi un sistema sanzionatorio rivolto in via di principio a persone fisiche, ma costruito pensando a pingui patrimoni di imprese, viene di fatto a gravare largamente su persone giuridiche. Con l’introduzione della responsabilità diretta delle persone giuridiche, il sistema diviene più trasparente, oltre che più equo. Il sistema delle ‘‘quote giornaliere’’ ne consente la strutturazione più adeguata. Effetti di razionalizzazione si avrebbero poi in relazione ad istituti (come l’oblazione discrezionale) ed a prassi (es., in materia di ‘‘patteggiamento’’) che sollecitano all’autore del reato comportamenti di riparazione dell’offesa. Là dove sullo sfondo vi siano attività d’impresa, tali comportamenti possono essere di fatto realizzati dall’impresa, in genere una persona giuridica; non, di regola, dall’imputato, sia o non sia più un dipendente dell’organizzazione. Da ciò deriva una vistosa sfasatura fra il modello formale dell’istituto e le condizioni fattuali del suo funzionamento. Il linkage fra riparazione dell’offesa, non possibile per l’imputato, e conseguenze favorevoli per l’imputato (ammissione all’oblazione o al patteggiamento) fa dipendere la sorte dell’imputato da comportamenti di altri: è un intreccio ambiguo ed iniquo fra giudizio penale nei confronti di persone fisiche, e interessi risarcitori o reintegratori il cui soddisfacimento, proprio nei casi di maggior rilievo, eccede le possibilità degli imputati. Sciogliere questo intreccio inaccettabile, senza pregiudizio per interessi tutti importanti e meritevoli di tutela, diviene fattibile là dove il collegamento fra sanzione, riparazione e conseguenza ‘‘premiale’’ sia riportato entro l’ambito della responsabilità della persona giuridica. Per quanto concerne infine la confisca, la possibilità di disporla a carico della persona giuridica consente di inseguire il profitto dell’illecito, quando beneficiaria ne sia stata la persona giuridica, presso il soggetto che di fatto lo abbia conseguito. In questa direzione si sono mossi anche ordinamenti ai quali la responsabilità penale delle persone giuridiche è estranea. Sono dunque ragioni interne al sistema penale, che premono per l’introduzione di una responsabilità diretta delle persone giuridiche. Non si tratta semplicemente di introdurre istituti nuovi. Si tratta, anche, di raddrizzare istituti esistenti, che la mancata previsione di una diretta responsabilità della persona giuridica espone a uno stress gravemente deformante, con costi (in termini di denaro e di sperequazioni di trattamento) che ricadono non solo sulle persone fisiche autori di reato, ma anche sulle persone giuridiche, la cui estraneità al sistema penale è già oggi, di fatto e di diritto, mera apparenza. 4. Nella costruzione del modello di responsabilità della persona giuridica, i punti cruciali sono stati così identificati: definizione dell’ambito oggettivo di responsabilità; individuazione dei soggetti del sistema; questione della ‘‘colpevolezza’’ della persona giuridica; sistema delle sanzioni.
— 645 — La responsabilità della persona giuridica è prevista (art. 125, comma 1) come aggiuntiva e non sostitutiva di quella di persone fisiche. Questo punto non è oggetto di discussione: il coinvolgimento delle persone fisiche resta in ogni caso necessario dal punto di vista della prevenzione generale. Per quanto concerne l’individuazione dei soggetti, viene proposto un criterio che, da un lato, estende la responsabilità anche alle associazioni non riconosciute, e dall’altro lato la delimita agli enti che svolgono attività economica (art. 123, comma 2). Questa delimitazione, fondata su esigenze di garanzia, vale anche ad indirizzare l’intervento penale nelle direzioni nelle quali vi è un maggior bisogno di controllo. È stata prevista inoltre l’esclusione, in conformità ai modelli di altri paesi, di Stato, Regioni, enti pubblici territoriali e Autorità indipendenti. Pur potendo ciò apparire un privilegio non del tutto giustificato, valutato negativamente da una parte della Commissione, la maggioranza ha ritenuto che altre soluzioni sarebbero pericolose e poco comprensibili. Per il caso che il fatto sia stato commesso nell’ambito di un’attività sottoposta alla direzione o controllo da parte di altra persona giuridica, si prevede che la responsabilità si estenda alla persona giuridica che esercita la direzione o il controllo. È la medesima soluzione adottata con riferimento alle posizioni di garanzia, e per le medesime ragioni. Ulteriori disposizioni riguardano il caso di trasformazione della persona giuridica (la responsabilità resta ferma) e quello di cessione dell’unità organizzativa, nell’attività della quale è stato commesso il reato. Ferma la responsabilità della persona giuridica cedente, si propone di rendere il cessionario civilmente obbligato in solido al pagamento della sanzione pecuniaria, se era o poteva essere a conoscenza del commesso reato. Si tratta di una disposizione, per così dire, antielusiva, dalla quale non derivano, per il cessionario, oneri di diligenza maggiori di quelli che un contraente avveduto normalmente esercita nel proprio interesse. Resta scoperto il problema dello scioglimento della persona giuridica, per il quale la Commissione non ha individuato soluzioni idonee. Resta infine fuori dal sistema della ‘‘responsabilità delle persone giuridiche’’ l’utilizzazione dello schermo della persona giuridica nell’ambito della criminalità organizzata. Per tali casi, viene previsto uno strumento ‘‘mirato’’ più energico: scioglimento dell’organizzazione ai sensi dell’art. 117, e conseguente confisca del patrimonio residuo. 5. Per quanto concerne l’ambito di responsabilità, viene proposto (art. 123, comma 1) un duplice criterio: a) delitti dolosi commessi ‘‘per conto o comunque nell’interesse specifico’’ della persona giuridica stessa, da parte di soggetti competenti a impegnarla; b) reati realizzati nello svolgimento dell’attività della persona giuridica, con inosservanza di disposizioni pertinenti a tale attività, da persone che ricoprono una posizione di garanzia nell’ambito dell’organizzazione (esclusi i reati commessi in danno della persona giuridica). La legge delega ha optato per una elencazione nominativa di reati, che comprende la maggior parte delle ipotesi più significative riconducibili ai criteri sopra indicati. La Commissione, che pure si è posta, discutendolo ampiamente, il problema se prevedere un elenco tassativo, ha optato per le clausole generali sopra indicate, ritenute idonee a selezionare al meglio, con precisione e senza rischi di lacune, i casi nei quali l’attribuzione di responsabilità alla persona giuridica appaia giustificata. Il criterio dell’agire ‘‘per conto o nell’interesse specifico’’, introdotto in una normativa che si riferisce ad enti che svolgono attività economica, è pensato essenzialmente per forme aggressive di criminalità economica, anche se non necessariamente contro il patrimonio (si pensi per es. alla corruzione). Può ragionevolmente comprendere anche delitti d’altra natura, immediatamente strumentali all’agire dell’ente nel ‘‘traffico giuridico’’ (per es., falsità documentali o reati societari), o riguardanti attività tipiche dell’ente (per es., reati a mezzo stampa nel caso di imprese editoriali). Non potrà invece comprendere delitti d’altra natura:
— 646 — per es., l’ipotesi di scuola dell’omicidio su commissione, per eliminare un temuto concorrente, non rientra nel criterio dell’interesse, correttamente inteso in senso oggettivo. Il secondo criterio copre il medesimo ambito nel quale si pone il problema delle responsabilità entro organizzazioni complesse, già esaminato nel capitolo relativo alle posizioni di garanzia. Rientrano in quest’ambito, in particolare, i settori fondamentali del diritto penale d’impresa: tutela dell’ambiente, sicurezza del lavoro e della collettività, tutela dei consumatori; e non solo le norme del diritto penale speciale, ma anche delitti già previsti nel codice penale (es., delitti contro l’incolumità delle persone) o che potrebbero esservi introdotti (es., delitti contro l’ambiente). Per l’essenziale, si tratta di reati colposi. Il sistema delineato instaura uno stretto rapporto fra il piano delle responsabilità entro l’organizzazione, e quello della responsabilità dell’organizzazione, qualora questa sia un autonomo soggetto di diritto. I presupposti della responsabilità vengono fatti tendenzialmente coincidere, nel senso che la persona giuridica risponde in tutti i casi in cui sia in gioco una qualsivoglia posizione di garanzia relativa alla sua attività, fondata su poteri (e correlativi doveri) nell’ambito dell’organizzazione. Il riferimento alle posizioni di garanzia non intende delimitare la responsabilità della persona giuridica ad ipotesi di responsabilità ‘‘omissiva’’ del garante, ma serve a identificare i soggetti, la cui eventuale commissione di un reato d’un certo tipo (commissivo o omissivo, non fa differenza) possa essere ascritta alla persona giuridica come inadempimento di doveri propri di questa. 6. Per ragioni di garanzia, si è ritenuto necessario agganciare la responsabilità della persona giuridica a presupposti idonei a fondare un addebito di colpevolezza. Modificando parzialmente la soluzione prospettata nel documento di base, il testo proposto prevede la soluzione più garantista: quella che delimita la responsabilità della persona giuridica ai casi in cui il reato sia dipeso da un difetto di organizzazione o di ‘‘politica d’impresa’’. Il cuore della disciplina sta dunque nel rilievo attribuito (alla luce dell’esperienza americana dei compliance programs) all’adozione ed efficace attuazione, da parte della persona giuridica, di modelli di organizzazione, gestione e controllo idonei a prevenire reati. L’effetto di esonero da responsabilità (art. 126) significa che l’adozione e attuazione di un modello organizzativo idoneo è per la persona giuridica l’adempimento di un dovere, e il mancato adempimento fonda il rimprovero di colpevolezza per il reato che ne sia derivato (non impedito). I requisiti contenutistici e di idoneità del modello organizzativo (che dovrà ovviamente adattarsi alla natura e alle dimensioni dell’organizzazione, e al tipo di attività svolta) sono previsti nel capo relativo alla responsabilità per omissione (retro, n. 2.2.2). Lo schema è stato pensato per le situazioni più complesse, e vuole essere sufficientemente rigoroso da evitare il rischio che possano essere invocati a discolpa modelli inefficaci o non seriamente applicati. Non vi è esclusione di responsabilità (art. 126, comma 3) se l’autore del reato aveva poteri di direzione della persona giuridica, o di una unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e tecnico-funzionale, o ne esercitava di fatto la direzione. Ciò perché, in tali ipotesi, l’elevato livello di poteri e di responsabilità dell’autore del reato, per il ruolo dirigente ricoperto nell’organizzazione, consente di identificare nella sua colpa la colpevolezza dell’organizzazione stessa. Rispetto alla legge delega, questa disciplina rappresenta un affinamento tecnico, che risponde alle medesime esigenze di garanzia, e alla Commissione appare più funzionale e più coerente con il complessivo sistema del codice. La disciplina in esame fa salva l’esclusione da responsabilità nel caso (espressamente considerato dalla legge delega) che l’autore del reato abbia agito nell’esclusivo interesse proprio o di terzi, e non della persona giuridica. Entrambi i criteri di cui all’art. 123, comma 1, tagliano fuori tale ipotesi. Sia la legge delega, sia il sistema qui delineato, si preoccupano di individuare criteri di delimitazione della responsabilità qualora il reato, pur obiettivamente ascrivibile all’attività
— 647 — dell’ente, non risalga a soggetti muniti di poteri dirigenziali. Nel sistema della legge delega, la responsabilità della persona giuridica sussiste se la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza di obblighi connessi a funzioni di direzione o controllo: un tale modello sembra legare strettamente la responsabilità della persona giuridica a quella di persone fisiche. La Commissione ha invece ritenuto preferibile un sistema che consenta di valutare in modo autonomo le diverse posizioni: ciò è più garantista per le persone fisiche, e più coerente con la logica del sistema centrato sull’adozione di idonei modelli organizzativi. La colpevolezza che fonda la responsabilità della persona giuridica non necessariamente si identifica con la colpevolezza di persone fisiche (art. 125), ma sta nel deficit dell’organizzazione o dell’attività, rispetto al modello cui è tenuta la persona giuridica nel suo insieme. Le esigenze sottese alla soluzione tecnica della legge delega (individuazione di un ragionevole criterio di collegamento della persona giuridica con il reato) sono dunque compiutamente recepite e salvaguardate nel sistema del codice. 7. Per quanto concerne la tipologia delle sanzioni, il documento di base ha seguito il disegno di ratifica delle convenzioni internazionali: sanzione pecuniaria, confisca, misure interdittive in senso lato. Nel testo qui proposto è stata aggiunta la pubblicazione della sentenza di condanna; la confisca, in conformità al sistema delineato, è considerata come misura sui generis. Non è stato dato ingresso ad altre misure, pur prospettate da più parti, quali l’assoggettamento della persona giuridica a sorveglianza giudiziaria, o a prescrizioni volte a prevenire la reiterazione dell’illecito. È stato infatti ritenuto opportuno evitare di attribuire al giudice penale poteri formali d’ingerenza in campi rimessi in via di principio all’autonomia privata. Nella prospettiva della prevenzione di illeciti futuri, sono parsi senz’altro preferibili strumenti che, anche formalmente, non abbiano carattere sanzionatorio, ma siano interamente costruiti nell’ottica della valorizzazione dell’autonomia e autoresponsabilità della persona giuridica, per quanto attiene ai propri problemi gestionali ed alla adozione e attuazione di idonei modelli organizzativi. Potranno venire in rilievo, ove previsti in relazione a date attività, provvedimenti e controlli dell’autorità amministrativa. Per interventi sulla struttura di comando della persona giuridica, resta, occorrendo, a disposizione il penetrante strumento di cui all’art. 2409 c.c. L’art. 127 contiene le disposizioni sulla struttura del sistema delle sanzioni. Si prevede innanzi tutto che le sanzioni per la persona giuridica sono disciplinate dalle disposizioni sulle corrispondenti specie di pena, in quanto applicabili; le disposizioni che seguono riguardano punti su cui è parso opportuno differenziare o chiarire qualcosa. La prevista inapplicabilità (art. 127, comma 2) della sospensione condizionale alle persone giuridiche si lega alla valorizzazione di altri istituti aventi analoga struttura ‘‘premiale’’ e funzione di incentivazione di comportamenti di riparazione dell’offesa (oblazione, circostanza attenuante di cui all’art. 132, lett. c)). D’altra parte, anche per le persone fisiche la sospensione condizionale della pena pecuniaria viene prevista in termini assai ristretti. Di mero chiarimento è la specificazione che i termini di prescrizione sono identici a quelli stabiliti per la persona fisica autore del reato. La normale connessione dei procedimenti fa apparire incongrua (se non pericolosa) la previsione di termini differenziati. La diversa soluzione della legge delega, che fa rinvio al sistema della prescrizione civile, è coerente con il sistema della l. n. 689/1981, ma disfunzionale rispetto all’opzione per un modello processuale unitario. Il distacco da tale soluzione poggia dunque su ragioni tecniche. La sanzione fondamentale è quella pecuniaria, applicabile in qualsiasi caso. Pure la pubblicazione della sentenza di condanna può essere disposta in ogni caso, in aggiunta alla sanzione pecuniaria, o in via esclusiva qualora per il reato commesso sia prevista l’applicabilità di tale tipo di pena in via esclusiva o alternativa (art. 127, comma 3). Una disciplina ad hoc (art. 127, comma 4) è parsa opportuna a proposito della commisurazione della sanzione. In coerenza con il complessivo impianto di disciplina, il giudice dovrà tenere conto — oltre che della gravità del fatto — del grado di coinvolgimento della per-
— 648 — sona giuridica nella realizzazione del reato, e delle misure adottate per eliminare o attenuare le conseguenze del reato e per prevenire futuri reati. I successivi articoli disciplinano le diverse specie di sanzione. Per la sanzione pecuniaria, l’importo della quota giornaliera di sanzione pecuniaria va da un minimo di lire 50 mila a un massimo di lire 10 milioni (art. 128, comma 1): i livelli sono superiori a quelli previsti per le persone fisiche, ma non tali da portare a conseguenze squilibrate. L’adozione del sistema delle ‘‘quote giornaliere’’ rende superflua una disposizione del tipo di quella contenuta nella legge delega, che circoscrive la responsabilità entro i limiti del fondo comune o del patrimonio sociale. Poiché la responsabilità delle persone giuridiche può riguardare reati per i quali è prevista la pena detentiva, si rende necessario un criterio di ridefinizione della sanzione edittale. Si propone che, se la legge non dispone diversamente, alla persona giuridica si applichi la sanzione pecuniaria da 3 mesi a 2 anni (che è il limite edittale massimo per le pene pecuniarie) ovvero quella corrispondente ai limiti edittali della pena detentiva prevista, se meno elevati (art. 128, comma 2). Quanto alle sanzioni interdittive, la disciplina proposta (art. 129) è costruita in chiave esclusivamente specialpreventiva. La Commissione, ben consapevole dei riflessi negativi di misure che interrompano la normale attività economica, propone un modello nel quale la minaccia della sanzione interdittiva tende essenzialmente a ottenere risultati utili per la salvaguardia degli interessi tutelati, e consenta alla persona giuridica di evitare, con il proprio attivarsi successivo al reato, la concreta applicazione della misura interdittiva. Per l’interdizione da una determinata attività si propone una durata da tre mesi a un anno. Detta sanzione colpisce l’attività nella quale è stato commesso il reato; può consistere anche nella chiusura totale o parziale di uno stabilimento. Viene disposta, in aggiunta alla sanzione pecuniaria, esclusivamente in caso di reato di particolare gravità, e a stringenti condizioni: se non sono state eliminate le condizioni di pericolo che hanno dato causa al delitto; se non sono state eliminate le conseguenza dannose o pericolose del reato, eliminabili da parte della persona giuridica; se non sono stati adottati modelli di organizzazione, gestione e controllo idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Evitarne l’applicazione è dunque nella possibilità della persona giuridica che doverosamente si attivi. Analoga disciplina è dettata (art. 129, comma 2) per l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, che si prevede applicabile alla persona giuridica nei casi di delitto commesso da persona munita di poteri di direzione della persona giuridica o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia funzionale, per il quale sia applicabile all’autore del delitto una pena interdittiva. Fuori dal catalogo delle sanzioni è disciplinata la confisca (art. 130). È parso opportuno prevedere che, nei casi in cui sussista la responsabilità della persona giuridica, le cose appartenenti a questa siano sottoposte, ai fini della confisca, al regime delle cose appartenenti all’autore del reato. Per l’applicazione delle sanzioni alla persona giuridica si prevede la competenza del giudice penale (art. 133). Ciò risponde ad un elementare criterio di razionalità organizzativa, e alla soluzione adottata nel disegno di legge di ratifica delle convenzioni internazionali. 8. Il testo proposto prevede espressamente (art. 131) l’applicabilità alla persone giuridiche dell’istituto dell’oblazione, differenziandosi dalla scelta effettuata nella legge delega, che esclude il ‘‘pagamento in misura ridotta’’. L’ammissione all’oblazione — che è per le persone giuridiche una soluzione più favorevole — è coerente con il sistema del codice. L’oblazione è infatti pensata avendo riguardo ad un ambito di applicazione il cui nucleo essenziale è quello delle contravvenzioni relative ad attività d’impresa, nei settori ‘‘ambiente e sicurezza’’, per i quali acquista particolare rilievo l’esigenza di eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato. Non vi è ragione di sottrarre alla persona giuridica la possibilità di avvalersi di tale istituto. In coerenza con l’ottica ‘‘specialpreventiva’’ che regge sia l’istituto dell’oblazione, sia la disciplina della responsabilità delle persone giuridiche, viene previsto che l’adozione e attua-
— 649 — zione di un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi è condizione necessaria per l’ammissione all’oblazione, in aggiunta alle condizioni di cui all’art. 89, e può venire in rilievo come circostanza attenuante (quest’ultima previsione corrisponde a una indicazione della legge delega). Come circostanze attenuanti sono inoltre previste (art. 132) le ipotesi in cui l’autore del reato abbia agito nel prevalente interesse proprio o di terzi, e la persona giuridica non ne abbia tratto profitto o abbia tratto un profitto insignificante; ovvero abbia agito in consapevole violazione di specifiche disposizioni ricevute. 9. Nel disegno di legge di ratifica delle convenzioni internazionali si prevede l’introduzione di istituti (possibilità di recesso) a tutela del socio incolpevole, per il caso di accertata responsabilità ‘‘da reato’’ della persona giuridica. La Commissione non ha preso in considerazione istituti del genere, perché di pertinenza del diritto societario, e, dal punto di vista considerato, non necessari ad assicurare il rispetto del principio di personalità della responsabilità (la sanzione a carico della persona giuridica non è a carico dei soci; per questi ultimi non è che un aspetto del rischio del loro investimento, non diversamente da altri costi, per es. per risarcimento di danni). Rispetto ad eventuali interventi legislativi a tutela dei soci, il testo proposto è intenzionalmente neutrale, e pienamente compatibile con la normativa della legge delega. 10. Piena convergenza vi è fra il testo proposto e la legge delega in ordine alla esigenza di prevedere le opportune garanzie processuali. Trattandosi di materia non di competenza del codice penale, si è pensato ad una disposizione di coordinamento, la quale stabilisce che si applicano alla persona giuridica chiamata a rispondere ai sensi del titolo VII del codice penale le disposizioni processuali relative all’imputato. La persona giuridica sta in giudizio per il tramite del suo legale rappresentante o di un procuratore speciale; non può stare in giudizio per il tramite di persona imputata per il medesimo fatto. È ammessa nei suoi confronti la costituzione di parte civile. 8. Disposizioni di attuazione e coordinamento. — La riforma del sistema delle sanzioni sollecita interventi su materie non di competenza del codice penale, ma che fanno parte del complessivo sistema di giustizia penale, la cui disciplina viene in rilievo per il funzionamento del nuovo sistema. Su alcuni problemi, prevalentemente di carattere tecnico, sono proposte precise soluzioni in una serie di disposizioni di coordinamento. Su altri, che implicano scelte più impegnative, la Commissione si limita a segnalare i problemi e a ipotizzare talune linee di approccio. 1. Esigenze di coerenza complessiva del disegno riformatore sollecitano interventi sull’ordinamento penitenziario, cui compete il delicato compito di dare concreta attuazione alle indicazioni di principio del codice circa la finalità e la struttura delle pene o misure detentive. Inoltre, è necessario coordinare le misure alternative, che l’ordinamento penitenziario ha introdotto, con il rinnovato sistema sanzionatorio. Quelle misure sono state introdotte, e sono servite, a dare elasticità a un sistema troppo rigido e severo, del quale si propone una radicale riforma. La restrizione dell’area della pena carceraria, e la valorizzazione di istituti con finalità specialpreventiva (sospensione condizionale arricchita di contenuti), dovrebbero diventare caratteristica strutturale del sistema codicistico. Da ciò l’esigenza che le misure dell’ordinamento penitenziario siano ridisegnate in modo da potersi inserire armonicamente entro il nuovo sistema, come coerente sviluppo delle medesime linee di politica penale. Quanto meno, occorre evitare che gli istituti penitenziari introducano (lascino persistere) aspetti di incoerenza rispetto agli equilibri avuti di mira nel ristrutturare il sistema delle sanzioni. Sulle possibili e auspicabili riforme dell’ordinamento penitenziario, la Commissione non ha formulato proposte, perché tale tema fuoriesce dal suo mandato. Ritiene, peraltro, di dover segnalare che il sistema sanzionatorio proposto trova giustificazione, e può funzionare,
— 650 — soltanto se la sua pratica applicazione sarà assicurata, anche in sede di ordinamento penitenziario, da istituti coerenti con i suoi presupposti e obiettivi. Problemi di coordinamento si pongono, in particolare, con riguardo alla disciplina della sospensione condizionale, cioè di un istituto che dovrebbe assumere un ruolo centrale, di cerniera, fra il sistema codicistico delle sanzioni e l’area assegnata al ‘‘penitenziario’’. Un’elementare coerenza d’indirizzi esige che l’affidamento in prova venga sottoposto a presupposti soggettivi analoghi a quelli della sospensione condizionale, e alla accettazione, da parte del condannato, dei medesimi obblighi. In mancanza di ciò, l’affidamento in prova potrebbe avere effetti di scardinamento dei criteri su cui si vuole ricostruito e delimitato l’istituto della sospensione condizionale. L’affidamento in prova al servizio sociale dovrebbe essere inoltre riportato alla originaria fisionomia di istituto alternativo a pene brevi ab origine, avendo riguardo alla pena complessiva determinata dal giudice nella sentenza o nelle sentenze cui si debba dare esecuzione (considerando cioè pena inflitta i periodi già espiati e la parte di pena estinta per indulto). Per i residui di pena, l’ordinamento prevede altri istituti, come la liberazione condizionale, che per evidenti ragioni di coerenza sistematica si propone di trasferire dal codice nell’ordinamento penitenziario, concernendo una possibile evoluzione del trattamento del condannato a pena detentiva. Di questo nesso sistematico tiene conto anche la proposta di legare la liberazione condizionale ad un previo periodo di semilibertà. Naturalmente nell’ambito di un ridimensionamento delle pene inflitte si dovrà prendere in considerazione l’introduzione di limiti più rigorosi per la stessa semilibertà, che dovrebbe svolgere solo un ruolo di avvio alla liberazione condizionale. La liberazione anticipata, in un sistema che dovrebbe portare alla applicazione di pene meno prolungate, potrebbe comportare una detrazione più ridotta. Entro l’ordinamento penitenziario, infine, troverebbero appropriata collocazione le norme sulle cause di differimento o sospensione dell’esecuzione. È per questo che non sono inserite nel testo proposto. Nel complesso, appaiono recuperabili le disposizioni degli artt. 146 e 147 del vigente c. p. Rocco. 2. La revisione del sistema sanzionatorio sollecita anche una rinnovata riflessione sugli aspetti ‘‘premiali’’ dei riti alternativi. Il modello qui delineato tende alla applicazione di pene che siano giustificate secondo i criteri propri del diritto sostanziale; la vigente disciplina dei riti alternativi ne modifica il volto, secondo criteri di ritenuta utilità processuale. La Commissione si limita a segnalare il problema, che tocca peraltro un punto cruciale per gli equilibri del sistema di giustizia penale. 3. Il modello di scelta e di commisurazione della sanzione, delineato nel disegno di nuovo codice, pone il giudice dinanzi a molteplici opzioni, e a complessi problemi di valutazione e di prognosi, che richiedono una adeguata base conoscitiva. È inoltre dato rilievo ad atteggiamenti dell’imputato (richieste o consenso a pene sostitutive; assunzione o accettazione di dati impegni ai fini della sospensione condizionale) che debbono poter trovare spazio nel giudizio di merito. Ciò rende stringente l’esigenza di assicurare alla questione della sanzione uno spazio adeguato in sede processuale, nel quale possano essere approfonditi (anche sul piano probatorio) i temi specificamente rilevanti, e le parti (in primis l’imputato) possano prospettare le loro ragioni e determinazioni. Da ciò la proposta (art. 12 disp. coord.) di consentire l’autonomia della pronuncia sulla sanzione, rispetto alla pronuncia sulla responsabilità, ogni volta che il giudice lo ritenga necessario. La Commissione è ben consapevole che questa indicazione interferisce con le scelte finora effettuate del legislatore processuale, richiedendo innovazioni di non poco momento. Ha ritenuto, peraltro, che tale indicazione non ecceda la propria competenza, essendo strettamente legata ad esigenze immanenti al nuovo sistema sanzionatorio. La sollecitazione di modifiche del processo intende, per così dire, riaffermare il primato del diritto sostanziale, nella prospettazione di obiettivi e di esigenze cui il diritto processuale è tenuto ad apprestare strumenti idonei.
— 651 — Al solo fine di facilitare il recepimento della proposta, e ferma l’opportunità di più approfondite riflessioni sugli strumenti processuali, sono state ipotizzate anche alcune disposizioni di adeguamento del codice di procedura. 4. Disposizioni di coordinamento sono state previste per consentire la corretta applicazione del diritto sostanziale in situazioni nelle quali potrebbe essere ostacolata da contingenti situazioni processuali. È stata così espressamente prevista (art. 6) l’applicazione del cumulo giuridico in fase di esecuzione, secondo le regole attualmente previste per il reato continuato. È stata espressamente prevista (art. 7) la possibilità di revoca della sospensione condizionale, ove in separati procedimenti sia stata concessa al di là dei limiti consentiti. Lo stesso articolo chiarisce che, ai fini della concessione o della revoca della sospensione condizionale della pena, la sentenza di applicazione della pena a richiesta è equiparata a una pronuncia di condanna. Nelle disposizioni di coordinamento è stata anche inserita (art. 10) la disciplina della detrazione delle misure cautelari dalla durata della pena, che non attiene alla struttura del sistema sanzionatorio, ma al coordinamemto fra diritto sostanziale e processo. Con riguardo ad attività sottoposte ad autorizzazioni o controlli dell’autorità amministrativa, si pone un problema di coordinamento fra processo penale, adempimenti ‘‘di riparazione’’ e competenze amministrative. Da ciò la proposta di una disposizione (art. 13) in base alla quale, quando il fatto contestato riguarda attività sottoposte ad autorizzazioni o controlli dell’autorità amministrativa, le attività volte ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose siano effettuate previa informazione dell’autorità competente, e in conformità all’autorizzazione amministrativa, se richiesta dalla legge. Con riferimento al trattamento dei soggetti in condizione di capacità ridotta disciplinato dall’art. 102, comma 1 sono stati previsti specifici benefici penitenziari (art. 9). L’eliminazione della definizione di cittadino, ha imposto una disposizione di coordinamento con riferimento alla posizione degli apolidi (art. 3), mentre in tema di riconoscimento delle sentenze penali straniere e transitoriamente in tema di estradizione è stato previsto l’art. 4. 5. Diversi istituti (oblazione, sospensione condizionale, disciplina della responsabilità delle persone giuridiche) sollecitano adempimenti successivi al commesso reato, volti all’eliminazione delle sue conseguenze. Ciò comporta la necessità di assicurare congrui termini, per adempimenti che sono, ad un tempo, di salvaguardia degli interessi tutelati, e nell’interesse dell’imputato. Lo spazio per poter provvedere dovrebbe essere di regola assicurato dalla normale durata del procedimento, e, spesso, dalla conoscenza ancora più anticipata che l’interessato può avere, circa le situazioni su cui intervenire. Poiché però ciò potrebbe non sempre essere sufficiente, si è ipotizzata una disposizione (art. 13) la quale riconosca all’imputato, o alla persona giuridica cui sia contestato l’illecito, di chiedere, prima dell’apertura del dibattimento di primo grado, un termine per realizzare adempimenti cui il codice penale condiziona l’esclusione di particolari tipi di sanzione, o l’ammissione all’oblazione. Per evitare usi strumentali di questa facoltà, il corso della prescrizione è sospeso dalla data della presentazione della domanda a quella della scadenza del termine concesso dal giudice. 6. L’applicazione del sistema sanzionatorio riformato, nel quale largo spazio è assegnato a valutazioni e a prognosi d’efficacia delle misure, richiede che gli apparati del law enforcement dispongano di informazioni adeguate sulla persona sottoposta a giudizio. Si impone, sotto questo profilo, un completo ed efficiente sistema di raccolta dei dati relativi alla posizione dell’imputato di fronte alla giustizia penale. Esigenze di riservatezza e di garanzia esigono che a un tale sistema informativo possano attingere esclusivamente l’autorità giudiziaria penale e di polizia giudiziaria, nell’esercizio delle rispettive funzioni, oltre alla persona cui le iscrizioni si riferiscono. Nel casellario giudiziale dovrebbero essere iscritte tutte le sentenze che abbiano fatto
— 652 — applicazione di sanzioni o misure previste dal codice penale, o che comunque contengano una pronuncia di affermazione di responsabilità, o che abbiano dichiarato non luogo a procedere per oblazione, prescrizione, amnistia. Dovrebbe inoltre essere istituito un casellario dei carichi pendenti, centralizzato come il casellario giudiziale, nel quale siano iscritte le sentenze non definitive che abbiano fatto applicazione di sanzioni o misure previste dal codice penale, o che comunque contengano una pronuncia di affermazione di responsabilità, e ordinanze che hanno disposto l’applicazione di misure cautelari personali. Ciò appare di fondamentale importanza per la corretta applicazione di istituti (come il cumulo giuridico delle pene, o la sospensione condizionale) che richiedono la considerazione della complessiva posizione dell’imputato di fronte alla giustizia penale. Appare coerente con il nuovo sistema che analoga raccolta di dati rilevanti sia prevista con riferimento alle persone giuridiche. La necessità di una articolata disciplina tecnica ha indotto la Commissione a limitarsi a segnalare il problema. 7. Interventi sulla parte speciale possono apparire necessari per apprestare adeguata tutela in caso di inadempimento di taluni obblighi introdotti dal nuovo sistema sanzionatorio. Fin dove possibile, si può fare leva su una soluzione interna al sistema ‘‘di parte generale’’: conversione della pena, a seguito dell’inadempimento, in una pena più grave. Tale soluzione, come si è visto a suo luogo, è parsa adeguata in materia di detenzione domiciliare (in caso di allontanamento, conversione in reclusione) e di affidamento di minori al servizio sociale (in caso di gravi inottemperanza, collocamento in comunità). Una soluzione di parte speciale potrebbe essere invece proposta per il caso di inosservanza di pene interdittive, o di sanzioni interdittive nei confronti della persona giuridica. Lo schema potrebbe essere il seguente: ‘‘chi svolge attività o tiene comportamenti vietati, a seguito di condanna a pena interdittiva, è punito con...’’. Potrebbe essere opportuno un aggravamento di pena per il caso di violazione reiterata. Con riferimento alle sanzioni interdittive nei confronti della persona giuridica, la sanzione dovrebbe colpire sia la persona fisica responsabile del reato, sia la persona giuridica secondo le regole di cui al titolo VII. Queste indicazioni non sono state tradotte in articoli, essendo materia da approfondire (anche per la scelta delle sanzioni) nel quadro dell’avviando lavoro di revisione della parte speciale. Roma, 12 settembre 2000
RELAZIONE alle modificazioni al progetto preliminare di riforma della parte generale del codice penale approvate dalla Commissione Ministeriale per la Riforma del codice penale nella seduta del 26 maggio 2001. SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. La legge penale. — 3. Il reato. — 4. La pena. — 5. Non imputabilità e capacità ridotta. — 6. Confisca. — 7. Disposizioni di attuazione e coordinamento. 1. La Commissione per la riforma del codice penale, istituita con D.M. 1 ottobre 1998, composta dai Proff. Carlo Federico Grosso (presidente), Francesco Palazzo, Paolo Pisa, Domenico Pulitanò, Sergio Seminara, Filippo Sgubbi, dai dott. Giovanni Canzio, Giovanni Silvestri, Vladimiro Zagreblesky, dagli avv. Fabrizio Corbi, Ettore Randazzo, Filippo Siciliano, Giampaolo Zancan, (alla stesura dell’articolato sulla responsabilità delle persone giuridiche ha partecipato anche la prof.ssa Cristina De Maglie), dopo un vasto lavoro consistito nella elaborazione di un documento di base sui temi della riforma (pubblicato il 15 luglio 1999), in un ampio confronto sul contenuto del documento di base con le Università e
— 653 — gli operatori giuridici appartenenti alla magistratura ed alla avvocatura, nella successiva elaborazione di un articolato di riforma della parte generale del codice penale, il 12 settembre 2000 ha approvato e presentato al Ministro della Giustizia Piero Fassino tale articolato, corredato da una Relazione esplicativa delle scelte compiute. Tale articolato è stato condiviso nelle sue linee essenziali dal Ministro, che con lettera 16 settembre 2000 ha dichiarato che articolato e relazione potevano costituire il ‘‘Progetto preliminare del codice penale - parte generale’’, ed ha sottoposto tale Progetto alla attenzione delle Facoltà giuridiche, e degli organi della magistratura e dell’avvocatura, chiedendo loro di esprimere pareri sul progetto elaborato dalla Commissione, invitando nel contempo la Commissione, una volta acquisite le valutazioni richieste, a predisporre un ‘‘Progetto definitivo’’. 2. Già nel novembre 2000 è iniziato il dibattito sul testo della riforma, con un Convegno di professori di diritto penale organizzato dall’ISISC a Siracusa, durato dal 3 al 5 novembre 2000, ed al quale ha partecipato un elevato numero di docenti della materia. Nel corso del Convegno sono emersi rilievi critici su singoli profili del Progetto, ma anche una diffusa convergenza sui principali filoni di fondo della riforma prospettata, che radicandosi sul tessuto dei precedenti Progetti di riforma, in particolare sul Progetto di legge-delega elaborato dalla Commissione presieduta dal Prof. Pagliaro e sul Disegno di legge Riz, tendeva ad introdurre alcuni profili di forte innovazione soprattutto in tema di sanzioni penali. Tanto che il Convegno si è concluso con una mozione proposta dai Proff. Giuliano Vassalli, Antonio Pagliaro e Rolando Riz, ed approvata alla unanimità dalla assemblea dei professori di diritto penale presenti, che ha affermato che ‘‘i professori di diritto penale, partecipanti al Seminario di studio organizzato dall’ISISC a Siracusa dal 3 al 5 novembre 2000, preso atto del diffuso apprezzamento suscitato dal progetto preliminare della nuova parte generale del codice penale, presentato dalla Commissione ministeriale presieduta dal Prof. Carlo Federico Grosso, per i suoi orientamenti fondamentali, che rappresentano un significativo progresso della legislazione penale attuale nei suoi principi di carattere generale, considerati i rilievi di ordine strutturale e specifici che sono stati sollevati nel corso del seminario, incoraggia la Commissione a proseguire e a portare a compimento i suoi lavori, oltre che nell’indispensabile riferimento ad una concreta parte speciale, anche in connessione ai nessi esistenti con la disciplina penitenziaria e processuale, tenendo conto dei contributi venuti dal dibattito e che ancora verranno da parte degli studiosi di diritto penale’’. All’incontro di Siracusa sono seguiti numerosi Convegni ulteriori sul Progetto preliminare o su suoi singoli profili. Si possono ricordare, al riguardo, i convegni organizzati dalle Università di Firenze, di Pisa e di Foggia (in particolare, quest’ultimo, sul profilo della imputabilità), e dall’AIGA a Nola, nonché, da ultimo, un ulteriore ampio Convegno tenutosi presso la Università di Pavia dal 10 al 12 maggio 2001, organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza della Università di Pavia con il patrocinio del Ministero della Giustizia, e dalla rivista Cassazione Penale. Da tutti questi incontri è emersa la conferma di una sostanziale condivisione delle prospettive di fondo della riforma e di molti punti della stessa, pur nella disparità di opinioni su diverse soluzioni prospettate con riferimento a specifici istituti. Al Ministero della Giustizia sono pervenuti d’altronde alcuni pareri scritti, fra i quali merita di essere segnalato, a fianco di un parere ‘preliminare’ della Giunta delle Unioni Camere Penali, di un parere della Università di Bergamo, di pareri di singoli magistrati militari, il parere, licenziato il 24 aprile 2001, elaborato da una Commissione istituita presso la Corte di Cassazione, e presieduta dal dott. Aldo Vessia, Primo Presidente Aggiunto. Nel dicembre 2000 il Ministro della Giustizia ha provveduto a prorogare i lavori della Commissione al settembre 2001, conferendole in primo luogo l’incarico di terminare l’attività di consultazione e di redigere il Progetto definitivo della riforma della parte generale del codice penale tenendo conto dei risultati del dibattito e dei pareri formulati, nonché di iniziare a pensare agli indispensabili raccordi della nuova disciplina penale con il regime peni-
— 654 — tenziario e con alcuni istituti di diritto processuale, e nei limiti del possibile alla elaborazione della parte speciale del codice penale. 3. Tenendo conto del materiale che veniva man mano ad arricchire il dibattito sul Progetto preliminare di riforma della parte generale del codice penale, la Commissione Ministeriale ha proceduto ad un progressivo riesame dell’articolato approvato il 12 settembre 2000. Essa, confortata da quanto è emerso dal confronto con i professori di diritto penale e da quasi tutti i pareri ricevuti, ha confermato l’impianto di fondo e le motivazioni che lo hanno ispirato: impronta fortemente liberale centrata sulla realizzazione, per quanto possibile, del principio di tassatività e sulla piena realizzazione di quello di colpevolezza; modello fortemente innovativo delle sanzioni penali, diretto a superare il vigente, del tutto deficitario, sistema delle pene, ed a creare un sistema punitivo razionale caratterizzato da pene detentive meno pesanti ma certe e da una ampia utilizzazione di pene alternative di tipo interdittivo e pecuniario effettivamente applicate, e pertanto tale da realizzare un sistema di penalità formalmente più mite di quello vigente, ma nella sostanza più efficace sul terreno della prevenzione generale e attento ai profili della prevenzione speciale. Recependo rilievi e suggerimenti emersi nel corso del dibattito o contenuti nei pareri, sono state apportate alcune modifiche a taluni istituti, che verranno sia pure brevemente illustrate nelle parti successive di questa Relazione: ad esempio, si è intervenuti in tema di dolo eventuale, di esimenti, di concorso di persone nel reato, di recidiva, di circostanze del reato, di irrilevanza penale del fatto, di sospensione condizionale della pena, di imputabilità e di capacità ridotta. In questa premessa di carattere generale merita accennare a tre profili. La disciplina del tentativo, la cui formulazione è stata oggetto di numerose critiche, ma che la Commissione, pur consapevole della consistenza dei rilievi, non ha, almeno per il momento, modificato, non essendo convinta che le soluzioni alternative suggerite contribuiscano ad una configurazione più convincente dell’istituto. Il tema della abolizione dell’ergastolo, e della sua sostituzione con una pesante ‘‘reclusione speciale’’, che pur apprezzata da numerosi interventi nel corso del dibattito, è stata oggetto di critica in sede politica: al riguardo la Commissione, che ha giudicato fin dall’inizio dei suoi lavori tale tema del tutto marginale nell’economia complessiva della riforma, non ha ritenuto di cambiare l’articolato originario; ha tuttavia prospettato, per il caso in cui la abolizione dell’ergastolo non dovesse risultare praticabile politicamente, una plausibile soluzione alternativa a quella proposta, consistente nel prevedere che la reclusione speciale possa essere ‘‘da 25 a 30 anni o a vita’’, con la precisazione che ‘‘la reclusione speciale a vita cessa dopo 30 anni, salvo che persistano esigenze di prevenzione speciale’’: un modo di reintrodurre una reclusione a vita pienamente compatibile con il principio rieducativo enunciato dalla Costituzione. La previsione della responsabilità delle persone giuridiche, che pur rifiutata da una parte degli studiosi di diritto penale, è stata oggetto di apprezzamento convinto da parte di numerosi commentatori (in primo luogo della Commissione istituita presso la Corte di Cassazione), e che la Commissione Ministeriale, anche alla luce della recente (sia pure tormentata) approvazione della legge che la ha introdotta con riferimento a particolari delitti, ritiene profilo di rilievo in una riforma del sistema penale italiano moderna e coerente con i più recenti orientamenti delle legislazioni penali europee. 2. La legge penale. — 1. Nella seconda parte dell’art. 5 comma 2 sono stati introdotti, in una prospettiva di favor rei, alcuni limiti alla efficacia della sentenza passata in giudicato con riferimento al caso in cui la pena inflitta non sia stata ancora eseguita o sia in corso di esecuzione. 2. Negli artt. 7 lettera f, 8 comma 3, 9 comma 3 sono state introdotte alcune modifiche dirette ad adeguare il testo al contenuto della legge 24 settembre 2000 n. 300 (art. 3, che estende taluni reati contro la pubblica amministrazione a ‘‘membri degli organi delle Comunità europee e funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri’’; art. 5, che modifica gli artt. 9 comma 3 e 10 comma 2 c.p. nello stesso senso).
— 655 — Nell’art. 10 lettera c si è aggiunto, in apertura, l’inciso ‘‘salvi i casi previsti dall’art. 9 comma 1’’, allo scopo di sottolineare che il principio della doppia incriminazione incontra una rigida eccezione per i reati previsti dall’art. 9 comma 1, il cui disvalore risulta così elevato da sottrarsi a qualsiasi temperamento di natura territoriale. 3. Il reato. — 1. Reagendo positivamente ad osservazioni emerse dal dibattito sull’articolato del Progetto preliminare, si è proceduto ad una articolazione più puntuale dei capi in cui si articola il titolo II. 2. In tema di rapporto di causalità nei reati omissivi (art. 14), recependo alcune osservazioni intervenute nel dibattito, ed in particolare espresse dalla Commissione nominata in seno alla Corte di Cassazione, nonostante gli apprezzamenti ricevuti da una parte di una autorevole dottrina alla espressione ‘‘certezza’’ si è sostituita la espressione ‘‘con probabilità confinante con la certezza’’. In questo modo non si è inteso comunque indebolire l’orientamento, chiaramente espresso nella Relazione al Progetto preliminare, di definire con rigore l’ambito di rilevanza del rapporto causale precludendo abnormi interpretazioni estensive che avevano trovato spazio nella elaborazione giurisprudenziale; si è semplicemente inteso adeguare la formulazione della norma alla realtà della disciplina che si intendeva enunciare. Già nella Relazione al testo originario dell’articolato si era infatti scritto che per ‘‘certezza’’ doveva ovviamente intendersi ‘‘quella probabilità confinante con la certezza che può ragionevolmente raggiungersi’’, e che ciò che contava era superare definitivamente gli indirizzi secondo cui l’omissione antidoverosa sarebbe causale quando l’impedimento dell’evento si sarebbe ottenuto con un grado di probabilità apprezzabile anche lontano. Il che risulta pienamente confermato anche dalla nuova dizione usata. 3. Con riferimento alla disciplina delle posizioni di garanzia, che ha ricevuto ampi consensi, e qualche critica di dettaglio, nei commenti al testo originario del Progetto preliminare, allo scopo di rendere meno pesante la disciplina si è proceduto ad alcuni accorpamenti di situazioni; allo scopo di dare maggiore rilievo al contenuto del modello organizzativo si è modificata la scrittura dell’art. 22 (art. 24 nel testo originario); recependo le osservazioni critiche alla previsione di responsabilità penale a carico dell’amministratore di fatto e alla previsione di una apposito articolo dedicato ai gruppi di società, si è cercato di definire in modo più dettagliato l’amministratore di fatto e si è inserita, con alcune modifiche, la disciplina della responsabilità penale nei gruppi di società di cui all’art.26 dell’articolato originario nell’ultimo comma dell’art. 23 (art. 25 dell’articolato originario). 4. Recependo le osservazioni critiche enunciate nei confronti della formulazione del dolo eventuale, centrate soprattutto sulla utilizzazione del concetto di ‘‘accettazione del rischio’’ a fianco della indicazione del livello della rappresentazione del fatto in termini di ‘‘alta’’ probabilità, si è definito il dolo eventuale come il dolo di chi, con una condotta volontaria attiva od omissiva, realizza un fatto costitutivo di reato ‘‘se agisce accettando la realizzazione del fatto, rappresentato come probabile’’ (art. 27 lettera c, sostitutivo dell’originario art. 30 lettera b seconda parte). Anche se pure questa formulazione potrà dare adito a critiche, essa presenta comunque il vantaggio di centrare il concetto del dolo eventuale sulla accettazione del fatto rappresentato in termini di mera probabilità. 5. In tema di colpa la Commissione, pur concordando con le osservazioni di chi ha sostenuto che non si sono adeguatamente affrontati a livello legislativo nodi fondamentali come quello della personalizzazione del concetto di colpa, e soprattutto della colpa nelle attività pericolose, non è stata in grado, anche nella assenza di convincenti proposte concrete di disciplina legislativa alternative a quella configurata, di colmare le lacune denunciate, preferendo affidarsi, come già si era rilevato nella Relazione all’articolato originario, alla elaborazione giurisprudenziale. Essa si è pertanto limitata a prevedere, nel comma 3 dell’art. 28 (art. 31 nel testo originario dell’articolato), una formulazione orientata a maggiore chiarezza. 6. Rilevato che sarà inevitabile prevedere nella parte speciale sia pure limitate ipotesi in cui il legislatore ricollega una pena più grave ad una conseguenza non voluta di un delitto
— 656 — doloso, si è introdotto un articolo (delitti aggravati dall’evento) nel quale, in conformità al principio di colpevolezza, si è espressamente previsto che ‘‘di tale conseguenza si risponde solo se essa è ascrivibile a colpa’’ (art. 31 nuovo articolato). 7. In tema di esimenti la Commissione non ha ritenuto che un articolato di codice debba prendere posizione sulla natura giuridica delle diverse figure previste. In questa prospettiva non ha proceduto a distinguere le categorie delle cause oggettive di giustificazione del reato e delle cause soggettive di esclusione della colpevolezza, come è stato suggerito da alcuni commentatori nel corso del dibattito (nel quadro di una valutazione comunque tutt’altro che unanime). Proprio allo scopo di evitare rischi di qualificazione dogmatica normativamente imposta, essa ha sostituito nella intitolazione del relativo capo (capo V; nel testo originario dell’articolato capo IV) alla espressione ‘‘cause di giustificazione’’ quella ‘‘esimenti’’, meno impegnativa sul terreno della qualificazione giuridica degli istituti previsti. Per la medesima ragione non ha anticipato, come aveva invece suggerito taluno, la disciplina delle esimenti rispetto a quella della colpevolezza. Con riferimento alla disciplina delle singole esimenti sono state recepiti alcuni dei suggerimenti emersi nel corso del dibattito. In questa prospettiva: a) in tema di consenso dell’avente diritto è stato eliminato il comma 2 dell’art. 35 (art.37 del testo originario dell’articolato), che ha suscitato critiche da parte della Commissione istituita presso la Corte di Cassazione; b) in tema di legittima difesa (art. 36, originario art. 38) è stata semplificata la disciplina eliminando il requisito della percezione del pericolo da parte dell’agente e la seconda parte del comma 2 in tema di proporzione; in tema di stato di necessità (art. 37, originario art. 39) è stato analogamente eliminato il requisito della percezione del pericolo da parte dell’agente. 8. In tema di delitto tentato la Commissione, preso atto delle numerose critiche rivolte al criterio utilizzato nel Progetto Preliminare (risponde di delitto tentato chi ‘‘intraprende l’esecuzione di un fatto previsto dalla legge come delitto, o si accinge ad intraprenderla’’), accusata, anche attraverso la prospettazione di ampia casisitica, di estendere la punibilità ad atti preparatori, di non realizzare di conseguenza un adeguato baluardo alla possibilità di arbitrarie anticipazioni giurisprudenziali dell’inizio della attività punibile, e di non fornire in ogni caso un criterio di delimitazione del delitto tentato più preciso di quello di cui al codice penale vigente, ha analizzato le diverse possibili alternative prospettate nel corso del dibattito: utilizzare la formula secca dell’inizio di esecuzione, da intendersi in senso rigorosamente formale; caratterizzare gli atti immediatamente antecedenti all’inizio di esecuzione come idonei ed univoci; mantenere la definizione del tentativo ancorata esclusivamente alla idoneità ed alla univocità degli atti, eventualmente rafforzata dalla indicazione secondo cui gli atti dovrebbero essere ‘‘oggettivamente’’ diretti a commettere il delitto (indicazione del Progetto Pagliaro). Dopo ampia discussione, rilevato che il problema del tentativo costituisce probabilmente una sorta di quadratura del cerchio, e che ogni definizione presenta vantaggi e controindicazioni, pur condividendo alcune delle critiche espresse la Commissione, almeno allo stato attuale del dibattito sull’istituto, ha preferito mantenere ferma la formula prospettata nel testo originario del Progetto preliminare, che a suo giudizio non consente quella indiscriminata anticipazione della attività punibile e quella equivocità rilevata da qualcuno nel corso del dibattito, ed ha quantomeno il pregio di adeguare la disciplina italiana all’orientamento prevalente nella disciplina europea del tentativo. Tiene comunque a sottolineare che il nodo del tentativo costituisce uno dei profili del Progetto sicuramente aperti a possibili ulteriori contributi in grado di fornire un modello di disciplina che riesca a soddisfare le contrapposte esigenze di tipizzazione e di sufficiente elasticità dell’inizio della attività punibile. Si è espunto dal testo dell’art. 41 (art. 43 dell’articolato originario) il refuso ‘‘chi intraprende la esecuzione di un fatto previsto dalla legge come delitto tentato’’, eliminando quest’ultima parola.
— 657 — 9. In tema di concorso di persone nel reato, aderendo alla osservazione espressa da autorevole dottrina, che temeva che la nuova formulazione dell’istituto facesse svanire l’elemento fondamentale della efficacia causale rispetto alla realizzazione del reato che ogni condotta atipica di concorso di persone nel reato deve in ogni caso possedere, nel testo dell’art. 43 comma 1 (art. 45 del testo originario dell’articolato) si è aggiunta la specificazione ‘‘causalmente rilevanti per la sua esecuzione’’. Non è stato invece condiviso il punto di vista di chi ha osservato che la tipizzazione proposta delle ipotesi di concorso di persone sarebbe insufficiente. Come si è chiarito nella Relazione settembre 2000, obbiettivo della Commissione era infatti creare tipologie di concorso di persone sufficientemente elastiche, tali da non rischiare di circoscrivere arbitrariamente l’area della punibilità creando vuoti di tutela, comunque idonei ad assicurare quella esigenza di provare la realizzazione di un apporto causale significativo che costituisce presupposto indispensabile di tipicità della disciplina del concorso di persone nel reato. 10. All’art. 48 (art. 50 dell’articolato originario) è stato aggiunto un comma 2, di mero chiarimento, contenente la definizione di circostanza oggettiva. 4. La pena. — 1. In tema di pena, anche alla luce degli apprezzamenti emersi nel corso del dibattito sull’articolato, la Commissione ha ribadito l’impianto di fondo della disciplina formulata, e le ragioni sottese alla scelta compiuta. Si è limitata a prevedere alcune modifiche settoriali di singoli istituti recependo suggerimenti ricevuti. 2. La Commissione ha dedicato attenzione al tema dell’ergastolo, la cui proposta di abolizione ha suscitato critiche soprattutto nel mondo politico, ma apprezzamento da settori qualificati del mondo culturale. Ribadendo la propria convinzione che non si tratti di uno dei nodi di fondo della riforma del codice penale, in quanto già oggi l’ergastolo risulta di fatto nella grande maggioranza dei casi sostituito da una pena a tempo di lunga durata, la Commissione, allo scopo di tranquillizzare i critici della proposta abolizione, ha indicato la possibilità di modificare l’art. 51 (art. 53 del progetto originario) e l’art. 52 (art. 54 del progetto originario) in punto reclusione speciale: prevedendo nell’art. 51 che ‘‘le pene edittali stabilite dalla legge sono comprese entro i seguenti limiti: — reclusione speciale: da 25 anni a 30 anni, ovvero a vita’’, e aggiungendo nell’art. 52 un comma 3 in cui precisare che ‘‘l’esecuzione della reclusione speciale a vita cessa dopo i 30 anni, salvo che persistano esigenze di prevenzione speciale. La persistenza o cessazione di dette esigenze è verificata dal giudice con periodicità annuale’’. Il senso di tale proposta è evidente: farsi carico delle reazioni politiche alla abolizione dell’ergastolo, e proporre una modifica che non ristabilisca l’ergastolo come pena fissa autonoma, ma ampli la reclusione speciale consentendo al legislatore di parte speciale di scegliere la pena a vita come limite edittale massimo, in un contesto in cui la previsione di una tendenziale cessazione dopo 30 anni assicurerebbe la compatibilità della soluzione prospettata con il principio rieducativo. La Commissione, elaborata questa possibile soluzione del problema, ha ritenuto tuttavia di non modificare l’articolato originario, ma di limitarsi a prospettare nella Relazione la possibile disciplina alternativa, utilizzabile nel caso in cui ostacoli di natura politica rendessero impraticabile la strada prescelta. 3. Dopo avere introdotto modifiche meramente formali negli artt. 61 comma 1 e 5 (originario art. 63 commi 1, 3, e 6) e 62 (unificazione dei commi 1 e 3, parziale riscrittura del comma 5 dell’art. 61; eliminazione del termine ‘speciale’ alla fine dell’art. 62, — originario art. 64), la Commissione ha introdotto modifiche significative in materia di recidiva, che recepiscono suggerimenti avanzati nel dibattito sul Progetto: si è trasformata la recidiva in obbligatoria, circoscrivendola sempre entro i confini della recidiva specifica e riducendo da dieci a cinque gli anni considerati agli effetti della rilevanza del reato commesso successivamente alla condanna definitiva. In questa prospettiva l’art. 65 (originario art. 67) comma 1 è stato riformulato nel modo seguente: ‘‘la pena è aumentata nei confronti di chi, dopo essere
— 658 — stato condannato, nei cinque anni successivi alla sentenza irrevocabile commette un reato della stessa indole’’. 4. In tema di circostanze del reato è stata innanzitutto eliminata la attenuante di cui all’originario art. 68 (ora 66) lettera g, che aveva sollevato giustificate critiche da una autorevolissima dottrina. Nel corso del dibattito era emersa da parte di alcuni commentatori una posizione critica nei confronti del mantenimento dell’istituto delle circostanze del reato. La Commissione, pur giudicando di non potere accogliere tale istanza, in quanto le circostanze del reato rispondono alla ineliminabile esigenza di adeguare la sanzione penale alle peculiarità che possono connotare la realizzazione del reato, ha ritenuto tuttavia opportuno prevedere la eliminazione delle circostanze ad effetto speciale, con riferimento alle quali la pena viene determinata in una dimensione sganciata da quella prevista per il c.d. reato base, stabilendo che ‘‘quando l’aumento o la diminuzione della pena è determinato in maniera autonoma il reato si considera titolo autonomo di reato’’ (art. 6 disp. trans.). In coerenza con tale scelta è stata cambiata la formulazione dell’art. 67 (art. 69 del testo originario dell’articolato), dal quale sono stati espunti gli originari commi 3, 4, 5 e 7, nonché i richiami alle circostanze ad effetto ordinario e alle circostanze ad effetto speciale. Sarà compito del legislatore di parte speciale evitare che situazioni riconducibili alle vecchie nozioni di circostanze aggravanti ed attenuanti ad effetto speciale possano concorrere fra loro. Nel comma 2 dell’art. 67 (originario art. 69) è stato introdotto un limite minimo agli aumenti e alle diminuzioni di pena dovuti alla presenza di circostanze del reato. Nell’ultimo comma dell’art. 67 (originario art. 69) sono stati corretti alcuni errori materiali. 5. Si è corretto un errore materiale nell’art. 68 comma 2, originario art. 70 comma 2 (sostituzione della formula ‘‘incapacità ridotta per infermità’’ con quella ‘‘capacità ridotta’’); allo scopo di dare rilievo nel quadro della commisurazione della pena a forme di recidiva non specifica si è aggiunto nell’art. 69 (originario art. 71) comma 3 lettera d la indicazione ‘‘i reati precedentemente commessi’’; nell’art. 71 (originario art. 73) comma 2 si è eliminata la espressione ‘‘secondo un criterio di progressività’’, giudicata inutile; nell’art. 72 (originario art. 74) si è leggermente modificata la disciplina del pagamento rateale delle pene pecuniarie. 6. Nell’art. 74, allo scopo di rispondere a sollecitazioni emerse nel corso del dibattito sull’articolato del Progetto preliminare, si è introdotto, sotto il profilo di una causa di non punibilità, il principio di irrilevanza penale per speciale tenuità del fatto. La scelta di prevedere una causa di non punibilità inserita nel capo dedicato alla commisurazione della pena non è casuale: si è inteso in tal modo sottolineare il carattere ‘sostanziale’ dell’istituto, ed inquadrare lo stesso nel capitolo della determinazione in concreto della pena, che può concretarsi, rilevati determinati presupposti, in una declaratoria di non applicazione della pena, e pertanto di non punibilità. L’introduzione del principio generale di irrilevanza penale del fatto è stato realizzato comunque con molta cautela: oltre che alla particolare tenuità del fatto, si è infatti richiesto che il comportamento illecito sia stato occasionale, che non sussistano pretese risarcitorie, che non sussistano esigenze di prevenzione generale e speciale tali da richiedere una qualsiasi misura nei confronti dell’autore del reato, che si tratti di reato punito con pena detentiva anche nel massimo non particolarmente grave. Si è discusso se, introdotto il principio generale di non punibilità in caso di irrilevanza penale del fatto, fosse o meno opportuno eliminare il principio di inoffensività enunciato, sia pure sotto il profilo della applicazione della legge penale, nell’art.2 comma 2. Si è ritenuto di non eliminare tale ultimo articolo trattandosi di norma che enuncia un principio generale di civiltà in tema di responsabilità penale, il cui significato teorico nulla ha a che vedere con le esigenze pratiche cui risponde la disciplina di cui all’art. 74. Si è infine deciso di mantenere la norma speciale in tema di irrilevanza del fatto enun-
— 659 — ciata con riferimento ai minori imputabili (art. 107 - originario art. 109), in quanto subordinata a requisiti meno numerosi rispetto a quelli enunciati in via generale nell’art. 74; si è comunque resa omogenea la ragione della non applicazione della pena (dichiarazione di non punibilità in luogo della declaratoria di non luogo a procedere anche nell’art. 107). 8. È stato eliminato l’art. 76 dell’articolato originario, in quanto ritenuto sostanzialmente ridondante. 9. In tema di concorso di reati, nel testo dell’art. 75 (originario art. 77) comma 6, semplificato, allo scopo di evitare incertezze interpretative è stato precisato che la sentenza può essere anche non definitiva. 10. Nell’art. 78 (originario art. 80) comma 6 è stato eliminato il riferimento al consenso del condannato, trattandosi di un requisito corrispondente ad un modello di disciplina poi abbandonato dal Progetto di riforma. 11. In tema di sospensione condizionale della pena la Commissione ha recepito parzialmente le indicazioni emerse dal dibattito, operando in una duplice direzione: eliminare, come è stato chiesto da più parti, la sospensione condizionale della pena pecuniaria; circoscrivere la sospensione condizionale delle pene interdittive. In questa prospettiva nell’art. 79 (originario art. 81) sono stati eliminati i riferimenti alla pena interdittiva (comma 1 lettera a, comma 2, comma 3, comma 5), e l’art. 84 (originario art. 86) è stato dedicato alla disciplina della sospensione condizionale della interdizione o sospensione dai pubblici uffici (art.55), della interdizione o sospensione da una professione o mestiere (art.56) e della interdizione o sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese (art.57), con esclusione, pertanto, delle altre pene interdittive e delle pene pecuniarie (cui era riservato nell’articolato originario), pene che diventano non sospendibili. Nella concessione della sospensione condizionale della pena interdittiva è stato d’altronde eliminato il requisito della richiesta dell’imputato, mentre è stato previsto che la sospensione condizionale di tali pene possa essere concessa una sola volta. Ulteriori modificazioni sono state introdotte in tema di obblighi qualificati (la entità del pagamento a favore dello stato di una somma di denaro è stata elevata nel massimo da 180 a 365 quote giornaliere, e fra gli obblighi è stata inserita la sottoposizione ad un trattamento terapeutico o riabilitativo: art. 82 — originario 84 — comma 1; è stato previsto che per il sostegno del condannato possa essere disposto l’affidamento al servizio sociale: art. 82 comma 2; si è stabilito che ‘‘la durata degli altri obblighi e dell’affidamento al servizio sociale è determinata dal giudice entro i limiti del periodo di sospensione condizionale, e può essere successivamente ridotta o prolungata’’: art. 82 comma 3). È stata infine ridotta la durata della sospensione condizionale della pena (art. 83 — originario art. 85 — comma 1). 12. In tema di oblazione nell’art. 87 — originario art. 89 — comma 7 è stato soppresso l’inciso ‘‘in base al criterio di cui all’art. 82’’, in quanto superfluo. 13. In tema di sospensione della prescrizione (art. 88 — originario art. 90 — comma 5) alla espressione ‘‘procedimento penale sospeso’’ è stato aggiunto l’aggettivo ‘‘o rinviato’’ allo scopo di includere nell’effetto sospensivo tutte le ipotesi nelle quali l’itinerario del procedimento penale non possa temporaneamente proseguire secondo le sue sequenze ordinarie a causa del verificarsi di determinate situazioni stabilite dalla legge. 5. Non imputabilità e capacità ridotta. — 1. In tema di non imputabilità, recependo indicazioni emerse nel corso del dibattito sull’articolato del Progetto preliminare di riforma della parte generale del codice penale, alla espressione ‘‘per infermità o per altra anomalia’’ è stata sostituita quella ‘‘per infermità o altro grave disturbo della personalità’’ (art. 94 — originario art. 96 — comma 1, e altre disposizioni in cui si faceva riferimento al concetto della grave anomalia). Di fronte alla critiche cui è stata sottoposta la espressione ‘‘capacità di comprendere l’il-
— 660 — liceità del fatto’’, essa è stata sostituita con quella ‘‘capacità di comprendere il significato del fatto’’( art. 94 — originario art. 96 — comma 1, e altre disposizioni in cui si faceva riferimento alla capacità di comprendere la illiceità del fatto). Non si è invece ritenuto di spostare la collocazione sistematica della imputabilità, come aveva invece suggerito taluno nel corso del dibattito sul Progetto preliminare, sostenendo impropriamente che la attuale collocazione presupporrebbe la scelta dogmatica di non considerare la imputabilità un presupposto della colpevolezza. Si è deciso di confermare la attuale sistematica proprio perché la Commissione non ritiene che scelte dogmatiche debbano essere forzate da un articolato di legge, e perché, mentre la collocazione prescelta della imputabilità lascia in realtà libero l’interprete di ricostruire dogmaticamente gli istituti nel modo che ritiene più opportuno, la sua sistemazione nel capitolo dedicato alla colpevolezza avrebbe significato, all’opposto, indicare una precisa scelta legislativa. 2. In tema di minore età idonea ad incidere sulla imputabilità una parte della Commissione ha proposto di abbassare il limite massimo di cui all’art. 95 — originario art. 97 — da 18 anni a 16 anni. Pur con qualche perplessità la Commissione si è orientata a mantenere il limite dei 18 anni, stabilendo comunque di esplicitare tale perplessità nella Relazione di accompagnamento alla nuova versione del Progetto preliminare. 3. In tema di misure di sicurezza riabilitative (art. 96 - originario art. 98), di misure per i non imputabili per infermità o altro grave disturbo della personalità (art. 97 - originario art. 99), di misure per i non imputabili per minore età (art. 98 - originario art. 100), la Commissione ha proceduto a modificazioni dirette a recepire suggerimenti emersi nel corso del dibattito seguito alla pubblicazione del Progetto preliminare. Ulteriori modificazioni del testo della norma, in questo caso di tipo meramente chiarificatore, sono state introdotte nei confronti della disciplina della esecuzione delle misure (art. 99 - originario art. 101). 4. In materia di capacità ridotta è stata ritoccata la disciplina delle finalità del trattamento e della diminuzione di pena (art. 100 - art. 102 testo originario). 5. In materia di trattamento dei minori imputabili la disciplina delle finalità del trattamento (art. 104 - originario art. 106), delle pene per i reati commessi da minori di anni 18 (art. 105 - originario art. 108), e dell’affidamento al servizio sociale (ar.106 - originario art. 108) è stata modificata, tenendo conto di alcune osservazioni critiche avanzate nel corso del dibattito, allo scopo di rendere più coerente il sistema delineato nel Progetto preliminare e di eliminare talune rigidezze. 6. Sempre in considerazione di osservazioni emerse nel corso del dibattito, è stata modificata la disciplina della messa alla prova di cui all’art. 109 (art. 111 nel testo originario del Progetto preliminare). 6. Confisca. — 1. Per ragioni di semplificazione è stata eliminata la prima parte dell’art. 112 comma 3 (art. 114 nel testo originario del Progetto preliminare). 7. Disposizioni di attuazione e di coordinamento. — 1. È stato inserito l’art. 6 contenente l’enunciazione della abolizione delle circostanze del reato ad effetto speciale. Ultima modifica: 11 giugno 2001 11:43
— 661 — ARTICOLATO
TITOLO I. — LA LEGGE PENALE ART. 1. (Principio di legalità). — 1. Nessuno può essere punito per un fatto che non sia tassativamente preveduto come reato da una legge entrata in vigore prima della sua commissione, né con pene che non siano da essa stabilite. 2. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano stabilite da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto di reato costituente presupposto della loro applicazione e fuori dei casi da essa preveduti. 3. La disposizione di cui al comma precedente si applica anche alla confisca e ad ogni altro effetto penale della condanna. ART. 2. (Applicazione della legge penale). — 1. Le norme incriminatrici non si applicano a casi diversi da quelli espressamente previsti. 2. Le norme incriminatrici non si applicano ai fatti che non determinano una offesa del bene giuridico. 3. Le disposizioni della parte generale di questo codice si applicano anche alle materie regolate da altre leggi penali, salvo deroga espressa. ART. 3. (Abrogazione e modifica di norme penali). — 1. Le disposizioni del presente codice non possono essere abrogate o modificate da leggi posteriori se non per dichiarazione espressa del legislatore con specifico riferimento alle singole disposizioni abrogate o modificate. 2. Nuove norme penali sono ammesse soltanto se modificano il codice penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti organicamente l’intera materia cui si riferiscono. ART. 4. (Principio di specialità e concorso apparente di norme). — 1. Salvo che sia altrimenti stabilito, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale. 2. Quando un medesimo fatto appare riconducibile a più disposizioni di legge, si applica quella che ne esprime per intero il disvalore. ART. 5. (Efficacia della legge nel tempo). — 1. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge successiva, non costituisce reato; se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali. 2. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le successive sono diverse, si applica quella le cui disposizioni, valutate unitariamente e in concreto, sono più favorevoli al reo, salvo che sia intervenuta pronuncia irrevocabile. In quest’ultimo caso la pena inflitta, non ancora eseguita o in corso di esecuzione, non può superare il limite massimo di durata stabilito dalla legge successiva. Se la legge successiva prevede una pena di specie diversa da quella prevista precedentemente, e non ancora eseguita o in corso di esecuzione, a richiesta del condannato essa viene commutata con i criteri previsti dall’art. 73 comma 3. 3. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano alle leggi espressamente dichiarate eccezionali o temporanee, salvo che la legge successiva sia anch’essa dichiarata eccezionale o temporanea e abbia il medesimo oggetto. 4. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano altresì nei casi di conversione di un decreto legge con emendamenti, limitatamente alle norme emendate, o di mancata conversione di un decreto legge, ferma in quest’ultimo caso l’applicabilità della legge del tempo per i fatti commessi prima dell’emanazione del decreto legge. 5. Le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 si applicano altresì ai casi di dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge penale. 6. Ai fini di questo articolo il reato si considera commesso nel momento in cui è stata portata a termine la condotta.
— 662 — ART. 6. (Efficacia della legge nello spazio. Reati commessi nel territorio dello Stato). — 1. La legge penale italiana si applica ai reati commessi nel territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno e dal diritto internazionale. 2. Le navi e gli aeromobili italiani sono considerati come territorio dello Stato ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, a una legge territoriale straniera. 3. Salvo quanto stabilito in trattati internazionali in vigore per l’Italia, il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, quando l’azione o l’omissione, che lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è ivi verificato, o avrebbe dovuto verificarsi, l’evento naturalistico che è la conseguenza dell’azione o dell’omissione. 4. Nei casi di concorso di persone nel reato, il reato non si considera commesso nel territorio dello Stato in base alla disposizione precedente quando il fatto principale commesso all’estero, in sé o congiuntamente alla condotta realizzata in Italia, non è punibile anche in base alla legge del luogo. ART. 7. (Reati commessi all’estero). — 1. È punito secondo la legge italiana il cittadino, lo straniero o l’apolide che commette in territorio estero taluno dei seguenti reati: a) delitti in materia di prevenzione e repressione del genocidio; b) tratta, commercio, alienazione e acquisto di schiavi; c) delitti contro la personalità dello Stato e dell’Unione Europea; d) delitti di contraffazione del sigillo dello Stato o dell’Unione europea e di uso di tale sigillo contraffatto; e) delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato, o in valori di bollo o in carte di pubblico credito italiano; f) delitti commessi con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti alle loro funzioni da pubblici ufficiali e da incaricati di un pubblico servizio, agenti per conto della pubblica amministrazione italiana, dell’Unione europea o delle Comunità europee, ovvero delitti commessi contro gli stessi soggetti, nell’esercizio o a causa delle loro funzioni; g) abuso di informazioni privilegiate e aggiotaggio attinenti a strumenti finanziari ammessi alla negoziazione nei mercati regolamentati italiani; h) omicidio doloso, lesioni gravissime dolose, sequestro di persona a scopo di estorsione e violenza sessuale mediante congiunzione carnale in danno di un cittadino italiano; i) ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge o trattati internazionali in vigore per lo Stato o regolamenti comunitari stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana. ART. 8. (Altri delitti commessi all’estero dal cittadino). — 1. Il cittadino, che, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, commette in territorio estero un delitto per il quale la legge italiana stabilisce la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni, è punito secondo la legge medesima, sempre che si trovi nel territorio dello Stato. 2. Salvo quanto stabilito in trattati internazionali in vigore per lo Stato, se si tratta di delitto per il quale è stabilita una pena restrittiva della libertà personale di minore durata, si procede a richiesta del Ministro della giustizia, ovvero a istanza o a querela della persona offesa, sempre che il colpevole si trovi nel territorio dello Stato. 3. Nei casi previsti dai commi precedenti, qualora si tratti di delitto commesso a danno dell’Unione europea o delle Comunità europee, di uno Stato estero o di uno straniero, il colpevole è punito a richiesta del Ministro della giustizia, salvo che abbia avuto luogo la sua estradizione. 4. Le disposizioni precedenti si applicano anche nei confronti di colui che abbia acquisito la cittadinanza italiana successivamente al fatto di reato e del rifugiato o dell’apolide che abbia la sua residenza o dimora abituale nel territorio dello Stato, salvo che abbia avuto luogo l’estradizione. ART. 9. (Altri delitti commessi all’estero dallo straniero). — 1. Lo straniero che, fuori dei casi indicati nell’art. 7, commette in territorio estero un reato di omicidio doloso, lesioni
— 663 — gravissime dolose, tortura o sequestro di persona a scopo di estorsione; riduzione in schiavitù, reclutamento di persone, o induzione con violenza, minaccia o inganno, al fine di fare esercitare la prostituzione, prostituzione minorile o pornografia minorile, ove il fatto sia commesso in danno di minore degli anni quattordici o con violenza o minaccia; produzione o traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope; reclutamento, utilizzazione, finanziamento e istruzione di mercenari od ogni altro fatto previsto da speciali disposizioni di legge o trattati internazionali in vigore per l’Italia, è punito secondo la legge italiana, sempre che si trovi nel territorio dello Stato e non ne sia disposta l’estradizione. 2. Lo straniero che, fuori dei casi indicati nell’art. 7 e nella disposizione precedente, commette in territorio estero, a danno dello Stato o di un cittadino italiano, un delitto per il quale la legge italiana stabilisce la reclusione non inferiore nel minimo ad un anno, è punito secondo la legge medesima, sempre che si trovi nel territorio dello Stato, e vi sia richiesta del Ministro della giustizia, ovvero istanza o querela della persona offesa. 3. La legge italiana trova altresì applicazione per ogni altro delitto commesso all’estero da uno straniero a danno dell’Unione europea o delle Comunità europee, di uno Stato estero o di altro straniero, a richiesta del Ministro della giustizia, sempre che il reo si trovi nel territorio dello Stato, si tratti di delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione non inferiore nel minimo a tre anni e non ne sia disposta l’estradizione. ART. 10. (Disposizioni comuni). — 1. Nei casi indicati negli artt. 8 e 9 trovano applicazione i seguenti criteri: a) il requisito della presenza dell’autore del reato nel territorio dello Stato va inteso come condizione di procedibilità e deve sussistere al momento dell’esercizio della azione penale; b) quando la punibilità di un reato commesso all’estero dipende dalla presenza dell’autore del reato nel territorio dello Stato, la richiesta del Ministro della giustizia non può più essere proposta decorsi tre anni dal giorno in cui il colpevole si trova nel territorio dello Stato; c) salvi i casi previsti dall’art. 9 comma 1, la punibilità è esclusa qualora il fatto non sia previsto come reato anche dalla legge dello Stato in cui esso è stato commesso; d) si ha riguardo alla pena stabilita per ciascun reato consumato o tentato e si tiene conto solo delle circostanze aggravanti ad effetto speciale. ART. 11. (Rinnovamento del giudizio). — 1. La legge penale italiana non trova applicazione per reati commessi fuori del territorio dello Stato quando l’agente documenti che, per il medesimo fatto, è già stato giudicato in via definitiva nel Paese in cui esso è stato commesso e, in caso di condanna, che la pena è stata per intero eseguita o si è prescritta. 2. Nei casi indicati nell’art. 6, commi 3 e 4, e salvo quanto stabilito in trattati internazionali in vigore per l’Italia, il cittadino o lo straniero è giudicato nello Stato, anche se sia stato giudicato all’estero, qualora il Ministro della giustizia ne faccia richiesta. 3. Nel giudizio rinnovato nello Stato, la pena detentiva espiata e la custodia cautelare sofferta all’estero sono sempre computate.
TITOLO II. — IL REATO CAPO I. — [Principi generali] Delitti e contravvenzioni ART. 12. (Reato: distinzione fra delitti e contravvenzioni). — 1. I reati si distinguono in delitti e contravvenzioni, a seconda della diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite da questo codice.
— 664 — CAPO II. — Il rapporto di causalità ART. 13. (Rapporto di causalità). — 1. Nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se la sua azione od omissione non è condizione necessaria dell’evento da cui dipende l’esistenza del reato. 2. Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità tra l’azione o l’omissione e l’evento. 3. La disposizione di cui al comma precedente si applica anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui. 4. L’imputazione dell’evento è comunque esclusa quando esso costituisce conseguenza eccezionale della azione od omissione. ART. 14. (Causalità nei reati omissivi). — 1. Non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, se il compimento dell’attività omessa avrebbe impedito [con certezza] l’evento con probabilità confinante con la certezza. ART. 15. (Pericolo concreto). — 1. Salvo che la legge disponga altrimenti, quando il pericolo concreto di un determinato evento è previsto come elemento di fattispecie, esso sussiste se la condotta ha cagionato o sensibilmente aumentato il rischio del verificarsi dell’evento di danno, e questo non si è verificato per la presenza di circostanze eccezionali o casuali, o per la mancanza di circostanze normalmente esistenti, ovvero si è verificato per altra causa. CAPO III. — Responsabilità per omissione ART. 16. (Posizioni di garanzia). — 1. Le posizioni di garanzia rilevanti ai fini della responsabilità penale per omissione sono stabilite dalla legge con disposizione espressa. 2. I doveri inerenti alle posizioni di garanzia sono determinati in conformità alla disciplina speciale delle situazioni considerate. ART. 17. (Protezione di soggetti incapaci). — 1. Il genitore esercente la potestà è tenuto ad impedire offese alla vita, alla integrità fisica, alla libertà individuale e alla integrità sessuale del figlio di età minore o comunque incapace. 2. Colui che abbia, anche temporaneamente, sostituito il genitore nell’esercizio della potestà, o assunto la custodia di un minore o di altra persona incapace, per infermità o per vecchiaia, di provvedere a sé stessa, è tenuto a impedire gli eventi di cui al comma 1 nei confronti della persona a lui affidata. ART. 18. (Attività terapeutica). — 1. Colui che, nell’esercizio della professione di medico o di altra attività terapeutica, abbia preso in cura taluno, è tenuto ad impedire, nell’ambito dell’incarico, eventi lesivi della vita o della salute del paziente. ART. 19. (Attività di polizia o di controllo) (*). — 1. L’appartenente a forze di polizia è tenuto, nell’esercizio delle proprie funzioni, ad impedire reati della cui programmazione o esecuzione abbia conoscenza. 2. Chi esercita una funzione pubblica di controllo su cose o attività sotto aspetti che interessano la integrità fisica, la salute pubblica, la sicurezza delle persone o dell’ambiente, è tenuto, nell’ambito delle proprie competenze, ad impedire che si verifichino eventi di morte o di lesione personale ovvero disastri previsti nel titolo dei delitti contro la incolumità pubblica.
(*) L’attuale art. 19 risulta dall’accorpamento degli originari art. 19 (Attivilità di polizia) e art. 20 (Funzioni pubbliche di controllo).
— 665 — ART. 20. (Protezione di persone o beni) (*). — 1. Colui che abbia assunto compiti specifici di vigilanza e protezione di persone determinate o di determinati beni è tenuto ad impedire, nell’ambito del servizio, delitti di terzi in danno della persona ovvero sui beni della cui protezione sia stato incaricato. 2. Colui che concretamente abbia assunto funzioni di guida o di sorveglianza in relazione allo svolgimento di attività che possono implicare pericolo, è tenuto, nei limiti dell’impegno assunto o dell’affidamento ingenerato, ad impedire eventi lesivi per la vita o la integrità fisica della persona presa in carico, o eventi da questa cagionati a terzi. ART. 21. (Controllo su fonti di pericolo). — 1. Colui che abbia, a qualsiasi titolo, il controllo di cose pericolose o fonti di pericolo, è tenuto ad impedire che ne derivino eventi dannosi o pericolosi per la vita o l’integrità fisica, o disastri costituenti delitto contro la incolumità pubblica o contro l’ambiente. ART. 22. (Adempimenti nell’ambito di organizzazioni complesse) (**). — 1. Le persone giuridiche, le associazioni non riconosciute, gli enti pubblici o privati, le imprese anche individuali devono adottare e attuare modelli organizzativi idonei ad evitare che vengano commessi reati con inosservanza di disposizioni pertinenti all’attività dell’organizzazione, o comunque nell’interesse dell’organizzazione, da persone agenti per essa. 2. I modelli organizzativi di cui al comma 1 devono essere elaborati sulla base della verifica e valutazione delle situazioni che comportano rischi di violazioni della legge penale, e devono prevedere misure materiali e organizzative e protocolli di comportamento atti a garantire lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge, ed a scoprire ed eliminare tempestivamente eventuali situazioni irregolari o di rischio. 3. Fermo quanto disposto da leggi speciali in relazione a specifiche attività, i modelli organizzativi di cui al comma 1 devono prevedere, per quanto richiesto dalla natura e dalla dimensione dell’organizzazione e dal tipo di attività svolta, i seguenti requisiti: a) una articolazione di funzioni che assicuri le competenze tecniche e i poteri necessari per la verifica e valutazione, la gestione e il controllo delle situazioni di rischio; b) un’adeguata formazione e informazione del personale sugli aspetti rilevanti ai fini dell’osservanza della legge nello svolgimento dell’attività dell’organizzazione; c) un idoneo sistema di controllo sulla attuazione del modello organizzativo e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate; d) il riesame e l’eventuale modifica del modello organizzativo, quando siano scoperte
(*) L’attuale art. 20 risulta dall’accorpamento degli originari art. 21 (Vigilanza e protezione di persone o beni) e art.22 (Guida o sorveglianza nello svolgimento di attività pericolose). (**) L’art. 22 ha sostituito l’originario art. 24 del Progetto, il cui testo era il seguente: « ART. 24. (Adempimenti nell’ambito di organizzazioni complesse). — 1. Le persone giuridiche, le associazioni non riconosciute, gli enti pubblici o privati, le imprese anche individuali devono adottare e attuare modelli organizzativi idonei ad evitare che vengano commessi reati con inosservanza di disposizioni pertinenti all’attività dell’organizzazione, o comunque nell’interesse dell’organizzazione, da persone agenti per essa. 2. I modelli organizzativi devono essere elaborati sulla base della verifica e valutazione delle situazioni che comportano rischi di violazioni della legge penale, e debbono avere, per quanto richiesto dalla natura e dalla dimensione dell’organizzazione e dal tipo di attività svolta, i seguenti requisiti: a) un’adeguata articolazione di funzioni che assicuri in particolare le competenze tecniche e i poteri necessari per la verifica e valutazione, la gestione e il controllo delle situazioni di rischio; b) un’adeguata formazione e informazione del personale sugli aspetti rilevanti ai fini dell’osservanza della legge nello svolgimento dell’attività dell’organizzazione; c) misure materiali e organizzative e protocolli di comportamento atti a garantire lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge, ed a scoprire ed eliminare tempestivamente eventuali situazioni irregolari; d) un idoneo sistema di controllo sulla attuazione del modello organizzativo e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate; e) il riesame e l’eventuale modifica del modello organizzativo, quando siano scoperte violazioni significative della legge penale, o in relazione a mutamenti nell’organizzazione o nell’attività, o in relazione al progresso scientifico e tecnologico; f) un adeguato sistema disciplinare.
— 666 — violazioni significative della legge penale, o in relazione a mutamenti nell’organizzazione o nell’attività, o in relazione al progresso scientifico e tecnologico; e) un adeguato sistema disciplinare. ART. 23. (Posizioni di garanzia nell’ambito di organizzazioni complesse). — 1. Colui che, per legge o per statuto, ha il potere di direzione di un’organizzazione tenuta agli adempimenti di cui al comma 1 dell’articolo precedente, è tenuto ad assicurarne l’osservanza, adottando le misure di sua competenza necessarie a tal fine. È altresì tenuto a tali adempimenti chi, pur senza averne il potere formale, dirige di fatto l’organizzazione in via continuativa e preminente. 2. Chi esercita funzioni di direzione di settori dell’organizzazione, è tenuto ad assicurare l’osservanza dei precetti legali pertinenti all’attività dell’organizzazione, nell’ambito delle proprie attribuzioni e competenze. 3. Colui cui siano attribuite funzioni di consulenza tecnica o di controllo, relative agli adempimenti di cui ai commi precedenti, è tenuto a svolgerle in modo da assicurare, per quanto di sua competenza, gli adempimenti stessi. 4. I preposti a specifiche attività sono tenuti, nei limiti delle loro attribuzioni e competenze, ad assicurarne lo svolgimento nel rispetto delle condizioni richieste dalla legge. 5. La delega di funzioni è ammessa indipendentemente dalle dimensioni dell’organizzazione. In ogni caso essa non esclude i doveri di controllo in conformità al modello organizzativo adottato. 6. Il delegato è tenuto a segnalare al delegante eventuali necessità di intervento, ai fini dell’osservanza della legge, che eccedono i propri poteri. 7. Nei gruppi di società è tenuto agli adempimenti di cui ai commi 1 e 2 anche chi dirige unitariamente una pluralità di società, associazioni o imprese, relativamente agli aspetti rientranti nell’ambito della direzione unitaria (*). ART. 24. (Omesso impedimento di reati commessi col mezzo della stampa e della radio-televisione). — 1. Per i reati commessi con il mezzo della stampa e della radio-televisione l’autore risponde secondo i principi generali. 2. Fuori dei casi di concorso doloso nel reato, quando l’autore non è indicato o non è punibile per qualsiasi causa, per i reati commessi col mezzo della stampa o della radio-televisione risponde a titolo di colpa il soggetto che, in base alla legge o alle disposizioni organizzative dell’impresa editoriale o radio-televisiva, sia tenuto al controllo della pubblicazione o della trasmissione, e che non abbia, per colpa, impedito la realizzazione del delitto. La pena è quella prevista per il delitto doloso diminuita della metà. 3. Se non sono indicati l’autore o l’editore, risponde ai sensi dei commi precedenti lo stampatore. CAPO IV. — Colpevolezza ART. 25. (Responsabilità colpevole). — 1. La colpevolezza dell’agente per il reato commesso è presupposto indefettibile della responsabilità penale. 2. Nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come delitto se non lo ha realizzato con dolo, salvi i casi di delitto colposo espressamente previsti dalla legge. 3. Nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come contravvenzione se non lo ha realizzato con dolo o con colpa. ART. 26.
(Ignoranza ed errore sulla legge penale). — 1. La colpevolezza è esclusa nel
(*) Il comma 7 dell’art. 23 sostituisce l’originario art. 26 del Progetto, così formulato: « ART. 26. (Gruppi di società). — 1. Nei gruppi di società è tenuto agli adempimenti di cui ai due articoli che precedono anche chi esercita la direzione unitaria di gruppi di società o di imprese, relativamente agli aspetti rientranti nell’ambito della direzione unitaria. ».
— 667 — caso di errore sull’illiceità del fatto commesso, derivante da ignoranza o errore scusabile sulla legge penale. ART. 27. (Dolo) (**). — 1. Risponde a titolo di dolo chi, con una condotta volontaria attiva od omissiva, realizza un fatto costitutivo di reato: a) se agisce con la intenzione di realizzare il fatto, b) se agisce rappresentandosi la realizzazione del fatto come certa, c) se agisce accettando la realizzazione del fatto, rappresentato come probabile. ART. 28. (Colpa). — 1. Risponde a titolo di colpa chi, con una condotta che viola regole di diligenza, o di prudenza, o di perizia, ovvero regole cautelari stabilite da leggi, regolamenti, ordini o discipline, realizza un fatto costitutivo di reato che è conseguenza prevedibile ed evitabile dell’inosservanza della regola cautelare. 2. Il rispetto delle regole cautelari specifiche di cui al comma precedente esclude la colpa relativamente agli aspetti disciplinati da dette regole, salvo che il progresso scientifico o tecnologico, nel periodo successivo alla loro emanazione, non le abbia rese palesemente inadeguate. 3. Relativamente agli aspetti non considerati da regole cautelari specifiche, [non può essere ascritta a colpa] l’adozione di misure di generale applicazione, salvo che esse siano [riconoscibilmente] palesemente inidonee, esclude la colpa. ART. 29. (Errore sul fatto e sulle cause di giustificazione). — 1. Esclude il dolo e, se scusabile, anche la colpa, l’ignoranza o l’errore sulla sussistenza di elementi del fatto costitutivo del reato, nonché la supposizione erronea della presenza di cause di giustificazione. 2. Costituisce errore rilevante ai sensi del comma precedente anche l’ignoranza o l’errore su qualificazioni giuridiche di elementi del fatto costitutivo di reato, derivante da errore su leggi diverse dalla legge penale violata. 3. L’erronea rappresentazione di un elemento differenziale fra più reati comporta la responsabilità per il reato che l’agente si è rappresentato, se meno grave. ART. 30. (Imputazione soggettiva delle circostanze aggravanti). — 1. Le circostanze aggravanti sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute, ovvero ignorate per colpa. ART. 31. (Delitti aggravati dall’evento). — 1. Se la legge ricollega una pena più grave ad una conseguenza non voluta di un delitto doloso, di tale conseguenza si risponde solo se essa è ascrivibile a colpa. ART. 32. (Reato contro persona diversa da quella cui esso era diretto. Errore sulla persona dell’offeso). — 1. Quando, per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per un’altra causa, è cagionata offesa a persona diversa da quella cui essa era diretta, il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere. 2. Nel caso di cui al comma 1, ed in caso di errore sulla persona dell’offeso, sono valutate a favore del colpevole le circostanze attenuanti, erroneamente supposte, che riguardano le condizioni o le qualità della persona offesa, o i rapporti tra offeso e colpevole, tranne che si tratti di circostanze che riguardino l’età o altre condizioni o qualità fisiche o psichiche della persona offesa. 3. Qualora, oltre che l’offesa voluta, il colpevole realizza l’offesa a danno di persona diversa, si applicano le norme sul concorso di reati.
(**) L’art. 27 sostituisce l’originario art. 30 del Progetto, così formulato: « ART. 30. (Dolo). — 1. Risponde a titolo di dolo chi, con una condotta volontaria attiva od omissiva, realizza un fatto costitutivo di reato: a) se agisce con la intenzione di realizzare il fatto, b) se agisce rappresentandosi la realizzazione del fatto come certa, ovvero come altamente probabile, accettandone il rischio.
— 668 — ART. 33. (Condizioni oggettive di punibilità). — 1. Condizioni oggettive di punibilità possono essere previste con disposizione espressa di legge, che utilizzi tale definizione. 2. Al verificarsi di una condizione oggettiva di punibilità non possono essere collegati aumenti di pena. CAPO V. — [Cause di giustificazione] Esimenti ART. 34. (Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere). — 1. L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo esclude la punibilità. 2. Se un fatto costituente reato è commesso per ordine di un superiore, del reato rispondono sia chi ha dato l’ordine, sia chi lo ha eseguito. 3. Non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente di sindacare la illegittimità dell’ordine. Sono sempre sindacabili la competenza ad emanare l’ordine, la competenza ad eseguirlo, la forma in cui l’ordine deve essere impartito se richiesta dalla legge. 4. Chi esegue l’ordine illegittimo non sindacabile è punibile quando la criminosità dell’ordine è manifesta o è comunque nota all’esecutore. ART. 35. (Consenso dell’avente diritto). — 1. Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne. [2. Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto patrimoniale senza il consenso della persona che può validamente disporne, in una situazione di evidente ed oggettiva utilità della stessa, e salvo che essa abbia manifestato dissenso all’intervento ed il dissenso sia noto all’agente.] ART. 36. (Difesa legittima). — 1. Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale [percepito dall’agente] di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa. 2. La proporzione deve essere valutata fra i beni contrapposti. [L’interesse leso dalla reazione difensiva può essere moderatamente superiore rispetto a quello tutelato.] 3. Chi interviene a difesa propria o altrui, a parità di efficacia difensiva è obbligato a scegliere la difesa meno lesiva per l’aggressore. 4. Qualora l’aggredito possa sottrarsi all’aggressione con la fuga senza correre nessun rischio, egli è tenuto ad evitare la reazione. 5. La difesa legittima non è applicabile a chi ha suscitato ad arte l’aggressione allo scopo di potere colpire impunemente l’aggressore. ART. 37. (Stato di necessità). — 1. Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale [percepito dall’agente] alla vita, alla integrità fisica, alla libertà individuale o alla libertà sessuale, pericolo non volontariamente causato, né evitabile con una condotta in assoluto meno dannosa, sempre che il danno cagionato sia proporzionato al pericolo. 2. Questa disposizione non si applica a chi, essendo tenuto ad esporsi al pericolo, agisca per salvare un interesse proprio la cui superiorità non sia di particolare rilevanza. ART. 38. (Uso legittimo della coazione). — 1. Al di fuori dei casi di difesa legittima, non è punibile l’appartenente alla forza pubblica che, nell’adempimento di un dovere del suo ufficio, fa uso oppure ordina di fare uso di armi o di altro mezzo di coazione costretto dalla necessità di respingere una violenza o di superare una resistenza all’autorità, sempre che il fatto sia proporzionato alla situazione, e non determini un concreto pericolo per la vita o per l’incolumità fisica di persone estranee. 2. L’uso delle armi non è consentito quando a realizzare l’obbiettivo è sufficiente l’impiego di un altro mezzo di coazione fisica meno pericoloso. ART. 39.
(Eccesso colposo). — 1. Chi ecceda colposamente dai limiti di una causa di
— 669 — giustificazione effettivamente esistente risponde di reato colposo, sempre che il fatto sia previsto come reato colposo. ART. 40. (Efficacia oggettiva delle cause di giustificazione). — 1. Salvo che la legge disponga altrimenti, le cause di giustificazione sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute. CAPO VI. — Delitto tentato ART. 41. (Delitto tentato). — 1. Chi intraprende l’esecuzione di un fatto previsto dalla legge come delitto [tentato], o si accinge ad intraprenderla con atti immediatamente antecedenti, risponde di delitto tentato se l’azione non si compie o l’evento non si verifica. 2. Il colpevole è punito con la pena prevista per il delitto consumato diminuita da un terzo alla metà. 3. La punibilità per delitto tentato è esclusa quando, per l’inidoneità della condotta o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile la consumazione del delitto. ART. 42. (Ravvedimento). — 1. La punibilità per delitto tentato è esclusa quando l’autore volontariamente desiste dalla condotta o impedisce la realizzazione dell’evento. 2. La punibilità è altresì esclusa quando, in presenza di un volontario ed idoneo ravvedimento dell’autore, l’evento non si realizza per altra causa. 3. Resta salva la punibilità degli atti compiuti che costituiscono un diverso reato. CAPO VII. — Concorso di persone nel reato ART. 43. (Concorso di persone nel reato). — 1. Concorre nel reato chiunque partecipa alla sua esecuzione, ovvero determina o istiga altro concorrente, o ne agevola l’esecuzione fornendo aiuto o assistenza causalmente rilevanti per la sua realizzazione. 2. Ciascun concorrente risponde nei limiti della sua colpevolezza. 3. Le disposizioni sul concorso di persone si applicano anche se taluno dei concorrenti non è imputabile o non è punibile per cause personali. ART. 44. (Circostanze attenuanti e aggravanti). — 1. La pena è diminuita per le condotte attive di rilevanza oggettivamente modesta. 2. La pena può essere diminuita per le condotte omissive di concorso nel reato commissivo doloso, fuori dei casi di previo accordo. 3. La pena è aumentata a carico degli organizzatori e dirigenti dell’attività criminosa, nonché di coloro che abbiano determinato al reato persone a loro soggette o totalmente o parzialmente incapaci. ART. 45. (Reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti). — 1. Se è commesso un reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, questi ne risponde quando il reato sia a lui imputabile a titolo di colpa, sempre che il fatto sia preveduto dalla legge come reato colposo. 2. Se oltre al reato diverso risulta commesso anche il reato voluto, si applicano le norme sul concorso di reati. ART. 46. (Accordo per commettere un reato. Istigazione). — 1. Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, e questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell’accordo. 2. La stessa disposizione si applica nel caso di istigazione a commettere un reato, se l’istigazione è stata accolta, ma il reato non è stato commesso. ART. 47. (Ravvedimento del concorrente). — 1. La punibilità è esclusa per il concorrente che volontariamente desiste, neutralizzando del tutto gli effetti della propria condotta, ovvero impedisce la consumazione del reato.
— 670 — 2. La punibilità è altresì esclusa per il concorrente che abbia posto in essere un volontario e idoneo ravvedimento, quando il reato non viene a consumazione per altra causa. 3. Resta salva la punibilità degli atti compiuti che costituiscono un diverso reato. 4. Qualora il concorrente si adoperi volontariamente, e in modo idoneo, per impedire la consumazione del reato, ma questo sia nondimeno consumato, la pena è diminuita. ART. 48. (Valutazione delle cause di giustificazione e delle circostanze). — 1. Le cause di giustificazione e le circostanze oggettive, nonché le circostanze soggettive che sono servite ad agevolare la commissione del reato, hanno effetto per tutti coloro che sono concorsi nel reato. 2. Sono circostanze oggettive quelle che concernono la natura, la specie, i mezzi, l’oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità della condotta, la gravità del danno o del pericolo, ovvero le condizioni o qualità personali dell’offeso. Sono circostanze soggettive quelle che concernono l’intensità del dolo o il grado della colpa, o le condizioni o qualità personali del colpevole, o i rapporti fra il colpevole e l’offeso.
TITOLO III. — LA PENA CAPO I. — Specie di pena ART. 49. (Pene per i delitti). — 1. Sono pene principali per i delitti: a) reclusione speciale; (N.B.: per una possibile soluzione alternativa v. Relazione, n. 4.2.) b) reclusione; c) detenzione domiciliare; d) multa. 2. Sono pene principali o accessorie per i delitti: a) interdizione da uno o più uffici pubblici; b) interdizione dagli uffici direttivi di persone giuridiche o imprese; c) interdizione da una professione o mestiere; d) incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione; e) ritiro o sospensione della patente di guida; f) divieto di allontanamento dal territorio dello Stato, o di una Regione, o di una Provincia, o di un Comune; g) divieto di accesso a determinati luoghi; h) pubblicazione della sentenza di condanna. ART. 50. (Pene per le contravvenzioni). — 1. Sono pene per le contravvenzioni: a) ammenda; b) sospensione da uno o più uffici pubblici, o da una professione o mestiere, ovvero dagli uffici direttivi di persone giuridiche o imprese; c) proibizione dell’accesso a determinati luoghi. ART. 51. (Limiti generali delle pene edittali). — 1. Le pene edittali stabilite dalla legge sono comprese entro i seguenti limiti: — reclusione speciale: da 25 a 30 anni; (N.B.: per una possibile soluzione alternativa v. Relazione, n. 4.2.) — reclusione: da 3 mesi a 18 anni; — detenzione domiciliare: da 1 mese a un anno; — multa e ammenda: quote giornaliere da 15 giorni a due anni; — pene interdittive: da 3 mesi a 5 anni; perpetue nei casi espressamente stabiliti dalla legge. ART. 52.
(Pene detentive). — 1. Le pene detentive vengono espiate negli stabilimenti
— 671 — a ciò destinati, separati da quelli destinati all’esecuzione di misure cautelari, in conformità alle disposizioni di questo codice e dell’ordinamento penitenziario. 2. Gli stabilimenti destinati all’esecuzione delle pene detentive debbono essere idonei ad assicurare il rispetto della dignità e della riservatezza personale. Il regime di esecuzione deve rispettare la dignità e la riservatezza della persona. Non sono ammesse restrizioni dei diritti del condannato fuori dei casi e dei limiti stabiliti dalla legge. ART. 53. (Detenzione domiciliare). — 1. La detenzione domiciliare comporta l’obbligo di permanenza continuativa nella propria abitazione, o in altro luogo indicato dal giudice. 2. In caso di allontanamento illegittimo dal luogo di permanenza obbligata, la pena residua si converte nella pena della reclusione. ART. 54. (Pene pecuniarie). — 1. Le pene pecuniarie della multa e dell’ammenda sono determinate per quote giornaliere. 2. L’importo di una quota giornaliera va da un minimo di lire 5 mila a un massimo di lire 1 milione. ART. 55. (Interdizione o sospensione dai pubblici uffici). — 1. L’interdizione o sospensione da uno o più pubblici uffici priva il condannato della capacità a ricoprire l’ufficio o gli uffici pubblici oggetto dell’interdizione o sospensione. La legge stabilisce i casi nei quali l’interdizione comprende anche cariche elettive. 2. L’interdizione perpetua comprende qualsiasi ufficio pubblico, e comporta anche la perdita del diritto di elettorato passivo e la decadenza da qualsiasi carica pubblica. 3. Nei casi in cui la legge lo consenta, il giudice determina, con la sentenza, se l’interdizione o sospensione si riferisce a qualsiasi ufficio pubblico o ad uno o più uffici determinati. ART. 56. (Interdizione o sospensione da una professione o mestiere). — 1. L’interdizione o sospensione da una professione o mestiere priva il condannato della capacità di esercitare un determinato tipo di professione o mestiere. 2. Salvo che la legge disponga diversamente, l’interdizione o sospensione riguarda la professione o mestiere nel cui esercizio è stato commesso il reato. ART. 57. (Interdizione o sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese). — 1. L’interdizione o sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese priva il condannato della capacità di svolgere attività d’impresa, e di esercitare qualsiasi ufficio che comporti poteri di direzione, controllo o rappresentanza della persona giuridica, o di rappresentanza dell’imprenditore, o di direzione o controllo nell’impresa. ART. 58. (Incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione). — 1. L’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione priva il condannato della capacità di stipulare contratti con i quali assuma la fornitura di beni o servizi alla pubblica amministrazione o ad imprese, in qualsiasi forma costituite, controllate dalla pubblica amministrazione. Priva altresì della capacità di ricoprire le cariche di cui all’articolo precedente in imprese o in società le quali abbiano in essere i contratti sopra indicati. ART. 59. (Divieto di accesso a determinati luoghi). — 1. La pena del divieto di accesso a determinati luoghi può avere ad oggetto: a) i luoghi nei quali è stato commesso il reato, o nei quali abbia dimora o svolga la propria attività la persona offesa; il divieto può estendersi fino all’intero territorio del comune; b) luoghi pubblici o aperti al pubblico destinati a manifestazioni sportive, spettacoli, attività ricreative di qualsiasi genere. ART. 60. (Pubblicazione della sentenza di condanna). — 1. La pubblicazione della sentenza di condanna si esegue in un sito appositamente costituito su di una rete telematica accessibile al pubblico dall’intero territorio nazionale. Il giudice dispone inoltre la pubblica-
— 672 — zione, per estratto o per intero, su uno o più giornali che abbiano diffusione nel luogo del commesso reato, o la comunicazione del dispositivo mediante radio o televisione. La pubblicazione è fatta a spese del condannato. ART. 61. (Lavoro di pubblica utilità) (*). — 1. Il lavoro di pubblica utilità, non retribuito, è pena sostitutiva o obbligo accessorio nei casi previsti dalla legge. Può essere stabilito soltanto con il consenso del condannato. 2. Il lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale o di volontariato. 3. Il ragguaglio con le pene di specie diversa è effettuato calcolando 4 ore di lavoro per giorno di pena sostituita. 4. Il giudice determina, con il consenso del condannato, i tempi di svolgimento e le modalità della prestazione in modo che non ne risultino pregiudicate olte il necessario le esigenze di lavoro o di studio o di famiglia del condannato. 5. In caso di grave inadempimento degli obblighi relativi alla prestazione di lavoro quale pena sostitutiva, la parte residua si converte nella pena sostituita. ART. 62. (Espulsione dello straniero). — 1. L’espulsione dello straniero viene disposta, come pena accessoria o sostitutiva, nei casi previsti dalle leggi speciali. ART. 63. (Tassatività delle disposizioni sulla pena). — 1. Ciascuna specie di pena si applica solo nei casi in cui sia espressamente stabilita, salvo quanto disposto dal comma 2. 2. Sono sempre applicate come pene accessorie: a) le pene interdittive temporanee di cui all’art. 49, comma 2, lett. a), b), c), d), o all’art. 50, comma 1, lett. b), nel caso di condanna per reati commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti a un pubblico ufficio o servizio, o a un ufficio direttivo delle persone giuridiche o imprese, o a una professione o mestiere; in ciascuno di tali casi le pene sopra indicate possono essere applicate congiuntamente o disgiuntamente; b) la pena di cui all’art. 49, comma 2, lett. e), nel caso di condanna per delitti commessi con violazione delle norme sulla circolazione stradale; c) la pena di cui all’art. 49, comma 2 lett. g), nel caso di condanna per reati la cui causa od occasione sia specificamente legata ad un determinato luogo o a un determinato tipo di luogo; d) la pena di cui all’art. 49, comma 2, lett. h), nel caso di condanna per delitti commessi col mezzo della stampa o di altro mezzo di comunicazione rivolta al pubblico o accessibile al pubblico. CAPO II. — Circostanze aggravanti e attenuanti ART. 64. (Circostanze aggravanti). — 1. Sono circostanze aggravanti comuni, salvo che la legge disponga diversamente:
(*) L’art. 61 sostituisce l’originario art. 63 del Progetto, così formulato: « ART. 63. (Lavoro di pubblica utilità). — 1. Il lavoro di pubblica utilità è pena sostitutiva delle pene detentive non superiori ad un anno e delle pene pecuniarie. 2. Il lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Provincie, i Comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale o di volontariato. 3. La prestazione di cui al comma precedente può essere stabilita solo a richiesta dell’imputato. 4. Il ragguaglio con le pene di specie diversa è effettuato calcolando 4 ore di lavoro per giorno di pena sostituita. 5. Il giudice determina, con il consenso del condannato, i tempi di svolgimento e le modalità della prestazione in modo che non ne risultino pregiudicate oltre il necessario le esigenze di lavoro o di studio o di famiglia del condannato. 6. In caso di inosservanza della pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, la pena, o la parte residua, si convertono nella pena sostituita ».
— 673 — a) l’avere commesso il delitto per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale, o di intimidazione mafiosa, o di discriminazione razziale; b) l’avere commesso il reato per eseguire o occultare un altro reato, ovvero per assicurare a sé o ad altri il profitto o l’impunità di un altro reato; c) l’avere, nei delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità; d) l’avere, nei delitti dolosi contro la persona, o comunque commessi con violenza alla persona, agito per motivi abietti o futili, o con sevizie; e) l’avere, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell’evento. ART. 65. (Recidiva). — 1. La pena è aumentata nei confronti di chi, dopo essere stato condannato, nei [dieci anni] cinque anni successivi alla sentenza irrevocabile commette un [delitto ovvero una contravvenzione] reato, della stessa indole. 2. Sono reati della stessa indole quelli che costituiscono violazione della medesima disposizione di legge, ovvero offendono il medesimo interesse, ovvero, per la natura dei fatti o dei motivi che li hanno determinati, presentano in concreto caratteri fondamentali comuni. ART. 66. (Circostanze attenuanti). — 1. Sono circostanze attenuanti comuni, salvo che la legge disponga diversamente: a) l’avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale; b) l’avere reagito in stato d’ira determinato dal fatto ingiusto altrui; c) l’avere, nei delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, cagionato o tentato di cagionare un danno di particolare tenuità; d) l’avere commesso il reato perché indotto da persona alla cui autorità l’autore del reato era sottoposto, o l’avere, nell’esercizio di una prestazione lavorativa subordinata, commesso il reato perché condizionato da disposizioni impartite da un superiore; e) l’avere commesso il reato per evitare un pericolo grave di danno alla persona o al patrimonio, in una situazione particolare nella quale era sensibilmente diminuita la possibilità di tenere un comportamento conforme alla norma; f) l’avere, prima del giudizio, risarcito integralmente il danno, o comunque l’essersi adoperato efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato; [g) l’avere, prima che sia stata esercitata l’azione penale, aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la individuazione o la cattura degli autori del reato, ovvero per il recupero delle cose che costituiscono il prezzo, prodotto o profitto del reato.] ART. 67.
(Computo delle circostanze) (*). — 1. Gli aumenti o diminuzioni di pena,
(*) L’art. 67 sostituisce l’originario art. 69 del Progetto, così formulato: « ART. 69. (Computo delle circostanze). — 1. Gli aumenti o diminuzioni di pena, stabiliti dalla legge per le circostanze aggravanti o attenuanti, si operano aumentando o diminuendo la quantità di pena che il giudice applicherebbe al colpevole, qualora non concorresse la circostanza. 2. Gli aumenti o diminuzioni di pena corrispondenti a una circostanza ad effetto ordinario sono fino a un quarto della pena che il giudice applicherebbe in assenza di circostanze. Se concorrono due o più circostanze aggravanti, ovvero due o più circostanze attenuanti, ad effetto ordinario, gli aumenti o le diminuzioni di pena sono complessivamente fino alla metà. 3. Sono circostanze ad effetto speciale quelle per le quali l’aumento o diminuzione di pena è determinato in maniera autonoma, o in misura superiore al quarto. 4. Se una circostanza ad effetto speciale concorre con una o più circostanze ad effetto ordinario, gli aumenti o diminuzioni di pena corrispondenti alle circostanze ad effetto ordinario si applicano sulla pena in concreto determinata con riferimento alla circostanza ad effetto speciale. 5. Se concorrono più circostanze aggravanti, ovvero più circostanze attenuanti, ad effetto speciale, si applica la circostanza che comporta l’aumento o la diminuzione maggiore, e le altre circostanze vengono applicate come se fossero circostanze ad effetto ordinario. 6. Quando concorrano insieme circostanze aggravanti e circostanze attenuanti ad effetto ordinario, e le prime sono ritenute dal giudice prevalenti, non si tiene conto delle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti, e si fa luogo soltanto agli aumenti di pena stabiliti per le circostanze aggravanti. Se
— 674 — stabiliti dalla legge per le circostanze aggravanti o attenuanti, si operano aumentando o diminuendo la quantità di pena che il giudice applicherebbe al colpevole, qualora non concorresse la circostanza. 2. Gli aumenti o diminuzioni di pena corrispondenti a una circostanza sono da un sesto ad un quarto della pena che il giudice applicherebbe in assenza di circostanze. Se concorrono due o più circostanze aggravanti, ovvero due o più circostanze attenuanti, gli aumenti o le diminuzioni di pena sono complessivamente fino alla metà. 3. Quando concorrano insieme circostanze aggravanti e circostanze attenuanti, e le prime sono ritenute dal giudice prevalenti, non si tiene conto delle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti, e si fa luogo soltanto agli aumenti di pena stabiliti per le circostanze aggravanti. Se le circostanze attenuanti sono ritenute prevalenti sulle circostanze aggravanti, non si tiene conto degli aumenti di pena stabilite per le circostanze aggravanti, e si fa luogo soltanto alle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti. Se fra le circostanze aggravanti e attenuanti il giudice ritiene vi sia equivalenza, dette circostanze non sono considerate ai fini della pena. 4. È esclusa dalla disciplina dei commi precedenti la diminuente di cui all’articolo 100, comma 4, e 105, comma 3, che si applica, in ogni caso, per ultima. ART. 68. (Limiti di pena per il reato circostanziato). — 1. Le pene non possono essere aumentate, per effetto di circostanze aggravanti, oltre i seguenti limiti: — reclusione speciale: 30 anni; — reclusione: 20 anni; — detenzione domiciliare: 15 mesi; — multa e ammenda: due anni e sei mesi; — misure interdittive: 6 anni. 2. Le pene diminuite per effetto di circostanze attenuanti non possono scendere al di sotto dei seguenti limiti: — per la reclusione speciale: 20 anni, salvo che nei casi di [in]capacità ridotta per infermità e negli altri casi espressamente indicati dalla legge; — per la reclusione e per le pene interdittive: [un mese] due mesi; — per le altre specie di pena: i limiti indicati nell’art. 51. CAPO III. — Applicazione delle pene ART. 69. (Criteri di commisurazione della pena). — 1. Nei limiti fissati dalla legge, il giudice applica la pena con provvedimento motivato, secondo i criteri stabiliti nel presente capo. 2. La pena viene determinata dal giudice, entro il limite della proporzione con la colpevolezza per il fatto commesso, avendo riguardo alle finalità di prevenzione speciale, in particolare sotto l’aspetto della reintegrazione del condannato nella società. 3. Ai fini della determinazione della pena ai sensi del comma precedente, il giudice valuta: a) la gravità del reato e delle sue conseguenze dannose, in quanto riflesse nella colpevolezza; b) l’intensità del dolo o il grado della colpa, e i motivi che hanno determinato la commissione del reato;
le circostanze attenuanti sono ritenute prevalenti sulle circostanze aggravanti, non si tiene conto degli aumenti di pena stabiliti per le circostanze aggravanti, e si fa luogo soltanto alle diminuzioni di pena stabiliti per le circostanze attenuanti. Se fra le circostanze aggravanti e attenuanti il giudice ritiene vi sia equivalenza, dette circostanze non sono considerate ai fini della pena. 7. Salvo che la legge non disponga diversamente, quando ricorrano circostanze ad effetto speciale sia aggravanti che attenuanti, si applica la disciplina di cui al comma 6. 8. È esclusa dalla disciplina del comma 6 la diminuente di cui all’art. 87 comma 4, che si applica, in ogni caso, per ultima ».
— 675 — c) le eventuali condotte di riparazione totale o parziale dell’offesa che il colpevole o altri per esso abbia tenuto dopo il fatto; d) i reati precedentemente commessi, i comportamenti del colpevole anteriori al reato, e le sue condizioni di vita al momento del fatto; e) i comportamenti del colpevole successivi al reato, e le sue attuali condizioni di vita, nella misura in cui siano rilevanti rispetto alle finalità di prevenzione speciale. 4. La misura della pena è determinata dal giudice separatamente per ciascuna specie di pena. ART. 70. (Orientamento alla prevenzione speciale). — 1. In tutte le decisioni concernenti gli istituti disciplinati da questo titolo, o le misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario, il giudice, nell’esercizio del suo potere discrezionale, adotta la soluzione più adeguata per finalità di prevenzione speciale. 2. Le valutazioni e decisioni sulle scelte sanzionatorie non possono essere motivate da ragioni di esemplarità punitiva o di allarme sociale. ART. 71. (Commisurazione della pena pecuniaria). — 1. Nella commisurazione della pena pecuniaria, il giudice determina il numero della quote giornaliere secondo le disposizioni dell’art. 69, e determina l’importo della quota giornaliera in ragione delle condizioni economiche del colpevole. 2. La quota giornaliera deve essere determinata in modo tale da non pregiudicare le condizioni elementari di vita del colpevole, e [secondo un criterio di progressività] in relazione alle condizioni economiche dello stesso. Non può essere determinata in misura tale che la pena inflitta incida sulle condizioni economiche del colpevole in modo sproporzionato rispetto alla gravità del fatto. 3. Ai fini del ragguaglio con pene detentive o interdittive, una quota giornaliera di pena pecuniaria corrisponde a un giorno di pena detentiva o interdittiva. ART. 72. (Pagamento rateale della pena pecuniaria). — 1. La pena pecuniaria eccedente le 30 quote giornaliere viene pagata [se il condannato ne fa domanda] in rate mensili nell’arco di tempo corrispondente al numero di quote giornaliere, o al minor tempo che il condannato abbia indicato. Il condannato può, in qualsiasi momento, provvedere al pagamento del saldo. 2. Il giudice può concedere, su motivata richiesta del condannato, una rateazione per un periodo fino a una volta e mezzo il numero di quote giornaliere. 3. Il condannato può rinunciare alla rateazione, o impegnarsi a pagare entro termini più brevi, o effettuare pagamenti entro termini più brevi di quanto previsto dai commi precedenti; può, in qualsiasi momento, provvedere al pagamento del saldo. 4. Il mancato pagamento di una rata comporta la scadenza di tutte le rate residue. 5. I termini per il pagamento della pena pecuniaria sono sospesi per il tempo in cui è in corso di esecuzione una pena detentiva o una misura restrittiva della libertà personale. ART. 73. (Mancato pagamento della pena pecuniaria). — 1. Se il condannato non paga in tutto o in parte la pena pecuniaria, al pagamento di una somma pari all’ammontare della pena residua sono tenuti in via sussidiaria: a) la persona rivestita di autorità, direzione o vigilanza sull’autore del reato, in caso di violazione di disposizioni che essa era tenuta a fare osservare; questa disposizione si applica anche in caso di concorso nel reato; b) gli enti forniti di personalità giuridica, eccettuati lo Stato, le Regioni e gli altri enti pubblici territoriali e le Autorità indipendenti, nel caso di reati commessi con abuso di poteri o con violazione di doveri inerenti a una prestazione svolta nell’ambito dell’ente. 2. Se il condannato non paga in tutto o in parte la pena pecuniaria, pur potendo procurarsi i mezzi per pagarla, e il pagamento non può essere ottenuto da altre persone civilmente obbligate ai sensi del comma precedente, la pena pecuniaria non eseguita è sostituita, con il consenso del condannato, con la prestazione di un lavoro di pubblica utilità, ovvero, in mancanza di tale consenso, con la semidetenzione, per una durata pari al numero delle quote
— 676 — giornaliere. Il pagamento della pena pecuniaria, in qualsiasi momento, fa cessare l’esecuzione della pena sostitutiva. 3. La pena pecuniaria non eseguita in tutto o in parte, per insolvibilità del condannato non addebitabile a sua colpa, e il cui pagamento non possa essere ottenuto da altre persone civilmente obbligate, si estingue nel termine stabilito dall’art. 90 (*). [ART. 76. (Esclusione facoltativa di pene concorrenti). — 1. Ferma in ogni caso l’applicazione delle pene accessorie ai sensi dell’art. 65, comma 2, il giudice può escludere l’applicazione della pena concorrente con la pena detentiva, quando quest’ultima risulti sufficiente in relazione alla colpevolezza del reo e alle finalità di prevenzione speciale. Questa disposizione si applica anche nel caso di concorso di reati.] ART. 74. (Non punibilità per particolare tenuità del fatto). — 1. Il fatto non è punibile quando ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: a) il fatto è di particolare tenuità, per la minima entità del danno o del pericolo nonché per la minima colpevolezza dell’agente; b) il comportamento è stato occasionale; c) non sussistono pretese risarcitorie; d) non sussistono esigenze di prevenzione generale o speciale tali da richiedere una qualsiasi misura nei confronti dell’autore del reato; 2. Il presente articolo si applica ai reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a due anni. CAPO IV. — Concorso di reati ART. 75. (Concorso materiale di reati). — 1. Nel caso di condanna per più reati si applica la pena corrispondente alla violazione in concreto più grave, aumentata fino al triplo, e comunque non oltre la somma delle pene corrispondenti a ciascun reato. 2. Gli aumenti di pena ai sensi del comma 1 si effettuano sulle diverse specie di pena corrispondenti ai diversi reati per cui è pronunciata condanna. 3. Fermo restando il limite massimo di cui al comma 1 di questo articolo, l’aumento di pena corrispondente a ciascun reato non può scendere al di sotto della quarta parte del minimo edittale, tenuto conto delle circostanze attenuanti. 4. Per ogni effetto giuridico diverso dalla pena si ha riguardo ai singoli reati per i quali è stata pronunciata condanna. 5. Per la determinazione del limite di cui al comma 1 si considerano le sole pene principali; non si considera la pubblicazione della sentenza di condanna; due giorni di pena pecuniaria o di pena interdittiva si calcolano come un giorno di pena detentiva. 6. Le disposizioni dei commi precedenti si applicano anche quando una persona, già condannata, riporta una nuova condanna per reati commessi prima della precedente sentenza di condanna anche se non definitiva (*). 7. Al di fuori dei casi di cui al precedente comma, le pene inflitte con separate sentenze si cumulano per intero. ART. 76. (Concorso formale e reato continuato). — 1. Ferma per il resto l’applicazione dell’art. 75, escluso il comma 3, si applica la pena corrispondente alla violazione in concreto più grave, aumentata fino alla metà, e comunque non oltre la somma delle pene corrispondenti a ciascun reato:
(*) Il riferimento è da intendersi dall’art. 88 del Progetto. (*) Originariamente, il comma 6 dell’attuale art. 75 era così formulato: « 6. Le disposizioni dei commi precedenti si applicano anche quando una persona, già condannata per uno o più reati, riporta una nuova condanna per uno o più altri reati, commessi prima della precedente sentenza di condanna. Per tale si intende la sentenza nella quale, per la prima volta, è stata accertata la responsabilità penale per taluno dei reati ».
— 677 — a) a più reati commessi con un’unica azione od omissione; b) a più reati commessi in esecuzione del medesimo disegno criminoso, in un contesto temporale unitario. 2. Ai fini dell’art. 75 comma 3 i reati unificati ai sensi del comma 1 si considerano un reato unico. ART. 77. (Limiti massimi della pena cumulata). — 1. Il cumulo delle pene ai sensi degli artt. 75 e 76 non può superare i seguenti limiti massimi: — reclusione speciale: 30 anni; tale limite si applica all’insieme delle pene detentive, quando per taluno dei delitti commessi sia stata inflitta la pena della reclusione speciale; — reclusione: 24 anni; tale limite si applica all’insieme delle pene detentive, quando per taluno dei delitti commessi sia stata inflitta la pena della reclusione; — detenzione domiciliare: un anno e sei mesi; — multa e ammenda: tre anni; — misure interdittive: 10 anni. 2. I limiti di cui al comma precedente non si applicano nel caso di cumulo ai sensi dell’art. 75, comma 7. CAPO V. — Sostituzione e sospensione condizionale ART. 78. (Sostituzione di pene detentive brevi). — 1. È espiata in regime di semidetenzione la pena della reclusione non superiore a un anno, salvo che il giudice disponga diversamente. 2. Il giudice può disporre che venga espiata, in tutto o in parte, in regime di semidetenzione la pena della reclusione non superiore a due anni. 3. La semidetenzione comporta la permanenza negli stabilimenti di esecuzione della pena durante il periodo notturno, di regola dalle ore 20 della sera alle ore 7 del mattino, o per un tempo di durata equivalente. 4. La pena detentiva non superiore a un anno può essere sostituita, su richiesta dell’imputato, o con il lavoro di pubblica utilità, o con la pena pecuniaria, per un periodo di durata uguale alla pena detentiva inflitta. 5. La pena pecuniaria può essere sostituita, a richiesta dell’imputato, con il lavoro di pubblica utilità per un periodo di durata uguale alla pena pecuniaria inflitta. 6. Il giudice adotta i provvedimenti di cui ai commi 2, 4 e 5 in conformità all’art. 70. La sostituzione della pena è condizionata all’adempimento degli obblighi di cui all’art. 81. Possono essere imposti [con il consenso del condannato] taluni fra gli obblighi di cui all’art. 82. 7. La condanna a pena detentiva sostituita ai sensi del comma 4 non è d’ostacolo alla concessione della sospensione condizionale, salvo che sia intervenuta revoca ai sensi del comma 11. 8. La sospensione condizionale della pena non si applica alla pena sostituita. 9. Non può essere sostituita la pena che importa la revoca della sospensione condizionale precedentemente concessa. 10. L’applicazione della pena sostitutiva ai sensi del comma 4 non può essere disposta più di due volte. Qualora per reati unificabili in un unico cumulo giuridico ai sensi degli artt. 74 e 75 siano pronunciate separate sentenze di condanna, ai fini del presente comma si considerano come un’unica sentenza; ognuna delle successive sentenze verifica nuovamente la sussistenza dei presupposti della sostituzione della pena, e decide sull’imposizione di obblighi ai sensi degli artt. 81 e 82. 11. Se il condannato si rende inadempiente in misura significativa agli obblighi inerenti alla prestazione, o non paga la pena pecuniaria, per la parte residua di pena sostitutiva viene applicata la pena sostituita. ART. 79.
(Ambito di applicazione della sospensione condizionale). — 1. L’esecuzione
— 678 — della pena detentiva [o interdittiva] inflitta, non superiore a due anni, può essere sospesa quando ricorrano cumulativamente le seguenti condizioni: a) il condannato non ha riportato precedenti condanne a pena detentiva non sostituita [o a pena interdittiva] per delitto doloso, salvo che sia intervenuta riabilitazione, e salvo quanto disposto dall’art. 80, comma 3; b) l’affermazione di responsabilità, accompagnata dalle ulteriori statuizioni di cui al presente capo, appare sufficiente, tenuto conto degli elementi di cui all’art. 69, a realizzare le finalità di prevenzione speciale. 2. Per i reati commessi da persona in stato di capacità ridotta, o di età inferiore ai 21 anni, o maggiore di 70 anni, può essere sospesa la pena detentiva [o interdittiva] non superiore a tre anni. 3. La sospensione condizionale della pena può altresì essere concessa a chi abbia riportato una precedente condanna a pena detentiva [o interdittiva] non sospesa, qualora la pena da infliggere, cumulata con la precedente, non superi i limiti di cui ai commi precedenti. 4. Ai fini del calcolo della pena sospendibile non si considerano eventuali pene concorrenti di specie diversa. [5. La sospensione della pena detentiva può essere disposta separatamente dalla sospensione della pena interdittiva, e viceversa.] ART. 80. (Condizioni e limiti alla reiterazione della sospensione condizionale). — 1. La sospensione condizionale non può essere concessa più di una volta, salvo quanto disposto dal presente articolo. 2. Può essere concessa una seconda sospensione condizionale qualora la nuova condanna, cumulata con la precedente, non superi i limiti di cui all’art. 79, commi 1 o 2, e ricorrano le condizioni di cui all’art. 79, comma 1, lett. b). Per la determinazione di detti limiti si considerano le sole pene principali; non si considera la pubblicazione della sentenza di condanna. 3. Qualora per reati unificabili in un unico cumulo giuridico ai sensi degli artt. 74 e 75 siano pronunciate separate sentenze di condanna, ai fini della sospensione condizionale si considerano come un’unica sentenza. Ognuna delle successive sentenze verifica nuovamente la sussistenza della condizione di cui al comma 2, e decide sull’imposizione di obblighi ai sensi degli artt. 81 e 82. ART. 81. (Riparazione delle conseguenze del reato). — 1. La sospensione della pena è condizionata alle restituzioni o al risarcimento del danno, di cui le persone danneggiate abbiano fatto richiesta; alla consegna del profitto del reato, di cui il condannato abbia beneficiato; alla consegna del prezzo del reato. 2. Qualora il condannato non sia in grado di provvedere in conformità al comma 1, potrà essere ritenuto sufficiente un risarcimento o pagamento nei limiti di quanto esigibile, seguito da un concreto attivarsi per integrare il risarcimento o pagamento nel periodo di sospensione condizionale, nei termini di un impegno previamente assunto dal condannato e ritenuto idoneo dal giudice. 3. La sospensione della pena è inoltre condizionata all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, nella misura in cui ciò sia esigibile dal condannato. A tal fine il giudice provvede secondo quanto disposto dall’art. 120. ART. 82.
(Obblighi qualificati) (*). — 1. Qualora sia ritenuto necessario per finalità di
(*) L’art. 82 sostituisce l’originario art. 84 del Progetto, così formulato: « ART. 84. (Obblighi qualificati). — 1. Qualora sia necessario per finalità di prevenzione speciale, e comunque nel caso di sospensione di una pena detentiva superiore a un anno di reclusione, o di seconda concessione ai sensi dell’art. 82, comma 2, ovvero di concessione a chi abbia già riportato condanna a pena detentiva, la sospensione della pena è subordinata alla sottoposizione del condannato ad uno o più fra i seguenti obblighi: — restituzione o risarcimento, anche in via equitativa, a favore delle persone offese identificate che non ne abbiano fatto richiesta; si applica l’art. 83 comma 2; — prestazione di pubblica utilità alle condizioni di cui all’art. 63;
— 679 — prevenzione speciale, e comunque nel caso di sospensione di una pena detentiva superiore a un anno di reclusione, o di seconda concessione ai sensi dell’articolo 80, comma 2, ovvero di concessione a chi abbia già riportato condanna a pena detentiva ancorché sostituita, la sospensione della pena è subordinata alla sottoposizione del condannato ad uno o più fra i seguenti obblighi: — restituzione o risarcimento, anche in via equitativa, a favore delle persone offese identificate che non ne abbiano fatto richiesta; si applica l’articolo 81 comma 2; — prestazione di pubblica utilità alle condizioni di cui all’articolo 61; — pagamento a favore dello Stato di una somma di denaro non superiore a 365 quote giornaliere; — divieto di accesso a determinati luoghi, o di allontanamento da determinati luoghi; — divieto di frequentare determinate persone; — divieto di detenere o utilizzare determinati oggetti; — obbligo di frequentare una scuola o un corso di formazione professionale; — sottoposizione a un trattamento terapeutico o riabilitativo. 2. Per il sostegno del condannato può essere disposto l’affidamento al servizio sociale. 3. La prestazione di pubblica utilità e il pagamento di una somma di denaro a favore dello Stato non possono eccedere la misura della pena sospesa, secondo i criteri di ragguaglio previsti dagli articoli 61 e 71. La durata degli altri obblighi e dell’affidamento al servizio sociale è determinata dal giudice entro i limiti del periodo di sospensione condizionale della pena, e può essere successivamente ridotta o prolungata. 4. L’imputato può richiedere di svolgere, in sostituzione di taluno degli obblighi di cui al comma 1, altre prestazioni che il giudice ritenga equivalenti e ragionevoli rispetto alle finalità di prevenzione speciale. ART. 83. (Durata ed effetti della sospensione). — 1. La sospensione condizionale della pena è disposta per la durata di cinque anni. Può essere disposta per una durata fino a sette anni, se ciò appare utile ai fini dell’adempimento degli obblighi di cui all’articolo 81 (*). 2. Il termine decorre dalla data della sentenza irrevocabile di condanna. Nel caso di più condanne per reati unificabili in un unico cumulo giuridico ai sensi degli artt. 72 e 73, la sospensione decorre dalla data di ciascuna sentenza, relativamente alla pena inflitta con essa. 3. Delle condanne a pena condizionalmente sospesa non è fatta menzione nel certificato del casellario giudiziale spedito a richiesta dell’interessato, non per ragioni di diritto elettorale. 4. La sospensione della pena è revocata qualora, nei termini di cui al comma 1, il condannato: a) riporta una condanna per reato precedentemente commesso, a pena che, cumulata con quella condizionalmente sospesa, supera i limiti di cui all’art. 79; ovvero b) riporta condanna per un delitto o una contravvenzione della stessa indole commessi
— pagamento a favore dello Stato di una somma di denaro non superiore a 180 quote giornaliere; — divieto di accesso a determinati luoghi, o di allontanamento da determinati luoghi; — divieto di frequentare determinate persone; - divieto di detenere o utilizzare determinati oggetti; — obbligo di frequentare una scuola o un corso di formazione professionale. 2. La prestazione di pubblica utilità e il pagamento di una somma di denaro a favore dello Stato non possono eccedere la misura della pena sospesa, secondo i criteri di ragguaglio previsti dagli artt. 63 e 73. Gli altri obblighi durano per tutto il periodo di sospensione condizionale della pena, salvo che il giudice disponga una minore durata. 3. L’imputato può richiedere di svolgere in sostituzione di taluno degli obblighi di cui al comma 1, altre prestazioni che il giudice ritenga equivalenti e ragionevoli rispetto alle finalità di prevenzione speciale ». (*) La formulazione originaria del primo comma dell’attuale art. 83 era la seguente: « 1. La sospensione condizionale della pena è disposta per la durata di sette anni, nel caso di condanna a pena detentiva per delitto doloso. Negli altri casi il termine è stabilito dal giudice, fra un minimo di tre e un massimo di cinque anni ».
— 680 — successivamente, salvo che ricorrano le condizioni per una seconda sospensione condizionale ai sensi dell’art. 80, comma 2; ovvero c) si rende gravemente inadempiente agli obblighi di cui agli artt. 81 e 83. 5. Dalla pena da eseguire a seguito della revoca della sospensione condizionale si detrae un periodo corrispondente agli adempimenti di cui all’art. 82 comma 1, consistenti nel pagamento a favore dello Stato di una somma di denaro o in una prestazione di pubblica utilità. Si applicano i criteri di ragguaglio previsti per la pena pecuniaria e per la pena sostitutiva della prestazione di pubblica utilità. Il giudice può disporre una ulteriore detrazione, non superiore a [un mese] tre mesi, in ragione dell’adempimento di altri obblighi imposti al condannato. 6. Se, nel termine stabilito, non si verificano le condizioni per la revoca ai sensi del comma 4, la pena sospesa si estingue. ART. 84. (Sospensione condizionale nel caso di condanna alla pena interdittiva). — 1. Alle condizioni di cui agli articoli 79 e 81, nel caso di condanna alle pene interdittive di cui agli art. 55, 56 e 57 non superiore a sei mesi l’esecuzione della pena può essere sospesa per una sola volta. 2. Qualora sia necessario per finalità di prevenzione speciale, o si tratti di seconda sospensione ai sensi dell’art. 80, comma 2, la sospensione è limitata a una parte della pena, non eccedente la metà della pena inflitta. Può essere disposta una prestazione di pubblica utilità alle condizioni di cui all’articolo 61, ovvero il pagamento a favore dello Stato di una somma di denaro non superiore a 365 quote giornaliere. 3. La sospensione condizionale della pena interdittiva viene computata ai fini dell’applicazione dell’articolo 80, comma 2. Si applica l’articolo 83. La durata della sospensione è di tre anni. [ART. 86. (Sospensione condizionale nel caso di condanna alla sola pena pecuniaria). — 1. Alle condizioni di cui agli artt. 81, 82 e 83, nel caso di condanna alla sola pena pecuniaria non superiore a due anni l’esecuzione della pena può essere sospesa, a richiesta dell’imputato. Questa disposizione si applica anche qualora la pena pecuniaria sia congiunta alla pubblicazione della sentenza di condanna. 2. Qualora si tratti di seconda sospensione ai sensi dell’art. 82, comma 2, la sospensione è limitata a una parte della pena, non eccedente la metà della pena inflitta. 3. La sospensione condizionale della pena pecuniaria viene computata ai fini dell’applicazione dell’art. 82, comma 2. Si applica l’art. 85. La durata della sospensione è di tre anni.] CAPO VI. — Condizioni di procedibilità e di estinzione della punibilità ART. 85. (Querela, richiesta e istanza). — 1. Nei casi in cui la legge stabilisce che il reato sia perseguito a querela della persona offesa, la querela può essere proposta entro tre mesi dal giorno in cui l’avente diritto ha avuto notizia del reato, salvo che la legge stabilisca un termine diverso. 2. In caso di pluralità di persone offese la querela può essere presentata anche da una soltanto di esse. 3. Qualora la persona offesa si trovi in una obiettiva situazione di soggezione nei confronti dell’autore del reato, il termine di cui al comma 1 non decorre fino a che perduri lo stato di soggezione. 4. La querela deve manifestare in modo inequivoco la volontà che si proceda in ordine al fatto cui essa si riferisce. I requisiti formali e le modalità di presentazione della querela sono stabiliti dalla legge processuale. 5. Per i minori di 14 anni e per gli interdetti il diritto di querela è esercitato da chi abbia la potestà di genitore o tutore. 6. Se la persona offesa dal reato è incapace e priva di legale rappresentante, ovvero vi
— 681 — sia conflitto di interessi con il legale rappresentante, il diritto di querela è esercitato da un curatore speciale, nominato secondo le disposizioni del codice di procedura penale. 7. I minori che abbiano compiuto i 14 anni e coloro che siano affidati ad un curatore possono esercitare il diritto di querela, che può altresì essere esercitato dal genitore o dal curatore. 8. La presentazione della querela rende il reato perseguibile nei confronti di tutti coloro che vi abbiano concorso, salvo espressa rinunzia nei confronti di taluno. 9. Il diritto di querela non si trasmette agli eredi, salvo che la legge disponga diversamente. La morte del querelante non fa cessare gli effetti della querela presentata. 10. Il diritto di querela viene meno se, dopo che la persona offesa ha avuto notizia del reato, ha fatto rinuncia espressa, o ha tenuto comportamenti incompatibili con la volontà di presentare querela. 11. Nei casi in cui la legge stabilisce che il reato sia perseguito a richiesta del Ministro della giustizia o di altra autorità si applicano i commi 1, 4, e 8. Nei casi in cui la legge stabilisce che il reato sia perseguito ad istanza della persona offesa si applicano i commi da 1 a 9. La richiesta e l’istanza sono irrevocabili. ART. 86. (Remissione della querela). — 1. Salvo che la legge disponga diversamente, la remissione della querela da parte di tutti i querelanti, accettata dal querelato prima della sentenza irrevocabile, comporta l’improcedibilità dell’azione penale. 2. La remissione e l’accettazione della remissione della querela devono esser fatte in forma espressa. 3. Alla remissione e alla accettazione della remissione di querela si applicano i commi 5 e 6 dell’articolo precedente. 4. La remissione della querela può essere limitata a favore di taluno soltanto fra i querelati. In tal caso la querela mantiene efficacia nei confronti degli altri. 5. Se la querela è stata presentata da una soltanto delle persone offese, la remissione che questi abbia fatto non pregiudica il diritto di querela delle altre. 6. Dopo la morte del querelante, il diritto di remissione della querela può essere esercitato dagli eredi. La remissione ha effetto se tutti gli eredi vi consentono. ART. 87. (Oblazione). — 1. L’oblazione consiste nel pagamento di una somma pari a un terzo del massimo della pena pecuniaria prevista dalla legge per il reato contestato. 2. Può presentare domanda di oblazione l’imputato al quale: a) sia stata contestata una contravvenzione punita con l’ammenda, anche alternativa o congiunta ad altra pena; b) sia stato contestato un delitto punito con la multa, anche alternativa o congiunta ad altra pena non detentiva, ovvero alternativa a una pena detentiva; questa disposizione si applica ai soli delitti per i quali l’oblazione sia consentita in forza di specifica disposizione di legge. 3. La domanda di oblazione deve essere presentata prima dell’apertura del dibattimento. 4. Nel caso di nuove contestazioni in corso di dibattimento, la domanda può essere presentata non oltre la prima udienza successiva a quella in cui è stata fatta la contestazione; per la eventuale presentazione della domanda di oblazione, l’imputato ha diritto a ottenere un termine non inferiore a 7 giorni. 5. I termini di cui ai commi 3 e 4 valgono anche quando, pur essendo stato contestato un reato non suscettibile di oblazione, l’imputato ritenga applicabile l’oblazione in base a una diversa qualificazione giuridica o ad elementi di fatto non considerati nell’imputazione. In tal caso, la domanda di oblazione deve indicare la qualificazione giuridica ritenuta corretta, e le eventuali prove dei fatti affermati nella domanda. 6. L’oblazione non è ammessa quando non sia stato risarcito il danno o permangano conseguenze dannose o pericolose del reato eliminabili da parte di chi abbia chiesto di essere ammesso all’oblazione. 7. La domanda di oblazione può essere respinta, in base al criterio di cui all’art. 82,
— 682 — quando sia stata chiesta da persona già condannata a pena detentiva, o in caso di recidiva specifica. 8. Qualora la pena pecuniaria sia prevista congiuntamente ad altra pena, ovvero in alternativa a una pena detentiva, la domanda di oblazione può essere respinta avendo riguardo alla gravità del fatto. 9. Con il provvedimento che ammette l’oblazione, il giudica determina l’importo della quota giornaliera, ed assegna un termine, non superiore a 15 giorni, per il deposito della prima rata mensile della somma di cui al comma 1 e delle spese del procedimento. Si applica l’art. 81, comma 2. Il procedimento è sospeso dalla data del provvedimento che ammette l’oblazione alla data del pagamento dell’ultima rata. Il mancato pagamento anche di una sola rata entro il termine dovuto comporta di diritto la revoca dell’ammissione all’oblazione. 10. Verificati gli adempimenti di cui al comma precedente, il giudice dichiara non luogo a procedere. ART. 88. (Prescrizione). — 1. Sono imprescrittibili i delitti contro l’umanità, e i delitti di strage e di omicidio doloso aggravato commessi per finalità di terrorismo o di mafia. 2. I termini di prescrizione sono: — 20 anni, per gli altri casi di omicidio doloso; — 15 anni per i delitti puniti con la reclusione superiore nel massimo a 10 anni; — 10 anni per i delitti puniti con la reclusione superiore nel massimo a 5 anni; — 5 anni per i delitti puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a 5 anni, o con pena non detentiva, e per le contravvenzioni. 3. Si tiene conto delle circostanze ad effetto speciale. Non si tiene conto delle altre circostanze. Nel caso di concorso di circostanze aggravanti e attenuanti ad effetto speciale si tiene conto delle sole aggravanti (*). 4. La prescrizione decorre, per il reato consumato, dal giorno della consumazione; per il reato tentato, dal giorno in cui è cessata l’attività delittuosa. Per il reato permanente o continuato, dal giorno in cui è cessata la permanenza o continuazione. Qualora sia richiesta una condizione oggettiva di punibilità, la prescrizione decorre dal verificarsi della condizione. 5. Il corso della prescrizione è sospeso per il tempo in cui il procedimento penale è sospeso o rinviato in forza di una particolare disposizione di legge, e negli altri casi stabiliti dalla legge. 6. Interrompono il corso della prescrizione gli atti del procedimento contenenti l’enunciazione del fatto contestato, e le sentenze di condanna. In tali casi il termine di prescrizione ricomincia a decorrere da capo. I termini stabiliti dal comma 2 non possono essere prolungati oltre la metà. 7. La sospensione e l’interruzione della prescrizione hanno effetto per tutti coloro che hanno commesso il reato. 8. Il decorso del termine di prescrizione comporta l’improcedibilità o improseguibilità dell’azione penale. L’imputato ha facoltà di rinunciare alla prescrizione. ART. 89. (Amnistia). — 1. L’amnistia è disciplinata dall’art. 79 della Costituzione e, salvo che il provvedimento che la ha emanata disponga diversamente, dal presente articolo. 2. L’entrata in vigore della legge di amnistia preclude l’esercizio dell’azione penale per i reati compresi nel provvedimento. 3. Qualora l’azione penale sia già stata esercitata, il giudice dichiara non luogo a procedere. L’imputato ha facoltà di rinunciare all’amnistia. 4. L’amnistia emanata successivamente alla sentenza irrevocabile fa cessare l’esecuzione della pena. 5. L’amnistia non si applica a chi abbia già riportato condanne a pena detentiva superiore a 5 anni.
(*) Delle circostanze ad effetto speciale si prevede tuttavia l’eliminazione: cfr. infra art. 6 delle Disposizioni di attuazione e coordinamento, originariamente non contemplato nel Progetto.
— 683 — ART. 90. (Indulto). — 1. L’indulto è disciplinato dall’art. 79 della Costituzione e, salvo che il provvedimento che lo ha emanato disponga diversamente, dal presente articolo. 2. L’indulto estingue esclusivamente le specie e le quantità di pena indicate nel provvedimento. 3. Ad ogni altro effetto, la pena estinta per indulto si considera come pena inflitta. 4. Nel caso di concorso di reati, l’indulto si applica una sola volta sulla pena cumulata ai sensi delle disposizioni sul concorso di reati. 5. L’indulto non si applica a chi abbia già riportato condanne a pena detentiva superiore a 5 anni. ART. 91. (Estinzione delle pene per decorso del tempo). — 1. Le pene non eseguite si estinguono quando sia decorso, dalla data in cui la condanna sia divenuta esecutiva, un periodo di tempo pari al doppio della pena inflitta, e in ogni caso non inferiore a 10 anni e non superiore a 24 anni. 2. Ai fini del comma precedente si ha riguardo alla pena cumulata secondo le disposizioni sul concorso di reati, ed alla durata della specie di pena più grave. 3. Non si prescrivono le pene per delitti contro l’umanità e per i delitti di strage e di omicidio doloso aggravato. ART. 92. (Non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale). — 1. Fermo quanto disposto dall’art. 83, comma 3, il giudice può disporre che della sentenza di condanna a pena non detentiva né interdittiva non sia fatta menzione nel certificato del casellario giudiziale spedito a richiesta dell’interessato, non per ragioni di diritto elettorale. 2. La non menzione ai sensi di questo articolo può essere concessa una sola volta. Si applica l’art. 80 comma 3. ART. 93. (Riabilitazione). — 1. La riabilitazione estingue ogni effetto penale della condanna. 2. La riabilitazione è concessa quando siano decorsi 5 anni dal giorno in cui la pena sia stata eseguita, o estinta per qualsiasi causa, e il condannato abbia dato prove effettive e costanti di un comportamento rispettoso della legge. Il termine è di 10 anni per i recidivi. 3. La riabilitazione è revocata di diritto, e non può più essere concessa, in caso di condanna a pena detentiva per delitto non colposo commesso entro cinque anni dal provvedimento di riabilitazione.
TITOLO IV — NON IMPUTABILITÀ E CAPACITÀ RIDOTTA CAPO I. — Non imputabilità ART. 94. (Non imputabilità per infermità) (*). — 1. Non è imputabile chi, per infermità o per altro grave disturbo della personalità, ovvero per ubriachezza o intossicazione da sostanze stupefacenti, nel momento in cui ha commesso il fatto era in condizioni di mente tali da escludere la possibilità di comprendere il significato del fatto o di agire in conformità a tale valutazione. 2. L’imputabilità non è esclusa quando l’agente si è messo in condizioni di incapacità al fine di commettere il reato o di predisporsi una scusa. 3. L’imputabilità non è altresì esclusa quando l’agente si è messo in stato di incapacità
(*) La formulazione originaria del comma 1 dell’attuale art. 94 era la seguente: « 1. Non è imputabile chi, per infermità o per altra grave anomalia, ovvero per ubriachezza o intossicazione da sostanze stupefacenti, nel momento in cui ha commesso il fatto era in condizioni di mente tali da escludere la possibilità di comprendere l’illiceità del fatto o di agire in conformità a tale valutazione ». Si segnala che il testo di questo articolo è stato pubblicato in modo errato su Internet essendo stato soppresso il secondo comma.
— 684 — con inosservanza di una regola cautelare rispetto al fatto realizzato, e questo si sia realizzato a causa dello stato di incapacità procurato. ART. 95. (Non imputabilità per minore età). — 1. Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva ancora compiuto gli anni 14, ovvero, avendo compiuto gli anni 14 ma non ancora i 18 anni, non era in grado di comprendere [l’illiceità] il significato del fatto o di agire in conformità a tale valutazione. ART. 96. (Misure di sicurezza e riabilitative). — 1. Misure di sicurezza e riabilitative possono essere applicate, in conformità alle disposizioni di questo capo, agli autori di delitto, che siano stati prosciolti perché non imputabili, quando la misura risponda a un bisogno di trattamento e di controllo, determinato dal persistere delle condizioni di incapacità che hanno dato causa al delitto. 2. Le misure non possono comportare restrizioni sproporzionate rispetto alla gravità del fatto. 3. Non si fa luogo alla applicazione di una misura, e la misura applicata viene revocata, quando la sua finalità possa essere efficacemente perseguita con strumenti di carattere non penalistico (*). ART. 97. (**) (Misure per i non imputabili per infermità o altro grave disturbo della personalità). — 1. Nei confronti dell’autore, non imputabile per infermità o altro grave disturbo della personalità, o per ubriachezza abituale o intossicazione abituale da sostanze stupefacenti, possono essere applicate, alle condizioni di cui all’articolo 96, le seguenti misure: a) ricovero in una struttura con finalità terapeutiche o di disintossicazione; b) obbligo di sottoporsi ad un trattamento ambulatoriale presso strutture sanitarie; c) obbligo di sottoporsi a visita periodica presso strutture sanitarie o di presentazione periodica ai servizi sociali.
(*) L’art. 96 sostituisce l’originario art. 98 del Progetto, così formulato: « ART. 98. (Misure di sicurezza e riabilitative). — 1. Misure di sicurezza e riabilitative possono essere applicate agli autori di delitto, che siano stati prosciolti perché non imputabili, quando la misura risponda a un bisogno di trattamento o di controllo, determinato dal persistere delle condizioni di incapacità che hanno dato causa al delitto. 2. Le misure di sicurezza e riabilitative, applicabili agli autori di reato non imputabili per infermità o altra grave anomalia, ovvero per ubriachezza o intossicazione da sostanze stupefacenti, sono: a) il ricovero in una struttura chiusa o aperta con finalità terapeutiche o di disintossicazione; b) l’obbligo di sottoporsi ad un trattamento ambulatoriale presso strutture sanitarie; c) l’obbligo di sottoporsi a visita periodica presso strutture sanitarie o di presentazione periodica ai servizi sociali. 3. Le misure di sicurezza e riabilitative, applicabili agli autori di reato non imputabili per minore età, sono: a) il collocamento in una comunità chiusa o aperta; b) l’affidamento al servizio sociale. 4. Non si fa luogo alla applicazione di una misura, e la misura applicata viene revocata, quando la sua finalità possa essere efficacemente perseguita con strumenti di carattere non penalistico. (**) L’art. 97 sostituisce l’originario art. 99 del Progetto, così formulato: « ART. 99. (Presupposti delle misure per i non imputabili per infermità o altra grave anomalia). — 1. Nei confronti dell’autore, non imputabile per infermità o altra grave anomalia, o per ubriachezza abituale o intossicazione abituale da sostanze stupefacenti, a) è disposto il ricovero in una struttura chiusa, se è stato commesso un delitto doloso o colposo, consumato o tentato, contro la vita, integrità fisica, libertà personale, o contro l’incolumità pubblica, o comunque commesso con violenza o minaccia contro la persona, quando persista lo stato di incapacità e vi sia concreto pericolo che il soggetto, in assenza d’una tale misura, commetta nuovamente uno dei delitti sopra indicati; b) sono disposte misure diverse dal ricovero in una struttura chiusa, se è stato commesso un diverso delitto per il quale sia prevista la pena della reclusione, sempre che persista lo stato di incapacità e vi sia concreto pericolo che il soggetto, in assenza della misura, commetta nuovamente un delitto doloso o colposo contro la persona o contro l’incolumità pubblica, o un delitto contro il patrimonio. 3. In caso di grave o reiterato inadempimento delle prescrizioni inerenti alla misura, può essere disposto il ricovero in una struttura chiusa per il tempo strettamente necessario, e comunque non oltre sei mesi. ».
— 685 — 2. Le misure possono essere disposte soltanto se è stato commesso un delitto doloso o colposo contro la persona o contro la incolumità pubblica, o un delitto contro il patrimonio, per il quale sia prevista la pena della reclusione. 3. Le misure vengono eseguite preferibilmente presso strutture facenti parte del normale circuito assistenziale. 4. Può essere disposto il ricovero in una struttura chiusa soltanto se vi sia concreto pericolo che il soggetto, in assenza di tale misura, commetta un delitto doloso o colposo contro la vita, la integrità fisica, la libertà personale, la libertà sessuale o l’incolumità pubblica, o comunque con violenza o minaccia contro la persona. ART. 98. (***) (Misure per i non imputabili per minore età). — 1. Misura di sicurezza e riabilitativa applicabile, alle condizioni di cui all’articolo 96, agli autori di reato non imputabili per minore età è l’affidamento al servizio sociale, con o senza collocamento in comunità. 2. La misura deve tendere al perseguimento delle finalità di cui all’articolo 104. 3. La misura può essere disposta soltanto se il minore ha commesso un delitto doloso per il quale sia prevista la pena della reclusione. 4. Si applicano le disposizioni dell’articolo 106. 5. Il collocamento in una comunità chiusa può essere disposto, per il tempo strettamente necessario, soltanto nei confronti del minore che abbia commesso un delitto doloso, consumato o tentato, contro la persona o contro la incolumità pubblica, o comunque con violenza o minaccia contro la persona, ovvero un delitto concernente la disciplina delle armi o delle sostanze stupefacenti, ovvero un delitto commesso nell’ambito di una associazione criminale. ART. 99. (*)
(Esecuzione delle misure). — 1. Con la sentenza che accerta il reato e la
(***) L’art. 98 sostituisce l’originario art. 100 del Progetto, così formulato: « ART. 100. (Presupposti delle misure per i non imputabili per minore età). — 1. Il collocamento in una comunità chiusa è disposto nei confronti dell’autore, non imputabile per minore età, di un delitto doloso, consumato o tentato, contro la persona o contro l’incolumità pubblica, o comunque commesso con violenza o minaccia contro la persona, ovvero di un delitto concernente la disciplina delle armi o delle sostanze stupefacenti, ovvero di un delitto commesso nell’ambito di una associazione criminale, quando vi sia concreto pericolo che il soggetto, in assenza d’una tale misura, commetta nuovamente uno dei delitti sopra indicati. 2. Una misura diversa dal collocamento in una comunità chiusa può essere applicata all’autore, non imputabile per minore età, di delitti per i quali sia prevista la pena della reclusione, sempre che vi sia concreto pericolo che il minore, in assenza della misura, commetta nuovamente un delitto doloso per il quale sia prevista la pena della reclusione ». (*) L’art. 99 sostituisce l’originario art. 101 del Progetto, così formulato: « ART. 101. (Esecuzione delle misure). — 1. Con la sentenza che accerta il reato e la non imputabilità dell’autore, il giudice valuta la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura, con riferimento al momento del giudizio. 2. Con la sentenza il giudice determina la specie e la durata minima della misura, compresa fra 6 mesi e un anno, o fino a due anni nel caso dell’art. 99, comma 1. 3. La determinazione delle ulteriori condizioni di esecuzione delle misure compete al magistrato di sorveglianza, sentiti i servizi presso i quali o sotto il cui controllo la misura debba essere eseguita. 4. Le misure, anche di ricovero, vengono eseguite preferibilmente presso strutture terapeutiche, o con finalità educativa o riabilitativa, facenti parte del normale circuito assistenziale. 5. Alla scadenza del termine fissato in sentenza, il giudice verifica se persistano i presupposti per il mantenimento della misura, e ne dispone la cessazione se ne risulta venuta meno la necessità. Può modificare la specie della misura, in conformità ai criteri di cui all’articolo precedente. Nel caso di prosecuzione della misura, indica un nuovo termine per il riesame, entro i limiti di cui al comma 2. 6. La verifica dei presupposti della misura deve essere effettuata anche prima della scadenza del termine, quando sussistano elementi che ne facciano apparire venuta meno la necessità. 7. Le misure nei confronti dei non imputabili per infermità o altra anomalia non possono avere durata superiore ai 5 anni. Questo limite può essere eccezionalmente superato, per il tempo strettamente necessario, in presenza di un pericolo concreto e non altrimenti fronteggiabile di atti gravemente aggressivi contro la vita o l’incolumità delle persone. 8. Le misure nei confronti dei non imputabili per età minore non possono avere durata superiore ai 3 anni ».
— 686 — non punibilità dell’autore, il giudice valuta la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura e ne determina la specie e la durata minima. 2. La durata minima della misura è compresa, nei casi di cui all’art. 97 comma 1 lettera a), fra uno e cinque anni, negli altri casi fra sei mesi e un anno. 3. La determinazione delle ulteriori condizioni di esecuzione delle misure compete al magistrato di sorveglianza, sentiti i servizi presso i quali o sotto il cui controllo la misura debba essere eseguita. 4. Le misure, anche di ricovero, vengono eseguite preferibilmente presso strutture terapeutiche, o con finalità educativa o riabilitativa, facenti parte del normale circuito assistenziale. 5. Alla scadenza del termine fissato in sentenza, il giudice verifica se persistano i presupposti per il mantenimento della misura, e ne dispone la cessazione se ne risulta venuta meno la necessità. Può modificare la specie o la modalità di esecuzione della misura, in conformità ai criteri di cui agli articoli 97 e 98. Nel caso di prosecuzione della misura, indica un nuovo termine per il riesame, entro i limiti di cui al comma 2. 6. La verifica dei presupposti della misura deve essere effettuata anche prima della scadenza del termine, quando sussistano elementi che ne facciano apparire venuta meno la necessità. 7. Le misure nei confronti dei non imputabili per infermità o altro grave disturbo della personalità non possono avere durata superiore ai 10 anni. Questo limite può essere eccezionalmente superato, per il tempo strettamente necessario, in presenza di un pericolo concreto e non altrimenti fronteggiabile di atti gravemente aggressivi contro la vita o l’incolumità delle persone, nei casi di cui all’art. 97 comma 4. 8. Le misure nei confronti dei non imputabili per età minore non possono avere durata superiore ai 3 anni. CAPO II. — Capacità ridotta ART. 100. (Finalità del trattamento e diminuzione di pena). — 1. Si applicano le disposizioni di questo capo nei confronti di chi, per infermità o per [altra grave anomalia] altro grave disturbo della personalità ovvero per ubriachezza o intossicazione da sostanze stupefacenti, nel momento in cui ha commesso il fatto era in condizioni di mente tali da ridurre grandemente la capacità di comprendere [l’illiceità] il significato del fatto o di agire in conformità a tale valutazione. 2. Le disposizioni di questo comma non si applicano quando l’agente si è messo in condizioni di ridotta capacità al fine di commettere il reato o di predisporsi una scusa, o con inosservanza di una regola cautelare rispetto al fatto realizzato. 3. Qualsiasi provvedimento deve essere [essenzialmente] finalizzato al superamento delle condizioni di ridotta capacità esistenti al tempo del commesso delitto. 4. Le pene sono diminuite da un terzo alla metà. 5. L’esecuzione della pena deve essere volta al perseguimento della finalità di cui al comma 3 (*) ART. 101. (Programma riabilitativo). — 1. Qualora un trattamento terapeutico o riabilitativo sia possibile ed opportuno, la sospensione condizionale è subordinata alla accettazione, da parte del condannato, di un programma di trattamento in libertà, ritenuto idoneo al conseguimento della finalità di cui all’art. 102 comma 2, in aggiunta o in sostituzione degli obblighi di cui agli artt. 81 e 83. ART. 102.
(Condanna con rinuncia alla pena). — 1. Il giudice pronuncia sentenza di
(*) Originariamente l’attuale art. 100 conteneva solo un comma 4, così formulato: « 4. La pena è diminuita. L’esecuzione della pena deve essere essenzialmente volta al perseguimento della finalità di cui al comma precedente ».
— 687 — condanna con rinuncia alla pena, qualora, per la modesta gravità del fatto e per essere venute meno le condizioni di ridotta capacità che lo hanno determinato, non sussistono esigenze di prevenzione generale o speciale tali da richiedere una qualsiasi misura nei confronti dell’autore del reato. ART. 103. (Reati commessi da persona in condizioni particolarmente deficitarie). — 1. Le disposizioni di cui agli artt. 101 e 102 si applicano, anche indipendentemente dai presupposti di cui all’art. 85, comma 1, nel caso di condanna per reati commessi da persona in stato di tossicodipendenza o di alcoolismo abituale, o da persona in grave difetto di socializzazione o di istruzione. I programmi di trattamento sono rivolti al superamento della specifica condizione deficitaria.
TITOLO V — TRATTAMENTO DEI MINORI IMPUTABILI ART. 104. (Finalità del trattamento). — 1. Per i reati commessi da persona che, al momento del fatto, non aveva compiuto i 18 anni, si applicano le disposizioni di questo capo. 2. Qualsiasi provvedimento deve essere [essenzialmente] finalizzato a rendere l’autore del reato capace di inserirsi correttamente nella società, superando eventuali carenze nella formazione della personalità, ovvero carenze di educazione, istruzione o socializzazione. 3. L’esecuzione della pena deve essere volta al perseguimento della finalità di cui al comma precedente. ART. 105. (*) (Pene per i reati commessi da minori di anni 18). — 1. Le pene applicabili per i reati commessi da minori di anni 18 sono: a) reclusione; b) affidamento al servizio sociale, anche con eventuale collocamento in una comunità; c) divieto di allontanamento dal territorio dello Stato, o di una Regione, o di una Provincia, o di un Comune; d) divieto di accesso a determinati luoghi. 2. Nei casi nei quali è prevista la reclusione speciale si applica la reclusione non inferiore a 15 anni. 3. Nei casi nei quali è prevista la pena della reclusione la pena è diminuita da un terzo alla metà. 4. L’affidamento al servizio sociale è applicabile, in alternativa alla reclusione, in tutti i casi in cui la legge prevede una pena detentiva non superiore nel minimo a quattro anni. 5. Per i reati per i quali la legge prevede la detenzione domiciliare, o una pena pecunia-
(*) L’art. 105 sostituisce l’originario art.107 del Progetto, così formulato: « ART. 107. (Pene per i reati commessi da minori di anni 18). — 1. Le pene applicabili sono: a) reclusione; b) collocamento in una comunità chiusa o aperta; c) affidamento al servizio sociale; d) divieto di allontanamento dal territorio dello Stato, o di una Regione, o di una Provincia, o di un Comune; e) divieto di accesso a determinati luoghi. 2. Le pene di cui al comma precedente, punti b) e c) sono applicabili, in alternativa alla pena detentiva, in tutti i casi in cui la legge prevede una pena detentiva non superiore nel minimo quattro anni. 3. La pena della reclusione è diminuita. In luogo della reclusione speciale si applica la reclusione non inferiore a 15 anni. 4. Per i reati per i quali la legge prevede la detenzione domiciliare, o una pena pecuniaria, o una pena interdittiva diversa da quelle di cui al comma 1, tale pena si intende sostituita, per gli autori di reato minori di 18 anni, con una o più delle pene di cui al comma 1, punti b), c), d), e), di uguale durata, escluso il collocamento in una comunità chiusa. 5. Il collocamento in una comunità e l’affidamento al servizio sociale hanno una durata da 6 mesi a 3 anni ».
— 688 — ria, o una pena interdittiva diversa da quelle di cui al comma 1, tale pena si intende sostituita, per gli autori di reato minori di anni 18, con una o più delle pene di cui al comma 1, punti b), c), d), di uguale durata. 6. L’affidamento al servizio sociale ha una durata da sei mesi a tre anni. ART. 106. (Affidamento al servizio sociale). — 1. L’affidamento al servizio sociale comporta l’affidamento del minore ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia, o ai servizi socio-sanitari degli enti locali [o ad altri enti idonei indicati dal giudice]. 2. L’affidamento si esegue sulla base di un programma elaborato dall’ente affidatario, e approvato dal giudice, che deve in ogni caso prevedere: a) le modalità di coinvolgimento del minore, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita; b) gli impegni specifici che il minore assume; c) le modalità di partecipazione al progetto degli enti e degli operatori cui il minore sia affidato. 3. Possono essere previste, se ciò appare possibile per il minore, ed utile per il conseguimento della finalità di cui all’art. 104, comma 2, eventuali modalità di riparazione delle conseguenze del reato ed iniziative tendenti a promuovere la conciliazione con la persona offesa. 4. Il programma può prevedere l’obbligo di permanenza in casa, o il collocamento in una comunità, per un periodo determinato dal giudice, che può essere ridotto o prorogato in relazione agli sviluppi del trattamento. 5. Il collocamento in una comunità viene altresì disposto qualora il minore si renda gravemente inadempiente agli obblighi di cui al programma di trattamento. 6. Può essere disposto il collocamento in una comunità chiusa soltanto nei casi di cui all’art. 98 comma 5, ovvero se il minore già collocato in una comunità si è reso gravemente inadempiente ai suoi obblighi. 7. L’esito positivo dell’affidamento, verificato dal giudice, comporta l’estinzione del reato (*). ART. 107. ([Irrilevanza del fatto] Non punibilità per particolare tenuità del fatto). — 1. [Viene disposto il non luogo a procedere] Il fatto non è punibile per irrilevanza del fatto qualora ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: — il fatto è di particolare tenuità; — il comportamento è stato occasionale; — il non luogo a procedere appare coerente con la finalità di cui all’art. 104, comma 2. ART. 108. (Perdono giudiziale). — 1. Il giudice pronuncia sentenza di affermazione di responsabilità, con perdono giudiziale, qualora, avuto riguardo all’entità del fatto e alle condizioni personali e di vita del minore, ciò appaia adeguato alla finalità di cui all’art. 104, comma 2. 2. Il perdono giudiziale non può essere concesso per delitti puniti con la reclusione superiore nel massimo a 8 anni, o nel minimo a 4 anni. 3. Il perdono giudiziale non può essere concesso più di una volta, salvo che per reati unificabili in un unico cumulo giuridico, per i quali si sia proceduto separatamente. ART. 109. (Messa [in] alla prova). — 1. In presenza di elementi sufficienti per l’affermazione di responsabilità per un delitto punibile con la reclusione, con esclusione dei delitti per i quali è prevista la reclusione speciale, il giudice dispone la sospensione del processo con messa alla prova, qualora, avendo riguardo alla personalità e alla situazione familiare e
(*) Originariamente l’attuale art. 106 conteneva solo un comma 4, così formulato: « 4. Qualora il minore si renda gravemente inadempiente agli obblighi di cui al comma 2, la pena residua viene convertita nel collocamento in una comunità aperta o chiusa ».
— 689 — sociale del minorenne, ritenga che tale strumento sia il più idoneo al conseguimento della finalità di cui all’articolo 104 comma 2 (**). 2. La messa alla prova è disposta sulla base di un progetto d’intervento elaborato di regola dai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia, anche in collaborazione con i servizi socio-sanitari degli enti locali, o con altri enti cui il minore sia già stato affidato. 3. Il programma d’intervento approvato dal giudice deve in ogni caso prevedere: a) le modalità di coinvolgimento del minore, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita; b) gli impegni specifici che il minore assume; c) le modalità di partecipazione al progetto degli enti e degli operatori cui il minore sia affidato. 4. Possono essere previste, se ciò appare possibile per il minore, ed utile per il conseguimento della finalità di cui all’art. 104, comma 2, eventuali modalità di riparazione delle conseguenze del reato ed iniziative tendenti a promuovere la conciliazione con la persona offesa. 5. Il programma di trattamento può prevedere, se necessario, l’obbligo di permanenza in casa, o il collocamento in una comunità, per un periodo determinato dal giudice, che può essere ridotto o prorogato in relazione agli sviluppi del trattamento. Nei casi di cui all’art. 98 comma 5 può essere disposto il collocamento in una comunità chiusa. 6. Il collocamento in comunità e l’obbligo di permanenza in casa possono essere disposti solo nei casi in cui si proceda per delitti punibili con la reclusione per una durata non inferiore alla durata della prova (*). 7. La durata della prova è determinata dal giudice, fra un anno e tre anni nei casi in cui si proceda per delitti puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a 10 anni; negli altri casi è fra i sei mesi e i tre anni. 8. Le modalità e le procedure di verifica della prova sono disciplinate dalla legge processuale. 9. L’esito positivo della prova, verificato dal giudice, comporta l’estinzione del reato. 10. In caso di condanna conseguente all’esito negativo della prova, il periodo trascorso in una comunità o in permanenza obbligata in casa si detrae dalla pena da eseguire. Il giudice può disporre una ulteriore detrazione, non superiore a tre mesi, in ragione dell’adempimento di altri obblighi attinenti alla prova.
TITOLO VI — CONFISCA E SANZIONI RIPARATORIE CAPO I. — Confisca ART. 110. (Confisca dello strumento del reato). — 1. Nel caso di condanna è sempre disposta la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, se appartenenti a uno degli autori del reato. 2. Salvo che la legge disponga diversamente, la confisca di cui al comma 1 può non es-
(**) Il primo comma dell’attuale art. 109 era così formulato: « 1. In presenza di elementi sufficienti per l’affermazione di responsabilità, il giudice dispone la sospensione del processo con messa alla prova, qualora, avendo riguardo alla personalità e alla situazione familiare e sociale del minorenne, ritenga che tale strumento sia il più idoneo al conseguimento della finalità di cui all’art. 106 comma 2 ». (*) Originariamente i commi 5 e 6 dell’art. 109 erano così formulati: « 5. La durata della prova è determinata dal giudice, fra un anno e quattro anni nei casi in cui si proceda per delitti puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a 10 anni; negli altri casi è fra i sei mesi e i cinque anni. 6. Se necessario, possono essere adottate, come modalità della prova, modalità corrispondenti alle misure cautelari previste dalla legge processuale, o alle misure di sicurezza e riabilitative previste per i minori non imputabili. Il collocamento in una comunità chiusa e l’obbligo di permanenza in casa possono essere disposti solo nei casi in cui si proceda per delitti punibili con la reclusione per una durata non inferiore alla durata dalla prova »
— 690 — sere disposta nel caso di contravvenzione, o se si tratta di cose di valore insignificante. Non viene disposta qualora, per il valore della cosa, e tenuto conto anche della pena inflitta, risulterebbe sproporzionata alla gravità del fatto. 3. Qualora, per espressa disposizione di legge, la confisca di cui al comma 1 sia ammessa anche su cose appartenenti a persona diversa dall’autore del delitto, essa può essere disposta soltanto se la destinazione o utilizzazione della cosa per la commissione del reato è dovuta a colpa del proprietario. ART. 111. (Cose destinate ad attività produttiva). — 1. Se il reato è stato realizzato mediante cose, impianti o macchinari sprovvisti di requisiti di sicurezza richiesti dalla legge, nell’esercizio di attività soggette ad autorizzazioni o controlli dell’autorità amministrativa, l’autorità amministrativa impartisce le prescrizioni opportune per la messa in sicurezza. 2. La confisca è disposta se le cose vengono nuovamente utilizzate senza che sia stata data attuazione alle prescrizioni dell’autorità o comunque alla messa in sicurezza. ART. 112. (Confisca del profitto del reato). — 1. È disposta, a carico del condannato o del prosciolto perché non imputabile, la confisca a) delle cose che costituiscono il prodotto del reato; b) del prezzo del reato; c) del profitto del reato, nella parte in cui non debba essere restituito al danneggiato. 2. La confisca può essere eseguita su una somma di denaro o su altri beni di valore equivalente a quello delle cose che costituiscono il prezzo o il prodotto o il profitto del reato. 3. [Qualora il valore del prezzo, prodotto o profitto del reato non sia più, in tutto o in parte, a disposizione del condannato,] La confisca [viene disposta limitatamente all’importo disponibile, e a quello che possa prevedersi disponibile da parte del condannato in un prossimo futuro;] non viene disposta, o viene disposta in misura ridotta, qualora ciò sia necessario per evitare di incidere in modo sproporzionatamente gravoso sulle condizioni elementari di vita della persona colpita. 4. Può non essere disposta la confisca del profitto del reato che abbia valore insignificante, se la sua esecuzione appare difficoltosa. 5. La confisca del profitto, prezzo o prodotto del reato è disposta a carico della persona, estranea al reato, che ne abbia beneficiato, nei limiti in cui il valore corrispondente sia disponibile, se il beneficiario poteva rendersi conto della provenienza illecita del profitto conseguito. 6. La confisca ai sensi del presente articolo è o può essere disposta anche su beni passati in proprietà di persona diversa dall’autore del reato, per diritto successorio. In tal caso la confisca è disposta limitatamente ai beni dei quali l’erede abbia l’attuale disponibilità. ART. 113. (Confisca di cose intrinsecamente illecite). — 1. È sempre disposta la confisca delle cose costituenti strumento, ovvero prodotto, prezzo o profitto del reato, la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisce reato. 2. La disposizione di cui al comma 1 non si applica quando la cosa appartenga a persona estranea al reato e la fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione possano essere consentiti mediante autorizzazione amministrativa. ART. 114. (Confisca di beni di provenienza non giustificata). — 1. La legge può prevedere, con riferimento a figure di delitto tassativamente indicate, che in caso di condanna sia disposta la confisca di denaro, beni o altre utilità di cui il condannato abbia la disponibilità, e non giustifichi la provenienza. ART. 115. (Scioglimento di organizzazioni illecite e confisca). — 1. È disposto lo scioglimento delle società o associazioni le quali siano state utilizzate esclusivamente o prevalentemente per la realizzazione di attività delittuose. Il patrimonio che residua dalla liquidazione viene confiscato. ART. 116.
(Intestazione fittizia). — 1. Ai fini della confisca, i beni che l’autore del
— 691 — reato abbia intestato fittiziamente a terzi, o comunque possieda per interposta persona, sono considerati come a lui appartenenti. ART. 117. (Diritti di terzi). — 1. La confisca non pregiudica i diritti di terzi in buona fede sulle cose che ne sono oggetto. ART. 118. (Confisca disciplinata da norme particolari). — 1. Nei casi di confisca disciplinati da norme particolari si applicano le norme di questo capo, in quanto compatibili. Si applicano in ogni caso le disposizioni poste a garanzia dei terzi estranei al reato. CAPO II. — Sanzioni riparatorie ART. 119. (Restituzioni e risarcimento del danno). — 1. Le restituzioni e il risarcimento dei danni cagionati dal reato sono regolati dalla legge civile. 2. L’obbligo di risarcimento si estende al danno non patrimoniale, che viene determinato dal giudice in via equitativa, con motivazione espressa, tenendo conto della sofferenza cagionata dal reato e della natura dolosa o colposa di questo. ART. 120. (Riparazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato). — 1. La sentenza, anche non definitiva, viene trasmessa: — al Pubblico Ministero ogni volta che questi ne faccia richiesta, o quando il giudice lo ritenga utile per fini di giustizia; — al Pubblico Ministero presso il Tribunale per i minorenni quando i fatti accertati potrebbero essere valutati in vista di eventuali provvedimenti nell’interesse di minori; — all’autorità amministrativa competente, quando i fatti accertati riguardano attività sottoposte a controllo di una autorità amministrativa. 2. Fuori dei casi di competenza di altre autorità, con la sentenza di condanna il giudice può impartire al condannato disposizioni volte ad eliminare, per quanto oggettivamente possibile e soggettivamente esigibile, eventuali conseguenze dannose o pericolose per l’interesse pubblico offeso dal reato, non riparabili mediante restituzione o risarcimento. 3. A richiesta del Pubblico Ministero o della parte interessata, il giudice ordina la pubblicazione della sentenza di condanna, a spese del condannato, qualora ciò costituisca una idonea modalità di riparazione del danno, o di reintegrazione dell’interesse offeso dal reato.
TITOLO VII — RESPONSABILITÀ DELLE PERSONE GIURIDICHE ART. 121. (Ambito di responsabilità). — 1. La persona giuridica può essere chiamata a rispondere ai sensi di questo titolo: a) per delitti dolosi commessi per conto o comunque nell’interesse specifico della persona giuridica, da persona che aveva il potere di agire per la persona giuridica stessa; b) per i reati realizzati nello svolgimento dell’attività della persona giuridica, con inosservanza di disposizioni pertinenti a tale attività, da persone che ricoprono una posizione di garanzia ai sensi dell’art. 22, comma 2. Sono esclusi i reati commessi in danno della persona giuridica. 2. Ai fini di questo titolo, per persone giuridiche si intendono tutti gli enti, società, associazioni anche non riconosciute, che svolgono attività economica. Sono esclusi lo Stato, le Regioni, gli altri enti pubblici territoriali e le Autorità indipendenti. 3. Se il fatto è stato commesso nell’ambito di una attività sottoposta alla direzione o controllo da parte di altra persona giuridica, la responsabilità ai sensi di questo titolo si estende alla persona giuridica che esercita la direzione o il controllo, indipendentemente dalle condizioni di cui al comma 2. 4. La responsabilità prevista da questo titolo resta ferma in caso di trasformazione della persona giuridica. 5. In caso di cessione dell’unità organizzativa, nell’attività della quale è stato commesso
— 692 — il reato, la responsabilità resta in capo alla persona giuridica cedente. Il cessionario è civilmente obbligato in solido al pagamento della sanzione pecuniaria, se era o poteva essere a conoscenza del commesso reato. 6. La responsabilità ai sensi di questo titolo non si applica nei casi in cui debba essere disposto lo scioglimento dell’organizzazione ai sensi dell’art. 115. ART. 122. (Applicabilità della legge penale). — 1. Alla responsabilità della persona giuridica si applicano le disposizioni dell’ordinamento penale, in quanto compatibili. ART. 123. (Autonomia della responsabilità della persona giuridica). — 1. La responsabilità della persona giuridica non esclude la responsabilità delle persone fisiche che abbiano commesso il reato, e non è esclusa se queste non sono punibili per qualsiasi causa. 2. Nei casi di cui all’art. 121, comma 1, lett. b), la responsabilità della persona giuridica è indipendente dalla colpevolezza di alcuna persona fisica. ART. 124. (Esclusione della responsabilità della persona giuridica). — 1. La responsabilità della persona giuridica è esclusa se, prima della commissione del reato, era stato adottato ed efficacemente messo in pratica un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi. 2. Agli effetti dell’esclusione di responsabilità ai sensi del comma 1, il modello organizzativo deve avere, nella misura in cui risulti necessario in relazione alla natura e alle dimensioni dell’organizzazione e al tipo di attività svolta, i requisiti di cui all’art. 22. 3. Non vi è esclusione di responsabilità ai sensi del comma 1, se l’autore del reato aveva poteri di direzione della persona giuridica, o di una unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e tecnico-funzionale, o ne esercitava di fatto la direzione. ART. 125. (Sanzioni per la persona giuridica). — 1. Sanzioni per la persona giuridica sono: a) sanzione pecuniaria; b) interdizione da una determinata attività; c) incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione; d) pubblicazione della sentenza di condanna. 2. Le sanzioni per la persona giuridica sono disciplinate dalle disposizioni sulle corrispondenti specie di pena, in quanto applicabili. Ad esse non si applica la sospensione condizionale. I termini di prescrizione sono identici a quelli stabiliti dall’art. 90 per la persona fisica autore del reato. 3. La sanzione pecuniaria si applica in qualsiasi caso. La pubblicazione della sentenza di condanna può pure essere disposta in ogni caso, in aggiunta alla sanzione pecuniaria, o in via esclusiva qualora per il reato commesso sia prevista l’applicabilità di tale tipo di pena in via esclusiva o alternativa. Le altre sanzioni si applicano esclusivamente nei casi previsti dall’art. 127. 4. Nella commisurazione della sanzione, il giudice tiene conto della gravità del fatto, del grado di coinvolgimento della persona giuridica e delle misure adottate per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire futuri reati. ART. 126. (Sanzione pecuniaria). — 1. L’importo della quota giornaliera di sanzione pecuniaria è da un minimo di lire 50 mila a un massimo di lire 10 milioni. 2. Quando per il reato, cui si ricollega la responsabilità della persona giuridica, sia prevista una pena detentiva, se la legge non dispone diversamente, alla persona giuridica si applica la sanzione pecuniaria da 3 mesi a 2 anni, ovvero quella corrispondente ai limiti edittali della pena detentiva prevista, se meno elevati. ART. 127. (Sanzioni interdittive). — 1. L’interdizione da una determinata attività ha durata da tre mesi a un anno. Essa concerne l’attività nella quale è stato commesso il reato; può consistere anche nella chiusura totale o parziale di uno stabilimento. Viene disposta, in aggiunta alla sanzione pecuniaria, esclusivamente in caso di reato doloso o colposo di particolare gravità,
— 693 — — se non sono state eliminate le condizioni di pericolo che hanno dato causa al delitto, ovvero — se non sono state eliminate le conseguenza dannose o pericolose del reato, eliminabili da parte della persona giuridica, ovvero — se non sono stati adottati modelli di organizzazione, gestione e controllo idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. 2. L’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione è applicabile alla persona giuridica nei casi di delitto commesso da persona munita di poteri di direzione della persona giuridica o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia funzionale, per il quale sia applicabile all’autore del delitto una pena interdittiva. Se la legge non dispone diversamente, la durata dell’incapacità è da 6 mesi a 5 anni. Detta sanzione non si applica se sono state eliminate le conseguenza dannose o pericolose del reato, eliminabili da parte della persona giuridica, e sono stati adottati modelli di organizzazione, gestione e controllo idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. ART. 128. (Confisca). — 1. Si applicano alla persona giuridica le disposizioni relative alla confisca. Nei casi in cui sussista la responsabilità della persona giuridica ai sensi del presente titolo, le cose appartenenti alla persona giuridica sono sottoposte al regime delle cose appartenenti all’autore del reato. ART. 129. (Oblazione). — 1. Fermo quanto disposto dall’art. 124, l’adozione e attuazione di un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi è condizione necessaria per l’ammissione all’oblazione, in aggiunta alle condizioni di cui all’art. 87. ART. 130. (Circostanza attenuante). — 1. La sanzione pecuniaria è diminuita: a) se l’autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi, e la persona giuridica non ne ha tratto profitto o ha tratto un profitto insignificante; b) se l’autore del reato ha agito in consapevole violazione di specifiche disposizioni ricevute; c) se, dopo il fatto, è stato adottato e messo in pratica un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi. ART. 131. (Competenza del giudice penale). — 1. L’accertamento della responsabilità della persona giuridica e l’applicazione delle relative sanzioni sono di competenza del giudice penale.
DISPOSIZIONI DI ATTUAZIONE E COORDINAMENTO CAPO I. — DISPOSIZIONI RELATIVE ALLA LEGGE PENALE ART. 1. (Computo delle pene). — 1. Le pene temporanee si applicano a giorni, mesi, anni. Non si tiene conto delle frazioni di giorno. ART. 2. (Computo dei termini). — 1. Quando la legge penale fa dipendere un effetto giuridico dal decorso del tempo, per il computo di questo si osserva il calendario comune. 2. Ogni qualvolta la legge penale stabilisce un termine per il verificarsi di un effetto giuridico, il giorno della decorrenza non è computato nel termine, salvo che per la determinazione dell’età. ART. 3. (Apolidi). — 1. Le norme penali che prevedono che soggetto attivo di un reato sia il cittadino, si applicano anche all’apolide che abbia la sua residenza o dimora abituale nel territorio dello Stato. 2. Salvo quanto disposto dalle leggi speciali, agli effetti della espulsione dal territorio dello Stato l’apolide che abbia la sua residenza o dimora abituale nel territorio dello Stato è parificato al cittadino.
— 694 — 3. Fino all’emanazione di una legge organica in materia di estradizione, agli effetti della estradizione l’apolide che abbia la sua residenza o dimora abituale nel territorio dello Stato è parificato al cittadino. ART. 4. (Riconoscimento di sentenze penali straniere. Estradizione). — 1. Salvo quanto stabilito in trattati internazionali in vigore per lo Stato, alla sentenza penale straniera pronunciata per un delitto è dato riconoscimento per tutti gli effetti previsti dal codice penale diversi dalla applicazione della pena. 2. Fino all’emanazione di una legge organica in materia, l’estradizione per l’estero è disciplinata dalle Convenzioni internazionali in vigore per lo Stato e dagli artt. 696 e seguenti del codice di procedura penale. In assenza di Convenzioni l’estradizione per l’estero non è ammessa se il fatto che forma oggetto della domanda non è preveduto come reato dalla legge italiana e dalla legge dello Stato richiedente. ART. 5. (Revisione delle misure delle quote giornaliere di pena pecuniaria). — 1. Il Governo ridetermina, ad intervalli di tempo non inferiori a 5 anni, i limiti minimo e massimo delle quote giornaliere, in relazione ad eventuali mutamenti di rilevanza non insignificante del potere d’acquisto del denaro. CAPO II. — Disposizioni relative alle sanzioni ART. 6. (Eliminazione delle circostanze ad effetto speciale). — 1. Quando l’aumento o la diminuzione della pena è determinato in maniera autonoma il reato si considera titolo autonomo di reato. ART. 7. (Cumulo giuridico in fase di esecuzione). — 1. Quando più reati unificabili in unico cumulo giuridico ai sensi degli artt. 74 e 75 siano stati giudicati separatamente, si applica l’art. 671 c.p.p. ART. 8. (Disposizioni relative alla sospensione condizionale). — 1. Se la sospensione condizionale è stata concessa con più sentenze, al di là dei limiti di cui all’art. 79, il giudice dell’esecuzione revoca le sospensioni e ordina l’esecuzione della pena. 2. Ai fini della concessione o della revoca della sospensione condizionale della pena, la sentenza di applicazione della pena a richiesta è equiparata a una pronuncia di condanna. ART. 9. (Abrogazione delle sanzioni sostitutive di cui alla l. n. 689/1981). — 1. Sono abrogati gli artt. da 53 a 85 della l. 24 novembre 1981, n. 689, e tutti i riferimenti a tali articoli che siano contenuti in altre disposizioni di legge. ART. 10. (Benefici penitenziari). — 1. Nei casi di cui all’art. 85 comma 1 non si applicano le disposizioni che prevedono particolari cause di esclusione dai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario. 2. La semilibertà può essere concessa dopo un periodo minimo di pena espiata pari alla metà di quello stabilito in via generale dalla legge. 3. I benefici previsti dall’ordinamento penitenziario sono subordinati, qualora ciò sia possibile ed opportuno, alla accettazione, da parte del condannato, di sottoporsi a un programma terapeutico o riabilitativo. Se il condannato si rende gravemente inadempiente agli impegni di cui al programma accettato, la misura viene revocata. ART. 11. (Liberazione condizionale). — 1. Nella l. 26 luglio 1975, n. 354 è inserito il seguente art. 54-bis: « 1. il condannato a pena detentiva già ammesso al regime di semilibertà, che durante il tempo di esecuzione della pena abbia tenuto un comportamento tale da fare ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia trascorso in regime di semilibertà almeno sei mesi, e la pena ancora da espiare non superi i 5 anni. 2. La liberazione condizionale comporta gli obblighi di cui agli artt. 81 e 82 del codice penale. 3. La liberazione condizionale è revocata qualora il condannato, prima che sia decorso
— 695 — un periodo pari alla durata della pena da espiare, riporta condanna per un reato commesso durante l’espiazione della pena; ovvero commette un nuovo delitto non colposo per il quale sia inflitta una pena detentiva; ovvero si rende gravemente inadempiente agli obblighi imposti. In tal caso, il tempo trascorso in libertà condizionale non è computato nella durata della pena e il condannato non può essere riammesso alla liberazione condizionale ». ART. 12. (Detrazione delle misure cautelari). — 1. I periodi di sottoposizione a custodia cautelare o ad arresti domiciliari si considerano come pena espiata, relativamente al reato o ai reati per i quali la misura cautelare sia stata disposta, o a qualsiasi altro reato precedentemente commesso. 2. La durata della custodia cautelare o degli arresti domiciliari, qualora eccedente quella della eventuale pena detentiva, per la parte eccedente si detrae dalla durata delle eventuali pene non detentive, secondo il criterio di ragguaglio di due giorni di pena non detentiva per un giorno di misura cautelare. 3. Le disposizioni dei commi precedenti si applicano anche alle misure cautelari restrittive della libertà applicate a imputati minori di 18 anni. 4. La durata della misura cautelare interdittiva si detrae dalla durata della eventuale pena interdittiva, e, per la eventuale parte eccedente, dalla durata di altre pene non detentive, secondo il ragguaglio di uno a ad uno. CAPO III. — Disposizioni relative al processo ART. 13. (Autonomia della pronuncia sulla sanzione). — 1. La pronuncia sulla sanzione può essere non contestuale alla pronuncia sulla responsabilità dell’imputato, quando il giudice ritenga necessario, per le valutazioni relative alle sanzioni, acquisire ulteriori elementi di prova, o verificare il consenso dell’imputato su determinate misure. In tal caso il giudice, dopo avere letto il dispositivo contenente l’affermazione di responsabilità, rinvia in tutto o in parte la pronuncia sulla sanzione ad una udienza successiva, con ordinanza nella quale sono indicati i temi da trattare. 2. Nell’udienza di rinvio, le parti possono produrre documenti e presentare testi la cui citazione sia stata previamente autorizzata dal giudice. Il giudice ammette le prove esclusivamente in quanto siano rilevanti per le questioni indicate nell’ordinanza di cui al comma 1. 3. Per la prestazione del consenso sui punti indicati nell’ordinanza di cui al comma 1, e per qualsiasi richiesta ai sensi del titolo III del libro I del codice penale, l’imputato ha facoltà di farsi rappresentare da un procuratore speciale. 4. La motivazione sulla responsabilità può essere depositata prima o contestualmente alla motivazione sulla sanzione. I termini per l’impugnazione decorrono in ogni caso dal deposito della motivazione sulla sanzione. 5. I termini stabiliti dalla legge processuale con riferimento alla sentenza si intendono riferiti al momento della pronuncia sulla sanzione. ART. 14. (Termine per adempimenti conseguenti al reato). — 1. Quando il fatto contestato riguarda attività sottoposte ad autorizzazioni o controlli dell’autorità amministrativa, le attività volte ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose sono effettuate previa informazione dell’autorità competente, e in conformità all’autorizzazione amministrativa, se richiesta dalla legge. 2. L’imputato, o la persona giuridica cui sia contestato l’illecito ai sensi del titolo VII del codice penale, prima dell’apertura del dibattimento di primo grado possono chiedere al giudice delle indagini preliminari un termine fino a sei mesi per realizzare gli adempimenti cui il codice penale condiziona l’esclusione di particolari tipi di sanzione, o l’ammissione all’oblazione. Per adempimenti particolarmente complessi il termine può essere fino a un anno. Il corso della prescrizione è sospeso dalla data della presentazione della domanda a quella della scadenza del termine concesso dal giudice. ART. 15.
(Morte dell’imputato). — 1. La morte dell’imputato, avvenuta prima della
— 696 — sentenza definitiva, comporta l’improcedibilità o l’improseguibilità dell’azione penale, salva l’applicazione dell’art. 129, comma 2, c.p.p. ART. 16. (Condizioni di improcedibilità). — 1. Le cause di estinzione del reato previste da leggi speciali, applicabili senza che il reato sia stato accertato con sentenza, devono intendersi come condizioni di improcedibilità dell’azione penale. ART. 17. (Modifica dell’art. 129 c.p.p.). — 1. Il comma 2 dell’art. 129 c.p.p. è modificato come segue: « 2. Quando dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso, o che il fatto non costituisce reato o non è preveduto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta, anche qualora sussistano le condizioni per la applicazione dell’oblazione, o della prescrizione o dell’amnistia ». ART. 18. (Disposizioni processuali concernenti la confisca). — 1. Nei casi in cui la legge penale consente la confisca a carico di persona diversa dall’autore del reato, il relativo provvedimento è adottato in contraddittorio con l’interessato, il quale ha facoltà di farsi assistere da un difensore. ART. 19. (Disposizioni processuali relative alla responsabilità della persona giuridica). — 1. Si applicano alla persona giuridica chiamata a rispondere ai sensi del titolo VII del codice penale le disposizioni processuali relative all’imputato. 2. La persona giuridica sta in giudizio per il tramite del suo legale rappresentante o di un procuratore speciale. Non può stare in giudizio per il tramite di persona imputata per il medesimo fatto. 3. Nei confronti della persona giuridica è ammessa la costituzione di parte civile.
ERRORE, TENTATIVO, CONCORSO DI PERSONE E Dl REATI NELLA NUOVA DISCIPLINA DEI REATI TRIBUTARI (*) (**)
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive: le residue ipotesi di specialità e di eccezionalità della disciplina dei reati in materia di imposte dirette e di i.v.a. — 2. La disciplina dell’errore sul precetto, determinato da ‘‘obiettiva incertezza’’ (artt. 15 del d.P.R. n. 74/2000), tra ‘‘disastro ecologico penale’’ da inquinamento legislativo e bonifica in via di interpretazione ‘‘ortopedica’’. — 3. La norma sul ‘‘non tentativo’’ (art. 6 d.P.R. cit.) come anomalo incentivo al ‘‘ravvedimento’’ del contribuente. — 4. La deroga all’art. 110 c.p. (art. 9 d.P.R. cit.) come esempio di norma superflua, anzi nociva. — 5. Le nuove (più rosee?) prospettive del concorso di reati.
1. Considerazioni introduttive: le residue ipotesi di specialità e di eccezionalità della disciplina dei reati in materia di imposte dirette e di i.v.a.. — Una delle direttive di fondo della recente riforma dei reati tributari è costituita dal contenimento, nei limiti consentiti dalla specialità della materia, ‘‘dello scarto tra le regole del diritto penale tributario e quelle ordinarie’’ (1). Ne sono sicura espressione, sia l’eliminazione dal testo definitivamente approvato delle disposizioni ‘‘transitorie’’ contenute nella primitiva bozza, palesemente contrastanti, non solo con la già avvenuta abolizione della regola della c.d. ‘‘ultrattività’’ delle leggi penali tributarie contenuta nell’art. 20 l. 7 gennaio 1929, n. 4 (ad opera dell’art. 29 d.lgs. n. 472/1997), ma, addirittura, con lo stesso divieto di retroattività della legge penale incriminatrice sancito dall’art. 25, comma 2, Cost.; sia l’abrogazione (anch’essa già intervenuta in forza dell’art. 29 d.lgs. n. 472/1997 cit.) dell’art. 8 della citata legge del 1929 sulla c.d ‘‘continuazione tributaria’’; sia, ed ancor prima, lo stesso criterio di criminalizzazione prescelto (danno per l’Erario), sicuramente più conforme di quello che ispirava la precedente legislazione, ai principi generali di offensività e di extrema ratio. (*) È il testo corredato dalle note essenziali della Relazione tenuta ad Urbino il 6 maggio 2000 al Convegno ‘‘La Riforma dei Reati Tributari’’ (d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74), organizzato dall’Istituto di Diritto Penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Urbino. (**) I numeri degli articoli non seguiti da alcuna indicazione si riferiscono al d.P.R. n. 74/2000. (1) Cfr. Relazione governativa, p. 1.
— 698 — Tuttavia, lo stesso d.P.R. n. 74/2000 contiene disposizioni derogatorie rispetto alle regole generali. Tra queste spiccano, per il rilievo che assumono nella disciplina della responsabilità, quelle sull’errore (artt. 15 e, forse, 16), sul tentativo (art. 6) e sul concorso di persone (art. 9). Con riguardo alle suddette norme, si pone un triplice ordine di problemi: quali ne sono il preciso significato intrinseco e la precisa portata applicativa; quali ne sono i nessi ed i riflessi sistematici, sia all’interno del sottosistema penale tributario che, più in generale, all’interno del sistema penale tout court; se siano rispondenti al criterio-limite della razionevolezza e siano quindi o no costituzionalmente legittime. Alla trattazione dei quesiti poc’anzi enunciati, si può aggiungere quella del concorso di reati. Non tanto per voler seguire acriticamente sviluppi espositivi tradizionali che accomunano, più per amor di creazione di coppie di concetti che per altro, il concorso di persone ed il concorso di reati, ma per due precise ragioni. Innanzi tutto perché la nuova legge prevede una specifica disposizione (art. 8, comma 2) che disciplina espressamente un’ipotesi di unificazione legislativa di una pluralità di condotte tipiche (ai sensi del comma 1 dello stesso articolo). In secondo luogo perché lo ‘‘stato di salute’’ dell’istituto, che notoriamente s’intreccia con quello del concorso apparente di norme, costituisce un indice non secondario della rispondenza del sistema di illeciti penali tributari di nuovo conio, nel suo complesso, al fondamentale principio di tassatività-determinatezza della fattispecie penale (2). Un altro modo, quindi di saggiare la rispondenza dei risultati della riforma, da questa particolare angolatura, agli intenti di adeguamento delle norme penali tributarie ai principi di diritto penale comune. Proprio perché il settore dei reati tributari è sempre stato storicamente uno dei più esposti al rischio di violazione del suddetto principio (3). 2. La disciplina dell’errore sul precetto, determinato da ‘‘obiettiva incertezza’’ (art. 15), tra ‘‘disastro ecologico penale’’ da inquinamento legislativo e bonifica in via di interpretazione ‘‘ortopedica’’. — L’art. 15 stabilisce — come ormai si sa — che ‘‘al di fuori dei casi in cui la punibilità è esclusa a norma dell’art. 47, comma 3, del codice penale, non danno luogo a fatti punibili ai sensi del presente decreto le violazioni di norme tributarie dipendenti da obiettive condizioni di incertezza sulla loro portata e sul loro ambito di applicazione. (2) Per il rilievo secondo il quale le difficoltà di soluzione dei problemi di convergenza di norme si attenuerebbero con una adeguata razionalizzazione delle previsioni di parte speciale, v. PAPA, Le qualificazioni giuridiche multiple nel diritto penale, Torino, 1997, p. 168 segg. e 254 segg. (3) Cfr., volendo, FLORA, Legge penale tributaria (estratto), in Dig. disc. pen., vol. VII, IV ed., Torino, 1993, p. 9 segg.
— 699 — Ora, a prescindere dall’indecorosa espressione testuale, del tutto incurante delle più elementari regole della grammatica penalistica, non può sfuggire ad una lettura appena un po’ attenta, un’intima sconvolgente contraddizione: la norma si riferisce sicuramente all’ambito di rilevanza dell’errore di diritto e quindi ad una causa di esclusione della colpevolezza; ma ne fonda l’efficacia esimente sul dato oggettivo della incertezza sul significato intrinseco e/o sull’ambito applicativo delle disposizioni tributarie (esplicitamente o implicitamente) richiamate dalla norma incriminatrice, prescindendo quindi del tutto dall’atteggiamento psicologico dell’agente. Non v’è dubbio infatti che, nella mente del legislatore, la norma sia destinata a disciplinare la materia dell’errore e, più precisamente, dell’errore sul precetto derivante da erronea interpretazione delle norme tributarie di riferimento. Molteplici ed univoci gli indizi in tal senso. Innanzi tutto, la presenza della clausola di riserva a favore dell’art. 47, comma 3, c.p., il cui significato è duplice: sul piano strettamente interpretativo chiarisce che la norma è destinata a disciplinare ipotesi diverse ed ulteriori da quelle di errore su legge extrapenale (tributaria o non) che si risolvono in un errore sul fatto materiale tipico; sul piano sistematico sta a sottolineare che anche nel settore penale tributario (e quindi anche nel settore penale tout court) l’errore extrapenale, mortificato nella quotidiana esperienza applicativa da una giurisprudenza eccessivamente rigida, è destinato ad avere un proprio preciso ed autonomo ambito operativo. In secondo luogo, la rubrica legis che si richiama certamente all’errore interpretativo, costituente pacificamente una species dell’errore di diritto (4), se certo non est lex, è tuttavia sicuramente indicativa della voluntas legis e non se ne può conseguentemente non tenere debito conto. In terzo luogo, la relazione governativa al testo definitivo chiarisce che la disposizione in oggetto, oltre a coordinarsi nel senso sopra detto con l’art. 47, comma 3, c.p., riprende quella ‘‘già dettata dall’art. 1, comma 2, dello schema preliminare (e che trova il suo precedente nell’art. 8 del d.l. n. 429/1982)’’ (5). Ove significativo è soprattutto il richiamo all’art. 8 della legge previgente la cui afferenza al campo dell’error iuris, sia pure con diversità di soluzioni in ordine al suo preciso campo di estensione (6), non è mai stata posta in dubbio da nessuno. Si può dunque tranquillamente concludere che la norma in questione (4) Cfr., MUCCIARELLI, Errore e dubbio dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 364/1988, in questa Rivista, fasc. 1, 1996, p. 256 segg. (5) V. Relazione governativa, p. 18. (6) Fra i molti, per la particolare chiarezza, si veda SEVERINO DI BENEDETTO, L’errore su norme tributarie, in Diritto penale tributario, a cura di FIANDACA e MUSCO, Milano, 1992, p. 258 segg.
— 700 — si propone di disciplinare un’ipotesi di errore sul precetto derivante da erronea interpretazione delle norme tributarie, che concorrono a prescrivere il comportamento penalmente sanzionato. Un’ipotesi dunque che, in assenza della norma in questione, ricadrebbe nella disciplina dell’art. 5 c.p. (così come modificato dalla celebre sentenza n. 364/1988 della Corte Cost. — ça va sans dire —). E vedremo poi quale relazione intercorre tra quest’ultimo ed il nostro art. 15. D’altro canto, è altrettanto evidente — a nostro avviso — che una causa di non punibilità che si fondi su un dato indiscutibilmente ed espressamente qualificato come avente natura oggettiva (obiettiva incertezza) è ‘‘ontologicamente’’ estranea all’area della colpevolezza che, per quanto la si normativizzi, non potrà mai prescindere da un coefficiente soggettivo, da un riferimento, dunque, all’atteggiamento psicologico del soggetto agente. È vero che non manca chi, con riferimento all’identica disposizione già da tempo operante nel settore degli illeciti tributari amministrativi (artt. 55, ult. comma, d.P.R. n. 600/1973 e 39-bis, d.P.R. n. 636/1972, art. 6, comma 2, d.lgs. n. 472/1997), ne ha sostenuto l’afferenza al campo della ‘‘buona fede’’ o comunque dell’elemento soggettivo. Ma, anche nel settore per così dire di provenienza, una tale opinione poteva trovare giustificazione in assenza di qualsivoglia disciplina dell’elemento soggettivo dell’illecito tributario e serviva certo a stemperare i rigori di una certa prassi incline ad utilizzare a piene mani i canoni della responsabilità oggettiva (7). Oggi, che anche l’illecito tributario si è arricchito di norme che lo istradano sui binari, di stampo penalistico, della responsabilità colpevole, una tale forzatura interpretativa ‘‘a fin di bene’’ della erronea interpretazione per obiettiva incertezza non ha più ragione di essere (8). Men che mai la suddetta interpretazione è proponibile in ambito penalistico ove la dimensione personalistica dell’illecito, oltre che fondata su una plurisecolare tradizione (risalente, niente meno, che al codice di Hammurabi) è anche costituzionalmente conclamata (art. 27 Cost.). Se così è (e non può non essere così) siamo, in presenza di un fenomeno di inquinamento della falda acquifera della colpevolezza, nella quale il legislatore ha versato un elemento tossico, incompatibile con il suo ecosistema perché formato da materiale certo più agevolmente riconducibile alla linfa vitale della responsabilità oggettiva che a quella della responsabilità colpevole. Il rischio che la falda inquinata tracimi ad intorbidare i mari, quasi mai calmi, della colpevolezza, non è da sottovalutare. Mi si potrebbe obiettare però un eccesso di pessimismo, tipico di certo catastrofismo ambientalista. (7) Cfr., RUSSO, Manuale di diritto tributario, III ed., Milano, 1999, p. 413 seg. (8) V. MISCALI, Commentario delle leggi sul contenzioso tributario, art. 39-bis, d.P.R. n. 636/1972, a cura di GLENDI, Milano, 1990, p. 971.
— 701 — Gli intendimenti del legislatore infatti — si potrebbe proseguire — non sono certamente quelli di una compressione bensì quelli di un ampliamento dell’efficacia scusante dell’errore di diritto in generale (vedi il richiamo alla ‘‘rilevanza’’ dell’art. 47, comma 3, c.p.) e di quello sul precetto in particolare (come si evince inequivocabilmente dalla stessa relazione governativa). L’obiezione coglierebbe certo nel segno, ma non è tale da eliminare lo sconforto dinanzi alla formulazione testuale della disposizione attuativa di cotanti nobili (e condivisibili) intenti e con la quale l’interprete deve pur sempre fare i conti. A nostro modesto modo di vedere l’unica soluzione per evitare il ‘‘disastro ecologico’’ di cui s’è fatto cenno e la seguente. Il ragionamento deve innanzi tutto muovere dalla verifica delle relazioni intercorrenti tra la fattispecie scusante in esame e quella tratteggiata nell’art. 5 c.p. Preliminare a tale confronto è però l’individuazione del significato intrinseco della citata norma della nuova legge penale tributaria. Premesso che essa — come già appurato — afferisce all’errore sul precetto derivato da errata interpretazione delle norme tributarie di riferimento, non v’è dubbio che ‘‘presupponga’’ uno ‘‘scollamento’’ tra un’interpretazione qualificabile come ‘‘esatta’’ (o, meglio, ‘‘corretta") ed una diversa interpretazione, adottata dal contribuente, che pur non essendo ‘‘esatta’’ e però giustificata da (trova la propria causa in) una incertezza obiettivamente rilevabile. I successivi passaggi sono allora costituiti: a) dalla delimitazione delle ipotesi in cui può riscontrarsi una pluralità di interpretazioni tutte dotate di un grado di plausibilità idoneo ad ingenerare ‘‘vera e propria’’ incertezza in ordine alla scelta di quella ‘‘esatta’’; b) dalla determinazione del criterio in base al quale stabilire il carattere ‘‘oggettivo’’ dell’incertezza sulla ‘‘portata’’ e sull’‘‘ambito di applicazione’’ delle disposizioni rilevanti. a) Quanto al primo quesito è ovvio come nessun problema di plurime soluzioni interpretative si ponga in presenza di una norma oscura, del tutto incomprensibile (9). Tale possibile varietà esegetica potrà, invece, essere originata da una (9) Cfr., MUCCIARELLI, Errore e dubbio, cit., p. 259 segg. L’A. distingue l’ipotesi di oscurità assoluta della legge in cui non sarebbe neppure corretto parlare di errore interpretativo, dal momento che nessuna interpretazione è possibile, con la conseguenza che la norma (comunque letta) non può fornire all’agente alcuna indicazione alla quale conformare la condotta (p. 259) da quelle di oscurità relativa identificabili non in un’assoluta incomprensibilità della disposizione: piuttosto il valore incerto del riferimento semantico, il contenuto ambiguo e polisenso, suscettibile di variare in dipendenza del modo interpretativo accolto, la coerenza soltanto parziale con altri dati normativi, emergono e spiccano quali elementi caratterizzanti (p. 260). All’interno delle ipotesi raggruppabili nella oscurità relativa è ricono-
— 702 — norma solo ‘‘relativamente’’ oscura alla quale potranno essere attribuiti una pluralità di significati o tutti in pari grado fondati o tutti ugualmente ‘‘ragionevoli’’, ancorché alcuni maggiormente fondati di altri. Qualora, invece, il ventaglio di opzioni interpretative sia frutto di un iter condotto fuori dei canoni della ragionevolezza, del tutto stravagante, non sarà dunque integrato il presupposto di una vera e propria incertezza sul significato e/o sulla portata della norma. Il secondo quesito va risolto sul piano strettamente concettuale, senza subire il condizionamento di ragionamenti che attengono invece al diverso piano della ‘‘prova’’ o della ‘‘sintomatologia’’ dell’obiettiva incertezza (classico, ad es., il riferimento agli orientamenti giurisprudenziali contrastanti, alla sussistenza di istruzioni ministeriali contraddittorie ecc.). Ebbene, i criteri cui astrattamente si può far ricorso sono notoriamente tre (scartato quello dell’interprete-soggetto agente, ché ovviamente non può essere idoneo a fondare un requisito obiettivo ed in base al quale l’incertezza sussisterebbe evidentemente sempre): l’interprete medio, l’interprete modello; il miglior interprete (migliore scienza ed esperienza interpretativa). In forza del criterio del miglior interprete sarebbe sempre possibile individuare l’interpretazione inequivocabilmente esatta e schernire come irragionevole qualunque altra venisse proposta o praticata. Cosicché si rivelerebbe un criterio sterile. In base al criterio dell’interprete medio, ovviamente non specialista della materia, si corre il rischio di concludere che quasi tutte le norme tributarie, quando non del tutto incomprensibili, sono suscettibili di originare un pressoché illimitato campionario di ragionevoli scelte ermeneutiche. Cosicché si rivelerebbe un criterio del tutto sconsideratamente generoso. Solo il criterio dell’interprete-modello del settore specialistico in questione (tributario) consente dunque di delimitare convenientemente ed in modo convincente il campo dell’incertezza interpretativa di ordine obiettivo. Riassumendo, ricorreranno pertanto le ‘‘obiettive condizioni di incertezza’’ sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni tributarie rilevanti nella (ri)costruzione del precetto penale tributario, quando ad una (o più) di tali disposizioni risulterà attribuibile, a causa della sua ‘‘relativa’’ oscurità, una pluralità di significati tutti ugualmente fondati o comunque ragionevolmente prospettabili, in base al criterio dell’interprete modello del settore specialistico tributario. Ciò posto, se si dovesse ritenere che la norma in oggetto (art. 15 scibile il tratto unificante rappresentato propriamente dalla pluralità delle interpretazioni possibili (p. 260).
— 703 — d.P.R. cit.) ha natura speciale rispetto all’art. 5 c.p. ed esaurisce la disciplina dell’errore sul precetto nel campo dei reati in materia di imposte dirette ed i.v.a., dove dunque l’art. 5 c.p. non opererebbe mai e l’art. 15 d.P.R. cit. sempre, ma nei soli limiti che abbiamo visto, ci sarebbe appunto da mettersi le mani nei capelli e temere il paventato disastro ecologico. Infatti, nel settore che qui ci interessa, l’errore sul precetto rileverebbe solo quando è ‘‘scusabile’’ in base a criteri rigidamente obiettivi (obiettivi ‘‘purissimi’’). Mentre — come ben si sa — la stessa Corte Costituzionale nella ‘‘storica’’ sentenza n. 364/1988, seguita da autorevole dottrina e da un non trascurabile filone giurisprudenziale, indica tra quelli legittimamente utilizzabili per stabilire la (‘‘inevitabilità’’) scusabilità dell’errore sul precetto, anche criteri misti oggettivo-soggettivi (10). Ma la tesi che vedesse nell’art. 15 del d.P.R. più volte cit., una disposizione esaustiva della disciplina dell’errore sul precetto penale tributario sarebbe una tesi palesemente errata. Infatti il cit. art. 15 concerne soltanto l’errore interpretativo, che costituisce solo una species dell’errore sul precetto, e soltanto l’errore sul precetto che derivi da errore (interpretativo) di norme tributarie. Cosicché l’errore sul precetto penal tributario derivante da causa diversa dall’errore ‘‘interpretativo’’ (ad es. ignoranza dell’esistenza della stessa norma penale tributaria o di una norma tributaria rilevante per la concreta posizione contributiva in gioco) o dalla interpretazione di una disposizione non tributaria, ma, ad es. civile (omessa dichiarazione di ingentissimi redditi fondiari da parte di chi non si crede ancora proprietario per erronea interpretazione della norma sul trasferimento di proprietà o delle norme del contratto) non può che rimanere disciplinata dall’art. 5 c.p. Cosicché, in conclusione, la nostra norma pare debba intendersi non tanto come norma sostanziale sulla struttura dell’esimente, ma piuttosto come norma processuale sulla prova legale (iuris et de jure) della sussistenza dell’errore scusabile. Insomma, quando ricorre l’ipotesi dell’obiettiva incertezza sul significato e/o sul campo applicativo delle disposizioni disciplinanti le imposte dirette o l’i.v.a. che concorrono a delineare lo stesso precetto penale tributario, l’autore del reato è comunque scusato, indipendentemente dall’accertamento della ‘‘evitabilità’’ o meno dell’errore interpretativo in cui è incorso con i comuni criteri elaborati sull’art. 5 c.p. Criteri che invece troveranno piena applicazione in tutti gli altri casi di errore o ignoranza ricadente sul precetto penale tributario. E, del resto, l’art. 15 cit. non sembra proprio l’unica norma del d.P.R. n. 74/2000 ad esprimere un criterio di prova legale. Lo stesso art. 16 d.P.R. cit. (che la Relazione governativa at(10) Per un quadro esauriente delle diverse posizioni, cfr. PALAZZO, voce Ignoranza della legge penale, in Digesto disc. pen., VI, 1992, pp. 122 segg.
— 704 — tribuisce alla disciplina dell’elemento soggettivo) sancisce, in definitiva, una presunzione di assenza di dolo di evasione in chi si conforma al parere del Comitato per l’applicazione delle norme antielusive o a quello del Ministero delle finanze. Non è questa la sede per approfondire l’analisi di questa discutibilissima disposizione; ma la sua valenza nel senso dianzi prospettato ci pare innegabile. Come pure sembrano sancire ulteriori presunzioni di assenza di dolo (salvo anche qui, approfondire altri profili di diversa natura) le norme sulla ‘‘scorretta’’ ma costantemente adottata contabilizzazione o appostazione in bilancio (art. 7, comma 1, d.P.R. cit.) e sul contenimento nei limiti del 10%, rispetto a quelle ritenute (da chi?) corrette, delle valutazioni estimative effettuate dal contribuente. Resta infine da stabilire se la disciplina dell’errore sul precetto nei reati in materia di imposte dirette ed i.v.a., così come l’abbiamo ricostruita, attorno agli art. 15 d.P.R. cit. e 5 c.p., sia ragionevole o presenti profili di violazione dell’art. 3 Cost. A noi, sinceramente, non sembra che la suddetta disciplina sia un modello di coerenza, da mostrare orgogliosamente ad aspiranti legislatori. Tuttavia, altrettanto sinceramente, ci pare che essa, innanzi tutto, scongiuri il pericolo di un possibile deterioramento (da inquinamento) della struttura personalistica della colpevolezza e, in secondo luogo. confidando che anche la giurisprudenza penale, come quella amministrativa, non sarà troppo avara nella ricerca dei sintomi rivelatori dell’obiettiva incertezza in ordine alla esatta interpretazione, non comporterà in concreto disparità di trattamento intollerabile tra le ipotesi di errore sul precetto dovuto ad errore interpretativo su disposizioni tributarie, assistite dalla presunzione di scusabilità in caso di obiettiva incertezza, e le rimanenti ipotesi di errore sul precetto governate dagli ordinari criteri di accertamento della scusabilità. 3. La norma sul ‘‘non tentativo’’ (art. 6 d.P.R. cit.) come anomalo incentivo al ‘‘ravvedimento’’ del contribuente. — Relativamente meno impegnativa risulta la trattazione dell’art. 6 della nuova legge penale tributaria che dichiara espressamente non punibili a titolo di tentativo i delitti di dichiarazione fraudolenta (nelle due ipotesi contemplate rispettivamente dagli artt. 2 e 3) e di dichiarazione infedele (art. 4). Il presupposto dogmatico implicito nella suddetta previsione è quello — ovvio — che, in mancanza di essa, risulterebbe configurabile e quindi punibile il tentativo dei delitti cui esplicitamente si riferisce, tant’è vero che la mancata ricomprensione tra questi ultimi del delitto di omessa dichiarazione risiede proprio, a mente delle spiegazioni contenute nella Relazione governativa al testo definitivo, nella ritenuta inconfigurabilità (secondo l’opinione dominante) del tentativo nei delitti omissivi.
— 705 — L’inserimento di questa deroga all’ordinario regime del delitto tentato sarebbe stato suggerito, sempre a stare alle parole della citata relazione, da una duplice esigenza: evitare il ritorno alle incriminazioni di condotte ‘‘prodromiche’’ alla evasione, incompatibili con la filosofia ispiratrice di fondo della riforma; incentivare il ‘‘ravvedimento’’ del contribuente che, scoperto mentre marcia sulla strada che conduce alla realizzazione del reato (in itinere criminis), dovrebbe sentirsi incoraggiato dalla generosità dell’ordinamento che non lo punisce per tentativo, a tornare sui suoi passi e presentare una dichiarazione lealmente veritiera. Delle due giustificazioni ‘‘politiche’’ prospettate certamente è la seconda ad essere quella, sia pur non totalmente, più convincente. La prima, infatti, muove da una ipotetica sovrapposizione tra le (‘‘vecchie’’) fattispecie prodromiche e la fattispecie del tentativo che sottintende una (pericolosamente) erronea concezione dello stesso e trascura del tutto che il tentativo di realizzazione delle figure delittuose tratteggiate negli artt. 2, 3 e 4 deve ritenersi correttamente configurabile solo in casi ‘‘di scuola’’ che hanno una così rara possibilità di verificazione nella prassi che — con una battuta — si potrebbero ritenere meritevoli di protezione da parte del W.W.F. Innanzi tutto, infatti, una necessaria lettura della norma sul tentativo in chiave costituzionale, che voglia cioè conformarsi ai principi di tassatività e di offensività, comporta che se ne ravvisi la sussistenza unicamente nelle ipotesi di concreta probabilità di realizzazione della fattispecie perfetta che si ha — secondo un autorevole insegnamento al quale ci siamo formati ed al quale riteniamo, anche oggi, di aderire toto corde — quando l’iter criminis ha raggiunto un tal grado di sviluppo da ritenere altamente improbabile la desistenza. Pertanto: a) in assenza della disposizione derogatoria di cui si parla i comportamenti antecedentemente incriminati, quali prodromici all’evasione, e costituenti tipiche figure di reati di pericolo astratto (o presunto) quando non meri reati — ostacolo (es. art. 1, comma 6, l. n. 516/1982) non sarebbero comunque affatto risultati punibili a titolo di tentativo e non avrebbero dunque fatto, per così dire, ‘‘rientrare dalla finestra’’ il (vecchio) criterio di criminalizzazione cacciato dalla porta; b) le uniche ipotesi concrete configurabili di una condotta teoricamente punibile come tentativo dei delitti di dichiarazione fraudolenta o infedele sarebbero quelle in cui l’agente è colto mentre ha ormai compilato il testo definitivo della denuncia dei redditi o dell’iva e, essendo ormai prossimo il termine di presentazione, si accinga personalmente o a mezzo di soggetto a ciò incaricato a consegnarla o spedirla. Ipotesi — ci si consentirà — davvero di non frequente verificazione. Non solo, ma la disposizione in commento rischia di rifrangere effetti sistematici (sia interni al settore che ci occupa che al settore del diritto penale in generale) perversi.
— 706 — In particolare, per quanto concerne le ripercussioni intrasistematiche, si potrebbe essere indotti a ritenere la piena configurabilità del tentativo dei delitti ‘‘in materia di documenti e pagamenti di imposta’’ (artt. 8, 10 ed 11). La clausola derogatoria si riferisce infatti — come s’è visto — unicamente ai delitti in materia di dichiarazione. Conclusione che (questa sì) comporterebbe un così forte arretramento della soglia della punibilità rispetto all’evento offensivo (evasione o mancato pagamento dell’imposta) da risultare sicuramente incompatibile con la scelta selettiva di fondo operata dal riformatore. Cosicché si tratterebbe di una tesi che potrebbe fondarsi unicamente sulla scarsa lungimiranza, per non dire sulla cecità del legislatore. Francamente troppo poco! Senza contare che si potrebbe ben contro obiettare che la mancata estensione della deroga ai delitti in questione potrebbe essere imputabile, pur nel silenzio della Relazione governativa sul punto, non tanto alla cecità, quanto piuttosto ad un eccesso di ‘‘sicumera dogmatica’’ del legislatore, convinto della ontologica inconfigurabilità del tentativo nei delitti di pericolo (oltre che nei delitti omissivi). E non v’è dubbio che i delitti di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8), di occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10) o di compimento di atti fraudolenti finalizzati a vanificare la procedura di riscossione coattiva delle imposte (art. 11) siano reati di pericolo. Sotto il profilo sistematico-generale, essendo notorio che la ‘‘materia prima’’ per la elaborazione, in via di ‘‘progressiva astrazione’’, della parte generale è costituita dalle norme di parte speciale, la disposizione in commento potrebbe avvalorare una concezione dell’istituto del tentativo che vi ricomprenda altresì gli atti preparatori ancora non concretamente pericolosi. Rischio — come ben si comprenderà — tutt’altro che teorico. Anche questa norma, dunque, può innescare pericolosissimi fenomeni di inquinamento, cosicché è senz’altro opportuno ribadirne la superfluità a fini strettamente ricostruttivo-interpretativi. Ma, anche la conclamata finalità di incentivo al ravvedimento sembra verosimilmente destinata ad ottenere scarso successo. A ben vedere, infatti, finché l’autore non ha presentato la dichiarazione fraudolenta o infedele non ha ancora portato a termine la condotta tipica (l’‘‘azione non si è compiuta’’ direbbe l’art. 56 c.p.). Cosicché l’eventuale ‘‘desistenza volontaria’’ comporterebbe comunque l’impunità. Conseguentemente l’efficacia incentivante il ravvedimento che la norma derogatoria in esame rivela di possedere è — in definitiva — limitata a svalutare il requisito della ‘‘volontarietà’’ della desistenza, dichiarando espressamente non punibile la condotta precedente la presentazione della dichiarazione anche in difetto di tale requisito. Se così è forse sarebbe stato più semplice, ma per vero per un legisla-
— 707 — tore dogmaticamente raffinato (che è notoriamente uno degli esempi emblematici dell’utopia), limitarsi a dichiarare l’efficacia della desistenza ancorché non ‘‘volontaria’’, evitando di lanciare il messaggio, troppo generosamente mortificante le esigenze generalpreventive, della non punibilità comunque del tentativo. 4. La deroga all’art. 110 c.p. (art. 9 d.P.R. cit.) come esempio della norma superflua, anzi nociva. — Anche l’art. 9 della nuova legge appare almeno prima facie, frutto di preoccupazioni sicuramente eccessive, mentre è proprio la sua introduzione che rischia, per contro, di provocare contraccolpi sistematici forieri, questi sì, di giustificate preoccupazioni. La soluzione della non configurabilità del reciproco concorso eventuale dell’emittente e dell’utilizzatore nei reati a ciascuno ascrivibili, secondo la previgente normativa, doveva infatti ritenersi assolutamente pacifica e consolidata tanto in dottrina (11) che in giurisprudenza (12). Le argomentazioni addotte in particolare dalla più autorevole dottrina si incentrano essenzialmente su tre ordini di considerazioni. In primo luogo, la previsione delle condotte di ‘‘emissione o utilizzazione’’ in seno alla medesima disposizione (art. 4, n. 5) prima, e lett. e), poi, della l. n. 516/1982), nell’ambito del medesimo contesto offensivo, cementato dall’unicità del dolo specifico, dava certo luogo a modalità alternative di realizzazione di una medesima fattispecie incriminatrice (ancorché, per altri fini — ad es.: competenza territoriale — se ne potesse ipotizzare una piena autonomia). In secondo luogo, il legislatore nel disegnare la mappa delle fatturazioni fraudolente non può non aver tenuto conto di una tendenziale ‘‘necessaria plurisoggettività fattuale’’ nel misurarne il significato di disvalore; anche perché è dalla prospettiva di reciproca interazione delle condotte in questione che può apprezzarsi in pieno e nella sua significatività penal tributaria la dimensione offensiva di ciascuna di esse. In terzo luogo, il dato sistematico, ricavabile dalla organizzazione codicistica dei reati di falso, ove si separa rigorosamente il concorso nella falsificazione, dall’uso dell’atto falso (per vero in virtù, almeno nell’art. 489 c.p., di un’espressa clausola di riserva) dimostrerebbe, per affinità di materia, che sarebbe inammissibile la punizione dell’utilizzatore anche come concorrente. (11) Cfr., tra i molti, DE VERO, Le fattispecie di frode fiscale previste dalle lett. a-e dell’art. 4, l. 7 agosto 1982, n. 516, in Diritto penale tributario, a cura di FIANDACA e MUSCO, Padova, 1992, p. 167-168; PADOVANI, La frode fiscale, in Responsabilità e processo penale nei reati tributari, a cura di GROSSO, Milano, 1992, p. 252 segg.; TRAVERSI, I reati tributari, IPSOA, 1986, p. 477; D’AVIRRO-NANNUCCI, I reati tributari, p. 477; ZANOTTI, I reati in materia fiscale, a cura di CORSO e STORTONI, Torino, 1990, p. 305-306. (12) V. ad es., Cass. 23 marzo 1987, Cass. pen., 1988. p. 1953; Contra, isolatamente, Trib. Pescara, 17 gennaio 1986, cit. da DE VERO, (Le fattispecie cit.), p. 167.
— 708 — Insomma, da tutte le argomentazioni sopra ricordate si trae il convincimento che la punizione anche per concorso reciproco nei rispettivi reati di emittente ed utilizzatore di fatture false avrebbe costituito una clamorosa violazione del principio del ne bis in idem sostanziale. A questo punto, ci si deve per vero chiedere se il mutamento strutturale delle fattispecie nel cui àmbito assumono rllevanza le condotte di emissione ed utilizzazione di fatture fasulle comporti o meno la necessità di rivedere la soluzione adottata nella vigenza della precedete disciplina. Com’è noto, infatti, mentre l’emissione di false fatture è punita di per sé (art. 8), indipendentemente da un collegamento funzionale con proprie o altrui dichiarazioni fiscali, la loro utilizzazione rileva penalmente solo allorquando il contribuente se ne avvalga per presentare una dichiarazione indicante elementi passivi fittizi (art. 29). Quindi i comportamenti di cui si tratta non sono più contemplati come condotte alternative di realizzazione di un’unica figura fondamentale di reato. Ciò premesso, la Relazione governativa (p. 13) offre una chiave di lettura della norma derogatoria in esame differenziata a seconda riguardi la responsabilità concorsuale dell’emittente o quella dell’utilizzatore. Nel primo caso, la proclamata impunibilità del concorso nel reato dell’utilizzatore servirebbe unicamente a ‘‘rafforzare una soluzione già ricavabile dai principi generali’’. Infatti ‘‘essendo l’emissione punita autonomamente ed ‘a monte’, a prescindere dal successivo comportamento dell’utilizzatore, ammettere che l’emittente possa essere chiamato a rispondere tanto del delitto di emissione che di concorso in quello di dichiarazione fraudolenta significherebbe, in sostanza, punirlo due volte per il medesimo fatto’’. Nel secondo caso, invece, la ragione della non punibilità dell’utilizzatore anche a titolo di concorso nel reato di emissione, risiederebbe nella preoccupazione di evitare ‘‘una indiretta resurrezione del reato prodromico’’ che si verificherebbe qualora egli, pur non essendosi avvalso della falsa fattura per presentare una dichiarazione fraudolenta, potesse essere ritenuto responsabile a titolo di concorso nel delitto dell’emittente. Anche di fronte a questa sorta di confessione di superfluità al 50% della noma, viene spontaneo interrogarsi se, per caso non se ne possa sostenere la superfluità totale. Per vero, il ragionamento svolto nella Relazione muove dall’ipotesi di una mancata utilizzazione in funzione frodatoria della fattura non genuina; ipotesi che pare certo più un’eccezione che la regola, ma è pur sempre teoricamente prospettabile. Tant’è che, nel vigore della precedente normativa, la responsabilità concorsuale del ‘‘committente’’ nel delitto di emissione veniva prospettata proprio quando egli non sfruttasse l’opportunità concordata, evitando di compiere la condotta di utilizzazione. Ora però, non può sfuggire l’incoerenza sistematica che, anche in assenza di espressa norma derogatoria, comunque discenderebbe dall’incri-
— 709 — minazione per concorso nell’emissione dell’aspirante utilizzatore successivamente ‘‘pentito’’. Egli infatti soggiacerebbe in virtù dell’art. 110 c.p. alla stessa pena in cui incorrerebbe se portasse a termine il progetto criminoso ideato o attuato assieme all’emittente utilizzando effettivamente a fini evasivi la fattura fraudolenta. Senza contare che egli non avrebbe più alcun incentivo al ravvedimento post pactum sceleris patratum. Il che contrasterebbe non solo contro consolidati canoni di razionale politica criminale, ma anche contro una precisa direttiva della legge delega in materia (art. 9, comma 2, lett. e), l. 25 giugno 1999, n. 205), che, nell’indicare tra i criteri direttivi quello della incentivazione di ‘‘meccanismi premiali idonei a favorire il risarcimento del danno’’, ha certo implicitamente, ma sicuramente (a fortiori), impegnato il legislatore delegato ad evitare la produzione di norme che possano addirittura disincentivare la stessa produzione del danno. E, poiché è innegabile che le direttive della delega valgano anche in funzione interpretativa delle norme delegate, la conclusione della non punibilità ex art. 110 c.p. del concorso ‘‘incrociato’’ nei reati di emissione e utilizzazione di fatture fasulle, risulterebbe anche per questa via confermata senza bisogno di alcuna espressa previsione derogatrice. Piuttosto c’è da chiedersi infine se l’art. 9, non sia norma, più che inutile, dannosa. Gli amanti dell’argomentazione sistematica raffinata potrebbero infatti sostenere che se laddove si è affacciato un minimo dubbio di possibile concorso reciproco nei reati il cui modello socio-culturale di riferimento è caratterizzato da una struttura necessariamente plurisoggettiva, il legislatore si è sentito in dovere di dichiarare espressamente la non punibilità, in assenza di tale specifica clausola derogatoria, tale forma di concorso di persone risulta pienamente configurabile. L’argomentazione sarebbe però così raffinata da rivelarsi completamente sbagliata. Non solo, infatti, essa opererebbe una generalizzazione del tutto inammissibile, dovendosi di volta in volta verificare la ratio della punizione dei soggetti coinvolti nella vicenda ‘‘quasi’’ necessariamente plurisoggettiva ed il significato che ciascuna di esse assume nel quadro di disvalore complessivo risultante dalle condotte incriminate; ma non terrebbe in nessun conto del senso solo apparentemente ‘‘costitutivo’’ che la norma possiede, dovendo più correttamente essere intesa come norma di ‘‘mero accertamento’’. Cosicché, non essendo possibile attribuirle alcun rilievo autonomo sul piano sistematico, non può dar luogo a pericoli di ‘‘inquinamento’’. 5. Le nuove (più rosee?) prospettive del concorso di reati. — Preliminarmente occorre premettere che la disciplina del concorso di reati (e quella speculare del concorso apparente di norme) risulta oggi finalmente
— 710 — retta dalle norme e dai principi ordinari. L’art. 8 della l. 7 gennaio 1929, n. 4 è stato infatti abrogato ad opera dell’art. 29 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 662. Esso dettava — com’è noto — una disciplina della ‘‘continuazione tributaria’’ e del concorso formale di reati (ed illeciti amministrativi) tributari inutilmente farraginosa ed irrazionale (13). Quanto alla deroga rappresentata dall’art. 8 del d.lgs. n. 74/2000 anch’essa è, per vero, soltanto apparente, limitandosi a codificare una soluzione ricavabile anche alla luce dei principi generali e già adottata dalla dottrina (14) ed in misura per vero minoritaria dalla giurisprudenza (15), in presenza di plurima emissione di fatture fasulle nell’arco del medesimo perlodo d’imposta. Si riteneva, infatti, che la fattispecie incriminatrice descritta nell’art. 4, comma 1, lett. d) configurasse una tipica ipotesi di reato eventualmente abituale, integrato indifferentemente dalla realizzazione di uno solo o di una pluralità di episodi omogenei. La giustificazione che ne fornisce la Relazione governativa si incentra sulla preoccupazione di evitare censure di irragionevole disparità di trattamento con il reato dell’utilizzatore (art. 2), punito, all’evidenza, una sola volta anche nel caso in cui la propria dichiarazione fraudolenta ‘‘poggi’’ su una o più false fatture (16). Considerazione che certo rafforza la soluzione adottata sotto la previgente norma, ma non rende ‘‘assolutamente indispensabile’’ una disposizione ad hoc; tanto più che tutto l’impianto sistematico della nuova legge, che ruota comunque attorno al fondamentale adempimento della dichiarazione, offre certamente un formidabile argomento interpretativo, ben più solido di quello letterale (anche la nuova norma parla di emissione di fatture o altri documenti, utilizzando il plurale) alla tesi dell’abitualità eventuale, ricostruibile ora anche in forza della polarizzazione della condotta verso un medesimo risultato lesivo. Ma, come si diceva all’inizio di questo lavoro, le problematiche del concorso di reati e del concorso apparente di norme costituiscono un ottimo banco di prova per saggiare la coerenza sistematica complessiva e l’intrinseca razionalità di determinate previsioni di parte speciale. Occorre allora procedere ad effettuare l’analisi muovendo dalla classica partizione tra problemi di concorso che si pongono all’interno dello stesso sistema di incriminazioni penaltributarie (c.d. ‘‘concorso interno’’) e problemi che si pongono in relazione a fattispecie incriminatrici diverse da quelle penal-tributarie (c.d. ‘‘concorso esterno’’). (13) Sul punto cfr., per tutti, ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, Milano, 1987, p. 673 segg. (14) Per tutti, PADOVANI, La frode fiscale, cit., p. 257 segg. (15) Cfr., ad es., Trib. Viterbo, 28 maggio 1987, Il Fisco, 1987, p. 6640; contra, peraltro, Cass., Sez. III, 13 novembre 1997, (ud. 24 settembre 1997), n. 10207 Asselti, in cd rom, I Codici, IPSOA, n. 1/2000. (16) Cfr. Relazione governativa, p. 13.
— 711 — Per quanto riguarda il profilo del ‘‘concorso interno’’ ci sembra si possa affermare con una certa sicurezza che non possono concorrere tra di loro i reati di dichiarazione fraudolenta (artt. 2 e 3) e quelli di dichiarazione infedele (art. 4) e/o di dichiarazione omessa (art. 5), trattandosi di fattispecie in relazione strutturale di incompatibilità (17) (l’infedele dichiarazione, com’è esplicitato dalla clausola di riserva a favore degli artt. 2 e 3, presuppone l’assenza di connotazione fraudolenta della condotta, tipica invece delle ipotesi fraudolente; mentre l’omessa dichiarazione presuppone, appunto, che la dichiarazione non sia stata presentata, mentre le ipotesi di dichiarazione fraudolente o infedele presuppongo, altrettanto ovviamente, la presentazione della dichiarazione). Nemmeno possono concorrere tra di loro i reati di dichiarazione fraudolenta previsti rispettivamente dall’art. 2 e dall’art. 3. In forza della clausola di riserva contenuta nell’art. 3, qualora l’efficacia ingannatoria dipenda sia dall’utilizzazione di fatture false sia dal ricorso ad altri artifici, troverà sempre applicazione quest’ultima norma. La maggiore gravità del fatto potrà eventualmente essere adeguatamente soppesata dal giudice in sede di commisurazione della concreta entità della sanzione ex art. 133 c.p. Ancora sulla base della clausola di riserva, pur se indeterminata, contemplata nell’art. 10 (Occultamento o distruzione di documenti contabili), che si autoproclama applicabile ‘‘salvo che il fatto costituisca più grave reato’’, va escluso il concorso tra quest’ultimo reato e quello di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3), ipotizzabile in astratto sempre che si ritenga rientrante nel concetto di ‘‘mezzi fraudolenti’’ idonei ad ostacolare l’accertamento delle falsità contabili la distruzione o l’occultamento di scritture di obbligatoria conservazione. Di meno agevole soluzione risulta per contro il problema del concorso allorché ci si chieda se dia luogo ad un solo reato o a più reati colui che realizzi taluno dei delitti in materia di dichiarazione, tanto con riferimento alle imposte dirette che all’i.v.a. A favore della soluzione più rigorosa del concorso di reati militerebbero per vero sia la considerazione che, essendo diversi i termini di presentazione, il reo deve impegnarsi in due diverse e distinte determinazioni volitive (si tratta — come ben si sa — di delitti a dolo generico intenzionale); sia la considerazione che, secondo la dottrina più autorevole, l’interesse dello Stato alla percezione di ogni singola imposta dà vita ad autonome oggettività giuridiche e, quindi, a distinte offese (18). Tuttavia, in primo luogo, l’espressione testuale che costruisce i reati (17) In ordine a tale tipologia di relazione strutturale tra fattispecie, v. MANTOVANI, Concorso e conflitto di norme, Modena, 1966, pp. 208-233. (18) DELOGU, L’oggetto giuridico dei reati fiscali, in Studi Antolisei, Milano, 1966, I, p. 405 segg.
— 712 — di dichiarazione secondo il paradigma delle condotte alternative (‘‘indica in una delle dichiarazioni annuali’’, ‘‘l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte ...’’) ed in secondo luogo la connotazione di fondo della nuova legge di sfavore verso la duplicazione delle sanzioni e soprattutto, di valutazione del comportamento illecito nell’arco dell’intero periodo di imposta, fanno propendere, nel dubbio, per la non configurabilità del concorso di reati. Per quanto riguarda, invece, le problematiche del ‘‘concorso esterno’’, esse attengono, secondo la più nobile tradizione, al possibile concorso tra le ipotesi di dichiarazione fraudolenta e di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640, comma 2, n. 1) c.p.) e tra l’ipotesi di dichiarazione fraudolenta (più precisamente di quella ‘‘mediante altri artifici’’) e di false comunicazioni sociali (art. 2621 c.c.). La soluzione del concorso apparente tra frode fiscale e truffa ai danni dello Stato adottata dalla dottrina assolutamente prevalente (19), sotto la previgente normativa, trova oggi ancor più sicuro fondamento. Le nuove norme sulla frode fiscale, infatti, rivelano una assai più accentuata ‘‘somiglianza’’ delle precedenti alla norma sulla truffa; sia perché ne risulta esaltato il profilo patrimoniale del danno per l’erario e del correlativo profitto per l’agente (requisito implicito di fattispecie); sia perché ne emerge una più nitida e peculiare connotazione fraudolenta della condotta ed un più sicuro collegamento causalfunzionale della stessa rispetto al risultato evasivo. Cosicché se ne apprezza con maggiore evidenza la specialità per specificazione rispetto alla norma codicistica. Ed infine, l’innalzamento delle pene edittali che superano quelle comminate per la truffa aggravata rende più ‘‘tranquillizzante’’, anche sotto il profilo dell’adeguatezza alle esigenze di tutela, l’applicazione della sola norma speciale (art. 3), prevalente rispetto a quella generale (art. 640 c.p.). Deve invece essere riesaminata funditus la questione dei rapporti tra frode fiscale ‘‘mediante altri artifici’’ (art. 3) e false comunicazioni sociali (art. 2621 c.c.) (20). L’attuale norma, infatti, non fa più alcun riferimento alla falsità del bilancio finalizzata all’evasione come ipotesi ‘‘alternativa’’ di frode fiscale, a differenza di quanto stabilivano l’art. 4, lett. f) l. n. 516/1982 e succ. mod. e la prima bozza governativa di decreto delegato (‘‘falsa rappresentazione ... nelle scritture contabili obbligatorie o nel bilancio...’’). Né il bilancio deve essere più allegato alla dichiarazione dei redditi ormai fin dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 241/1997. Non solo, (19) RAMPIONI, La fattispecie di frode fiscale prevista dall’art. 4, lett. f) della l. 7 agosto 1982, n. 516, cit. p. 239; CALVI, Brevi note sul rapporto di specialità tra frode fiscale e truffa ai danni dello Stato, in Boll. trib., 1982, p. 1866. (20) Con riferimento alla l. delega di cui la norma penaltributaria in commento costituisce attuazione, v. PERINI, Verso la riforma del diritto penale tributario: osservazioni sulla legge di delegazione, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1999, p. 699-700.
— 713 — ma, poiché la struttura della fattispecie descritta nell’art. 3 si articola sulla falsità delle scritture contabili obbligatorie, avvalorata da ‘‘mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l’accertamento’’, si pone addirittura il problema preliminare della stessa rilevanza del falso in bilancio nell’ambito del reato in esame. Non v’è infatti dubbio che il bilancio non può farsi tecnicamente rientrare nel concetto di ‘‘scrittura contabile obbligatoria’’ (bilancio e scritture obbligatorie sono documenti diversi e distinti nella normativa sia civile che fiscale ed anche la primitiva versione dello schema governativo prima ricordato distingueva la falsità contenuta nelle scritture contabili da quelle iscritte in bilancio); cosicché il falso in bilancio non integra quella falsità nelle scritture contabili obbligatorie richiesta dalla norma. Tuttavia, la condotta di manipolazione a fine di evasione fiscale del bilancio, potrebbe rivestire gli estremi di mezzo fraudolento idoneo ad avvalorare le falsità contabili ivi fedelmente riprodotte. Non v’è infatti dubbio che il bilancio ha da essere conservato dal contribuente anche in funzione probatoria di quanto, per così dire, ufficialmente evidenziato agli occhi del fisco attraverso la dichiarazione. Sotto il profilo più strettamente interpretativo, poi, non si può non rilevare che se le manipolazioni del bilancio non avessero alcuna rilevanza nella norma in esame, non avrebbe alcun senso la disposizione dell’art. 7 sulla non punibilità ‘‘a norma degli artt. 3 e 4’’, dei fatti consistenti in valutazioni estimative ‘‘scorrette’’ di poste di bilancio. Se non si ritenesse fondata questa prospettazione si dovrebbe concludere che il falso in bilancio a fini di frode fiscale non rientra nel paradigma descrittivo dell’art. 3 ed è punibile solo come falsa comunicazione sociale ex art. 2621 c.c. Nel caso però che, come ci sembra di poter sicuramente sostenere, il falso in bilancio sia ancora condotta rilevante ai fini penaltributari quando sia sorretto però dal necessario dolo intenzionale e siano superate le soglie quantitative di evasione, la clausola di riserva dell’art. 2621 c.c. consente di risolvere il concorso di norme nel senso dell’apparenza, con conseguente applicabilità della sola norma penaltributaria, ben in grado, per le maggiori pene comminate, di ‘‘coprire’’ l’intero disvalore del fatto che, pur se orientato alla compromissione degli interessi fiscali dello Stato, possiede indubbiamente idoneità lesiva nei confronti di un’ampia gamma di ulteriori interessi (21). (21) È bene chiarire che con ciò non si vuole aderire alla tesi della natura plurioffensiva del delitto di cui all’art. 2621 c.c. La plurioffensività sussiste infatti quando un reato protegge necessariamente una pluralità di beni giuridici e per la sua sussistenza richiede che tutti vengano offesi. Fenomeno che, all’evidenza, non ricorre affatto in relazione al delitto in questione la cui natura plurioffensiva è da molti sostenuta nel presupposto che esso possa alternativamente offendere l’uno o l’altro degli interessi che nella realtà economico sociale
— 714 — Nel caso in cui, invece, il falso sia intenzionalmente volto a risultati diversi dalla evasione fiscale (ad es. a convincere un gruppo di soci di minoranza che la società naviga in cattive acque, per indurli a cedere le quote a prezzo ‘‘stracciato’’), che non costituisce dunque lo scopo dell’azione, ma viene tenuta in conto come conseguenza certa (dolo diretto) o anche solo possibile (dolo eventuale), troverà applicazione unicamente l’art. 2621 c.c. La scelta legislativa di limitare la rilevanza penale della dichiarazione fraudolenta alle sole ipotesi sorrette da dolo intenzionale di danno non lascia spazio a soluzioni diverse. GIOVANNI FLORA Ordinario di Diritto Penale nell’Università di Firenze
possono venire in concreto compromessi dal falso in bilancio. Trattasi dunque di tesi che ci pare gravemente errata, ancorché sostenuta, forse per uno di quegli abbagli che a tutti possono capitare, anche autorevolmente.
BREVI SPUNTI SULLA RIFORMA DEL TENTATIVO (*)
SOMMARIO: 1. Recenti tendenze di riforma in materia di delitto tentato. — 2. La ‘‘non impossibilità’’ del fatto come criterio sostitutivo rispetto all’ ‘‘idoneità’’ della condotta. — 3. Verso il ‘‘ritorno’’ alla formula degli ‘‘atti esecutivi’’; necessità di affiancare a tale requisito il riferimento alla ‘‘non equivocità’’ della condotta di tentativo.
1. La problematica della struttura e dei limiti di rilevanza della fattispecie del delitto tentato vanta un sicuro primato nell’ambito delle scienze penalistiche: quello della difficoltà, pressoché insuperabile, di elaborare una formula normativa idonea ad identificarne gli estremi secondo criteri di valutazione dotati di un sufficiente grado di coerenza e di attendibilità sotto il profilo sistematico e pratico-applicativo (1). Ancora di recente, la dottrina continua ad interrogarsi, per vero, non soltanto sui contenuti specifici da attribuire ai due requisiti dell’idoneità e della non equivocità degli atti, ma anche, ed in misura crescente, sulla stessa possibilità di ravvisare nella disciplina attuale i presupposti essenziali per poter assicurare alla disposizione un livello di determinatezza e di (*) Scritto destinato agli Studi in onore di Antonio Cristiani. (1) In argomento, sotto molteplici profili ed angolazioni, cfr. ALIMENA F., L’attività esecutiva nel tentativo, in Foro it., 1936, IV, c. 105 ss.; CARACCIOLI, Manuale di diritto penale, PG, 1998, p. 443 ss.; CAVANNA, Il problema delle origini del tentativo nella storia del diritto italiano, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Genova, 1970, pp. 77 ss., 112 ss.; DEL CORSO, Il tentativo nel Codice Zanardelli, in questa Rivista, 1990, p. 955 ss.; ID., Atti preparatori ed atti esecutivi nel pensiero di Francesco Carrara, ivi, 1990, p. 148 ss.; DELOGU, La struttura del reato tentato, in Annali dir. proc. pen., 1937, p. 559 ss.; GALLO, Le forme del reato, 1967, 52 ss.; GIACONA, Il concetto d’idoneità nella struttura del delitto tentato, 2000, pp. 21 ss., 37 ss., 218 ss., 369 ss., 389 ss.; MALINVERNI, Il tentativo punibile, in Scuola pos., 1967, p. 413 ss.; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, I, 19992, pp. 384 s., 448 ss.; MORSELLI, voce Tentativo, in Dig. disc. pen., XIV, p. 191 ss.; ID., Condotta ed evento nella disciplina del tentativo, in questa Rivista, 1998, p. 36 ss.; NEPPI MODONA, Il reato impossibile, 1973, pp. 167 ss., 181 ss., 380 ss.; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, 19952, p. 550 ss.; SCARANO, Il tentativo, 19602, pp. 204 ss., 239 ss., 257 ss.; SEMINARA, Spunti per una riforma in tema di tentativo, in Verso un nuovo codice penale, 1993, p. 441 ss., SINISCALCO, La struttura del delitto tentato, 1959, pp. 114 ss., 180 ss.; ID., voce Tentativo, in Enc.giur. Treccani, XXX, p. 1 ss.; VANNINI, Il problema giuridico del tentativo, 1952, pp. 23 ss., 49 ss., 83 ss.; VASSALLI, La disciplina del tentativo, in Convegno nazionale di studio su alcune fra le più urgenti riforme del diritto penale, 1961, p. 221 ss.
— 716 — capacità di adeguarsi alle singole situazioni concrete suscettibili di armonizzarsi con il volto di un sistema penale razionale ed ispirato al rispetto dei principi costituzionali. Le ultime iniziative di riforma del codice penale — dal c.d. Progetto Pagliaro (2) al Progetto Riz (3), al Progetto preliminare di una nuova parte generale elaborato dalla c.d. Commissione Grosso (4) — si fanno carico, in varia guisa, del compito di fronteggiare un simile stato d’insoddisfazione, giungendo a proporre soluzioni destinate a discostarsi, talora in maniera radicale, dall’assetto normativo tuttora in vigore. Al proposito, possono distinguersi due fondamentali linee di tendenza. Da un lato (come si desume dal Progetto Pagliaro (5) e dal Progetto Riz (6)) la formula attuale non viene ad essere sostanzialmente abbandonata, bensì, sul presupposto della sua parziale inadeguatezza a circoscrivere in maniera sufficientemente rigorosa i coefficienti di ‘‘riconoscibilità’’ della condotta di tentativo, ulteriormente delimitata nei suoi contenuti, sia sotto il profilo della ‘‘materialità’’ del fatto, sia sotto quello del relativo elemento psicologico. Sotto il primo profilo, per vero, ci si preoccupa di arricchire i contenuti tipici del requisito della ‘‘non equivocità’’ degli atti, richiedendosi che la ‘‘direzione’’ degli stessi verso il delitto appaia suscettibile di venire constatata ‘‘oggettivamente’’. Sotto il secondo aspetto, poi, viene ad essere esclusa expressis verbis la rilevanza del dolo nella sua forma ‘‘eventuale’’, mediante la precisazione secondo la quale il delitto cui il tentativo si riferisce deve essere ‘‘intenzionalmente’’ perseguito, ovvero (nel Progetto Pagliaro) anche prefigurato ‘‘con certezza’’. Si tratta indubbiamente di due modifiche di rilevante portata, ma che (2) Cfr., in proposito, il Quaderno n. 9 de L’Indice penale, dal titolo Per un nuovo codice penale, a cura di PISANI, 1993, p. 26 ss. (per un’approfondita analisi al riguardo cfr. i contributi di ANGIONI, ARDIZZONE, FIANDACA, FIORE, FIORELLA, FLORA, GALLO, GROSSO, MANTOVANI, MARINUCCI, NEPPI MODONA, PAGLIARO, PALAZZO, PALIERO, PEDRAZZI, PROSDOCIMI, PULITANÒ, VASSALLI, in Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, 1996, pp. 113, 165, 237, 265, 259, 17, 125, 91, 139, 181, 29, 159, 73, 205, 293, 171, 223, 5). Il progetto in questione (sotto forma di schema di disegno di legge-delega) risultava comprensivo anche della parte speciale, e si faceva ammirare per la coerenza e per il rigore della sua trama complessiva e delle singole soluzioni proposte. (3) Vedilo in questa Rivista, 1995, p. 973 ss. (4) Cfr. Articolato http:/www.giustizia.it/studierapporti/riformacp/commgrosso2art.ht, settembre 2000. Anteriormente, cfr. la (prima) Relazione della Commissione ministeriale, in Per un nuovo codice penale, II, a cura di GROSSO, Quaderno n.12 de L’indice penale, 2000, p. 1 ss. L’elaborato in questione, nel tener conto anche dei due progetti precedenti, e soprattutto di quello redatto dalla Commissione Pagliaro, presenta, nondimeno, importanti profili innovativi, tra i quali si segnalano, ad es., oltre alla disciplina delle sanzioni, la ‘‘tipizzazione’’ delle posizioni di garanzia e la responsabilità delle persone giuridiche. (5) Cfr. art. 19. (6) V. art. 54.
— 717 — non giungono, tuttavia, ad eliminare i tradizionali (e per quanto controversi) parametri di delimitazione della sfera di punibilità del tentativo, risultando, piuttosto, preordinate ad eroderne ‘‘dall’interno’’, per così dire, l’ambito di estensione (come accade relativamente al dolo eventuale) ovvero ad esplicitarne maggiormente i coefficienti di riconoscibilità, al fine di sottrarre la figura a possibili (ed in verità, ricorrenti) interpretazioni in chiave esclusivamente (o prevalentemente) ‘‘soggettivistica’’, come accade con riguardo al connotato strutturale della non equivocità degli atti. L’altra tendenza — espressa in forma emblematica dalla soluzione contenuta nell’articolato della Commissione Grosso (7) — si pone invece sulla linea di un deciso superamento della situazione esistente, mediante, per un verso, il ‘‘ritorno’’ a modelli normativi vigenti in Italia anteriormente all’avvento del Codice Rocco, ma, per altro verso, attuando una loro ‘‘rivisitazione’’, per così dire, in una prospettiva di maggiore modernità, grazie al collegamento, cui la Commissione ha attribuito, in questo settore, particolare importanza, con le esperienze maturate in altri ordinamenti, sovente recepite in codici penali di recente emanazione. L’art.43 dell’articolato risulta concepito, in particolare, alla stregua della seguente formula: ‘‘chi intraprende l’esecuzione di un fatto previsto dalla legge come delitto tentato, o si accinge ad intraprenderla con atti immediatamente antecedenti, risponde di delitto tentato se l’azione non si compie o l’evento non si verifica’’; soggiunge, inoltre, il comma 3 dell’articolo: ‘‘la punibilità per delitto tentato è esclusa quando, per l’inidoneità della condotta o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile la consumazione del delitto’’. Com’è agevole constatare, il tenore della disposizione lascia emergere un triplice profilo di particolare interesse, in cui si riassume il senso e la portata dell’innovazione scaturita dall’intervento riformatore. In primo luogo, appare evidente la scelta di tornare a postulare il requisito del carattere ‘‘esecutivo’’ degli atti posti in essere, con ciò pervenendosi all’eliminazione del connotato che, rispetto al tenore del codice penale del 1889 (ed, in precedenza, del codice francese del 1810 e dei codici italiani preunitari) era venuto a ‘‘surrogarne’’ — almeno secondo le opinioni prevalenti (8) — il ruolo e la finalità nell’economia della fattispecie: vale a dire il carattere non equivoco della condotta rivolta alla commissione del delitto. In secondo luogo, il confronto con l’esperienza comparata (e soprat(7) Cfr. art. 43. Sui criteri di orientamento della Commissione Grosso, in chiave critica, cfr. GIULIANI-BALESTRINO, Sull’inizio della punibilità a titolo di delitto tentato, in Ind. pen., 2000, p. 448 ss. (8) V. SINISCALCO, La struttura, cit., p. 91 ss., e più recentemente MORSELLI, Tentativo, cit., p. 195 s., nonché GIACONA, Il concetto, cit., p. 410 ss., con ulteriori, amplissimi riferimenti ai lavori preparatori e all’elaborazione della dottrina in materia.
— 718 — tutto con le formule adottate nei codici penali tedesco (9) e austriaco (10)) ha suggerito, tuttavia, di postulare l’incriminabilità anche di atti ‘‘immediatamente antecedenti’’ all’esecuzione, al fine di impedire il risultato di mandare esenti da pena anche quei comportamenti c.d. ‘‘pretipici’’ (11) (quali, ad es., lo scavalcare un muro di cinta, l’entrare in una banca con una pistola già pronta per l’uso, il puntare l’arma verso la vittima predestinata, e così via dicendo), i quali, per quanto non riconducibili ictu oculi agli estremi della condotta normativamente delineata, vengono generalmente ritenuti meritevoli di dar luogo ad un tentativo, in virtù della loro attuale pericolosità e ‘‘prossimità’’ rispetto alla realizzazione dell’offesa. In terzo luogo, merita di essere posta in evidenza la scelta di sopprimere il riferimento al parametro dell’ ‘‘idoneità’’ della condotta di tentativo, unita ad un’opzione favorevole ad attribuire rilevanza alla capacità di realizzare l’offesa sotto forma di requisito operante in chiave ‘‘negativa’’, per così dire, e cioè nei termini dell’ ‘‘impossibilità di consumazione’’ del delitto avuto di mira dall’autore del tentativo. 2. Senza pretendere di esprimere alcuna opinione definitiva (o comunque particolarmente approfondita) in merito alle differenti soluzioni or ora ricordate, non può negarsi, tuttavia, come le cennate proposte di riforma della disciplina del tentativo vengano a presentare tali e tanti motivi di suggestione, da rendere davvero difficile sottrarsi alla tentazione di spendere qualche parola al riguardo, se non altro allo scopo di cercare di escerpire da tali proposte le basi per una riflessione meno condizionata da quelle preoccupazioni sul piano ermeneutico (12) che hanno sinora affati(9) Cfr., in proposito, tra gli altri, RUDOLPHI, in RUDOLPHI-HORN-SAMSON-GÜNTHER, Systematischer Kommentar zum StGB, A.T., I, 19936, par. 22, p. 8 ss., e, più recentemente, ESER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, StGB Kommentar, 199725, par. 22, p. 340 ss.; TRÖNDLE-FI49 SCHER, Strafgesetzbuch und Nebengesetze, 1999 , par. 22, p. 160 ss. (10) Al riguardo cfr. FOREGGER-FABRIZY, StGB und ausegewählte Nebengesetze, 19997, p. 81 ss. (11) Sul punto, cfr. la Relazione (http:/www.giustizia.it/studierapporti/ riformacp/comm-grosso-2.ht) al Progetto indicato in nt. 4, p. 38. In essa viene ricordato, ad ulteriore conferma della plausibilità della scelta effettuata, anche l’orientamento seguito dal codice portoghese (cfr. art. 22). Sulle linee ispiratrici di tale codificazione, cfr. le autorevoli considerazioni di FIGUEIREDO DIAS, Introduzione, in Il codice penale portoghese (trad. Torre), 1997, p. 21 ss. (12) Un esauriente quadro d’insieme delle problematiche interpretative connesse alla disciplina del tentativo è recentemente offerto da DEL CORSO, Commento agli artt. 49 e 56 c.p., in Codice penale, a cura di PADOVANI, 20002, pp. 263 ss., 318 ss.; FIANDACA-COSENTINO, Commento all’art. 56 c.p., in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, 19993, p. 223 ss.; come pure da LAGO e RIVA, rispettiv. sub artt. 49 e 56 (A), e sub art. 56 (B), in Codice penale commentato, PG, a cura di DOLCINI e MARINUCCI, 1999, pp. 387 ss., 543 ss., 569 ss.
— 719 — cato tutti coloro che, a vario titolo, sono stati costretti a confrontarsi con la formula del codice vigente. Prescindendo, in questa sede, dal tornare a soffermarsi sul profilo psicologico della fattispecie, in ordine al quale l’esclusione del dolo eventuale come coefficiente d’imputazione (desumibile, nei Progetti Pagliaro e Riz, dalle stesse norme sul tentativo, e, nel Progetto Grosso, dalla disposizione generale dell’art. 30) appare ormai conforme all’opinione più diffusa ed accreditata (13), preme piuttosto gettare uno sguardo sull’elemento oggettivo del delitto tentato, quale verrebbe a configurarsi alla luce delle innovazioni contenute negli elaborati progettuali. In particolare, sembra, in primo luogo, doversi manifestare un atteggiamento di convinta adesione alla scelta, contenuta nell’ultimo Progetto, di eliminare dalla figura del tentativo il richiamo al requisito dell’idoneità degli atti. Nonostante che la tesi contraria sia stata sostenuta, in tempi recentissimi, con ampie ed approfondite argomentazioni (14), pare maggiormente plausibile, in effetti, l’idea di configurare ‘‘in negativo’’ — e cioè in chiave di inidoneità e di ‘‘impossibilità’’ di realizzazione del fatto — il tradizionale connotato di ‘‘adeguatezza’’ attribuito al tentativo. Anzitutto, sotto un profilo di ‘‘determinatezza’’ della fattispecie, il ricorso ad un giudizio in termini ‘‘probabilistici’’ si presta ad ingenerare incertezze e dispute sottili (15) — assai poco auspicabili in sede giudiziaria — circa in quantum di possibilità rilevante espresso dalla condotta criminosa, come dimostra del resto la stessa circostanza, da più parti messa in luce (16), che nell’applicazione pratica (e, talora, al di là delle formule utilizzate, nelle stesse enunciazioni dottrinali) (17) il connotato probabilistico finisce col risultare oggetto di un riconoscimento e di un richiamo di pura ‘‘manie(13) Cfr., da ultimo, PAGLIARO, Principi di diritto penale, PG, 20007, p. 510 s., nonché GIACONA, Il concetto, cit., pp. 448 ss., 453. Per la giurisprudenza cfr. DEL CORSO, Commento all’art. 56, cit., p. 326 ss. e LAGO, sub art. 56 (A), cit., p. 554 s. Per una più ampia analisi del problema cfr., in precedenza, volendo, DE FRANCESCO G.A., Forme del dolo e principio di colpevolezza nel delitto tentato, in questa Rivista, 1988, p. 969 ss., con ulteriori riferimenti. (14) Cfr. GIACONA, Il concetto, cit., pp. 127 ss., 203 ss. (15) Lo riconosce anche GIACONA, Il concetto, cit., p. 203 ss. (16) Cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, PG, 19953, p. 415; GIACONA, Il concetto, cit., p. 33 ss., e, per i richiami di giurisprudenza, p. 35 nt. 28. Già in precedenza, SINISCALCO, La struttura, cit., p. 184, poneva in risalto l’intrinseca problematicità di un giudizio di idoneità spinto oltre la soglia della possibilità di realizzazione del fatto. (17) Sul punto, cfr. i rilievi di FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 415. Indicativa in proposito l’ ‘‘elasticità’’ delle formule proposte in un recente, autorevole commentario; cfr. ROMANO, Commentario, cit., p. 555, dove il connotato in esame viene identificato con un’ ‘‘attitudine offensiva’’ implicante una ‘‘significativa (congrua, rilevante) potenzialità di danno’’.
— 720 — ra’’ (18), quando, non addirittura, praticamente tralasciato a livello di verifiche empiriche, proprio a causa della difficoltà di operare al riguardo valutazioni prognostiche capaci di raggiungere un sufficiente grado di attendibilità. D’altronde — ed ecco un ulteriore profilo, peraltro non privo di connessioni con quanto sinora premesso — pare difficile negare come il riferimento all’idoneità, se potrebbe, in ipotesi, apparire plausibile con riguardo ad una prognosi causale circa il verificarsi di un evento, mal si adatta, a ben guardare, a svolgere una funzione realmente significativa nell’ambito dei reati di pura condotta (od, almeno in taluni casi, in quelli con processo esecutivo comunque in itinere); al qual proposito, il richiamo, da taluno effettuato, ad un giudizio di ‘‘rilevante possibilità’’ fondato sull’adeguatezza alla ‘‘prosecuzione’’ dell’iter criminis (19), rischia di apparire artificioso, risultando esso fondato, più che su di una prognosi di tipo oggettivo, sull’ ‘‘intenzione’’ dell’agente di proseguire nella condotta, sulla sua ‘‘disponibilità’’, per così dire, a concludere l’esecuzione del fatto. In tali casi, insomma (si pensi all’essere il soggetto penetrato in un’abitazione a scopo di furto), potrebbe risultare sufficiente (salvo quanto si osserverà tra breve) il riferimento al carattere non equivoco dell’atto prossimo all’esecuzione, essendo questo un connotato già idoneo ad esprimere il dinamismo dell’azione volta al conseguimento dell’esito. Certo, potranno ben darsi situazioni tali da rappresentare dei fattori ostacolanti rispetto alla possibilità di realizzare il fatto (si pensi ad una cassaforte blindata, rispetto alla quale il mezzo prescelto si riveli ictu oculi radicalmente inidoneo). Ma, allora, sembra davvero miglior partito quello di introdurre una previsione formulata piuttosto in chiave ‘‘negativa’’, e cioè diretta ad escludere la punibilità tutte le volte in cui l’esito finisse con l’apparire impossibile, a causa dell’inidoneità dell’azione o dell’inesistenza dell’oggetto (20). Una previsione che, peraltro, potrebbe (18) Osserva GIACONA, Il concetto, cit., p. 35, come dall’esame della giurisprudenza si evinca ‘‘l’impressione che si tratti spesso di formule vuote, prese a mutuo senza troppa convinzione dalla dottrina per esigenze di correttezza formale della motivazione’’. (19) Cfr. PADOVANI, Diritto penale, 19995, p. 358. (20) Su di un’analoga prospettazione, volta a collegare, de iure condito, il dettato dell’art. 49 con quello dell’art. 56 c.p., insiste particolarmente ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, 19942, p. 258 ss., il quale si premura, altresì, di delucidare i contenuti della nozione di ‘‘possibilità’’, in maniera tale da renderli conformi alle esigenze applicative (cfr. pp. 264-265). Censurabile appare, tuttavia, l’idea dell’Autore di ‘‘anticipare’’ la soglia della condotta penalmente rilevante (cfr. ID., Il pericolo, cit., p. 308) fino a colpire atti che, a nostro avviso, rischiano di andare ad incidere nella sfera della ‘‘preparazione’’ del reato. Sui rapporti tra gli artt. 49 e 56 c.p. cfr. pure, ma con diverse soluzioni, DONINI, Teoria del reato, 1996, p. 173 ss.; GRANDE, Gli artt. 49, comma 2 e 56 c.p. rivisitati, in questa Rivista, 1991, p. 1258 ss. La dottrina più recente si va sempre più orientando, peraltro, a favore dell’esistenza di un rapporto di collegamento tra l’art. 56 e l’art. 49, sembrando ormai destinata ad un pro-
— 721 — eventualmente risultare preferibile anche in relazione all’altra ipotesi sopra menzionata, concernente, cioè la possibilità del verificarsi di un evento. Nè, d’altro canto, una soluzione del genere, fondandosi sul riferimento alla ‘‘non impossibilità’’ del risultato, rischierebbe di rivelarsi eccessivamente rigorosa, una volta sostituita la categoria della probabilità con quella della possibilità di commissione del reato. Ed invero, come si è sottolineato in dottrina, la maggiore ragionevolezza del criterio della possibilità implica, al contempo, la necessaria adozione di un giudizio a base totale (21), il quale tenga conto di tutte le circostanze presenti al momento della condotta, sia pur acclarate successivamente; di modo che, alla maggiore ampiezza del giudizio ‘‘in negativo’’ (nei termini di non impossibilità) farà da contrappeso la massima estensione della base del giudizio, con effetti anche favorevoli all’autore del fatto (si pensi al noto esempio della tasca vuota presa di mira da un borseggiatore, od alla condotta di chi si accinga a sparare con un’arma scaricata pochi istanti prima del compimento dell’azione). In realtà, il pericolo di addivenire a soluzioni repressive di eccessivo rigore potrebbe, tutt’al più, delinearsi in alcune situazioni che, ad avviso di una parte della dottrina, meriterebbero (pur sempre) di condurre all’impunità dell’autore del fatto: situazioni nelle quali — per l’appunto — anche adottando un criterio di valutazione a base totale, la (mera) ‘‘possibilità’’ di realizzazione dell’illecito non sarebbe tale, secondo un giudizio ex ante, da potersi considerare categoricamente esclusa. Così, a proposito dei casi di c.d. ‘‘predisposizione della forza pubblica’’ (22), una, sia pur ridotta, chance di eludere l’ostacolo frapposto potrebbe, nelle circostanze date, considerarsi ugualmente riscontrabile. Ed in effetti, diversamente da quanto viene da più parti affermato (23), nella casistica in esame il progressivo ridimensionamento la tesi (cfr., per tutti, BRICOLA, Teoria generale del reato, ora in Scritti di diritto penale, I, 1, 1997, pp. 741 ss., 772) favorevole ad includere nell’ambito dell’art. 49 c.p. il riconoscimento di un principio generale di offensività del reato; cfr., oltre gli autori citati in nota 21, FIANDACA, Note sul principio di offensività e sul ruolo della teoria del bene giuridico tra elaborazione dottrinale e prassi giudiziaria, in Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, a cura di STILE, 1991, p. 72 ss.; PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 479 ss. V. inoltre i dubbi espressi da uno studioso anteriormente dedito a sostenere con particolare convinzione l’interpretazione dell’art. 49 c.p. in chiave di necessaria offensività: NEPPI MODONA, voce Reato impossibile, in Dig. disc. pen., XI, p. 279. Per un quadro sintetico, ma esaustivo, dell’intera questione, v., d’altronde, l’analisi di ROMANO, Commentario, cit., p. 479 ss. (21) Cfr. ANGIONI, Il pericolo, cit., p. 299 ss.; DE MAGLIE, L’agente provocatore, 1991, p. 337 s.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 432 s.; MARINUCCI, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in questa Rivista, 1983, p. 1223 ss., nt. 124bis. Peraltro, la coesistenza di una siffatta opzione circa la base del giudizio con il criterio della ‘‘possibilità’’ di realizzazione del fatto (oltre a non risultare motivata con le medesime argomentazioni svolte nel testo) appare postulata nella sola opera di Angioni. (22) In merito ai quali cfr., tra gli altri, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 433; MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., p. 1225, nt. 124-bis. Quanto alla giurisprudenza cfr., per tutti, le indicazioni di DEL CORSO, Commento all’art. 49 c.p., cit., p. 267. (23) Cfr., ad es., MANTOVANI, Diritto penale, PG, 19923, p. 445; MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., p. 1224 s., nt. 124-bis.
— 722 — blema non attiene propriamente a circostanze valutabili per il solo fatto della loro esistenza al momento della condotta: il significato della predisposizione della forza pubblica si colloca, in realtà, in una dimensione ancora ‘‘ipotetica’’, per così dire, riferita, cioè, al momento — necessariamente successivo — in cui l’azione intrapresa dovrà ‘‘misurarsi’’ con l’ostacolo che si era inteso frapporre al suo compimento. La questione non riguarda, insomma, un profilo destinato ad esaurirsi all’interno della logica della base del giudizio, protendendosi, invece, verso l’ulteriore profilo concernente — in una chiave di sviluppo ‘‘dinamico’’, per così dire — la ‘‘misura’’ della possibilità di successo del piano predisposto dall’autore del fatto. Ma, se la premessa appare corretta, non v’è dubbio, allora, che una soluzione orientata tout court nel senso dell’impunità della condotta di tentativo non possa essere adottata senza alcuna riserva o limitazione. Il massimo che si può concedere — in presenza di situazioni nelle quali le chances di realizzare il fatto appaiano particolarmente ridotte — consisterà allora nella scelta di apprestare una risposta sanzionatoria di più lieve entità, del resto attuabile grazie ad un procedimento di commisurazione della pena collegato alla previsione di un ‘‘compasso edittale’’ adeguato a far fronte a simili circostanze. 3. Ma veniamo adesso a svolgere qualche breve considerazione circa l’ulteriore requisito del tentativo, in cui si esprime tradizionalmente il superamento delle fasi dell’iter criminis ancora inidonee a rendere riconoscibile la ‘‘direzione’’ della condotta verso la commissione del reato. A tale riguardo, tuttavia, l’annosa questione (24) se debba considerarsi preferibile il richiamo all’ ‘‘univocità’’ (sia pure intesa in senso obiettivo) del comportamento esplicato, ovvero il più impegnativo e ‘‘cogente’’ ricorso al parametro del carattere ‘‘esecutivo’’ degli atti posti in essere, rischia, a ben guardare, di risolversi in un’alternativa dagli sviluppi non facilmente decifrabili. Ed invero, qualora si sottolinei che il carattere non equivoco dell’atto deve tradursi in una dimensione ‘‘esteriormente’’ (25) apprezzabile in relazione al tipo di delitto avuto di mira dall’agente — e tale, in particolare, da postulare un coefficiente di progressione e di ‘‘avvicinamento’’ alla meta criminosa connotato da una chiara ed evidente ‘‘riconoscibilità’’ (26) — l’unico elemento differenziale rispetto alla soluzione contrapposta dovrebbe consistere nella circostanza che quest’ultima (24) Per una rigorosa sintesi al riguardo cfr., da ultimo, la Relazione citata in nt. 11, p. 37 ss. (25) Particolarmente perspicui, in argomento, i rilievi svolti da PAGLIARO, Principi, cit., p. 521 s. (26) In tal senso cfr. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 447; ROMANO, Commentario, cit., p. 557 s.
— 723 — richiede che la condotta sia già ‘‘entrata’’, per così dire, nell’ambito della fattispecie tipica, mentre ‘‘univoco’’ potrebbe risultare, in effetti, anche un comportamento (sia pure) soltanto prossimo all’esecuzione. Senonché, di fronte alla proposta — contenuta nel Progetto Grosso, e peraltro difficilmente contestabile, pena l’eccessivo restringimento della sfera della punibilità — di estendere il tentativo anche ad atti destinati a collocarsi in una posizione di (sia pur stretta) ‘‘anticipazione’’ rispetto al momento propriamente ‘‘esecutivo’’ del reato, v’è da domandarsi se le due prospettive di soluzione possano ancora considerarsi (almeno finché si resti all’interno del dibattito tradizionale) realmente suscettibili di condurre ad esiti applicativi tra loro differenziati. Da tale angolo visuale, la scelta tra le due soluzioni potrebbe, in ultima analisi, considerarsi ispirata da preoccupazioni essenzialmente collegate all’attitudine della locuzione proposta ad attingere un potenziale evocativo e ‘‘simbolico-espressivo’’, per così dire, particolarmente intenso e caratterizzante: dovendosi, allora, eventualmente optare a favore di quella — nel nostro caso, corrispondente alla formula del Progetto Grosso — maggiormente dotata della capacità di evidenziare il coefficiente di ‘‘prossimità’’ degli atti posti in essere rispetto alla concreta verificazione del risultato offensivo. Senonché — ed al di là di una scelta destinata ad esaurire la propria rilevanza soprattutto su di un piano linguistico-lessicale — un’analisi più approfondita della tematica in oggetto consente di porre in evidenza come l’alternativa or ora ricordata lasci scoperto un lato della questione, che si rivela, ad un più attento esame, d’importanza fondamentale per cogliere e valorizzare una gamma di opzioni a livello di tecnica normativa suscettibile di protendersi ben oltre i confini delle proposte di soluzione finora avanzate. A ben guardare, i parametri, da un lato, della ‘‘non equivocità’’ dell’atto, dall’altro lato del suo carattere ’’esecutivo’’ (o ad esso equiparabile) nei confronti di una fattispecie delittuosa, potrebbero risultare, in effetti, maggiormente idonei a svolgere la loro funzione connotativa dello specifico disvalore dell’illecito, laddove venissero considerati, non già in un’ottica di ‘‘alternatività’’, bensì, all’opposto, in una prospettiva tale da ‘‘cumularne’’ i profili di rilevanza, in modo da attribuire al primo di essi un ruolo ‘‘complementare’’ rispetto all’altro, suscettibile, per ciò stesso, di sottolinearne ed evidenziarne il potenziale di orientamento sul piano ‘‘teleologico’’ rispetto all’esito offensivo che l’agente si proponeva di conseguire. In particolare, sembra di poter affermare come, mentre il requisito del carattere ‘‘esecutivo’’ (in senso lato) dell’atto posto in essere sia destinato a svolgere la funzione ‘‘preliminare’’, per così dire, di sancire l’ ‘‘ingresso’’ di una condotta umana nel mondo dei giudizi di valore (o di di-
— 724 — svalore) propri di un ordinamento penale, il connotato della ‘‘non equivocità’’ di tale comportamento debba essere concepito come la ragione ed il fondamento per un procedimento di ‘‘selezione’’ ulteriore, il quale si riveli idoneo ad orientare il significato dell’attività esplicata in direzione di un ‘‘tipo’’ delittuoso colto in una dimensione di più circoscritta e specifica rilevanza a livello di (singole) scelte incriminatrici. In tale prospettiva, il parametro della non equivocità degli atti, che ha corso sovente il rischio di apparire eccessivamente ‘‘elastico’’ e manipolabile — fino al punto da rendersi disponibile ad operazioni ermeneutiche volte ad accentuarne una dimensione essenzialmente soggettivistica — pare destinato, al contrario, ad esprimere una funzione di ancor più intensa caratterizzazione in chiave obiettiva del comportamento concretamente intrapreso dall’autore del fatto; proprio in quanto ‘‘preceduto’’ e condizionato dal ruolo ‘‘esecutivo’’ della condotta esplicata dall’agente, il suo contributo alla definizione del tentativo verrà ad esprimersi in un’ulteriore precisazione e delimitazione della soglia della punibilità in direzione della consumazione dell’illecito (e non più, come accade quando venga richiesto in forma esclusiva, in un pericoloso ‘‘arretramento’’ dei confini della repressione, secondo gli obiettivi originariamente perseguiti dal legislatore del ’30 (27)). La dinamica dei rapporti tra i due profili strutturali or ora delineati si coglie con particolare evidenza, laddove si consideri che perfino l’inizio di una condotta dotata di rilevanza ‘‘tipica’’ potrebbe non ancora denotare uno specifico orientamento ‘‘teleologico’’ (obiettivamente riscontrabile) nei confronti dell’esito delittuoso destinato a figurare quale termine di riferimento del tentativo: si pensi soltanto ad una condotta di percosse, integrativa del requisito della ‘‘violenza’’, il quale potrebbe risultare strumentalmente connesso a fattispecie tra loro assai diverse, e rispetto alle quali la sola ‘‘finalità’’ (soggettiva) perseguita potrebbe, d’altronde, rivelarsi non decisiva; così, nel caso di percosse volte ad attuare una congiunzione carnale, il ‘‘contesto’’ obiettivo delle circostanze potrebbe non rivelare una proiezione ‘‘esterna’’ del volere significativa rispetto all’esito perseguito (diverso sarebbe il caso in cui l’agente avesse, ad es., strappato le vesti alla vittima, o l’avesse immobilizzata, in guisa tale da rendere più agevole il compimento dell’atto sessuale). Per questa via, finirebbe, inoltre, col ricevere soluzione anche il problema, spesse volte dibattuto, concernente taluni casi di c.d. ‘‘concorso’’ tra più fattispecie, delle quali, tuttavia, soltanto una potrebbe eventualmente meritare di essere concretamente applicata. Si afferma, ad es., sempre con riguardo alla violenza car(27) Obiettivi, la cui sostanza, sia pure attraverso il filtro di un’analisi ermeneutica più ricca ed articolata, può evincersi, ad es., dal noto studio di DELOGU, La struttura, cit., p. 553 ss.
— 725 — nale, che il ‘‘trattenimento’’ della vittima per compiere l’atto sessuale, pur potendo ricondursi sotto lo schema del sequestro di persona, debba assumere rilevanza esclusivamente secondo il titolo della violenza sessuale, laddove siffatta privazione della libertà sia stata limitata (o si sia inteso limitarla) al tempo ‘‘necessario’’ ad eseguire tale ultimo delitto (28). A questo proposito, è stato, tuttavia, giustamente obiettato come la ‘‘semplice immobilizzazione o ritenzione della persona’’ con la finalità di sottoporla a violenza carnale non possa essere ‘‘qualificata’’ tout court alla stregua dell’una o dell’altra (o di entrambe) le predette figure delittuose, in assenza di una più compiuta verifica delle attività, ‘‘anche contestuali’’, suscettibili di apparire oggettivamente preordinate alla commissione dell’illecito. In definitiva, si è concluso, ‘‘la differenza non è semplicemente quantitativa (durata della privazione della libertà personale) bensì qualitativa’’, in quanto, per l’appunto, necessariamente subordinata al ‘‘diverso atteggiarsi della condotta’’ rispetto al risultato che si tratta di imputare (in forma consumata o tentata) all’autore del fatto (29). E, del resto, ad ulteriore conferma della dimensione ‘‘obiettiva’’ del giudizio circa la non equivocità dell’atto, deve osservarsi come — per proseguire ancora nell’esempio — una condotta di violenta privazione della libertà personale (si pensi ad un’azione consistente nel caricare con forza la vittima all’interno di un’autovettura), e sia pur finalizzata ad un esito di costrizione sessuale, non potrebbe, in assenza di ulteriori riscontri esterni, venire qualificata alla stregua di quest’ultima fattispecie, dovendo, semmai, considerarsi maggiormente idonea ad esprimere i connotati tipici di un tentativo di sequestro di persona. Infine, ed a maggior ragione, (anche) gli atti con i quali il soggetto ‘‘si accinga’’ — senza averla ancora intrapresa — a porre in essere una condotta (sia pur parzialmente) tipica dovranno essere necessariamente accompagnati, affinché la ‘‘diagnosi’’ della fattispecie di tentativo possa ritenersi correttamente operata, da una valutazione ulteriore in termini di ‘‘univocità’’ rispetto al delitto programmato; il fatto, ad es., di entrare nottetempo, muniti di strumenti da scasso, nell’abitazione di un ricco banchiere, il quale abbia cosparso le stanze della propria villa di preziosi oggetti d’arte, potrà risultare punibile a titolo di tentativo di furto (anche se questo venga, in ipotesi, escluso per mancanza del relativo dolo), ma non di tentativo di lesioni a danno del proprietario della villa, mancando, a (28) Per riferimenti al riguardo cfr. PAVONCELLO SABATINI, voce Violenza carnale, in Enc. giur. Treccani, XXXII, p. 11; PROVERBIO, Commento all’art. 609-bis c.p., in Codice penale commentato, PS, a cura di DOLCINI e MARINUCCI, 1999, p. 3179. (29) Cfr. PAVONCELLO SABATINI, Violenza carnale, cit., p. 11, la quale, tuttavia, nel momento di verificare l’ammissibilità o meno di un concorso materiale tra i due reati, non sembra utilizzare correttamente la pur esatta intuizione che si è cercato di esprimere mediante le osservazioni svolte nel testo.
— 726 — tale riguardo, gli estremi di una condotta idonea ad esprimere oggettivamente il suo orientamento ‘‘non dubbio’’ (e per l’appunto, inequivoco) rispetto alla fisionomia caratterizzante il delitto di lesioni personali (30). In conclusione, e sia pure al solo scopo di rendere maggiormente ‘‘visibile’’ l’itinerario e la chiave di soluzione che si è inteso sviluppare finora, si ritiene opportuno abbozzare una possibile formula normativa, attraverso la quale l’auspicata delimitazione dei confini del tentativo potrebbe, forse, risultare più intensamente salvaguardata, venendo a costituire, al contempo, un efficace criterio di orientamento per le scelte da operare in sede di prassi applicativa. A parte il richiamo, da includere eventualmente in una previsione separata, alla non punibilità dei casi di tentativo ‘‘inidoneo’’, la disposizione definitoria ‘‘di base’’ degli estremi della condotta penalmente rilevante potrebbe, all’incirca, venire concepita nei seguenti termini: ‘‘Chiunque, mediante il compimento di atti oggettivamente diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, ne intraprende o si accinge ad intraprenderne l’esecuzione, risponde di delitto tentato, qualora la condotta non si compia o l’evento non si verifichi. L’autore di un tentativo è punibile, soltanto quando abbia avuto l’intenzione di commettere il fatto, ovvero si sia rappresentato con certezza la sua verificazione’’. GIOVANNANGELO DE FRANCESCO Ordinario di Diritto penale nell’Università di Pisa
(30) 359 s.
Per ulteriori, pertinenti esemplificazioni, cfr. PADOVANI, Diritto penale, cit., p.
DEFLAZIONE E GARANZIE NEL RITO PENALE DAVANTI AL GIUDICE DI PACE: L’ISTITUTO DELLA ‘‘TENUITÀ DEL FATTO’’ (*)
SOMMARIO: 1. La deflazione processuale nel rito penale davanti al giudice di pace: gli strumenti. — 2. La ‘‘tenuità del fatto’’ come tecnica di deflazione. — 3. I caratteri dell’istituto nel disegno del legislatore delegante. — 4. La fisionomia della ‘‘tenuità del fatto’’ nel decreto legislativo di attuazione. — 5. La collocazione nel sistema processuale. — 6. Le modalità di chiusura del procedimento e le garanzie: l’obbligatorietà dell’azione penale. — 7. (Segue): l’accertamento della responsabilità. — 8. (Segue): il contraddittorio.
1. La deflazione processuale nel rito penale davanti al giudice di pace: gli strumenti. — È sufficiente leggere l’art. 17 della l. 24 novembre 1999, n. 468 (recante, tra l’altro, la ‘‘delega al Governo in materia di competenza penale del giudice di pace’’), per avvertire distintamente, nell’embrione legislativo di procedimento penale davanti al giudice di pace (1), l’esigenza di alleviare la mole di lavoro che affligge, cronica, gli uffici giudiziari. La stessa idea di individuare un organo giusdicente aggiuntivo, di rango ‘‘minore’’, di diversa caratura tecnica, reclutato in base a criteri eterogenei rispetto al corpo della magistratura ordinaria, è riconducibile al tentativo di far scivolare verso il basso una porzione del carico pendente presso i tribunali, evitando i costi strutturali degli aumenti di organico e concependo una figura di giudicante meno burocratica e idealmente più prossima alla realtà sociale (2). Ma è nella struttura del nasci(*) Il presente lavoro è stato chiuso all’indomani del varo del d.lgs. 274/2000. Nel redigerlo, pertanto, ci si è potuti avvalere dei soli primi contributi dottrinali in materia. (1) Per un commento più generale, v. S. QUATTROCOLO, Commento alla l. 24 novembre 1999, n. 468, in Leg. pen., 2000, p. 3 ss.; G. SPANGHER, Il procedimento davanti al giudice di pace e la riforma dell’art. 593 c.p.p., in Dir. pen. e proc., 2000, p. 163 ss. (2) Le diverse opzioni ideali che fanno da retroterra all’istituzione del giudice di pace si sono contrapposte, incontrate e progressivamente sedimentate nel corso di un dibattito che ha preso avvìo negli anni ’70 e si è snodato, attraverso vari progetti legislativi via via abbandonati o corretti, sino all’attuale configurazione normativa. Per ricostruire i termini esatti di tale evoluzione v., anche per maggiori stimoli bibliografici, G. BORRÈ, Il giudice di pace: rilancio di una ipotesi, in Quest. giust., 1989, n. 1, p. 81; L. CARBONE, Le iniziative legislative in materia di giudice di pace, in Doc. giust., 1989, n. 10-11, p. 56; A. CARRATTA, (voce) Giudice di pace, in Enc. giur. Treccani, vol. XV, 1995, p. 1 s.; I. CIVIDALI, Speranze e timori a proposito del giudice di pace, in Quest. giust., 1995, n. 1, p. 92; G. CONTI-A. MACCHIA,
— 728 — turo procedimento penale che si fa evidente l’ispirazione ‘‘riduzionista’’ del legislatore, ben oltre lo sforzo di decongestionare il sistema per garantirne la funzionalità quotidiana. Nella disciplina che impartisce al legislatore delegato le direttive per confezionare il rito penale affidato ai giudici di pace, si coglie immediatamente l’intento di semplificare il procedimento, non foss’altro per l’inequivocità del preambolo, che impone di tener conto delle norme del libro VIII del codice di procedura penale (3), ‘‘con le massime semplificazioni rese necessarie dalla competenza’’ del particolare giudicante destinatario della normativa da redigere. E l’idea ricompare nella lett. l), che ribadisce esplicitamente la direttiva di massima, prevedendo ‘‘lo svolgimento del giudizio in forma semplificata’’. Inoltre, lo sforzo di sveltire le forme e i tempi del procedimento diviene vero e proprio programma deflattivo in alcuni punti qualificanti della delega, come le lett. a), f), g), h). Nella sua accezione più lata, la ‘‘deflazione’’ processuale risente dell’origine non giuridica del termine, sicché quella riduzione della circolazione monetaria (4) che ne costituisce il significato nel campo dell’analisi economica, diviene, sul terreno delle strategie normative riferibili al sistema penale, abbattimento tout court dei casi di ricorso al processo come strumento di risoluzione dei conflitti. La nozione può avere, peraltro, una più ridotta portata, per certi versi ‘‘interna’’ al meccanismo del rito penale, con riferimento al quale ‘‘deflazione’’ sta per uso privilegiato di forme procedimentali sincopate, e, soprattutto, per risparmio di risorse mediante rinuncia al dibattimento, come componente più costosa e complessa della sequenza procedimentale (5). In questa prospettiva, la tensione deflattiva si traduce in tecniche Aspetti processuali per un giudice di pace in materia penale, in Doc. giust., 1989, n. 10-11, p. 116; C.F. GROSSO, Possibilità di una competenza penale del giudice di pace, in Quest. giust., 1989, n. 1, p. 98; G. MANZO, Il giudice di pace nei quattro progetti all’esame del Parlamento, in Doc. giust., 1989, n. 10-11, p. 82; E. MARZADURI, L’attribuzione di competenze penali al giudice di pace, in Cass. pen., 1992, p. 2236; A. NAPPI, Sul procedimento penale dinanzi al giudice di pace, in Gazz. giur., 1997, n. 1, p. 1; M. PIVETTI, Quale giudice di pace? I sistemi di nomina, in Quest. giust., 1989, n. 2, p. 280; E. SELVAGGI, Il giudice di pace tra occasioni perdute... e da non perdere, in Cass. pen., 1991, p. 1007. (3) Improntato, a sua volta, a ‘‘criteri di massima semplificazione’’, secondo il disposto della direttiva n. 103 della delega per l’emanazione del nuovo codice di rito penale (art. 2 l. 16 febbraio 1987, n. 81). (4) Il significato corrente dell’espressione è mutuato dalla teoria economica, da cui è tratta anche la nozione di ‘‘deflazione’’ rinvenibile nei dizionari: v. G. DEVOTO-G.C. OLI, Dizionario della lingua italiana, Le Monnier, 1971, (voce) deflazione, p. 660. (5) È questo il significato di deflazione cui si è fatto ampio ricorso per giustificare l’introduzione nell’ordinamento processuale di alcuni riti alternativi, come il giudizio abbreviato, l’applicazione della pena su richiesta delle parti, il procedimento per decreto. In materia, tra i molti, G. ARICÒ, Applicazione della pena su richiesta delle parti, in AA.VV., I procedimenti speciali, a cura di A.A. Dalia, Jovene, 1989, p. 100; S. GIAMBRUNO, Il giudizio ab-
— 729 — mediante le quali il processo si contrae, si conclude anticipatamente o addirittura si stempera in metodi e sedi alternativi di composizione delle controversie. La delega per il rito penale davanti al giudice di pace si esprime su entrambi i piani, attraverso istituti che non solo filtrano gli illeciti da convogliare nel sistema giudiziario, ma sono idonei a dirottare una parte di quelli che vi accedono su un diverso binario e ad espellerne precocemente un’altra parte, comprimendo la sequenza procedimentale in pochi fotogrammi. Basti pensare alla ‘‘estensione della perseguibilità a querela dei reati’’, che appare in testa alla sequela di criteri direttivi, con un evidente recupero della vocazione selettiva dell’istituto, qui chiave di lettura dell’intera disciplina nell’ottica della deflazione. La querela, infatti, non solo è idonea a ‘‘delegare a referenti privati l’effettività della repressione in determinate aree di illiceità penale’’ (6), lasciando così fuori dal sistema processuale fatti riconducibili a una fattispecie incriminatrice, ma ritenuti non meritevoli di intervento sanzionatorio; essa consente, altresì, di concludere la vicenda giudiziaria anticipatamente, ogni qual volta la volontà dei protagonisti del conflitto riesca a comporlo, traducendo il compromesso in una remissione (artt. 152 ss. c.p.) (7). Di tali potenzialità il legislatore breviato, Cedam, 1997, p. 2; L. KALB, Procedimento per decreto, in AA.VV., I procedimenti speciali, cit., p. 305; G. LOZZI, Applicazione della pena su richiesta delle parti, ibidem, p. 115; E. LUPO, Il giudizio abbreviato e l’applicazione della pena negoziata, in AA.VV., I giudizi semplificati, a cura di A. Gaito, Cedam, 1989, p. 62; G. PAOLOZZI, Il giudizio abbreviato, Cedam, 1991, p. 14; ID., Il procedimento per decreto, in AA.VV., I giudizi semplificati, cit., p. 132; P.P. RIVELLO, Il giudizio immediato, Cedam, 1993, p. 34 ss. La reale efficacia deflattiva degli istituti rammentati sembra, peraltro, aver tradito le aspettative, proprio sotto il profilo dell’attitudine dei percorsi procedimentali alternativi a ridurre i dibattimenti; per i primi dati sul punto, cfr. M. MARGARITELLI-P. SECHI-A.V. SEGHETTI, Considerazioni finali e critiche, in AA.VV., Il monitoraggio del processo penale, Lo scarabeo, 1995, p. 283. La deflazione dibattimentale come effetto indotto dalla diversificazione dei moduli processuali ed obiettivo da perseguire compariva spesso, peraltro, già nel dibattito sulle riforme processuali anteriore al vigente codice; per spunti in tal senso, v. V. GREVI, Il problema della lentezza dei procedimenti penali, in Giust. pen., 1981, III, c. 596 ss.; G. NEPPI MODONA, I meccanismi processuali differenziati, in Cass. pen., 1984, p. 426; M. PISANI, Appunti sullo ‘‘sfoltimento’’ dei giudizi penali (documento di lavoro 27 novembre 1975 per la Commissione scientifica per il nuovo codice di procedura penale presso il Ministero di Grazia e Giustizia), in Ind. pen., 1976, p. 345. (6) F. GIUNTA, Interessi privati e deflazione penale nell’uso della querela, Giuffrè, 1993, p. 59. V. anche E. MARZADURI, (voce) Azione (IV) Diritto processuale penale, in Enc. giur. Treccani, vol. IV, 1996, p. 20. (7) La remissione di querela presenta, per un verso, la medesima funzione selettiva degli illeciti meritevoli di perseguimento che già si ravvisa nel diritto di presentarla. Per altro verso, evoca — pur senza corrispondervi — l’idea di perdono, di pacificazione del conflitto o, più semplicemente, di spostamento della contrapposizione tra gli interessati in sede diversa da quella penale, che si ritrova, più esplicita, nella mediazione. Sulle essenziali opzioni ideologiche a base della remissione, cfr. M. ROMANO-G. GRASSO-T. PADOVANI, Sub art. 152 c.p., in Commentario sistematico del codice penale, Giuffrè, 1994, III, p. 40; nonché A. RI-
— 730 — delegante è consapevole, se alla lett. g) dell’art. 17 l. del. prefigura l’obbligo per il giudice di pace di adoperarsi per la conciliazione, anche ‘‘in ordine alla remissione della querela ed alla relativa accettazione’’, che entrano così a far parte del corredo di tecniche mediatorie cui la clausola si riferisce. È la mediazione, infatti, l’idea sottesa alla trama della lett. g), ove si delinea un meccanismo conciliativo affidato al giudicante ed incentrato non solo sulla remissione di querela, ma anche ‘‘sugli aspetti riparatori e risarcitori conseguenti al reato’’. Il dettato della lett. h) ne chiarisce l’impatto sul procedimento in corso, imponendo al legislatore delegato la ‘‘previsione di ipotesi di estinzione del reato conseguenti’’, appunto, ‘‘a condotte riparatorie o risarcitorie del danno’’; il successo dell’opera conciliativa si collega, in tal modo, al venir meno dell’illecito e, di conseguenza, all’eliminazione della vicenda dalla scena processuale (8). Il risultato deflattivo sta nello spegnersi del procedimento insieme con la significatività penale del crimine, vuoi tramite la remissione di querela, vuoi in ragione delle condotte satisfattive tenute dal reo, idonee a riflettersi incisivamente sulla sequenza giudiziaria traducendosi nella formula terminativa del non doversi procedere per estinzione del reato. Il decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, che ha dato attuazione alla delega, si è fatto carico tanto delle esigenze di massima semplificazione del procedimento, quanto delle direttive che, in ordine ad istituti specifici, sollecitano innovazioni a scopo deflattivo. Ne è sorto un rito caratterizzato da indagini gestite prevalentemente dalla polizia giudiziaria, da un’accusa mossa su impulso della polizia o della persona offesa dal CARDI, Sub art. 152 c.p., in AA.VV., Codice penale commentato, a cura di E. Dolcini e G. Marinucci, Ipsoa, pt. gen., 1999, pp. 1131 e 1133. Sul controverso significato da assegnare alla remissione, è indicativa la giurisprudenza in materia, che registra posizioni molto diversificate; v., esemplificativamente, Cass., 16 luglio 1963, in Mass. Cass. pen., 1964, p. 155, mass. 213 (ove si precisa che la remissione può limitarsi, dal punto di vista formale, alla dichiarazione di perdonare il querelato); Cass., 1o marzo 1973, Greco, CED 123863 (per la quale la dichiarazione di avvenuta rappacificazione fatta dal querelante ad un ufficiale di polizia, intervenuto per conciliare le parti avverse, non è sufficiente ad integrare la rimessione); Cass., 18 gennaio 1990, Dolciotti, in R. pen., 1991, p. 192 (secondo la quale la transazione sul danno non implica di per sé la volontà di rimettere la querela). (8) Benché la mediazione costituisca una tecnica di risoluzione dei conflitti normalmente collocata in sede extragiudiziaria, emerge con visibile prepotenza, di recente, il tentativo di farne uno strumento utilizzabile nel processo, sia che si svolga al suo interno, sia che ci si limiti a spendervi i risultati ottenuti altrove. Una delle ragioni più evidenti di questo speciale interesse, sembra risiedere proprio nell’attitudine della mediation a dirottare lo scontro processuale su un diverso itinerario, evitando lo sviluppo del procedimento sino al giudizio. Così, dichiaratamente, G. MAGNO, Mediazione: una prospettiva nuova per l’amministrazione della giustizia. Il ruolo dell’Ufficio centrale per la giustizia minorile, in AA.VV., La mediazione nel sistema penale minorile, a cura di L. Picotti, Cedam, 1999, p. 213; nonché, in senso critico, M. PAVARINI, Decarcerizzazione e mediazione nel sistema penale minorile, ibidem, p. 13.
— 731 — reato, dalla mancanza di udienza preliminare, da forme esili di contraddittorio nei procedimenti incidentali. Vi giocano un ruolo essenziale, in ottemperanza alle indicazioni del legislatore delegante (9), i meccanismi conciliativi, il rilievo assegnato alla riparazione e al risarcimento dei danni da reato, la ‘‘particolare tenuità del fatto’’. Nel corso della prima udienza dibattimentale (che l’art. 29 d.lgs. n. 274 del 2000 definisce ‘‘udienza di comparizione’’), il giudice, quando il reato è perseguibile a querela, è tenuto a promuovere ‘‘la conciliazione tra le parti’’, eventualmente disponendo un rinvio per favorirne l’esito positivo ed avvalendosi, se del caso, di ‘‘professionisti’’ della mediazione (art. 29 comma 4 d.lgs. n. 274 del 2000). Tra le ‘‘definizioni alternative del procedimento’’ compare, altresì, l’ ‘‘estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie’’, che il giudice dichiara nella prima udienza o in seguito, previa sospensione del processo, ‘‘se ritiene le attività risarcitorie e riparatorie idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione’’ dell’illecito (art. 35 comma 2 d.lgs. n. 274 del 2000). Si tratta di tecniche mediatorie, che agevolano la ricomposizione del conflitto tra autore e vittima del reato, anche in sede extragiudiziaria, curandosi poi di disciplinarne la ricaduta processuale attraverso la remissione di querela o l’estinzione del reato. Il vantaggio in termini ‘‘economici’’ sta nella possibilità di concludere il processo agli esordi della fase dibattimentale; i tempi per coltivare la mediazione o per assicurare il realizzarsi delle condotte riparative o risarcitorie possono anche essere lunghi, ma le attività necessarie a garantire la ricomposizione degli interessi in conflitto vengono allocate fuori dal giudizio e possono essere affidate alla gestione o alla vigilanza di operatori non giudiziari (10). La centralità del (9) La Relazione governativa al d.lgs. n. 274 del 2000, rinvenibile in Guida dir., 2000, n. 38, p. 39 ss. (da qui in poi definita Relazione allo schema di decreto legislativo), precisa che non è stata raccolta solo l’indicazione di ampliare l’area dei reati perseguibili a querela, giacché la tipologia di reati perseguibili d’ufficio selezionabile in base ai criteri della delega è ‘‘massimamente improntata alla tutela di interessi di titolarità sovraindividuale (e talvolta di pubbliche funzioni)’’ (p. 43). (10) Gli istituti sembrano affini a quello della sospensione del processo con messa alla prova, sperimentato in quest’ultimo decennio nel processo penale a carico di imputati minorenni (art. 28 d.P.R. n. 448 del 1988). In entrambi i casi, l’itinerario processuale si arresta per consentire che, sotto la vigilanza e grazie all’attività di operatori esterni all’ordine giudiziario, il reo tenga una condotta che il giudice possa, alla fine del periodo prefissato, valutare positivamente ai fini dell’estinzione dell’illecito. Peraltro, al di là di questo schemabase, facilmente riconducibile alle dinamiche del probation, gli istituti che verranno applicati innanzi al giudice di pace hanno caratteristiche del tutto peculiari, proprio a fronte del contenuto conciliativo. Mentre, infatti, nella messa alla prova del rito minorile, la riconciliazione con la vittima è un dato meramente eventuale, essa costituisce invece elemento qualificante dei meccanismi affini del rito penale per il giudice di pace, che presentano un contenuto più spiccatamente mediatorio. Sui connotati dell’art. 28 d.P.R. n. 448 del 1988, alla luce dei caratteri tipici degli strumenti mediatori, v. V. PATANÈ, Note a margine della Raccomanda-
— 732 — ruolo della vittima garantisce, in entrambe le situazioni, che l’esito del giudizio sia ‘‘condivisibile’’ e condiviso, dal punto di vista della giustizia sostanziale, sancendo la decisione del giudicante nient’altro che la fine del conflitto ormai ricomposto. Quanto alla ‘‘particolare tenuità del fatto’’, le indicazioni della delega sono state tradotte in un’ipotesi di ‘‘esclusione della procedibilità’’, a fronte della quale il giudice dichiara non doversi procedere con decreto di archiviazione, nel corso delle indagini preliminari, e con sentenza, dopo l’esercizio dell’azione penale (art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000). La decisione presuppone, innanzitutto, che il fatto commesso abbia prodotto, rispetto all’interesse tutelato dalla norma incriminatrice, un danno o un pericolo esiguo; quindi, che l’occasionalità della condotta e il grado della colpevolezza non giustifichino l’esercizio dell’azione penale; infine, che l’ulteriore corso del procedimento possa arrecare pregiudizio a lavoro, studio, famiglia o salute dell’imputato. La conclusione in tale forma è subordinata, in sede di archiviazione, alla circostanza che non risulti un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento, e, in sede processuale, al fatto che imputato e parte lesa non si oppongano. Gli istituti sui quali il legislatore fa affidamento per decongestionare il sistema sono, peraltro, dotati di particolare versatilità. La loro idoneità a concludere anticipatamente il rito costituisce solo un aspetto dell’impatto che possono avere sull’ordinamento, dal momento che garantiscono un alto grado di ‘‘accettabilità’’ alle decisioni e riverberano un effetto positivo, di maggiore credibilità complessiva, sul sistema della giustizia penale. La querela, la mediazione, le vicende estintive del reato connesse a condotte riparative, la tenuità del fatto, assegnano una centralità inedita al ruolo della vittima, sembrano garantire una composizione degli interessi in conflitto vicina alle aspettative dei singoli coinvolti e, quindi, più ‘‘giusta’’ (11), riportano il fatto di reato a una dimensione concreta, che consente di apprezzarne le specificità di vicenda umana restituendo comprensibilità e credibilità alle decisioni (12). Si tratta di un profilo che, sotteso zione N.R (99) 19 nella prospettiva della ‘‘mediazione’’ nella giustizia penale italiana, in Annali della facoltà di economia dell’Università di Catania, 1999, 37 s. (11) La stessa Relazione, cit., p. 71, afferma che tali istituti ‘‘contribuiscono, in piena sinergia, a delineare un sistema che vuole porsi come mezzo di tutela sostanziale dei beni giuridici lesi, più che come astratto ed indefettibile meccanismo retributivo conseguente alla commissione del reato’’. (12) L’opzione antiburocratica è particolarmente evidente nella mediazione, ove si coniuga non senza ambiguità con l’esigenza collettiva di rapidità ed efficienza della risposta sanzionatoria all’illecito. Entrambe le funzioni sono evidenziate dai commentatori, con accenti assai diversi in ragione delle differenti sensibilità e competenze; per un quadro orientativo, v. J.P. BONAFÉ-SCHMITT, Una, tante mediazioni dei conflitti, in AA.VV. La sfida della mediazione, a cura di G. Pisapia e D. Antonucci, Cedam, 1997, p. 23 ss.; F. BRUNELLI, La tecnica di mediazione, in AA.VV., La mediazione, cit., p. 277 s.; A. CERETTI, Mediazione:
— 733 — alla disciplina degli istituti in esame, ne condiziona i caratteri, talora facendo premio sugli scopi eminentemente deflattivi perseguiti dal legislatore. Gli sforzi mediatori nel corso dell’udienza, ad esempio, o i maggiori spazi partecipativi offerti alla persona offesa potrebbero persino allungare i tempi del procedimento o comportare un’articolazione complessa del rito, ma soddisfano quella componente ‘‘simbolica’’ della normativa, che è un altro aspetto del tentativo di restituire credibilità al sistema della giustizia penale. 2. La ‘‘tenuità del fatto’’ come tecnica di deflazione. — La polivalenza che contraddistingue gli istituti a vocazione deflattiva è tipica del proscioglimento per ‘‘irrilevanza del fatto’’ che, sperimentato in ottica parzialmente analoga nel processo penale minorile (art. 27 d.P.R. 448 del 1988), si fa strada per la prima volta nel rito penale a carico di imputati adulti (13), passando tra le righe della delega sul procedimento innanzi al giudice di pace (art. 17 lett. f) l.del.), ed approdando alla disciplina delegata con la definizione di ‘‘esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto’’ (art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000). La possibilità di ritenere, sin dalle indagini preliminari, un fatto ‘‘esiuna ricognizione filosofica, ibidem, pp. 23 e 54; L. EUSEBI, Dibattiti sulle teorie della pena e ‘‘mediazione’’, ibidem, p. 89; A. ORSENIGO, La mediazione come strumento dell’intervento sociale con gli adolescenti. Una riflessione critica su alcune dimensioni problematiche, ibidem, p. 260-262; V. PATANÈ, Note a margine, cit., p. 3 ss. Per le tensioni antiformalistiche sottese alla scelta di introdurre nell’ordinamento la stessa figura del giudice di pace, cfr. supra, nota 2. (13) L’inserimento dell’istituto nella disciplina sul rito penale davanti al giudice di pace riveste un carattere dichiaratamente sperimentale, se la Relazione allo schema di decreto legislativo, cit., p. 38, afferma: ‘‘questo esordio anche topograficamente prudente potrebbe avere il vantaggio di consentire un attento sondaggio sulla funzionalità dell’istituto, allo scopo di saggiare la praticabilità di eventuali, successive estensioni applicative’’. Si possono annoverare, in effetti, precedenti tentativi di varare tale disciplina, con la dizione di ‘‘irrilevanza del fatto’’, prima nel d.d.l. n. 4625/C (con quello che doveva essere l’art. 346 bis c.p.p.), poi nel d.d.l. n.4625 bis/C, confluito nel testo unificato che ha condotto alla legge n. 479 del 1999; ma la proposta venne abbandonata nel corso dei lavori parlamentari su quest’ultima. In ordine a tali iniziative, v. F. APRILE, Il principio di irrilevanza penale del fatto nel d.d.l. 4625-bis/C: si profila un ritorno all’aequitas medievale?, in Doc. giust., 1998, n. 10-11, p. 1810 ss.; M. BOUCHARD, I bassorilievi dell’irrilevanza, in Quest. giust., 1998, n. 3, p. 569 ss.; A. DIDDI, ‘Irrilevanza penale del fatto’. Inconfigurabilità del reato o autore non punibile?, in Giust. pen., 1988, III, c. 267; G. DIOTALLEVI, L’irrilevanza penale del fatto nelle prospettive di riforma del sistema penale: un grande avvenire dietro le spalle?, in Cass. pen., 1998, p. 2806 ss.; G. FIANDACA, Intervento, in Crit. dir., 1998, n. 1-2, p. 147 s.; S. FIORE, Osservazioni in tema di clausole di irrilevanza penale e trattamento della criminalità bagatellare. A proposito di una recente proposta legislativa, in Crit. dir., 1998, n. 4, p. 274 ss.; A. NAPPI, Sull’improcedibilità per irrilevanza penale del fatto, in Gazzetta Giuffrè, 1998, n. 19, p. 1 ss.; M. RONCO, L’irrilevanza penale del fatto. Verso la depenalizzazione per mano del giudice, in Crit. pen., 1998, n. I-II, p. 13 ss.; C. TAORMINA, L’irrilevanza penale del fatto tra diritto e processo, in Giust. pen., 1998, III, c. 257 ss.
— 734 — guo’’ e perciò non meritevole di pena, è tecnicamente difficile da costruire (14), ma concepibile e di certo idonea a ridurre il numero di procedimenti penali che arrivano al giudizio dibattimentale. L’istituto non tiene totalmente al di fuori del sistema processuale fatti che, pur lievi, restano illeciti, potendo tuttavia smaltire con efficacia quella parte del carico giudiziario che verte su episodi criminosi offensivi, ma di modestissima gravità, per i quali la spendita di risorse delle istituzioni sul terreno giudiziario è ‘‘antieconomica’’. A prescindere dalla condivisibilità politica o filosofica di simile scelta, la deflazione è pronostico facile, di fronte all’introduzione dell’istituto nell’ordinamento processuale, quanto meno nel senso ristretto dell’abbattimento dei tempi processuali, con un incremento del numero dei procedimenti conclusi prima dell’approdo alla fase dibattimentale (15). Inoltre, la ‘‘tenuità del fatto’’ ha il pregio della concretezza ed evoca un diritto penale flessibile (16), che si adegua all’effettiva gravità di con(14) Ne costituisce prova la difficoltà di inquadramento della natura giuridica dell’irrilevanza del fatto in sede minorile. L’istituto di cui all’art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988, infatti, malgrado l’inserimento in una disciplina inequivocabilmente processuale, è stato ritenuto integrare una causa personale di esenzione dalla pena (tra i molti, M. COLAMUSSI, La sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto: punti controversi della disciplina e prospettive di riforma, in Cass. pen., 1996, p. 1673; R. DE MATTEO, La dichiarazione di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, in Temi romana, 1994, p. 204; S. DI NUOVO-G. GRASSO, Diritto e procedura penale minorile, Giuffrè, 1999, p. 289; F. ERAMO, Irrilevanza penale del fatto e garanzia difensiva, in Giust. pen., 1998, III, c. 668; A. FANELLI, Nota a Trib. min. Cagliari, 11 aprile 1995, Montis, in Foro it., 1996, II, c. 453; V. PATANÈ, L’irrilevanza del fatto nel processo minorile, in Esp. giust. min., 1992, f. 3, p. 61; S. VINCIGUERRA, Irrilevanza del fatto nel procedimento penale minorile, in Dif. pen., 1989, f. 25, p. 78; nonché, incidentalmente, Corte cost. n. 250 del 1991), un’esimente (App. min. Caltanissetta, 24 aprile 1990, AA, in Giust. pen., 1990, II, c. 635), una causa di estinzione del reato (D. SPIRITO, Art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988: una morte annunciata, in Giur. cost., 1991, p. 4144, che peraltro la ritiene ‘‘più specificamente’’ una ragione personale di esenzione dalla pena), una misura indulgenziale (M. BOUCHARD, (voce) Processo penale minorile, in Dig. disc. pen., 1995, vol. X, p. 153). (15) Le prime analisi statistiche condotte sull’art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988 — sia pur su campioni circoscritti dell’esperienza giudiziaria sul territorio nazionale — tengono conto e dell’impatto deflattivo dell’istituto, e del contenimento dei tempi sui quali si articola la risposta processuale rispetto all’input della denuncia. Sotto entrambi i profili, si dà conto di una discreta efficacia dell’istituto, non priva però di oscillazioni, a seconda dei periodi di riferimento e degli uffici giudiziari presi in esame: v. A. MESTITZ, Saggio introduttivo — L’irrilevanza del fatto e la messa alla prova: analisi comparativa, in A. MESTITZ-M. COLAMUSSI, Processo penale minorile: l’irrilevanza del fatto e la messa alla prova. Criteri interpretativi e prassi applicative, Lo Scarabeo, 1997, p. 5 ss.; M. COLAMUSSI, Processo penale minorile e servizi sociali nel distretto di Corte d’appello di Bari. Criteri interpretativi e caratteristiche applicative della ‘‘irrilevanza del fatto’’ e della ‘‘messa alla prova’’ (artt. 27 e 28 d.P.R. 448/88), ibidem, p. 107 ss. (16) In relazione all’art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988, si è parlato di un ‘‘tentativo di timido inserimento nel nostro ordinamento del diritto libero’’ (G. LA CUTE, Considerazioni sulla sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto nel processo minorile, in
— 735 — dotte che, pur riconducibili a fattispecie incriminatrici esistenti e insuscettibili di soppressione, non ne giustificano l’operatività nel singolo caso. L’astrattezza del diritto sostanziale che, sotto la descrizione di una medesima condotta illecita, raccoglie comportamenti dalle infinite variabili, comporta il rischio di punire anche quelle integranti la soglia più bassa di attacco al bene giuridico protetto, fin quasi a non pregiudicarlo affatto (17). Lungo questa evanescente linea di confine, le norme incriminatrici mettono a rischio la propria credibilità agli occhi dei consociati, poiché la caratura etica della previsione penale scompare di fronte alla sanzione criminale applicata per fatti di evidente e speciale levità, avvertita dalla collettività come sostanzialmente iniqua. E non sempre è consentito al legislatore espungere dal sistema le fattispecie che producono simili contraddizioni, poiché spesso, visto il ventaglio di situazioni che sono ad esse riconducibili, continuano ad esprimere la necessaria reazione dell’ordinamento a condotte pur gravi. Resta, peraltro, avvertita l’esigenza di garantire alle decisioni penali accettabilità, fino al limite estremo della rinuncia alla punizione, ove questa si presenti come un esito sproporzionato al fatto concreto verificatosi, sicché risultino iniRiv. pol., 1993, p. 414). Il riferimento è pertinente, ma va preso con cautela, considerata la complessa costellazione di teorie riconducibili al filone del cosiddetto ‘‘diritto libero’’, per un’idea della quale si rinvia al percorso antologico raccolto in AA.VV., L’antiformalismo giuridico, a cura di A. Tanzi, Raffaello Cortina Editore, 1999. (17) Addirittura, ‘‘il tipo, per sua stessa natura, e per quanto tassativo, ai sensi dell’art. 25, comma 2, Cost., non è mai tale da scontare tutte le varianti del caso concreto, le quali possono rendere i singoli elementi del contesto della fattispecie concretamente inoffensivi’’ (F. BRICOLA, (voce) Teoria generale del reato, in Nss. Dig., vol. XIX, Utet, 1973, p. 77). Lo scarto tra fattispecie e illecito perpetrato, dunque, può giungere al punto da configurare una condotta che, pur conforme alla descrizione normativa, non sia portatrice di alcuna offensività e, quindi, non costituisca reato. In tali evenienze, però, non ci si trova di fronte ad un fatto esiguo, ma ad un fatto radicalmente inoffensivo, solo apparentemente rispondente alla fisionomia normativa del reato. L’istituto in esame, invece, presuppone risolto positivamente il dubbio sull’offensività della condotta: esso vale a graduare la risposta sanzionatoria al punto da rinunziarvi, quando l’entità dell’offesa arrecata con l’illecito debba considerarsi esistente, ma minima. La stessa Relazione allo schema di decreto legislativo, cit., p. 39, ribadisce la differenza con i cosiddetti ‘‘fatti inoffensivi conformi al tipo’’, consapevole della complessità del tema, già oggetto di ampie riflessioni e complesse controversie nella dottrina penalistica relativa al principio di offensività. In merito, fra i molti, v. F. BRICOLA, op. ult. cit., p. 68 ss.; C. FIORE, Il principio di offensività, in Ind. pen., 1994, p. 275 ss.; ID., Principio di tipicità, in AA.VV., Problemi generali di diritto penale, a cura di G. Vassalli, Giuffrè, 1982, p. 57; F. MANTOVANI, Il problema della offensività del reato nelle prospettive di riforma del codice penale, in AA.VV., Problemi generali, cit., p. 63 ss.; F. STELLA, La teoria del bene giuridico e i cd. fatti inoffensivi conformi al tipo, in questa Rivista, 1973, p. 3 ss.; G. VASSALLI, Considerazioni sul principio di offensività, in Scritti in memoria di Ugo Pioletti, Giuffrè, 1982, p. 617 ss.; V. ZAGREBELSKY, Contenuti e linee evolutive della giurisprudenza in tema di rapporti fra tassatività del fatto tipico e lesività, in AA.VV., Problemi generali, cit., p. 417 ss.; G. ZUCCALÀ, Sul preteso principio di necessaria offensività, in Studi in memoria di Giacomo Delitala, vol. III, Giuffrè, 1984, p. 1689 ss.
— 736 — qua per eccesso la risposta sanzionatoria e inutile l’investimento del sistema processuale in termini di tempo e risorse. Sotto questo profilo, la tenuità del fatto si configura come una tecnica complementare alla depenalizzazione (18), di minore radicalità, ma con una operatività potenziale virtualmente illimitata. Se la prima incide dall’esterno sulle norme incriminatrici, eliminando quelle che la coscienza sociale non avverte più come necessarie ed alleggerendo il sistema penale dal carico corrispondente, la seconda le erode dall’interno, espellendo dal novero delle condotte punibili quelle di minimo rilievo materiale. In questo caso, il sistema processuale deve attivarsi, almeno per verificare i presupposti che giustificano la rinuncia alla pena, ma la spendita di risorse necessaria a tale scopo è contenuta, assai più che per l’accertamento dei presupposti di una sanzione, benché lieve. Il combinarsi dell’idea ‘‘minimalista’’ del diritto penale con la spinta ad economizzare le risorse del sistema processuale è, del resto, evidente, nell’irrilevanza del fatto ex art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988, in cui l’istanza deflattiva non fa parte di una politica criminale condizionata dal vincolo di bilancio, ma di una strategia tendente a ridurre l’impatto dell’imputato minorenne con un processo penale ritenuto di per sé dannoso e psicologicamente confusivo. In questo settore, l’istituto dell’irrilevanza è fondato su un’idea di riduzione del ricorso al rito penale e di limitazione al minimo delle relative attività, che corrisponde alle esigenze di minima offensività del processo penale, destigmatizzazione dell’imputato di minore età, accurato perseguimento della proporzionalità tra condotta deviante e risposta istituzionale, adeguamento della reazione sanzionatoria all’effettiva portata del reato commesso (19). (18) Sul rapporto tra depenalizzazione, diversificazione dello strumentario penale ed efficienza del sistema, cfr. F. PALAZZO, Bene giuridico e tipi di sanzioni, in Ind. pen., 1992, p. 210 s. Il legame tra ‘‘irrilevanza’’ del fatto e strategie di decriminalizzazione è evidenziato altresì da L. ISOLABELLA, Criminalità bagatellare minorile e ‘‘irrilevanza del fatto’’, in Ind. pen., 1995, p. 370; R.E. KOSTORIS, Obbligatorietà dell’azione penale, esigenze di deflazione e ‘‘irrilevanza del fatto’’, in AA.VV., I nuovi binari del processo penale tra giurisprudenza costituzionale e riforme, Giuffrè, 1996, p. 207 s.; A. NAPPI, Sull’improcedibilità per irrilevanza penale, cit., p. 1; L. PEPINO, Commento all’art. 27, in AA.VV., Commento al codice di procedura penale, a cura di M. Chiavario, Leggi collegate, vol. I, Utet, 1994, p. 280 s.; V. PUGLIESE, La formula terminativa dell’irrilevanza del fatto nel processo penale minorile, in Min. giust., 1997, n. 2, p. 117 ss. Un quadro completo delle tecniche di depenalizzazione, in prospettiva comparata e tenendo conto sia del profilo sostanzialistico, sia degli strumenti attivabili a livello processuale, è rinvenibile in C.E. PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, Cedam, 1985, p. 405 ss., nonché p. 423 ss. e p. 458 ss. (19) Cfr. M. COLAMUSSI, La sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, cit., p. 1670; P. DUSI, Irrilevanza del fatto e la nuova formulazione, in Esp. giust. min., 1992, f. 1, p. 15 e 19; A. FANELLI, Nota, cit., c. 453; L. ISOLABELLA, Criminalità bagatellare minorile, cit., p. 370; C. LOSANA, Commento all’art. 27, in Codice di procedura penale minorile commentato, in Esp. giust. min., n. spec., 1989, p. 182; F. PALOMBA, Il sistema del
— 737 — La specificità del substrato ideologico dell’istituto nel rito penale minorile non ne eclissa, comunque, l’efficacia in concreto: quale che sia la ragione per cui l’ordinamento contempla il ritrarsi della risposta penale sanzionatoria di fronte a un comportamento illecito, la riduzione del carico giudiziario e l’accelerazione dei tempi del rito che in tal modo si garantisce, sono dati oggettivi. Piuttosto, l’ispirazione che anima la ratio dell’istituto riemerge in modo qualificante, quando si tratta di definirne i presupposti. La nozione di fatto ‘‘esiguo’’ e le condizioni alle quali è subordinato il disinteresse alla sanzione penale che l’ordinamento manifesta nei suoi confronti, sono influenzate in modo determinante (sia in sede esegetica, che in sede di elaborazione dei criteri di operatività dell’istituto) dall’ ‘‘idea’’ di deflazione coltivata dal legislatore e dagli scopi ulteriori che persegue la strategia riduzionista adottata. 3. I caratteri dell’istituto nel disegno del legislatore delegante. — La legge delega sul giudice di pace contempla, alla lett. f) dell’art. 17, ‘‘un meccanismo di definizione del procedimento nei casi di particolare tenuità del fatto e di occasionalità della condotta, quando l’ulteriore corso del procedimento può pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute’’ dell’imputato o dell’indagato. Il modello sul quale è ricalcata la previsione è, chiaramente, l’art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988, sulla cui falsariga sono disegnati i caratteri della tenuità del fatto destinata ad operare dinanzi al giudice di pace. Così, perché l’istituto trovi applicazione, si postula che ricorrano congiuntamente il presupposto oggettivo della ‘‘particolare’’ levità del fatto, quello soggettivo dell’occasionalità della condotta, cui si aggiunge quello teleologico di scongiurare il potenziale pregiudizio arrecato dal procedimento a lavoro, studio, famiglia e salute dell’imputato (20). La tenuità del fatto viene mutuata dalla previsione processuale destinata ai minori con il consapevole abbandono del termine ‘‘irrilevanza’’ (21) e con l’arricchimento dell’aggettivo ‘‘particolare’’, che non figura nella nozione di ‘‘tenuità’’ descritta dall’art. 27 d.P.R. n. 448 del nuovo processo penale minorile, Giuffrè, 1991, p. 370; V. PATANÈ, L’individualizzazione del processo penale minorile, Giuffrè, 1999, p. 153; L. PEPINO, Commento all’art. 27, cit., p. 282; E. ZAPPALÀ, Il processo a carico di imputati minorenni, in AA.VV., Diritto processuale penale, Giuffrè, 3a ed., vol. II, p. 720 s. (20) La classificazione è mutuata da quella proposta, in ordine all’art. 27 del d.P.R. n. 448 del 1988, da P. DUSI, Irrilevanza del fatto, cit., p. 17. (21) L’espressione è stata oggetto di critica già nel rito minorile, ove è utilizzata nell’art. 27, nel quale sembra avallare una ‘‘ingiustificata sensazione di intrinseca liceità del fatto’’ (L. PEPINO, Commento all’art. 27, cit., p. 280, nota 5); in generale, per la ‘‘radice semantica ambigua’’ del termine ‘‘irrilevanza’’, v. M. BOUCHARD, I bassorilievi dell’irrilevanza, cit., p. 569. In ordine al decreto legislativo sul procedimento penale davanti al giudice di pace, si è, invece, tenuto a precisare il discrimine tra il fatto inoffensivo e quello semplicemente te-
— 738 — 1988 (22). L’opzione terminologica — certamente opportuna, anche se non decisiva — è la spia della cautela del legislatore, nel tentare di descrivere un’area interna ad ogni illecito, che risulti appena al di sopra della soglia del penalmente rilevante. La ‘‘particolare’’ levità, pertanto, traccia un confine che dovrebbe essere più netto rispetto a quello individuato dall’art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988, ove i margini di discrezionalità aperti al giudicante sono legati alle peculiarità dell’imputato minorenne e agli anomali scopi educativi assegnati dalla legge al processo penale (23). Il rischio di genericità del presupposto, peraltro, già sperimentato quanto all’art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988 (24), sembra sia ridotto ma non certo eliminato dalla puntualizzazione lessicale, che vale a ritagliare un’area di fatti tenui in astratto più circoscritta di quella su cui incide la previsione minorile, ma non ne definisce con accuratezza i contorni. È pensabile, allora, che un medesimo fatto possa risultare irrilevante per un imputato minorenne, ma non ‘‘particolarmente tenue’’ per quello di maggiore età (25), senza che per questo sia agevole predire quali fatti rientrino nella categoria degli illeciti non punibili dinanzi ai giudici di pace, alla cui giurisprudenza il delegante sembra affidare il compito di segnare un più limpido discrimine tra lecito e illecito. Anche l’occasionalità della condotta è parametro ricavato direttanue: l’istituto in esame, infatti, ‘‘presuppone l’esistenza di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole’’ (Relazione, cit., p. 65). (22) Anzi, è stato osservato a proposito dell’art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988 che ‘‘nel requisito normativo non è compresa una tenuità qualificata, sicché l’istituto trova applicazione anche nei confronti di fatti di non particolare tenuità’’ (V. PUGLIESE, La formula terminativa dell’irrilevanza, cit., p. 121). (23) In esso, il collegamento tra l’irrilevanza del fatto e gli accertamenti sulla personalità imposti dall’art. 9 d.P.R. n. 448 del 1988, oltre alla flessibilità degli stessi istituti processuali, dovuta al principio di adeguatezza di cui all’art. 1 d.P.R. n. 448 del 1988, hanno agevolato decisioni fondate sui parametri più disparati: l’allarme sociale e la potenzialità offensiva del fatto (App. min. Torino, 25 marzo 1997, S.G., inedita); il tempo intercorso dalla realizzazione del crimine (G.i.p. Trib. min. Cagliari, 23 ottobre 1998, B.A. ed altro, inedita); l’atteggiamento della vittima (G.u.p. Trib. min. Cagliari, 12 dicembre 1997, F.F., inedita); le complessive risorse e condizioni del minorenne (Trib. min. Salerno, 2 ottobre 1997, Barenghi, in Giust. pen., 1998, III, c. 316; Trib. min. Cagliari, 2 giugno 1998, L.P.P., inedita); i parametri di cui all’art. 133 c.p. (Trib. min. Torino, 4 luglio 1996, XX, in Quest. giust., 1997, f. 1, p. 242); l’entità del danno arrecato o del profitto ottenuto (Trib. min. Torino, 8 gennaio 1995, D.S., inedita; G.i.p. Trib. min. Cagliari, 11 marzo 1998, V.G., inedita; G.u.p. Trib. min. Cagliari, 10 luglio 1998, C.G., inedita; G.i.p. Trib. min. Cagliari, 23 ottobre 1998, B.A. ed altro, cit.). (24) Cfr. nota che precede. (25) Sono state avanzate perplessità anche in relazione all’irrilevanza del fatto disciplinata nel rito penale minorile, proprio perché appaiono sfuggenti ‘‘le ragioni della demarcazione fra trattamento penale del minore e dell’adulto’’ (A. GERMANÒ, Processo penale minorile e processo per gli adulti: diversa funzione e diverse disposizioni. Ruolo ‘‘pioniere’’ del processo penale minorile, in AA.VV., Le riforme complementari, a cura di G. Fumu, Cedam, 1991, p. 60).
— 739 — mente dall’art. 27 d.P.R. n.448 del 1988, sicché rischia di recare con sé le perplessità esegetiche sollevate dalla previsione minorile, tra una lettura che definisce ‘‘occasionale’’ la condotta non abituale o sistematica (26) ed un’altra che la ravvisa in comportamenti dovuti a pulsioni momentanee, escludendone quelli legati a ‘‘una scelta deviante precisa o sufficientemente orientata’’ (27). Nel rito a carico di imputati adulti, tuttavia, la possibilità di configurare un’occasionalità ‘‘psicologica’’, accanto od oltre a quella ‘‘cronologica’’, si presenta più difficile, tenuto conto della fisionomia del procedimento, nel quale le verifiche sulla personalità dell’imputato hanno un ambito di esplicazione ridotto ed un rilievo contenuto (artt. 194, 220 comma 2, 234 comma 3, 236 c.p.p.) (28). In particolare, strumenti probatori per scandagliare le caratteristiche personologiche dell’imputato sono predisposti per il solo rito minorile, in cui l’art. 9 d.P.R. n. 448 del 1988 consente gli accertamenti sulla personalità — in deroga al divieto di cui all’art. 220 comma 2 c.p.p. — anche al fine di ‘‘valutare la rilevanza sociale del fatto’’ (29). I maggiori problemi, peraltro, sembra che potrebbero essere sollevati dal presupposto ‘‘teleologico’’ dell’istituto di cui all’art. 17 lett. f) l.del. Il parametro è la traduzione per gli adulti del simmetrico criterio enunciato per l’irrilevanza del fatto in sede minorile. Quello che nell’art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988 è il rischio di un pregiudizio per le esigenze educative del minore, diviene per l’imputato maggiorenne il pericolo di compromettere (26) L. PEPINO, Processo minorile e formule definitorie, in Quad. C.S.M., 1989, f. 28, II, 529; v. anche M. CERATO, Riflessioni critiche sull’ ‘‘irrilevanza del fatto’’ nel processo penale minorile, in Dir. pen. e proc., 1997, p. 1541, ove si precisa che la reiterazione di cui all’art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988 non è ‘‘circoscritta da dati quantitativi o temporali’’. (27) F. PALOMBA, Il sistema del nuovo processo penale minorile, Giuffrè, 1989, p. 381; v. anche A. FANELLI, Nota, cit., c. 454; V. PUGLIESE, La formula terminativa dell’irrilevanza, cit., p. 123; nonché G.u.p. Trib. min. Cagliari, 23 ottobre 1998, B.A. ed altro, cit.; G.u.p. Trib. min. Cagliari, 12 dicembre 1997, F.F., cit.; Trib. min. Cagliari, 21 marzo 1996, O.G. ed altro, inedita. (28) V. I. CALAMANDREI, Commento all’art. 194 c.p.p., in AA.VV., Commento, cit., vol. II, 1990, p. 424 s.; F. GIANFROTTA, Commento all’art. 220 c.p.p., ibidem, p. 575 ss. (29) L’assoluta peculiarità dei meccanismi probatori che connotano il rito penale minorile è testimoniata dalla prassi di utilizzare il combinato disposto degli artt.9 comma 2 e 27 d.P.R. n. 448 del 1988, per affidare a professionisti della mediazione la riconciliazione tra le parti e poi dare atto del successo dell’attività mediatoria mediante la dichiarazione di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. Si tratta di una procedura che assomma in sé i caratteri del proscioglimento per esiguità dell’illecito con quelli della mediation ed è stata oggetto di sperimentazione presso alcuni Tribunali per i minorenni, dopo un’esperienza ‘‘pilota’’ condotta a Torino, per cui v. il documento del Tribunale per i minorenni e della Procura della Repubblica per i minorenni di Torino, dedicato alle Proposte per una risposta penale ‘‘riparatoria’’, in Min. giust., 1994, p. 26. Cfr. M. BOUCHARD, Vittime e colpevoli: c’è spazio per una giustizia riparatrice?, in Quest. giust., 1995, n. 4, p. 898 ss.; V. PATANÈ, Note a margine, cit., p. 38 s.; P. PAZÈ, Il tentativo di conciliazione del pubblico ministero, in Leg. pen., 1997, p. 659.
— 740 — una puntuale (e tassativa) categoria di interessi facenti capo all’imputato: la salute, il lavoro, lo studio, la famiglia. La probabilità di danno è, dunque, la stessa, ma i beni in pericolo sono individuati in conformità con la diversa fisionomia del protagonista del procedimento. Il parametro, però, appare particolarmente disarmonico nel rito destinato al giudice di pace, nel quale le strutture del procedimento non sono orientate al recupero dell’imputato, al contenimento del labelling effect, al principio di minima offensività. Del resto, questo profilo dell’istituto dell’irrilevanza del fatto non è esente da severe e fondate critiche anche nel rito minorile, in cui si fatica ad attribuirgli contenuto e coerenza logica (30): se è vero che il processo a carico di un minore rischia di essere controproducente, inserendosi maldestramente nei processi evolutivi avviati, è vero altresì che un processo per un fatto irrilevante è sempre dannoso e non è mai rieducativo (31). La ritenuta inutilità del criterio è ancora più evidente in un processo per adulti, in cui l’incoerenza può essere fonte di acute disparità di trattamento. Pure in questo caso, anzitutto, un processo per un fatto irrilevante si rivela comunque dannoso oltre misura per chi vi è coinvolto, sotto i molteplici aspetti indicati nella direttiva, nessuno dei quali resta immune all’impatto che l’iter giudiziale produce nella vita del suo protagonista (32). Inoltre, mentre il pregiudizio per le esigenze educative del minore prende a riferimento le caratteristiche tipologiche condivise da tutti gli imputati cui è teoricamente applicabile l’art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988 (minorenni e, quindi, parimenti dotati di personalità in via di formazione), il pregiudizio potenziale configurato dall’art. 17 lett. f) l.del. si riferisce a situazioni ‘‘esterne’’ all’imputato e ad altissima variabilità, autorizzando a ritenere punibili o no le medesime condotte a fronte di circostanze del tutto occasionali (come avere un lavoro o essere disoccupati), (30) Si ritiene che esso abbia soltanto ‘‘funzione esplicativa delle altre condizioni’’ (L. PEPINO, Processo minorile e formule definitorie, cit., p. 529; v. anche M. COLAMUSSI, La sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, cit., p. 1675; S. DI NUOVO-G. GRASSO, Diritto e procedura penale minorile, cit., p. 294) o che sia ‘‘del tutto inutile’’ (G. LA CUTE, Considerazioni, cit., p. 411). Anche chi asserisce l’utilità del parametro nel processo minorile, fa leva sulle funzioni educative del rito penale a carico di minorenni, ipotizzando che il procedimento per un fatto lieve possa essere sfruttato come occasione educativa per l’imputato: v. R. DE MATTEO, La dichiarazione di non luogo a procedere, cit., p. 209; P. DUSI, Irrilevanza del fatto, cit., p. 18; A. FANELLI, Nota, cit., c. 455; V. PATANÈ, L’irrilevanza del fatto, cit., p. 65; F. PALOMBA, Il sistema, cit., p. 384 s.; V. PUGLIESE, La formula terminativa dell’irrilevanza, cit., p. 125. L’unico argomento in favore del criterio in esame, non avrebbe dunque alcuna spendibilità nel rito innanzi al giudice di pace. (31) L. PEPINO, Processo minorile e formule definitorie, cit., p. 529. (32) Nota l’incoerenza del parametro sotto altro profilo, G. SPANGHER, Il procedimento davanti al giudice di pace, cit., p. 165, che osserva come appaia pregiudizievole soltanto il procedimento che abbia ad oggetto un fatto grave, sicché tenuità del fatto e pregiudizio del procedimento sull’imputato si pongono come i due termini di un’alternativa.
— 741 — peraltro suscettibili di valutazioni diverse e persino opposte (il processo, ad esempio, può essere ritenuto pregiudizievole solo per chi abbia un lavoro che ne sia intralciato o reso difficoltoso, oppure, con pari attendibilità esegetica, per chi sia privo di occupazione e ne stia cercando una). 4. La fisionomia della ‘‘tenuità del fatto’’ nel decreto legislativo di attuazione. — Il decreto legislativo che disegna il rito penale davanti al giudice di pace si preoccupa di tradurre le indicazioni della delega in ordine alla ‘‘tenuità del fatto’’ (art. 34 comma 1 d.lgs. n. 274 del 2000), in modo da conferire sufficiente determinatezza ai presupposti del peculiare esito del procedimento che essa implica, senza tuttavia scendere troppo in dettaglio. Si è privilegiato, insomma, ‘‘un modello agevolmente decrittabile e non particolarmente sofisticato’’, sull’assunto che, per un verso, l’eccessiva genericità potesse creare intollerabili disparità di trattamento in sede applicativa e, per altro, che l’eccessiva tipicizzazione della tenuità del fatto non si armonizzasse con ‘‘la peculiare matrice professionale del giudice di pace’’ (33). Il tenore della delega non impedisce di assegnare un contenuto più definito ai presupposti genericamente descritti, sicché è ammissibile la scelta di identificare la ‘‘tenuità del fatto’’ con ‘‘l’esiguità del danno o del pericolo’’ derivati dal fatto commesso, messi in relazione con l’ ‘‘interesse tutelato’’ dalla norma incriminatrice violata. La precisazione non altera il contenuto del presupposto indicato dalla delega, limitandosi a sancire i parametri di riferimento della relativa valutazione. L’oggettività e la materialità di questi, peraltro, risultano abbastanza facilmente controllabili ed aprono più ridotti spiragli alla discrezionalità del giudicante, evitando che il vaglio sulla tenuità possa avventurarsi sul terreno delle valutazioni globali sulla gravità della condotta, sull’allarme sociale, sul tipo d’autore. Sotto questo profilo, anzi, l’ulteriore specificazione relativa al ‘‘grado di colpevolezza’’, che deve essere tale da non giustificare l’esercizio dell’azione, dovrebbe costituire un’ulteriore remora, rinviando ad un giudizio analogo a quello previsto nell’art. 133 c.p.: ai fini della declaratoria di ‘‘tenuità’’ sembra rilevare, sotto il profilo delle valutazioni ‘‘personologiche’’, soltanto l’elemento soggettivo del reato, e sono preclusi giudizi che esulino dalla (peraltro necessaria) verifica sulla sussistenza e sul diverso atteggiarsi del dolo o della colpa. Colpisce, invece, che siano rimasti invariati, nel testo del decreto legislativo di attuazione, gli altri due parametri indicati dalla delega, riversati (33) Si esprime in questi termini la Relazione, cit., p. 65. Notano lo sforzo definitorio E. MARZADURI, Le disposizioni in materia di competenza penale del giudice di pace, in E. MARZADURI-R. ORLANDI, Compendio di procedura penale, a cura di G. Conso e V. Grevi, Appendice di aggiornamento, Cedam, 2000, p. 59; P. TONINI, La nuova competenza penale del giudice di pace: un’alternativa alla depenalizzazione?, in Dir. pen. e prc., p. 930.
— 742 — nella disciplina di dettaglio senza correttivi espliciti o precisazioni di sorta. Malgrado siano idonei alle più disparate ed incontrollabili applicazioni, sono stati inseriti nella previsione relativa alla ‘‘tenuità del fatto’’ sia l’occasionalità, sia il ‘‘pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute’’ dell’imputato. Al parametro dell’occasionalità è stato affiancato il richiamo al ‘‘grado di colpevolezza’’, come se ne fosse una specificazione, e benché il criterio si rifletta solo in parte sul giudizio inerente alla condotta occasionale, che può esserne influenzato, ma non vi si esaurisce. È pensabile che la distinzione tra dolo d’impeto e dolo di proposito, oppure fra dolo e colpa, oltre che rendere l’episodio criminoso oggettivamente più o meno grave (34), possa costituire un indice rilevante per un giudizio sulle attitudini criminali dell’autore e per una prognosi sul ripetersi del reato commesso. Tuttavia, anche a non voler considerare che l’occasionalità e la pericolosità vanno tenute distinte, la nozione di fatto occasionale sembra implicare un raffronto tra la condotta criminosa e le abitudini di vita dell’autore, rispetto alle quali essa si presenti come assolutamente episodica. Il non avere precedenti, allora, è elemento sicuramente rilevante a tali fini, ma non ha nulla a che vedere con il grado di colpevolezza per il fatto commesso. La lettura è confermata dal tenore letterale della previsione, che giustappone occasionalità e grado di colpevolezza come fattori aggiuntivi e distinti rispetto alla verifica sulla tenuità: per sancire la fine del procedimento, vanno valutati l’esiguità del fatto ‘‘nonché’’ la sua occasionalità ‘‘e’’ il grado di colpevolezza. Ciò malgrado, il criterio attinente a quest’ultima può riverberarsi sull’esegesi del parametro dell’occasionalità, favorendone un’intepretazione restrittiva. La valutazione sulla colpevolezza si sarebbe potuta ritenere implicita in una nozione ampia di fatto ‘‘occasionale’’, in cui fosse incondizionatamente consentito il giudizio sull’autore: il vaglio sulla componente ‘‘psicologica’’ dell’occasionalità non avrebbe certo potuto prescindere dall’elemento soggettivo del reato commesso, ineludibile punto di partenza della verifica giudiziale. L’esplicitazione di tale profilo del giudizio suggerisce, pertanto, che il vaglio sull’occasionalità debba limitarsi alla considerazione del reato commesso come componente di una serie criminosa e, solo in questo senso, possibile ‘‘spia della capacità a delinquere’’ (35). Non sembrano consentite neppure prognosi sull’attitudine criminale (34) La stessa Relazione, cit., p. 66, considera il riferimento al grado di colpevolezza come un aspetto del giudizio sulla tenuità del fatto, affermando che, grazie ad esso, ‘‘il giudizio di esiguità possiede (...) una portata più facilmente riconoscibile’’. L’occasionalità, per contro, viene considerata separatamente, come profilo attinente alle ‘‘esigenze della prevenzione speciale’’. (35) In questi termini, v. Relazione allo schema di decreto legislativo, cit., p. 40. Per
— 743 — dell’imputato, se non in quanto implicite nel giudizio negativo sulla sussistenza di accertati trascorsi delittuosi. Non solo, infatti, l’unico pronostico ammesso appare quello relativo al possibile pregiudizio del procedimento per la vita dell’imputato, ma, soprattutto, una valutazione di questo tipo, ove fosse sganciata dal mero riscontro sui precedenti penali dell’imputato, non potrebbe che tradursi in un vaglio ‘‘sull’autore’’. La fisionomia del giudicante, anzi, induce a vincolarlo ad un giudizio quanto più possibile oggettivo e stringente: la ratio dei presupposti dell’istituto è proprio quella di consentire una valutazione semplice, sicché non sembra che sarebbe ammissibile, in quest’ottica, un giudizio sofisticato come quello sulla capacità a delinquere, mentre appare di immediata percezione e facile prova la valutazione sul passato criminale del reo. Preclusi giudizi generali e valutazioni prognostiche sull’autore e sulla sua personalità, rimane rilevante il solo fatto che l’imputato abbia precedenti, sia ‘‘nel contesto delle tipologie criminose interessate dall’istituto’’, sia, a più forte ragione, nell’ambito di tipologie criminose più gravi di quelle per cui è competente il giudice di pace (36). Quanto al pregiudizio agli interessi essenziali dell’imputato, prodotto dallo svolgersi del processo, non sembra che per via esegetica se ne possa precisare di molto la portata. Inserito con comprensibile riluttanza nel testo dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000 (37), presenta seri rischi di applicazione diseguale, affidando alla valutazione discrezionale del giudice il biun’impostazione parzialmente diversa, v. però G. AMATO, Così il ‘‘ravvedimento operoso’’ estingue il reato, in Guida dir., 2000, n. 38, p. 124. (36) Il riferimento alle condotte illecite ‘‘interessate dall’istituto’’ proviene dalla Relazione, cit., p. 66, che evidentemente richiama la necessità di considerare non occasionale un fatto ripetuto più di una volta dalla medesima persona, malgrado si tratti di un episodio in sé bagatellare, sia perché inquadrabile in una tipologia di reati ‘‘lieve’’, sia perché posto in essere con modalità scarsamente lesive. Non significa, tuttavia, che una seriazione criminosa più grave, perché riferita a reati che sfuggirebbero all’applicazione dell’istituto per essere di competenza di un giudice superiore, non abbia rilievo. La precisazione vale solo ad evidenziare che reati in sé esigui, se ripetuti, cessano di essere tali. (37) La Relazione allo schema di decreto legislativo presentato per la prima approvazione, premesso che l’inserimento del parametro è frutto del doveroso omaggio alla legge delega, notava come esso orienti ‘‘evidentemente l’istituto verso esigenze di natura socio-personologica che potrebbero porsi in contrasto con la carta costituzionale, segnatamente con l’art. 3’’; di qui, l’auspicio di ‘‘un autorevole intervento chiarificatore delle camere in sede di rilascio del parere’’ sullo schema di decreto elaborato (p. 41). Raccogliendo l’invito, la riflessione parlamentare si è dedicata specificamente a questo aspetto: la Commissione Giustizia della Camera, condividendo la perplessità della relazione ministeriale, ha proposto di eliminare il passaggio normativo che si riferisce al pregiudizio del procedimento per gli interessi dell’imputato; la Commissione Giustizia del Senato ha ritienuto ‘‘di potere escludere il timore di lesione del principio di eguaglianza’’. A quest’ultima impostazione si richiama attualmente la relazione governativa, concludendo che la norma debba mantenere la formulazione iniziale; peraltro, residua una cautela di fondo, palesata dallo sforzo di contenere il rilievo effettivo del criterio in esame che viene definito ‘‘ulteriore ed integrativo’’, e ‘‘non già una condizione ineludibile per il riconoscimento della particolare tenuità del fatto’’ (Rela-
— 744 — lanciamento di interessi tra la prosecuzione del procedimento e le ‘‘esigenze’’ di lavoro, studio, famiglia o salute dell’imputato. La sua coerenza logica è precaria, dal momento che appare difficile ipotizzare un procedimento penale privo di ripercussioni sul piano personale per chi vi è coinvolto. Queste, inoltre, risultano sempre spropositate quando il fatto per cui si procede sia riconosciuto come particolarmente tenue, sicché, concluso positivamente il giudizio sugli altri criteri normativi per affermare la tenuità del fatto, l’ultimo ne resta svuotato. Per contro, ove il fatto non risulti tenue sulla base dei parametri della prima parte della previsione, lascerebbe perplessi che il giudicante possa ritenerlo tale per effetto dell’eventuale pregiudizio che il reo potrebbe subìre per lo svolgersi del procedimento: non sarebbe costituzionalmente accettabile un’interpretazione che permettesse al giudice di pace di sancire la conclusione del procedimento penale e la rinuncia dello Stato alla pretesa punitiva per un fatto che, grave o non occasionale o seriamente colpevole, fosse commesso da chi potesse vantare interessi personali affidati alla ‘‘benevolenza’’ del giudicante e ritenuti da questi prevalenti. Esclusa questa possibilità, resta però vacuo il senso del presupposto, che è pensabile (e forse auspicabile) venga ridotto dalla giurisprudenza ad una formula di stile. 5. La collocazione nel sistema processuale. — La delega non si spinge al di là dell’individuazione dei caratteri essenziali del fatto tenue, lasciando il legislatore delegato libero di costruire e di inserire nel rito penale davanti al giudice di pace il ‘‘meccanismo di definizione del procedimento’’ collegato alla valutazione di ‘‘particolare tenuità’’. Il testo dell’art. 17 lett. f) l.del. autorizza l’individuazione di due soli caratteri del congegno processuale prefigurato: l’idoneità della tenuità del fatto a produrre la chiusura dell’itinerario procedimentale (la ‘‘definizione’’ del procedimento); la possibilità di conclusione in uno stadio precoce della sequenza rituale, anche prima dell’esercizio dell’azione penale (si pensi al riferimento testuale sia all’imputato, che alla ‘‘persona sottoposta ad indagini’’) (38). Tenendo conto del catalogo di formule definitorie rinvenibile nel codice di rito penale (artt. 529 ss. c.p.p.), le figure cui astrattamente il legislatore delegato avrebbe potuto fare ricorso, per delineare i caratteri dell’istituto, sono la condizione di procedibilità e la causa di non punibilità (39). Basandosi sulla prima categoria, la rilevanza del fatto diviene zione, cit., p. 67). Per una difesa del parametro relativo agli effetti pregiudizievoli del rito, v. G. AMATO, Così il ‘‘ravvedimento operoso’’ estingue il reato, cit., p. 125, ove peraltro si condividono le cautele esegetiche di cui alla relazione. (38) Cfr. S. QUATTROCOLO, Commento alla l. 24 novembre 1999, n. 468, cit., p. 10; G. SPANGHER, Il procedimento davanti al giudice di pace, cit., p. 165. (39) Cfr. R.E. KOSTORIS, Obbligatorietà dell’azione penale, cit., p. 209 s. Non a caso,
— 745 — condizione per poter esercitare l’azione penale, sicché, in presenza dei caratteri di ‘‘tenuità’’ sanciti dalla legge, l’azione non risulta esperibile e, ove promossa, non può essere proseguita. Se conformata alla seconda categoria, la fattispecie condiziona l’applicabilità della sanzione penale: l’autore di un fatto criminoso esiguo, secondo i parametri normativamente indicati, non si vede irrogare la pena. Al di là della classificazione dogmatica della tenuità come causa di improcedibilità o causa di non punibilità (40), preme qui osservare quali sono gli esiti dell’opzione dal punto di vista strettamente processuale, dal momento che le due formule terminative che corrispondono all’alternativa prospettata si collocano talora in sedi procedimentali diverse e non sono idonee a chiudere la vicenda processuale con lo stesso grado di definitività. Il difetto di una condizione di procedibilità può essere fatto valere già come causa di archiviazione (art. 411 c.p.p.) e, nel prosieguo dell’itinerario processuale, può fondare una sentenza di non luogo a procedere (art. 425 c.p.p.), una decisione di proscioglimento predibattimentale (art. 469 c.p.p.), una sentenza di non doversi procedere (art. 529 c.p.p.), nonché, in qualsiasi momento del processo e nei limiti in cui trovi spazi applicativi al di fuori delle ipotesi rammentate, l’immediata declaratoria di improcedibilità (art. 129 c.p.p.). Il ricorso a tale categoria nel procedimento davanti al giudice di pace (privo di udienza preliminare) ha, quindi, il pregio di consentire la definizione rapida del procedimento mediante archiviazione o, al più, in sede di predibattimento, con un notevole risparmio di risorse e la perfetta coincidenza con quello che sembra il dettato della delega. La scelta di questo percorso, tuttavia, non è priva di insidie, se si considera la scarsa efficacia preclusiva che è propria del provvedimento archiviativo, specie se fondato sul difetto di una condizione di procedibilità. Il ‘‘nullaosta giurisdizionale’’ (41) che consente al p.m. di riaprire un procedimento archiviato, già in ragione del flessibile parametro dell’ ‘‘esigenza di nuove investigazioni’’ (art. 414 c.p.p.), non è neppure necessario, a fronte del sopravvenire di una condizione di procedibilità, insussistente al i disegni di legge che, in passato, hanno tentato di introdurre l’irrilevanza del fatto nell’ordinamento processuale, hanno strutturato l’istituto, in un caso, come condizione di procedibilità (d.d.l. n. 4625/C), nell’altro come causa di non punibilità (d.d.l. n. 4625 bis/C). Si è impegnato sul difficile terreno di questa alternativa anche il dibattito in seno alla Commissione ministeriale per la riforma del codice penale, istituita con d.m. 1o ottobre 1998, come risulta dall’allegato I della Relazione finale, dedicato appunto a ‘‘Necessaria offensività e irrilevanza penale del fatto’’. (40) La scelta appartiene al campo del diritto penale sostanziale e sul punto non si ha qui modo di interloquire. In ragione dei caratteri essenziali dell’istituto, la tesi prevalente in dottrina con riferimento all’irrilevanza del fatto nel rito penale minorile è quella che vi ravvisa una causa di non punibilità (v. retro, nota 14). (41) G. GIOSTRA, L’archiviazione, Giappichelli, 2a ed., 1994, p. 91.
— 746 — momento della definizione del procedimento (art. 345 c.p.p.) (42). Quest’ultima evenienza, peraltro, è idonea a consentire l’esercizio dell’azione penale per il medesimo fatto e contro la medesima persona, anche nel caso in cui il processo sia stato concluso da una sentenza di proscioglimento (art. 345 c.p.p.). Le caratteristiche dell’istituto rendono questa possibilità piuttosto inquietante, dal momento che il giudizio di tenuità poggia su parametri caratterizzati da ampi margini di discrezionalità: chi si è visto definire il procedimento per tenuità del fatto, dunque, non potrebbe mai escludere con certezza che una nuova verifica sui medesimi dati a disposizione ovvero su ulteriori elementi di giudizio, porti all’esercizio dell’azione penale. Del resto, i connotati del fatto tenue non dipendono solo da fattori ‘‘stabili’’, ossia da circostanze date una volta per tutte, come i caratteri dell’episodio storico per cui si procede, ma anche da situazioni passibili di evoluzione, indipendenti dal reato e ad esso successive. Queste potrebbero essere pregiudicate dal processo in un dato momento ma, in seguito, risultarvi immuni; così, un fatto ritenuto tenue anche alla luce del possibile pregiudizio agli studi dell’indagato, potrebbe finire coll’acquistare rilievo a seguito dell’abbandono o della conclusione del percorso scolastico. L’indagato finirebbe, in simili casi, con il trovarsi potenzialmente sub iudice fino allo spirare del termine di prescrizione del reato. Non presenterebbe questo problema la costruzione della tenuità del fatto come causa di non punibilità, che non può fondare un provvedimento di archiviazione. Ma simile soluzione avrebbe il demerito di impedire un esito precoce del procedimento: per verificare la sussistenza di una causa di esenzione dalla pena, si deve comunque esercitare l’azione penale e pervenire alla fase dibattimentale, essendo preclusa la definizione anticipata ex art. 469 c.p.p. e mancando, nel rito penale davanti al giudice di pace, l’udienza preliminare (43). (42) G. GARUTI, Chiusura delle indagini e archiviazione, in AA.VV., Indagini preliminari ed instaurazione del processo, Utet, 1999, p. 471; G. GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 92; R.E. KOSTORIS, (voce) Riapertura delle indagini, in Enc. dir., vol. XL, 1989, p. 350. L’applicabilità dell’art. 345 c.p.p. alle ipotesi di ‘‘irrilevanza del fatto’’ configurate come cause di improcedibilità è valutata positivamente da R.E. KOSTORIS, Obbligatorietà dell’azione penale, cit., p. 215. (43) Salvo concepire un apposito rito alternativo, che consenta l’esercizio dell’azione penale per i fatti irrilevanti sin dallo stadio iniziale delle indagini e, in caso di valutazione positiva, l’emissione di una sentenza di proscioglimento. L’escamotage vale a non compromettere l’efficacia deflattiva dell’istituto ed è stato sperimentato nel rito penale minorile, in cui l’art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988 prevede un’udienza camerale per vagliare nel contraddittorio tra le parti la richiesta del pubblico ministero di sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. Per l’inammissibilità di un’archiviazione dovuta alla sussistenza di una causa di non punibilità, cfr. G. GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 19 s.; nonché M.G. COPPETTA, La riparazione per ingiusta detenzione, Cedam, 1993, p. 143; contra F. CAPRIOLI, L’archiviazione, p. 368.
— 747 — Il legislatore delegato ha mostrato di privilegiare le esigenze di economia processuale, disegnando la ‘‘tenuità del fatto’’ come causa di esclusione della procedibilità, in modo da garantire un esito rapido del procedimento, senza avventurarsi nella creazione di ‘‘meccanismi non previsti dalla delega ed ignoti all’ordinamento’’ (44). Le perplessità sollevate da una simile opzione e dovute alle caratteristiche dei presupposti dell’istituto, peraltro, sono addirittura accresciute, alla luce della costruzione che ne ha fatto il decreto legislativo che lo disciplina, inserendo nel meccanismo procedimentale una sorta di ‘‘componente consensuale’’ non prevista dalla legge delega (45). La ‘‘particolare tenuità del fatto’’, ai sensi del combinato disposto degli artt. 34 comma 2 e 17 comma 1 d.lgs. n. 274 del 2000, consente al pubblico ministero di chiedere al giudice una ‘‘dichiarazione’’ di ‘‘non doversi procedere’’ mediante decreto di archiviazione. Il provvedimento, però, può essere emesso ‘‘solo se non risulta un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento’’ (art. 34 comma 2 d.lgs. n. 274 del 2000). Una volta esercitata l’azione penale, la tenuità del fatto ‘‘può essere dichiarata con sentenza solo se l’imputato e la persona offesa non si oppongono’’ (art. 34 comma 3 d.lgs. n. 274 del 2000). C’è da chiedersi, dunque, cosa accada, se, dopo la declaratoria di non doversi procedere, sopraggiunga un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento oppure questa o l’imputato avanzino un’opposizione inizial(44) La cautela, dichiarata in questi termini nella Relazione, cit., p. 67, ha portato ‘‘a valorizzare la circostanza che la legge delega, per la parte che qui interessa, si è ispirata all’art. 27 comma 1 del processo minorile’’; ciò ‘‘ha indotto a configurare la particolare tenuità del fatto come causa di non procedibilità’’. Sotto questo profilo, però, non sembra che vi sia consequenzialità nell’argomento addotto a sostegno della scelta operata: si è già rammentato (v. supra, nota 14), infatti, che è discussa la natura dell’istituto dell’irrilevanza del fatto previsto nel procedimento penale a carico di minorenni, e che è maggioritaria e preferibile l’opinione che vi ravvisa una causa di non punibilità. Per la rilevanza della componente consensuale nelle ‘‘alternative al processo’’, v. M.G. AIMONETTO, L’archiviazione ‘‘semplice’’ e la ‘‘nuova’’ archiviazione ‘‘condizionata’’ nell’ordinamento francese: riflessioni e spunti per ipotesi di ‘‘deprocessualizzazione’’, in Leg. pen., 2000, p. 124; nonché, in ordine al diritto di intervento dell’offeso, R.E. KOSTORIS, Obbligatorietà dell’azione penale, cit., p. 215. (45) Il parametro non è per questo passibile di censure di illegittimità costituzionale. Di certo, esso non trova copertura nella delega come componente dei presupposti ‘‘sostanziali’’ dell’improcedibilità per tenuità del fatto, tra i quali non appare, ma l’ampia formulazione della direttiva che attiene all’istituto in esame può garantirne la sopravvivenza. Vi si fa menzione, infatti, del tutto genericamente, di un meccanismo di definizione del procedimento per fatti particolarmente tenui, dando mandato al Governo di definirne l’impianto; e l’apporto della persona offesa e dell’imputato a tale esito procedimentale si può collocare — come in effetti avviene nella formulazione della norma — tra i caratteri della procedura, più che fra i presupposti dell’istituto. Per la rilevanza della componente consensuale nelle ‘‘alternative al processo’’ v. M.G. AIMONETTO, L’archiviazione ‘‘semplice’’ e la ‘‘nuova’’ archiviazione ‘‘condizionata’’ nell’ordinamento francese: riflessioni e spunti per ipotesi di ‘‘deprocessualizzazione’’, in Leg. pen., 2000, p. 124; nonché, in ordine al diritto di intervento dell’offeso, R.E. KOSTORIS, Obbligatorietà dell’azione penale, cit., p. 215.
— 748 — mente taciuta. Si può, tuttavia, negare che la causa di improcedibilità per tenuità del fatto possa venire compromessa ex post da un ripensamento degli interessati o da un mutamento nelle prospettive dell’offeso, malgrado il tenore dell’art. 345 c.p.p. L’elemento della fattispecie che attiene alla tutela della persona offesa e al diritto di difesa dell’imputato sembra, infatti, essere una componente del procedimento applicativo, più che un dato integrante la causa di improcedibilità per tenuità del fatto. Una volta appurata la sussistenza dei presupposti che ne costituiscono il fondamento, assegnare all’imputato e alla vittima la facoltà di opporsi costituisce una forma di tutela del diritto di difesa, garantendo ai soggetti del processo l’occasione di far valere il proprio interesse ad un diverso esito processuale. La tacita convergenza di volontà che si forma in ragione della mancata opposizione consente, peraltro, di configurare un accordo ‘‘convalidato’’ dalla decisione, dal quale non è possibile recedere successivamente. La prospettiva ‘‘vittimologica’’ che sembra ispirare la valutazione dell’interesse dell’offeso in fase preliminare, implica invece un maggiore sforzo esegetico, perché la si possa ricondurre non ad un elemento della fattispecie ‘‘sostanziale’’ della causa di improcedibilità, quanto ad un dato eminentemente procedimentale. Ciò non solo per l’assenza di una sede nella quale garantire il contraddittorio e consentire all’offeso di far valere le proprie ragioni, ma anche per l’indipendenza che rispetto ad esse sembra avere la valutazione del giudicante: la norma si limita ad imporre la verifica dell’indifferenza della vittima per il proseguimento del rito penale, apparentemente prescindendo dalle sue dichiarate intenzioni, per affidare al giudice il compito di stabilire le migliori modalità di tutela dei suoi interessi. Non sembra, tuttavia, che la previsione consenta all’autorità procedente più di una ricognizione oggettiva della volontà della parte lesa quanto all’esito procedimentale, poiché in tal senso depongono sia il dato letterale, che quello sistematico. L’interesse alla prosecuzione del procedimento deve ‘‘risultare’’, per cui al giudice viene dato il compito di effettuare una verifica sugli atti, non di sondare o interpretare strategie e intenti reconditi dell’offeso (46). Il termine evoca l’oggettività di una constatazione, riferibile all’assenza di una dichiarazione di volontà negativa che la legge assume come vincolante. Conforta questa tesi la simmetria (46) Secondo la Relazione, cit., p. 68, ‘‘non sembra opportuno riconoscere al giudice di pace il potere di opporre un fine di non ricevere alla domanda di giustizia del privato’’. V. tuttavia G. AMATO, Così il ‘‘ravvedimento operoso’’ estingue il reato, cit., p. 126, secondo cui al giudice spetta un ‘‘potere di sindacato’’ sull’effettiva esistenza dell’interesse alla prosecuzione del procedimento, pur quando la vittima lo abbia espressamente dichiarato. Per E. MARZADURI, Le disposizioni, cit., p. 60, il rilievo dell’interesse dell’offeso implica l’obbligo di sentirlo per il pubblico ministero che ritenga di chiedere l’archiviazione ex art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000.
— 749 — con la disciplina prevista per la fase processuale, in cui si consente la declaratoria di tenuità del fatto in assenza di ‘‘opposizione’’ della persona offesa, ossia di un veto del quale il giudice può verificare la sussistenza, ma che non può limitarsi ad ipotizzare. 6. Le modalità di chiusura del procedimento e le garanzie: l’obbligatorietà dell’azione penale. — La scelta di collocare l’istituto descritto nell’art. 17 lett. f) l.del. nell’area delle condizioni di procedibilità può, altresì, avere ripercussioni sul piano della compatibilità della tenuità del fatto con il principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.). L’operatività della disciplina in seno all’archiviazione (art. 34 comma 2 d.lgs. n. 274 del 2000), in particolare, rende evidente l’idoneità della clausola ad incidere sui termini dell’alternativa affidata al pubblico ministero dall’art. 405 c.p.p., e ne impone una verifica alla luce del dettato costituzionale (47). La disciplina in esame postula, infatti, la sussistenza di un fatto corrispondente al tipo disegnato da una norma incriminatrice e ne presuppone (47) Non si può dire, peraltro, che un differente inquadramento tipologico dell’irrilevanza risolverebbe il problema in modo definitivo: la vicenda che ha riguardato, proprio sotto questo profilo, l’art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988, è emblematica. L’irrilevanza del fatto prevista per il procedimento penale a carico di minorenni è ritenuta pressoché unanimemente causa di non punibilità e di essa il legislatore ha scientemente escluso la possibilità di fungere da ragione archiviativa, proprio per garantirne la compatibilità con la Carta fondamentale (v. Relazione al progetto definitivo delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, in Gazz. Uff., 24 ottobre 1988, n. 250, p. 221). Al fine di consentire all’istituto di trovare esplicazione anche nel corso delle indagini preliminari, si è concepito, così, un subprocedimento che, movendo dall’iniziativa del pubblico ministero attraverso una specifica richiesta di sentenza dichiarativa dell’irrilevanza, passa attraverso un’apposita udienza camerale ed approda a una sentenza di merito. Il complesso di garanzie predisposto a corredo del peculiare esito processuale e, soprattutto, il vaglio del giudicante e la forma di sentenza assegnata alla decisione sembravano fare da adeguato presidio all’istituto, anche di fronte alle presumibili perplessità che sarebbe stato in grado di suscitare, se posto a confronto con l’art. 112 Cost. La costruzione appena descritta, tuttavia, non è riuscita ad evitare le censure di costituzionalità sotto questo profilo, che però è stato lasciato irrisolto dalla Corte costituzionale; questa, investita della questione, ha censurato l’originaria versione della norma minorile per eccesso di delega, soprassedendo sulle eccezioni mosse all’istituto sotto altri aspetti (Corte cost. n. 250 del 1991). La questione è ritenuta tuttora aperta in dottrina: per la difficoltà di armonizzare l’istituto con l’art. 112 Cost., cfr. M. COLAMUSSI, La sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, cit., p. 1677; R. DE MATTEO, La dichiarazione di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, cit., p. 205; quanto alla possibilità di ritenerlo compatibile con il principio di obbligatorietà, S. DI NUOVO-G. GRASSO, Diritto e procedura penale minorile, cit., p. 289; V. PATANÈ, L’individualizzazione, cit., p. 151, nota 76; E. ZAPPALÀ, Il processo a carico di imputati minorenni, cit., p. 721. Le traversìe dell’art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988 dimostrano, dunque, che la strutturazione dell’irrilevanza del fatto come causa di non punibilità e la sottrazione dell’archiviazione alla sua sfera operativa, avrebbero potuto non bastare a sopire i plausibili dubbi di compatibilità dell’istituto con il principio di obbligatorietà dell’azione penale.
— 750 — la commissione da parte della persona nei cui confronti si procede. Tanto dovrebbe bastare per l’esercizio dell’azione (48), sicché la scelta dell’inerzia appare difficile da conformare al dettato della norma fondamentale, che non lascia margini al pubblico ministero per valutazioni di opportunità o convenienza (49). L’art. 112 Cost. non impone l’esercizio dell’azione penale per qualsiasi reato di cui la pubblica accusa abbia notizia (50), ma nell’ipotesi de qua il livello di accertamento raggiunto per giustificare la conclusione del procedimento è avanzato ed analogo a quello che potrebbe fondare l’azione: per i fatti che si potrebbero ritenere tenui, in assenza dell’istituto appena varato si sarebbe dovuto agire. L’attitudine deflattiva della previsione risiede nel fatto che essa incide su una porzione di attività giudiziaria che avrebbe prodotto non solo procedimenti, ma processi. Il principio di obbligatorietà dell’azione penale, del resto, implica il divieto di una disciplina che consenta al pubblico ministero di scegliere discrezionalmente quali azioni siano meritevoli di essere coltivate e quali possano essere abbandonate senza guasti rilevanti per la stabilità dell’ordinamento, precludendo un regime ordinario per il quale la scelta tra azione ed inerzia sia ‘‘neutra’’ ed egualmente legittima (51). Nell’ipoteca sull’attività della magistratura inquirente che il principio comporta è stato, perciò, ravvisato uno dei settori principali sui quali incidere per recuperare le ragioni di efficienza di un sistema ingolfato, superando la ‘‘mitizzazione’’ della clausola costituzionale e riconoscendo realisticamente l’impossibilità di darvi rigorosa attuazione (52). Il principale ‘‘costo’’ (48) ‘‘Il pubblico ministero deve promuovere l’azione non appena ravvisi, secondo il grado logico proprio dei giudizi storici insiti nell’imputazione, che è stato commesso un fatto integrante al completo tutti gli estremi di una figura normativa di reato’’ (O. DOMINIONI, (voce) Azione penale, in Dig. disc. pen., vol. I, 1987, p. 410). (49) O. DOMINIONI, (voce) Azione penale, cit., p. 410. (50) M.G. AIMONETTO, L’archiviazione, cit., p. 120; G. GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 8; G. ICHINO, Obbligatorietà e discrezionalità dell’azione penale, in Quest. giust., 1997, n. 2, p. 304; F. RUGGERI, La giurisdizione di garanzia nelle indagini preliminari, Giuffrè, 1996, p. 145; G. UBERTIS, (voce) Azione (II), in Enc. Giur. Treccani, vol. IV, 1988, p. 4. (51) V. B. CARAVITA, Obbligatorietà dell’azione penale e collocazione del pubblico ministero, in AA.VV., Accusa penale e ruolo del pubblico ministero, a cura di A. Gaito, 1991, p. 300. (52) È diffuso il riconoscimento che il principio di obbligatorietà dell’azione penale, a fronte della strutturale inadeguatezza del sistema della giustizia criminale di fronteggiare il carico di lavoro quotidiano, subisce temperamenti di fatto potenzialmente assai più pericolosi delle possibili regole legali di selezione degli affari o di organizzazione delle priorità, che hanno almeno il pregio della trasparenza, della verificabilità, della responsabilizzazione della magistratura. In tema, cfr. M. CHIAVARIO, Obbligatorietà dell’azione penale: il principio e la realtà, in AA.VV., Il pubblico ministero oggi, Giuffrè, 1994, p. 84 ss.; V. GREVI, Il problema della lentezza dei procedimenti penali, cit., c. 592; G. ICHINO, Obbligatorietà e discrezionalità, cit., p. 296; L. MARAFIOTI, L’archiviazione tra crisi del dogma di obbligatorietà dell’azione ed opportunità ‘‘di fatto’’, in Cass. pen., 1992, p. 213 s.; C.E. PALIERO, ‘‘Minima non
— 751 — della mancanza di poteri di gestione ‘‘strategica’’ dell’azione è, infatti, l’elefantiasi della giustizia penale, agli occhi della quale grande criminalità e fatti bagatellari sono identici ed impegnano teoricamente lo stesso tipo (se non la stessa quantità) di risorse (53). Si è rammentato, così, che l’art. 112 Cost., se preclude la discrezionalità dell’azione penale, non vieta di introdurre criteri normativi di selezione dei fatti per i quali agire, con considerevole vantaggio per l’efficacia della risposta statuale agli illeciti di maggiore serietà (54). La norma, peraltro, oppone resistenza sul terreno dei parametri che dovrebbero, in questa prospettiva, veicolare le opzioni del pubblico ministero: se l’azione non può essere discrezionale, sarebbe di pura facciata una disciplina che orientasse le scelte dei magistrati inquirenti mediante criteri indeterminati ed incontrollabili. Affidare al pubblico ministero la verifica sui presuppocurat praetor’’, cit., p. 332 s.; G. PISAPIA, Relazione introduttiva, in AA.VV., Il pubblico ministero oggi, cit., p. 18; A. ROSSI, Per una concezione ‘‘realistica’’ dell’obbligatorietà dell’azione penale, in Quest. giust., 1997, n. 2, p. 314; V. ZAGREBELSKY, Stabilire le priorità nell’esercizio obbligatorio dell’azione penale, in AA.VV., Il pubblico ministero oggi, cit., p. 104; contra M. D’ORAZI, Un referendum inammissibile. Critica dei modelli di separazione delle carriere dei magistrati, in Crit. pen., 1999, I-II, p. 49. (53) In nome del necessario risparmio di tali risorse, è da tempo sperimentata nella prassi l’adozione dei criteri di priorità nella trattazione degli affari penali, che dovrebbero orientare il lavoro delle Procure della Repubblica: v., anche per l’armonizzazione di tali meccanismi con il principio di obbligatorietà dell’azione penale, M. CHIAVARIO, Obbligatorietà dell’azione penale, cit., p. 95; V. GREVI, Il problema della lentezza dei procedimenti, cit., c. 592; G. ICHINO, Obbligatorietà e discrezionalità, cit., p. 297 s.; G. NEPPI MODONA, Principio di legalità e nuovo processo penale, in AA.VV., Il pubblico ministero oggi, cit., p. 124; V. ZAGREBELSKY, Stabilire le priorità, cit., p. 103 ss.; nonché, in senso critico, G. D’ELIA, I principi costituzionali di stretta legalità, obbligatorietà dell’azione penale ed eguaglianza a proposito dei ‘‘criteri di priorità’’ nell’esercizio dell’azione penale, in G. cost., 1998, p. 1878; A. ROSSI, Per una concezione ‘‘realistica’’ dell’obbligatorietà, cit., p. 315. L’idea è approdata in sede normativa con l’art. 227 d.lgs. n. 51 del 1998, in relazione ai criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti, al fine di assicurare la rapida definizione delle pendenze alla data di entrata in vigore del decreto legislativo ‘‘in materia di istituzione del giudice unico di primo grado’’. La previsione, infatti, indica i parametri generali cui ispirarsi nella trattazione dei procedimenti e nella formazione dei ruoli di udienza, identificandoli nella ‘‘gravità’’ e ‘‘concreta offensività del reato’’, nel ‘‘ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti’’, nonché nell’ ‘‘interesse della persona offesa’’; quindi, affida la determinazione specifica delle guide lines ai singoli uffici giudiziari, con obbligo di darne comunicazione al C.S.M. In tema, v. E. MARZADURI, L’introduzione del giudice unico di primo grado ed i nuovi assetti del processo penale, in Leg. pen., 1998, p. 379; M. NOBILI, Nuovi modelli e connessioni: processo-teoria dello Stato-epistemologia, in I. pen., 1999, p. 33; P.P. RIVELLO, (voce) Giudice unico, in Dig. disc. pen., Aggiornamento, 2000, p.354 ss. (54) Fra questi, appunto, la ‘‘concreta inidoneità offensiva del fatto’’ (M. CHIAVARIO, Obbligatorietà dell’azione penale, cit., p. 89); v. pure M.G. AIMONETTO, L’archiviazione, cit., p. 120; F.S. BORRELLI, Il ruolo del pubblico ministero nel nuovo processo penale, in AA.VV., Il pubblico ministero oggi, cit., p. 34; F. CAPRIOLI, L’archiviazione, Jovene. 1994, p. 600; G. ICHINO, Obbligatorietà e discrezionalità, cit., p. 308; E. MARZADURI, in AA.VV., Il pubblico ministero oggi, cit., p. 147; ID., (voce) Azione, cit., p. 20; A. ROSSI, Per una concezione ‘‘realistica’’ dell’obbligatorietà, cit., p. 316 s.
— 752 — sti dell’azione, a salvaguardia del principio di obbligatorietà, non ha senso, se non in quanto tali criteri consentano obiettivamente di controllarne le scelte. In caso contrario, neppure il successivo vaglio del giudicante potrebbe sottrarre al dubbio di legittimità l’istituto, dal momento che la vaghezza dei presupposti cui la declaratoria di irrilevanza verrebbe subordinata sarebbe tale, da giustapporre alla verifica discrezionale del p.m. una simmetrica discrezionalità del giudice, senza che il sommarsi di arbitrio ad arbitrio valga a recuperare determinatezza alla fattispecie processuale (55). Infine, l’art. 112 Cost. costituisce ineludibile riflesso processuale del principio di eguaglianza (56), sicché, a parte l’inopportunità ‘‘politica’’ di mettervi mano (57), se ne può identificare la sostanza nell’esigenza che, a fronte del medesimo illecito, i cittadini incontrino la medesima reazione dell’ordinamento, come manifestazione della parità di condizioni che viene loro riconosciuta di fronte alla legge. Se, dunque, sono ammissibili criteri orientativi della scelta di agire, la previsione costituzionale esige che essi siano prestabiliti dalla legge, sufficientemente determinati, fondati sulle caratteristiche del fatto (58). (55) Cfr. G. GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 11. Per l’irrinunciabilità del controllo giurisdizionale sull’inazione, accresciuta a misura dell’ampliamento delle valutazioni che la ispirano, v. M. CHIAVARIO, Obbligatorietà dell’azione penale, cit., p. 94. Offre spunti in tal senso la ricostruzione diacronica del rapporto tra obbligatorietà dell’azione penale e controllo giurisdizionale, dovuta a G. CONSO, Il provvedimento di archiviazione, in Riv. ir. dir. pen., 1950, p. 323 ss. (56) Corte cost. n. 84 del 1979; Corte cost. n. 88 del 1991; B. CARAVITA, Obbligatorietà dell’azione penale, cit., p. 300; F. CORBI, Obbligatorietà dell’azione penale ed esigenze di razionalizzazione del processo, in questa Rivista, 1980, p. 1057; G. D’ELIA, I principi costituzionali di stretta legalità, obbligatorietà dell’azione penale ed eguaglianza, cit., p. 1885 ss.; G.GUARNERI, (voce) Azione penale (diritto processuale penale), in Nss. Dig., vol. II, 1958, p. 69; G. ICHINO, Obbligatorietà e discrezionalità, cit., p. 291; F. RUGGERI, La giurisdizione di garanzia, cit., p. 143; C. TAORMINA, Vecchio e nuovo nella teoria dell’azione penale alle soglie del nuovo codice di procedura, in Giust. pen., 1988, III, p. 130 ss.; G. UBERTIS, (voce) Azione, cit., p. 4. (57) M. CHIAVARIO, Obbligatorietà dell’azione penale, cit., p. 83; F. CORBI, Obbligatorietà dell’azione penale, cit., p. 1061 s. Vi sono, però, opinioni aperte ad una possibile rimeditazione dell’art. 112 Cost.: cfr. G. DI FEDERICO, Obbligatorietà dell’azione penale, coordinamento dell’attività del pubblico ministero e loro rispondenza alle aspettative della comunità, in AA.VV., Accusa penale e ruolo del pubblico ministero, cit., p. 180; C. VITALONE, La funzione d’accusa tra obbligatorietà e discrezionalità, ibidem, p. 295. (58) Secondo E. MARZADURI, Le disposizioni, cit., p. 59, la ‘‘sufficiente determinazione della fattispecie’’ ex art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000, ne esclude il conflitto con l’art. 112 Cost. Per un richiamo all’esigenza di salvaguardare obiettività e trasparenza nell’esercizio dell’azione penale, cfr. M. CHIAVARIO, Obbligatorietà dell’azione penale, cit., p. 93; v. pure M.G. AIMONETTO, L’archiviazione, cit., p. 121 e p. 133; nonché, anche in ordine al nesso tra definitezza dei presupposti e controllo giurisdizionale, V. GREVI, Archiviazione per ‘‘inidoneità probatoria’’ ed obbligatorietà dell’azione penale, in questa Rivista, 1990, p. 1297. Non va ignorato, del resto, che in ordinamenti in cui la discrezionalità nell’esercizio dell’azione
— 753 — Quanto alla ‘‘particolare tenuità’’, l’unico modo di neutralizzare attendibili censure di illegittimità costituzionale sembra essere la ricostruzione esegetica dei presupposti in termini precisi, obiettivi e controllabili. Ne deriva, da un lato, che essi debbano tradursi in parametri di giudizio sul fatto e non sull’autore (59), dal momento che soltanto il primo consente giudizi ‘‘eguali’’, astrattamente reiterabili a prescindere dalle caratteristiche del cittadino coinvolto; dall’altro, che abbiano riguardo al passato, alla verifica dei caratteri dell’episodio storicamente determinato che costituisce oggetto dell’accertamento, senza trascendere in pronostici, inevitabilmente soggettivi e sottratti a una credibile verifica razionale. L’operazione, evidentemente, risulta agevole solo quanto alla componente oggettiva dell’istituto, ma assai meno in ordine agli altri presupposti. La tenuità del fatto evoca un giudizio sul dato materiale del reato e, per quanto vaga nella descrizione della delega, è oggetto di specificazioni nella normativa delegata, tali da garantire che, in astratto, a eguale condotta faccia seguito eguale reazione da parte dell’ordinamento. L’iniziativa del pubblico ministero ed il conseguente vaglio del giudice sono chiamati, sotto questo profilo, a esercitarsi su elementi concreti e non su considerazioni di opportunità: malgrado risulti in parte affidato all’evoluzione giurisprudenziale stabilire quando un fatto sia tenue, la categoria rimane, per quanto ‘‘aperta’’, legata a valutazioni empiriche ed a criteri razionali verificabili, di cui le decisioni sono tenute a dare conto in motivazione. L’occasionalità della condotta è già un connotato troppo vago, dal momento che sposta l’attenzione del pubblico ministero, prima, e del giudicante, poi, sul terreno insidioso delle valutazioni soggettive. È preferibile, quindi, darne un’esegesi restrittiva, che consenta di evitare l’arbitrarietà delle scelte in ordine all’esercizio dell’azione penale e, comunque, all’esito del procedimento. L’occasionalità, allora, potrebbe constare dell’assenza penale è principio consolidato e condiviso dell’ordinamento processuale penale, è accertata e deplorata la difficoltà di verificare gli abusi del potere di accusa, in mancanza di criteri oggettivi chiari, pubblici e predeterminati a vincolarne l’esercizio (cfr. L. MARAFIOTI, Limiti costituzionali all’esercizio ‘‘improprio’’ dell’azione penale negli Stati Uniti d’America: i divieti di selective prosecution e di vindictiveness in charging, in AA.VV., Accusa penale e ruolo del pubblico ministero, cit., p. 261 ss., spec. p. 269 s.). L’esigenza di criteri definiti normativamente, e di un conseguente controllo sulle scelte del pubblico ministero, viene sottolineata anche là dove è da tempo applicato un modello di ‘‘legalità temperata’’ dell’azione, come nell’ordinamento processualpenalistico tedesco: cfr. G. CORDERO, Oltre il patteggiamento per i reati bagatellari? La limitata discrezionalità dell’azione penale operante nell’ordinamento tedesco federale e il ‘‘nostro’’ art. 112 Cost., in Leg. pen., 1988, p. 665 ss.; C.E. PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, cit., p. 335. (59) Il C.S.M. ha significativamente rilevato che criteri di priorità nella trattazione degli affari penali (che di per sé non suonano come offesa al principio di obbligatorietà dell’azione penale) ‘‘non possono non essere derivati, in ossequio alla soggezione anche dei pubblici ministeri alla legge, dalla gravità e/o offensività sociale delle singole specie di reati’’ (C.S.M., sez. disc., 20 giugno 1997, in G. cost., 1998, p. 1877).
— 754 — di reiterata condotta criminosa generica o specifica, ma non dovrebbe consentire valutazioni sulle caratteristiche della personalità più o meno deviante dell’imputato, né sulle sue ‘‘potenzialità’’ criminali. Appare, infine, particolarmente arduo piegare alla compatibilità con il dettato costituzionale il parametro concernente il pregiudizio che il procedimento potrebbe arrecare agli interessi dell’imputato che la legge ritiene particolarmente degni di tutela. Benché si possa ritenere condivisibile la selezione dei beni rilevanti operata dal legislatore, non sembra, infatti, che salute, studio, famiglia e lavoro individuino aree in cui le valutazioni degli organi giudiziari chiamati a determinarsi in ordine agli sbocchi procedimentali possano svolgersi con sufficiente obiettività. Non soltanto il pronostico su termini e gravità del potenziale pregiudizio a tali interessi appare governato da un ineliminabile soggettivismo, ma non è possibile neppure pronosticare attendibilmente come la medesima situazione personale sia suscettibile di incidere sulla decisione. A parità di condizioni ed in ordine a un fatto dalle medesime caratteristiche oggettive, differenti magistrati potrebbero con pari legittimità orientarsi per la declaratoria di irrilevanza oppure no, a seconda che ritengano di assegnare maggiori dignità e tutela alla famiglia legittima, a quella di fatto o allo status di single, alle famiglie con due genitori o a quelle monoparentali, alle esigenze dei lavoratori o ai bisogni dei disoccupati, e così via. Sotto questo profilo, appare francamente difficile stabilire cosa sottragga la scelta del pubblico ministero ed il successivo controllo del giudicante alla sfera delle valutazioni di mera opportunità: parametri così evanescenti non consentono controlli credibili e sono incapaci di orientare in modo oggettivo la scelta tra azione ed inazione. 7. (Segue): l’accertamento della responsabilità. — Se il fatto è tenue ed occasionale, e se il procedimento per tale fatto potrebbe arrecare un ingiustificato pregiudizio alla vita dell’imputato, si presuppone che questi lo abbia commesso. Si tratta di un passaggio logico dell’istituto della tenuità del fatto, che il legislatore ha pretermesso tanto in materia di procedimento innanzi al giudice di pace, quanto in ordine all’irrilevanza del fatto nel rito minorile, ma che non è per questo meno essenziale (60). (60) Con riferimento all’irrilevanza del fatto di cui all’art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988, si ritiene che, malgrado il silenzio della norma sul punto, l’accertamento della responsabilità dell’imputato per il reato ascrittogli sia presupposto della declaratoria di non luogo a procedere: V. PATANÈ, L’individualizzazione, cit., p. 152; V. PINI, Epiloghi ‘‘atipici’’ dell’udienza preliminare nel processo minorile, in Giur. it., 1997, II, c. 178; S. VINCIGUERRA, Irrilevanza del fatto, cit., p. 81; Trib. min. Cagliari, 2 giugno 1998, L.P.P., inedita. Si è espressa, tuttavia, in contrario Corte cost. n. 311 del 1997, secondo cui il giudice delle indagini preliminari chiamato a decidere sull’irrilevanza del fatto si pronuncia sulla richiesta del pubblico ministero ‘‘in astratto e assumendo l’ipotesi accusatoria, per l’appunto, come mera ipotesi, e non
— 755 — La decisione sul fatto tenue, innanzitutto, lo postula sussistente, dal momento che ne vanno ricostruite le caratteristiche e le modalità, senza che ci si possa limitare ad assumerlo come ipotetico. Inoltre, non soltanto lo suppone avvenuto, ma lo attribuisce all’imputato, con la cui persona lo mette in relazione più volte: per la valutazione di occasionalità (non può ritenersi commesso ‘‘occasionalmente’’ dall’imputato un fatto che non sussiste o che sia stato commesso da altri); allo scopo di stabilire se il procedimento per il fatto contestato possa risultare iniquamente pregiudizievole per la persona cui lo si addebita (e di sicuro lo sarebbe, se questa fosse innocente). Questo peculiare sbocco del procedimento implica, dunque, l’accertamento della responsabilità, che, se è condizione logica della declaratoria di tenuità, dovrebbe essere oggetto del vaglio giurisdizionale e, conseguentemente, della motivazione del provvedimento conclusivo. Di qui, le difficoltà legate alla scelta di configurare l’istituto come causa di improcedibilità. Rilevare una condizione di procedibilità è passaggio preventivo rispetto a qualsivoglia valutazione di merito, giacché l’art. 529 c.p.p., dedicato appunto alla ‘‘sentenza di non doversi procedere’’, apre la sezione del codice di rito inerente alla ‘‘sentenza di proscioglimento’’, imponendo al giudice di verificare preliminarmente il fondamento della propria investitura e, solo una volta che l’abbia ritenuta sussistente, di proseguire nel giudizio di merito (61). L’accertamento della responsabilità, in simile ipodopo aver accertato in concreto che il fatto è stato effettivamente commesso e che l’imputato ne porta la responsabilità’’. La dottrina, peraltro, ha manifestato sulla decisione consistenti quanto condivisibili riserve: v. M.G. COPPETTA, Prima declaratoria di incompatibilità dei giudici fondata sulle ‘‘peculiarità’’ del procedimento penale minorile, in Giur. cost., 1998, p. 2507; G. GARUTI, Incompatibilità del giudice e processo minorile: le garanzie si estendono anche all’udienza preliminare, in Cass. pen., 1998, p. 389; V. PATANÈ, In tema d’incompatibilità del giudice nell’udienza preliminare del processo minorile (con particolare riguardo alla valutazione negativa sull’irrilevanza del fatto), in questa Rivista, 1998, p. 1035. La giurisprudenza di merito si preoccupa di motivare esplicitamente in ordine alla responsabilità dell’accusato minorenne prosciolto per irrilevanza: tra le molte, v. G.i.p. Trib. min. Cagliari, 23 ottobre 1998, B.A ed altro, inedita; G.u.p. Trib. min. Roma, 21 novembre 1995, A.C. ed altri, inedita; Trib. min. Torino, 8 gennaio 1995, D.S., inedita; G.u.p. Trib. min. Perugia, 21 gennaio 1993, R.A., inedita. (61) Configurare l’istituto utilizzando la ‘‘chiave’’ della causa di non punibilità, avrebbe per contro implicato il doveroso e pieno accertamento della responsabilità dell’imputato per il fatto commesso: la rilevazione dei presupposti normativi per evitare l’applicazione della pena costituisce un posterius rispetto alla verifica positiva della sussistenza del fatto e della commissione di esso da parte dell’accusato, non soltanto per ragioni di priorità logica (che antepongono la ricostruzione della vicenda ipotizzata nell’imputazione, per poter stabilire l’applicabilità della sanzione penale), ma anche perché il giudicante è vincolato dalla legge ad attenersi all’ordine gerarchico tra le formule di proscioglimento di cui all’art. 530 comma 1 c.p.p. Da esso deriva che la dichiarazione della sussistenza di una causa di non punibilità postula risolto negativamente il quesito sulla possibilità di prosciogliere l’imputato per una differente ragione considerata più favorevole, secondo l’ordine tassativo di cui alla
— 756 — tesi, è addirittura precluso (62), poiché verterebbe ingiustificatamente su una res iudicanda stabilita da un’azione male iniziata o mal svolta, suscettibile di abortire già nel corso delle indagini (art. 411 c.p.p.) o di bloccarsi in una fase precoce del processo (artt. 129, 425, 469 c.p.p.). La verifica sulle condizioni di procedibilità ‘‘tradizionali’’, del resto, si riduce a poco più che una constatazione della sussistenza di alcuni atti ‘‘tipici’’, suscettibili di integrarle; a voler assegnare una portata più ampia alla categoria (63), si può trattare di passaggi ‘‘tecnici’’, obbligatoriamente stabiliti dalla legge per l’accesso ad alcuni riti alternativi (come l’arresto convalidato per il giudizio direttissimo) (64), o di fatti estranei alla regiudicanda che costituiscano ostacolo alla prosecuzione dell’azione (quale, ad esempio, il segreto di Stato o una precedente sentenza irrevocabile sul medesimo fatto ed avverso la medesima persona). Il vaglio su di esse non interferisce con il merito, nel quale il giudicante non ha alcuna esigenza di addentrarsi per poter stabilire il corretto esercizio dell’azione. Al contrario, una condizione di procedibilità il cui contenuto dipende dalla ‘‘consistenza’’ dell’illecito penale appare anomala (65): la sovrapponibilità della valutazione di rito, concernente la procedibilità dell’azione, con quella di merito, attinente al fatto, rende arduo, se non impossibile, configurare un giudizio sulla prima che prescinda dalla seconda. Si prospetta problematico, inoltre, il profilo attinente al dubbio sulla tenuità del fatto. Strutturandola come causa di ‘‘improcedibilità’’, si è sancita per essa l’operatività dell’art. 529 comma 2 c.p.p., che pone a carico del pubblico ministero la prova dell’esistenza delle condizioni di procedibilità previste dalla legge ed impone di ritenerle insussistenti ove tale prova risulti insufficiente o contraddittoria (66). Ne deriva che alla pubricordata previsione codicistica. La declaratoria di una causa di non punibilità è, del resto, tanto vincolata al pieno accertamento nel merito, che non può essere causa di archiviazione, né di proscioglimento anticipato (art. 129 c.p.p.) o predibattimentale (art. 469 c.p.p.). (62) G. CONSO, I fatti giuridici processuali penali, Giuffrè, 1955, p. 200; F. CORa DERO, Procedura penale, Giuffrè, 4 ed., 1998, p. 873; E. MARZADURI, Commento all’art. 529 c.p.p., in AA.VV., Commento, cit., vol. V, 1991, p. 502; D. SIRACUSANO, (voce) Assoluzione (diritto processuale penale), in Enc. dir., vol. III, 1958, p. 929, nota 30; nonché, più di recente, L. BRESCIANI-V. BONINI, Le condizioni di procedibilità, in AA.VV., Indagini preliminari, cit., p. 61. (63) Per la ‘‘configurazione delle condizioni di procedibilità come categoria a contenuto aperto’’, v. L. BRESCIANI-V. BONINI, Le condizioni di procedibilità, cit., p. 61. (64) Cfr. G. GIOSTRA, Controllo sulla sussistenza dei presupposti del giudizio direttissimo e problemi di rapporti tra giudice e p.m. in una recente sentenza interpretativa di rigetto, in Leg. pen., 1990, n. 32, p. 701; nonché A. DE CARO, Il giudizio direttissimo, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996, p. 200. (65) V. le perplessità già avanzate da C. TAORMINA, L’irrilevanza penale del fatto, cit., c. 261; la peculiarità della fattispecie era prospettata anche da R.E. KOSTORIS, Obbligatorietà dell’azione penale, cit., p. 214. (66) La regola di cui all’art. 529 comma 2 c.p.p., benché riferita letteralmente alle
— 757 — blica accusa si fa carico, ogni qual volta si attivi di fronte al giudice di pace, di dare dimostrazione della rilevanza del fatto per cui procede, senza che a tale scopo si possa ritenere sufficiente la riconducibilità dell’ipotesi di reato alla fattispecie incriminatrice prevista dalla legge. E si tratta di una prova negativa: il pubblico ministero dovrebbe ipotizzare e dimostrare le ragioni per cui il fatto non è tenue od occasionale, o per le quali il procedimento non è suscettibile di recare danno agli interessi personali dell’imputato, adempiendo a una sorta di ‘‘mandato esplorativo’’ ex lege sulle caratteristiche della vita personale di quest’ultimo quanto a salute, famiglia, studio e lavoro (67). La tenuità del fatto e l’occasionalità della condotta sono peraltro — almeno in parte — legate a dati materiali più agevolmente dimostrabili, giacché l’una può essere connessa alle caratteristiche del fatto come descritto nell’imputazione e l’altra ai precedenti dell’imputato, che si possono ritenere gli unici dati obiettivamente rilevanti anche ai fini dell’eventuale commisurazione della pena e, quindi, sono comunque oggetto di prova (artt. 236, 431 c.p.p.). Il rischio di pregiudizio per i beni essenziali facenti capo all’accusato, invece, è un fattore di tale evanescenza ed affidato a valutazioni tanto personali, che prospettarne meccanismi dimostrativi credibili o verifiche preliminari approfondite è abbastanza difficile: il pubblico ministero potrà dar conto di alcuni elementi minimi (ad esempio, lo stato civile dell’imputato, la professione esercitata, l’eventuale disoccupazione), ma non è pensabile che si addentri ogni volta in un’indagine ‘‘socio-personologica’’ dettagliata. Sarebbe, del resto, un lavoro dagli esiti difficilmente prevedibili: oggetto di prova può essere la situazione di fatto su cui verte il pronostico imposto dalla legge, ma le conclusioni sui dati raccolti potrebbero rivelarsi le più disparate, poiché il giudizio sul sole condizioni di procedibilità in senso stretto, è ritenuta applicabile anche alle situazioni che integrano, più genericamente, le ‘‘cause di improcedibilità’’. Queste, infatti, ‘‘rilevano come fattori condizionanti il dovere di decidere nel merito’’ sicché ‘‘il giudice non potrà fare a meno di accertarne l’inesistenza, dovendo altrimenti emettere una pronuncia di absolutio ab instantia’’ (E. MARZADURI, Commento all’art. 529 c.p.p., cit., p. 507). Configurando la tenuità del fatto come causa di non punibilità, invece, le si sarebbe dovuto applicare l’art. 530 comma 3 c.p.p., che prevede l’assoluzione sia quando vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa personale di non punibilità, sia quando sorga o permanga il dubbio sulla sua esistenza. (67) Del resto, considerata la struttura del procedimento preposto alla decisione in tema di tenuità del fatto, risulterebbe difficile configurare un onere di allegazione in capo all’imputato o indagato. Dopo l’esercizio dell’azione penale, la declaratoria di improcedibilità è subordinata dalla legge alla mera non opposizione dell’imputato, che non è conciliabile con un onere di attivazione probatoria a suo carico. Nel corso delle indagini, peraltro, la persona sottopostavi può non essere affatto a conoscenza del procedimento, ma in tal caso il dubbio sulla sussistenza di una causa di improcedibilità produce conseguenze diverse, dovendo portare non alla richiesta di archiviazione, ma all’esercizio dell’azione (cfr. G. GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 33).
— 758 — possibile effetto pregiudizievole del procedimento sull’imputato non è definito con sufficiente determinatezza, sicché è arduo persino stabilire quali dovrebbero essere i dati rilevanti per effettuarlo (si pensi al numero di figli, al tipo di lavoro, al luogo in cui si svolge, alle condizioni di salute dei familiari, all’età della prole, e così via) (68). L’onere probatorio gravante sul pubblico ministero, quindi, dovrebbe essere interpretato assai restrittivamente, quanto a quest’ultimo parametro, e ritenersi assolto nell’accertamento dei dati essenziali della vita personale dell’imputato, quali risultano normalmente dagli atti e si possono accertare, anche in corso di indagine, attraverso il semplice interrogatorio (artt. 66 c.p.p. e 21 disp.att. c.p.p.) (69). 8. (Segue): il contraddittorio. — L’individuazione dell’accertamento di responsabilità come presupposto della declaratoria di tenuità del fatto, implica il confronto tra le parti innanzi al giudice come prodromo ineludibile della decisione. L’apporto del pubblico ministero è essenziale per la gestione dell’azione penale e quello dell’imputato costituisce espressione del diritto di difesa, dal momento che l’accusato potrebbe aspirare ad una formula di proscioglimento più favorevole, come quella che ne escludesse la responsabilità. Il procedimento accennato nell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000, però, va coordinato con la disciplina ordinaria del rito per le sedi in cui la declaratoria di non doversi procedere può collocarsi, con esiti non sempre coerenti, giacché la preoccupazione del legislatore delegato si è esercitata solo su due piani: evitare che gli interessi della vittima potessero essere obliterati; garantire il diritto dell’imputato a vincolare la decisione processuale sul punto. L’uso della figura della condizione di procedibilità implica che la tenuità del fatto sia idonea ad operare già nel procedimento archiviativo, così esprimendo il massimo delle proprie potenzialità deflattive (70). In tale sede, però, il contraddittorio sui presupposti della tenuità risulta (68) Costituisce una prospettiva inquietante, che il pubblico ministero sia addirittura obbligato a svolgere accertamenti su dati assolutamente personali, normalmente irrilevanti ai fini della verifica della responsabilità penale e riferibili anche a terzi non coinvolti nel procedimento, come i familiari dell’imputato. (69) C’è la possibilità che, su questo punto, la dimostrazione del pubblico ministero risulti composta di argomentazioni ‘‘di stile’’ o sia ritenuta implicita nel solo fatto di aver agito, di per sé dimostrativo della ritenuta insussistenza dei presupposti in base ai quali il fatto poteva reputarsi esiguo. In tal caso, rimarrebbe però il dubbio se manchino elementi probatori sul punto perché il fatto non è tenue ovvero perché lo è, ma non sono stati ravvisati possibili pregiudizi del procedimento a danno dell’imputato. (70) Ove l’istituto fosse stato qualificato come causa di non punibilità, il provvedimento giudiziale che ne avesse dato applicazione si sarebbe collocato in una fase avanzata del procedimento, consentendo l’accertamento di merito solo in sede dibattimentale, a meno di concepire un apposito procedimento speciale innestato in corso di indagine. Questo, pertanto, si sarebbe reso necessario non solo, come già visto, per dare attuazione alla compo-
— 759 — estremamente compresso. È soltanto eventuale già nella disciplina ‘‘ordinaria’’ dell’archiviazione, poiché il coinvolgimento dell’indagato è subordinato, ex artt. 409 e 410 c.p.p., all’opposizione della persona offesa o alla divergenza di opinioni tra il giudice ed il pubblico ministero in ordine all’inazione. Ma l’esigenza di massima semplificazione, cui è ispirato il rito dinanzi al giudice di pace, ha comportato un ulteriore contenimento di questa pur limitata possibilità di confronto: l’art. 17 d.lgs. n. 274 del 2000, infatti, prevede che il giudice decida sull’archiviazione sempre de plano, senza udienza camerale, fatto salvo il contraddittorio cartolare con la sola persona offesa, a seguito di opposizione o nel caso in cui questa abbia agito per ricorso ‘‘immediato’’ al giudice. La dialettica con la persona sottoposta alle indagini manca completamente, poiché all’eventuale opposizione dell’offeso o al ricorso diretto cui segua la richiesta di archiviazione non succede alcun coinvolgimento dell’indagato. La contrazione dei tempi processuali è considerevole, ma la soluzione adottata stride rispetto a una decisione che non si limita ad autorizzare l’inazione per difetto di una ‘‘comune’’ condizione di procedibilità, ma è fondata su un’ipotesi di responsabilità che il provvedimento deve presupporre come vera, per poterne affermare la tenuità (71). Non sembra sufficiente, sotto questo profilo, la considerazione che la pronuncia archiviativa ‘‘non produce alcun effetto ‘negativo’ ’’ nei confronti dell’indagato (72), proprio perché il decreto, in questo caso e malgrado il dato formale della rilevazione di improcedibilità, implica l’affermazione di responsabilità (73). Il provvedimento si riverbera negativanente della legge delega che vuole la tenuità operante anche prima del giudizio, ma altresì per garantire un’apposita sede in cui i contendenti potessero attendere al fisiologico scontro dialettico, necessario perché il processo possa assolvere al compito di verifica della responsabilità penale. (71) Si pensi alla sfasatura, a prima vista francamente irragionevole, che viene a crearsi con ipotesi per molti versi analoghe, come la prescrizione o l’amnistia. Ove il procedimento abbia ad oggetto un reato che si affermi essere prescritto o amnistiato, la persona sottoposta ad indagini ha la possibilità di rinunciare al ‘‘beneficio’’, paralizzando l’operatività del meccanismo estintivo in nome del diritto a vedere accertata la propria innocenza. La Corte costituzionale, infatti, con la sentenza n. 175 del 1971, per l’amnistia, e con la decisione n. 275 del 1990, in ordine alla prescrizione, ha affermato la rinunziabilità di entrambe, ritenendo in conflitto con l’art. 24 Cost. istituti che consentano la chiusura del procedimento penale, senza delibazione dell’accusa, indipendentemente dalla volontà dell’imputato. Evidente il nesso con l’assenza di contraddittorio che contraddistingue l’itinerario dell’archiviazione: in dottrina, si afferma l’impossibilità di archiviare il procedimento per amnistia o prescrizione, se l’indagato non sia stato previamente interpellato sul punto (G. GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 20 s.; contra, F. CAPRIOLI, L’archiviazione, cit., p. 381). (72) È questa la giustificazione addotta dalla Relazione, cit., p. 69. (73) Per il decreto di archiviazione, l’art. 17 comma 4 d.lgs. n. 274 del 2000, non contempla la motivazione, che è invece prevista per il medesimo provvedimento nel procedimento ordinario, ex art. 409 comma 1 c.p.p. Stante il principio generale di cui all’art. 125 comma 3 c.p.p., sembra doversene desumere che il decreto archiviativo non debba essere
— 760 — mente sull’indagato, sia per lo stigma di colpevolezza che reca con sé (74), sia perché è idoneo a ‘‘bruciare’’ una successiva possibilità di avvalersi della tenuità del fatto, facendo venir meno la componente dell’occasionalità (75). La persona sottoposta alle indagini potrebbe a ragion veduta preferire un accertamento nel merito o un’archiviazione per altra causa, ritenuta meno pregiudizievole di una che presuppone la responsabilità per il fatto. La componente ‘‘pattizia’’ riconosciuta all’istituto dopo l’esercizio dell’azione penale, rende ancor meno comprensibile la struttura autoritativa che esso presenta in corso di indagine. Il legislatore delegato, infatti, collega l’esito processuale per tenuità del fatto ad un meccanismo consensuale sui generis, fondato sulla ‘‘non opposizione’’ ed avente come protagonisti l’imputato e, come sua controparte, la persona offesa. Il meccanismo, apprezzabile nell’ottica conciliativa che caratterizza la giurisdizione di pace e nella prospettiva della tutela offerta alla difesa dell’imputato, accentua però il già grave deficit di garanzia del procedimento archiviativo, rendendo irragionevole lo scarto nella tutela del diritto di difesa in fase preliminare. Una volta esercitata l’azione penale, la possibilità di rilevare l’improcedibilità per tenuità del fatto non implica la richiesta del pubblico ministero, trattandosi di una formula di proscioglimento affidata, come ogni altra, al discernimento del giudicante, e presenta la particolarità di essere subordinata all’assenza di opposizione da parte dell’imputato e dell’ofmotivato, fatta salva, almeno nel caso che ci occupa, quella sorta di ‘‘dispositivo’’, consistente nella dichiarazione di ‘‘non doversi procedere per la particolare tenuità del fatto’’, esplicitamente imposto dall’art. 34 comma 2 del decreto legislativo. Il fatto, dunque, che nel provvedimento possa non esservi un’articolata esposizione dei motivi che lo sorreggono, non impedisce che le conclusioni che reca presuppongano la responsabilità. Anzi, che non vi sia un’enunciazione del tipo di valutazione cui ci si è affidati per ritenere la tenuità del fatto è quanto mai rischioso, soprattutto sotto il profilo della possibilità di riapertura del procedimento per il ritenuto venir meno della causa di improcedibilità, che non è passibile di alcun controllo. (74) Viene compromessa, infatti, ‘‘irreparabilmente la soddisfazione dell’interesse ad ottenere una sentenza di merito’’, vincolando l’indagato a subìre una pronuncia ‘‘liberatoria’’, ‘‘la quale, appunto perché non scende ad accertare e neppure a delibare la fondatezza dell’accusa, se anche sottrae ad ogni pena, non conferisce alcuna certezza circa l’effettiva estraneità dell’imputato all’accusa da lui promossa, e quindi lascia senza protezione il diritto alla piena integrità dell’onore e della reputazione’’ (Corte cost. n. 175 del 1971, per cui v. anche supra, nota 71). È rilevante, pertanto, anche il rischio di pregiudicare la presunzione di non colpevolezza, misconosciuta nello stesso momento in cui, senza consentire all’imputato di difendersi, si emette una decisione giudiziaria che riflette la convinzione della sua colpevolezza: v., sul punto, M. CHIAVARIO, La presunzione d’innocenza nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Giur. it., 2000, p. 1092. (75) Il rischio è contenuto, considerando che il provvedimento di archiviazione non è soggetto ad iscrizione nel casellario giudiziale. Tuttavia, non si può escludere che, in occasione di un successivo procedimento, se ne venga a conoscenza e ne sia data prova.
— 761 — feso. La previsione sembra garantire che, in ogni stato del processo, posta la necessaria partecipazione del pubblico ministero, sia indispensabile mettere l’imputato e la vittima in condizione di interloquire. Il contraddittorio tra le parti è, pertanto, garantito; anzi, è ampliato, in quanto la norma, facendo riferimento all’offeso, non ne subordina la possibilità di apporre il proprio veto alla costituzione di parte civile, presumibilmente favorendo in tal modo una decisione precoce sul punto, anche anteriore alla verifica sulla costituzione delle parti. Prima dell’inizio del dibattimento, la disciplina va coordinata con quanto previsto dall’art. 469 c.p.p., secondo il quale vanno ‘‘sentiti il pubblico ministero e l’imputato’’ e la declaratoria di improcedibilità è condizionata alla circostanza che questi non si oppongano. Rispetto alla norma in materia di tenuità del fatto, la previsione ordinaria implica che anche il pubblico ministero possa opporsi al proscioglimento anticipato e che, invece, la persona offesa non debba essere interpellata. Si deve ritenere, peraltro, che le due norme si integrino a vicenda e che il proscioglimento anticipato per tenuità del fatto debba rispondere — dal punto di vista delle garanzie procedimentali — ai requisiti richiesti per ogni altro tipo di proscioglimento che si collochi in fase predibattimentale: la norma speciale, infatti, vale ad inserire tra i presupposti il coinvolgimento della vittima. Essa, peraltro, si riferisce anche alla tenuità del fatto dichiarata in giudizio, sicché tiene conto del contraddittorio pieno già garantito in tale sede; né può essere ritenuta norma speciale rispetto a tutto il tenore dell’art. 469 c.p.p., non contemplando alcuna regola procedimentale specifica per la dichiarazione di improcedibilità anticipata dovuta a tenuità del fatto. Ne deriva che, anche ai fini indicati nell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000, la decisione di non doversi procedere emessa in fase predibattimentale deve comportare la fissazione di un’udienza in camera di consiglio, l’invio dell’avviso di udienza anche alla persona offesa (76), la possibilità di pronuncia soltanto se imputato (art. 34 comma 3), pubblico ministero (art. 469 c.p.p.) ed offeso dal reato (art. 34 comma 3) non si oppongono (77). (76) L’omissione dell’avviso comporta, secondo la Suprema Corte, una nullità assoluta, quanto all’imputato (Cass., 18 maggio 1998, Agrifoglio, in Riv. pen., 1999, p. 207). Quanto alla persona offesa, dovrebbe ritenersi che la mancata notificazione dell’avviso di udienza ne violi il diritto all’intervento, se si è costituita parte civile, e comunque implichi la nullità di cui all’art. 127 comma 5 c.p.p., quando non si ritenga equivalente ad omessa citazione per il giudizio, ai sensi dell’art. 178 lett. c) c.p.p. (77) È sufficiente che le parti non manifestino il proprio dissenso: ove se ne disinteressino, il proscioglimento può essere comunque disposto (G. ILLUMINATI, Giudizio, in AA.VV., Compendio di procedura penale, a cura di G. Conso e V. Grevi, Cedam, 2000, p. 610). Se, invece, il proscioglimento predibattimentale viene pronunziato malgrado l’opposizione del pubblico ministero e dell’imputato, Cass., 7 aprile 1995, Picchierri, in Cass. pen., 1996, p. 2980, ha affermato che sussiste nullità ex art. 178 lett. b) o c) c.p.p. (v. anche Cass. 27 ottobre 1999, Mahlkrecht ed altro, in Riv. pen., 2000 p. 397). Parimenti, la decisione as-
— 762 — Una volta giunti in dibattimento, imputato e pubblico ministero sono in condizioni di partecipare al confronto dialettico sulla regiudicanda e, quindi, sull’applicabilità dell’istituto. La pronuncia può essere emessa ex officio, né, in assenza di previsioni in tal senso, l’eventuale opposizione del pubblico ministero può impedirla. Poiché in giudizio l’esclusione della procedibilità per ‘‘particolare tenuità del fatto’’ può essere dichiarata ‘‘solo se l’imputato e la persona offesa non si oppongono’’ (art. 34 comma 3), l’imputato, invece, può bloccare la decisione e pretendere l’accertamento sul merito dell’accusa, esercitando il proprio diritto ad una formula di proscioglimento più favorevole (78). Sotto questo profilo, la precisazione è quanto mai opportuna, dal momento che, altrimenti, la gerarchia delle formule di proscioglimento ex artt. 529 ss. c.p.p. autorizzerebbe a ritenere che la mancanza di una condizione di procedibilità sia soluzione prioritaria ed inibisca, pertanto, lo svolgimento dell’istruzione in ordine alla responsabilità dell’imputato (79). L’opposizione deve essere espressa. Non vi sono margini per ritenere che la norma affidi al giudicante la valutazione dei comportamenti ‘‘concludenti’’ degli interessati, che sarebbero peraltro difficili da immaginare, quanto all’imputato. Non potrebbe comunque ravvisarsi un’opposizione implicita nella professione che questi faccia della propria innocenza: l’accusato sarebbe, infatti, intrappolato nell’alternativa tra proclamarsi non colpevole e perdere una possibilità di proscioglimento, e conservarla ammettendo le proprie responsabilità. La ricostruzione della volontà tacita risulterebbe più agevole per la persona offesa, che, ad esempio, manifesta un palese interesse alla condanna costituendosi parte civile e lasciando ritenere presumibile, in tal caso, l’opposizione alla declaratoria di tenuità del fatto; per contro, si potrebbe desumere la mancanza di opposizione all’improcedibilità dalla circostanza che l’offeso non sia comparso in udienza per costituirsi parte civile, così mostrando il proprio disinteresse agli esiti del giudizio. Tuttavia, il raffronto con la disciplina prevista per l’offeso in sede di archiviazione induce a ritenere che l’opposizione all’improcedibilità per tenuità del fatto debba tradursi in una manifestazione espressa di volontà: se in sede archisunta in spregio al dissenso della parte lesa dovrebbe comportare una nullità, se la vittima era costituita parte civile (art. 178 lett. c) c.p.p.; questa sembra rimanere, per contro, priva di tutela, nel caso in cui non avesse ancora assunto la fisionomia di parte processuale, dal momento che solo in quanto tale trova protezione nell’art. 178 c.p.p. (78) L’opposizione potrebbe, peraltro, essere revocata successivamente e non vincola l’imputato nell’ipotesi in cui il giudice, approfondito il merito del processo, lo interpelli nuovamente sul punto o che quegli ritenga di sua iniziativa di rimuovere l’ostacolo apposto alla decisione. Tale possibilità, peraltro, deve ritenersi subordinata ad una dichiarazione espressa ed inequivoca dell’accusato, idonea ad elidere l’esplicita opposizione precedentemente avanzata. (79) S. MAROTTA, (voce) Sentenza penale, in Dig. disc. pen., vol. XIII, 1997, p. 187.
— 763 — viativa deve quanto meno ‘‘risultare’’ un contrario interesse della persona offesa, il corrispondente vaglio in giudizio non può avere un minore tasso di obiettività. Essendo il giudizio una fase a contraddittorio pieno, non vi è ragione di affidare al giudice esami discrezionali sulle intenzioni non manifeste delle parti; oltretutto, poiché la norma non parla di una verifica dell’interesse della vittima, ma di una vera e propria opposizione, lascia intendere che si faccia riferimento ad una manifestazione di volontà contraria al proscioglimento. Del resto, l’opposizione nega all’imputato una formula di proscioglimento che presuppone la responsabilità, sicché il venir meno di tale possibilità in ragione del veto dell’offeso, è prodromo della condanna; se può lasciare perplessi che si affidi tale esito alle valutazioni della parte lesa (80), aggraverebbe le ragioni di sconcerto consentire al giudice di stabilirne discrezionalmente il contenuto. Sembra comunque che basti mettere l’offeso in condizione di opporsi, notificandogli la fissazione dell’udienza dibattimentale, e constatare poi il difetto di una formale opposizione alla declaratoria di tenuità del fatto, in modo non dissimile da quanto avviene in sede predibattimentale. Se la vittima non compare in giudizio, l’opposizione manca (81); se compare, può pronunciarsi sul punto sin da prima della verifica sulla costituzione delle parti e, nel prosieguo, in qualità di parte civile costituita. Quando la costituzione di parte civile non abbia avuto luogo, la parte lesa deve ritenersi legittimata, in ogni stato del dibattimento, a manifestare la propria opposizione all’esito del proscioglimento per tenuità del fatto, anche presentando una memoria sul punto ai sensi dell’art. 90 comma 1 c.p.p. CLAUDIA CESARI Associato di Procedura penale nell’Università di Macerata (80) ‘‘Se il fatto è oggettivamente o soggettivamente ‘bagatellare’, non pare opportuno condizionare la non celebrazione del processo penale (la quale risponde sia a finalità deflattive, sia a obiettivi special-preventivi) ad un consenso del privato, che può essere condizionato da puntigliosità o da motivazioni estranee all’azione pubblica’’ (si esprime così il Parere della Seconda Commissione permanente Giustizia del Senato della Repubblica, in data 25 luglio 2000). La relazione governativa, peraltro, replica che la funzione del giudice di pace è proprio ‘‘quella di aprirsi alle istanze del privato e di conoscere il conflitto’’ (Relazione, cit., p. 68 s.). (81) L’omessa comparizione determina una causa speciale di improcedibilità, ove l’offeso abbia promosso ricorso diretto di fronte al giudice di pace (così l’art. 30 comma 1 d.lgs. n. 274 del 2000). In tal caso, tale forma di improcedibilità dovrebbe considerarsi prevalente rispetto a quella per tenuità del fatto, dal momento che implica l’immediata perenzione del rito, senza che la verifica sulla responsabilità penale abbia alcun seguito. Il non liquet è, in tal caso, di mero rito e può non aver luogo solo in presenza di altro offeso che, intervenuto, chieda di procedersi al giudizio. Quest’ultima iniziativa potrebbe accompagnarsi ad un’esplicita opposizione all’improcedibilità per tenuità del fatto.
ART. 511 C.P.P.: LETTURA DIBATTIMENTALE DI ATTI ORIGINARIAMENTE IRRIPETIBILI. PROFILI EPISTEMOLOGICI E NORMATIVI
1. Lo spunto è offerto da recenti pronunce giurisprudenziali intervenute a corroborare un indirizzo solo raramente scalfito da un’altrettanto consolidata ricostruzione dottrinale, mentre lo scopo consiste nel tentare, attraverso un riordino delle coordinate logico-normative della questione, l’inquadramento sistematico di un istituto che già all’indomani dell’approvazione del nuovo codice di procedura penale sembrava destinato a far discutere (1). Il quesito è subito posto e riguarda la lettura o, in sua sostituzione, l’indicazione che il giudice del dibattimento, anche d’ufficio, dispone dei verbali degli atti irripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero durante la fase investigativa e inseriti nel fascicolo dibattimentale ex art. 431 c.p.p. Tale adempimento integra una condizione sine qua non, un presupposto per acquisire quella documentazione al processo e, quindi, per la successiva utilizzazione decisoria, oppure una mera formalità, incapace di incidere sull’efficacia e nondimeno sul contenuto rappresentativo di quegli stessi? Sotto il profilo negativo, l’omissione determina l’estromissione dei verbali dal materiale di cui l’organo giudicante si avvale per trarre il proprio convincimento o, invece, non intacca la legittimità di un procedimento acquisitivo, cronologicamente distinto, e già esaurito? In tal caso il perfezionamento dell’iter si dovrebbe considerare concluso nel momento della materiale allegazione degli atti al fascicolo trasmesso in base all’art. 432 c.p.p. Il problema risulta spinoso, se non altro per la convergenza di diversi piani d’indagine: dal ruolo che il meccanismo delle letture gioca in un sistema di stampo tendenzialmente accusatorio, alla mutata concezione metodologica ed epistemologica della prova recepita dal nuovo assetto processuale e ora anche costituzionale; dalla centralità che il metodo dialettico dovrebbe rivestire nell’ordo dibattimentale, orale e pubblico, alla difficoltà di spogliarsi di un habitus mentale. Ci si riferisce a quello che vuole assegnato al pubblico ministero un connotato d’imparzialità e pre(1) Cfr. AMODIO, Il dibattimento, in AA.VV., Il nvovo processo penale dalle indagini preliminari al dibattimento, Giuffrè, 1989, p. 91.
— 765 — tende di recuperare gli elementi da questi raccolti in ossequio all’inveterato dogma della ‘‘verità materiale’’. I vari profili — è ovvio — potranno essere richiamati solo incidentalmente (2) ed ai fini di ciò che qui interessa, mentre premono sin d’ora due avvertimenti. L’atto di cui ci si occupa, integra — in realtà — il segmento ultimo di una procedura sempre più articolata, ora scandita e ricostruibile dalla serie normativa degli artt. 431.1 (3), 431.2 (4), 491, 493.3, 495 (5), 511, 515 c.p.p. (6). Quanto alla tipologia degli atti cui riferire la procedura suddetta, anche l’oggetto dell’indagine viene limitato alla relazione (rectius: alla natura della relazione) tra l’inserimento nel fascicolo di udienza dei verbali degli atti irripetibili documentati dal soggetto inquirente nell’iter preprocessuale e l’eventuale successiva lettura prevista dall’art. 511 c.p.p. Spostando — ad esempio — l’angolo di osservazione sui verbali degli atti assunti nell’incidente probatorio, le conclusioni potrebbero essere parzialmente difformi (7) dalla soluzione che si intende prospettare, per la nota — ma forse illusoria — tutela del principio del contraddittorio nella parentesi giurisdizionale configurata dagli artt. 392 s. c.p.p. (8). Resta (2) Per una panoramica sul punto, si vedano NOBILI, Scenari e trasformazioni del processo penale, Cedam, 1998, p. 105, e UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, in AA.VV., La conoscenza del fatto nel processo penale, Giuffrè, 1992, p. 15 s. (3) Sull’ampliata casistica delle previsioni contenute nella disposizione, a seguito della legge n. 479/99, si rimanda a: BRICCHETTI, Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, in AA.VV., Il nuovo processo penale davanti al giudice unico. Legge 16 dicembre 1999, n. 479, Ipsoa, 2000, p. 140; CAPRIOLI, Il processo penale dopo la ‘‘legge Carotti’’ (II). Commento agli artt. 25-26, in Dir. pen. proc., 2000, p. 293 s.; SCELLA, La formazione in contraddittorio del fascicolo per il dibattimento, in AA.VV., Il processo penale dopo la riforma del giudice unico (legge 16 dicembre 1999, n. 479), Cedam, 2000, p. 429 s. (4) La serie introdotta e rafforzata dalle recenti riforme e dall’art. 111, quinto comma, Cost., nonché dal nuovo comma 1-bis dell’art. 507 c.p.p., apre un dibattito di straordinario rilievo circa il ruolo dolla volontà delle parti in tema di prova. Sull’affiorare di queste tendenze, a titolo di prime riflessioni, BUZZELLI, Le letture dibattimentali, Giuffrè, 2000, p. 190 s. (5) La disposizione merita sottolineatura: non pare dubbio che, per tutti gli atti ricompresi nel fascicolo ex 431 c.p.p., occorra un provvedimento di ammissione. Proprio con riferimento all’art. 495 c.p.p., ulteriore problema si individua per l’ammissione/acquisizione della prova documentale: CORDERO, Scrittura e oralità, in Tre studi sulle prove penali, Giuffrè, 1963, p. 236, nota 161; NAPPI, Sulla necessità di distinguere il procedimento di ammissione delle prove dal procedimento di formazione del fascicolo per il dibattimento, in Cass. pen., 1991, p. 766, n. 274; UBERTIS, Variazioni sul tema dei documenti, in Cass. pen., 1992, p. 2519 s., n. 1388. (6) Sul diverso ‘‘peso’’ di questi modi e sui loro reciproci rapporti, si avrà modo di argomentare nelle pagine seguenti. (7) CORDERO, Codice di procedura penale commentato, Utet, 1990, p. 581. (8) Non pare confutabile l’assunto secondo cui l’acquisizione anticipata della prova violi non soltanto i principi di immediatezza e di pubblicità, ma, di fatto, anche il contraddittorio, se correlata all’esigua e limitatissima conoscenza degli atti del procedimento che le parti hanno secondo l’art. 398, terzo comma, c.p.p., ed eccettuate le ipotesi in cui si proceda
— 766 — ferma l’eterogeneità del fascicolo dibattimentale, la molteplicità delle fattispecie riconducibili nell’alveo delle « letture consentite » (9), la diversità delle questioni. Ma, in considerazione di criticabili prassi ermeneutiche e dell’effetto sgretolante della categoria dell’irripetibilità nell’impatto col muro della separazione tra le fasi (10), risulta di maggiore e preminente interesse focalizzare l’attenzione nei termini e sul tema delineati. 2. Il sistema delle letture, disciplinato dagli artt. 511-515 c.p.p., costituisce un punto nevralgico nel raccordo tra fasi del procedimento informate a criteri e metodi antitetici, « banco di prova per saggiare l’effettività dei principi di oralità, immediatezza, e contraddittorio » (11), « cartina di tornasole » volta a verificare l’osservanza del metodo dialogico di accertamento al cui rispetto risulta ispirato l’attuale codice. Esso s’atteggia a per uno dei reati previsti dagli artt. 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies c.p.p. In relazione a tale profilo, si veda C. cost. 11 febbraio 1991, n. 74 (deposito di atti utilizzabili per le contestazioni), in Giur. cost., 1991, p. 527, con nota di SCAGLIOLA. In dottrina, a tal riguardo, BARGIS, voce Incidente probatorio, in Dig. disc. pen., vol. VI, Utet, 1992, pp. 355-356; DE ROBERTO, voce Incidente probatorio, in Enc. giur. Treccani, vol. XVI, 1989, p. 11; SCELLA, Legge 7 agosto 1997, n. 267, Modifica delle disposizioni del codice di procedura penale in tema di valutazione delle prove, in Leg. pen., 1998, p. 336: ZAPPALÀ, Le funzioni del giudice nella fase delle indagini preliminari, in GAITO, Le nuove disposizioni sul processo penale, Cedam, 1989, p. 65; nonché POTETTI, Contestazioni ed allegazioni di dichiarazioni già rese dall’esaminando: l’incidente probatorio può diventare un mini-dibattimento?, in Cass. pen., 1999, p. 2386, n. 1168, secondo il quale « l’idea di trasformare l’incidente probatorio in una sorta di dibattimento anticipato è fatalmente destinata a scontrarsi con il contesto in cui l’incidente probatorio si svolge, e cioè con i caratteri della fase del procedimento penale in cui quella ‘‘cellula dibattimentale’’ va ad allocarsi ». (9) Si rammenta, a titolo esemplificativo, la profonda differenza tra « lettura-acquisizione » regolata dal primo comma dell’art. 511 c.p.p. e « lettura-controllo » disciplinata dal quarto comma della medesima disposizione. Sul punto NOBILI, Concetto di prova e regime di utilizzazione degli atti nel nuovo codice di procedura penale, in Foro it., 1989, V, c. 283; ID., La nuova procedura penale. Lezioni agli studenti, Clueb, 1989, p. 269 s. (10) L’irripetibilità cui ci si riferisce è, ovviamente, l’irripetibilità strutturalmente congenita o c.d. originaria, che assurge a parametro selettivo nell’art. 431 c.p.p. Per l’enucleazione di tale categoria, dei requisiti soggettivi ed oggettivi che ne condizionano la rilevanza, e per l’antitetica nozione di irripetibilità sopravvenuta, cfr.: CESARI, L’irripetibilità sopravvenuta degli atti d’indagine, Giuffrè, 1999, p. 14 s.; FERRUA, La formazione della prova nel nuovo dibattimento: limiti all’oralità e al contraddittorio, in Pol. dir., 1989, p. 246; GARUTI, La verifica dell’accusa nell’udienza preliminare, Cedam, 1996, p. 316 s.; ICHINO, Gli atti irripetibili e la loro utilizzazione dibattimentale, in AA.VV., La conoscenza del fatto, cit., p. 111 s.; RAMAJOLI, Chiusura delle indagini preliminari ed udienza preliminare, Cedam, 1997, p. 131 s. (11) Così RIVELLO, voce Letture consentite e vietate, in Dig. disc. pen., vol. VII, Utet, 1993, p. 405; nonché CORDERO, Guida alla procedura penale, Utet, 1986, p. 32 s.; FERRUA, Oralità del giudizio e lettura di deposizioni testimoniali, Giuffrè, 1981, p. 67 s.; NOBILI, Letture testimoniali consentite al dibattimento e libero convincimento del giudice, in questa Rivista, 1971, p. 256 s.; ID., Il principio del libero convincimento del giudice, Giuffrè, 1974, p. 409.
— 767 — tratto tipico degli ordinamenti processuali misti, poiché cristallizza, calibrandone l’incisività, l’angustiato rapporto tra indagini preliminari e dibattimento, che da sempre rappresenta un nodo centrale dei modelli ‘‘ibridi’’. Certo diverso sarebbe stato il problema se fosse stata accolta in sede di riforma la soluzione propugnata, e successivamente rivalutata, dell’inchiesta preliminare di parte, verso cui i lavori preparatori sembravano indirizzati (12). Ma così non è stato, e quell’antico cordone ombelicale che lega la fase preparatoria al dibattimento non è stato definitivamente reciso (13). L’assetto normativo che ne discende risulta così particolarmente complesso e denuncia carattere di compromesso: tra l’ipotesi, per verità teorica, che vorrebbe confinare gli elementi raccolti in ambito extraprocessuale nel terreno dell’inefficacia ed esigenze pratiche che premono verso un recupero di quei dati destinati ad andare perduti, è prevalsa la seconda (14); molto, comunque, si gioca sulle modalità tramite le quali il recupero è effettuato. Il riferimento al codice abrogato risulta particolarmente utile. Il tessuto normativo, fortemente condizionato dall’ideologia dominante al tempo della sua elaborazione, raffigurava senza dubbio una macchina processuale molto diversa dall’odierna, nella quale il difficile equilibrio tra scrittura ed oralità era fortemente incrinato a vantaggio della prima. La sorte degli atti astrattamente leggibili (artt. 462-466 c.p.p. abr.), ma concretamente non letti, doveva allora scontrarsi con le distorsioni del principio del libero convincimento, in forza del quale ogni porzione di materia che potesse fornire al giudice il benché minimo contributo conoscitivo si doveva considerare assoggettata alla servitù del sapere giudiziale (15). Il principio processuale di legalità rivestiva in quel contesto valore psicologico più che metodologico: il giudizio di validità/invalidità dell’elemento probatorio prescindeva da considerazioni di ordine tecnico-giuridico. Trovava base non tanto nella verifica del rispetto dei limiti e delle forme pre(12) Ci si riferisce a CARNELUTTI, Principi del processo penale, Morano, 1960, p. 64 s.; ID., Verso la riforma del processo penale, Morano, 1963, p. 18 s.; nonché a CORDERO, Linee di un processo accusatorio, in Criteri direttivi per una riforma del processo penale (Atti del Convegno di studio ‘‘Enrico di Nicola’’, Lecce Bellaggio 1974), Giuffrè, 1965, p. 61. L’importanza di quel dibattito, rispetto al codice del 1988, è ora sottolineata in PISAPIA, Relazione introduttiva, in Verso una nuova giustizia penale (Atti del XVI Convegno di studi ‘‘Enrico di Nicola’’, Lecce 1988), Giuffrè, 1989, p. 235. Sul punto, inoltre, CHIAVARIO, La riforma del processo penale, Utet, 1988, pp. 5-6. (13) Così NOBILI, Concetto di prova, cit., c. 276. (14) Cfr. ILLUMINATI, Il nuovo dibattimento: l’assunzione diretta delle prove, in Foro it., 1988, V, c. 357. (15) L’espressione è di CORDERO, Le prove illecite nel processo penale, originariamente pubblicato in Riv. it. dir. e proc. pen., 1961, p. 34, e poi inserito in Tre studi, cit., p. 147.
— 768 — scritte dal reticolo legislativo, quanto nel grado di incidenza che il dato naturalistico esplicava nell’esperienza del magistrato, con il risultato di vedere confuso, ed invertito, il rapporto tra il piano normativo della ritualità e quello epistemico dell’attendibilità (16). A seguito dell’opera bonificatoria delle grandi novellazioni e degli aggiustamenti imposti dalla Corte costituzionale, nel momento di agonia del vecchio garantismo inquisitorio, il legislatore intervenne a sciogliere i nodi che la prassi della omessa lettura aveva generato e sul quale ci si era a lungo arrovellati (17). Una riforma del 1987 (18), inserendo nel corpo dell’art. 475 c.p.p. abr. il numero 5-bis, sanciva la nullità della sentenza quando la stessa si fondasse su di un atto del quale era mancata l’effettiva lettura o la specifica indicazione di utilizzabilità richiesta dal nuovo art. 466-bis. La materiale presenza dei documenti in actis non costituiva più condizione sufficiente ai fini della libera valutazione degli stessi: cittadinanza probatoria, nell’apparato logico-giuridico della decisione, veniva accordata solamente a quei verbali, astrattamente leggibili, dei quali fosse stata data concreta lettura o, in sua vece, indicazione. Sopito un dibattito, se ne apriva subito un altro: si trattava di individuare il regime della invalidità comminata dalla modifica legislativa. Una posizione più rigorosa stigmatizzava la superfluità della previsione: la nullità della sentenza sarebbe discesa dai principi generali, poiché basata su prove (gli atti non letti o non specificamente indicati) « giuridicamente inesistenti » (19). L’opinione dominante osservava, invece, come la collocazione all’interno dell’art. 475 c.p.p. 1930 dell’ipotesi ex n. 5-bis, accanto a quella della mancanza o contraddittorietà della motivazione, significasse il carattere relativo della nullità (20). A prescindere dalla esatta (16) Per un approccio critico al tema del libero convincimento del giudice nell’area delle letture nel codice abrogato, cfr. NOBILI, Letture testimoniali consentite, cit. p. 256 s., e, per una sintesi di trapasso al nuovo codice, ID., voce Libero convincimento del giudice (dir. proc. pen.), in Enc. giur. Treccani, 1990, vol. XVIII, p. 15 s.; PAPA, Contributo allo studio delle rules of evidence nel processo penale statutitense, in Ind. pen., 1987, p. 300. (17) CORDERO, Scrittura e oralità nel rito probatorio, in Studi in onore di Francesco Antolisei, vol. I, Giuffrè, 1965. p. 3285; FOSCHINI, Il ‘‘dar per letto’’, in Arch. pen., 1968, p. 3 s.; ID., La giustizia sotto l’albero e i diritti dell’uomo, in questa Rivista, 1963, p. 300 s.; NOBILI, Letture testimoniali consentite, cit., p. 287 s. (18) Ci si riferisce all’art. 4 delle legge 17 febbraio 1987, n. 27. (19) Così DINACCI, Modifiche alla disciplina della custodia cautelare e introduzione dell’art. 466-bis nel codice di procedura penale concernente la disponibilità degli atti di istruttoria, in Giust. pen., 1987, I, c. 93. (20) Cfr. CHIAVARIO, Legge 17 dicembre 1987, n. 29. Modifiche alla disciplina della custodia cautelare e introduzione dell’art. 466-bis nel codice di procedura penale concernente la disponibilità degli atti dell’istruttoria, in Leg. pen., 1987, p. 430, FASSONE, Primi appunti sull’art. 466-bis del codice di procedura penale, in Giust. pen., 1987, III, c. 446; FERRUA, I maxiprocessi e la legge 17 febbraio 1987, n. 29, in Cass. pen., 1987, p. 1664, n. 1403; RIVELLO, Letture dibattimentali e maxiprocessi (artt. 3-4 legge 17 febbraio 1987, n.
— 769 — qualificazione del vizio, il passaggio — ed è ciò che conta — era comunque segnato: da attività meramente facoltativa rientrante nel potere dispositivo del giudice, la lettura diveniva imprescindibile strumento di acquisizione probatoria. 3. L’attuale codice non vieta expressis verbis l’utilizzazione dei verbali di cui non sia stata data lettura o indicazione, essendo stata ritenuta superflua, come si legge in un passo della Relazione al prog. prel., una precisazione in tal senso (21). Il ricorso interpretativo al solo criterio storico sembra tuttavia non appagare la giurisprudenza, che alterna a momenti di slancio logico-intuitivo fasi di attaccamento al dato letterale, imponendo riflessioni più approfondite. Come accennato, il congegno delle letture costituisce peculiarità dei sistemi processuali misti. Se così è, anche nella complessa fattispecie disciplinata dagli artt. 431 e 511 c.p.p. dovrebbero rinvenirsi connotati ascrivibili, per un verso, alla matrice ideologica inquisitoria e, per l’altro, alle concezioni processualistiche di stampo adversarial. Sotto il primo profilo, non è difficile scorgere come l’infiltrazione dei verbali degli atti irripetibili compiuti nelle indagini preliminari tra il materiale probatorio astrattamente conoscibile dal giudice del dibattimento rappresenti eccezione cospicua al principio secondo il quale l’ordine causale che ha generato l’accusa non deve essere confuso con l’ordine epistemologico che la medesima vale a confermare (22). Del resto, stabilito che gli elementi raccolti durante la fase investigativa esauriscono la loro funzione nelle determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale (art. 326 c.p.p.) e, come tali, sono informati a metodi e tecniche proprie, ogni tentativo di assimilazione degli stessi alle ‘‘risultanze’’ dibattimentali non tiene in dovuta considerazione il diverso grado di attendibilità promanante da parametri gnoseologici antitetici. Sotto il secondo profilo, efficacia riequilibrante in chiave accusatoria sembra essere stata attribuita, per l’appunto, al meccanismo della lettura: 299, Giuffrè, 1989, p. 81. Degno di nota, appare, peraltro, un diverso indirizzo giurisprudenziale che riconduceva tale invalidità nell’area della categoria generale della nullità « assoluta - affievolita »: Cass. 26 gennaio 1990, Zanella, in Cass. pen., 1950, p. 1334, n. 1102; Id. 13 aprile 1988, Bevenino, ivi, 1989, p. 610, n. 551, con nota di RAMAJOLI. Nello stesso senso, e già ante-riforma, cfr. FLORIDA, La nullità della sentenza che si basa su prove non legalmente acquisite, con particolare riguardo all’omessa lettura di disposizioni testimoniali nel dibattimento, in Giust. pen., 1963, III, c. 311, secondo cui si trattava di violazione di disposizioni afferenti l’interento dell’imputato al dibattimento; VASSALLI, Il diritto alla prova nel processo penale, in questa Rivista, 1968, p. 16. (21) Si veda Rel. prog. prel., 1988, in Gazz. uff., 24 ottobre 1988, suppl. ord. n. 2, p. 118. (22) Così FERRUA, Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, in AAVV., La prova nel dibattimento penale, Giappichelli, 1999, p. 338.
— 770 — abbandonando « il regno sterile delle forme fini a se stesse » (23) e delle iperboli garantistiche, serve scoprire la ratio sottesa alla previsione contenuta nel primo comma dell’art. 511 c.p.p. da verificare successivamente, attraverso una disamina normativa, alla luce dell’intero sistema. L’indagine lambisce la problematica del rapporto tra forma e principio. Chiarito, tuttavia, come tra i termini della relazione non vi sia antinomia o divaricazione, ma che gli stessi costituiscono al contrario entità naturalisticamente inscindibili (contenitore e contenuto), convince l’opinione di quanti in ogni forma vedono incarnata una scelta di valore (24): chi ne invochi il rispetto o la calpesti, rispettivamente invoca o calpesta i valori e i principi ad essa sottesi. Quali valori, dunque, sotto la ‘‘forma’’ dell’art. 511 c.p.p.? La soluzione affonda le proprie radici in quella nuova e mutata concezione di prova di cui si è frettolosamente fatto parola. Il passaggio è duplice e su piani paralleli: metodologico ed epistemologico. Cominciando dal primo, non si può ragionevolmente dubitare che, nel codice del 1998, ad una definizione probatoria di tipo meccanicistico se ne sia sostituita una di tipo squisitamente relativistico (25). Nel sistema previgente, acquisito alcunché, si considerava la conoscenza valida ed utilizzabile in ogni contesto, senza limiti di fase o distinzioni di parti. Il mito dell’infallibilità del giudice, che per mezzo dell’atto di investitura veniva dotato di impareggiabile talento intuitivo (26), non sopportava costrizioni di metodo o di forma nell’ambito dell’operazione conoscitiva. L’irrilevanza di qualsivoglia criterio di ammissibilità o regola di esclusione trovava simmetrica giustificazione nella riduzione dei parametri probatori alla sola veridicità: indifferenti risultavano le modalità tramite le quali la prova era stata formata ed ottenuta. Di prova pur sempre si trattava, come tale non sottraibile — in buona sostanza — al convincimento del giudice. Modificate le coordinate ideologiche e ricusata, almeno formalmente, la filosofia del ‘‘codice Rocco’’, esce completamente ribaltato un assunto: quello secondo cui dominante e prioritaria sarebbe la libertà del magistrato nel suo potere di conoscere, salve eccezioni (27). La prova giuri(23) L’affermazione di FASSONE è riferita da NOBILI, Forme e valori duecento anni dopo, in Scenari e trasformazioni, cit., p. 2. (24) Così NOBILI, Forme e valori, cit., p. 3; per un’analisi del rapporto intercorrente tra forma e principio si leggano le pagine di SCHMITT, Dottrina della Costituzione, Giuffrè, 1984, p. 57 s. (25) Cfr. NOBILI, Concetto di prova, cit., c. 275. (26) Cfr., CORDERO, Diatribe sul processo accusatorio, in Ideologie del processo penale, Giuffrè, 1966, p. 229. (27) Sul punto CONSO, Natura giuridica delle norme sulla prova nel processo penale, in Riv. dir. proc., 1970, p. 7; CAPPELLETTI, Un avvenimento metodologico, in Processo e ideologie, Il Mulino, 1969, p. 253; DE LUCA, Logica e metodo probatorio giudiziale, in Scuola positiva, 1965, p. 30 s.
— 771 — dica, atto di conoscenza nella sua essenza distintiva, è al tempo stesso « operazione regolata da un certo metodo, storicamente mutevole, il quale, oltre che rispondere ad un esigenza di economia ed organizzazione, è l’espressione di certe scelte di valore per quel che concerne la tutela di interessi individuali e sociali » (28). Di essa non possono non rilevare le modalità seguite nella formazione, i soggetti che vi intervenirono e la ‘‘qualità giurisdizionale’’ della procedura; tali fattori, al contrario, ne condizionano profondamente l’usabilità, limitandola a certe fasi e a determinati fini, ed escludendola da diversi ambiti e per differenti scopi. Il contesto di utilizzazione viene cioè indissolubilmente legato al contesto di acquisizione (29): non più generale libertà salve eccezioni, ma fattispecie probatorie come limiti al sapere giudiziale. Il secondo passaggio che, conviene ripetere, si colloca su un piano epistemologico, si rivela ancor più drastico ed incisivo: da prova dimostrativa a concezione argomentativa del medium di prova. Si impone la consapevolezza di come nel processo penale, ma più in generale nel mondo del diritto, l’indagatore non abbia a che fare con fatti, ma con enunciati fattuali (30). Il fatto costituisce un accadimento storico fagocitato dalla dimensione del passato che, solo limitatamente, può essere ricostruito. Il tentativo di ricomposizione si snoda e passa — ma anche s’arresta — attraverso la verifica non dei fatti, ma della veridicità di proposizioni (31). Un fatto non può essere vero o falso, esso è o non è. La prova s’identifica, (28) NOBILI, Letture testimoniali consentite, cit., p. 257. (29) Sempre NOBILI, Concetto di prova, cit., c. 275. L’Autore, a titolo esemplificativo, cita la disposizione di cui all’art. 403 c.p.p., che sancisce l’utilizzabilità delle prove assunte nell’incidente probatorio solo nei confronti degli imputati i cui difensori parteciparono all’assunzione; la regola dell’art. 63.1 c.p.p. che prevede un regime di inutilizzabilità contra se delle dichiarazioni rese da persone informate sui fatti; l’art. 228.3 c.p.p. che consente al perito di richiedere notizie all’imputato, alla persona offesa o ad altre persone, ma che nel contempo limita la spendibilità degli elementi in tal modo acquisiti solo ai fini dell’incarico peritale; l’art. 360.5 c.p.p. che impedisce il dispiegare di qualsiasi effetto nel dibattimento agli accertamenti tecnici non ripetibili compiuti dal pubblico ministero, se privi del carattere di indifferibilità e promossi nonostante la riserva di incidente probatorio formulata dall’indagato; l’art. 26.2 c.p.p. da cui si ricava che le dichiarazioni rese al giudice incompetente per materia, in quanto ripetibili, possono essere utilizzate solo nell’udienza preliminare e per le contestazioni previste dagli artt. 500 e 503 c.p.p.; lo stesso art. 500.3 c.p.p. che attribuiva alle contestazioni effettuate durante l’esame testimoniale valore probatorio in senso negativo. Alle norme testè menzionate non sembra fuorviante accostare, in linea del tutto generale, la disciplina dell’art. 326 c.p.p. che finalizza la raccolta degli elementi in sede preliminare alle determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale e la prescrizione dell’art. 526 c.p.p. che vieta l’utilizzazione, ai fini del decidere, di prove diverse da quelle legittimamente acquisite al dibattimento. (30) In proposito, UBERTIS, voce Prova (in generale), in Dig. disc. pen., vol. X, Utet, 1995, p. 300. (31) CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, Parte generale, vol. III, Giacchetti, 1886, p. 201.
— 772 — allora, in « quell’insieme di elementi ed attività aventi la funzione di consentire l’accertamento della verità o meno di uno degli enunciati fattuali integranti il thema probandum » (32). Tuttavia, anche « quell’insieme » di risultanze mai si presenta al giudice nella propria « datità », ma risente fortemente dell’inserzione nel contesto giudiziale, umanamente adeguato a variabili linguistiche, topiche, logiche, valutative (33). L’attività probatoria non si esaurisce nel trasferire dall’esterno all’interno del procedimento pezzi di materia solo da scoprire e fotografare e che risultano insensibili alla metodologia con cui si agisce e indipendenti dalle finalità prefissate (34). Il risultato di un’indagine esce diverso, a seconda di come lo si persegue e di come si procede, di modo che esso non postula, nei soggetti che vi intervengono, una posizione di mera ricezione, ma, al contrario, riconosce loro un ruolo attivo e preminente. Sfatato il mito sull’attingibilità di conoscenze assolute, caratterizzate da una loro supposta incontestabilità (35), si registra lo spostamento da una gnoseologia giudiziaria impostata sulla prova intesa come fatto sensibile, atta ad appalesarsi nel suo contenuto rappresentativo al potere conoscitivo delle parti, verso una differente metodologia fondata sulla nozione di prova intesa come « argomento che include il mezzo » (36), strumento nelle mani delle parti per dimostrare l’attendibilità delle rispettive tesi. Uno stesso mezzo di prova si presta ad essere argomentato in maniera difforme dai soggetti portatori di interessi antitetici, tanto da suscitare « l’impressione che quell’unico mezzo di prova produca una pluralità di prove » (37). Riassumiamo ora i passaggi salienti del ragionamento per applicarli al caso specifico qui ipotizzato: quegli atti irripetibili compiuti e verbalizzati dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria durante le indagini preliminari che come tali portano impressi i crismi cui tale fase risulta informata, sono stati raccolti in regime di segretezza, in via unilaterale, e spesso senza il contributo di garanzie difensive. Essi, fisiologicamente, sarebbero destinati a sostenere un’eventuale richiesta di giudizio e ad essere poi abbandonati nel fascicolo disciplinato dall’art. 433 c.p.p. Poiché strut(32) UBERTIS, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, Giuffrè, 1979, pp. 89-90. (33) Ancora UBERTIS, voce Prova (in generale), cit., p. 299. Lungimirante in tal senso si rivela l’osservazione di MASSA, Contributo alla analisi del giudizio penale di primo grado, Jovene, 1964, p. 135 s., secondo cui « non ci troviamo mai davanti a dati meramente naturalistici che si possono acquisire con la semplice percezione dei sensi » talché « il valore non è separato dal dato né nei cosiddetti giudizi di realtà né nei giudizi di valore ». (34) NOBILI, Associazioni mafiose, criminalità organizzata e sistema processuale, in Critica dir., 1995, p. 5 s. (35) UBERTIS, La prova penale, Utet, 1995, p. 5 s. (36) Così ORLANDI, L’attività argomentativa delle parti nel dibattimento penale, in AA.VV., La prova nel dibattimento, cit., p. 11. Una prima versione del saggio è apparsa in questa Rivista, 1998, p. 452 s. (37) ORLANDI, L’attività argomentativa, cit., p. 11.
— 773 — turalmente non passibili di ripetizione, il legislatore ne suggerisce un recupero in chiave dibattimentale, subordinandone — così sembra — l’utilizzabilità decisoria al requisito esplicito della lettura (art. 511 c.p.p.). 4. Gli argomenti fin qui prospettati sembrano assegnare alla lettura tutt’altro che i panni di un mero adempimento insuscettibile di rivestire peso nel delicato quadro del convincimento giudiziale. Essa, al contrario, assolve alla funzione di rendere edotte le parti circa il materiale su cui il giudice intende basare la propria decisione, permettendone un opportuno e/o ulteriore vaglio di legittimità. Ma, la precipua importanza del meccanismo si coglie nell’attribuzione alle parti del potere di concorrere a determinare ed a chiarire il contenuto rappresentativo dell’atto stesso. La lettura in sostanza, pur non potendo rimediare alla frustrazione del principio di oralità, intesa come oralità-immediatezza (38), irreparabilmente compromesso dalla natura ‘‘istantanea’’ della fonte cognitiva, consente di recuperare qualche spazio al contraddittorio, seppure al suo livello più basso: la verifica di un verbale (39). Esso, tuttavia, costituisce particolare affatto trascurabile: non solo rappresenta garanzia dell’imputato, ma assurge, nella sua dimensione pubblicistica, a strumento per la corretta ricostruzione dei fatti (40). Se la « potestà esaminatoria », propria di tutti i mezzi di prova, si concreta non in un prendere conoscenza, ma nel forgiare la conoscenza « dell’elemento utilizzabile come anello nella formazione della catena » (41) nella quale si risolve il giudizio, si deve convenire con chi riconosce in difesa e contraddittorio « non solo tributi da pagare sul piano dei principi costituzionali ed internazionali », ma « mezzi e metodi che partoriscono verità » (42). È solo attraverso la lettura, quindi, che l’atto d’indagine si spoglia del (38) Sul principio di oralità e della connessione con il principio di immediatezza, cfr. CHIOVENDA, Sul rapporto tra forme del procedimento e la funzione della prova (L’oralità e la prova) (1924), in Saggi di diritto processuale civile, vol. II, Foro italiano, 1931, p. 197; DENTI, voce Principio di oralità (dir. proc. civ.), in Enc. giur. Treccani, vol. XXI, 1990, p. 15; FERRUA, Oralità del giudizio, cit., p. 279; ILLUMINATI, Il nuovo dibattimento, cit., c. 356, secondo il quale « l’oralità senza immediatezza perde quasi completamente il proprio significato ». In una diversa prospettiva, tendente per contro a scindere la nozione di oralità da quella di immediatezza, UBERTIS, voce Dibattimento (principi del) nel diritto processuale penale, in Dig. disc. pen., vol. III, Utet, 1989, p. 465. (39) Cfr. FERRUA, Anamorfosi del processo accusatorio, in Studi sul processo penale, vol. II, Giappichelli, 1992, p. 171. Per la manifestazione del contraddittorio al suo livello più alto, GIOSTRA, Valori ideali e prospettive metodologiche del contraddittorio in sede penale, in Pol. dir., 1986, p. 23 s. (40) Sempre FERRUA, Anamorfosi, cit., p. 185. (41) FOSCHINI, Il dibattimento, Giuffrè, 1956, p. 126. (42) NOBILI, Diritti difensivi, poteri del pubblico ministero durante la fase preliminare e legge 8 agosto 1995, n. 332, in Cass. pen., 1996, p. 3475, n. 206.
— 774 — carattere di monodicità, unilateralità e segretezza, per filtrare coram partibus e nella maieutica del contraddittorio, nel materiale legittimamente acquisito di cui il giudice si avvale per il decidere. Solo in tal modo quella documentazione diviene ‘‘operativa’’ nella sua efficacia probatoria per tutti i partecipi del giudizio, ingenerando quella « comune conoscenza » per cui tra tutti essa può essere utilizzata, e da tutti deve essere accettata per gli effetti di incidenza logica sul decisum (43). Se così non fosse, resterebbe da domandarsi per quale ragione il legislatore abbia prescritto un’ulteriore formalità, quando al giudice fosse consentito, molto più semplicemente, trarre il convincimento dall’atto scritto, anziché disporne pubblica rivisitazione. Attraverso quel collegamento normativo (artt. 431-511 c.p.p.), si è inteso, per contro, predisporre un rapporto di integrazione, di completamento tra metodi probatori discrepanti, così che l’organo giudicante basi il ragionamento non su una prova scritta, ma su qualcosa di nuovo e di diverso che tale diviene non per il solo fatto della comunicazione orale. Conseguentemente, si deve riconoscere che la disciplina in esame non contempli una facoltà, un ‘‘gesto vuoto’’, ma un vero e proprio potere istruttorio il cui esercizio si « traduce in un atto assoggettato a quella singolare valutazione in termini di dovere, a cui corrisponde la figura della discrezionalità » (44). Il verbale dell’atto irripetibile diventa atto dibattimentale a condizione che sia letto: è tramite la lettura che il giudice immette nello spazio dibattimentale una prova di cui altrimenti non potrebbe tenere conto; è tramite la lettura, cioè, che l’« utilizzabilità astratta », ossia la leggibilità, si converte in « utilizzabilità concreta » (45), « conoscenza ufficiale » (46). La conclusione non sembra incrinata da quel quinto comma dell’art. 511 c.p.p. che consente al giudice di sostituire, all’effettiva lettura, la mera e specifica indicazione degli atti utilizzabili ai fini del decidere. Tralasciando la genesi storica della norma, da collocare nel degenerato fenomeno dei maxi-processi e nella legislazione dell’emergenza, si tratta di chiarire come l’opzione costituisca strumento alternativo nella disponibilità delle parti, sebbene entro limiti non certo angusti. Quando il giudice indichi anziché leggere, si dà luogo ad una sorta di contraddittorio eventuale e posticipato: solo qualora le parti rinuncino a vagliare il contenuto del verbale, ritenendo sterile la discussione, il regime equipollente può trovare applicazione. In caso contrario, se le parti lo richiedono e si tratti di verbali di dichiarazioni, oppure — per altri atti — sussista un « serio (43) Cfr. FOSCHINI, Il dar per letto, cit., p. 6. (44) CORDERO, Scrittura e oralità, cit., p. 329. (45) D’ANDRIA, Commento all’art. 511 c.p.p., in LATTANZI-LUPO, Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, Giuffrè, 1997, p. 231. (46) AMODIO, Il dibattimento, cit., p. 91.
— 775 — disaccordo », il giudice si vede costretto ad abbandonare sbrigativi escamotages, per cedere il passo ad una doverosa lettura (47). 5. Gli argomenti riferibili alla natura ed alle reali finalità dell’istituto, portano a concludere, senza margine di scelta, che la lettura costituisca presupposto necessario ai fini dell’acquisizione degli atti al procedimento e condizione imprescindibile al rispetto della quale è subordinata l’immissione dei verbali nel quadro probatorio di cui il giudice si avvale (48). Specularmente, l’opera di selezione che il giudice dell’udienza preliminare compie ex art. 431 c.p.p., dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio, non integra uno strumento di ‘‘cristallizzazione’’ di materiale direttamente utilizzabile per la sentenza (49). Si risolve, invece, in (47) Sugli aspetti problematici riconducibili all’interpretazione del « serio disaccondo », CONTI-MACCHIA, Il nuovo processo penale, Buffetti, 1989, p. 133. Secondo gli Autori, l’inciso rischia di vanificare « lo strumento acceleratorio dell’indicazione ». Osservando come il « disaccordo », cada necessariamente sul momento rappresentativo-contenutistico del documento, suggeriscono di rinviare le valutazioni inerenti ad atti ambigui o contraddittori in sede di discussione. Per il ragionamento sviluppato nelle pagine precedenti, si ritiene di doversi discostare dall’assunto riportato. (48) Così: AMODIO, Il dibattimento, cit.; p. 91; BUZZELLI, Le letture dibattimentali, cit., p. 216; CRISTIANI, Manuale del nuovo processo penale, Giappicchelli, 1989, p. 389; FASSONE, Il giudizio, in AA.VV., Manuale pratico del nuovo processo penale, Cedam, 1995, p. 842; FERRUA, La formazione delle prove nel nuovo dibattimento, cit., p. 246; ID., Anamorfosi del processo accusatorio, cit., p. 157; GALANTINI, Inosservanza di limiti probatori e conseguenze sanzionatorie, in Cass. pen., 1991, p. 663, n. 597; ID., L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Cedam, 1992, p. 417; GARUTI, La verifica dell’accusa, cit., p. 323; GRIFANTINI, Utilizzabilità in dibattimento degli atti provenienti da fasi anteriori, in AA.VV., Le prove nel dibattimento, cit., p. 128 s.; ICHINO, Il giudice del dibattimento, le parti e la formazione della prova nel nuovo processo penale, in questa Rivista, 1989, p. 716; ID., Gli atti irripetibili e la loro utilizzazione dibattimentale, in AA.VV., La conoscenza del fatto cit., p. 110; ILLUMINATI, Il nuovo dibattimento, cit., c. 358; ID., Ammissione e acquisizione della prova nell’istruzione dibattimentale, in AA.VV., Le prove nel dibattimento, cit., p. 107; MALINVERNI, voce Oralità, in Enc. giur. Treccani, vol. XXI, 1990, p. 11; NAPPI, Guida al codice di procedura penale, Giuffrè, 2000, p. 445 s.; NOBILI, Concetto di prova, cit., c. 281; ID., La nuova procedura penale, cit., p. 267; ID., Commento all’art. 511 c.p.p., in Commento, cit., vol. V, Utet, 1991, p. 429; ID., Le opposizioni difensive all’uso dibattimentale di atti delle indagini preliminari nel nuovo codice di procedura penale, in Studi in onore di Giuliano Vassalli, vol. II, Giuffrè, 1991, p. 333; RIVELLO, voce Letture consentite e vietate, cit., p. 406; RAMAIOLI, Chiusura delle indagini, cit., p. 130; SCELLA, Sul valore probatorio delle deposizioni assunte anteriormente al mutamento di composizione del collegio giudicante, in Cass. pen., p. 1309, n. 803; SEGHETTI, Sulla nullità per omessa lettura di un atto decisivo, ieri ed oggi, in Giur. it., 1992, II, c. 364; TERRILE, Utilizzabilità dibattimentale delle dichiarazioni rese fuori dal dibattimento, in Cass. pen., 1990, p. 1618, n. 1332; TONINI, Manuale di procedura penale. Seconda edizione, Giuffrè, 2000, p. 413; UBERTIS, voce Giudizio di primo grado (disciplina del) nel diritto processuale penale, in Dig. disc. pen., vol. V, Utet, 1991, p. 535. (49) Cfr. GALANTINI, Inosservanza di limiti probatori, cit., p. 669.
— 776 — un adempimento prodromico ad un’apposita e successiva acquisizione che non esaurisce alcuna fase di un eventuale procedimento probatorio. L’art. 431 c.p.p. non mira, cioè, ad elaborare un paradigma di atti ammissibili, ma fornisce più semplicemente ‘‘un’elencazione di atti che rappresentano [...] eccezioni al sistema di isolamento probatorio predisposto, senza porsi, peraltro, quale obiettivo la fissazione di regole in ordine all’utilizzabilità o all’inutilizzabilità degli atti ricompresi o esclusi dalla lista » (50). Tali previsioni acquistano significato in quanto siano poste in correlazione con le ulteriori prescrizioni che delimitano le modalità di accesso dell’atto nel processo. Solo attraverso una lettura coordinata degli artt. 431 e 511 c.p.p., si riesce a desumere la proporzione del fenomeno ed il regime di utilizzabilità dibattimentale degli elementi raccolti durante la fase investigativa. Dell’assunto cerchiamo conferme nel reticolo codicistico. Un primo ostacolo, che parrebbe suffragare la tesi dell’allegazione materiale ex 431 c.p.p. come definitiva acquisizione, è costituito dall’art. 491 c.p.p. All’opzione di un contraddittorio preventivo sulla selezione operata dal giudice al termine dell’udienza preliminare, il legislatore aveva preferito un controllo postumo in sede di questioni preliminari. Il dettato dell’art. 491 c.p.p. impone alle parti — a pena di decadenza — di esplicitare ogni richiesta in ordine alla eliminazione di atti dal fascicolo di udienza o, viceversa, all’introduzione di altri che ne fossero stati esclusi, subito dopo l’accertamento della regolare costituzione delle parti. Con la riforma del dicembre 1999, nell’ambito di un travagliato disegno che reca numerose modifiche incidenti su tutto il codice di procedura penale, la versione originaria dell’art. 431 c.p.p. è stata ritoccata, imponendo la formazione del fascicolo nel contraddittorio delle parti. L’« aggiustamento » non sembra collocarsi in una posizione di incompatibilità con la successiva prescrizione dell’art. 491 c.p.p., così da comportarne una abrogazione implicita. Tantomeno appare in grado di scalfire il ruolo della lettura dibattimentale, solo che si consideri l’alterità del giudice davanti al quale si svolge il contraddittorio rispetto all’organo giurisdizionale deputato alla elaborazione della decisione finale. La novella ha inteso offrire alle parti uno strumento di vaglio anticipato, che va ad aggiungersi al rimedio delle questioni preliminari e che risponde ad una finalità garantistica e di snellezza processuale (51). (50) Ancora GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova, cit., p. 35. (51) Per un approfondimento in tal senso: BUZZELLI, Le letture dibattimentali, cit., p. 246; GALANTINI, La nuova udienza preliminare, in AA.VV., Giudice unico e garanzie difensive. La procedura penale riformata, Giuffrè, 2000, p. 114 s.; PANSINI, Con i poteri istruttori attribuiti al Gup il codice retrocede allo schema inquisitorio, in Dir. giust., 2000, n. 2, p. 61: SCELLA, La formazione in contraddittorio, cit., p. 425 s. Accennava, in passato, alla possibilità « di promuovere un incidente sulla formazione del fascicolo anche davanti allo stesso
— 777 — A fronte della volontà normativa di veder risolta in limine judicii le controversie al proposito, occorre tuttavia domandarsi se l’art. 491 c.p.p. contempli, a carico delle parti, un onere perfetto (52). Se l’esclusione di un atto inutilizzabile o, per converso, l’inserimento di un atto utilizzabile ex art. 431 c.p.p. possano essere disposti anche al di fuori del termine prefissato da quella disposizione, è quesito da risolvere separatamente. Per quanto attiene alla eliminazione, lo sbarramento temporale è incompatibile con il regime sanzionatorio dettato per atti di natura probatoria. In particolare, la disciplina dell’inutilizzabilità — che ne permette la rilevabilità, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento — non sopporta soglie preclusive, e si rivela logicamente improponibile (53). Al più, la regola fissata dall’art. 491 c.p.p. si potrebbe applicare in riferimento alla scelta degli atti originariamente irripetibili, ma mai potrebbe concernere quelli assunti in violazione dei divieti probatori, dichiarati inutilizzabili da singole disposizioni, o che in nessun caso si sarebbero potuti considerare irripetibili in via originaria (54). Di tali ultimi sarà sempre possibile — salvo il limite del giudicato — rilevare l’inutilizzabilità, con la conseguenza che la prova, non potendo essere impiegata ai fini decisori, dovrebbe coerentemente ‘‘uscire’’ dal fascicolo dibattimentale. La carenza di un riscontro normativo espresso, tuttavia, non sembra acconsentire a tale materiale estromissione, cosicché l’atto viziato, pur non potendo fungere da valido supporto al convincimento giudiziale, è destinato a permanere nel fascicolo, divenendo di fatto conoscibile. È forse questa l’unica ragione in grado di spiegare perché l’art. 491 c.p.p. imponga di decidere immediatamente questioni rinviabili al momento della lettura, ma suscettibili di influire sull’esercizio della giurisdizione (55). Conclusione analoga dovrebbe valere per l’ipotesi in cui la documentazione idonea ad accedere al giudizio sia stata ab origine erroneamente esclusa dal fascicolo di cui all’art. 431 c.p.p. Per tale evenienza, difetta una norma simmetrica all’art. 191 c.p.p., in grado di scavalcare il dettato dell’art. 491 c.p.p. Si è per contro evidenziato come un’eventuale tardiva inclusione non violi il contraddittorio, poiché sarebbero sempre le parti — le quali hanno conoscenza di tutto il materiale investigativo — a dovere chiedere che il fascicolo sia reintegrato dell’atto mancante (56). Del giudice dell’udienza preliminare », AMODIO, Fascicolo processuale e utilizzabilità degli atti, in Lezioni sul nuovo processo penale, Giuffrè, 1990, p. 183. (52) Cfr. GRIFANTINI, Utilizzabilità in dibattimento, cit. p. 125. (53) Così GALANTINI, Inosservanza di limiti probatori, cit., p. 669; NAPPI, Sulla necessità di distinguere, cit., p. 766; NOBILI, Commento all’art. 511 c.p.p., cit., p. 429. (54) Cfr. FERRUA, La formazione della prova nel nuovo dibattimento, cit., p. 263. (55) In questo senso, GRIFANTINI, Utilizzabilità in dibattimento, cit., p. 125. (56) Cfr. CONSO-BARGIS, Glossario della nuova procedura penale, Giuffrè, 1992, p. 496; CORDERO, Procedura penale, Giuffrè, 1998, p. 839; GRIFANTINI, Utilizzabilità in dibat-
— 778 — resto, dalla formulazione dell’art. 495 c.p.p. emerge come le controversie sulle acquisizioni dibattimentali godano di una disciplina normativa differente: « nel corso dell’istruzione [dibattimentale] il giudice decide con ordinanza sulle eccezioni proposte dalle parti in ordine all’ammissibilità delle prove ». È dunque coerente che doglianze incidenti su atti di natura probatoria possano essere sollevate in stadi più avanzati rispetto al momento indicato dalla previsione dell’art. 491 c.p.p e che le speculari eccezioni siano riferibili non solo alle acquisizioni probatorie nuove, ma a tutta l’attività di istruzione, « la quale ricomprende anche quella forma surroganea che consiste nel riapprendere, tramite letture, conoscenze pur formate nella fase precedente » (57). 6. Ulteriore rassicurazione circa la plausibilità della ricostruzione sembra giungere da altre due norme: lo stesso art. 511 e l’art. 515 c.p.p. Il primo comma dell’art. 511 c.p.p. prevede, infatti, letture anche soltanto « in parte ». Queste non avrebbero significato, se la procedura di formazione del fascicolo ed il successivo controllo ex art. 491 c.p.p. già equivalessero ad una forma di definitiva acquisizione dibattimentale. Quale la ratio della menzionata selezione, se il giudice potesse estrapolare autonomamente dai verbali oggetto di lettura i frammenti reputati utili al fine del giudicare? Sull’altro versante, l’art. 515 c.p.p. svela che solo « i verbali di cui è stata data lettura e i documenti ammessi a norma dell’art. 495 sono inseriti, unitamente al verbale di udienza, nel fascicolo per il dibattimento ». A meno di non voler attribuire a tale disposizione mera funzione enunciativa, si deve riconoscere come solamente ai verbali di cui è stata data concreta lettura sia accordata legittimazione a permanere — se già vi si trovavano — nel fascicolo dibattimentale. Quest’ultimo costituisce una « realtà dinamica » che, nel corso del procedimento, è destinata a soggiacere ad accrescimenti ed alleggerimenti, di modo che il suo contenuto mai risulta « cristallizzato in quello indicato dall’art. 431, ma è esposto a notevoli variazioni sia nella fase degli atti preliminari al dibattimento, sia, soprattutto, nel corso del dibattimento medesimo » (58). Quel fascicolo, concettualmente, è come se dovesse venir ‘‘vuotato’’, per poi essere nuovamente ‘‘riempito’’, in modo da rendere possibile l’estromissione di atti timento, cit., p. 126; LOZZI, Lezioni di procedura, Giappichelli, 1997, p. 417; NAPPI, Giuda al codice di procedura penale, cit., pp. 428-429; ID., Sulla necessità di distinguere, cit. p. 765; RIVELLO, Giudizio ordinario di primo grado, in CHIAVARIO, Commento, cit., Primo aggiornamento, Utet, 1993, p. 754; SCELLA, voce Questioni preliminari, in Dig. disc. pen., vol. X, Utet, 1995, p. 613. In giurisprudenza, Cass. 4 giugno 1996, Mollo, in Guida dir., 14 dicembre 1996, p. 81; Id. 18 aprile 1995, Ricciuti, in Dir. pen. e proc., 1995, p. 820; Id. 2 aprile 1993, Sciutto, in Arch. n. proc. pen., 1994, p. 260. (57) NOBILI, La nuova procedura, cit., p. 274. (58) Così C. cost. 24 gennaio 1994, n. 17, in Cass. pen., 1994, p. 1172, n. 681.
— 779 — regolarmente inseriti da principio e/o l’inserzione di altri non originariamente contemplati (59). Nel corso dell’istruttoria dibattimentale, in breve, quel fascicolo è oggetto di una « ricostruzione », di una metamorfosi, al termine della quale diviene ‘‘fascicolo per la decisione’’ (60): « il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento » (art. 526 c.p.p.). A conclusione della disamina normativa, possiamo scorgere negli artt. 431 e 511 c.p.p. una fattispecie probatoria complessa che vede la propria genesi nella materiale allocazione dei verbali degli atti irripetibili nel fascicolo trasmesso secondo l’art. 432 c.p.p ed il momento di perfezionamento nella successiva eventuale lettura che il giudice del dibattimento dispone d’ufficio o su richiesta di parte. La mancata lettura, lungi dal rappresentare una mera irregolarità incapace di incidere sul procedimento di acquisizione della prova, ne inibisce, al contrario, la formazione: solo attraverso la lettura, l’elemento spurio si spoglia della propria connotazione originaria per assurgere nel ‘‘segno’’ dibattimentale a rango di prova e fonte del convincimento giudiziale. L’omissione, sullo sfondo del richiamato art. 526 c.p.p., dà luogo ad inutilizzabilità (61). Non ci si nasconde che su questo punto, così come su quello concernente l’interpretazione del collegamento normativo tra gli artt. 191 e 526 c.p.p. e, prima ancora, sull’esegesi dello stesso art. 191 c.p.p., ogni soluzione è controversa e controvertibile, cosicché si oscilla tra tesi eccessivamente sbrigative (62) e (59) Cfr. NOBILI, La nuova procedura, cit. p. 269. (60) Ancora NOBILI, Le opposizioni difensive, cit., p. 333. (61) Per la configurazione dell’inutilizzabilità come regola di condotta per il giudice, DE GREGORIO, Alcune note intorno all’inutilizzabilità degli atti nel processo penale, in Cass. pen., 1992, p. 1104, n. 584; ILLUMINATI, Il nuovo dibattimento, cit., c. 361; LOZZI, I principi del dibattimento, in Riflessioni sul nuovo processo penale, Giappichelli, 1990, p. 105. (62) Al riguardo, non sembra inopportuno sottolineare come sulla portata della sanzione introdotta dal codice del 1988 sussista un forte contrasto tra posizioni dottrinali ed un consolidato orientamento giurisprudenziale. Quest’ultimo, facendo leva sull’art. 191 c.p.p., ritiene che l’inutilizzabilità sia integrata esclusivamente allorquando una prova sia ottenuta violando uno specifico divieto di acquisizione (‘‘prove vietate’’), e non anche quando l’assunzione, di per sé consentita, sia avvenuta con modalità diverse da quelle prescritte (cfr. Cass. 13 febbraio 1998, Magro, in C.E.D. Cass., n. 210089; Id. 21 febbraio 1997, Mirino, ivi, n. 207271; Id., Sez. un. 27 marzo 1996, Sala, in Cass. pen., 1996, p. 3268, n. 1811; Id. 9 marzo, Pischedda, in C.E.D. Cass., n. 200703; Id. 27 aprile 1995, Pisano, ivi, n. 20133; Id. 9 giugno 1994, Lo Cascio, ivi, n. 198961; Id. 16 novembre 1993, Nuzzo, ivi, n. 198590; Id. 11 maggio 1992, Cannarozzo, in Giust. pen., 1995, III, c. 459; Id. 5 maggio 1992, Rendina, in questa Rivista, 1994, p. 689). Tuttavia, a prescindere dalla correttezza di una simile impostazione, sulla quale è lecito manifestare qualche perplessità, (in proposito, criticamente, CESARI, L’« isolamento » del testimone prima dell’esame: spunti di riflessione sul tema dell’inutilizzabilità, in questa Rivista, 1994, p. 700 s.; GRIFANTINI, Precisazioni in tema di inutilizzabilità probatoria suggerite da un singolare caso di « utilizzabilità sopravvenuta » della testimonianza e da una « sospetta irritualità della perizia », in Cass. pen., 1995, p. 3026, n. 1789: NOBILI, Divieti
— 780 — ricostruzioni innegabilmente eccessive (63). Tuttavia, mancando la lettura, atto essenziale per completare la procedura di acquisizione dibattimentale, gli atti irripetibili compiuti durante la fase investigativa, sebbene secundum legem, risultano incapaci di sfondare il diaframma della scissione delle fasi, per entrare nella disponibilità delle parti e dell’organo requirente, mentre la mancata integrazione dello schema legale genera un vizio tale da incrinare il valore dell’atto, scomponendone il nucleo e provocandone l’infecondità (64). La giurisprudenza mostra sul punto un atteggiamento incoerente. Dapprima, sembra riconoscere nel meccanismo disciplinato dall’art. 511 c.p.p. uno strumento propulsivo indispensabile ai fini dell’acquisizione della prova, un veicolo normativo insostituibile per ‘‘traghettare’’ i verbali provenienti da fasi antecedenti nello spazio decisorio dibattimentale segnato degli artt. 526-529 c.p.p. (65). In un secondo momento, quando si tratta di individuare la ‘‘reazione’’ che l’ordinamento predispone avverso probatori e sanzioni, in Giust. pen., 1991, III, c. 646) sembra comunque difficile sostenere che tra l’art. 191 c.p.p. e il successivo art. 526 c.p.p. esista un rapporto di corrispondenza biunivoca, tale da ridurre il secondo a superfluo doppione del primo. Si deve invece riconoscere che l’art. 526 c.p.p. goda, nell’area dibattimentale, di un’autonomia concettuale ben più ampia, che ricomprende nella propria sfera applicativa l’uso di qualsiasi prova illegittimamente acquisita, non altrimenti sanzionata, a prescindere dalla fonte dell’irritualità e dalla ricorrenza di un divieto probatorio esplicito. In questo senso, FERRUA, La formazione della prova, cit., p. 281; NOBILI, Divieti probatori, cit., c. 646; SCELLA, Sul valore probatorio delle deposizioni, cit., p. 1307. (63) Tale pare l’assunto che pretendesse di ricondurre sotto l’egida dell’art. 526 c.p.p. ogni discostarsi dal precetto processuale, non altrimenti qualificato. Nell’ipotesi in cui la violazione normativa già costituisca oggetto di un’espressa previsione di nullità, è doveroso ritenere prevalente la comminatoria in via specifica, rispetto all’inutilizzabilità discendente dal disposto generale. Il fatto che il legislatore abbia sentito l’esigenza di statuire espressis verbis l’operatività della nullità sta inequivocabilmente ad indicare la volontà di assoggettare l’imperfezione dell’atto alla sanzione più mite. In tal caso, quindi, deve trovare applicazione il regime tipico della forma invalidante meno grave, con la possibilità che un’eventuale sanatoria riqualifichi il dato probatorio viziato. In questo senso, BARGI, Procedimento probatorio e giusto processo, Jovene, 1990, p. 252; NAPPI, Guida al codice, cit., p. 159; NOBILI, Commento all’art. 191, in CHIAVARIO, Commento, cit., vol. II, Utet, 1990, p. 412; SIRACUSANO, Le prove, in AA.VV., Diritto processuale penale, vol. I, Giuffrè, 1995, p. 384. (64) Sulla poliedricità del concetto di inutilizzabilità, in riferimento alla duplice natura (fisiologica e patologica) della categoria; NAPPI, Guide al codice, cit. p. 257; GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova, cit., p. 8 s. (65) Cfr., Cass. 22 febbraio 1996, Gomez, in C.E.D. Cass., n. 205015; Id. 20 aprile 1995, Greco, in Cass. pen., 1996, p. 1467, n. 856, con nota di POTETTI; Id. 26 aprile 1994, Sorrentino, in C.E.D. Cass., n. 19904, Id. 23 novembre 1993, Morgante, in GUARINIELLO, Il processo penale nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, Utet, 1994, p. 380; Id. 3 maggio 1993, Piccirillo, in Arch. n. proc. pen., 1993, p. 780; Id. 22 febbraio 1993, Oliviero, in C.E.D. Cass., n. 194544; Id. 16 febbraio 1993, Gaspari, in GUARINIELLO, Il processo penale, cit., p. 380; Id. 22 aprile 1992, Pescatore, in Cass. pen., 1993, p. 1471, n. 861; Id. 13 febbraio 1992, Arduini, in C.E.D. Cass., n. 191914.
— 781 — atti non concretamente letti o specificamente indicati, essa pare degradare il congegno istruttorio a trascurabile particolare scenico, asserendo che la violazione dell’obbligo di lettura né può essere inquadrata in alcuna delle cause generali di nullità (art. 178 c.p.p.), né può essere ricondotta al vizio di inutilizzabilità, « non incidendo tale omissione sull’acquisizione della prova... e, cioè, su quel procedimento — della cui legittimità si occupa l’art. 191 c.p.p. — logicamente e cronologicamente distinto e precedente rispetto a quello della lettura o dell’indicazione » (66). L’orientamento cui si è fatto cenno trova commento negli argomenti sin qui svolti. L’interpretazione, in buona sostanza, considera la lettura un’appendice « dissimile per qualità dalla fase acquisitiva » ormai portata a termine: non si legge per acquisire, ma dapprima si acquisisce e poi, eventualmente, si dà lettura. Un segnale di incoerenza, funzionale al recupero di dati altrimenti destinati ad andar perduti, proviene da una pronuncia della Cassazione stessa, laddove si afferma che « non sarebbe sufficiente rilevare che non è stata data lettura degli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento, né è avvenuta la loro indicazione, per concludere che la sentenza deve essere annullata »: « potrebbe infatti logicamente prospettarsi l’annullamento della sentenza solo se questa fosse basata in modo imprescindibile su atti non letti o non indicati » (67). Nel passaggio riportato, la sentenza, in realtà, glissa su quello che costituisce un altro problema (68). Ma, nel fare (66) Testualmente, Cass. 1 giugno 1999, Pili, in Guida dir., 9 ottobre 1999, p. 98. Analogamente, Id. 23 aprile 1997, Fagnini, ivi, 20 settembre 1997, p. 638; Id. 9 dicembre 1996, Sinisi, in Dir. pen. proc., 1997, p. 12; Id. 26 novembre 1996, Tommasi, ivi, p. 1223: Id. 15 luglio 1996, Tesser, in Cass. pen., 1998, p. 840, n. 487; Id. 1 luglio 1994, Mazzuoccolo, in Arch. n. proc. pen., 1994, p. 13; Id. 10 febbraio 1994, Marotta, in C.E.D. Cass. n 197322; Id. 10 gennaio 1994, Manitta, ivi, n. 198356; Id. 16 dicembre 1993, Citraro, in Cass. pen., 1995, p. 307, n. 237. Contra, solo Cass. 11 dicembre 1995, Coppolino, ivi, 1997, p. 756, n. 461; Id. 11 aprile 1995, Fucci, ivi, 1996, p. 3433, n. 1926; Id. 23 marzo 1994, Messina, in Giust. pen., 1995, III, p. 309. Nella giurisprudenza di merito, Trib. Trapani 12 novembre 1994, Paziente, in Arch. n. proc. pen., 1995, p. 474: Pret. Assisi 28 aprile 1990, Scacciatella, in Cass. pen., 1991, p. 120, n. 42. (67) Così Cass. 16 febbraio 1993, Gaspari, cit., p. 380. (68) Verificata la ricorrenza di un vizio e dell’uso di quell’atto probatorio viziato in sede di motivazione, il problema che si pone è quello della possibilità di rivalutare e controllare quale sarebbe stato il risultato decisorio, sottraendo la prova non utilizzabile. Secondo una prima tesi, sviluppatasi in sede di interpretazione dell’art. 475 n. 3 c.p.p. 1930, si sarebbe dovuto considerare nulla la sentenza solo se, espunto dal contesto giustificativo il dato probatorio invalido, si fosse riscontrato un insormontabile salto logico all’interno dello schema argomentativo seguito dal giudice (così LEONE, Trattato di diritto processuale penale, vol. II, Jovene, 1961, p. 242). Si è però replicato che, non essendo possibile ripercorrere gli itinerari mentali dell’organo giudicante, e, quindi, soppesare l’efficacia persuasiva delle singole risultanze, residuerebbe il pericolo di giustificare a posteriori dispositivi che sarebbero stati di segno diverso, se si fosse ignorato l’elemento spurio (CORDERO, Scrittura e oralità, cit., p. 188, nota 25; FERRUA, Oralità del giudizio, cit., p. 443). Appare dunque preferibile
— 782 — questo, sia pure a titolo di obiter dictum, ammette paradossalmente la soluzione corretta: l’uso di atti non letti (o non indicati), non già come mera irregolarità, ma come patologia sanzionabile ed idonea a determinare l’annullamento della sentenza. Le argomentazioni della Corte denunciano, in definitiva, un approccio pragmatico, che, invece di trovare sistemazione sul piano delle categorie e delle norme, finiscono per risultare condizionate dalla molteplicità dei casi da risolvere; e questo certo non risulta confacente al compito nomofilattico di cui l’organo di legittimità è inivestito. 7. Terminato il giudizio di primo grado e sussistendo un concreto interesse, le parti hanno facoltà di riattivare il circuito processuale a mezzo della proposizione dell’atto di appello. In sede di gravame, si deve registrare la presenza di una disposizione che direttamente interferisce con il tema oggetto del presente contributo. Il terzo comma dell’art. 602 c.p.p. stabilisce che nel dibattimento, anche d’ufficio, può essere data lettura di una duplice categoria di atti: quelli « del giudizio di primo grado » e quelli « compiuti nelle fasi antecedenti » ma nei « limiti di cui agli artt. 511 e seguenti ». In riferimento agli ultimi è necessario verificare se la portata dell’inciso cada esclusivamente sui verbali acquisiti nell’istruzione pregressa tramite lettura, oppure ricomprenda tutti i documenti astrattamente leggibili confluiti nel fascicolo del dibattimento, a prescindere dalla circostanza che, nei loro confronti, abbia trovato effettiva applicazione la procedura di cui all’art. 511 c.p.p. Poiché la seconda interpretazione importa la conclusione che in appello non opererebbero preclusioni, e che si riapplicherebbe il regime della leggibilità anche rispetto ad atti non letti nel grado precedente (69), l’assunto di segno opposto pare preferibile: lo strumento delle letture finalizzato ad una valutazione critica del materiale probatorio già « in atti » (70). Ogni altro indirizzo, si prosegue, equivale al recupero di elementi raccolti anteriormente al dibattimento di prima istanza che, per sostenere che il giudice della legittimità debba addivenire alla decisione di annullamento, ogniqualvolta l’ininfluenza della prova inutilizzabile non risulti dagli stessi argomenti svolti dalla sentenza impugnata. In questa prospettiva, GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova, cit., p. 280 s.; GREVI, Nemo tenetur se detegere. Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Giuffrè, 1972, p. 188; ILLUMINATI, La disciplina processuale delle intercettazioni, Giuffrè, 1983, p. 151. Contra, sullo sfondo della discutibile costruzione denominata ‘‘prova di resistenza’’, Sez. Un. 25 febbraio 1998, Gerina, in Cass. pen., 1998, p. 1968, n. 1115; nonché successivamente, Cass. 29 marzo 1999, Femia, in Ind. pen., 2000, p. 243, con nota di MAZZA. (69) Cfr. NOBILI, La nuova procedura, cit., p. 271. (70) In questol senso GALATI, Le impugnazioni, in AA.VV., Diritto processuale penale, cit., vol. II, Giuffrè, 1995, p. 499; PERONI, L’istruzione dibattimentale nel giudizio di appello, Cedam, 1995, p. 182; SPANGHER, Impugnazioni, in CONSO-GREVI, Profili del nuovo
— 783 — qualsiasi ragione non vi abbiano fatto ingresso. Si ricadrebbe perciò in una forma di acquisizione probatoria ex novo, che la sistematica del codice colloca nell’ambito dell’art. 603 c.p.p. (71). La soluzione pare da ricercare in una corretta esegesi dell’art. 602 c.p.p. e nel ruolo che il regime delle letture assolve in grado di appello. Il caso ivi disciplinato, ben lontano dall’integrare uno spazio d’istruzione dibattimentale in senso proprio, non costituisce « veicolo introduttivo di elementi di prova » (72). Esso, in armonia con la destinazione critica del doppio grado della giurisdizione nel merito, si risolve in uno strumento di verifica sul precedente giudizio. Mentre le letture, in primo grado, mirano a introdurre nella fase dibattimentale vere e proprie prove, in sede di gravame, svolgono una funzione di controllo, peraltro eventuale, del materiale già acquisito (73). Nessun dubbio, infatti, sorge in ordine alla disponibilità che il giudice dell’appello vanta sugli atti trasmessi ex art. 590 c.p.p., anche al di fuori della lettura effettuata in base all’art. 602 c.p.p. Unica e residuale utilità ravvisabile in capo alla norma consiste nell’attribuire alle parti un diritto potestativo che rappresenta « naturale corollario della necessità di un uso argomentativo delle risultanze del primo grado » (74). Alla ricostruzione si potrebbe obbiettare un’incongruenza di carattere formale: è inconfutabile che gli « atti compiuti nelle fasi antecedenti », ove acquisiti in primo grado, siano già confluiti nel fascicolo dibattimentale e, come tali, riposino tra quelli « del giudizio » cui si riferisce l’art. 602 c.p.p. Il rilievo letterale, in realtà, è forse superabile a mezzo di un’osservazione di natura empirica. Discutendo dell’art. 491 c.p.p., si è detto che il limite preclusivo delle questioni preliminari è inidoneo a costituire uno sbarramento temporale in ordine alle controversie sulla validità dei dati contenuti nel fascicolo di udienza. Tuttavia, rappresenta il momento ultimo in cui le parti possono ottenere la materiale eliminazione degli atti dagli incartamenti dibattimentali (art. 491, quarto comma, c.p.p.). Per conseguenza, i verbali ‘‘preliminari’’ di cui non sia stata disposta l’acquisizione tramite lettura, pur non potendo essere utilizzati dal giudice, causa l’art. 526 c.p.p. sono destinati a permanere nel fascicolo e, successivamente, ad essere trasmessi a norma dell’art. 590 c.p.p. L’esplicita indicazione nell’art. 602, terzo comma, c.p.p. degli « atti compiuti nelle fasi antecedenti » « entro i limiti previsti dagli artt. 511 e seguenti » si conciliecodice di procedura penale, Cedam, 1991, p. 696; ZAPPALÀ, Commento all’art. 602 c.p.p., in CHIAVARIO, Commento, cit., vol. VI, Utet, 1991, p. 199. (71) Cfr. ZAPPALÀ, Commento all’art. 602, cit., p. 199. (72) Testualmente PERONI, L’istruzione dibattimentale, cit., p. 181. (73) Con riferimento ad analoga impostazione, nel regime previgente: SPANGHER, voce Appello nel diritto processuale penale, in Dig. disc. pen., vol. I, Utet, 1987, p. 216. (74) Così MENNA, Il giudizio d’appello, Ed. scient. it., 1996, p. 305.
— 784 — rebbe allora con la Relazione al progetto preliminare. In quella sede, si esplicita categoricamente che « occorre negare la possibilità di far rivivere atti già compiuti al di là dei limiti previsti per il dibattimento di primo grado con riguardo agli atti della fase antecedente e di non creare alcuna preclusione in ordine alla lettura degli atti di primo grado » (75). Un ulteriore profilo, da ultimo, merita di essere toccato. È noto come, nel giudizio di appello, acquisizioni probatorie siano ammesse secondo la disciplina restrittiva dell’art. 603 c.p.p. In alcuni casi, tuttavia, la rinnovazione del dibattimento esce dall’alveo cui è fisiologicamente destinata, per assumere i connotati di un’attività tesa a conferire rilevanza giuridica a situazioni processuali pregresse infirmate da vizi invalidanti (76). Dalle disposizioni generali in tema di nullità, si ricava che il canone della regressione « non si applica alle nullità concernenti le prove » (185, quarto comma, c.p.p.); dall’altro, che il giudice — una volta dichiarata l’invalidità dell’atto — « ne dispone la rinnovazione qualora sia necessaria e possibile » (art. 185, secondo comma, c.p.p.). In seconda battuta, l’art. 604, quinto comma, c.p.p. conferma come l’organo procedente, incappando in una patologia inficiante atti di natura non propulsiva, possa decidere nel merito, soltanto quando « riconosca che l’atto non fornisce elementi necessari al giudizio ». Si ritiene che la necessità di una rinnovazione ricorra ogni qualvolta le prove nulle risultino « rilevanti e utili » (77), e cioè, quando gli elementi desunti dall’atto nullo non siano stati altrimenti acquisiti o lo sviluppo del processo non ne abbia comunicato l’inutilità (78). Ad ogni modo, sembrerebbe riduttivo misurare la rilevanza della prova sulla base dei soli dati acquisiti con l’atto viziato: l’invalidità non rappresenta semplicemente un’imperfezione di carattere formale; essa sottintende la violazione di norme poste a presidio della genuinità della prova stessa e tese alla salvaguardia di valori che indirettamente garantiscono l’obiettività dell’accertamento. È quindi conseguente dubitare che l’atto probatorio nullo abbia espresso appieno le potenzialità di cui è dotato (79), e che le medesime non debbano essere vagliate alla luce delle richieste istruttorie formulate dalle parti (80). (75) Testualmente, Rel. prog. prel., cit., p. 131. (76) In ispecie MAZZARRA, La rinnovazione del dibattimento in appello, Cedam, 1995, p. 181 s. (77) Rel. prog. prel., cit., p. 58; nonché, DOMINIONI, Commento all’art. 185 c.p.p., in AMODIO-DOMINIONI, Commentario al nuovo codice di procedura penale, vol. II, Giuffrè, 1989, p. 303. (78) Cfr. BASSO, Commento all’art. 185 c.p.p., in CHIAVARIO, Commento, cit., vol. II, cit., p. 372. (79) LOZZI, Prove invalide non utilizzate e declaratoria di nullità, in questa Rivista, 1978, pp. 478-479. (80) In questo senso MAZZARRA, La rinnovazione del dibattimento, cit., pp. 194-195.
— 785 — La conclusione, espressamente codificata in materia di nullità, pare valere anche in riferimento alla categoria dell’inutilizzabilità e, più precisamente, all’evenienza in cui il vizio sia riconducibile alla trasgressione del quomodo fissato per l’acquisizione dell’atto al dibattimento (81). Un’interpretazione che negasse l’esperibilità del mezzo d’impugnazione, volto alla rimozione della causa invalidante attraverso la rinnovazione dell’istruzione, non terrebbe in giusta considerazione la reale portata del « diritto alla prova ». Questo diritto, trovando soddisfazione solo nel valido ingresso della prova nel processo, dovrebbe comportare non soltanto il potere di censurare l’utilizzazione dell’elemento irrituale, ma, in primo luogo, la possibilità di ricorrere a tutti gli strumenti processuali idonei ad assicurarne una legittima acquisizione (82). Non è casuale, del resto, che tutta la materia si riconduca a quel ‘‘manifestamente’’ che ritroviamo nell’art. 190, primo comma, c.p.p. Una precisazione s’impone. Quando discutiamo di verbali investigativi attestanti attività irripetibili dei quali è mancata la lettura o l’indicazione prevista dall’art. 511 c.p.p., non ragioniamo su prove inutilizzabili perché assunte in forme o a condizioni diverse da quelle legalmente prestabilite, ma su prove semplicemente mai acquisite, o, meglio, a non prove. Il discorso, in breve, esula dall’ambito della patologia dell’atto e si risolve nell’accennata dimensione fisiologica della « regola di giudizio ». Un esempio, apparentemente fuorviante, potrebbe con i dovuti adattamenti rivelarsi di ausilio. Se nel giudizio di primo grado venisse omessa l’assunzione della deposizione dibattimentale di una persona informata sui fatti, regolarmente sentita in sede di indagini preliminari, si potrebbe ragionevolmente sostenere che il giudice d’appello sia obbligato alla rinnovazione della testimonianza perché affetta da un vizio che la rende inutilizzabile ai fini decisori? Se la risposta negativa si appalesa in via logicointuitiva, non si comprende per quale motivo considerazione analoga non dovrebbe valere nella fattispecie in esame, a meno di non voler equiparare l’uso di risultanze conoscitive mai introdotte nella realtà processuale (scritture non lette) ad atti probatori viziati nel quomodo dell’acquisizione (83). Nel secondo grado di giudizio, in definitiva, la lettura dei verbali provenienti da fasi antecedenti, al di fuori del limite dell’art. 511 c.p.p., mai potrebbe identificarsi in un’attività di rinnovazione volta a rimuovere l’illegittimità di un atto acquisitivo giuridicamente inesistente, né, tanto(81) Non avrebbe infatti senso discutere della rinnovazione di prove inutilizzabili perché inammissibili, cioè intrinsecamente insuscettibili di assumere valore probatorio. (82) Sul punto, lucidamente, MAZZARRA, La rinnovazione del dibattimento, cit., p. 195. (83) In modo parzialmente difforme, SCELLA, Sul valore probatorio delle deposizioni, cit., pp. 1309-1310.
— 786 — meno, potrebbe essere disposta sulla scorta dell’art. 602 c.p.p. Essa, traducendosi in un’operazione di apprensione probatoria del tutto nuova, dovrebbe essere ricondotta entro i parametri di ammissibilità dell’art. 603, primo e terzo comma, c.p.p. MARIO BAZZANI Dottorando di ricerca in diritto e processo penale nell’Università di Bologna
RILIEVO PENALE DELL’USURA E SUCCESSIONE DI LEGGI
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. La mutata oggettività giuridica del reato di usura. — 3. La fattispecie-base di usura (art. 644, commi 1 e 3, prima parte, c.p.) — 4. La fattispecie sussidiaria (art. 644, comma 3, seconda parte, c.p.). — 5. La natura giuridica e il momento consumativo del delitto. — 6. Problemi intertemporali: a) variazione del limite dell’usurarietà degli interessi in costanza di rapporto. — 7. (Segue): b) successione nel tempo delle fattispecie penali di usura.
1. Premessa. — La storia della fattispecie di usura è caratterizzata da frequenti cambiamenti. Non contemplata dal codice Zanardelli del 1889, ispirato al principio liberista dell’autonomia negoziale delle parti e della libertà di contrattazione, viene reintrodotta nel catalogo degli illeciti penali solo nel 1930 dal codice Rocco, che, nell’originaria formulazione, la sanziona con limiti edittali piuttosto contenuti (massimo due anni di reclusione) (1). La struttura iniziale del reato risulta sostanzialmente connotata da un modello esplicativo ‘‘soggettivizzante’’, imperniata com’è sugli elementi centrali dello stato di bisogno e del conseguente approfittamento di tale stato da parte dell’agente (2), oltre che, ovviamente, sui requisiti della dazione o promessa, effettuata dalla vittima, di interessi o altri vantaggi usurari come corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra cosa mobile. Durante la vigenza dell’originaria figura di usura un considerevole sforzo interpretativo impegna dottrina e giurisprudenza, stante, per un verso, il carattere eccessivamente vago e indeterminato del concetto di interesse o vantaggio ‘‘usurario’’ (3); e data, per altro verso, la pregnanza (1) Più diffuse notizie storiche sulla criminalizzazione dell’usura in MANNA, La nuova legge sull’usura, Torino, 1997, p. 3 ss.; BERTOLINO, Le opzioni penali in tema di usura: dal codice Rocco alla riforma del 1996, in questa Rivista, 1997, p. 774 ss. (2) Invero, il requisito dell’ ‘‘approfittamento’’ non si esaurisce in una dimensione tutta soggettiva, venendo questa stemperata dalla condizione obiettivamente accertabile di ‘‘stato di bisogno’’ in cui versi il soggetto passivo: sul punto v. DE VERO, Profili evolutivi della disciplina dell’usura, p. 8 del dattiloscritto, in corso di pubblicazione. (3) Pacifica la nozione di ‘‘interesse’’, la dottrina si trovava divisa sulla definizione del termine ‘‘vantaggio’’, rispetto al quale taluno intravedeva anche un contenuto non patri-
— 788 — degli ulteriori elementi costitutivi, come l’ ‘‘approfittamento’’ dello ‘‘stato di bisogno’’ del soggetto passivo, le cui difficoltà probatorie causano una limitata applicazione della fattispecie incriminatrice (4). Peraltro, l’iniziale formulazione della norma crea una rete dalle mamoniale: in tal senso VIOLANTE, Il delitto di usura, Milano, 1970, p. 132 s.; GROSSO, voce Usura (dir. pen.), in Enc. dir., XLV, Milano, 1992, p. 1144; contra, MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, IX, 5a ed., Torino, 1984, p. 804; DE FRANCESCO, Sub art. 644 c.p., in Commentario breve al codice penale, Padova, 1992, p. 1515 s. Circa l’indeterminatezza del concetto di ‘‘usurarietà’’ v. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte speciale. Delitti contro il patrimonio, Bologna, 1992, p. 177. Contra SELLAROLI, Il tasso di usura prefissato: una pericolosa illusione?, in questa Rivista, 1997, pp. 216 e 220 ss. La giurisprudenza, le sia pur rare volte in cui il problema si è posto, ha ritenuto inesistente un profilo di illegittimità costituzionale per contrasto col principio di tassatività della fattispecie penale (art. 25, comma 2, Cost.): v., per tutte, Cass., Sez. II, 11 giugno 1991, in Riv. pen., 1991, p. 1066. Sul fronte della definizione del concetto di usurarietà, i criteri proposti in sede dottrinale si sono rivelati inevitabilmente incerti: per alcuni l’eccesso doveva rappresentare un lucro indebito (MANZINI, op. cit., p. 889); per altri, un vantaggio ingiusto (VIOLANTE, voce Usura (delitto di), in Noviss. Dig. it., XX, Torino, 1975, p. 385 s.); per altri ancora, interessi sproporzionati alla prestazione, cioè notevolmente superiori a quelli di regola corrisposti per prestazioni analoghe (ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte speciale, I, 11a ed., Milano, 1994, p. 343 s.; MANTOVANI, Diritto penale. Delitti contro il patrimonio, Padova, 1989, p. 194). Sul punto anche la giurisprudenza si è mostrata oscillante, richiedendo, ora, una sproporzione notevole tra l’interesse pattuito e quello praticato dalle banche (Cass., Sez. II, 27 febbraio 1995, in Dir. pen. proc., 1995, p. 1282; Cass., Sez. II, 11 giugno 1991, cit.); ora, che gli interessi fossero ‘‘di entità tale da fare ragionevolmente presumere che soltanto un soggetto il quale versi in stato di bisogno possa contrarre il prestito alle indicate condizioni’’ (Pret. Taranto, 26 marzo 1992, in Riv. pen., 1992, p. 971; Cass., Sez. II, 1o settembre 1987, in Cass. pen., 1988, p. 2087); ora, persino, che il giudice ‘‘ha il dovere di considerare usurario l’interesse sine causa, cioè non avente una controprestazione corrispondente. Ne consegue che egli, nel suo giudizio, deve valutare non solo l’oggettiva misura degli interessi pattuiti, ma anche altre rilevanti circostanze negoziali’’ (Cass., Sez. II, 16 marzo 1992, in Riv. pen., 1992, p. 756. Analogamente Cass., Sez. II, 22 novembre 1983, ivi, 1984, p. 558). La genericità della qualificazione come ‘‘usurari’’ degli interessi o altri vantaggi è stata altresì spiegata ‘‘con la prevalente impostazione soggettivistica del legislatore del 1930 in materia di usura, incline a ravvisare il fulcro dell’incriminazione nell’approfittamento dello stato di bisogno e dunque meno attento all’esigenza di precisa determinazione della consistenza obiettiva del reato in termini di danno patrimoniale’’: così DE VERO, op. cit., p. 6. Va comunque sottolineato come il riferimento tautologico agli ‘‘interessi o altri vantaggi usurari’’ rappresentasse il risultato di una precisa scelta legislativa rispondente ad esigenze di politica criminale, basata sulla duplice considerazione che l’usura si potesse realizzare attraverso i più vari espedienti e che la misura degli interessi dipendesse dalle più diverse circostanze di tempo, di luogo, di persone e di rischio: così BELLACOSA, voce Usura, in Dig. Disc. pen., XV, Torino, 1999, p. 146, che a sostegno di tale interpretazione richiama la Relazione ministeriale sul progetto del codice penale. Pertanto, si preferì affidare alla discrezionalità del giudice la valutazione caso per caso sull’usurarietà degli interessi. (4) ‘‘Lo stato di bisogno ponendosi come requisito di non facile decifrazione, perennemente ed inevitabilmente sospeso fra interpretazioni di tipo soggettivizzante ed ardue ricerche di un criterio oggettivo di delimitazione, requisito sotto un certo profilo scontato ed implicito, sotto altro, atto, invece, ad introdurre un forte sindacato etico sulla vittima del reato; l’approfittamento, per parte sua, comportando un delicato riferimento al piano della conoscenza della situazione della vittima da parte dell’agente, conoscenza che può essere, in
— 789 — glie talmente larghe da permettere tutt’al più l’individuazione di episodi isolati, residuali, meno pericolosi di quelli, ben più diffusi e temibili, collegati al crimine organizzato. Nel tentativo di ampliare l’ambito delle condotte punibili — esigenza scaturente dalla acquisita consapevolezza in ordine alla presenza di meccanismi economici fortemente devianti — il legislatore, con la l. 7 agosto 1992, n. 356, introduce l’art. 644-bis, rubricandolo ‘‘usura impropria’’. Per superare le difficoltà probatorie poste dall’art. 644 c.p. si preferisce quindi, piuttosto che riformulare gli elementi costitutivi del già vigente delitto di usura, elaborare una nuova fattispecie criminosa di più semplice accertamento processuale, sostituendo il requisito dell’approfittamento dello stato di bisogno della vittima con un elemento di più agevole dimostrazione: l’approfittamento delle condizioni di difficoltà economica o finanziaria della persona che svolge una attività imprenditoriale o professionale (5). concreto, di intensità variabile o di non sempre facile accertamento’’: così PROSDOCIMI, La nuova disciplina del fenomeno usurario, in Studium iuris, 1996, p. 771. In dottrina, aderivano alla concezione soggettivistica dello ‘‘stato di bisogno’’ MANZINI, op. cit., p. 877 ss.; GAROFANO, Sullo ‘‘stato di bisogno’’ nel delitto di usura, in Cass. pen., 1993, p. 2282; optavano, invece, per la concezione oggettivistica ANTOLISEI, op. cit., p. 344 s.; FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 174; CAVALIERE, L’usura tra prevenzione e repressione: il controllo del ruolo penalistico, in questa Rivista, 1995, p. 1233. Per un saggio delle divergenze interpretative maturate in seno alla giurisprudenza v., a sostegno della concezione soggettivistica, Cass., Sez. II, 5 maggio 1993, in Giur. it., 1994, II, p. 564; Cass., Sez. II, 21 febbraio 1992, in C.E.D. Cassazione, n. 189158; Cass., Sez. II, 11 ottobre 1991, ivi, n. 188431; per la meno seguita concezione oggettivistica, Cass., Sez. II, 31 maggio 1990, ivi, n. 184486; Cass., Sez. II, 29 gennaio 1985, in Giust. pen., 1985, II, p. 742. Quanto al requisito dell’approfittamento, a parte la richiesta, talora, di qualcosa di più della mera consapevolezza nell’agente dello stato di bisogno della vittima (per tutte, Cass., Sez. II, 26 gennaio 1988, in C.E.D. Cassazione, n. 179679), la giurisprudenza prevalente ha sostenuto la necessità di una prova certa e piena: v., per tutte. Cass., Sez. I, 15 aprile 1981, in Cass. pen., 1982, p. 976. Contra, Cass., Sez. II, 27 giugno 1985, in Giust. pen., 1986, II, p. 654; Cass., Sez. II, 31 gennaio 1987, in Cass. pen., 1988, p. 872; Cass., Sez. II, 1o settembre 1987, cit. Per un più ampio panorama giurispmdenziale antecedente la riforma si rinvia a D’AMBROSIO, Le usure, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, a cura di Bricola-Zagrebelsky, 2a ed., Torino, 1996, p. 289 ss. (5) Anche l’usura impropria si esponeva tuttavia a rilievi di indeterminatezza, per il persistente riferimento tautologico agli ‘‘interessi usurari’’, a causa del quale si continuava a delegare esclusivamente al giudice il compito di stabilire nel caso concreto la natura usuraria o meno del prestito. Sul punto v. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte speciale. Delitti contro il patrimonio, 2a ed., Bologna, 1997, p. 208; MANNA, op. cit., p. 15. Inoltre, l’introduzione del nuovo elemento della difficoltà economica o finanziaria aveva indebolito la portata repressiva del coevo art. 644, poiché nei confronti di chi non svolgesse attività imprenditoriale o professionale aveva finito con l’operare un concetto di stato di bisogno impoverito rispetto a quello più ampio adottato dalla giurisprudenza fino alla riforma del 1992: in questo senso BERTOLINO, op. cit., p. 788. Secondo DE VERO, op. cit., p. 10, poiché ‘‘l’interpretazione abbastanza estesa del concetto di stato di bisogno, invalsa soprattutto nella giurisprudenza, sicuramente già consentiva di ricomprendere le condizioni di semplice difficoltà economica o finanziaria, l’autentica portata di tale novella non va ravvisata nell’incriminazione di fatti si-
— 790 — Anche sul versante civilistico il codice del 1942 appresta una tutela contro le dinamiche criminose di tipo economico-finanziario, attraverso l’azione generale di rescissione per lesione (art. 1448 c.c.) e la nullità della clausola che contempli tassi usurari (art. 1815, comma 2, c.c.) (6). La accresciuta coscienza sociale formatasi in ordine alla gravità del fenomeno usurario (stimato in sensibile crescita) e la insoddisfacente risposta sul piano pratico applicativo fornita dall’art. 644-bis (7) — insieme ad una maggiore esperienza giudiziaria, ad un più intenso interesse dei mass media per la materia, nonché al proliferare di iniziative di associazioni ed enti a tutela delle vittime dell’usura — determinano, nel marzo 1996, una nuova e più ampia riforma della disciplina penale dell’usura, e, soprattutto, una diversa strategia di contrasto del fenomeno. L’originario dettato normativo in tema di usura nasce, infatti, in una realtà economica certamente non evoluta. Successivamente, in presenza di un assetto più complesso delle strutture di mercato e di meccanismi economici strettamente connessi con la criminalità organizzata, matura l’esigenza di una modifica più radicale, con ampliamento delle condotte punibili e inasprimento del trattamento sanzionatorio (8). Inoltre, con la rinora privi di rilevanza penale, ma piuttosto nella configurazione di un titolo di reato più grave di quello comunque ipotizzabile e soprattutto più coerente con la dimensione criminologica nel frattempo assunta dal fenomeno dell’usura in rapporto alle manifestazioni della criminalità organizzata’’. Ravvisa la ratio di politica criminale della riforma nel contrasto delle associazioni criminali, altresì, ZANCHETTI, Sub art. 644 c.p., in Commentario breve al codice penale, a cura di Crespi-Stella-Zuccalà, 3a ed., Padova, 1999, p. 1863. (6) Nella versione originaria l’art. 1815, comma 2, c.c. prevedeva che l’interesse usurario eventualmente convenuto fosse ridotto al tasso legale. L’art. 4 l. n. 108 del 1996 ha, invece, statuito che in tal caso ‘‘la clausola è nulla e non sono dovuti interessi’’. Per l’analisi della nuova disposizione si rinvia a MUCCIARELLI, Commento alla l. n. 108 del 7 marzo 1996, in Legisl. pen., 1997, p. 553 ss.; PROSDOCIMI, op. cit., p. 781 s. PALMIERI, Appunti sulla valutazione del carattere usurario degli interessi tra norme imperative, sanzioni e ragioni economiche, in Foro it., 1998, I, p. 2559, evidenzia la ritrosia della giurisprudenza verso l’applicazione dell’art. 1815, comma 2, c.c. ai contratti stipulati anteriormente all’introduzione dei tassi soglia. (7) La persistente assenza, anche nell’art. 644-bis, di una predeterminazione legislativa del tasso di interesse usurario, lasciando esclusivamente al giudice il compito di quantificarlo, contribuiva a creare una situazione di insostenibile incertezza. Inoltre, le due precedenti disposizioni (artt. 644 e 644-bis c.p.), stabilendo una competenza disgiunta del Pretore e del Tribunale, impedivano un’organica, efficace e tempestiva risposta sanzionatoria. Non va, infine, tralasciato come il fallimento del pregresso apparato normativo sia dipeso anche dall’insufficienza degli strumenti di indagine di cui disponeva il magistrato. (8) Tra le principali innovazioni apportate alla disciplina dell’usura dalla riforma del 1996 sembra, a prima vista, da annoverare quella di cui all’art. 8, comma 1, che, avendo ampliato l’ambito applicativo dell’art. 266, comma 1, c.p.p., consente le intercettazioni telefoniche o di altro tipo anche per i reati di usura e di abusiva attività finanziaria. Invero, senza nulla togliere all’efficacia di un simile strumento di indagine, è inevitabile rilevarne la superfluità con riferimento al delitto di usura, che in virtù dell’aumento del massimo edittale di pena (portato a sei anni di reclusione) sarebbe comunque rientrato nella previsione della
— 791 — forma del 1996, viene adottato un modello ‘‘oggettivizzante’’, basato sulla mera sproporzione, legislativamente determinata, tra le prestazioni. In un contesto legislativo caratterizzato da tale e tanta effervescenza, la ripetuta successione di disposizioni penali pone inevitabilmente problemi di diritto intertemporale, per affrontare i quali si rende necessario scorrere le più importanti novità introdotte dal recente intervento riformatore, avendo esso coinvolto in modo originale numerosi elementi del reato, tanto da non apparire così ‘‘scontato che quello descritto nelle due versioni del precetto in esame sia lo stesso fatto’’ (9), presupposto, questo, per l’applicazione dell’art. 2, comma 3, c.p. 2. La mutata oggettività giuridica del reato di usura. — Gli incisivi cambiamenti apportati dalla l. n. 108/1996 alla formulazione dell’illecito usurario giustificano nuove riflessioni anche riguardo al bene giuridico tutelato, nonostante la collocazione della fattispecie incriminatrice sia rimasta invariata (10). Se l’inserimento dei delitti di usura nell’ambito dei reati contro il patrimonio commessi mediante frode veniva reputato fuorviante o, comunque, riduttivo già sotto il vigore della precedente formulazione, è facilmente intuibile come l’odierna disciplina, non avendone mutato (potrebbe dirsi: soltanto) la collocazione sistematica, abbia ulteriormente complicato la questione relativa all’individuazione del bene giuridico tutelato (11). L’accentuata gravità del reato in oggetto sembra, oggi, dipendere non solo dall’entità dei danni patrimoniali e dagli squilibri del mercato creditizio che esso produce, ma anche dalle connessioni intercorrenti tra il fenomeno usurario e le organizzazioni criminali (12). Queste, attraverso la concessione di prestiti ad interessi usurari, reinvestono i proventi delle proprie attività illecite, consolidando al contempo il proprio potere economico nella misura in cui finiscono con l’acquisire la proprietà di quote societarie, di strutture immobiliari o delle stesse imprese, quando lo stato di lett. a) dell’art. 266 c.p.p.: per i rilievi critici si rinvia a PROSDOCIMI, op. cit., p. 780; MUCCIARELLI, op. cit., p. 560 ss. (9) Così CERASE, L’usura riformata: primi approcci a una fattispecie nuova nella struttura e nell’oggetto di tutela, in Cass. pen., 1997, p. 2598. (10) CRISTIANI, Guida alle nuove norme sull’usura, Torino, 1996, p. 5. Solleva dubbi circa l’opportunità di mantenere l’art. 644 all’interno del titolo XIII del codice penale, altresì, MASULLO, A due anni dalla riforma del delitto di usura: una riflessione sulla nuova scelta strategica, in Cass. pen., 1998, p. 2216. L’A. sottolinea infatti come la nuova fattispecie, prescindendo da qualunque profilo di debolezza economica della vittima, possa realizzarsi anche senza che questa subisca un’effettiva lesione alla propria libertà patrimoniale (p. 2209 ss.). (11) Cfr. CRISTIANI, op. cit., p. 19 ss. (12) Il nesso tra usura e organizzazioni criminali rappresenta un ‘‘collegamento scontato’’ per INSOLERA, Usura e criminalità organizzata, in questa Rivista, 1997, p. 126 ss. Analogamente PROSDOCIMI, op. cit., p. 771; BERTOLINO, op. cit., p. 786.
— 792 — iniziale difficoltà diventa crisi irrimediabile nel vano sforzo di pagare gli interessi (13). Che il fenomeno usurario costituisca una delle manifestazioni tipiche della criminalità organizzata è, tra l’altro, confermato dalla circostanza che già le prime modifiche apportate alla disciplina penale del delitto risultano inserite nell’ambito di uno dei più importanti interventi contro mafia e crimine organizzato (d.l. n. 306/1992 convertito nella l. n. 356/1992). Nella stessa direzione si colloca altresì la più recente riforma del 1996, preceduta, come è noto, da un dibattito che, sia nelle sedi istituzionali sia nei mezzi di informazione, ha sempre evidenziato il collegamento esistente tra usura e organizzazioni criminali (14). Il sistema operativo della criminalità organizzata si articola, infatti, su due livelli, tra i quali sono riscontrabili evidenti interrelazioni. Il primo livello coincide con la realizzazione dei reati associativi (artt. 416 e 416bis c.p.), incriminati in quanto strumentali alla perpetrazione di un numero indeterminato di ulteriori illeciti penali; il secondo corrisponde alla commissione dei delitti-scopo, consistenti nella manifestazione più tipica del sostrato associativo criminoso (15). Questi ultimi, nel cui ambito rientra l’usura (oltre il riciclaggio, l’estorsione, il sequestro di persona a scopo di estorsione, il traffico di stupefacenti, etc.), possono anche risultare privi di una oggettività giuridica tale da giustificare l’intervento penale e, pertanto, non dotati ‘‘di un consolidato radicamento nella tradizione giuridico-penale’’ (16). Proprio con riferimento all’usura si sostiene che essa godrebbe di una sorta di autoreferenzialità, dovuta al suo inserimento tra gli illeciti tipici della criminalità organizzata, come emerge dalla più recente tradizione legislativa, che ha costantemente assimilato la fattispecie de qua alle figure criminose solitamente richiamate per definire l’area dei reati mafiosi o, in genere, del crimine organizzato (17). (13) Questo perverso meccanismo è chiaramente descritto da SANTACROCE, Usura, riciclaggio e sistema bancario: linee di una strategia composita di contrasto, in Giust. pen., 1995, II, p, 246 ss. V., altresì, BELLACOSA, op. cit, p. 145 ss.; ID., voce Usura impropria, in Enc. giur., XXXII, Roma, 1994, p. 1. Più in generale, sull’ambiguo rapporto tra crimine organizzato e impresa economica, cfr. LO MONTE, Osservazioni sul possibile contributo del sistema creditizio in materia di ‘‘lotta’’ alla criminalità organizzata: l’esempio dell’usura, in Criminalità organizzata e risposte ordinamentali, a cura di Moccia, Napoli, 1999, p. 379 ss. (14) L’osservazione è di INSOLERA, op. cit., p. 126, il quale riscontra tale collegamento anche nella letteratura penalistica che si è occupata di usura in occasione dei vari interventi riformatori. (15) Così DE VERO, op. cit., p. 1 s., ‘‘vuoi perché ne costituiscono il programma più o meno immediato, vuoi perché assumono comunque valenza fondamentale nell’economia della crescita e del consolidamento del sodalizio organizzato’’. (16) Ancora, DE VERO, op. cit., p. 2. (17) Cfr. INSOLERA, op. cit., p. 129. Per DE VERO, op. cit., p. 2, tale autoreferenzialità si è instaurata tra i due livelli di legislazione penale in tema di criminalità organizzata. ‘‘La giustificazione politico-criminale dell’incriminazione dei reati del primo livello [...] è di so-
— 793 — Ebbene, portando alle estreme conseguenze tale assunto, qualora cioè non si riuscisse ad individuare alla base del delitto una pregnante offensività di interessi autonomamente meritevoli di tutela penale, si potrebbe addirittura finire col considerare l’usura nient’altro che espressione sintomatica di una personalità criminale, per ciò solo bisognosa di sanzione, pur in assenza di una capacità ‘‘immediatamente lesiva di beni giuridici di rilevante interesse per la comunità statuale’’ (18). Ed è probabilmente questa l’idea di chi ripropone dubbi sulla stessa meritevolezza di pena del reato di usura e definisce ‘‘esemplare’’ la assenza della sua incriminazione dal codice Zanardelli (19). Peraltro, sia pure in (preteso) ossequio al principio di sussidiarietà (20), è evidente come non possa suscitare consenso una proposta repressiva facente leva esclusivamente sulle sanzioni civili (21), compatilito ricondotta all’esigenza di rigorosa tutela anticipata di quegli stessi interessi e beni giuridici immediatamente offesi dai delitti-scopo ovvero dagli altri delitti che costituiscono comunque manifestazione seriale ed eclatante del radicamento dei sodalizi criminosi nel contesto sociale di riferimento. Ciò comporta l’instaurarsi di una singolare circolarità tra il primo ed il secondo livello del controllo penale della criminalità organizzata, nel senso che la legittimazione dell’incriminazione del reato associativo — che di per sé, specie ove si tratti di associazione per delinquere non qualificata, non sembra esprimere un autonomo contenuto di offensività — dipende in definitiva dalla carica di disvalore insita nelle più puntuali e circoscritte fattispecie criminose identificative dei programmi o comunque strettamente connesse alla vita dei sodalizi in questione’’. (18) V. DE VERO, op. cit., p. 3. In questa prospettiva sembra orientato, altresì, CRISTIANI, op. cit., p. 6 s., ove esclude sia ‘‘azzardato affermare che la stessa antigiuridicità del fatto, dopo la riforma, vada ad attingere radici etiche molto lontane, certamente, almeno in parte non avvertite nel momento legislativo dell’emergenza, tuttavia destinate ad assumere rilievo nell’atto interpretativo di una condotta usuraria, assurta di per sé, sul piano oggettivo, a rilevanza penale, per la sua pericolosità sociale, anche indipendentemente da quelle situazioni concrete di bisogno della vittima, che acquistano un peso ulteriore ed autonomo come circostanza aggravante. Anche se in termini quantitativi tipizzati, riaffiora dal tempo e da origini remote una condanna del mercato del danaro, al di là dalle sfere riservate dall’ordinamento giuridico’’. Sull’illegittimità costituzionale di un modello di reato costruito come mero sintomo di pericolosità e antisocialità individuale, v. MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, I, 2a ed., Milano, 1999, 314. (19) In tal senso INSOLERA, op. cit., p. 130. Sostanzialmente conforme PADOVANI, Prefazione a MANZIONE, Usura e mediazione creditizia, Milano, 1998, p. XI s., che si domanda se sia ‘‘ammissibile, da un punto di vista politico-criminale ispirato all’idea che la norma penale debba atteggiarsi a tutela di un bene giuridico, punire il contratto usurario’’ e definisce l’usura ‘‘reato di sospetto’’. Analogamente CAVALIERE, op. cit.., p. 1263, secondo il quale l’usura andrebbe trasformandosi lentamente in reato di mera trasgressione. (20) Sul tema, in generale, cfr., per tutti, ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, 2a ed., Milano, 1983, 215 ss. (21) Così CAVALIERE, op. cit., pp. 1248 ss. e 1257 s.; PADOVANI, op. cit., p. XII: l’A., invero, ritiene che, rispetto a determinate situazioni, l’esigenza di tutela ‘‘può essere assicurata — in un paese normale — dal ricorso agli strumenti del diritto civile’’, salvo poi escludere che il nostro sia un paese normale, ‘‘donde il ricorso a strumenti eccezionali ispirati alla logica del sospetto’’.
— 794 — bile, tutt’al più, con un certo tipo di caratteristiche (sporadicità degli episodi, riconducibilità a soggetti isolati) che il fenomeno usurario presentava in origine, ma di cui risulta ormai privo. Attualmente ci si trova a dover fronteggiare una pratica particolarmente diffusa e radicata — come già detto — nella criminalità organizzata, la quale certamente non teme i rimedi civilistici (22). Occorre, infine, precisare che il ricorso agli strumenti civilistici in via esclusiva non è proponibile nella misura in cui si escluda che il bene giuridico offeso dall’usura non sia, o non sia soltanto, il patrimonio, secondo quanto sembra qui essere emerso (23). 3. La fattispecie-base di usura (art. 644, commi 1 e 3, prima parte, c.p.). — La l. 7 marzo 1996 n. 108, oltre ad avere abrogato l’art. 644-bis (22) Cfr. DE VERO, op. cit., p. 20. (23) L’identificazione dell’oggettività giuridica del delitto in questione — come già detto nel testo — è particolarmente controversa, specie in seguito alla riforma del 1996. Il problema si pone in termini diversi dal passato a causa della considerevole modifica subita dagli elementi costitutivi del reato. Per una rassegna delle diverse posizioni dottrinali in ordine al bene giuridico tutelato dal vecchio art. 644 c.p., v. CERASE, op. cit., p. 2610 ss. Considerato che il ricorso al prestito usurario presuppone inevitabilmente una situazione, sia pure transitoria, di difficoltà economica o finanziaria (contrarre un mutuo ad interessi usurari per semplice capriccio appare una mera ipotesi scolastica), taluno individua, ancora oggi, nel patrimonio l’oggetto della protezione penale apprestata dall’art. 644: così FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 1997, p. 212. Per un tentativo, infine fallito, di ricondurre la nuova incriminazione alla tutela della libertà patrimoniale, quantomeno in una dimensione superindividuale, v. MASULLO, op. cit., p. 2213 ss. Secondo PALOMBI, La nuova struttura del reato di usura, in Riv. pen. econ., 1996, p. 30, la nuova fattispecie tutela l’autonomia negoziale della vittima. Per altri, invece, nel solco di un orientamento interpretativo già manifestatosi durante la precedente disciplina (FLORIAN, Il delitto di usura. Nota economicogiuridica, in Giur. it., 1935, p. 94 ss.), il delitto avrebbe carattere plurioffensivo, tutelando, accanto alla libertà contrattuale, anche il mercato del credito: in tal senso MUCCIARELLI, op. cit., p. 514; CAPERNA-CONTI-FORLENZA-LOTTI-SACCHETTINI-TRICOMI, Per una legge dalla struttura complessa il percorso guidato all’applicazione, in Guida dir., 1996, n. 12, p. 35; NOCERINO, Sub art. 644 c.p., in Codice penale, a cura di Padovani, Milano, 1997, p. 2405 s.; MANNA, op. cit., p. 69; SEMINARA, L’impresa e il mercato, in AA.VV., Manuale di diritto penale dell’impresa, 2a ed., Bologna, 1999, p. 692 ss.; MARINI, voce Usura, in Dizionario dei delitti contro l’economia, a cura di Marini-Paterniti, Milano, 2000, p. 572; ID., Delitti contro il patrimonio, Milano, 1999, p. 514; ZANCHETTI, op. cit., p. 1864; CRISTIANI, op. cit., p. 32 s. Quest’ultimo A., invero, sostiene, in un primo momento, che ‘‘le riflessioni sull’interesse penalmente protetto non possono andare oltre una generica delimitazione della sfera economica dell’oggetto di tutela’’ (p. 31); ma, subito dopo, precisa come ‘‘il deciso orientamento oggettivistico, cui si ispira la nuova descrizione legale dell’art. 644, consente — ma forse sarebbe più esatto dire: ‘obbliga’ — una collocazione dell’illecito tra i reati plurioffensivi’’ (p. 32). Un’ulteriore impostazione teorica esclude, poi, che le due fattispecie di usura possano essere rese omogenee quanto all’oggetto della tutela, dovendo piuttosto separare ‘‘nettamente finalità di protezione patrimoniale individuale, da intenti regolativi del mercato’’ (testualmente INSOLERA, op. cit., p. 132 s.). L’evidenziata esistenza di un nesso tra usura e criminalità organizzata potrebbe, infine, far pensare alla collocazione del reato nella prospettiva di tutela dell’ordine pubblico: in questo senso DE VERO, op. cit., p. 12.
— 795 — c.p., ha riformulato l’art. 644 c.p., che contempla ora due fattispecie di usura. Entrambe sono caratterizzate dalla scomparsa del requisito dell’approfittamento dell’altrui stato di bisogno (24) (divenuto circostanza aggravante ex art. 644, comma 5, n. 3): soluzione, questa, che segna un radicale spostamento nelle scelte di politica criminale, e il conseguente allineamento con l’impostazione normativa francese, seppure con alcune varianti (25). Rinunciando a costruire il reato sull’approfittamento dello stato di bisogno della vittima (estremo di rilievo particolarmente significativo, in quanto principale, se non addirittura esclusiva, nota distintiva sostanziale tra illecito civile e illecito penale (26)) e introducendo un limite legale oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, si è evidentemente voluto strutturare la fattispecie in termini marcatamente oggettivi e cogliere l’essenza del reato esclusivamente in una mera sproporzione (27) (non più ‘‘notevole’’, quindi, né ‘‘manifesta’’) tra i corrispettivi promessi o dati dal mutuatario e la prestazione di denaro o altra utilità offerta dal mutuante (28). Potendosi individuare lo scopo principale perseguito dal legislatore nell’attribuzione alla fattispecie di un maggior tasso di determinatezza (29), è del tutto conseguenziale che nell’economia della nuova figura incriminatrice la definizione legale del limite oltre il quale l’interesse (24) Secondo alcuni Autori l’approfittamento sarebbe ancora requisito implicito della fattispecie: cfr., per tutti, CRISTIANI, op. cit., p. 1538. (25) V. PISA, Mutata la strategia di contrasto al fenomeno dell’usura, in Dir. pen. proc., 1996, p. 415. L’ordinamento francese prevede da tempo un modello repressivo basato esclusivamente su un meccanismo di predeterminazione, in sede amministrativa, di un limite oltre il quale l’interesse convenuto diventa automaticamente usurario: più diffuse notizie sul modello francese in MANNA, op. cit., p. 24 ss., il quale si sofferma sulla disciplina del fenomeno usurario dettata anche da altre legislazioni europee. In prospettiva comparatistica cfr., altresì, PROSDOCIMI, op. cit., p. 772; BERTOLINO, op. cit., p. 789 s. Riguardo, in particolare, al trattamento penale dell’usura nel diritto tedesco, v. la recente indagine di FORNASARI, La disciplina penale dell’usura nella Repubblica federale tedesca: spunti per una comparazione, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1998. p. 101 ss. (26) Così MUCCIARELLI, op. cit., p. 513. (27) PALOMBI, op. cit., p. 29, invoca, comunque, una ‘‘sproporzione significativa’’. (28) PISA, op. cit., p. 417, definisce questa una ‘‘variante di rilievo’’ rispetto alla precedente figura di usura. Per ZANCHETTI, op. cit., p. 1870, la fattispecie principale di usura anticipa la tutela alla soglia del pericolo presunto. Particolarmente critico verso la determinazione legale dell’usurarietà degli intetessi, FORNASARI, op. cit., p. 121 ss. È opportuno precisare che nel corso del presente lavoro i soggetti attivo e passivo dell’usura saranno talvolta denominati, rispettivamente, ‘‘mutuante’’ e ‘‘mutuatario’’ solo per comodità espositiva, potendosi, invero, l’usura occultare in un qualunque contratto a prestazioni corrispettive avente una valenza finanziaria (mutuo, apertura di credito, compravendita a rate o con patto di riscatto, locazione di cose, etc.). (29) Che questa sia la preminente finalità perseguita dalla riforma del 1996 è opinione comune a tutti coloro che si sono occupati della nuova disciplina. V., per tutti, BACCAREDDA BOY, Sub art. 644 c.p., in Codice penale commentato, II, Parte speciale, a cura di
— 796 — debba considerarsi usurario rappresenti un’esigenza imprescindibile: può, questo estremo, ritenersi ormai ‘‘l’elemento discretivo unico ed essenziale tra lecito e illecito’’ (30). La prima e principale fattispecie di usura, prevista dall’art. 644, commi 1 e 3, prima parte, c.p., si caratterizza, pertanto, per la determinazione normativa del tasso-soglia al di sopra del quale l’interesse diventa ‘‘usurario’’ (art. 2, comma 4, l. n. 108/1996). In sintesi, il tasso usurario legale si individua aumentando della metà il tasso medio (calcolato secondo i meccanismi indicati dallo stesso art. 2) relativo al tipo di operazioni di volta in volta interessate. La rilevazione del tasso effettivo globale medio è effettuata trimestralmente dal Ministro del Tesoro, con riferimento alle varie categorie omogenee di operazioni classificate annualmente con decreto dello stesso Ministro, sentiti la Banca d’Italia e l’Ufficio italiano cambi. La dottrina ha però individuato una serie di potenziali inconvenienti legati all’introduzione del nuovo meccanismo. Innanzitutto, mancando nell’art. 644 qualsiasi indicazione sui criteri di calcolo per la determinazione del tasso effettivo globale medio e per la raccolta dei dati a tal fine necessari, nonché sui contenuti dei parametri in base ai quali effettuare la classificazione delle operazioni secondo categorie omogenee, viene in rilievo un palese contrasto col principio di riserva di legge (31). In secondo luogo, non solo la classificazione delle operazioni e l’impiego di essa da parte del giudice potrà rivelarsi spesso poco agevole, ma, inoltre, la presenza di un limite rigido e notevolmente severo, all’introduzione del quale il mondo bancario si è manifestato contrario, potrebbe costituire un ulteriore fattore disincentivante nella concessione del credito a soggetti in difficoltà, a tutto vantaggio della criminalità usuraria (32). E poi, ancora, la formalizzazione del limite legale, senza neanche una diversificazione sanzionatoria tra tassi appena ovvero molto più elevati della soglia consentita, non risulta del tutto appagante (33), specie sotto il profilo della c.d. Dolcini-Marinucci, Milano, 1999, p. 3554. Critico sui risultati raggiunti in fatto di determinatezza col nuovo modulo descrittivo, MARINI, voce Usura, cit., p. 564. (30) V. MUCCIARELLI, op. cit., p. 514. (31) SEVERINO DI BENEDETTO, Riflessi penali della giurisprudenza civile sulla riscossione di interessi divenuti usurari successivamente all’entrata in vigore della l. n. 108 del 1996, in Banca, borsa, tit. cred., 1998, p. 525. (32) Tra gli altri, PROSDOCIMI, op. cit., p. 774. L’A. evidenzia altresì come la circostanza che la pena scatti ad una soglia più bassa di quella prevista per le sanzioni civilistiche appaia in contrasto con la concezione della sanzione penale quale extrema ratio. Rileva la situazione di disarmonia che le nuove norme determinano rispetto alla materia civilistica, MASULLO, op. cit., p. 2218 ss. Sui primi problemi applicativi posti dal nuovo sistema v. CERASE, op. cit., p. 2602 ss. (33) V. MASULLO, op. cit., p. 2203.
— 797 — esiguità quantitativa (34), cui un simile sistema non lascia alcun margine applicativo. Da questi pur brevi cenni emerge con sufficiente chiarezza come la fattispecie-base di usura presenti, rispetto alla precedente disciplina, una considerevole estensione dei comportamenti punibili (35). L’abolizione di ogni riferimento allo stato di debolezza economica della vittima fa sì che per l’integrazione del reato sia sufficiente la pattuizione ad un tasso di interesse superiore al limite consentito (36), anche qualora il prestito risulti finalizzato ad attività speculative o al soddisfacimento di esigenze voluttuarie (37): fatti, questi, considerati leciti fino alla riforma. (34) Sul ruolo dell’esiguità quantitativa quale indice di inoffensività del fatto, cfr. ampiamente MARINUCCI-DOLCINI, op. cit., p. 422 ss. (35) Così BELLACOSA, voce Usura, cit., p. 149. Analogamente PROSDOCIMI, op. cit., p. 773; MASULLO, op. cit., p. 2198; FIADINO, Irretroattività ed istantaneità del nuovo reato d’usura nell’ultima giurisprudenza, in Ind. pen., 1999, p. 361, nt. 33. (36) Osserva sul punto MASULLO, op. cit., p. 2199, come la previsione di un tasso fisso non dovesse necessariamente comportare la rinuncia ‘‘nella descrizione normativa a qualunque profilo di debolezza contrattuale della vittima, ben potendo concorrere i due elementi a tipizzare adeguatamente la fattispecie’’. (37) Prima della riforma del 1996, sebbene in linea di principio si ritenesse giuridicamente rilevante, nel tentativo di ampliare l’area della repressione penale, lo stato di bisogno della vittima ogni qualvolta fosse ricollegabile a necessità socialmente considerevoli, tale rilevanza veniva esclusa, per ragioni eticizzanti, nei casi in cui il mutuatario si proponesse di utilizzare in modo illecito il denaro ottenuto, ovvero per uno scopo contrario alla morale e socialmente non apprezzabile (c.d. usura in re illicita): v., per tutte, Cass., Sez. II, 24 luglio 1991, in Cass. pen., 1993, p. 2280, con nota critica di GAROFANO, op. cit. Il reato in esame veniva altresì escluso quando il prestito fosse stato chiesto in vista di un investimento più redditizio rispetto all’ammontare dell’interesse dovuto all’usuraio: tra le altre, Cass., Sez. II, 18 febbraio 1988, in Riv. pen. econ., 1991, p. 25; Cass., Sez. III, 17 gennaio 1963, in Cass. pen. Mass. ann., 1963, 522. Per ulteriormente estendere i confini operativi dello ‘‘stato di bisogno’’, dottrina e giurisprudenza ammettevano che esso potesse derivare anche da una condotta colposa del soggetto passivo: v., per tutti, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 1992, p. 175; Cass., Sez. II, 5 maggio 1993, cit., poiché, secondo il contenuto di quest’ultima, la norma incriminatrice dell’usura ‘‘persegue la finalità di punire l’usuraio quale persona socialmente nociva, che non cessa di essere tale quale che sia la natura o la causa del bisogno del creditore’’. In termini analoghi, Cass., Sez. II, 13 febbraio 1997, in C.E.D. Cassazione, n. 207122, per la quale, inoltre, lo ‘‘stato di bisogno’’, sempre con riferimento alla fattispecie di usura precedente la riforma, ‘‘sussiste quand’anche l’offeso abbia inteso insistere negli affari al di fuori di ogni razionale criterio imprenditoriale’’. Per questo aspetto v., altresì, Cass., Sez. VI, 12 settembre 1996, in C.E.D. Cassazione, n. 205565: ‘‘In materia di usura, lo stato di bisogno individua e definisce una situazione di disagio del soggetto, che lo induce a sottostare all’esosa richiesta dell’agente usurario nello svolgimento della sua complessa personalità anche di operatore economico, e quindi in tutte le forme di relazione e del convivere sociale’’. Di portata ancora più ampia Cass., Sez. II, 6 agosto 1997, in C.E.D. Cassazione, n. 208376: ‘‘In tema di usura, non incide sulla rilevanza dello stato di bisogno né la causa di esso né l’utilizzazione del prestito usurario’’, in quanto ‘‘la condotta della vittima successiva alla consumazione del reato non può in alcun modo influire su di esso, poiché ancora non esiste né materialmente né giuridicamente’’. Ed ancora, ‘‘lo stato di bisogno di cui all’art. 644 c.p. (nella precedente formulazione) [...] sotto il profilo obiettivo può essere di
— 798 — Ed ancora, la previsione, insieme al denaro, di ‘‘altra utilità’’, come possibile oggetto della condotta del soggetto attivo, consente adesso di punire anche le prestazioni riguardanti beni immobili, nonché quelle professionali e lavorative (usura c.d. reale), purché si tratti di beni o attività in qualche misura suscettibili di una valutazione economica obiettivamente apprezzabile (38). Nella prospettiva che qui ci occupa e che sarà affrontata più compiutamente tra breve (39), è importante sottolineare, altresì, come l’ipotesi principale di usura sembri, a prima vista, dar vita ad una norma penale in bianco, più specificamente ad una norma penale parzialmente in bianco (40). Il legislatore ha infatti previsto il già descritto meccanismo di qualsiasi natura, specie e grado e quindi, tra l’altro, può derivare anche dalla necessità di soddisfare un vizio (come quello del gioco d’azzardo), non essendo richiesto dalla norma incriminatrice alcun requisito’’: così Cass., Sez. II, 29 aprile 1998, in C.E.D. Cassazione, n. 210603. Critico verso tale ampia interpretazione del requisito dello ‘‘stato di bisogno’’, DE VERO, op. cit., p. 8 s., per la totale svalutazione dei relativi connotati materiali, a vantaggio di una sua configurazione in termini di mero disagio e di limitata possibilità di autodeterminazione da parte della vittima, che finivano col ridurre il delitto di usura a fatto sintomatico di una condizione soggettiva di pericolosità sociale in capo al reo. (38) In questo senso MUCCIARELLI, op. cit., p. 515. Contra, ANTOLISEI, op. cit., 13a ed., Milano, 1999, p. 380; PROSDOCIMI, op. cit., p. 773 ss., si interroga sull’effettivo destino dell’usura reale, definendola ‘‘come un corpo male amalgamato nel tessuto repressivo’’, e, per non vanificare l’innovazione normativa, propone di ‘‘interpretare il termine tasso in modo estensivo, come equivalente a ‘tariffa’ o ‘prezzo’ [...] che se, viceversa, si ritenesse di interpretare restrittivamente l’espressione ‘altra utilltà’ alla luce della nozione corrente di ‘tasso’, l’usura reale verrebbe sostanzialmente a scomparire dalla scena’’. Conformemente MUCCIARELLI, op. cit., p. 515. Sull’opportunità di un’interpretazione così estensiva v., in termini critici, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 1997, p. 213; BELLACOSA, voce Usura, cit., p. 152. Osserva DE VERO, op. cit., p. 15 s., come, nonostante la nozione di ‘‘altra utilità’’ possa agevolmente ricondursi, almeno in linea di principio, alle ipotesi di usura reale, la configurabilità della stessa sia limitata in concreto alla fattispecie sussidiaria di usura. Dello stesso avviso PROSDOCIMI, op. cit., p. 775; PADOVANI, op. cit., p. XII s. Contra, SEMINARA, op. cit., p. 696. Più delicata appare, poi, la questione relativa alla definizione del concetto di ‘‘vantaggi’’, di cui si avvale anche la nuova formula legislativa (sulle divergenze interpretative relative alla nozione in questione prima della riforma v., supra, nt. 3), e che in linea di principio sembra ricomprendere altresì le prestazioni del soggetto passivo prive di carattere patrimoniale. Il termine ‘‘vantaggio’’, infatti, designa una vasta area di interessi, non necessariamente legati ad una valutazione economica. Ma nell’ambito della fattispecie attualmente vigente, a norma della quale la condotta punibile consiste unicamente nella sproporzione (legalmente determinata) fra le prestazioni reciproche del mutuante e del mutuatario, e posto che il tasso-soglia, oltre il quale l’interesse o il vantaggio devono considerarsi sempre usurari, è espresso da un indice di carattere economico, è evidente che la possibilità di valutare in termini economici la prestazione del soggetto passivo diventa requisito indispensabile per la tipicità del fatto: così MUCCIARELLI, op. cit., p. 516; SEMINARA, op. cit., p. 697. (39) V., infra, n. 6. (40) Così MUCCIARELLI, op. cit., p. 518, il quale però, successivamente, manifesta una diversa opinione, definendo ‘‘rilevante [...] la differenza con la vera e propria norma penale in bianco’’ (p. 547). Si tratta di norma penale in bianco secondo ZANCHETTI, op. cit., p. 1866; NOCERINO, op. cit., p. 2407. La definizione di ‘‘norma penale in bianco’’ è peraltro
— 799 — individuazione del carattere usurario degli interessi: il precetto, generico, rinvia per la determinazione dei comportamenti punibili all’intervento integrativo di una fonte normativa secondaria, costituita dai decreti del Ministro del Tesoro. A ben vedere, tuttavia, la complessa procedura di natura amministrativa indicata dal nuovo art. 644, dovuta ‘‘all’esigenza di mantenere costantemente aggiornato un parametro di riferimento essenziale nell’economia della fattispecie incriminatrice’’ (41), non appare riconducibile allo schema della norma penale in bianco, ‘‘caratterizzata dal fatto che il contenuto del precetto viene qui integralmente ‘riempito’ dall’atto amministrativo, che per tal modo identifica anche le modalità dell’aggressione al bene protetto’’, mentre ‘‘la fattispecie dell’usura descrive in modo esauriente tanto la condotta tipica quanto le modalità di aggressione, restando affidata alla fonte sublegislativa soltanto la quantificazione del limite valevole in concreto in funzione delle condizioni del mercato’’ (42). Queste considerazioni comportano — come vedremo — rilevanti conseguenze sul profilo cronologico della vicenda. 4. La fattispecie sussidiaria (art. 644, comma 3, seconda parte, c.p.). — La figura incriminatrice prevista dall’art. 644, comma 3, seconda parte, c.p., definita ‘‘usurarietà in concreto’’ (43), ‘‘usurarietà parallela’’ (44) o, ancora, ‘‘ipotesi sussidiaria dominante’’ (45), risulta fondata sulla nuova nozione normativa di ‘‘interessi comunque sproporzionati’’ (terminologia spesso adoperata, sia pure con diverse sfumature, da dottrina e giurisprudenza sotto la vigenza del vecchio art. 644, per individuare la soglia di usurarietà dell’operazione finanziaria) (46). Nella fattispecie in esame il legislatore ha altresì riproposto il requisito delle ‘‘condizioni di difficoltà economica o finanziaria’’, già contemplato dall’abrogato reato di usura impropria, ma non ha recuperato il riferimento al concetto di ‘‘approfittamento’’. controversa: cfr., per tutti, ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, 2a ed., Milano, 1995, p. 37 s., n. 20-22. (41) Così, ancora, MUCCIARELLI, op. cit., p. 518 s. L’A. osserva inoltre come la periodica pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del valore in tal modo determinato e della classificazione delle tipologie delle operazioni consenta di ritenere soddisfatta altresì l’esigenza di conoscibilità di tutti gli estremi della fattispecie incriminatrice. (42) MUCCIARELLI, op. cit., p. 547. Sulla sostanziale differenza tra l’ipotesi della norma penale in bianco e quella in cui l’atto normativo subordinato si limiti a specificare in via ‘‘tecnica’’ elementi di fattispecie legislativamente predeterminati nel nucleo significativo essenziale, v., per tutti, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, 3a ed., Bologna, 1995, p. 56 ss. (43) Da FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte speciale, cit., 1997, p. 214. (44) MARINI, Delitti, cit., p. 516. (45) Così CRISTIANI, op. cit., p. 31. (46) V., supra, nt. 2.
— 800 — Gli elementi costitutivi di questa seconda figura di usura, introdotta probabilmente per colmare i possibili vuoti di tutela che potrebbero verificarsi ove il tasso d’interesse stipulato sia sproporzionato, anche se poco al di sotto di quello usurario per legge, e la vittima versi in stato di difficoltà (è evidente, pertanto, il maggior rigore nella valutazione dell’usurarietà) (47), vanno accertati in concreto dal giudice, che viene in tal modo reinvestito del potere discrezionale di cui disponeva durante la precedente disciplina. Siffatta scelta legislativa appare tuttavia in contraddizione con l’idea di fondo di fissare con un criterio normativo il limite oltre il quale l’interesse possa definirsi usurario. Il paradosso della coesistenza di determinatezza e discrezionalità sembra infatti contraddire l’esigenza di certezza del precetto penale, ispiratrice della riforma (48). Ponendo la fattispecie in esame a confronto con l’abrogato art. 644bis, di cui ripropone alcuni elementi costitutivi, emerge con chiarezza un ampliamento delle condotte punibili, dato il venir meno della delimitazione dei soggetti passivi (ora ‘‘chiunque’’, prima, invece, solo chi svolgesse un’attività imprenditoriale o professionale) e, soprattutto, l’introduzione del requisito della mera ‘‘sproporzione’’ tra le prestazioni (49) (mentre durante il vigore dell’abrogata normativa — come sopra ricordato — si definivano usurari, sebbene soltanto in via interpretativa, gli interessi ‘‘notevolmente’’ o ‘‘manifestamente’’ sproporzionati rispetto alla prestazione). Peraltro, data l’ampiezza dei rapporti incriminabili e l’assenza di un parametro legale, l’interpretazione del concetto di sproporzione acquisi(47) Così BELLACOSA, voce Usura, cit., p. 151, sulla base anche dei lavori parlamentari (v. nt. 38). Conformemente MUCCIARELLI, op. cit., p. 521 s., il quale trova apprezzabile l’intento di colmare un’evidente lacuna, che gli operatori più accorti avrebbero certamente sfruttato, e cui neanche i rimedi civilistici (artt. 1448 e 1815, comna 2, c.c.) avrebbero potuto ovviare, considerato che la giurisprudenza civilistica tradizionalmente identifica l’interesse usurario con quello valutabile come tale in sede penale. Anche sotto un altro profilo la fattispecie residuale di usura svolge un importante ruolo sussidiario, con riguardo cioè alle categorie di operazioni escluse — per espressa disposizione della Banca d’Italia — dalla rilevazione dei tassi medi. L’art. 644, comma 3, seconda parte, non distinguendo tra operazioni incluse o escluse dalla rilevazione dei tassi medi e contenendo un generico riferimento alle ‘‘concrete modalità del fatto’’ e al ‘‘tasso medio praticato per operazioni similari’’, offre uno strumento repressivo adeguato per sanzionare il comportamento di chi, nell’ambito delle citate operazioni, pattuisca interessi ‘‘comunque sproporzionati’’ a carico di chi versi in ‘‘condizioni di difficoltà economica o finanziaria’’: v. BELLACOSA, voce Usura, cit., p. 155 s. (48) Fortemente critico verso l’accostamento del criterio normativo del tasso-soglia e quello discrezionale del tasso ‘‘sproporzionato’’, CRISTIANI, op. cit., p. 28 s. Nello stesso senso PROSDOCIMI, op. cit., p. 774. Ritiene, al contrario, superabili le obiezioni mosse alla formula legislativa, ‘‘soprattutto se la si confronta con la previgente figura del delitto di usura’’, MUCCIARELLI, op. cit., p. 522 ss. (49) ‘‘Il concetto di sproporzione fra le prestazioni è, invero, in tale contesto, contrassegnato da un ampio coefficiente di indeterminatezza’’: così PROSDOCIMI, op. cit., p. 774.
— 801 — sce, com’è evidente, una importanza fondamentale, costituendo, sotto l’aspetto dell’elemento materiale del reato in esame, la sostanziale linea di demarcazione tra operazioni penalmente lecite e illecite (50). Quanto, poi, all’elemento delle ‘‘condizioni di difficoltà economica o finanziaria’’ in cui deve versare il soggetto passivo, già presente nel vecchio art. 644-bis, privo però dell’ulteriore requisito dell’ ‘‘approfittamento’’, oltre una certa genericità da più parti evidenziata (51), è prevedibile che finisca col perdere la propria autonomia sotto il peso predominante della ‘‘sproporzione’’ (52). Probabilmente, in presenza di un prestito usurario, la difficoltà finanziaria risulterà in re ipsa, né può escludersi che tale esito sia stato voluto dal legislatore per rendere quasi automaticamente perseguibile il reato una volta stabilita la ‘‘sproporzione’’ degli interessi pattuiti (53). Del resto, già in precedenza, con riferimento al concetto (ancor più pregnante) di ‘‘stato di bisogno’’ previsto dall’abrogato art. 644, la giurisprudenza aveva spesso finito con l’individuarlo nella stessa stipulazione del contratto usurario (54). Le ‘‘condizioni di difficoltà economica o finanziaria’’ servono comunque a denotare una situazione oggettivamente apprezzabile, che va verificata secondo parametri di mercato (55). In assenza di ogni richiamo al profilo abusivo della condotta, l’elemento in questione contribuisce, insieme a quello della ‘‘sproporzione’’, non solo a caratterizzare il fatto sul piano della tipicità, bensì anche a connotarlo in termini di disvalore (56). (50) In tal senso CAPERNA-CONTI-FORLENZA-LOTTI-SACCHETINI-TRICOMI, op. cit., p. 35, per i quali ‘‘ai fini di una corretta delimitazione dei fatti penalmente rilevanti e per evitare incoerenze del sistema, non potrà non tenersi conto dei corrispondenti istituti di diritto civile e, in particolare, dell’art. 1448, comma 2, del c.c., dove si considera suscettibile di rescissione per lesione il contratto a prestazioni corrispettive quando la lesione sia pari, quantomeno, alla metà del valore della prestazione data o promessa dalla parte danneggiata’’. Analogamente BELLACOSA, voce Usura, cit., p. 151. Particolarmente critico verso il mancato coordinamento tra la nuova disciplina penale dell’usura e i principi del diritto civile, OPPO, Lo ‘‘squilibrio’’ contrattuale tra diritto civile e diritto penale, in Riv. dir. civ., 1999, p. 533 ss. (51) V., per tutti, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte speciale, cit., 1992, p. 181. Contra, PROSDOCIMI, Aspetti e prospettive della disciplina penale dell’usura, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, p. 583 ss. (52) L’osservazione è di MUCCIARELLI, op. cit., p. 525. (53) Così PISA, op. cit., p. 418. È bene comunque precisare che la nozione di ‘‘difficoltà economica o finanziaria’’ non fa riferimento ad una situazione di dissesto complessivo, ma anche soltanto ad una semplice carenza di liquidità, seppure momentanea. (54) Cfr., ad esempio, Cass., Sez. II, 5 maggio 1993, cit. (55) MARINI, voce Usura, cit., p. 566. (56) Questo, in sintesi, il pensiero di MUCCIARELLI, op. cit., p. 527, al quale si rinvia per un’ampia disamina dei singoli elementi della norma incriminatrice. La fattispecie sussidiaria di usura si presenta in tal modo completa di disvalore di azione e di disvalore di evento: in argomento cfr., in generale, MARINUCCI-DOLCINI, op. cit., p. 388 ss. Non così la fattispecie-base, connotata dal solo disvalore di evento, in deroga al principio di frammenta-
— 802 — L’eliminazione del requisito dell’approfittamento ha, poi, reso più ampia la sfera di operatività della fattispecie in esame anche sul piano dell’elemento soggettivo (57). Pare ora ipotizzabile il dolo eventuale, che la giurisprudenza precedente la riforma riteneva per lo più incompatibile con la necessaria presenza dell’abuso, presupponendo questo una piena consapevolezza dello stato di bisogno della vittima (58). 5. La natura giuridica e il momento consumativo del delitto. — Prima di trattare la tematica relativa alla successione di leggi in materia di usura, è necessario valutare la natura giuridica del reato, nel tentativo di individuarne il momento consumativo. Tale questione sembra porsi in termini innovativi, e non tanto per la diversità strutturale dell’attuale figura incriminatrice, quanto per l’originale dettato dell’art. 644-ter, introdotto dall’art. 11 l. n. 108/1996, a norma del quale ‘‘la prescrizione del reato di usura decorre dal giorno dell’ultima riscossione sia degli interessi che del capitale’’. In assenza di una disposizione analoga a quella ora citata e in virtù dell’esplicito riferimento operato dalla originaria fattispecie di usura alla negoziazione del patto illecito, dottrina e giurisprudenza quasi unanimi ritenevano trattarsi di reato istantaneo, la cui consumazione coincideva col momento della pattuizione del compenso usurario e, qualora il soggetto passivo si fosse impegnato a restituirlo in forma frazionata, configuravano un reato istantaneo con effetti permanenti (59). rietà, che, se può ammettersi nell’ambito dei delitti contro la vita e l’incolumità individuale, non è altrettanto agevolmente condivisibile nel settore dei reati contro il patrimonio, data la minore rilevanza del bene giuridico tutelato. Da tale constatazione DE VERO, op. cit., p. 12 s., trae conferma alla tesi ‘‘della fuoriuscita del patrimonio individuale almeno dal fuoco di tutela della nuova ipotesi di usura’’ (v., supra, nt. 20). (57) Tale requisito, durante la pregressa disciplina, era da molti considerato, in linea di principio, incompatibile con il dolo eventuale, sebbene sul piano concreto fosse stato svuotato sotto il profilo soggettivo, ritenendosi sufficiente solo una ‘‘volontà di approfittare’’, che dottrina e giurisprudenza più recenti individuavano anche nella mera rappresentazione in forma dubitativa dello stato di difficoltà del soggetto passivo. La scomparsa del requisito dell’approfittamento ha comunque reso più chiaramente utilizzabile la figura del dolo eventuale: così PROSDOCIMI, La nuova disciplina, cit., p. 776. L’A. riteneva compatibile il dolo eventuale con il reato di usura già prima della riforma: cfr. PROSDOCIMI, Aspetti e prospettive, cit., p. 590. Sull’elemento psicologico v., altresì, CRISTIANI, op. cit., p. 129 ss.; MARINI, voce Usura, cit., p. 569. (58) V., per tutte, Cass., Sez. II, 14 luglio 1983, in Riv. pen., 1984, p. 139. (59) Propendevano per la natura istantanea dell’originario delitto di usura, tra gli altri, ANTOLISEI, fin nell’ultima edizione del suo Manuale precedente la riforma del 1996 (11a ed., 1994, cit., p. 345 s.); MANTOVANI, op. cit., p. 195; GROSSO, op. cit., p. 1146; VIOLANTE, voce Usura, cit., p. 387. Per la giurisprudenza v. Cass., Sez. II, 8 febbraio 1985, in Riv. pen., 1985, 1040; Cass., Sez. II, 9 febbraio 1985, ivi, 1985, p. 1040; Cass., Sez. II, 18 febbraio 1988, cit.; Cass., Sez. II, 5 aprile 1991, in Cass. pen., 1992, p. 1527; Cass., Sez II, 22 ottobre 1992, ivi, 1994, p. 1858. Invero, la figura del reato istantaneo con effetti permanenti è
— 803 — L’effettiva consegna degli interessi, ove rateizzata, era, pertanto, considerata estranea alla struttura obiettiva della fattispecie, più specificamente un post-factum non punibile, con importanti conseguenze pratiche in materia, tra l’altro, di successione di leggi penali, non potendosi applicare norme sfavorevoli eventualmente intervenute prima della percezione degli interessi ma dopo la stipulazione del patto usurario (60). Sebbene il comportamento criminoso continui, anche in seguito alla riforma, ad avere il suo fulcro nel ‘‘farsi dare o promettere’’ interessi o altri vantaggi usurari, riguardo all’individuazione del momento consumativo la dottrina risulta divisa tra coloro che seguitano a sostenere la tesi tradizionale del reato istantaneo (61) (anche quando considerino mutata la struttura del delitto (62)) e coloro che vi individuano un reato permanente (63) (o a questo ‘‘assimilabile’’, anche quando affermino che l’illiceità di esso scaturisca dalla stipula, che cioè la fisionomia illecita nasca dalla pattuizione originaria (64)). Quest’ultima impostazione si fonderebbe proprio sul testo del nuovo art. 644-ter, il quale, rapportato ai principi generali dettati dall’art. 158 c.p. in tema di prescrizione, potrebbe a prima vista far ritenere che l’attuale fattispecie di usura determini una situazione di perdurante consumazione sino all’ultima riscossione sia degli interessi che (paradossalmente) del capitale (65). A ben guardare, tuttavia, se può avere un senso identificare nell’ulritenuta da taluno priva di reale autonomia, in quanto si limiterebbe a registrare un mero dato fenomenico, consistente nella possibilità che la lesione del bene protetto duri per un certo periodo di tempo: così FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 170 s. Analogamente, con riguardo al reato di usura, FIADINO, op. cit., p. 379, secondo il quale considerare il delitto in esame istantaneo ovvero istantaneo ad effetti permanenti non comporta alcuna differenza sul piano delle conseguenze giuridiche, data la qualificazione degli effetti medesimi come post-fatti penalmente irrilevanti, ‘‘per cui il loro essere permanenti si riduce ad un mero predicato, utile solo a fini puramente teorico-descrittivi’’. (60) V. SOANA, Novità sul momento consumativo del delitto di usura, in Cass. pen., 1999, p. 1468 s. Contrario all’estraneità del momento della riscossione degli interessi rispetto alla condotta di usura, PISA, Provvedimenti attativi in materia di usura. Il commento del giurista, in Dir. pen. proc., 1997, p. 538; ID., Effetti dei tassi di riferimento usurari sui rapporti negoziali in atto, ivi, 1998, p. 536. (61) In questo senso CRISTIANI, op. cit., p. 40; SEVERINO DI BENEDETTO, op. cit., p. 532; ANTOLISEI, op. cit., 1999, p. 385 s.; FIADINO, op. cit., p. 374 ss.; MASULLO, Usura e permanenza: a proposito del termine di prescrizione, in Cass. pen., 2000, p. 544 ss. (62) Così MUCCIARELLI, op. cit., pp. 566 e 568. (63) V. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte speciale, cit., 1997, p. 216; MANNA, op. cit., p. 85 ss., per il quale, più specificamente, si tratterebbe di reato ‘‘eventualmente permanente’’. In quest’ultimo senso altresì CAPERNA-CONTI-FORLENZA-LOTTI-SACCHETTINI-TRICOMI, op. cit., p. 45, i quali, tuttavia, evidenziano le difficoltà applicative che tale interpretazione inevitabilmente comporterebbe. (64) In quest’ottica PEDRAZZI, Sui tempi della nuova fattispecie di usura, in questa Rivista, 1997, II, p. 662 ss.; DE VERO, op. cit., p. 16 ss. (65) Cfr. BELLACOSA, voce Usura, cit., p. 153, il quale lascia la questione aperta, sot-
— 804 — timo dei versamenti a titolo di interessi il momento consumativo del reato, poiché è evidente che in questa occasione si verifica la completa e massima realizzazione del fatto tipico, non appare altrettanto comprensibile il riferimento operato dall’art. 644-ter alla restituzione del capitale, che è certamente estranea alla struttura del reato, in quanto non solo non integra un fatto illecito, ma costituisce addirittura un atto dovuto del debitore (66). Peraltro è possibile che il legislatore, se ha creduto opportuno riferirsi anche al momento della restituzione del capitale quale termine di decorrenza del tempo necessario alla prescrizione del reato, per quanto non agevolmente giustificabile sul piano dei principi, abbia voluto assecondare ragioni pratiche, volte a favorire una più efficace repressione dell’usura (67). In definitiva, se è vero come è vero che la restituzione del capitale non integra una condotta illecita (né sotto il profilo penale, né sotto quello extrapenale), non sembra possibile individuare in essa il momento consumativo del reato. Pertanto, il riferimento alla dazione dell’ultima rata degli interessi o alla restituzione del capitale per stabilire la decorrenza del termine prescrizionale risponderebbe soltanto all’esigenza di assicurare il maggior tempo possibile per la celebrazione dei processi, ma non avrebbe alcuna ripercussione sulla natura del reato di usura, che si manterrebbe istantanea (68). A tal proposito è stato osservato come, venuto meno l’estremo dell’approfittamento dello stato di bisogno, l’oggettività giuridica del fatto tipico sia interamente incentrata nel ‘‘farsi dare o promettere’’ interessi o altri vantaggi usurari, per cui ‘‘l’integrazione del tipo si verifica — per quanto attiene alla dazione — nel momento della corresponsione dell’interesse o del vantaggio usurario’’ (69). Si potrebbe, allora, sostenere che ‘‘ferma restando la sufficienza della mera promessa per la realizzazione del reato (realizzazione che viene a coincidere con la consumazione se un’effettiva dazione non segue), qualora vi sia — come in genere avviene — reale corresponsione degli interessi usurari promessi, la consumazione tolineando il carattere ambivalente ed equivoco del testo normativo, nonché l’impossibilità di risalire alla voluntas legis attraverso i lavori preparatori della l. n. 108 del 1996 (data l’estrema sinteticità sul punto). (66) L’osservazione, pienamente condivisibile, è di PISA, Mutata la strategia, cit., p. 418 s. (67) Così, ancora, PISA, Mututa la strategia, cit., p. 418 s.; MUCCIARELLI, op. cit., p. 566 s. (68) V. CRISTIANI, op. cit., p. 40. (69) Cfr. MUCCIARELLI, op. cit., p. 566.
— 805 — si verifica solo con l’ultima dazione’’, riscontrandosi così ‘‘l’eventuale separazione tra realizzazione e consumazione’’ (70). La prospettazione di una simile circostanza non rappresenta, invero, né una prerogativa esclusiva dell’usura, né una novità per la dottrina, che ha da tempo individuato, con riguardo a determinate categorie di illeciti, una potenziale scissione tra un momento consumativo formale, consistente nella verificazione di tutti i requisiti minimi perché sia superata la soglia del tentativo e si determini la punibilità del soggetto passivo, e un momento consumativo sostanziale, identificabile con il raggiungimento della massima gravità concreta del fatto (71). La possibilità di strutturare il delitto di usura alternativamente in due forme (istantanea, quando la dazione sia immediata e unitaria; a condotta frazionata, quando si realizzino successive dazioni) è condivisa dalla più recente giurisprudenza (72). Tuttavia questa tesi non sembra utilizzabile, date le difficoltà operative che determinerebbe l’individuazione del momento consumativo dell’usura non solo in quello della conclusione del patto, bensì in ogni atto di dazione successiva di somme, sia a titolo di interessi che di capitale (73). A quale momento, oltretutto, dovrebbe essere riferita la valutazione della (70) Testualmente PISA, Mutata la strategia, cit., p. 418. Nello stesso senso FIADINO, op. cit., p. 379 s.; MUCCIARELLI, op. cit., p. 566. (71) Sul tema v. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, 3a ed., Padova, 1992, p. 427 s.; PAGLIARO, Principi di diritto penale, Parte generale, 7a ed., Milano, 2000, p. 495 ss.; PROSDOCIMI, Profili penali del postfatto, Milano, 1982, p. 139 ss. (72) Cass., Sez. I, 19 ottobre 1998, in C.E.D. Cassazione, n. 211610, in Guida dir., 1999, n. 12, p. 81 ss. e in Dir. pen. proc., 1999, p. 86 ss.: ‘‘Sembra logicamente più convincente e condivisibile, alla stregua dell’odierno assetto normativo dell’istituto, la prevalente opinione dottrinale, secondo cui, qualora alla promessa segua — come abitualmente avviene mediante la rateizzazione nel tempo degli interessi usurari convenuti — la dazione effettiva, questa fa parte a pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante e segna, mediante la concreta e reiterata esecuzione dell’originaria puttuizione usuraria, il momento consumativo ‘sostanziale’ del reato: una situazione non necessariamente assimilabile alla categoria della ‘permanenza’ — eventuale — del reato, ma configurabile secondo il duplice ed alternativo schema (proposto, ad esempio, da giurisprudenza e dottrina maggioritarie per l’ipotesi della corruzione: ex plurimis, Cass., Sez. VI, 10 luglio 1995, Caliciuri) della fattispiecie tipica del reato, che pure mantiene intatta la sua natura unitaria e istantanea, ovvero con riferimento alla struttura dei delitti c.d. a condotta frazionata o a consumazione prolungata (quale, ad esempio, la truffa inerente al conseguimento di prestazioni ed erogazioni periodiche da parte della P.A.)’’. In una prospettiva analoga SEMINARA, op. cit., p. 698, secondo il quale ‘‘in ogni caso appare più corretto considerare l’usura come un delitto istantaneo nel caso di corresponsione contestuale o di mera promessa non seguita dall’adempimento e, nel caso di corresponsione successiva, come un illecito la cui consumazione si lega all’atto della pattuizione e (tranne che intervenga una nuova prestazione di capitale o una qualsiasi novazione del contratto, ciò che integra un ulteriore e autonomo reato) si rinnova in occasione di ogni adempimento’’. (73) Su questi ed altri rilievi critici v. NAVAZIO, Usura, Torino, 1998, p. 178 s.
— 806 — sproporzione avente carattere usurario (74)? E come verrebbero inquadrati gli eventuali singoli episodi di riscossione del capitale? Interpretando la norma in modo corretto e sistematicamente coerente, sembra inevitabile sostenere che promessa e dazione non siano altro che due modalità alternative della condotta, ‘‘con la conseguenza che la accettazione della promessa rappresenta un elemento necessario e sufficiente per la consumazione del reato’’ (75). Ma anche a voler inserire l’usura nello schema dei delitti a condotta frazionata, il quale presenta punti di convergenza con la struttura dei reati permanenti (76), non pare potersi comunque aderire all’opinione di chi intravede, se non proprio ‘‘una struttura di tipo schiettamente permanente, che valorizzerebbe in via precipua il perdurare del rapporto fra usuraio e soggetto passivo’’ (77), quantomeno una ‘‘quasi-permanenza’’ (78), desumendola soprattutto dalla circostanza che per la decorrenza del termine prescrizionale si attenda altresì la riscossione del capitale da parte dell’usuraio. La difficoltà di inquadrare la fattispecie di usura nella categoria della permanenza appare confortata da un certo numero di elementi, alcuni dei quali riassumibili nella mancata corrispondenza della figura legale con il modulo classico del reato permanente. Innanzitutto, se anche si volesse interpretare il ‘‘farsi dare’’ non con la semplice accettazione della corresponsione di interessi usurari, bensì con l’espletamento di un comportamento attivo da parte dell’usuraio (79), la descrizione della fattispecie tipica resta pur sempre priva di una condotta unitaria che si protragga senza soluzione di continuità (80). (74) CAPERNA-CONTI-FORLENZA-LOTTI-SACCHETTINI-TRICOMI, op. cit., p. 45. Cfr., altresì, MANZIONE, op. cit., p. 83, il quale giustamente osserva come, riconnettendo l’illecito ad ogni dazione di interessi pretesi dall’usuraio, ‘‘si perderebbe il parametro di riferimento certo dell’usurarietà dei tassi che diventerebbe ‘flottante’ di trimestre in trimestre’’. (75) Così, testualmente, SEVERINO DI BENEDETTO, op. cit., p. 533. (76) Secondo quanto sostenuto da PISA, Effetti dei tassi, cit., p. 536. (77) In questo senso SILVA, Osservazioni sulla nuova disciplina penale del reato di usura, in Riv. pen., 1996, p. 132. (78) È questa l’opinione di PROSDOCIMI, La nuova disciplina, cit., p. 779. (79) Così PISA, Provvedimenti attuativi, cit., p. 538; ID., Effetti dei tassi, cit., p. 536. Contra, MARINI, Delitti, cit., p. 515. (80) L’osservazione è di PROSDOCIMI, La nuova disciplina, cit., p. 779, il quale sottolinea come l’effettiva lesione patrimoniale si verifichi solo nel momento in cui la vittima versa gli interessi, non rilevando in questo contesto che gli interessi medesimi maturino ininterrottamente nel corso del rapporto usurario. In senso analogo CARACCIOLI, Di fronte al rebus sulla consumazione scelta la via della ‘‘condotta frazionata’’, in Guida dir., 1999, n. 12, p. 84. Conformemente la recente giurisprudenza: Cass., Sez. I, 19 ottobre 1998, cit.; Cass., Sez. II, 12 luglio 1997, in C.E.D. Cass., n. 208374. Per MARINI, Delitti, cit., p. 518, si tratta di un reato ‘‘eventualmente abituale’’. Nello stesso senso PADOVANI, op. cit., p. XIV.
— 807 — Manca, poi, nell’usura un’altra caratteristica comunemente attribuita al reato permanente, quella cioè di comprimere beni indistruttibili (81). Né la circostanza che l’art. 644-ter richiami la regola di decorrenza della prescrizione prevista per i reati permanenti deve necessariamente far confluire l’usura in tale categoria, apparendo piuttosto come un atto di voluntas legis, con il quale si è semplicemente attribuito a questo delitto uno degli effetti della permanenza (82). Ciò può anzi significare che senza quello specifico dettato normativo l’art. 158 c.p. non sarebbe stato applicabile, non avendo l’usura, appunto, natura permanente (83), o, viceversa, segnalare l’assoluta superfluità dell’art. 644-ter se la nuova fattispecie avesse realmente mutato natura (84). Il legislatore del 1996 assimilando, con una norma senza precedenti, la disciplina relativa alla prescrizione dell’usura a quella dettata dall’art. 158 c.p. per il reato permanente, sembra, pertanto, aver introdotto una deroga al normale regime di decorrenza stabilito dalla stessa norma per il reato istantaneo, confermandone così questa natura (85). Del resto, l’istituto della prescrizione possiede una sua autonoma ra(81) V. CRISTIANI, op. cit., p. 38 e Autori ivi citati. Sul tema, in generale, v., per tutti, COPPI, voce Reato permanente, in Dig. Disc. pen., XI, Torino, 1996, p. 323. (82) Ancora CRISTIANI, op. cit., p. 39. (83) CRISTIANI, op. cit., p. 39 s. (84) FIADINO, op. cit., p. 373. (85) Cfr. Proc. Rep. Trib. Torino, 27 novembre 1998, in Dir. pen. proc., 1999, p. 746 s., ‘‘in caso contrario l’art. 644-ter dovrebbe considerarsi del tutto inutile e pleonastico in quanto il regime da esso previsto già vige, a livello generale, per i reati permanenti’’. In questo senso altresì SEVERINO DI BENEDETTO, op. cit., p. 532. Anche per CARACCIOLI, op. cit., p. 84 s., il legislatore ha previsto una deroga alla regola generale. L’A., poi, sul presupposto che il reato possa consumarsi anche in un momento antecedente a quello dal quale inizia a decorrere la prescrizione, sostiene che, quando alla promessa segua la dazione, il delitto di usura si consuma ‘‘allorché la vittima aderisca al patto usurario semplicemente promettendo un dato pagamento, dilazionato nel tempo, non ancora effettuato. Le fasi successive del pagamento delle singole rate non spostano il momento consumativo, rappresentando soltanto delle ‘code’ nocessarie di quanto in precedenza pattuito, e quindi come conseguenze dell’avvenuta promessa’’. Secondo PISA, La configurabilità del delitto di usura, in Dir. pen. proc., 1999, p. 748, ‘‘di per sé l’art. 644-ter c.p. non offre un argomento decisivo sul punto controverso’’, ma può ‘‘considerarsi tutt’altro che inutile alla luce proprio del precedente orientamento della giurisprudenza, volto a dare rilievo al solo momento dell’accordo/promessa [...]; inoltre, non è esatto che l’art. 644-ter c.p. sia norma del tutto inutile anche nell’ottica della costruzione dell’usura come reato a struttura non istantanea, poiché lo spostamento della decorrenza della prescrizione in relazione anche al momento dell’eventuile restituzione del capitale (meglio, dell’ultima rata di esso) non sarebbe stato deducibile dalla natura di reato a condotta frazionata [...] dell’usura, in quanto integra la condotta criminosa il ‘farsi dare interessi usurari’ ma non certo farsi restituire il capitale oggetto del prestito usurario’’. Per MUCCIARELLI, op. cit., p. 568 s., l’art. 644-ter non rappresenta una deroga al principio generale di cui all’art. 158 c.p., altrimenti, avendo optato per la natura istantanea dell’usura, dovrebbe ammettersi ‘‘l’imprescrittibilità del reato in discorso nell’ipotesi della promessa alla quale non faccia seguito la dazione’’. L’A. espone inoltre le ragioni per cui la previsione in oggetto
— 808 — tio normativa, consistente nel progressivo attenuarsi fino ad estinguersi del tutto, col passare del tempo, dell’interesse dello Stato all’accertamento del reato e all’esecuzione della pena, venendo meno le esigenze di prevenzione generale che presiedono alla repressione dei reati (86). Non pare, quindi, plausibile che tale istituto, in virtù di una sua diversa regolamentazione normativa di decorrenza, determini la trasformazione della natura di un reato da istantaneo a permanente (87). L’usura resta, in definitiva, un reato istantaneo, poiché ‘‘nel fuoco della norma penale è ancor oggi il momento della pattuizione, e precisamente della determinazione convenzionale del corrispettivo usurario, in forma reale (dazione) o consensuale (promessa accettata)’’ (88). In altri termini, poiché il testo del nuovo art. 644 c.p., riproducendo in questa parte il vecchio, incentra la condotta esecutiva del delitto nella conclusione tra i contraenti del vincolo sinallagmatico, il momento consumativo dell’usura coincide tuttora con quello del perfezionamento dell’intesa (89). È, pertanto, la pattuizione originaria a rendere il fatto unitario, nonostante i pagamenti vengano dilazionati nel tempo (90). Né, d’altro canto, optando per la natura permanente dell’usura, si attribuirebbe per ciò solo autonoma rilevanza alla condotta di dazione degli interessi, occorrendo ‘‘pur sempre una iniziale condotta illecita che si protragga nella sua esecuzione’’ (91). Da non trascurare, infine, un dato letterale, emergente dall’art. 1815, comma 2, c.c., come modificato dall’art. 4 l. n. 108/1996, a norma del non sarebbe superflua (p. 566). Contrario alla tesi della deroga, altresì, CAVALLO, Una nuova disciplina per la repressione del fenomeno dell’usura, in Cass. pen., 1997, p. 3228. (86) In argomento v. MOLARI, voce Prescrizione del reato e della pena (diritto penale), in Noviss. Dig. it., XIII, Torino, 1966; PISA, voce Prescrizione (diritto penale), in Enc. dir., XXXV, Milano, 1986; BARTOLO, voce Prescrizione del reato, in Enc. giur., XXIV, Roma, 1991; PANAGIA, voce Prescrizione del reato e della pena, in Dig. Disc. pen., IX, Torino, 1995. (87) Cfr. VAIRO, Problemi intertemporali nella determinazione dei tassi antiusura, in Giust. pen., II, 1998, p. 445 s. (88) Testualmente PEDRAZZI, op. cit., p. 662, sebbene l’A. parli di ‘‘una situazione assimilabile alla permanenza’’. (89) In questi termini l’opzione interpretativa di BELLACOSA, voce Usura, cit., p. 153, il quale, tuttavia, non trae da tali considerazioni precise conseguenze relativamente alla natura istantanea o permanente dell’usura. Per MANZIONE, op. cit., p. 81 ss., è più convincente la soluzione che attribuisce al delitto di usura la persistente natura di reato istantaneo ad effetti eventualmente permanenti. Così anche App. Roma, 14 aprile 1999, in C.E.D. Cassazione, n. 990074. (90) PEDRAZZI, op. cit., p. 664; FIADINO, op. cit., p. 375. Al contrario, per CARBONE, Interessi usurari dopo la l. n. 108 del 1996, in Corr. giur., 1998, p. 437, ‘‘è la dazione e non la stipula del contratto il momento rilevante ai fini della qualificazione usuraria dell’interesse’’, dato il nuovo art. 644-ter, per cui ‘‘l’eteroregolamentazione contrattuale, voluta dall’ordinamento, incide sui rapporti in corso’’. (91) Così SEVERINO DI BENEDETTO, op. cit., p. 532.
— 809 — quale ‘‘se sono convenuti (92) interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi’’: l’esplicito riferimento al momento della pattuizione, piuttosto che a quello della riscossione, sembra porre un sigillo definitivo sulla questione in oggetto, a favore della natura istantanea dell’usura (93). 6. Problemi intertemporali: a) variazione del limite dell’usurarietà degli interessi in costanza di rapporto. — Il problema in esame concerne le operazioni finanziarie a tasso fisso, sotto il profilo delle variazioni che possono modificare il valore del limite della usurarietà degli interessi durante il perdurare dei rapporti medesimi, che — come è noto — normalmente si protraggono per un consistente arco di tempo, determinando un potenziale avvicendamento di situazioni lecite e illecite (94). Il mutamento del tasso effettivo globale medio, avente luogo trimestralmente, può teoricamente produrre, se diminuito, una sorta di usurarietà sopravvenuta (l’interesse originariamente lecito diventerebbe, nel corso del rapporto, illecito); se aumentato, una causa di non punibilità (l’interesse inizialmente usurario diverrebbe successivamente lecito). Nel non agevole tentativo di trovare una soluzione a tali quesiti occorre ribadire che la rilevanza penale del fatto dipende esclusivamente dal superamento del limite stabilito per legge al momento della stipula, perché — come si è ripetutamente evidenziato — da questa scaturisce l’illiceità del fatto medesimo (95). Non a caso anche chi propende per la natura permanente del reato sostiene che ‘‘è [...] la pattuizione originaria a cementare l’unità del fatto di usura nonostante la diluizione dei pagamenti’’ (96). (92) Il corsivo è nostro. (93) Cfr. PEDRAZZI, op. cit., p. 666; SEVERINO DI BENEDETTO, op. cit., p. 533. (94) È altresì possibile che le rilevazioni trimestrali del tasso usurario producano un succedersi di altrettanti momenti di antigiuridicità penale che, tuttavia, riferendosi ad un’unica pattuizione, ‘‘non pare realizzi molteplici offese dell’interesse protetto, dato che il fulcro di offensività dell’illecito è rappresentato dalla condotta impositiva di condizioni usurarie. Pertanto, l’ipotizzata successione di situazioni antigiuridiche appare suscettibile di essere valutata alla stregua di un fenomeno soltanto incrementativo della gravità dell’offesa’’: così SELLAROLI, op. cit., p. 223, nt. 39. (95) Contrario alla tesi che individua nella pattuizione degli interessi il momento consumativo dell’usura, ravvisandolo piuttosto nella corresponsione di essi (sia prima che dopo la riforma), PISA, Lotta all’usura: giurisprudenza in difficoltà nell’attesa di nuove norme, in Dir. pen. proc., 1995, p. 1287 s.; ID., Mutata la strategia, cit., p. 418, ad avviso del quale il ‘‘farsi dare’’ interessi usurari costituiva e costituisce tuttora parte integrante della condotta illecita. (96) Il riferimento è a PEDRAZZI, op. cit., p. 664. Con riguardo al tema generale del reato permanente si ricordi come, per non incorrere nell’inconveniente di rendere applicabile una legge più sfavorevole che, eventualmente emanata poco prima della cessazione della permanenza, aggravi il trattamento penale della fattispecie, parte della dottrina preferisca fis-
— 810 — Non appare pertanto condivisibile quell’orientamento dottrinale secondo il quale il mutuante non potrebbe richiedere ed ottenere il saggio d’interesse inizialmente pattuito (lecito), ove questo abbia superato nel corso del rapporto il limite legale, in quanto l’accordo tra le parti non può prevalere su una norma imperativa, qual è quella che stabilisce il limite della liceità degli interessi (97). Secondo tale impostazione la condotta vietata ‘‘si realizza e si esaurisce nel momento in cui l’interesse illegale viene percepito dal mutuante, sicché a quel momento deve essere coerentemente valutata la (eventuale) eccedenza dell’interesse effettivo rispetto al limite legalmente fissato)’’ (98). Ma, come osserva la stessa dottrina orientata verso la soluzione più rigorosa, l’entità del tasso corrisposto non va valutata in rapporto alla singola dazione del rateo, bensì al contratto nel suo complesso (99), quindi con riguardo al momento genetico dello stesso. Altrettanto inaccettabile risulta, a ben vedere, la tesi di chi qualifica come ‘‘nuova condotta’’ la pretesa di percepire un tasso di interesse superiore a quello consentito dalla rilevazione trimestrale, differenziandola dal contegno meramente passivo ‘‘di ricezione non sollecitata di interessi superiori alle soglie stabilite, che il debitore continui spontaneamente a corrispondere senza chiedere la riduzione entro il limite stabilito dal decreto’’ (100). Ebbene, il ‘‘farsi dare o promettere’’ non è altro che l’esecuzione del contratto, l’effetto di una pattuizione già conclusa anteriormente alla decretazione del tasso-soglia (101). Di conseguenza, l’unico avvenimento in grado di attribuire rilevanza ad eventi successivi all’intesa originaria, potrebbe essere esclusivamente un nuovo accordo modificativo o sostitutivo del precedente (102). A voler imporre la verifica di usurarietà in un momento posteriore alla stipula di un contratto originariamente lecito, si produrrebbe una irragionevole e inammissibile compressione dell’autonomia negoziale privata, poiché graverebbe sul creditore l’obbligo di modificare a proprio sfavore il contenuto di un contratto che all’epoca della pattuizione, parametrato alle condizioni di mercato, alle scelte imprenditoriali e ai rischi allora presenti, risultava pienamente legittimo (103). sare il tempo del commesso reato nel primo atto che dà avvio alla consumazione del reato permanente: v., per tutti, ROMANO, op. cit., p. 53, n. 3. (97) Questa l’opinione di MUCCIARELLI, op. cit., p. 544. (98) Così, testualmente, MUCCIARELLI, op. cit., p. 544. (99) MUCCIARELLI, op. cit., p. 545. (100) La tesi è di PISA, Provvedimenti attuativi, cit., p. 538. (101) In questo senso VAIRO, op. cit., p. 445. (102) V. Proc. Rep. Trib. Torino, 27 novembre 1998, cit. (103) In questa prospettiva BELLACOSA, voce Usura, cit., p. 153. Secondo l’A. una diversa lettura, che imponesse la verifica di usurarietà in un momento successivo alla stipula di un contratto originariamente lecito, si porrebbe altresì in contrasto con il principio di libertà
— 811 — Obbligando il creditore ad una continua rinegoziazione, si violerebbe, inoltre, il principio di eguaglianza tra le parti contrattuali, in quanto si accollerebbe esclusivamente su una parte, oltre la normale alea sottesa a qualsiasi contratto sinallagmatico, anche il rischio ulteriore collegato alla modifica del tasso medio, non prevedibile nel quantum al momento della stipula (104). A ciò si aggiunga che al mutuante obbligato a ridurre l’ammontare dell’interesse originariamente concordato, sarebbe persino precluso il diritto di recedere dal contratto, in virtù del principio di conservazione del negozio giuridico (105). Del resto, colui che stipula un contratto di mutuo a tasso fisso è consapevole di essersi impegnato a corrispondere gli interessi in maniera uniforme per tutta la durata del rapporto, indipendentemente dalla variazione dei tassi di mercato, che potrebbero sì diminuire (determinando così una situazione per lui svantaggiosa), ma potrebbero anche aumentare (procurandogli, al contrario, un beneficio) (106). In altri termini, il mutuatario che scelga il contratto a tasso fisso elimina ogni rischio ad esso relativo, ma rinuncia altresì a beneficiare di eventuali successive diminuzioni dei tassi di interesse. Oltretutto, la pretesa assimilazione della disciplina dei mutui a tasso fisso a quella concernente i mutui a tasso variabile creerebbe una situazione di disparità nei confronti dei sottoscrittori di questi ultimi (107). Pertanto, anche a prescindere dalla natura istantanea del reato, non appare plausibile ravvisare in capo al creditore un obbligo penalmente sanzionato di modifica del tasso ab origine lecito, che solo in seguito risulti superiore alla soglia limite dell’ultima rilevazione (108). In definitiva, sebbene la dottrina sul punto sia divisa e non si riscondell’iniziativa economica privata (art. 41, comma 1, Cost.), ‘‘a meno che non si voglia allargare a dismisura la tutela del debitore, con totale sacrificio delle ragioni e delle scelte imprenditoriali ed operative riferibili al creditore’’ (p. 154). (104) BELLACOSA, voce Usura, cit., p. 154. (105) A tale conclusione condurrebbe l’esigenza di protezione della parte economicamente più debole, alla quale il legislatore sembra aver assegnato una sorta di ‘‘ipertutela’’: v. MUCCIARELLI, op. cit., p. 545. L’A. individua peraltro gli effetti negativi cui condurrebbe una simile situazione, consistenti nel prevedibile rifiuto di concessione del credito da parte degli operatori finanziari più oculati proprio ai soggetti economicamente più esposti. Critica relativamente ad una lettura della normativa in chiave vittimo-dommatica MASULLO, Usura e permanenza, cit., p. 548. (106) Cfr. Proc. Rep. Trib. Torino, 27 novembre 1998, cit. Nello stesso senso VAIRO, op. cit., p. 443. (107) La disparità deriverebbe dalla circostanza che i sottoscrittori di ‘‘mutui a tasso fisso, a fronte del vantaggio di non subire aumenti connessi ad un’elevazione dei tassi di interesse godrebbero del vantaggio di vedersi riconosciute diminuzioni in caso di abbassamento dei tassi, qualora essi fossero superiori ai limiti massimi previsti dal Ministero del tesoro; insomma il sottoscrittore a tasso fisso avrebbe lo stesso vantaggio, ma non i rischi del sottoscrittore a tasso variabile’’: così Proc. Rep. Trib. Torino, 27 novembre 1998, cit. Tale preoccupazione è condivisa, ma solo in parte, da PISA, La configurabilità, cit., p. 748. (108) In questo senso DE VERO, op. cit., p. 18; BELLACOSA, voce Usura, cit., p. 154.
— 812 — trino ancora pronunce giurisprudenziali edite, sembra potersi affermare la legittimità e la doverosità della rinegoziazione soltanto nella sfera civilistica (109). Passiamo ora a considerare l’ipotesi in cui la misura degli interessi, originariamente eccedente il limite legale vigente al momento dell’accordo, diventi successivamente lecita, a causa di una variazione in aumento del limite medesimo. Tale questione va affrontata nell’ambito della più generale tematica della applicabilità (o meno) del principio di retroattività della legge più favorevole in caso di successione di norme integratrici della fattispecie. Sia in dottrina che in giurisprudenza si riscontrano impostazioni divergenti. Secondo l’opinione prevalente, le ipotesi in esame sfuggirebbero alla sfera di operatività dell’art. 2 c.p. La condotta manterrebbe così il suo carattere delittuoso, poiché in caso di successione di leggi soltanto richiamate da elementi normativi della fattispecie incriminatrice, la nuova norma non introduce una diversa valutazione della fattispecie medesima, la quale conserva il suo disvalore penale astratto (110). Tra coloro che aderiscono a tale orientamento restrittivo taluno perviene però ad una diversa conclusione quando si tratti di una norma penale in bianco, poiché con riferimento ad essa una variazione di contenuto della disposizione integratrice comporterebbe un differente giudizio di disvalore astratto, stante che la norma integratrice concorre a delineare la figura di illecito (111). Vero questo, è però ancora da verificare se l’usura presenti i contrassegni tipici della norma penale in bianco. Quest’ultima si ritiene tradizionalmente caratterizzata — come si è sopra ricordato — da un precetto molto generico, il cui contenuto concreto viene interamente o parzialmente, ma pur sempre significativamente, specificato da un’altra fonte, la (109) Anche in ambito civilistico la questione della rinegoziazione va, invero, esaminata alla luce dei principi generali della materia contrattuale, in virtù dei quali il mutamento delle condizioni del mercato, tale da rendere esorbitante la natura degli interessi convenuti in una diversa situazione economica, non può incidere sul vincolo contrattuale, se non quando siano integrati gli estremi dell’eccessiva onerosità sopravvenuta: sul punto si rinvia a PALMIERI, Usura e sanzioni civili: un meccanismo già usurato?, in Foro it., 1998, I, p. 1611 s. e bibliografia ivi citata. (110) Cfr. GROSSO, Successione di norme integratrici di legge penale e successione di leggi penali, in questa Rivista, 1960, p. 1206 ss.; PULITANÒ, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976; ROMANO, op. cit., p. 55, n. 9-11, cui si rinvia per ulteriori indicazioni bibliografiche. Contra, PODO, voce Successione di leggi penali, in Noviss. Dig. it., XVIII, Torino, 1971, p. 657 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 82 s. (111) Così lo stesso ROMANO, op. cit., p. 56, n. 12.
— 813 — quale pertanto individua anche le modalità di aggressione al bene protetto (112). Ora, a ben guardare, si rileva agevolmente come nel delitto di usura la norma integratrice, cioè l’atto amministrativo, si limiti a quantificare l’interesse usurario, già compiutamente descritto dalla disposizione incriminatrice. La figura de qua, in altri termini, descrive in modo esauriente sia la condotta tipica che le modalità di aggressione, e attribuisce alla fonte subordinata il mero compito di specificare il limite di usurarietà in funzione delle condizioni di mercato (113). Di conseguenza, le periodiche variazioni del tasso soglia mediante atti amministrativi non varrebbero come successione di leggi penali ai sensi dell’art. 2 c.p. (114), e una futura determinazione di tale soglia non avrebbe alcuna efficacia retroattiva rispetto alla condotta glà realizzata, non incidendo sul disvalore del fatto né sulla struttura della fattispecie (115). Alle medesime conclusioni, peraltro, perviene altresì chi attribuisce alla nuova fattispecie la natura di norma penale in bianco. ‘‘In tutti i casi di variazione dei tassi non sembra che si possa fondatamente parlare di un fenomeno successorio [...] perché è la stessa legge ad escludere questa evenienza. Se, insomma, con l’art. 2 l. n. 108/1996 cit. si prevedono i modi e le cadenze degli atti normativi subordinati che consentono di ritenere integrato il fondamentale elemento costitutivo della fattispecie (l’usurarietà del tasso contrattualmente definito) attraverso un richiamo che non implica una ‘successione’ tra i vari decreti ministeriali [...], parrebbe evidente che la fonte normativa subordinata richiamata dalla norma incriminatrice non è questo o quell’atto amministrativo, bensì tutti i decreti in questione, i quali, pertanto, non si ‘succedono’ in senso proprio con effetto abrogativo del primo rispetto al precedente’’ (116). Un’ulteriore causa di modificazione della soglia dell’usurarietà può verificarsi quando al momento della stipula l’operazione posta in essere, non essendo espressamente classificata, trovi collocazione in via interpretativa in una delle categorie omogenee indicate dal decreto ministeriale, ma, successivamente, una espressa classificazione della stessa operazione o un mutamento della precedente classificazione, cui corrisponda il riferi(112) La definizione di norma penale in bianco è, in verità, controversa. Per una sintesi dei diversi orientamenti v. ROMANO, op. cit., p. 37 s., n. 20 ss. (113) Particolarmente chiara sul punto, anche sotto il profilo dei rapporti tra le nuove fattispecie di usura e il principio della riserva di legge, l’analisi di MUCCIARELLI, op. cit., p. 546 ss. Contra, NAVAZIO, op. cit., p. 185 s. (114) La precisazione è di PEDRAZZI, op. cit., p. 667. (115) Cfr. MUCCIARELLI, op. cit., p. 547. (116) Così, testualmente, MANZIONE, op. cit., p. 46 s.
— 814 — mento ad un differente tasso effettivo globale medio, comporti il superamento del limite dell’usurarietà o la discesa al di sotto di tale soglia (117). Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, secondo le quali la rilevanza penale del fatto dipende dal valore vigente al momento della stipulazione, è del tutto consequenziale ritenere anche in questi casi che il fatto manterrà comunque la natura, lecita o illecita, derivante dalla collocazione attribuitale al tempo della conclusione del rapporto creditizio. 7. (Segue): b) successione nel tempo delle fattispecie penali di usura. — Sempre in tema di diritto intertemporale si pone la complessa questione del rapporto tra le precedenti e le attuali fattispecie di usura (118). Più specificamente, ci si riferisce alla sorte dei contratti finanziari stipulati prima dell’entrata in vigore della l. n. 108/1996 e ancora in essere a tale momento, stante che, a differenza del sistema francese cui si ispira, la novella non detta a tal proposito alcuna regola (119). Per quanto attiene agli episodi controversi, si possono enucleare tre diverse situazioni: la prima coincide con le operazioni lecite alla stipula, (117) Questa ipotesi di modificazione del limite dell’usurarietà dell’interesse è evidenziata da MUCCIARELLI, op. cit., p. 543, il quale però non la prende espressamente in esame. (118) La l. 7 agosto 1992, n. 356, avendo elevato, con l’art. 11-quinquies, comma 1, a cinque anni di reclusione la pena massima per l’originario delitto di usura, aveva già posto problemi di successione di leggi sotto il profilo sia sostanziale che processuale, ma di più agevole soluzione rispetto a quelli causati dalle ben più incisive modifiche apportate alla pregressa disciplina dalla novella del 1996. La giurisprudenza, in diverse occasioni, si è pronunciata a favore dell’applicabilità dell’art. 2 c.p. V., per tutte, Cass., Sez. I, 8 giugno 1993, in C.E.D. Cassazione, n. 194240, secondo la quale ‘‘l’art. 11-quinquies, comma 1, l. 7 agosto 1992, n. 356, che ha modificato l’art. 644 c.p. prevedendo pene più elevate per il delitto di usura, va qualificato come norma avente natura sostanziale, pur se comporta l’effetto processuale riflesso della modifica della competenza a conoscere del detto reato in quanto introduttivo di un più elevato limite edittale della pena detentiva, superante quello fissato per la competenza del Pretore dall’art. 7 c.p.p. Ne deriva che per i fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore della suddetta norma continuano ad applicarsi, in virtù del disposto dell’art. 2 c.p. (che non consente retroattività a norme sostanziali meno favorevoli per l’imputato di quanto lo fossero quelle precedenti), i precedenti limiti di pena, e, conseguentemente la competenza a conoscere degli stessi continua a spettare al Pretore’’. (119) L’art. 3 l. n. 108 del 1996 contiene una norma di natura temporanea, applicabile ai fatti di usura e di mediazione usuraria commessi nel periodo (di circa un anno) compreso tra l’entrata in vigore della legge medesima e la pubblicazione della prima rilevazione trimestrale del tasso medio bancario. La struttura di tale disposizione appare ricalcata sull’ipotesi residuale di usura, basata com’è sui requisiti della sproporzione tra le prestazioni e dello stato di difficoltà economica o finanziaria della vittima. Per il suo carattere temporaneo (e non transitorio, come la definisce MANNA, op. cit., p. 80 ss.; per l’obiezione v. MARINI, Delitti, cit., p. 511), l’art. 3 l. n. 108 del 1996 non è assoggettabile alla disciplina dell’art. 2 c.p., stante il dettato del suo comma 4. Contra, PADOVANI, op. cit., p. XI, secondo il quale si tratta ‘‘di una una norma a carattere provvisorio, in quanto tale pienamente inserita nell’orbita della successione di leggi penali’’. Per le valutazioni tecniche sulla norma in oggetto v. MUCCIARELLI, op. cit., p. 549 ss.
— 815 — illecite in fase di percezione dei ratei; la seconda riguarda le condotte già definibili usurarie prima della riforma; la terza concerne i fatti di non chiara rilevanza penale in base alla vecchia normativa, a causa della già sottolineata indeterminatezza. Preliminarmente è opportuno precisare come la soluzione della questione de qua, nel suo complesso, non risulti ovviamente condizionata, a differenza della precedente (120), dalla natura istantanea o permanente che si ritenga di dover riconoscere all’attuale delitto di usura (121). Di agevole definizione appare il primo dei casi sopra indicati: rispetto ad una pattuizione lecita secondo i parametri normativi anteriori alla l. n. 108/1996 (per esempio, un prestito ad alto rischio legato a finalità speculative o ad esigenze voluttuarie), ma usuraria in base al dettato di quest’ultima durante il vigore della quale sia ancora in pieno svolgimento, non sarebbero applicabili né le vecchie disposizioni incriminatrici, cui il fatto non era riconducibile, né le nuove fattispecie di usura, queste dando vita, rispetto a quell’accordo, ad un fenomeno comunemente detto di nuova incriminazione (art. 2, comma 1, c.p.), con conseguente irretroattività della più recente disciplina (122). Né, per gli stessi motivi, è configurabile in capo al creditore un obbligo penale di adeguare al vigente tassosoglia l’interesse pattuito. Va detto, tuttavia, che la giurisprudenza finora nota sul punto si è mostrata di diverso avviso, o meglio, ha esibito una tale varietà di soluzioni, accomunate peraltro da una interpretazione conservativa del contratto (in aperto contrasto col nuovo disposto dell’art. 1815, comma 2, c.c.), da lasciare alquanto disorientati. La prima sentenza di merito emessa sull’argomento, di poco successiva alla riforma, opta chiaramente per la retroattività delle nuove disposizioni, affermando che ‘‘nel reato di usura l’individuazione del limite usurario può essere effettuata, alla stregua dei criteri indicati nella nuova l. n. 108 del 7 marzo 1996, con riferimento all’aumento della metà del tasso effettivo globale medio praticato all’epoca cui si riferiscono i fatti conte(120) V., supra, n. 6. (121) Riguardo la natura giuridica dell’usura v., supra, n. 5. Secondo FIADINO, op. cit., p. 367 ss., si sarebbe potuto applicare la l. n. 108 del 1996 ai fatti pregressi solo ove il precedente delitto di usura avesse integrato il modulo tipico del reato permanente. Tale affermazione, tuttavia, si scontra con le diffierenziate soluzioni dottrinali in punto di individuazione del tempus commissi delicti per i reati c.d. di durata: v., per tutti, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 91, i quali, in linea con l’orientamento minoritario, individuano il tempo del commesso reato nel primo atto che dà avvio alla consumazione del reato permanente. (122) Così VAIRO, op. cit., p. 444 s.
— 816 — stati, anche se precedenti all’entrata in vigore della legge predetta’’ (123) (124). Nella stessa direzione sembra orientata altresì quella pronuncia che, dopo aver ammesso l’efficacia retroattiva della legge in esame e la nullità della clausola contemplante interessi usurari, in termini tutt’altro che consequenziali, statuisce che ‘‘gli interessi devono essere corrisposti nella misura legale’’ a decorrere dalla data di stipulazione del contratto (risalente, nel caso di specie, nientemeno che al 4 ottobre 1990!) (125). Riconosce, più plausibilmente, la maggiore ampiezza della nuova descrizione penale dell’usura una ulteriore sentenza di merito, la quale coerentemente con tale premessa statuisce che ‘‘la precedente pattuizione, in quanto intervenuta prima dell’entrata in vigore della l. n. 108/1996, non può considerarsi penalmente rilevante per il solo fatto della previsione del tasso ultralegale superiore alla soglia successivamente introdotta, dato il principio costituzionale di irretroattività della norma penale’’ e che ‘‘gli interessi bancari pattuiti prima dell’entrata in vigore della legge c.d. antiusura, benché usurari secondo la nuova disciplina perché superiori al tasso soglia aumentato della metà, vanno corrisposti nella misura convenzionale’’, ma soltanto ‘‘fino al momento di entrata in vigore della legge’’ (126). Quest’ultimo assunto non può condividersi, operando una indebita scissione tra l’iniziale pattuizione e le prime dazioni di interessi, da un lato, e le successive consegne, dall’altro (127). Ed ancora, come può attribuirsi rilevanza penale all’effetto di una condotta lecita (128)? Peraltro è evidente, e altresì inspiegabile sotto il profilo giuridico, come, anziché dichiarare la nullità della clausola usuraria eliminando l’obbligo di corrispondere qualunque tipo di interessi, si imponga alla vittima di consegnare interessi pari alla misura del tasso soglia, cioè al limite della legalità (129). Perfettamente in linea con l’opzione qui preferita, la più recente giu(123) Il corsivo è nostro. (124) Trib. Lanciano, 29 maggio 1996, in Cass. pen., 1996, p. 3802. (125) Trib. Milano, 13 novembre 1997, in Banca, borsa, tit. cred., 1998, p. 501. Giustamente critici verso tale soluzione CARBONE, op. cit., p. 437 s.; FIADINO, op. cit., p. 382 ss. (126) Così Trib. Velletri, ord. 3 dicembre 1997, in Corr. giur., 1998, p. 192, in Banca, borsa, tit. cred., 1998, p. 501 e in Foro it., 1998, I, 1607. (127) Cfr. sul punto i rilievi mossi da FIADINO, op. cit., p. 375 s. (128) V. SEVERINO DI BENEDETTO, op. cit., p. 530. (129) Così, ancora, FIADINO, op. cit., p. 381. Nel senso dell’ordinanza 3 dicembre 1997 del Tribunale di Velletri anche un’altra ordinanza emessa qualche mese dopo dallo stesso organo giudicante, secondo la quale ‘‘È valida la clausola, contenuta in un contratto di mutuo ipotecario stipulato anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 108 del 1996, con la quale siano stati convenuti interessi in misura superiore al c.d. tasso di soglia vigente al momento della decisione; tuttavia, in applicazione dei criteri ermeneutici della conservazione del contratto e della buona fede, gli interessi maturati in epoca successiva alla definizione
— 817 — risprudenza ha affermato che ‘‘gli interessi pattuiti prima dell’entrata in vigore della l. n. 108 del 7 marzo 1996, benché superiori all’attuale tasso usurario (tasso globale medio, aumentato della metà), sono comunque corrisposti legittimamente nella misura originariamente concordata’’ (130). Diversa è, chiaramente, la posizione delle condotte già definibili usurarie durante la pregressa disciplina, relativamente alle quali si delinea il noto fenomeno delle modificazioni ‘‘immediate’’ della fattispecie punibile (131). In esso, in generale, si collocano sia situazioni di abrogazione di precedenti incriminazioni e contestuale creazione di illeciti penali nuovi (differenti cioè tanto dai vecchi, che hanno riformulato, quanto da tutte le altre figure di reato già intranee al quadro di vita in questione), sia casi di ‘‘sostituzione’’, risolventisi in vere e proprie successioni tra fattispecie incriminatrici (132). Quale delle due ipotesi sia integrata dal caso in esame, costituito dall’abrogazione (di fatto, per quanto riguarda l’art. 644; espressa, relativamente all’art. 644-bis) di due norme incriminatrici e dalla contestuale introduzione di una disposizione ‘‘sostitutiva’’ (contenente due figure di usura, quella principale e quella sussidiaria), solo in parte diversa da entrambe le precedenti, è interrogativo di non facile soluzione (133). Sul piano dogmatico, si sa, le difficoltà relative alla distinzione tra vera e propria innovazione normativa e semplice modifica della fattispecie incriminatrice sono affrontate sia dalla tesi della ‘‘continuità del tipo di illecito’’ (134), sia da quella della ‘‘piena continenza’’ (135). della soglia usuraria devono essere ridotti al tasso massimo consentito’’: Trib. Velletri, ord. 30 aprile 1998, in Foro it., 1998, I, p. 1607. (130) Trib. Roma, ord. 4 giugno 1998, in Banca, borsa, tit. cred., 1998, p. 501. (131) In argomento v. PADOVANI, Tipicità e successione di leggi penali. La modificazione legislativa degli elementi della fattispecie incriminatrice o della sua sfera di applicazione, nell’ambito dell’art. 2, comma 2 e 3, c.p., in questa Rivista, 1982, p. 1356 ss.; SIRACUSANO, Irretroattività delle leggi penali, Messina, 1988, p. 32 ss. Che non si tratti di una semplice ‘‘modifica mediata’’ è sostenuto, altresì, da FIADINO, op. cit., p. 360. (132) ‘‘Sovente avviene [...] che la legge penale posteriore ripeta, in misura più o meno estesa, e/o con modalità più o meno esplicite, lo schema descrittivo di una (o più) fattispecie criminosa già inserita nel sistema. Anche in questi casi si distinguono da un lato situazioni-tipo di nuova incriminazione in senso stretto e dall’altro situazioni di (non solo apparente, ma) effettiva ‘ripetizione’ ’’: v., anche per le esemplificazioni, SIRACUSANO, op. cit., p. 32 ss. (133) Secondo FIADINO, op. cit., p. 364, si tratta senz’altro di successione di norme modificatrici in senso peggiorativo, e non di abrogazione seguita da nuova incriminazione. (134) In sintesi, il criterio della continuità del tipo di illecito — com’è noto — presuppone, perché si riscontri successione modificatrice, un’identità strutturale tra la vecchia e la nuova fattispecie, sia sotto il profilo del bene giuridico tutelato che sotto quello delle modalità di aggressione. Per un quadro riassuntivo di questa impostazione, ampiamente sostenuta dalla dottrina tedesca, v. ROMANO, op. cit., p. 57 ss., n. 14 ss.; PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1360 ss. (135) Tale criterio, sostenuto da un diverso settore della dottrina tedesca, e condi-
— 818 — Ponendo a confronto, in primo luogo, le abrogate disposizioni incriminatrici (artt. 644 e 644-bis c.p.) con l’attuale figura, principale, di usura (art. 644, commi 1 e 3, c.p., in combinazione con l’art. 2 l. n. 108/1996), si rileva — come già evidenziato — un ampliamento dell’ambito operativo dell’illecito, ma altresì una sostanziale omogeneità normativa della condotta (136). Applicando, pertanto, il criterio della continuità del tipo di illecito, la situazione in esame dovrebbe essere ricondotta alla successione meramente modificativa di leggi penali, di cui all’art. 2, comma 3, c.p., con conseguente ultrattività della disposizione più favorevole al reo. Ma, come precisa autorevole dottrina, ‘‘l’omogeneità normativa della condotta, se è requisito necessario, non è tuttavia sufficiente a concludere per la successione di leggi. Infatti, se gli elementi ulteriori della fattispecie risultano eterogenei, e cioè non identici e non riducibili l’uno all’altro sul piano del rapporto da generale a speciale o viceversa, la legge successiva viso da una parte della dottrina italiana, ‘‘verifica la continuità o meno delle due fattispecie sul piano delle loro relazioni strutturali, ammettendola solo nel caso in cui in definitiva la relazione di genere a specie assicuri un rapporto di logica ‘contenenza’ ’’: così PALAZZO, voce Legge penale, in Dig. Disc. pen., VII, Torino, 1993, p. 366. Sul punto v., altresì, CAMAIONI, Specialità ed interferenza: appunti sulla comparazione strutturale delle fattispecie nel concorso e nella successione di norme penali, in Giust. pen., 1992, II, p. 243; PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1363 ss. Taluno, per evitare eccessive limitazioni alle potenzialità applicative del ‘‘rapporto di continenza’’, estende l’operatività dell’art. 2, comma 3, c.p. (successione modificatrice) anche ai casi in cui la norma successiva ampli il contenuto di una precedente più specifica: così PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1364 s.; ID., Diritto penale, 5a ed., Milano, 1999, p. 53 s.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 77 ss. La questione relativa all’individuazione delle ipotesi riconducibili al comma 2 e di quelle rientranti nel comma 3 dell’art. 2 c.p. presenta connotati di complessità tali da non consentirne la trattazione nel contesto del presente lavoro, travalicandone i limiti. Si rinvia, pertanto, a GROSSO, Successione, cit., p. 1210 ss.; SINISCALCO, Irretroattività delle leggi in materia penale, Milano, 1969; PODO, op. cit., p. 643 ss.; ID., voce Successione di leggi penali, in Noviss. Dig. it., Appendice, VII, Torino, 1987, p. 611 ss.; PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1354 ss.; SEVERINO DI BENEDETTO, voce Successione di leggi penali nel tempo, in Enc. giur., XXX, Roma, 1988, p. 5 s.; PALAZZO, op. cit., p. 366 s.; CAMAIONI, Successione di norme penali, in Studium iuris, 1997, p. 1207 ss.; DEL CORSO, voce Successione di leggi penali, in Dig. Disc. pen., XIV, Torino, 1999, p. 82 ss. ‘‘Il problema non [ha] nemmeno ragione di porsi allorché le due fattispecie prevedano condotte tipiche eterogenee, incentrate cioè su comportamenti strutturalmente non assimilabili’’, nel qual caso è agevole individuare una nuova incriminazione in senso stretto: v. PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1369; SIRACUSANO, op. cit., p. 31 ss. (136) Contra, BELLACOSA, voce Usura, cit., p. 155, secondo il quale la predeterminazione legislativa del tasso-soglia, previsto ex novo dall’art. 644, commi 1 e 3, c.p., ‘‘mette invece in luce una disomogeneità e ‘frattura’ degli elementi costitutivi delle fattispecie astratte’’, dando quindi luogo ad un fenomeno di nuova incriminazione. Analogamente CERASE, op. cit., p. 2599.
— 819 — prevede un fatto che come tale non può mai essere ricondotto alla disposizione abrogata’’ (137). Invero, la nuova fattispecie sembrerebbe segnare il passaggio da una norma speciale, incentrata — oltre che sulla promessa o dazione di interessi usurari — anche sull’approfittamento dell’altrui stato di bisogno o, nell’ipotesi di usura impropria, delle condizioni di difficoltà economica o finanziaria, ad una norma generale, che prescinde del tutto da questi presupposti specifici, imperniata interamente sulla sproporzione tra le prestazioni. Ed allora, anche sotto il profilo del rapporto di continenza, nessun dubbio dovrebbe residuare relativamente alla riconducibilità della situazione de qua alla vera e propria successione di leggi (art. 2, comma 3, c.p.) (138): la nuova fattispecie, essendo di più ampia portata, stante la sua collocazione, rispetto alla precedente, in una dimensione generale, ricomprende necessariamente il contenuto tipico della sostituita figura incriminatrice. Ora, nel caso in esame, la questione dei rapporti strutturali non può essere chiarita assumendo come riferimento i concetti di norma generale e di norma speciale, in quanto è del tutto evidente che, rimasto invariato il nucleo duro dell’illecito (‘‘farsi dare o promettere interessi o altri vantaggi usurari’’), alcuni elementi specializzanti del vecchio art. 644 (‘‘stato di bisogno’’, ‘‘approfittamento’’) non sono stati riproposti nella nuova stesura dello stesso, il quale ne contempla altri, diversi, anch’essi specifici (‘‘altra utilità’’, ‘‘interesse usurario legalmente determinato’’). Ed anche sotto il profilo della collocazione sistematica, non può dirsi certo risolutiva la constatazione che la stessa sia rimasta invariata, dati i già esposti rilievi in ordine al mutamento riscontrato nell’oggettività giuridica dell’usura in seguito alla riforma del 1996 (139). Si profila, in tal modo, una sorta di ‘‘specialità reciproca o bilaterale’’, che non consente di confermare l’esistenza di un rapporto di successione modificativa, bensì di nuova incriminazione (art. 2, comma 1, c.p.), con conseguente irretroattività della più recente disposizione (140). Ciò non significa, evidentemente, che i fatti di usura commessi durante la pregressa disciplina abbiano perso, in virtù delle ultime modifiche normative, la propria rilevanza penale. Dal confronto dell’originario art. 644 e dell’abrogato art. 644-bis c.p., da un lato, con la figura sussidiaria (137) Così PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1370. (138) Afferma la sussistenza di un rapporto di specialità tra il vecchio e il nuovo art. 644 c.p., ravvisando nel caso in esame una successione di norme modificatrici in senso peggiorativo, FIADINO, op. cit., p. 364. (139) V., supra, n. 2. (140) Alle stesse conclusioni perviene altresì BELLACOSA, voce Usura, cit., p. 155.
— 820 — di usura, dall’altro, emerge infatti una identità, o meglio una continuità strutturale tra vecchie e nuova fattispecie (141). Quest’ultima mantiene la stessa condotta esecutiva di base (richiamando implicitamente il ‘‘farsi dare o promettere’’) e, inoltre, precisa il carattere usurario degli interessi adottando una definizione simile a (più severa di) quella spesso utilizzata da dottrina e giurisprudenza durante la vigenza dell’abrogata normativa. Infine, pur non riproponendo il riferimento al requisito dell’approfittamento, la fattispecie residuale di usura ripresenta l’elemento costitutivo delle condizioni di difficoltà economica o finanziaria della vittima, già utilizzato dall’abolito art. 644-bis, ma non anche la delimitazione dei soggetti passivi (ora chiunque, prima soltanto chi svolgesse un’attività imprenditoriale o professionale). Sembra, in definitiva, che tra i vecchi artt. 644-644-bis c.p. e il nuovo art. 644, comma 3, seconda parte, c.p., si riscontri un caso di vera e propria successione di leggi penali (142). Non si giunge, peraltro, alla stessa conclusione ricorrendo al diverso criterio della continenza, poiché anche in questo caso emerge dal raffronto tra le figure criminose ‘‘sostituite’’ e la fattispecie sussidiaria un’ipotesi di ‘‘specialità reciproca o bilaterale’’ (143). La precisazione della possibile natura usuraria degli interessi anche se inferiori al limite legale di cui al comma 1 del nuovo art. 644, purché in presenza di determinati requisiti, rende l’attuale disposizione speciale rispetto all’abrogata usura impropria; sebbene, poi, l’eliminazione dell’elemento dell’approfittamento dello stato di bisogno della vittima e la possibilità che questa sia chiunque, sembri ampliarne l’ambito operativo. E quando una disposizione venga sostituita da un’altra di più ampia formulazione, è possibile incorrere nell’elusione del divieto di retroattività applicando entrambe le regole citate (144). Il problema si complica ulteriormente con riguardo al terzo dei casi sopra elencati, quello cioè dei fatti di dubbia illiceità già prima della l. n. 108/1996. Va infatti ricordato quanta incertezza regnasse nella giurisprudenza, prima della novella del 1996, riguardo la determinazione del tasso (141) Cfr. BELLACOSA, voce Usura, cit., p. 154 s. (142) Sebbene nel caso in esame viene in rilievo non la complessiva struttura della fattispecie, ma di un suo elemento normativo, l’usurarietà, la cui determinazione è ora rimessa alla legge (integrata dal già esposto procedimento amministrativo). Come si sa, tuttavia, anche relativamente alla possibilità che le modifiche mediate diano luogo ad un fenomeno successorio non si riscontra in dottrina uniformità di vedute: in proposito v., supra, n. 6. (143) Per FIADINO, op. cit., p. 364 s., in questo caso si verificherebbe una situazione di specificazione in negativo. (144) V., in tal senso, LA SPINA, nota a Pret. Cagliari, 16 settembre 1996, in Foro it., 1997, p. 804.
— 821 — di interesse oltre il quale l’operazione veniva ritenuta usuraria. In altri termini, le oscillazioni caratterizzanti l’individuazione della portata applicativa delle vecchie fattispecie di usura, da un lato, e l’attuale presenza di criteri di calcolo ben determinati, dall’altro, comportano ora il rischio di assoggettare a sanzione condotte di non chiara rilevanza penale al tempo in cui furono poste in essere. Potrebbe a questo punto venire in soccorso all’interprete, privo di preconcetti, un ulteriore criterio, quello del fatto concreto, dominante in giurisprudenza (145) e sostenuto da autorevole dottrina (146), il quale sembra invero il più idoneo a risolvere equamente le situazioni caratterizzate dalla sostituzione di una disposizione incriminatrice con un’altra di più ampia formulazione. Il criterio in questione si fonda sul riferimento al fatto commesso, per cui se quest’ultimo, ‘‘nella parte in cui è portatore delle ragioni della illiceità penale, costituisce reato sia per la legge precedente, sia per la legge successiva (non ha importanza la diversità di qualche elemento tra le due incriminazioni; tanto meno, ha importanza una eventuale diversità di nomen juris tra i due reati), il fatto seguita a costituire reato, e sarà applicabile la legge più favorevole al reo’’ (147). La preferenza che qui pare di potere accordare a tale ultimo criterio deriva dalla constatazione che la sola analisi del rapporto logico-formale tra le disposizioni a confronto, privando di rilievo le peculiarità della condotta concreta dell’imputato, comporta il rischio di irrogare la sanzione per un comportamento non (chiaramente) illecito al tempo della sua realizzazione (148). Sicchè, per quanto vi si possa obiettare di far dipendere la soluzione della questione ‘‘da fattori casuali o fortuiti’’ (149), il criterio del fatto concreto appare più opportuno per le maggiori garanzie che esso offre sul piano del favor libertatis rispetto agli altri due, entrambi evidenzianti, in casi come quello in esame, l’effettivo rischio di violare il divieto di retroattività delle norme incriminatrici (150). (145) Cfr., per tutte, Cass., Sez. V, 30 maggio 1990, in Riv. pen. econ., 1990, pp. 336 e 343 s. (146) In questa prospettiva, da ultimo, PAGLIARO, La legge penale tra irretroattività e retroattività, in Giust. pen., 1991, II, p. 1 ss.; ID., Principi, cit., p. 116 s.; MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 122 s. (147) PAGLIARO, Principi, cit., p. 116. (148) Per questa obiezione al criterio della continenza cfr. LA SPINA, op. cit., p. 804. Sembra orientato verso l’adozione del criterio del fatto concreto, altresì, PROSDOCIMI, La nuova disciplina, cit., p. 778. (149) Così FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 78, nt. 89. (150) Osserva PALAZZO, op. cit., p. 367, come i due criteri della punibilità del fatto concreto e dell’identità del disvalore astratto (quest’ultimo sostanzialmente coincidente con quello della continuità del tipo di illecito) sembrino rispondere a due fondamenti diversi.
— 822 — Né pare decisiva l’osservazione critica secondo la quale ‘‘la pretesa successione stimata in rapporto esclusivo al fatto in concreto si baserebbe sull’attribuzione di rilevanza penale ad elementi che in precedenza non l’avevano affatto, e cioè, in buona sostanza, sull’applicazione retroattiva di una fattispecie incriminatrice, in patente contrasto con l’art. 25, comma 2, Cost.’’ (151), poiché nell’ipotesi de qua — come si è visto — vale esattamente la considerazione opposta. Riassumendo, sembra insomma di poter dire che la novella del 1996 non ha provocato alcun effetto abrogativo vero e proprio; né un fenomeno tout court di nuova incriminazione. Essa sembra piuttosto aver prodotto incisivi effetti modificativi con più o meno rilevanti ampliamenti dell’operatività di incriminazioni già esistenti, ma il cui contenuto precettivo non era in passato esattamente determinato. Pertanto, al fine di evitare le paventate elusioni del divieto di retroattività, che comunque si celano tra le maglie delle nuove disposizioni, sarebbe opportuno valutare il saggio d’interesse delle operazioni realizzate precedentemente, sotto il vigore della vecchia disciplina, prescindendo dalle recenti scelte legislative, e, se ritenuto integrante già allora gli estremi del reato di usura, applicarvi la norma pregressa, in quanto più favorevole (152). TIZIANA VITARELLI Ricercatore di diritto penale nell’Università di Messina
‘‘Mentre il primo pare ispirato ad una ratio di integrale e per così dire ‘formale’ garanzia del cittadino, imperniato com’è unicamente sul risultato della punibilità indipendentemente da qualsiasi difficile e incerta analisi sulla continuità delle valutazioni legislative; il secondo, col suo fare riferimento alla sostanziale identità del disvalore, sembra maggiormente ispirato ad esigenze funzionali dell’ordinamento’’. (151) L’obiezione è di PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1360. Conformemente SEVERINO DI BENEDETTO, voce Successione, cit., p. 5. (152) In questa direzione sembra orientata la giurisprudenza successiva alla riforma, quando afferma che ‘‘pur non essendo direttamente applicabili i criteri introdotti dalla l. 7 marzo 1996, n. 108, segnatamente quello del tasso effettivo globale aumentato della metà, ai fatti realizzati precedentemente alla sua introduzione, tuttavia va considerato usurario un tasso d’interesse pari all’incirca al triplo del tasso bancario debitore medio praticato sulla piazza locale nello stesso periodo in cui è stata realizzata l’operazione di finanziamento’’: così Pret. Cagliari, 16 settembre 1996, cit.
LA RIFORMA DEL CODICE PENALE
RIFORMA DELLA PARTE GENERALE DEL CODICE E RIFONDAZIONE DEL SISTEMA SANZIONATORIO PENALE (*)
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Gli obiettivi della riforma. — 3. Le pene detentive. — 4. Le pene pecuniarie: struttura, rapporti con la sospensione condizionale e conversione. — 5. La detenzione domiciliare. — 6. Le pene interdittive. — 7. Le pene sostitutive. — 8. Le misure alternative. — 9. La sospensione condizionale: contenuti, tipologie sanzionatorie interessate, limiti oggettivi di applicabilità. — 10. La commisurazione della pena. — 11. Conclusioni.
1. Una breve premessa. Già in un’altra occasione ‘pubblica’ ho esposto qualche riflessione sulle linee tracciate dal Progetto Grosso per la riforma del sistema sanzionatorio penale: mi riferisco al XXIII Convegno De Nicola, tenutosi nello scorso ottobre a Casarano e Gallipoli. Mi scuso dunque con chi ha avuto la ventura di ascoltarmi in quella sede, perché questa mia relazione prenderà le mosse da quella tenuta a Casarano; con l’aggravante che la trattazione odierna avrà un andamento più analitico; d’altra parte, affronterò alcuni temi non toccati allora e terrò conto di alcuni interventi successivi da parte della dottrina: in primo luogo, di alcuni spunti di discussione affiorati proprio nel corso del Convegno tenutosi in terra di Puglia. 2. La Relazione che accompagna il Progetto Grosso, dopo aver definito il sistema punitivo vigente come ‘‘ineffettivo e (là dove applicato) vessatorio’’, individua ‘‘giustizia e certezza della risposta al reato’’ quali ‘‘valori guida del sistema sanzionatorio’’ (1). In effetti si tratta di obiettivi (*) Si tratta del testo, integrato con le note, di una relazione tenuta al Convegno su La riforma del codice penale. La parte generale, Pavia, 10-12 maggio 2001. (1) Così Relazione al Progetto preliminare di riforma del codice penale, parte generale, presentato il 20 settembre 2000, 3.1. Il testo del Progetto può leggersi in www.giustizia.it. Il testo pubblicato in questa Rivista, supra, p. 574 ss., tiene conto, delle modifiche approvate dalla Commissione il 26 maggio 2001. La Relazione al Progetto preliminare può leggersi ivi, p. 575 ss., mentre per la Relazione sulle modifiche al Progetto approvate il 26 maggio 2001 cfr. ivi, p. 652 ss. Nel corso di questo saggio si farà riferimento tra parentesi quadre alla numerazione assunta dagli articoli del Progetto a seguito delle modificazioni appor-
— 824 — fondamentali della riforma, alla quale si chiede di ridare credibilità al sistema penale e nel contempo di segnare un definitivo distacco dal terrorismo ‘di facciata’ ereditato dal Codice Rocco (2). Il perseguimento di quegli obiettivi passa necessariamente attraverso un riordino complessivo dell’arsenale delle sanzioni penali, che deve riacquistare dignità di ‘sistema’: l’affastellarsi di riforme settoriali ha compromesso da decenni le più elementari esigenze di coordinamento, rendendo indecifrabili i rapporti tra le svariate tipologie di sanzioni penali oggi presenti nella nostra legislazione (3). Vedremo come il Progetto Grosso cerchi di mettere ordine in questo marasma. La mia analisi si snoderà per tipologie sanzionatorie. Tratterò in primo luogo delle pene principali: pene detentive, pene pecuniarie, detenzione domiciliare — assurta dal Progetto a nuova pena principale per i delitti —; quindi delle pene interdittive — previste quali pene principali o accessorie —, delle pene sostitutive e delle misure alternative alla detenzione. Tratterò anche della sospensione condizionale della pena, che solo formalmente oggi è collocata nel capitolo della punibilità, anziché in quello delle sanzioni. Concluderò la mia analisi con qualche considerazione sulla commisurazione della pena. 3. Un primo ordine di interventi, utile soprattutto ad arginare le spinte verso l’abbattimento dei livelli sanzionatori in sede giudiziale ed esecutiva, riguarda le comminatorie legali delle pene detentive: secondo tate il 26 maggio 2001; nella stessa forma si segnalerà la soppressione di alcune disposizioni presenti nella versione originaria del Progetto. (2) Cfr. da ultimo MARINUCCI, Il sistema sanzionatorio tra collasso e prospettive di riforma, in questa Rivista, 2000, p. 160 ss., nonché DOLCINI, Le misure alternative oggi: alternative alla detenzione o alternative alla pena?, ivi, 1999, p. 874 s. Sulla ‘‘brutalità dei livelli sanzionatori della parte speciale’’ del codice del 1930 e sulla ‘‘lunga risposta indulgenziale’’ che ne è seguita nella legislazione e nella prassi giurisprudenziale, v. inoltre MARINUCCI, Problemi della riforma del diritto penale in Italia, in MARINUCCI-DOLCINI (a cura di), Diritto penale in trasformazione, 1985, p. 350 s. Per analoghi rilievi, nel quadro di una acuta ricostruzione della situazione di crisi in cui versa il sistema penale italiano, cfr. PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, in questa Rivista, 1992, p. 419 ss. (3) Cfr. PALIERO, Metodologie de lege ferenda: per una riforma non improbabile del sistema sanzionatorio, in questa Rivista, 1992, p. 538 s., il quale rileva peraltro come ‘‘i problemi sistematici e di coordinamento delle figure ‘nuove’ rispetto ai ‘vecchi’ modelli sanzionatori’’ si siano in larga misura ‘‘autosuperati, per effetto di necrosi o di rigetto dei tessuti trapiantati’’, sottolineando come tra le nuove sanzioni prosperino soltanto quelle che nella sostanza sono non-sanzioni. Nell’ambito della Commissione Grosso la consapevolezza del carattere disorganico dell’attuale quadro normativo in tema di sanzioni penali e la necessità di superare radicalmente questa situazione è subito emersa nei lavori della Sottocommissione incaricata di affrontare il tema delle sanzioni: cfr. La riforma del sistema sanzionatorio, All. VII, in Doc. giust., 1999, c. 976.
— 825 — un’ineccepibile indicazione presente nella Relazione al Progetto Grosso, si impongono livelli massimi di pena più bassi e cornici più ristrette (4). Del tutto condivisibile appare poi la scelta del Progetto di abolire l’ergastolo (5), prevedendo al suo posto una pena detentiva di lunga durata — che il Progetto, all’art. 51 [49], designa come ‘‘reclusione speciale’’, fissandone l’ammontare tra venticinque e trent’anni (art. 53) [51] —. Questa soluzione potrebbe generare qualche iniziale disorientamento nell’opinione pubblica, ma è del tutto coerente con l’esigenza di salvaguardare la serietà delle comminatorie legali di pena. Dal catalogo delle pene detentive, il Progetto Grosso — riprendendo una soluzione già presente nel Progetto Riz del 1995, all’art. 10 (6) — elimina inoltre l’arresto, così da riservare alle contravvenzioni soltanto pene pecuniarie o interdittive (art. 52) [50]. Anche in questo caso, si tratta di una scelta razionale ed opportuna: contribuisce ad attuare l’idea della pena detentiva come ultima ratio e realizza tale obiettivo con il massimo di ‘economia’, senza cioè che si debba fare ricorso né alla sostituzione di pene detentive brevi né all’applicazione di misure alternative. Anche la scelta del Progetto (art. 98 ss.) [96] di prevedere tra le misure di sicurezza (ridenominate ‘‘misure di sicurezza e riabilitative’’) soltanto misure per soggetti non imputabili può essere letta, nella sostanza, come un ulteriore ridimensionamento del ruolo della pena privativa della (4) Cfr. altresì La riforma del sistema sanzionatorio, All. VII, cit., c. 976 ss. Sull’esigenza, correlata al principio costituzionale di legalità dei reati e delle pene, di cornici edittali ristrette, così da arginare il rischio che la predeterminazione legale della pena sia soltanto apparente e il potere discrezionale del giudice si tramuti in arbitrio, cfr. BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale, Nozione e aspetti costituzionali, 1965, rist. 2000, p. 361 s. Più recentemente, v. inoltre LICCI, Ragionevolezza e significatività come parametri della norma penale, 1989, p. 153 ss.; PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio, cit., p. 451 s.; GROSSO, Illegittimità costituzionale delle pene eccessivamente discrezionali, in questa Rivista, 1992, p. 1474 ss.; CORBETTA, La cornice edittale della pena e il sindacato di legittimità costituzionale, ivi, 1997, p. 148 ss. Nella manualistica, cfr. MARINUCCI-DOLa CINI, Corso di diritto penale, 3 ed., 2001, p. 230 s. A proposito dell’ordinamento spagnolo, e delle linee di politica sanzionatoria seguite dalla riforma del 1995, cfr. QUINTERO OLIVARES, Il codice penale spagnolo del 1995, in Il codice penale spagnolo, trad. it., 1997, p. 10: ‘‘Era assurdo minacciare pene di lunga durata che in nessun caso venivano eseguite. È meglio, perciò, ridurre la durata legale delle pene, ma far sì che essa corrisponda all’effettiva durata in una misura ragionevole’’. (5) Tra le voci favorevoli all’abolizione dell’ergastolo, cfr. fra gli altri FERRAJOLI, Ergastolo e diritti fondamentali, in Dei delitti e delle pene, 1992, p. 79 ss.; STELLA, Il problema della prevenzione della criminalità, in M. ROMANO-STELLA (a cura di), Teoria e prassi della prevenzione generale dei reati, 1980, p. 29. In senso opposto si pronuncia invece PADOVANI, La disintegrazione del sistema sanzionatorio, cit., p. 449. (6) Il testo del Progetto può leggersi in questa Rivista, 1995, p. 973 ss. Come si evince dalla Relazione (ivi, p. 928 ss.), l’abolizione dell’arresto nel Progetto Riz era stata suggerita da esigenze di deflazione penitenziaria, nonché dalla considerazione che sarebbe stato ‘‘anacronistico prevedere la detenzione in carcere per le contravvenzioni, quando nel contempo’’ si creavano ‘‘pene sostitutive al carcere per i delitti’’ (p. 940 s.).
— 826 — libertà personale: scompaiono, infatti, in particolare, le misure di sicurezza detentive oggi previste per i soggetti imputabili pericolosi, vere e proprie pene detentive indeterminate nel massimo e la cui applicazione risulta demandata ad un sovrano, insindacabile apprezzamento del giudice (7); anche se, come si sottolinea nella Relazione, si tratta di istituti non vitali nella prassi, almeno dal momento in cui sono state abolite le presunzioni legali di pericolosità: istituti dunque, per usare le parole della Relazione, che ‘‘uniscono una teorica potenzialità vessatoria a una pratica ineffettività’’ (8). 4. La riforma non potrà fare a meno di compiere ogni sforzo per valorizzare il ruolo della pena pecuniaria, la più classica e collaudata tra le pene non privative di libertà. Proprio perché il legislatore italiano da sempre utilizza questa sanzione con eccessiva parsimonia, se ne può attendere un contributo rilevantissimo alla restrizione dell’area attualmente occupata dalla pena detentiva (9). È vero che nell’ultimo decennio il ruolo della pena pecuniaria appare in costante incremento — le condanne alla sola multa sono passate dal 36,7% del totale delle condanne per delitto nel 1991 al 43,5% nel 1998 —, tuttavia è possibile e auspicabile andare oltre, come emerge da un confronto fra la situazione italiana e quella di altri ordinamenti prossimi al nostro: in Germania, ad esempio, a partire dagli anni settanta le condanne alla sola pena pecuniaria rappresentano oltre l’80% del totale delle condanne. Un confronto significativo, anche se inquinato dall’indisponibilità, per l’Italia, di dati che riguardino, accanto ai delitti, anche le contravvenzioni. 4.1. Quanto alla struttura della pena pecuniaria, il Progetto Grosso prevede una novità di grande rilievo: abbandona il modello della somma complessiva a favore di quello delle quote giornaliere (artt. 56 e 73) [54 e 71]. Da decenni la dottrina sottolinea i pregi di equità, di efficacia e di trasparenza nella fase commisurativa che caratterizzano la pena pecuniaria per tassi (o per quote, che dir si voglia) (10), pregi che controbilanciano ampiamente la maggior complessità di questo modello: d’altra parte, a ben vedere, tale maggior complessità deriva soltanto dal tacito assunto che in una commisurazione a somma complessiva il giudice, vio(7) Cfr. per tutti MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., p. 244 ss. (e ivi ulteriori riferimenti bibliografici). (8) Così Relazione al Progetto preliminare, cit., 3.3.3. (9) ‘‘È essenzialmente su questo terreno’’ — sul terreno, cioè, della pena pecuniaria — ‘‘che può vincersi o perdersi la battaglia per la minimizzazione del ruolo della pena detentiva’’: così PALIERO, Metodologie de lege ferenda, cit., p. 559. (10) In questo senso, può vedersi già DOLCINI, Le pene pecuniarie come alternativa alle pene detentive brevi, in Jus, 1974, p. 529 ss., in particolare p. 537 ss.
— 827 — lando la legge, non terrà affatto in considerazione le condizioni economiche dell’imputato (11). La scelta a favore del modello della pena pecuniaria per quote giornaliere è d’altra parte fortemente incoraggiata anche dal panorama delle legislazioni europee (12). Tale modello, infatti, è ormai presente non solo in aree che hanno una solida tradizione in questo senso (come quella scandinava — con la perdurante eccezione della Norvegia (13) — o quella austro-tedesca), ma anche nell’area latina (è il caso, tra l’altro, di Francia, Spagna e Portogallo). Recentemente la pena pecuniaria è stata inoltre rimodellata secondo lo schema dei tassi giornalieri in due Stati dell’Europa centro-orientale — la Slovenia e la Croazia — formatisi per distacco dalla Federazione jugoslava (14): paesi culturalmente vicini alla Germania, ma ancora lontani da uno sviluppo economico pari a quello dei paesi dell’Europa occidentale. Rammento infine che la pena pecuniaria per tassi è presente nel codice penale russo del 1996 (15), ove si prevede che la pena pecuniaria sia inflitta in ‘‘un determinato numero di salari minimi, fissati dalla legislazione della Federazione Russa al momento dell’applicazione della pena, oppure nella misura della retribuzione o di altro reddito del condannato per un determinato periodo’’ (variabile da due settimane ad un anno). 4.2. Valorizzare la pena pecuniaria significa, d’altra parte, non solo rimodellarne la struttura, ma anche sottrarre questa sanzione alla sospensione condizionale della pena: non persuade quindi la scelta del Progetto di escludere la sospendibilità della pena pecuniaria solo quando sia applicata congiuntamente alla pena detentiva (in tal caso la pena pecuniaria non rileverà nemmeno al fine di stabilire se sia applicabile la sospensione condizionale della pena detentiva) (art. 81 comma 4 [79] e art. 86 [soppresso]) (16). (11) Cfr. DOLCINI, in DOLCINI-GIARDA-MUCCIARELLI-PALIERO-RIVA CRUGNOLA, Commentario delle ‘‘Modifiche al sistema penale’’ (l. 24 novembre 1981, n. 689), 1982, sub art. 100, p. 453. Nello stesso senso, cfr. inoltre DOLCINI, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ (a cura di), Commentario breve al codice penale, 3a ed., 1999, sub art. 133-bis, p. 477; BERNARDI, in PAa DOVANI (a cura di), Codice penale, 2 ed., 2000, sub art. 133-bis, p. 707; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, 3a ed., 1995, p. 720. (12) Per un quadro di insieme, cfr. JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, A.T., 5a ed., 1996, p. 780 ss. (13) Cfr. ANDENAES, Introduzione al codice penale norvegese, in Il codice penale norvegese, trad. it., 1998, p. 15. (14) Cfr. BAVCON, Il codice penale sloveno del 1995, in Il codice penale sloveno, trad. it., 1998, p. 18; PAVISIC, La legge penale della Repubblica di Croazia, in Il codice penale croato, 1999, p. 25 s. (15) Cfr. DEL TUFO, Il nuovo codice penale russo: un primo sguardo d’insieme, in Il codice penale della Federazione Russa, trad. it., 1998, p. 68 s. (16) Per alcune considerazioni contro la sospendibilità della pena pecuniaria con-
— 828 — La ragione prima che, a mio avviso, imporrebbe di sottrarre — sempre — la pena pecuniaria all’area della sospensione condizionale riguarda la necessità di garantire l’effetto motivante della multa e dell’ammenda, nel momento della comminatoria legale, come in quello dell’inflizione da parte del giudice. È significativo che in Germania, nel corso dei lavori della ‘‘Grande commissione per la riforma del diritto penale’’ approdati nella redazione del ‘‘Progetto del 1962’’ (E 1962), la scelta finale contro la sospendibilità della pena pecuniaria sia stata ampiamente orientata proprio dal rilievo che una pena pecuniaria sospesa ‘‘non verrebbe presa sul serio’’, per l’evanescenza dei suoi connotati sanzionatori (17). Soltanto una pena pecuniaria non sospendibile potrebbe essere utilizzata anche per fronteggiare fenomeni di una certa gravità, come accade oggi nella legislazione tedesca, dove la pena pecuniaria è non di rado comminata in alternativa a pene detentive di notevole entità (ad esempio, il § 242 StGB prevede per il furto la pena detentiva fino a 5 anni o la pena pecuniaria). Anche un autorevole componente della Commissione Grosso, d’altra parte, ha recentemente convenuto che ‘‘per le pene pecuniarie, escludere la sospensione condizionale sarebbe soluzione coerente con le esigenze di recupero d’efficacia di cui parla la dottrina’’ (18). Mal si comprende, inoltre, la logica in base alla quale il Progetto conserva la sospendibilità della pena pecuniaria, quando la stessa Commissione Grosso esprime preoccupazioni circa gli effetti di indebolimento di quella pena che potrebbero derivare da una generalizzata applicabilità dell’oblazione ai delitti puniti con la multa (19): il Progetto anzi si preoccupa di salvaguardare l’effettività della pena pecuniaria tanto da eliminare l’oblazione ‘semplice’, conservando soltanto l’oblazione discrezionale, che interesserebbe i delitti solo quando la legge lo preveda espressamente (art. 89 comma 2). Tutto ciò sembra trascurare il rilievo che l’oblazione attenta all’effettività della pena pecuniaria molto meno di quanto non faccia la sospensione condizionale della pena. Anzi, se si considera che le pene giunta a pena detentiva, v. PADOVANI, Sospensione e sostituzione nella prospettiva d’un nuovo sistema sanzionatorio, in questa Rivista, 1985, p. 989. (17) Cfr. GREBING, in JESCHECK-GREBING (a cura di), Die Geldstrafe in deutschen und ausländischen Recht, 1978, p. 130 s. (18) Cfr. PULITANÒ, Sospensione condizionale della pena: problemi e prospettive, Relazione al XXIII Convegno De Nicola, Sistema sanzionatorio: effettività e certezza della pena, Casarano-Gallipoli, 27-29 ottobre 2000, in corso di pubblicazione negli Atti, p. 11 del dattiloscritto. (19) ‘‘È stata rimessa al legislatore di parte speciale la possibilità di stabilire l’applicabilità dell’oblazione a delitti puniti con la multa... Non si è ritenuto di andare oltre, perché un’ipotetica applicabilità generalizzata dell’oblazione potrebbe indebolire l’opzione per un largo uso della pena pecuniaria’’: così Relazione al Progetto Preliminare, cit., 3.6.3.
— 829 — pecuniarie rimangono in larga misura ineseguite — nel periodo compreso tra il 1990 e il 1996, secondo una rilevazione del Casellario Giudiziale Centrale, risultano non riscosse pene pecuniarie per un ammontare che sfiora il 65% dell’importo complessivo delle pene pecuniarie inflitte, al netto di quelle sospese o comunque non da eseguire — si può addirittura convenire con chi ha osservato, all’interno della stessa Commissione Grosso, che la richiesta di oblazione ‘‘rappresenta l’unica situazione in cui la sanzione pecuniaria gode di un soddisfacente tasso di effettività’’ (20). 4.3. Un ulteriore punto nodale nella disciplina della pena pecuniaria è quello relativo alla conversione. In proposito, l’attuale assetto normativo risulta del tutto inappagante: rimasto sulla carta il lavoro sostitutivo (21), la conversione approda costantemente alla libertà controllata, una sanzione dai contenuti notoriamente labilissimi. Ben consapevole di questo stato di cose, il Progetto Grosso compie scelte assai innovative. Rinuncia a qualsiasi forma di conversione nel caso in cui il condannato risulti insolvente senza colpa (art. 75 comma 3) [73] (22): in tal caso, permanendo lo stato di insolvibilità, la pena pecuniaria si estinguerà entro il termine di dieci anni (art. 93 comma 1) [91]. Qualora invece il condannato non esegua la pena pur avendo la possibilità di farlo (in quanto disponga delle risorse necessarie, o possa procurarsele), la pena pecuniaria si convertirà in lavoro di pubblica utilità ovvero in semidetenzione (art. 75 comma 2) [73]: nel lavoro, a condizione che il condannato manifesti il proprio consenso; nella semidetenzione, mancando il consenso del condannato. Risulta dunque sanzionata solo l’inottemperanza colpevole alla pena pecuniaria. Coerentemente con le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 206 del 1996, il Progetto potenzia il ruolo del lavoro di (20) Così La riforma del sistema sanzionatorio, All. VII, cit., c. 984. (21) Cfr. PALIERO, Il ‘‘lavoro libero’’ nella prassi sanzionatoria italiana: cronaca di un fallimento annunciato, in questa Rivista, 1986, p. 12 ss.; ID., Metodologie de lege ferenda, cit., p. 536. (22) Questa soluzione era stata incoraggiata dalla Corte costituzionale già nella sentenza 21 novembre 1979, n. 131, in Giur. cost., 1979, p. 1046. Sul punto, cfr. DOLCINI, in DOLCINI-GIARDA-MUCCIARELLI-PALIERO-RIVA CRUGNOLA, Commentario, cit., sub art. 102, p. 467. Prospetta la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente adeguata dell’art. 102 l. n. 689 del 1981, che scorga nel requisito dell’insolvibilità il limite della ‘‘non incolpevolezza’’, come non scritto, ma desumibile dall’art. 27 comma 3 e dall’art. 3 Cost., DOLCINI, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ (a cura di), Commentario breve al codice penale, cit., sub art. 136, p. 490; contra v. M. ROMANO, in M. ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, vol. II, 2a ed., 1996, sub art. 136, p. 334 s. Per interessanti spunti di diritto comparato, tratti dall’ordinamento inglese, a favore della rinuncia alla conversione della pena pecuniaria in caso di insolvibilità incolpevole, cfr. DE MAGLIE, Ha un futuro l’attuale modello di pena pecuniaria?, in questa Rivista, 1988, p. 683 s.
— 830 — pubblica utilità come sanzione da conversione (23): il tenore della disciplina prospettata — a differenza di quella oggi in vigore (24) — sembra infatti vincolare il giudice ad applicare il lavoro di pubblica utilità in presenza del consenso del condannato, rendendo a questo punto ineludibile la necessità di dare attuazione all’istituto. D’altro canto, il ricorso alla semidetenzione — ad una pena, dunque, che incide sulla libertà personale — risponde all’esigenza di garantire la ‘serietà’ della pena pecuniaria, senza tuttavia discriminare irragionevolmente il non abbiente: l’evidente inasprimento insito nel passaggio da una pena pecuniaria a una pena (parzialmente) privativa della libertà personale trova infatti un fondamento di ragionevolezza, se non nel mancato assenso da parte del condannato alla prestazione del lavoro di pubblica utilità, certamente nel carattere colpevole dell’insolvenza. 5. Un’altra novità, nel Progetto Grosso, è rappresentata dall’inclusione della detenzione domiciliare (art. 51) [49] nel catalogo delle pene principali per i delitti: si tratta di un ulteriore contributo alle crescenti fortune di questa sanzione nella legislazione degli ultimi anni. Basterà rammentare, in proposito, che nel 1998 la legge Simeone non solo ha portato a quattro anni l’ammontare di pena detentiva che consente il ricorso alla detenzione domiciliare ‘umanitaria’ (art. 47-ter comma 1 ord. penit.), ma ha anche introdotto una nuova forma di detenzione domiciliare applicabile in caso di condanna a pena detentiva fino a due anni, qualora non ricorrano i presupposti per l’affidamento in prova (art. 47-ter comma 1-bis ord. penit.) (25); da ultimo, poi, il d.lgs. 28 agosto 2000 n. 274, recante ‘‘Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace’’, ha introdotto la ‘‘permanenza domiciliare’’ (sorta di detenzione domiciliare di fine settimana) (26) quale pena principale per i reati attribuiti alla competenza di (23) Cfr. Corte cost. 21 giugno 1996, n. 206, in Giur. cost., 1996, I, p. 1836, con nota di VENTURA, Conversione della pena pecuniaria e lavoro sostitutivo. La Corte, richiamandosi a rilievi già svolti nelle sentenze n. 131 del 1979 e n. 108 del 1987, sottolineava fra l’altro che il lavoro sostitutivo, da un lato, riduce al minimo l’aggravio di afflittività connesso alla conversione, dall’altro è in grado di sortire positivi effetti di rieducazione. (24) A proposito dell’art. 102 comma 2 l. n. 689 del 1981, cfr. DOLCINI, in DOLCINIGIARDA-MUCCIARELLI-PALIERO-RIVA CRUGNOLA, Commentario, cit., sub art. 102, p. 465 e sub art. 105, p. 477. (25) Su questa nuova forma di detenzione domiciliare, a proposito della quale si sottolinea criticamente l’ ‘‘assenza di indicazioni legislative in merito ai presupposti soggettivi’’ e ‘‘la mancanza di riferimenti a componenti risocializzative’’, cfr. COMUCCI, Problemi applicativi della detenzione domiciliare, in questa Rivista, 2000, p. 209 ss. (e ivi ulteriori indicazioni bibliografiche). (26) Art. 53 (Obbligo di permanenza domiciliare): ‘‘1. La pena della permanenza domiciliare comporta l’obbligo di rimanere presso la propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo di cura, assistenza o accoglienza nei giorni di sabato e domenica; il giudice, avuto riguardo alle esigenze familiari, di lavoro, di studio o di salute del
— 831 — questo giudice (art. 4 d.lgs. n. 274 del 2000), accanto alla pena pecuniaria e al lavoro di pubblica utilità. La logica sottostante a tali riforme legislative — e alla stessa previsione della detenzione domiciliare come pena principale nel Progetto Grosso — non sembra andare oltre la mera deflazione carceraria (27). Si pone comunque il problema del controllo (28) sui condannati alla detenzione domiciliare (e alla permanenza domiciliare, a proposito della quale ricordo per inciso che nella competenza del giudice di pace rientrano reati di massa, come le lesioni colpose da circolazione stradale). A tale problema il legislatore pare da ultimo più sensibile che in passato: la l. 19 gennaio 2001, n. 4 ha infatti previsto l’adozione di ‘‘mezzi elettronici e altri strumenti tecnici’’ (in primo luogo, il c.d. braccialetto elettronico) per il controllo dei condannati ammessi alla detenzione domiciliare — nonché degli imputati sottoposti agli arresti domiciliari —, rinviando ad un decreto ministeriale per la definizione degli aspetti tecnici dei nuovi strumenti di controllo a distanza: e il decreto è stato emanato il 2 febbraio di quest’anno, dando il via ad una prima sperimentazione che interesserà a breve (o forse sta già interessando) le questure di cinque città italiane (29). 6. Un cenno alle pene interdittive, alle quali il Progetto (artt. 57-61) [55-59] fa spazio in qualità sia di pene accessorie sia di pene principali, condannato, può disporre che la pena venga eseguita in giorni diversi della settimana ovvero, a richiesta del condannato, continuativamente. 2. La durata della permanenza domiciliare non può essere inferiore a sei giorni né superiore a quarantacinque; il condannato non è considerato in stato di detenzione. 3. Il giudice può altresì imporre al condannato, valutati i criteri di cui all’art. 133, comma 2, del codice penale, il divieto di accedere a specifici luoghi nei giorni in cui non è obbligato alla permanenza domiciliare, tenuto conto delle esigenze familiari, di lavoro, di studio o di salute del condannato. 4. Il divieto non può avere durata superiore al doppio della durata massima della pena della permanenza domiciliare e cessa in ogni caso quando è stata interamente scontata la pena della permanenza domiciliare’’. (27) Nel documento elaborato, nell’ambito della Commissione Grosso, dalla Sottocommissione incaricata dello studio della Riforma del sistema sanzionatorio si rileva, a supporto della previsione della detenzione domiciliare come pena principale, che ‘‘la detenzione domiciliare non presenterebbe, da un lato, le controindicazioni delle pene detentive brevi (in quanto sanzione da scontare all’esterno del circuito carcerario), ma neppure la modesta afflittività e la ridotta capacità di prevenzione della libertà controllata’’: così La riforma del sistema sanzionatorio, All. 7, cit., c. 978. (28) Sottolineano la serietà di tale problema COMUCCI, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie (l. 27 maggio 1998, n. 165), 1998, p. 245; DOLCINI, Le misure alternative oggi, cit., p. 873; VAUDANO, Con un intervento frettoloso e approssimativo si amplia il ricorso alla detenzione domiciliare, in Guida al dir., 1998, n. 23, p. 30. (29) Il testo del decreto del ministro dell’interno 2 febbraio 2001 può leggersi in Guida al dir., 2001, n. 9, p. 32 ss. Per un primo commento, nel quale si segnalano tra l’altro alcuni ostacoli che potrebbero opporsi all’avvio della sperimentazione, cfr. GIORDANO, Sulla gestione del controllo a distanza: le prime incognite tecnico-normative, ivi, p. 36 ss.
— 832 — tendenzialmente riconducendole entro l’unico ambito di applicazione nel quale possono operare come strumenti di una politica criminale razionale: quello dei reati commessi nell’ambito di attività in senso lato professionali, in relazione alle quali le pene interdittive possono prevenire specifiche situazioni criminogene (30). Questa logica — riflessa, tra l’altro, dall’abolizione della pena accessoria dell’interdizione legale — trova espressione soprattutto nel disposto dell’art. 65 comma 2 [63], ove si prevede che ciascuna delle pene interdittive contemplate dal Progetto (interdizione da uno o più uffici pubblici, interdizione dagli uffici direttivi di persone giuridiche o imprese, interdizione da una professione o mestiere, incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, ritiro o sospensione della patente di guida, divieto di accesso a determinati luoghi, pubblicazione della sentenza di condanna) — ad eccezione del divieto di allontanamento dal territorio dello Stato, o di una Regione, o di una Provincia, o di un Comune — si applichi come pena accessoria in caso di condanna per un reato a vario titolo correlato ai contenuti dell’interdizione (reati commessi con abuso di poteri o violazione di doveri inerenti ad un pubblico ufficio o servizio, ad un ufficio direttivo di una persona giuridica o di una impresa, ad una professione o mestiere; reati commessi con violazione delle norme sulla circolazione stradale; reati la cui causa o occasione sia legata ad un determinato luogo o tipo di luoghi, ecc.): in questo caso la pena accessoria si applicherà anche in assenza di una previsione espressa nella norma incriminatrice di parte speciale. Nel Progetto permane tuttavia qualche residuo del tradizionale significato infamante delle pene accessorie (31). Residui di questo tipo sono presenti, tra l’altro, nella disciplina dell’interdizione dai pubblici uffici (art. 57) [55], della quale si prevede che possa avere carattere perpetuo e che, in questo caso, interessi qualsiasi pubblico ufficio (art. 57 comma 2) [55]: dunque, anche uffici estranei alla sfera di attività nella quale si inquadra il reato oggetto della condanna. Si aggiunga che in alcune tra le ipotesi contemplate dall’art. 65 comma 2 [63] — le ipotesi di cui alla lett. a) — il Progetto dispone che le pene interdittive possano essere ‘‘applicate congiuntamente’’: una previsione dai contenuti non chiarissimi, ma che parrebbe consentire al giudice, allorché pronunci condanna, ad esempio, per un reato commesso con abuso di poteri o violazione di doveri inerenti ad una professione, di disporre interdizioni che incidano anche su sfere di attività diverse da quelle nelle quali è stato commesso il reato. Sembra dunque auspicabile che la riforma faccia ulteriori progressi verso un sistema di pene interdittive che, depurate da ogni residuo carat(30) Cfr. per tutti LARIZZA, Le pene accessorie, 1986, p. 164 ss. e p. 446 ss. (31) Cfr. LARIZZA, Le pene accessorie: normativa e prospettive, Relazione al Convegno ‘‘Le pene accessorie nel sistema penale e nell’illecito depenalizzato’’, Trieste, 10 maggio 2000, dattiloscritto.
— 833 — tere infamante, perseguano in via esclusiva obiettivi di prevenzione speciale. Per valorizzare appieno le potenzialità politico-criminali delle pene interdittive un passaggio fondamentale e indispensabile è inoltre, a mio avviso, la loro estromissione dalla sfera della sospensione condizionale. Si deve porre rimedio ad una scelta legislativa, compiuta nel 1990, che ha suscitato — giustamente — critiche feroci da parte della dottrina (32): non basta la soluzione intermedia adottata dal Progetto Grosso (art. 81 comma 5) (33), il quale si limita a prevedere la possibilità che le pene interdittive non vengano sospese, in base a una valutazione discrezionale del giudice, quando siano congiunte a pena detentiva (34). 7. In tema di pene sostitutive, l’esigenza prioritaria riguarda la razionalizzazione dei rapporti con le misure alternative e con la sospensione condizionale della pena. Del primo profilo si dirà tra poco. Quanto al secondo, da sempre la dottrina reclama che le sanzioni sostitutive siano sottratte alla sospensione condizionale (35): il Progetto Grosso adotta finalmente tale soluzione (art. 80 comma 8) [78], riservando tendenzialmente le sanzioni sostitutive alla criminalità piccola (o medio-piccola) del recidivo (36). Come la legislazione vigente, anche il Progetto Grosso prevede tre modelli di pena sostitutiva: rimangono la pena pecuniaria e la semidetenzione, mentre il lavoro di pubblica utilità prende il posto della libertà controllata, una sanzione la cui scomparsa non lascerà rimpianti in ragione della sua mancanza di contenuti reali. Merita apprezzamento l’attribuzione di spazi più ampi (fino ad un anno di pena detentiva, contro gli attuali tre mesi) alla pena pecuniaria (32) Cfr. PALIERO, Metodologie de lege ferenda, cit., p. 536, il quale proprio a questo proposito parla di ‘‘novella sciagurata e micidiale’’. (33) Nell’attuale art. 79 — corrispondente all’art. 81 nella versione originaria del Progetto — è stato soppresso il comma 5, così come è stato soppresso ogni ulteriore riferimento alle pene interdittive. I rapporti tra sospensione condizionale e pene interdittive sono ora disciplinati nell’art. 84 del Progetto. (34) Plaude invece a questa disciplina, che ritiene ispirata ‘‘da grande equilibrio’’, LARIZZA, Le pene accessorie: normativa e prospettive, cit. (35) Cfr. DOLCINI, Ancora una riforma della sospensione condizionale della pena?, in questa Rivista, 1985, p. 1016 s.; PADOVANI, Sospensione e sostituzione nella prospettiva d’un nuovo sistema sanzionatorio, cit., p. 983 ss.; ID., La disintegrazione del sistema sanzionatorio, cit., p. 429; PALAZZO, Prospettive di riforma per le sanzioni sostitutive: la razionalizzazione del sistema nel segno della continuità, ivi, p. 1040 ss.; PALIERO, in DOLCINIGIARDA-MUCCIARELLI-PALIERO-RIVA CRUGNOLA, Commentario delle ‘‘Modifiche al sistema penale’’, cit., sub art. 57, p. 301 s. (36) ‘‘Le sanzioni sostitutive dovrebbero rappresentare la risposta elettiva alla criminalità minore recidivante’’: così PADOVANI, La disintegrazione del sistema sanzionatorio, cit., p. 430.
— 834 — sostitutiva (art. 80 comma 4) [78]. Anche il panorama delle legislazioni europee suggerisce una soluzione di questo tipo: il limite per la sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria è fissato, ad esempio, in sei mesi nella legislazione tedesca (§ 47 StGB) e in quella portoghese (art. 44 c.p., nella versione del 1995) (37) — con la differenza, non trascurabile, che il legislatore portoghese comprende le pene detentive pari a sei mesi nell’area della pena pecuniaria sostitutiva, mentre il legislatore tedesco le esclude, ricomprendendovi solo le pene ‘‘inferiori a sei mesi’’ —; nel codice penale spagnolo del 1995 il limite è individuato in due anni, sia pure in via di eccezione rispetto ad una regola rappresentata dalla sostituzione della pena detentiva fino ad un anno (art. 88 comma 1 c.p.); addirittura, nel codice penale francese in vigore dal 1994 (art. 131-5) si prevede che la pena detentiva per i delitti — l’emprisonnement — possa sempre essere sostituita con la pena pecuniaria, nella forma dei joursamende (38), sicché l’unico limite alla sostituzione risulta individuato dal massimo generale dell’emprisonnement, che l’art. 131-4 fissa in dieci anni. Se poi, come propone il Progetto Grosso, si conserverà la semidetenzione, questa pena potrà senz’altro interessare anche reati di gravità media (il Progetto, all’art. 80 comma 2 [78], stabilisce che la semidetenzione possa sostituire la reclusione fino a due anni). Al lavoro di pubblica utilità, infine, il Progetto, sulla scia della legge sul giudice di pace, affida un triplice ruolo: quello di sanzione sostitutiva della pena detentiva fino ad un anno (art. 80 comma 4) [78]; quello, già segnalato, di sanzione da conversione della pena pecuniaria; infine, quello di prescrizione all’interno della sospensione condizionale (art. 84 comma 1) [82]. Ciò comporta problemi attuativi di grande momento, certamente risolvibili, ma che andranno finalmente affrontati con serietà. Doverosa, in questa prospettiva, sarà l’osservazione delle esperienze straniere: non solo di Paesi che hanno specifiche tradizioni in materia di lavoro di pubblica utilità, come la Gran Bretagna, ma anche di Paesi, come Francia, Portogallo e Spagna, che solo recentemente hanno adottato questo modello sanzionatorio (39). (37) Sui lineamenti della riforma portoghese del 1995, cfr. FIGUEIREDO DIAS, Introduzione a Il codice penale portoghese, trad. it., 1997, p. 21 ss. (38) Va sottolineato che è caratteristica della legislazione francese la mancata previsione di limiti relativi all’ammontare concreto della pena detentiva per la sostituzione con pene non privative di libertà (tra le quali spiccano, in quell’ordinamento, le pene interdittive: v. art. 131-6 c.p.). Per una valutazione critica di questa scelta legislativa, e sui problemi che essa pone all’interprete, cfr. DOLCINI-PALIERO, Il carcere ha alternative? Le sanzioni sostitutive della detenzione breve nell’esperienza europea, 1989, p. 48. (39) Limitatamente alle esperienze inglese e francese, può vedersi DOLCINI-PALIERO, Il carcere ha alternative?, cit., rispettivamente p. 67 ss. e p. 58 ss. Che i modelli di riferimento indicati nel testo fossero ben presenti alla Commissione Grosso emerge chiaramente
— 835 — 8. Il tema delle misure alternative, come si sottolinea nella Relazione che accompagna il Progetto Grosso, esulava dal mandato della Commissione, inquadrandosi piuttosto in una ‘‘possibile e auspicabile riforma dell’ordinamento penitenziario’’. Tuttavia, nella sostanza, le misure alternative sono ormai parte integrante — nel bene e nel male — dell’attuale sistema sanzionatorio penale: e in effetti alle misure alternative dedica più di un cenno la Relazione, soprattutto in nome di esigenze di coordinamento con la nuova disciplina della sospensione condizionale della pena. Un primo rilievo — strettamente correlato all’evoluzione dei contenuti della sospensione condizionale prevista dal Progetto Grosso — si impone a proposito dell’affidamento in prova: a mio avviso, dotata la sospensione condizionale di contenuti indefettibili e conservate le pene sostitutive, l’affidamento in prova potrebbe essere tout court soppresso, tanto più che non ha nella realtà quei connotati di sostegno che ne dovrebbero fare cosa diversa dalla sospensione condizionale (40). Se invece la misura alternativa dovesse sopravvivere alla riforma, dovrebbe potersi applicare soltanto nel corso dell’esecuzione della pena detentiva: e in questo caso dovrebbe essere potenziata, e non soltanto sulla carta, la componente di aiuto al condannato. Viceversa, in un passaggio non proprio perspicuo della Relazione (8.1), la Commissione Grosso sembra orientata a conservare la misura e contemporaneamente ad escluderne l’applicabilità proprio nel corso dell’esecuzione della pena detentiva (41). A mio giudizio, dovrebbe essere abolita anche la semilibertà ‘sostitutiva’ (quella, cioè, prevista nel comma 1 dell’art. 50 ord. penit.). Decisiva mi sembra un’obiezione di principio: al di là dei contenuti di questa o quella misura, non si comprende perché le scelte sanzionatorie del giudice di cognizione debbano essere successivamente ribaltate, senza che siano intervenuti nuovi elementi, da parte di un altro giudice, che nulla sa del reato e del suo autore. Le misure alternative — con la sola eccezione della detenzione domiciliare ‘umanitaria’ (art. 47-ter comma 1 ord. penit.), che, in considerazione delle sue particolarissime finalità, deve potersi applicare sia ab initio, sia in itinere — dovrebbero dunque collocarsi, a mio avviso, soltanto nell’ambito dell’esecuzione progressiva, secondo questa successione: sedal più volte citato documento della Sottocommissione: cfr. La riforma del sistema sanzionatorio, All. VII, cit., c. 981 ss. (40) Cfr. DOLCINI, Le misure alternative oggi, cit., p. 872; GIUNTA, L’effettività della pena nell’epoca del dissolvimento del sistema sanzionatorio, in questa Rivista, 1998, p. 417; PALIERO, Metodologie de lege ferenda, cit., p. 537. (41) A proposito della versione 26 maggio 2001 del Progetto, nella quale l’affidamento al servizio sociale compare all’interno della sospensione condizionale della pena (art. 82 comma 2), vedi infra, nt. 43-bis.
— 836 — milibertà, (eventualmente) affidamento in prova e, da ultimo, liberazione condizionale. Una soluzione diversa, e più rigorosa, potrebbe essere rappresentata da un’unica misura alternativa, nella quale si fondano semilibertà e affidamento in prova, assicurandosi aiuto e controllo sul condannato nella parte del giorno che egli trascorre al di fuori dell’istituzione penitenziaria. Sottolineo, per inciso, che, qualora venisse meno la possibilità di applicare ab initio le misure alternative, sarebbero superate anche le esigenze che hanno indotto il legislatore del 1998 a prevedere la sospensione ex officio dell’esecuzione delle pene detentive fino a tre anni (art. 656 comma 5 c.p.p.) (42): si tornerebbe, come è auspicabile, all’esecuzione immediata delle pene detentive, non appena formatosi il giudicato. 9. Vengo ora ad un istituto — la sospensione condizionale della pena — che il Progetto Grosso acquisisce definitivamente al capitolo delle sanzioni penali. La disciplina della sospensione condizionale viene infatti collocata dal Progetto nel Titolo relativo alla pena, in un capo intitolato ‘‘sostituzione e sospensione condizionale’’, distinto dal capo relativo alle cause estintive della punibilità. Nella Relazione, poi, il tema della sospensione condizionale della pena viene così introdotto: ‘‘autonoma collocazione, e grande rilievo, nel riformato sistema sanzionatorio, ha la sospensione condizionale della pena’’ (43). Nella fase della cognizione, la sospensione condizionale rappresenta oggi un vero e proprio pilastro dell’indulgenzialismo: a contenuti sanzionatori inafferrabili fa riscontro un’amplissima area applicativa. Per superare questa situazione contraddittoria, sono pensabili diverse opzioni di principio: da quella che prevede sia una sospensione ‘secca’, con area applicativa ristretta, sia una sospensione dotata di contenuti lato sensu sanzionatori, con area applicativa più ampia, alla soluzione che contempla una sola forma di sospensione, che non abbia comunque i connotati di un beneficio, bensì, nella sostanza, quelli di una sanzione. Il Progetto Grosso imbocca la seconda strada, contemporaneamente dilatando l’area applicativa della misura (44). 9.1. Quanto ai contenuti, il Progetto Grosso avvicina la sospensione condizionale della pena al modello europeo del sursis avec mise à l’é(42) La riforma del 1998 si proponeva di incentivare il ricorso alle misure alternative a scapito della pena detentiva, in particolare superando lo stato di discriminazione di cui oggi soffrono, di fatto, i condannati appartenenti alle classi sociali più deboli: cfr. DOLCINI, Le misure alternative oggi, cit., p. 857 ss. (43) Così Relazione al Progetto preliminare, cit., 3.5.1. (44) Lo sottolinea PULITANÒ, Sospensione condizionale della pena, cit., p. 13 ss.
— 837 — preuve (45), ovvero, con riferimento alla nostra legislazione, all’affidamento in prova al servizio sociale, variante ‘‘penitenziaria’’ del sursis avec mise à l’épreuve, sia pure rinunciando dichiaratamente ad interventi di sostegno (46). Secondo il Progetto (art. 83) [81], la sospensione condizionale della pena dovrà essere sempre subordinata alle restituzioni o al risarcimento del danno, ove ne sia fatta richiesta dalla persona danneggiata dal reato, alla consegna del profitto e/o del prezzo del reato, nonché alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose (ove possibile). Si prevede inoltre una serie di ‘‘obblighi qualificati’’ (art. 84) [82], che potranno essere imposti per ragioni specialpreventive; uno di tali obblighi dovrà comunque essere imposto se la pena detentiva sospesa è superiore ad un anno, o si tratta della seconda concessione, ovvero di un soggetto che abbia già riportato condanna a pena detentiva; tra gli obblighi sono previste le restituzioni o il risarcimento a favore di persona identificata, ma che non ne abbia fatto richiesta, la prestazione di lavoro di pubblica utilità, il versamento di una somma di denaro a favore dello Stato, divieti di accesso a determinati luoghi, di allontanamento da determinati luoghi, di frequentare determinate persone, ecc.
Si accentua, dunque, il problema del controllo sul rispetto di obblighi e divieti; solo se questo problema troverà una risposta adeguata, la sospensione condizionale potrà svolgere le positive funzioni alle quali la chiama il Progetto: di ricomposizione tra autore e vittima del reato, di reintegrazione del bene giuridico offeso, di eliminazione del profitto da reato, di neutralizzazione delle spinte a delinquere legate a luoghi, persone o cose, ecc. 9.2. Un’ulteriore questione di grande rilievo, alla quale ho già fatto più di un cenno, riguarda le tipologie sanzionatorie interessate dalla sospensione condizionale. Il Progetto Grosso, mentre esclude dalla sospensione la detenzione domiciliare e le pene sostitutive, vi include in linea di principio, come si è visto, sia le pene pecuniarie (quando siano applicate da sole), sia le pene interdittive: oltre, naturalmente, alla pena detentiva. Sottolineo che la Commissione Grosso si era in un primo tempo espressa per l’estromissione della multa e dell’ammenda dalla sfera della sospensione condizionale della pena: premesso che quando la pena pecuniaria ‘‘è sospesa condizionalmente non esercita pressoché nessuna fun(45) Si fa riferimento al sursis avec mise à l’épreuve come prototipo delle misure — strutturalmente sospensive — caratterizzate, sul piano contenutistico, da componenti di controllo e di assistenza al condannato: su tale modello sanzionatorio, e su alcune sue attuazioni nella legislazione europea, cfr. DOLCINI-PALIERO, Il carcere ha alternative?, p. 161 s. (46) Peraltro sul punto si deve registrare un ripensamento, nell’ambito delle modifiche approvate dalla Commissione Grosso il 26 maggio 2001. A norma dell’art. 82 comma 2 del Progetto, ‘‘per il sostegno del condannato’’ ammesso alla sospensione condizionale della pena ‘‘può essere disposto l’affidamento al servizio sociale’’. Inoltre, fra gli ‘‘obblighi qualificanti’’, compare ora la ‘‘sottoposizione a un trattamento terapeutico o riabilitativo’’.
— 838 — zione preventiva’’, nella prima Relazione pubblicata (in quello cioè che la Relazione al Progetto preliminare designa come ‘‘documento di base 15 luglio 1999’’) la Commissione si dichiarava ‘‘orientata a negare la sospensione condizionale delle pene pecuniarie’’ (47). Il che rivela, quanto meno, che l’opzione finale è stata sofferta ed è maturata attraverso contrasti e discussioni. Contro la sospendibilità delle pene pecuniarie e delle pene interdittive, può essere speso qualche argomento ulteriore, rispetto a quello, già accennato, che fa leva sulla necessità di garantire la serietà delle comminatorie legali di pena e del trattamento sanzionatorio disposto dal giudice. 9.2.1. Un primo argomento riguarda la funzione della sospensione condizionale della pena: sottrarre agli effetti criminogeni del carcere il delinquente primario, autore di un reato non grave (48). Impeccabile, in proposito, mi sembra un rilievo contenuto nella Relazione che accompagna il citato d.lgs. sul giudice di pace: non ha senso ‘‘proiettare l’istituto sospensivo, tradizionalmente impiegato per evitare che l’autore del reato risenta degli effetti desocializzanti connessi alla pena carceraria, sopra sanzioni sprovviste di tali effetti’’. D’altra parte, anche a voler ricomprendere tra le finalità della sospensione condizionale esigenze di contenimento non solo della pena detentiva, ma in genere di ogni pena sufficientemente ‘‘intrusiva’’ e ‘‘cattiva’’ (è una lettura proposta recentemente da Domenico Pulitanò) (49), rimane vero, mi sembra, che tali connotati (intrusività, cattiveria) sono estranei alla pena pecuniaria: né, per dare un fondamento razionale ad una disciplina che — nel quadro di un nuovo codice penale — ribadisse la sospendibilità della pena pecuniaria, basta osservare che ‘‘un limite inferiore di applicabilità’’ (per la sospensione condizionale) ‘‘non è nella nostra tradi(47) Cfr. Relazione della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale istituita con d.m. 1o ottobre 1998, in questa Rivista, 1999, pp. 629 e 631. In questo senso v. anche La riforma del sistema sanzionatorio, All. VII, cit., c. 984 s. (48) Così si esprimeva la relazione del Guardasigilli Finocchiaro-Aprile sul codice di procedura penale del 1913, nel quale era contenuta la disciplina della condanna condizionale, successivamente trasferita nel codice penale del 1930: ‘‘Ho reso omaggio al concetto che informa l’istituto della condanna condizionale, che è di sottrarre all’ambiente deleterio e pericoloso del carcere chi mai ne abbia varcato le soglie, e di curare in siffatta guisa l’emenda del colpevole’’: cfr. BRUNO (a cura di), Codice di procedura penale del Regno d’Italia illustrato con i lavori preparatori, 1914, p. 97. Quanto al diritto vigente, così si pronuncia uno dei padri del codice penale del 1930: ‘‘L’istituto della condanna condizionale... attua... un fine eminentemente preventivo, impedendo la funesta azione degradante propria dell’esecuzione delle condanne a pene detentive’’ (MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, 5a ed., 1981, vol. 3, p. 665). Nella letteratura contemporanea, con ampi riferimenti alla dottrina del primo scorcio del secolo, v. per tutti BARTULLI, La sospensione condizionale della pena, 1971, p. 115 ss. e GIUNTA, voce Sospensione condizionale della pena, in Enc. dir., vol. XLIII, 1990, p. 103. (49) Cfr. PULITANÒ, Sospensione condizionale della pena, cit., p. 8 e p. 11.
— 839 — zione’’ e che (oggi) ‘‘la sospensione condizionale si applica anche alla pena pecuniaria’’ (50). L’argomento della ‘‘tradizione’’, come si suol dire, ‘prova troppo’: applicato su larga scala, sarebbe in grado, da solo, di affossare qualsiasi velleità di riforma. Alla luce di quanto si è osservato circa la funzione della sospensione condizionale della pena, si ridimensiona, dunque, il più suggestivo argomento portato in dottrina a favore della sospendibilità delle pene non detentive: l’argomento fondato sul principio di eguaglianza (51). A prima vista, in effetti, si fatica a comprendere come il condannato a pena detentiva, autore di un reato di rilevante gravità, possa fruire della sospensione condizionale, mentre non ne possa fruire chi abbia ‘meritato’ soltanto una pena pecuniaria. È agevole però, a questo punto, ribattere che si tratta, sì, di una disparità di trattamento, ma di una disparità del tutto ragionevole: la non sospendibilità della pena pecuniaria è imposta dalla stessa funzione della sospensione condizionale della pena. 9.2.2. Proprio il principio di eguaglianza incoraggia per altro verso il legislatore a sottrarre la multa e l’ammenda all’ambito applicativo della sospensione condizionale della pena: in altri termini, una scelta di questo tenore è suggerita da pressanti esigenze di coordinamento sistematico. Mi riferisco, in primo luogo, ai rapporti tra pene pecuniarie inflitte dal giudice ordinario e pene pecuniarie inflitte dal giudice di pace, per le quali l’art. 60 d.lgs. n. 274 del 2000 esclude qualsiasi possibilità di sospensione (52); secondariamente, ai rapporti tra sanzioni amministrative — pecuniarie e interdittive — e corrispondenti sanzioni penali. Ora, se risulta problematico individuare un fondamento giustificativo del trattamento più rigoroso riservato ai reati di competenza del giudice di pace — reati dichiaratamente bagatellari (53) —, proprio non si vede come sia possibile razionalizzare il rapporto tra una sanzione amministrativa non (50) Cfr. PULITANÒ, Sospensione condizionale, cit., p. 9. (51) L’argomento è stato recentemente riproposto da PALAZZO, La sospensione condizionale tra giudice di pace e riforma del codice penale, in Dir. pen. e proc., 2000, p. 1558. (52) Per un’acuta analisi dei problemi di coordinamento tra la disciplina comune della sospensione condizionale della pena — nel codice penale vigente e nel Progetto Grosso — e la disciplina contenuta nel d.lgs. sul giudice di pace, v. PALAZZO, La sospensione condizionale tra giudice di pace e riforma del codice penale, cit., p. 1557 ss. Cfr. inoltre MANZIONE, Pene pecuniarie, ‘‘stop and go’’, lavoro: minicondanne da giudice di pace, in Diritto e giustizia, n. 36, 14 ottobre 2000, p. 25, il quale sottolinea come la scelta del legislatore del 2000 di escludere la sospendibilità delle sanzioni irrogate dal giudice di pace sia stata ispirata dall’esigenza di garantire l’effettività delle nuove sanzioni. (53) Un tentativo in questa direzione è compiuto da PALAZZO, La sospensione condizionale, cit., p. 1558 s., in relazione al ruolo peculiare attribuito alla riparazione-conciliazione nel quadro del procedimento davanti al giudice di pace e alla valorizzazione della riparazione del danno quale contenuto della sospensione condizionale nella disciplina del Progetto Grosso.
— 840 — sospendibile e la corrispondente sanzione penale suscettibile, invece, di sospensione (54): sembra del tutto irragionevole che le sanzioni amministrative, tendenzialmente riservate ad illeciti meno gravi, presentino, come accade oggi, connotati di indefettibilità sconosciuti alle sanzioni criminali di identico contenuto. 9.2.3. Anche il panorama internazionale, pur assai variegato, conforta infine la tesi che vorrebbe la pena pecuniaria e le pene interdittive sottratte all’area della sospensione condizionale della pena. In questo senso si sono infatti orientate — con la parziale eccezione della Francia, dove peraltro l’applicabilità del sursis simple ai condannati a pena pecuniaria trova una giustificazione nell’automatica convertibilità di quest’ultima in pena detentiva (55) — le più recenti codificazioni penali introdotte in Paesi dell’Europa occidentale. È il caso del Codice penale spagnolo del 1995, che agli artt. 80 ss. contempla una misura sospensiva assimilabile al ‘‘sursis avec mise à l’épreuve’’ — in altri termini, una misura sospensiva corredata, sia pure in via solo eventuale, da una ampia gamma di prescrizioni (art. 83) (56) —, la cui sfera di applicazione è limitata alle pene privative di libertà (di regola, non superiori a due anni): l’istituto è designato dal legislatore spagnolo come ‘‘suspension de la ejecutión de las penas privativas de libertad’’ (57). In particolare, esclusa la sospendibilità dell’esecuzione della pena pecuniaria, l’unico — indiretto — punto di contatto tra la misura so(54) Cfr. PADOVANI, L’incostituzionalità dell’art. 136 c.p.: un capitolo chiuso o una vicenda aperta?, in Cass. pen. Mass. ann., 1980, p. 27; ID., Sospensione e sostituzione, cit., p. 988; DOLCINI, in DOLCINI-GIARDA-MUCCIARELLI-PALIERO-RIVA CRUGNOLA, Commentario delle ‘‘Modifiche al sistema penale’’ (l. 24 novembre 1981, n. 689), cit., sub art. 104, p. 471; ID., Sanzione penale o sanzione amministrativa: problemi di scienza della legislazione, in MARINUCCI-DOLCINI (a cura di), Diritto penale in trasformazione, 1985, p. 397 s. L’argomento della non sospendibilità della sanzione pecuniaria amministrativa era ben presente alla Sottocommissione incaricata, nell’ambito della Commissione Grosso, di elaborare la riforma del sistema sanzionatorio: cfr. La riforma del sistema sanzionatorio, All. VII, cit., c. 984. (55) Il codice penale francese del 1992, mentre a norma dell’art. 132-40 riserva il ‘‘sursis avec mise à l’épreuve’’ ai condannati all’ ‘‘emprisonnement’’ — pena correzionale detentiva (art. 131-3) —, prevede l’applicabilità del ‘‘sursis simple’’ anche ai condannati all’ ‘‘amende’’ e alla ‘‘peine de jours-amende’’ (art. 132-31) — pene correzionali pecuniarie (art. 131-3), strutturate rispettivamente secondo il modello della somma complessiva e secondo il modello dei tassi giornalieri —. Si osservi che in caso di mancato pagamento la ‘‘peine de jours-amende’’ si converte in pena detentiva, mentre nei confronti del condannato all’ ‘‘amende’’ può essere disposta l’incarcerazione a titolo di ‘‘contrainte par corps’’, cioè quale strumento di pressione per indurlo ad ottemperare alla condanna. Su quest’ultimo istituto, cfr. PONCELA, Droit de la peine, 1995, p. 386 ss. (56) Sottolineano il carattere innovativo di questa scelta, che legittima l’inquadramento dell’istituto quale ‘‘sostitutivo de penas’’, COBO DEL ROSAL-VIVES ANTÓN, Derecho penal, parte general, 5a ed., 1999, p. 852. (57) Sull’interpretazione della formula ‘‘pene privative di libertà’’, che comporta fra l’altro la non sospendibilità delle pene privative di diritti imposte come pene principali, cfr.
— 841 — spensiva di cui all’art. 80 c.p. e la pena pecuniaria riguarda le sanzioni sussidiarie della multa ineseguita (pena detentiva o lavoro di pubblica utilità). Nel diritto portoghese, a seguito della riforma del 1995, la disciplina della sospensione dell’esecuzione della pena detentiva (art. 50 ss. c.p.) non contiene più alcun riferimento alla pena della multa (58), mentre si prevede che possa essere sospesa l’esecuzione della pena detentiva derivante dalla conversione della pena pecuniaria, nei casi in cui la pena pecuniaria non sia stata sostituita con il lavoro (art. 48 c.p.): la sospensione dell’esecuzione — che, sottolineo, ha per oggetto una pena detentiva — è subordinata alla condizione che il condannato provi ‘‘che la ragione del mancato pagamento della pena pecuniaria non è a lui imputabile’’ (art. 49 comma 3 c.p.). Con questa riforma, anche il legislatore portoghese ha dunque totalmente estromesso la pena pecuniaria dall’area della sospensione condizionale. Quanto alla Germania, il legislatore del 1975 ha optato, sulla scia del Progetto del 1962, per l’esclusione della pena pecuniaria dalla sfera della sospensione condizionale della pena (‘‘Strafaussetzung zur Bewährung’’) (§ 56 ss. StGB) (59). Decisivo è risultato un duplice ordine di considerazioni: da un lato, il rilievo che il fine della sospensione della pena — di evitare gli effetti collaterali dannosi dell’esecuzione della pena detentiva — non ha nulla a che fare con la pena pecuniaria; d’altro lato, come già ricordavo, la consapevolezza che una pena pecuniaria sospesa non eserciterebbe alcun effetto motivante nei confronti del suo destinatario. L’unica pena accessoria contemplata dal codice penale tedesco, infine, è il ‘‘divieto di guida’’ (Fahrverbot: § 44), che è pacificamente escluso dall’ambito applicativo della sospensione condizionale. È vero, d’altra parte, che lo stesso legislatore del 1975 ha introdotto una diversa misura sospensiva proprio per le pene pecuniarie: l’ammonizione con riserva di pena (‘‘Verwarnung mit Strafvorbehalt’’) (§ 59 ss. StGB), che comporta la rinuncia condizionata alla pronuncia della condanna, con l’imposizione per il periodo di prova di obblighi mutuati dalla sospensione condizionale. Per espressa indicazione legislativa, l’ammonizione con riserva di pena è però riservata all’autore occasionale di reati di lieve entità, che meriti una pena pecunaria non superiore a SANCHEZ YLLERA, in VIVES ANTÓN, Comentarios al Código penal de 1995, vol. I, 1996, sub art. 81, p. 475 s. (58) Il codice portoghese del 1982 stabiliva invece che l’esecuzione della pena della multa potesse essere sospesa nel caso (ma solo nel caso) in cui il condannato si trovasse nell’impossibilità di pagare (art. 48 comma 1 c.p., nella versione del 1982). La giurisprudenza evinceva dalla disposizione citata ‘‘il principio della non applicabilità dell’istituto della sospensione alla pena della multa’’, derogato in via di eccezione per le ipotesi di insolvibilità del condannato: cfr. MAIA GONÇALVES, Codigo penal português, 6a ed., 1992, sub art. 48, p. 165; mentre la dottrina sottolineava che l’istituto della sospensione della pena pecuniaria in caso di insolvibilità del reo non aveva nulla in comune — né dal punto di vista dogmatico, né da quello politico-criminale — con la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva: cfr. FIGUEIREDO DIAS, Direito penal português. As consequências jurídicas do crime, 1993, p. 342. (59) V. per tutti JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, A.T., cit., p. 774. Sul dibattito che nel corso della 59a Giornata dei giuristi tedeschi, tenutasi ad Hannover nel 1992, ha ribadito l’assenso della dottrina maggioritaria alle scelte del legislatore in tema di rapporti tra sospensione condizionale e pena pecuniaria, cfr. WEIGEND, Sanktionen ohne Freiheitsentzug, in GA, 1992, p. 356.
— 842 — 180 tassi giornalieri (60): e la prassi giurisprudenziale, che fa un uso restrittivo dell’ammonizione con riserva di pena, conferma il carattere eccezionale di tale istituto. Ciò consente di affermare che di regola le pene pecuniarie — anche quelle non eccedenti i 180 tassi giornalieri — nell’ordinamento tedesco vengono eseguite (61). In una prospettiva ancora diversa intervengono poi due disposizioni contenute nel codice di procedura penale tedesco. Il § 459d StPO riguarda le ipotesi in cui vengono inflitte congiuntamente una pena pecuniaria e una pena detentiva, vuoi che quest’ultima debba essere eseguita, vuoi che sia stata sospesa a norma del § 56 StGB: si prevede la possibilità per il giudice di disporre che la pena pecuniaria non venga eseguita, nei casi — del tutto eccezionali (62) — in cui l’esecuzione di quella pena renderebbe più difficile il reinserimento sociale del condannato. Il § 459f StPO consente invece al giudice di disporre che non abbia luogo l’esecuzione della pena detentiva derivante da conversione della pena pecuniaria (§ 43 StGB) allorché l’esecuzione rappresenterebbe un ingiusto rigore (eine unbillige Härte) per il condannato: si tratta di un limitatissimo correttivo all’automatismo della conversione della pena pecuniaria in pena detentiva (63), un istituto conservato nel codice penale tedesco a dispetto del suo carattere discriminatorio nei confronti del non abbiente (64). È appena il caso di sottolineare che anche le citate disposizioni del codice di procedura penale non mettono in discussione la scelta di fondo del legislatore tedesco a favore dell’esecuzione della pena pecuniaria.
9.3. Ridefinendo i limiti oggettivi di applicabilità della sospensione condizionale della pena, il Progetto Grosso, come ho anticipato, amplia l’area riservata all’istituto: si tratta di un ampliamento poco vistoso, ma in realtà cospicuo. (60) Esprimono dubbi circa la necessità politico-criminale di questa misura, applicabile a reati lievi, ma non proprio bagatellari, per i quali opera invece l’istituto processualistico di cui al § 153a StPO, JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, cit., p. 856 s. (61) Cfr. TRÖNDLE, in TRÖNDLE-FISCHER, Strafgesetzbuch und Nebengesetze, 49a ed., 1999, Vor § 59, p. 481. (62) Cfr. PFEIFFER, Strafprozessordnung und Gerichtsverfassungsgesetz, 2a ed., 1999, sub § 459d, p. 841 (e ivi ulteriori citazioni di dottrina e di giurisprudenza). (63) Secondo la giurisprudenza, l’ambito applicativo di questa norma non ricomprende qualsiasi ipotesi di insolvibilità incolpevole di fronte alla pena pecuniaria: è invece necessario il sopravvenire di circostanze eccezionali (come un’infermità permanente del coniuge o la perdita incolpevole del posto di lavoro), per effetto delle quali l’esecuzione della pena detentiva da conversione comporterebbe per il condannato sofferenze del tutto estranee ai fini della pena. Cfr. PFEIFFER, Strafprozessordnung, cit., sub § 459f, p. 842; per una lettura più ampia della norma, e per una critica all’orientamento dominante in giurisprudenza, cfr. tuttavia JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch, cit., p. 775. Sull’inapplicabilità della Strafaussetzung zur Bewährung alla pena detentiva da conversione, cfr. TRÖNDLE, in TRÖNDLE-FISCHER, Strafgesetzbuch, cit., sub § 56, p. 406. (64) Sulla possibilità di conversione della pena pecuniaria inseguita in lavoro libero, aperta dall’art. 293 della legge introduttiva del codice penale (EGStGB) e concretizzata da una serie di discipline varate dai singoli Länder, cfr. per tutti TRÖNDLE, in TRÖNDLE-FISCHER, Strafgesetzbuch, cit., sub § 43, p. 271 s. Sul ruolo tuttora rilevante svolto nella prassi dalla conversione in pena detentiva, cfr. JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch, cit., p. 776.
— 843 — Da un lato, il Progetto lascia inalterato il limite ordinario di due anni di pena detentiva (art. 81 comma 1) [79] e ribadisce lo stesso limite per la pena pecuniaria (art. 86 comma 1) [soppresso] (diversamente da quanto si era profilato durante l’iter della c.d. legge Carotti — l. 16 dicembre 1999 n. 479, recante ‘‘Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense’’ —) (65); d’altro lato, il Progetto porta a tre anni di reclusione il limite di applicabilità della sospensione condizionale nei confronti di ultrasettantenni e infraventunenni (art. 81 comma 2) [79]; stabilisce che più condanne per reati diversi (sempre assoggettabili al cumulo giuridico, dal momento che il cumulo giuridico delle pene viene esteso a tutte le ipotesi di concorso materiale di reati) si considerino come una sola condanna (art. 82 comma 2) [80]: con la conseguenza che il limite delle due sospensioni risulta solo apparente, essendo sempre applicabile la sospensione condizionale fino a che non si raggiunga il tetto dei due anni di pena; ancora, come segnalavo in precedenza, il Progetto prevede che in caso di condanna a pena congiunta (detentiva e pecuniaria), non si tenga conto della pena pecuniaria, che non viene sospesa (art. 81 comma 4) [79]. Al di là della valutazione sui singoli interventi — alcuni dei quali possono essere senz’altro condivisi: penso, ad esempio, alla scelta di ricollegare alla riabilitazione il venir meno della preclusione ad una futura sospensione condizionale (art. 81 comma 1, lett. a) [79]) —, si tratta di una linea di fondo che non persuade: a mio avviso, rispetto alle condanne a pena detentiva, una sospensione condizionale pur arricchita di contenuti potrebbe soltanto conservare gli attuali spazi di applicazione, ed eventuali ampliamenti dovrebbero avere carattere soltanto marginale. Tra le soluzioni adottate nel Progetto che comportano una più ampia applicabilità della sospensione condizionale della pena detentiva, una particolare notazione critica merita la previsione che subordina la sospensione condizionale della pena pecuniaria alla richiesta dell’imputato (art. 86 comma 1) [soppresso]: una scelta innegabilmente incoraggiata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, che già oggi attribuisce rilevanza alla rinuncia da parte dell’imputato alla sospensione condizionale della (65) Nel quadro di una vasta riforma della sospensione condizionale della pena, tendente soprattutto ad ampliare l’area applicativa dell’istituto, poi accantonata nel testo definitivo, il d.d.l. Carotti (d.d.l. n. 3807) nella versione approvata dal Senato il 6 ottobre 1999 prevedeva l’introduzione, all’art. 163 comma 2 c.p., di una nuova disposizione specificamente dedicata alle ipotesi in cui venga inflitta la sola pena pecuniaria, secondo la quale la sospensione condizionale poteva sempre essere concessa (su richiesta dell’imputato) qualunque fosse l’ammontare della pena pecuniaria.
— 844 — pena pecuniaria (66). Quali gli effetti che deriverebbero dalla disciplina contenuta nel Progetto? Qualora rinunciasse a richiedere la sospensione condizionale della pena pecuniaria, l’imputato conserverebbe intatte per il futuro le sue chances di fruire della sospensione, e in particolare della sospensione della pena detentiva: e la sua scelta potrebbe essere suggerita sia da considerazioni relative ad altri procedimenti in corso, sia — quel che è peggio — da calcoli in ordine a possibili, future disavventure giudiziarie. In definitiva, a decidere dell’applicazione o meno della sospensione condizionale in caso di condanna a pena pecuniaria sarebbe in primo luogo l’imputato, sulla base di una personalissima prognosi circa future condanne a pena detentiva. 10. La disciplina della commisurazione della pena contenuta nel Progetto Grosso esprime scelte precise, pienamente condivisibili sul piano del metodo e del merito. Sul piano metodologico, il Progetto colma il vuoto della normativa attuale a proposito dei criteri finalistici di commisurazione (67); nel merito, compie una opzione netta a favore della prevenzione speciale (art. 71 comma 2) [69], funzione primaria della pena secondo la Costituzione, oggi invocata dalla dottrina nel tentativo di mettere ordine, sul piano dell’interpretazione sistematica, tra i criteri fattuali di commisurazione confusamente proposti al giudice dall’art. 133 c.p. (68). Alla proporzione con la colpevolezza — ‘‘colpevolezza per il fatto commesso’’ — il Progetto assegna il ruolo di limite massimo per la misura della pena (69), il che signi(66) A seguito di una pronuncia della Corte di cassazione a Sezioni unite (Cass., Sez. un., 23 novembre 1985, in Mass. dec. pen., 1985, m. 171.394), a partire dalla metà degli anni ottanta si è progressivamente affermata la tendenza a considerare vincolante per il giudice la rinuncia dell’imputato alla sospensione condizionale della pena, almeno quando sia motivata dalla pendenza di altri procedimenti: cfr. Cass. 23 novembre 1993, in Mass. dec. pen., 1994, m. 196.622; Cass. 27 marzo 1992, ivi, 1992, m. 189.854; Cass. 14 marzo 1990, ivi, 1990, m. 184.539. Per un quadro degli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali in relazione alla ‘‘rinunciabilità’’ della sospensione condizionale della pena, cfr. VERGINE, voce Sospensione condizionale della pena, in Dig. pen., vol. XIII, 1997, p. 453 e p. 456 s. (67) Cfr. per tutti DOLCINI, La commisurazione della pena, cit., p. 34 ss. (68) Cfr. DOLCINI, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ (a cura di), Commentario breve al codice penale, cit., sub art. 133, p. 465 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, cit., p. 714 ss.; KING, in DOLCINI-MARINUCCI (a cura di), Codice penale commentato, 1999, vol. I, parte generale, sub art. 133, p. 1036 ss. V. anche M. ROMANO, in M. ROMANO-G. GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, vol. II, 2a ed., 1996, sub art. 133, p. 306 ss., il quale parla di ‘‘possibili ‘letture’ correttive in senso costituzionale’’ dell’art. 133 c.p. eminentemente come proposte de iure condendo, ma in ogni caso sottolinea la ‘‘non incompatibilità’’ di tali proposte con la normativa vigente (p. 307). (69) Nell’ambito dei lavori della Commissione Grosso, cfr. Note sulla commisurazione della pena, All. IX, in Doc. giust., 1999, c. 1010, in particolare c. 1011, ove si sottolinea che ‘‘nella dottrina italiana v’è un consenso generale sul riferimento alla ‘colpevolezza per il fatto’ quale limite garantista invalicabile nella commisurazione della pena’’.
— 845 — fica — come si esplicita nella Relazione — che ‘‘il perseguimento di obiettivi di ‘rieducazione’ può giustificare un distacco dal criterio di proporzione tra pena e colpa esclusivamente a favore del condannato’’ (70). Nessuna concessione, dunque, al retribuzionismo, vecchio o nuovo (71), che postulerebbe una pena ancorata alla misura della colpevolezza, dalla quale il giudice non potrebbe discostarsi né in bonam partem, né in malam partem. Né alcuna razionalizzazione dell’indulgenzialismo, giacché la prevenzione speciale è sì, in primo luogo, reintegrazione del condannato nella società, ma non può prescindere dall’effetto di ammonimento che la pena deve esercitare sul condannato (72): lo sottolinea, giustamente, la Relazione, negando una contrapposizione radicale tra prevenzione speciale ed ‘‘esigenze di prevenzione generale, rettamente intese’’. La prevenzione speciale è assunta dal Progetto (art. 72) [70] quale criterio che dovrà orientare le scelte nel giudice anche nella commisurazione in senso lato (73), comprensiva di tutti i momenti di discrezionalità individuati dal Titolo III del Progetto (scelta del tipo di pena, comparazione delle circostanze, sospensione condizionale, sostituzione delle pene detentive brevi, ecc.), e inoltre, dichiaratamente, dell’applicazione di misure alternative. Con un’unica disposizione, che difficilmente avrebbe potuto essere più sintetica, il Progetto supera decenni di dibattito dottrinale, relativo al carattere libero o vincolato di questo o quel momento di discrezionalità (74) e crea un’importante premessa perché il giudice cessi di esercitare nella commisurazione della pena un ruolo ‘creativo’ che non gli compete. Altrettanto netto lo sbarramento opposto dal Progetto all’ingresso di considerazioni di prevenzione generale nelle valutazioni discrezionali del giudice (75): a norma dell’art. 72 comma 2 [70], ‘‘le valutazioni e deci(70) Sostanzialmente in questo senso si era orientato già lo Schema di delega al Governo per l’emanazione di un nuovo codice penale del 1992 (c.d. Progetto Pagliaro), ove all’art. 39 si prevede che la ‘‘capacità (dell’agente) di commettere nuovi reati’’ debba valutarsi ‘‘solo a fini di attenuazione della pena’’: cfr. Ind. pen., 1992, p. 579 ss., in particolare p. 604 s. Per un’analisi critica dei principi enunciati nel Progetto del 1992 a proposito della commisurazione della pena, cfr. MANNOZZI, Razionalità e ‘‘giustizia’’ nella commisurazione della pena, 1996, p. 29 ss. (71) Nella letteratura italiana, v. soprattutto EUSEBI, La ‘‘nuova retribuzione’’, in MARINUCCI-DOLCINI (a cura di), Diritto penale in trasformazione, cit., p. 93 ss.; MANNOZZI, Razionalità e ‘‘giustizia’’, cit., p. 135 ss. (72) Sulle diverse componenti della prevenzione speciale — risocializzazione, intimidazione-ammonimento e neutralizzazione — può vedersi DOLCINI, La commisurazione della pena, cit., p. 153 ss. (73) Sulle nozioni di ‘‘commisurazione della pena in senso stretto’’ e di ‘‘commisurazione in senso lato’’, nella letteratura italiana, cfr. DOLCINI, op. ult. cit., p. 4 s. (74) In proposito, si rinvia a DOLCINI, Discrezionalità del giudice e diritto penale, in MARINUCCI-DOLCINI (a cura di), Diritto penale in trasformazione, cit., p. 265 ss. (75) Su questo problema, su posizioni diverse, possono vedersi, fra gli altri, ALESSAN-
— 846 — sioni sulle scelte sanzionatorie non possono essere motivate da ragioni di esemplarità punitiva o di allarme sociale’’. E tale indicazione è corroborata dalla Relazione, laddove si afferma che ‘‘la prevenzione generale non può essere un criterio legittimo di commisurazione della pena’’, ancorché sia un ‘‘criterio fondamentale di legittimazione dell’ordinamento penale’’ (76). A fronte di una disciplina che segna un passo decisivo nella direzione della legalità e della razionalità della commisurazione della pena, rimane soltanto un motivo di rammarico. Il Progetto compie ogni sforzo per garantire congruenza tra valutazioni politico-criminali del legislatore e scelte discrezionali del giudice: per garantire, in altri termini, cha la pena inflitta sia coerente con gli scopi che le assegna l’ordinamento. Il futuro codice penale non può però rivolgere la sua attenzione che alla commisurazione della pena affidata al giudice; nulla può fare per portare razionalità — cioè conformità allo scopo — laddove la pena venga commisurata non dal giudice, ma da altri soggetti processuali, in nome di esigenze che — inevitabilmente — sono e saranno diverse da quelle verso le quali l’ordinamento orienta la pena (77). Mi riferisco, è ovvio, ad alcuni procedimenti DRI, in BRANCA-PIZZORUSSO (a cura di), Commentario della Costituzione, art. 27, comma 1,
1989, p. 46 ss.; BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale, 1965, p. 87 ss.; DOLCINI, La commisurazione della pena, cit., p. 219 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, cit., p. 715 ss.; HASSEMER, Prevenzione generale e commisurazione della pena, in ROMANOSTELLA (a cura di), Teoria e prassi della prevenzione generale dei reati, cit., p. 137 ss.; MARINUCCI, Problemi della riforma del diritto penale in Italia, cit., p. 359 s.; MILITELLO, Prevenzione generale e commisurazione della pena, 1982; PAGLIARO, Commisurazione della pena e prevenzione generale, in questa Rivista, 1981, p. 25 ss.; M. ROMANO, in M. ROMANO-G. GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, vol. II, cit., sub art. 133, p. 309 ss. Con scelta discutibile, il problema del ruolo della prevenzione generale nella commisurazione della pena era invece passato sotto silenzio nel Progetto del 1992: cfr. MANNOZZI, Razionalità e ‘‘giustizia’’ nella commisurazione della pena, cit., p. 30. (76) Cfr. Relazione, cit., 3.3.2., nonché Note sulla commisurazione della pena, All. IX, cit., c. 1011. (77) Per una motivazione di questo asserto, può vedersi DOLCINI, in CRESPI-STELLAZUCCALÀ (a cura di), Commentario breve al codice penale, cit., sub art. 133, p. 475 (e ivi ampia bibliografia). Anche dopo la riforma del 1999 (l. 16 dicembre 1999 n. 479, art. 32), che ha interessato l’art. 444 comma 2 c.p.p., estendendo i poteri di controllo del giudice alla congruità della pena indicata, protagonisti della commisurazione della pena nel patteggiamento rimangono le parti, l’una tesa ad ottenere il massimo dei vantaggi consentiti dal rito e l’altra ad offrire ponti d’oro a chi accetti una così drastica semplificazione del processo: né la difesa, né l’accusa promettono di farsi garanti della congruità della pena rispetto agli scopi. Preoccupazioni di questo tenore non possono più essere completamente trascurate, tuttavia la logica del patteggiamento comporta che il giudice possa soltanto valutare se la pena risulti non incongrua — o, per meglio dire, non del tutto incongrua — rispetto alle funzioni della pena. Se l’accoglimento della richiesta delle parti fosse davvero e integralmente subordinato alla congruità della pena rispetto alle esigenze preventive, si approderebbe ad un risultato paradossale: l’ammontare delle pene principali applicate in sede di patteggiamento non potrebbe discostarsi da quello delle pene che verrebbero irrogate nell’ambito del rito ordinario,
— 847 — speciali, in primo luogo al patteggiamento: un rito i cui effetti invasivi rischiano di vanificare ogni tentativo di razionalizzazione della commisurazione della pena. Il problema è stato ben presente alla Commissione Grosso, che così si è espressa nella Relazione: ‘‘La revisione del sistema sanzionatorio sollecita anche una rinnovata riflessione sugli aspetti ‘premiali’ dei riti alternativi. Il modello qui delineato tende all’applicazione di pene che siano giustificate secondo i criteri propri del diritto sostanziale; la vigente disciplina dei riti alternativi ne modifica il volto, secondo criteri di ritenuta utilità processuale. La Commissione si limita a segnalare il problema, che tocca peraltro un punto cruciale per gli equilibri del sistema di giustizia penale’’ (78). A questo punto il testimone passa dunque nelle mani del legislatore processuale, dal quale si reclama una drastica revisione di scelte che hanno avuto un ruolo decisivo nel portare il sistema penale all’attuale situazione di collasso (79). 11. Tirando le somme. Il Progetto Grosso non si limita ad una revisione dell’apparato sanzionatorio penale, ma cerca di ridargli dignità di sistema: e le soluzioni proposte sembrano in grado di risolvere molti dei problemi che oggi compromettono la funzionalità del controllo penale. Tra i punti qualificanti della riforma, la nuova struttura della pena pecuniaria e una sospensione condizionale che aspira a non essere strumento di indulgenza, ma ad assolvere funzioni costruttive, in primo luogo di ricomposizione tra autore e vittima e di reintegrazione del bene offeso dal reato. Anche se, ed è persino ovvio, su singoli aspetti la disciplina dell’uno e dell’altro istituto fa discutere e si presta, a mio avviso, a qualche importante ripensamento. Quanto alla tipologia delle sanzioni, il Progetto, mentre realisticamente fa piazza pulita della libertà controllata, ‘investe’ tuttavia su altre sanzioni sin qui egualmente ineffettive: dal lavoro di pubblica utilità alla detenzione domiciliare. Così come in tema di sospensione condizionale, si ripropone dunque la ben nota scommessa sulla capacità del legislatore e delle diverse istanze della giustizia penale di far vivere nella prassi istituti che sinora hanno fallito, o che l’esperienza applicativa ha stravolto riazzerandosi una componente fondamentale degli incentivi al patteggiamento. È giocoforza, dunque, che il giudice si limiti a rigettare le richieste di patteggiamento in casi-limite, nei quali la pena concordata tra le parti appaia non solo incongrua, ma addirittura vistosamente incongrua rispetto alle esigenze di prevenzione: per vivere, il rito speciale ha bisogno di pene incongrue, tali cioè da rappresentare una deviazione rispetto alla logica della prevenzione. (78) Così Relazione al Progetto preliminare, cit., 8.2. (79) Cfr. MARINUCCI, Il sistema sanzionatorio tra collasso e prospettive di riforma, cit., p. 165 ss.
— 848 — spetto ai disegni del legislatore. Si tratta d’altra parte di un nodo ineludibile per una riforma che non si rassegni ad innalzare il vessillo della restaurazione, ovvero della pena detentiva come unica ratio: ogni ordinamento penale moderno ha assoluta necessità di vere sanzioni non detentive, in grado di sottrarre ‘clienti’ al carcere, senza compromettere le irrinunciabili esigenze della prevenzione generale. Il Progetto Grosso appare consapevole di tale necessità, senza nel contempo abbandonarsi a quelle velleitarie fughe in avanti alle quali ci ha abituato la legislazione penale degli ultimi anni. Sul piano del coordinamento tra i diversi modelli sanzionatori, il Progetto attribuisce finalmente un ruolo plausibile sia alle pene interdittive sia alle pene sostitutive; lascia irrisolto, invece, il problemi dei rapporti tra pene irrogate dal giudice di cognizione e misure alternative alla detenzione: la soluzione di tale problema è rinviata — probabilmente, non poteva non esserlo — ad una successiva riforma della legge sull’ordinamento penitenziario. Mai come di fronte a questo Progetto, proprio perché ispirato da una solida visione sistematica, appare evidente che persino una riforma organica della parte generale del codice penale può rappresentare soltanto un primo passo — indispensabile, ma non esauriente — verso la rifondazione del sistema sanzionatorio penale. Alla riforma della parte generale dovrà accompagnarsi, o seguire, quella della parte speciale, e ancora la riforma dell’ordinamento penitenziario e quella del processo. A quel punto, solo a quel punto, si potrà verificare se l’opera intrapresa con la nuova parte generale del codice penale avrà avuto successo. EMILIO DOLCINI *** Il testo del Progetto preliminare di riforma del Codice penale - parte generale è stato al centro di un ampio dibattito in dottrina, del quale il Convegno di Pavia è stato un momento di particolare rilievo. A tale dibattito hanno partecipato il prof. Grosso e i componenti tutti della Commissione con grande attenzione ed apertura, in un clima di proficua collaborazione: si sono così create le premesse per il ripensamento di alcune scelte, anche non marginali, operate inizialmente nel Progetto. Tra le modifiche approvate dalla Commissione il 26 maggio 2001 — evidenziate nel testo del Progetto pubblicato supra, p. 661 ss. —, alcune riguardano punti cruciali del sistema sanzionatorio. In particolare, è stata oggetto di importanti interventi la disciplina della sospensione condizionale della pena, sotto il profilo della durata — ora normalmente contenuta entro cinque anni —, dei contenuti — raddoppio dell’entità della somma di denaro il cui pagamento può essere imposto al condannato, previsione della
— 849 — possibilità di disporre un trattamento terapeutico o riabilitativo, nonché l’affidamento del condannato al servizio sociale —, sia, infine, sotto il profilo della tipologia delle pene interessate dalla sospensione: secondo una linea caldeggiata in questo saggio, risulta ora non sospendibile l’esecuzione della pena pecuniaria, mentre assai circoscritta appare la sospendibilità delle pene interdittive, essendo venuto meno, tra l’altro, il requisito della richiesta dell’imputato. (E.D.)
FUGHE IN AVANTI E SPINTE REGRESSIVE IN TEMA DI IMPUTABILITÀ PENALE (*)
SOMMARIO: 1. L’imputabilità nel processo di modernizzazione del diritto penale. — 2. L’imputabilità e la sua dimensione garantista. — 3. L’imputabilità come categoria dommatica del reato: infermità di mente e responsabilità penale. — 4. Il fronte sanzionatorio: l’imputabilità e il vizio di mente come criteri di commisurazione della risposta penale.
1. Fra le sfide del diritto penale moderno o postmoderno, secondo una terminologia alla ‘‘moda’’, vi è sicuramente quella, tuttora in pieno svolgimento, concernente non solo una nuova codificazione penale, ma una codificazione in grado di contemperare le due opposte esigenze che fin dall’Illuminismo si fronteggiano e battagliano con alterne vicende. Intendo riferirmi alle esigenze del garantismo e a quelle della prevenzione, sia essa generale o speciale. In questo confronto fra istanze di segno opposto un ruolo fondamentale viene sempre più assumendo l’imputabilità, secondo la triplice prospettiva o funzione: di principio costituzionale, di categoria dommatica del reato, di presupposto e criterio guida della sanzione penale. In tale ottica, al concetto di imputabilità occorre riconoscere un ruolo cardine nel sistema penale. Ma a fronte di questo riconoscimento, sempre più incerti sembrano diventare i suoi confini, nel momento in cui per definirla si ricorre a una struttura conoscitiva negativa: ciò che si definisce è lo stato di non imputabilità attraverso le cause di esclusione della capacità di intendere e di volere. L’imputabilità allora diventa riflesso positivo di un concetto negativo, la non imputabilità, che viene in gioco solo attraverso le cause di esclusione della stessa. Parlare di imputabilità significa dunque affrontare il problema delle situazioni in cui non dovrebbe esserci quello stato psicologico effettivo di capacità di intendere e di volere secondo quanto previsto dagli artt. 85 e seguenti del codice penale. Se ne trova im(*) Il testo riproduce la relazione, aggiornata con le modificazioni introdotte dal « testo riveduto tenendo conto del dibattito novembre 2000-maggio 2001 sul testo originario del progetto preliminare » e approvate dalla Commissione Ministeriale per la Riforma del codice penale nella seduta del 26 maggio 2001, presentata al Convegno svoltosi a Foggia, presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi, nei giorni 10-11 novembre 2000 su ‘‘Verso un nuovo codice penale modello per l’Europa. I. La parte generale. II. L’imputabilità e le misure di sicurezza’’.
— 851 — mediato riscontro nell’ultimo Progetto di codice penale, redatto dalla Commissione Grosso, e riveduto nel maggio 2001 (1), il quale, discostandosi dalla normativa in vigore, rinuncia « a definire in ‘‘positivo’’ l’imputabilità, limitandosi a disciplinare le condizioni inabilitanti, in presenza delle quali l’imputabilità (l’assoggettabilità a pena) è esclusa » (2). Se queste stesse cause hanno assunto contenuti vaghi ed incerti, è stato proprio attraverso il lavoro di identificazione e di delimitazione delle cause di incapacità ad opera della teoria e della prassi penalistiche a consentire che anche il concetto di imputabilità si rinnovasse, contribuendo così all’attuale processo di ‘‘modernizzazione’’ del diritto penale. Si pensi ad esempio all’ampliamento del concetto di capacità di intendere e di volere anche alla sfera affettiva oltre a quella intellettiva e volitiva, secondo la concezione moderna della mente come sistema complesso ma unitario. Peraltro la ‘‘modernizzazione’’, come processo di trasformazione che ha interessato tutto il diritto penale, non sempre ha avuto esiti positivi. A tale proposito sembra sufficiente ricordare i tentativi di indebolimento di princìpi fondamentali quali quello di colpevolezza, attraverso l’ampliamento dei criteri soggettivi di imputazione (3), quello di offensività, introducendo eccessive anticipazioni di tutela ovvero fattispecie formali di mera disubbidienza, o ancora quello di precisione e determinatezza della fattispecie, mediante vere e proprie norme penali in bianco o incentrate su clausole generali. E se in proposito si è giustamente parlato di un orientamento alla ‘‘deformalizzazione’’, la tendenza alla moltiplicazione di nuove incriminazioni, soprattutto ad opera di leggi speciali, ha portato ad un sistema penale ipertrofico. La matrice comune di queste trasformazioni è sicuramente la tendenza alla funzionalizzazione, che, come è stato osservato a proposito del nuovo codice penale spagnolo, « è la conseguenza non solo del funzionalismo sistemico e dell’ ‘‘orientamento alle conseguenze’’, che tanto influiscono oggi sulla teoria generale del diritto e sulle scienze sociali in generale, ma anche dell’inevitabile strumentalizzazione che la politica criminale fa del diritto penale... » (4), strumentalizzazione favorita anche dalla (1) Commissione ministeriale per la riforma del codice penale, istituita con d.m. 1o ottobre 1998, presieduta dal Prof. Carlo Federico Grosso. Testo riveduto tenendo conto del dibattito novembre 2000-maggio 2001 sul testo originario del progetto preliminare e approvate dalla Commissione Ministeriale per la Riforma del codice penale nella seduta del 26 maggio 2001. (2) Relazione al Progetto preliminare di riforma del codice penale, settembre 2000, p. 67 (d’ora in avanti Relazione 2000). (3) Grazie a schemi probatori sempre più spesso presuntivi, alle forme intermedie di dolo e colpa ovvero, almeno per una parte della dottrina, alla responsabilità penale delle persone giuridiche. (4) MUÑOZ CONDE, Il « moderno » diritto penale nel nuovo codice penale spagnolo: principi e tendenze, in Ind. pen., 1996, p. 652 ss.
— 852 — frequente rinuncia ad ancorare le categorie dommatiche a una base empirico fattuale. Che il problema dell’imputabilità sia anche un problema di politica criminale o di politica del diritto non può certo essere messo in dubbio, come dimostra il fatto che il segno della modernità marchia indelebilmente anche l’imputabilità e la sua disciplina: de iure condito grazie alla opera di interpretazione adeguatrice soprattutto della giurisprudenza, de iure condendo attraverso il dibattito dottrinale e i progetti di un nuovo codice penale. Ciò che emerge dal panorama dottrinale, giurisprudenziale e dai progetti di riforma, ma anche dalle nuove codificazioni realizzate all’estero, per quanto riguarda la materia che ci interessa è infatti la consapevolezza dell’« impossibilità di riportare il modulo di giudizio dell’imputabilità, almeno in tema di vizio di mente, alla struttura del programma condizionale, che si fonda su premesse concettualmente definite e dal punto di vista empirico verificabili » (5). Tale era lo schema che invece aveva guidato le scelte del legislatore del ’30, il quale poteva contare su concetti ai quali allora si riconosceva una sicura base empirica, come quello di infermità mentale che, seguendo il paradigma medico allora prevalente, veniva identificata con la malattia mentale in senso medico-nosografico. E ciò mentre sul fronte delle istanze garantistiche, la politica criminale della sicurezza e del controllo sociale sembrava legittimare una disciplina orientata alle istanze di prevenzione generale a scapito delle esigenze di colpevolezza, come emerge dalla ancora attuale disciplina normativa delle c.d. finzioni di imputabilità, testimonianza significativa di una normativa asservita alle istanze generalpreventive. Ma i tempi sono cambiati. La Costituzione e la maturazione di un’ermeneutica giuridico-penale ad essa orientata e l’affermarsi di paradigmi alternativi a quello medico in una lettura nuova del mondo reale filtrata nei profili giuridico-formali sono stati i motori di un costante, anche se non sempre lineare, processo di adeguamento delle soluzioni in tema di imputabilità alle nuove esigenze del diritto penale moderno. Quanto al primo motore, quello costituzionale, è proprio alla luce dei principi garantistici sanciti dalla Costituzione che da una parte è emersa la necessità di rinunciare alle tecniche di incriminazione orientate alle sole esigenze di prevenzione generale ancora presenti in tema di imputabilità; dall’altra, sul fronte del trattamento l’esigenza di un maggiore rispetto del bisogno di assistenza e dei diritti fondamentali del malato di mente anche quando esso sia autore di reato. Ne è derivato, come vedremo, il disagio verso il nostro sistema sanzionatorio, c.d. del doppio binario e in particolare la consapevolezza dell’assoluta inadeguatezza allo scopo di prevenzione speciale delle misure di sicurezza presenti nel nostro codice. (5) BERTOLINO, Il nuovo volto dell’imputabilità penale. Dal modello positivistico del controllo sociale a quello funzional-garantista, in Ind. pen., 1998, p. 411.
— 853 — Quanto poi ai problemi definitori legati al concetto di infermità, alla base del vizio di mente, occorre prendere definitivamente atto della sua equivocità: esso non è né univocamente determinabile, né verificabile, data la molteplicità di interpretazioni psicologiche di tale concetto e quindi già a livello normativo risulta inevitabile ricercare soluzioni tipiche del programma di scopo, cioè caratterizzate essenzialmente dall’orientamento alle conseguenze. D’altra parte la teoria e la prassi penalistiche si sono ormai pronunciate a favore di un concetto di infermità di mente che lasci spazio anche all’assistenza e al rispetto dei diritti dell’individuo, dimensione queste comunque violata da una risposta penale, che, ove esclusivamente orientata alle esigenze di difesa e controllo sociale, non terrebbe conto della realtà del caso concreto e delle esigenze di risocializzazione, oggetto di previsione costituzionale all’art. 27, comma 1 e 3. L’orientamento alle conseguenze e dunque la tendenza alla funzionalizzazione anche in tema di imputabilità non può essere sottovalutata, pur con i rischi che essa comporta dal punto di vista garantistico. Vedremo, d’altra parte, come tale tendenza abbia in parte influito sulle scelte normative alla base della disciplina dell’imputabilità nell’ultimo progetto italiano di nuovo codice penale, pur avendo anche le esigenze garantistiche sottese alla materia in esame trovato sufficiente soddisfazione in tale Progetto. 2. Partendo da queste ultime, la questione garantistica evoca in primo luogo l’imputabilità secondo la sua funzione o prospettiva di principio costituzionale, come in precedenza indicato. Ebbene, il riconoscimento di questa dimensione costituzionale, sembra quasi superfluo precisarlo, deriva ancora dall’art. 27, comma 1 e 3, Cost., che sancisce la colpevolezza come irrinunciabile condizione della responsabilità penale e della pena orientata alla prevenzione speciale. E, come è noto, proprio nell’imputabilità la dottrina più attenta riconosce oggi la prima componente del giudizio di colpevolezza. Se non c’è colpevolezza senza imputabilità, non può esserci pena conforme allo scopo di rieducazione senza imputabilità. Già alla luce di queste considerazioni sono dunque da scartare — così ha fatto puntualmente il Progetto — i tentativi di allontanamento dal principio di imputabilità, che negano — come invece era stato proposto non solo negli anni ’80, ma anche nel 1996 (proposta d’iniziativa del deputato Corleone) — la distinzione fra soggetti imputabili e soggetti non imputabili, e dunque la categoria dommatica della inimputabilità. A tale proposito la Commissione incaricata del Progetto nella relazione che lo accompagna esprime la « ferma opzione per il mantenimento della distinzione fra soggetti imputabili e non imputabili, cioè fra soggetti cui possa o non possa essere mosso un rimprovero di colpevolezza, in ragione delle loro condizioni soggettive al mo-
— 854 — mento del fatto » (6). Come già in precedenza la Commissione stessa aveva affermato, « il mantenimento della distinzione fra soggetti imputabili e non imputabili appare irrinunciabile per un diritto penale garantistico » (7). Mentre, per contro, l’idea di riconoscere in via generale l’imputabilità dell’infermo di mente — sempre secondo la Commissione — « si rivela in realtà una scelta ideologica ». Se questa è l’impostazione, dal punto di vista sistematico meglio avrebbe fatto il Progetto a dare all’imputabilità una collocazione che più esplicitamente l’avvicinasse al reato nella sua componente della colpevolezza: e dunque inserendo l’imputabilità e la capacità ridotta nel titolo II, Il reato e non invece, come ha fatto, dopo quello dedicato alla pena, e cioè nel titolo IV. Tanto più, se si considera che la stessa Commissione nella relazione che accompagna il Progetto, riconosce che le particolari condizioni incapacitanti escludono non solo l’assoggettabilità a pena ma anche, e prima ancora, la colpevolezza (8) e che già la Sotto-commissione competente in materia aveva dichiarato che la qualificazione dell’imputabilità come assoggettabilità a pena è una definizione a livello formale, che l’imputabilità va intesa come presupposto del rimprovero di colpevolezza e che le cause che la escludono sono « situazioni soggettive di ‘‘incapacità di colpevolezza’’ » (9). Tuttavia nemmeno nel testo riveduto la Commissione ha ritenuto di consolidare tale impostazione nell’articolato, spostando la originaria collocazione sistematica dell’imputabilità. Come si legge nella Relazione sulle modificazioni al progetto preliminare (10), la Commissione ha infatti voluto confermare l’attuale sistematica, in quanto « non ritiene che scelte dogmatiche debbano essere forzate da un articolato di legge, e perché, mentre la collocazione prescelta dell’imputabilità lascia in realtà libero l’interprete di ricostruire dogmaticamente gli istituti nel modo che ritiene più opportuno, la sua sistemazione nel capitolo dedicato alla colpevolezza avrebbe significato, all’opposto, indicare una precisa scelta legislativa » (11). Rimane, a questo punto, una non spiegabile difformità tra ar(6) Relazione 2000, cit., p. 67. (7) Per un nuovo codice penale. II. Relazione della Commissione Grosso del 15 luglio 1999, Padova, 2000, p. 70 s. (8) Relazione 2000, cit. p. 68. (9) Relazione della Sotto-Commissione, Imputabilità, p. 1. (10) Relazione sulle modificazioni al progetto preliminare di riforma della parte generale del codice penale approvate dalla Commissione Ministeriale per la riforma del codice penale nella seduta del 26 maggio 2001. (11) In maniera particolarmente critica sulla scelta sistematica si era pronunciato MOCCIA, Considerazioni sul sistema sanzionatorio nel Progetto preliminare di un nuovo codice penale, Relazione alla Conferenza nazionale. Progetto preliminare di riforma del codice penale, Siracusa, 3-5 novembre 2000, p. 13, secondo il quale « la scelta di estromettere la considerazione dell’imputabilità dal Titolo relativo al reato rivela una grave ambiguità nel-
— 855 — ticolato e Relazione, nel momento in cui quest’ultima, come abbiamo visto, ha accolto l’idea dell’imputabilità-colpevolezza. Sempre dalla dimensione costituzionale di principio garantistico che occorre riconoscere all’imputabilità deriva altresì la spinta incontrastabile verso il superamento delle incrostazioni, che peraltro sembrano piuttosto resistenti, rappresentate dalle c.d. finzioni di imputabilità. Intendo riferirmi in primo luogo alla disciplina in materia di ubriachezza e di intossicazione da stupefacenti non accidentale, nella quale permangono fattispecie « contrastanti con il principio di colpevolezza e dettate da preoccupazioni di prevenzione generale e speciale che potrebbero essere altrimenti soddisfatte ». In considerazione di ciò, la Commissione ha proposto un’interessante disciplina in armonia con le esigenze di colpevolezza più di quanto non abbiano fatto i progetti precedenti ma anche le soluzioni accolte in altri ordinamenti, considerando giustamente « inutile, oltre che di dubbia compatibilità col principio di colpevolezza mantenere una indiscriminata disciplina derogatoria sull’imputabilità di fatti commessi in stato di ubriachezza o intossicazione non accidentale » (12). La normativa proposta è dunque particolarmente innovativa, come la stessa Relazione pone in evidenza, in quanto ridisciplina le ipotesi di ubriachezza e di intossicazione da stupefacenti, mettendole in sintonia con i princìpi generali. Più precisamente: permane la responsabilità penale, pur in presenza, al momento del fatto, di uno stato di totale incapacità, solo nel caso in cui questa incapacità sia stata preordinata alla commissione del fatto e questo si sia realizzato secondo la preordinazione; e nel caso in cui, al di fuori delle ipotesi di accidentalità, lo stato di incapacità derivi dalla violazione di una regola cautelare che porta alla realizzazione di un fatto: e dunque di un fatto che debba ritenersi prevedibile da parte del soggetto. « In tali ipotesi, appare senz’altro possibile considerare il mettersi in stato di incapacità come condotta causale e colpevole ril’individuazione dei rapporti tra imputabilità, colpevolezza e prevenzione, che si riflette nella conservazione di un sistema dualistico di sanzioni e nel singolare regime dell’imputabilità ridotta ». Cfr. anche DONINI, La sintassi del rapporto fatto-autore nel « Progetto Grosso ». Inflazione penale, sudditanza al processo ed eticizzazione della responsabilità nell’articolato di parte generale redatto dalla Commissione Grosso, Relazione presentata alla Conferenza nazionale. Progetto preliminare di riforma del codice penale, Siracusa, 3-5 novembre 2000, p. 13: « Ma ancor meno si comprende perché l’imputabilità e il vizio di mente, in tale contesto, non siano collocati contestualmente alla colpevolezza, tanto più che non sono neppure inseriti in un capo riguardante l’autore, che ormai manca del tutto. Gli art. 96-111 su imputabilità, vizio di mente e minore età, collocati dopo il sistema sanzionatorio, sono un gruppo di norme staccate dal resto, prive di ordine sistematico ». Ma secondo PULITANÒ, del quale v. la recente replica, Nel laboratorio della riforma del codice penale, in questa Rivista, 2001, p. 16, critiche del genere confonderebbero « la ‘‘collocazione dei mobili’’ nelle stanze del codice con la struttura logica e normativa del sistema ». (12) Relazione, 2000, cit., p. 68 s. Una impostazione analoga si trova nel nuovo codice spagnolo del 1995 all’art. 20.
— 856 — spetto al fatto poi realizzato » (13). Fuori dalle ipotesi di preordinazione dolosa, dunque, « l’imputazione — per usare le parole della Commissione — non potrà che essere per colpa anche quando il fatto sia poi (nello stato di incapacità piena) commesso volontariamente: il titolo di colpevolezza dovendo ravvisarsi nell’inosservanza (causale rispetto al fatto realizzato) della regola cautelare del ‘‘non assumere alcool o droghe’’ in quella data situazione di ‘‘pericolo’’ » (14). La soluzione proposta non solo ha il merito di offrire una disciplina senz’altro rispettosa dell’esigenze sottese al principio di colpevolezza ma in pari tempo, in quanto tale, spazza via una volta per tutte le questioni legate alla individuazione del titolo di imputazione soggettiva del reato commesso in stato di incapacità volontaria o colposa (15). Come è noto, nessuna delle soluzioni offerte in base alla normativa vigente appare in grado di sciogliere i dubbi di costituzionalità della disciplina dell’art. 92, comma 1, e la stessa Corte costituzionale, ritornando sulle opinioni espresse a suo tempo a favore della compatibilità di tale articolo con l’art. 27, comma 1, Cost. (16), sembra auspicare con la dottrina una radicale modifica della normativa in esame (17). (13) Relazione 2000, cit., p. 69. Nel testo riveduto, art. 100, comma 2, in caso di capacità grandemente scemata, la violazione di un regola cautelare rispetto al fatto realizzato, come la preordinazione, esclude l’applicabilità della disciplina della capacità ridotta. È stata così completata e armonizzata una disciplina altrimenti lacunosa. Infatti, nell’originario art. 102 mancava qualsiasi indicazione nel caso in cui l’incapacità ridotta fosse da ricollegare all’inosservanza di una regola cautelare, con la conseguenza che nel caso in cui dalla violazione della regola cautelare derivava uno stato di totale incapacità il soggetto veniva considerato ‘‘normale’’, mentre, se da tale violazione derivava uno stato di capacità ridotta, il soggetto veniva comunque considerato semi-imputabile. (14) Relazione 2000, cit., p. 69. Cfr. anche Per un nuovo codice penale, II. Relazione, cit., p. 76 e Relazione della Sotto-commissione, cit., p. 6 s., ove la Commissione pone la questione se nel caso di realizzazione volontaria del fatto sia da prevedere un regime sanzionatorio più severo e se nel caso di delitti per i quali è prevista la sola imputazione dolosa sia da prevedere comunque una specifica disciplina sanzionatoria, anche se sensibilmente meno severa. Secondo la Commissione in entrambi i casi il diverso trattamento sanzionatorio sarebbe opportuno e da prevedere, in particolare nel secondo caso, rispetto al quale un’eventuale estensione dell’area della responsabilità colposa sarebbe da introdurre attraverso una disciplina ad hoc, preferibilmente nella parte speciale e relativamente a delitti di aggressione alla persona. (15) In proposito, si rinvia a BERTOLINO, in DOLCINI, MARINUCCI, Codice penale commentato, pt. gen., Milano, 1999, sub art. 92. (16) Corte cost. n. 33/1970, in Giur. cost., 1970, I, p. 445. (17) Corte cost. n. 114/1998, in Giur. cost., 1998, I, p. 965, la quale tuttavia ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 94 e 95, in quanto secondo la Corte « il sistema oggi vigente in materia di imputabilità e semiimputabilità dell’alcooldipendente e del tossicodipendente non presenta il carattere di palese irragionevolezza ipotizzato dal giudice rimettente ». Anzi, questi articoli sarebbero « inseriti in modo organico — e indubbiamente coerente nel proprio interno — in un sistema completo... ». Quanto poi all’eccepita inadeguatezza del sistema alla luce delle attuali conoscenze scientifiche in materia, secondo la Corte « perché si possa pervenire ad una declaratoria di illegitti-
— 857 — La disciplina proposta rappresenta anche un’importante opzione di abbandono delle attuali disposizioni in tema di ubriachezza o intossicazione da sostanze stupefacenti abituale e cronica, le quali, tra l’altro, equiparano, senza più alcuna giustificazione scientifica, l’intossicazione da alcool a quella da stupefacenti, che la scienza medica distingue ormai nettamente. Inoltre la proposta riforma, rendendo superflua una disposizione sull’intossicazione cronica, supera la distinzione, che si è rivelata scientificamente infondata con particolare riferimento all’intossicazione cronica da sostanze stupefacenti, fra quest’ultimo tipo di intossicazione e quella abituale (18). Ma anche l’attuale art. 90 in tema di stati emotivi e passionali rappresenta un grave sganciamento dal principio di colpevolezza, poiché, anche se ormai più a livello teorico che pratico, esso manifesta un disinteresse per la componente affettiva della personalità, mentre secondo le moderne acquisizioni delle scienze psicopatologiche e in particolare di quelle comportamentali, le emozioni e gli affetti svolgono un ruolo fondamentale nel processo di formazione della volontà. Quella dell’art. 90, è una disposizione priva di una fondata base empirica e motivata piuttosto da mere considerazioni di prevenzione generale e per questo in contrasto con il principio di colpevolezza. Ed è proprio la questione del trattamento da riservare al c.d. delinquente passionale a palesare i limiti dell’articolo in esame e la problematicità dei rapporti fra le esigenze garantistiche della colpevolezza e le esigenze di prevenzione generale dettate da istanze di difesa sociale. La dottrina e la giurisprudenza tendono a sottoporre siffatta tipologia delinquenziale alla disciplina dell’art. 90. Si tratta tuttavia di una soluzione orientata esclusivamente a soddisfare esigenze politico criminali di pura intimidazione, insensibile dunque alle esigenze di tutela del singolo contro il potere punitivo statuale, ma anche in contrasto con il prinmità costituzionale occorre che i dati sui quali la legge riposa siano incontrovertibilmente erronei o raggiungano un tale livello di indeterminatezza da non consentire in alcun modo una interpretazione ed una applicazione razionali da parte del giudice ». Nella materia in esame, invece, secondo la Corte, sarebbe proprio il ‘‘diritto vivente’’ a fornire un’interpretazione delle norme in esame, appagante e in grado di compensare la mancanza di un’affidabile base empirico-fattuale. L’opera di tassativizzazione da parte della giurisprudenza avrebbe dunque sanato la ormai congenita imprecisione delle norme, attraverso un’interpretazione che « si presenta con caratteri di certezza e di uniformità nella identificazione dei requisiti della cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti », e ciò nonostante le incertezze della dottrina medico-legale, la quale si domanda con sempre maggiore insistenza se « lo stato definito dalla legge come intossicazione cronica, a prescindere da un suo confinamento a situazioni marginali o rare, sia realmente identificabile attraverso i requisiti della permanenza e dell’irreversibilità, su cui si fonda una lunga e costante interpretazione giurisprudenziale ». (18) In proposito, v. da ultimo MANNA, L’imputabilità e i nuovi modelli di sanzioni. Dalle ‘‘finzioni giuridiche’’ alla ‘‘terapia sociale’’, Torino, 1997, p. 15 ss.
— 858 — cipio di recupero sociale della persona, grazie a una risposta modulata alle caratteristiche del singolo caso concreto. Sensibile a queste istanze, il Progetto lascia da parte la pura intimidazione e giustamente non ripropone la disciplina dell’art. 90, ma anzi riconosce, seguendo così orientamenti dottrinali e giurisprudenziali già presenti ma minoritari, che anche « stati momentanei di profondo disturbo emotivo » possono incidere sulla capacità di intendere e di volere e dunque escludere un « ragionevole rimprovero di colpevolezza » (19). A tale proposito la Commissione già aveva precisato che alla « preoccupazione che ciò possa indebolire la ‘‘tenuta’’ generalpreventiva del sistema penale si può rispondere che nessuna patente di irresponsabilità si vuole dare automaticamente a realtà in cui sia mancato il controllo esigibile di impulsi emotivi: le situazioni di possibile rilevanza ai fini dell’imputabilità sono situazioni riconoscibilmente abnormi » (20). Come è noto, la questione più spinosa attiene a quelle situazioni di improvviso discontrollo emotivo o della coscienza, di natura episodica e che si risolvono in atti di violenza o comunque aggressivi. La ‘‘traduzione’’ giuridica di esse rischia di rivelarsi inadeguata, quando, come fa la giurisprudenza, definite tali situazioni come reazioni a corto circuito, le riconduce tout court alla disciplina dell’art. 90, in quanto turbamenti di carattere del tutto momentaneo, conseguenza di una forte eccitazione emotiva o di una condizione di passionalità (21). 3. Passando a considerare l’imputabilità secondo la dimensione di categoria dommatica del reato, occorre prendere atto che appare inevitabile assumere criteri di disciplina orientati a una certa funzione, la quale metodologicamente presuppone un’impostazione secondo le conseguenze (programma di scopo). È questa l’unica soluzione praticabile nella materia che ci interessa, mancando per la definizione giuridica del vizio di mente un concetto, quello di infermità mentale, a sua volta definito e dal punto di vista empirico verificabile. Né si può far ricadere sul legislatore la scelta a favore dell’una o dell’altra nozione di infermità, perché questa sarebbe una scelta priva di fondamento e rigore scientifici e finirebbe per rivelarsi una decisione politico criminale di natura simbolica, ideologica e in quanto tale destinata all’ineffettività e contraria a principi fondamentali costituzionalmente garantiti. Peraltro non è questa, per fortuna, la linea di sviluppo seguita dalla politica legislativa più recente, non solo italiana. Essa infatti in tema di imputabilità sembra discostarsi da un rigido modello definitorio. (19) (20) (21)
Relazione 2000, cit., p. 68. Relazione della Sotto-Commissione, cit., p. 4. Cfr., per esempio, Cass. 3 marzo 1993, CED 194553.
— 859 — Da uno sguardo d’insieme emerge come le scelte normative già realizzate o da realizzare nella materia che ci interessa siano state a favore di formule elastiche, in grado di garantire la ‘‘giusta’’ collaborazione fra giudice e esperto. L’orientamento è stato cioè nel senso di introdurre nella definizione legale dell’imputabilità e delle cause di esclusione della stessa, almeno con riferimento al vizio di mente, clausole definitorie c.d. ‘‘aperte’’, tali da consentire, grazie all’utilizzazione di criteri normativi, psicologici e anche biologici, un giudizio sulla capacità di intendere e di volere in grado di soddisfare le esigenze garantistiche e preventive relative al caso concreto. Per rendere di fatto operativa simile collaborazione, anche la prevalente dottrina in tema di infermità di mente si pronuncia a favore dell’ampliamento delle cause di esclusione dell’imputabilità, onde ricomprendervi anche le nevrosi, le psicopatie e in generale i c.d. disturbi della personalità (22). Ma la stessa dottrina, al fine di rendere più tecniche e precise tali formule, invita ad evitare clausole eccessivamente generiche, a non fare troppo affidamento sulle capacità delimitative del concetto di gravità del disturbo e a prevedere in termini espressi la sussistenza del nesso eziologico fra infermità e reato commesso. Queste indicazioni sembrano essere state recepite dall’ultimo Progetto. In particolare in esso si rinuncia a definire l’imputabilità e giustamente, in quanto la formula dell’art. 85 del codice Rocco, che fa riferimento alla capacità di intendere e di volere non fornisce alcun contenuto di tale capacità. Sotto il profilo definitorio essa si è rivelata del tutto pleonastica. Dal punto di vista politico criminale, inoltre, in una disciplina riformata secondo l’impostazione costituzionale che avvicini l’imputabilità alla colpevolezza, tale formula perderebbe il ruolo asseverativo, che oggi le riconosce la dottrina, secondo il quale perché ci sia responsabilità occorre la capacità di intendere e di volere al momento del fatto. In proposito il Progetto, come già altri ordinamenti, ha optato per una formula che esplicitasse l’oggetto dell’intendere e del volere, attraverso il riferimento all’incapacità « di comprendere il significato del fatto o di agire in conformità a tale valutazione » (art. 94 testo riveduto). Con tale disciplina si ottiene l’obiettivo, già segnalato in dottrina, della previsione espressa di un nesso eziologico fra infermità e fatto di reato; « rende chiaro... che l’incapacità... potrebbe essere affermata o esclusa in relazione a fatti diversi » (23). Quanto poi alla formulazione dell’incapacità come incapacità « di (22) In tal senso TAGLIARINI, L’imputabilità nel progetto di nuovo codice penale, in Ind. pen., 1994, p. 464 s.; MANNA, op. cit., p. 21; ROMANO, in ROMANO, GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, sub art. 88, p. 32; per la manualistica, v. FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, pt. gen., Bologna, 1995, p. 292. (23) Relazione 2000, cit., p. 68.
— 860 — comprendere il significato del fatto », in adesione alle indicazioni emerse dal dibattito sul punto, essa è stata introdotta dalla Commissione nel testo riveduto, in sostituzione di quella originaria dell’incapacità « di comprendere l’illiceità del fatto » (art. 96). Quest’ultima infatti era a taluno apparsa troppo formalistica, anche se, come è stato giustamente osservato dal Presidente della Commissione (24), « sembrava ovvio che il richiamo del concetto di illiceità non significasse richiamo del concetto della illiceità formale, ma di quella sostanziale ». E se è vero che nel contesto del giudizio di imputabilità ciò che può unicamente rilevare è l’antisocialità del fatto non la sua qualificazione giuridica, nella prospettiva legislativa non si può chiedere a un discorso che deve essere necessariamente giuridico-formale, che deve cioè usare le categorie giuridiche, di non esserlo, cioè di non usarle (25). Passando a considerare le condizioni in grado di sostanziare il vizio di mente, la Commissione, così come già i precedenti progetti di riforma, adotta un modello ‘‘aperto’’, garantito dall’espressione « infermità o altra grave anomalia » del testo originario, « infermità o altro grave disturbo della personalità » nel testo riveduto, onde consentire, nel rispetto del principio di legalità, come si esprime la Commissione,« un flessibile adeguamento al mutare (al progresso) delle conoscenze scientifiche e in genere delle concezioni pertinenti » (26). Secondo la Commissione « la scelta legislativa più ragionevole » è « quella di assicurare le condizioni di adeguamento del sistema giuridico al sapere scientifico, evitando prese di posizione troppo rigide e adottando formule atte a recepire la possibile ri(24) GROSSO, Intervento al Convegno ‘‘Verso un nuovo codice penale modello per l’Europa. I. La parte generale. II. L’imputabilità e le misure di sicurezza’’, cit. p. 2 datt. (25) Secondo DONINI, op. cit., p. 12 datt. la definizione originaria sarebbe stata « chiaramente intellettualistica, perché ancorata solo alla comprensione della illiceità del fatto e alla capacità di agire in conformità alla valutazione di illiceità ». La scelta secondo l’A. non sarebbe stata « casuale e sembra una traduzione deformata dell’espressione tedesca ‘‘Unrecht’’, che la stessa relazione richiama (par. 4.1.1), mutuandola dei par. 20 e 21 dello StGB tedesco, i quali peraltro si riferiscono alla capacità di comprendere la natura sostanzialmente illecita del fatto... non la sua formale illiceità... ». Conclude l’A.: « Poiché tuttavia non ci può essere nessun dubbio che i progettisti si riferissero al contenuto sostanziale dell’illecito, al torto (comprendere l’illiceità, del resto, non è come conoscere l’illiceità), va da sé che il rilievo si traduce in un invito a una traduzione più precisa... ». D’altra parte, se Unrecht in tedesco significa torto e lo si vuole tradurre in italiano, la contrarietà al diritto che esso significa ben può rendersi con illecito. Lo dice lo stesso Donini quando afferma che il termine può riferirsi sia all’illecito formale che a quello sostanziale. Possiamo ben approvare il cambiamento dell’espressione originaria in « comprendere il significato del fatto »; solo, questa non è più la traduzione, più o meno impropria, di Unrecht bensì la scelta di una categoria diversa. (26) Relazione, op. loc. ult. cit.
— 861 — levanza dei diversi paradigmi cui il dibattito scientifico sia riconosciuta serietà e consistenza » (27). L’espressione « altro grave disturbo della personalità » non compariva dunque nel testo originario del Progetto, che all’art. 96 usava invece l’espressione « altra grave anomalia », accanto a quella di infermità. Tale cambiamento è stato operato per venire incontro alle critiche formulate in particolare da una parte della psichiatria forense, che rimproverava all’ ‘‘anomalia’’ di essere termine troppo atecnico e generico. Più esattamente, già in occasione del dibattito sul disegno di legge n. 2038 del 1995, essa era stata definita « inutile e fuorviante » (28), era stata considerata un’espressione « equivoca e scientificamente inaccettabile (e forse anche pericolosa perché ripropone l’inesistente parametro della normalità) » (29). Infatti, si precisava ulteriormente, « sussiste la impossibilità tecnica di distinguere il normale (concetto non definibile) dall’anomalo ed essendo del tutto non inseribile in una scala nosografica ciò che è ‘‘normale’’ » (30). Proprio a quest’ultimo proposito si era altresì sottolineato che dall’affiancamento della dizione anomalia a quella di infermità sarebbe disceso « che alle già vibranti problematiche concernenti la puntualizzazione degli aspetti quantitativi di uno psichismo patologico foriero di reato, verrebbero ad aggiungersi severe perplessità diagnostiche sul piano squisitamente nosografico ». Mentre la « dicotomia psicopatologica espressamente statuita tra anomalia ed infermità, peraltro difficilmente inquadrabile sul piano clinico-dottrinale », sarebbe stata da ritenere « innaturale » (31). (27) Relazione, op. loc. ult. cit. (28) CANEPA, in Per un nuovo ‘‘Libro primo del codice penale’’. Pareri medico-legali sul disegno di legge n. 2038/s del 1995, in Ind. pen., 1996, p. 810. (29) BARNI, in Per un nuovo ‘‘Libro primo del codice penale’’. Pareri, cit. p. 811. (30) FORNARI, in Per un nuovo ‘‘Libro primo del codice penale’’. Pareri, cit. p. 812. (31) CARELLA PRADA, DEL VECCHIO, FERRARI DE SEFANO, Un parere medico-legale sulla nuova disciplina dell’imputabilità, in Giust. pen., 1996, II, c. 350. Occorre tuttavia ricordare che altra dottrina psichiatrico-forense aveva espresso apprezzamento verso il termine « anomalia », condividendo la scelta di riforma, così ZANGANI, INTRONA, CAVE-BONDI, Per un nuovo ‘‘Libro primo del codice penale’’. Pareri, cit., p. 817 ss.: « Da condividere l’introduzione della ‘‘gravissima anomalia psichica’’ nell’art. 83 e della ‘‘grave anomalia psichica’’ nell’art. 84. In effetti le ‘‘altre cause’’ di cui al Progetto Vassali-Pagliaro corrispondono alle realtà che si incontrano nella pratica della variegata Psicopatologia forense d’oggi ma non v’è dubbio che esse aprirebbero controversie senza fine in taluni casi concreti » (INTRONA); « In effetti da sempre la dottrina e i suoi riflessi applicativi hanno dimostrato l’inadeguatezza » dell’impostazione dell’art. 88 del Codice Rocco; « inadeguatezza derivante, in ultima analisi, da una incerta precisazione del significato dello stesso termine ‘‘infermità’’ usato dal Codice. Pertanto l’introduzione, a fianco di essa, del concetto di ‘‘altra anomalia’’ appare ampiamente condivisibile: su ciò concorda, del resto, la gran parte della psichiatria forense » (CAVE-BONDI). Con riferimento allo Schema di legge delega (c.d. Progetto Pagliaro) ritiene che l’introduzione della formula altra anomalia « dovrebbe colmare (ma fors’anche complicare) il vuoto ora esistente circa il valore da dare al disturbo della personalità
— 862 — L’espressione disturbo della personalità compare invece nel più diffuso e accettato manuale psicodiagnostico, il DSM-IV, la cui nomenclatura nosografica rispecchia sindromi e non malattie (32). Si tratta di una classificazione che inserisce fra le sue categorie nosografiche quella dei ‘‘disturbi di personalità’’, per lo più identificati con le psicopatie, in funzione di sistematizzazione, anche in via residuale, di una serie di anomalie psichiatriche non esattamente definibili né altrimenti inquadrabili o riconducibili alle altre categorie nosografiche (33). (c.d. personalità psicopatica) » INTRONA, I diritti del malato di mente; ovvero il malato di mente nel diritto, in Riv. it. med. leg., 1993, p. 38. (32) « Nel DSM-IV ogni disturbo mentale è concettualizzato come una sindrome o un modello comportamentale o psicologico clinicamente significativo, che si presenta in un individuo, ed è associato a disagio..., ad un aumento significativo del rischio di morte, di dolore, di disabilità, o a un’importante limitazione della libertà... » (DSM-IV, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Milano 1996, p. 8). (33) DSM-IV, op. cit.,, p. 387 ss. La categoria comprende infatti, divisi in tre gruppi, i seguenti disturbi: disturbo paranoide di personalità, schizoide, schizotipico, antisociale, borderline, istrionico, narcisistico, evitante, dipendente, ossessivo-compulsivo e si chiude con una categoria residua, rappresentata dal « disturbo di personalità non altrimenti specificato ». In quest’ultima dovrebbero essere ricondotte « le alterazioni del funzionamento della personalità che non soddisfano i criteri per alcuno specifico Disturbo della Personalità » (DSM-IV, op. cit., p. 734). I rischi che derivano sul piano forense da questa catalogazione sono messi in evidenza da FORNARI, ROSSO, Disturbi di personalità e imputabilità, in Riv. sper. freniatria, 1988, p. 1277, il quale rileva in primo luogo un « eccessivo nominalismo, che ha come unico scopo quello di classificare e codificare tutti i comportamenti umani in raggruppamenti numerici rappresentativi di categorie psichiatriche », mentre « non rende certo agevole affrontare i temi dell’imputabilità e della responsabilità di soggetti che si sono resi autori di reato e sono stati così catalogati. È a questo livello che particolarmente acuti si fanno sentire problemi nosologici e clinici. Essi nascono già dalla nozione di ‘‘Disturbo di Personalità’’: nell’introduzione al D.S.M., infatti, si ammette che ‘‘non esiste una definizione soddisfacente che specifichi i precisi confini del concetto di disturbo mentale’’ e se ne propone una piuttosto ampia ed omnicomprensiva. Inoltre è molto difficile e comunque sempre soggettiva l’applicazione del criterio quantitativo, che legittima il clinico nel ritenere un disturbo della personalità già come tale, rispetto a quello che tale non è ancora per sua intensità di espressione sindromica. L’altra difficoltà, di ordine semantico, è relativa all’uso di questa o quella terminologia per definire la stessa sindrome che spesso appare trattata ‘‘come se’’ fosse entità clinica a sé stante, solo perché si usano nomi diversi, mentre invece presenta grossolane sovrapposizioni con altri tipi di personalità ». Anche alla luce di queste considerazioni, FORNARI, CODA, Imputabilità e pericolosità sociale: nuove prospettive nella valutazione forense, Relazione al Convegno ‘‘Verso un nuovo codice penale’’, cit., p. 5 s. datt., nell’ottica di una disciplina restrittiva della cause di inimputabilità, ai fini della nozione di infermità da ultimo sottolinea la necessità di « ridefinire i presupposti clinici della nozione di infermità mentale, operando una chiara distinzione tra psicosi e disturbi di personalità, non solo a livello concettuale, ma anche e soprattutto a livello operativo ». In particolare per quanto attiene ai disturbi di personalità, quelli « il cui funzionamento non sconfini in quello delle psicosi o nei quali non sia in atto anche una processualità psicotica debbono essere trattati clinicamente e giuridicamente in maniera differenziata, a seconda delle loro gravità clinica. Nei casi in cui sia stata posta diagnosi di malattia (disturbi psicotici acuti o cronici) o di disturbo grave della personalità, infatti, si dovrà accertare se e in che misura è
— 863 — Alla luce di queste premesse, però, il termine « disturbo della personalità » proposto nel testo riveduto, se vuol essere conforme allo scopo di una maggiore precisazione tecnica per il quale è stato introdotto, si rivela riduttivo e ampliativo nello stesso tempo. Troppo riduttivo in quanto si presta a ricomprendere le sole psicopatie (34) e infatti i disturbi di tipo nevrotico, per fare un esempio significativo, ne sono esclusi, essendo inquadrati sotto altra e distinta nomenclatura, quella dei ‘‘disturbi d’ansia’’. Troppo ampliativo, perché consente di ricomprendere una serie di anomalie psichiche non altrimenti classificabili, tant’è che la classificazione si chiude con la categoria residua intitolata al ‘‘disturbo di personalità non altrimenti specificato’’. Dal punto di vista operativo poi la categoria del disturbo della personalità, in quanto categoria tecnica, si rivelerebbe di scarso significato, dato che, come lo stesso manuale chiarisce, una trasposizione acritica delle sue catalogazioni diagnostiche sarebbe altamente problematica e da evitare per la mancanza di una corrispondenza fra le categorie giuridiche e quelle psichiatriche (35). L’espressione ‘‘disturbi della personalità’’ non rappresenta dunque una formula consolidata delle scienze criminali (36), né sembra in grado di segnare un cambiamento di sostanza della prassi forense, che tratta il disturbo della personalità, peraltro meno ricorrente, alla stregua delle anomalie psichiche (37), le quali secondo l’orientamento più rigoroso, possibile conferire valore di malattia al reato commesso (modello psicopatologico normativo) e valutarne l’incidenza in tema di infermità ». (34) In tal senso, per es. MERZAGORA, Imputabilità e Pericolosità Sociale: un punto di vista criminologico e psicopatologico forense, Relazione al Convegno ‘‘Verso un nuovo codice penale modello per l’Europa. I. La parte generale. II. L’imputabilità e le misure di sicurezza’’, cit. p. 25 datt. dove fa riferimento alla particolare problematicità delle « psicopatie o Disturbi di Personalità » ai fini del giudizio di imputabilità e ancora a p. 27 datt. allorché fra le soluzioni di disciplina possibili ritiene che si « potrebbe indicare un termine diverso da infermità quale quello di ‘‘disturbo mentale’’, che ricomprende senz’altro nevrosi (dette, appunto, ‘‘Disturbi d’Ansia’’), psicopatie (‘‘Disturbi di Personalità’’) ». (35) DSM-IV, op. cit., p. 9 s: « Quando le categorie, i criteri e le descrizioni del DSM-IV vengono utilizzate a fini forensi, sono molti i rischi che le informazioni diagnostiche vengano utilizzate o interpetate in modo scorretto. Questo a causa dell’imperfetto accordo tra le questioni di interesse fondamentale per la legge e le informazioni contenute in una diagnosi clinica ». (36) Così si esprime GROSSO, Intervento, cit. p. 3 datt. (37) Anche se nei confronti dei disturbi della personalità sembra prevalere un atteggiamento più rigoroso del Supremo collegio, v., per es. Cass. 17 aprile 1997, CED 210372, che nega rilevanza ai fini dell’assunzione della perizia psichiatrica a un disturbo della personalità ‘‘border line’’, nonostante il riconoscimento che « le deviazioni del carattere e del sentimento possono elevarsi a causa che incide sull’imputabilità, solo quando su di esse si innesti o si sovrapponga uno stato patologico che alteri anche la capacità di intendere e di volere; quindi le anomalie sia pure costituzionali del carattere e dell’affettività, le ‘‘nevrosi del carattere’’, le c.d. personalità psicopatiche, non determinano una infermità di mente, salvo i casi
— 864 — non escludono né diminuiscono l’imputabilità (38); secondo l’indirizzo più ‘‘moderno’’ la escluderebbero o diminuirebbero a certe condizioni (39). Quella del « disturbo della personalità » si rivela dunque una formula già compromessa dal fatto che si presta alla duplice interpretazione: di tipo riduttivo l’una, allorché viene identificata con le psicopatie, che in quanto tali vengono per lo più giudicate ininfluenti sulla capacità di intendere e di volere (40); di tipo ampliativo l’altra, allorché viene assunta nella sua accezione di categoria nosografica alla quale ricondurre la vasta gamma dei disturbi psichici non altrimenti classificabili. Alla luce di queste considerazioni, nell’ottica della modificazione meglio avrebbe fatto la Commissione ad utilizzare l’espressione ‘‘altro grave in cui, per la loro gravità, cagionino un vero e proprio stato patologico, uno squilibrio mentale incidente sulla capacità di intendere e di volere ». (38) Cfr. Cass. 20 ottobre 1997, CED n. 208929: « La malattia mentale rilevante per l’esclusione o per la riduzione dell’imputabilità è solo quella medico-legale, dipendente da uno stato patologico veramente serio, che comporti una degenerazione della sfera intellettiva o volitiva dell’agente; di conseguenza deve ritenersi sussistente la capacità di intendere e di volere in un soggetto affetto solo da anomalie psichiche o da disturbi della personalità »; Cass. 19 novembre 1997, in Giur. it., p. 374: « In tema di imputabilità, in mancanza di una infermità o malattia mentale, o comunque di un’alterazione anatomico-funzionale della sfera psichica, le alterazioni di tipo caratteriale ed i connessi disturbi della personalità non acquistano rilievo per escludere o ridurre l’imputabilità: l’eventuale difetto di capacità intellettiva e/o volitiva che ne deriva rimane privo di rilevanza giuridica »; Cass. 4 giugno 1991, CED, n. 187795: « L’inesistenza di uno stato morboso e la presenza di semplici manifestazioni del tipo nevrotico, depressive, di disturbi della personalità, comunque prive di un substrato organico, la semplice insufficienza mentale, non sono idonee a dare fondamento ad un giudizio di infermità mentale, indispensabile pure ai fini del vizio parziale di mente ». (39) Con specifico riferimento ai disturbi della personalità o ad anomalie ad essa collegati, v. peraltro solo nella giurisprudenza di merito, C. Ass. Belluno, 1o marzo 1994, in Giur. mer., 1995, p. 95, secondo la quale stati limite o border line, come i « disturbi e la disintegrazione della personalità, la mancanza di controllo, l’inadeguatezza affettiva e dell’amore, l’abuso di alcool e l’alimentazione disordinata possono cagionare uno stato morboso che si rivela e si acutizza in una donna in occasione del parto, tale da determinare l’incapacità di intendere e di volere rispetto alla soppressione del neonato; in tal caso pur in mancanza di un’attuale pericolosità sociale, può disporsi un programma di trattamento psichiatrico che consenta una prognosi favorevole di non pericolosità »; Trib. Milano 26 febbraio 1992, ivi, 1993, p. 751: « I disturbi della personalità e del carattere non escludono l’imputabilità quando il comportamento dell’imputato denota capacità critica, di valutazione, di rapporto con la realtà in misura normale, sicché egli sia in grado di controllare, dirigere e reprimere le coazioni ad agire con le quali l’anormalità si manifesta ». (40) Cfr., fra le altre, Cass. 10 ottobre 1991, CED, n. 190728: « Alla stregua degli studi psichiatrici scientifici ormai consolidati, si deve distinguere tra psicosi e psicopatia, l’una considerata vera e propria patologia mentale, tale da alterare i processi intellettivi o volitivi, l’altra da valutarsi alla stregua di una mera caratteropatia, cioè come anomalia del carattere, non incidente sulla sfera intellettiva o della volontà e, quindi, non tale da annullare o da scemare grandemente la capacità di intendere o di volere ».
— 865 — disturbo mentale’’ o ‘‘altro grave disturbo psichico’’ (41), la quale non si espone al rischio di una sua traduzione immediata in campo forense in quanto priva di un referente categoriale di tipo psicopatologico, mentre risulta del tutto trasparente quanto a genericità e proprio per questi aspetti in grado di adeguarsi alle esigenze forensi, come lo è stato quello di infermità al quale essa si affiancherebbe (42). Pur apprezzando lo sforzo fatto dalla Commissione e pur consapevoli che una previsione di quel genere svolge un ruolo fondamentale ai fini dell’adeguamento della disciplina dell’imputabilità alle esigenze garantistiche del principio di colpevolezza, non si possono non svolgere alcune ultime osservazioni di carattere generale. Quale che sia l’espressione accolta: grave anomalia, grave disturbo della personalità ovvero grave disturbo mentale o psichico, essa non può essere comunque giudicata una soluzione definitiva e appagante. Ciò trova conferma nell’esperienza di quegli ordinamenti, nei quali una disciplina ‘‘aperta’’, quale ad esempio quella che utilizza la formula della ‘‘grave anormalità psichica’’ è da tempo una realtà legislativa. In quello tedesco in particolare, la previsione delle altre gravi anormalità è stata introdotta in funzione residuale per coprire cioè quelle ipotesi del tutto particolari e eccezionali che l’elencazione specifica dei disturbi incapacitanti lascia fuori: così le gravi forme di psicopatie o di nevrosi che con estrema difficoltà possono essere ricondotte ad uno dei disturbi espressamente previsti come cause di esclusione dell’imputabilità. Non così in Italia, dove il termine infermità di mente a (41) Come suggerito da psichiatri forensi, quali DE FAZIO, Per un nuovo ‘‘Libro primo del codice penale’’, Pareri, cit., p. 829 s., il quale, con riferimento al disegno di legge del 1995, condivide la proposta di affiancare al termine infermità una locuzione aggiuntiva in chiave esplicativa, ma non concorda sulla scelta del termine « anomalia psichica », che definisce improprio. L’A. propone invece « di aggiungere al termine infermità il termine ‘‘disturbo psichico’’, che meglio di ogni altro termine consente di allargare l’ambito valutativo dell’imputabilità al di là dei confini propri della patologia mentale nosograficamente definita, restando tuttavia aderente al terreno proprio della Psicopatologia. Il termine ‘‘disturbo’’ non viene ovviamente mutuato dal linguaggio comune... ma dalla Psicopatologia ». V. anche TRAVERSO, CIAPPI, Disegno di legge di riforma del codice penale: note critiche a margine della nuova disciplina sull’imputabilità, in Riv. it. med. leg., 1997, p. 667 s., i quali ritengono il termine « anomalia psichica » vago e indeterminato e propongono di rifarsi a quello di disturbo mentale del DSM-IV e quindi di introdurre al posto di quella di anomalia psichica l’espressione « grave disturbo psichico »; nello stesso senso INTRONA, Se e come siano da modificare le vigenti norme sull’imputabilità, ivi, 1999, p, 698, in quanto « il nucleo del vizio di mente sta nella capacità di intendere e di volere e qualunque denominazione di patologia psichica si voglia porre a monte di essa, la conclusione è che essa deve annullare l’una o l’altra delle due capacità o entrambe ». Cfr. anche MERZAGORA, op. ult. cit., p. 27 datt., la quale propone questa terminologia al posto però di quella di infermità fra le possibili soluzioni. (42) A proposito del termine disturbo mentale il DSM-IV, Manuale diagnostico, cit., p. 7 precisa tuttavia che « nessuna definizione specifica adeguatamente i confini precisi del concetto di ‘‘disturbo mentale’’. Questo concetto, come altri in medicina e nella scienza, manca di una definizione operativa coerente che copra tutte le situazioni ».
— 866 — cui fa riferimento anche la normativa proposta, nella sua accezione più attuale, suscettibile cioè di un’ampia interpretazione estensiva, consente di ricomprendere anche quei tipi di disturbi psichici. In tale contesto alla previsione « altro grave disturbo della personalità » ovvero a quella precedente di « altra grave anomalia » non può essere riconosciuto un ruolo residuale e secondario, bensì primario e simmetrico, con il rischio di incontrollate e incontrollabili ‘‘aperture’’ rispetto a quello svolto dalla previsione riferita all’« infermità ». In secondo luogo occorre essere consapevoli del fatto che, come emerge dall’esperienza comparata, la gravità del disturbo si è comunque rivelata una formula troppo vaga. Le scienze psicopatologiche non sembrano in grado di offrire parametri sufficientemente sicuri della gravità in funzione degli scopi preventivi del diritto penale senza compromettere il principio di colpevolezza. E il criterio del valore di malattia, da qualcuno richiamato per quantificare la gravità, si è rivelato insufficiente. Questi problemi risulterebbero acuiti qualora si introducesse il riferimento al disturbo della personalità, rispetto al quale emerge in particolar modo l’inadeguatezza sul fronte garantistico e preventivo del criterio quantitativo. Quest’ultimo rischia infatti di diventare l’unico parametro al quale rifarsi per distinguere i disturbi veri e propri dai tratti di personalità che, in quanto « non raggiungono la soglia per un Disturbo di Personalità » (43), non dovrebbero rientrare fra i disturbi mentali in grado di escludere o diminuire l’imputabilità. Ciò in particolar modo nel caso dei semplici tratti antisociali di personalità che attengono a caratteristiche del comportamento e non a categorie psicopatologiche (44). In terzo luogo, siamo però anche nello stesso tempo ben consapevoli (43) « I tratti di personalità vengono diagnosticati come Disturbo di Personalità solo quando sono inflessibili, non adattivi, persistenti, e causano una compromissione sociale significativa o sofferenza soggettiva » (DSM-IV, Manuale diagnostico, cit., p. 738). A proposito del criterio quantitativo del Progetto Grosso, osserva giustamente PAVARINI, L’imputabilità e il sistema delle pene, in Critica del diritto, 1999, p. 448, che la scelta di dare rilevanza incapacitante alle sole situazioni ‘‘riconoscibilmente abnormi’’ rappresenta una scelta « compromissoria — certamente comprensibile nelle sue ragioni di politica criminale — lascia però aperta la questione della ‘‘riconosciuta abnormità’’ dell’anomalia. Difficile pensare che la psichiatria convenga ‘‘scientificamente’’ sull’abnormità di uno stato patologico, nel senso che essa può eventualmente solo determinare se anomalia ci sia stata e quanto e come essa abbia condizionato la condotta dell’autore. La situazione di disturbo psichico ‘‘riconoscibilmente abnorme’’ è una valutazione puramente ‘‘culturale’’ e quindi ‘‘storica’’, nel senso che essa consiste nel convenire se in quella situazione psichicamente alterata si ritenga che ‘‘socialmente’’ l’autore non meriti di essere censurato e di conseguenza punito. E ancora una volta, il giudice sarà lasciato solo a decidere ». (44) Quella del « Disturbo antisociale di Personalità » è una categoria del DSM-IV che si presta in campo forense a facili e incontrollate manopolazioni in particolare di tipo ampliativo. Come sottolinea ancora FORNARI, Disturbi di personalità, cit., p. 1280: « È solo una questione di quantità quella che distingue il ‘‘disturbo antisociale di personalità’’ dal ‘‘comportamento antisociale adulto’’...: ma è sul criterio quantitativo che ci si basa per fare
— 867 — che non possiamo accettare né giustificare che siano in particolare i soggetti psicopatici o nevrotici a scontare i limiti delle conoscenze criminalpsichiatriche. Alla luce di queste considerazioni non possiamo illuderci più di tanto sulle capacità risolutive, in particolare con riferimento al problema della capacità di intendere e di volere degli psicopatici, della proposta legislativa che fa riferimento anche ad « altro grave disturbo della personalità ». Anzi, secondo una parte della dottrina tedesca che dal 1975 si confronta, come abbiamo visto, con una previsione ad essa assimilabile, siffatta previsione avrebbe reso più complesso il problema della responsabilità penale dei soggetti psicopatici. Il concetto di altra grave anormalità avrebbe infatti aperto la strada a dubbi e incertezze, a contrasti di interpretazione non facilmente superabili. In altre parole, si tratterebbe di una formula che anche là dove introdotta in via residuale, in coda cioè alla elencazione specifica delle diverse tipologie di disturbi incapacitanti, risulterebbe potenzialmente comprensiva anche di tutti quei disturbi psichici, la cui origine non tanto organica ma nemmeno patologica non solo non sarebbe dimostrabile, ma nemmeno ipotizzabile. Tuttavia quella a favore di un modello aperto di disciplina normativa è la tendenza ormai prevalente e incontrovertibile del diritto penale moderno orientato — come si è detto — in termini funzionali. Tale modello è stato infatti adottato in quei paesi nei quali si è giunti in tempi recenti all’emanazione di un nuovo codice penale. Così in Spagna, dove il codice recentemente entrato in vigore, come il precedente, non dà una definizione dell’imputabilità, ma a differenza dal precedente fra le cause di esclusione dell’imputabilità annovera anche « cualquier anomalia o alteración psichica » (art. 20). Il legislatore spagnolo del 1995 con tale formulazione ha accolto l’orientamento dottrinale a favore dell’introduzione di una clausola generale, che, come tale, consentisse l’impiego da parte della prassi di criteri psicologici e normativi, oltre a quelli biologici. Anche in Francia si è giunti a una nuova e importante codificazione penale. In tema di cause di esclusione dell’imputabilità vi si parla genericamente di « trouble psychique ou neuropsychique » (art 122.1), espresdiagnosi di ‘‘Disturbo Antisociale di Personalità’’, che costituisce pur sempre una categoria psichiatrica: pertanto l’assoluta maggioranza dei delinquenti verrebbe diagnosticata come affetta da un disturbo mentale, poiché siffatti soggetti presentano tutti o quasi tutti i tratti sui quali ci si basa per fare diagnosi di ‘‘disturbo antisociale di personalità’’ ». L’A. conclude che l’impostazione nosografica del DSM-III-R, (ora DSM-IV con alcune modificazioni irrilevanti ai nostri fini), per quanto attiene alla categoria dei « Disturbi di Personalità » è troppo ampia, confusa e contraddittoria: « risultano eccessivamente aumentati i fattori da prendere in considerazione nella formulazione di una diagnosi psichiatrica, che è così viziata da troppa dispersività ».
— 868 — sione che sostituisce il vecchio termine « demenza » (45). Entrambi i codici, lo spagnolo e il francese, disciplinano poi l’imputabilità nella parte relativa alla responsabilità: più precisamente, il primo fra le cause che esimono dalla responsabilità, il secondo fra quelle di irresponsabilità o di attenuazione della responsabilità. Merita altresì menzione ancora il codice penale tedesco, anche se la riforma della materia che ci interessa risale al 1975. Esso si discosta dal modello assunto dai codici in precedenza illustrati, in quanto sembra caratterizzato da una maggiore precisione. Infatti, come già in precedenza richiamato, il par. 20 fa un’elencazione, seppure per tipologie, dei disturbi psichici in grado di escludere l’imputabilità. Essi sono i « disturbi della coscienza, purché profondi », i « disturbi psichici di natura patologica », la « debolezza mentale » e infine « le altre gravi anormalità psichiche ». Con riferimento a quest’ultima categoria occorre altresì sottolineare che non è tanto la diagnosi a svolgere un ruolo determinante ai fini del giudizio di colpevolezza quanto piuttosto la gravità, l’intensità del disturbo. È quello degli artt. 20 e 21 un modello di disciplina che strutturalmente è stato così definito: apertura in senso orizzontale, limitazione in senso verticale. Cioè apertura ai fini della discolpa ai disturbi psichici di qualsiasi genere, individuazione di severi criteri di misura nel grado del disturbo. Tuttavia è da dubitare che tutto ciò si sia realizzato in sede di applicazione pratica della disciplina. Vale la pena infine ricordare anche il codice penale sloveno del 1995, il quale fra le cause di esclusione della capacità di intendere e di volere prevede espressamente, oltre a quella permanente, anche « l’infermità mentale temporanea, i disturbi psichici temporanei, uno sviluppo psichico imperfetto » e infine « altra anormalia psichica », ma che sia di natura permanente e grave. 4. Veniamo infine alla terza funzione dell’imputabilità, quella di essere presupposto e criterio guida della sanzione penale. È in questa ultima prospettiva che vengono a concretizzarsi le scelte a favore del garantismo ovvero della sicurezza sociale. Infatti la logica del programma di scopo, in assenza di premesse certe nella protasi, impone un orientamento sicuro alle conseguenze e dunque un’apodosi aperta a varie alternative. Tradotto per la materia che qui ci interessa, ciò significa un potenziamento degli (45) L’art. 64 del codice del 1810, inoltre, prevedeva solo l’inimputabilità totale. In proposito si osserva: « Il nuovo art. 122-1 opera una distinzione fondata sui progressi della medicina », in quanto tale articolo prevede che nel caso in cui la patologia psichica o neuropsichica, non escluda, ma solo alteri il discernimento o travolga il controllo sugli atti, il soggetto sia punibile, « salvo il potere del giudice di tenerne conto nel determinare la pena o nel fissarne il regime » (PRADEL, Il nuovo codice penale francese. Alcune note sulla sua parte generale, in Ind. pen., 1994, p. 21).
— 869 — spazi trattamentali attraverso la previsione di una serie articolata di possibili interventi. Ma deve trattarsi di interventi che siano in grado di contemperare le esigenze antinomiche legate rispettivamente al singolo e alla sicurezza sociale, e nello stesso tempo — come non dovrebbe essere dubbio almeno per i soggetti infermi di mente — che antepongano gli scopi terapeutici-riabilitativi a quelli di prevenzione generale. In tale ottica l’orientamento che guarda alla riforma auspica un ruolo rigorosamente residuale delle misure di sicurezza, circoscritto cioè ai soli soggetti non imputabili. Ciò significa abbandono del doppio binario che potrebbe avvenire sia nel senso del mantenimento di un sistema di misure alternativo alle pene vere e proprie sia nel senso di un superamento di esso a favore di un sistema unificato e unitario. Due sono dunque le direttrici fondamentali secondo le quali affrontare il problema del trattamento dei soggetti psichicamente disturbati che delinquono (46). All’una vanno ascritti quegli orientamenti che nell’ambito della distinzione fra soggetti imputabili e non imputabili per infermità mentale, nei confronti di questi ultimi prevedono un distinto sistema di misure di sicurezza, ma di natura eminentemente terapeutico-riabilitativa e ben articolate e diversificate; mentre nei confronti dei primi ammettono la possibilità di applicare, qualora siano riconosciuti psichicamente disturbati ma non a tal punto da essere dichiarati non imputabili, le misure di sicurezza specificamente apprestate per i non imputabili, con rinuncia alla pena. All’altra vanno ricondotte quelle tendenze, soprattutto anglosassoni e americane, che nei confronti dei soggetti riconosciuti imputabili ma che risultano psichicamente disturbati consentono, per così dire, una terza via rappresentata da un sistema specifico di pene, le quali tengano conto delle particolari condizioni psichiche del reo. Si tratta di orientamenti interessanti, che possono costituire la base per la formulazione di un progetto unificato di disciplina, la quale si ispiri ad entrambi per potenziare al massimo l’ ‘‘arsenale’’ delle possibili forme di intervento nei confronti delle due categorie di agenti di reato, quelli totalmente non imputabili e i soggetti semimputabili. In particolare, la scelta a favore della non imputabilità non dovrebbe più avere esito in un intervento repressivo-afflittivo, quale quello offerto oggi dall’ospedale psichiatrico giudiziario. A questa misura estrema, se mantenuta e peraltro profondamente riformata secondo gli indirizzi più attuali e seri della psichiatria (47), andrebbero affiancate una serie di mi(46) Su questi orientamenti e sviluppi, anche in una prospettiva comparatistica, cfr. BERTOLINO, L’imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale italiano, Milano 1990, p. 143 ss.; MANNA, op. cit., p. 79 ss. Per gli sviluppi più recenti in Germania e in Svezia, v. SCHÜTZ-GÄRDÈN, Psychisch gestörte Straftäter im schwedischen und deutschen Recht, Freiburg i. Br. 1999, passim. (47) Si potrebbe pensare ad esempio a una serie di modalità alternative alla sua ese-
— 870 — sure di intervento graduato nella sfera di libertà del soggetto prosciolto per infermità. Presupposto fondamentale di esse non dovrebbe più essere, oltre allo stato di inimputabilità, la pericolosità (48), ma il bisogno reale di trattamento: la necessità e opportunità di trattamento medico in ragione dello stato mentale del soggetto (49), garantendo così la conformità al senso di umanità e l’orientamento alla risocializzazione del reo, secondo quanto disposto dall’art. 27, comma 3, Cost. Accedere a quest’ordine di idee non significa peraltro bandire qualsiasi considerazione circa la pericolosità più o meno qualificata del soggetto. Essa infatti andrebbe e potrebbe essere presa in considerazione alla pari di qualsiasi altro elemento funzionale al giudizio circa il se, il modo e il quantum dell’intervento trattamentale. Una conferma della bontà di questo orientamento sembra venire dalla tendenza ormai consolidata della prassi a escludere il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, nei casi in cui risulta che il soggetto ha commesso il fatto sotto l’influsso di un disturbo mentale transitorio e quindi al momento del giudizio ha ormai riacquistato integralmente le sue facoltà intellettive e volitive. La rinuncia in queste ipotesi al ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario troverebbe infatti fondamento non tanto in un giudizio di non pericolosità del soggetto, quanto piuttosto nella non necessità di trattamento medico-psichiatrico nei confronti dell’imputato. Quello del bisogno di trattamento rimarrebbe comunque un presupposto, che pur incentrato sulle esigenze dell’individuo, ben potrebbe prestarsi a facili manipolazioni per soddisfare istanze di difesa sociale, ispirate alla pura neutralizzazione e al controllo del soggetto psichicamente disturbato, dati anche i margini di incertezza che caratterizzano spesso una diagnosi e prognosi di trattamento. Contro tale rischio un ruolo fondamentale e insostituibile di natura garantistica dovrebbe svolgere il princuzione, come già avviene nel settore dell’esecuzione della pena detentiva. Ciò implicherebbe la possibilità di trattamenti open-door, di trattamento in semilibertà o in condizioni di day hospital. Le modulazioni all’esecuzione oggi offerte dal legislatore con le misure alternative alla detenzione dovrebbero a maggior ragione essere offerte anche all’esecuzione delle misure di sicurezza, rispetto alle quali l’idea specialpreventiva svolge un ruolo decisivo. Per quanto riguarda l’eventualità di un affidamento del prosciolto al servizio sanitario nazionale, come a volte proposto e come attuato in Francia, non sarebbe da rifiutare in linea di principio. L’ostacolo più grande da superare, oltre a una serie di difficoltà pratiche rappresentate ancora oggi dall’inadeguatezza del sistema sanitario, è dato dal problema del consenso al trattamento. Per quanto riguarda l’inadeguatezza, essa risulta particolarmente grave e difficilmente superabile, in ragione del fatto che si tratta di soggetti che hanno violato la norma penale. (48) Nessuna indicazione sembrerebbe possibile cogliere nella Costituzione circa la pericolosità sociale come presupposto necessario della misura di sicurezza. (49) Rientrerebbe nei compiti del perito psichiatra la prognosi di trattamento. Questi infatti dovrebbe fornire indicazioni utili sul tipo di trattamento più idoneo al caso concreto. In proposito v. già BERTOLINO, op. ult. cit., p. 679 ss.
— 871 — cipio di proporzionalità, che andrebbe quindi sancito anche con riferimento alle misure di sicurezza e in particolare per quelle previste per i soggetti psichicamente disturbati. L’irrogazione di una misura di sicurezza nei confronti di questi soggetti, la quale troverebbe il suo presupposto di legittimazione nel bisogno di trattamento, avrebbe il suo limite invalicabile nel principio di proporzionalità, inteso sia nel senso che la misura non andrebbe comunque applicata qualora risultasse sproporzionata al significato dei fatti realizzati e realizzabili dal reo e al grado del pericolo di cui si manifesta capace, secondo quanto già previsto al par. 62 dello StGB della Repubblica federale di Germania, sia nel senso che la durata della misura non dovrebbe in ogni caso eccedere il limite segnato dalla pena, così come stabilito dall’art. 6.2o e dagli artt. 101, 102 e 103 del nuovo codice penale spagnolo. Sicuramente un passo avanti nel cammino verso l’attuazione delle esigenze di proporzione ha fatto il Progetto Grosso, in particolare nel testo riveduto, che all’art. 96, comma 2 prevede espressamente che le misure « non possono comportare restrizioni sproporzionate rispetto alla gravità del fatto ». Questo articolo, intitolato alle « Misure di sicurezza e riabilitative », sostituendo il precedente art. 98 del Progetto, assume la veste di norma fondamentale, in quanto contiene i tre principi garantistici, nonché criteri guida, della disciplina delle misure di sicurezza: accanto a quello di proporzione, novità appunto del testo riveduto, quello di extrema ratio della misura di sicurezza e quello finalistico. La versione originaria del Progetto tuttavia non ignorava il principio di proporzione, che pur non riconosciuto espressamente, trovava in parte attuazione nelle disposizioni successive, riproposte nel testo riveduto. Esse prevedono da un lato le ‘‘cornici edittali’’ generali anche per le misure di sicurezza (art. 99 testo riveduto), dall’altro fissano alcuni presupposti oggettivi legati alla tipologia del reato e alla natura detentiva (reclusione) della pena in funzione delimitativa delle misure di sicurezza riguardanti i soggetti non imputabili (v. art. 97 testo riveduto), nonché il presupposto della abitualità dell’ubriachezza o intossicazione incapacitante ai fini dell’applicazione delle misure elencate nello stesso art. 97 (50). (50) Suscita tuttavia qualche perplessità il richiamo all’abitualità in funzione legittimante e selettiva dei casi in cui applicare la misura di sicurezza. In primo luogo perché si tratta di un concetto non solo scientificamente incerto, ma ormai compromesso dai contenuti retributivi e di prevenzione generale sottesivi dal codice del ’30. In secondo luogo perché, a garantire l’extrema ratio della misure di sicurezza, sembra sufficiente il richiamo al bisogno di trattamento e di controllo di cui al comma 1 dell’art. 96. Il rischio a cui si espone invece la disciplina dell’art. 97, comma 1 è quello di favorire una prassi che si accontenti dell’abitualità dell’ubriachezza o intossicazione incapacitante quale presupposto necessario e sufficiente per l’irrogazione della misura; facendo diventare l’abitualità sinonimo di pericolosità a scapito del bisogno di trattamento, che invece, soprattutto nei confronti dei soggetti alcool o tossicodipendenti, dovrebbe costituire il criterio guida nella scelta del tipo di inter-
— 872 — Quanto alle cornici edittali, l’art. 99, comma 2, come l’art. 101, comma 2 del Progetto originario, stabilisce sì la loro durata, ma solo per quanto attiene a quella minima, compresa fra sei mesi e un anno, con la sola eccezione del ricovero in una struttura con finalità terapeutiche o di disintossicazione, la cui durata minima è prevista tra un anno e cinque anni (art. 97, comma 1, lett. a). Nella disposizione originaria invece quest’ultima durata minima era tra sei mesi e due anni e poteva riguardare in via generale tutte le misure di sicurezza. Solo al comma 7 dell’art. 99, peraltro indipendentemente dalla gravità del reato commesso ed esclusivamente se si tratta di soggetto non imputabile per infermità di mente o altro grave disturbo della personalità, si prevede un limite massimo di durata delle misure, che, nel testo riveduto, passa inaspettatamente da cinque a dieci anni. Ma anche la previsione della durata massima della misura, che dovrebbe rispondere a esigenze di proporzione e di garanzia, viene subito dopo vanificata dalla introduzione di una vistosa deroga all’importante principio di determinatezza del limite massimo di durata della misura di sicurezza, in quanto esso può essere superato, pur in via eccezionale, per qualificate esigenze legate alla pericolosità del soggetto. Tuttavia nella nuova versione, almeno così ci sembra, la deroga opera solamente nel caso di ricovero in una struttura chiusa ex art. 97, comma 4 e sussista, in assenza di tale misura, il pericolo concreto di un delitto contro la vita, l’integrità fisica, la libertà personale, la libertà sessuale o l’incolumità pubblica o comunque con violenza o minaccia contro la persona. Francamente un tale trattamento, inasprito dall’ingiustificato innalzamento del limite massimo di durata, riesce comunque difficile da accettare, in quanto evoca l’idea che esista un rapporto di equivalenza fra infermità mentale e pericolosità, smentito peraltro dal fatto che in realtà il rapporto fra la prima e il comportamento criminoso è stato dimostrato di modesta entità (51). Più in armonia con le istanze garantistiche sottese al principio di proporzione sarebbe stata invece, come per qualsiasi sanzione che interviene vento. Se proprio si vuole introdurre un ulteriore indice selettivo, questo meglio potrebbe essere quello di ‘‘dipendenza’’ dall’alcool o dalla sostanza stupefacente, sul quale v. MANNA, op. cit., p. 19 ss. (51) Tutte le ricerche fino ad oggi svolte dimostrano comunque che la recidiva fra i delinquenti malati di mente è di gran lunga inferiore (54%) a quella registrata fra i delinquenti c.d. normali (80%). Cfr, fra le molte, STEADMAN, COCOZZA, Psychiatry Dangerousness and the Repetitively Violent Offender, in The Journal of Criminal Law and Criminology, 1978, p. 226; v. anche TRAVERSO, Relazione tra malattia mentale e delinquenza. Risultati di una ricerca su 325 ex-degenti, in Neuropsichiatria, 1977, p. 127; RUSSO, Follow-up su 91 malati di mente autori di reato dimessi dall’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona, P.G., in Archivio di medicina legale e delle assicurazioni, 1989, p. 356; MERZAGORA-BETSOS, op. cit., p. 30 datt.
— 873 — a limitare la sfera di libertà dell’individuo, la predeterminazione della durata massima della misura di sicurezza già al momento della sua irrogazione. Solo in seguito a un formale procedimento di revisione, che consentisse al soggetto tutte le garanzie di difesa, si sarebbe potuto pensare a una proroga, per una sola volta e comunque a tempo determinato, della stessa misura o di un’altra più idonea sotto il profilo terapeutico, qualora il soggetto risultasse ancora bisognoso di assistenza e di cura. Mentre il principio costituzionale di legalità-tassatività avrebbe consigliato che le modalità di esecuzione di queste misure fossero fin dall’inizio chiaramente definite. Ma la Commissione non sembra sensibile a queste esigenze, dato che — come si è appena illustrato — in sede di revisione del Progetto originario non esita ad innalzare la cornice edittale minima (compresa ora fra uno e cinque anni) della più grave, ma per questo più bisognosa di ‘‘antidoti’’ garantistici, tra le misure di sicurezza, quella del ricovero in una struttura, e a raddoppiare il limite massimo di durata delle misure per i soggetti non imputabili per infermità o altro grave disturbo della personalità (ora di dieci anni). Quanto ai presupposti oggettivi legittimanti l’irrogazione delle misure di sicurezza, il testo riveduto, diversamente dal precedente, non aggancia più l’applicazione di esse a specifiche tipologie di delitto commesso, a meno che non si tratti di delitto contro il patrimonio, per il quale deve essere comminata la pena della reclusione (art. 97, comma 2). Nel caso però di ricovero in una struttura chiusa, se presupposto legittimante rimane ancora la prognosi di pericolosità in assenza di esso, tale prognosi viene ulteriormente qualificata: deve cioè ricorrere un delitto contro la vita, l’integrità fisica, la libertà personale, la libertà sessuale o l’incolumità pubblica, o comunque con violenza o minaccia contro la persona (art. 97, comma 4) (52). Stupisce dunque che nella relazione che accompagna il testo riveduto ci si riferisca ai cambiamenti di disciplina dell’esecuzione delle misure, in realtà significativi, in termini di « modificazioni di tipo meramente chiarificatore » (53). E ciò appare ancor più sorprendente se si considera che la previsione originaria (art. 101, comma 2) del tetto massimo di 2 anni della durata minima riguardava sì tutte le misure, ma esclusivamente nel caso di pericolo concreto di recidiva qualificata dalla natura del (52) Mentre il precedente art. 99, comma 1 richiedeva per l’irrogazione della misura del ricovero in una struttura chiusa che il soggetto avesse commesso un delitto doloso o colposo contro la vita, integrità fisica, libertà personale, incolumità pubblica ovvero con violenza o minaccia, lett. a); ovvero con riferimento a tutte le altre misure diverse dal ricovero in una struttura chiusa, prevedeva genericamente un diverso delitto per il quale fosse prevista la reclusione, lett. b). (53) Relazione del testo riveduto, cit., p. 9.
— 874 — reato prognosticato (v. art. 99, comma 1) (54) e in ragione del tipo di delitto commesso: contro la vita, integrità fisica, libertà personale, incolumità pubblica ovvero con violenza o minaccia, per il ricovero in una struttura chiusa; un diverso delitto per il quale fosse prevista la reclusione, per tutte le altre misure. Il nuovo testo invece da una parte mantiene il pericolo di reiterazione di reati quale presupposto legittimante del solo ricovero in una struttura chiusa, e restringe l’ambito di operatività della cornice edittale minima nella sua previsione più severa, limitandola alla sola misura del ricovero in una struttura, indifferentemente se chiusa o aperta. Nello stesso tempo però generalizza l’accesso alle misure di sicurezza e in particolare anche a quella del ricovero in una struttura chiusa, rinunciando al presupposto oggettivo della specificità del delitto commesso, a meno che non sia contro il patrimonio, per il quale è comunque necessaria la comminatoria della pena della reclusione. Insomma, da queste modifiche esce una disciplina non solo più rigorosa ma ancora orientata a caricare di istanze preventive di difesa sociale le misure di sicurezza, e in particolare quella del ricovero, soprattutto se in una struttura chiusa. Anch’esso, invece, se ben calibrato, potrebbe assolvere alle esigenze terapeutiche-riabilitative, dato che, come le altre misure, deve essere preferibilmente eseguito « presso strutture facenti parte del normale circuito assistenziale » (art. 97, comma 4). Ma paradossalmente quest’ultima previsione rischia di rimanere lettera morta nel momento in cui — come si è visto — alle istanze riabilitative-rieducative si antepongono quelle preventive. L’impostazione del Progetto, pur nella sua versione riveduta, non riesce dunque ancora ad abbandonare l’orientamento di individuare nella pericolosità sociale, anche se qualificata dal concreto pericolo della commissione di altri delitti di aggressione in assenza di tale misura, e non esclusivamente nel bisogno di trattamento, come da più parti auspicato, il principio e il criterio finalistico per l’applicazione delle misure di sicurezza ai soggetti infermi di mente. Addirittura, nel Progetto originario il riferimento al bisogno di trattamento, contenuto nell’art. 98, comma 1, in alternativa a quello di controllo fra i presupposti di legittimazione della misura di sicurezza, rischiava di rimanere uno sterile richiamo, di natura puramente nominale, privo cioè di qualsiasi concreta conseguenza, se non per eventuali interventi diversi da quello penale (55). E il riconoscimento della funzione di extrema ratio della misura di sicurezza e conseguente(54) V. sub nota n. 52. (55) E infatti l’art. 99, comma 1, lett. a) e b), poneva il pericolo di reiterazione di reati quale presupposto per l’irrogazione sia del ricovero in struttura chiusa, lett. a), sia di tutte le altre diverse misure, lett. b).
— 875 — mente del suo scopo eminentemente preventivo-cautelare orientava a questo risultato. Nel testo riveduto questo rischio sembra in parte superato, poiché la ‘‘nuova’’ pericolosità sociale funge da presupposto del solo ricovero in una struttura chiusa, mentre il comma 4 dell’art. 98 consolida il principio di extrema ratio della misura di sicurezza, affermando che « non si fa luogo all’applicazione di una misura e la misura applicata viene revocata, quando la sua finalità possa essere efficacemente perseguita con strumenti di carattere non penalistico » (56). Lo scopo terapeutico-riabilitativo viene così affidato in primo luogo a istituzioni o istituti diversi da quelli penali. In questa disposizione vi sono tuttavia rischi di due tipi. Il primo concerne la misura di sicurezza, che spogliata o comunque ridotta nei suoi contenuti terapeutici-trattamentali rischia di impregnarsi di forti contenuti di controllo sociale e dunque di prevenzione generale. Il secondo è che anche tale disposizione possa rimanere lettera morta, nel momento in cui gli strumenti di carattere non penalistico non fossero disponibili o affidabili. E proprio a quest’ultimo proposito vale la pena richiamare un orientamento della prassi, espresso anche in una sentenza relativamente recente della Cassazione (57), secondo la quale il giudizio di pericolosità sociale, in particolare di un soggetto riconosciuto semi-infermo di mente, deve essere svolto tenendo conto anche « della situazione obiettiva in cui il soggetto, dopo la commissione del fatto e l’eventuale espiazione della pena, verrebbe a vivere e ad operare e, quindi, anche della presenza ed affidabilità o meno di presidi territoriali socio-sanitari, in funzione delle obiettive e ineludibili esigenze di prevenzione e difesa sociale alla cui salvaguardia sono finalizzate — in difetto di altri strumenti d’intervento e di controllo che assicurino pari o superiore efficacia — le misure di sicurezza previste dalla legge ». Con queste affermazioni la Corte ha così legittimato il giudizio di pericolosità sociale nei confronti di un soggetto riconosciuto semiinfermo fondandolo tra l’altro sulla dimostrata inaffidabilità dei locali servizi di assistenza psichiatrica. Di particolare interesse sono infine le innovazioni per quanto concerne la tipologia delle misure di sicurezza (art. 97) e quelle relative al trattamento del soggetto riconosciuto semi-infermo di mente. Quanto alle prime il Progetto parla non solo di ricovero in una strut(56) Cfr. anche Relazione 2000, cit., p. 70: « Escluso il ricorso alla pena, la giustizia ‘‘penale’’ ha motivo di occuparsi dei non imputabili soltanto in quanto sia necessario il ricorso a forme di coercizione personale. Le misure ‘‘di sicurezza e riabilitative’’ coprono uno spazio ristretto e residuale, trovando applicazione solo in presenza di esigenze comprovate e prioritarie di prevenzione di delitti gravi, tali da rendere insufficiente l’affidamento ai ‘‘normali’’ approcci e istituti miranti alla riabilitazione, e da fare apparire non sproporzionato il recupero di momenti di coercizione, peraltro da inserire comunque nell’ottica riabilitativa ». (57) Cass. 7 dicembre 1994, in Cass. pen., 1995, p. 284.
— 876 — tura con finalità terapeutiche o di disintossicazione ma soprattutto di obbligo di sottoporsi a un trattamento ambulatoriale presso strutture sanitarie ovvero di obbligo di sottoporsi a visita periodica ovvero di presentazione periodica presso i servizi sociali. Quest’ultima misura potrebbe rivelarsi particolarmente adatta a quelle ipotesi nelle quali il riconoscimento dello stato di inimputabilità è dovuto a un disturbo mentale del tutto transitorio, atipico e non patologico e la cui sussistenza è quindi da ricondurre al solo momento del fatto-reato, come nel caso delle c.d. reazioni a corto circuito o dei disturbi dissociativi, quali gli stati di amnesia psicogena. Si tratta di modalità di intervento che ricordano esperienze già realizzate in altri paesi, come ad esempio in Germania con l’istituto di terapia sociale. Ma anche il codice penale sloveno del 1995, per il trattamento sanzionatorio dei non imputabili e semimputabili, prevede cure psichiatriche obbligatorie con ricovero in istituto di cura e cure psichiatriche obbligatorie dei soggetti in libertà. Per i semimputabili applica il principio della fungibilità fra pena e misura, quest’ultima da eseguire prima della pena detentiva. Per quanto attiene alle cure obbligatorie in libertà il codice prevede che in caso di rifiuto di esse da parte dell’autore di reato o nel caso quest’ultimo si sottragga ad esse volontariamente ovvero ancora nel caso in cui esse si rivelino inefficaci il giudice dispone che il provvedimento venga eseguito in un istituto di cura. Le cure psichiatriche obbligatorie con ricovero in istituto di cura possono durare al massimo dieci anni, quelle in libertà due anni. Al termine di ogni anno il giudice deve valutare la necessità della cura e del ricovero. Lo stesso codice prevede cure obbligatorie anche per gli alcolisti e i tossicodipendenti (58). Per essi l’art. 66 prevede la cura obbligatoria da eseguirsi in carcere ovvero in un istituto di cura. Nel caso di condanna condizionale il giudice può imporre al condannato la cura in libertà. Se quest’ultimo la rifiuta o la interrompe volontariamente, viene revocata la condanna condizionale. Ritornando al Progetto italiano, pur non potendo ancora essere definito come un sistema seriamente articolato di misure, quello in esso proposto è certamente più articolato e più orientato alla terapia e alla riabilitazione dei sistemi proposti nei precedenti progetti di codice penale. Tuttavia, quanto alla esecuzione di tali misure, esso prevede che « le misure, anche di ricovero, vengono eseguite preferibilmente presso strutture terapeutiche, o con finalità educativa o riabilitativa, facenti parte del normale circuito assistenziale » (59). Ciò comporta non solo il rischio di favorire, come già si è precisato, facili prognosi di pericolosità in caso di inaffidabi(58) I quali sono considerati penalmente responsabili se erano colpevoli nel momento in cui si sono posti nello stato di incapacità di intendere e di volere, art. 16 c.p. (59) Relazione 2000, cit., p. 71 e infatti l’art. 97, comma 3 sancisce che le misure vadano eseguite preferibilmente presso strutture facenti parte del circuito assistenziale.
— 877 — lità del normale circuito assistenziale, ma anche quello di investire quest’ultimo di compiti di controllo e sicurezza sociale che non gli sono propri, contaminandone il ruolo assistenziale e di cura che invece gli compete, come già successo e denunciato a proposito dei servizi sociali minorili. Nonostante questo limite, il Progetto, rispetto ai precedenti, sembra comunque meglio rispecchiare le linee segnate dalla prima tra le due direttrici del movimento di riforma di cui si è detto, quella che si mantiene fedele al sistema diversificato di pene e misure di sicurezza. Quanto al trattamento del soggetto con capacità ridotta, merita in primo luogo di essere richiamato l’art. 100, comma 3, che, nel disporre con maggiore decisione rispetto all’originario art. 102, stesso comma, del Progetto (60), antepone le istanze di prevenzione speciale a quelle generalpreventive, come criterio guida della risposta sanzionatoria. Alla luce di tale premessa vanno lette anche le disposizioni successive, e in specie quella dell’art. 102, particolarmente originale e interessante, che consente la rinuncia alla pena nei confronti del soggetto, nel quale sia venuta meno la causa di capacità ridotta, sempreché il fatto sia di modesta gravità e non sussistano ragioni di prevenzione generale o speciale a favore della pena o di qualsiasi altra misura. Si tratta di una soluzione normativa che rappresenta un’assoluta novità del diritto penale degli adulti e che rientra nell’indirizzo perseguito dalla Commissione, la quale, a partire da istituti del diritto penale minorile, si muove a favore della ‘‘sostanzializzazione’’ di istituti « formalmente costruiti come ‘‘processuali’’ », ma che « hanno però valenza sostanziale, nel senso che pongono le regole alla cui stregua si determinano gli esiti del procedimento » (61). Particolarmente rappresentativo di siffatto orientamento è l’istituto della « non punibilità per particolare tenuità del fatto », di cui all’art. 107 del testo riveduto, per il trattamento dei minori imputabili. Come è noto, esso è già vigente nel nostro ordinamento con riferimento al solo processo penale minorile nella formula della « sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto » di cui all’art. 27 del d.P.R. n. 448 del 22 settembre 1988 (62). (60) Nella nuova formulazione è stato tolto l’avverbio « essenzialmente », che poteva favorire un’interpretazione in termini tendenziali e non esclusivi della finalità del trattamento, volto al superamento delle condizioni di ridotta capacità. È stato inoltre alleggerito il regime sanzionatorio, introducendo al comma 4 la possibilità di un’attenuazione della pena da un terzo alla metà, mentre l’originario art. 102, non predeterminando la misura della attenuazione, consentiva una riduzione della pena solo fino a un terzo. (61) Relazione 2000, cit., p. 65, che a proposito degli istituti introdotti nel codice di procedura penale minorile osserva: « Si tratta di soluzioni molto ‘‘spinte’’, che danno al vigente diritto penale minorile una caratterizzazione totalmente dominata dalla finalità rieducativa, fino a poter sacrificare completamente l’aspetto propriamente ‘‘punitivo’’, anche in presenza di reati gravi ». (62) Sulla natura sostanziale di tale disposizione e di altre, quale in particolare quella
— 878 — La disposizione proposta all’art. 102, ancorando la decisione al criterio o principio dell’esiguità del fatto (63), rappresenta una prima apertura alle esigenze sottese al principio di offensività del fatto, che il Progetto codifica all’art. 2, comma 2, seppure sotto la rubrica della applicazione della legge penale (64); questa ragione, così come l’esperienza maturata con i minori dovrebbe spingere all’adozione di essa. Dal punto di vista funzional-teleologico, tra le molteplici istanze alla base del principio richiamato, deflattive, specialpreventive, di extrema ratio, di un diritto penale del fatto, la disposizione di cui all’art. 102 sembra preferire quelle di prevenzione speciale. La norma infatti si inserisce a completamento delle scelte normative in tema di capacità ridotta e orientate all’idea della risocializzazione, che il Progetto accoglie in termini espressi, e non solo con riferimento ai minori (65). L’istituto della rinuncia alla pena a certe condizioni assicura infatti una risposta individualizzata e cioè il più possibile adeguata alle esigenze del caso concreto; anche una ‘‘non risposta’’ dunque, là dove un intervento penale rischierebbe di giustificarsi esclusivamente alla luce di esigenze retributive. La rinuncia alla pena risponde altresì al principio dell’extrema ratio della pena detentiva, sottraendo al carcere soggetti autori di reato nei confronti dei quali dell’art. 28, che prevede l’estinzione del reato per esito positivo della prova, sembra non nutrire dubbi la dottrina, cfr. per tutti BRICOLA, Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale, in Studi in memoria di Pietro Nuvolone. Il nuovo processo penale - Studi di diritto straniero e comparato, vol. III, Milano, 1991, p. 87 ss. (63) È questa un’ipotesi in cui l’offesa non è del tutto assente, ma è presente in forma esigua o scarsa. Essa esprime il principio di necessaria offensività secondo un’accezione più ampia e sarebbe comunque da considerare compatibile con lo statuto epistemologico del concetto di offensività: il quale appartiene alla categoria logica dei concetti « ‘‘comparativi’’, cioè quantitativamente graduabili, nel senso di denotare appunto entità differenziabili secondo scale di diversa gravità » (FIANDACA, L’offensività è un principio graduabile?, Relazione presentata alla Conferenza nazionale. Progetto preliminare di riforma del codice penale. Siracusa, 3-5 novembre 2000, cit. p. 7 s. datt.). (64) A proposito di siffatta scelta sistematica, la Relazione, Relazione 2000, cit., p. 8, precisa che tale rubrica è stata preferita a quella di « un autonomo principio di irrilevanza penale dei fatti tipici inoffensivi. In questo modo, riconducendo sostanzialmente la regola enunciata entro i confini della interpretazione, si è ritenuto di superare le eccessive tensioni con il principio di legalità che una collocazione diversa avrebbe rischiato di determinare ». La scelta sistematica è stata dunque a favore della dimensione ermeneutica del principio, cioè come criterio giudiziario-interpretativo e non di quella costituzionale quale criterio orientativo delle scelte politico legislative di criminalizzazione; su questa duplice prospettiva del principio di offensività con riferimento al Progetto, v. DONINI, op. cit., p. 5 ss. datt.; FIANDACA, op. cit., p. 1 ss. datt. (65) L’art. 70, intitolato « Orientamento alla prevenzione speciale », recita infatti: « 1. In tutte le decisioni concernenti gli istituti disciplinati da questo titolo, o le misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario, il giudice, nell’esercizio del suo potere discrezionale, adotta la soluzione più adeguata per finalità di prevenzione speciale. 2. Le valutazioni e decisioni sulle scelte sanzionatorie non possono essere motivate da ragioni di esemplarità punitiva o di allarme sociale ».
— 879 — qualsiasi reazione dell’ordinamento, anche di natura preventiva, appaia priva di significato. Il principio di risocializzazione, pur nel suo contenuto minimale di non desocializzazione viene così attuato. Tuttavia, se, come sembra, sul fronte sanzionatorio domina la finalità di prevenzione speciale, e ciò incontestabilmente nei confronti di autori ‘‘non normali’’, qualche perplessità suscita il riferimento alla mancanza di « esigenze di prevenzione generale » fra i parametri di valutazione discrezionale ai fini della concessione della condanna con rinuncia alla pena. Venute meno le condizioni di ridotta capacità, risultando il fatto di modesta gravità e in assenza di istanze specialpreventive anche negative, il mantenere il richiamo a quelle generalpreventive espone al pericolo di scelte sanzionatorie motivate da ragioni di esemplarità punitiva o di allarme sociale; e ciò contro il dettato dell’art. 70, comma 2, che espressamente le vieta. Il richiamo alle esigenze di prevenzione generale è d’altra parte presente anche nell’art. 74 del testo riveduto. Tale disposizione, « allo scopo di rispondere a sollecitazioni emerse nel corso del dibattito sull’articolato del Progetto preliminare », disciplina « con molta cautela » (66) e per la prima volta come principio generale del diritto penale degli adulti la irrilevanza penale del fatto sotto forma di una causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, scongiurando così il paventato pericolo di un’interpretazione estensiva del principio di offensività (67), favorita da una malintesa esigenza di supplenza giudiziaria. Quello dell’art. 74 è sicuramente un istituto orientato in primo luogo (66) Relazione sulle modificazioni, cit., p. 7 s.: « La scelta di prevedere una causa di non punibilità inserita nel capo dedicato alla commisurazione della pena non è casuale: si è inteso in tal modo sottolineare il carattere ‘‘sostanziale’’ dell’istituto, ed inquadrare lo stesso nel capitolo della determinazione in concreto della pena, che può concretarsi, rilevati determinati presupposti, in una declaratoria di non applicazione della pena, e pertanto di non punibilità. L’introduzione del principio generale di irrilevanza penale del fatto è stato realizzato comunque con molta cautela: oltre che alla particolare tenuità del fatto, si è infatti richiesto che il comportamento illecito sia stato occasionale, che non sussistano pretese risarcitorie, che non sussistano esigenze di prevenzione generale e speciale tali da richiedere una qualsiasi misura nei confronti dell’autore del reato, che si tratti di reato punito con pena detentiva anche nel massimo non particolarmente grave ». (67) Sottolineava questo rischio FIANDACA, op. cit., p. 7 datt., il quale, a proposito della scelta del Progetto originario di fermarsi alla codificazione del solo principio di offensività, osservava che tale scelta rappresentava una visione riduttiva dell’offensività, circoscritta cioè « all’alternativa binaria offesa presente-offesa (totalmente) mancante » e che in realtà sarebbe stata « destinata ad avere un’efficacia deflattiva assai modesta: sono verosimilmente poche infatti, nell’esperienza giudiziaria concreta, le ipotesi di fatti tipici del tutto inoffensivi. Per questa ragione, potrebbe affacciarsi con un’intensità difficilmente resistibile la tentazione giurisprudenziale di interpretare la non punibilità per mancanza di offesa in una accezione più estensiva: vale a dire, come comprensiva anche dei casi, statisticamente invece più numerosi e frequenti, in cui l’offesa non è totalmente mancante ma, pur essendo presente, si manifesta in forma esigua o scarna ».
— 880 — alla soddisfazione di esigenze pratiche di natura deflattiva, come la stessa Commissione riconosce allorché si è posta l’interrogativo, se, introdotto il principio di irrilevanza penale del fatto, bisognasse rinunciare a quello di inoffensività enunciato all’art. 2, comma 2. A tale proposito i riformatori hanno « ritenuto di non eliminare tale ultimo articolo trattandosi di norma che enuncia un principio generale di civiltà in tema di responsabilità penale, il cui significato teorico nulla ha a che vedere con le esigenze pratiche cui risponde la disciplina di cui all’art. 74 ». Ed è proprio in ragione del prevalere di queste ultime esigenze su quelle di prevenzione speciale e di extrema ratio che può giustificarsi il riferimento dell’articolo in esame all’assenza di istanze di prevenzione generale ai fini della concessione del beneficio. Infatti gli scopi deflattivi, nonostante ciò sia contraddetto dalla realtà dell’attuale sistema penale, non potrebbero comunque essere perseguiti a scapito della tenuta generalpreventiva del sistema penale stesso. Le tre ipotesi di irrilevanza penale del fatto previste dal Progetto, e cioè quella generale dell’art. 74, quella specifica per la capacità ridotta dell’art. 102, estesa — come vedremo — dall’art. 103 ai casi di persone pienamente capaci ma in condizioni deficitarie, e quella speciale per i minori imputabili di cui all’art. 107 hanno dunque un comune principio ispiratore, quello della esiguità « quale dimensione quantitativa dell’offensività minima in concreto e della modestia degli altri profili di addebito personale e di rilevanza sociale del fatto concreto » (68). Se dunque tali ipotesi hanno in comune la vocazione, in comune dovrebbero avere anche la ragione della non applicazione della pena, come d’altra parte riconosce la stessa Commissione a proposito della norma speciale dell’irrilevanza del fatto con riferimento ai minori imputabili (art. 107). Essa viene infatti mantenuta, « in quanto subordinata a requisiti meno numerosi rispetto a quelli enunciati in via generale nell’art. 74 », ma la ragione della non applicazione della pena viene resa omogenea, sostituendo la formula della declaratoria di non luogo a procedere con quella della dichiarazione di non punibilità. La mancata omogeneizzazione alla regola generale della causa di non punibilità anche dell’ipotesi di cui all’art. 102 non sembra dunque trovare una convincente giustificazione, se non nel fatto che, essendo anch’essa, come la norma speciale dell’irrilevanza del fatto per i minori, subordinata a requisiti meno numerosi e meno rigorosi, debba trovare applicazione soltanto in via residuale, cioè in quelle ipotesi alle quali non sia applicabile la causa generale di non punibilità di cui all’art. 74 (69). Se così non (68) DONINI, op. cit., p. 5 datt. (69) Le due norme allora andrebbero meglio coordinate, ad esempio attraverso una clausola di riserva nell’art. 102.
— 881 — fosse, il continuare a richiedere per i soli soggetti con capacità ridotta, diversamente dalle altre ipotesi, la condanna quale presupposto della non punibilità non potrebbe che assumere una funzione rassicurante e simbolica nei confronti di un autore di reato a metà strada fra normalità e anormalità psichica, la quale ultima troppo spesso rappresenta una spiegazione non appagante né sufficientemente tranquillizzante del fatto di reato. Sempre in tema di capacità ridotta particolarmente innovativa è anche la disciplina dell’art. 101. Nei confronti di un soggetto con capacità ridotta esso prevede la sospensione condizionale della pena per una durata non superiore a 3 anni (v. art. 79, comma 2), subordinata all’accettazione di un programma di trattamento in libertà, in aggiunta o in sostituzione degli altri obblighi di cui agli artt. 81 e 82 (70): sono i c.d. contenuti positivi della sospensione condizionale (71). Nel testo originale del Progetto però la durata di questi obblighi veniva, forse in maniera troppo frettolosa, estesa anche al programma riabilitativo, il quale alla fine poteva prolungarsi per tutta la durata della sospensione condizionale: 7 anni per delitto doloso, da 3 a 5 anni negli altri casi. La peculiarità del caso avrebbe invece richiesto la individuazione di autonomi e specifici criteri di durata, indipendenti cioè dalle eventuali esigenze di riparazione del danno o di responsabilizzazione del condannato attraverso la pena sospesa. Il testo riveduto sembra ovviare a queste lacune, potenziando in proposito la discrezionalità giudiziale, particolarmente importante e a volte risolutiva dei problemi posti dall’imputabilità. Il nuovo art. 82 stabilisce infatti che sia il giudice, entro i limiti del periodo di sospensione, a definire la durata degli obblighi, con la possibilità di una successiva riduzione o prolungamento di essa. Mentre l’art. 83 riduce ad un unico e generale termine di cinque anni il periodo di sospensione (72). Sempre sotto il profilo del trattamento, occorre ricordare a questo punto anche l’art. 103, che sembra espressione della seconda direttrice di (70) In particolare l’art. 82 (ma il testo dell’art. 101 rinvia erroneamente all’art. 83) prevede gli obblighi qualificati e fra questi il testo riveduto ha inserito anche « la sottoposizione a trattamento terapeutico o riabilitativo », al quale può essere subordinata la sospensione condizionale anche al di fuori di ipotesi di capacità ridotta. (71) Secondo un modello di sospensione condizionale a carattere tipicamente probatorio, con funzione elettivamente di tipo specialpreventivo, fondata su contenuti di sostegno, pur con prescrizioni limitative della libertà personale e applicabile anche a reati di una certa gravità, cfr. PALAZZO, Esecuzione progressiva e ‘‘benefici’’ penitenziari: che cosa conservare, Relazione presentata al XXIII convegno di Studi Enrico de Nicola su ‘‘Sistema sanzionatorio: effettività e certezza della pena’’, Casarano-Gallipoli 27-29 ottobre 2000, p. 8 datt., il quale distingue questo modello di sospensione da quello a carattere sanzionatorio, di misura di intimidazione speciale, fondato interamente sul momento della revoca, utilizzabile in rapporto a reati di bassa gravità, arricchita di contenuti riparatori, operanti nel loro originario significato civilistico sanzionatorio. (72) Tale termine può essere innalzato a sette anni, se ciò appare utile per l’adempimento degli obblighi relativi alla riparazione delle conseguenze del reato di cui all’art. 81.
— 882 — riforma menzionata all’inizio e cioè di quella favorevole a un potenziamento e a una diversificazione delle risposte orientate alla prevenzione special-riabilitativa anche nei confronti di soggetti riconosciuti capaci, ma psichicamente disturbati ovvero, per usare le parole del Progetto, in « condizioni deficitarie », nonché di soggetti in stato di tossicodipendenza o di alcoolismo abituale (73). Nei loro confronti la proposta di riforma prevede infatti l’estensione di istituti quale quello della condanna con rinuncia alla pena (74) ovvero quello della sospensione condizionale della pena con sottoposizione a un programma di trattamento (75). Questa disciplina è particolarmente importante perché rappresenta il primo passo verso un sistema più articolato per risolvere, sotto il profilo sanzionatorio, quei casi in cui, pur risultando l’agente di reato psichicamente disturbato, non si sia giunti al riconoscimento di un’incapacità di intendere e di volere ovvero di una capacità ridotta. Sono le ipotesi riguardanti soprattutto i soggetti psicopatici, quelli nevrotici o i soggetti c.d. disadattati. Diversi stati europei proprio nei confronti di questi soggetti prevedono una particolare e autonoma disciplina: così ad es. l’Olanda, l’Austria, il Belgio (76). Anche l’esperienza anglosassone e statunitense a tale proposito è molto significativa. Le soluzioni offerte sono molteplici e vanno dagli hospital orders al probation con prescrizione di trattamento per quanto riguarda l’Inghilterra, alla sentenza di colpevole ma mentalmente disturbato (guilty but mentally ill) negli Stati Uniti d’America. Proprio questa ultima formula potrebbe essere un’indicazione interessante a favore della introduzione anche in Italia di una formula processuale analoga di ‘‘colpevole ma psichicamente disturbato’’. Una scelta in tal senso aprirebbe la strada a una serie articolata e diversificata di possibili sanzioni, fra le quali il giudice potrebbe scegliere quella più idonea nel caso concreto a soddisfare esigenze di cura, di controllo e, ma solo in via residuale, di prevenzione generale. A questo punto, l’arsenale dei possibili interventi a disposizione del giudice in luogo della pena detentiva potrebbe essere molto ricco. Come avvenuto in Inghilterra, gli hospital orders e il probation con prescrizione di trattamento psichiatrico potrebbero costituirne il nucleo centrale. Ma il giudice qualora lo ri(73) Sul requisito della abitualità v. retro, sub nota n. 50. (74) In proposito v. peraltro le osservazioni svolte sopra in questo stesso paragrafo. (75) Anche se nella versione riformata i contenuti della pena sospendibile nei confronti di soggetti con capacità ridotta non sono più così peculiari, poiché l’art. 82 — come si è detto — fra gli obblighi qualificati ai fini della concessione della sospensione ha giustamente inserito anche quello di sottoposizione a un trattamento terapeutico o riabilitativo. Andrebbe chiarito se si tratta, come sembrerebbe, dello stesso trattamento di cui all’art. 101, il quale peraltro aggiunge l’obbligo dell’accettazione da parte del condannato; nel qual caso le due norme andrebbero coordinate. (76) Cfr. in proposito BERTOLINO, op. ult. cit., p. 143 ss.
— 883 — tenesse preferibile, potrebbe anche ricorrere a una di quelle misure in precedenza indicate per i soggetti dichiarati non imputabili, in particolare all’istituto di terapia sociale. Infine, il rilievo che con quella formula processuale si è dato al profilo psicologico potrebbe influire anche ai soli fini di un’attenuazione della pena, così come già sperimentato in Spagna con l’art. 21, n. 1 del nuovo codice penale ovvero, in modo più incisivo, ai fini di particolari modalità di esecuzione della pena detentiva inflitta, una volta che il giudice si sia orientato in tal senso. Per quanto riguarda il problema relativo alla durata di tutte queste sanzioni alternative alla pena detentiva o pecuniaria, non appare persuasivo l’orientamento secondo il quale lo scopo di cura e di risocializzazione, che connota in modo pregnante alcune di esse, spingerebbe inderogabilmente verso una loro indeterminatezza relativamente alla durata. Ad evitare un simile risultato la dichiarazione di responsabilità svolge un ruolo fondamentale di garanzia. Come qualsiasi pena, anche queste andrebbero perciò prefissate nella loro durata secondo i principii propri della commisurazione, salvo poi riconoscere al giudice la possibilità di ‘‘ritoccarle’’ verso il basso o di precisarne le modalità di esecuzione in ragione delle particolari e attuali condizioni psichiche del reo. In una riforma del genere appare chiaro che l’istituto della semi-imputabilità non svolgerebbe più un ruolo decisivo e perderebbe quella significatività teorica che oggi viene riconosciuta a tale istituto. Alcune considerazioni conclusive sulla disciplina dell’imputabilità proposta dal Progetto. Essa merita particolare consenso, in quanto rappresenta il primo modello di una riforma seriamente orientata da una politica criminale che vuol essere risposta alle esigenze di prevenzione: ne è testimonianza l’originalità e la flessibilità del sistema sanzionatorio proposto. Tuttavia, l’aver puntato a una prevenzione speciale di contenuto terapeutico-riabilitativo che tende a prescindere dalla giustizia penale come reazione sociale al reato commesso rischia di svuotare di contenuti veramente risocializzanti il sistema delle misure di sicurezza così coraggiosamente rinnovato. Esso potrebbe invece prestarsi a ulteriori arricchimenti, qualora le istanze politico criminali di controllo e di difesa sociale cedessero in maniera più convincente il passo a quelle di prevenzione speciale con contenuto positivo. MARTA BERTOLINO Ordinario di Diritto penale nell’Università di Milano-Bicocca
LA RESPONSABILITÀ COLPEVOLE NELL’ARTICOLATO DELLA PARTE GENERALE DEL PROGETTO GROSSO (*)
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. L’evoluzione della « teoria della responsabilità oggettiva » e i diversi livelli in cui essa si articola. — 3. Il reato aberrante e le ipotesi di responsabilità oggettiva « in senso stretto »: a) l’aberratio delicti monolesiva e plurilesiva; b) l’aberratio ictus plurilesiva. La figura controversa dell’aberratio ictus monolesiva e l’art. 34 del Progetto Grosso. — 4. Il reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti (art. 116 c.p.). — 5. L’art. 117 c.p. — 6. L’illecito penale preterintenzionale inteso in senso lato: responsabilità oggettiva « mista » e natura dei delitti aggravati dall’evento. — 7. Condizioni obiettive di punibilità e principio di colpevolezza. — 8. Le principali ipotesi di responsabilità « anomala » nella legislazione penale italiana: i residui di incostituzionalità in materia di imputabilità. — 9. L’imputazione soggettiva del fatto e la necessità di arginare la « responsabilità oggettiva occulta ». L’accertamento « verso il basso » delle forme della responsabilità colpevole. - 9.1. Il problema del dolo eventuale. - 9.2. Le tipologie della colpa e la logica del versari in re illicita.
1. Premessa. — La piena realizzazione del principio costituzionale di personalità della responsabilità penale rappresenta un obiettivo sostanziale di primaria importanza nell’ambito di un moderno sistema penale. Tale affermazione può dirsi oggi condivisa dall’orientamento assolutamente dominante della letteratura italiana, dopo che la celebre sentenza n. 364 del 1988 della Corte costituzionale ha riconosciuto il valore cogente — e non di mero indirizzo politico criminale — del principio di colpevolezza (1). Com’era auspicabile, anche i più recenti tentativi di codificazione pe(*) Si tratta del testo, con l’aggiunta delle più recenti indicazioni bibliografiche, della relazione svolta alla Conferenza Nazionale su « Progetto preliminare di riforma del codice penale », ISISC, Siracusa, 3-5 novembre 2000. (1) Corte cost., 24 marzo 1988, n. 364, in questa Rivista, 1988, p. 686 ss., con nota di PULITANÒ, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, partic. p. 699 s.; cfr. altresì i commenti di FIANDACA, Principio di colpevolezza e ignoranza scusabile della legge penale: « prima lettura » della sentenza n. 364/88, in Foro it., I, 1988, p. 1385 ss.; PALAZZO, Ignorantia legis: vecchi limiti e orizzonti nuovi della colpevolezza, in questa Rivista, 1988, p. 920 ss.; FIORELLA, (voce) Responsabilità penale, in Enc. del dir., vol. XXXIX, Milano, 1988, p. 1294 s.
— 885 — nale — Progetto Pagliaro (1992) (2); Disegno Riz (1995) (3); Progetto Grosso (2000) (4) — hanno avvertito la necessità di accogliere le istanze personalistiche connesse all’idea della responsabilità colpevole (5). Tuttavia, se vi è concordia tra i progetti di riforma in ordine alla consacrazione costituzionale del principio « nullum crimen, nulla poena sine culpa », permangono divergenze significative sulle soluzioni da adottare in vista di una sua completa attuazione. A nostro avviso, ciò dipende da un duplice ordine di motivazioni. Per un verso, sono perduranti i contrasti della nostra dottrina penalistica in relazione alle diverse combinazioni tipologiche nelle quali si manifesta la responsabilità oggettiva c.d. « in senso stretto ». Per l’altro, il mancato approfondimento di alcuni connotati che caratterizzano la categoria dogmatica della « colpevolezza » rischia di offuscare i contenuti del fenomeno della c.d. responsabilità oggettiva intesa « in senso ampio ». Ed invero, in quest’ultima dimensione vengono in considerazione le finzioni sul piano psicologico o le presunzioni legali di colpevolezza — si pensi anche alle ipotesi di responsabilità anomala presenti nel diritto penale complemen(2) Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, predisposto dalla Commissione ministeriale nominata dal Ministro di grazia e giustizia prof. Vassalli nel febbraio 1988 e presieduta dal prof. Pagliaro, in Doc. giust., 1992, p. 305 ss.; in IP, 1992, p. 579 ss. (3) Disegno di legge n. 2038, d’iniziativa dei senatori Riz e altri, presentato al Senato della Repubblica nel corso della XII Legislatura, comunicato alla Presidenza il 2 agosto 1995, riguardante la riforma del Libro I del codice penale, in questa Rivista, 1995, p. 927. (4) Progetto preliminare di riforma del codice penale. Parte generale. Articolato, redatto dalla Commissione ministeriale per la riforma del codice penale istituita dal Ministro di grazia e giustizia prof. Flick con d.m. 1o ottobre 1998, presieduta dal prof. Grosso. Tale Progetto è stato pubblicato nel settembre 2000, con corredo di ampia Relazione esplicativa, in Internet: http://www.giustizia.it/studierapporti/riformacp/commgrosso2art.htm. Il Progetto, contenente l’Articolato (limitato alla sola parte generale) e la suddetta Relazione esplicativa, era stato preceduto dalla Relazione della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale, in questa Rivista, 1999, p. 600 ss. (sulla colpevolezza, pp. 605610). Nel presente lavoro i tre documenti saranno citati rispettivamente come Progetto Grosso (o Articolato), Relazione esplicativa (2000), Relazione Grosso del 1999. (5) Progetto Pagliaro, art. 12, comma 1: « Escludere qualsiasi forma di responsabilità incolpevole, prevedendo due sole forme di imputazione: il dolo e la colpa ». Progetto Riz, art. 38, comma 2: « Nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come delitto se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto colposo espressamente preveduti dalla legge »; art. 38, comma 3: « Nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come contravvenzione se non lo ha commesso con dolo o con colpa salvo che la legge preveda la punibilità solo a titolo di dolo ». Progetto Grosso, art. 28, comma 1: « La colpevolezza dell’agente per il reato commesso è presupposto indefettibile della responsabilità penale »; art. 28, comma 2: « Nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come delitto se non lo ha realizzato con dolo, salvi i casi di delitto colposo espressamente previsti dalla legge »; art. 28, comma 3: « Nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come contravvenzione se non lo ha realizzato con dolo o con colpa ».
— 886 — tare —, nonché quelle tendenze giurisprudenziali ad aggirare l’accertamento delle specifiche componenti del dolo e della colpa (responsabilità oggettiva « occulta »). Come vedremo subito, le prese di posizione della Commissione Grosso nei confronti dei casi di responsabilità oggettiva « in senso stretto » appaiono largamente condivisibili. A ragione, si può sostenere che gli interventi ablativi effettuati dall’articolato consentirebbero di allineare il nostro ordinamento ai sistemi penali europei più evoluti, i quali hanno da tempo eliminato le figure « tradizionali » contaminate dall’iniquo canone medievale « qui in re illicita versatur tenetur etiam pro casu » (6). In tale prospettiva si assisterebbe, dunque, ad una coerente affermazione del principio di personalità della responsabilità penale nel consueto significato di « commissione del fatto almeno per colpa incosciente ». Per ciò che riguarda invece le capacità espansive del principio di colpevolezza lato sensu, il discorso si presenta assai più complesso in quanto coinvolge numerosi ambiti, abbracciando tematiche del tutto eterogenee come la struttura del dolo e della colpa, la natura e l’estensione delle cause « scusanti » o di inesigibilità, l’intero settore della commisurazione della pena, ecc. Ovviamente, in questa sede è opportuno circoscrivere le nostre osservazioni a quanto dispone il Progetto Grosso nei confronti dei coefficienti soggettivi dell’illecito penale; consapevoli che soltanto un continuo affinamento dei criteri di imputazione consente di arginare — superando una sterile contrapposizione tra « categorie » e « principi » (7) — quei fenomeni degenerativi tesi a vanificare una espressione effettiva del « nullum crimen, nulla poena sine culpa ». 2. L’evoluzione della « teoria della responsabilità oggettiva » e i diversi livelli in cui essa si articola. — La nozione di responsabilità oggettiva « in senso stretto » non può limitarsi a ricomprendere le ipotesi tradizionali, nelle quali viene accollato all’agente un evento sulla base del solo rapporto di causalità materiale, indipendentemente dal concorso del dolo e della colpa (nel senso che tali parametri di imputazione possono man(6) Sul tema v., nella letteratura italiana, DOLCINI, Dalla responsabilità oggettiva alla responsabilità per colpa: l’esperienza tedesca in tema di delitti qualificati dall’evento, in AA.VV., Problemi generali di diritto penale, a cura di Vassalli, Milano, 1982, p. 255 ss.; MILITELLO, Il diritto penale nel tempo della « ricodificazione », in questa Rivista, 1995, p. 805 ss.; CANESTRARI, (voce) Responsabilità oggettiva, in DDP, vol. XII, Torino, 1997, p. 111 s.; nella manualistica straniera, p.t., JESCHECK, WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, AT, 5a Aufl., Berlin, 1996, p. 261 ss.; ROXIN, Strafrecht AT, 3a Aufl., Bd. I, München, pp. 275-281; LUZÓN PEÑA, Curso de Derecho penal. Parte general I, Madrid, 1996, p. 533 ss. (7) Sul punto, sia consentito rinviare alle convinzioni che avevamo manifestato nella voce Responsabilità oggettiva, cit., p. 110 ss.. In generale, sul rapporto tra « principi », « regole » e « categorie », cfr. DONINI, (voce) Teoria del reato, in DDP, vol. XIV, Torino, 1999, p. 16 ss. dell’estratto.
— 887 — care o è consentito prescindere dal loro accertamento). È necessario, allora, rendere più attuale il concetto classico di responsabilità oggettiva, che deve includere altresì quei casi in cui vengono posti a carico dell’agente elementi del fatto diversi dall’evento in quanto oggettivamente esistenti, benché rispetto ad essi non vi sia dolo, né colpa (8): si fa riferimento principalmente all’art. 117 c.p. e alla fattispecie di parte speciale di cui all’art. 609-sexies c.p. che ripropone, in termini analoghi rispetto all’abrogato art. 539 c.p., l’assoluta irrilevanza dell’error aetatis nei reati contro la libertà sessuale in danno di un minore di anni quattordici (9). Ciò posto, occorre invocare — ancora e con l’impulso autorevole delle fondamentali sentenze della Corte costituzionale del 23 marzo 1988, n. 364 e del 13 dicembre 1988, n. 1085 (10) — interventi legislativi « soppressivi » delle figure riconducibili a siffatta visione più moderna della responsabilità oggettiva c.d. « in senso stretto », anche in virtù del fatto che non tutti gli istituti coinvolti possono essere ricostruiti in conformità alla Costituzione ed applicati dal giudice come se contenessero il limite della colpa (11). In tale direzione, l’urgente opera del riformatore deve essere sorretta da un’« elevata » consapevolezza dogmatica in ordine alla complessa fisionomia del requisito della colpa, nonché alle molteplici composizioni tipologiche fecondate dal criterio del versari (dall’aberratio delicti all’illecito preterintenzionale). Ed invero, l’imputazione « per colpa » dell’evento — di un elemento diverso o del fatto — non voluto può produrre conseguenze assai diffe(8) Di recente, in questa direzione, la nostra letteratura più attenta: v., p.t., ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, 2a ed., Milano, 1995, sub art. 42/24, p. 395; MARINUCCI, DOLCINI, Corso di diritto penale, 1, Le fonti. Il reato: nozione, struttura e sistematica, 2a ed., Milano, 1999, p. 321; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, Parte generale, 3a ed., Bologna, 1995, p. 576 ss.; MANTOVANI, Diritto penale, 3a ed., Padova, 1992, p. 387 ss.; PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1990, p. 267; ALESSANDRI, Il 1o comma dell’art. 27, in Commentario della Costituzione, a cura di BRANCA e PIZZORUSSO, Bologna-Roma, 1991, p. 99 ss. (9) Sul punto, cfr. BERTOLINO, La riforma dei reati di violenza sessuale, St. iur., 1996, p. 406 s.; MOCCIA, Il sistema delle circostanze e le fattispecie qualificate nella riforma del diritto penale sessuale (l. 15 febbraio 1996, n. 66), un esempio paradigmatico di sciatteria legislativa, in questa Rivista, 1997, p. 416 ss.; CADOPPI, sub art. 7, in CADOPPI (a cura di), Commentari delle norme contro la violenza sessuale e della legge contro la pedofilia, 2a ed., Padova, 1999, p. 237 ss.; PROVERBIO, in DOLCINI, MARINUCCI (a cura di), Codice penale commentato, Parte sp., vol. II, Milano, 1999, sub art. 609-sexies, p. 3193 ss.; da ultimi, B. ROMANO, La tutela penale della sfera sessuale, Milano, 2000, p. 213 ss.; RISICATO, Error aetatis e principio di colpevolezza: un perseverare diabolicum, in questa Rivista, 2000, p. 584 ss. (10) Il testo della sentenza può leggersi in questa Rivista, 1990, p. 289 ss., con nota di VENEZIANI, Furto d’uso e principio di colpevolezza, ivi, p. 299 ss.; cfr. altresì i commenti di BARTOLETTI, LP, 1989, p. 415 e INGROIA, in Foro it., 1989, I, p. 1378. (11) Cfr., infra, parr. 3 e ss.; più ampiamente, CANESTRARI, (voce) Responsabilità oggettiva, cit., p. 119 ss.
— 888 — renti nei confronti delle diverse categorie, e dare luogo, laddove sia « praticabile », a prestazioni efficaci oppure « deludenti », a seconda che si comprenda o meno il peculiare atteggiarsi dei contrassegni della colpa negli eterogenei contesti di volta in volta in considerazione. Quest’ultimo rilievo richiederebbe un discorso ben più ampio: qui è sufficiente porre in evidenza che la via da percorrere deve muovere dal riconoscimento di una pluralità di « articolazioni » del concetto di colpa (12) — come appare evidente riflettendo, ad es., sulla natura della colpa in tema di circostanze o in materia di « preterintenzione » —, evitando però il rischio consistente nella pretesa di edificare una distinta ed ulteriore nozione di colpa o tipologia di responsabilità (« da rischio vietato ») (13), la quale finirebbe per legittimare una « specie amputata » ed anomala di responsabilità « colpevole » (14). Quanto detto conferma la validità delle scelte effettuate dalla Commissione Grosso, le quali saranno oggetto di un’analisi dettagliata; per intanto, non è superfluo precisare come tali opzioni presuppongano l’auspicata abrogazione dell’art. 42, comma 3, c.p., in quanto tale disposizione ammette una forma d’imputazione dell’illecito « altrimenti » che per dolo o per colpa (15). 3. Il reato aberrante e le ipotesi di responsabilità oggettiva « in senso stretto ». — a) L’aberratio delicti monolesiva e plurilesiva. — Com’è noto, l’art. 83 c.p., mentre fissa il paradigma del delitto aberrante, rinvia alle norme che descrivono le singole fattispecie dolose e a quelle che disciplinano i delitti colposi; tuttavia, nei confronti delle seconde le fattispecie aberranti mutuano solo alcuni tra gli elementi costitutivi. In particolare, esse sono assoggettate, sul piano delle conseguenze sanziona(12) Sul punto, v. CANESTRARI, (voce) Preterintenzione, in DDP, vol. IX, Torino, 1995, p. 710 ss.; p. 716 ss.; da ultimo, cfr., nella letteratura d’oltralpe, IDA, Inhalt und Funktion der Norm beim fahrlässigen Erfolgsdelikt, in H.J. HIRSCH FS, Berlin-New York, 1999, p. 225 ss. (13) Cfr. PAGLIARO, Principi di diritto penale, Parte generale, 7a ed., Milano, 2000, p. 320 ss.; ID., Fatto, condotta illecita e responsabilità oggettiva, in questa Rivista, 1985, p. 645 ss.; ID., Responsabilità oggettiva, in Studi Vassalli, I, Milano, 1991, p. 179 ss.; ARDIZZONE, I reati aggravati dall’evento. Profili di teoria generale, Milano, 1984, p. 117 ss.; MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988, p. 259 ss. (14) In tal senso cfr., p.t., MARINUCCI, Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza, in AA.VV., Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali (Atti XIX Convegno « Enrico de Nicola », St. Vincent 6-7 maggio 1994), Milano, 1996, p. 148 ss.; MARINUCCI, DOLCINI, Corso, cit., p.331, nt. 55; PALIERO, Grunderfordernisse des Allgemeinen Teils für ein europäisches Sanktionrecht, ZStW (Bd. 110), 1998, p. 433, laddove sostiene che alcune opzioni del Progetto Pagliaro finivano per conservare ipotesi di responsabilità oggettiva « sotto la falsa etichetta » di colpa. (15) In questa direzione — come già ricordato (v. nt. 5) — anche il Progetto Pagliaro e il Disegno Riz.
— 889 — torie, al regime proprio delle corrispondenti previsioni incriminatrici colpose dalla formula « a titolo di colpa » predisposta dal legislatore; quest’ultima non indica un presupposto di imputazione dell’« offesa aberrante », ma disciplina, per relationem, soltanto l’equivalenza della responsabilità per un simile fatto. Sebbene tale inciso sia stato generalmente interpretato nel senso ora espresso (16), non sono mancati pareri divergenti: alcuni Autori sostengono infatti che esso individui anche un elemento di fattispecie, da accertarsi caso per caso (17). Siffatta opinione, sorretta dall’encomiabile intento di ridurre le ipotesi di responsabilità oggettiva, non può però persuadere. Ed invero, qualora fosse accolta, essa decreterebbe — a tacer d’altro — la superfluità dello stesso art. 83 c.p., che finirebbe per disciplinare una materia già regolata dall’art. 43, comma 1, 3a linea, c.p. (18). Ecco, allora, che si deve auspicare l’eliminazione delle figure dell’aberratio delicti monolesiva e plurilesiva, le quali non avrebbero più alcun autonomo spazio applicativo nell’ambito di un sistema penale orientato a dare reale attuazione al principio nullum crimen, nulla poena sine culpa (19): l’opzione abrogativa — riproposta con convinzione dal Progetto Grosso — potrebbe dunque rendere operativi alcuni criteri volti ad accertare la struttura « oggettiva » della colpa e l’ulteriore verifica della colpevolezza « colposa ». (16) Sul punto cfr., tra i tanti, M. GALLO, « Aberratio delicti, causae », in Enc. del dir., vol. I, Milano, 1958, p. 62; GROSSO, Struttura e sistematica dei c.d. « delitti aggravati dall’evento », in questa Rivista, 1963, p. 447; ID., Responsabilità penale personale e singole ipotesi di responsabilità oggettiva, in AA.VV., Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, a cura di A.M. STILE, Napoli, 1989, p. 270 s.; REGINA, Il reato aberrante, Milano, 1970, p. 176; PALAZZO, « Voluto » e « realizzato » nell’errore sul fatto e nell’aberratio delicti, AG, 1973, p. 56 ss.; MARINI, Lineamenti del sistema penale, 2a ed., Torino, 1993, p. 573; C. FIORE, Diritto penale, PG, vol. II, Torino, 1996, p. 160 s.; ROMANO, Commentario, cit., sub art. 83/9, p. 744 s. (17) V., p.t., con argomentazioni non sempre coincidenti, CARNELUTTI, Teoria generale del reato, Padova, 1933, p. 195; CONTI, « Aberratio (ictus, delicti, causae) », in N.D.I., I, Torino, 1957, p. 41; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 386; MARINUCCI, DOLCINI, Corso, cit., p. 333 s.; G.A. DE FRANCESCO, Aberratio. Teleologismo e dommatica nella ricostruzione delle figure di divergenza nell’esecuzione del reato, Torino, 1998, p. 124 ss.; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, 13a ed., Milano, 1994, p. 392. (18) Cfr. CANESTRARI, L’aberratio delicti e la responsabilità preterintenzionale: un istituto... in via di estinzione ed una categoria normativa da ricostruire, in AA.VV., Responsabilità oggettiva, cit., p. 436 ss.; ROMANO, Commentario, cit., sub art. 83/10, p. 745; CORNACCHIA, (voce) Reato aberrante, in DDP, vol. XI, Torino, 1996, p. 182; v. altresì TRAPANI, La divergenza tra il « voluto » ed il « realizzato », Milano, 1992, p. 157 ss.; di diverso avviso, GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa. I. La fattispecie, Padova, 1993, p. 441 ss. (19) Così, tra gli altri, PULITANÒ, Il principio di colpevolezza ed il progetto di riforma penale, Jus, 1974, p. 518; FIANDACA, Considerazioni su responsabilità oggettiva e prevenzione, in AA.VV., Responsabilità oggettiva, cit., p. 43; CANESTRARI, L’aberratio, cit., spec. p. 436 ss., laddove si sottolinea altresì che gli ordinamenti giuridico-penali degli altri paesi europei non contemplano l’istituto dell’aberratio delicti (sconosciuto invero anche al codice Zanardelli e agli altri codici preunitari).
— 890 — b) L’aberratio ictus plurilesiva. La figura controversa dell’aberratio ictus monolesiva e l’art. 34 del Progetto Grosso. — L’orientamento assolutamente prevalente nella letteratura ravvisa nello schema di imputazione dell’aberratio ictus plurilesiva (art. 82, comma 2, c.p.) un’ipotesi di responsabilità oggettiva « vera e propria », in quanto la norma non richiede, per imputare al reo l’offesa alla persona diversa dalla vittima designata, un accertamento dell’eventuale colposità della condotta (20). Inoltre, tale deviazione dal principio costituzionale di colpevolezza può dirsi « accentuata » sia dal trattamento sanzionatorio particolarmente rigoroso — di molto superiore a quello che sarebbe stato inflitto se si fosse trattato del semplice concorso di un reato doloso con un illecito colposo (21) —, sia dall’attribuzione dell’evento ulteriore non voluto indipendentemente dalla circostanza che si tratti di fatto previsto come delitto colposo (22). Più controversa appare, invece, la ricostruzione del fondamento e del titolo di responsabilità nel fenomeno dell’aberratio ictus monolesiva. Mentre secondo la dottrina tradizionale l’art. 82, comma 1, c.p. può dirsi conforme alla regola generale dell’imputazione dolosa (23) — in quanto costituirebbe un’esplicitazione del principio generale dell’irrilevanza dell’identità del soggetto passivo —, le impostazioni più recenti propendono per la natura derogatorio-costitutiva di siffatto istituto: si ritiene infatti che esso preveda un’« insopportabile finzione » (24), poiché prescinde da un’effettiva correlazione tra le dinamiche psicologiche e la situazione posta in essere hic et nunc. Di conseguenza, se si assume come nucleo essenziale dell’oggetto del dolo l’evento nella sua conformazione concreta, (20) Cfr., ad es., ROMANO, Contributo all’analisi dell’aberratio ictus, Milano, 1970, p. 132 s.; DA COSTA, Riflessioni sull’aberratio ictus, Padova, 1967, p. 58; REGINA, Il reato, cit., p. 141 ss.; PATRONO, Rilievi sulla c.d. aberratio ictus plurilesiva, in questa Rivista, 1973, p. 86; GROSSO, Responsabilità penale, cit., p. 277; DONINI, Il reato aberrante, in Giur. sist. Bricola e Zagrebelsky, II, Torino, 1984, p. 781; PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, cit., p. 615 ss.; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 345; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 385 s.. Contra, p.t., PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 292, sul presupposto che l’art. 82, comma 2, sancendo che la pena va determinata partendo dal « reato più grave », postula la sussistenza di due illeciti, uno doloso e l’altro, necessariamente, colposo, in quanto non esistono reati punibili a titolo di responsabilità esclusivamente obiettiva. (21) V. PAGLIARO, op. ult. cit., p. 617 s.; FIANDACA, MUSCO, op. ult. cit., p. 345 s. (22) In effetti, nel sistema attuale, nonostante l’esemplificazione avvenga di solito con le fattispecie dell’omicidio o delle lesioni, si ha una generalizzazione dello schema dell’aberratio ictus sulla base del rilievo che l’art. 82 c.p. parla di « offesa » (conferma, ROMANO, Commentario, cit., sub art. 82/19-20, p. 737 s.). (23) Tra coloro che attribuiscono alla disposizione di cui all’art. 82 efficacia meramente dichiarativa, cfr. M. GALLO, (voce) « Aberratio ictus », in Enc. del dir., vol. I, Milano, 1958, p. 69; AZZALI, L’eccesso colposo, Milano, 1965, p. 62; ANTOLISEI, Manuale, cit., p. 423. (24) Così MARINUCCI, Il reato come azione. Critica di un dogma, Milano, 1971, p. 156.
— 891 — sorge un problema di compatibilità con l’art. 27 Cost., dal momento che esso dovrebbe escludere modelli di imputazione « per equivalente » (25). In definitiva, sembra condivisibile l’opinione di chi, rimarcando l’esigenza di concretizzazione del dolo, ritiene che l’art. 82, comma 1, c.p. assuma una portata innovativa (26): ferma restando la irrilevanza della identità della persona, tramite questa inversione tra il piano della struttura e quello della disciplina il legislatore introduce un’autentica forma di « presunzione di dolo ». Ciò posto, si devono avanzare consistenti riserve critiche nei confronti dell’art. 34 del Progetto preliminare di riforma del codice penale, che si limita ad un intervento « correttivo » nei riguardi dell’aberratio ictus con due (o più) eventi. A ben vedere, sarebbe stata necessaria un’opzione assai più radicale: quella di bandire dal nostro ordinamento una disposizione corrispondente all’art. 82 c.p. Ed invero, in assenza di tale norma, l’aberratio ictus monolesiva dovrebbe comportare una responsabilità colposa per l’offesa cagionata, qualora la deviazione fosse ascrivibile in concreto a colpa dell’agente, mentre solo l’effettiva rappresentazione, accompagnata almeno dall’« accettazione » rispetto alla lesione della persona diversa, condurrebbe ad una responsabilità dolosa per l’offesa aberrante. Del resto, in questa direzione è orientato il prevalente orientamento della letteratura e della giurisprudenza tedesche, in mancanza di una previsione analoga a quella dell’art. 82 c.p. (27). 4. Il reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti (art. 116 c.p.). — In relazione alla disposizione di cui all’art. 116 c.p., si è più volte osservato come un modulo oggettivo d’imputazione — che si esaurisce nel rapporto causale — non possa essere efficacemente « convertito », con la mera introduzione in via interpretativa del requisito della prevedibilità « logica » (sent. C. Cost. n. 42 del 1965), tra i presupposti dell’accollo all’agente dell’intero fatto di reato diverso da quello da lui voluto (28). (25) Cfr. ALESSANDRI, Il 1o comma dell’art. 27, cit., p. 115. (26) V. ROMANO, Contributo, cit., p. 30 ss.; ID., Commentario, cit., sub art. 82/9, p. 735; MARINUCCI, op. e loc. ult. cit.; PULITANÒ, Principio, cit., p. 518 s.; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 344 s.; FIORELLA, (voce) Responsabilità penale, cit., p. 1322; CORNACCHIA, (voce) Reato aberrante, p. 172 s. (27) Così, tra gli altri, JESCHECK, WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, cit., p. 313 s.; RUDOLPHI, Systematischer Kommentar zum Strafgesetzbuch, AT, vol. I, Frankfurt am Main, 1987, § 16, n. 33; LACKNER, Strafgesetzbuch mit Erläuterungen, 17a Aufl., München, 1987, § 15, n. 2a cc.; cfr. altresì SILVA SANCHEZ, Aberratio ictus und objektive Zurechnung, ZStW (Bd. 101), 1989, p. 352 ss.. (28) V., per tutti, PAGLIARO, La responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto, Milano, 1966, p. 106 ss.; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 464 ss.;
— 892 — Pertanto, nella prospettiva di « adeguare », per quanto possibile, l’attuale 116 c.p. al principio di personalità della responsabilità penale, occorrerebbe superare definitivamente quell’orientamento giurisprudenziale (29) che interpreta il criterio della prevedibilità in senso « astratto », limitandosi ad un mero raffronto delle due diverse figure criminose in considerazione, a prescindere da un’indagine sulla concreta dinamica della realizzazione del fatto. Ecco, allora, che il giudizio di prevedibilità deve essere effettuato alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto (30), utilizzando il parametro dello « spettatore avveduto » od « osservatore esperto », al fine di attribuire un rilievo decisivo alle modalità dell’accordo originario intercorso tra i concorrenti (approntamento dei mezzi, scelta dei compartecipi, attribuzione dei « ruoli ») e a quelle dell’esecuzione del piano concordato (31). Tuttavia, tale reinterpretazione della norma in esame non riesce a modificare la natura « anomala » della responsabilità ex art. 116 c.p. L’(esclusiva) operatività dell’elemento della concreta prevedibilità del reato diverso costituisce soltanto un parziale « allineamento » ai dettami della recente giurisprudenza costituzionale, ma non può dirsi sufficiente per riconoscere a questa previsione un « autentico » carattere colposo. Innanzitutto, non possono essere eliminate le deviazioni dai principi generali concernenti sia l’estensione, sia la misura di una responsabilità « per colpa »: difatti, da un lato, l’ambito di applicazione dell’art. 116 c.p. ricomprende — in evidente ossequio alla logica del versari in re illicita — anche fatti non previsti dalla legge come delitti colposi, travalicando lo stesso paradigma dell’aberratio delicti; dall’altro, l’entità della risposta sanzionatoria nei confronti di chi non volle l’illecito più grave rimane ancorata a quella contemplata per tale delitto doloso. In secondo luogo, la responsabilità del partecipe per il reato diverso risulterebbe comunque GRASSO, in ROMANO, GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, II, Milano, 1990, sub art. 116/1 ss., p. 202 s.; INSOLERA, L’art. 116 c.p. come modello di responsabilità oggettiva: riflessioni interpretative e proposte di modifica, in AA.VV., Responsabilità oggettiva, cit., p. 455; ID., Tentativo di una diversa lettura dell’art. 116 c.p., in questa Rivista, 1978, p. 1493; da ultimo, ID., (voce) Concorso di persone nel reato, in DDP, Aggiornamento, Torino, 2000, p. 80. (29) Sul punto, v. MORMANDO, Interpretazione dottrinaria e interpretazione giurisprudenziale dell’art. 116 c.p., in AA.VV., Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, a cura di A.M. STILE, Napoli, 1991, p. 271; BERNASCONI, Orientamenti giurisprudenziali in tema di art. 116 c.p., IP, 1994, p. 323 ss. (30) In tal senso, l’indirizzo dottrinale assolutamente prevalente: cfr. PAGLIARO, Responsabilità, cit., p. 106 ss.; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 466; MARINUCCI, DOLCINI, Corso, cit., p. 328; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 540; GRASSO, in ROMANO, GRASSO, op. cit., sub art. 116/6 e 7, p. 205; CANESTRARI, La responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto ed il principio di colpevolezza, Stud. iur., 1996, p. 1397 ss. e giurisprudenza ivi citata. (31) V. CANESTRARI, op. e loc. ult. cit.
— 893 — fondata su un’imputazione colposa « amputata », in quanto non si richiederebbe l’accertamento della violazione di una regola oggettiva di cautela il cui scopo fosse quello di evitare l’evento non voluto concretamente verificatosi (32). Proprio dall’attestazione della presenza di siffatte « anomalie » dovrebbe muovere il dibattito sull’opportunità di conservare tale istituto generale, ponendosi l’interrogativo se simili « fratture » con il principio di colpevolezza siano quantomeno « giustificabili » sul piano politico-criminale per esigenze di tutela general-preventiva. Viceversa, alcuni settori della dottrina eludono un simile confronto, sostenendo che l’interpretazione « correttiva » dell’art. 116 c.p. garantisce una effettiva imputazione per colpa, soddisfatta in ogni suo requisito (33); ancora: sarebbe addirittura l’« anello » mancante — l’inosservanza di regole « attentive » — a motivare la maggiore severità del trattamento punitivo (34). In realtà, l’argomento cui si ricorre non può risultare persuasivo: posto che soltanto sulla propria condotta è possibile esercitare un controllo finalistico allo scopo di evitare (entro certi limiti) la causazione di eventi lesivi non voluti, si sostiene poi che l’affidarsi ad altri per la realizzazione di un proprio proposito criminoso costituisce un’imprudenza « particolarmente grave ». Di conseguenza, si giunge alla conclusione che questo comportamento « appare maggiormente rischioso e riprovevole che nelle comuni ipotesi di colpa: e ciò spiega l’esigenza di una più severa punizione » (35). Orbene, nell’ambito di un simile ragionamento, la « mano della dogmatica » finisce, a nostro avviso, per costruire uno « schermo » che le impedisce di calarsi nella realtà fattuale — proteggendo dalla piena osservazione di un fenomeno comunque non « gradito » all’ordinamento giuridico — e per offrire, al contempo, un raffinato strumento all’organo giudicante al fine di ritenere « colpevole » anche la condotta di chi non volle il reato diverso da quello concordato. Ed invero, tale interpretazione condurrebbe a presumere l’integrazione della responsabilità ex art. 116 c.p., in quanto in tutte le ipotesi di realizzazione concorsuale di un reato si verificherebbe automaticamente la trasgressione di siffatta regola di prudenza (36). (32) V. FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 466; MUSCO, sub art. 116 c.p., in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, 3a ed., Padova, 1999, IV/2, p. 442. Sul tema, cfr. altresì STOCCO, Alla ricerca di una dimensione costituzionale dell’art. 116 c.p., CP, 1990, p. 36 ss.; GOLDONI, Osservazioni sulla partecipazione di reato diverso da quello voluto nella disciplina del concorso di persone, CP, 1992, p. 627 ss. (33) Così PAGLIARO, Principi, cit., p. 572 s.; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 340. (34) PAGLIARO, op. e loc. ult. cit., p. 573; ID., Diversi titoli di responsabilità per uno stesso fatto concorsuale, in questa Rivista, 1994, pp. 12, 15 s. (35) PAGLIARO, Diversi titoli, cit., p. 6; ID., Principi, cit., p. 573. (36) Conf. GRASSO, in ROMANO-GRASSO, op. cit., sub art. 116/7, p. 205; STOCCO, Alla ricerca, cit., p. 40; CANESTRARI, (voce) Responsabilità oggettiva, cit., p. 122.
— 894 — A questo punto, dovrebbe apparire comprensibile il motivo del nostro dissenso in ordine alla proposta di modifica dell’art. 116 c.p. delineata dalle direttive dello Schema della delega legislativa. In breve: la formulazione di una fattispecie generale di agevolazione colposa in reato doloso (art. 29 Progetto Pagliaro) non sembra coerente con il disegno di piena attuazione del principio di colpevolezza, poiché l’estensione e la misura della responsabilità non risultano ancora modellate sulla colpa rispetto all’evento realizzato, ma si fondano sul dolo di concorso in un reato diverso (37). Ecco, allora, che la soluzione più lineare per affermare la responsabilità per fatto proprio colpevole consiste nell’abolizione di tale ipotesi « speciale » di concorso di persone nel reato (38). Il proposito di eliminare l’art. 116 c.p. veniva espresso con chiarezza dalla Relazione Grosso del 1999 (39); il Progetto preliminare finisce, invece, per tratteggiare una disciplina — art. 47, comma 1: « Se è commesso un reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, questi ne risponde quando il reato sia a lui imputabile a titolo di colpa, sempre che il fatto sia preveduto dalla legge come reato colposo » — che appare del tutto pleonastica. Si deve dunque suggerire la cancellazione di questa norma, nella consapevolezza che una formulazione giudicata superflua — dalla stessa Relazione al Progetto preliminare (2.6.4.) — potrebbe dare origine, in seguito, a pericolosi fraintendimenti (del tipo: la locuzione « a titolo di colpa » non indica un presupposto di imputazione, ma il regime delle conseguenze sanzionatorie). 5. L’art. 117 c.p.. — Il contrasto con il principio di colpevolezza può dirsi evidente pure in materia di concorso dell’estraneo nel reato proprio, per ciò che riguarda il profilo dell’irrilevanza della conoscenza della qualità dell’intraneus in caso di mutamento del titolo di reato (art. 117 c.p.). L’anomalia di questa disposizione nei confronti dei principi sul dolo (40) — che comporta pertanto un’estensione della responsabilità al compartecipe extraneus, fondata sul dogma dell’unitarietà del reato concorsuale — riceve un’indiretta conferma nell’art. 1081 cod. nav., laddove (37) CANESTRARI, La responsabilità, cit., p. 1400. (38) In una prospettiva diversa, il Progetto Riz laddove — al fine di « riallineare » la responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto al principio di colpevolezza — finisce per attuare un’indebita trasposizione della formula dell’« accettazione del rischio » (art. 99 del Disegno di legge n. 2038). (39) Relaz., parte III, 4.2., in questa Rivista, cit., p. 609. (40) Cfr., p.t., FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 468; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 543 s.; GRASSO, in ROMANO-GRASSO, op. cit., sub art. 117/9 e 10, p. 212; INSOLERA, (voce) Concorso di persone nel reato, in DDP, vol. II, Torino, 1988, p. 491 s.
— 895 — non si reputa necessaria la conoscenza della qualifica soggettiva per integrare l’art. 117 c.p. (41). Tale eccezione — che costituisce espressione della stessa logica di rigore della previsione di cui all’art. 116 c.p. (42) — configura un autentico caso di responsabilità oggettiva, in quanto vengono accollati all’agente alcuni elementi del fatto (diversi dall’evento), benché rispetto ad essi non vi sia nè l’atteggiamento doloso, né quello colposo (43). Pertanto, l’aspirazione del Progetto preliminare di valorizzare il principio di colpevolezza nell’ambito del fenomeno concorsuale ha condotto alla scelta, completamente condivisibile, di cancellare l’ipotesi « speciale » contemplata dall’art. 117 c.p. (44). 6. L’illecito penale preterintenzionale inteso in senso lato: responsabilità oggettiva « mista » e natura dei delitti aggravati dall’evento. — Una riforma che intende dare attuazione al principio costituzionale di colpevolezza nel settore degli illeciti qualificati dall’esito (morte; lesioni; disastro) — riconducibili al modello generale ed autonomo della responsabilità preterintenzionale (art. 43, comma 2, c.p.) — è resa ancor più urgente dal nuovo regime di valutazione delle circostanze del reato, introdotto dalla l. 7 febbraio 1990, n. 19. In sintesi. Il novellato art. 59, comma 2, c.p., prevedendo l’imputazione soggettiva delle circostanze aggravanti, ha finito per rafforzare quell’orientamento giurisprudenziale e dottrinale che si esprime a favore dell’inquadramento dogmatico delle conseguenze aggravanti (anche letali) tra le circostanze, anziché tra i requisiti costitutivi di altrettanti illeciti preterintenzionali (45). A ben vedere, se è vero che siffatta opzione permette di « restringere » (almeno in parte) l’ambito della responsabilità oggettiva ed anomala, il « costo » dell’operazione appare insopportabile in termini di coerenza del sistema e ne disvela la natura di mero « espediente » (46). A nostro avviso, il percorso da intraprendere dovrebbe essere assai (41) V. le opere citate alla nota precedente. Del resto, qualora si escluda una « deviazione » dalle normali regole dell’imputazione dolosa (cfr. LATAGLIATA, I principi del concorso di persone nel reato, Napoli, 1964, p. 216), non sarebbe agevole attribuire un significato autonomo all’art. 117 c.p. (così PADOVANI, Le ipotesi speciali di concorso nel reato, Milano, 1973, p. 111). (42) Così GRASSO, op. e loc. ult. cit. (43) V., p.t., MARINUCCI, DOLCINI, Corso, cit., p. 322. (44) In questa direzione, cfr. già le osservazioni di GROSSO, Responsabilità penale, cit., p. 278; CANESTRARI, (voce) Responsabilità oggettiva, cit., p. 122. (45) V., ad esempio, MARCONI, Il nuovo regime di imputazione delle circostanze aggravanti. La struttura soggettiva, Milano, 1993, p. 255; ROMANO, Commentario, cit., sub pre-art. 59/19, p. 599. (46) In argomento, sia consentito il rinvio a CANESTRARI, (voce) Responsabilità og-
— 896 — più lineare: i delitti dolosi aggravati da un evento « necessariamente » non voluto — che presentano i contrassegni tipici dell’identità « differenziata » dell’illecito preterintenzionale — devono essere ricondotti nell’alveo della responsabilità per fatto proprio colpevole sviluppando, in sede legislativa, i principi della recente giurisprudenza costituzionale. In questa prospettiva, si possono seguire — essenzialmente — due cammini tra loro distinti: mantenere siffatta tecnica di incriminazione e adattarne la fisionomia e l’aspetto punitivo all’àmbito di espansione del principio di colpevolezza; per chi giudica impossibile un simile adeguamento, procedere ad una soppressione di tali figure delittuose. Il primo indirizzo di riforma — che prevede peraltro indicazioni di segno differente (47) — viene prescelto dalla Relazione Grosso del 1999, dove la Commissione si prefigge un duplice obiettivo: da un lato, l’introduzione nelle fattispecie preterintenzionali di parte speciale dell’imputazione per colpa in vista della conseguenza ulteriore; dall’altro, la ridefinizione del trattamento sanzionatorio: « più grave rispetto alle altre ipotesi di colpa, ma in misura comunque agganciata al carattere colposo dell’evento realizzato » (48). La soluzione abolizionista è accolta invece dalla Relazione che accompagna il Progetto preliminare, al fine di risolvere il problema dell’estensione del principio di colpevolezza nel settore degli illeciti qualificati dall’esito (49). Ed invero, siccome una corretta formulazione dello Schuldprinzip deve ricomprendere anche il versante della proporzione tra fatto e pena (50), nei delitti aggravati dall’evento non vi sarebbe mai congruenza tra grado di colpevolezza e dosaggio sanzionatorio. Tali osservazioni non riescono, però, a cancellare le notevoli perplessità sollevate dalla proposta di un’eliminazione radicale di tutte le figure preterintenzionali. A tacer d’altro, tale tecnica normativa sembra rappresentare uno strumento irrinunciabile per rafforzare la tutela dei beni giuridici della vita e dell’incolumità pubblica nella maggioranza delle legislazioni penali europee (51), laddove si propongono costruzioni razionali di siffatta tipologia delittuosa, che risentono ovviamente dell’influenza del criterio del « versari in re illicita », ma tendono ad un definitivo superamento della logica del « tenetur etiam pro casu ». gettiva, cit., p. 124 e letteratura ivi citata; da ultimo, v. MELCHIONDA, Le circostanze del reato, Padova, 2000, p. 761 ss. (47) Sul punto cfr., da ultimo, anche per le indicazioni della più recente dottrina d’oltralpe, BONDI, I reati aggravati dall’evento tra ieri e domani, Napoli, 1999, p. 319 ss. (48) V. Relazione Grosso del 1999, cit., p. 609. (49) V. Relazione esplicativa del 2000, cit., 2.3.1. (50) Sul tema cfr., p.t., DOLCINI, Dalla responsabilità oggettiva, cit., p. 275 ss., p. 285 ss.; nella letteratura tedesca, RUDOLPHI, in Systematischer Kommentar zum StGB, AT, 5a ed., cit., § 18, p. 103. (51) V. CANESTRARI, L’illecito, cit., p. 56 ss.
— 897 — In questa direzione, il legislatore della riforma avrebbe dovuto assumere una duplice presa di posizione. Per un verso, si sarebbe potuto proporre la conservazione soltanto dei delitti aggravati dall’evento contrassegnati dalla tipica pericolosità del delitto doloso di base nei confronti dei beni della vita e dell’incolumità pubblica. Ciò significherebbe, ad esempio, abrogare la norma di « chiusura » dell’art. 586 c.p. (morte o lesioni come conseguenze di altro delitto), nonché riformulare l’omicidio preterintenzionale sulla falsariga del par. 226 StGB (lesioni aggravate dall’evento letale). Per ciò che concerne l’altro versante, risultano invece del tutto condivisibili le affermazioni della Relazione Grosso del 1999: sia in relazione alla necessità di prevedere espressamente un’imputazione « per colpa » della conseguenza qualificante, sia riguardo all’esigenza di una sensibile riduzione della pena delle fattispecie lato sensu preterintenzionali (52). In particolare, occorre sottolineare l’importanza della scelta concernente l’esplicita menzione del requisito della colpa, che appare in completa sintonia con le indicazioni della Corte costituzionale, nonché della dottrina più attenta alle istanze del movimento internazionale di riforma. Ed invero, una simile opzione — che avrebbe potuto caratterizzare anche una definizione di « parte generale » della responsabilità « aggravata dall’evento » — dovrebbe sancire il definitivo abbandono delle teoriche orientate a ritenere superflua un’indagine sulla sussistenza in concreto di una colpa generica in vista dell’esito qualificante. 7. Condizioni obiettive di punibilità e principio di colpevolezza. — Com’è noto, i problemi posti dalla suddivisione fondata su criteri sostanziali, in condizioni intrinseche ed estrinseche (53) — ovvero proprie ed improprie (54) —, richiederebbero riflessioni assai approfondite. In questa sede, peraltro, è sufficiente ricordare il principio-guida enunciato con chiarezza, anche se in un obiter dictum, dalla sentenza della Corte costituzionale n. 1085 del 1988: le condizioni di punibilità « offensive » rientrano tra gli « elementi significativi della fattispecie » e, pertanto, la loro (52) V. CANESTRARI, L’illecito, cit., p. 121 ss., p. 262 ss.; ID., (voce) Preterintenzione, cit., p. 710 ss.; p. 716 ss.; ID., Rischio e imputazione dell’evento non voluto: la responsabilità colposa e il delitto preterintenzionale, Relazione svolta all’Incontro di studio sul tema: « Forme di responsabilità giuridica nella società del rischio », Consiglio Superiore della Magistratura, Frascati, 22-24 gennaio 1998, p. 12 ss. del dattiloscritto. (53) Cfr., p.t., BRICOLA, « Punibilità (condizioni obiettive di) », in NN.D.I., XIV, Torino, 1967, p. 594 ss.; NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Milano, 1955, p. 14 ss.; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 729 ss.; PAGLIARO, Principi, cit., p. 389 s. (54) V. ROMANO, Commentario, cit., sub art. 44/10 ss., p. 445.
— 898 — estraneità ai criteri di imputazione soggettiva risulta incompatibile con una effettiva attuazione del principio di colpevolezza (55). Di conseguenza, si dovrebbe considerare ammissibile l’attribuzione in via oggettiva soltanto di quella categoria di condizioni che non contribuiscono in alcun modo a descrivere l’offesa al bene giuridico tutelato — in quanto collocate dal legislatore « all’esterno » di un fatto illecito già riconoscibile come tale —, essendo concepite per delimitare l’intervento del diritto criminale sulla base di un mero « bisogno » di pena (56). Siffatta conclusione viene correttamente recepita dalla Relazione del 1999, laddove parla di « ragioni ‘estrinseche’ d’opportunità » come criterio di identificazione degli elementi riconducibili all’istituto qui in considerazione (57). A nostro avviso, tale presa di posizione avrebbe dovuto essere riproposta anche nel Progetto preliminare, che appare invece sottovalutare il rischio concernente l’introduzione — da parte del futuro legislatore penale — di condizioni oggettive di punibilità non del tutto estranee al piano del disvalore dell’illecito penale. Diversamente, il Progetto si dimostra sensibile al pericolo che l’interprete non riesca a distinguere gli elementi condizionali da quelli costitutivi del fatto: così l’art. 35 comma 1, in armonia con il principio di legalità, richiede giustamente che sia il legislatore a indicare espressamente le condizioni obiettive di punibilità (58). 8. Le principali ipotesi di responsabilità « anomala » nella legislazione penale italiana: i residui di incostituzionalità in materia di imputabilità. — Una profonda rimeditazione dei rapporti tra imputabilità e colpevolezza avrebbe dovuto condurre ad un duplice esito. Da un lato, era lecito ipotizzare una nuova collocazione sistematica delle norme concer(55) In argomento, v., tra gli altri, ALESSANDRI, Il 1o comma dell’art. 27, cit., p. 113; ROMANO, Commentario, cit., sub art. 44/10 ss., p. 445 ss.; ANGIONI, Condizioni di punibilità e principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1989, p. 1510; sulla successiva sentenza della Corte costituzionale 16 maggio 1989, n. 247 (relativa all’art. 4 n. 7 del d.l. 10 luglio 1982, conv. dalla l. 7 agosto 1982, n. 516), in questa Rivista, 1989, p. 1194 ss., cfr. le osservazioni, non sempre coincidenti, di PALAZZO, Elementi quantitativi indeterminati e loro ruolo nella struttura della fattispecie (a proposito della frode fiscale), ibid.; INSOLERA, ZANOTTI, L’intervento interpretativo della Corte costituzionale sulle ipotesi di frode fiscale ex art. 4 n. 7 della l. 516 del 1982, in Foro it., 1989, I, p. 1686 ss.; VENEZIANI, Spunti per una teoria del reato condizionato, Padova, 1992, p. 84 ss.; DONINI, Le condizioni obiettive di punibilità, Stud. iur., 1997, p. 598 ss. (56) In questi termini v., per tutti, di recente, PULITANÒ, La disciplina dell’errore nell’ottica della riforma del codice penale, in AA.VV., Verso un nuovo codice penale, Milano, 1993, p. 274. (57) V. Relazione Grosso del 1999, p. 608. (58) In questa direzione, cfr. già le osservazioni di DONINI, La relazione della commissione ministeriale per la riforma del codice penale istituita con D.M. 1 ottobre 1998. Considerazioni critico-costruttive in tema di colpevolezza, Crit. dir., 1999, p. 420.
— 899 — nenti le cause di esclusione dell’imputabilità, in sintonia con l’idea che quest’ultima rappresenta il presupposto della colpevolezza. Dall’altro, era corretto auspicare una revisione — anche radicale — del regime codicistico per i reati commessi in stato di ubriachezza o assunzione di sostanze stupefacenti, caratterizzato da evidenti deviazioni di tipo rigoristico. Orbene, l’opera del riformatore si è incentrata esclusivamente sul secondo versante, dove si è proposta una riforma innovativa fondata sull’applicazione dei principi generali. In effetti, una definitiva penetrazione del rimprovero di colpevolezza (59) non poteva coesistere con una disciplina sorta principalmente per soddisfare istanze di prevenzione generale e speciale. Com’è noto, la norma del codice vigente che appare più problematica sul piano dell’imputazione soggettiva è quella che regola i casi di ubriachezza volontaria o colposa, poiché la non esclusione (e la non diminuzione) dell’imputabilità si risolve in un’autentica finzione legale di capacità d’intendere e di volere al momento del fatto costituente reato (art. 92, comma 1, c.p.; lo stesso principio viene poi esteso, in virtù del rinvio espresso dall’art. 93 c.p., alla cosiddetta stupefazione) (60). Nonostante le soluzioni tradizionali (61) — che tentano di conciliare siffatta ipotesi con il principio di colpevolezza, facendo risalire l’individuazione dell’elemento soggettivo al tempo in cui l’agente si era posto antidoverosamente in condizioni di incapacità — siano state accolte dalla Corte costituzionale (62), la letteratura e la giurisprudenza attualmente dominanti ritengono necessario accertare la natura dolosa o colposa del reato con riferimento al momento in cui è stato commesso (63). Così, posto che si rivela artificioso il richiamo allo schema delle ac(59) Tale esigenza ha ispirato altresì la scelta della Commissione Grosso di introdurre, nel campo della malattia mentale, la formula della « grave anomalia » psichica (art. 96, comma 1) — corrispondente a quella del § 20 StGB — come eventuale causa di esclusione della imputabilità. (60) V., p.t., BRICOLA, Finzione di imputabilità ed elemento soggettivo nell’art. 92 comma 1o c.p., in questa Rivista, 1961, p. 486; CRESPI, (voce) Imputabilità (dir. pen.), in Enc. del dir., vol. XX, Milano, 1970, p. 779. Sull’ubriachezza abituale (art. 94 c.p.), che rappresenta una forma di ubriachezza volontaria o colposa di un soggetto « dedito all’uso di bevande alcooliche e in stato frequente di ubriachezza », cfr., tra gli altri, ROMANO, in ROMANO, GRASSO, Commentario, cit., sub art. 94/1 ss., p. 64 s.; MANNA, L’imputabilità e i nuovi modelli di sanzione. Dalle « finzioni giuridiche » alla « terapia sociale », Torino, 1997, p. 24 ss. (61) V. LEONE, Il titolo della responsabilità per i reati commessi in stato di ubriachezza volontaria o colposa, GP, 1935, II, p. 1332. (62) Corte cost., 4 marzo 1970, n. 33, GC, 1970, I, p. 445 ss., che ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, comma 1, c.p. in relazione agli artt. 3 e 27 Cost. (63) In dottrina cfr., oltre alle opere degli Autori citati a nota (60), PORTIGLIATTI, BARBOS, MARINI, La capacità d’intendere e di volere nel sistema penale italiano, Milano, 1964, p. 102 s.; VASSALLI, L’imputabilità del tossicodipendente, IP, 1986, p. 553; FIANDACA,
— 900 — tiones liberae in causa (64), il comma 1 dell’art. 92 finisce per introdurre una fictio di imputabilità — e una conseguente deroga materiale al criterio sancito dall’art. 85 c.p. — in evidente contrasto con la massima estensione del principio costituzionale di colpevolezza (65). In quest’ultima prospettiva, infatti, non si può che esigere una verifica « integrale » dei requisiti del dolo e della colpa, mentre l’utilizzo di « finzioni » conduce — quantomeno in alcuni casi — ad un’inevitabile « mutilazione » della struttura di tali componenti della colpevolezza (66): l’imputazione dolosa, ad esempio, dovrà essere affermata anche quando l’agente versasse, al momento della commissione del reato, in un errore condizionato dall’ubriachezza o dall’azione di sostanze stupefacenti. La Relazione del 1999 e quella al Progetto preliminare dimostrano una chiara consapevolezza del fatto che il modello adottato dal codice Rocco può dar luogo ad ipotesi di responsabilità oggettiva « in senso ampio » (67); la Commissione Grosso manifesta altresì un giustificato scetticismo in ordine alla possibilità di neutralizzare un simile pericolo ricorrendo a forme di « precolpevolezza » o di « responsabilità da rischio » per incapacità procurata. L’opzione di rinunciare alla figura « anomala » di cui all’art. 92 c.p. invocando l’operatività dei principi generali (68) apMUSCO, Diritto penale, cit., p. 297 ss.; PAGLIARO, Principi, cit., p. 639; MARINUCCI, DOLCINI, Corso, cit., p. 336; C. FIORE, Diritto penale. Parte generale, vol. I, Torino, 1993, p. 406; GRIECO, Ubriachezza volontaria o colposa e titolo di responsabilità, in questa Rivista, 1980, p. 527; ALESSANDRI, Il 1o comma dell’art. 27, cit., p. 116; BERTOLINO, in DOLCINI-MARINUCCI (a cura di), Codice penale commentato, Parte generale, vol. I, Milano, 1999, sub art. 92, p. 843; di diverso avviso, MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 687 s. (64) È risaputo che la dottrina prevalente ritiene che il paradigma dell’actio libera in causa dolosa con incapacità preordinata menzionato dall’art. 87 c.p., pur sollevando problemi di una certa complessità, sia compatibile con lo Schuldprinzip (v. ROMANO, in ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., sub art. 87/20, p. 29; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 304). Sulle diverse figure che possono essere inquadrate in tale categoria, v. ROXIN, Bemerkungen zur actio libera in causa, in Karl Lackner FS, Berlin-New York, 1987, p. 307 ss. (65) In tal senso, p.t., GROSSO, Responsabilità penale personale, cit., p. 281 s.; ALESo SANDRI, Il 1 comma dell’art. 27, cit., p. 116 ss.; MOCCIA, Il diritto penale, cit., p. 157 ss. (66) Così, ROMANO, in ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., sub art. 92/12 ss., p. 57 s. (67) Secondo l’opinione maggioritaria, l’art. 92 prima parte non configura un caso di responsabilità oggettiva in senso tecnico (v.,p.t., PAGLIARO, Principi, cit., p. 639, nt. 19), poiché non si può parlare di assenza di dolo e di colpa. Orbene, a nostro avviso, proprio l’individuazione di un’area di responsabilità oggettiva « in senso ampio » consente di porre bene in evidenza l’articolazione di siffatto conflitto con lo Schuldprinzip, evitando il rischio di una sua sottovalutazione. (68) Cfr., tra gli altri, MARINUCCI, DOLCINI, Corso, cit., p. 337; CANESTRARI, (voce) Responsabilità oggettiva, cit., p. 127; per l’indicazione di diversi percorsi di riforma, PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 242; MILITELLO, Modelli di responsabilità penale per incapacità procurata e principio di colpevolezza, in AA.VV., Responsabilità oggettiva, cit., p. 480 ss. (con osservazioni critiche sulla disciplina vigente nell’ordinamento tedesco); S. FIORE, Pro-
— 901 — pare, dunque, assolutamente condivisibile (art. 96, comma 2: « L’imputabilità non è esclusa quando l’agente si è messo in condizioni di incapacità al fine di commettere il reato o di predisporsi una scusa »; art. 96, comma 3: « L’imputabilità non è altresì esclusa quando l’agente si è messo in stato d’incapacità con inosservanza di una regola cautelare rispetto al fatto realizzato, e questo si sia realizzato a causa dello stato d’incapacità procurato »). Ciò detto, occorre però essere pienamente coscienti delle insidie collegate alla formulazione proposta nell’articolato. In breve: il principale motivo di preoccupazione è costituito, ovviamente, dal fascino che potrebbe esercitare in quest’ambito una sorta di Automatismus-These. Di conseguenza, l’idea che si possa desumere automaticamente, dall’essersi messo in stato di incapacità, l’inosservanza di una regola cautelare nei confronti del fatto verificatosi va criticata con nettezza; altrimenti si finirebbe per contribuire all’espansione del fenomeno della responsabilità oggettiva « occulta », che è difficile da estirpare in tutti i moderni sistemi penali. 9. L’imputazione soggettiva del fatto e la necessità di arginare la « responsabilità oggettiva occulta ». L’accertamento « verso il basso » delle forme della responsabilità colpevole. — Com’è noto, si parla di responsabilità oggettiva occulta — in contrapposizione a quella espressa — per indicare i coefficienti di siffatta responsabilità più capillarmente diffusi, perché possono annidarsi nello stesso concetto di colpevolezza e nella struttura degli istituti concernenti l’imputazione oggettiva e soggettiva del fatto (69). In questa sede vengono in considerazione quelle tendenze giurisprudenziali a non accertare le specifiche componenti del dolo e della colpa (dolus e culpa in re ipsa). A ben vedere, se tale fenomeno degenerativo « contamina » diversi settori della colpevolezza — si pensi all’applicazione « abrogativa » dell’art. 47, comma 3, in rapporto all’art. 5 c.p. (70); ancora: all’indirizzo giurisprudenziale che effettua un giudizio più rigoroso della culpa iuris rispettive dommatiche e fondamento politico-criminale della responsabilità ex art. 92 comma 1o c.p., in questa Rivista, 1994, p. 144 ss., laddove esprime anche riserve critiche sulle direttive dello « Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale » (art. 35). (69) Cfr. MANTOVANI, Responsabilità oggettiva espressa e responsabilità oggettiva occulta, in questa Rivista, 1981, p. 460; ID., Diritto penale, cit., p. 387; concorde, FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 575 s. Sul fatto che l’affermazione del principio nullum crimen, nulla poena sine culpa non risolve i molteplici problemi che si pongono sul piano dell’imputazione causale, cfr. DONINI, La relazione, cit., p. 423 ss. (70) V., p.t., PALAZZO, Colpevolezza ed ignorantia legis nel sistema italiano: un binomio in evoluzione, in Scritti in memoria di R. Dell’Andro, Bari, II, 1994, p. 696 ss.; PULITANÒ, Appunti sul principio di colpevolezza come fondamento della pena: convergenze e di-
— 902 — spetto alla culpa facti (71) —, l’aspetto più preoccupante riguarda il consolidamento di una sorta di accertamento (di « appiattimento ») « verso il basso » delle forme di responsabilità colpevole. Esaminiamo le ipotesi più significative. 9.1. Il problema del dolo eventuale. — Innanzitutto, in relazione alla figura del dolo eventuale, si deve denunciare la presenza di una corrente applicativa che equipara l’effettiva rappresentazione e volontà del fatto di reato alla mancata acquisizione di cognizioni, ancorché essa fosse possibile o addirittura doverosa, mediante un’attività di vigilanza. Si assiste, pertanto, ad una drastica semplificazione del procedimento probatorio, in quanto ci si accontenta dell’« accettazione del rischio » di qualsivoglia evento lesivo, provata sulla base dell’inadempimento (specie se volontario) di doveri di controllo (72). A nostro avviso, una corretta definizione del dolus eventualis — in grado di riassumere le note « espressive » della sua articolata struttura — potrebbe arginare simili « distorsioni » processuali, che hanno l’obiettivo di presumere una responsabilità dolosa indiretta. In estrema sintesi (73). In primo luogo, sul piano del presupposto normativo del pericolo, una futura definizione legislativa dovrebbe porre in evidenza che il livello di rischio rilevante ai fini della tipicità dolosa indiretta non coincide con quello che integrerebbe, in assenza della volontà della realizzazione del fatto tipico, una possibile responsabilità (coscientemente) colposa. Si ritiene pertanto opportuno che il legislatore della riforma proceda ad un’operazione già effettuata — ovviamente con una sensibilità dogmatica assai diversa — dai compilatori del Model Penal Code in relazione alla categoria della recklessness, vale a dire la definizione dell’elemento strutturale del pericolo. scrasie tra dottrina e giurisprudenza, in AA.VV., Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, cit., p. 103. (71) Cfr. CANESTRARI, (voce) Responsabilità oggettiva, cit., p. 129, anche per le indicazioni della letteratura italiana e straniera. (72) Così PULITANÒ, Appunti, cit. p. 106; in argomento, cfr. i condivisibili rilievi critici di EUSEBI (In tema di accertamento del dolo: confusione tra dolo e colpa, in questa Rivista, 1987, p. 1072 ss.) nei confronti delle prese di posizione giurisprudenziali che desumono il dolo dal modello formale dei doveri di un buon dirigente bancario. In generale, sulle « ambiguità » della figura del dolo eventuale, cfr., p.t., G.A. DE FRANCESCO, Dolo eventuale e colpa cosciente, in questa Rivista, 1988, p. 113 ss.; PAGLIARO, Discrasie tra dottrina e giurisprudenza? (In tema di dolo eventuale, dolus in re ipsa ed errore su legge extrapenale), in AA.VV., Le discrasie, cit., p. 115 ss.; PROSDOCIMI, Dolus eventualis. Il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali, Milano, 1993, p. 24 ss.; p. 75 ss.; EUSEBI, Il dolo come volontà, Brescia, 1993, p. 63 ss.; p. 171 ss. (73) Per una completa ricostruzione della categoria del dolo eventuale, che consente un accertamento « scalare » — su tre livelli — della responsabilità dolosa indiretta, sia consentito il rinvio a CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai confini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, Milano, 1999.
— 903 — A questo proposito la formula codicistica dovrebbe assumere una chiara presa di posizione, nel senso che lo « zoccolo normativo » del dolo indiretto non può limitarsi a condensare una situazione di rischio « non consentito »: il pericolo in grado di sorreggere un’imputazione per dolus eventualis deve essere di tale natura, che la sua assunzione non può neppure essere presa in considerazione da un osservatore avveduto — posto al tempo e nel luogo in cui si trovava il soggetto concreto, nonché in possesso delle sue eventuali cognizioni superiori e delle sue capacità psico-fisiche — nelle vesti dell’homo eiusdem professionis et condicionis dell’agente (74). Una volta affermato che l’« entità » del pericolo idonea a fondare una condotta dolosa « indiretta » non si identifica con quella valevole per la colpa, si rivelano indispensabili precise opzioni politico-criminali nei riguardi del versante « soggettivo » della forma eventuale del dolo. Nella piena consapevolezza che la qualità esteriore del pericolo non può giustificare la ratio della punibilità del dolus eventualis senza riferimento all’effettiva rappresentazione e alla « decisione » dell’autore, il futuro legislatore dovrebbe aderire con nettezza ad una visione della responsabilità dolosa « indiretta » ancorata al piano della volontà. In questa prospettiva, la norma codicistica — dopo aver previsto con chiarezza la necessità che il soggetto si rappresenti concretamente la realizzazione del fatto tipico come conseguenza della propria condotta (75) — potrebbe anche conservare il tradizionale concetto di « accettazione »; sarebbe però necessario sottolineare che deve trattarsi di accettazione (non soltanto del rischio, bensì) del fatto, dell’evento di danno là dove sia previsto dalla fattispecie incriminatrice (76). Una simile scelta definitoria consentirebbe di riconoscere appieno l’importanza dei dati rilevanti per verificare la « decisione » del soggetto agente, vale a dire della molteplicità di « indicatori » e « controindicatori » che devono essere tenuti in considerazione nell’ambito della componente volitiva del dolo eventuale: il comportamento attuato per evitare l’evento (la presenza o meno di meccanismi di neutralizzazione del decorso causale lesivo, nonché l’efficacia dell’intervento « positivo »), la particolare vicinanza emotiva tra reo e vittima, ecc. Ecco, allora, che la soluzione definitoria proposta dalla Commissione Grosso — in base all’art. 30, co. 1 lett. b) del Progetto preliminare, la re(74) V. CANESTRARI, Dolo eventuale, cit., spec. p. 143 ss.; p. 173 ss. (75) V. CANESTRARI, op. ult. cit., p. 79 ss.; p. 122 ss.; p. 184 ss.; p. 295 ss. (76) V. CANESTRARI, op. ult. cit., p. 194 ss.; p. 306 ss.; p. 320 s.; in senso analogo, cfr. già i rilievi di PROSDOCIMI, Considerazioni su dolo eventuale e colpa con previsione, in AA.VV., Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, cit., p. 173; conf. EUSEBI, Appunti sul confine tra dolo e colpa nella teoria del reato, 6.2.2.; 6.2.2.2. del dattiloscritto.
— 904 — sponsabilità dolosa indiretta si configura nei confronti di chi « ... agisce rappresentandosi la realizzazione del fatto come... altamente probabile, accettandone il rischio » — non risulta convincente. Ed invero, l’introduzione dell’elemento dell’alta probabilità — criterio « quantitativo » di difficile determinazione — non può « compensare » né la mancata definizione del requisito strutturale del pericolo, né la caratterizzazione volitiva assai « scolorita » della formula dell’accettazione del rischio. 9.2. Le tipologie della colpa e la logica del versari in re illicita. — I pericoli di un « accertamento verso il basso » (... « al ribasso ») si manifestano ulteriormente sul piano della responsabilità colposa, con particolare intensità nel campo relativo alla verifica dell’inosservanza di doveri cautelari scritti. Ed invero, nelle decisioni dei nostri Tribunali il procedimento logico che conduce ad affermare la colpa specifica rischia di ascrivere alla condotta del soggetto agente l’evento non voluto sulla base del mero nesso di causalità materiale, in quanto assai di frequente non viene riconosciuto il ruolo del requisito della concreta prevedibilità. Tale elemento deve invece operare in tutte le tipologie della colpa sia dal punto di vista della formazione delle regole di cautela, sia quale criterio di imputazione della conseguenza lesiva (77): nelle ipotesi in cui il giudice non effettua alcuna indagine « aggiuntiva » relativa alla concreta rappresentabilità del risultato, sulla base di parametri distinti da quelli già contenuti nel dovere cautelare « codificato », riaffiora in modo « occulto » la logica del versari in re illicita. Il rischio che l’imputazione per colpa si dissolva nell’attribuzione causale dell’evento coinvolge, in realtà, i molteplici contesti in cui si configurano le forme della responsabilità colposa (78). Si pensi, a tacer d’altro, agli effetti distorsivi emergenti dalla più recente giurisprudenza in materia di colpa. Innanzitutto, in riferimento al problema della descrizione dell’evento, si tende a fondare una punibilità per colpa sulla violazione di regole cautelari dal contenuto assai generico (relative, ad es., alla nota vicenda dei rischi da amianto), senza richiedere la prevedibilità del decorso causale alla luce delle conoscenze nomologiche disponibili al momento del fatto (79). (77) In tal senso cfr., per tutti, MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965, p. 236; FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, p. 310 ss.; CANESTRARI, L’illecito, cit., p. 118 ss. (78) V., ad es., GIUNTA, La normatività della colpa penale. Lineamenti di una teorica, in questa Rivista, 1999, p. 91 ss. (79) FORTI, Colpa, cit., p. 422 ss.; p. 507 ss.; di recente, FORNARI, Descrizione dell’evento e prevedibilità del decorso causale: « passi avanti » della giurisprudenza sul terreno dell’imputazione colposa, in questa Rivista, 1999, p. 726 ss.; PIERGALLINI, Attività produttive e imputazione per colpa: prove tecniche di « diritto penale del rischio », in questa Rivista, 1997, p. 1487.
— 905 — Inoltre, si assiste ad un evidente processo di eccessiva normativizzazione della colpa, che in alcuni ambiti si riduce ad una dimensione esclusivamente « impersonale ». Non può essere questa la sede per analizzare la complessa nozione di colpa tratteggiata nei tre commi dell’art. 31 del Progetto Grosso. Il nostro compito è soltanto quello di sottolineare alcune indicazioni che si possono desumere dalle opzioni della Commissione Grosso, al fine di contrastare i fenomeni degenerativi appena descritti. Il bilancio, ad un primo ed approssimativo sguardo, appare contrastante. A nostro avviso, l’inserimento ex lege del requisito della prevedibilità — e dell’elemento dell’evitabilità — nel modello strutturale della definizione di colpa (art. 31, comma 1) potrebbe arginare, almeno in parte, il diffondersi della logica del versari in re illicita e i rischi di una profonda oggettivizzazione della responsabilità colposa. È chiaro però che la mancata previsione espressa del « potere » del soggetto agente, di evitare la realizzazione del fatto di reato, rischia di sacrificare — tenuto conto dell’assenza di « ipotesi di inesigibilità in concreto », a fronte dell’eliminazione dell’istituto del caso fortuito — le istanze di individualizzazione del rimprovero colposo. STEFANO CANESTRARI Straordinario di Diritto penale Università degli studi di Bologna
LA DEFINIZIONE LEGALE DEL DOLO: IL PROBLEMA DEL DOLUS EVENTUALIS (*)
1. Premessa. — Al convegno di Saint Vincent del 1994 due illustri relatori anche di queste giornate pavesi, alle quali mi onoro di partecipare, hanno individuato con grande chiarezza le principali questioni che ruotano intorno ad una futura definizione legale del dolo. In particolare, vi è stata concordia sul fatto che la tematica più importante — « decisiva » sul piano applicativo — sia rappresentata dalla forma « indiretta » della responsabilità dolosa. Secondo il pensiero di Giorgio Marinucci, il legislatore della riforma non può delegare la « primordiale » scelta politico-criminale di definire il dolo, sebbene le configurazioni del dolus eventualis nella scienza penale siano « molte e diversissime » (1). Carlo Federico Grosso ritiene che il problema vero non è « riconoscere esplicitamente anche a livello legislativo la rilevanza del dolo indiretto, bensì stabilire che cosa si debba intendere per tale tipo di dolo e che cosa lo distingua dalla colpa cosciente » (2). A questo proposito, non vi è dubbio che le prestazioni dei numerosi criteri elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza siano apparse deludenti. Da un duplice angolo visuale: sotto il profilo di una definitiva chiarificazione in ordine alla composizione strutturale del dolus eventualis; sul versante relativo all’individuazione di una convincente linea di demarcazione con il fenomeno della colpa con previsione. La riprova evidente di un bilancio che non può definirsi soddisfacente è data dalle recenti « aperture », ancorché sommesse, verso prospettive di riforma tese ad unificare le cornici edittali ed i « fatti » attinenti alle forme del dolo eventuale e della colpa con previsione, sull’esempio della recklessness angloamericana (3). A ben vedere, la formulazione di (*) Si tratta del testo, ampliato e con l’aggiunta delle note, della relazione presentata al Convegno « La riforma del codice penale. La parte generale » (Pavia, 10-12 maggio 2001). (1) MARINUCCI, Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza, in AA.VV., Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali (Atti XIX Convegno « Enrico de Nicola », St. Vincent 6-7 maggio 1994), Milano, 1996, 144. (2) GROSSO, Il principio di colpevolezza, in AA.VV., Prospettive di riforma, cit., 128. (3) V. ANGIONI, Le norme definitorie e il progetto di legge delega per un nuovo codice
— 907 — una proposta così innovativa non trae origine da una puntuale dimostrazione della convenienza delle prestazioni di questa « terza specie » di responsabilità colpevole (4), ma da un consapevole disagio che l’interprete avverte, proprio nell’assolvere il compito di indicare con chiarezza alla giurisprudenza i criteri per operare una scelta comunque drammatica e tranchant. A nostro avviso, tale senso di inadeguatezza del penalista di fronte all’opera di individuazione delle aree di pertinenza del dolus eventualis e della colpa cosciente appare destinato ad aumentare. Per un duplice ordine di ragioni. Da un lato, la proliferazione di fenomenologie di pericolo connesse a comportamenti « devianti » — « sfide automobilistiche »; scommesse su condotte di guida gravemente difformi dal regolamento del codice della strada; attività ludico-sportive violente e non riconosciute dagli organi competenti; impiego di sostanze chimiche e medicinali, privo di adeguati controlli, nel campo della produzione industriale e della sperimentazione sanitaria; contagio da malattie sessualmente trasmissibili (in particolare, da virus Hiv) — che vengono realizzati nell’ambito di contesti a « rischio di base consentito », talvolta persino disciplinati dall’ordinamento giuridico. Dall’altro, l’espansione del rimprovero criminale nella legislazione complementare in materia economica, tramite un’autentica « irruzione » della figura del dolus eventualis — si fa riferimento soprattutto al diritto penale societario e a quello fallimentare — caratterizzata da un progressivo ed insidioso levigarsi della distinzione dogmatica fra dolo e colpa (5). penale, in AA.VV., Il diritto penale alla svolta di fine millennio. Atti del convegno in ricordo di Franco Bricola (Bologna, 18-20 maggio 1995), a cura di CANESTRARI, Torino, 1998, 194; MELCHIONDA, Definizioni normative e riforma del codice penale (spunti per una rinnovata riflessione sul tema), in Omnis definitio in iure periculosa? Il problema delle definizioni legali nel diritto penale, a cura di CADOPPI, Padova, 1996, 428; da ultimo, FORTE, Ai confini fra dolo e colpa: dolo eventuale o colpa cosciente?, in questa Rivista, 1999, 276 ss.; ID., Dolo eventuale tra divieto di interpretazione analogica ed incostituzionalità, in questa Rivista, 2000, 838, che ritiene peraltro già esistente nel nostro ordinamento una figura in grado di ricomprendere l’atteggiamento psicologico del dolo eventuale, vale a dire la forma aggravata di colpa di cui all’art. 61 n. 3 c.p. (4) E cioè: l’introduzione di una categoria corrispondente alla recklessness consentirebbe di fornire soluzioni più adeguate ai problemi posti dai casi del « lancio dei sassi da un cavalcavia », della « condotta sociale rischiosa » del sieropositivo, ecc. Proprio in relazione alla responsabilità del corriere del virus Hiv, la varietà delle soluzioni adottate nel panorama statunitense non può dirsi confortante: sul punto, da ultimo, MAGLIONA, Contagio da Hiv/Aids per via sessuale e intervento penale: alcuni spunti di riflessione medico legale, Dir. Pen. Proc., 2000, 1525 s. (5) V. CRESPI, La giustizia penale nei confronti dei membri dei giudici collegiali, in questa Rivista, 1999, 1147 ss. (dal volume Il governo delle banche in Italia, a cura di Riolo e Masciandaro, Milano, 1999); PEDRAZZI, Il tramonto del dolo, in questa Rivista, 2000, 1265 s.
— 908 — 2. La crisi delle concezioni tradizionali sulla differenza strutturale dolo eventuale-colpa cosciente. — La presenza di queste nuove e complesse problematiche — il ruolo « incisivo » del dolo eventuale nel diritto penale dell’economia; la frequente apparizione di tipologie di pericolo ancipiti, di incerta classificazione — produce conseguenze di notevole rilievo. Innanzitutto, viene praticamente sancita l’obsolescenza di alcuni classici criteri distintivi fra dolus eventualis e colpa con previsione, che dottrina e giurisprudenza ritengono non più idonei a « captare » e risolvere le questioni poste con urgenza dall’attuale casistica. Com’era agevolmente prevedibile, tra le numerose cause che hanno determinato le attuali degenerazioni giurisprudenziali occorre annoverare proprio la perdita di capacità euristica — e, quindi, di orientamento interpretativo — di quelle opinioni tradizionali che continuano ad essere illustrate nella manualistica per esclusive esigenze di completezza. La validità di questa affermazione appare evidente dall’esame delle prese di posizione della letteratura e della giurisprudenza d’oltralpe riguardo alla punibilità del contagio sessuale da virus Hiv, posto che tale problematica rappresenta un ambito « privilegiato » per verificare la consistenza delle diverse concezioni sostanziali del dolus eventualis, anche alla luce dell’espressa divergenza dei punti di vista politico-criminali. In breve. Le soluzioni prospettate in ordine alla rilevanza penale del rapporto sessuale non protetto (e non violento) praticato dal soggetto sieropositivo consapevole del suo stato (senza informare il partner sano), confermano in modo inequivocabile che le originarie teorie cognitive e volitive appartengono oramai alla storia del diritto penale. In relazione ai contenuti originari delle elaborazioni intellettualistiche della probabilità e della possibilità (Wahrscheinlichkeitstheorie; Möglichkeitstheorie), si può affermare che essi sono stati definitivamente abbandonati sia dai fautori dell’intervento repressivo nei confronti del corriere del virus Hiv, sia dai sostenitori del paradigma preventivo. Analogamente alle « antiche » impostazioni cognitive, anche la teoria della operosa volontà di evitare (vom tatmächtigen Vermeidewillen) non viene più sostenuta nella veste di criterio autonomo in grado di delimitare dolus eventualis e colpa con previsione dell’evento (6). Ed invero, nonostante la conseguente applicazione della tesi di Armin Kaufmann debba condurre all’esclusione del dolo di infezione nei casi di un coitus interruptus da parte del soggetto sieropositivo — situazione che si era verificata in particolare nella fattispecie concreta esaminata dal LG Nürnberg-Führt (7) —, non è mai stato avanzato l’argomento della incon(6) V. CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai confini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, Milano, 1999, 41 ss. (7) V. LG Nürnberg-Führt, 16 novembre 1987, in NJW, 1988, 2311 ss., nonché LG Hechingen, 17 novembre 1987, in AIFO 1988, 220 ss.
— 909 — ciliabilità tra l’attuazione di tale contromisura e l’affermazione di un dolus eventualis di lesioni (o di omicidio). Una simile « manifestazione della volontà di impedimento » è stata ritenuta significativa soltanto come prova di un’eventuale fiducia nella non verificazione dell’evento, ovvero quale indizio per la mancanza di un’approvazione dell’avverarsi del contagio. Per ciò che riguarda le concezioni volitive, in questa sede occorre prescindere sia dalle tesi « minori » — come la teoria dell’indifferenza o del sentimento — sia dalle impostazioni c.d. miste, che si muovono nella prospettiva di una combinazione di diversi criteri ereditati da punti di vista storicamente confliggenti (8). Occorre, invece, dedicare alcune osservazioni alla formulazione più celebre, rappresentata dalla c.d. teoria della « approvazione » o del consenso all’evento (9). 2.1. Le ambigue applicazioni delle versioni più accreditate della c.d. teoria del consenso. Il BGH e il contagio sessuale da virus Hiv. — Com’è noto, la teoria del consenso ha ricevuto nel dopoguerra un’interpretazione assai restrittiva, che ha chiarito come il termine « approvazione » vada ricostruito in termini normativi, in quanto può essere compatibile anche con un rifiuto emozionale dell’evento. Tuttavia, nella « moderna » versione della teoria del consenso risulta comprensibile soltanto ciò che non deve intendersi per « approvazione in senso giuridico », mentre il contenuto « in positivo » del concetto — l’« accettazione con approvazione dell’evento » (billigendes Inkaufnehmen des Erfolgseintritts) — viene definito in modo assai oscuro. Una simile osservazione non deve stupire: proprio la scarsa consistenza dogmatica della Billigungstheorie — riconosciuta dai suoi stessi sostenitori — consente alla giurisprudenza di continuare ad utilizzare in modo convenzionale formule « stereotipate » e manovrabili. L’esempio più significativo di un uso arbitrario della nozione di dolus eventualis come « accettazione con approvazione in senso giuridico dell’evento » viene offerto, indubbiamente, dalla prima presa di posizione del BGH ri(8) Cfr., per tutti, PRITTWITZ, Die Ansteckungsgefahr bei AIDS, JA, 1988, I, 427 ss.; II, 486 ss., laddove illustra la sua « teoria di indizi orientata al processo penale ». (9) La Billigungs — o Einwilligungstheorie viene definita anche « teoria ipotetica del consenso », poiché si utilizza la c.d. (prima) formula di Frank quale criterio di prova per verificare la sussistenza del dolus eventualis. Tale orientamento è stato accolto, nella nostra letteratura, tra gli altri, da PAGLIARO, Il fatto di reato, Palermo, 1960, 476 s.; ID., Discrasie tra dottrina e giurisprudenza? (In tema di dolo eventuale, dolus in re ipsa ed errore su legge extrapenale), in AA.VV., Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza, a cura di STILE, Napoli, 1991, 118; ID., Principi di diritto penale. Parte generale, 7a ed., Milano, 2000, 279 s. e nt. 21; CONTENTO, Corso di diritto penale, Bari, 1990, 378; EUSEBI, In tema di accertamento del dolo: confusioni tra dolo e colpa, in questa Rivista, 1987, 1074, nt. 28; ID., Il dolo come volontà, Brescia, 1993, 176 ss., con ampiezza di motivazioni; ID., Appunti sul confine fra dolo e colpa nella teoria del reato, 2000, 1089 s. con precisazioni; ID., Il dolo nel diritto penale, St. iur., 2000, 1077.
— 910 — spetto al rapporto sessuale non protetto dell’infetto Hiv (10). Sebbene la Corte Federale Tedesca si preoccupi di sottolineare espressamente che non è consentito rinunciare all’accertamento dell’elemento volitivo — criterio decisivo per differenziare il dolo eventuale dalla colpa cosciente —, è proprio la descrizione dell’autonomia concettuale di codesto requisito a risultare nient’affatto convincente. In sintesi. Il Bundesgerichtshof si sofferma sugli indici che dovrebbero sorreggere la prova dell’« accettazione con approvazione » dell’evento da parte del soggetto sieropositivo: l’autorevole (ed « intensa ») informazione fornita dal medico sulla sussistenza di un rischio di contagio anche in un unico rapporto sessuale non protetto; la dichiarazione resa alla polizia dall’imputato dove egli riconosce che il suo comportamento non merita scuse. Se quest’ultimo indizio sembra inutilizzabile addirittura sul piano semantico — non può certo dirsi sintomo dell’atteggiamento psicologico dell’AIDS-carrier al momento della condotta sessuale rischiosa —, il valore attribuito alla raccomandazione del sanitario segnala, contrariamente alle premesse, che la componente volitiva del dolus eventualis si riduce ad una parafrasi di quella cognitiva, in quanto viene dedotta automaticamente dal dato della consapevolezza del pericolo di contagio (11). La circostanza fattuale di maggior rilievo sul versante della volontà — il positivo Hiv era passato al rapporto protetto prima della eiaculazione — avrebbe semmai potuto incidere nella direzione opposta, di una mancata configurazione del « consenso » all’eventualità della trasmissione del virus. Quanto detto dovrebbe rendere evidente, al lettore critico, che codesto indirizzo giurisprudenziale opera una verifica « rituale » in ordine alla sussistenza dell’elemento volitivo, utilizzando formule « vuote » e dunque « manipolabili ». Del resto, ciò consente al BGH di appellarsi alla Billigungstheorie per sostenere la soluzione che ritiene più « equilibrata »: supporre, nei confronti del corriere del virus Hiv, il dolo eventuale di (tentata) lesione personale pericolosa, negando, al contempo, quello di (tentato) omicidio (12). Come appare evidente, soltanto il riferimento agli (10) BGH 4 novembre 1988 — 1StR 262/88, pubblicata in numerose riviste: ad es., NJW, 1989, 781 ss.; NStZ, 1989, 114 ss.; trad. it. (a cura di Canestrari) in FI, 1991, IV, 149 ss. (11) Di questa opinione, seppure con accenti diversi, FRISCH, Riskanter Geschlechtsverkehr eines HIV-Infizierten als Straftat?, in BGHSt 36, 1, JuSch, 1990, 367 ss.; HERZBERG, AIDS: Herausforderung und Prüfstein des Strafrechts, JZ, 1989, 475 s.; CANESTRARI, La rilevanza penale del rapporto sessuale non protetto dell’infetto-Hiv nell’orientamento del Bundesgerichtshof, FI, 1991, IV, 18 dell’estratto. (12) Sul punto cfr., tra gli altri, BRUNS, Nochmals: AIDS und Strafrecht, NJW, 1987, 2282; HERZBERG, Die Strafdrohung als Waffe im Kampft gegen AIDS?, cit., 1461 ss.; RENGIER, AIDS und Strafrecht, Jura, 1989, 229; CASTALDO, AIDS e diritto penale: tra dommatica e politica criminale, St. Urbinati, 1988-89/1989-90, 38 ss. dell’estratto; CANESTRARI, La rile-
— 911 — ambigui assunti della teoria del consenso — i quali prescindono da un’indagine approfondita sull’entità del rischio che deve costituire oggetto del dolus eventualis — può sorreggere una simile conclusione, in quanto la probabilità di trasmettere l’infezione tramite rapporti sessuali occasionali è assai scarsa, mentre elevato è il pericolo di un esito letale qualora il partner sia stato contagiato (13). Tali considerazioni dovrebbero essere sufficienti per affermare che la formula dell’« accettare con approvazione in senso giuridico » sia priva di consistenza: la sua « vitalità » va attribuita soltanto a sottili quanto pericolose confusioni linguistiche, che permettono alla giurisprudenza di perseguire determinati obiettivi (più o meno apprezzabili) di politica criminale. 3. Le nuove tipologie di rischio e l’atteggiamento della giurisprudenza. — La recente emersione di nuove fenomenologie di rischio — e l’ulteriore fattore di « disorientamento », consistente nella proiezione della questione del dolus eventualis in alcuni campi della legislazione penale complementare — determinano una seconda conseguenza, che si accompagna alla definitiva maturazione della crisi delle impostazioni tradizionali sui limiti fra dolo e colpa. Si assiste infatti ad una profonda modificazione dei rapporti tra dottrina e giurisprudenza, che erano contrassegnati dall’assenza di reali contrasti di fondo, in virtù di una « ripartizione di compiti » basata su presupposti convenienti anche se poco apprezzabili. Ed invero, all’analisi congiunta della coppia concettuale « dolo eventuale/colpa cosciente » corrispondeva puntuale il rispettivo « abbinamento », in sede applicativa, alle due classi di attività « (già) penalmente illecite/ab origine autorizzate ». vanza, cit., 16 dell’estratto; SCHERF, AIDS und Strafrecht, Baden-Baden, 1992, spec. 46 ss.; 130 ss.; AA.VV., AIDS und Strafrecht, a cura di A.J. SZWARC, Berlin, 1996 (in particolare i contributi di SCHÜNEMANN, 15 ss.; 18 ss.; HERZBERG, 62 ss.; LUZÓN-PEÑA, 93 ss.). La corrente della letteratura che non si oppone alla configurazione del dolus eventualis di omicidio è assolutamente minoritaria: cfr., p.t., BOTTKE, Strafrechtliche Probleme von AIDS und der AIDS-Bekämpfung, in SCHÜNEMANN, PFEIFFER (a cura di), Die Rechtsprobleme von AIDS, Baden-Baden, 1988, 202 ss., nt. 13; più problematicamente, GEPPERT, Strafbares Verhalten durch-mögliche-AIDS-Übertragung?, Jura, 1987, 672, il quale finisce per effettuare un’indebita conversione della Erstnahmetheorie in una variante della teoria della possibilità (dello stesso Autore v. pure, Zur Abgrenzung von bedingtem Vorsatz und bewusster Fahrlässigkeit, Jura, 1986, 612 ss.). (13) Ciononostante, il Bundesgerichtshof definisce « vaga » la fiducia del sieropositivo nella non verificazione del contagio — anche se egli aveva adottato misure precauzionali (coitus interruptus) — e non, invece, riguardo all’evento morte, poiché considera fondata la « speranza » nella scoperta di un rimedio efficace contro l’AIDS. Per una puntuale critica a siffatte argomentazioni, PUPPE, Der Vorstellungsinhalt des dolus eventualis, ZStW (Bd. 103), 1991, 8 s.; RENGIER, AIDS, cit., 229; ROXIN, Strafrecht. AT. I. Grundlagen. Der Aufbau der Verbrechenslehre, 3a ed., München, 1997, 400, là dove prospetta anche la creazione di una fattispecie di pericolo ad hoc per prevenire il diffondersi del fenomeno AIDS.
— 912 — Questa agevole suddivisione costituiva il principale indicatore — peraltro mai esplicitato — in grado di orientare le prese di posizione giurisprudenziali: laddove la realizzazione del fatto tipico era concretamente prevista (se non soltanto « prevedibile ») dal reo che agiva in un territorio criminoso, si optava in modo pressoché « automatico » per la configurazione del dolo eventuale; viceversa, si riteneva quasi sempre integrata la colpa con previsione dell’evento nei confronti di chi effettuava una condotta a « rischio di base consentito » (14). Il « tacito accordo » fra dottrina e giurisprudenza, sia pure poco commendevole, garantiva effetti tranquillizzanti (15): rispetto ad una casistica dove i principali protagonisti erano il rapinatore — che non esitava a sparare allo scopo di aprirsi una via di fuga — e il temerario conducente di autoveicolo, non suscitava alcuna inquietudine una prassi in parte ispirata al principio perverso del versari in re illicita. Eppure i motivi di preoccupazione sembravano evidenti: in assenza di adeguate argomentazioni, appariva legittimo il sospetto che gli organi giudicanti attingessero l’« interiorità » del dolo eventuale dalla sfera delle motivazioni tramite ambigue intuizioni eticizzanti, oppure attraverso il ricorso a paradigmi semplificanti di « tipo d’autore » (16). Orbene, la comparsa di tipologie di rischio di dubbia allocazione comporta la « rottura » di questo equilibrio e conduce ad un’evidente divaricazione degli atteggiamenti che si vanno delineando in sede scientifica e sul piano applicativo. La giurisprudenza reagisce, a nostro avviso, con strategie differenziate a seconda delle contingenti esigenze probatorie. In talune decisioni si rinuncia a richiamare determinate elaborazioni di « diritto sostanziale » — magari perché ritenute non sufficientemente accreditate (come, ad esempio, la « teoria della operosa volontà di evitare ») —, ma si finisce poi per utilizzare unicamente i criteri da esse enucleati (basti pensare, sempre con riferimento alla Vermeidungstheorie, all’indicatore costituito dalla condotta volta ad impedire l’esito lesivo). Con maggiore frequenza, però, si opta per un generico rinvio a quelle formulazioni dottrinali che sembrano garantire un ampio margine di « manovrabilità », necessario per soddisfare le varie istanze di politica criminale (17). In questa prospettiva, si valorizzano le posizioni che incentrano la (14) V. CANESTRARI, Dolo eventuale, cit., 122 ss., anche con indicazioni della letteratura straniera; EUSEBI, Appunti sul confine, cit., 1087; VENEZIANI, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000, 133 s.; ID., Dolo eventuale e colpa cosciente, St. iur., 2001, 74 ss.; CADOPPI, Il valore del precedente nel diritto penale, Torino, 1999, 34 s. (15) Si veda, da noi, il quadro descritto da PAGLIARO, Discrasie, cit., 115. (16) Così CANESTRARI, op. ult. cit., 3; 122 ss. (17) Cfr., per una panoramica della situazione italiana, VENEZIANI, Dolo eventuale, cit., 75 ss.
— 913 — differenza fra dolo eventuale e colpa cosciente in termini accentuatamente « soggettivistici », privilegiando i criteri fondati su momenti di Gesinnung (atteggiamenti di indifferenza o di disprezzo verso il bene giuridico protetto) oppure le formalizzazioni concettuali più (« vuote » e) « manipolabili »: da noi, la « frase magica » (18) dell’« accettazione del rischio », nei paesi di lingua tedesca le parafrasi espressive dell’approvazione (« interiore ») o dell’(« intima ») rassegnazione alla possibile verificazione dell’evento nell’ambito delle teorie del consenso. La dottrina, dal canto suo, non tarda a rendersi conto che queste « disinvolte » applicazioni giurisprudenziali offrono un’evidente dimostrazione della « vaghezza » delle prevalenti impostazioni dogmatiche e torna ad occuparsi, con rinnovato vigore, di una questione di sua competenza: quella di indicare con maggiore precisione una formula teorica atta a tracciare, in un contesto sociale che propone nuove ed urgenti problematiche, la linea di demarcazione tra dolo eventuale e colpa cosciente. Tale esigenza viene avvertita con distinte sensibilità, ma i contributi più significativi della letteratura contemporanea sembrano condividere la valutazione sui mancati progressi delle teorie volitive nella direzione di una concretizzazione e funzionalizzazione dei requisiti del dolus eventualis (19). Si tende, di conseguenza, a sottolineare l’importanza di un’indagine relativa ai profili normativi di tale figura, indubbiamente trascurati dall’orientamento dominante rispetto ai contenuti di tipo psicologico. 4. Le tendenze attuali nella letteratura tedesca e in quella italiana. — Il diffuso riconoscimento del contributo che il dolo e la colpa forniscono per l’individuazione del tipo dei reati dolosi (20) e colposi ha di certo agevolato gli attuali tentativi di esplorare i presupposti « fattuali » delle forme « indirette » del dolo, con l’obiettivo di tracciare su una più solida base normativa la linea divisoria tra dolus eventualis e colpa cosciente. In questo ambito, che a nostro avviso può rivelarsi fecondo, si iniziano a delineare alcuni orientamenti: per intanto, si può osservare che la letteratura italiana e quella d’oltralpe sembrano muoversi in due direzioni diverse. (18) L’espressione è di M. GALLO, Ratio e struttura nel dolo eventuale, Crit. Dir., 1999, 411. (19) V., infra, nel paragrafo seguente. (20) Cfr., per una corretta valorizzazione di una duplice dimensione del dolo, di recente, JESCHECK, WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, cit., 243 s.; 430; nella nostra letteratura, p.t., MARINUCCI, Il reato come ‘azione’. Critica di un dogma, Milano, 1971, 153 ss.; ID., Non c’è dolo senza colpa. Morte dell’imputazione oggettiva dell’evento e trasfigurazione nella colpevolezza?, in questa Rivista, 1991, 32 ss.; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, PG, 3o ed., Bologna, 1995, 183; problematicamente, DONINI, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991, 547 ss.; ID., Teoria del reato, Padova, 1996, 292 s.
— 914 — a) Il neuer Kurs della dottrina di lingua tedesca si contraddistingue per il frequente ricorso al concetto di rischio, nella veste di elemento fondante la struttura del dolus eventualis: ciò conduce ad attribuire alla valutazione sulla « natura » del pericolo, prodotto dal comportamento del reo, una funzione decisiva per stabilire l’estensione delle « regioni » del dolo eventuale e della colpa cosciente. I numerosi consensi ricevuti da tale impostazione — la quale prevede, peraltro, al suo interno significative differenziazioni (21) — non derivano soltanto dal consolidamento di nuovi orizzonti sistematici, ma anche dalla conformazione delle fattispecie concrete attualmente più diffuse. In effetti, si è constatato che le tipologie di casi in grado di « decretare » la crisi dei classici criteri di distinzione fra bedingter Vorsatz e bewußte Fahrlässigkeit pongono in evidenza proprio la questione concernente la « qualità » del rischio connesso alla condotta del soggetto agente. Tuttavia, il corretto proposito di valorizzare il contenuto delle varie fenomenologie di pericolo per definire con maggiore precisione l’appartenenza del dolo eventuale alla tipicità del fatto, e il conseguente discrimine fra tale istituto e la colpa cosciente, non sembra trovare espressioni convincenti nell’elaborazione delle diverse varianti del c.d. criterio del rischio. Innanzitutto, alcune formulazioni muovono dall’idea — non condivisibile — che il momento volitivo del dolus eventualis sia irrilevante oppure non dimostrabile (22); non deve stupire pertanto che la più raffinata versione della Risikotheorie — quella del pericolo « non schermato » di Herzberg (23) — intenda collocare il problema della delimitazione fra dolo eventuale e colpa cosciente esclusivamente nel profilo obiettivo della fattispecie. Ed invero, proprio la particolare fisionomia di siffatto pericolo c.d. « non schermato » (unabgeschirmt) — cioè affidato, durante o dopo l’azione del reo, totalmente o in misura assai rilevante al caso — sarebbe sufficiente per determinare la scelta a favore della supposizione del dolo eventuale (24). In proposito, si deve sottolineare con energia che qualsiasi ricostruzione della responsabilità dolosa indiretta priva di riferimenti a contrassegni di carattere volitivo appare difficilmente « praticabile » — in sostanza, (21) Sul punto cfr., da ultimo, la puntuale analisi di SCHÜNEMANN, Vom philologischen zum typologischen Vorsatzbegriff, Hindi FS, Berlin, New York, 1999, 366 ss. (22) Cfr., con accenti differenziati, le complesse ricostruzioni di JAKOBS, Strafrecht. AT. Die Grundlagen und die Zurechnung, 2a ed., Berlin, New York, 1991, 8/21 ss.; 269 ss.; FRISCH, Vorsatz und Risiko, Köln, Berlin, Bonn, München, 1983, 255 s.; 264 s.; 482 ss.; PHILIPPS, Dolus eventualis als Problem der Entscheidung unter Risiko, ZStW, 1973, 35 ss. (23) Cfr. HERZBERG, Die Abgrenzung von Vorsatz und bewusster Fahrlässigkeit. Ein Problem des objektiven Tatbestandes, Jus, 1986, 249 ss.; ID., Das Wollen beim Vorsatzdelikt und dessen Unterscheidung vom bewussten fahrlässigen Verhalten, JZ, 1988, Teil I, 573 ss.; Teil II, 635 ss. (24) V. HERZBERG, Die Abgrenzung, cit., 255 ss.; ID., Das Wollen, cit., Teil II, 639 ss.
— 915 — pure la rappresentazione di un’adeguata schermatizzazione da parte del reo dovrà dipendere, in qualche misura, dalla sua fiducia nella non verificazione dell’evento (in ragione delle precauzioni adottate dallo stesso soggetto agente, dalla vittima o dal reo) — e, comunque, non in sintonia con il nostro ordinamento, il quale edifica la differenza tra dolo (eventuale) e colpa (cosciente) su elementi di natura psicologica (25). In secondo luogo, l’apprezzabile sforzo effettuato da chiara dottrina (26) di conferire all’oggetto del dolus eventualis una più incisiva qualificazione normativa — tramite il concetto di « pericolo del dolo » (Vorsatzgefahr) — non si traduce in una corretta opera di individuazione delle peculiarità strutturali della responsabilità dolosa indiretta, che consenta di apprezzarne appieno la complessa articolazione. Non deve sorprendere, allora, che l’esito della nota parabola teorica della Puppe sia quello di negare qualsiasi differenziazione tra le diverse forme di « realizzazione » dolosa, nella prospettiva di edificare un concetto unitario di dolo sul presupposto di una « volizione » o di una « intenzionalità » del tutto obiettivizzata. Del resto, l’idea di affermare l’imputazione dolosa allorquando la condotta esprime l’« adozione di una strategia idonea alla produzione di un evento conforme a quello previsto dalla fattispecie legale » (Strategiekriterium), sulla base del giudizio di un osservatore « ragionevole » che opera secondo assennati criteri di comportamento e di scelta (27), non può condurre ad inquadrare il rapporto tra « rischi dolosi » e « rischi colposi » nell’ambito dello schema « da aliud ad aliud ». Viceversa, una simile impostazione finisce per ricalcare percorsi teorici che plasmano il concetto di « pericolo doloso » esclusivamente con l’ausilio di astrazioni pertinenti alla sfera colposa, dove il processo di costruzione della regola cautelare — e di accertamento della sua trasgressione — non può che rinviare al parametro dell’« uomo ragionevole », costituendo l’homo eiusdem professionis et condicionis una vera e propria « personificazione del punto di vista dell’ordinamento giuridico » (28). b) Anche la letteratura italiana più recente avverte l’esigenza di attribuire una maggiore consistenza allo « zoccolo normativo » della forma eventuale del dolo, prospettando una selezione dei rischi che possono sorreggere l’imputazione dolosa indiretta. Gli itinerari prescelti dalla nostra dottrina sono essenzialmente due e (25) In questa direzione, cfr. già le osservazioni di G.A. DE FRANCESCO, Dolo eventuale e colpa cosciente, in questa Rivista, 1988, 133 s. (26) Cfr. PUPPE, Der Vorstellungsinhalt des dolus eventualis, ZStW, Bd. 103, 1991, 1 ss.; ID., Vorsatz und Zurechnung, Heidelberg, 1992, 32 ss. (27) PUPPE, op. ult. cit., 74. (28) Su quest’ultimo aspetto cfr. FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, 228 ss., laddove riprende la nota affermazione di Armin Kaufmann.
— 916 — possono essere accomunati dal lodevole intento di opporsi a quelle concezioni volontaristiche del dolo che non riconoscono l’esistenza di una soglia inferiore di rilevanza di un rischio attivato da chi vuole l’evento, in quanto la riprovevolezza soggettiva del reo doloso deve ritenersi sufficiente a compensarne le carenze oggettive. Per un primo indirizzo il correttivo sociale applicabile (anche) alle realizzazioni dolose sarebbe costituito dalla categoria generale dell’objektive Zurechnung, che edifica un concetto di « pericolo penalmente rilevante » quale filtro oggettivo comune a dolo e colpa. L’autonomia dogmatica della nozione di imputazione oggettiva si giustifica proprio in quanto essa inserisce, nella tipicità dolosa e in quella colposa, l’idea del superamento di un identico livello di rischio lecito (29) ovvero l’elemento della rappresentazione, attuale o potenziale, della condotta concreta nella sua pericolosità rispetto all’evento storico. Il problema della ricostruzione dell’oggetto del dolo e della colpa acquisterebbe, dunque, rilevanza soltanto in seguito ad un giudizio preliminare concernente la natura del rischio rappresentato o rappresentabile: qualora il pericolo prodotto dal comportamento dell’agente fosse lecito o socialmente tollerato, oppure fosse classificabile come un rischio generale dell’esistenza o della vita ordinaria, si dovrebbe formulare un’implicita ed indiretta valutazione di atipicità. In questa prospettiva, nonostante sia possibile affermare che il dolo finirebbe per « contenere » la colpa relativamente al piano oggettivo del rischio, l’autentico requisito unificante l’esecuzione dolosa e quella colposa non è la trasgressione di una regola cautelare, ma la concreta pericolosità della condotta. Ovviamente, si perviene alle medesime conclusioni anche nei confronti della forma eventuale del dolo: siccome in tale ipotesi il soggetto risponde perché ha accettato il rischio dell’evento, si deve sempre richiedere una pericolosità statistica dell’azione effettuata « che non può comunque essere inferiore a quella sufficiente per una incriminazione a titolo di colpa (salve, si intende, le altre diverse condizioni necessarie per un compiuto giudizio di imputazione dell’evento per colpa) » (30). Come si è avuto occasione di sottolineare, questo orientamento — pur avendo contribuito a sottolineare l’importanza della tipizzazione del disvalore di azione in ogni tipologia delittuosa — risulta incentrato su as(29) V., p.t., ROXIN, Strafrecht. AT. Bd I. Grundlagen. Der Aufbau der Verbrechenslehre, 3a ed., München, 1997, par. 11, n. 39 ss., 310 ss.; JESCHECK, WEIGEND, Lehrbuch, cit., 286 ss.; con precisazioni, di recente, FRISCH, La imputación objetiva: estado de la cuestion, in ROXIN, JAKOBS, SCHÜNEMANN, FRISCH, KÖHLER, Sobre el estado de la teoria del delito, a cura di SILVA SÁNCHEZ, Madrid, 2000, 34 ss.; criticamente, HIRSCH, Sulla dottrina dell’imputazione oggettiva dell’evento (trad. it. di CORNACCHIA), in questa Rivista, 1999, 752 ss. (30) V. DONINI, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991, 350; analogamente, ID., Teoria del reato. Una introduzione, Padova, 1996, 328.
— 917 — sunti non condivisibili, in quanto incapaci di descrivere correttamente l’essenza della tipicità sia degli illeciti dolosi sia di quelli colposi (31). In questa sede è sufficiente osservare che siffatta visione omogenea dell’« oggettivo » nelle fattispecie a realizzazione colpevole compromette una lineare opera di distinzione delle figure del dolo eventuale e della colpa cosciente, le quali non possono « condividere » un segmento così significativo della dimensione materiale e anche rappresentativa del comportamento umano ed essere contraddistinte unicamente sul piano volitivo. Ad obiezioni in parte analoghe si espone l’altro filone che sostiene l’esistenza di un minimo denominatore comune di tutte le forme di responsabilità colpevole: questa piattaforma oggettiva non sarebbe più identificabile nel superamento di un livello « generale » di rischio lecito (di fronte ad un’identica conformazione della situazione storica), ma si dovrebbe « al più presto » rintracciare nella trasgressione della diligenza oggettivamente necessaria (objektiv erforderliche Sorgfalt) (32). Proprio nella letteratura italiana tale pensiero trova la sua formulazione più esplicita ed autorevole: « un fatto antigiuridico può essere commesso con dolo sempreché — in assenza di dolo — siano presenti, rispetto allo stesso fatto, gli estremi della colpa » (33). In verità, i principali rilievi critici che sono stati avanzati nei confronti dell’espressione « non c’è dolo senza colpa » risultano assai poco convincenti, poiché muovono essenzialmente dalla rivendicazione della « centralità » dell’atteggiamento della volontà nell’ambito di una concezione soggettivistica e moraleggiante del dolo (« interiore »), difficilmente compatibile con un modello liberale di diritto penale orientato alla protezione dei beni giuridici. Le obiezioni che abbiamo prospettato alla tesi che ravvisa nella misura impersonale della colpa il presupposto della responsabilità dolosa poggiano su argomenti del tutto diversi. La ragione per la quale riteniamo insoddisfacente questa moderna visione della « caccia alla colpa nel dolo » non risiede nella convinzione che la nozione di rischio si svuoti di una sua funzione operativa nei riguardi delle tipologie del dolo (34), ma nella dimostrazione di differenti configurazioni, nell’ele(31) V. CANESTRARI, Dolo eventuale, cit., 105 ss. (32) In questa direzione, ENGISCH, Der Unrechtstatbestand im Strafrecht. Eine kritische Betrachtung zum heutigen Stand der Lehre von der Rechtswidrigkeit im Strafrecht, in Hundert Jahre Deutsches Rechtsleben. Festschrift zum 100 jährigen Bestehn des deutschen Juristentages, Bd. I, Karlsruhe, 1960, 417 s.; ID., Die Kausalität als Merkmal der strafrechtlichen Tatbestände, Tübingen, 1931, 53 ss.; più di recente, per tutti, WOLTER, Objektive und personale Zurechnung von Verhalten, Gefahr und Verletzung in einem funktionalen Straftatsystem, Berlin, 1981, 156. (33) V. MARINUCCI, Non c’è dolo, cit., 355. (34) Così, sostanzialmente, PAGLIARO, Imputazione obiettiva dell’evento, in questa Rivista, 1992, 800, secondo il quale prevedibilità e volontà stanno nelle condotte colpose e dolose come requisiti tra loro alternativi.
— 918 — mento « oggettivo » delle forme dolose, del requisito del pericolo, la cui « misurazione » non può sempre essere affidata alla mediazione del corpus cautelare, sia esso o meno codificato. Nel corso di una nostra opera monografica abbiamo illustrato il percorso dogmatico che motiva siffatta conclusione — il livello (presunto « inferiore ») del rischio penalmente significativo non può essere attinto tout court dall’objektive Seite dell’illecito colposo —: qui è sufficiente ribadire che tale impostazione non può contribuire a « separare » le specifiche identità strutturali del dolus eventualis e della colpa cosciente. In effetti, chi sostiene — con apprezzabile chiarezza — che l’imputazione per dolo eventuale richiede la violazione della c.d. misura oggettiva della colpa (35), finisce inevitabilmente per « consegnare » al solo momento volitivo la ricerca dei tratti distintivi la forma « minore » del dolo e la colpa con previsione dell’evento. 5. Rischio e tipologie di responsabilità dolosa. — I rilievi finora svolti impongono di illustrare con chiarezza il rapporto che intercorre tra la dimensione (esteriore) del rischio e le diverse forme di realizzazione dolosa. La presenza di una « percepibile » situazione di pericolo (di produzione dell’offesa) costituisce il primo livello — e l’unico, per così dire, osservabile dal punto di vista « obiettivo » — della struttura del dolo e della colpa: tuttavia, le caratteristiche di questa « componente normativa » variano a seconda del tipo di illecito che si ha di fronte. Inoltre, all’interno del delitto doloso, la figura di « confine » — il dolus eventualis — si caratterizza anche in virtù della fisionomia del requisito del rischio, il quale si atteggia in modo affatto peculiare. In breve. A nostro avviso anche nella struttura della responsabilità dolosa si deve enucleare un « gradino oggettivo », connesso ma « logicamente » anteriore all’imputazione soggettiva del fatto doloso. Posto che si deve sempre richiedere la verifica del versante interiore — vale a dire della rappresentazione e della volontà del soggetto agente —, la questione dell’imputazione di un determinato evento « per dolo » non può essere risolta su un piano meramente psicologico, ma dovrà anche tener conto della oggettiva idoneità della condotta effettuata a cagionare l’evento. Come ha affermato Giorgio Marinucci in un illuminante saggio, una lettura esclusivamente « soggettivistica » del dolo potrebbe condurre all’imputazione del fortuito e ad attribuire rilevanza penale persino ad un dolus malus sorretto da un comportamento che si arresta allo stadio del tentativo inidoneo (36), in chiaro contrasto con gli artt. 41 cpv., 45, 49 (35) Nell’ambito della letteratura italiana, cfr. PROSDOCIMI, Dolus eventualis. Il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali, Milano, 1993, 90 ss. (36) Cfr. MARINUCCI, Non c’è dolo, cit., 31, laddove sottolinea le « incongruenze » di un simile punto di vista.
— 919 — cpv., 56 c.p., che impongono una selezione dei rischi anche nell’ambito delle realizzazioni dolose, a presidio di un diritto penale del fatto orientato alla protezione dei beni giuridici. Senonché, questo « zoccolo normativo » del dolo, sul quale si innesta la « decisione » del reo, non va identificato con la misura « impersonale » della colpa, in quanto non prevede quel « filtro » dato dal riferimento ad una pluralità di figure modello. Il nostro pensiero è ormai noto: la base e il metro — nonché, ovviamente, il momento — di siffatto giudizio sono analoghi a quelli che consentono di verificare l’idoneità concreta degli atti nella struttura del delitto tentato (37). Soltanto in seguito a tale valutazione si può identificare quell’elemento strutturale di pericolosità che costituisce, sul piano oggettivo, l’autentico denominatore comune alle — e unicamente alle — diverse forme del dolo. Quanto detto non esaurisce, però, le questioni connesse al rilievo che si deve attribuire all’« entità » del rischio valutabile ex ante nell’ambito dell’illecito doloso: mentre in riferimento alle tipologie di responsabilità dolosa « diretta » sembrano sufficienti alcune puntualizzazioni — che non possiamo svolgere in questa sede per motivi di spazio —, l’atteggiarsi del requisito del pericolo come oggetto del dolo eventuale esige fondamentali considerazioni aggiuntive. 6. La struttura oggettiva e soggettiva del dolus eventualis. — Se nella figura del c.d. dolo diretto (di secondo grado) la natura e il grado della rappresentazione riguardo la realizzazione del fatto, in termini di « certezza » o di « alta probabilità », svolgono la funzione di creare un legame sufficientemente « stringente » — sul piano psicologico — con l’evento non prodotto intenzionalmente, nella costellazione del dolo eventuale tale compito viene tradizionalmente affidato alla formula dell’« accettazione (presa sul serio) del rischio » o ad altre del tutto equivalenti, come l’agire « al costo di », ovvero « considerando l’evento come ‘‘prezzo’’ da pagare ». Non vi è dubbio, però, che le applicazioni di siffatti criteri siano apparse assai poco convincenti. Le impostazioni, assolutamente prevalenti in dottrina, che intendono rintracciare il criterio distintivo tra dolo eventuale e colpa cosciente soltanto sulla base di una previa dimostrazione della presenza di connotati « volitivi » nella responsabilità dolosa « indiretta » hanno, infatti, contribuito ad occultare la complessa articolazione dei confini tra illecito doloso e illecito colposo. Un’analisi più approfondita consente, invece, di affrontare la questione dei « limiti » tra dolus eventualis e colpa con previsione anche sul piano oggettivo del « rischio » senza affidare soltanto all’esegesi o alla pa(37)
V. CANESTRARI, Dolo eventuale, cit., spec. 176 ss.
— 920 — rafrasi del concetto di « accettazione » gli esiti della ricerca. Quest’ultima nozione costituisce certo un requisito essenziale per affermare l’integrazione del dolo eventuale, ma ad essa non va assegnato il ruolo di esclusivo « indicatore » per distinguere suddette forme di realizzazione colpevole. La consapevolezza che il dolo non si riduce ad un mero accadimento interiore, ma deve affiancare alla componente subiettiva un versante « esterno » e « materiale », da non potersi considerare « omogeneo » al profilo oggettivo del reato colposo, ci permette ora di esplorare il contenuto della condotta pericolosa come oggetto del dolus eventualis. È giunto così il momento di riconoscere al dolus eventualis una fisionomia strutturale più complessa, che si articola in diversi gradini che conservano la loro autonomia: il pericolo « situazionale » per il bene giuridico; l’elemento cognitivo e quello volitivo. 6.1. Il pericolo tipico del dolo eventuale: il c.d. « rischio doloso ». — Riteniamo allora sia necessario procedere alla distinzione tra il dolus eventualis e la colpa con previsione valorizzando « al più presto » le caratteristiche esterne e sociali del comportamento del soggetto: ovviamente, affinché questa sorta di « rivoluzione copernicana » risulti convincente si deve descrivere con assoluta chiarezza la specifica « identità » della forma indiretta del dolo, che è composta dall’elemento volitivo — sia pure « attenuato » — e da una condotta particolarmente « qualificata » sul piano del rischio. Di conseguenza, la ricostruzione che intendiamo effettuare deve muovere — per evitare di essere attratta nell’orbita viziata delle concezioni che sostengono un’esasperata oggettivizzazione della teoria del dolo (38) — da un presupposto fondamentale. L’essenza del dolus eventualis non potrà mai essere ricercata nella dimensione obiettiva del pericolo senza riferimento alla rappresentazione e alla volontà del soggetto, cosicché la valutazione dell’avvenimento esteriore — indispensabile per differenziare efficacemente la responsabilità dolosa indiretta e quella colposa — deve essere svolta in modo tale da integrarsi anche a livello processuale con l’indagine concernente la partecipazione interiore dell’agente in rapporto ai dati osservabili. Ciò comporta che un giudizio sulla natura « sociale » di un determinato rischio — al fine di verificare se quest’ultimo possa configurare il versante normativo del dolo eventuale — deve assumere come base tutte (e soltanto quelle) circostanze note al singolo soggetto al tempo della condotta. Tale accertamento concreto deve, cioè, fondarsi sulle conoscenze ontologiche e nomologiche che il soggetto « attualizza » nel momento in cui agisce: soltanto se si concepisce il dolus eventualis, fin dal primo gradino della sua struttura, in funzione del « sapere » realmente in possesso del singolo agente, si potrà conferire alla forma indiretta del dolo un’au(38)
V. retro, par. 4 a).
— 921 — tentica dimensione umanistica che ne esalti il contenuto « pregiuridico ». Ragionando diversamente non sarebbe possibile ricercare quella decisione personale per la « (eventuale) lesione del bene giuridico » — basata su una effettiva consapevolezza dei rischi eziologici verso una direzione non socialmente prevedibile (39) —, da opporre alle ricorrenti lusinghe di chi intende presumere il dolo eventuale dalla mera inosservanza di regole astratte. Ed eccoci al punto: tenendo conto delle considerazioni sin qui svolte, occorre illustrare il procedimento mentale che consente di verificare se uno specifico rischio creato da una certa condotta sia di tale « qualità » da integrare eventualmente gli estremi di una responsabilità dolosa indiretta, oppure da configurare una colpa con previsione, laddove il fatto sia previsto come delitto colposo. Ebbene, si tratta di percorrere l’unica strada che permette di ancorare una simile valutazione della natura « sociale » di un ben individuato comportamento pericoloso a coordinate agganciabili ad indici normativi, le quali non rilevano soltanto « in astratto » nel diverso giudizio concernente la liceità di particolari « classi » di attività. È necessario, pertanto, sulla base delle cognizioni effettivamente possedute dall’individuo e delle circostanze a lui note nella fase dell’esecuzione della condotta, rendere operativo di fronte ad una situazione concreta il bilanciamento tra le due fondamentali grandezze in gioco: da un lato, l’interesse sociale dell’azione effettuata (in raffronto con l’utilità dell’attività di cui essa è espressione); dall’altro, il tipo e le dimensioni del rischio di lesioni. Per meglio cogliere l’efficacia di siffatti criteri nell’esame di una vicenda concreta, si deve comunque tenere presente come nell’ambito di tali contrapposte polarità sia necessario riferirsi ad ulteriori fattori: così, il valore o la consuetudine sociale della condotta pericolosa tenuta dal soggetto agente devono essere analizzati in connessione con la finalità o lo scopo di essa (40), mentre la « fisionomia » del rischio va ricostruita in funzione sia della gravità del danno al bene giuridico, sia in particolare del rango di questo. Inoltre, è di immediata evidenza che un ruolo centrale va (39) Su quest’ultimo elemento vedasi, p.t., DONINI, Illecito, cit., 342 ss. (40) In proposito, può dirsi significativo come quest’ultimo elemento sia preso in considerazione nella stessa definizione della Recklessness, formulata alla section 2.02(2)(c) del Model Penal Code: il rischio « trascurato » dall’agente perché sussista siffatta forma di colpevolezza deve essere, infatti, « di tale indole e grado che, considerando la natura e lo scopo della condotta dell’agente e le circostanze a lui note, implichi una grossolana deviazione dal tipo di comportamento che una persona rispettosa della legge avrebbe osservato nella situazione dell’agente » (v. The American Law Institut, Model Penal Code and Commentaries, Official Draft and Revised Comments, I, Philadelfia, 1985, Part. I, 226). Com’è ovvio, il problema concernente la controversa collocazione di tale figura potrà essere analizzato soltanto in seguito, una volta che si siano del tutto chiariti i rapporti intercorrenti tra il dolo eventuale e la colpa cosciente.
— 922 — assegnato all’elemento costituito dal grado di probabilità del verificarsi della lesione e altresì — ancorché in parte — al grado di probabilità di raggiungere lo scopo proprio dell’attività. Infine, può venire in considerazione l’eventuale disponibilità di misure di sicurezza e l’esigibilità di misure prudenziali prospettabili nella specifica dinamica fattuale (41). Ora, siccome tale bilanciamento deve essere rapportato alle variabili della situazione concreta — e non si esaurisce pertanto sul piano meramente oggettivo, dovendo tenere conto delle conoscenze e delle capacità psicofisiche in possesso del singolo al tempo della condotta —, bisogna avere piena consapevolezza del fatto che i criteri elencati non possono certo offrire una soluzione sempre precisa dei molti problemi dogmatici e pratici legati alla delimitazione tra l’imputazione dolosa « indiretta » e quella colposa. A nostro avviso, il criterio euristico più utile per ponderare i vari punti di vista tra loro in conflitto nella valutazione di un determinato comportamento pericoloso dovrebbe essere costituito proprio dal riferimento alla figura modello: ed invero, la circostanza stessa che sia possibile ricostruire una « tipologia » di agenti — più o meno « circoscritta » o « differenziata » — cui commisurare la condotta del soggetto concreto rappresenta un indizio, seppure non conclusivo, della « colposità » di quel rischio prodotto e in seguito materializzatosi nell’esito lesivo. Più chiaramente, allo scopo di perfezionare i termini di siffatto collegamento: riteniamo sia, per converso, un’indicazione efficace per affermare la natura « dolosa » di un determinato pericolo — sul quale si può fondare una responsabilità per dolus eventualis qualora il reo si rappresenti la direzione eziologica verso l’evento offensivo e accetti la sua verificazione —, la circostanza che non sia individuabile una figura tipo in grado di (« riconoscere come proprio » o, meglio, di) prendere seriamente in considerazione l’assunzione di un simile rischio. In altri termini: laddove non sia possibile applicare una Maßfigur al caso, in quanto l’entità del pericolo (nell’attuale « potenzialità » lesiva) è tale, che la prospettiva di « correre » siffatto rischio può essere « percepita » e valutata dal soggetto — sempre considerando le conoscenze in suo possesso e le circostanze a lui note — soltanto « spogliandosi delle vesti » (rectius: « rinnegando l’abito ») dell’homo eiusdem professionis et condicionis, si può e si deve porre la questione relativa alla sussistenza di una « decisione » dell’agente concreto a favore di una (eventuale) violazione del bene giuridico. Del resto, unicamente con l’ausilio di queste fondamentali osservazioni può acquistare un più plausibile significato la formula, da tempo consolidata nella letteratura e in giurisprudenza, che richiede, per la confi(41) Per un esame di queste ultime Hilfskoordinaten nell’ambito del bilanciamento che contribuisce a delineare (soltanto) la struttura del fatto colposo, cfr. SCHÜNEMANN, Moderne Tendenzen in der Dogmatik der Fahrlässigkeits-und Gefährdungsdelikte, JA, 1975, 516; 575 s.
— 923 — gurabilità della colpa con previsione, oltre alla rappresentazione della possibilità della realizzazione del fatto, la « motivata » fiducia che in concreto ciò non accadrà. Non si comprende, infatti, da quali parametri si possa desumere la presenza di una fiducia del soggetto agente — anziché di una mera speranza; vale a dire: di un convincimento (erroneo ma) giustificato da un « minimo » fondamento di razionalità —, nell’ipotesi in cui il suo agire non sia neppure « confrontabile » con quello di un appartenente ad una qualsivoglia tipologia sociale. Si formuli un esempio « da manuale », facendo riferimento al classico settore dell’attività medico-chirurgica, rinviando al paragrafo successivo l’esame dei casi drammatici posti in evidenza dalla realtà processuale. Il medico chirurgo (« ogni medico-chirurgo »), direttore di una casa di cura dove si possono eseguire soltanto alcuni trattamenti anestetici, qualora sia a conoscenza del fatto che il paziente ivi ricoverato è allergico a tali sostanze e che può essere agevolmente trasferito in strutture ospedaliere più attrezzate, valuterà invariabilmente la situazione concreta in cui si trova (« sgradevole », ma) priva di alternative (l’eventualità di affrontare il rischio di un esito infausto non verrà neanche presa in esame). Deve apparire chiaro come nel momento in cui il soggetto decide invece di agire — e, cioè, di effettuare l’operazione per motivi di lucro o al fine di non screditare il « suo » istituto sanitario —, quel pericolo che egli intende effettivamente correre non può più essere riconosciuto « come proprio » da alcun membro del suo circolo di appartenenza. Si tratta, allora, di un « rischio doloso », in quanto nell’ambito della tipologia sociale di riferimento la sua assunzione non può neppure essere presa in considerazione: di conseguenza, per escludere la sussistenza di una responsabilità dolosa « indiretta » nei confronti dell’evento letale verificatosi, non sarà certo sufficiente sostenere ad es. che il reo aveva confidato nel possibile effetto salvifico di un eventuale intervento dell’anestesista rianimatore del team della casa di cura. 6.2. Il versante soggettivo del dolo eventuale. — Insomma, se si vuole condensare in una formula il contenuto del pericolo che funge da « piedistallo normativo » della categoria del dolo eventuale, è corretto utilizzare la seguente definizione: deve trattarsi di un rischio « non consentito » (42), la cui assunzione non può neppure essere presa seriamente in considerazione dalla figura modello dell’agente concreto. (42) Occorre porre in evidenza anche tale requisito, poiché l’ambito della controversa categoria dell’erlaubtes Risiko è proprio costituito dal pericolo oggettivamente prevedibile sulla base dell’insieme di conoscenze nomologiche e ontologiche applicabile ex ante, ma non rappresentabile dal punto di vista dell’homo eiusdem condicionis ac professionis, oppure, ancorché riconoscibile, non tale da influire sulle sue modalità di condotta (così, puntualmente, FORTI, Colpa, cit., 250 e ivi ampi riferimenti alla letteratura di lingua tedesca).
— 924 — Questa « oggettivizzazione » dei confini inferiori dell’istituto del dolus eventualis consente di inquadrare il problema della distinzione fra la forma indiretta del dolo e la colpa con previsione anche in una dimensione strutturale e normativa senza esaurire l’indagine su un piano meramente obiettivo. L’individuazione di un solido presupposto — condizione « necessaria », ma non « sufficiente » — per l’applicazione del dolo eventuale valorizza, infatti, l’autonomia ed il significato degli ulteriori livelli in cui si articola tale figura: quello cognitivo, dove si deve accertare una rappresentazione effettiva da parte del reo del concreto esito offensivo, basata sulla conoscenza attuale della situazione di fatto dalla quale derivava il rischio della sua verificazione; quello volitivo, dove la presenza « incisiva » di alcuni indicatori — si pensi, ad esempio, al comportamento attuato per evitare il risultato lesivo o alla particolare vicinanza emotiva fra reo e vittima — può condurre a negare l’esistenza di un rimprovero doloso, in quanto non si ravvisa una « decisione (personale) contro la possibile violazione del bene giuridico ». L’elaborazione di siffatto criterio « misto » — in cui la « previsione » e la « volontà » del soggetto agente si radicano in una peculiare conformazione del rischio — ci consente pertanto di tracciare una chiara linea divisoria fra la responsabilità dolosa « indiretta » e quella colposa, evitando di ricalcare gli schemi di quell’insidioso « processo di oggettivizzazione » della categoria del dolo eventuale che caratterizza il neuer Kurs della letteratura d’oltralpe. Come vedremo tra breve, ciò vale sia nell’ambito di una sfera delittuosa (43), sia nel contesto di attività (ab origine) consentite: non bisogna, infatti, ricorrere ad un’artificiosa « moltiplicazione » delle tipologie di dolus eventualis per motivare la diversa articolazione dei « confini » fra dolo e colpa in un territorio criminoso — caratterizzato dall’accentuata riduzione (ma non dalla scomparsa) del rimprovero colposo —, oppure penalmente lecito. In questa prospettiva, che non trascura l’osservazione delle note « sociali » della specifica situazione di rischio connaturata alla condotta del reo e oggetto di una sua concreta rappresentazione, risulterà assai più agevole indicare i « limiti » della configurabilità del dolo eventuale nei settori tradizionalmente inquadrati nel concetto di erlaubtes Risiko (circolazione stradale, attività produttive, lavorative, ma anche sanitarie, sportive, ecc.); e, al contempo, comprendere il significato di quella « motivata » fiducia (nella non verificazione dell’evento) — dotata (comunque) di un (minimo) fondamento razionale, ancorché avventata — che contrassegna le principali ipotesi di colpa con previsione (44). (43) Cfr. infra, par. 7. (44) V., infra, par. 8; conf. M. MANTOVANI, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, vol. II, Torino, 2001, 241 ss.
— 925 — L’individuazione di « costellazioni » di rischio normativamente rilevanti per la tipicità della condotta dolosa indiretta fornirà, infine, un contributo decisivo per prospettare soluzioni soddisfacenti alle questioni poste dall’apparizione di nuove ed « ambigue » fenomenologie di pericolo (45): dalle c.d. « sfide automobilistiche » al rapporto sessuale praticato senza protezione dal soggetto sieropositivo. 7. Il confine tra dolo eventuale e colpa in un ambito ab origine penalmente illecito. — L’identificazione della « base » normativa del dolus eventualis di fronte ad una condotta concreta del soggetto agente presuppone quindi una complessa opera di bilanciamento, che si fonda sull’operatività di molteplici coordinate. Val la pena ripetersi: tale articolato giudizio conduce a classificare un determinato pericolo non consentito come « doloso », allorquando un avveduto osservatore esterno (l’organo giudicante) — posto nella stessa situazione concreta in cui si trovava il singolo autore e in possesso delle sue conoscenze, nonché delle sue capacità psicofisiche — non avrebbe mai potuto « prendere seriamente in considerazione di assumere » quello specifico rischio nelle vesti dell’homo eiusdem professionis et condicionis dell’agente, bensì in una prospettiva posta al di fuori dei confini tracciati dalla tipologia sociale di riferimento (46). Del resto, la figura modello è null’altro che l’espressione più autentica del « punto di vista del diritto » (47) in un contesto (ab origine) non criminoso, laddove indica anche il comportamento che i consociati dovrebbero tenere in vista dell’esigenza di evitare la realizzazione dell’offesa: intanto sussisterà la tipicità colposa, in quanto l’agente-tipo avrebbe (potuto-) dovuto riconoscere il fatto lesivo e tale riconoscimento avrebbe (potuto-) dovuto indurlo ad agire diversamente da come ha agito. Ora, la verifica relativa all’impossibilità, da parte di un soggetto immaginato come « personificazione dell’ordinamento giuridico nella situazione concreta », persino di pervenire alla rappresentazione del fatto lesivo — mentre ciò avviene « rinnegando » l’appartenenza al proprio (e a qualsivoglia, più o meno esteso) « gruppo sociale » — deve costituire la prima di quelle ope(45) V., infra, parr. 8 e 9. (46) Questa visione della struttura dogmatica delle categorie « di confine » ha consentito altresì di affrontare con profitto alcune tematiche, da sempre poco esplorate dall’angolo visuale degli studiosi che si proponevano di enucleare criteri distintivi fra il dolo eventuale e la colpa cosciente. In una mera rassegna (per un’analisi approfondita, cfr. il nostro Dolo eventuale, cit., cap. III, parr. 3, 4, 5, 6 e 7): la distinzione tra dolo eventuale e colpa (con previsione o « con rappresentazione ») in rapporto agli elementi essenziali del fatto tipico diversi dall’evento (op. ult. cit., 202 ss.); il discrimen tra dolo e colpa nell’ambito delle diverse tipologie dei c.d. reati di « pura condotta » (ibid., 210 ss.) e nelle varie categorie degli illeciti di pericolo (ibid., 225 ss.). (47) V. retro, nt. (28).
— 926 — razioni intellettuali che conducono a ravvisare una decisione di chi agisce a favore della possibile violazione del bene giuridico protetto. Ciò detto, occorre una duplice precisazione. Da un lato, non è superfluo ricordare che l’individuazione della natura dolosa del rischio configura un presupposto necessario per « sorreggere » la « decisione » del reo doloso soltanto nei confronti della figura del dolus eventualis: difatti, la presenza di una fisionomia così « qualificata » del pericolo non appare indispensabile per ritenere integrate quelle forme del dolo (intenzionale, diretto) in cui è possibile rintracciare o « ricostruire » una volizione « piena » in vista della conseguenza lesiva (48). Dall’altro, si deve sottolineare che anche nei casi in cui il dolo eventuale si innesta sopra una condotta già di per sé penalmente illecita, l’affermazione della qualità « dolosa » del rischio — seppur ovviamente assai frequente — non può dirsi automatica. In queste ultime ipotesi, laddove la struttura del dolo eventuale è caratterizzata da una condotta svolta in un ambito ab origine criminoso, l’analisi del primo gradino che conduce sistematicamente all’imputazione soggettiva — la pericolosità oggettiva per il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice — sembra richiedere un’indagine di minore complessità. Tuttavia, a livello oggettivo del pericolo « situazionale », acquisteranno comunque significato i molteplici dati osservabili, la valutazione dei quali — sia pure sottratta a quell’opera di bilanciamento con l’interesse sociale riconducibile lato sensu al comportamento effettuato, « di regola » superflua in un territorio criminoso — conserva un ruolo fondamentale. Per un duplice ordine di motivazioni: al fine di attestare l’esistenza di una dimensione di rischio nei confronti dell’interesse protetto; perché su tale contesto esteriore dovrà comunque modellarsi il successivo piano cognitivo della rappresentazione (interiore) di chi agisce. Il catalogo degli « indicatori » rilevanti per il dolus eventualis nel preliminare passaggio della descrizione della costellazione del rischio — come del resto in quelli successivi — si presenta inevitabilmente « aperto », in quanto « dipendente » dalle possibili conformazioni delle ipotesi concrete. L’elencazione non può, pertanto, che essere meramente esemplificativa (49): si tratterà di prendere in considerazione, di volta in volta, le diverse possibilità di usare miratamente un’arma da fuoco; la parte corporea verso la quale è diretta un’aggressione e il mezzo utilizzato per colpire l’organismo del soggetto passivo (50); il lasso di tempo du(48) Si rinvia alle riflessioni effettuate al par. 5. (49) In argomento, con riferimento anche alle altre forme del dolo, v. HASSEMER, Caratteristiche del dolo (trad. it. di Canestrari), IP, 1991, 501. (50) In proposito, v. tra le altre pronunce, Cass. sez. I, 16 maggio 1985, in CP, 1986, 1777; Cass. sez. I, 26 aprile 1990, in CP, 1991, 1376 ss., relativa al discusso « caso Ramelli » (ripetute e violente percosse al capo della vittima con chiavi inglesi) commentata da
— 927 — rante il quale perdura un’azione di ferimento (51); la potenza dell’esplosione e la sua distanza dall’oggetto minacciato; l’esistenza e l’accessibilità di una protezione o di una via d’uscita per una salvezza. Ovviamente, alcuni di questi indicatori — si pensi alle caratteristiche di un’arma da fuoco nell’ipotesi di chi intende esibire la propria abilità nel tiro in un contesto pericoloso e non autorizzato (52) — assumeranno un ruolo anche quando l’istituto del dolo eventuale si radica in un ambito « non ancora » penalmente illecito, ma la valutazione del loro « peso » richiederà un processo più articolato. Ciò posto, è possibile soffermarsi con maggiore consapevolezza sulle indicazioni tratte dalla casistica giurisprudenziale, in quanto ora dovrebbero risultare evidenti, alla luce della nostra ricostruzione, i motivi dell’orientamento dominante. Ed invero, non sussiste alcun dubbio sul fatto che il raggio applicativo del dolus eventualis si presenta decisamente più esteso quando l’autore mira ad uno scopo illecito — rappresentandosi l’eventuale produzione del risultato diverso o ulteriore —, mentre appare assai più agevole l’affermazione della colpa ex art. 61, n. 3, c.p. nelle ipotesi in cui la previsione della conseguenza lesiva si innesta nell’esecuzione di una condotta rivolta ad un fine penalmente irrilevante. Senonché, a questo punto del nostro discorso, siamo altresì in possesso degli strumenti concettuali che ci consentono di non « appiattire » la complessa questione della delimitazione tra la responsabilità dolosa « indiretta » e quella « coscientemente » colposa sulle semplificazioni offerte da un simile trend giurisprudenziale. Difatti, se è vero che di frequente il dolus eventualis ha carattere « accessorio » — in quanto l’agire del reo appare intenzionalmente rivolto alla realizzazione di altra fattispecie penalmente rilevante — deve essere CERASE (ivi, 1388 ss.); di recente, Cass., sez. I, 29 gennaio 1996, in FI, Rep. 1996, voce Reato in genere, n. 35, laddove afferma che l’esplosione di un colpo di fucile in direzione di una coscia della vittima non è idonea a giustificare di per sé l’effettiva previsione dell’evento mortale, né la volontà omicida dell’imputato. (51) Cfr. Cass., sez. I, 15 aprile 1992, in CP, 1993, 1435 ss., secondo la quale l’omicidio va qualificato volontario ed è sorretto da dolo eventuale nella fattispecie in cui il colpevole, nel corso di una rapina accompagnata da violenza carnale, commessa in concorso con altri, aveva a lungo premuto sulla bocca della vittima un cuscino, impedendole così di respirare e cagionandone la morte, intervenuta per soffocamento, oltre che per altre cause concorrenti; Cass., sez. I, 16 settembre 1986, in CP, 1987, 2130 ss., che ritiene le azioni di strozzamento e di strangolamento idonee ad integrare il delitto di omicidio doloso, qualora da esse derivi l’esito letale. (52) Si pensi al celebre « caso di Lacmann » (Die Abgrenzung der Schuldformen in der Rechtslehre und im Vorentwurf zu einem deutschen Strafgesetzbuch, ZStW, Bd. 31, 1911, 159; ID., Über die Abgrenzung des Vorsatzbegriffes, GA, 1911, 119): un giovane scommette 20 marchi di essere in grado di sparare su una sfera di vetro nella mano di una ragazzina, che si trova dietro il banco di una fiera.
— 928 — criticata la conclusione di « modellare » tale figura in virtù di siffatta premessa. Da un lato, anche chi agisce in un territorio criminoso può — nonostante si rappresenti effettivamente la verificazione di ulteriori esiti offensivi — ancora correre un rischio « riconoscibile » da un osservatore esterno nelle vesti di un eventuale « agente-modello » (ricavabile dalla ristretta categoria di persone che si trovano nella « condizione » dell’autore) e, pertanto, essere considerato un reo « colposo ». Si pensi alle ipotesi (rare) del genitore che adotta metodi educativi violenti, laddove il suo comportamento pericoloso (e « colposo » in vista di risultati più gravi) sia ancora valutabile con il parametro costituito dagli appartenenti alla cerchia dei genitori « rustici » ed ignoranti, o ai casi (più diffusi) del clinico che pratica aborti senza l’osservanza delle modalità indicate nella l. 22 maggio 1978, n. 194 (53). In questi peculiari contesti illeciti, soltanto una minacciosa penetrazione della vetusta logica del versari in re illicita, attraverso l’idea del dolus generalis, può indurre a considerare sempre voluti, in presenza di una concreta previsione della loro realizzazione da parte del soggetto agente, gli eventi lesione personale o morte. Dal lato opposto, non può assolutamente essere condivisa la tendenza a restringere lo spazio applicativo dell’istituto del dolo eventuale, ritenendo presupposto necessario per la sua configurazione il carattere criminoso dello scopo intenzionalmente perseguito. 8. La distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente nei contesti a rischio di base « consentito ». L’esempio della circolazione stradale. — La circostanza che il proposito dell’agente non rivesta rilevanza penale deve orientare verso la prospettazione di una colpa con previsione nei contesti a rischio di base « consentito », ma non può assumere un valore decisivo per negare l’esistenza di una responsabilità dolosa « indiretta ». Si faccia riferimento, sia pure in maniera sintetica, al settore della circolazione stradale. Di regola, le molteplici conformazioni del pericolo (di realizzazione del danno) potranno essere giudicate — considerando la natura e la finalità della condotta svolta dal soggetto, nonché le circostanze a lui note e le capacità in suo possesso — « riconoscibili » secondo il criterio dell’osservatore esterno nelle vesti dell’homo eiusdem professionis et condicionis dell’agente: si pensi, ad es., alla maggior parte delle ipotesi di inosservanza dell’obbligo di arresto di fronte al semaforo rosso, oppure di (53) Del resto, nei confronti di chi prende parte all’effettuazione di un intervento non consentito di interruzione della gravidanza ex art. 19, comma 1o, l. n. 194 del 1978, si può applicare lo stesso Vertrauensgrundsatz, qualora codesta specie di attività sia organizzata secondo il metodo della divisione del lavoro (in tal senso, M. MANTOVANI, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997, 81).
— 929 — violazione del dovere di accertarsi che la visibilità sia tale da consentire la manovra di sorpasso senza pericolo o intralcio, ecc. (54). Tuttavia, in alcuni casi il « bilanciamento » tra il grado di probabilità del verificarsi della lesione e l’interesse causa della condotta — effettuato sempre sulla base delle caratteristiche individuali dell’agente reale — condurrà a ritenere « doloso » il tipo di rischio che il reo decide di assumere nella situazione concreta. In primo luogo, possono venire in considerazione comportamenti pericolosi parzialmente o del tutto avulsi dall’attività esercitata: così, lo spettro applicativo del dolo eventuale tende a dilatarsi nelle c.d. « sfide automobilistiche con la sorte » (55); in certe ipotesi di violazione del divieto di gareggiare in velocità (art. 141 del nuovo codice della strada, il quale sanziona tale infrazione in via amministrativa) (56) e, soprattutto, di fronte al fenomeno della c.d. « conduzione suicida », espressione che allude a distinte tipologie di condotta (57), il cui denominatore comune è rappresentato dalla circolazione sulle autostrade o su strade extraurbane nel senso di marcia opposto a quello consentito (58) (i « conduttori Kamikaze » saranno comunque ritenuti re(54) Per un’analisi della giurisprudenza, v. BELLAGAMBA, CARITI, Il codice della strada, 2a ed., Milano, 1998, 251 ss.; GIARRUSSO, TITO, La circolazione stradale. Illeciti penali, 2a ed., Milano, 1994, 271 ss.; sull’applicabilità della colpa ex art. 61 n. 3 c.p. in questa materia, cfr. PAGLIARO, La previsione dell’evento nei delitti colposi, Riv. Giur. Circ. Trasp., 1963, 347 ss.; ALIBRANDI, L’aggravante della colpa cosciente nei reati stradali, Arch. Giur. Circ. Sin. Strad., 1990, 370 ss.; D’ORAZI, Colpa cosciente e dolo eventuale nella infortunistica stradale, Cr. Pen., 1960, 114 ss. (55) Si allude ad una realtà presente in alcune zone del nostro paese, dove gruppi di giovani alla ricerca di « inebrianti sensazioni » praticano, all’uscita delle discoteche, una sorta di « roulette russa » con le proprie autovetture. La « prova di coraggio » consiste essenzialmente nell’attraversare ad alta velocità e senza alcuna precauzione un incrocio « pericoloso », « contando » sul fatto che una strada statale normalmente frequentata sia deserta nelle prime ore del mattino. (56) Si pensi, ad esempio, al caso riportato dall’articolo « Il rodeo dei « piloti per noia » finisce in tragedia », pubblicato su Il Resto del Carlino del 7 maggio 2001, p. 3 relativo a una corsa clandestina che ha cagionato un morto e tredici feriti: a mezzanotte di venerdì 5 maggio in una rotonda stradale del quartiere Pilastro, l’autovettura « ha sbandato in curva a 130 chilometri all’ora e ha investito a velocità folle gli spettatori » assiepati per assistere alle gare e scommettere. Ovviamente, per affermare la sussistenza della responsabilità dolosa indiretta, l’organo giudicante dovrà accertare un’effettiva rappresentazione in capo al soggetto agente della realizzazione del fatto tipico come conseguenza della propria condotta, nonché una piena accettazione dell’evento concretamente verificatosi. (57) Sulla frequenza di tali comportamenti nei paesi di lingua tedesca, v. DVORAK, Geisterfahrer Falschfahren an Schnellstrassen- Ahndung als Straftat oder Ordnungswidrigkeit, DAR, 1979, 32 ss.; GOLLA, MEIDL, Strafrecht. Eine verfahrene Situation, JuSch, 1984, 873 ss. Nell’ipotesi di una condotta di guida finalizzata a sfidare e punire un altro conducente per un precedente sorpasso, si sono ravvisati gli estremi del dolo eventuale di lesioni personali (provocate dall’avvenuta collisione): v. Cass., sez. V, 12 maggio 1992, in CP, 1993, 1121 ss. con commento di GAMBARDELLA. (58) Si fa riferimento principalmente all’ipotesi di chi « scommette » sulla propria
— 930 — sponsabili dell’illecito contravvenzionale di cui all’art. 176, co. 1o, lett. a, 19o, del codice della strada). Inoltre, possono risultare non « riconoscibili » — da un « assennato » osservatore esterno nelle vesti dell’agente modello — anche determinati rischi da considerare « inerenti » a questo genere di attività: così appare prospettabile la configurazione del dolus eventualis nelle ipotesi di inversione di marcia e di attraversamento dello spartitraffico nelle autostrade, all’altezza dei varchi, qualora la nebbia riduca la visibilità a pochi metri; di una manovra di sorpasso effettuata in prossimità di un dosso da un conducente a conoscenza, ad esempio, del fatto che poco distante dalla « cunetta » era situata l’uscita di una scuola (59), ecc. Ovviamente, affinabilità di riuscire a « schivare », per un certo numero di chilometri, le autovetture che circolano nella direzione corretta. Orbene, nel caso in cui si verifichi l’evento lesivo — sulla non ammissibilità del dolus eventualis nel tentativo ci siamo già espressi nel nostro Dolo eventuale, cit., 295 ss. —, non sembra sufficiente prospettare un rimprovero per colpa, sia pure « aggravata » ex art. 61 n. 3 c.p. L’affermazione di una responsabilità a titolo di dolo eventuale non deve fondarsi, però, su intuizioni eticizzanti (come « il disprezzo » per il bene giuridico) o attingere esclusivamente alla sfera delle motivazioni; al contrario, deve presupporre la ricostruzione delle modalità « espressive » della condotta dolosa indiretta, « tipiche » soltanto se non « riconoscibili » dall’agente modello « calato » nella concreta situazione di pericolo. Ciò posto, è difficile ravvisare — sulla base della nostra impostazione — un ambito applicativo, seppure « marginale », della figura della colpa con previsione: difatti, anche la presenza di doti eccezionali di pilota del soggetto agente non può modificare il giudizio sulla « natura » del rischio assunto, tenuto conto che il presumibile sconcerto degli altri conducenti rende privo di una giustificazione « razionale » qualsiasi convincimento di evitare la conseguenza lesiva. Ed invero, una volta verificata la capacità d’intendere e di volere dell’agente concreto, non appare agevole supporre una situazione psicologica di rimozione o di sottovalutazione dei pericoli connessi a siffatta « corsa della morte ». Sul tema, cfr. SILVA SANCHEZ, Consideraciones dogmaticas y de politica legislativa sobre el fenomeno de la « conduccion suicida », cit., 1 ss., il quale, pur muovendo da diversi presupposti, ritiene difficilmente ipotizzabile la sussistenza di una « culpa consciente ». Ad analoghe conclusioni si perviene, a nostro avviso, nei confronti di altre attività « ludico-trasgressive » — rectius: « ludico-criminali » — come la c.d. « sfida alla roulette russa » (il caso tratto da WILLIAMS, The Mental Element in Crime, Jerusalem, 1965, 94, è opportunamente riproposto da VENEZIANI, Motivi, cit., 144 s.: ciascuno dei contendenti a turno fa velocemente ruotare il tamburo di un revolver, contenente un solo colpo, lo blocca e punta l’arma alla testa dell’altro, premendo poi il grilletto e finendo per determinare la morte di uno dei due « giocatori »). Sull’enigmatico caso « Marta Russo », v. PATALANO, La motivazione non cancella le perplessità sulla qualificazione giuridica dei fatti, Guida al diritto, Dossier mensile. I grandi processi. Le motivazioni e l’analisi tecnica della sentenza della Corte d’Assise di Roma, n. 9, ottobre 1999, 90 ss.; FORTE, Dolo eventuale tra divieto di interpretazione analogica ed incostituzionalità, in questa Rivista, 2000, 820 ss. Riguardo al fenomeno del « lancio dei sassi dal cavalcavia », v. infra, 9.3. (59) Non riveste alcuna importanza (v. CANESTRARI, Dolo eventuale, cit., 122 ss.; 143 ss.), ai fini della responsabilità per dolo eventuale, il fatto che l’inversione di marcia integri un reato contravvenzionale (ancora l’art. 176, co. 1o, lett. a, cit.), mentre l’ultimo caso formulato preveda soltanto una sanzione amministrativa (art. 148, co. 10o, 16o, cod. della strada).
— 931 — ché si possa affermare la sussistenza del dolo eventuale — val la pena ricordarlo — non è sufficiente riscontrare l’esistenza di un rischio « doloso », ma occorre analizzare altresì i due « successivi gradini » che conducono sistematicamente all’imputazione dolosa « indiretta »: la rappresentazione (interiore) di siffatto rischio da parte del soggetto agente e la sua « decisione » per la realizzazione di tale pericolo (la sua « accettazione » dell’evento) (60). 9. L’identità differenziata del dolus eventualis e le nuove fenomenologie di rischio. — L’individuazione di costellazioni di rischio normativamente rilevanti per la tipicità della condotta dolosa indiretta, nonché la conseguente valorizzazione della « capacità selettiva » degli ulteriori livelli in cui si articola la figura del dolus eventualis, forniscono un contributo di fondamentale importanza anche per prospettare soluzioni « razionali » alle delicate questioni poste dalla comparsa di nuove fenomenologie di pericolo. Ed invero, in assenza di una verifica approfondita sull’« entità » del rischio che deve sorreggere l’imputazione dolosa « indiretta », si finisce per assumere posizioni assai poco convincenti in ordine ad atteggiamenti psichici di difficile classificazione. Si pensi, ad esempio, al soggetto sieropositivo, che consapevole del suo stato pratica un rapporto sessuale non protetto senza informare il partner sano; ai genitori testimoni di Geova i quali omettono volontariamente di sottoporre la figlia malata alla terapia emotrasfusionale; a chi pratica l’attività « ludico-criminale » del « lancio dei sassi dal cavalcavia ». 9.1. Il contagio sessuale da virus Hiv. — In relazione al contagio da virus Hiv, è sufficiente ricordare le forti riserve critiche — espresse da chi scrive (61) — riguardo al paradigma punitivo accolto dal prevalente orientamento della letteratura e della giurisprudenza di lingua tedesca, laddove ritiene sussistente il dolus eventualis di (tentata) lesione personale (pericolosa) nei confronti del c.d. AIDS-carrier che ha contatti sessuali occasionali. In effetti, soltanto il riferimento a formule « vuote » e « manipolabili » consente di definire « vaga » la fiducia del sieropositivo nella non verificazione del contagio e, al contempo, « seria » o « fondata » la convin(60) Questa ricostruzione su diversi « piani » della responsabilità dolosa indiretta dovrebbe neutralizzare — o quantomeno « ridurre » — i rischi di desumere il versante « interiore » del dolo eventuale per tipologie d’autore, vale a dire: l’automobilista non è mai tipo d’autore « doloso » nelle volontarie inosservanze delle norme del codice della strada, salvo che non appartenga a « bande giovanili » che usano la propria vettura per « sfide con la sorte », ecc. (61) CANESTRARI, La rilevanza penale del rapporto sessuale non protetto dell’infettoHiv nell’orientamento del Bundesgerichtshof, cit., 149 ss.
— 932 — zione che non si realizzerà l’evento-morte: a tacer d’altro, tale conclusione risulta in contrasto con l’attuale quadro delineato dalla scienza medica, che pone chiaramente in evidenza sia la scarsa percentuale di rischio di infezione nel singolo rapporto sessuale, sia l’alta probabilità dell’esito letale una volta avvenuto il contagio. Come appare evidente, l’assunto che si deve porre in discussione non concerne la (corretta) negazione del dolo eventuale di (tentato) omicidio, bensì la supposizione (« automatica ») di una responsabilità dolosa « indiretta » in vista della trasmissione del virus Hiv nell’organismo del soggetto passivo. Orbene, se si prende le mosse dalla nostra ricostruzione della struttura del dolus eventualis, il problema della rilevanza penale della condotta sessuale « pericolosa » dell’AIDS-carrier può trovare risposte più soddisfacenti. In breve. Posto che le ipotesi in cui si configura il dolo intenzionale — ad es., Tizio decide di contagiare il partner per sadismo, per odio verso l’umanità, ovvero per delirio paranoico, per desiderio di vendetta (c.d. Desperadomentalität) — sono estremamente rare, si tratta di stabilire i confini « inferiori » della responsabilità dolosa nei casi più diffusi, dove il portatore del virus non rivela la sua condizione per soddisfare i propri istinti sessuali, per timore di interrompere il legame o per motivi economici (nell’ambito della prostituzione femminile e maschile). Come si è più volte sottolineato, la linea di demarcazione tra l’imputazione dolosa indiretta e quella (coscientemente) colposa deve essere tracciata in seguito ad un’analisi particolareggiata della situazione concreta, tenendo in considerazione tutti i dati rilevanti all’interno dei diversi « piani » che compongono la categoria del dolo eventuale; pertanto, nell’attività sessuale « non protetta » praticata dall’infetto-Hiv, acquistano significato numerosi indicatori: la frequenza, nonché il tipo di rapporto (vaginale, orale o anale, aumentando sensibilmente la pericolosità qualora si verifichino microlesioni), l’eventuale adozione di precauzioni alternative all’utilizzo del condom in grado di diminuire il rischio di contagio. Ciò detto, si può affermare che quando i rapporti sessuali « non protetti » restano isolati o comunque episodici — e non comportano un sia pur minimo contatto di sangue — sarebbe più opportuno orientarsi verso l’esclusione del dolo eventuale (62). Viceversa, qualora il numero dei rapporti non sia esiguo — o la pratica sessuale sia tale da aumentare considerevolmente il livello di pericolosità — e il corriere del virus (consapevole del suo stato) non adotti alcuna misura precauzionale (in assenza di infor(62) Così CANESTRARI, Dolo eventuale, cit., 169, nt. 263; ROMANO, Commentario, 2a ed., cit. sub art. 43/30, 413 s.; di diversa opinione, LUZÓN PEÑA, Problemas de la transmisión y prevención del SIDA en el Derecho penal español, in Problemas jurídico penale del SIDA, a cura di Mir Puig, Barcelona, 1993, 20, secondo il quale « ... el sujeto no pueda racionalmente confiar en la no producion del resultado ... praticando el sexo sin preservativos... ».
— 933 — mazione del partner), si dovrebbe valutare la sussistenza di una responsabilità dolosa « indiretta » (63), procedendo all’accertamento della rappresentazione da parte del positivo Hiv del contagio come conseguenza della propria condotta e della sua accettazione dell’evento lesivo. Paradigmatici due casi che si sono presentati alla prassi forense tedesca e a quella italiana. L’ipotesi verificatasi in Germania coincide con la prima sentenza AIDS del Bundesgerichtshof, secondo la quale si integra il dolus eventualis di (tentata) lesione personale (pericolosa) in capo ad un omosessuale che, pur essendo a conoscenza del suo stato di sieropositività, ha praticato due rapporti anali solo in parte protetti senza informare il partner (entrambe le volte il portatore del virus Hiv ha utilizzato il preservativo unicamente nella fase finale del contatto sessuale (64)). A nostro avviso, in base alle riflessioni effettuate nel corso della presente indagine, non sembra legittimo configurare una responsabilità dolosa « indiretta ». Ed invero, tale (entità di) rischio — di provocare l’infezione per soddisfare il proprio desiderio sessuale — risulta « non consentito », ma la sua assunzione può ancora essere presa in considerazione da un osservatore avveduto nelle vesti dell’homo eiusdem professionis et condicionis dell’agente concreto (ed in possesso delle cognizioni di quest’ultimo al momento dello svolgimento della condotta); di conseguenza, la fiducia del soggetto agente in ordine alla mancata verificazione del contagio non può essere considerata « infondata », cioè priva di una minima giustificazione razionale. Inoltre, la circostanza che l’AIDS-carrier abbia fatto ricorso al condom prima della trasmissione del liquido seminale rappresenta un « indicatore » di un certo rilievo per negare la presenza di una decisione personale a favore della possibile violazione del bene giuridico. Il secondo caso da prendere in considerazione concerne il comportamento del soggetto sieropositivo che, nel quadro di una relazione esclusiva di fidanzamento e in seguito di matrimonio, pratica per un decennio ripetuti e continuativi rapporti sessuali non protetti con il partner ignaro, nella piena consapevolezza del proprio stato di salute e delle modalità di trasmissione del virus. La vittima, contagiata dal marito, è deceduta. A fronte di questa condotta sessuale « pericolosa » dell’AIDS-carrier, l’orientamento poc’anzi espresso deve essere modificato, nel senso che ri(63) Sempre che si riesca a dimostrare l’effettiva trasmissione dell’infezione da parte del soggetto sieropositivo: ed invero, come già sottolineato (nt. 58), chi scrive condivide l’opinione (oggi dominante) che ritiene non realizzabile nell’ordinamento italiano il tentativo con dolus eventualis. (64) BGH, 4 novembre 1988 — 1 StR 262-88, cit.; per i numerosi commenti a tale pronuncia del senato, che conferma la decisione del LG Nürnberg-Führt (16 novembre 1987, cit.), si vedano i riferimenti indicati da CANESTRARI, La rilevanza, cit., 149 ss. Sul tema, più di recente, KNAUER, AIDS und Hiv-Immer noch eine Herausforderung für die Strafrechtsdogmatik, GA, 1998, 428 ss.
— 934 — teniamo corretto concludere per la configurazione del dolus eventualis nei riguardi dell’evento contagio. In effetti, un simile rischio di provocare l’infezione deve essere classificato come « doloso », dato che non avrebbe mai potuto essere « riconosciuto come proprio » da un osservatore esterno nelle vesti dell’homo eiusdem professionis et condicionis dell’agente reale (e « al corrente » delle conoscenze da lui possedute). Pertanto, siccome l’assunzione di siffatta « entità di rischio » non può essere presa seriamente in considerazione nell’ambito della tipologia sociale di riferimento, la « fiducia » — rectius: la speranza — del marito sieropositivo nella non verificazione del contagio deve essere etichettata come « priva di fondamento razionale » (65). Del resto, l’assenza di qualsiasi comportamento volto a ridurre il rischio di infezione conferma l’esistenza di una (65) In adesione alla nostra ricostruzione teorica del dolo eventuale, v. Trib. Cremona, 14 ottobre 1999, FI, 2000, 347 ss. commentata da NICOSIA, Contagio di AIDS tra marito e moglie e omicidio doloso, ibid.; SUMMERER, Contagio sessuale da virus Hiv e responsabilità penale dell’AIDS-carrier, in questa Rivista, 2001, 303 ss. La sentenza in esame afferma l’esistenza di una responsabilità dolosa indiretta non soltanto nei confronti della trasmissione del virus Hiv, ma anche in direzione dell’esito letale concretamente verificatosi (conf. Corte d’Assise di Livorno, sent. n. 2, 3 luglio 2000, inedita; in dottrina, MAGLIONA, Contagio, 1529 s.). Sulla difficoltà di ravvisare la forma eventuale del dolo in vista della conseguenza mortale — alla luce dell’indefinito lasso di tempo che intercorre tra contrazione del contagio, manifestazione della malattia (c.d. AIDS-conclamata) ed esito infausto — cfr., in generale, i rilievi di CANESTRARI, Dolo eventuale, cit., 171, nt. 267; CORNACCHIA, I delitti contro l’incolumità individuale, in AA.VV., Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, 2a ed., Bologna, 2000, 327. La Corte d’Assise d’Appello di Brescia, 26 settembre 2000, FI, 2001, 286 ss., in parziale riforma della pronuncia di primo grado (Trib. Cremona cit.), ha derubricato il fatto in omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento, « attesa la conoscenza in capo al prevenuto sia della regola di condotta che costantemente violava con il proprio comportamento sia della particolare finalità preventiva cui questa mirava ». Sul punto cfr. i rilievi critici, non sempre coincidenti, di NICOSIA, Contagio di AIDS tra marito e moglie come omicidio colposo nel giudizio di secondo grado, ivi, 285 ss.; FORTE, Morte come conseguenza di contagio da Hiv: profili soggettivi, ivi, 290 ss. In particolare, la sentenza d’appello ritiene che non si integrino i due gradini del versante « interiore » del dolo eventuale, in quanto non è stata « raggiunta la prova di una sufficiente rappresentazione », in capo al corriere del virus Hiv, « dell’alto rischio di trasmissione e — una volta trasmessa — di decorso mortale della malattia, né di una disponibilità interiore, assimilabile ad un atteggiamento psicologico volontaristico, ad accettare l’evento negativo ». Infine, occorre segnalare che avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione il p.g., il quale prospetta una qualificazione giuridica dei fatti ulteriore rispetto a quella fornita dal giudice di primo grado, affermando la sussistenza del dolo diretto del soggetto sieropositivo nei confronti del risultato letale. A tal proposito, è opportuno osservare che l’atteggiamento psichico dell’infetto Hiv non pare riconducibile al c.d. dolus directus di secondo grado, poiché, sulla base delle attuali acquisizioni delle scienze mediche e biologiche, non sembra possibile ipotizzare che l’AIDS-carrier abbia considerato sicura o altamente probabile la morte del soggetto passivo. Sul quotidiano « Corriere della sera » del 16 giugno 2001 si dà notizia del fatto che la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Brescia.
— 935 — piena accettazione, da parte del coniuge portatore del virus Hiv, dell’evento-contagio. 9.2. I genitori Testimoni di Geova e la terapia emotrasfusionale. — Ora, a titolo esemplificativo, si prenda quale punto di riferimento un caso divenuto « classico » nel dibattito italiano: si tratta di genitori Testimoni di Geova i quali, per motivi dettati dall’osservanza dei postulati alla propria confessione religiosa, omisero volontariamente di sottoporre la figlia malata di « betalassemia maior » alla terapia emotrasfusionale, pur essendo a conoscenza che quest’ultima costituisce il rimedio più diretto per tentare di riequilibrare il livello di emoglobina nel sangue. La sfortunata bambina affetta da morbo di Cooley morì per « insufficienza cardiaca acuta da anemia », dopo una vana ricerca da parte dei genitori di trattamenti alternativi. Ovviamente, siffatta ipotesi involge molteplici questioni che non possono essere discusse in questa sede (66), ove occorre limitarsi a prendere posizione sui profili attinenti all’imputazione soggettiva dell’evento letale. A ben vedere, le oscillazioni in ordine alla qualificazione del comportamento dei genitori come costitutivo di un omicidio doloso o di un mero omicidio colposo (67) riflettono la difficoltà di rintracciare un chiaro criterio distintivo tra le due forme di responsabilità colpevole. Ed invero, gli apprezzabili sforzi di « liberare » tale condotta — ed altre ad essa equivalenti sul piano della « carenza » di una decisione a favore della possibile lesione del bene giuridico tutelato — dalla caratterizzazione di una omissione dolosa « indiretta » non appaiono del tutto convincenti. Da un lato, si potrebbe cercare di escludere l’elemento soggettivo doloso sottolineando che gli imputati non « volevano » la conseguenza lesiva (66) Si pensi, soprattutto, agli interrogativi concernenti l’eventuale individuazione, accanto ai genitori, di altri garanti della vita della piccola vittima; la rilevanza da attribuire al principio costituzionale che tutela la libertà di religione (cfr., p.t., FIANDACA, Nota a Corte d’Assise di Cagliari 10 marzo 1982, FI, 1983, II, 27 ss.; EUSEBI, Il dolo, cit., 208 ss.); la stessa sussistenza del nesso di condizionamento, in quanto non era possibile stabilire il decorso della malattia qualora la terapia trasfusionale fosse stata regolarmente seguita (v., tra gli altri, GRASSO, Il reato, cit., 401 ss.). In generale, sulla necessità di apprestare ex ante tempestivi interventi giudiziari finalizzati a tutelare i minorenni esposti agli esiti di condotte omissive antigiuridiche attuate « per convinzione », cfr. le chiare osservazioni di EUSEBI, Appunti, cit., 1096. (67) V. Corte d’Assise di Cagliari 10 marzo 1982, FI, cit.; Corte di Assise di Appello di Cagliari 13 dicembre 1982, GM, 1983, II, 961 ss.; Cass., sez. I, 13 dicembre 1983, GC, 1986, II, sez. I, 3 ss., con nota di MODUGNO, D’ALESSIO, Una questione di costituzionalità elusa: mancato bilanciamento dei valori costituzionali nei diritti e nei doveri dei genitori nei confronti della prole, ivi, 13 ss.; Corte di Assise di Appello di Roma 30 luglio 1986, Dir. Fam. e Pers., 1986, 1048 ss., con nota di ARDIZZONE, Ai confini tra dolo eventuale e colpa: un problematico discernimento a proposito di una fattispecie omissiva impropria, Dir. Fam. e Pers., 1987, 635 ss., secondo il quale tale sentenza avrebbe dovuto applicare la circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 3 c.p.
— 936 — e « speravano » nella sua mancata realizzazione: senonché, senza bisogno di ripetere quanto già sottolineato, l’esclusivo ricorso a simili criteri — di natura prevalentemente « sentimentale » o « emotiva » — produce l’unico effetto di palesare la loro evanescenza, come dimostrano le stesse argomentazioni delle due prime sentenze di condanna. Dall’altro, suscita perplessità pure il ragionamento orientato a negare la sussistenza del requisito intellettivo del dolo, sul presupposto che la credenza religiosa — identificando nella fede e nella preghiera la via migliore per scongiurare l’esito non desiderato — potrebbe condurre ad un errore sull’idoneità dello strumento di salvataggio (68). Difatti, in questa prospettiva, si dovrebbe comunque indicare il percorso teorico che consente di valutare se un simile « dubbio », sull’efficacia della terapia emotrasfusionale, sia tale da configurare un rimprovero per dolus eventualis oppure per colpa con previsione. Di conseguenza, è necessario ricorrere ad una visione più articolata della responsabilità dolosa indiretta, dove si ricostruisce il momento decisionale del reo — « doloso », ma privo di « intenzione » — muovendo da un giudizio sulla « natura » del pericolo, incentrato sulla possibilità di rintracciare una figura-modello cui « commisurare » il comportamento concreto dell’autore. Orbene, siccome l’assunzione del rischio (non consentito) insito nella condotta omissiva dei genitori può essere « tenuta in considerazione » — può essere (almeno) « presa in esame » — dall’homo eiusdem professionis et condicionis del soggetto concreto, appare corretto ipotizzare soltanto l’integrazione di una responsabilità colposa. In particolare, si dovrebbe ritenere sussistente la figura della colpa con previsione, alla luce del fatto che i coniugi Testimoni di Geova si sono concretamente rappresentati il risultato letale quale esito del mancato compimento dell’azione doverosa. In definitiva, il criterio « misto » enucleato da chi scrive dimostra la sua validità anche nella categoria delle fattispecie omissive improprie, in quanto contribuisce a tracciare con chiarezza la linea di confine tra dolo e colpa. Anzi, proprio in un contesto normativo contrassegnato dall’assenza di un « fare » illecito di base l’indagine proposta appare indispensabile al fine di conferire alla forma eventuale del dolo una struttura « autonoma » rispetto alla colpa con previsione. Ed invero, soltanto se si pone a fondamento degli elementi costitutivi del dolus eventualis una valutazione circa il « modo di porsi » del garante nei confronti dell’ordinamento e dei beni giuridici in gioco, può essere soddisfatta l’esigenza di delimitare in modo rigoroso lo spettro della responsabilità dolosa « indiretta ». 9.3. Il lancio di pietre su veicoli in corsa. — Si prenda in considera(68) Sul punto cfr., con diversità di accenti, FIANDACA, Nota, cit., 30; GRASSO, Il reato omissivo improprio. La struttura obiettiva della fattispecie, Milano, 1983, 400.
— 937 — zione, infine, l’ipotesi di chi pratica l’« attività ludico-criminale » del lancio di pietre sui veicoli in corsa. In proposito, sarebbe necessario effettuare alcune distinzioni poiché i casi che si possono prospettare sono molteplici: il soggetto lancia i sassi dal cavalcavia con l’esclusiva finalità di intralciare o interrompere la circolazione stradale; per esibire all’interno del gruppo di amici la propria abilità nello « schivare » gli automezzi; con il macabro obiettivo di colpire le autovetture in movimento (69). Per motivi di spazio, ci limitiamo ad analizzare l’ultima ipotesi, che appare purtroppo di frequente verificazione nel nostro paese. Posto che il « lanciatore » colpisca il bersaglio e produca il ferimento o la morte del soggetto — val la pena ribadire la nostra presa di posizione in ordine alla incompatibilità tra dolo eventuale e delitto tentato —, si deve dare conto dell’elemento soggettivo che sorregge la concreta condotta criminosa. A nostro avviso, di regola non saranno riscontrabili gli estremi del dolo diretto. E invero, difficilmente si potrà affermare che il reo avesse previsto come sicuro, o perlomeno come altamente probabile, di colpire — con un masso lasciato cadere da un cavalcavia — un veicolo in corsa su un’autostrada in modo tale da provocare eventi lesivi nei confronti degli occupanti. Di conseguenza, non appare condivisibile quell’indirizzo giurisprudenziale che aderisce alla prospettiva di « dilatare » i confini « inferiori » della responsabilità dolosa diretta, anche allo scopo di ritenere sussistente il versante soggettivo del delitto tentato (non configurabile con il dolo eventuale) in capo a chi ha lanciato sassi in direzione dei conducenti dei veicoli non raggiunti dai colpi (70). Viceversa, riteniamo che nella maggioranza dei casi in cui il lancio delle pietre cagioni conseguenze offensive nei confronti degli occupanti delle autovetture si integri la figura del dolus eventualis (71). In breve, muovendo sempre dalla nostra ricostruzione che affida la verifica dell’imputazione dolosa « indiretta » ad un criterio « misto ». Innanzitutto, l’atteggiamento psichico del soggetto agente deve radicarsi in una condotta dolosa caratterizzata da una dimensione di rischio che « oltrepassa » il pericolo colposo. Orbene, l’assunzione del rischio connesso al lancio di pietre sui veicoli percorrenti un’autostrada trafficata — diversamente, ad esempio, dal pericolo (comunque non trascurabile) collegato ad un’accanita « guerra di gavettoni » in una spiaggia affollata — non sembra possa essere preso (seriamente) in considerazione neppure (69) Dal punto di vista psicologico, cfr. le osservazioni di PIETROPOLLI CHARMET, Il « gruppo » di adolescenti che lancia pietre, Dir. Pen. e Proc., 1997, 907 ss. (70) V. Cass., sez. I, 3 luglio 1996, Gdir, 1996, n. 41, 75 ss., con nota adesiva di MAINA, La riqualificazione dell’elemento soggettivo smonta la tesi del « dissennato divertimento », ivi, 78 ss. (71) Sul tema, da un differente angolo visuale, EUSEBI, Appunti, 1097 s.
— 938 — da un giovane « scriteriato » (che si suppone capace d’intendere e di volere). Per ciò che riguarda, poi, l’accertamento della sfera cognitiva e di quella volitiva del « lanciatore » (imputabile), la valutazione appare più complessa qualora si realizzi il decesso della vittima. In effetti, in talune situazioni si può ipotizzare la presenza di atteggiamenti psichici di rimozione o di sottovalutazione del rischio di morte: ciò dovrebbe condurre a negare l’esistenza di una effettiva rappresentazione e di una piena accettazione dell’esito letale, con la conseguenza di ritenere applicabile la responsabilità aberrante o quella preterintenzionale (72). 10. L’idea di introdurre nel nostro ordinamento una terza forma di responsabilità colpevole: rilievi critici. — La nostra opera di « fondazione » della peculiare struttura normativa del dolus eventualis non raggiunge soltanto l’obiettivo di scongiurare la « soggettivizzazione » dell’illecito, ma altresì il risultato di impedire il ricorso ad insidiosi schemi presuntivi nella verifica in concreto della forma eventuale del dolo. Difatti, non si tratta — diversamente da quanto si prospetta nei recenti orientamenti della letteratura d’oltralpe (73) — di individuare la fisionomia del « rischio doloso » indulgendo alla più agevole delle semplificazioni normative, il rinvio ai moduli di accertamento propri della colpa. L’identificazione di un ambito di pericolo che costituisca il substrato — in assenza di una « volontà diretta » a realizzare la fattispecie — di una decisione, a favore della possibile lesione del bene giuridico, non deve basarsi su quanto si (poteva-)doveva « pretendere » od « esigere » da un agente-modello alla luce delle sue cognizioni e delle sue capacità. Affinché si possa ravvisare, anche nei confronti dell’istituto del dolo eventuale, una « risoluzione di commettere il fatto », non è sufficiente il rimprovero mosso al soggetto di aver corso dei rischi oggettivamente ingiustificati ed inescusabili, ma occorre qualcosa di più e di diverso. Ed invero, la figura del dolo eventuale deve radicarsi unicamente su una « piattaforma di rischio » che non può neanche essere percepita o riconosciuta (come tale) da un « agente razionale » (74), nel senso che non è ipotizzabile alcuna valutazione — sia pure « negativa », in termini di astensione dall’azione — da parte di qualsivoglia homo eiusdem professionis et condicionis, pro(72) Per una riflessione sulle fattispecie « di base » che possono essere riferite al fenomeno qui in considerazione, v. MORGANTE, In tema di attentato alla sicurezza dei trasporti, in questa Rivista, 1998, 570 ss. (73) Cfr., p.t., PUPPE, Der Vorstellungsinhalt, cit., 14 s. (74) Così, invece, PUPPE, op. ult. cit., 14 ss.; 31 ss.; ID., Vorsatz und Zurechnung, cit., 35 ss., la quale elabora un concetto normativo di dolo, « come rappresentazione di un pericolo qualificato », incentrato proprio sulla « stima » del rischio che effettuerebbe un « coscienzioso » osservatore esterno.
— 939 — prio perché non si riesce a « rinvenire » un tipo normativo in grado di « impersonificare », in quella determinata situazione, « il punto di vista del diritto ». Vale a dire che, laddove il pericolo di volta in volta in considerazione sia rappresentabile soltanto dall’agente reale e, pertanto, da nessun soggetto ipotetico — ricavabile dall’ambito delle persone che sono solite svolgere l’attività cui può essere ricondotto il comportamento concretamente effettuato —, l’organo giudicante (come l’interprete) appare legittimato a porsi la questione della sussistenza della responsabilità dolosa « indiretta », procedendo all’accertamento della componente rappresentativa e di quella volitiva. Per converso, la circostanza che sia possibile ricostruire una « tipologia » di individui della stessa collocazione sociale e professionale — più o meno « circoscritta » o « differenziata » — cui commisurare la condotta del singolo autore costituisce un presupposto essenziale per accertare la struttura psicologica della colpa con previsione dell’evento, consentendo di apprezzare appieno il significato di una « seria » convinzione o fiducia (« razionale », ancorché avventata) da parte del reo nella non verificazione della conseguenza offensiva. Soltanto dopo aver tracciato le linee di confine tra dolus eventualis e colpa con previsione (o cosciente) è lecito chiedersi se siano prospettabili soluzioni « radicalmente » alternative a quella attuale, orientate a superare la rigida dicotomia tra dolo e colpa. In questa direzione, occorre principalmente riflettere sulla proposta de lege ferenda di introdurre una forma di imputazione soggettiva intermedia tra il dolo — intenzionale e diretto — e la colpa incosciente, con l’obiettivo di assimilare, nell’ambito di un’unica cornice edittale, l’« equivoca » tipicità del dolo indiretto alle ipotesi di colpa con previsione e comunque grave. In realtà, un simile disegno non può certo dirsi originale, in quanto anche nella dottrina più antica si erano manifestate opinioni analoghe, sempre sorrette dal proposito di semplificare un’opera di distinzione fra dolo e colpa giudicata « eccessivamente » problematica ed insicura (75). Di recente alcuni settori della dottrina d’oltralpe hanno ripresentato il « progetto » della creazione di una tripartizione di criteri ordinari di imputazione soggettiva (76), ma l’idea sembra ricevere un consenso assai li(75) V., con opinioni non sempre coincidenti, STOOß, Dolus eventualis und Gefährdung, ZStW, Bd. 15, 1895, 199 ss.; LÖFFLER, Die Schuldformen des Strafrechts, Leipzig, 1895, 272; MIR̆IC̆KA, Die Formen der Strafschuld und ihre gesetzliche Regelung, Leipzig, 1903, 185 ss. (76) Cfr. WEIGEND, Zwischen Vorsatz und Fahrlässigkeit, ZStW, Bd. 93, 1981, 657 ss.; SCHÜNEMANN, Die deutschsprachige Strafwissenschaft nach der Strafrechtsreform im Spiegel des Leipziger Kommentars und des Wiener Kommentars, 1. Teil: Tatbestands-und Unrechtslehre, in GA, 1985, 341; 363 s.; ESER, Strafrecht I, Allgemeine Verbrechensele-
— 940 — mitato. In effetti, gli autentici elementi di novità delle attuali prese di posizione — che stanno emergendo anche nella letteratura italiana — a favore della presenza di una sfera « intermedia » sono rappresentati da argomenti non del tutto persuasivi. Da un lato, si assiste ad una diffusa attestazione del fallimento dei molteplici tentativi di differenziare dolo eventuale e colpa cosciente e al conseguente « invito » alla dogmatica di deporre il suo armamentario raffinato ma inefficace: senonché, come riteniamo di avere dimostrato, una tale rassegnazione non appare fondata. Dall’altro, la convinzione che il « trapianto » delle categorie « intermedie » previste dagli ordinamenti penali — la recklessness nei paesi di Common Law e la mise en danger délibéreé de la personne d’autrui nel Code pénal del 1992 — possa consentire un guadagno in termini di semplificazione e di certezza si è rivelata illusoria, quantomeno per un duplice ordine di ragioni. Innanzitutto, com’era prevedibile, l’indagine comparatistica non ha condotto a ravvisare un tertium genus di colpevolezza nel quale fare confluire — che riesca ad « accorpare » — gli istituti europei-continentali del dolo eventuale e della colpa cosciente (77). In secondo luogo, a prescindere dalle ovvie difficoltà e dai problemi di coordinamento riconducibili alla creazione di uno schema « tripartito » nel nostro sistema penale, è la stessa analisi delle prestazioni della recklessness a contraddire la supposizione che sia meno arduo assolvere l’onere definitorio nei confronti di una forma « intermedia » — anziché delle figure di confine — fra dolo e colpa (78). Proprio l’evoluzione del dibattito sulla natura — oggettiva (Caldwell/Lawrence type); soggettiva (Cunningham type) (79) — della recklessness sembra avvalorare l’idea che l’introduzione di un ulteriore « livello » di imputazione della responsabilità penale non determini alcun giovamento, finendo addirittura per rendere più estese le zone d’ombra nell’individuazione della sfera del penalmente illecito in rapporto all’universo del rischio consentito. Le perplessità non sono destinate a diminuire di fronte alle definizioni della recklessness di recente elaborate nei sistemi giuridici anglo-americani — come dimostra l’esame dell’art. 18 (c), enumente, 3o ed., München, 1980, 3, n. 35, a), 53, il quale abbandona una tale impostazione, modificando la sua visione dell’elemento volitivo del dolo secondo la « teoria del rischio normativo » (ESER, Strafrecht I, cit., 4a ed., 1992, 84 ss.); in argomento, da ultimo, cfr. C. BIRNBAUM, Die Leichtfertigkeit. Zwischen Fahrlässigkeit und Vorsatz, Berlin, 2000, 31 ss. (77) V. CANESTRARI, Dolo eventuale, cit., 279 ss. (78) Cfr. CANESTRARI, op. e loc. ult. cit. (79) Su tale controversia v., nella nostra letteratura, VINCIGUERRA, Introduzione allo studio del diritto penale inglese. I principi, Padova, 1992, 188 ss.; CADOPPI, (voce) Mens rea, DDP, vol. VII, Torino, 1993, 40 ss. dell’estratto; PROSDOCIMI, Dolus eventualis, cit., 102, nt. 45; G.A. DE FRANCESCO, Nuove frontiere negli studi di diritto comparato (In margine ad un recente volume sui principi generali del sistema penale inglese), GI, 1994, IV, 207 s.
— 941 — cleato dalla Law Commission nel progetto di un codice penale inglese del 1989 (80) e 2.02 (2) (c) del Model Penal Code statunitense (81) —, nonché nella seconda versione del Corpus Juris (art. 9) (82). In effetti, tali formulazioni non risolvono quelle questioni di fondo esplorate nel corso del presente lavoro: le modalità di ricostruzione del carattere — « ingiustificato »; « irragionevole » — del pericolo e il procedimento che conduce a valutare la consapevole assunzione di tale rischio da parte del soggetto agente. Del resto, il mancato superamento dei dubbi relativi alla « misurazione » del coefficiente della ‘irragionevolezza del rischio’ — secondo l’agente concreto o per una figura-modello in qualche misura « oggettivata »? — non deve sorprendere. La conservazione di codeste ambiguità appare, a ben vedere, congeniale all’opzione di racchiudere all’interno di un istituto « intermedio » tipologie di atteggiamenti psichici difficilmente riconducibili ad una entità strutturale fondata su un nucleo unitario di disvalore (83). Quanto detto impedisce di considerare sufficientemente « stabili » i « contenuti » della complessa nozione di recklessness — sia pure nella più conveniente accezione soggettiva (Cunningham type) — e impone di prendere definitivamente atto della necessità di ricostruire le « nostre » categorie del dolo eventuale e della colpa con previsione, motivando la loro qualificazione rispettivamente come forme del « fatto doloso » e del (80) In base alla quale una persona agisce ‘recklessy’ riguardo a: (i) una circostanza, quando è consapevole del rischio che essa esista o verrà ad esistenza; e (ii) un evento, quando è consapevole del rischio che esso si verificherà; ed è irragionevole, tenuto conto delle circostanze a lui note, accettare quel rischio; ... ». Nella stessa direzione, successivamente, i Consultation paper della Law Commission sulla responsabilità penale per Intoxication (No. 127 del 1992) e sui principi generali ed i reati contro la persona (No. 218 del 1993). La scelta di abbandonare la disciplina oggettivistica della recklessness viene posta in discussione, relativamente ai fatal-offences, da REED, Offences against the Person: the Need for Reform, in J. Crim. L., 1995, 187 ss. (81) « Una persona agisce recklessy in rapporto ad un elemento costitutivo del reato allorché egli consapevolmente non si cura del considerevole ed ingiustificabile rischio che l’elemento sussista o derivi dalla sua condotta. Il rischio deve essere di una tale indole e grado che, considerando la natura e lo scopo della condotta del soggetto e le circostanze a lui note, il suo sprezzo del pericolo implichi una grave deviazione dallo standard di comportamento che una persona fedele all’ordinamento avrebbe osservato nella situazione dell’agente ». (82) « The offender acts recklessy if he is aware of the risk that the circumstances that amount to the constituent elements of the offence exist and that it is unreasonable, having regard to the circumstances known to him, to take that risk ». (83) Analogamente, G.A. DE FRANCESCO, Variazioni penalistiche alla luce dell’esperienza comparata, in questa Rivista, 1997, 249; nella letteratura di lingua tedesca, di recente, PERRON, Vorüberlegungen zu einer rechtsvergleichenden Untersuchung der Abgrenzung von Vorsatz und Fahrlässigkeit, in Haruo Nishihara FS, Baden Baden, 1998, 146 ss. Sul tema, cfr. altresì le acute riflessioni di FLETCHER, Basic Concepts of Criminal Law, New York, Oxford, 1998, 111 ss.
— 942 — « fatto colposo ». Ciò posto, una volta rinunciato alla tentazione di rintracciare altrove soluzioni già « confezionate », l’indagine comparatistica può fornire indicazioni di un certo interesse per l’opera di elaborazione di schemi concettuali meno vaghi ed imprecisi. In particolare, l’analisi delle esperienze anglo-americane dimostra — al di là delle diverse soluzioni prospettate e della distante « sensibilità » dogmatica — che non è più possibile affidarsi a formule psichiche del tutto evanescenti, ma è comunque necessario cercare di radicare il piano psicologico fenomenico su una dimensione strutturale e normativa (84). Ragionando in questa prospettiva, occorre ora riflettere sull’eventuale utilizzazione dello strumento definitorio allo scopo di descrivere il peculiare « contenuto di illiceità » della forma « indiretta » del dolo. A nostro avviso, l’accurata descrizione dei requisiti strutturali del dolus eventualis nell’ambito di una formula normativa dovrebbe soddisfare l’esigenza di contrastare con maggiore efficacia la reductio della responsabilità dolosa « indiretta » alla colpa con previsione e, laddove sia assente un’ipotesi colposa, di tracciare in maniera più netta il discrimen fra la sfera dell’illecito doloso e quella dei fatti penalmente irrilevanti. 11. La definizione del dolo eventuale nel Progetto Grosso. La nostra proposta di una soluzione definitoria più articolata. — A questo punto del discorso, si tratta allora di indicare i criteri ai quali il legislatore dovrebbe ispirarsi nella definizione del concetto di dolo eventuale. In verità, una simile operazione viene certamente agevolata se si considerano le conclusioni raggiunte in ordine alla peculiare struttura del dolus eventualis ed alla sua identità « differenziata » rispetto — alle altre « forme » del dolo e — alla colpa con previsione dell’evento. In effetti, i risultati della nostra indagine non si sono limitati a registrare — e a consolidare, con alcune puntualizzazioni — le più importanti acquisizioni della dogmatica del dolus eventualis, ma hanno contribuito ad illuminare il contenuto dei diversi gradini in cui si articola la forma indiretta del dolo. In estrema sintesi, nel tentativo di riassumere le note « espressive » del dolus eventualis allo scopo di fornire preziose informazioni in una prospettiva de lege ferenda. In primo luogo, sul piano del presupposto normativo del pericolo, una futura definizione legislativa dovrebbe porre in evidenza che il livello di rischio rilevante ai fini della tipicità dolosa indiretta non coincide con quello che integrerebbe, in assenza della volontà (84) Per un generale apprezzamento della tecnica di redazione della legge penale nei Paesi di lingua inglese, che mira all’enucleazione di norme minuziose ed articolate, v. MARINUCCI, Sui rapporti tra scienza penale italiana e legislazione. Uno schizzo, in AA.VV., Giuristi e legislatori. Pensiero giuridico e innovazione legislativa nel processo di produzione del diritto (Atti dell’incontro di studio tenutosi a Firenze dal 26 al 28 settembre 1996), a cura di Paolo Grossi, Milano, 1998, 458 ss.
— 943 — della realizzazione del fatto tipico, una possibile responsabilità (coscientemente) colposa. Si ritiene pertanto opportuno che il legislatore della riforma proceda ad un’operazione già effettuata — ovviamente con una sensibilità dogmatica assai diversa — dai compilatori del Model Penal Code in relazione alla categoria della recklessness, vale a dire la definizione dell’elemento strutturale del pericolo. A questo proposito la formula codicistica dovrebbe assumere una chiara presa di posizione, nel senso che lo « zoccolo normativo » del dolo indiretto non può limitarsi a condensare una situazione di rischio « non consentito »: il pericolo in grado di sorreggere un’imputazione per dolus eventualis deve essere di tale natura, che la sua assunzione non può neppure essere presa in considerazione da un osservatore avveduto — posto al tempo e nel luogo in cui si trovava il soggetto concreto, nonché in possesso delle sue eventuali cognizioni superiori e delle sue capacità psico-fisiche — nelle vesti dell’homo eiusdem professionis et condicionis dell’agente. Una volta affermato che l’« entità » del pericolo idonea a fondare una condotta dolosa « indiretta » non si identifica con quella valevole per la colpa, si rivelano indispensabili precise opzioni politico-criminali nei riguardi del versante « soggettivo » della forma eventuale del dolo. Nella piena consapevolezza che la qualità esteriore del pericolo non può giustificare la ratio della punibilità del dolus eventualis senza riferimento all’effettiva rappresentazione e alla « decisione » dell’autore, il legislatore della riforma dovrebbe aderire con nettezza ad una visione della responsabilità dolosa « indiretta » ancorata al piano della volontà. In questa prospettiva, la norma codicistica — dopo aver previsto con chiarezza la necessità che il soggetto si rappresenti concretamente la realizzazione del fatto tipico come conseguenza della propria condotta — potrebbe anche conservare il tradizionale concetto di « accettazione »; sarebbe però necessario sottolineare che deve trattarsi di accettazione (non soltanto del rischio, bensì) del fatto, dell’evento di danno là dove sia previsto dalla fattispecie incriminatrice. Una simile scelta definitoria consentirebbe di riconoscere appieno l’importanza dei dati rilevanti per verificare la « decisione » del soggetto agente, vale a dire della molteplicità di « indicatori » e « controindicatori » che devono essere tenuti in considerazione nell’ambito della componente volitiva del dolo eventuale (85): il comportamento attuato per evitare l’evento (la presenza o meno di meccanismi di neutralizzazione del decorso causale lesivo, nonché l’efficacia (85) Sul tema, di recente, nella letteratura di lingua tedesca, KÜHL, Strafrecht, AT, 2a ed., München, 1997, 113; da noi, p.t., MARINUCCI, Il reato come azione, cit., 137; da ultimo, cfr. EUSEBI, Appunti, cit., 1089 ss., il quale ritiene indispensabile il riferimento alla formula di Frank.
— 944 — dell’intervento « positivo »), la particolare vicinanza emotiva fra reo e vittima, ecc. Ecco, allora, che la soluzione definitoria prospettata dalla Commissione ministeriale per la riforma del codice penale istituita con d.m. 1 ottobre 1998 — in base all’art. 30, co. 1, lett. b) del « Progetto Grosso », la responsabilità dolosa indiretta si configura nei confronti di chi « ... agisce rappresentandosi la realizzazione del fatto come ... altamente probabile, accettandone il rischio » — non risulta convincente. Ed invero, l’introduzione dell’elemento dell’alta probabilità — criterio « quantitativo » di difficile determinazione (86) — non può « compensare » né la mancata definizione del requisito strutturale del pericolo, né la caratterizzazione volitiva assai « scolorita » della formula dell’« accettazione del rischio ». A questo punto si può anche suggerire una definizione legale del dolus eventualis, che dovrebbe essere prevista dalla norma codicistica dedicata al concetto « generale » di dolo — in conformità ai modelli definitori rinvenibili nell’esperienza comparatistica (87) —, così da rimarcare la distinzione fra la responsabilità dolosa « indiretta » e quella colposa. Il testo della formula legislativa potrebbe essere il seguente: « Si ha dolo eventuale allorquando l’agente si rappresenta concretamente la realizzazione del fatto tipico come conseguenza probabile della propria condotta e ne accetta la verificazione. Il rischio di realizzazione del fatto tipico deve essere non consentito e di natura tale che la sua assunzione non può neppure essere presa in considerazione da una persona coscienziosa ed avveduta del circolo di rapporti cui appartiene l’agente, posta nella situazione in cui si trovava il soggetto concreto ed in possesso delle sue conoscenze e capacità ». A nostro avviso, una simile definizione legislativa contribuirebbe ad affermare l’autonoma identità concettuale del dolus eventualis, tracciando una netta linea divisoria con il fenomeno (non necessariamente « comunicante » (88)) della colpa cosciente o con previsione dell’evento. Ancora de (86) In ordine ai pericoli di manipolazione del concetto di elevata probabilità, cfr. le condivisibili osservazioni di EUSEBI, Appunti, cit., 1094, nt. 119, laddove ritiene « facile .... che la realizzazione ex post del rischio conduca a sopravvalutare il giudizio, o a forzare le asserzioni (specie quando ciò sia funzionale a determinati esiti processuali) sulla probabilità ex ante di realizzazione dell’evento ». (87) Si fa riferimento, com’è noto, all’art. 5 del codice penale austriaco (sul punto, v. BURGSTALLER, Definizioni legislative penali in Austria, in Omnis definitio, cit., 241 ss.) e all’art. 14, comma 3o, del codice penale portoghese (DE FARIA COSTA, Le definizioni legali del dolo e della colpa quali esemplificazioni delle norme definitorie del diritto penale, in Omnis definitio, cit., 267 ss.), ma anche ai recenti codice penale della Federazione Russa del 1996 (art. 25) e codice penale sloveno del 1995 (art. 17: « Il reato è doloso se il reo ha posto in essere il fatto con consapevolezza e volontarietà, ovvero se egli, nonostante la previsione dell’evento, ha accettato che tale evento si verificasse »). (88) Diversamente, il codice penale portoghese che definisce la forma « indiretta »
— 945 — lege ferenda si potrebbe auspicare un’ulteriore presa di posizione del legislatore, al fine di rendere più agevole la determinazione della soglia minima « generale » di rilevanza penale: si fa riferimento, ovviamente, all’adozione di una formula che sancisse in termini recisi l’esclusione della rilevanza del mero dolo eventuale nell’ambito del delitto tentato (89). STEFANO CANESTRARI Straordinario di Diritto penale Università degli Studi di Bologna POSTILLA. — Al momento della correzione delle bozze, si deve segnalare che la Commissione Grosso ha modificato la definizione del dolo eventuale recependo alcune osservazioni critiche avanzate nei confronti dell’originario art. 30 lett. b) seconda parte (v. Relazione alle modificazioni al progetto preliminare di riforma della parte generale del codice penale approvate dalla Commissione Ministeriale per la Riforma del codice penale nella seduta del 26 maggio 2001, in questa Rivista, 2001, 655, 3.4.). Ed invero, secondo l’art. 27 lett. c) del nuovo Articolato risponde a titolo di dolo chi, con una condotta volontaria attiva od omissiva, realizza un fatto costitutivo di reato ‘‘se agisce accettando la realizzazione del fatto, rappresentato come probabile’’ del dolo — art. 14, comma 3o: « Quando la realizzazione di un fatto che integra una fattispecie delittuosa è rappresentata come conseguenza possibile della condotta, c’è dolo se l’agente opera conformandosi a quella realizzazione » — e la colpa cosciente — art. 15, (a): « Agisce con colpa chi ... si rappresenta come possibile la realizzazione di un fatto che integra una fattispecie delittuosa, ma agisce senza conformarsi a questa realizzazione » — quali categorie « confinanti » e « speculari ». (89) Così, PROSDOCIMI, Dolus eventualis, cit., 162; per una modifica in tal senso del modello legislativo di cui all’art. 56 c.p., si vedano le direttive dello Schema della delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale (art. 19, 1o comma). L’orientamento oggi dominante in dottrina (e ampiamente diffuso in giurisprudenza) ritiene che non sia configurabile un tentativo sorretto dal dolus eventualis: cfr., tra gli altri, SINISCALCO, La struttura del delitto tentato, cit., 207; M. GALLO, (voce) Dolo (dir. pen.), EdD, vol. XIII, Milano, 1964, 796; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., 3a ed., 419 ss.; PAGLIARO, Principi, cit., 7a ed., 511; MANTOVANI, Diritto penale, cit., 3a ed., 439; PADOVANI, Diritto penale, 2a ed., Milano, 1993, 345; CONTENTO, Corso di diritto penale, cit., 639; MARINI, Lineamenti del sistema penale, 3a ed., Torino, 1993, 713; PROSDOCIMI, Dolus eventualis, cit., 157 ss.; ID., (voce) Reato doloso, DDP, vol. XI, Torino, 1996, 252; G.A. DE FRANCESCO, Forme del dolo e principio di colpevolezza nel delitto tentato, in questa Rivista, 1988, 969 ss.; 979 ss. (e nt. 13); ID., Dolo eventuale, cit., 151 s. nt. 72; ID., Fatto e colpevolezza nel tentativo, in questa Rivista, 1992, 703. Di diverso avviso, nella letteratura più recente, p.t., ROMANO, Commentario, cit., 2a ed., sub art. 56/7, 552 s.; FIORE, Diritto penale, PG, vol. II, Torino, 1995, 58 s.; MORSELLI, Il dolo eventuale nel delitto tentato, IP, 1978, 32 ss.; com’è noto, quest’ultima opinione può dirsi assolutamente prevalente nei paesi di lingua tedesca (sul punto, ad es., PAHLKE, Rücktritt bei dolus eventualis, Berlin, 1993, 22 ss.) e in Spagna (v. QUINTERO OLIVARES (director); MORALES PRATS; PRATS CANUTS, Manual de derecho penal, Pamplona, 1999, 589 s.).
NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO
L’IMPERVIO CAMMINO DEL PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA NEL SISTEMA PENALE FRANCESE
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. — 2. Brevi cenni sulle teorie del reato nel diritto penale francese. — 3. La colpevolezza nelle teorie del reato. - 3.1. L’imputabilità. 3.2. I criteri di imputazione soggettiva. — 4. Colpevolezza e responsabilità oggettiva: la faute contraventionnelle. 5. Colpevolezza e teoria dell’errore sul precetto. — 6. Considerazioni conclusive.
1. Considerazioni introduttive. — Alla rigorosa elaborazione dogmatica in tema di colpevolezza che caratterizza, alla stregua di altri sistemi quali quello tedesco, spagnolo o portoghese, la tradizione penalistica italiana — che, sebbene non immune alle pressioni dei diversi movimenti di riforma e alle possibili evoluzioni che ne conseguono (1), si presenta, al(1) Risultante di componenti normative ma necessariamente anche di componenti soggettivistiche, la categoria dogmatica della colpevolezza è quella che più di altre è chiamata a rispondere alle sempre più pressanti sollecitazioni provenienti dalle scienze empiricosociali. Nell’ordinamento italiano, sebbene anche nel periodo di maggiore fortuna dell’approccio tecnico-giuridico non sia mai stata negata la necessità di un continuo riferimento della dogmatica alle indicazioni di scienze sociali quali criminologia, psicologia, sociologia — ai fini di un riscontro della validità anche empirica delle soluzioni prospettate —, è soprattutto nell’attuale periodo di ripensamento, da parte della scienza penalistica, di molti istituti anche di parte generale, che è stata messa in evidenza l’impossibilità del mantenimento di una netta separazione tra cultura giuridica e altre scienze. Nella ricerca di soluzioni a nuove questioni o di nuove prospettive nell’analisi di problematiche da sempre ricorrenti nelle trattazioni della dottrina ma necessitanti una rivisitazione dell’approccio tradizionale, sempre più frequente è il riferimento del giurista a considerazioni di politica criminale ai fini di una rifondazione di istituti non più rispondenti ai tempi. La prospettiva di soluzioni ‘integrate’, risultato di un interscambio tra dogmatica e scienze sociali, pone comunque la questione fondamentale della conciliabilità del metodo giuridico, dalle ben note funzioni garantistiche, e quello proprio delle scienze sociali. Sul punto, cfr. G. FIANDACA, I presupposti della responsabilità penale tra dogmatica e scienze sociali, in La giustizia penale e la fluidità del sapere: ragionamento sul metodo, Padova, Cedam, 1988, p. 29 ss. L’apertura alle scienze sociali, secondo la dottrina italiana dominante, si accompagna tuttavia all’affermazione della perdurante validità della categoria dogmatica della colpevolezza, cfr., in generale, D. PULITANÒ, Politica criminale, in Diritto penale in trasformazione, a cura di G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Milano, Giuffrè, 1985, p. 3 ss.; ID., Appunti sul principio di colpevolezza come fondamento della pena: convergenze e discrasie fra dottrina e giurisprudenza, in Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, a cura di A. M. STILE, Napoli, Jovene, 1991, p. 85 ss.; G. FIANDACA, « Considerazioni su colpevolezza e prevenzione », in questa Rivista, 1987, p. 836 ss. Interessanti sviluppi riguardo al rapporto tra dogmatica e criminologia si leggono in L. EUSEBI, « La ‘‘nuova retribuzione’’. L’ideologia retributiva e le dispute sul principio di colpevolezza », in questa Rivista, 1983, p. 1315 ss.; ID., La pena « in crisi ». Il recente dibattito sulla funzione della pena, Brescia, Editrice Marcelliana, 1990, in particolare p. 127 ss.; e
— 947 — meno nella definizione delle sue componenti essenziali, chiaramente consolidata —, si contrappone in diritto francese un dibattito teorico di difficile comprensione. All’origine dell’estrema fluidità delle diverse teorie del reato formulate dalla dottrina penalistica francese sta, in primo luogo, l’assenza di un rigoroso inquadramento dogmatico (2). Il panorama dottrinale francese, infatti, non consente di delineare una ben definita categoria dogmatica riferita alla colpevolezza, dato, questo, che riflette la più generale carenza di un’approfondita riflessione e teorizzazione sulle componenti dell’illecito penale. Un’analisi attenta del sistema penale francese rivela come l’assenza, nel Code Pénal del 1810, di puntuali disposizioni riguardanti il reato in generale, sia stata infatti all’origine di un ruolo assolutamente preponderante nella definizione delle categorie penalistiche — e nel relativo adeguamento alle evoluzioni storico-sociali — della Cour de Cassation, assurta pertanto ad istanza integratrice, ma spesso anche creatrice, del diritto; constatazione, questa, che se da un lato spiega l’estrema importanza riconosciuta dal diritto penale francese alla giurisprudenza della Suprema Corte, dall’altro porta ad attestare una certa inadeguatezza della dottrina, spesso in ‘posizione di inferiorità’ nei confronti della massima autorità giurisdizionale, a fornire elaborazioni giuridiche originali e dogmaticamente autorevoli. L’interesse della dottrina francese risulta soprattutto concentrato su tematiche più specifiche e concrete quali, ad esempio, i tipi di pene e le modalità di esecuzione delle stesse, con approcci fortemente influenzati dalle teorie della Défense Sociale di Marc Ancel (3), e da prospettive pluridisciplinari, quale quello tipico della politica criminale (4). Anche nell’ambito delle trattazioni della manualistica più accreditata, volte a costruire una teoria generale del reato, preoccupazioni di ordine scopertamente politico-criminale intervengono in particolare al momento di definire l’elemento soggettivo, per sua natura necessitante l’analisi di fattori carenti di precisi referenti empirici e che meglio si prestano quindi ad una ‘ingerenza’ di tali preoccupazioni. La graduale maturazione dell’ordinamento penale francese, nel senso di una sempre maggiore attenzione alle questioni sottese al principio di colpevolezza, emerge inconfutabilmente, tuttavia, dalle disposizioni del codice del 1994, e in particolare dalle scelte operate dal legislatore francese quanto alla definizione di principi generali, tra l’altro anche in materia di elemento soggettivo del reato. Una notazione, questa, di non poco momento per la possibilità che le opzioni fondamentali del codice del 1994 offrono alla costruzione di una vera e propria categoria dogmatica della colpevolezza, stimolando quell’approfondimento teorico che, da lungo tempo registratosi, anche sotto l’influenza della elaborazione dottrinale tedesca, nella penalistica italiana, non ha finora adeguatamente impegnato la dottrina francese. Pur senza giungere alla stessa ‘raffinatezza’ dogmatica del sistema penale italiano, e sebbene non siano state superate tutte le vistose anomalie che esso presentava sul piano della componente soggettiva del reato, il sistema penale francese, così come configurato a seguito delle riflessioni sviluppate nel corso del lungo periodo di gestazione della riforma poi sfociata nel codice del 1994, non solo si attesta su un livello di garanzia del principio di colpein S. MOCCIA, Diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane, 1992, in particolare, p. 83 ss. (2) In questo senso si esprime, tra gli altri, H.H. JESCHECK, « Dogmatica penale e politica criminale nuove in prospettiva comparata », Indice penale, 1985, pp. 513-514. (3) Per un quadro generale sulla dottrina della Défense sociale, cfr. M. ANCEL, La défense sociale nouvelle: un mouvement de politique criminelle humaniste, Paris, Cujas, 1981; ID., La défense sociale, Paris, Presses Universitaires de France, 1985; sull’argomento, cfr. anche AA.VV. Aspects nouveaux de la pensée juridique, Recueil d’études en hommage de Marc Ancel, II, Paris, Pedone, 1975, in particolare pp. 3-73; AA.VV., La planification des mesures contre la délinquance, sous la direction de M. ANCEL et V.N. KOUDRIAVTESEV, Paris, Pedone, 1984. (4) Cfr. S. MANACORDA, Reato nel diritto penale francese, in Digesto delle Discipline Penalistiche, XI, 1996, p. 304 ss.
— 948 — volezza sensibilmente superiore a quello anteriore, ma si colloca in una prospettiva dinamica di approfondimento del grado di tutela riconosciuto ad un tale principio. 2. Brevi cenni sulle teorie del reato nel diritto penale francese. — Il panorama dottrinale francese rivela profonde diversità di approccio già sul piano della individuazione dei ‘criteri ordinatori’ della teoria della responsabilità penale. Tralasciando l’esame della posizione, in realtà alquanto isolata, di chi, rifiutando l’approccio, ritenuto meramente formale, proprio di ogni dottrina analitica, fondato sulla scomposizione del reato in elementi costitutivi, si attesta su un concetto unitario di reato, alla luce del quale quest’ultimo « è un’entità sostanziale indivisibile [...] un tutt’uno che esiste o non esiste » (5), la dottrina francese può essere inquadrata, con estrema generalizzazione e semplificazione, in due grossi filoni di pensiero: i sostenitori di una scomposizione netta tra infraction in senso rigorosamente oggettivo — sinonimo di condotta criminosa — e auteur délinquant, cui devono essere ricondotte tutte le questioni attinenti agli aspetti soggettivi della responsabilità penale; ed i sostenitori di una concezione del reato come entità ‘composta’ da una serie di elementi costitutivi, il cui studio di fatto assorbe l’intera trattazione del diritto penale generale, salvo le tematiche attinenti alla pena. Al di là di una tale partizione di massima, all’interno dei due tronconi delineati, le soluzioni proposte rimangono notevolmente diversificate. Così, per quanto attiene al primo filone, caratterizzato dalla contrapposizione infraction/auteur délinquant — che, presente seppur in maniera ‘latente’ anche nelle trattazioni di alcuni autori che parrebbero adottare una ‘scomposizione’ del reato in elementi costitutivi (6), trova la sua piena formulazione nell’opera di Ortolan (7) —, le posizioni divergono sensibilmente quanto alla collocazione nella teoria del reato, per esempio, delle tematiche concernenti la legge penale, oltre che, come sarà qui di seguito evidenziato, riguardo all’analisi delle questioni collegate alla colpevolezza (8). Divergenze notevoli si riscontrano anche tra gli esponenti del secondo filone, la cui teoria degli éléments constitutifs trova la sua prima completa espressione nell’opera di Villey (9), e tra i (5) A.-Ch. DANA, Essai sur la notion d’infraction pénale, Paris, Librairie Générale de Droit et de Jurisprudence, 1982, p. 57 ss. (6) Cfr., tra gli altri, V. MOLINIER, Programme du cours de droit criminel, vol. 1, Toulouse, Bounal et Gibrac Éditeurs, 1851; e E. TREBUTIEN, Cours élémentaire de droit criminel, vol. 1, Paris, Durand Éditeur, 1854, nei quali il riferimento agli éléments constitutifs si rivela essere solo un’opzione terminologica cui non corrisponde una precisa scelta metodologica. (7) Cfr. J. ORTOLAN, Éléments de droit pénal, vol. 1, Paris, E. Plon et C.ie Éditeurs — Marescq Ainé Éditeur, 1855. (8) Per quanto attiene alla diversa collocazione della teoria della legge penale nelle trattazioni degli autori riconducibili a questo filone, cfr., tra le trattazioni più recenti, R. MERLE-A. VITU, Traité de droit criminel, Problèmes généraux de la science criminelle, Droit pénal général, Tome 1, Paris, Cujas, 1997, p. 472; e J. PRADEL, Droit pénal général, Paris, Cujas, 2000, pp. 129-141 e 269-271. Sebbene concordi nel porre a base delle loro trattazioni il binomio infraction-délinquant, solo nei primi le questioni inerenti al principio di legalità vengono analizzate nell’ambito dell’esame dell’infraction, oggettivamente intesa, come componenti essenziali della stessa, mentre in Pradel la totale coincidenza dell’infraction con la condotta dell’agente si accompagna alla collocazione delle questioni inerenti alla previsione legale del fatto quale préalable légal; con tale espressione, in effetti, l’autore designa l’opera di qualification des faits da parte del giudice, ritenuta quale momento di rilevanza pratica delle questioni teoriche, precedentemente sviluppate nella sua trattazione, concernenti il principio di legalità. (9) Cfr. E. VILLEY, Précis d’un cours de droit criminel, Paris, Durand et Pedone-Lauriel Éditeurs, 1877. Nonostante di élément matériel e di élément intellectuel si parli, come sottolineato precedentemente, già nelle trattazioni anteriori di V. MOLINIER (Programme du cours de droit criminel, cit.) e di E. TREBUTIEN (Cours élémentaire de droit criminel, cit.), Vil-
— 949 — quali, accanto alla dottrina, almeno per lungo tempo prevalente (10), attestata attorno ad una ricostruzione dell’illecito penale articolata in tre componenti, élément légal, élément matériel e élément moral (11), si collocano anche i fautori di soluzioni alternative che riducono a due gli elementi costitutivi — élément matériel e élément moral (12) — o che li portano a quattro introducendovi l’élément injuste (13). La concezione ‘tripartita’ così come formulata da parte della dottrina francese, rispetto alla concezione sposata dal sistema italiano, presenta la vistosa peculiarità della considerazione tra gli elementi costitutivi del reato di un élément légal distinto ed autonomo rispetto all’élément matériel (14) e, di contro, l’assenza di una categoria autonoma dell’antigiuridicità; rilievi, questi, che trovano riscontro, seppur nella diversa prospettiva di una contrapposizione infraction/auteur délinquant, anche per gli autori rientranti nel primo filone. Per quanto attiene al primo aspetto, cioè la previsione di un autonomo élément légal tra gli elementi costitutivi, o comunque come componente essenziale dell’infraction quale polo contrapposto al délinquant, la peculiarità rileva sotto un duplice profilo. Concordando per lo più gli autori sul punto di far rientrare nell’élément légal non solo le problematiche relative alla corrispondenza tra fattispecie astratta e fattispecie concreta ma anche le tematiche tradizionalmente afferenti allo studio della legge penale e al principio di legalità — quali riserva di legge, tassatività e determinatezza della fattispecie, irretroattività, principio di stretta interpretazione (15) — la concezione proposta non solo comporta, in ley fu il primo autore a trarre le conseguenze dal carattere « costitutivo » attribuito a tali « elementi », racchiudendo nell’esame dell’élément matériel e dell’élément moral lo studio dell’insieme dei requisiti oggettivi e soggettivi del reato, esame che viene sviluppato significativamente in un’unica parte della sua opera dedicata all’infraction. (10) L’indicazione di tale teoria come espressione della dottrina maggioritaria si rinviene in J.H. ROBERT, « L’histoire des éléments de l’infraction », Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1977, p. 269; cfr. anche J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 270. (11) Tale impostazione ha trovato accoglimento, tra l’altro, in alcune trattazioni manualistiche quali, H. DONNEDIEU DE VABRES, Traité de droit criminel et de législation pénale comparée, Paris, Sirey, 1937; P. BOUZAT, Traité théorique et pratique de droit pénal, Paris, Dalloz, 1951; P. BOUZAT-J. PINATEL, Traité de droit pénal et de criminologie, Paris, Dalloz, 1963; G. LEVASSEUR-J.-P. DOUCET, Le droit pénal appliqué, Paris, Cujas, 1969; J. BORRICAND, Droit pénal, Paris, Masson, 1973; G. STEFANI-G. LEVASSEUR-B. BOULOC, Droit pénal général, Paris, Dalloz, fino alla 14a edizione del 1992; J.-C. SOYER, Manuel de droit pénal et de procédure pénale, Paris, Librairie Générale de Droit et de Jurisprudence, fino alla 12a edizione del 1993. (12) Cfr. R. VOUIN, Manuel de droit criminel, Paris, Librairie Générale de Droit et de Jurisprudence, 1949; A. DECOCQ, Droit pénal général, Paris, Colin, 1971; più recentemente cfr. per tutti, G. STEFANI-G. LEVASSEUR-B. BOULOC, Droit pénal général, a partire dalla 15a edizione, Paris, Dalloz, 1994 (attualmente 17a, aggiornata al 2000); J.-C. SOYER, Droit pénal et procédure pénale, a partire dalla 13a edizione del 1997 (attualmente 15a edizione aggiornata al 2000). La scomposizione dell’infraction nelle due componenti dell’élément matériel e dell’élément moral si ritrova anche in F. DESPORTES-F. LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, Paris, Economica, 1999, p. 351 ss.; Ph. CONTE-P. MAISTRE DU CHAMBON, Droit pénal général, Paris, Armand Colin, 2000, pp. 158-159. (13) Si tratta, come si vedrà infra, di una posizione minoritaria, cfr. per tutti, R. GARRAUD, Précis de droit criminel, Paris, Larose et Forcel Éditeurs, 1881; ID., Traité théorique et pratique du droit pénal français, Paris, Larose et Forcel Éditeurs, 1913-1953. (14) Preannunciato, per certi versi, dall’opera di Villey che, nel suo Précis del 1877, affronta lo studio della teoria della legge penale nella parte intitolata « De l’infraction », l’élément légal fa la sua prima apparizione come elemento costitutivo in A. LAINÉ, Traité élémentaire de droit criminel, Paris, Cotillon et C.ie Éditeurs, 1879. (15) Cfr. per tutti, J. LARGUIER, Droit pénal général, Paris, Dalloz, 1997, p. 14 ss.; G. LEVASSEUR-A. CHAVANNE-J. MONTREUIL-B. BOULOC, Droit pénal général et procédure pénale, Paris, Sirey, 1999, p. 34.
— 950 — presenza di un autonomo élément matériel, la discutibile scissione tra condotta, come azione di per sé ‘neutra’, e tipicità vera e propria, ma partendo dall’assunto secondo il quale un’azione od omissione non costituisce reato se non a condizione che una legge la preveda come tale, essa perviene all’ulteriore convincimento di annoverare la legge tra gli elementi costitutivi dell’infraction (16). Sulla scia di importanti contributi, e dando seguito alla lucida considerazione che parlare della legge penale alla stregua di un elemento costitutivo « non è che un modo di dire, e non il migliore, nell’intento di richiamare il principio di legalità dei reati » (17), in quanto « una norma non può integrarsi ad un fatto, per di più illecito » (18), una parte della dottrina espunge l’élément légal dalla definizione delle componenti del reato per dedicarvi un’autonoma trattazione che logicamente precede lo studio dell’illecito penale (19). Una tale evoluzione permette di delineare una chiara distinzione, all’interno dell’alquanto polivalente termine di infraction, tra l’infraction-description, corrispondente alla nostra « fattispecie astratta » e l’infraction-action, corrispondente alla nostra « fattispecie concreta », distinzione spesso negletta dalla dottrina francese e forse causa di non poche confusioni, ma che, sottolineata già agli inizi del secolo (20), trova un preciso riscontro in alcuni autori mediante la contrapposizione incrimination (ricomprendente la teoria della legge penale) /infraction (21). Nonostante, come prima sottolineato, la teoria tripartita abbia finora rappresentato la posizione della dottrina maggioritaria, l’opzione in favore di una esclusione dell’élément légal sembra consolidarsi, non a caso, nelle trattazioni successive alla codificazione del 1994 (22). Il nuovo codice, in effetti, a differenza del testo precedente, dedica alle norme sulla legge in generale un autonomo titolo che precede quello concernente le questioni inerenti alla responsabilità penale nel suo complesso, ivi comprese le tematiche relative al reato, consacrando quindi, anche se implicitamente, un’articolazione della teoria dell’illecito penale (16) Per quanto concerne autori del primo filone, cfr. R. MERLE-A. VITU, Traité de droit criminel, cit., p. 472, i quali, pur consacrando alle questioni inerenti alla legge penale un’apposita trattazione (p. 262 ss.), le richiamano al momento di procedere all’esame delle componenti del reato, ricomprendendole nell’élément légal inteso come vero e proprio elemento costitutivo (p. 506). (17) Cfr. R. VOUIN, Manuel de droit criminel, cit., p. 231. (18) Cfr. A. DECOCQ, Droit pénal général, cit., p. 61. (19) In questo senso, tra gli autori appartenenti al primo filone, cfr. J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 129 ss.; M. PUECH, Droit pénal général, Paris, Litec, 1988, p. 11 ss.; per gli autori appartenenti al secondo filone, cfr. Ph. CONTE-P. MAISTRE DU CHAMBON, Droit pénal général, cit., p. 123 ss.; M.-L. RASSAT, Droit pénal général, Paris, Presses Universitaires de France, 1999, p. 115 ss.; F. DESPORTES-F. LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, cit., p. 135 ss. Pur tenendo conto dell’originalità dell’analisi condotta, lo studio della legge penale deve razionalmente precedere il reato e non rappresentarne un elemento costitutivo anche in A.-Ch. DANA, Essai sur la notion d’infraction pénale, cit., pp. 12-14. (20) Cfr. R. GARRAUD, Traité théorique et pratique de droit pénal français, cit., p. 291 ss. (21) Per una definizione dei due termini, cfr. J PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 237. Una utilizzazione dei due termini secondo tale distinzione può essere rinvenuta anche in A.-Ch. DANA, Essai sur la notion d’infraction pénale, cit.; e in Ph. CONTE-P. MAISTRE DU CHAMBON, Droit pénal général, cit., riguardo ai quali, nell’ambito dell’analisi svolta nel testo, è interessante mettere in evidenza come essi propongano una nozione di reato che abbraccia, accanto alle « sources de l’incrimination » ed al « contenu de l’incrimination », anche la sanzione, argomentando in base alla considerazione che un fatto interessa il diritto penale solo se a causa della sua realizzazione l’agente è esposto ad una sanzione, pp. 118 e 237. (22) Tale passaggio risulta evidente nella trattazione di G. STEFANI-G. LEVASSEUR-B. BOULOC che, sostenitori della teoria ‘tripartita’ fino alla 14a edizione del loro Droit pénal général, a partire dalla 15a edizione del 1994 trattano le tematiche inerenti al principio di legalità come grand principe du droit pénal nella parte che precede l’analisi delle due restanti componenti dell’infraction; analoga evoluzione si registra tra le edizioni del 1993 e del 1997 di J.-C. SOYER, Manuel de droit pénal et de procédure pénale, cit.
— 951 — che vede nelle questioni inerenti alla norma penale il logico e necessario antecedente e non un elemento costitutivo. Per quanto attiene alla collocazione dell’élément injuste, corrispondente nelle grandi linee alla categoria dell’antigiuridicità della teoria tripartita della dogmatica italiana, l’esame del panorama dottrinale francese rivela uno scarso interesse nei confronti delle problematiche ad esso connesse, problematiche che non hanno pertanto fatto l’oggetto di particolari approfondimenti. Condivisa solo da alcuni autori (23), la teoria ‘quadripartita’ teorizzata da Garraud (24), il quale aggiunge l’élément injuste ai tre elementi ‘classici’ formulati da Lainé, parrebbe non essere stata in grado di contrapporre valide argomentazioni alla critica secondo cui in realtà l’élément injuste costituirebbe solo una « condizione negativa » del fatto: il reato risulterebbe costituito, dal punto di vista oggettivo, allorquando si sia in presenza di un fatto corrispondente alla descrizione legale e non sia individuabile un fait justificatif (25). La disciplina dei faits justificatifs, sebbene a questi ultimi sia stata per lo più negata un’autonoma collocazione nella teoria generale del reato, è andata comunque arricchendosi rispetto alle lacunose previsioni del codice del 1810, grazie ad un’abbondante giurisprudenza, le cui soluzioni, elaborate nel corso di quasi due secoli, sono state in gran parte recepite e confermate dal codice del 1994. Ricondotte da taluni autori allo studio dell’élément légal per l’asserita incidenza sulla riconducibilità del fatto concreto alla previsione legale (26), le questioni attinenti all’inquadramento dogmatico dell’operatività dei faits justificatifs sono per lo più annoverate, accanto alla malattia mentale ed alla violenza, nell’ambito dell’ampia categoria delle cause di esclusione della responsabilità (27); categoria cara a gran parte della dottrina francese che, seppur eventualmente funzionale in termini di sistematizzazione pedagogica, si presenta quale soluzione dogmaticamente inesatta per la conseguente trattazione unitaria di ipotesi profondamente diverse tra loro, accomunate unicamente dalla conseguenza dell’esclusione dell’intervento sanzionatorio (28). Appare pertanto evidente che la familiarità alla teoria del reato propria del diritto ita(23) Per la dottrina più recente, cfr. Ph. SALVAGE, Droit pénal général, Presses Universitaires de Grenoble, 1998, p. 57 ss.; G. LEVASSEUR-A. CHAVANNE-J. MONTREUIL-B. BOULOC, Droit pénal général et procédure pénale, cit., p. 75 ss.; J. LARGUIER, Droit pénal général, cit., p. 44 ss. È interessante infine sottolineare che, a parte gli autori appena citati, le opere in lingua francese in cui grande spazio è consacrato all’analisi dell’élément injuste appartengono per lo più ad autori di origine straniera come L. JIMENEZ DE ASUA, « L’antijuridicité », Revue Internationale de droit pénal, 1951, pp. 273-317. (24) L’autonomia dell’élément injuste è messa in evidenza soprattutto in R. GARRAUD, Précis de droit criminel, cit., p. 213 ss. (25) Fortemente critica nei confronti di una tale ricostruzione, anche alla luce della prioritaria esclusione di un élément légal quale componente del reato, M.-L. RASSAT, Droit pénal général, cit., p. 388 ss., la quale sviluppa ampiamente la categoria dei faits justificatifs quale elemento costitutivo autonomo del reato, promuovendo così una diversa concezione ‘tripartita’ dell’infraction composta da élément matériel, élément moral e élément injuste. (26) Cfr. R. MERLE-A. VITU, Traité de droit criminel, cit., p. 525 ss., i quali parlano di « neutralizzazione » della qualificazione come illecito di un atto corrispondente alla fattispecie legale; allo stesso modo si esprimono Ph. CONTE-P. MAISTRE DU CHAMBON, Droit pénal général, cit., p. 134 ss.; di ostacolo al préalable légal parla J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 286. (27) Cfr. G. STEFANI-G. LEVASSEUR-B. BOULOC, Droit pénal général, Paris, Dalloz, 2000, p. 320 ss., che qualificano i faits justificatifs come « causes objectives de non responsabilité » precisando comunque che esse farebbero venir meno il giudizio di responsabilità dell’agente non incidendo direttamente sulla sfera soggettiva ma in conseguenza della non applicazione del testo di legge. (28) Cfr. M.-L. RASSAT, Droit pénal général, cit., pp. 275-276.
— 952 — liano di terminologia e concetti ricorrenti nella letteratura penalistica francese si accompagna ad una spesso sensibile divergenza dei risultati dogmatici. Una tale constatazione trova ulteriore conferma nell’approccio della dottrina francese riguardo alle questioni concernenti la colpevolezza. 3. La colpevolezza nelle teorie del reato. — Benché la dottrina unanime ne esiga la sussistenza ai fini dell’accertamento giudiziale della responsabilità penale (29), riguardo alla colpevolezza esistono profonde divergenze, prima ancora che in ordine all’esatta portata e quindi ai fattori in essa ricompresi, quanto alla collocazione sistematica delle questioni ad essa relative, ed addirittura alla sua configurazione come elemento costitutivo del reato (30). L’assenza di una precisa categoria dogmatica della colpevolezza è d’altronde messa in luce da una evidente tensione semantica che si riscontra in proposito anche nei contributi più recenti (31). Da alcuni autori considerato, probabilmente sotto l’influenza della terminologia e della dinamica processualistiche, sinonimo di responsabilità penale — quale espressione sintetica dell’insieme dei requisiti oggettivi e soggettivi della dichiarazione di responsabilità (32) —, da altri invece ritenuto corrispondente alla nozione di elemento soggettivo, talvolta addirittura usato nelle due accezioni dallo stesso autore (33), il termine culpabilité nella produzione penalistica francese non rinvia ad alcun contenuto preciso. Lo stesso può dirsi per il concetto di faute che, spesso usato per indicare solo la colpa, quale forma meno grave di colpevolezza (34), viene utilizzato da alcuni autori, al pari del termine culpabilité, come sinonimo di élément moral (35); espressione, quest’ultima, con cui si intende per lo più l’elemento soggettivo in senso stretto — ricomprendente, come nozione di genere, solo l’insieme (29) Il carattere essenziale del principio di colpevolezza nel diritto moderno è senza alcuna riserva sostenuto da A. PIROVANO, Faute civile et faute pénale, Paris, Librairie Générale de Droit et de Jurisprudence, 1966, p. 105, dove l’autore afferma esplicitamente che « bien qu’il y a eu différentes écoles, l’on peut penser que le droit pénal moderne est tout entier dominé par le grand principe de la culpabilité: pas d’infraction sans faute [...]. On s’est rendu compte que la société avait tort de négliger systématiquement la culpabilité subjective des individus, ceci pour une simple raison d’efficacité ». (30) Per una rapida panoramica delle diverse teorie a tutt’oggi presenti nella dottrina francese, cfr. R. OTTENHOF, « Imputabilité, culpabilité et responsabilité en droit pénal », Archives de politique criminelle, n. 22, 2000, p. 71 ss. (31) È interessante constatare come, durante la lunga gestazione del codice del 1994, sia stato da più parti espresso l’auspicio che il nuovo codice si impegnasse nella definizione dei diversi concetti, ritenuti a tutt’oggi controversi e talvolta evanescenti, di faute, culpabilité e responsabilité, cfr. « Les cinq voeux de l’Association française de droit pénal », Revue internationale de droit pénal, 1980, p. 177; l’estrema confusione regnante in dottrina al riguardo è stata recentemente confermata in R. OTTENHOF, « Imputabilité, culpabilité et responsabilité en droit pénal », cit., p. 72. (32) Cfr. R. MERLE-A. VITU, Traité de droit criminel, cit., p. 649 ss.; F. DESPORTES-F. LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, cit., p. 347 ss. (33) Cfr. le diverse utlizzazioni del termine culpabilité come sinonimo di responsabilité e come sinonimo di élément moral, in R. MERLE-A. VITU, Traité de droit criminel, cit., pp. 649, 652-653, 656. (34) Cfr. G. STEFANI-G. LEVASSEUR-B. BOULOC, Droit pénal général, ed. ult. cit., p. 240 ss. (35) Cfr. F. DESPORTES-F. LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, cit., p. 357 ss.; J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 435 ss.; nel senso di una nozione di culpabilité ricomprendente lo studio delle varie forme di imputazione soggettiva del reato, ma anche dei soggetti che possono fare l’oggetto di una dichiarazione di colpevolezza, cfr. Ph. CONTE-P. MAISTRE DU CHAMBON, Droit pénal général, cit., p. 204, i quali configurano la culpabilité quale seconda componente, dopo l’imputabilité, dell’élément moral, considerato pertanto in un’accezione più ampia rispetto all’opinione maggioritaria.
— 953 — dei criteri di imputazione soggettiva del reato e quindi le varie forme di dolo e colpa e, dopo il 1994, la mise en danger délibérée — , e tutt’al più il « rapporto tra l’agente e la sua condotta » (36), senza alcun preciso sviluppo del momento ascrittivo-valutativo del giudizio di colpevolezza che invece, alla luce della concezione normativa, caratterizza il concetto di colpevolezza consolidato in diritto italiano (37). Un’analisi puntuale della componente ascrittivo-valutativa, ed in particolare del carattere normativo del giudizio di colpevolezza, si ritrova per lo più nei contributi di autori le cui origini e la cui formazione giuridica sono straniere nonostante la loro produzione maggiore sia in lingua francese (38). Sebbene alla luce di logiche profondamente diverse e nell’ambito di proposte essenzialmente divergenti di una teoria generale del reato, tali autori giungono alla conclusione che le considerazioni di ordine ‘soggettivo’ alla base della dichiarazione di responsabilità penale non possano esaurirsi nella semplice registrazione del dato empirico-psicologico che l’autore abbia voluto il fatto o che lo abbia causato per imprudenza o negligenza. Partendo in genere dall’esame di ipotesi di responsabilità colposa, dove più evidente è la constatazione che la responsabilità dell’autore non sia dovuta alla semplice disattenzione o imprudenza ma ad una valutazione di non conformità di tale condotta rispetto a certi standards normativi (in presenza della condizione della possibilità umana di attenersi a tali standards e quindi di evitare il reato) (39) — considerazione che mutatis mutandis può essere estesa anche alla responsabilità dolosa (40) —, tali studiosi mettono in luce la necessità che la dichiarazione di responsabilità culmini in un giudizio di carattere normativo e assiologico (41), dove la condotta (36)
Cfr. G. STEFANI-G. LEVASSEUR-B. BOULOC, Droit pénal général, ed. ult. cit., p.
315. (37) Salvo qualche eccezione (cfr. A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, Milano, Giuffrè, 2000, p. 318 ss. che rigetta in toto il concetto dogmatico di colpevolezza; e F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, Giuffrè, 1997, p. 294 ss., che assume una posizione sui generis rispetto alle due principali teorie della colpevolezza, la teoria « psicologica » e la teoria « normativa »), la concezione normativa della colpevolezza è accolta dalla dottrina italiana dominante, cfr., per tutti, M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, Giuffrè, 1995, pre-art. 39, pp. 307-308, e gli autori in esso citati; G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, Parte generale, Bologna, Zanichelli, 1995 (aggiornata al 1999), p. 247 ss.; G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Corso di diritto penale, I, Milano, Giuffrè, 2001, p. 642 ss. (38) Cfr. L. JIMENEZ DE ASUA, « Problèmes modernes de la culpabilité », Revue internationale de droit pénal, 1961, II, p. 857, dove si trova l’efficace affermazione per cui soltanto nell’ambito del giudizio di colpevolezza la semplice volontà o l’imprudenza dell’atto materiale diventano il dolo e la colpa rilevanti ai fini dell’accertamento del reato; cfr. anche E. DASKALAKIS, Réflexions sur la responsabilité pénale, Paris, Presses Universitaires de France, 1975; A.-Ch. DANA, Essai sur la notion d’infraction pénale, cit., pp. 305-348. (39) Il modello indicato in E. DASKALAKIS, Réflexions sur la responsabilité pénale, cit., p. 36, è quello dell’« homme moyen »; mentre i parametri cui rinvia A.-Ch. DANA, Essai sur la notion d’infraction pénale, cit., p. 346 attraverso il riferimento all’« homme possédant les connaissances et l’habileté communément répandues parmi les individus remplissant la fonction ou se livrant à l’activité considérée », e che possono facilmente ricondursi alla definizione dell’homo eiusdem professionis atque condicionis della letteratura penalistica italiana, rivelano più chiaramente la preoccupazione di garantire concretezza alla costruzione dell’agente modello onde evitare il riferimento ad un homo juridicus assolutamente fittizio. (40) Tale considerazione non risulta valida per A.-Ch. DANA, il quale nel suo Essai sur la notion d’infraction pénale, cit., tiene distinte la faute normative, che ingloberebbe le tradizionali faute ordinaire (responsabilità colposa) e faute contraventionnelle (sulla quale si ritornerà in questo lavoro), da un lato, e la faute intentionnelle, dall’altro, l’unica quest’ultima a poter essere definita in termini di « manifestazione psicologica del reato » e di « attitudine psicologica » reale che va ad aggiungersi all’elemento della violazione della norma, comune alla prima forma di faute; cfr. pp. 281, 285 ss. e 452-454. (41) Cfr. E. DASKALAKIS, Réflexions sur la responsabilité pénale, cit., che sviluppa
— 954 — dell’agente venga giudicata non in concreto ma secondo parametri necessariamente frutto di un processo di astrazione (42). Nel pensiero dei suddetti autori non sempre però il giudizio di non conformità della condotta dell’agente coincide con la formulazione di un chiaro giudizio di antidoverosità dell’atteggiamento interiore ma si attesta piuttosto su un « giudizio di inferiorità sociale » dell’agente che rischia di mascherare una responsabilità puramente normativa fondata sulla semplice difformità del comportamento dell’agente dalla norma violata (43). La componente del rimprovero è invece chiaramente evidenziata soprattutto in alcune trattazioni in cui l’esame delle questioni inerenti alla colpevolezza, fatte rientrare nella sfera dell’analisi dell’auteur délinquant, è sviluppato fuori dalla struttura dell’infraction intesa in senso esclusivamente oggettivo; emerge allora in maniera evidente il collegamento funzionale tra possibilità di muovere un rimprovero e la decisione di irrogazione della pena inerente all’affermazione di responsabilità per il fatto commesso (44). Il giudizio di anti-socialité o di sub-socialité, che attesta l’ostilità o l’indifferenza dell’agente nei confronti dei valori tutelati dalla legge, non è quindi l’elemento culminante del giudizio di colpevolezza ma la base per il rimprovero (45). Tra questi autori, che si collocano nel filone caratterizzato dalla contrapposizione infraction/délinquant, se alcuni esauriscono gli aspetti dello studio della persona dell’agente — ivi comprese tutte le questioni di ordine ‘psicologico-soggettivo’ che l’opposto indirizzo dottrinale vorrebbe annoverate nell’élément moral — nel giudizio di responsabilità (46), autorevoli esponenti dello stesso filone dogmatico mettono in luce la distinzione tra la dichiarazione di colpevolezza/responsabilità e il momento strettamente collegato, ma concettualmente distinto, della scelta delle conseguenze sanzionatorie (47). tale concetto nel corso dell’intera pubblicazione in questione; cfr., in particolare, pp. 23-25 e le considerazioni conclusive in proposito, p. 91. (42) Nel senso di una necessaria ‘oggettivazione’ intesa come limitazione del campo di giudizio da parte del giudice al momento di valutare l’élément moral, cfr. anche Ph. CONTE-P. MAISTRE DU CHAMBON, Droit pénal général, cit., pp. 187-188. (43) E. DASKALAKIS, Réflexions sur la responsabilité pénale, cit., p. 39; in questo senso anche A.-Ch. DANA, Essai sur la notion d’infraction pénale, cit., pp. 343 e 323-329. (44) Seppur evidenziato anche da altri autori, quali J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 403, tali considerazioni sono sviluppate in particolare in R. MERLE-A. VITU, Traité de droit criminel, cit., p. 650 ss. È importante sottolineare come la natura etico-morale, attribuita da tali autori al rimprovero insito nel concetto di colpevolezza, si rivela ad un’attenta lettura sinonimo di riprovazione sociale, cosicchè il « comportement moralement reprochable » coincide con il « comportement qui appelle le blâme social ». La culpabilité come « blâme que provoque la faute du coupable », è sviluppata anche in R. MERLE, « La culpabilité devant les sciences humaines et sociales », Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1976, p. 29 ss., dove l’autore sottolinea come la colpevolezza sia in realtà un concetto dottrinale più che legale, ben più pregnante del concetto tradizionale di élément moral che si limiterebbe ad indicare un’operazione intellettuale. Lo stretto nesso tra rimproverabilità del comportamento e irrogazione della pena è messo in luce da L. H.-C. HULSMAN, « Le choix de la sanction pénale », Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1970, p. 497. Nell’ottica sopra esposta della colpevolezza dell’agente come sub-socialité, riguardo alla quale cfr. E. DASKALAKIS, Réflexions sur la responsabilité pénale, cit., p. 39, la sanzione non può che avere un carattere di « risocializzazione », essendo chiamata a rafforzare la « tension sociale » del reo. I concetti di « jugement de valeur » e di « condamnation morale », come fattori costituenti l’essenza della colpevolezza e legittimanti l’intervento sanzionatorio, sono presenti anche in Ph. CONTE-P. MAISTRE DU CHAMBON, Droit pénal général, cit., p. 187, che sviluppano però tali considerazioni nell’ambito della teoria degli elementi costitutivi del reato ed in particolare nella costruzione dell’élément moral. (45) Cfr. R. MERLE, « La culpabilité devant les sciences humaines et sociales », cit., p. 29 ss. (46) Cfr. per tutti, J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 403. (47) Cfr. R. MERLE-A. VITU, Traité de droit criminel, cit., p. 650 ss.
— 955 — Secondo questi ultimi autori, allo stadio del giudizio di culpabilité, che dà luogo in caso positivo ad una pronuncia di condanna, non si porrebbe alcun problema di studiare i meccanismi psicologici che hanno operato al momento in cui l’agente ha agito ma occorrerebbe esclusivamente rilevare, oltre evidentemente alla realizzazione materiale della condotta, l’état d’esprit, il preciso atteggiamento soggettivo dell’agente in relazione al fatto di reato, alla luce del quale sia possibile formulare un giudizio di conformità o divergenza del comportamento dell’agente rispetto al comando contenuto nella norma (48). Si tratterebbe cioè di mettere in luce se esista un atteggiamento soggettivo ‘rimproverabile’ (49), risultante dalla contestuale presenza di una « conscience infractionnelle » — indicante la conoscenza delle circostanze di fatto che integrano la fattispecie, nel caso del dolo, e la coscienza del possibile verificarsi dell’evento, nel caso della colpa —, di una « mentalité dissociale » — manifestata da un’ostilità, nel caso del dolo, o da indifferenza, nel caso di colpa, nei confronti dei valori tutelati dalla legge penale violata — e di una « volonté infractionnelle » in senso lato, concepibile solo in caso di capacità di intendere e di volere, e quindi dell’imputabilità. Le considerazioni di ordine strettamente psicologico, che non dovrebbero avere alcuna incidenza in questa prima fase del giudizio di responsabilità, diverrebbero invece essenziali nel momento successivo della scelta delle conseguenze sanzionatorie e della commisurazione delle stesse (50). Una precisa linea di demarcazione, per lo meno sul piano concettuale, tra le due fasi del giudizio, avrebbe tra l’altro il pregio, come sottolineano gli stessi autori, di superare i tradizionali malintesi ed evitare le possibili sovrapposizioni tra penalisti e criminologi, fortemente critici, questi ultimi, sulla validità della concezione normativa della colpevolezza ai fini della formulazione di un giudizio di responsabilità concretamente attendibile. Nell’ottica di un approccio in chiave criminologica delle questioni sottese alla dichiarazione di responsabilità penale, la teoria normativa si presenterebbe inevitabilmente deficitaria ed inattendibile per il fatto di essere costruita su un modello irreale di soggetto agente, quasi un « disciple corrompu de Descartes », le cui azioni sarebbero sempre frutto di lucida ponderazione, non tenendo pertanto in alcun conto l’innegabile dato medico-scientifico che nella realtà il passag(48) La natura normativa della faute è messa chiaramente in luce in A. PIROVANO, Faute civile et faute pénale, cit., p. 90, in cui si legge « La faute ne peut se concevoir qu’en fonction d’une norme [...]. Les auteurs confondent parfois la faute avec un pur état psychologique [...]. En réalité, la faute n’a de signification que si on la rattache à une norme, la norme dont, précisément, elle constitue la violation ». Tale carattere, comune alla faute civile e alla faute pénale, si arricchirebbe nel caso di quest’ultima dell’elemento necessario della « reprochabilité personnelle » (p. 137). Lo scarso approfondimento, da parte della dottrina francese, delle questioni connesse alla colpevolezza, viene in parte ricondotto dall’autore proprio alla tradizione giuridica francese di una trattazione tendenzialmente unitaria della faute civile e penale. (49) È interessante sottolineare come gli autori in questione facciano un esplicito riferimento alla teoria « normativa » così come formulata dalla dottrina tedesca. Per il concetto di « rimproverabilità » gli autori riprendono l’analisi di L. JIMENEZ DE ASUA, Les problèmes modernes de la culpabilité, Mélanges Constant, Liège, Faculté de droit de Liège, 1971, p. 151. (50) La cesura tra criteri strettamente giuridici che devono presiedere alla dichiarazione di colpevolezza e criteri criminologici che dovrebbero invece guidare nella scelta e nel dosaggio della sanzione è ribadita in R. MERLE, « La culpabilité devant les sciences humaines et sociales », cit., p. 38; in questo senso, cfr. anche G. LEVASSEUR, Étude de l’élément moral de l’infraction, in AA.VV., Confrontation de la théorie générale de la responsabilité pénale avec les données de la criminologie, Travaux du Colloque de Science criminelle de Toulouse, Paris, Dalloz, 1969, p. 89 ; J. PINATEL, La théorie pénale de l’intention devant les sciences de l’homme, Recueil d’Études à la mémoire de Jean Lebret, Paris, Presses Universitaires de France, 1972, p.192; M. PUECH, Scolies sur la faute pénale, in AA.VV., Fin de la faute?, Droits, Revue française de théorie juridique, Paris, Presses Universitaires de France, 1987, p. 86.
— 956 — gio all’atto è il risultato di un processo psicologico caotico che il diritto penale finirebbe col ritenere assolutamente irrilevante (51). Pur non attestando una totale adesione alle teorie criminologiche, tale posizione rivela, in effetti, la chiara esigenza di indicare un punto di convergenza tra rigore dogmatico e concretezza criminologica (52), riconoscendo a quest’ultima il presidio del momento dell’individuazione del risultato concreto del giudizio di responsabilità, cioè la scelta e l’irrogazione di una pena determinata, ed aprendo così la strada allo sviluppo del concetto propriamente criminologico di « capacità penale », intesa come « attitudine a trarre profitto dalla sanzione », concetto di per sé svincolato, nella sua formulazione originaria, dalla colpevolezza ed anzi, secondo le teorie più estreme, alternativo a questa (53). L’ampio sviluppo della teoria appena esposta da parte dei suoi sostenitori ed il largo seguito da essa avuto, seppur con formulazioni più o meno originali, nel panorama dottrinale francese, costituiscono un indice incontestabile della costante preoccupazione della penalistica francese di dare spazio alle posizioni dei criminologi, o meglio di configurare categorie dogmatiche che traducano in termini giuridici i relativi assunti. La continua ricerca di soluzioni di compromesso tra teoria generale del reato e criminologia, vero e proprio ‘filo rosso’ della produzione penalistica francese, e che si impone in particolare al momento di affrontare le questioni di carattere ‘soggettivo’, finisce con lo smorzare, fino a renderli talvolta evanescenti, i caratteri distintivi tra i due filoni dello schematico inquadramento sopra proposto della dottrina francese. L’esigenza di formulare una teoria del délinquant distinta ed autonoma rispetto alla teoria del reato, che riprenda e sviluppi i risultati degli studi di psicologia criminale, ha portato infatti una parte cospicua della dottrina, fautrice della « teoria degli elementi costitutivi del reato », a scindere l’élément moral, estrapolandone le questioni inerenti all’imputabilità e le problematiche per lo più complessivamente ricomprese nella categoria delle « cause di esclusione della responsabilità ». Privato delle suddette tematiche, ormai afferenti alla teoria del délinquant, l’élément moral finisce con l’indicare pressochè esclusivamente lo studio relativo ai diversi criteri di imputazione soggettiva del reato (54); soluzione questa che, imponendo (51) Per un excursus sulle posizioni critiche nei confronti della concezione della dogmatica classica della colpevolezza, cfr. J.-M. AUSSEL, Le concept de responsabilité pénale, in AA.VV., Confrontation de la théorie générale de la responsabilité pénale avec les données de la criminologie, cit., p. 106. (52) Si tratta, evidentemente, di esigenze profondamente sentite anche nell’ordinamento italiano e che animano un dibattito che, sviluppatosi sotto l’impulso della scuola positiva, è giunto, pur con alterne vicende, fino ai nostri giorni, cfr., in generale, A. BARATTA, « Criminologia critica e politica penale alternativa », Questione criminale, 1977, p. 339 ss.; ID., « Criminologia e dogmatica penale. Passato e futuro del modello integrato di scienza penalistica », Questione criminale, 1979, p. 147 ss.; G. MARINUCCI, Politica criminale e riforma del diritto penale, in AA.VV., Problemi di diritto penale, Milano, Vita e Pensiero (Università Cattolica del Sacro Cuore), 1979, p. 7 ss.; cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, Padova, Cedam, 1992, in particolare p. 557 ss. e 573 ss.; V. MILITELLO, Prevenzione generale e commisurazione della pena, Milano, Giuffrè, 1982; M. DONINI, Illecito e colpevolezza nell’interpretazione del reato, Milano, Giuffrè, 1991, p. 21 ss.; ID., Teoria del reato. Una introduzione, Padova, Cedam, 1996; ID., La sintassi del rapporto fatto/autore nel « Progetto Grosso », relazione presentata alla Conferenza Nazionale sul Progetto preliminare di riforma del codice penale redatto dalla Commissione presieduta dal Prof. C.F. Grosso, Siracusa-ISISC, 3-5 novembre 2000; L. EUSEBI, « Può nascere dalla crisi della pena una politica criminale? Appunti contro il neoconservatorismo penale », Dei delitti e delle pene, 1994, p. 83 ss. (53) Nel senso di una possibile combinazione tra imputabilità e capacità penale, cfr. R. MERLE-A. VITU, Traité de droit criminel, cit., p. 701; in termini più scettici, cfr. anche J. PRADEL, Droit pénal général, cit., pp. 404-405. Più approfonditamente, sul concetto di imputabilità, vedi infra § 3.1. (54) La prima formulazione di una tale teoria è da attribuirsi a P. CUCHE, Précis de droit criminel, Paris, Précis Dalloz, 1925. Con diverse varianti, la teoria annovera tra i suoi
— 957 — un’analisi separata dei criteri di imputazione e delle cause di esclusione della colpevolezza, costituenti di contro il naturale e logico completamento dei primi, non può che sollevare dubbi riguardo alla validità dell’inquadramento dogmatico che da essa scaturisce. 3.1. L’imputabilità. — Le sollecitazioni provenienti dagli studi criminologici trovano il loro humus nelle riflessioni volte a delineare il concetto di imputabilità, favorite in questo dalle profonde diversità di approccio della dottrina e dalle ambiguità delle definizioni proposte. Anche facendo astrazione della posizione particolare di qualche autore che, prendendo le distanze dalla nozione tradizionale, formula un concetto di imputabilità dai confini estremamente ampi, che abbraccerebbe complessivamente le considerazioni generalmente ricondotte alle due distinte categorie dell’imputabilité stricto sensu intesa, indice dello status mentale e psicologico dell’autore al momento dell’azione, e della culpabilité (55), dietro lo schermo di una formale omogeneità di definizione dell’imputabilità come « capacità di intendere e di volere » (56), si celano concezioni estremamente diversificate, delle quali, l’analisi per contro in genere piuttosto dettagliata del profilo ‘negativo’ della questione, cioè di quelle che vengono definite come « cause di esclusione dell’imputabilità » (57), rivela la fluidità e la confusione (58). Ad esclusione di qualche voce isolata (59), le illuminate ed autorevoli affermazioni che, in linea con il configurare il giudizio di colpevolezza come rimprovero, vorrebbero l’imputasostenitori numerosi esponenti della dottrina penalistica francese, tra i quali cfr. H. DONNEDIEU DE VABRES, Traité de droit criminel et de législation pénale comparée, cit.; ID., Précis de droit criminel, Paris, Dalloz, 1946; G. STEFANI-G. LEVASSEUR, Droit pénal et procédure pénale, tome 1, Paris, Dalloz, 1957 (la stessa teoria è ripresa a partire dalla 15a edizione di G. STEFANI-G. LEVASSEUR-B. BOULOC, Droit pénal général, cit.); G. LEVASSEUR-J.-P. DOUCET, Le droit pénal appliqué, cit.; A. DECOCQ, Droit pénal général, cit.; F. DESPORTES-F. LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, cit. Chiaro l’accostamento dei due filoni del pensiero penalistico francese in proposito in G. LEVASSEUR, Étude de l’élément moral de l’infraction, cit., pp. 89-90; pur confermando l’élément moral quale componente essenziale della struttura del reato, l’autore ne afferma il carattere astratto, rinviando al momento della decisione giudiziaria sulla responsabilità penale la considerazione delle acquisizioni delle scienze sociali e della criminologia, ai fini di una completa personalizzazione della pronuncia giurisdizionale. È grazie a tale meccanismo, secondo l’autore, che si eviterebbe la configurazione di ipotesi di responsabilità sans faute. (55) Cfr. E. DASKALAKIS, Réflexions sur la responsabilité pénale, cit., pp. 16-19. (56) In proposito, richiamano esplicitamente l’art. 85 c.p. italiano, G. STEFANI-G. LEVASSEUR-B. BOULOC, Droit pénal général, ed. ult. cit., pp. 315-316; J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 404; Ph. CONTE-P. MAISTRE DU CHAMBON, Droit pénal général, cit., p. 190. (57) Vengono tradizionalmente annoverate sotto tale etichetta il vizio di mente (che ex art 122-1 c.p. francese, analogamente a quanto sancito dal Codice Rocco agli artt. 88 e 89, esclude l’imputabilità solo nel caso di vizio totale di mente, mentre nel caso di vizio parziale si atteggia a causa di attenuazione della pena), la minore età (situazione quest’ultima regolata essenzialmente extra codicem, dalle disposizioni dell’Ordonnance n. 45-174 del 2 febbraio 1945 relativa all’enfance délinquante) e la contrainte, categoria generale cui la dottrina unanime riconduce le ipotesi di violenza fisica e morale, nonché l’errore sul fatto e l’errore sul precetto, sebbene quest’ultimo sia stato consacrato dall’art. 122-3 del codice del 1994 quale autonoma causa di esclusione della responsabilità penale, allorquando esso sia inevitabile. (58) In tal senso, cfr. anche R. OTTENHOF, « Imputabilité, culpabilité et responsabilité en droit pénal », cit., p. 72. (59) Cfr. Y. MAYAUD, « De l’art. 121-3 du code pénal à la théorie de la culpabilité en matière criminelle et délictuelle », Recueil Dalloz, 1997, chronique, p. 37, dove può leggersi « La responsabilité pénale est faite d’imputabilité et de culpabilité[...]. La théorie de la responsabilité se nourrit de ces deux données, avec l’imputabilité pour fondement et la culpabilité pour mesure »; ID., L’intention dans la théorie du droit pénal, in Problèmes actuels de science criminelle, XII, Presses Universitaires d’Aix-Marseille, 1999, pp. 58-59; cfr. anche J.
— 958 — bilità quale componente che attribuisce alla colpevolezza il suo più completo significato di atteggiamento soggettivo riprovevole (60), lungi dall’introdurre prospettive innovative, finiscono con il confermare l’opinione prevalente secondo cui il giudizio di imputabilità — traducendo l’« aptitude à la sanction », la capacità del soggetto agente di rispondere del proprio atto illecito — sarebbe logicamente successivo non solo all’accertamento di una condotta penalmente illecita sul piano oggettivo ma anche alla constatazione di una faute, cioè della presenza di una colpevolezza in senso stretto (61). Ben oltre l’« aptitude à la sanction », nella prospettiva della teoria unitaria dell’infraction, quale azione che per definizione ha insito in sé anche la componente umana, l’imputabilità, prima ancora di determinare la responsabilità dell’agente, rivelando la sua capacità di intendere e la libertà dell’agire, assurgerebbe al ruolo fondamentale di indicare ‘il penalmente rilevante’, rappresentando l’« aptitude pénale » che condiziona l’esistenza stessa del reato. Espressione della presenza nell’autore della « coscienza di ciò che fa e della volontà di realizzarlo », l’imputabilità permetterebbe infatti di attestare quando una certa modifica del mondo esterno presenti quella soglia minima di ‘umanità’ da ‘interessare’ il diritto penale, configurando una ‘azione’ e non un semplice ‘evento’ (62). L’assenza di imputabilità comporterebbe pertanto l’assenza del reato. Se, in posizione logicamente opposta a tale indirizzo, per coloro i quali considerano la colpevolezza al di fuori del reato, intesa come entità esclusivamente oggettiva, la mancanza di imputabilità non impedisce il configurarsi del reato ma preclude unicamente la dichiarazione di responsabilità e la susseguente irrogazione della pena (63), alla conclusione della insussistenza del reato in mancanza di imputabilità giungono invece alcuni autori sostenitori della « teoria degli elementi costitutivi » del reato per i quali, rappresentando l’imputabilità un « elemento integrante » del giudizio di colpevolezza, la sua assenza escluderebbe l’esistenza del reato, in quanto non consentirebbe la completa configurazione di uno degli elementi costitutivi, cioè l’elemento soggettivo (64). PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 404 ss.; ID., La responsabilité pénale en droit français depuis le code pénal de 1994, in Les métamorphoses de la responsabilité, Publications de la Faculté de droit et des sciences sociales de Poitiers, Paris, Presses Universitaires de France, 1997, p. 158. (60) Cfr. R. MERLE, La culpabilité devant les sciences humaines et sociales, cit., p. 31; M. PUECH, « Scolies sur la faute pénale », cit., p. 78. (61) Cfr. R. MERLE-A. VITU, Traité de droit criminel, cit., pp. 697 e 702; la valutazione inerente all’imputabilità viene collocata come momento successivo al giudizio di culpabilité anche in G. STEFANI-G. LEVASSEUR-B. BOULOC, Droit pénal général, ed. ult. cit., pp. 315-316; tra le prime opinioni in tal senso, cfr. R. GARRAUD, Traité théorique et pratique de droit pénal français, cit., p. 267. (62) Tale « absorption de l’imputabilité par la notion d’action » è ampiamente sviluppata in A.-Ch. DANA, Essai sur la notion d’infraction pénale, cit., pp. 49 e 60-61. Da notare che, argomentando nei termini riportati nel testo, l’autore sovrappone i due concetti di « coscienza e volontà » e di « capacità di intendere e di volere » che nell’ordinamento italiano hanno ruoli molto diversi, il primo attinente all’azione, il secondo al giudizio di colpevolezza dell’agente, cfr. in proposito M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, cit., art. 42, pp. 391-392, dove, nella parte dedicata all’analisi del 1o comma dell’art. 42 - « Nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà » - l’autore sviluppa il concetto di « coscienza e volontà » come suitas, cioè il « coefficiente di umanità minimo »; e ID., in M. ROMANO-G. GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, II, Milano, Giuffrè, 1996, pre-art. 85, pp. 5-6, dove l’autore mette in luce proprio la differenza tra « coscienza e volontà », concetto attinente al fatto tipico e « capacità di intendere e di volere » come capacità di colpevolezza. (63) Cfr. R. MERLE-A. VITU, Traité de droit criminel, cit.; J. PRADEL, Droit pénal général, cit. (64) Espliciti in tal senso, Ph. CONTE-P. MAISTRE DU CHAMBON, Droit pénal général, cit., p. 189.
— 959 — Il diverso approccio propugnato dalle principali correnti di pensiero della dottrina penalistica francese potrebbe allora avere una ripercussione essenziale nella scelta del momento in cui il giudice deve porsi per formulare il giudizio di imputabilità: una volta svincolato tale giudizio dagli elementi costitutivi dell’infraction, potrebbe non essere ritenuto più necessario per il giudice porsi al momento della commissione del reato ma potrebbe divenire più significativo lo status dell’agente al momento del processo, e più precisamente al momento della decisione sulla sanzione. Il riferimento alla nozione criminologica di « capacità penale », intesa come « attitudine a trarre profitto dalla sanzione », nozione ripresa più o meno esplicitamente da gran parte della penalistica francese, realizza proprio un tale spostamento logicotemporale dell’oggetto della valutazione del giudice. Tale soluzione, d’altronde, presenterebbe il merito, di fondamentale rilievo per la dottrina francese, di fornire una risposta adeguata a preoccupazioni di natura spiccatamente criminologica (65). Alla luce dei risultati degli studi sulla psiche criminale, ed in generale sui meccanismi che regolano l’agire umano, molteplici sono le critiche riguardo al concetto giuridico di imputabilità che farebbe riferimento a fattori, quali la maturità psichica, come capacità di distinguere il bene dal male, e la libertà del volere che, richiamando l’insolubile problematica del libero arbitrio, non sarebbero concretamente attendibili al fine di valutare, secondo l’etimologia del verbo latino imputare, la piena attribuibilità e riconducibilità in senso psicologico della condotta all’agente (66). Partendo dall’assunto che il libero arbitrio sia solo un mito, in quanto in realtà la volontà è influenzata da fattori naturali diversi di ordine fisico, psicologico ed anche sociale, la responsabilità penale cessa di essere, in un’ottica criminologica, una responsabilità personale e soggettiva per diventare una responsabilità sociale nell’ambito della quale la reazione di difesa della società sarebbe giustificata ogni qualvolta la condotta dell’agente abbia turbato l’ordine sociale, risultando peraltro irrilevante il fatto che una tale condotta sia stata posta in essere da un soggetto giuridicamente non imputabile (67). In tale ricostruzione, la prospet(65) Cfr. J. PINATEL, « Biologie et responsabilité », Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1968, p. 572 ss.; P. STANCIU, « La capacité pénale », Revue de droit pénal et de criminologie, 1938, p. 854. Nella dottrina italiana, tale concezione pare essere ormai del tutto desueta. Il concetto di capacità penale si ritrova in M. GALLO, Capacità penale, in Novissimo Digesto Italiano, II, 1958, p. 880 ss.; R. DELL’ANDRO, Capacità penale, in Enciclopedia del diritto, VI, 1960, p. 104 ss. dove però tale categoria è riferita all’idoneità a porre in essere un fatto penalmente rilevante e cioè all’insieme di condizioni per cui un uomo può considerarsi soggetto di diritto penale; concetto, quello della capacità penale, tenuto ben distinto dalla nozione di imputabilità indicante proprio la condizione soggettiva rilevante perché possa sorgere il rapporto punitivo. Nel senso di una imputabilità quale « qualifica necessaria affinchè l’autore sia assoggettabile a pena » - che raggiunge peraltro, nonostante un’evidente discordanza terminologica, l’idea riportata nel testo -, si esprime anche, più di recente, F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, cit., pp. 615-616; conseguenza necessaria di una tale impostazione, l’imputabilità si impone quale categoria autonoma, non riconducibile a componente e neanche a presupposto della colpevolezza, da accertare successivamente all’esame dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato (pp. 324-327). (66) Nel senso di ritenere il ricorso al metodo della sociologia giuridica l’unica via atta a ricostruire in modo coerente e realistico i concetti di imputabilità, colpevolezza e responsabilità, cfr. R. OTTENOF, « Imputabilité, culpabilité et responsabilité », cit., p. 71 ss. (67) Il graduale affermarsi, sotto l’impulso dei contributi di filosofi e studiosi delle scienze sociali, di teorie più o meno scopertamente deterministiche che, denunciando come pura metafisica il principio del libero arbitrio, negherebbero ogni base ontologica alla essenziale componente del « poter agire diversamente », ha sensibilmente incrinato i fondamenti della concezione classica della colpevolezza anche nell’ambito della dogmatica italiana, mettendo in discussione l’elemento legittimante il giudizio di riprovevolezza del fatto e quindi il rimprovero del suo autore. La categoria dogmatica della colpevolezza conoscerebbe pertanto una vera e propria « crisi di identità », lasciando spazi sempre più ampi ad una dilatazione della « domanda di funzione » ad essa attribuita nella dialettica tra Stato di diritto e Stato so-
— 960 — tiva della difesa della società prevale sulla punizione del soggetto, divenendo rilevante, ai fini dell’intervento sanzionatorio, anche il semplice stato di « pericolosità sociale », non accompagnato dalla piena realizzazione di un comportamento penalmente illecito. Il passaggio, nell’ambito della problematica della legittimazione dell’intervento sanzionatorio, dal concetto di imputabilità a quello di capacità penale, secondo i criminologi, oltre a trovare un riscontro empirico nel dato oggettivamente rilevabile che in certi contesti si dispongono sanzioni nei confronti di soggetti non imputabili, quali minori o malati mentali — segno questo che si confida comunque in una efficacia della sanzione su tali soggetti —, troverebbe anche un suo fondamento dogmatico nell’evoluzione dalla concezione retributiva alla concezione risocializzante della pena. In un’ottica di rieducazione e di risocializzazione, non rileverebbe più, o non rileverebbe più esclusivamente, che l’agente sia capace di intendere e di volere al momento dell’atto — valutazione da cui dipende, tra l’altro, la rimproverabilità del suo comportamento —, ma piuttosto che egli sia o meno in grado di comprendere il senso della sanzione e di trarre profitto dalla sua esecuzione, rendendo possibile quest’ultima un rafforzamento del senso di responsabilità. La responsabilità diventa cioè, coerentemente con tale impostazione, un punto di arrivo e non più un punto di partenza (68). Pur nella convinzione, condivisa d’altronde da molti penalisti, della necessità che le nozioni astratte di « colpevolezza », di « faute », di « libero arbitrio » siano ripensate in un contesto idoneo a conferire a tali concetti una « réalité vécue » (69), la voce della dottrina penalistica francese, tuttavia, si leva pressochè concorde nel ritenere assolutamente in contrasto con l’esigenza di certezza giuridica la possibilità che il giudice sia chiamato, in assenza di criteri strumentali precisi e rigorosi, che nessuna delle teorie criminologiche sarebbe finora riuscita a proporre, a calarsi nell’« universo ambiguo della faute » (70); verifica di contro auspicabile, secondo alcuni, al fine di cogliere « l’unità dinamica della coscienza » che, collocando i dati intellettuali e volitivi manifestatisi al momento della realizzazione del reato nell’ambito di un « processo psicologico continuo », è contrapposta all’atomismo psicologico della penalistica tradizionale; secondo altri — ma le due prospettive potrebbero essere complementari —, al fine di valutare la « coscienza da parte dell’agente della propria colpevolezza » (71). ciale, cfr. L. EUSEBI, « Il futuro del principio penalistico di colpevolezza. Note a margine ad un contributo di Günter Stratenwerth », Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1982, pp. 245-246. (68) Per questi rilievi, cfr. R. MERLE-A. VITU, Traité de droit criminel, cit., pp. 699700. Per un’efficace sintesi delle tesi ispirate, inter alia, alla teoria sistemica di Luhmann, alla luce delle quali la colpevolezza, a seguito di un processo di normativizzazione esasperata, risulta interamente determinata dalla finalità di mantenere la generale fiducia nel precetto legislativo, sostanziandosi in un giudizio di ascrizione basato sulla delusione delle aspettative normative, cfr. G. FIANDACA, « Considerazione su colpevolezza e prevenzione », cit., pp. 860-861. (69) Cfr. M.-C. DEBUYST, Les conceptions criminologiques de la culpabilité, in AA.VV., La culpabilité, Travaux du Colloque international du cinquantenaire de l’Institut de criminologie et de sciences pénales de Toulouse (22-27 septembre 1975), Annales de l’Université de Sciences Sociales de Toulouse, tome XXIV, 1976, p. 166. (70) Cfr. R. MERLE, « La culpabilité devant les sciences humaines et sociales », cit., p. 37. La fondamentale importanza, sotto il profilo garantistico, del mantenimento delle categorie tecniche della dogmatica, pur nella necessità di un’apertura alle conclusioni degli studi criminologici, è sottolineata da J. PINATEL, Rapport introductif, in AA.VV., Confrontation de la théorie générale de la responsabilité pénale avec les données de la criminologie, cit., p. 24; l’apertura alla criminologia è auspicata anche da G. LEVASSEUR, Étude de l’élément moral de l’infraction, cit., pp. 96-97, il quale sottolinea la necessità di preservare il tipico ruolo normativo del diritto penale e la specifica funzione sociale, evitando che esso finisca con l’essere snaturato in una « science des formes pathologiques ». (71) Cfr. R. MERLE, « La culpabilité devant les sciences humaines et sociales », cit., pp. 35-37; M. PUECH, « Scolies sur la faute pénale », cit., p. 79.
— 961 — Il panorama non può se non presentarsi alquanto confuso anche per quanto concerne le cause di esclusione dell’imputabilità. Se, analogamente a quanto previsto in diritto penale italiano, la dottrina penalistica francese concorda nell’indicare come cause di inimputabilità la malattia mentale e la minore età, queste vengono però considerate operanti esclusivamente sul « discernement » (72), sulla « lucidité » (73), cioè sulla componente della « faculté de comprendre » (74), della « capacità di intendere », mentre la componente della « capacità di volere », che implica la libertà dell’agire, sarebbe inficiata, secondo l’opinione pressoché unanime, dalla contrainte, la violenza fisica o morale che, allorquando presenti le condizioni dell’irresistibilità e dell’imprevedibilità, intesa quest’ultima come assenza di una colpa anteriore dell’agente, farebbe venir meno la libertà del volere, escludendo l’imputabilità (75). Le difficoltà di configurare la violenza come causa di non imputabilità emergono comunque nella ricostruzione di alcuni autori i quali, pur procedendo all’esame della contrainte nell’ambito delle cause di esclusione della ‘libertà’ della condotta, finiscono con l’affermare che essa inciderebbe, prima che sulla imputabilità, sulla « volontà di agire » come « volonté infractionnelle » che, congiuntamente alla « conscience infractionnelle », permetterebbe di formulare il giudizio di colpevolezza dell’agente (76). Nella stessa direzione, quella cioè di ‘spostare’ l’operatività della violenza dal piano dell’imputabilità a quello della colpevolezza, si muovono alcuni autori i quali, pur esaminando la contrainte accanto alla malattia mentale — optando per una unicità di collocazione fondata sull’asserita comunanza di risultati, cioè l’esclusione della responsabilità —, precisano comunque che, se in caso di malattia mentale è la soglia minima dell’imputabilità a non essere raggiunta, nel caso della contrainte l’esclusione della responsabilità sarebbe da imputare piuttosto all’assenza di dolo dell’agente in quanto, pur avendo egli potuto comprendere il significato del suo atto, la contrainte escluderebbe ogni libertà del volere e dell’agire (77). In tale contesto, una notazione particolare merita il dato per cui rilevante dottrina colloca nell’ambito dell’esame delle cause di esclusione della responsabilità, accanto all’analisi della malattia mentale e della contrainte, anche lo studio dell’errore (78). Per la maggior parte degli autori che si esprimono in tal senso, una tale collocazione sembra comunque rispondere piuttosto a scelte di ‘sistematizzazione’ della trattazione, fondate su un’implicita esigenza di analizzare insieme tutte le cause di esclusione della responsabilità. In realtà, anche in tali autori, non si rinviene mai l’affermazione che l’errore costituirebbe una causa di esclusione dell’imputabilità ma solo che esso, al pari della malattia mentale o della contrainte, preclude la possibilità della formulazione di un giudizio di responsabilità penale dell’agente. Pur senza seguire la posizione di chi procede all’esame dell’errore al momento di analizzare i diversi criteri di imputazione, nella considerazione che, in presenza dell’errore, sono questi in primo luogo a non configurarsi (79), gli stessi autori ac(72) Cfr. Ph. CONTE-P. MAISTRE DU CHAMBON, Droit pénal général, cit., p. 190 ss. (73) Cfr. R. MERLE-A. VITU, Traité de droit criminel, cit., p. 712. (74) Cfr. A.-Ch. DANA, Essai sur la notion d’infraction pénale, cit., pp. 74-138. (75) Cfr. A.-Ch. DANA, Essai sur la notion d’infraction pénale, cit., pp. 138-152; R. MERLE-A. VITU, Traité de droit criminel, cit., pp. 703-725; J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 421 ss.; Ph. CONTE-P. MAISTRE DU CHAMBON, Droit pénal général, cit., p. 195 ss. (76) Cfr. R. MERLE-A. VITU, Traité de droit criminel, cit., p. 704. (77) Cfr. G. STEFANI-G. LEVASSEUR-B. BOULOC, Droit pénal général, ed. ult. cit., p. 347. (78) Ivi, p. 360 ss.; J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 428 ss. Per un esame approfondito della questione, vedi infra § 5. (79) Cfr. R. MERLE-A. VITU, Traité de droit criminel, cit., pp. 657-668; Ph. CONTE-P. MAISTRE DU CHAMBON, Droit pénal général, cit., p. 213; F. DESPORTES-F. LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, cit., pp. 387-388, i quali però tengono distinti l’errore di fatto, che escluderebbe il dolo, e l’errore di diritto, da considerarsi esclusivamente come « cause d’irresponsabilité pénale » che consente eccezionalmente, sulla base di condizioni particolarmente
— 962 — cennano al fatto che la relativa operatività si esplicherebbe all’interno del dolo escludendo quindi l’elemento soggettivo (80). 3.2. I criteri di imputazione soggettiva. — Il rapido esame fin qui sviluppato, nel tentativo di realizzare una presentazione quanto più possibile chiara ed esaustiva, sebbene necessariamente sintetica, della colpevolezza quale componente del reato nella dottrina francese, non può ritenersi esaurito senza che venga fatto un seppur breve cenno sui criteri di imputazione soggettiva. Pur tralasciando la delicatissima problematica della faute contraventionnelle, che sarà oggetto di una specifica trattazione nel presente lavoro, l’analisi dei criteri di imputazione presenta profili di sicuro interesse. L’art. 121-3, prima consacrazione normativa di carattere generale dei criteri di imputazione soggettiva del reato, che rappresenta, per tale ragione, una delle norme più significative nell’impianto del codice del 1994, è stato a più riprese al centro di intensi dibattiti dottrinali e soprattutto di recenti quanto sensibili modifiche legislative (81). Disponendo che « il n’y a point de crime ou de délit sans intention de le commettre », l’art. 121-3, 1o comma, del codice penale francese individua il dolo quale criterio generale di imputazione per crimini e delitti (82). Escluse per i crimini e subordinate ad espressa previsione normativa per i delitti sono invece l’imputazione a titolo di colpa e quella di mise en danger délibérée de la personne d’autrui. Originariamente unite nell’unica disposizione del 2o comma dell’art. 121-3 (83), tali forme di responsabilità hanno fatto l’oggetto di riflessioni teoriche e giurisprudenziali che hanno ben presto rivelato problematiche e questioni normative radicalmente diverse, rispetto alle quali la comune previsione rischiava di rivelarsi sensibilmente costrittiva. La legge n. 96-393 del 13 maggio 1996 (84) sancisce così la definitiva ‘spaccatura’ normativa tra mise en danger e responsabilità per negligenza o imprudenza (alle quali viene aggiunta l’ipotesi di « violazione di un obbligo specifico di prudenza o di sicurezza previsto dalla legge o dai regolamenti »), soluzione confermata dal più recente intervento legislativo del 10 luglio 2000 (85). restrittive, di superare la presunzione di conoscenza insita nell’adagio nemo censetur legem ignorare (p. 544 ss.). (80) Cfr. G. STEFANI-G. LEVASSEUR-B. BOULOC, Droit pénal général, ed. ult. cit., p. 347. (81) Per una posizione marcatamente critica sulla formulazione dell’art. 121-3, cfr. M.-L. RASSAT, Libre propos sur le Nouveau Code Pénal, in AA.VV., Problèmes actuels de science criminelle, Presses Universitaires d’Aix-Marseille, 1994, p. 1 ss.; posizione critica confermata, d’altronde, in seguito alle modifiche legislative apportate al testo originario, cfr. ID., « Du code pénal en général et de l’art. 121-3 en particulier (après la loi n. 96-393 du 13 mai 1996) », Juris-Classeurs, Droit Pénal, juillet 1996, pp. 1-2; di contro, apertamente concorde con le scelte legislative, Y. MAYAUD, « De l’art. 121-3 du code pénal à la théorie de la culpabilité en matière criminelle et délictuelle », cit., p. 37 ss. (82) Eludendo i suggerimenti di buona parte della dottrina, favorevole ad un accostamento alla classificazione bipartita dei reati adottata dalla maggioranza delle codificazioni europee, il codice del 1994 ha reiterato all’art. 111-1 il disposto dell’art. 1 del codice del 1810, confermando la tradizione penalistica francese della tripartizione degli illeciti penali in crimes, délits e contraventions, tripartizione cui fa da pendant una ripartizione delle competenze tra organi giurisdizionali (Cour d’Assise per i crimes, tribunaux correctionnels per i délits e tribunaux de police per le contraventions). Il codice del 1994 recepisce però la giurisprudenza del Conseil Constitutionnel sul principio della « nécessité des peines », mutando il criterio formale fondante la tripartizione dal tipo di pena alla diversa gravità dei reati. (83) Nella versione del 1994, l’art. 121-3, 2o comma, recitava « Toutefois, lorsque la loi le prévoit, il y a délit en cas d’imprudence, de négligence ou de mise en danger délibérée de la personne d’autrui ». (84) Loi n. 96-393, JO 14 mai 1996, p. 7211. (85) Loi n. 2000-647, JO 11 juillet 2000, p. 10484.
— 963 — Caratterizzata dalla violazione consapevole di regole cautelari, poste esclusivamente a tutela della vita e dell’integrità personale, la mise en danger, che richiama la delicata problematica della definizione della responsabilità nelle fattispecie di esposizione a pericolo, parrebbe essere concepita nel sistema francese come autonoma forma di responsabilità (86). Criticata da alcuni autori che vorrebbero la mise en danger una variante della responsabilità colposa, di sicuro interesse dottrinale e giurisprudenziale, ma di applicazione strettamente limitata ad alcune ipotesi di parte speciale (87), la previsione, nell’ambito della disposizione di parte generale consacrata alla definizione delle possibili forme dell’elemento soggettivo, della mise en danger come autonoma forma di responsabilità avrebbe, secondo altri, il pregio di esaltare lo spirito della riforma codicistica in tema di responsabilità, mettendo in luce, attraverso una previsione più dettagliata delle diverse manifestazioni e gradazioni della responsabilità, il carattere primario del principio di colpevolezza (88). Pur senza voler manifestare l’adesione alla prima delle suddette posizioni, in assenza di una norma definitoria della mise en danger, come degli altri criteri di imputazione soggettiva del reato, il rinvio alla parte speciale — ed in particolare al reato di « risque causé à autrui » ex art. 223-1, anch’esso novità del 1994 (89) — si impone al fine di reperire alcuni riferimenti necessari all’esatta individuazione di tale criterio di imputazione. Sollecitata soprattutto dal preoccupante aumento degli incidenti nel settore del lavoro e della circolazione automobilistica, la fattispecie in questione, formulata come delitto-ostacolo, ruota attorno alle due componenti essenziali dell’esposizione a rischio dei beni della vita o dell’integrità fisica e della violazione « manifestement délibérée » di una specifica norma cautelare che abbia, per l’appunto, originato l’esposizione a pericolo di tali beni (90). Combinando la volontarietà della violazione della norma cautelare con l’assenza della ricerca del risultato lesivo, la previsione della mise en danger délibérée come autonomo criterio di imputazione, lungi dall’aver avuto come effetto lo stimolo alla costruzione dogma(86) Dinanzi alle difficoltà, ripetutamente riscontrate dalla dottrina e confermate dalle soluzioni talvolta incoerenti della giurisprudenza, di fornire un solido ancoraggio alle figure tenute tradizionalmente distinte del dolo eventuale e della colpa con previsione, anche nella penalistica italiana non mancano posizioni sensibili alle sollecitazioni provenienti da ordinamenti stranieri — in primo luogo il sistema anglosassone con l’istituto della recklessness — all’introduzione di una forma di imputazione soggettiva intermedia che sancisca il superamento delle diatribe teorico-pratiche al riguardo; cfr., A. MELCHIONDA, Definizioni normative e riforma del codice penale (spunti per una rinnovata riflessione sul tema), in AA.VV., Omnis definitio in iure periculosa? Il problema delle definizioni legali nel diritto penale, a cura di A. CADOPPI, Padova, CEDAM, 1996, p. 428; V. ANGIONI, Le norme definitorie e il progetto di legge delega per un nuovo codice penale, in AA.VV., Il diritto penale alla svolta di fine millennio. Atti del Convegno in ricordo di Franco Bricola (Bologna, 18-20 maggio 1995), a cura di S. CANESTRARI, Torino, Giappichelli, 1998, pp. 193-194; G. FORTE, « Ai confini fra dolo e colpa: dolo eventuale o colpa cosciente? », Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1999, pp. 276-277. La previsione di nuove forme di volontà colpevole, che si collochino in una posizione intermedia tra dolo e colpa, si imporrebbe nella prospettiva di un sistema penale europeo, costruito essenzialmente sul ‘tipo’ di reato economico, cfr. C.E. PALIERO, « La fabbrica del Golem. Progettualità e metodologia per la « Parte Generale » di un Codice Penale dell’Unione Europea », in questa Rivista, 2000, p. 504. (87) Cfr. M.-L. RASSAT, « Du code pénal en général et de l’art. 121-3 en particulier (après la loi n. 96-393 du 13 mai 1996) », cit., p. 2. (88) Cfr. Y. MAYAUD, « De l’art. 121-3 du code pénal à la théorie de la culpabilité en matière criminelle et délictuelle », cit., p. 39. (89) L’esplicita previsione dell’elemento soggettivo del « manquement délibéré à une obligation de sécurité, ou de prudence [...] » si ritrova, quale circostanza aggravante anche nelle ipotesi di omicidio colposo (art. 221-6, 2o comma) e di lesioni colpose (artt. 222-19, 2o comma, e 222-20). (90) Cfr., in generale, D. MAYER, La mise en danger des personnes, in AA.VV., Problèmes actuels de science criminelle, VIII, Presses Universitaires d’Aix-Marseille, 1995, p. 55 ss.
— 964 — tica di una terza forma di responsabilità corrispondente ad un tertium genus psicologico, sembra aver esclusivamente ingenerato nella dottrina e nella giurisprudenza l’interrogativo se ad essere stato consacrato al 2o comma dell’art. 121-3 sia stata una particolare forma di responsabilità colposa o dolosa. Se l’affermazione per cui l’art. 121-3 (come l’art. 223-1) avrebbe consacrato il dol éventuel è condivisa da gran parte della dottrina (91), essa non risolve tuttavia la questione. Lungi dall’aderire alla distinzione elaborata dalla dottrina tradizionale tedesca ed italiana tra « dolo eventuale » e « colpa cosciente », dove la previsione della possibilità di realizzazione dell’evento dannoso, presente in entrambe, solo nella prima ipotesi è accompagnata da un’accettazione del rischio della sua produzione e quindi ad un’estensione, seppur ridotta, della volontà della condotta al risultato (92), la nozione di dol éventuel, consacrata dalla (91) Cfr., tra gli altri, J. PRADEL-M. DANTI-JUAN, Droit pénal spécial, Paris, Cujas, 1995, p. 117; G. STEFANI-G. LEVASSEUR-B. BOULOC, Droit pénal général, ed. ult. cit., p. 239; R. MERLE-A. VITU, Traité de droit criminel, cit., p. 754; J. CEDRAS, « Le dol éventuel: aux limites de l’intention », Dalloz, 1995, chronique, p. 18, dove l’autore propone, tra l’altro, una lettura differenziata delle ipotesi codicistiche ritenute consacrazione del dol éventuel: se nelle fattispecie di circostanze aggravanti (artt. 221-6, 2o comma, 222-19, 2o comma, e 22220) la previsione del carattere délibéré attribuito esclusivamente alla violazione della norma cautelare rinvierebbe al concetto di dol éventuel come « renforcement de la faute », nell’ipotesi dell’autonomo reato di « risques causés à autrui », dove il carattere manifestement délibéré abbraccerebbe non solo la violazione della precisa regola cautelare ma anche l’esposizione a rischio della vita e integrità altrui, si assisterebbe ad una vera e propria « metamorfosi » del dol éventuel che da forma grave di responsabilità colposa verrebbe consacrato quale forma di dolo; un’interpretazione differenziata delle ipotesi di dol éventuel formulate nel codice del 1994 si trova anche in E. FORTIS, « Les infractions du droit pénal créées ou remaniées », Droit social, 1994, p. 625; decisamente contraria alla ritenuta codificazione del dol éventuel nella previsione della mise en danger délibérée, M.-L. RASSAT, Droit pénal spécial, Paris, Dalloz, 1999, p. 299. Sebbene alla luce di considerazioni differenti, critico riguardo al frequente richiamo alla categoria dottrinale del dol éventuel anche Y. MAYAUD, « De l’art. 121-3 du code pénal à la théorie de la culpabilité en matière criminelle et délictuelle », cit., p. 40; ID., La volonté à la lumière du nouveau code pénal, in Mélange en l’honneur de Jean Larguier, Presses Universitaires de Grenoble, 1993, pp. 210-211. (92) Tuttora prevalente nella letteratura italiana e d’oltralpe (cfr., tra gli altri, per la dottrina italiana, G. DE FRANCESCO, « Dolo eventuale e colpa cosciente », Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1988, p. 113 ss.; G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, cit., pp. 321-324; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., pp. 320-323; M. ROMANO, Commentario sistematico al codice penale, I, cit., art. 43, pp. 412-413; e, seppur in forma parzialmente critica, cfr., S. PROSDOCIMI, Dolus eventualis, Milano, Giuffrè, 1993; A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., pp. 275-282, dove decisiva viene ritenuta non l’accettazione in sé della possibile verificazione dell’evento ma l’« opzione » che essa rivela per il sacrificio eventuale del bene), la teoria — compiutamente enunciata da Marcello Gallo (Il dolo, oggetto e accertamento, in Studi urbinati, 1951-52, p. 217 ss.) — della definizione della distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente fondata sull’operatività del binomio concettuale accettazione della possibile verificazione/convinzione della non verificazione dell’evento, è stata recentemente rimessa in discussione da S. CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, Milano, Giuffrè, 1999. La ricostruzione tradizionale, basata su un dato distintivo rilevante esclusivamente sul piano soggettivo, non avrebbe permesso di evidenziare, secondo l’autore, la differenza esistente tra le due ipotesi in questione anche sul piano oggettivo, differenza strutturale riferibile ad una diversa « qualità di rischio » richiesta, che rinnega quindi la presunta ‘contiguità’ oggettiva tra le due ipotesi. Espressione, coerentemente con la sua appartenenza alla responsabilità dolosa, di una vera e propria rottura con l’ordinamento, il dolo eventuale non si caratterizzerebbe rispetto alle forme di dolo intenzionale e diretto in termini di deficit cognitivo e volitivo, ma ‘positivamente’ per una dimensione del rischio tipico esclusiva di tale figura. Se infatti la colpa cosciente registrerebbe ipotesi di deviazione dell’agente concreto da un modello di comportamento delineato alla luce dell’agente-modello (costruito sulla base della tipologia sociale di riferimento), elemento tipico del dolo eventuale sarebbe invece un rischio che fuo-
— 965 — dottrina e giurisprudenza tradizionali francesi, si attesta su un concetto più ampio e quindi anche più ‘neutro’ (93). Definito di volta in volta come la situazione soggettiva di chi « sapendo che il proprio comportamento potrebbe ledere un certo bene o realizzare una situazione illecita, pur senza averne la certezza, persiste tuttavia nel porlo in essere » (94), o come lo stato psicologico dell’agente che « senza ricercare il risultato, lo prevede come possibile » (95) o che « ha potuto ragionevolmente prevedere il risultato ma non l’ha in alcun modo auspicato » (96), la nozione di dol éventuel si presenta per la sua ampiezza idonea a ricomprendere forme di responsabilità astrattamente riconducibili, nella ricostruzione dogmatica italiana tradizionale, sia ad ipotesi di colpa con previsione che di dolo eventuale, con la conseguenza di ridurre la sua ‘specificità’ al fatto di indicare uno stato soggettivo intermedio tra dolo e colpa ‘semplice’ (97). Ritenuta per lo più una categoria puramente teorica e dalla denominazione scarsamente significativa, il dol éventuel viene comunque tradizionalmente considerato dalla dottrina e giurisprudenza francesi quale manifestazione più grave della colpa (98). Necessariamente permeato dalla scelta terminologica fatta dal legislatore del 1994 che consacra come forma primaria di responsabilità penale l’intention — tradizionalmente considerata coincidente, al di là del dato semantico, con il dolo generico —, cui viene contrapposta la responsabilità per imprudence o négligence, il dibattito sull’individuazione dell’esatta natura della mise en danger délibérée può essere ricondotto alla questione di una possibile riesce ab origine da qualunque figura astratta di agente-modello, e che sarebbe ricostruibile esclusivamente tenendo conto delle effettive conoscenze e possibilità psicofisiche dell’agente concreto. (93) Contra M.-L. RASSAT, Droit pénal spécial, cit., p. 299, dove l’autore mette ben in evidenza la pregnanza dell’accettazione del rischio quale componente caratterizzante il dol éventuel che ne comporta pertanto la trattazione nelle forme di responsabilità dolosa. (94) J.H. ROBERT, Droit pénal général, Paris, Presses Universitaires de France, 1999, p. 315. (95) J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 447. (96) W. JEANDIDIER, Droit pénal général, Paris, Montchrestien, 1991, p. 362. (97) Cfr. G. ACCOMANDO-C. GUERY, « Le délit de risque causé à autrui ou de la malencontre à l’art. 223-1 du nouveau code pénal », Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1994, pp. 684-685, che sottolineano peraltro come l’assenza di ben definiti parametri distintivi tra dol éventuel e faute avec prévoyance, sarebbe comunque frutto di una scelta consapevole dell’ordinamento francese; G. STEFANI-G. LEVASSEUR-B. BOULOC, Droit pénal général, ed. ult. cit., p. 238. Così intesa, la nozione di dol éventuel si rivelerebbe non solo poco pregnante ma anche fuorviante come termine psicologico di raffronto del concetto di mise en danger délibérée riguardo alla quale la componente della produzione volontaria di uno stato di pericolo denoterebbe una forma di colpevolezza addirittura più grave, cfr. P. COUVRAT, « La responsabilité pénale dans le nouveau code », in AA.VV., Problèmes actuels de science criminelle, Presses Universitaires d’Aix-Marseille, 1996, vol. IX, pp. 45-46; ID., La responsabilité et le nouveau code pénal, in AA.VV., Métamorphoses de la responsabilité, Droit et culture, 1996, p. 102. Particolarmente eloquente, nel senso dell’assenza di una precisa demarcazione all’interno delle ipotesi intermedie tra dolo e colpa, l’affermazione di J. CEDRAS, « Le dol éventuel aux limites de l’intention », cit., p. 18, che dopo aver descritto il dol éventuel come « l’élément moral de l’indiscipline désinvolte et périlleuse ou du risque téméraire » giunge alla conclusione che « le dol éventuel est donc une imprévoyance consciente »; richiama invece la differenza concettuale tra dol éventuel e faute consciente, fondata non sull’accettazione del rischio propria del dolo eventuale (che rimane invece caratterizzato da un’indifferenza consapevole riguardo al possible danno) ma sulla convinzione propria della colpa cosciente che il risultato non si realizzi, J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 452. In entrambi i casi, comunque, ci si troverebbe dinanzi a gradazioni diverse della responsabilità colposa. (98) Definisce il dol éventuel quale « imprudence aggravée », « le degré plus élevé de faute pénale juste au dessous de la faute intentionnelle », J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 447.
— 966 — ‘dissociazione’ della volontarietà della condotta quale componente intrinsecamente esclusiva della responsabilità dolosa, non nella prospettiva della configurazione di un tertium genus di responsabilità ma di una sua ‘degradazione’ a manifestazione di responsabilità colposa, seppur evidentemente di grave intensità. Sebbene contrastati da autorevole dottrina che ritiene dover rinvenire nella volontarietà della condotta posta in essere nonostante la previsione della possibilità di produzione del danno la manifestazione di « un esercizio reale della volontà » e dunque una vera e propria ostilità, indice di una responsabilità dolosa, e non la semplice indifferenza nei confronti del valore protetto (99), la maggior parte degli autori concordano nel ricomprendere la mise en danger délibérée tra le forme di responsabilità colposa, seppur contrassegnata da una « imprudence qualifiée » (100). La previsione della mise en danger délibérée, secondo alcuni autori, avrebbe addirittura determinato una fondamentale — seppur silenziosa — evoluzione nella teoria dell’intention, riguardo alla quale, la necessità di una precisa caratterizzazione rispetto al nuovo criterio di imputazione connotato da una « délibération », e quindi dalla volontà della condotta posta in essere, imporrebbe ormai inequivocabilmente la considerazione di un contenuto ulteriore rappresentato dalla volontà del risultato lesivo (101). Caratterizzata da una « volontà senza intenzione », la mise en danger délibérée per tali autori non assurgerebbe quindi alla gravità della responsabilità intentionnelle per l’assenza di una volontà diretta alla realizzazione del danno, limitandosi pertanto ad attestare una « faute volontaire », un « perseverare nella condotta negligente », vera originalità del criterio di imputazione in questione che, se giustifica la previsione di un regime specifico rispetto alla responsabilità colposa ‘ordinaria’, non può in alcun modo far nascere il principio di una equivalenza con l’intention (102). L’accettazione del rischio, pertanto, se viene richiamata dai primi a sostegno dell’affermazione del carattere seppur limitatamente intentionnel della responsabilità per mise en danger délibérée (103), viene dagli altri, quand’anche ammessa, ‘costretta’ nella funzione di semplice espressione della determinazione ad agire che non escluderebbe tuttavia il carattere (99) Cfr. M. PUECH, « De la mise en danger d’autrui », Dalloz, 1994, chronique, pp. 154-155. (100) Cfr. G. ACCOMANDO-C. GUERY, « Le délit de risque causé à autrui ou de la malencontre à l’art. 223-1 du nouveau code pénal », cit., p. 689-691. (101) Cfr. Y. MAYAUD, La volonté à la lumière du nouveau Code pénal, cit., p. 203 ss., in cui l’autore mette in evidenza i due possibili ruoli della volontà, quale « support de l’intention » e quale « renfort de la faute »; ID., L’intention dans la théorie du droit pénal, cit., p. 61. Il termine intention è sinonimo di dolo intenzionale secondo M. PUECH, « De la mise en danger d’autrui », cit., per il quale la mise en danger connoterebbe una responsabilité intentionnelle atténuée per l’assenza di una volontà diretta anche verso il risultato dannoso. (102) Cfr., Y. MAYAUD, « De l’art. 121-3 du code pénal à la théorie de la culpabilité en matière criminelle et délictuelle », cit., p. 40. La conferma del carattere essenzialmente colposo della mise en danger verrebbe, secondo l’autore, anche dal dato letterale. Oggetto di un comma separato rispetto all’intention, presentazione che costituirebbe un indizio della differente natura, la previsione della mise en danger délibérée sarebbe introdotta dall’avverbio « toutefois » che non può che confermare la natura non dolosa di tale forma di responsabilità. Anche alla luce della formulazione originale dell’art. 121-3, in cui la mise en danger era annoverata, accanto alla imprudence e négligence tra le ipotesi ‘eccezionali’ di imputazione non dolosa, la maggiore ‘prossimità’ della mise en danger alla colpa è sostenuta (almeno prima della modifica apportata dalla legge del 1996) da C. LAZERGES, « A propos des fonctions du nouveau code pénal français », Archives de politique criminelle, 1995, p. 17. (103) Particolarmente rigorosa la posizione di M. PUECH, « De la mise en danger d’autrui », cit., pp. 154-155, dove l’autore, pur non utilizzando l’espressione di « accettazione del rischio », fa indiscutibilmente riferimento ad un tale procedimento mentale asserendo la necessaria compresenza di « connaissance et détermination » per cui l’agente deve essersi rappresentato non solo la violazione della norma ma anche il pericolo di verificazione
— 967 — colposo (104). Nell’interpretazione della componente della decisione di agire malgrado la consapevolezza della possibilità di produzione dell’evento lesivo è pertanto l’aspetto dell’« indifférence immorale » (105) riguardo al risultato a prevalere rispetto al ricoscimento di una intention seppure attenuata dell’evento stesso, confermando così una ricostruzione in termini di responsabilità colposa. Oggetto di interpretazioni divergenti, tutte comunque accomunate dal riconoscimento di un qualche rapporto psicologico dell’agente nei confronti del pericolo creato dalla propria condotta, la componente dell’accettazione del rischio, peraltro, sembra essere stata assolutamente disconosciuta dalla Cour de Cassation, le cui pronunce indicherebbero, quale esclusivo referente dell’elemento soggettivo, la violazione della norma cautelare — manifestement délibérée — escludendone del tutto invece il pericolo eventualmente provocato (106). Diversità di posizioni non possono non registrarsi riguardo alla questione della natura dell’accertamento di un tale atteggiamento soggettivo dell’agente. Se la dottrina prevalente, preoccupata di assicurare l’effetto deterrente della previsione normativa, si attesta sulla necessità di un accertamento in abstracto, ritenendo doversi valutare se l’uomo medio (individu raisonnable) avrebbe potuto e dovuto rappresentarsi la possibilità di produzione dell’evento lesivo (107), il carattere délibéré sarebbe invece, secondo qualche autore, indissociabile da un giudizio in concreto, volto quindi a valutare se l’agente concreto si sia effettivamente rappresentato la possibilità di produzione di tale evento (108). dell’evento lesivo prodotto dalla realizzazione della condotta e ciononostante aver deciso di agire. L’agente deve aver avuto cioè la coscienza dell’eventuale produzione del danno. (104) Cfr. Y. MAYAUD, « De l’art.121-3 du code pénal à la théorie de la culpabilité en matière criminelle et délictuelle », cit., p. 39, dove si legge: « Elle[la mise en danger délibérée] procède d’une approche diversifiée de la faute [...], mais sans jamais quitter le terrain de la non-intention. Là est toute l’originalité de sa notion qui s’analyse comme une faute volontaire, c’est-à-dire commise en parfaite connaissance de cause de sa gravité, à l’opposé de la faute plus ordinaire dont la réalisation échappe le plus souvent à son auteur. Et de fait la faute se dédouble: soit elle relève d’une défaillance spontanée, par hypothèse étrangère à toute évaluation de sa portée, soit elle procède du défi pur et simple, pour s’apparenter à un comportement dont on accepte le risque, mais sans en vouloir la réalisation ». In modo alquanto contraddittorio, però, lo stesso testo riferisce il carattere délibéré della non-intention alla conscience du risque accompagnata dal « parti-pris de l’éviter malgré tout ». Solo la « détermination dans le risque » è pertanto ritenuta decisiva, peraltro in quanto espressione di responsabilità colposa, mentre l’accettazione o meno del rischio non è sviluppata come fattore dalla cui presenza possa rilevarsi una ‘estensione’ della volontà dalla condotta al possibile risultato lesivo. (105) Per tale espressione, cfr., H. DONNEDIEU DE VABRES, Traité de droit criminel et de législation pénale comparée, cit., p. 131. (106) Crim. 16 février 1999, Bulletin, n. 24; Crim. 9 mars 1999, Bulletin, n.34. Approvata da qualche commentatore per l’importanza che tale ricostruzione attribuirebbe all’accertamento rigoroso da parte del giudice di un preciso nesso di causalità materiale tra la violazione della specifica norma cautelare (non costituente di per sé una mise en danger) ed il rischio prodottosi che dovrà presentarsi quale conseguenza diretta ed immediata della violazione (cfr. Y. MAYAUD, Chronique de jurisprudence, Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1999, pp. 581-584), la posizione della Cour de Cassation, in nulla sensibile al dibattito dottrinale in proposito, è stata di contro criticata da chi ritiene che essa finirebbe con il privare la mise en danger del proprio carattere distintivo (cfr. B. BOULOC, Chronique de jurisprudence, Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1999, pp. 808809); cfr. anche, P. SASSOUTS, « Du contrôle, par la chambre criminelle, de l’application de l’art. 223-1 du Code pénal », Rapport de la Cour de Cassation, 1998, p. 154. Preoccupazioni riguardo al pericolo di creazione di presunzioni di colpevolezza, per la difficoltà di rinvenire parametri precisi per l’individuazione del carattere délibéré della violazione, sono espresse in M.-L. RASSAT, Droit pénal spécial, cit., p. 298. (107) Cfr., per tutti, M. PUECH, « De la mise en danger d’autrui », cit., p. 155. (108) Cfr., Y. MAYAUD, « De l’art. 121-3 du code pénal à la théorie de la culpabilité en matière criminelle et délictuelle », cit., p. 41.
— 968 — Nonostante le perplessità che l’uso del termine dol éventuel può ingenerare nel giurista italiano, il carattere fortemente restrittivo dell’ambito applicativo (ipotesi di offesa ai beni della vita e dell’integrità fisica), e soprattutto il necessario requisito della violazione di una norma cautelare, concorrrono nell’attestare non solo l’inadeguatezza della previsione della mise en danger délibérée de la personne d’autrui quale consacrazione di un tertium genus di responsabilità ma anche (analogamente a quanto ritenuto dalla dottrina francese, seppur alla luce di un ragionamento differente) il carattere tendenzialmente colposo della mise en danger délibérée (109). Se la previsione esplicita, tra i criteri generali di imputazione, della mise en danger délibérée ha avuto il merito di stimolare la riflessione dottrinale sulla portata e ‘consistenza’ di tali criteri, al fine di poter individuare l’esatta collocazione della mise en danger in un’ipotetica opera di gradazione dell’elemento soggettivo, è stata la responsabilità per negligenza o imprudenza all’origine di due importanti interventi di modifica legislativa che hanno sensibilmente inciso sulla formulazione originaria dell’art. 121-3. Individuati normativamente, nel dispositivo del 1994, mediante l’esclusivo riferimento alla imprudence ed alla négligence — termini ritenuti idonei a sintetizzare le molteplici espressioni contenute nelle diverse fattispecie di parte speciale del codice del 1810 — i contorni della faute pénale, stricto sensu intesa quale colpa, sono stati gradualmente definiti ed in qualche modo ’rimodellati’ dal duplice intervento operato dal legislatore francese nel 1996 e nel 2000. Se l’apporto della legge n. 96-393 — a seguito della quale la colpa risulta ormai costituita, oltre che in caso d’« imprudence ou négligence » anche in caso di « manquement à une obligation de prudence ou de sécurité prévue par la loi ou le règlement » (110), allorquando possa essere stabilito che l’agente « non abbia usato la normale diligenza, tenuto conto delle sue missioni o funzioni, delle competenze così come dei poteri e dei mezzi di cui egli disponeva » (111) — potrebbe essere interpretato in termini di scelta, più o meno opportuna, di politica legislativa, riguardo alla necessità di esplicitare normativamente i parametri del giudizio sotteso ad una pronuncia di responsabilità per colpa, la modifica introdotta in occasione della legge del 10 luglio 2000 si presenta senza dubbio più ‘invasiva’ (112). Con la coraggiosa determinazione di cui solo i lavori parlamentari permettono di cogliere appieno l’origine, rivelando un testo proposto e sostenuto in ossequio alla necessità di circoscrivere, a seguito di reiterate pressioni, la responsabilità dei décideurs publics (113), il legislatore del 2000, oltre ad alcuni ritocchi alla formulazione dell’art. 121-3 quale risultante (109) In tal senso anche S. CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., p. 291. (110) In realtà, la legge del 13 maggio 1996 indicava, quale fonte dell’obligation de prudence ou sécurité, « les réglements », riferimento ritenuto eccessivamente generico e passibile di interpretazioni discordanti (in particolare riguardo alla possibilità di farvi rientrare, oltre ai décrets e arrêtés dell’autorità amministrativa, anche circolari ministeriali, regolamenti professionali e regolamenti interni alle imprese). La legge del 10 luglio 2000 ha pertanto modificato tale indicazione normativa mediante il riferimento al « règlement » che usato al singolare va ad indicare esclusivamente l’atto del Governo. (111) Come nel caso riferito nella nota precedente, anche su questo punto siamo di fronte ad una ‘correzione’ operata dalla legge 2000-647 che ha sostituito all’espressione « sauf si l’auteur des faits a accompli les diligences normales [...] » la diversa formulazione « s’il est établi que l’auteur des faits n’a pas accompli les diligences normales [...] », intervento ritenuto necessario al fine di superare l’obiezione per cui, come concepita originariamente, la norma in questione sancisse un caso di inversione dell’onere della prova. Nella nuova formulazione è adesso evidente che la prova delle diligences normales incombe all’accusa. (112) Per una presentazione d’insieme degli studi e dei lavori preparatori, come anche delle proposte normative, culminati nella redazione della legge 2000-647, cfr. S. PETIT, « Une nouvelle définition des délits d’imprudence », Gazette du Palais, Dimanche 9 au mardi 11 juillet 2000, p. 2 ss. (113) Si tratta in effetti di un comune obiettivo di entrambe le leggi qui esaminate
— 969 — a seguito dell’entrata in vigore della legge del 1996, ha infatti inserito un ulteriore comma, il quarto (portando quindi l’art. 121-3 a cinque commi), consacrato all’ipotesi in cui l’agente non abbia causato il danno direttamente ma abbia tuttavia « creato o contribuito a creare la situazione che ha consentito la realizzazione del danno » o non abbia « preso le misure che avrebbero permesso di evitarlo »; la responsabilità sarà in tal caso subordinata alla presenza di una « faute agravée » risultante dal fatto di aver violato « de façon manifestement délibérée » un obbligo specifico di prudenza o sicurezza previsto dalla legge, o comunque tale da esporre altri « a un rischio di particolare gravità » che l’agente non poteva ignorare. Ben al di là del modesto — e per alcuni criticabile (114) — intervento della legge del 1996, la legge 2000-647 viene a costruire la responsabilità colposa su una duplice distinzione fondata sul binomio realizzazione diretta/indiretta del danno, da una parte, e sulla contrapposizione colpa ‘semplice’/colpa ‘qualificata’, dall’altra, dove la maggiore gravità di quest’ultima sarebbe necessitata dalla esigenza di ‘compensare’ in qualche modo il minus di una produzione ‘indiretta’ del danno. Al fine di indicare ulteriori criteri di delimitazione della responsabilità colposa, ed avventurandosi così su un terreno alquanto pericoloso, il legislatore francese costruisce una norma sulla responsabilità che risulta frutto di una difficile — se non impossibile — combinazione tra tipi di colpa e nesso di causalità (115). Ponendo come perno dell’affermazione della responsabilità colposa, e più precisamente come fattore decisivo del criterio della sua valutazione, il previo accertamento della causalità (116), l’attuale formulazione dell’art. 121-3, comma 4, non solo traspone sul piano della definizione della responsabilità le problematiche nascenti dal rinvio, piuttosto oscuro, alla distinzione, a tutt’oggi sconosciuta al diritto penale, tra realizzazione diretta del danno e realizzazione indiretta (117), ma finisce evidentemente con il collocare sul piano della colpevo(n. 96-393 e 2000-647); cfr., tra gli studi ed i lavori parlamentari che hanno preceduto i due interventi legislativi, La responsabilité pénale des agents publics en cas d’infractions non-intentionnelles, Étude adoptée par l’Assemblée Générale du Conseil d’État le 9 mai 1996, Paris, La Documentation française, 1996; La responsabilité pénale des décideurs publics, Rapport au Garde des Sceaux, Paris, La Documentation française, 2000; P. FAUCHON, « Démocratie locale et responsabilité », (Rapport de la Commission des Lois du Sénat), Les Rapports du Sénat, n. 328, 1994-1995; J.-P. DELVOYE-M. MERCIER, « Sécurité juridique, condition d’exercice des mandats locaux: des enjeux majeurs pour la démocratie locale et la décentralisation », Les Rapports du Sénat, n. 166, 1999-2000. (114) Cfr. M.-L. RASSAT, « Du code pénal en général et de l’art. 121-3 en particulier (après la loi n. 96-393 du 13 mai 1996), cit., p. 1, che sottolinea la palese incoerenza del testo che finirebbe per affermare che si risponde per negligenza « sauf si l’on a accompli les « diligences » normales de son état »; nel senso però, come si vedrà anche infra nel testo, che il riferimento alla prova delle diligences normales si accompagni esclusivamente all’ipotesi, introdotta per l’appunto dalla legge del 1996, del « manquement à une obligation de prudence ou de sécurité prévue par la loi ou les règlements », al fine di evitare che possa trattarsi di una responsabilità oggettivamente constatata sulla base della violazione della norma, cfr. J. PRADEL, Droit pénal général, cit., pp. 449-450. (115) Si tratterebbe, secondo la dottrina maggioritaria, della consacrazione della teoria della causalità adeguata, in una versione traducibile in una sorta di equazione legislativa per cui « la responsabilità penale di una persona fisica necessita di una gravità della colpa inversamente proporzionale alla prossimità delle conseguenze dannose », cfr. F. LE GUNEHEC, « Loi n. 2000-647 du 10 juillet 2000 tendant à préciser la définition des délits non intentionnels », La Semaine juridique (JCP), Éd. G., Actualité, 2000, n. 36, p. 1588. (116) La distinzione tra autore diretto e indiretto costituiva una delle proposte conclusive dello studio prima citato, realizzato nel 1996 dal Conseil d’État, distinzione successivamente ripresa, in prima lettura, dall’Assemblée Nationale, cfr. R. DOSIÈRE, Rapport, Assemblée Nationale, 29 mars 2000, n. 2266, pp. 28-29. (117) Cfr. C. ROCA, « Nouvelle définition de l’infraction non intentionnelle: une réforme qui en cache une autre plus importante », Petites affiches, 2000, n. 214, pp. 7-8; nel
— 970 — lezza problematiche più correttamente inquadrabili nell’ambito dell’imputazione oggettiva dell’evento (118). Alla luce delle suesposte considerazioni, lo studio della responsabilità colposa nella dottrina francese risulta pertanto scandito dalle diverse manifestazioni della stessa, alle quali si ricollegano ricostruzioni normative ed approcci metodologici significativamente eterogenei. Sufficiente a determinare una responsabilità colposa nel caso di realizzazione « diretta » del danno, la colpa ‘semplice’, tradizionalmente definita quale « indiscipline sociale » scaturente da una « inerzia della volontà » (119), da un « abbassamento del livello di vigilanza (120), acquista nel diritto positivo francese una connotazione fortemente normativa. Riportata da qualche autore, la ricostruzione della colpa quale forma autonoma di responsabilità, con connotati propri sul piano oggettivo quanto soggettivo che ne determinano la duplice dimensione — e pertanto la necessità di un duplice accertamento — non risulta concretamente sviluppata (121). Nella ‘coppia’ imprévoyance/indiscipline, intesa, la prima, come mancata previsione o mancato impedimento dell’evento (allorquando invece tale evento fosse prevedibile ed evitabile), la seconda come violazione di uno standard oggettivo di diligenza, è senza dubbio quest’ultima ad essere stata considerata prevalente e caratterizzante la responsabilità colposa. Se gli autori concordano nell’affermare che non ogni ‘indisciplina’, seppur violazione di un dovere di diligenza, è per ciò solo fautive, la responsabilità penale viene tuttavia fatta scaturire dal momento della produzione del fatto dannoso e pertanto dalla lesione di quei beni giuridici di particolare valore che per tale motivo hanno determinato il legislatore a prevederne una tutela anche di fronte a condotte non dolose. Sarebbe pertanto innanzitutto il rango del bene a determinare il carattere ‘riprovevole’ e quindi rimproverabile della condotta. Lungi dall’indicare, come l’espressione « appréciation in concreto » ricorrente nei dibattiti parlamentari ed usata da qualche commentatore (122) vorrebbe lasciar intendere, l’ingresso di una valutazione soggettivistica della colpa — unanimemente esclusa dalla dottrina e dalla giurisprudenza (123) — il riferimento, vera novità della legge n. 96-393, alle diligensenso che tale riferimento avrebbe introdotto nel diritto penale la nozione civilistica (e la relativa giurisprudenza) di « suite immédiate et directe » dell’art. 1151 del codice civile francese, cfr. F.G. PANSIER-C. CHARBONNEAU, « Commentaire de la loi sur la responsabilté pénale des élus », Petites affiches, 2000, n. 138, p. 7. (118) Cfr. J. PRADEL, « De la véritable portée de la loi du 10 juillet 2000 sur la définition des délits non intentionnels », Dalloz, 2000, n. 29, (Point de vue); ID., Droit pénal général, cit., p. 451; cfr., in tal senso, anche G. VINEY, Les Rapports du Sénat, n. 177, 19992000, p. 53, in cui si proponeva, quale criterio distintivo della responsabilità, l’eventuale conoscenza del rischio da parte dell’agente e la possibilità per quest’ultimo di impedirne la realizzazione. (119) Cfr. J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 452. (120) Ph. CONTE-P. MAISTRE DU CHAMBON, Droit pénal général, cit., p. 208. (121) Il riferimento alle due distinte componenti della responsabilità colposa si ritrova, appena accennato, in J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 46; Ph. CONTE-P. MAISTRE DU CHAMBON, Droit pénal général, cit., p. 208; più dettagliata la ricostruzione in F. DESPORTES-F. LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, cit., pp. 399-402. (122) Cfr., per tutti, Y. MAYAUD, « De l’art. 121-3 du code pénal à la théorie de la culpabilité en matière criminelle et délictuelle », cit., p. 42, per il quale la scelta del legislatore del 1996 avrebbe completato la profonda riforma del codice del 1994 in tema di personalità della responsabilità, superando definitivamente la soluzione dettata da una valutazione effettuata alla luce di parametri astratti, e sancendo normativamente il principio della valutazione in concreto della responsabilità colposa secondo un giudizio che consenta, in ossequio al principio di colpevolezza, di affermare la responsabilità sulla base di una faute fondata sul reale atteggiamento soggettivo dell’agente. (123) Cfr., in generale, Ph. SALVAGE, « L’imprudence en droit pénal », La Semaine juridique (JCP), 1996, I, p. 484, che mette in evidenza l’impossibilità ‘giuridica’ di una valutazione in concreto della colpa che tenga conto delle caratteristiche personali dell’agente
— 971 — ces normales definite sulla base « della natura delle missioni, o delle funzioni, delle competenze così come del potere e dei mezzi » di cui l’agente disponeva, deve essere inteso nel senso di una consacrazione codicistica dell’esigenza di una maggiore ‘concretizzazione’ e ‘caratterizzazione’ della figura dell’agente-modello, quale parametro astratto di valutazione della violazione della regola cautelare (124). Tale riferimento, senza dubbio superfluo nel caso di colpa semplice — dove l’individuazione dello standard della normale diligenza dell’agente-modello nell’ipotesi di specie è passaggio necessario al fine di definire la stessa regola cautelare di cui deve valutarsi la violazione —, acquisterebbe tutto il suo spessore nell’esplicita previsione, introdotta proprio con la legge n. 96-393, della violazione di un obbligo specifico di prudenza o sicurezza previsto dalla legge, situazione considerata fino all’entrata in vigore del codice del 1994 un’ipotesi di responsabilité matérielle (125) scaturente pertanto automaticamente dalla constatazione della semplice violazione della norma (126). concreto, in quanto essa porterebbe inevitabilmente ad escludere sempre la responsabilità; di contro, i lavori parlamentari del Sénat parrebbero rivelare l’auspicio di un vero e proprio giudizio in concreto, che riconoscesse rilevanza alla normale ‘inferiorità soggettiva’, in termini di competenza tecnico-giuridica in certi settori specifici quali igiene e sicurezza, dei décideurs publics, cfr. P. FAUCHON, Rapport, Sénat, Annexe au procès-verbal de la séance du 18 octobre 1995, p. 11. (124) In tal senso, cfr. C. RUET, « Commentaire de la loi n. 96-393 du 13 mai 1996 relative à la responsabilité pénale pour des faits d’imprudence ou de négligence », Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1998, p. 29, dove si manifesta peraltro qualche perplessità sull’idoneità dei termini utilizzatati dal legislatore del 1996, essenzialmente corrispondenti a quelli adottati dalla giurisprudenza costante in materia di validità ed efficacia della delega all’interno dell’impresa. Sull’argomento, cfr. anche F.G. PANSIER-C. CHARBONNEAU, « Commentaire de la loi sur la responsabilité pénale des élus », cit., p. 6. A seguito dell’intervento del 1996 non si tratterebbe più di fare riferimento al criterio dell’« homme avisé », del « bon père de famille », ma ad un modello costruito sulla base del profilo professionale e delle competenze normativamente attribuite al singolo agente, in termini analoghi a quanto affermato nell’ordinamento italiano mediante il ricorso allo standard dell’homo eiusdem condicionis atque professionis. Per la differenza tra appréciation in concreto (ritenuta consacrata dalla legge 96-393) e appréciation subjective (a tutt’oggi esclusa dalla dottrina e giurisprudenza francesi), cfr. F. DESPORTES-F. LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, cit., pp. 402-403. Nel senso che tale riforma avrebbe elevato a principio generale le soluzioni da lungo tempo adottate dalla giurisprudenza in materia di colpa medica, cfr. Ph. SALVAGE, « L’imprudence en droit pénal », cit., p. 484. (125) Come è stato da più parti rilevato, la legge 96-393 avrebbe fornito, in tal senso, un importante contributo alla disparizione delle infractions matérielles. Inserendo l’ipotesi di « manquement à une obligation de prudence ou sécurité prévue par la loi ou le règlement » tra le possibili fonti della responsabilità colposa, accompagnata dalla necessaria valutazione delle diligences normales accertate sulla base delle « missions », « fonctions » e « compétences », ecc., il legislatore del 1996 avrebbe definitivamente respinto l’interpretazione in termini di responsabilità oggettiva di tale espressione, ricorrente in numerose fattispecie della parte speciale, affermando il principio dell’unità di fondamento della colpa semplice, scaturente in ogni caso da una deviazione rispetto al comportamento-modello « normalement diligent », deviazione comunque sempre valutata alla luce dei parametri enumerati in via indicativa dalla legge, cfr. C. RUET, « Commentaire de la loi n. 96-393 du 13 mai 1996 relative à la responsabilité pénale pour des faits d’imprudence ou de négligence », cit., p. 26; Ph. SALVAGE, « L’imprudence en droit pénal », cit., p. 484; Y. MAYAUD, « De l’art. 121-3 du code pénal à la théorie de la culpabilité en matière criminelle et délictuelle », cit., pp. 40-41. Tale interpretazione sembrerebbe peraltro supportata dalla lettura dei lavori parlamentari, dai quali si evince facilmente come la scelta di una previsione unica delle tre ipotesi sia stata il frutto della discussione in seno all’Assemblée Nationale, nell’intento di sottolineare l’unicità di valutazione della responsabilità colposa, J.O.Sénat, 27 octobre 1995, p. 2322. Per l’analisi dettagliata della responsabilità matérielle, vedi infra § 4. (126) Riconoscendo esplicitamente la possibilità di una divergenza tra norma cautelare scritta e comportamento concretamente diligente nel caso di specie — e pertanto la dis-
— 972 — Ritenuti inidonei a valutare esattamente la responsabilità dell’agente allorquando questi abbia solo creato o contribuito a creare la situazione che ha poi permesso la realizzazione del danno, o non abbia comunque adottato le misure necessarie ad evitarlo (127), i criteri sottesi all’accertamento della colpa ‘semplice’, così come precisati dalla legge 96-393, devono cedere il passo, nel caso di realizzazione indiretta del danno, all’accertamento di una « colpa qualificata ». Se il richiamo alla violazione manifestement délibérée di uno « specifico obbligo di prudenza o di sicurezza previsto dalla legge o dal regolamento » sembra imporre la coerente collocazione della prima ipotesi normativa di responsabilità colposa per realizzazione indiretta del danno nell’alveo della mise en danger délibérée, ad illuminare la quale possono chiamarsi a supporto le costruzioni dottrinali e la giurisprudenza relative, delicate questioni interpretative si pongono, invece, riguardo alla seconda ipotesi, facente riferimento ad una faute caractérisée « che esponeva altri ad un rischio di particolare gravità » che l’agente non poteva ignorare, di cui però il legislatore non fornisce le dovute precisazioni contenutistiche, lasciando soltanto intendere, deduttivamente, trattarsi di una forma di colpa meno grave della precedente (la cui unica previsione sarebbe risultata eccessivamente restrittiva della responsabilità (128)) ma comunque più intensa della colpa ‘semplice’ (129); una « faute délibérée », quindi, da collocare tra la mise en danger e la colpa cosciente, quasi a costituire un « mini dol éventuel » (130) in cui il riferimento, non particolarmente approfonsociazione tra « manquement à une obligation de prudence ou sécurité prévue par la loi ou le règlement e faute pénale » — il legislatore del 1996 avrebbe sancito il definitivo superamento del principio dell’unità della faute pénale e faute civile, principio fondamentale, pressocchè indiscusso, dell’ordinamento francese a partire da una famosa sentenza della Cour de Cassation del 1912 (Cass. Civ., 18 décembre 1912, Dalloz, 1915, I, p. 17); cfr. C. ROCA, « Nouvelle définition de l’infraction non intentionnelle: une réforme qui en cache une autre plus importante », cit., p. 4 ss.; tale ‘rivoluzione’, attuata dalla legge n. 96-393, sarebbe stata definitivamente confermata dalla legge 2000-647, cfr. F.G. PANSIER-C. CHARBONNEAU, « Commentaire de la loi sur la responsabilité pénale des élus », cit., pp. 8-9; contra J. PRADEL, « De la véritable portée de la loi du 10 juillet 2000 sur la définition des délits non intentionnels », cit. (127) Le due indicazioni normative fanno riferimento alle diverse situazioni corrispondenti alle categorie dell’« autore indiretto » e dell’« autore mediato », anch’esse auspicate nello studio del Conseil d’État del 1999 e successivamente riprese dall’Assemblée Nationale, cfr. R. DOSIÈRE, Rapport, n. 2266, cit., p. 29. In tale precisazione è evidente la preoccupazione di risolvere specificamente le questioni connesse alla responsabilità penale dei décideurs publics, cfr. F. LE GUNEHEC, « Loi n. 2000-647 du 10 juillet 2000 tendant à préciser la définition des délits non-intentionnels », cit., p. 1588. A supporto dell’affermazione della portata relativa della legge 96-393 in ordine alla delimitazione della responsabilità dei décideurs, cfr. Crim., 19 février 1997, Bulletin, n. 67; Dalloz, 1998, p. 236, nota Legros; La Semaine juridique, 1997, II, p. 22889, nota Chevalier; Crim. 26 mars 1997, Bulletin, n. 123; Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1997, p. 835, nota Mayaud; Crim. 14 octobre 1997, Bulletin, n. 334; Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1998, p. 328, nota Mayaud; Droit pénal, 1998, nota Robert; Crim. 9 novembre 1999, Bulletin, n. 252; Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 2000, p. 392, nota Mayaud; Crim. 14 mars 2000, Bulletin, n. 114. (128) Cfr. F. LE GUNEHEC, « Loi n. 2000-647 du 10 juillet 2000 tendant à préciser la définition des délits non intentionnels », cit., p. 1589. (129) In proposito, la terminologia, usata nel corso dei lavori parlamentari (cfr. J.O. Sénat, Séance du 28 juin 2000, p. 4497; R. DOSIÈRE, Rapport, Assemblée Nationale, n. 2528, 29 juin 2000, p. 6; Intervento di Mme Guigou, Garde des Sceaux, J.O. Assemblée Nationale, 2ème séance du 29 juin 2000, p. 6220), e facente riferimento ad una faute dal carattere « bien marqué », che presenti una « particulière évidence », una « particulière intensité », risulta necessariamente vaga e poco pregnante giuridicamente. (130) Cfr. J. PRADEL, « De la véritable portée de la loi du 10 juillet 2000 sur la définition des délits non intentionnels », cit.; si tratterebbe invece di un’ipotesi di « imprévoyance
— 973 — dito dai commentatori, al rischio che l’agente « non poteva ignorare » sembra rinviare ad una forma di « colpa professionale » (131). Il breve periodo trascorso dall’entrata in vigore della legge 2000-647 non consente di valutare compiutamente la portata della riforma in esame che, tuttavia, lungi dal regolare definitivamente la materia, parrebbe aver sollevato numerose questioni che difficilmente la giurisprudenza sarà in grado di risolvere secondo un approccio teorico coerente (132). 4. Colpevolezza e responsabilità oggettiva: la faute contraventionnelle. — La formulazione normativa dei requisiti soggettivi dell’imputazione penale pone il legislatore dinanzi alla necessità di operare precise scelte di fondo che lo obbligano a confrontarsi con l’estrema difficoltà a raggiungere un razionale equilibrio tra le contrapposte esigenze della efficienza e funzionalità del sistema penale — finalizzato alla tutela dei beni giuridici —, da un lato, e del rispetto dei principi di civiltà posti a fondamento dell’ordinamento giuridico, tra i quali il principio di colpevolezza, dall’altro (133). La definizione delle soluzioni di diritto positivo in tema di colpevolezza sottende in ogni sistema giuridico determinate opzioni riguardo, innanzitutto, ai rapporti tra principio di colpevolezza e forme di responsabilità oggettiva, rapporti che non possono non costituire l’oggetto di un’analisi puntuale allorquando si intenda cogliere il grado di ‘sensibilità’ di un sistema alle problematiche connesse al principio di colpevolezza. Sarebbe tuttavia un errore ritenere la questione della eliminazione delle manifestazioni di responsabilità oggettiva quale problematica la cui soluzione discenda necessariamente e automaticamente da un intervento legislativo. Una piena realizzazione del principio di colpevolezza richiede invero l’ulteriore passaggio di una completa accettazione del suddetto principio quale valore culturale e di orientamento generale di ogni scelta ermeneutica. Senza la maturazione di tale momento fondamentale, lo stesso rimedio di sostituire per lo più le forme di responsabilità oggettiva con un’imputazione colposa potrebbe paradossalmente ingenerare un « imbarbarimento » della categoria della colpa, accentuando la tendenza, già presente almeno in una parte della giurisprudenza, ad attrarre la responsabilità colposa nell’area della responsabilità causale, eludendo l’effettiva verifica delle qualifiche normative indispensabili al giudizio di colpa e accertandone l’esistenza solo deduttivamente e in via presuntiva (134). consciente » secondo C. ROCA, « Nouvelle définition de l’infraction non intentionnelle: une réforme qui en cache une autre plus importante », cit., p. 7. (131) Interessanti notazioni sulla colpevolezza di soggetti qualificati e sulle presunzioni di conoscenza spesso ricollegate al ruolo sociale di cui questi sono titolari possono trovarsi, per la dottrina italiana, in M. DONINI, « Dolo e prevenzione generale nei reati economici. Un contributo all’analisi dei rapporti tra errore di diritto e analogia nei reati in contesto lecito base », Rivista trimestrale di diritto penale dell’economia, 1999, p. 1 ss. (132) Per un breve commento sulle prime applicazioni della legge 2000-647 (Tribunal correctionnel de La Rochelle, 7 septembre 2000; Cour d’Appel di Rennes, 19 septembre 2000), cfr., S. PETIT, « Premières applications de la loi du 10 juillet 2000 tendant à préciser la définition des délits non intentionnels », Gazette du Palais, vendredi 10- samedi 11 novembre 2000, p. 9 ss. (133) Sulla considerazione che le problematiche inerenti al principio di colpevolezza non riguardano solo la teoria del reato ma investono il grado di civiltà del sistema nel suo complesso, cfr. G. CONTENTO, La responsabilità senza colpevolezza nell’applicazione giurisprudenziale, in AA.VV., Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, a cura di A.M. STILE, Milano, Giuffrè, 1989, pp. 520-521. (134) La ‘presa d’atto’ di un tale processo di « oggettivazione » del giudizio di colpa, dovuto anche alla considerazione da parte della giurisprudenza di fattori diversi, quali le strette interconnessioni tra profilo penale e profilo civile, nei settori della colpa stradale o della colpa medica — interconnessioni che possono determinare il giudice ad essere estremamente cauto in un’attività di personalizzazione della responsabilità che potrebbe precludere alla vittima il risarcimento —, o la situazione di evidente ‘spersonalizzazione’ della responsa-
— 974 — Nel sistema francese tali considerazioni trovano pieno riscontro nel dato per cui, a fronte dell’eliminazione formale di tradizionali forme di responsabilità oggettiva, quale conseguenza della generale previsione dell’art. 121-3, non sono stati registrati drastici mutamenti giurisprudenziali, finendo la Cour de Cassation con il riproporre, de facto, quelle forme di responsabilità « normativa » ormai contrastanti con le disposizioni e con lo spirito del codice del 1994. Si tratta di opzioni fortemente radicate nella forma mentis e nella prassi, e proprio per tale ragione le più difficili da eliminare. L’analisi del sistema penale francese al riguardo risente inequivocabilmente dell’assenza di un parametro costituzionale di riferimento in proposito, alla luce del quale passare tale sistema al vaglio. Ad eccezione di qualche voce isolata che ricollega il « principio di personalità della responsabilità penale », sancito all’art. 121-1 del codice del 1994, al principio costituzionale della presunzione di innocenza, attribuendo al disposto dell’art. 121-1 un significato più pregnante della mera esclusione della responsabilità per fatto altrui — significato che porterebbe a far coincidere il principio di personalità della responsabilità penale con il principio di colpevolezza, in termini praticamente analoghi al ragionamento della nostra dottrina costituzionale (135) —, secondo la dottrina prevalente il principio di colpevolezza, inteso come necessità di un elemento soggettivo, non riceve un riconoscimento costituzionale. Il rapporto tra principio di colpevolezza e responsabilità oggettiva trova quindi il suo inquadramento esclusivo nell’ambito della legge ordinaria, ed essenzialmente nella formulazione dell’art. 121-3 che, sebbene significativa sul piano della definizione dei principi generali in tema di elemento soggettivo del reato, di cui costituisce anzi il primo esempio nel diritto penale francese, non risulta esente da ambiguità ed incoerenze (136). Tale disposizione, infatti, oltre ad ammettere esplicitamente la legittimità di forme di responsabilità sans faute, lascia ampio spazio per forme di responsabilità oggettiva ‘occulta’, senza dubbio favorite dall’assenza di una definizione dei criteri di imputazione. Prova ne sono d’altronde le pronunce intervenute successivamente all’entrata in vigore del nuovo codice e che non manifestano quella ‘rivoluzione’ che l’art. 121-3 sembrava dover comportare. La possibilità di un’imputazione su base puramente oggettiva di un reato, e più precisamente di un reato contravvenzionale, emerge chiaramente dalla lettera dell’art. 121-3, 5o comma. bilità nell’ambito delle imprese e degli enti pubblici, porta inevitabilmente a porsi la fondamentale questione se, in genere, forme di responsabilità oggettiva, senza dubbio condannabili sul piano dei principi generali, trovino in realtà una loro legittimazione sul piano funzionale. In particolare, il problema si pone in relazione alla funzione di prevenzione generale della pena, riguardo alla quale la consapevolezza da parte del potenziale agente del fatto che l’ordinamento gli addossa tutte le conseguenze materialmente connesse alla sua azione illecita potrebbe ritenersi costituire un incentivo ad evitare la situazione fondante l’eventuale ulteriore responsabilità. Nella dottrina italiana, ampie riflessioni sull’argomento si leggono in G. FIANDACA, « Considerazioni su colpevolezza e prevenzione », cit., pp. 33-39; A. PAGLIARO, Colpevolezza e responsabilità obiettiva: aspetti di politica criminale e di elaborazione dogmatica, in AA.VV., Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, cit., pp. 1821; D. PULITANÒ, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, Giuffrè, 1976, pp. 102103; ID., Responsabilità oggettiva e politica criminale, in AA.VV., Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, cit., pp. 75 e 77; ID., Politica criminale, cit., pp. 20-21. In una tale prospettiva, prima ancora di una questione di legittimità dell’ordinamento penale nel bilanciamento tra esigenze di tutela dei beni giuridici e garanzie del singolo, il rispetto del principio di colpevolezza costituisce la « condizione d’una razionale politica del diritto penale ». (135) Cfr. Y. MAYAUD, « De l’art.121-3 du code pénal à la théorie de la culpabilité en matière criminelle et délictuelle », cit., pp. 40-41. (136) Cfr. M.-L. RASSAT, « Du Code pénal en général et de l’art. 121-3 en particulier (après la loi n. 96-393 du 13 mai 1996) », cit., p. 1 ss.; Y. LASSALLE, « Réflexions à propos de l’art. 121-1 du futur Code pénal consacrant le principe de la personnalité de la responsabilité pénale », La Semaine juridique, 1993, p. 341.
— 975 — Sancita in termini generali la necessità della presenza del dolo per l’imputazione di crimini e delitti — salva per questi ultimi la possibilità, previa esplicita previsione legislativa, oltre che di una imputazione colposa, anche di una imputazione per mise en danger délibérée —, la norma in questione, con una formulazione alquanto discutibile per cui le condizioni dell’affermazione della responsabilità penale si evincono dalle cause di esclusione di una tale responsabilità, afferma che « il n’y a pas de contravention en cas de force majeure ». La scelta da parte del legislatore di una tale espressione non può che sollevare legittimi dubbi sul carattere effettivamente ‘personale-soggettivo’ della responsabilità per questa categoria di reati. La questione dell’individuazione dell’elemento soggettivo nelle contravvenzioni, originata dall’esigenza di conciliare la disposizione codicistica in esame — che si limita tra l’altro a consacrare le affermazioni incontestate della Cour de Cassation al riguardo — con il principio generale della necessità di un elemento soggettivo per la costituzione di qualunque reato, ripropone in realtà il dibattito ben noto alla dottrina e giurisprudenza francese concernente un’intera categoria di reati, di cui le contravvenzioni hanno da sempre rappresentato il nucleo essenziale, quella delle infractions matérielles. Tale categoria che, in assenza di qualunque fondamento positivo nelle previsioni del codice penale del 1810, si afferma come categoria di creazione essenzialmente giurisprudenziale, ricomprendeva, fino all’entrata in vigore del codice del 1994, ipotesi di reato estremamente eterogenee, sia per la loro natura intrinseca che per i settori interessati, le quali trovavano il loro unico comune denominatore proprio nel particolare ‘atteggiamento’ dell’elemento soggettivo. A connotare ‘soggettivamente’ le ipotesi ricomprese nella categoria delle infractions matérielles avrebbero concorso i due diversi fattori del silenzio della norma incriminatrice riguardo al criterio soggettivo di imputazione richiesto e l’affermazione giurisprudenziale per cui, per tutte le ipotesi ivi ricomprese, « il carattere criminoso [...] deriva interamente dalla esclusiva violazione della legge o dei regolamenti » (137) e che ai fini della pronuncia della sanzione « è sufficiente che il fatto venga accertato nelle sue componenti materiali » (138). La questione in esame può essere valutata in tutto il suo spessore allorquando si consideri che, nel corso di quasi un secolo e mezzo, le fondamentali statuizioni della Chambre criminelle sopra riportate — ed inizialmente formulate per le ipotesi ricomprese, alla metà del XIX secolo, nella categoria delle contravvenzioni —, sono state pressoché pedissequamente riprodotte anche riguardo a fattispecie che, pur classificate dal legislatore come contravvenzioni, non presentavano i caratteri propri dei reati della stessa categoria quali avuti in mente dal legislatore del 1810 o addirittura anche per ipotesi delittuose in cui di volta in volta la Cour de Cassation sembra rinvenire, al fine di applicarvi lo stesso regime in tema di elemento soggettivo, un fattore comune con le ipotesi contravvenzionali (139). In effetti, a partire dalla metà dell’Ottocento, pur ribadendo che la configurazione di un fatto come delitto richiede normalmente la prova di una volontà o di una negligenza, la Chambre criminelle fa ricadere nell’ambito delle infractions matérielles anche tutta una serie di delitti (140), in par(137) Crim. 22 février 1844, Bulletin, n. 59. (138) Crim. 17 novembre 1871, Bulletin, n. 153. (139) Le affermazioni ricorrenti per cui « c’est dans l’intérêt supérieur du bon ordre qu’un tel comportement doit être considéré une infraction matérielle » o che, nonostante si tratti di una ipotesi delittuosa, in realtà essa traduce una misura di sicurezza pubblica per cui è « la nature même des choses » a precludere la ricerca di una effettiva intenzione delittuosa dell’agente, mostrano i tentativi della Cour de Cassation di individuare, in particolare nelle decisioni riguardanti ipotesi delittuose, dove più pressante si presentava l’esigenza di una giustificazione di un regime particolare sul piano dell’elemento soggettivo, una ragione giustificatrice della sempre più eterogenea categoria delle infractions matérielles. (140) In senso fortemente critico riguardo alla moltiplicazione, ad opera della giurisprudenza della Cour de Cassation, delle ipotesi di délits matériels, si esprimono M. DELMAS-
— 976 — ticolare in materia di eaux et forêts (141), caccia (142), ferrovie (143), sicurezza e igiene nel lavoro (144), trasporti (145), società (146), fisco (147), dogane (148). Se con la formulazione dell’art. 121-3, e l’indicazione del dolo, della colpa e della mise en danger délibérée quali esclusivi criteri di imputazione per le ipotesi delittuose, il codice del 1994 parrebbe aver eliminato la componente più problematica della categoria delle infractions matérielles, sancendo la scomparsa dei délits matériels, l’anomalia relativa alla suddetta categoria permane significativa. Mediante il successivo e sempre più rilevante innalzamento delle sanzioni per le contravvenzioni decretato dall’Ordonnance del 4 ottobre 1945, prima, e dall’Ordonnance del 23 dicembre 1958, poi, la quasi totalità dei délits matériels — e con essi anche alcune ipotesi delittuose tradizionali — sono stati di fatto declassati ad ipotesi contravvenzionali, andando a formare una quarta (con l’ordonnance del 1945) e una quinta ‘classe’ (con l’ordonnance del 1958) di contravvenzioni. In particolare, la riforma realizzata dall’Ordonnance 58-1297 del 1958, completata dal décret 58-1303 del 23 dicembre 1958, ha determinato, al di là dello scopo immediatamente perseguito di un alleggerimento del carico giudiziario dei tribunaux correctionnels competenti per i delitti — mediante il passaggio della giurisdizione dei vecchi délits, divenuti contraventions di quinta classe, ai tribunaux de police —, un evidente ed ormai totale sconvolgimento delle radici della categoria delle infractions matérielles, rendendo ancora più discutibile e quindi più difficilmente giustificabile la legittimità dell’automaticità della repressione ricollegata a tale categoria di reati (149). La definizione coniata dalla dottrina, chiamata, dinanzi all’esigenza di un inquadramento teorico di un insieme quanto mai eterogeneo di reati, all’individuazione a posteriori di una ratio comune a tali ipotesi che ne giustificasse la trattazione in termini di categoria unitaria — definizione per lo meno apparentemente idonea a ricomprendere, pur se con notevole difficoltà argomentativa in certi casi, le ipotesi frutto delle prime evoluzioni della categoria delle contravvenzioni (150) —, entra definitivamente in crisi a seguito dell’adozione dell’Ordonnance del 1958. MARTY, nota a Crim. 28 avril 1977, La Semaine juridique (JCP), 1978, II, 18931; e M.-L. RASSAT, nota a Crim. 28 avril 1977, Recueil Sirey, 1978, p. 149. La sentenza 28 aprile 1977, nella quale la Cour de Cassation definisce come délit matériel il reato di « inquinamento di corsi d’acqua » tradizionalmente considerato dalla giurisprudenza, nel silenzio della norma, come reato doloso, costituisce un’occasione significativa per passare ad un vaglio critico i capisaldi della teoria delle infractions matérielles, i cui criteri distintivi, originariamente formulati nelle prime elaborazioni dottrinali, si rivelano del tutto inidonei a spiegare le scelte della Cassazione francese nel caso di specie. Entrambi i contributi sottolineano la pericolosa deviazione che la soluzione adottata dalla Cassation — ed in generale il mantenimento stesso della categoria delle infractions matérielles — rappresenta rispetto ai principi fondamentali del diritto penale, situazione tanto più deprecabile quanto più si consideri che reati del tipo di quello oggetto della sentenza in questione non sembrano giustificare tale deroga. (141) Crim. 12 mai 1843, Sirey, 1844, I, p. 158. (142) Crim. 12 avril 1845, Sirey, 1845, I, p. 470. (143) Crim. 12 avril 1889, Sirey, 1890, I, p. 428. (144) Crim. 22 février 1883, Sirey, 1885, I, p. 464. (145) Crim. 8 décembre 1960, Bulletin, n. 583. (146) Crim. 17 juillet 1885, Sirey, 1887, I, p. 286. (147) Crim. 8 mai 1879, Bulletin, n. 97. (148) Crim. 27 avril 1938, Dalloz Hebdomadaire, 1938, p. 391. (149) Sganciata da un preciso referente ontologico, in materia di contraventions la pena diverrebbe uno strumento per il legislatore per conseguire obiettivi per lo più del tutto estranei alle problematiche connesse all’individuazione dei requisiti della responsabilità penale, cfr. F. CHABAS, « La notion de contravention », Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1969, pp. 281-282. (150) Riguardo a tali ipotesi, in realtà, sembrerebbe piuttosto doversi riconoscere un certo disinteressamento della dottrina quanto alla necessità di contestare una evidente ‘leg-
— 977 — Alla luce delle modifiche apportate alla disciplina contravvenzionale, infatti, non risulta più logicamente e giuridicamente possibile ricondurre le nuove contravvenzioni, ‘intrinsecamente’ delittuose, alla definizione tradizionale di infractions matérielles. Formulata da autorevole dottrina nei primi anni del Novecento e giunta pressoché immutata sino ad oggi, la teoria delle infractions matérielles vorrebbe ricomprese sotto una tale etichetta tutte quelle figure criminose la cui previsione, lungi dall’aver ad oggetto condotte direttamente lesive di un diritto altrui, perseguirebbe lo scopo precipuo di assicurare il rispetto di regole uniformi di condotta; regole purtuttavia essenziali per l’organizzazione sociale in quanto volte a preservare interessi generali — quali buona amministrazione, sicurezza, salute — la cui offesa o messa in pericolo non sarebbe per natura riconducibile ad una singola condotta ma a violazioni generalizzate e reiterate (151). Nelle nuove ipotesi delle contravvenzioni della quinta classe non è più riscontrabile, in definitiva, proprio quella natura intrinseca di « misure di polizia » che, al di là della qualificazione giuridica formale, la giurisprudenza prima e la dottrina poi avrebbero sempre riconosciuto alle fattispecie ricondotte nella categoria delle infractions matérielles. Solo l’esigenza di una repressione immediata, scaturente dalla finalità preventiva connessa ad una tale natura — alla quale si accompagnerebbe logicamente la previsione di una sanzione lieve, intesa come « avvertimento » e non come punizione, indice di condotte che, non rivelando una particolare ostilità, non esporrebbero il reo ad un significativo rimprovero sociale (152) — avrebbe giustificato quella automaticità della responsabilità che sembra emergere dalle pronunce della Cour de Cassation (153). Nei confronti delle ipotesi della quinta classe, pertanto, la suddetta ricostruzione non è più in grado di svolgere la funzione fondante e quindi anche critica per la quale essa era stata concepita (154). Se la riflessione originata dallo ‘sconvolgimento’ della categoria delle infractions matérielles, a seguito dell’inserimento della nuova classe di contravvenzioni le cui pene ormai elevate denotano il carattere indiscutibilmente rimproverabile dei fatti considerati, ha aperto brecce significative nella costruzione di quella che è ormai tradizionalmente denominata la faute contraventionnelle, essa non è a tutt’oggi culminata nella radicale eliminazione delle manifestazioni di tale forma di responsabilità. Un sensibile mutamento di prospettiva è riscontrabile già a partire dagli anni immediatamente successivi all’Ordonnance 58-1297, anni durante i quali, e non casualmente, vengono sviluppate le riflessioni più ricche sulla faute contraventionnelle e la disciplina delle infractions matérielles, indice, questo, di un’esigenza di ripensamento della categoria. Considerato per lungo tempo, alla luce della giurisprudenza dominante della Cour de gerezza’ della giurisprudenza nei riguardi dell’accertamento dell’elemento soggettivo, atteggiamento dovuto senza dubbio alla lieve gravità dei reati considerati. (151) Cfr. J. ORTOLAN, Éléments de droit pénal, cit., pp. 264-265. Su tali questioni, in termini generali, cfr., per il diritto italiano, T. PADOVANI, Il binomio irriducibile. La distinzione dei reati tra delitti e contravvenzioni, fra storia e politica criminale, in AA.VV., Diritto penale in trasformazione, cit., p. 421 ss. (152) Cfr. A. LÉGAL, La responsabilité sans faute, in La Chambre criminelle et sa jurisprudence, Recueil d’études en hommage à la mémoire de Maurice Patin, Paris, Cujas, 1966, pp. 132-133. (153) Come è stato rilevato, la ratio del regime delle infractions matérielles consisterebbe nel fatto che si tratterebbe di reati dove al carattere preventivo dell’incriminazione si accompagna il carattere preventivo anche della sanzione, che per certi versi si accosterebbe ad una misura di sicurezza, cfr. F. CHABAS, « La notion de contravention », cit., 1969, pp. 18-19. (154) Il disagio conseguente alle modifiche apportate dall’Ordonnance n. 58-1297 del 23 dicembre 1958 emerge chiaramente nelle parole degli operatori, cfr. J. SALVAIRE, « Délits, contraventions, délits-contraventions ... », La Semaine juridique (JCP), 1962, I, 1732; A. LÉGAL, La responsabilité sans faute, cit., p. 135; ID., Le nouveau régime des contraventions, in AA.VV., L’évolution du droit criminel contemporain, Récueil d’Études à la mémoire de Jean Lebret, Paris, Presses Universitaires de France, 1972, p. 158; F. CHABAS, « La notion de contravention », cit., p. 285.
— 978 — Cassation, alla stregua di una formula di rito, il principio enunciato dalla stessa Chambre criminelle (155) quasi un secolo prima per cui, nel silenzio della norma, la necessità della prova dell’esistenza di un elemento soggettivo possa discendere dall’analisi del testo normativo, si impone quale autorevole appiglio per una significativa inversione di tendenza. Il silenzio della norma incriminatrice riguardo al criterio soggettivo di imputazione richiesto, pertanto, non viene più ritenuto condizione obiettiva essenziale, ed al tempo stesso indizio primario, della natura oggettiva della responsabilità nell’ipotesi criminosa prevista. Proprio in senso opposto, precludendo l’automatica inclusione di una data condotta nella categoria delle infractions matérielles (156), il suddetto principio renderebbe non solo possibile ma anche necessaria la ricerca di un elemento soggettivo nelle ipotesi delittuose e a fortiori il mantenimento della componente soggettiva originaria prevista per i delitti declassati a contravvenzioni della quinta classe. L’affermazione solenne che « il carattere di infraction matérielle non è inerente, per definizione, alle contravvenzioni » (157) — categoria tradizionalmente indicata come esempio ‘modello’ di tali reati, tanto da denominare la tipica responsabilità come faute contraventionnelle —, dà la misura dello stravolgimento della costruzione tradizionale, mettendo definitivamente in discussione un principio che, seppur non formulato esplicitamente, si imponeva nelle trattazioni precedenti per il carattere dichiaratamente eccezionale e residuale delle ipotesi di contravvenzioni dolose o colpose. Se il movimento di idee e la riflessione sviluppata in occasione dei lavori del codice del 1994 ha imposto una razionalizzazione della materia contravvenzionale (158) — razionalizzazione la cui manifestazione più rilevante è senza dubbio rappresentata dall’eliminazione per tali reati della pena detentiva e la conseguente contrazione delle pene limitate all’ammenda e ad una serie di pene restrittive di diritti —, il nuovo codice conferma ed anzi consacra, con la previsione dell’art. 121-3, 5o comma, in una norma di diritto positivo, la figura generale della faute contraventionnelle. Le considerazioni che precedono, pertanto, impongono a tutt’oggi un’analisi attenta della teoria della faute contraventionnelle così come delineata dalla giurisprudenza e dalla dottrina nel corso di oltre centocinquant’anni. La costruzione di una teoria dell’elemento soggettivo delle contravvenzioni, sulla base delle frammentarie indicazioni giurisprudenziali, ha fatto in realtà registrare una certa eterogeneità di posizioni in dottrina. Ben lungi dal configurare ipotesi di responsabilità oggettiva — che farebbero discendere la responsabilità dell’agente dall’accertamento esclusivo dell’esistenza di un nesso di causalità materiale tra la condotta e l’evento o il risultato illecito —, le contravvenzioni, secondo (155) Crim. 17 juillet 1857, Sirey, I, p. 709. (156) Cfr. A. LÉGAL, Le nouveau régime des contraventions, cit., p. 160; R. MERLE, Les présomptions légales en droit pénal, Paris, Librairie Générale de Droit et de Jurisprudence, 1970, pp. 114-115. (157) Cfr. A. LÉGAL, La responsabilité sans faute, cit., p. 136. (158) L’excursus sull’evoluzione della categoria delle infractions matérielles sviluppato nel testo e che sembrerebbe configurare una parabola che origina dalle contraventions, si arricchisce di numerose ipotesi delittuose, per poi tornare ad esaurirsi essenzialmente, con il codice del 1994 e la relativa eliminazione delle figure di délits matériels, nella categoria contravvenzionale, rivela al tempo stesso come il contenuto di tale categoria, con il quale il legislatore del 1994 ha dovuto confrontarsi, sia profondamente mutato. La necessità di un’attenta riflessione sulla disciplina relativa alle infractions matérielles si imporrebbe pertanto da parte della dottrina rispetto all’evidente evoluzione della stessa funzione di politica criminale delle ipotesi ivi ricomprese. Sul duplice ‘snaturamento’ delle contraventions, da categoria di semplici misure di polizia dal certo referente sociologico-sostanziale, a categoria dapprima essenzialmente formale ed infine addirittura pressoché esclusivamente processuale, abbracciando essa ipotesi accomunate solo dal fatto di rientrare tutte nell’ambito di competenza dei Tribunaux de police, cfr. F. CHABAS, « La notion de contravention », cit., p. 290.
— 979 — la dottrina tradizionale, tuttora maggioritaria, sarebbero sempre caratterizzate da un elemento soggettivo seppure presunto. Le statuizioni della Cour de Cassation, per cui il carattere illecito dell’atto discenderebbe « dalla semplice realizzazione materiale del fatto » ed il relativo pendant per cui « l’accusa non deve ricercare la volontà criminosa » farebbero riferimento ad una regola d’ordine essenzialmente processuale che, pur liberando l’accusa dall’onere della prova dell’elemento soggettivo, non ne denoterebbe comunque l’assenza (159). Prova eloquente di un tale assunto sarebbero d’altronde le stesse pronunce della Chambre criminelle. Pur escludendo la necessità, per la costituzione dei reati in questione, della sussistenza di una qualunque manifestazione dell’elemento soggettivo — anche nella forma della semplice rilevanza della « buona fede » dell’agente — la Cour de Cassation, tuttavia, riconosce pienamente l’operatività, al fine dell’esclusione della responsabilità, delle cause di inimputabilità, ricomprendendo nella suddetta categoria, accanto all’infermità di mente ed alla minore età, anche il concetto, in realtà piuttosto vago, di contrainte o force majeure (160). Secondo tali autori, pertanto, la necessità scaturente dalle pronunce della Corte dell’accertamento dell’imputabilità — parametro concettuale, peraltro, scarsamente significativo per il contestuale riferimento alla force majeure — confermerebbe la presenza di « una volontà cosciente e libera » (propria di ogni azione imputabile) quale « coefficiente minimo di soggettività », idoneo ad escludere categoricamente il carattere puramente oggettivo della faute contraventionnelle (161). Se la teoria della presunzione raccoglie il consenso pressoché unanime della dottrina tradizionale, le posizioni divergono quanto alla portata da attribuire a tale presunzione. Benché, in realtà, come sostenuto dalla dottrina maggioritaria, le affermazioni ricorrenti della Cour de Cassation nel sancire l’assoluta irrilevanza, ai fini dell’esclusione della responsabilità nelle contravvenzioni, degli argomenti difensivi della buona fede o dell’assenza di volontà o negligenza non sembrerebbero lasciare alcuna alternativa alla conclusione che si (159) Nella dottrina italiana, riguardo alla categoria della responsabilità oggettiva, si esprime in tal senso A. PAGLIARO, Colpevolezza e responsabilità obiettiva: aspetti di politica criminale e di elaborazione dogmatica, cit., in particolare pp. 8 e 20; ID., Responsabilità oggettiva, in Evoluzione e riforma del diritto e della procedura penale, I, Milano, Giuffrè, 1991, in particolare pp. 195-196. (160) Cfr. J. DEPREZ, Faute pénale et faute civile, in AA.VV., Quelques aspects de l’autonomie du droit pénal, sous la direction de G. STEFANI, Paris, Dalloz, 1956, pp. 160161; A. LÉGAL, La responsabilité sans faute, cit., pp. 142-147; G. LEVASSEUR, Étude de l’élément moral de l’infraction, cit., p. 86; J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 461; M.-L. RASSAT, « Du Code pénal en général et de l’art. 121-3 en particulier (après la loi n. 96-393 du 13 mai 1996) », cit., p. 2; J.H. ROBERT, Droit pénal général, cit., p. 330. In questo senso, dottrina meno recente aveva affermato che « la loi française qui, nulle part, n’a construit la théorie générale de la faute, a sous-entendu partout cette condition », P. BOUZAT, Traité théorique et pratique de droit pénal, cit., p. 93. Nel senso che la presenza della componente dell’« intelligence et volonté », richiesta per la costituzione di tutti i reati, configurando una sorta di « élément moral préalable » all’élément propriamente intellectuel, impedirebbe che si possa parlare riguardo alle contraventions di reati costituiti dal solo elemento oggettivo, cfr., J.-L. COSTA, « Les infractions involontaires du point de vue de la responsabilité en France », Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1963, p. 730 ss., e in particolare pp. 733-734. L’ulteriore riprova dell’esistenza di un élément moral nelle contraventions sarebbe data dall’ammissibilità, anche riguardo a tali reati, dell’errore di diritto invincible che, come si vedrà oltre, sebbene formalmente ricondotto nella categoria della force majeure, costituirebbe in realtà un errore incolpevole, cfr. A. FRANÇON, L’erreur en droit pénal, in AA.VV., Quelques aspects de l’autonomie du droit pénal, cit., pp. 240-241. (161) Contra, cfr. M. HARIOU, nota a commento Conseil d’État 8 mai 1896, Recueil Sirey, 1897, III, p. 113, secondo il quale le infractions matérielles sarebbero in realtà dei reati « oggettivi », dovendo pertanto escludersi il ricorso a qualunque forma di presunzione; tesi, questa, generalmente rifiutata dalla dottrina francese.
— 980 — tratti di una presunzione assoluta (162) — juris et de jure —, una parte senza dubbio minoritaria della dottrina penalistica francese ha sostenuto si tratti in realtà di una presunzione relativa, passibile di prova contraria, ma con la peculiarità di richiedere la prova di un grado di diligenza superiore all’ordinario (163). Considerata imprescindibile, la componente soggettiva che sorreggerebbe anche la faute contraventionnelle, sarebbe, in effetti, secondo tali autori, talmente tenue da rendere particolarmente arduo una sua precisa individuazione e da imporre quindi il ricorso alla presunzione della sua esistenza (164); la faute sarà pertanto « inerente all’atto » ma « in virtù di una presunzione che risponde alla realtà » (165). Desiderosa di superare la costruzione di una presunzione assoluta che, traducendosi come tale in un principio sostanziale di irrilevanza dell’elemento soggettivo nelle contravvenzioni, renderebbe quest’ultimo una pura finzione, la detta dottrina, argomentando sulla base del dato che sarebbe pur sempre un’indifferenza nei confronti dei valori sociali penalmente tutelati ciò che viene punito come contravvenzione, giunge alla conclusione di una sostanziale coincidenza della ratio della responsabilità in tali reati con quella soggiacente alle ipotesi di responsabilità colposa. Rappresentata dal più elevato grado di diligenza richiesta all’agente — tenuto a dimostrare, al fine di contrastare la presunzione di colpevolezza, l’impossibilità assoluta di conformarsi al comando normativo —, la specificità della faute contraventionnelle, ‘rivelatrice’ di un ambito ‘di reale esistenza’ della componente soggettiva anche in tale forma di responsabilità, finirebbe, però, come rilevato da qualcuno dei suoi più convinti sostenitori, con l’essere del tutto disattesa nell’applicazione giurisprudenziale della Cour de Cassation, la cui posizione assolutamente intransigente ne avrebbe fatto una pura finzione (166). Incapace di fornire una ricostruzione idonea ad evitare la sostanziale coincidenza tra la prova di una impossibilità assoluta di conformarsi al precetto e quella della forza maggiore, la suddetta teoria finirebbe con il fallire l’obiettivo perseguito di fondare l’esistenza di una effettiva componente soggettiva della « faute contraventionnelle », non riuscendo a contrastare quell’interpretazione della « faute présumée » che ne avrebbe fatto un « omaggio puramente teorico » al principio secondo il quale non sarebbe ammissibile una responsabilità senza colpevolezza (167). L’inevitabile impasse delle suesposte teorie presuntive viene invece evitata da quella (162) Cfr. H. DONNEDIEU DE VABRES, Traité de droit criminel et de législation comparée, cit., p. 119; P. BOUZAT-J. PINATEL, Traité de droit pénal et de criminologie, cit., p. 196; J.C. SCHMIDT, « L’élément intentionnel en matière de contraventions et plus spécialement en matière de contraventions de Grande Voirie », Revue pénitentiaire et de droit pénal, 1932, p. 387 ss. (163) Cfr. A. DECOCQ, Droit pénal général, cit., pp. 224-225; A. LÉGAL, La responsabilité sans faute, cit., pp. 148-149, dove l’autore, dopo aver ribadito come la nozione di infraction matérielle non implichi una nozione puramente « materialistica » della responsabilità, conclude significativamente nel senso di una legittima possibilità che, in presenza di una precisa giustificazione, il principio generale della faute possa e debba essere derogato, negando quindi esplicitamente la natura di dogma intangibile del principio di colpevolezza. Riguardo alla necessità, al fine di conservare alla faute contraventionnelle almeno una ‘sfumatura’ di rimproverabilità, di definire la componente soggettiva di tale forma di responsabilità in termini ‘negativi’, quale manifestazione dell’assenza di « causes de justification », cfr., L. JIMENEZ DE ASUA, Problèmes modernes de la culpa, cit., p. 970; nel senso di un accostamento della responsabilità propria delle infractions matérielles alla responsabilità colposa, cfr., nella dottrina più recente, Ph. CONTE-P. MAISTRE DU CHAMBON, Droit pénal général, cit., pp. 209-210; J.H. ROBERT, Droit pénal général, cit., pp. 329-330. (164) Cfr. A. DECOCQ, Droit pénal général, cit., pp. 224-225. (165) A. LÉGAL, La responsabilité sans faute, cit., p. 148; ID., « La bonne foi dans les délits contraventionnels », Revue de science criminelle, 1952, pp. 247-249. (166) Cfr. A. LÉGAL, Le nouveau régime des contraventions, cit., p. 160. (167) In tali termini si esprime lo stesso A. LÉGAL, L’imprudence et la négligence
— 981 — parte della dottrina che sostiene, più o meno esplicitamente, l’autonomia e la specificità della responsabilità da sempre connessa alle contravvenzioni. Se per qualche autore una tale specificità si tradurrebbe in una forma peculiare di colpevolezza che escluderebbe il ricorso ad una qualunque nozione di presunzione, relativa o assoluta, caratterizzandosi proprio per il fatto di fondare la responsabilità sull’elemento soggettivo minimo dell’imputabilità (168), per altra parte della dottrina, la specificità della responsabilità nelle infractions matérielles consisterebbe proprio nel fatto di configurare una responsabilità sans faute; inquadramento, quest’ultimo, ritenuto peraltro non incompatibile con l’affermazione di una presunzione di colpevolezza, operante però non sul semplice piano processuale, quale mezzo di semplificazione probatoria, ma sul piano della struttura normativa, trattandosi di una presunzione che interverrebbe innanzitutto al momento della elaborazione della norma incriminatrice, rappresentando la ragione stessa della previsione normativa. In determinate ipotesi, pertanto, esigenze di difesa collettiva imporrebbero che la responsabilità sia configurata in modo tale da far gravare ogni possibile rischio sull’agente, presumendo una sua mancanza di precauzione e quindi una sua colpevolezza (169). Il solo fatto di realizzare materialmente la condotta incriminata ne rivelerebbe pertanto la colpevolezza, salvo la prova contraria della sola forza maggiore o della inimputabilità (170). Se una tale teoria sembra inequivocabilmente cogliere la ratio della faute contraventionnelle, quale questa si configurava all’origine, in relazione a reati aventi ad oggetto misure lato sensu di polizia — la cui finalità preventiva renderebbe irrilevante l’eventuale risultato immediato della condotta incriminata, così come l’atteggiamento psicologico che la sorregge —, essa si adatta difficilmente ad ipotesi che non presentano una simile natura e per le quali non è concepibile la possibilità dell’asserita ‘presunzione strutturale’ di colpevolezza. Una tale presunzione potrebbe solo caratterizzare condotte concepite non come « atti colpevoli » ma quali « atti pericolosi », rispetto ai quali la colpevolezza, ben potendo essere all’origine dell’atto incriminato, rimane estranea alla norma incriminatrice il cui scopo non è quello di punire una tale colpevolezza eventualmente produttrice del risultato lesivo bensì il rischio di un danno maggiore creato dall’atto in questione (171). Pur condividendo, con le teorie appena esposte, l’idea che la realizzazione stessa della condotta costituente una contravvenzione riveli sempre la colpevolezza, ed escludendo in modo assoluto, al pari della dottrina tradizionale, il carattere meramente oggettivo della recomme source de responsabilité pénale, Rapporto presentato nell’ambito dei lavori dell’A.I.D.P., Revue internationale de Droit Pénal, 1961, II, pp. 1086-1087. (168) Cfr. F. DESPORTES-F. LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, cit., pp. 416-417. (169) Cfr. R. MERLE, Les présomptions légales en droit pénal, cit., pp. 127-129; in questo senso, seppur con esiti differenti, cfr. anche A.-Ch. DANA, Essai sur la notion d’infraction pénale, cit., p. 303 e 305. (170) Cfr. R. MERLE-A. VITU, Traité de droit criminel, cit., p. 747. (171) Cfr. F. CHABAS, « La notion de contravention », cit., pp. 21-26, dove l’autore, descrivendo l’evoluzione della nozione di contravention, mette in luce l’esistenza di una vera e propria incoerenza, già nella stessa previsione come contravvenzioni di alcuni reati da parte del legislatore del 1810, sulla base del fatto che si sarebbe trattato comunque di reati di lieve gravità. In effetti, se nella definizione delle contraventions quali misure di polizia, la considerazione del danno immediato e dell’elemento psicologico che eventualmente lo sorregge è irrilevante, essendo esse finalizzate esclusivamente alla prevenzione e repressione di un pericolo di danno per interessi particolarmente rilevanti, proprio la considerazione del danno e della faute sono invece alla base della definizione della lieve entità di un reato. Già a partire da questo momento può essere individuata la divaricazione tra nozione ‘sostanziale’ di contravention e la relativa disciplina, allorquando al criterio dell’oggetto dell’incriminazione si sostituisce la lieve entità della pena. In effetti, quello che trova una sua precisa giustificazione per misure di polizia, può non essere pienamente valido per tutti i reati, anche se di lieve entità.
— 982 — sponsabilità contravvenzionale (172), alcuni autori propongono una ricostruzione della faute contraventionnelle non in termini di autonomia e specificità bensì come espressione della forma più elementare e basilare della colpevolezza. Risultante dalla semplice violazione di una norma — che d’altronde, in presenza del principio nemo censetur legem ignorare, costituirebbe di per sé sempre la prova di una negligenza —, e pertanto connessa a qualunque figura di reato in quanto, per definizione, violazione di un precetto, la faute contraventionnelle dovrebbe più correttamente essere definita, secondo questa parte della dottrina, come « faute infractionnelle » (173) o « faute normative » (174). In una tale prospettiva — in cui la suddetta deviazione dalla condotta richiesta dal precetto rappresenterebbe l’unica componente costitutiva non solo della faute contraventionnelle ma anche essenzialmente della responsabilità colposa, deviazione che solo nel caso di responsabilità dolosa si arricchirebbe dell’ulteriore elemento « selettivo » della volontà (175) —, l’attribuzione alle contravvenzioni di un elemento soggettivo presunto in maniera assoluta costituirebbe una vera e propria « frode delle etichette » dovuta all’incapacità della dottrina tradizionale di accettare la realtà che nelle infractions matérielles la colpevolezza coincide con l’atto materiale (176). Pur non dovendosi sottovalutare il merito di una tale ricostruzione di aver messo in evidenza il carattere normativo del giudizio di responsabilità penale, e sebbene essa ribadisca la necessità di salvaguardare anche in questa forma minima una componente soggettiva, un « supporto etico » al rimprovero di colpevolezza, rappresentato dalla imputabilità — vera e propria ‘soglia’ di rilevanza penale, presente nelle contravvenzioni per il fatto stesso di costituire dei reati, cioè delle azioni umane imputabili —, la teoria in esame porta alle estreme conseguenze il rischio insito in ogni ricostruzione normativa di ridurre la responsabilità alla sola divergenza dal precetto, con il conseguente appiattimento dell’elemento soggettivo in quello oggettivo (177). La riflessione sviluppata dalla dottrina in questi anni ed i vivaci dibattiti che hanno ac(172) Cfr. R. LEGROS, L’élément moral des infractions, Paris, Sirey, Liège, Desoër, 1952, pp. 8-16. (173) Ivi, p. 330. (174) Cfr. A.-Ch. DANA, Essai sur la notion d’infraction pénale, cit., p. 285. (175) Ibidem. Degna di nota, in proposito, la ricostruzione di R. LEGROS, L’élément moral des infractions, cit., in particolare p. 92 ss., in cui l’autore propone una teoria alla luce della quale il regime delle contraventions non si presenterebbe come eccezionale bensì frutto dell’applicazione dei principi generali. Non solo la faute infractionnelle caratterizzerebbe tutti i reati, a prescindere dal fatto che si tratti di comportamenti dolosi, colposi o di contravvenzioni, ma la stessa differenza più netta tra contravvenzioni e fatti dolosi dovrebbe essere ridimensionata, alla luce del dato per cui, il dolo, lungi dall’essere inteso come « volontà del risultato », viene per lo più ricondotto alla semplice volontarietà del fatto; volontarietà che, interpretata dall’autore come assenza di violenza o forza maggiore, deve essere necessariamente presente anche nelle contravvenzioni. Non sussistendo alcuna differenza sul piano soggettivo tra le diverse categorie di reati — che risulterebbero tutte punibili, salvo previsione contraria, sulla base della semplice realizzazione materiale « volontaria » —, secondo tale dottrina la chiave di volta della responsabilità penale sarebbe rappresentata dalla necessità di una considerazione « piena e umana » delle « causes de justification », intese in senso ampio come l’insieme dei fattori che, potendo ‘giustificare’ la condotta, permetterebbero di escludere una tale responsabilità. (176) Cfr. R. LEGROS, L’élément moral des infractions, cit., pp. 300-305. Pur senza giungere a tali conclusioni, ma negando sempre il carattere di responsabilità oggettiva della faute contraventionnelle, l’affermazione di una totale irrilevanza di una qualunque attitudine psicologica per la costituzione delle infractions matérielles si ritrova anche in J. VIDAL, La conception juridique française de la culpabilité, in AA.VV., La culpabilité, cit., p. 49. (177) Una tale conclusione è anche facilitata nel sistema francese dall’ambiguità semantica connessa al termine faute, indicante, al tempo stesso, la divergenza oggettiva dalla norma e l’atteggiamento soggettivo di contrasto nei confronti della norma.
— 983 — compagnato i lavori preparatori del codice del 1994 non sembrano aver inciso sulle prospettive teoriche appena descritte, cosicchè, a tutt’oggi, la faute contraventionnelle risulta non aver trovato un suo preciso inquadramento dogmatico coerente con il principio di colpevolezza. Le affermazioni, ancora ricorrenti tra gli autori più recenti, per cui nelle contravvenzioni « un elemento soggettivo esiste, sebbene esso non abbia esistenza positiviva [...]. Per tali reati, l’elemento soggettivo si riduce pertanto alla semplice lucidità [...]; in realtà una tale colpevolezza è presunta » (178), danno la misura della perdurante incertezza in proposito. Nonostante sia ormai trascorso più di un trentennio dal momento in cui essa è stata formulata, appare ancora incredibilmente attuale la constatazione che « nel settore delle contravvenzioni regna la più grande incertezza riguardo all’elemento soggettivo del reato. Tutti concordano nell’affermare che un tale elemento soggettivo esiste, come in ogni reato, ma non si sa bene in cosa consista » (179). In realtà, l’esame delle diverse teorie prospettate in dottrina, e soprattutto delle obiezioni cui tutte vanno incontro, sembra imporre la conclusione che, al di là dei numerosi tentativi di costruzione dogmatica, non possa parlarsi di una faute contraventionnelle sostanzialmente diversa dalle altre forme di responsabilità. Dinanzi alla significativa evoluzione della categoria delle contravvenzioni prima descritta, l’unica ratio attualmente riconoscibile alla disciplina dell’elemento soggettivo in tali reati è quella di una presunzione probatoria. Se nel caso delle originarie contravvenzioni, configurate pressoché esclusivamente da violazioni di disposizioni aventi chiara natura di misure di polizia, trovava una sua ragion d’essere il tentativo di una costruzione separata della faute contraventionnelle, di fronte alla mutata categoria contravvenzionale, la conservazione del particolare regime sul piano soggettivo per tali reati non potrebbe che spiegarsi come funzionale ad esigenze connesse all’accertamento processuale, esigenze riguardo alle quali la tendenziale minore gravità di detti reati potrebbe sembrare legittimare un minore rigore in relazione alle prerogative connesse al principio di colpevolezza. L’elemento soggettivo delle contravvenzioni cioè, non potrebbe che essere lo stesso degli altri reati ma per ragioni di semplificazione probatoria esso si riterrebbe presunto (180). In effetti, benché debba ritenersi che il legislatore, in ogni caso, non possa del tutto disinteressarsi delle esigenze connesse all’accertamento processuale delle componenti della fattispecie criminosa (181), non sembra possa essere elusa l’obiezione per cui la struttura essenzialmente normativa del giudizio di colpevolezza non dovrebbe lasciar residuare alcun legittimo spazio per forme presuntive di responsabilità, in quanto esso si presenterebbe di per sé in grado di rendere sufficientemente ‘realistico’ l’onere probatorio incombente sull’accusa. Pur nella considerazione di esigenze di ordine probatorio, appare comunque particolarmente problematico, nella prospettiva di una piena attuazione del principio di colpevolezza quale parrebbe essere stata quella del legislatore francese del 1994, il mantenimento di una figura generale di responsabilità oggettiva riferita, seppur con le eccezioni previste per singole ipotesi contravvenzionali di parte speciale, ad un’intera categoria di reati. D’altronde, l’esame della giurisprudenza successiva all’adozione del codice del 1994 ri(178) G. VERMELLE, Le Nouveau droit pénal, Connaissance du droit, Paris, Dalloz, 1994, p. 61. (179) J.-C. SCHMIDT, « L’élément intentionnel en matière de contraventions et plus spécialement en matière de contraventions de Grande Voirie », cit., p. 389. (180) In questo senso, cfr. M.-L. RASSAT, Libres propos sur le Nouveau Code pénal, cit., pp. 82-83; ID., « Du code pénal en général et de l’art. 121-3 en particulier (après la loi n. 96-393 du 13 mai 1996) », cit., p. 2. (181) In termini generali, su tale questione, cfr. G. MARINUCCI, Fatto e scriminanti, in AA.VV., Diritto penale in trasformazione, cit., p. 196.
— 984 — schia di lasciare deluso chi fosse in attesa di una rivoluzione della posizione della Cour de Cassation. Se tale constatazione non può di certo stupire in materia di elemento soggettivo delle contravvenzioni, riguardo alle quali il codice del 1994 non ha con tutta evidenza voluto apportare significative modifiche, una più attenta riflessione deve invece concernere la categoria dei precedenti délits matériels. La portata innovativa rappresentata dall’introduzione del disposto generale dell’art. 121-3 che, nel silenzio della fattispecie di parte speciale riguardo ad un determinato elemento soggettivo, obbliga l’accusa alla prova dell’intention — facendo venir meno una delle due condizioni fondamentali della responsabilité contraventionnelle — risulta alquanto ridotta alla luce delle pronunce intervenute dopo l’entrata in vigore del nuovo codice. Sebbene l’art. 339 della loi d’adaptation del 16 dicembre 1992 abbia categoricamente affermato che « tutti i delitti non dolosi puniti sulla base di testi anteriori [...] risultano costituiti in caso di imprudenza, negligenza o mise en danger délibérée [...] anche qualora la legge non lo preveda espressamente » — affermazione che elimina qualunque dubbio sulla illegittimità di presunzioni di colpevolezza anche per le incriminazioni previste al di fuori del codice —, la Chambre criminelle sembrerebbe non essere del tutto pronta ad abbandonare la propria giurisprudenza per dare seguito a tale « imperativo di colpevolezza » (182), determinando così una preoccupante moltiplicazione di ipotesi di responsabilità oggettiva occulta. Oltre a mantenere alcune ipotesi di presunzione probatoria — come in materia doganale (183) o come nel caso del delitto di contraffazione (184) — la Cour de Cassation sembra avallare, in assenza di una precisa definizione legale di intention, una particolare facilità di prova per l’accusa, ritenendo sussistente un tale elemento soggettivo, e quindi legittimando l’intervento punitivo, allorquando sia stato accertato che la violazione della disposizione sia avvenuta « con cognizione di causa », cioè nonostante l’agente conoscesse o do(182) Cfr. Y. MAYAUD, « De l’art. 121-3 du code pénal à la théorie de la culpabilité en matière criminelle et délictuelle », cit., p. 41. (183) Caratterizzata originariamente da un’assoluta automaticità della repressione — per l’operatività combinata di una serie di presunzioni legali e del disposto generale dell’art. 369 § 2 del Code des Douanes che sanciva il divieto per il giudice di escludere la responsabilità sulla base dell’assenza di dolo e, per tale via, l’irrilevanza assoluta della buona fede —, la disciplina della responsabilità in materia doganale è stata gradualmente mitigata dalla legge del 29 dicembre 1977, prima e, successivamente, dalla legge dell’8 luglio 1987 che, abrogando l’art. 369 § 2, ha riconosciuto la rilevanza dell’elemento soggettivo dei reati in questo settore. Detta importante riforma non ha tuttavia realizzato un totale ‘allineamento’ della materia doganale ai principi generali concernenti l’elemento soggettivo (cfr., J. BERR-P. VIGNAL, « Les réformes relatives au contentieux douanier », Juris-Classeur, Droit pénal, 1988, éd. E., II, 15126). Lungi dall’erigere il dolo o la colpa ad elemento costitutivo del reato, la legge in questione si limita a riconoscere la scusante della buona fede (cfr. Ph. DE GUARDIA, « L’art. 23 de la loi du 8 juillet 1987, un nouveau Code des Douanes? », Gazette du Palais, 1987, II, doctrine). Una considerazione a parte meritano le contraventions in materia doganale. In effetti, se anteriormente alla legge dell’8 luglio 1987 la questione del carattere oggettivo di tali contravvenzioni si presentava irrilevante, trattandosi di un carattere comune a tutti i reati doganali, la legge in esame, limitandosi ad abrogare l’art. 369-2, suscita qualche dubbio in ordine al mantenimento della natura oggettiva di tali contravvenzioni. Se in favore del mantenimento del carattere oggettivo milita il dato per cui la natura oggettiva della responsabilità costituisce la regola per tutta la categoria contravvenzionale, cosicché una diversa interpretazione configurerebbe una disciplina più indulgente per le contravvenzioni doganali, una parte della dottrina si pronuncia in favore di un tale trattamento differenziato, in ragione delle profonde differenze di disciplina comunque sussistenti rispetto alle contravvenzioni di diritto comune (cfr. Ph. DE GUARDIA, « L’élément intentionnel dans les infractions douanières », Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1990, pp. 495496). Per una rilettura della materia alla luce del codice del 1994, cfr. J. BERR-H. TREMEAU, Le droit douanier communautaire et international, Paris, Economica, 2001, pp. 432 ss. (184) Crim. 13 décembre 1995, Bulletin, n. 378.
— 985 — vesse conoscere le relative prescrizioni (185). Un elemento abbastanza agevole da provare, in particolare in quei delitti prima matériels che, costituiti per lo più da reati di natura tecnica, sono realizzati da persone operanti nel settore, tenute pertanto a conoscere la normativa pertinente (186). Dinanzi alla previsione estremamente innovativa, nell’ottica del diritto penale francese, del disposto dell’art. 121-3, appare difficilmente accettabile il mantenimento non solo di tale presunzione ma soprattutto della giurisprudenza particolarmente restrittiva che ha seguito l’entrata in vigore del codice. Se non può in alcun modo negarsi l’importanza, sul piano dei principi generali, dell’eliminazione dei délits matériels da parte del legislatore del 1994, la posizione della Cour de Cassation — la quale sembrerebbe finora riuscita a mantenere di fatto la propria giurisprudenza sui délits matériels « camuffando » questi stessi delitti — rischierebbe di tradursi in un vero e proprio « raggiro dello spirito della legge » (187), contrastando l’affermazione di un approccio delle problematiche della colpevolezza coerente con i principi generali ed anche con il principio costituzionale della presunzione di innocenza. 5. Colpevolezza ed errore sul precetto. — Sebbene il principio ignorantia legis non excusat non abbia trovato in Francia un’esplicita consacrazione normativa, in termini analoghi a quanto avvenuto in Italia con la previsione dell’art. 5 c.p. — situazione spiegabile per la rilevata assenza nel codice penale francese del 1810 di un sistema di norme di parte generale —, il brocardo nemo censetur legem ignorare è stato comunque da sempre unanimemente considerato un principio generale del sistema penale francese. Mettendo in rilievo come la giustificazione tradizionalmente addotta a fondamento di tale principio, per cui quest’ultimo risponderebbe essenzialmente ad esigenze di disciplina sociale e di tenuta dell’ordinamento giuridico (188), non si presenti per nulla rispondente alla logica del diritto penale — che, collegando la punizione connessa alla sanzione alla rimproverabilità dell’agente, dovrebbe portare ad escludere la colpevolezza in caso di errore di diritto —, autorevole dottrina mostra la necessità di individuare la ratio più profondamente giuridica di detto principio, la cui ricerca viene dai più esaurita nel generico rinvio alle ragioni di ordine generale (189). (185) Nel senso che l’eliminazione dei délits matériels sarebbe stata in qualche modo ‘raggirata’, cfr. M. MASSÉ, « La psychologie du délinquant » (Rapporto presentato al Congresso dell’Association Française de droit pénal, tenuto a Versailles nei gg. 29 febbraio-1 marzo 1996, sul tema « Deux ans d’application du nouveau code pénal »), Revue pénitentiaire et de droit pénal, 1997, p. 250; cfr. anche A. COERET, « La nouvelle donne en matière de responsabilité », Droit social, 1994, p. 629. (186) Cfr. per esempio, in materia di violazione al Code de l’urbanisme, Crim. 25 mai 1994, Bulletin, n. 203; Crim. 12 juillet 1994, Bulletin, n. 280. Nelle Observations alle suddette sentenze, B. BOULOC, Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1995, « Chronique de jurisprudence », p. 7, rileva l’anomalia che sembra discendere dalla posizione assunta in proposito dalla Chambre criminelle in conseguenza alla quale in molte ipotesi la qualificazione di un reato come colposo finirebbe con il presentarsi più favorevole all’imputato, dovendo il giudice procedere a tutta la serie di accertamenti richiesti per la dichiarazione di una responsabilità colposa, mentre l’intention coupable, così come spesso rilevata dalla Cassation, risulterebbe facilmente dalla constatazione di un dato materiale in presenza del quale la qualifica professionale dell’imputato impedisce la prova (o comunque una prova agevole) della buona fede; in questo senso, cfr. anche le Observations alle stesse sentenze di J.H. ROBERT, ivi, p. 356 e Droit pénal, 1994, comm. n. 237. (187) P. COUVRAT, La responsabilité pénale dans le Nouveau Code, cit., p. 48. (188) In questo senso, cfr., per esempio, A. LÉGAL, « L’évolution de la jurisprudence française en matière d’erreur de droit », Revue pénale suisse, 1961, p. 310. Da considerare in questo contesto anche É. GARÇON, Code pénal annoté, art. 1, Paris, Sirey, 1952-1959, p. 8; R. GARRAUD, Traité théorique et pratique du droit pénal français, cit., pp. 388-389. (189) Cfr. R. MERLE-A. VITU, Traité de droit criminel, cit., p. 735.
— 986 — Tale fondamento giuridico viene per lo più rinvenuto nell’origine « contrattualistica » della competenza repressiva dello Stato, teoria che, tuttavia, se non completata da una precisa individuazione degli obblighi reciprocamente incombenti sulle autorità statali e sui consociati, così come dei loro limiti — sviluppo che costituisce il passaggio fondamentale della sentenza n. 364/88 della Corte Costituzionale italiana (190) —, si risolve in una fictio iuris. Invero, se la piena attuazione del principio di legalità, per il fatto stesso di esigere una previa indicazione e definizione dei comportamenti sanzionati al fine di garantire il cittadino da interventi repressivi non inquadrati legislativamente, fa contestualmente nascere in capo ai consociati un obbligo di informazione riguardo ai precetti penali, l’ipotesi in cui un soggetto realizzi un fatto di reato in una situazione di errore sul precetto implicherebbe ipso facto l’inottemperanza all’obbligo di informazione e quindi una negligenza, che, anzicché escludere la sua responsabilità penale, ne attesterebbe la colpevolezza (191). La dottrina e la giurisprudenza francese, analogamente a quanto avvenuto in Italia prima dell’importante pronuncia della Consulta, hanno dovuto confrontarsi con tale ‘dovere’ di conoscenza della legge penale e la difficile conciliabilità del relativo assetto con la tendenziale maggiore personalizzazione del rimprovero penale e l’affermarsi di imprenscindibili principi generali del diritto penale (192). Dopo l’intransigenza mostrata dalla giurisprudenza della Cour de Cassation nell’escludere qualunque operatività dell’errore sul precetto, il legislatore francese sembrerebbe aver dato ascolto alle pressioni della dottrina, ormai da decenni critica nei confronti del rigore con cui la Chambre criminelle continuava ad applicare il principio in questione (193), inserendo nella codificazione del 1994 l’art. 122-3 che recita: « non è penalmente responsabile la persona che giustifichi aver creduto, a causa di un errore di diritto che essa non era in grado di evitare, di poter legittimamente compiere l’atto » (194). La previsione di un tale dispositivo, che apre le porte del sistema penale francese alle (190)
In proposito, cfr. la nota a commento alla sentenza in questione di D. PULI-
TANÒ, « Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza », in questa Rivista,
1988, p. 686 ss.; illuminanti indicazioni sulla collocazione della questione della rilevanza dell’errore sul precetto nell’ambito dei principi di fondo della convivenza democratica possono leggersi anche in ID., Il principio di colpevolezza e il progetto di riforma penale, in AA.VV., Problemi di diritto penale, cit., pp. 47-54. (191) Cfr. R. MERLE-A. VITU, Traité de droit criminel, cit., p. 735. Così come formulata, la teoria contrattualistica — che presenta l’indiscutibile merito di collocare la questione dell’errore sul precetto in un ambito più ampio di quello esclusivo del contenuto dei precetti penali —, presta il fianco all’obiezione per cui, presumendo la razionalità del sistema, l’ignoranza risulterebbe sempre antidoverosa e quindi inescusabile, rivelando l’evidente forzatura logica per cui dall’affermazione della necessità della conoscenza del precetto si passa in realtà alla sua irrilevanza sul piano sostanziale, cfr., per tali affermazioni, D. PULITANÒ, L’errore di diritto nella teoria del reato, cit., p. 38 ss. (192) Cfr. J.-P. DOUCET, « Une discussion sur l’erreur de droit », Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1962, pp. 498-499. (193) Cfr. per tutti J.-P. COUTURIER, « L’erreur invincible en matière pénale », Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1968, p. 563; S. PLAWSKI, L’erreur de droit, in AA.VV., Les causes d’irresponsabilité pénale, Journées d’études de l’Association française de droit pénal, Toulouse, 22-24 octobre 1981, Annales de l’Université des Sciences Sociales de Toulouse, tome XXX, 1982, p. 141. (194) Nessuna disposizione del codice del 1994 è invece dedicata all’errore sul fatto. Se una tale situazione potrebbe senza dubbio essere interpretata positivamente, nel senso che il silenzio debba essere inteso come conferma della regola generale per cui l’errore sul fatto, in quanto assenza di una corretta rappresentazione di uno degli elementi costitutivi della fattispecie, escluderebbe il dolo, l’assenza nel codice di una definizione dell’intention coupable potrebbe non rendere così scontata la suddetta conclusione. Sebbene tale questione costituisca l’oggetto di una più approfondita trattazione infra nel testo, preme sin da ora mettere in evidenza che, come arguibile dalla lettera dell’art. 122-3, non si registra nell’ordinamento francese una chiara bipartizione tra errore sul precetto ed errore su legge
— 987 — più evolute prospettive del riconoscimento, a certe condizioni, dell’effetto scusante dell’errore sul precetto (195), si presenta particolarmente significativa quale manifestazione della volontà del legislatore di superare definitivamente il persistente ed anzi rinnovato rigore della Cour de Cassation. Se una certa apertura, infatti, può senza dubbio essere rilevata nelle pronunce degli anni Cinquanta (in particolare della seconda metà), le decisioni intervenute in tema di errore sul precetto già dai primi anni Sessanta registrano un inasprimento della Cassation in proposito, inasprimento che segna un chiaro ritorno della Chambre criminelle alla sua giurisprudenza più intransigente (196). Le sentenze della Cour de Cassation della fine degli anni Cinquanta, tuttavia, hanno rappresentato un referente primario per la dottrina francese più sensibile, che ha da esse estrapolato i criteri portanti per la formulazione di una teoria dell’errore sul precetto volta a mitigare il principio ignorantia legis non excusat, fornendo una nuova e più completa prospettiva, alla luce della quale ricondurre il regime dell’errore sul precetto da una realtà di vera e propria responsabilità oggettiva ad una questione necessariamente inserita nell’alveo della costruzione della colpevolezza (197). Infatti, pur non sancendo mai un’esplicita deroga al principio dell’irrilevanza dell’ignoranza penale ma mascherando il riconoscimento dell’effetto scusante di un certo errore sul precetto con la costruzione di una soluzione che si vorrebbe far apparire come fondata su considerazioni di fatto strettamente inerenti all’ipotesi concreta di volta in volta sottoposta all’esame della Corte, le decisioni della Cour de Cassation di tale periodo forniscono le coordinate per l’individuazione dell’errore di diritto incolpevole. Al di là delle formali conclusioni cui la Chambre criminelle perviene — cioè l’assenza di dolo o la presenza di una causa di forza maggiore — le argomentazioni sviluppate dalla Corte e la stessa selezione e modalità di presentazione dei dati salienti della fattispecie concreta sottoposta al suo esame, rivelano come alla base delle decisioni vi sia la considerazione, rimasta però sempre rigorosamente inespressa, che nelle ipotesi in questione l’ignoranza o l’errore sul precetto non siano frutto di una faute dell’agente. D’altronde, il ricorso alle diverse formule dell’assenza di dolo o della presenza di una causa di forza maggiore, seppur non casuale, non sottende una sostanziale diversità di soluzioni riguardo alla medesima questione dell’errore sul precetto, risultando una differenza necessitata sulla base di fattori in certo qual modo esterni alla problematica in esame. Se, infatti, il riferimento all’assenza di dolo poteva rappresentare una valida causa di esclusione della responsabilità riguardo ad ipotesi delittuose (198), lo stesso non avrebbe potuto dirsi quando la Corte si fosse trovata a decidere su casi concernenti reati contravvenzionali dove, extra-penale. Le teorie qui di seguito esposte, elaborate dalla dottrina francese, fanno essenzialmente riferimento a tutte le manifestazioni dell’errore di diritto; una tale situazione spiega l’utilizzazione alternativa in questa parte del lavoro delle espressioni « errore di diritto » ed « errore sul precetto ». (195) Fino all’entrata in vigore del codice del 1994, l’unica eccezione legislativa al principio ignorantia legis non excusat era rappresentata dal décret 5 novembre 1870 (D.P. 1870-4-101) che prevede la possibilità di scusare l’ignoranza della legge nei tre giorni successivi alla promulgazione. (196) Crim. 13 juillet 1839, Sirey, 1839, I, p. 271; Crim. 27 février 1847, Sirey, 1847, I, p. 552, in cui la Cour de Cassation ha escluso qualunque possibilità di riconoscimento dell’effetto scusante dell’errore o dell’ignoranza per il fatto che essi non vengono menzionati all’art. 64 del codice del 1810 che elencherebbe tassativamente le cause di esclusione della responsabilità penale. (197) Cfr. J.-P. DOUCET, « Une discussion sur l’erreur de droit », cit., p. 497 ss.; J.-P. COUTURIER, « L’erreur de droit invincible en matière pénale », cit., p. 551. (198) Crim. 9 octobre 1958, Dalloz, 1959, « Jurisprudence », p. 68; anche in Gazette du Palais, 1958, 2, p. 319; in questo senso, cfr. anche Cour d’Appel de Pau, 18 novembre 1953.
— 988 — nell’irrilevanza dell’elemento soggettivo e quindi nell’irrilevanza, ai fini della esclusione della responsabilità, di una eventuale assenza della volontà criminosa, l’unica categoria cui la Corte potesse fare riferimento per ammettere l’operatività — mascherata — di un errore sul precetto risultava essere esclusivamente quella della forza maggiore, unica « scusante » ammessa nella teoria penale francese nel caso di responsabilità contravvenzionale (199). Ed è proprio l’esame delle sentenze concernenti reati contravvenzionali che meglio consente di evidenziare come le argomentazioni addotte dalla Corte siano per lo più degli escamotages, spesso nozionistici, che nascondono soluzioni profondamente innovative. In effetti, se aderendo rigorosamente alla lettera delle pronunce della Cour de Cassation in materia di contravvenzioni — dove costante è il riferimento, quale fattore scusante, alla categoria della contrainte/force majeure — si dovrebbe giungere alla conclusione che solo un’impossibilità assoluta di conoscenza della legge penale (dovuta per esempio a catastrofi naturali che abbiano interrotto i canali di comunicazione) giustificherebbe un effetto scusante dell’errore sul precetto, l’esame delle sentenze in questione mostra come, in realtà, ad essere considerate all’interno della force majeure siano anche situazioni limitrofe, non caratterizzate, come la forza maggiore, da un avvenimento esteriore che escluda la volontà dell’agente, ma piuttosto da una inevitabilità dell’errore sulla base della diligenza (200). Si impone cioè la constatazione che ciò che rileva ai fini della decisione della Corte è la natura scusabile dell’errore (201). Sulla base di tali riflessioni la dottrina francese ha formulato la teoria dell’erreur invincible, dove la nozione di errore di diritto invincible si presenta inequivocabilmente quale sinonimo di errore incolpevole, di errore sans faute (202). Ammessa, alla luce delle stesse pronunce della Cour de Cassation, la possibilità dell’esclusione della responsabilità a seguito dell’accertamento di un errore invincible, la dottrina francese si è trovata, innanzitutto, a dover individuare i parametri in base ai quali valutare il comportamento dell’agente al fine di verificare il carattere incolpevole dell’errore. Appurata l’esistenza di un preciso dovere di conoscenza della legge penale — in relazione al quale la semplice ignoranza non escluderebbe ma anzi denoterebbe una responsabilità, nella specie colposa, dell’agente per la violazione dell’obbligo in questione —, l’ammissione della possibilità di un’esclusione della responsabilità penale fondata su un errore sul precetto impone l’individuazione delle condizioni di esigibilità dell’obbligo in questione, o piuttosto l’individuazione delle situazioni e di conseguenza dei criteri di inesigibilità di un tale obbligo (203). Sotto questo profilo la costruzione della dottrina francese si presenta piuttosto vaga e lacunosa. Se l’esame delle sentenze in cui la Cour de Cassation ha riconosciuto l’effetto scusante dell’errore sul precetto rivela senza dubbio alcune costanti fondamentali, manca tuttavia nella giurisprudenza e soprattutto nella dottrina la chiara individuazione della matrice comune alle decisioni assolutorie, con la conseguente evanescenza dei criteri chiamati ad illuminare l’indicazione della delicata linea di demarcazione tra errore colpevole ed errore incolpevole. Benchè la lettura di dette sentenze determini il convincimento che l’elemento caratterizzante e giustificativo dell’esclusione di responsabilità risieda nella constatazione di una dé(199)
Crim. 8 novembre 1951, Bulletin, n. 288; Crim. 26 janvier 1956, Bulletin, n.
107. (200) In tal senso cfr. per tutti R. LEGROS, L’élément moral dans les infractions, cit., p. 53; A. LÉGAL, « L’évolution de la jurisprudence française en matière d’erreur de droit », cit., p. 317; ID., La responsabilité sans faute, cit., pp. 148-151; J.-P. COUTURIER, « L’erreur de droit invincible en matière pénale », cit., p. 549. (201) Cfr. A. FRANÇON, L’erreur en droit pénal, cit., p. 246. (202) Ivi, pp. 249-251. (203) La questione dell’errore di diritto è impostata in termini di ‘esigibilità’ in J. VIDAL, La conception juridique française de la culpabilité, cit., p. 55.
— 989 — faillance dei poteri statuali o comunque di autorità rappresentanti lo Stato, un tale fattore, tuttavia, resta sempre latente e non trova una sua esplicitazione rivelatrice dei criteri fondanti le ipotesi di rilevanza dell’errore sul precetto. In assenza di un preciso inquadramento delle rispettive responsabilità, analogo a quello individuato dalla Corte Costituzionale italiana nella sentenza 364/88 — in cui la Corte non si limita ad un generico rinvio al modello contrattualistico dei rapporti Stato-cittadino ma ne sviluppa tutte le logiche conseguenze, mettendo in luce il profondo ‘sinallagma’ tra i doveri dei due ‘poli’, per cui l’esigibilità degli uni risulta direttamente collegata all’adempimento degli altri —, le soluzioni della giurisprudenza francese sembrerebbero fondate su ragioni di equità piuttosto che presentarsi come logica conseguenza di una precisa interpretazione dei rapporti autorità-cittadino (204). L’errore invincible sul precetto, pertanto, può talvolta presentare contorni non inequivocabilmente definiti. Nonostante le decisioni siano concordi nell’escludere qualunque possibile rilevanza ad un errore spontaneo, richiedendosi sempre l’intervento dell’attività di un’autorità pubblica — intervento ‘immediato’, come nel caso di informazioni erronee, vero leit motiv della giurisprudenza liberale della Cour de Cassation, o ‘mediato’, come nel caso di precedente giurisprudenziale —, le soluzioni si presentano molto diversificate quanto all’individuazione, per esempio, dell’autorità effettivamente « competente », o ancor più quanto alla rilevanza da riconoscere a precedenti pronunce o a prassi amministrative. Se, riguardo al requisito della natura pubblicistica dell’autorità all’origine dell’errore, la Cour de Cassation ed anche la dottrina si mostrano particolarmente rigorose, escludendo sempre la rilevanza di informazioni provenienti da persone private — quand’anche rinomatamente competenti nel settore, quali esperti, professionisti, avvocati —, le cui affermazioni non sarebbero dotate di quella « credibilità naturale » che dovrebbe giustificare che l’agente abbia in buona fede ritenuto legittimo il comportamento rispondente alle indicazioni di tali soggetti, più sommario appare invece l’esame delle condizioni dell’agente ai fini della valutazione dell’incidenza sulla sua condotta illecita delle informazioni ricevute. Su quest’ultimo punto, comunque, la valutazione « in astratto » del comportamento dell’agente trova concorde, in pratica, l’unanimità della dottrina francese, sulla base della considerazione che l’obiettivo primario della « pace sociale », collegato al rispetto delle norme penali, necessiterebbe che l’agente agisca secondo ciò che è esigibile in genere dai consociati al fine di realizzare il suddetto obiettivo, risultando di contro insufficiente che l’agente si sia attivato secondo quanto fosse a lui personalmente possibile. Il necessario parametro di riferimento nella valutazione del comportamento dell’agente concreto viene di volta in volta individuato, in modo in realtà piuttosto generico, nel modello dell’« uomo medio » (205), dell’« uomo ragionevole e prudente » (206), o rinviando al « grado di diligenza normalmente richiesto nelle relazioni umane » (207), parametri nella costruzione dei quali, sebbene si faccia riferimento alla valutazione delle condizioni concrete in cui l’agente si è trovato ad agire, non si ritrova però una precisa riflessione sulla problematica inerente al livello di ‘concretizzazione’ della figura dell’agente modello. Altra questione controversa nella disciplina dell’errore di diritto nel sistema francese riguarda la distinzione tra errore sul precetto e errore di diritto extra-penale. L’ordinamento penale francese attualmente non sembra accogliere un regime differen(204) Il riferimento a ragioni di equità, quale fondamento dell’esclusione di responsabilità in caso di errore inevitabile sul precetto, si ritrova, per esempio, in A. LÉGAL, L’évolution de la jurisprudence française en matière d’erreur de droit, cit., p. 320. (205) Cfr. M. PUECH, L’erreur en droit pénal, in AA.VV., Les causes d’irresponsabilité pénale, cit., p. 76. (206) Cfr. A. FRANÇON, L’erreur en droit pénal, cit., p. 249. (207) Cfr. A. LÉGAL, « L’évolution de la jurisprudence française en matière d’erreur de droit », cit., p. 318.
— 990 — ziato dell’errore di diritto, articolato nelle due diverse ipotesi dell’errore sul precetto e dell’errore di diritto che si traduca in un errore sul fatto, e il cui regime pertanto coincida con la disciplina di quest’ultimo. La dottrina e giurisprudenza a tutt’oggi dominanti appaiono decisamente schierate per una disciplina unitaria dell’errore di diritto, cosicché la contrapposizione dogmatica rilevante ai fini dell’individuazione del regime da applicare risulta essere quella di errore di fatto — errore di diritto. In assenza di una disposizione legislativa che faccia riferimento alla distinzione tra errore sul precetto ed errore su norma extra-penale, la giurisprudenza mostra infatti una certa esitazione a fondare le proprie decisioni su una presunta diversa natura dei due errori in questione, cui dovrebbe plausibilmente ricollegarsi un diverso trattamento. In realtà, se qualche accenno nel senso di una differenziazione può essere rinvenuto nelle soluzioni dei tribunali di primo grado, nessuna delle decisioni della Cour de Cassation, anche quando essa abbia eventualmente accolto il ricorso, fa menzione di un possibile regime differenziato dell’errore di diritto per fondare la decisione nel caso di specie, decisione che risulta per lo più giustificata dal carattere genericamente inevitabile dell’errore (208). Anche in dottrina si registrano posizioni contrapposte (209). Se una parte della dottrina si mostra fautrice di una tale distinzione, dalla quale l’ambito di applicazione della disciplina dell’errore sul precetto risulta evidentemente ridimensionato, potendo l’errore di diritto extra-penale essere ricondotto, a certe condizioni, nell’alveo dell’errore sul fatto, che escluderebbe sempre il dolo (210), la voce più tradizionale si schiera in senso nettamente contrario, additando un tale ragionamento come « ingenieuse pirouette » (211) o « pur sophisme » (212). La questione sulla quale, tuttavia, regna la maggiore confusione è senza dubbio quella dell’inquadramento dell’errore di diritto nella teoria generale del reato, e ciò evidentemente a causa del fatto che, oltre al dato per cui la stessa teoria del reato non si presenta, come già più volte ribadito, ben definita, la nozione di errore di diritto « scusabile » è ricavata dalle pronunce giurisprudenziali, più preoccupate di assicurare la soluzione del caso concreto che di costruire una teoria coerente. Pur prendendo le mosse dall’affermazione, pressoché unanime, che sul piano psicologico l’errore di diritto dovrebbe escludere la colpevolezza negli stessi termini dell’errore sul fatto — un ambito di operatività però precluso, nel caso dell’errore di diritto, dalla presenza del principio nemo censetur legem ignorare (213) —, la dottrina risulta tuttavia profondamente divisa tra i fautori di una teoria del dolo ed i sostenitori della tesi secondo cui l’errore (208) Crim. 31 octobre 1930, Gazette du Palais, 1930.2.673; Crim. 29 mars 1962, Bulletin, n. 152; Crim. 8 décembre 1964, Dalloz, 1965, p. 393; Crim. 8 février 1966, Bulletin, n. 36; Crim. 27 mai 1968, Bulletin, n. 171 ; nota di G. LEVASSEUR, Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1969, p. 146. (209) Cfr. A. FRANÇON, L’erreur en droit pénal, cit., pp. 244-246; A. LÉGAL, « L’évolution de la jurisprudence française en matière d’erreur de droit », cit., pp. 314-315, dove l’autore si mostra particolarmente critico, affermando l’arbitrarietà di una distinzione fondata sulla diversa natura penale o extrapenale della norma ignorata o su cui verte l’errore, sulla base della considerazione della automatica incorporazione nella norma penale delle nozioni extra-penali richiamate dal legislatore e sottoposte, di conseguenza, al medesimo regime. Si schierano per l’irrilevanza della distinzione tra errore su legge penale ed errore su legge extra-penale anche R. MERLE-A. VITU, Traité de droit criminel, cit., pp. 736-737; J.H. ROBERT, Droit pénal général, cit., pp. 304-305. Fautrice della distinzione in questione si afferma parte della dottrina per lo più meno recente, cfr. per tutti, H. DONNEDIEU DE VABRES, Traité élémentaire de droit criminel et de législation pénale comparée, cit., p. 92; É. GARÇON, Traité de droit pénal, cit., p. 120. (210) Cfr. P. BOUZAT-J. PINATEL, Traité de droit pénal et de criminologie, cit., p. 83; E. DASKALAKIS, Réflexions sur la responsabilité pénale, cit., p. 62 ss. (211) M. PUECH, Droit pénal général, cit., p. 184. (212) A. DECOCQ, Droit pénal général, cit., p. 97. (213) Cfr. A. FRANÇON, L’erreur en droit pénal, cit., p. 242.
— 991 — di diritto escluderebbe addirittura l’imputabilità, oltre a qualche sostenitore di una soluzione differenziata secondo che si tratti di reato doloso o di infraction matérielle. Alcuni autori, partendo dalla definizione classica di intention necessitante la conoscenza di tutti gli elementi del reato, ivi compreso l’élément légal, giungono alla conclusione che l’errore sul precetto, denotando l’ignoranza o l’erronea comprensione della suddetta componente, escluderebbe logicamente l’intention (l’errore di fatto escluderebbe invece il secondo elemento dell’intention, cioè la volontà di realizzare la condotta) che, tuttavia, in ossequio al principio nemo censetur legem ignorare, si riterrebbe comunque sussistente, salvo il temperamento dell’errore invincible (214). La teoria per cui l’errore di diritto escluderebbe il dolo è stata particolarmente sviluppata da coloro che vorrebbero la coscienza del carattere criminoso dell’atto quale componente del dolo, intendendo però con tale espressione non solo la consapevolezza del carattere penalmente illecito della condotta, ma la consapevolezza anche del semplice disvalore sociale dell’atto. Secondo tali autori, la consapevolezza del carattere « socialmente pericoloso » della condotta rappresenterebbe la manifestazione ‘in negativo’ della stessa consapevolezza e volontà degli elementi dell’atto (215). Se il principio generale sotteso a tale ragionamento sembrerebbe indicare che l’errore di diritto incida sul dolo e, per tale via, sulla colpevolezza, una tale soluzione è criticata da chi abbandona la definizione classica di intention, comprendente anche la conoscenza — presunta o effettiva — dell’élément légal. Definendo l’intention come conoscenza degli elementi materiali del fatto e volontà degli stessi, la conoscenza della legge viene posta al di fuori del dolo e dunque l’errore su di essa non esclude il dolo stesso. Se quindi la teoria di un effetto scusante dell’errore invincible che interverrebbe sulla configurazione della colpevolezza potrebbe in qualche modo spiegarsi, secondo questi autori, per i reati colposi — dove il carattere inevitabile dell’errore permetterebbe di escludere l’esistenza di una negligenza — o eventualmente anche nelle infractions matérielles— dove, pur nella irrilevanza della prova dell’esistenza del dolo o della colpa, la presenza di un errore invincible attesterebbe comunque il carattere non colpevole della condotta dell’agente — essa non sarebbe invece valida nel caso dei reati dolosi (216). Una teoria generale dell’effetto scusante dell’errore di diritto invincible sarebbe allora concepibile, per detti autori, in termini di esclusione della imputabilità. Pur mostrandosi critica nei confronti della facile assimilazione dell’errore invincible alla categoria della contrainte/force majeure, semplice escamotage dettato dalla necessità di far rientrare l’operatività dell’errore di diritto nell’unica previsione di causa scusante del Codice del 1810, secondo tale dottrina, comunque, l’errore di diritto, come quest’ultima, escluderebbe l’imputabilità. Mentre però la contrainte toccherebbe l’elemento della libertà del volere (217), trattandosi di una forza esterna a seguito della quale l’agente, pur rendendosi conto del significato della propria condotta, non potrebbe agire diversamente, nel caso dell’errore di diritto, sarebbe la componente intellectuelle dell’imputabilità a venire meno, in quanto l’agente agirebbe e si determinerebbe liberamente a realizzare l’atto ma a causa di una non corretta rappresentazione dello stesso (218). La tesi così formulata rivela, tuttavia, un duplice malinteso, in relazione sia alla nozione di colpevolezza che a quella di imputabilità. Tali autori infatti, nel ricostruire la teoria che vorrebbe l’errore di diritto invincible esclusivo della colpevolezza, sembrano far riferimento solo ai dati ‘psicologici’ della stessa. La teoria della colpevolezza si presenta, di con(214) Cfr. A. DECOCQ, Droit pénal général, cit., pp. 214-215. (215) Cfr. S. PLAWSKI, « L’erreur de droit », Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1962, p. 445 ss.; ID., L’erreur de droit, in AA.VV., Les causes d’irresponsabilité pénale, cit., p. 131. (216) Cfr. M. PUECH, L’erreur en droit pénal, cit., pp. 70-71. (217) Nel senso che l’errore sul precetto escluderebbe la libertà del volere, cfr. A.Ch. DANA, Essai sur la notion d’infraction pénale, cit. (218) Cfr. M. PUECH, L’erreur en droit pénal, cit., p. 72.
— 992 — tro, idonea a spiegare un tale effetto allorquando si segua la concezione c.d. normativa che, pur trattando l’effetto scusante dell’errore sul precetto al di fuori del dolo e della colpa, colloca comunque quest’ultimo tra le componenti del giudizio di rimproverabilità in cui si sostanzia la colpevolezza. In questo senso, l’errore invincible sul precetto, denotando una non rimproverabilità dell’agente, escluderebbe la colpevolezza. Sul piano dell’imputabilità, invece, tale dottrina porta a coincidere la nozione di « coscienza e volontà » con i concetti di « rappresentazione » e « volontà » proprie del dolo, sovrapponendo due dimensioni che anche la dottrina tradizionale francese, seppur con interpretazioni diverse, mantiene comunque distinte. Limitandosi per lo più a trarre alcune conclusioni generali dalle pronunce giurisprudenziali, altra parte della dottrina sembra prospettare riguardo all’operatività dell’effetto scusante dell’errore di diritto una soluzione differenziata, secondo la natura del reato in questione. Se, nel caso dei reati dolosi, in presenza di un errore di diritto sarebbe in effetti il dolo a venire meno, nel caso delle infractions matérielles un effetto scusante non sarebbe ammissibile se non in termini di contrainte/force majeure (219). Mentre nel primo caso, quindi, dovrebbe ritenersi che esso incida sulla colpevolezza, nel secondo, esso escluderebbe più a monte l’imputabilità. In realtà un tale approccio si rivela alquanto formalista. Come già rilevato, al di là delle categorie usate dalla Cour de Cassation, l’errore di diritto scusante è l’errore di diritto incolpevole. Solo in questa prospettiva trova una sua giustificazione l’indicazione delle situazionitipo, quali l’informazione erronea dell’autorità pubblica competente, nelle quali troverebbe applicazione l’errore sul precetto e, in termini più generali, la valutazione della diligenza dell’agente. Allorquando, al di là delle parole della Cassation — che, rinviando ad una impossibilità assoluta di conoscere la legge, assimilabile alla forza maggiore, attesterebbero un’esclusione dell’imputabilità —, in realtà la stessa giurisprudenza ed ancor più la dottrina mostrano di ricercare i parametri definitori dell’errore inevitabile, asserendo la necessità di valutare, in concreto o in astratto, se l’agente abbia fatto tutto il possibile per informarsi, e se quindi in tal senso egli sia o meno rimproverabile, deve necessariamente ritenersi che l’errore incida sulla colpevolezza (220). La causa fondamentale di una tale impasse sembra poter essere individuata nel dato per cui manca nella dottrina francese il recepimento della c.d. teoria della colpevolezza, alla luce della quale l’effetto dell’errore sul precetto viene ad essere situato al di fuori del dolo ma pur sempre nell’ambito del giudizio di colpevolezza quale componente distinta di tale giudizio (221). Sebbene, come rilevato, le tesi sostenute da una parte della dottrina francese possano essere ricondotte nell’alveo della c.d. teoria normativa della colpevolezza, appare evidente che ad una tale impostazione non sia comunque seguito uno sviluppo nel senso di una (219) Cfr. A. LÉGAL, « L’évolution de la jurisprudence française en matière d’erreur de droit », cit., pp. 315-321. (220) Indicazioni importanti in tal senso si trovano in J. VIDAL, La conception juridique française de la culpabilité, cit., pp. 55-56. La ricostruzione dell’effetto scusante dell’errore di diritto invincible nell’ambito della colpevolezza sembrerebbe d’altronde risultare confermata dal fatto che anche gli autori fautori di un’interpretazione del disposto di cui all’art. 122-3 nell’ottica dell’antica giurisprudenza — dove l’errore sul precetto, quale espressione della contrainte non intaccherebbe in nulla il principio nemo censetur legem ignorare —, al momento di delineare i requisiti dell’operatività di un tale errore invincible, fanno riferimento ad un errore il cui superamento, seppur non assolutamente impossibile, avrebbe richiesto una diligenza superiore al « grado di diligenza normalmente richiesto nelle relazioni umane » (cfr. R. MERLE-A. VITU, Traité de droit criminel, cit., pp. 735 e 738-739). È evidente che tali considerazioni in termini di diligenza/negligenza attengono alla sfera della colpevolezza e non dell’imputabilità. (221) Per il diritto italiano, cfr. C. PALAZZO, « Ignorantia legis: vecchi limiti ed orizzonti nuovi della colpevolezza », in questa Rivista, 1988, p. 935 ss.
— 993 — più attenta definizione delle componenti del giudizio di rimproverabilità, tra cui annoverare anche le condizioni di un eventuale errore sul precetto. Il brusco mutamento giurisprudenziale registratosi a partire dai primi anni Sessanta nelle pronunce della Chambre criminelle emerge inconfutabilmente dinanzi ad alcune sentenze concernenti casi assolutamente analoghi a quelli riguardo ai quali, solo qualche anno prima, la Cassazione non solo si era pronunciata in senso favorevole all’ammissione dell’effetto scusante dell’errore sul precetto, ma si era per di più impegnata ad individuare, seppur senza procedere ad un’analisi particolarmente approfondita, i fattori che indicassero la necessità di una deviazione dal brocardo nemo censetur legem ignorare. Di contro, nelle pronunce successive, per lo più scarsamente motivate — indice di un probabile disagio della Cour de Cassation a giustificare il repentino mutamento di posizione —, la decisione risulta esclusivamente fondata sulla mera riproduzione delle soluzioni contenute in sentenze che risalgono anche all’inizio del XXo secolo e che sanciscono il principio per cui « un errore di diritto non potrebbe far scomparire, quale che ne sia l’origine, la colpevolezza per un fatto realizzato volontariamente » (222), quasi che l’autorità del principio, da così lungo tempo affermato, rendesse superflua una più ampia motivazione; una posizione, questa, che la Chambre criminelle ha mantenuto inalterata fino al codice del 1994 ed alla quale la Corte ha dimostrato un significativo attaccamento (223). Ciò che in realtà si presenta maggiormente problematico riguardo a tale più ‘recente’ giurisprudenza non risulta, pertanto, la diversità di soluzioni rispetto a casi analoghi precedentemente risolti dalla Corte, quanto l’assenza di una motivazione giuridica della stessa soluzione sulla base della costruzione teorica dell’erreur invincible. La cieca ripetizione delle note e consolidate soluzioni esclusive di qualunque effetto scusante dell’errore sul precetto (224) — che non giunge mai, tuttavia, a rinnegare espressamente la nozione stessa di errore di diritto invincible — preclude infatti ogni possibile arricchimento della suddetta teoria, arricchimento che sarebbe potuto invece scaturire dalle argomentazioni sviluppate dalla Corte che, seppur culminanti nell’esclusione della rilevanza dell’errore sul precetto nel caso di specie, ed anzi anche proprio per questa ragione, avrebbero potuto contribuire a precisare gli ambiti di ammissibilità di un tale errore. Significative al riguardo appaiono numerose sentenze concernenti l’ipotesi dell’informazione erronea da parte dell’Amministrazione, sentenze in cui la Cour de Cassation appare rinnegare totalmente la propria giurisprudenza anteriore, fondando le decisioni sull’affermazione perentoria che non solo la conoscenza della norma è sempre presunta, ma che una tale presunzione non verrebbe meno neanche in presenza di erreur de service (225). Dette sentenze, tuttavia, sembrerebbero rivelare talvolta la considerazione di fattori attinenti, in realtà, alla valutazione del carattere inevitabile dell’errore, e più specificamente, al dato della effettiva ed obiettiva competenza dell’autorità interpellata; considerazioni che, pur mostrando un particolare rigore della Cour de Cassation, senza dubbio sconosciuto alla giurisprudenza di poco anteriore, avrebbero potuto condurre ad una soluzione ispirata alla evitabilità, nei casi specificamente considerati, dell’errore sul precetto (226). Considerazioni analoghe possono essere formulate riguardo ad alcune sentenze concer(222) Crim. 10 juillet 1903, Dalloz, 1903, I, p. 490. (223) Crim. 12 octobre 1993, Bulletin, n. 285; anche in La Semaine juridique (JCP), 1994, IV, p. 991. Si tratta di una sentenza in qualche modo simbolica, in quanto pronunciata, seppur prima dell’entrata in vigore del codice del 1994, successivamente alla votazione sulle relative disposizioni. (224) Accenni critici in proposito si trovano anche nei dibattiti parlamentari, cfr. J.O. Assemblée Nationale, 11 octobre 1989, p. 3437. (225) Cfr., per esempio, Crim. 14 février 1962, Bulletin, n. 93; Crim. 26 février 1964, Bulletin, n. 71, p. 160. (226) Tali osservazioni potrebbero essere formulate in realtà per molte delle sentenze della Corte, cfr., a titolo esemplificativo, Crim. 25 mars 1971, Bulletin, n. 109; Crim. 15 mars 1972, Bulletin, n. 110; Crim. 24 juillet 1974, Bulletin, n. 267; Crim. 2 mars 1976, Bul-
— 994 — nenti la questione della rilevanza da riconoscere a precedenti giurisprudenziali. Se nei casi concreti sottoposti all’esame della Cour de Cassation non sembra possa, in realtà, mettersi in discussione la decisione di non riconoscere effetto scusante all’errore di diritto provocato da precedenti giurisprudenziali discordanti o dal riferimento ad una giurisprudenza comunque non consolidata, criticabile appare invece, ancora una volta, la posizione assunta dalla Chambre criminelle che conclude in termini generali sull’irrilevanza dell’errore di diritto in materia penale. La Cour de Cassation evita così, ab origine, di prendere in considerazione questioni di grande rilievo nella tematica in esame, quali il delicato rapporto tra stato di dubbio — in genere non scusante e che dovrebbe determinare l’agente all’astensione — e errore sul precetto generato da un imprevedibile mutamento di posizione rispetto ad una precedente giurisprudenza costante e consolidata (227), analisi anche queste che, senza intaccare il perseguito rigore della decisione finale, avrebbero potuto rivelarsi illuminanti ai fini di un ulteriore sviluppo e di una ‘maturazione’ della teoria dell’erreur invincible. Rispetto ad un tale rigore e ad una tale chiusura della Cour de Cassation — probabile manifestazione della consapevolezza della giurisdizione suprema del proprio ruolo di orientamento e di sviluppo, per non dire di creazione, del diritto positivo — che sembra giungere senza rilevanti ‘contaminazioni’ fino all’entrata in vigore del codice del 1994, la lettera del disposto dell’art. 122-3 che riconosce esplicitamente una seppur condizionata operatività dell’errore di diritto rappresenta senza dubbio un fattore innovativo significativo. L’apertura realizzata dall’adozione della suddetta disposizione deve comunque essere ridimensionata alla luce dell’interpretazione sia giurisprudenziale che dottrinale data sino ad oggi all’art. 122-3. Come emerge chiaramente dai lavori preparatori (228) ed anche dai primi commenti dottrinali (229), la volontà è evidente nel senso di attribuire al disposto in questione una portata pressoché eccezionale, ben più ristretta di quella che sembrerebbe ricavarsi dal dettato legislativo. Prospettiva del tutto legittima, se si considera che è proprio in questo senso che la circolare del 14 maggio 1993 interpreta il disposto dell’art. 122-3. Così, se il dettato normativo individua quale errore scusante l’errore che l’agente « n’était pas en mesure d’éviter », cioè l’errore inevitabile, la circolare in questione tiene a precisare che una tale causa di esclusione della responsabilità non sarà se non raramente presa in considerazione, in quanto ciò che la legge (cioè l’art. 122-3) richiede è in effetti, « une erreur véritablement invincible » (230). Sebbene la circolare, come anche i verbali dei dibattiti parlamentari, contengano un rinvio esplicito alla teoria dell’errore di diritto invincible elaborata dalla dottrina, la preoccupazione da più parti manifestata ed insieme il monito ad un ricorso limitato a detta causa di esclusione della responsabilità rischierebbero in realtà di dare ‘un colpo di spugna’ proprio agli sviluppi più interessanti di tale teoria per cui, dietro l’etichetta di erreur invincible, si nasconde il concetto ben più ampio, ed al tempo stesso più complesso, di errore incolpevole. Alla luce di tali considerazioni, oltre che delle indicazioni deducibili da alcune soluzioni giuletin, n. 78; Crim. 7 février 1979, Bulletin, n. 57; Crim. 26 avril 1983, La Semaine juridique (JCP), 1983, IV, p. 205. Alla luce delle stesse considerazioni, sembrerebbero infatti riconoscere l’errore invincible, Crim. 16 mars 1978, Bulletin, n. 102; Crim. 22 février 1979, Bulletin, n. 82; Crim. 4 mars 1986, Bulletin, n. 87; Crim. 1 octobre 1987, Dalloz, 1987; Crim. 9 avril 1990 e Crim. 24 avril 1990, Revue de droit pénal comparé, 1990, p. 310. (227) In questo senso si pronuncia A. LÉGAL, Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1962, « Chronique de jurisprudence », pp. 745-746; cfr. Crim. 28 février 1961, Bulletin, n. 124, p. 238. (228) Cfr. Les Rapports de l’Assemblée Nationale, 1989, n. 896, p. 140; J.O. Assemblée Nationale, 11 octobre 1989, cit., p. 3437; Les Rapports du Sénat, 1994-1995, n. 328, p. 27; J.O. Sénat, 11 mai 1989, p. 654. (229) Cfr. G. ROUJOU DE BOUBÉE-B. BOULOC-J. FRANCILLON-Y. MAYAUD, Code pénal commenté, Paris, Dalloz, 1996, p. 33. (230) Circulaire 14 mai 1993, Titre II, Chapitre II, C.
— 995 — risprudenziali intervenute successivamente all’entrata in vigore del nuovo codice, il riconoscimento dell’effetto scusante dell’errore di diritto potrebbe rivelarsi « plutôt qu’une bombe à retardement [...] un pétard mouillé » (231). Riguardo all’ambito di applicazione dell’art. 122-3, già i lavori parlamentari sottolineavano come, al di là dei termini alquanto ampi del testo, le ipotesi riconducibili a tale previsione dovessero essere pressoché esclusivamente quelle della mancanza di pubblicazione e quella di informazione erronea fornita dall’Amministrazione. Per quanto concerne la prima di tali ipotesi, la dottrina si è preoccupata di sottolinearne il carattere non semplicemente teorico, precisando trattarsi non della mancata pubblicazione delle leggi, che implicherebbe la mancata entrata in vigore delle stesse, ma dell’assenza di pubblicazione di testi per lo più di natura tecnica, cui il disposto penalmente sanzionato, spesso una norma regolamentare, rinvia (technique du renvoi) (232). La seconda serie di ipotesi richiama, in verità, tutta la giurisprudenza e l’elaborazione precedenti il nuovo codice. Deve quindi essere ribadita l’esclusione della rilevanza di un errore spontaneo (233), come anche la necessità del carattere pubblico dell’autorità interpellata, soluzione che è stata d’altronde confermata dalla giurisprudenza della Cour de Cassation successiva all’entrata in vigore del nuovo codice (234). Piena conferma ha trovato inoltre la posizione rigorosa della Corte in tema di « autorità competente », venendo per lo più riconosciuta come tale l’autorità posta al vertice della scala gerarchica dell’Amministrazione competente per il settore in questione (235). Per quanto concerne la problematica del valore da attribuire ai precedenti giurisprudenziali, in assenza di nuove decisioni della Corte, gli autori sembrano sottolineare la necessità di riconoscere la possibile valutazione, ai fini di un’esclusione di responsabilità, del mutamento giurisprudenziale imprevedibile, continuando invece ad escludere la rilevanza agli stessi fini di uno stato di dubbio (236). Una questione particolarmente rilevante, infine, rimasta un po’ ‘in sordina’ nella giurisprudenza e dottrina precedenti, e che non ha trovato una precisa indicazione normativa nel codice del 1994, riguarda il criterio di valutazione del comportamento dell’agente. Sebbene sia stata da qualche autore nuovamente prospettata la necessità di una valutazione in concreto che, oltre a rispondere maggiormente a ragioni di equità — implicando per i giudici la necessità di mostrarsi più esigenti nei confronti di soggetti il cui più elevato grado di socializzazione e di istruzione comporti un più facile accostamento alla norma (237) —, troverebbe un preciso riscontro letterale nell’esplicito riferimento dell’art. 122-3 all’errore che l’agente « n’était pas en mesure d’éviter » (238), l’opinione prevalente, anche dopo l’entrata in vigore del codice del 1994, sembra confermare la contrapposta tesi della valutazione in abstracto. Alla base di una tale posizione, tra l’altro, starebbe la considerazione del rischio fondamentale che sarebbe insito nella valutazione in concreto di trasformare l’errore di diritto in una nozione di fatto che escluderebbe, tranne nei casi di insufficienza o contradditto(231) F. DESPORTES-F. LE GUNEHEC, « L’erreur sur le droit », Juris-Classeur, 1995, § 47, per i quali l’art. 122-3 finirebbe con il presentarsi come una sorta di ‘norma di salvataggio’, permettendo, in casi eccezionali, « d’éviter des condamnations contraires à l’équité ». (232) Ivi, §§ 34-35. (233) Cfr. Ph. CONTE-P. MAISTRE DU CHAMBON, Droit pénal général, cit., p. 216; B. CHAPLEAU-MUSSEAU, Questions sur l’erreur de droit, in AA.VV. Réflexions sur le nouveau Code pénal, sous la direction de C. LAZERGES, Paris, Pedone, 1995, p. 77. (234) Cfr., a titolo esemplificativo, Crim. 11 octobre 1995, Bulletin, n. 301; Droit pénal, 1996, comm. 56; Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1996, p. 646. (235) Crim. 5 mars 1997, Bulletin, n. 84. (236) Cfr. F. DESPORTES-F. LE GUNEHEC, « Erreur sur le droit », cit., §§ 33 e 40. (237) Cfr. J. PRADEL, Le nouveau Code pénal, Paris, Dalloz, 1994, p. 91. (238) Cfr. F. TULKENS, « Le nouveau Code pénal français », Journal des Tribunaux, Bruxelles, 1994, p. 15; fautori di una valutazione in concreto ‘attenuata’, F. DESPORTES-F. LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, cit., p. 554.
— 996 — rietà della motivazione o per violazione di legge, la possibilità di un controllo della Cassazione (239). Pur in mancanza di precise indicazioni in tal senso, tuttavia, sembra potersi constatare, nella valutazione dell’effetto scusante dell’errore sul precetto, una maggiore attenzione riguardo alle condizioni ‘soggettive’ della rilevanza di un tale errore. Il giudizio di rilevanza dell’errore, in quanto giudizio normativo, non potrà prescindere da margini di astrazione, ma dovrà garantire, per non rivelarsi una finzione, anche la maggiore vicinanza possibile del modello di riferimento all’agente concreto. Nella valutazione da parte del giudice delle precauzioni prese dall’imputato, delle verifiche da questo realizzate e delle informazioni richieste, non potrebbero non essere presi in considerazione alcuni dati ‘obiettivi’ della persona dell’agente, quali innanzitutto la categoria professionale di appartenenza. L’agente tipo dovrebbe allora essere individuato come il « bonus pater familias della categoria professionale cui appartiene l’autore » (240). Nel silenzio del testo dell’art. 122-3, spetterà alla giurisprudenza l’approfondimento degli aspetti ‘soggettivi’ del giudizio di rilevanza dell’errore di diritto, sviluppandone quei criteri essenziali che dovrebbero farne a pieno titolo una componente del giudizio di rimproverabilità personale dell’agente (241). Nonostante debba riconoscersi che la previsione dell’art. 122-3 non abbia sortito, a tutt’oggi, gli effetti attesi — almeno da quella parte della dottrina che vorrebbe tale disposizione quale chiara consacrazione della formulazione più avanzata della tradizionale teoria dell’erreur invincible — non può, al tempo stesso, sottovalutarsi la presenza di una norma di così ampia portata nell’ordinamento penale francese quale configurato dal codice del 1994. Se anche le decisioni più recenti della Cour de Cassation sembrano talvolta negare lo spirito della profonda innovazione legislativa intervenuta, i termini della disposizione dell’art. 122-3 non potranno non rappresentare lo stimolo ad una graduale sensibilizzazione della giurisprudenza francese, non solo ad estendere le ipotesi di errore scusabile, ma soprattutto ad elaborare i criteri-guida necessari in tale selezione. Appare in realtà indiscutibile la vocazione di un tale disposto a costituire la valida base giuridica di una vera e propria teoria dell’errore sul precetto, vocazione che non dovrebbe poter essere frustrata, sminuendo la (239) Cfr. B. CHAPLAU-MUSSEAU, Questions sur l’erreur de droit, cit., pp. 82-83. L’argomento letterale in favore della valutazione in concreto era stato già sollevato, riguardo alla formulazione dell’art. 42 del progetto di codice del 1978, cfr. M. PUECH, L’erreur en droit pénal, cit., pp. 74-75. Esplicitamente contrari a qualunque valutazione in concreto, che favorirebbe le ipotesi di faiblesse d’esprit, G. ROUJOU DE BOUBÉE-B. BOULOC-J. FRANCILLON-Y. MAYAUD, Code pénal commenté, cit., p. 32. (240) Cfr. B. CHAPLEAU-MUSSEAU, Questions sur l’erreur de droit, cit., p. 87. (241) Nell’ambito della questione della collocazione professionale dell’agente, di particolare interesse si presenta la sentenza della Chambre criminelle del 19 marzo 1997, Bulletin, n. 115, p. 380, nella quale la Corte ha rigettato il ricorso della ditta Auchan sulla base della considerazione per cui, nonostante la società avesse richiesto e ottenuto il parere positivo del Ministero dell’Industria sulla legittimità dell’estensione, al di là di certi limiti normativamente fissati, della superficie di un proprio centro commerciale, ciò non avrebbe potuto comunque far venire meno la responsabilità di tale società in quanto essa disporrebbe di giuristi particolarmente qualificati e specializzati, idonei a fornire la corretta interpretazione delle norme in questione alla luce della situazione concreta. Sebbene la soluzione possa ingenerare qualche perplessità in ragione del fatto che essa sembra dare rilievo ad una possibile informazione di professionisti privati rispetto all’atto di un’autorità pubblica, essa ha il merito di sollevare una questione di primaria importanza quale la « controllabilità » da parte dell’agente dell’informazione ricevuta dall’autorità statale, controllabilità senza dubbio ampia nel caso di una grossa società in grado di fare ricorso a giuristi specializzati, dalle cui opinioni potrebbe scaturire una situazione di dubbio che finirebbe per escludere, per ciò stesso, l’efficacia scusante dell’errore. Alla luce di una tale ricostruzione, appare di contro sorprendente la soluzione pronunciata in Crim. 17 février 1998, Bulletin, n. 60, in cui la Corte ha ritenuto insufficiente la richiesta di informazioni all’autorità competente da parte di uno straniero, per di più con basso livello di istruzione.
— 997 — portata della norma in esame a semplice riferimento normativo di singole ipotesi pur sempre connotate dalla eccezionalità del loro operare. 6. Considerazioni conclusive. — Il travagliato iter della definizione di una categoria dogmatica della colpevolezza, connotato da una tensione dialettica in cui i concetti giuridici, rispondenti a precise categorie dogmatiche in altri ordinamenti, vengono, di volta in volta, ‘reinterpretati’ e ‘plasmati’ dalle diverse voci della dottrina francese, tradizionalmente svincolata dalle ‘costrizioni’ di una rigorosa costruzione teorica, non può, a tutt’oggi, considerarsi concluso. In particolare, lo studio delle questioni inerenti alla colpevolezza non sembra aver raggiunto quella compiuta sistematizzazione che presenti i caratteri di approfondimento e di articolazione proprii di una ‘teoria’, limitandosi, di contro, ad attestarsi su una minuziosa e continua opera di ‘assemblaggio’ di dati ricavati da una ricca giurisprudenza della Cour de Cassation — chiamata sovente, com’è stato più volte evidenziato, a supplire alle carenze in termini di istituti generali del codice del 1810 —, dati che la dottrina ha finora tentato di inquadrare unitariamente in uno strenuo sforzo di razionalizzazione a posteriori. Nella dinamica di questo processo costruttivo, la codificazione del 1994 ha rappresentato un momento di grande impegno sul piano della definizione dei principi generali, opera nella quale, oltre alla consacrazione della giurisprudenza ormai consolidata su alcune questioni, sono in parte confluite le sollecitazioni provenienti da altri ordinamenti. Sebbene, anche a seguito delle obiezioni sollevate e dei timori espressi da parte della dottrina più tradizionale, la giurisprudenza successiva all’entrata in vigore del codice appaia ancora oggi preoccupata di fornire un’interpretazione quanto più possibile conservatrice delle norme della nuova codificazione, la definizione codicistica di principi generali in materia di elemento soggettivo del reato si presenta indubbiamente quale condizione culturalmente propizia e giuridicamente stimolante per la costruzione di una teoria della colpevolezza coerente ed articolata; dimensione evolutiva che raggiunge, d’altronde, il generale processo di graduale affermazione e consolidamento del principio di colpevolezza in tutti gli ordinamenti giuridici europei, che conferma la modernità e la centralità di tale principio in ogni sistema penale. ROSARIA SICURELLA Assegnista di ricerca in Diritto penale Università di Catania
RASSEGNE
a) Giurisprudenza della Corte costituzionale (*) CODICE DI PROCEDURA PENALE INDAGINI PRELIMINARI E UDIENZA PRELIMINARE
a) Incidente probatorio ART. 392 Casi Ordinanza 19 dicembre 2000, n. 583 Manifesta infondatezza (in G.U., 3 gennaio 2001, n. 1) La questione di costituzionalità decisa dalla Corte aveva ad oggetto l’art. 392, comma 1bis, c.p.p., ‘‘nella parte in cui non prevede che le disposizioni in esso previste si applichino anche all’assunzione della testimonianza della persona inferma di mente’’, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. La decisione di manifesta infondatezza adottata con l’ordinanza in oggetto è giustificata dalla constatazione dell’erronea individuazione della ratio della norma impugnata. L’art. 392, comma 1-bis, c.p.p., che, nei procedimenti per i delitti sessuali, prevede la possibilità di procedere con incidente probatorio all’assunzione della testimonianza di minore di anni sedici, anche al di fuori dei casi previsti dal comma 1, non risponde, infatti, — come invece sostenuto dal giudice a quo — all’esigenza, da una parte, di proteggere la personalità del teste dalle conseguenze che potrebbero derivare sul suo vissuto dal protrarsi del processo e, dall’altra, di tutelare la persona indagata, portando precocemente alla luce l’eventuale inattendibilità del teste. Al contrario, — afferma la Corte — la disposizione denunciata è volta ad assicurare efficacia e genuinità alla prova, ‘‘quando si tratti di raccogliere testimonianze potenzialmente soggette a subire, col decorso del tempo, per le particolari condizioni del minore, condizionamenti che le possano rendere meno genuine o meno utili al fine degli accertamenti cui è volto il processo’’. Di conseguenza, stante la sua ratio, l’eccezionale possibilità di ricorrere all’incidente probatorio prevista dall’art. 392, comma 1bis, c.p.p., non è estensibile agli infermi di mente.
b) Chiusura delle indagini ART. 408 Richiesta di archiviazione per infondatezza della notizia di reato Ordinanza 17 gennaio 2000, n. 13 Manifesta inammissibilità (in G.U., 26 gennaio 2000, n. 4) Con l’ordinanza in oggetto, la Corte risolve la questione di legittimità costituzionale, per (*)
A cura di M. D’AMICO.
— 999 — violazione dell’art. 24, comma 2, Cost., dell’art. 408, comma 3, c.p.p., nella parte in cui non prevede che la persona offesa abbia la facoltà di estrarre copia degli atti di cui può prendere visione. La questione viene dichiarata manifestamente inammissibile, poiché il giudice a quo ben avrebbe potuto interpretare la disposizione in oggetto in modo conforme a Costituzione, nel senso di ammette l’estrazione della copia degli atti in tutti quei casi in cui il codice prevede solamente la possibilità di prendere visione degli stessi (secondo quanto già affermato dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 192 del 1997). Del resto, lo stesso giudice rimettente, pur sollevando la questione di costituzionalità, aveva affermato di non condividere l’interpretazione data alla norma impugnata dal pubblico ministero, che non aveva consentito al difensore di estrarre copia, ma solo di prendere visione degli atti, e che ‘‘non sarebbe sorto alcun problema’’, se il pubblico ministero si fosse conformato all’opposta interpretazione data dalle Sezioni Unite dalla Corte di cassazione (in particolare, cfr. sentenza 3/2 del 14 aprile 1995). La Corte, infine, afferma che, comunque, il giudice rimettente avrebbe potuto rilasciare direttamente le copie degli atti al difensore della parte offesa, avendo la disponibilità di tali atti, in quanto trasmessi dal pubblico ministero insieme alla richiesta di archiviazione, a norma dell’art. 408, comma 1, Cost. Sul punto, la Corte sembra, però, trascurare il fatto che la richiesta di archiviazione e degli atti su cui quest’ultima si fonda, vengono trasmessi al giudice per le indagini preliminari, ai sensi dell’art. 126 disp. att. c.p.p., solo dopo la presentazione dell’opposizione da parte della persona offesa o, comunque, dopo la scadenza del termine indicato nel comma 3 dell’art. 408. Il giudice non ha dunque la disponibilità degli atti, prima che sia scaduto il termine per l’opposizione, né, di conseguenza, può direttamente provvedere a rilasciare copia degli atti in tempo utile. ART. 410 Opposizione alla richiesta di archiviazione Ordinanza 22 marzo 2000, n. 78 Manifesta inammissibilità (in G.U., 29 marzo 2000, n. 14) La Corte dichiara manifestamente inammissibile la questione di costituzionalità dell’art. 410, comma 3, c.p.p., nella parte in cui consente al privato che assume essere persona offesa di un reato di provocare la fissazione dell’udienza in camera di consiglio per discutere la richiesta di archiviazione del pubblico ministero, senza che il giudice possa operare un ‘‘severo vaglio’’ dell’opposizione della persona offesa, ‘‘così legittimando qualunque cittadino a far subire ad altri spese legali ed a protrarre a suo carico nel tempo la qualità di soggetto indagato’’, nonché dell’art. 31 disp. att. c.p.p., nella parte in cui ‘‘addossa obbligatoriamente al cittadino l’onere di pagare l’onorario al difensore d’ufficio in funzione del comportamento di un terzo, sia esso un privato o un pubblico ministero, indipendentemente dall’accertamento di un suo comportamento doloso o colposo e da un provvedimento che, effettuato tale accertamento, gli addossi l’onere’’. Il giudice a quo rilevava in ciò una violazione degli artt. 3, 23, 24 e 27 Cost. L’inammissibilità della questione è dovuta al modo in cui la questione è proposta, non essendo chiaro il verso dell’addizione chiesta dal rimettente. La Corte si chiede, infatti, se il giudice a quo si proponesse di ottenere una pronuncia che gli consentisse di decidere de plano sull’opposizione della persona offesa alla richiesta di archiviazione, senza fissare l’udienza in camera di consiglio, in modo da non accollare le spese della difesa all’indagato ‘‘incolpevole’’, oppure mirasse abolire l’obbligo per l’indagato di retribuire il difensore chiamato obbligatoriamente ad assisterlo in camera di consiglio.
— 1000 — PROCEDIMENTI SPECIALI
a) Giudizio abbreviato Diverse questioni di legittimità costituzionale hanno avuto ad oggetto l’art. 223 d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 (‘‘Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado’’), quanto alla disciplina transitoria in esso stabilita. In tutte le occasioni, tuttavia, la Corte ha restituito gli atti al giudice a quo per un riesame sulla rilevanza delle questioni proposte, alla luce delle modifiche apportate alla disciplina in oggetto dalla l. 5 giugno 2000, n. 144, che ha convertito in legge, con modificazioni, il d.l. 7 aprile 2000, n. 82, recante ‘‘Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase di giudizio abbreviato’’. Ordinanza 26 luglio 2000, n. 371 Restituzione degli atti (in G.U., 2 agosto 2000, n. 32) La Corte era stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione, dell’art. 223 del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 (‘‘Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado’’), come modificato dall’art. 56 della l. 16 dicembre 1999, n. 479, nella parte in cui non consentiva all’imputato, per i procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del medesimo decreto, di subordinare la richiesta di giudizio abbreviato all’esperimento di un’attività di integrazione probatoria, come, invece, consente l’art. 438, comma 5, c.p.p., introdotto dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479. Ordinanza 26 luglio 2000, n. 372 Restituzione degli atti (in G.U., 2 agosto 2000, n. 32) Ordinanza 3 novembre 2000, n. 468 Restituzione degli atti (in G.U., 8 novembre 2000, n. 46) La questione di legittimità costituzionale proposta aveva ad oggetto, per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione, l’art. 223 del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 (‘‘Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado’’), come modificato dall’art. 56 della l. 16 dicembre 1999, n. 479, nella parte in cui consentiva all’imputato, per i giudizi di primo grado in corso alla data di efficacia del citato decreto e per i quali il giudizio abbreviato non era originariamente ammesso, attesa la contestazione di un reato punibile con l’ergastolo, di chiedere tale rito alternativo solo prima dell’inizio dell’istruttoria dibattimentale. Ordinanza 26 luglio 2000, n. 373 Restituzione degli atti (in G.U., 2 agosto 2000, n. 32) Ordinanza 20 dicembre 2000, n. 564 Restituzione degli atti (in G.U., 27 dicembre 2000, n. 53) La questione di legittimità costituzionale proposta aveva ad oggetto, per violazione dell’art. 3 della Costituzione, l’art. 223 del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 (‘‘Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado’’), come modificato dall’art. 56 della l. 16 dicembre 1999, n. 479, nella parte in cui non consentiva all’imputato, anche per i giudizi di primo grado in corso, instaurati successivamente alla data di efficacia del d.lgs. n. 51 del 1998 e fino all’entrata in vigore della l. 16 dicembre 1999, n. 479, limitatamente ai reati pu-
— 1001 — nibili con l’ergastolo, di chiedere il giudizio abbreviato prima dell’inizio dell’istruzione dibattimentale. Ordinanza 6 novembre 2000, n. 474 Restituzione degli atti (in G.U., 15 novembre 2000, n. 47) La questione di legittimità costituzionale proposta aveva ad oggetto, per violazione dell’art. 3 della Costituzione, l’art. 223 del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 (‘‘Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado’’), come modificato dall’art. 56 della l. 16 dicembre 1999, n. 479, nella parte in cui non prevede che quanto in esso disposto si applichi ai giudizi in corso alla data del 2 giugno 2000, ossia alla data di efficacia del d.lgs. n. 51 del 1998. In particolare, alla luce di questa disciplina transitoria, restava preclusa la possibilità di richiedere il giudizio abbreviato a tutti quegli imputati rinviati a giudizio in un periodo compreso fra la data di efficacia del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 (2 giugno 1999) e quella di entrata in vigore della l. 16 dicembre 1999, n. 479.
b) Applicazione della pena su richiesta delle parti ART. 444 Applicazione della pena su richiesta Ordinanza 21 dicembre 2000, n. 574 Inammissibilità per difetto di rilevanza (in G.U., 27 dicembre 2000, n. 53) Il tema affrontato è, ancora una volta, quello della natura della sentenza con cui il giudice applica la pena concordata fra le parti. Il giudice rimettente, in qualità di giudice dell’esecuzione, era stato investito della richiesta del pubblico ministero di revocare la sospensione condizionale di una pena inflitta con sentenza ex art. 444 c.p.p., poiché, nei cinque anni successivi, il medesimo imputato aveva riportato un’altra condanna. Ritenendo che di non poter accogliere la richiesta, poiché la sentenza pronunciata ex art. 444 c.p.p. non può essere considerata di condanna, solleva la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3, 13, comma 1, 25, comma 2, 27, commi 1, 2 e 3, 76 e 112 Cost., dell’art. 444, comma 2, c.p.p., nella parte in cui prevede che il giudice applica la pena indicata dalla parte della quale non abbia valutato e ritenuto la penale responsabilità. La Corte dichiara la questione manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza, poiché ‘‘nella fase dell’esecuzione sono prive di rilevanza le questioni aventi ad oggetto norme che attengono al giudizio di cognizione’’. ART. 448 Provvedimenti del giudice Ordinanza 21 gennaio 2000, n. 19 Restituzione degli atti (in G.U., 26 gennaio 2000, n. 4) La questione di legittimità costituzionale sottoposta all’esame della Corte aveva ad oggetto, per presunta violazione dell’art. 3 Cost., l’art. 448 c.p.p. (nella sua precedente formulazione), nella parte in cui non prevede il potere del giudice di appello di pronunciare sentenza di applicazione della pena concordata tra le parti nel giudizio di primo grado anche quando in tale giudizio l’imputato sia stato assolto ex art. 129 c.p.p. Nella fattispecie, si versava in un giudizio di appello nei confronti di una sentenza di assoluzione che il giudice di primo grado aveva pronunciato, nonostante l’imputato e il pubblico ministero avessero pre-
— 1002 — sentato richiesta di applicazione della pena. Il giudice d’appello riteneva che l’art. 448 c.p.p., irragionevolmente, non gli consentisse di pronunciare sentenza ex art. 444 c.p.p. La Corte, in primo luogo, rileva nel ragionamento del giudice rimettente un’errata premessa interpretativa. Facendo proprio l’orientamento espresso dalla Corte di cassazione (in particolare, cfr. Corte cass., sez. VI, 2 giugno 1992, Cannone), ricorda, infatti, il principio giurisprudenziale che consente di interpretare la norma impugnata in senso conforme a Costituzione: anche in sede di impugnazione deve essere riconosciuto all’imputato che ne abbia fatto richiesta ex art. 444, comma 1, c.p.p., anche al di fuori del dissenso ingiustificato del pubblico ministero, il diritto alla riduzione della pena, qualora il giudice riconosca che la richiesta era fondata sia in relazione alla qualifica del reato, sia alla pena da applicare. Inoltre, la Corte rammenta come, in un momento successivo alla proposizione della questione di legittimità costituzionale, la norma impugnata sia stata modificata, proprio in questo senso, dall’art. 34 l. 16 dicembre 1999, n. 479. Di conseguenza, viene ordinata la restituzione degli atti per un riesame della rilevanza della questione. Nuova disciplina dei termini di presentazione della richiesta di applicazione della pena Ordinanza 20 dicembre 2000, n. 560 Manifesta infondatezza (in G.U., 27 dicembre 2000, n. 53) L’ordinanza in oggetto risolve alcune questioni di legittimità costituzionale relative alla presunta incostituzionalità della mancanza di una disciplina transitoria relativamente alle modifiche apportate dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479 alle norme che regolano i termini ultimi per la presentazione della richiesta di applicazione della pena. In particolare, le disposizioni oggetto della questione di costituzionalità erano: — l’art. 446, comma 1, c.p.p., che, in caso di rinvio a giudizio a seguito di udienza preliminare, originariamente consentiva di formulare la richiesta sino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, mentre ora la richiesta può essere formulata sino alla presentazione delle conclusioni del pubblico ministero e dei difensori nell’udienza preliminare; — l’art. 446, comma 1, c.p.p., che, per l’ipotesi di decreto di giudizio immediato, originariamente consentiva di proporre la richiesta fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento, mentre ora entro sette giorni dalla notificazione del decreto di giudizio immediato; — gli artt. 464 e 565 c.p.p., che, per l’ipotesi di decreto a giudizio a seguito di opposizione a decreto penale di condanna, originariamente consentivano di formulare la richiesta sino alla dichiarazione di apertura del dibattimento (nel giudizio immediato) e ora entro il termine di quindici giorni con l’atto di opposizione. In mancanza di una disciplina transitoria, i giudici rimettenti rilevavano che, per gli imputati nei giudizi che, alla data del 2 gennaio 2000, data di entrata in vigore della l. 16 dicembre 1999, n. 479, si trovavano nella fase intercorrente tra la data del rinvio a giudizio e quella della celebrazione del dibattimento, non era più possibile proporre la domanda di applicazione della pena su richiesta poiché, alla luce della nuova disciplina, sono per loro già scaduti i termini. In mancanza di una disciplina transitoria, dunque, i nuovi termini di decadenza si applicherebbero, in base al principio tempus regit actum, ad ogni situazione processuale in corso, con efficacia retroattiva, nonostante i termini stessi siano scaduti quando era ancora in vigore la normativa precedente. Ciò comporterebbe una violazione degli artt. 24, 25, 97 e 111 Cost. nonché, in particolare, dell’art. 3 Cost., per la disparità di trattamento tra imputati a seconda che il dibattimento sia stato per loro fissato prima o dopo il 2 gennaio 2000. La Corte dichiara tuttavia manifestamente infondate le questioni proposte, escludendo che la nuova disciplina si applichi ai giudizi cui si riferiscono i giudici a quibus, poiché, anche in assenza di una disciplina transitoria, i nuovi termini devono considerarsi la necessaria
— 1003 — conseguenza di un ripensamento più generale dei rapporti tra le diverse fasi del giudizio penale e il ricorso ai riti alternativi. La modifica dei termini è solo un aspetto di una riforma più ampia che, come tale, non può considerarsi applicabile ai giudizi già in corso.
c) Procedimento per decreto ART. 460 Requisiti del decreto di condanna Sentenza 18 novembre 2000, n. 504 Illegittimità costituzionale parziale (in G.U., 22 novembre, n. 48) La Corte era stata chiamata a decidere la questione di legittimità costituzionale dell’art. 460, comma 4, in relazione all’art. 161, comma 4, c.p.p., nella parte in cui prevede la revoca del decreto penale e la restituzione degli atti al pubblico ministero nel solo caso in cui la notificazione risulti impossibile per irreperibilità dell’imputato, ex art. 159, comma 1, c.p.p., e non anche nell’identica situazione in cui, essendo impossibile la notificazione al domicilio dichiarato, la notificazione stessa venga effettuata mediante consegna al difensore. Secondo il giudice rimettente, ciò comporterebbe una disparità di trattamento, e quindi una violazione dell’art. 3 Cost., tra colui che è irreperibile, nei confronti del quale il decreto penale viene revocato, e colui che ha eletto un domicilio presso il quale successivamente la notificazione diventa impossibile, nei confronti del quale il decreto può invece diventare esecutivo. Infatti, in questa seconda ipotesi, il decreto viene notificato al difensore nominato d’ufficio, che, secondo il giudice rimettente, non avrebbe il potere di proporre opposizione. Due situazioni caratterizzate dalla mancata effettiva conoscenza del decreto penale di condanna sarebbero così irragionevolmente disciplinate in modo diverso. Inoltre, vi sarebbe una violazione del diritto di difesa, quindi dell’art. 24 Cost., poiché l’aver semplicemente dichiarato il domicilio elimina, di fatto, in toto il potere di opporsi. La Corte costituzionale accoglie la questione proposta, proprio per la centralità che assume, in questo rito, la conoscenza effettiva del provvedimento da parte dell’imputato e, quindi, le regole per la sua notificazione. Non ritiene, infatti, ammissibile demandare al solo difensore la scelta tra acquiescenza e opposizione al decreto penale. La formalità prevista dall’art. 161, comma 4, c.p.p. non è idonea a garantire adeguatamente che l’imputato sia informato dell’esistenza del decreto e abbia quindi la possibilità di effettuare personalmente la scelta se proporre, o meno, opposizione. Decreto che dispone il giudizio a seguito di opposizione Ordinanza 17 marzo 2000, n. 73 Restituzione degli atti (in G.U., 22 marzo 2000, n. 13) Ordinanza 18 aprile 2000, n. 108 Restituzione degli atti (in G.U., 26 aprile 2000, n. 18) Ordinanza 11 luglio 2000, n. 270 Restituzione degli atti (in G.U., 19 luglio 2000, n. 30) Con le decisioni in oggetto la Corte risolve la questione di legittimità costituzionale, di volta in volta prospettata sugli artt. 429, commi 1 e 2, 459, 464, 555, comma 2, e 565, comma 1, c.p.p. (vecchia numerazione), nella parte in cui in tali disposizioni non si prevede che il
— 1004 — decreto che dispone il giudizio, emesso dal giudice per le indagini preliminari a seguito di opposizione al decreto penale di condanna, sia nullo qualora non sia stato preceduto dall’invito all’indagato a presentarsi a rendere l’interrogatorio ex art. 375, comma 3, c.p.p. Secondo i giudici rimettenti, ciò costituiva un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto a coloro che sono sottoposti al giudizio ordinario e, quindi, una violazione degli artt. 3 e 24 Cost. La Corte restituisce gli atti ai giudici rimettenti per un riesame della rilevanza della questione prospettata, alla luce delle sostanziali modifiche normative apportate alla disciplina dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479, a seguito delle quali il previo invito all’indagato a presentarsi per rendere interrogatorio non costituisce più un obbligo per il pubblico ministero, bensì è previsto solo a seguito di una richiesta in tal senso da parte dello stesso imputato, ai sensi del ‘‘nuovo’’ art. 415-bis c.p.p. Ordinanza 21 novembre 2000, n. 523 Manifesta inammissibilità (in G.U., 29 novembre 2000, n. 49) La medesima questione di legittimità costituzionale di cui alle ordinanze precedenti viene qui dichiarata manifestamente inammissibile, poiché il giudice rimettente non aveva tenuto conto della modifica normativa apportata dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479, in questo caso anteriore alla proposizione della questione.
DIBATTIMENTO
a) Atti introduttivi Contumacia dell’imputato Le decisioni che seguono avevano ad oggetto alcune questioni di legittimità costituzionale relative alla precedente disciplina sulla contumacia dell’imputato (artt. 485-487 c.p.p.). Ordinanza 22 giugno 2000, n. 232 Manifesta inammissibilità (in G.U., 28 giugno 2000, n. 27) La Corte era stata chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 486 c.p.p., in relazione all’art. 159 c.p., nella parte in cui non prevede tra i casi di sospensione del procedimento, da cui discende la sospensione della prescrizione, il differimento reso necessario dalla sussistenza di un legittimo impedimento dell’imputato o del suo difensore. La Corte dichiara la manifesta inammissibilità della questione proposta per difetto di motivazione sul requisito della non manifesta infondatezza, ricordando come non sia sufficiente ad integrare questo requisito una motivazione per relationem, ossia il rinvio alla motivazione contenuta in precedenti ordinanze di rimessione, seppure emesse dallo stesso giudice. Ordinanza 29 dicembre 2000, n. 586 Restituzione degli atti (in G.U., 3 gennaio 2001, n. 1) La Corte era stata chiamata a giudicare della legittimità costituzionale, per violazione dell’art 24 Cost. e per eccesso di delega, dell’art. 486, comma 5, c.p.p., nella parte in cui non consente il rinvio o la sospensione del dibattimento nel caso di assoluta impossibilità a comparire per legittimo impedimento di uno dei due difensori di fiducia dell’imputato.
— 1005 — Con l’ordinanza in oggetto, tuttavia, viene ordinata la restituzione degli atti al giudice a quo per un riesame della rilevanza delle questioni proposte, alla luce delle nuove disposizioni (artt. 420-bis, 420-ter, 420-quater, 420-quinquies, c.p.p.) introdotte dall’art. 19, l. 16 dicembre 1999, n. 479.
b) Istruzione dibattimentale In relazione a diverse questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto disposizioni normative contenute in questo capo, la Corte ha ordinato la restituzione degli atti ai giudici a quibus per un riesame della rilevanza alla luce delle sostanziali modifiche dovute all’introduzione in Costituzione, all’art. 111 Cost., dei principi del ‘‘giusto processo’’, ad opera della l. costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, nonché delle norme attuative che ne sono seguite. Ordinanza 7 aprile 2000, n. 95 Restituzione degli atti (in G.U., 12 aprile 2000, n. 16) Ordinanza 19 luglio 2000, n. 307 Restituzione degli atti (in G.U., 26 luglio 2000, n. 31) La Corte era stata chiamata a giudicare della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 101, comma 1, 111 e 112 Cost., dell’art. 511, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice, a fronte di un’istanza di parte con la quale si chiede una rinnovazione dell’esame di testi assunti nello stesso procedimento davanti a giudice persona fisica diversa non possa valutare l’irrilevanza, la manifesta superfluità o l’assoluta necessità del mezzo istruttorio richiesto. Ordinanza 27 aprile 2000, n. 121 Restituzione degli atti (in G.U., 3 maggio 2000, n. 19) Il giudice rimettente censurava, per violazione degli artt. 3, 101, comma 2, e 112 Cost., l’art. 513, comma 2, c.p.p., nella parte in cui subordinava all’accordo delle parti l’utilizzabilità ai fini della decisione delle dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari dall’imputato in procedimento connesso che si era avvalso in dibattimento della facoltà di non rispondere. Un numero consistente di questioni di legittimità costituzionale hanno, invece, investito la disciplina contenuta nel d.l. 7 gennaio 2000, n. 2, con cui era stata data una prima attuazione ai principi del ‘‘giusto processo’’, introdotti nell’art. 111 Cost. Tutte le questioni proposte, tuttavia, sono state rigettate dalla Corte costituzionale, che ha ordinato la restituzione degli atti ai giudici rimettenti per un riesame della rilevanza delle questioni proposte, alla luce delle modifiche alla disciplina introdotte in sede di conversione del decreto (l. 25 febbraio 2000, n. 35). Ordinanza 24 luglio 2000, n. 345 Restituzione degli atti (in G.U., 2 agosto 2000, n. 32) La questione di legittimità costituzionale aveva ad oggetto, per violazione degli artt. 3, 24 e ‘‘nuovo’’ 111 Cost., la disciplina transitoria di cui all’art. 1, comma 1, d.l. 7 gennaio 2000, n. 2, nella parte in cui limitava le garanzie della formazione della prova in contraddit-
— 1006 — torio ai procedimenti penali in corso alla data di entrata in vigore della l. costituzionale n. 2 del 1999 nei quali non sia stato dichiarato aperto il dibattimento. Ordinanza 6 novembre 2000, n. 475 Restituzione degli atti (in G.U., 15 novembre 2000, n. 47) La Corte era stata chiamata a giudicare della conformità al principio introdotto al ‘‘nuovo’’ comma 4 dell’art. 111, Cost., dell’art. 1, comma 2, d.l. 7 gennaio 2000, n. 2, nella parte in cui prevede che la colpevolezza dell’imputato possa essere provata anche attraverso dichiarazioni rese dal soggetto che, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore. ART. 512 Lettura di atti per sopravvenuta impossibilità di ripetizione Sentenza 25 ottobre 2000, n. 440 Non fondatezza nei sensi di cui in motivazione (in G.U., 2 novembre 2000, n. 45) La sentenza in oggetto risulta particolarmente interessante, poiché la Corte, chiamata a risolvere una questione di legittimità costituzionale su cui già si era pronunciata, ribalta decisamente la sua precedente decisione, alla luce dei nuovi principi costituzionali sul ‘‘giusto processo’’. La questione proposta aveva ad oggetto l’art. 512 c.p.p., nella parte in cui consente di dare lettura dei verbali delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria o al pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari da prossimi congiunti dell’imputato che in dibattimento si avvalgano della facoltà di non deporre ai sensi dell’art. 199 c.p.p. Questa possibilità era stata ammessa dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza interpretativa di rigetto n. 179 del 1994. Il giudice a quo rileva, tuttavia, come essa risulti oggi contrastante con i principi del ‘‘giusto processo’’ introdotti all’art. 111 Cost. dalla l. costituzionale n. 2 del 1999. La Corte accoglie le censure avanzate e, con un’altra sentenza interpretativa di rigetto, ribalta la sua precedente decisione. Nella motivazione della sentenza si legge, infatti, che il medesimo art. 512 c.p.p. non può più essere interpretato nel senso indicato nella sentenza n. 179 del 1994, poiché è cambiato il quadro normativo in base al quale la Corte si era pronunciata. Mentre allora quella lettura estensiva dell’art. 512 c.p.p. era stata ritenuta costituzionalmente imposta sulla base del principio di non dispersione dei mezzi di prova, oggi non può più ritenersi compatibile con il principio, costituzionalmente affermato dall’art. 111 Cost., della necessità che la prova si formi in contraddittorio. In particolare, quella lettura risulta oggi contrastante con la regola prevista al comma 4, in base al quale ‘‘la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore’’, regola che ammette deroghe solo a fronte di un’impossibilità di natura oggettiva. ART. 513 Lettura delle dichiarazioni rese dall’imputato nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare Ordinanza 25 ottobre 2000, n. 439 Manifesta inammissibilità (in G.U., 2 novembre 2000, n. 45) Premesso che, in sede dibattimentale, una persona imputata in procedimento connesso si era avvalsa della facoltà di non rispondere e che, in mancanza di accordo delle parti, il pubblico ministero aveva chiesto di contestarle le dichiarazioni rese durante le indagini preli-
— 1007 — minari in modo da acquisire le stesse al fascicolo per il dibattimento, il giudice procedente dubita della legittimità costituzionale della legittimità costituzionale dell’art. 513, comma 2, c.p.p., per contrasto con l’art. 111 Cost., come modificato dalla l. costituzionale 23 novembre 1999, n. 2. In particolare, si rileva il contrasto con il comma 4 dell’art. 111 Cost., che prevede che la colpevolezza dell’imputato non possa essere provata sulla base delle dichiarazioni di chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore. Rilevato questo contrasto, il giudice a quo ritiene di non avere altra scelta, se non quella di promuovere l’incidente di costituzionalità, sul presupposto che la legge costituzionale sopravvenuta non abroga le legge ordinaria precedente che risulta in contrasto con essa. La Corte dichiara la questione manifestamente inammissibile, osservando che nella specie non si tratta di prendere posizione sulla possibilità la legge costituzionale sopravvenuta possa, o meno, abrogare la legge ordinaria precedente, poiché l’immediata applicabilità ai processi in corso dei principi sanciti nel nuovo art. 111 Cost. è stabilita espressamente dal comma 2 dell’art. 1 d.l. n. 2 del 2000 (già emanato al momento della proposizione della questione in oggetto). In tal modo il contrasto si pone tra fonti dello stesso rango, come tale risolvibile (nel senso dell’abrogazione della norma impugnata) direttamente dal giudice a quo sulla base dei principi generali stabiliti dall’art. 15 delle preleggi. La manifesta inammissibilità è, quindi, dovuta ad un difetto di motivazione sulla rilevanza.
c) Nuove contestazioni ART. 516 Modifica dell’imputazione Ordinanza 27 aprile 2000, n. 120 Restituzione degli atti (in G.U., 2 maggio 2000, n. 19) La questione di legittimità costituzionale proposta all’attenzione della Corte aveva ad oggetto, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., l’art. 516 c.p.p., nella parte in cui non consente all’imputato di richiedere l’applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell’art. 444 c.p.p. relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento, quando esso non concerne un fatto che risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale o l’imputato non abbia tempestivamente proposto la richiesta in ordine alle originarie imputazioni. La Corte, tuttavia, non entra neppure nel merito della questione proposta, bensì ordina la restituzione degli atti per un riesame della rilevanza, poiché dagli atti del processo risulta che il reato contestato all’imputato, successivamente alla proposizione della questione in oggetto, è stato oggetto di depenalizzazione.
SENTENZA ART. 540 Provvisoria esecuzione delle disposizioni civili Ordinanza 18 aprile 2000, n. 105 Manifesta infondatezza (in G.U., 26 aprile 2000, n. 18) Con l’ordinanza in oggetto la Corte decide la questione di legittimità costituzionale dell’art. 540, comma 1, c.p.p., limitatamente all’inciso ‘‘quando ricorrono giustificati motivi’’,
— 1008 — per presunto contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. Pur consapevole del fatto che la Corte già si era pronunciata sulla medesima questione con la sentenza n. 94 del 1996, il giudice a quo ripropone la medesima questione, affermando di non condividerne la motivazione, senza però addurre nuovi argomenti. Tanto basta alla Corte per risolvere la questione nel senso della manifesta infondatezza e ribadire quanto già affermato nella sua precedente decisione, e cioè che la scelta in ordine alle condizioni di accesso all’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali nei diversi giudizi, entro il limite della ragionevolezza, spetta alla discrezionalità del legislatore e che quello di cui all’art. 282 c.p.c. (immediata esecutività della sentenza di primo grado fra le parti) non può considerarsi precetto inderogabile.
PROCEDIMENTO DAVANTI AL TRIBUNALE IN COMPOSIZIONE MONOCRATICA ART. 555 (vecchia numerazione) Decreto di citazione a giudizio Ordinanza 11 luglio 2000, n. 268 Restituzione degli atti (in G.U., 19 luglio 2000, n. 30) La Corte era stata chiamata a risolvere la questione di legittimità costituzionale dell’art. 555, comma 2, c.p.p., per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., poiché tale norma non prevede la nullità del decreto di citazione a giudizio, oltre che nell’ipotesi in cui non sia stato emesso l’invito a presentarsi per rendere l’interrogatorio ai sensi dell’art. 375, comma 3, c.p.p., ‘‘anche quando non è stata data comunque la possibilità all’indagato di sottoporsi liberamente e validamente all’interrogatorio’’. Con l’ordinanza in oggetto, tuttavia, viene ordinata la restituzione degli atti al giudice a quo per un riesame della rilevanza della questione, tenuto conto che, successivamente alla proposizione della questione, la norma denunciata è stata modificata nel senso che il previo invito all’indagato a presentarsi a rendere l’interrogatorio non costituisce più un obbligo per il pubblico ministero, bensì è sottoposto ad una richiesta in tal senso da parte dell’indagato stesso, cui deve essere comunicato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, ex art. 415-bis c.p.p. (vd. ora art. 552, che ha sostituito l’art. 555 previgente).
IMPUGNAZIONI
a) Appello ART. 604 Questioni di nullità Ordinanza 20 dicembre 2000, n. 561 Manifesta infondatezza (in G.U., 27 dicembre 2000, n. 53) La questione di legittimità costituzionale decisa nell’ordinanza in oggetto si risolve in un problema interpretativo relativo all’applicabilità dell’art. 604, comma 4, c.p.p. ai giudizi davanti al pretore e ora al giudice monocratico. Il giudice rimettente dubita, infatti, della legittimità costituzionale della disposizione in oggetto nella parte in cui non prevede che, quando
— 1009 — venga accertata con sentenza dal giudice di appello una delle nullità indicate nell’art. 179 c.p.p., da cui sia derivata la nullità del provvedimento che dispone il giudizio davanti al pretore o al tribunale in composizione monocratica, gli atti debbano essere rinviati al pubblico ministero e non, invece, ‘‘al giudice che procedeva quando si è verificata la nullità’’. Osserva, infatti, il giudice a quo che nei procedimenti di fronte al pretore, e ora al giudice monocratico, il decreto di citazione che dispone il giudizio non è emesso da un giudice, ma dallo stesso pubblico ministero, in una fase ‘‘preprocessuale’’. Il rinvio degli atti al giudice e non al pubblico ministero impone al giudice, ai sensi dell’art. 143 disp. att. c.p.p., di emettere un nuovo decreto che dispone il giudizio, senza far regredire il procedimento al momento in cui si è verificata la nullità. Questo comporta, sempre secondo il giudice rimettente, una violazione dell’art. 24 Cost., perché non consente all’imputato di accedere ai riti alternativi, e dell’art. 112 Cost., poiché l’azione penale viene esercitata, mediante l’emissione del nuovo decreto a giudizio, dal giudice e non dal pubblico ministero. La Corte respinge la questione proposta, poiché il giudice a quo si basa su una errata premessa interpretativa, sia per quanto riguarda l’art. 604, comma 4, c.p.p., sia l’art. 143 disp. att. c.p.p. Infatti, la giurisprudenza della Corte di cassazione è costante nel ritenere che, nell’ipotesi in esame, gli atti debbano essere rinviati al pubblico ministero e non al giudice e che l’art. 143 disp. att. c.p.p. non si applica al procedimento di fronte al pretore e, ora, di conseguenza, di fronte al giudice monocratico, nel caso di citazione diretta. Inoltre, anche a non voler condividere l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, la Corte osserva come non si sarebbe comunque potuta verificare alcuna lesione del diritto di difesa dell’imputato, relativamente all’accesso ai riti alternativi, poiché la disciplina transitoria di cui agli artt. 223 e 224 d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, applicabile al processo a quo, aveva rimesso ‘‘in termini’’ l’imputato per richiedere il giudizio abbreviato, l’applicazione della pena su richiesta delle parti e l’oblazione. Quanto all’art. 112 Cost., poi, si tratta di un parametro inconferente rispetto alla questione proposta, poiché il decreto di citazione a giudizio è nello stesso tempo atto di esercizio dell’azione penale e vocatio in iudicium dell’imputato e, nel caso in oggetto la nullità del decreto (per notifica del decreto con modalità poi dichiarate incostituzionali), riguardava questo secondo aspetto.
b) Ricorso per cassazione ART. 616 Atti preliminari Sentenza 13 giugno 2000, n. 186 Non fondatezza Illegittimità costituzionale (in G.U., 21 giugno 2000, n. 26) La questione di legittimità costituzionale proposta dal giudice a quo ha ad oggetto l’art. 616 c.p.p., nella parte in cui — in caso di declaratoria di inammissibilità del ricorso di cassazione (non anche di rigetto) — prevede la condanna della parte privata ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonché una somma a favore della cassa delle ammende, anche in assenza di colpa ad essa ascrivibile nell’esercizio del diritto di impugnazione. Tale disposizione si porrebbe in contrasto con l’art. 24 Cost., in quanto la condanna deve essere pronunciata anche in assenza di colpa del ricorrente, e con l’art. 3 Cost., in quanto equipara il ricorrente temerario, superficiale o avventato, al ricorrente incolpevole. Il giudice a quo, a sostegno della propria censura, ricorda le decisioni con cui la Corte ha ritenuto incostituzionale la disposizione che, in caso di proscioglimento dell’imputato, poneva a carico del querelante le spese del processo, indipendentemente da una sua colpa nell’esercizio del diritto di querela.
— 1010 — La Corte affronta la questione proposta, distinguendo i due profili della condanna al pagamento delle spese processuali e della condanna al pagamento in favore della cassa delle ammende. Relativamente al primo profilo, la Corte dichiara non fondata la questione proposta, osservando come la posizione del querelante ‘‘incolpevole’’ non possa essere assimilata a quella del ricorrente ‘‘incolpevole’’. Solo nella prima ipotesi, infatti, l’ ‘‘incolpevolezza’’ che esime dal pagamento delle spese processuali dipende da un fatto che può essere totalmente estraneo al comportamento del querelante. Relativamente al secondo profilo, invece, la Corte accoglie la questione proposta, considerando che il pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende costituisce una vera e propria sanzione, non commisurata al costo del processo. Esigendo la natura sanzionatoria di tale condanna la valutazione della condotta del ricorrente, deve ritenersi incostituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., la disposizione che condanna il ricorrente al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende, indipendentemente da ogni valutazione dell’elemento soggettivo. ART. 627 Giudizio di rinvio dopo annullamento ART. 628 Impugnabilità della sentenza del giudice di rinvio Ordinanza 17 novembre 2000, n. 501 Manifesta infondatezza (in G.U., 22 novembre 2000, n. 48) Con l’ordinanza in oggetto, la Corte torna ad occuparsi di un tema noto, quello della rivendicazione da parte del giudice rinvio della possibilità di sindacare eventuali errores in iudicando e in procedendo della Corte di cassazione. Il giudice a quo chiede, infatti, alla Corte di dichiarare costituzionalmente illegittimi, per violazione degli artt. 3, comma 1, 24, commi 1 e 2, e 25, comma 2, Cost., gli artt. 627, comma 3, e 628, comma 2, c.p.p., nella parte in cui il primo non prevede che il giudice di rinvio possa non uniformarsi alla sentenza della Corte di cassazione ‘‘per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa’’, ed il secondo ‘‘impone il ricorso per cassazione per inosservanza della disposizione dell’art. 627, comma 3, c.p.p. qualora le questioni di diritto decise dalla Cassazione siano in irragionevole contrasto con i diritti fondamentali della difesa costituzionalmente garantiti’’. Inoltre, viene denunciata l’illegittimità costituzionale dell’art. 627, comma 4, c.p.p., in relazione agli artt. 521, comma 2, 522, comma 1, 620, lett. f), 621 e 185 c.p.p., nella parte in cui fa divieto di proporre, nel giudizio di rinvio, nullità assolute concernenti l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero e l’immutabilità della contestazione, verificatesi nei precedenti giudizi, anche quando tali nullità si siano prodotte esclusivamente per effetto della pronuncia della Corte di cassazione, la quale abbia ritenuto, solo nella sentenza, che il fatto per cui si procede è diverso da quello enunciato nel decreto di citazione a giudizio. La Corte respinge tutte le questioni proposte con una pronuncia di manifesta infondatezza, osservando come le disposizioni denunciate si inquadrino in un sistema volto a far sì che il procedimento progredisca verso una soluzione finale, attraverso una concatenazione di atti aventi valore definitivo, così da impedire la perpetuazione dei giudizi. L’esigenza di definitività e di certezza è, infatti, un valore costituzionalmente protetto, ricollegabile sia all’effettività della tutela giurisdizionale, di cui all’art. 24 Cost., sia al principio della ragionevole durata dei processi, di cui all’art. 111 Cost. Il sistema non impedisce, invece, al giudice di rinvio di sollevare un dubbio di costituzionalità relativamente, non alle disposizioni relative al giudizio rescissorio, ma a quelle che è tenuto ad applicare nell’interpretazione datante dalla Corte di cassazione.
— 1011 — c) Revisione Sentenza 28 luglio 2000, n. 395 Inammissibilità (in G.U., 2 agosto 2000, n. 32) Con la sentenza in oggetto, la Corte risolve la questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., degli artt. 629, 630 e ss. c.p.p., nella parte in cui non prevedono e non disciplinano la revisione delle decisioni della Corte di cassazione per mero errore di fatto (materiale e meramente percettivo) nella lettura di atti interni al giudizio. La Corte di cassazione, in qualità di giudice a quo, premette, infatti, di avere, in un primo momento, dichiarato l’inammissibilità di un ricorso proposto dal difensore di un imputato contumace, per mancanza di specifico mandato. Successivamente, il condannato contumace aveva chiesto alla medesima Corte la ‘‘revoca’’ dell’ordinanza di inammissibilità, poiché in realtà il mandato, come risultava dagli atti, era esistente. A fronte di ciò, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione chiedeva di procedersi alla correzione dell’errore materiale ai sensi dell’art. 130 c.p.p. La Corte di cassazione, tuttavia, non ritenendo di poter procedere in tal senso, poiché oggetto del procedimento di correzione materiale possono essere soltanto gli errori che, lasciando immutato il contenuto decisorio della pronuncia, possono essere corretti solo per coordinare l’estrinsecazione formale della decisione al suo reale contenuto, sollevava la questione di legittimità costituzionale di cui sopra. La Corte costituzionale, condividendo l’eccezione proposta dall’Avvocatura generale dello Stato, dichiara l’inammissibilità della questione proposta per irrilevanza, dal momento che, dovendosi pronunciare sulla ‘‘revoca’’ dell’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 130 c.p.p., le norme denunciate non sono rilevanti per la decisione che la Corte di cassazione è stata chiamata a prendere nel processo a quo. Nel prendere questa decisione, la Corte costituzionale si mostra, tuttavia, perfettamente consapevole della necessità di trovare nel sistema un rimedio ai casi in cui la Corte di cassazione incorra in errori di tipo percettivo, dai quali derivi una compressione del diritto di difesa. A ciò ritiene, però che debba rispondere la stessa Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica ad essa riservata, eventualmente riflettendo sulla possibilità che sia proprio il procedimento di cui all’art. 130 c.p.p., interpretato secundum constitutionem, lo strumento più adatto. Sul tema si segnala l’introduzione, da parte dell’art. 6, comma 6, della l. 26 marzo 2001, n. 128 (in G.U. 19 aprile 2001, n. 91) dell’art. 685-bis c.p.p., intolato « ricorso straordinario per errore materiale o di fatto », con cui viene colmata la lacuna oggetto della decisione di cui sopra.
ESECUZIONE ART. 656 Esecuzione delle pene detentive Ordinanza 21 dicembre 2000, n. 572 Restituzione degli atti (in G.U., 27 dicembre 2000, n. 53) La questione di legittimità decisa con tale ordinanza aveva ad oggetto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 656, c.p.p., per contrasto con l’art. 3, comma 1, e 112 Cost., nella parte in cui il comma 5 prevede la consegna al condannato dell’ordine di carcerazione e del decreto di sospensione di tale ordine, in luogo della loro notificazione ex artt. 148 ss. c.p.p., e per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., nella parte in cui i commi 8 e 9 non preve-
— 1012 — dono che la condizione di irreperibilità o di latitanza del condannato costituisca, rispettivamente, causa di revoca della sospensione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive e causa ostativa della sospensione stessa. La Corte, senza entrare nel merito della questione proposta, ordina la restituzione degli atti al giudice a quo, poiché, successivamente alle ordinanze di rimessione, il comma 5 dell’art. 656 c.p.p. è stato modificato dall’art. 10 del d.l. 24 novembre 2000, n. 341, sostituendo le parole ‘‘sono consegnati’’, con la altre ‘‘sono notificati’’, nel senso, cioè, voluto dallo stesso giudice rimettente. ART. 665 Giudice competente Ordinanza 23 giugno 2000, n. 240 Manifesta infondatezza (in G.U., 5 luglio 2000, n. 28) Il giudice a quo aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 665, commi 4 e 4-bis, c.p.p., nella parte in cui non prevede che, se l’esecuzione concerne più provvedimenti emessi da giudici diversi, in composizione monocratica e collegiale, sia in ogni caso competente il giudice in composizione collegiale. Ritiene, infatti, contrastante con gli artt. 3 e 24 Cost. la scelta di far ‘‘prevalere’’ la competenza del giudice in composizione collegiale, rispetto a quella in composizione monocratica, solo quando i provvedimenti sono stati emessi dallo stesso Tribunale, e non anche quando i provvedimenti sono stati emessi da giudici di diversi (ove si applica il criterio cronologico, ossia la competenza è del giudice che ha emesso l’ultimo provvedimento). La Corte dichiara la manifesta infondatezza della questione. Indipendentemente dall’interpretazione data dal giudice a quo alla norma impugnata, su cui non si è ancora formato un orientamento giurisprudenziale, ritiene, infatti, che non sia riscontrabile alcuna violazione dei parametri costituzionali invocati. Come già affermato nella sua giurisprudenza, le scelte relative all’attribuzione della competenza spettano alla discrezionalità del legislatore e, se non irragionevoli, non sono censurabili sul terreno della legittimità costituzionale. ART. 187 disp. att. c.p.p. Determinazione del reato più grave Ordinanza 10 maggio 2000, n. 136 Restituzione degli atti (in G.U., 17 maggio 2000, n. 21) Il giudice rimettente aveva chiamato la Corte costituzionale a giudicare della legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., dell’art. 187 disp. att. c.p.p., nella parte in cui dispone che per reato più grave deve intendersi quello per il quale è stata in concreto inflitta la pena più grave, anche nel caso in cui è frutto dell’applicazione dell’istituto della continuazione fra più reati. La Corte, tuttavia, non entra neppure nel merito della questione proposta, ordinando la restituzione degli atti al giudice rimettente, poiché il reato per cui si procedeva nel giudizio a quo era stato, nel frattempo, depenalizzato.
PROCESSO PENALE A CARICO DI MINORENNI Misure cautelari Sentenza 21 luglio 2000 n. 323 Non fondatezza (in G.U., 26 luglio 2000, n. 31) La questione di costituzionalità risolta con la sentenza n. 323 del 2000 dalla Corte co-
— 1013 — stituzionale ha ad oggetto l’art. 274, comma 1, lett. c), ultimo periodo, c.p.p. e l’art. 23 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, ‘‘nella parte in cui non prevedono che anche all’imputato minorenne non sia applicabile la misura cautelare qualora, pur sussistendo il pericolo della reiterazione di fatti delittuosi dello stesso tipo di quelli per cui si procede, tale delitto sia punibile con pena non inferiore nel massimo a quattro anni’’. Il dubbio di legittimità costituzionale proposto dal giudice rimettente ha dunque ad oggetto il rapporto tra disciplina processuale generale e disciplina specificamente prevista per i minorenni, poiché, a seguito della modifica legislativa apportata dall’art. 3, comma 2, della l. n. 332 del 1995, all’art. 274, comma 1, lett. c), c.p.p., la disciplina prevista per i maggiorenni risulta più favorevole rispetto a quella prevista dall’art. 23 d.P.R. n. 448 del 1988 per i minorenni. Ciò determina, secondo il giudice a quo, una violazione degli artt. 3, 13, 27 e 31 Cost. La Corte dichiara infondata la questione proposta per errata premessa interpretativa. Osserva che, indipendentemente dalla regola posta dall’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 448 del 1998, in base al quale le disposizioni del codice di procedura penale si osservano solo per quanto non previsto nel decreto stesso, è necessario considerare che l’art. 3, comma 2, l. n. 332 del 1995 è disposizione, non solo successiva rispetto alla disciplina del processo minorile, ma anche specifica. Ha introdotto, infatti, per il processo ordinario, un nuovo limite all’applicabilità delle misure cautelari, commisurato ai delitti della stessa specie, che non trova riscontro in lacuna disposizione del decreto sul processo minorile. Sulla base di una interpretazione sistematica è dunque non solo possibile, ma anzi necessario, applicare questa disposizione anche ai minorenni, se si vuole dare rilievo al fatto il ricorso alla custodia cautelare deve sempre costituire l’extrema ratio, ma soprattutto tenere conto del principio del favor minoris. Sentenza 26 luglio 2000, n. 359 Illegittimità costituzionale (in G.U., 2 agosto 2000, n. 32) Il giudice rimettente aveva denunciato l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 76 Cost., dell’art. 23, comma 2, lett. b), d.P.R. n. 448 del 1988, come sostituito dall’art. 42 del d.lgs. 14 gennaio 1991, n. 12, che ha introdotto la possibilità per il giudice di disporre la custodia cautelare nei confronti del minorenne ‘‘se l’imputato si è dato alla fuga o sussiste concreto pericolo che egli si dia alla fuga’’. La l. delega 16 febbraio 1987, n. 81, consentiva, infatti, al legislatore delegato di prevedere il ricorso a provvedimenti restrittivi solo nei casi di delitti di maggiore gravità, quando esistono gravi ed inderogabili esigenze istruttorie ovvero in presenza di gravi esigenze di tutela della collettività, non anche nel caso di pericolo di fuga. La Corte accoglie la questione di legittimità costituzionale proposta rilevando un evidente contrasto tra quanto previsto nella norma oggetto e la legge delega. Applicazione della pena su richiesta delle parti Sentenza 12 luglio 2000, n. 272 Non fondatezza (in G.U., 19 luglio 2000, n. 30) Con la sentenza n. 272 del 2000, la Corte risolve la questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., dell’art. 25 d.P.R. n. 448 del 1988, nella parte in cui esclude l’operatività nel processo penale minorile dell’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti anche quando l’imputato sia divenuto maggiorenne nelle more del giudizio. Nel rito a carico dell’imputato minorenne, vige, infatti, di regola, il principio generale dell’ultrattività della condizione di minore di età. Pur con delle eccezioni, gli istituti collegati agli obiettivi ‘‘pedagogici’’ restano, cioè, strettamente ancorati al momento del fatto. Il giudice a quo ritiene che, nell’ipotesi considerata, sia irragionevole impedire l’accesso a questo
— 1014 — rito a chi abbia raggiunto la maggiore età e, quindi, presumibilmente, la maturità e la capacità di valutazione e di decisione. La Corte pronuncia una decisione di non fondatezza, non condividendo il presupposto del giudice a quo in ordine alla ratio della scelta operata dal legislatore. Il patteggiamento — osserva la Corte — non mira, infatti, a concedere un beneficio all’imputato, bensì è uno strumento volto a conseguire obiettivi di rapidità ed economia processuale. La scelta di impedire al minorenne di accedere a tale rito è il risultato di un bilanciamento che vede, da una parte, l’esigenza, appunto, di economia processuale, dall’altra, le peculiarità del processo minorile, volto al recupero del minorenne e alla tutela della sua personalità. Ciò non esclude — sempre secondo la Corte — che possano essere introdotte anche per i minorenni forme che si richiamano alla strutture del ‘‘patteggiamento’’, ma si tratta di una scelta che spettano al legislatore. Esecuzione Ordinanza 31 luglio 2000, n. 414 Manifesta inammissibilità (in G.U., 9 agosto 2000, n. 33) Con l’ordinanza n. 414 del 2000, la Corte dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 686 c.p.p., nella parte in cui non prevede che l’iscrizione al casellario giudiziale ‘‘non abbia luogo allorquando la sentenza di cui all’art. 26 d.P.R. n. 448 del 1998 sia collegata alla sussistenza di una causa di non imputabilità ex lege, quale quella relativa al minore infraquattordicenne, la quale rende impossibile, ab inizio, la costituzione di un valido rapporto processuale’’. Premesso che il giudice a quo era stato chiamato a decidere dell’appello proposto contro una sentenza con la quale il giudice per le indagini preliminari aveva pronunciato, ex art. 26 d.P.R. n. 448 del 1998, sentenza di non luogo a procedere per difetto di imputabilità nei confronti di alcuni imputati infraquattordicenni, la Corte dichiara la questione manifestamente inammissibile per difetto del requisito della rilevanza, poiché il giudice del merito non è competente ad applicare una disciplina, come quella evocata, che presuppone l’irrevocabilità della sentenza da iscrivere.
LEGGI COMPLEMENTARI AL CODICE DI PROCEDURA PENALE
a) L. 30 luglio 1990, n. 217 (‘‘Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti’’) ART. 1 Istituzione del patrocinio Ordinanza 24 luglio 2000, n. 339 Inammissibilità (in G.U., 2 agosto 2000, n. 32) La Corte costituzionale, ancora una volta, viene chiamata a decidere della questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 24, comma 3, c.p.p., dell’art. 1, comma 8 della l. n. 217 del 1990, nella parte in cui limita il beneficio del patrocinio a spese dello Stato soltanto agli imputati di delitti, escludendolo per gli imputati di contravvenzioni. Già in altre occasioni la Corte aveva dichiarato l’infondatezza della questione proposta (cfr., in particolare, la sentenza n. 243 del 1994). Qui, invece, senza entrare nuovamente nel merito, ne dichiara la manifesta inammissibilità per irrilevanza, poiché dagli atti risulta che il
— 1015 — giudice a quo ha sollevato la questione tardivamente, ossia dopo aver già respinto, nei confronti dell’imputato, la richiesta di ammissione al beneficio. ART. 9 Nomina del difensore Sentenza 28 luglio 2000, n. 394 Non fondatezza (in G.U., 2 agosto 2000, n. 32) Con la sentenza in oggetto, la Corte risolve la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9 della l. 30 luglio 1990, n. 217, nella parte in cui impone agli imputati non abbienti di scegliere il proprio difensore fra i professionisti iscritti agli albi del distretto di Corte d’appello in cui ha sede il giudice davanti al quale pende il procedimento. Questa limitazione territoriale determinerebbe una disparità di trattamento rispetto agli imputati abbienti che possono, invece, scegliere il difensore nell’ambito del territorio nazionale, e una violazione dell’art. 24, commi 2 e 3, Cost. La Corte respinge la censura di incostituzionalità con una pronuncia di non fondatezza, ricordando come nella sua giurisprudenza abbia già più volte affermato che il legislatore può, nella sua discrezionalità, stabilire criteri relativi all’ambito territoriale della difesa tecnica, a tutela della funzionalità dell’organizzazione giudiziaria, ma anche di altri interessi meritevoli di tutela, tra cui le esigenze di bilancio dello stato. Proprio quest’ultima necessità è alla base della scelta operata dalla disposizione denunciata, avendo riguardo sia al costo delle prestazioni professionali dei difensori, sia delle spese per le trasferte. Accertata la non irragionevolezza della disciplina denunciata, ogni altra differenza attiene a questioni di mero fatto, non rilevanti nel giudizio di legittimità costituzionale. Il diritto di difesa può dunque dirsi sufficientemente garantito, tanto più se si considera che, all’interno di ogni distretto di Corte d’appello, vi è un’ampia possibilità di scelta tra gli avvocati ivi iscritti. FRANCESCA BIONDI Dottoranda di ricerca in diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Ferrara
GIURISPRUDENZA
c) Giudizi di Cassazione
CASSAZIONE PENALE — Sez. un. — 26 settembre 2000 (dep. 11 gennaio 2001) Pres. Consoli — Rel. Cosentino — P.M. Galgano (concl. conf.) — Ric. Mennuni Misure cautelari personali — Impugnazioni — Riesame — Procedimento — Trasmissione degli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini — Verbale dell’interrogatorio ‘‘di garanzia’’ — Obbligo — Condizioni (C.p.p. artt. 294, 309). Tra gli elementi sopravvenuti favorevoli alla persona sottoposta alle indagini, che l’art. 309 comma 5o c.p.p. impone all’autorità procedente di trasmettere al tribunale del riesame, non va necessariamente annoverato l’interrogatorio ‘‘di garanzia’’ al quale l’indiziato stesso sia stato sottoposto ai sensi dell’art. 294 c.p.p. (o ai sensi dell’art. 391 c.p.p., se il provvedimento coercitivo è stato adottato in sede di convalida dell’arresto o del fermo), che è diretto esclusivamente a consentirgli un immediato contatto con il giudice; solo se nel corso dell’interrogatorio la persona sottoposta alla misura cautelare abbia addotto concreti elementi fattuali, di natura oggettiva, a lei favorevoli, l’autorità procedente è tenuta a trasmettere il relativo verbale al tribunale del riesame (1). (Omissis). — I. Il 13 marzo 2000 il g.i.p. del Tribunale di Ancona dispose la custodia cautelare in carcere di Marco Mennuni e Samuel Ciavarella, indagati di rapina aggravata in danno all’agenzia n. 1 del Banco di Sicilia e del connesso reato di lesioni volontarie in danno del dipendente Bruno Manduca. Avanzata dagli indagati istanza di riesame, nella quale adducevano l’inefficacia della misura cautelare adottata (per non avere il p.m. trasmesso al tribunale, nei cinque giorni dalla domanda, i verbali degli interrogatori di garanzia, in violazione all’art. 309, 5o e 10o comma, c.p.p.) e l’insussistenza delle esigenze cautelari, quel giudice, con ordinanza del 22 marzo 2000, la rigettò, escludendo, in particolare, che il verbale di interrogatorio sia, per sua natura, atto che porti costantemente elementi a supporto della difesa e rilevando che, in concreto, gli indagati stessi non avevano contestato gli addebiti, rendendo, anzi, confessione; che neppure poteva profilarsi un’ipotesi di nullità (a regime intermedio) per violazione del diritto di difesa, siccome anche ipotizzato. Quanto, infine, alle esigenze cautelari, fu ritenuta sussistente quella di cui all’art. 274, lett. c), c.p.p. Avverso l’indicata ordinanza proponeva ricorso per cassazione il solo Men-
— 1017 — nuni assumendo che erroneamente il tribunale non aveva dichiarato la perdita di efficacia della misura, non considerando che l’interrogatorio dell’indagato, in quanto mezzo giuridico di difesa, va sempre ricompreso tra gli « elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta ad indagini » e deve essere, pertanto, inviato, ex art. 309, 5o comma, c.p.p., al giudice del riesame. Ciò tanto più che, nel caso di specie, esso ricorrente aveva reso ampia confessione. Assegnato il ricorso alla seconda sezione penale, all’udienza del 6 giugno 2000, il collegio, rilevato che, sulla questione sollevata, si erano formati vari (quattro) contrastanti indirizzi giurisprudenziali, lo rimetteva alle sezioni unite ex art. 618 c.p.p. II. Per un corretto inquadramento dei termini della questione appare opportuno riportare integralmente il contenuto del 5o comma dell’art. 309 c.p.p. che ad essa ha dato origine: « Il presidente cura che (della richiesta di riesame) sia dato immediato avviso all’autorità giudiziaria procedente la quale, entro il giorno successivo, e comunque non oltre il quinto giorno, trasmette al tribunale gli atti presentati a norma dell’art. 291, 1o comma, nonché tutti gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta ad indagini ». Il 10o comma della citata norma, poi, fa discendere dall’inosservanza di un siffatto tempestivo adempimento la perdita di efficacia della misura coercitiva. Nell’interpretazione della citata disposizione si sono formati quattro divergenti indirizzi giurisprudenziali. Secondo un primo orientamento l’interrogatorio di garanzia va sempre trasmesso al tribunale del riesame nel termine di legge, sotto comminatoria d’inefficacia della misura, posto che esso rappresenta un atto il cui esame è obbligatoriamente demandato all’organo che decide (Cass., sez. V, 13 dicembre 1999, Garofalo; 28 ottobre 1996, Minniello, Foro it., Rep. 1998, voce Misure cautelari personali, n. 382), contenendo lo stesso elementi difensivi che debbono essere valutati dal giudice. L’orientamento opposto (Cass., sez. II, 28 ottobre 1997, Brenvaldi, ibid., n. 375; sez. I, 14 ottobre 1999, Pupillo; sez. VI, 16 febbraio 2000, Procopio; sez. IV, 22 gennaio 1997, Frappampina, id., Rep. 1997, voce cit., n. 489) sostiene, invece, che l’interrogatorio di garanzia rappresenta, di per sé, un atto neutro, non essendo stato concepito come istituto diretto alla raccolta di elementi di prova, bensì come mezzo predisposto a realizzare il « contatto » dell’indagato con il suo giudice affinché questi possa accertare, nel più breve termine possibile, se permangano le condizioni di applicabilità della custodia. Quando la norma (art. 309, 5o comma, c.p.p.), invero, indica gli elementi sopravvenuti in favore dell’indagato, non si riferisce a mere asserzioni difensive ma, al contrario, a circostanze fattuali, di natura oggettiva, che risultino utili a discolparlo. Né le asserzioni di questo (rese nell’interrogatorio) e neppure le argomentazioni difensive rientrano nella previsione della disposizione di cui sopra. Un terzo indirizzo, per così dire intermedio ma, in realtà, assai vicino al precedente (Cass., sez. I, 12 gennaio 2000, Verde; sez. VI, 16 giugno 1999, Buccoliero; sez. V, 25 gennaio 1996, Massaro, id., Rep. 1996, voce cit., n. 512; sez. VI, 7 aprile 1999, Vernieri; sez. I, 28 aprile 1999, Bollo, id., Rep. 1999, voce cit., n. 373) ritiene che il legislatore, con la locuzione « elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini », si sia voluto riferire a fatti oggettivi e non
— 1018 — a semplici posizioni difensive e che, pertanto, l’interrogatorio di garanzia, in un siffatto contesto, non rientra nella previsione normativa di cui sopra (per cui la mancata trasmissione del relativo verbale non determina l’inefficacia della misura) a meno che elementi fattuali favorevoli all’indagato siano contenuti in detto verbale, nel qual caso è onere della parte fornirne specifica indicazione con la richiesta che il verbale stesso sia trasmesso al giudice del riesame. Ultimo e, per la verità, alquanto isolato orientamento (Cass., sez. II, 10 luglio 1996, Bazzoli, id., Rep. 1997, voce cit., n. 509; sez. VI, 3 dicembre 1998, Gaggiola, id., Rep. 1999, voce cit., n. 372; sez. I, 19 giugno 1997, Bonura, id., Rep. 1997, voce cit., n. 476) è quello secondo il quale l’omessa trasmissione di detto verbale non dà luogo alla perdita di efficacia della misura cautelare ma a una nullità degli atti a carattere intermedio ovvero ad un vizio di motivazione dell’ordinanza del tribunale il quale, nel decidere, non è stato messo a conoscenza di tutti gli atti. III. Per una corretta soluzione del problema va subito osservato che quest’ultimo indirizzo non può essere seguìto in quanto risulta completamente al di fuori del dettato normativo, il quale, come si è visto, parla d’inefficacia della misura e non si riferisce affatto alla nullità degli atti (evidentemente dell’ordinanza del tribunale del riesame) discendente da una violazione del diritto di difesa ovvero a un vizio di motivazione dell’ordinanza stessa (i giudici sarebbero costretti a decidere in assenza di un documento essenziale) e ciò preclude ogni ulteriore rilievo al riguardo. Va osservato, altresì, che il secondo e il terzo indirizzo possono in concreto essere unificati in quanto entrambi escludono che sussista un obbligo del p.m. di inviare al tribunale del riesame il verbale dell’interrogatorio di garanzia dell’indagato, quale atto sempre favorevole a lui, anche se, per l’ultimo orientamento, un siffatto obbligo sussiste (e, correlativamente il giudice, d’ufficio o su impulso della difesa, deve acquisire il documento) qualora da esso emergano fatti positivi per la posizione processuale dell’indagato medesimo. È facile, invero, osservare che, in quest’ultima ipotesi, non viene preso in considerazione l’atto cartolare, bensì le circostanze in esso contenute le quali, essendo producenti, devono essere conosciute dall’organo del riesame. Ma è evidente, allora, che, in tale guisa, si rientra nella regola generale che il secondo orientamento propugna. Sempre per una corretta soluzione del problema va ancora osservato che il primo orientamento non può essere giustificato con il richiamo all’importanza precipua che l’interrogatorio di garanzia riveste per la difesa nel processo penale di guisa che può essere definito, sotto tale profilo, l’atto fondamentale a tutela dell’indagato, in quanto tale non eliminabile né sostituibile, come queste sezioni unite hanno sancito nella sentenza 28 gennaio 1998, Budini (id., Rep. 1998, voce cit., n. 217). E neppure esso trae valida ragion d’essere nell’art. 309, 5o comma, c.p.p. che ha la finalità di assicurare al tribunale del riesame l’integrale conoscenza di tutti gli elementi favorevoli all’indagato di modo che, per regola, resta precluso al p.m. di selezionare il materiale da inviare a quel giudice. Né, infine, torna utile alla tesi propugnata il rilievo che la difesa non ha alcun onere di indicare al giudice (per farli acquisire) gli atti ritenuti giovevoli per la posizione dell’assistito. E ciò in quanto:
— 1019 — 1) non si tratta di porre in discussione l’importanza « fondamentale » dell’interrogatorio in esame il quale, però, come regola, ha una funzione di controllo e di garanzia (verifica della sussistenza dei presupposti della misura cautelare) e, eccezionalmente, può assumere una valenza probatoria, se del caso favorevole all’indagato e solo in quest’ultima ipotesi appare necessario che il tribunale del riesame ne sia messo a conoscenza con le modalità e le sanzioni indicate dalla norma citata; 2) il p.m., secondo il 5o comma di essa, deve trasmettere al tribunale « gli atti presentati a norma dell’art. 291, 1o comma, nonché tutti gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini » di guisa che, mentre per gli atti posti a base della misura cautelare l’organo procedente non ha scelta di sorta dovendoli trasmettere « tutti », per gli elementi sopravvenuti è ineliminabile un suo potere di selezione, essendo egli tenuto ad inviare solo quelli « favorevoli » all’indagato; 3) che la difesa, infine, non abbia alcun onere di indicare al giudice gli atti ritenuti favorevoli al proprio assistito è circostanza allo stesso tempo pacifica quanto improducente. Non di onere, invero, è il caso di parlare, bensì d’interesse ed ogni diligente difensore, avendone la possibilità, sarà ben sollecito ad indicare al giudice quegli elementi che ritiene tornino utili alla posizione assunta. I principali argomenti addotti da dottrina e giurisprudenza a sostegno del primo orientamento, perciò, non appaiono insuperabili e, comunque, non sono conclusivi. IV. Vi sono, invece, ragioni decisive che inducono a ritenere corretto il secondo indirizzo, beninteso con le precisazioni già in precedenza indicate. La prima di esse è che l’interrogatorio di garanzia non rappresenta sempre e in concreto « elemento favorevole all’indagato », potendo, al contrario, risolversi in suo danno (si pensi all’ipotesi, che è, poi, quella di specie, di confessione) di guisa che imporre la trasmissione del relativo verbale al giudice in ogni caso equivale a significare che il p.m. è tenuto a comunicargli tutti gli elementi sopravvenuti, di qualsivoglia segno essi siano: il che rappresenta un palese stravolgimento della norma che pacificamente è stata dettata nell’interesse dell’indagato e che finirebbe, invece, per ritorcersi contro di lui. La seconda ragione è che scopo dell’interrogatorio di garanzia, come si è detto, è, di regola, quello di consentire, in tempi ristretti, il contatto dell’indagato con il giudice perché questi possa valutare se permangano le condizioni di applicabilità della custodia e non anche quello della raccolta di mezzi di prova. Beninteso una siffatta eventualità può verificarsi e solo in tale caso il p.m. dovrà, dunque, rimettere al giudice anche il relativo verbale. La terza ragione è di carattere letterale in quanto il 5o comma dell’art. 309 del codice di rito impone al p.m. di trasmettere al tribunale del riesame gli « atti » posti a fondamento della misura coercitiva e gli « elementi » sopravvenuti favorevoli all’indagato. Orbene la distinzione tra « atto » ed « elemento » è evidente e corrisponde, in pratica, a quella tra contenente e contenuto, nel senso che nell’« atto » possono rinvenirsi « elementi » se del caso favorevoli all’indagato. Le due locuzioni, in altri termini, non coincidono affatto, nel senso che la prima (« atto ») è più ampia della seconda (« elemento ») che, a sua volta si traduce non in mere as-
— 1020 — serzioni difensive, ma in specifici dati fattuali, di natura oggettiva, che se sopravvenuti e discolpanti, determinano l’obbligo di invio di cui alla disposizione citata. La quarta e conclusiva ragione è, infine, di ordine storico-sistematico. Il 5o comma più volte citato, infatti, è stato introdotto, nell’attuale formulazione, dalla l. 8 agosto 1995 n. 332 al fine evidente di evitare eventuali poco commendevoli comportamenti del p.m. il quale, pur essendo venuto in possesso di elementi favorevoli all’indagato, volutamente o colposamente ometta di comunicarli al tribunale, che, in tal modo, non può avere conoscenza completa di tutta la situazione probatoria (e, invero, nella precedente formulazione la disposizione significativamente dettava: « Il presidente cura che sia dato immediato avviso all’autorità giudiziaria procedente che, entro il giorno successivo, trasmette al tribunale gli atti presentati a norma delI’art. 291, 1o comma ». Né, d’altro canto, in caso di inottemperanza, era prevista la perdita di efficacia della misura). Orbene un siffatto pericolo, gravissimo per l’indagato, che ha determinato l’introduzione della novella del 1995 con la sanzione estrema, in caso d’inosservanza, della perdita di efficacia della misura, non può mai verificarsi in concreto qualora non sia trasmesso l’interrogatorio di garanzia, dal momento che di esso è già a perfetta conoscenza l’indagato medesimo e il suo difensore, che hanno, pertanto, tutti i mezzi per avvalersene e adeguatamente difendersi. Sostenere, perciò, che, anche in tale ipotesi deve trovare applicazione la sanzione di cui innanzi è del tutto illogico e al di fuori del sistema normativo. E siccome, nel caso in esame, il Mennuni si è limitato a rendere confessione, non adducendo elementi fattuali idonei a contrastare l’accusa, il relativo verbale di interrogatorio non può ritenersi elemento sopravvenuto a lui favorevole e correttamente, pertanto, non fu trasmesso al tribunale del riesame. Il gravame, siccome infondato, va, pertanto, rigettato. (Omissis).
——————— (1)
Elementi favorevoli alla persona sottoposta a custodia cautelare ed interrogatorio « di garanzia » a norma dell’art. 294 c.p.p.: diritti e oneri delle parti processuali nel procedimento di riesame.
1. La sentenza in esame affronta e risolve un contrasto giurisprudenziale, sorto fra diverse sezioni della Suprema corte, attorno alla questione se l’interrogatorio previsto dall’art. 294 c.p.p. debba sempre rientrare fra gli « elementi sopravvenuti favorevoli alla persona sottoposta alle indagini » e, in quanto tale, il relativo verbale vada sempre trasmesso al tribunale del riesame, a pena di caducazione della misura cautelare, come previsto dal combinato disposto del 5o e del 10o comma dell’art. 309 c.p.p. Le Sezioni unite hanno stabilito che il verbale dell’interrogatorio ‘‘di garanzia’’ costituisce elemento favorevole alla persona sottoposta alla misura cautelare solo nel caso in cui nel corso dell’interrogatorio l’indiziato (1) abbia addotto con(1) Come è noto nelle disposizioni del libro IV del codice di procedura penale si fa riferimento all’imputato, ma non essendovi alcuna contraria statuizione, tali norme si applicano senz’altro anche alla persona sottoposta alle indagini. Anche se deve rilevarsi che non è più riscontrabile la coerenza sistematica presente nell’impianto originario del codice che, come detto, parlava solo di imputato, facendo leva
— 1021 — creti elementi di prova a lui favorevoli. Conseguentemente si afferma che sussista in capo all’autorità procedente (2) l’obbligo di trasmissione di tale verbale solo sull’estensione alla persona sottoposta alle indagini dei diritti, delle garanzie nonché « di ogni altra disposizione relativa all’imputato, salvo che sia diversamente disposto » (art. 61 c.p.p.). Infatti, la l. 8 agosto 1995, n. 332, come si vedrà tra breve nel testo, ha profondamente innovato il sistema delle misure cautelari, attraverso disposizioni che fanno riferimento sia alla persona sottoposta alle indagini che all’imputato. Tale tecnica legislativa potrebbe indurre a ritenere che le norme che non siano state oggetto di tali modificazioni debbano applicarsi ai soli soggetti che abbiano assunto formalmente la qualità di imputato ai sensi dell’art. 60 c.p.p. (si veda, ad esempio, per le ripercussioni sull’art. 274 c.p.p. della modifica in esame, che ha riguardato le lettere a e c ma non la lettera b di tale articolo, G. ILLUMINATI, Commento all’art. 3 l. 8 agosto 1995, n. 332, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale. Nuovi diritti della difesa e riforma della custodia cautelare, Cedam, 1995, p. 75 e s.). Per comodità espositiva, posto che le misure cautelari possono essere disposte in ogni fase del procedimento, la persona ad esse sottoposta può quindi essere chiamata genericamente indiziato, essendo necessariamente gravata da gravi indizî di colpevolezza ai sensi dell’art. 273 c.p.p. Cfr. sul punto, per tutti, V. GREVI, Misure cautelari, in G. CONSO-V. GREVI, Compendio di procedura penale, Cedam, 2000, p. 349. (2) L’art. 309 comma 5o c.p.p. fa riferimento, quale destinatario dell’avviso di presentazione del gravame, all’autorità procedente, organo che solo eccezionalmente coincide con il giudice che ha emesso il provvedimento. Durante la fase delle indagini preliminari l’autorità procedente è il pubblico ministero, mentre competente a emettere l’ordinanza è il giudice per le indagini preliminari. Successivamente all’esercizio dell’azione penale le due figure coincidono in quella del giudice dell’udienza preliminare o del dibattimento. Ma dal momento che vi può essere una soluzione di continuità fra emissione dell’ordinanza e richiesta di riesame, è possibile che il procedimento nel frattempo sia progredito ad una fase successiva — e ciò è tipico nel caso di riesame richiesto dal latitante che abbia dimostrato di non aver avuto tempestiva conoscenza del provvedimento — il problema è che in queste ipotesi l’organo procedente non ha la disponibilità della documentazione in quanto gli atti posti a fondamento della misura cautelare non necessariamente sono destinati ad essere inseriti nel fascicolo del dibattimento. Per l’identificazione dell’autorità procedente in tali casi in dottrina sono state proposte quasi tutte le possibili alternative. Proprio per evitare gli inconvenienti della mancata disponibilità degli atti si è suggerito intendere il participio presente « procedente » come riferito al tempo di adozione della misura, e cristallizzare in questo preciso momento l’individuazione di tale soggetto, senza che in nessun modo possano incidere le successive vicende del procedimento (A. GIANNONE, Commento all’art. 309, in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di M. Chiavario, vol. III, Utet, 1990 p. 265). Secondo una diversa interpretazione, si è ritenuto come autorità procedente durante la fase delle indagini preliminari il pubblico ministero, a meno che il procedimento non sia passato a una fase successiva (Cfr. Gius. AMATO, sub art. 309, in AA.VV., Commentario al nuovo codice di procedura penale, a cura di E. Amodio e O. Dominioni, vol. III, parte II, Giuffré, 1990, p. 297). Questa opinione è confortata dalla lettura dei lavori preparatori della legge n. 332 del 1995, dove, nel corso della discussione riguardo la trasformazione in perentorio del termine per la trasmissione di cui all’art. 309 comma 5o c.p.p., esplicitamente si afferma che tale attività è responsabilità dell’ufficio del pubblico ministero (cfr. intervento del dep. Della Valle, in Atti Camera, XII Legislatura. Bollettino giunte e commissioni. Commissione giustizia, 13 dicembre 1994, p. 205), oppure ancora, in senso opposto, l’ufficio da cui emana l’ordinanza, cioè giudice per le indagini preliminari o, negli stati e gradi seguenti, chi procede (F. CORDERO, Procedura penale, Giuffré, 6o ed., 2001, p. 532). Essendo l’avviso a tale autorità funzionale alla trasmissione, da parte di questa, degli atti di cui all’art. 309 comma 5o c.p.p., la giurisprudenza ha dato rilevanza determinante, ai fini dell’individuazione dell’autorità procedente, all’elemento della disponibilità degli atti. Anche successivamente all’esercizio dell’azione penale, nel periodo compreso fra la pronuncia del decreto che dispone il giudizio e la trasmissione degli atti, la competenza permane in capo al giudice dell’udienza preliminare fino a quando non sia venuta meno la disponibilità materiale degli stessi a seguito della formazione e della spedizione del fascicolo per il dibattimento a norma degli artt. 431 e 432 c.p.p. (Cass., Sez. un., 24 marzo 1995, Marchese, in Cass. pen., 1995, p. 2122. Nella stessa udienza è stata pronunciata, sulla stessa questione e in eguali termini, altra sentenza in ricorso Ranieri). Il riferimento contenuto nel comma 5o dell’art. 309 c.p.p. va, quindi, inteso come autorità « attualmente » procedente: in questo senso Cass., Sez. II, 12 dicembre 1995, Raia, in Cass. pen., 1997, p. 782, con nota di M. COSTA, L’« autorità procedente » al momento della richiesta di riesame e la decorrenza del termine di cui all’art. 309 comma 5o c.p.p.; Cass., Sez. V, 16 ottobre 1997, Attar, in C.E.D. Cass., n. 209235. Non può quindi condividersi l’opinione di A. CONFALONIERI, I controlli sulle misure cautelari, in AA.VV., Le impugnazioni penali, a cura di A. Gaito, Utet, 1998, p. 943, sub nota 218, la quale intende per organo « procedente » il giudice che ha disposto la misura, in considerazione del fatto che, a seguito della legge n. 332 del 1995, gli atti a fondamento della valutazione de libertate sono tutti depositati nella sua cancelleria insieme all’ordinanza impugnata. In questi casi, quindi, la trasmissione dovrà invece avvenire tramite il pubblico ministero che a suo tempo ha chiesto la misura cautelare (in giurisprudenza già Cass., Sez. II, 15 gennaio 1991, Di Somma, in Cass. pen., 1991, II, p. 607). Tale organo, nel caso il procedimento sia nel frattempo progredito ad altra fase, deve comunicare al giudice del riesame di essersi spogliato del fascicolo cautelare, indicandogli l’autorità attualmente proce-
— 1022 — « qualora da esso emergano fatti positivi per la posizione processuale dell’indagato medesimo ». Ai fini di poter valutare il contenuto della decisione in esame, occorre ricostruire le modifiche legislative che hanno riguardato i poteri cognitivi del tribunale della libertà, nel quadro delle peculiari finalità del procedimento di riesame. 2. Ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione ha « diritto di indirizzare un ricorso ad un tribunale affinché esso decida, entro brevi termini, sulla legalità della sua detenzione, e ne ordini la scarcerazione se questa è illegale ». Questa disposizione, contenuta nell’art. 5 par. 4o della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per un verso anticipa sul piano delle carte internazionali e, per altro verso, sintetizza efficacemente la funzione dell’istituto del riesame (3). Il quale, dando concretezza alla garanzia del controllo sul provvedimento che ha disposto la restrizione della libertà personale ante iudicatum, si caratterizza, in particolare, per l’ampiezza dei poteri del tribunale (4), e per la celerità con cui il relativo procedimento deve concludersi (5). Da tali peculiarità deriva l’importanza della previsione relativa alla comdente; in questa ipotesi il presidente ridarà inizio all’iter, interpellando l’organo giurisdizionale interessato. Un’altra possibilità prospettata è che il pubblico ministero, dopo essere stato informato ad opera del tribunale competente dell’instaurazione di un procedimento di riesame, « sua sponte, ‘‘giri’’ la richiesta degli atti al giudice procedente, il quale procederà all’invio » (M. COSTA, op. cit., p. 783). Sarebbe quindi buona norma che il pubblico ministero, al momento della richiesta della misura, provveda alla formazione di un fascicolo del procedimento cautelare. Questa documentazione avrebbe per così dire vita autonoma, venendosi via via ad arricchire del vario materiale pertinente a tale vicenda (ad esempio gli interrogatorî ex artt. 299 comma 3o ter, 301 comma 2o ter c.p.p., oltre, ovviamente, a quello in esame; gli accertamenti sulla condizioni di salute dell’imputato a norma dell’art. 299 comma 4o ter c.p.p.; la richiesta di proroga della misura di cui agli artt. 301 comma 2o ter e 305 comma 2o c.p.p.; i risultati delle investigazioni difensive di cui all’art. 327 bis c.p.p.) e potendo essere trasmessa da un organo all’altro in base al naturale progredire del procedimento, in modo da evitare, così, difficoltose ricostruzioni a posteriori di quali siano gli atti su cui si fonda la misura impugnata, quando vi sia già stata la separazione fra fascicolo del dibattimento e quello del pubblico ministero. (3) Per un’analisi dell’istituto si veda M. CERESA GASTALDO, Il riesame delle misure coercitive nel processo penale, Giuffré, 1993; M. FERRAIOLI, Il riesame dei provvedimenti sulla libertà personale, Giuffré, 1989 e, per l’introduzione di tale istituto ad opera della l. 12 agosto 1982, n. 532, AA.VV., Tribunale della libertà e garanzie individuali, a cura di V. Grevi, Zanichelli, 1983. (4) Il riesame, come noto, costituisce un mezzo di impugnazione totalmente devolutivo, non limitato dai motivi eventualmente proposti, che possono, anzi, essere « anche » enunciati con la richiesta. (5) Per effetto della sentenza della Corte cost. 22 giugno 1998, n. 232 (in Cass. pen., 1998, p. 2850, con nota di M. CERESA GASTALDO, Una inedita interpretazione della Corte costituzionale circa la decorrenza del termine ex art. 309 comma 5o c.p.p. nel procedimento di riesame de libertate p. 2855; su tale pronuncia si veda anche R. BRICCHETTI, Ribaltato l’orientamento della cassazione e il termine diventa perentorio, in Guida al dir., 1998, n. 26, p. 77; M. CHIAVARIO, I rischi di garanzie più forti delle strutture, in Il Sole-24Ore, 24 giugno 1998, p. 31; G. FRIGO, Finalmente il valore della libertà personale supera il muro degli adempimenti burocratici, in Guida al dir., 1998, f. 26, p. 79; M. PISANI, Per l’immediatezza del giudizio di riesame de libertate, in Gazz. giur., 1998, f. 32, p. 10; C. SANTORIELLO, Una nuova interpretazione del quinto comma dell’art. 309 c.p.p.: tanti dubbi e nessuna certezza, in Giur. cost., 1998, p. 1813; G. SPANGHER, La « ragionevole » prevalenza dei diritti dell’imputato sulle difficoltà organizzative, in Dir. pen. e proc., 1998, p. 1105; in argomento cfr. anche G. ROMEO, Tempi del riesame e conti che non tornano, in Cass. pen., 1998, p. 2884; M. TIBERI, Ragionevolezza dei tempi nel giudizio di riesame, in Giur. it., 1999, p. 1486), nonché a seguito dell’orientamento della giurisprudenza che ha eliminato ogni soluzione di continuità all’interno del procedimento, interpretando il termine « trasmette » contenuto nel 5o comma dell’art. 309 c.p.p. come « fa pervenire » (Cass., Sez. un., 29 ottobre 1997, Schillaci, in Cass. pen., 1998, p. 792, con nota di F. NUZZO, La « trasmissione degli atti » al tribunale del riesame nella giurisprudenza di legittimità; su tale pronuncia si vedano anche A. M. BENENATI, Il rispetto dei tempi nel procedimento di riesame: un’esigenza irrinunciabile, in Giur. it., 1998, p. 761; E. CESQUI, La misura cautelare perde efficacia se entro cinque giorni dalla richiesta di riesame gli atti non sono effettivamente pervenuti al tribunale del riesame, in Gazz. giur., 1998, f. 4, p. 8; L. GIULIANI, Caducazione della misura cautelare per ritardata « trasmissione » degli atti al tribunale del riesame, in Dir. pen. e proc., 1998, p. 341) il procedimento di riesame si conclude, oggi, entro quindici giorni dalla presentazione della richiesta.
— 1023 — pletezza del materiale probatorio messo a disposizione del tribunale del riesame: limitati poteri cognitivi vanificherebbero, infatti, l’ampiezza di quelli decisorî facendone mancare il presupposto essenziale (6). Poiché il testo originario del 5o comma dell’art. 309 c.p.p. prescriveva che oggetto di trasmissione al tribunale del riesame fossero solo gli atti presentati dal pubblico ministero in sede di richiesta della misura cautelare, tale disposizione aveva prodotto una serie di difficoltà interpretative e di contrasti giurisprudenziali riguardo sia all’identificazione degli atti da trasmettere, sia al termine per la trasmissione ed alla sussistenza di sanzioni per la violazione del termine stesso (7). All’interno di questa cornice, la l. 8 agosto 1995, n. 332 è intervenuta, per quel che qui importa, attraverso tre importanti cambiamenti: da un lato specificando gli atti di cui il tribunale deve essere in possesso ai fini della decisione e fissando, inoltre, il termine entro il quale tale trasmissione deve avvenire; dall’altro sancendo la caducazione della misura coercitiva in caso di mancato rispetto di tale termine (8). Il complesso delle modifiche apportate da tale legge al procedimento di riesame, ha reso ancora più rilevante la questione dell’individuazione degli atti da trasmettere, in quanto dalla mancata trasmissione discende ora direttamente la perdita di efficacia della misura cautelare. Tali atti sono individuati come quelli presentati con la richiesta (quindi una categoria oggettiva di facile identificazione), e come quelli sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini, (6) In considerazione del fatto che è preclusa, in sede di udienza di riesame, ogni attività istruttoria, la giurisprudenza di legittimità ha più volte evidenziato l’importanza dell’estensione dei poteri cognitivi perché il tribunale possa provvedere sulla richiesta di riesame (si veda, per tutte, Cass. Sez. un., 28 giugno 1993, Dell’Omo, in Cass. pen., 1994, p. 36). Occorre sottolineare che una decisione sulla base del solo materiale trasmesso, indipendentemente dalla sua compiutezza, pur essendo astrattamente coerente con i caratteri del sistema accusatorio cui è ispirato il codice di rito, secondo i quali il giudice deve decidere iuxta alligata et probata partium, non consentirebbe al gravame di conseguire in scopo cui è preordinato. Finalità del giudizio del riesame non è solo vagliare la legittimità dell’ordinanza impugnata, ma anche verificare la sussistenza ‘‘attuale’’ dei presupposti della misura disposta. La completezza del materiale posto a conoscenza del tribunale è quindi un requisito funzionale sia ad esigenze riconducibili all’esplicazione del diritto alla difesa ed alla tutela della libertà personale, in quanto il tribunale può riformare l’ordinanza anche per motivi diversi da quelli presentati con il ricorso, sia alle finalità perseguite dall’accusa, dal momento che è consentita al tribunale del riesame la possibilità di conferma del provvedimento per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione dell’ordinanza impugnata. Motivi e ragioni che possono ben essere desunti anche da atti che il pubblico ministero avesse reputato superflui, nell’ottica di quella valutazione globale del quadro indiziario prescritta ad ogni organo investito circa la sussistenza dei presupposti legittimanti una misura cautelare. È appena il caso di accennare che il procedimento di riesame è stato introdotto sotto la vigenza del codice di procedura penale del 1930, ove tale problema non sussisteva, dal momento che tale rito era caratterizzato dalla segretezza del fase istruttoria, che rendeva possibile la trasmissione integrale dell’intero materiale in possesso dell’organo istruttore. Questa disciplina garantiva una completa cognizione da parte del tribunale del riesame, e non comportava alcuna conseguenza pregiudizievole al regime del segreto istruttorio, dal momento che tali atti rimanevano comunque ignoti alla difesa. Con la valorizzazione del contraddittorio operata dal nuovo rito, tale disciplina avrebbe comportato una impensabile totale discovery anticipata, sicché si è dovuto limitare il materiale posto a conoscenza della difesa a quello necessario per il procedimento di controllo dell’ordinanza impugnata. In sede di primo commento si era dimostrato critico nei confronti di tale scelta, nel senso che « se il prezzo per questa scoperta [degli atti alla difesa] è stato quello di legittimare il pubblico ministero a selezionare i documenti agli occhi del giudice per le indagini preliminari, quel prezzo non valeva la pena pagarlo, esso è stato troppo alto rispetto alla contropartita », M. NOBILI, La nuova procedura penale. Lezioni agli studenti, Clueb, 1989, p. 143. Sostiene, invece, che anche nell’attuale disciplina « tutti gli atti di indagine che riguardino, direttamente o indirettamente, quel soggetto debbano essere proposti al vaglio del G.i.p prima e del tribunale del riesame poi », A.M. BENENATI, Gli atti da trasmettere al tribunale del riesame: un problema ancora irrisolto, in Giur. it., 1999, p. 594. (7) Per un quadro di sintesi delle problematiche antecedenti la riforma dell’art. 309 c.p.p., di cui fra breve nel testo, si veda A. GIANNONE, Commento all’art. 16 l. 8 agosto 1995, n. 332, in Leg. pen., 1995, p. 724. (8) Per una valutazione complessiva di tale riforma si veda V. GREVI, Più ombre che luci nella l. 8 agosto 1995, n. 332, tra istanze garantiste ed esigenze del processo, in AA.VV., Misure cautelari e diritto di difesa nella l. 8 agosto 1995 n. 332, a cura dello stesso, Giuffrè, 1996, p. 3 ss.
— 1024 — categoria quest’ultima, al contrario, che necessita di una previa valutazione, volta appunto a verificare la natura di elemento « a favore ». Il tutto alla luce, è bene anticiparlo subito, della possibilità per le parti di presentare direttamente in udienza ulteriori elementi, come previsto dall’art. 309 comma 9o c.p.p. Al fine di valutare un elemento come favorevole si deve fare riferimento all’idoneità dello stesso ad escludere la responsabilità dell’imputato. Nella prospettiva cautelare tale carattere non è limitato a quegli atti che, incidendo sulla gravità degli indizî di colpevolezza, comportano il venir meno della misura cautelare, ma riguarda anche quelli che, contenendo elementi sia a carico che a discarico, possono comunque comportare una attenuazione delle esigenze cautelari, con conseguente applicazione di una misura meno grave o della medesima misura, ma con modalità meno gravose (9). Quindi il parametro di riferimento per la qualificazione di un elemento come favorevole non può essere altro che il quadro cautelare dal quale emergono il fumus commissi delicti ed il periculum libertatis, così come illustrati nella richiesta di applicazione della misura cautelare da parte del pubblico ministero: quadro rispetto al quale il materiale probatorio addotto dovrebbe essere in grado di orientare il giudice del riesame verso una soluzione più favorevole all’indiziato (10). In concreto, però, non è sempre agevole ravvisare la differenza fra elementi a favore della persona sottoposta alle indagini ed elementi su cui la misura cautelare si fonda, quali atti diversi e facilmente distinguibili, come sembra risultare dagli artt. 291 e 309 c.p.p. Al contrario è spesso necessaria un’attività di valutazione dell’elemento come favorevole o meno, la quale comporta un certo grado di discrezionalità, ed incombe necessariamente sull’organo preposto alla trasmissione, cioè per lo più sul pubblico ministero. Il fatto di avere affidato a tale soggetto processuale una specie di potere di scelta del materiale da trasmettere (effetto indesiderato di una riforma tutta orientata in senso opposto), presenta problemi non solo nel caso di atti a contenuto neutro, di cui è difficile stabilire con esattezza la natura, ma anche nell’ipotesi di atti che contengano elementi sia a favore che a sfavore. In questo caso l’obbligo di trasmettere tutti gli elementi a favore dell’imputato può venire a trovarsi in conflitto con le esigenze di indagine tutelate da segreto investigativo (11). (9) Come esempi sono stati proposti una intercettazione telefonica in cui l’imputato, pur ammettendo gli addebiti, manifesta l’intenzione di abbandonare ogni proposito criminoso, facendo, così, venir meno il « concreto pericolo » di reiterazione del reato, ovvero un documento compromettente la cui acquisizione elimina qualsiasi « concreto e attuale pericolo » di inquinamento probatorio: così G. GIOSTRA Commento all’art. 8 l. 8 agosto 1995, n. 332, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale. Nuovi diritti della difesa e riforma della custodia cautelare, cit., p. 127. (10) In questo senso V. GREVI, Garanzie difensive e misere cautelari personali, in AA.VV., Il diritto di difesa dalle indagini preliminari ai riti alternativi (Atti del XX convegno di studio « Enrico de Nicola », Cagliari 29 settembre-1o ottobre 1995), Giuffrè, 1997, p. 96. Così anche R. ADORNO, Inosservanza dell’obbligo di trasmissione ex art. 291 comma 1o c.p.p. e nullità dell’ordinanza cautelare, in Cass. pen., 1997, p. 1930. Si fa riferimento alla richiesta del pubblico ministero — e non invece all’ordinanza del giudice — in quanto la definizione di elemento favorevole deve essere tale da ricomprendere anche il materiale probatorio presentato al giudice competente in sede di richiesta della misura cautelare ex art. 291 c.p.p. (11) Per esemplificare come questa disciplina metta in difficoltà il pubblico ministero riguardo le possibili ripercussioni di tale discovery sulla prosecuzione delle indagini, seppur nel momento della scelta se richiedere una misura cautelare, si è prospettato il caso del verbale di dichiarazioni favorevoli all’indiziato, il cui contenuto risulterebbe, però, falso in base ad un’altra attività investigativa (per esempio un’intercettazione ambientale) non ancora conclusa. In tale caso il pubblico ministero, per adempiere all’obbligo di trasmettere tutti gli elementi favorevoli, sarebbe posto dinanzi all’alternativa fra allegare il solo atto favorevole alla persona sottoposta alle indagini, nella consapevolezza della sua falsità, e non mettendo così l’organo giudicante nelle condizioni di valutare il completo quadro indiziario acquisito, oppure rendere pubblica l’attività investigativa ancora in corso, con la conseguenza che, paradossalmente, proprio l’applicazione della misura cautelare costituisce pericolo per l’acquisizione e la genuinità della prova:
— 1025 — Infatti, se l’omissione della trasmissione al giudice di elementi che anche successivamente possono essere ritenuti favorevoli all’indiziato può comportare la caducazione della misura, allora la nozione di elemento « a favore » può ampliarsi fino a ricomprendere elementi parzialmente o solo potenzialmente valutabili come tali. Senonché, se si abbandona il contenuto della richiesta del pubblico ministero come parametro discretivo per la qualificazione di un atto come favorevole, si rischia di perdere il riferimento a dati oggettivi per entrare nel campo del probabile. Infatti, il pubblico ministero dovrebbe tentare di prefigurarsi la probabile incidenza dell’atto in suo possesso su una futura strategia difensiva. Dal momento che la sanzione per la mancata trasmissione di un atto che in futuro può risultare favorevole all’indiziato è rappresentata dalla perdita di efficacia della misura, il pubblico ministero sarebbe necessariamente portato a ‘‘largheggiare’’ sulla trasmissione degli atti, con relativo rischio di nocumento alla prosecuzione delle indagini (12). 3. Le difficoltà interpretative appena esposte risultano ancor più rilevanti con riguardo all’interrogatorio ‘‘di garanzia’’. La perdita di efficacia della misura cautelare, come conseguenza della omessa trasmissione al tribunale del riesame del verbale dell’atto previsto dall’art. 294 c.p.p., viene fatta dipendere, per lo più, dalla sua qualificazione giuridica, e cioè se esso debba essere considerato tout court come elemento favorevole. Sul punto in giurisprudenza si sono manifestati ben quattro diversi orientamenti. Stando ad un primo indirizzo, per essere qualificato elemento « a favore » non è sufficiente che l’interrogatorio contenga posizioni difensive che si risolvano nella mera negazione di assunti accusatorî, ovvero nella prospettazione di una diversa lettura dei fatti, contrapponibile alle tesi dell’accusa. Occorrerebbe, invece, sempre distinguere, in questo caso, fra l’interrogatorio contenente effettivi elementi a vantaggio dell’indiziato e quello teso solo a contestare la fondatezza degli addebiti: unicamente nel primo caso si rientrerebbe nella previsione di cui all’art. così G. CASELLI-A. INGROIA, Gli effetti della l. 8 agosto 1995, n. 332 sui procedimenti relativi a reati di criminalità organizzata, in AA.VV., Misure cautelari e diritto di difesa nella l. 8 agosto 1995, n. 332, cit., p. 375. (12) È stato infatti affermato che il valore di prova di un elemento non sarebbe definibile se non in relazione alle prospettazioni dell’accusa e della difesa, alla quale sola spetta decidere quali atti siano utilizzabili a proprio favore. Secondo questa interpretazione il pubblico ministero, in sede di trasmissione, e il giudice, in sede di valutazione, « devono fare riferimento, per quanto è possibile, alla prospettiva della difesa, al fine di individuare gli atti che le risultino favorevoli »: così Cass., Sez. V, 26 novembre 1996, Marmai, in Cass. pen., 1998, p. 571, con nota di M. MERCONE, Il fascicolo del riesame tra esigenze contenutistiche, termini e sanzioni processuali. Negli stessi termini A. NAPPI, Sull’individuazione degli atti che il pubblico ministero deve trasmettere al giudice per le decisioni de libertate, in Gazz. giur., 1996, f. 44, p. 2, nonché ID., Guida al codice di procedura penale, Giuffré, 8o ed., 2001, p. 725, il quale è anche l’estensore di tale sentenza. Se così fosse il pubblico ministero sarebbe tenuto a trasmettere non già i soli atti che egli ritenga siano potenzialmente favorevoli all’indagato, « bensì tutti gli atti che non siano manifestamente irrilevanti in funzione delle difese già esercitate o esercitabili da parte dell’accusato ». Il tribunale del riesame, una volta proposta eccezione di caducazione della misura per omessa trasmissione di un elemento favorevole, dovrebbe verificare se tale elemento non sia stato prodotto in copia dalla difesa, e se esso sia in concreto rilevante in relazione alle difese effettivamente dispiegate dalla persona sottoposta alle indagini (per l’affermazione che si producono gli effetti « invalidanti e caducatorî » previsti dai commi 5o e 10o dell’art. 309 c.p.p. « solo quando gli elementi di prova di cui sia stata omessa la trasmissione al giudice del riesame siano idonei ad assumere in concreto una specifica rilevanza probatoria in favore del destinatario » si veda Cass., Sez. V, 21 dicembre 1999, Castrogiovanni, in Cass. pen., 2001, p. 221). Ma non per questo tale valutazione è semplice, anzi, specialmente l’identificazione dell’atto rilevante per una difesa potenzialmente esercitabile, cioè un atto in grado di cambiare la strategia difensiva, sembra un operazione anche facilmente ricostruibile a posteriori (cioè nel momento in cui il tribunale della libertà o la Corte di cassazione devono valutare la rilevanza dell’omissione), ma spesso difficilmente prevedibile a priori (cioè nel momento in cui l’autorità giudiziaria procedente deve decidere se trasmettere l’atto), tenendo presente che questo criterio deve essere di ausilio per quegli atti passibili di una molteplicità di letture alternative.
— 1026 — 309 comma 5o c.p.p. In questa prospettiva, dunque, negandosi la costante qualificabilità dell’interrogatorio ‘‘di garanzia’’ come elemento favorevole alla persona sottoposta alle indagini, la sua mancata trasmissione al tribunale della libertà non comporterebbe, automaticamente, la perdita di efficacia della misura cautelare. Piuttosto tale conseguenza si verifica soltanto nel caso in cui la suddetta omissione abbia comportato la mancata allegazione di specifici elementi fattuali, così da impedire al giudice di conoscere appieno e nella loro globalità le emergenze processuali acquisite dal pubblico ministero. Secondo questo orientamento, inoltre, è onere della parte interessata indicare specificamente nella richiesta che il verbale sia trasmesso, evidenziando gli elementi contenuti in tale atto che assumono rilevanza e la prospettiva difensiva di cui costituiscono riscontro (13). Una variante decisamente più drastica di tale indirizzo esclude in radice che l’interrogatorio possa rientrare fra gli elementi sopravvenuti favorevoli all’indiziato. Secondo questo orientamento, tale atto, essendo qualificabile come strumento di difesa della persona sottoposta alla misura cautelare, e non come mezzo di prova, non rientrerebbe nella previsione del 5o comma dell’art. 309 c.p.p., che farebbe riferimento solo a specifici elementi fattuali di natura oggettiva (14). Queste interpretazioni, concordi nel sostenere la possibilità di non trasmettere il verbale dell’interrogatorio ex art. 294 c.p.p., sono state molto criticate, in quanto non solo limiterebbero il potere conoscitivo del tribunale distrettuale, privo di poteri istruttorî, ma costituirebbero una vera e propria svalutazione del ruolo dell’interrogatorio in questione (15). Si è affermato, infatti, che l’analisi della disciplina di questo istituto escluderebbe una valutazione caso per caso, ma esso andrebbe, invece, qualificato come atto in ogni caso « a favore ». Dall’art. 291 c.p.p., con riferimento alle memorie e deduzioni difensive, e dall’art. 292 lett. c bis c.p.p., con riferimento all’obbligo di motivazione dell’ordinanza che dispone la misura riguardo gli elementi forniti dalla difesa, si evincerebbe che gli atti prodotti dalla difesa sono comunque favorevoli, avendo valore determinate il solo fatto della loro provenienza. Tanto più che, se l’interrogatorio fosse assunto durante il procedimento di riesame, l’atto verrebbe senz’altro valutato dal tribunale per la sua decisione (16). Alla luce di questa diversa posizione ermeneutica, dun(13) Cass., Sez. V, 25 gennaio 1996, Massaro, in Cass. pen., 1996, p. 3736, con nota critica di A. MARANDOLA, Riesame del provvedimento cautelare e trasmissione ex art. 309 c.p.p. dell’interrogatorio della persona in vinculis; Cass., Sez. I, 20 febbraio 1997, Lo Gatto, in Arch. n. proc. pen., 1997, p. 350; Cass., Sez. VI, 2 dicembre 1997, Notarianni, in Arch. n. proc. pen., 1998, p. 57; Cass., Sez. VI, 7 aprile 1999, Vernieri, in Riv. pen., 2000, p. 416; Cass., Sez. I, 28 aprile 1999, Bollo, in Giur. it., 2000, p. 363, con nota redazionale di C. SANTORIELLO; Cass., Sez. VI, 16 giugno 1999, Buccoliero, in Cass. pen., 2000, p. 2696; Cass., Sez. I, 12 gennaio 2000, Verde, in C.E.D. Cass., n. 215421. In dottrina accolgono tale tesi E. APRILE, I procedimenti dinanzi al tribunale della libertà, Giuffrè, 1999, p. 83 ss.; F. NUZZO, Considerazioni sugli elementi a favore dell’imputato nel procedimento di riesame, in Cass. pen., 1998, p. 178, nonché ID., La « trasmissione degli atti » al tribunale del riesame nella giurisprudenza di legittimità, in Cass. pen., 1998, p. 1927. (14) Cass., Sez. IV, 22 gennaio 1997, Frappampina, in Cass. pen., 1998, p. 1707; Cass., Sez. II, 28 ottobre 1997, Brenvaldi, in Riv. pen., 1998, p. 292; Cass., Sez. I, 14 ottobre 1999, Pupillo, in C.E.D. Cass., n. 214703; Cass., Sez. VI, 16 febbraio 2000, Procopio, in Giust. pen., III, 2001, c. 189. (15) Parla di « svilimento dell’interrogatorio come strumento difensivo, sommerso da una presunzione di non credibilità » A. BEVERE, Coercizione personale. Limiti e garanzie, Giuffrè, 1998, p. 229, che contesta inoltre la diversa credibilità che verrebbe data a tale atto in caso di « autoaccusa, o meglio ancora, eteroaccusa ». In realtà la giurisprudenza sopra citata (Cass., Sez. V, 25 gennaio 1996, Massaro, cit.) esplicitamente chiarisce che nell’interrogatorio la cui mancata allegazione viene contestata, il ricorrente non aveva fornito neppure « prospettazioni di specifici elementi di fatto, che — se riscontrati — potessero eventualmente risolversi in elementi favorevoli ». (16) Così A. MARANDOLA, op. cit., p. 3740. Si noti, peraltro, che il collegamento logico fra le norme citate non è dato univoco, dal momento che la stessa sentenza criticata (Cass., Sez. V, 25 gennaio 1996, Massaro, cit.), valorizzando la relazione con l’art. 358 c.p.p. che impone al pubblico ministero di « svolgere altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini », lo pone a fondamento della distinzione fra elementi a favore dell’indagato e deduzioni e memorie difensive,
— 1027 — que, verbale dell’interrogatorio sostenuto dal soggetto in vinculis dovrebbe essere di regola ricompreso fra gli elementi sopraggiunti in favore della persona sottoposta alle indagini, la cui mancata trasmissione provoca la caducazione della misura, rappresentando esso stesso, e non le singole prospettazioni difensive in esso contenute, l’elemento sopravvenuto favorevole di cui al 5o comma dell’art. 309 c.p.p. (17). Inoltre l’obbligo sussisterebbe in capo all’autorità giudiziaria procedente, prescindendo dalla circostanza che le parti possano presentare elementi direttamente in udienza: infatti, diversamente opinando, si configurerebbe un intervento suppletivo del prevenuto rispetto al dovere imposto al pubblico ministero, mentre l’inosservanza del dovere gravante sull’autorità giudiziaria non può essere fonte di oneri per la parte privata (18). Si deve registrare, infine, un ulteriore orientamento concorde circa la sussistenza in ogni caso dell’obbligo di trasmissione dell’interrogatorio previsto dall’art. 294 c.p.p., ma divergente in ordine alle conseguenze della relativa omissione. Conseguenze che sono state ravvisate — anziché nella caducazione della misura — ora nella nullità, di carattere intermedio, dell’ordinanza del tribunale della libertà per la sussistenza di una violazione del diritto di difesa, ex art. 178 lett. c c.p.p., nel procedimento di riesame (19), ora nel vizio di motivazione della suddetta ordinanza a causa dell’omessa valutazione di tale atto, ex art. 606 comma 1o lett. e c.p.p. (20). 4. Le Sezioni unite hanno accolto il primo degli orientamenti suesposti, stabilendo che l’interrogatorio ‘‘di garanzia’’ debba essere trasmesso al tribunale del riesame solo quando in concreto contenga elementi favorevoli alla persona sottoposta alla misura (21). E, allo scopo, la motivazione della sentenza in esame opera un’analisi critica dei diversi orientamenti che avevano prodotto il contrasto giurisprudenziale. distinzione volta ad escludere che l’interrogatorio, quando si limiti a semplici posizioni difensive senza risolversi in concreti elementi volti a confutare i fatti posti a fondamento dell’accusa, rientri fra gli elementi favorevoli all’indagato (per l’esclusione delle deduzioni e memorie difensive dal novero degli atti che devono essere trasmessi al tribunale del riesame si veda anche Cass., Sez. I, 10 giugno 1997, Orges, in Arch. n. proc. pen., 1998, p. 118). Ritiene che l’interrogatorio ‘‘di garanzia’’, nonché quello eventuale del pubblico ministero, sarebbero viceversa atti che presentano « sempre, ontologicamente elementi di difesa, e quindi potenzialmente di favore per il detenuto impugnante » A. GIANNONE, Commento all’art. 309, in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di M. CHIAVARIO, Terzo aggiornamento, Utet, 1997, p. 372. Sostiene che l’interrogatorio ex 294 c.p.p. rappresenti per il giudice del riesame « atto non solo di rilevanza certa, ma importantissimo ed essenziale, anche a prescindere dal suo contenuto e forse addirittura a prescindere dalla circostanza che l’interrogato abbia reso proprie dichiarazioni » R. ORLANDI, Omesso invio dell’interrogatorio di garanzia al giudice del riesame: causa di nullità del giudizio di impugnazione o motivo di inefficacia del provvedimento impugnato?, in Cass. pen., 1997, p. 2781. (17) Cass., Sez. V, 28 ottobre 1996, Minniello, in Giust. pen., 1997, III, c. 586; Cass., Sez. V, 13 dicembre 1999, Garofalo, in Riv. pen, 2000, p. 745. Nello stesso senso A. BEVERE, op. loc. cit.; A. GIANNONE, op. loc. cit.; A. MARANDOLA; op. loc. cit.; M. MERCONE, op. cit., p. 580 s.; M. POLVANI, Le impugnazioni de libertate, riesame, appello, ricorso, Cedam, 1998, p. 258; C. RIVIEZZO, Custodia cautelare e diritti alla difesa, commento alla l. 8 agosto 1995, n. 332, Giuffrè, 1995, p. 134; E. TURCO, Considerazioni sugli elementi addotti dalle parti nel corso dell’udienza ex art. 309 comma 9o c.p.p., in Cass. pen., 2000, p. 2708, sub nota 29. (18) In questi termini, pur aderendo ad un’interpretazione difforme, R. ORLANDI, op. cit., p. 2784, sub note 22 e 24. (19) Cass., Sez. II, 10 luglio 1996, Bazzoli, in Cass. pen., 1997, p. 2778, con nota conforme di R. ORLANDI, op. cit. In dottrina accoglie tale tesi anche F. TERRUSI, Le misure personali di coercizione, Utet, 2000, p. 346. (20) Cass., Sez. I, 19 giugno 1997, Bonura, in Riv. pen., 1998, p. 108; Cass., Sez. VI, 3 dicembre 1998, Gaggiola, in Arch. n. proc. pen., 1999, p. 33. (21) Appare concorde con tale soluzione G. COLLA, La distinzione tra « atto » ed « elemento » lascia spazio alla valutazione del p.m, in Dir. e giust., 2001, f. 5, p. 35 s., che parla di « calibrata decisione ».
— 1028 — Per quanto riguarda la possibilità che l’omessa trasmissione del verbale di tale atto si riverberi sul provvedimento del tribunale del riesame sotto forma di invalidità dell’ordinanza conclusiva, la Suprema corte è molto sintetica nel definire tali tesi « completamente al di fuori del dettato normativo ». Occorre, invece, rilevare che — per quanto riguarda il primo orientamento — appare invero forzato l’utilizzo della sistematica elaborata in tema di omessa valutazione, da parte del giudice, di una prova favorevole alla difesa per sostenere la tesi che afferma la sussistenza, nella fattispecie in esame, di un vizio di motivazione (22). Al contrario, la critica all’orientamento volto a ravvisare una violazione del diritto di difesa avrebbe quanto meno richiesto un’argomentazione più articolata: poiché, a tacer d’altro, l’affermazione che tale tesi sarebbe estranea al diritto positivo, dal momento che il 10o comma dell’art. 309 c.p.p. parla esplicitamente di inefficacia della misura, parrebbe in contrasto con la tecnica di previsione delle nullità generali. Infatti, in linea teorica, la circostanza che il testo di legge preveda la perdita di efficacia dell’ordinanza per l’omessa trasmissione degli elementi favorevoli all’indiziato non preclude a priori l’eventualità che tale condotta possa essere lesiva anche di norme processuali stabilite a pena di nullità, quali le disposizioni concernenti l’assistenza dell’imputato (art. 178 comma 1o lett. c c.p.p.). Diverso è il discorso invece, e del tutto coerente al sistema, che nel caso di concorso fra una causa di invalidità (quale è la nullità appena richiamata) e una causa di estinzione della misura cautelare (quale quella prevista dall’art. 309 commi 5o e 10o c.p.p.), quest’ultima prevalga ed assorba la prima: non foss’altro in quanto, per la radicalità dei proprî effetti, risulti più favorevole all’imputato (23). La motivazione della presente sentenza si sofferma maggiormente sul secondo degli indirizzi suesposti, attraverso una analisi critica che si articola essenzialmente in tre punti. In primo luogo si sottolinea come finalità dell’interrogatorio sia quella di mettere il prima possibile la persona sottoposta alle indagini in contatto con il giudice, al fine di una efficace verifica della sussistenza delle condizioni di applicabilità della custodia. Tale particolare importanza dell’interrogatorio come strumento di difesa non implica indefettibilmente una corrispettiva e speculare rilevanza probatoria ma, anzi, l’autorità procedente ha l’obbligo di trasmettere l’atto « eccezionalmente », e solo se tale valenza probatoria sia favorevole all’imputato (24). Coerentemente con tali premesse affermare il sussistere dell’ob(22) Da un lato, infatti, tale situazione appare in generale difficilmente rimediabile in sede di giudizio di cassazione (cfr., sul tema, il quadro offerto da P. RENON, L’omesso esame di prova come vizio della motivazione fra limiti normativi e deviazioni giurisprudenziali, in Cass. pen., 1995, p. 1251 ss.), dall’altro vi sono delle peculiarità proprie del procedimento di riesame rispetto al rito ordinario dove, invero, il giudice di merito ha avuto conoscenza dell’atto non valutato, mentre al tribunale della libertà tale conoscenza è proprio preclusa. (23) Il concorrere di tali due fenomeni non comporta che una volta esclusa l’operatività dell’uno (nel caso di specie la caducazione della misura cautelare) debba necessariamente produrre i proprî effetti l’altro (la nullità dell’ordinanza di riesame), in quanto il presupposto che li fonda è il medesimo — la qualificazione dell’interrogatorio quale elemento favorevole — per cui essi simul stabunt et simul cadent. Il tenore del combinato disposto del 5o e del 10o comma dell’art. 309 c.p.p. è sul punto inequivoco: se l’elemento è qualificabile come « a favore », la sua omessa trasmissione provoca la perdita di efficacia della misura coercitiva, se invece non si tratta di elemento « a favore », allora la sua mancata allegazione non produce alcuna invalidità processuale, mancando anche la violazione del diritto di difesa tutelato dalla lettera c dell’art. 178 c.p.p. (24) La natura preminentemente difensiva dell’istituto dell’interrogatorio, certamente non un locus di esclusiva pertinenza probatoria, evidentemente nulla preclude riguardo la rilevanza degli elementi che da esso possono emergere. Piuttosto, pur essendo assolutamente incontestabile che l’atto previsto dall’art. 294 c.p.p. rappresenti « il più efficace strumento di difesa avente ad esclusivo oggetto la cautela disposta » (così Corte cost., sent. 3 aprile 1997, n. 77, in Giur. cost., 1997, p. 755), questo è un dato che attiene alla necessità che al soggetto in vinculis venga data la possibilità di far valere le proprie ragioni, non è detto che tale possibilità si traduca sempre nell’effettivo dispiegamento di una difesa. Dal punto di vista della efficacia probatoria, infatti, l’atto con cui l’indiziato fornisca la propria chiave di lettura e indichi
— 1029 — bligo di trasmettere il verbale dell’interrogatorio in ogni caso, anche qualora contenga elementi sfavorevoli alla persona in vinculis, costituirebbe un « stravolgimento della norma che pacificamente è stata dettata nell’interesse dell’indagato e che finirebbe, invece, per ritorcersi contro lui ». Inoltre, se il testo del 5o comma dell’art. 309 c.p.p. prescrive che debbano essere trasmessi « gli atti presentati a norma dell’art. 291, comma 1o, nonché tutti gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini », bisogna desumere che, mentre per gli atti presentati al giudice a sostegno della richiesta di misura cautelare nessuna selezione è ammissibile, tale operazione è invece doverosa per gli atti sopravvenuti, quantomeno per individuare quelli favorevoli da trasmettere. Infine, a proposito della possibilità per la parte di produrre direttamente il verbale dell’interrogatorio nell’udienza di riesame, si precisa come non sia possibile parlare di onere per la stessa volto a sanare l’inosservanza di un dovere da parte del magistrato, sussistendo invece un palese interesse « per ogni diligente difensore » a far conoscere al giudice gli elementi favorevoli alla propria parte. Tali argomentazioni che (in quanto pars denstruens) rappresentano la confutazione dell’orientamento non condiviso, concretizzano simmetricamente (in quanto pars construens) la giustificazione di quello accolto. Inoltre la Suprema corte evidenzia come la ratio della modifica introdotta nell’art. 309 comma 5o c.p.p. dalla legge n. 332 del 1995 sia stata palesemente quella di evitare occultamenti, da parte dell’ufficio del pubblico ministero, di elementi favorevoli all’indiziato che venissero così sottratti alla conoscenza del tribunale della libertà (25). Senonché tale evenienza non può verificarsi nel caso dell’interrogatorio ‘‘di garanzia’’, trattandosi di atto di cui sia l’indagato che il difensore sono perfettamente a conoscenza con la conseguenza che gli stessi « hanno, pertanto, tutti i mezzi per avvalersene e adeguatamente difendersi ». 5. Alla stregua di quanto precede il percorso argomentativo della decisione annotata appare, in linea di massima, condivisibile, sebbene eccessivamente sintetico su alcuni punti e meritevole di alcune specificazioni (26). Tuttavia è sopratelementi di riscontro non può avere la stessa rilevanza, e quindi tutela processuale, dell’atto con cui tale soggetto si limiti a negare gli addebiti o si avvalga della facoltà di non rispondere. (25) Più di un dubbio è lecito nutrire sulla effettività di tale intervento rispetto al fine perseguito. Infatti, fin da subito si è messo in luce che se tali elementi non sono conosciuti dalla difesa, è praticamente impossibile verificare la loro esistenza in caso di mancata trasmissione, almeno sino alla discovery degli atti di indagine. Per tali motivi la modifica in esame, priva di effettività, nulla aggiunge alla precedente situazione, in cui tale obbligo già sussisteva in forza della generale disposizione prevista dall’art. 358 c.p.p. Nel caso invece in cui tali elementi siano noti all’indiziato, questi ha la possibilità di produrli direttamente in udienza, quindi la mancata trasmissione da parte dell’autorità procedente non comporta alcuna lesione dei diritti della difesa: si veda in proposito V. GREVI, Garanzie difensive e misure cautelari personali, cit., p. 112. Cfr., anche G. GIOSTRA, Commento all’art. 8 l. 8 agosto 1995, n. 332, cit., p. 128, il quale evidenzia come l’introduzione di parametri selettivi di non agevole individuazione ed applicazione abbia comportato che « i pubblici ministeri scrupolosi saranno impegnati in un laborioso lavoro di formazione del ‘‘fascicolo cautelare’’, mentre quelli ‘‘disinvolti’’ — cui la riforma è soprattutto rivolta — continueranno a presentare al giudice i soli elementi a carico, necessarî per ottenere la misura cautelare richiesta ». (26) Occorre rilevare, infatti, come appaia sbrigativa, nella sua frettolosità, l’affermazione finale contenuta nella decisione commentata, per cui dal momento che l’indiziato « si è limitato a rendere confessione, non adducendo elementi fattuali idonei a contrastare l’accusa, il relativo verbale di interrogatorio non può ritenersi elemento sopravvenuto a lui favorevole ». In considerazione del fatto che il parametro per valutare se un elemento sia « a favore » è rappresentato dal quadro cautelare comprendente tutti i presupposti della misura, e non solo i gravi indizî di colpevolezza, la confessione può senz’altro costituire elemento che attenui le esigenze cautelari. Più opportunamente la Corte avrebbe dovuto limitarsi a constatare la correttezza del procedimento di riesame, in quanto conforme al principio di diritto da essa enunciato. In particolare, il Supremo collegio poteva esclusivamente confermare che rientrava nei poteri dell’autorità procedente quello di valutare se l’interrogatorio contenesse o meno elementi favorevoli, ma non già verificare esso stesso se quell’interrogatorio in concreto rappresentasse elemento pro reo. In que-
— 1030 — tutto l’ultima parte della motivazione quella più interessante e foriera di ricadute sistematiche. Valorizzando la circostanza che il difensore del soggetto in vinculis è presente al compimento di tale atto, la questione in esame può essere affrancata dal quesito sulla riconducibilità dell’interrogatorio della persona sottoposta a misura cautelare personale alla categoria degli elementi favorevoli, e piuttosto analizzata sotto l’ottica dell’obbligo per il pubblico ministero di trasmissione, alla luce del complesso delle riforme apportate al rito penale a partire proprio dalla citata legge n. 332 del 1995. L’atto prescritto dall’art. 294 c.p.p. non può essere considerato assieme agli elementi favorevoli all’indagato come componente di una categoria omogenea, in quanto presenta delle caratteristiche che lo rendono peculiare rispetto ad altri atti di indagine contenenti elementi pro reo. La differenza che si mette in evidenza è costituita dal fatto che, mentre gli atti di indagine sono di regola segreti, il difensore della persona in vinculis deve essere avvisato del compimento dell’interrogatorio in questione, ed ha l’obbligo di intervenirvi (art. 294 comma 4o c.p.p.) salvo comunque il diritto di estrarre copia del relativo verbale (art. 93 disp. att. c.p.p.). Questo dato assume rilevanza nel momento in cui si analizza la ratio sottesa all’obbligo di trasmissione degli atti previsto dall’art. 309 comma 5o c.p.p. Tale previsione è finalizzata, come visto, a porre a disposizione del tribunale il quadro probatorio in base al quale deve essere esperito il controllo sul provvedimento impugnato, e questo materiale è formato dagli atti sui quali la misura si fonda nonché da quelli che hanno assunto rilevanza successivamente alla richiesta di emanazione della misura stessa. Anteriormente alle modifiche del 1995, l’adempimento relativo alla suddetta trasmissione rappresentava altresì l’occasione in cui tali atti venivano posti a conoscenza della difesa, ma tale conoscenza è ormai stata dalla legge opportunamente anticipata, ex art. 293 c.p.p., alla fase immediatamente successiva all’applicazione della misura cautelare (27). Dal momento che la difesa viene ora a conoscenza di tali atti prima dell’impugnazione, e non più a seguito dell’impugnazione, essa può orientare le proprie strategie nel senso di contrastare specificamente i singoli fatti contestati. In conseguenza di questo potenziamento del ruolo della difesa, ci si potrebbe anche domandare, ragionando de iure condendo, se tuttora permanga la necessità che il pubblico ministero sia l’unica fonte conoscitiva del tribunale della libertà. Chiaramente tale quesito non si pone con riguardo agli atti sui quali si fonda la misura, poiché questi sono essenziali per la verifica della legalità dell’impugnazione non è ipotizzabile una loro selezione né, ovviamente, si pone con riguardo agli elementi sopravvenuti a carico, rispetto ai quali persiste in capo al pubblico ministero un potere discrezionale di decidere se allegarli o mantenerli segreti. Piuttosto esso si può porre proprio in relazione agli elementi favorevoli sopravvenuti, dei quali evidentemente la difesa abbia avuto conoscenza, e che sia in st’ultimo caso, infatti, ha operato una valutazione di merito, ed in quanto tale preclusa per definizione al giudice di legittimità. Tanto più che se l’ordinanza impugnata fosse stata di segno opposto — cioè di escludere a priori che l’interrogatorio ‘‘di garanzia’’ possa costituire elemento favorevole — la Cassazione avrebbe senz’altro annullato con rinvio al tribunale della libertà affinché procedesse a tale valutazione. (27) Più precisamente, a norma del 3o comma dell’art 293 c.p.p., successivamente all’esecuzione (o alla notificazione in caso di misure diverse dalla custodia cautelare) dell’ordinanza che dispone la misura cautelare, questa deve essere depositata presso la cancelleria del giudice che la ha emessa assieme alla richiesta e agli atti presentati con la stessa. Al fine di rendere noto al difensore della possibilità di prendere visione ed estrarre copia, gli deve essere dato avviso di tale deposito. Riguardo all’importanza della materiale e diretta disponibilità, da parte del difensore, di tali atti proprio « al fine di rendere attuabile un’adeguata ed informata assistenza all’interrogatorio » si veda Corte cost., sent. 24 giugno 1997, n. 192, in Giur. cost., 1997, p. 1876, nonché, da ultimo, G. VARRASO, Interrogatorio in vinculis dell’imputato: tra istanze di difesa, esigenze di garanzia, ragioni di accertamento, in questa Rivista, 1999, p. 1387, in particolare p. 1402, nonché giurisprudenza e dottrina ivi citata.
— 1031 — grado di far entrare nel procedimento in quanto documentati secondo forme che ne garantiscano la genuinità (28): caratteristiche che senz’altro appartengono all’interrogatorio ‘‘di garanzia’’. Già il sistema originario del codice prevedeva il deposito degli atti del procedimento nella cancelleria del tribunale del riesame in funzione della possibilità, da parte della difesa, di produrre elementi direttamente in udienza (art. 309 commi 8o e 9o c.p.p.). Successivamente, la legge n. 332 del 1995 aveva inciso in maniera profonda sui poteri del difensore e di riflesso sul ruolo del pubblico ministero, attraverso la modifica dell’art. 38 disp. att. c.p.p. (29), consentendo al difensore della persona sottoposta alle indagini di presentare direttamente al giudice elementi che egli reputa rilevanti ai fini di una decisione da adottare. A maggior ragione, la recente l. 7 dicembre 2000, n. 397 ha introdotto un’articolata disciplina delle indagini difensive, dettandone regole, seppur non esaustive né esaurienti, che riguardano, fra l’altro, le forme di documentazione ed i limiti di utilizzabilità (30). Per effetto di tali riforme, si deve prendere atto che il pubblico ministero non è più l’unica e sola fonte di cognizione del giudice, essendo stato riconosciuto pienamente all’imputato il diritto di « difendersi provando ». Alla luce di quanto precede, viene spontaneo porsi il quesito se sia ragionevole sanzionare con la perdita di efficacia della misura cautelare l’obbligo di trasmissione di un atto favorevole che la difesa non può non conoscere (essendo oggi obbligatoria la presenza del difensore) (31), del cui verbale la stessa difesa ha la disponibilità (32), e che di regola potrà essere prodotto direttamente al collegio giudicante. Finché il pubblico ministero era l’unica parte non solo a conoscenza degli atti di indagine, ma anche legittimata a presentarli al giudice in funzione di una decisione da adottare, era ben possibile sostenere che su tale organo dovesse incombere l’intero onere di mettere a conoscenza del collegio giudicante il materiale cognitivo in modo completo. Senonché, a seguito delle modifiche normative intervenute, e degli accresciuti poteri della difesa, non può non rilevarsi un nuovo assetto dei ruoli processuali: in sostanza, la difesa non è più una parte passiva che assiste in stato di soggezione ad un’attività di indagine il cui monopolio appartiene (28) Infatti è stata correttamente negata rilevanza processuale al resoconto dell’interrogatorio svolto oralmente dal difensore in base ai suoi ricordi. Cass., Sez. II, 10 luglio 1996, Bazzoli, cit. (29) Si veda, in proposito G. GIOSTRA, Problemi irrisolti e nuove prospettive per il diritto di difesa: dalla registrazione delle notizie di reato alle indagini difensive, in AA.VV., Misure cautelari e diritto di difesa nella l. 8 agosto 1995, n. 332, cit., p. 179 ss.; P. TONINI, Commento all’art. 22 l. 8 agosto 1995, n. 332, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale. Nuovi diritti della difesa e riforma della custodia cautelare, cit., p. 296 ss. (30) Per ciò che in questa sede rileva, tale legge ha abrogato il citato art. 38 disp. att. c.p.p., il cui contenuto normativo sul punto comunque persiste, in quanto il nuovo art. 391 octies c.p.p. consente al difensore di presentare direttamente al giudice gli elementi di prova a favore del proprio assistito anche durante la fase delle indagini preliminari. Si tenga presente, inoltre, che la nuova disciplina prevede la formazione di un fascicolo delle investigazioni difensive presso il giudice delle indagini preliminari; ma è possibile che il pubblico ministero non sia neanche a conoscenza di tali atti (dal momento che molto discutibilmente non si è previsto un avviso del loro deposito), pur potendo prendere visione ed estrarre copia della relativa documentazione prima che il giudice prenda una decisione su richiesta delle altre parti. Sul punto si vedano le riflessioni di G. PIZIALI, Maggiori poteri agli avvocati nella legge in materia di indagini difensive (II). Utilizzo dei risultati delle indagini, in Dir. pen. e proc., 2001, p. 284 ss. (31) Anteriormente alla modifica del 4o comma dell’art. 294 c.p.p. operata dall’art. 12 l. 1o marzo 2001, n. 63, al difensore era dato avviso del compimento dell’atto ed aveva facoltà di intervenire. (32) Seppure limitatamente al diritto di estrarne copia. Analoghe considerazioni possono farsi per gli altri atti latu sensu probatorî cui il difensore l’obbligo di presenziare (artt. 350 comma 3o, 370 comma 1o, 391 comma 3o, 401 comma 1o c.p.p.), nonché per quelli cui ha diritto di assistere (artt. 360, 364, 365 c.p.p.), in quanto, ex art. 366 c.p.p., i verbali di tali atti devono essere depositati dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria entro tre giorni dal loro compimento, ed il difensore ha diritto di prendere visione ed estrarne copia.
— 1032 — all’organo pubblico, ma avendo un ruolo attivo può, e quindi deve, adoperarsi in favore del soggetto sottoposto alla misura cautelare (33). La omessa produzione del verbale dell’interrogatorio in cui l’assistito fornisce elementi a propria discolpa rappresenta una non lieve omissione da parte del difensore, cui il pubblico ministero può e deve ovviare in forza del ruolo pubblico che riveste e della indifferenza rispetto al risultato finale che caratterizza il proprio operato; tuttavia ciò non comporta necessariamente che, se l’organo inquirente non ritiene che siano emersi durante l’atto elementi favorevoli all’indiziato, la misura cautelare debba tout court perdere efficacia (34). Il problema, in definitiva, non è tanto se il contenuto dell’interrogatorio ‘‘di garanzia’’ debba o meno essere portato a conoscenza del tribunale del riesame, quanto la congruità della sanzione prescritta rispetto alla concreta lesività della condotta sanzionata: se, cioè, sia ragionevole far derivare la perdita di efficacia della misura cautelare coercitiva dalla omessa trasmissione da parte del pubblico ministero di un atto che la difesa, organo preposto esclusivamente alla cura degli interessi dell’imputato, pur potendo, ha scelto di non produrre. Alla luce di quanto esposto appare auspicabile, e coerente con il sistema, una modifica legislativa volta a mitigare, secondo queste direttive, la drasticità del dettato del comma 5o dell’art. 309 c.p.p., che oggi prescrive all’autorità procedente di trasmettere « tutti » gli elementi sopravvenuti a favore dell’indiziato (35). Ovviamente l’obbligo di allegazione non potrà che continuare a gravare sul pubblico ministero nel caso in cui questi ritenga di dover disporre l’obbligo del segreto a norma della lett. a del 3o comma dell’art. 329 c.p.p. In tale caso, infatti, il difensore è impossibilitato a produrre l’atto al tribunale del riesame in quanto il relativo verbale non viene depositato, e l’unica fonte di conoscenza per il tribunale del riesame è rappresentata dal pubblico ministero che dovrà provvedere a trasmetterne le parti non coperte da segreto. A tale proposito, è innegabile che in taluni casi il potere di scelta se trasmettere l’atto non può che permanere in capo al pubblico ministero, ma appare opportuno limitarlo a quelle ipotesi in cui ciò sia inevitabile, ed intervenendo, come (33) Già anteriormente alla legge n. 397 del 2000 riteneva essere « immanente un onere, o un dovere, di controllo e di intervento sia a carico del difensore che del pubblico ministero, a tutela dei rispettivi interessi processuali » M. POLVANI, La parziale trasmissione degli atti depositati ex art. 291 c.p.p. estingue il giudizio di riesame, in Dir. pen. e proc., 1998, p. 472, il quale aggiungeva che « sul difensore grava, allora, l’onere processuale e il dovere professionale di controllare che l’autorità procedente abbia compiutamente adempiuto all’obbligo che discende dall’art. 309 comma 5o c.p.p., provvedendo ad integrare con la produzione camerale consentita dall’art. 309 comma 9o c.p.p., gli elementi a favore del suo assistito che risultino mancanti, in modo che è scarsamente verosimile che, al momento della decisione, gli atti risultino privi di alcuni elementi utili alla difesa ». Nella stessa giurisprudenza di legittimità è presente, come visto, un orientamento volto a ritenere che il precetto di cui al comma 5o dell’art. 309 c.p.p. non riguardi « quegli atti, documenti, o risultanze che si trovino già pacificamente nella disponibilità della difesa e che da questa possono essere utilizzati o prodotti con la stessa richiesta di riesame o nel corso dell’udienza camerale » (così Cass., Sez. II, 28 ottobre 1997, Brenvaldi, cit.), trattandosi di « attività svolta al cospetto del giudice in una sede caratterizzata dalla piena esplicazione del contraddittorio; ne consegue che il diritto di difesa dell’imputato non è impedito in alcun modo sotto il profilo della conoscenza dell’atto in questione, e quindi egli ha assicurata la facoltà di controdeduzione rispetto ad una simile risultanza probatoria alla quale abbia fatto eventualmente riferimento il giudice nell’ordinanza applicativa »: Cass., Sez. VI, 12 gennaio 2001, Talbi, in C.E.D Cass., n. 218436. (34) Occorre tenere presente, al fine di valutare quale valenza probatoria possa avere in concreto l’interrogatorio in esame, che tale atto viene compiuto dinanzi al giudice che ha deciso in ordine all’applicazione della misura, il quale è titolare, ex art. 299 comma 3o c.p.p., del potere di revoca ex officio, potere che senz’altro avrebbe ritenuto di dover esercitare se in tale sede fossero emersi elementi di indubbio e decisivo valore difensivo. (35) La non operatività della sanzione della caducazione della misura cautelare nel caso di omessa trasmissione, da parte dell’autorità procedente, di un atto che sia comunque nella disponibilità della difesa non solo sarebbe coerente con il nuovo ruolo processuale della stessa, derivante dai suoi accresciuti poteri, ma costituirebbe un parametro sicuramente più oggettivo rispetto alla valutazione del pubblico ministero circa la natura di elemento « a favore » dell’interrogatorio.
— 1033 — si diceva poco sopra, per attenuare il carattere di radicalità della sanzione per la omessa trasmissione quando si tratti di elementi che non siano ictu oculi favorevoli. Nella fase delle indagini preliminari tale organo è impegnato nella verifica della fondatezza della notizia di reato, per cui sarà portato a dare rilevanza a quegli elementi che confutano direttamente il proprio tema d’indagine, ma difficilmente potrà valutarne la portata in una possibile strategia difensiva, che potrebbe far leva anche su elementi a lui ignoti (36). Tralasciando le peculiarità proprie del caso di specie, e tenendo presente tutte le perplessità e le difficoltà già espresse al riguardo (37), occorre sottolineare che il problema non risiede tanto nel pericolo di dolosi occultamenti, quanto nella profonda diversità nel modus operandi dell’organo pubblico rispetto ad un tipo di valutazione propria del ruolo di parte privata quale è la valorizzazione pro reo di un atto di indagine a carattere neutro. La constatazione delle difficoltà del contemperamento fra esigenze di indagine e diritto di difesa, nel delicato àmbito della disciplina della limitazione della libertà personale nei confronti di un soggetto che ancora gode della presunzione di non colpevolezza, non deve, però, portare alla rassegnata presa d’atto dello stato di fatto, quanto piuttosto stimolare la ricerca di un ‘‘rimedio’’ giuridico volto a minimizzarne i rischi. Tale potrebbe essere, per esempio, un procedimento che attribuisca esplicitamente tale valutazione al pubblico ministero, conferendogli il relativo potere e le corrispettive responsabilità. In questa prospettiva appare particolarmente interessante la proposta di introdurre una apposita previsione normativa che « limitasse l’obbligo di trasmissione al giudice per le indagini preliminari dei soli elementi manifestamente favorevoli all’imputato, e che escludesse detto obbligo se incompatibile con esigenze di segreto investigativo (da motivare specificamente in vista di un successivo controllo) » (38). Allo scopo si potrebbe ipotizzare un decreto motivato del pubblico ministero da sottoporre al controllo giurisdizionale al momento della discovery. In tale ipotesi la mancata conferma da parte del giudice per le indagini preliminari della valutazione del pubblico ministero (provvedimento da ritenersi senz’altro appellabile, stante la sua natura di valutazione di merito) potrebbe costituire un’ulteriore presupposto per il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione (ovviamente per la parte sofferta successivamente alla mancata allegazione dell’atto che avrebbe legittimato la scarcerazione) nonché, trattandosi della mancata valutazione come tale un elemento manifestamente favorevole all’indiziato, potrebbe costituire altresì un’ipotesi tipica di illecito disciplinare (39). Il procedimento dovrebbe essere necessariamente differenziato in relazioni allo sviluppo del procedimento principale: in caso di esercizio dell’azione penale, l’imputato verrebbe a conoscenza di tutti gli atti di indagine, e quindi sarebbe nelle condizioni di adire alla corte d’appello per il procedimento di cui agli artt. 314 e ss. c.p.p., nonché per sollecitare il procuratore generale presso la medesima corte, titolare del potere di sorveglianza sui magistrati requirenti del distretto (art. 16 R. d. lgs. 31 maggio 1946, n. 511). Nel caso, invece, in cui il pubblico ministero presentasse richiesta di archiviazione, la persona sottoposta alle indagini non (36) « L’interesse di colui che osserva è determinante nella selezione delle percezioni »: così A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, cit., p. 6; sull’« attenzione selettiva » del pubblico ministero durante le indagini si veda G. GIOSTRA, Quale contraddittorio dopo la sentenza 361⁄1998 della Corte costituzionale?, in Quest. giust., 1999, n. 2, p. 203 s. (37) Cfr. retro, in particolare sub nota 11. (38) G. CASELLI-A. INGROIA, op. loc. cit. (39) Non sembra esserci spazio per una rilevanza di tale fattispecie ai fini della disciplina del risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati. Non appare, infatti, opportuno intaccare la scelta di fondo di tale materia di escludere dal proprio àmbito « l’attività di interpretazione di norme di diritto [e] quella di valutazione del fatto e delle prove » (art. 2 comma 2o l. 13 aprile 1988, n. 117).
— 1034 — avrebbe diritto di prendere visione del fascicolo delle indagini, ma solo alla notifica del decreto che dispone l’archiviazione (art. 409 comma 1o c.p.p.). Tale diritto, inoltre, sarebbe limitato al caso in cui gli fosse stata applicata la misura della custodia cautelare, quindi non sussisterebbe nel caso gli sia stata applicata una delle altre misure coercitive, rispetto alle quali sarebbe viceversa ugualmente esperibile il procedimento di riesame. In questo caso, comunque, il provvedimento di archiviazione costituirebbe di per sé titolo legittimante la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione (art. 314 comma 3o c.p.p.), ed occorrerebbe unicamente prevedere un potere di segnalazione al procuratore generale in capo al giudice per la indagini preliminari che ravvisasse gli estremi per l’instaurazione del procedimento disciplinare. 6. Se la soluzione adottata dalle Sezioni unite è confortata dal quadro normativo di riferimento, ed anzi suggerisce gli indirizzi di possibili evoluzioni de iure condendo, occorre tuttavia svolgere un’ultima considerazione con riguardo al ‘‘diritto vivente’’. L’accentuazione del carattere di « processo di parti », conseguente alle più recenti modifiche, anche di carattere costituzionale, apportate al rito penale, postula necessariamente che l’insieme dei diritti e delle facoltà che il codice prevede si traducano in una effettiva assistenza per l’imputato, e non si riducano, invece, all’elencazione dell’àmbito di poteri di un difensore la cui figura emerge dal diritto positivo, ma non incontra, nella maggior parte dei casi, un riscontro nella realtà. Sotto questa particolare ottica assumono rilevanza non solo le disposizioni, recentemente innovate, sulla difesa d’ufficio (l. 6 marzo 2001, n. 60) e sul patrocinio per i non abbienti (l. 29 marzo 2001, n. 134), quanto soprattutto la circostanza che i Consigli dell’ordine forense, competenti per il procedimento disciplinare, assumano una rigorosa posizione in tema di mancata comparizione e abbandono ingiustificato della difesa (40). Nel caso di specie la disciplina vigente, ex art. 294 c.p.p., impone la presenza all’interrogatorio di un difensore che successivamente (41) potrà concordare con l’assistito la più opportuna strategia difensiva da sostenere dinanzi al tribunale della libertà, nella quale le risultanze dell’interrogatorio svolto potranno ben svolgere un ruolo di rilievo. Tuttavia, non si può ignorare che la soluzione accolta con la decisione in esame può risultare in concreto gravemente pregiudizievole per il diritto di difesa dell’indiziato qualora l’attività del difensore non si concretizzi in una reale assistenza del soggetto in vinculis. Infatti, se il difensore intervenuto al(40) La mancata comparizione del difensore in un contesto che ne richiede la presenza (oltre al caso di specie, cfr., tra gli altri, artt. 350 comma 3o, 370 comma 1o, 391 comma 1o, 401 comma 1o, 420 comma 1o, 441 comma 1o, 451 comma 1o, 484 comma 2o, 598, 599 comma 3o, 666 comma 4o, 678 comma 1o c.p.p.) non è prevista dall’art. 105 c.p.p. come ipotesi tipica di illecito disciplinare, sebbene tale condotta possa concretamente recare un notevole nocumento all’assistito. In tale eventualità, infatti, il 4o comma dell’art. 97 c.p.p. dispone che giudice, nonché nei casi di urgenza pubblico ministero e polizia giudiziaria, possa nominare come sostituto un difensore d’ufficio. Tale sostituto non avrà diritto ad un termine a difesa che l’art. 108 c.p.p. riserva ai soli casi di rinuncia, revoca, incompatibilità o abbandono (fattispecie distinta dalla semplice mancata comparizione come emerge, se non altro, dall’inequivoco testo del già citato art. 97 c.p.p.). Ciò comporta che nei casi di maggiore urgenza — quale è senz’altro l’udienza di riesame — l’autorità competente potrà legittimamente rifiutare la concessione di tale termine, sicché il difensore nominato si potrà anche trovare nelle condizioni di poter svolgere solo un mero controllo di legittimità sull’attività cui assiste, e comunque senza aver potuto concordare con l’interessato una strategia difensiva. (41) Quando non l’abbia già potuto fare precedentemente essendo stato disposto, ai sensi dell’art. 104 comma 3o c.p.p., il differimento del diritto di conferire immediatamente con il soggetto in stato di restrizione della libertà. L’art. 16 comma 2o dell’ormai più volte citata legge n. 332 del 1995, ha inserito il comma 3 bis dell’art. 309 c.p.p., che dispone che nel computo dei termini per proporre la richiesta di riesame non si tiene conto dei giorni per i quali è stato disposto tale differimento. Tale novella evidenzia l’importanza del suddetto colloquio al fine di predisporre la strategia difensiva da sottoporre al tribunale del riesame: cfr. V. GREVI, Garanzie difensive e misure cautelari personali, cit., p. 71.
— 1035 — l’interrogatorio ‘‘di garanzia’’ si limitasse ad una passiva presenza per poi non presentarsi dinanzi al tribunale del riesame, in modo che a tale udienza finisse con il partecipare un difensore d’ufficio nominato ad hoc, ex art. 97 comma 4o c.p.p., ed ignaro dei fatti in causa, allora il « processo di parti », il diritto di difesa, nonché il principio di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, sarebbero destinati ad ridursi a mere declamazioni di principio prive di effettività. FRANCESCO PONZETTA Dottorando di ricerca in Procedura penale presso l’Università di Bologna
— 1036 — CASSAZIONE PENALE — SEZ. I — 21 dicembre 1999, n. 1178 Pres. Pirozzi Prove - Disposizioni generali - Valutazione - Indizio - Idoneità a formare il convincimento del giudice. [Invero,] in assenza di prove dirette, l’esistenza di un fatto può essere desunta anche da circostanze certe attraverso le quali, sulla base di norme e di regole di comune esperienza, si può risalire alla dimostrazione del fatto incerto da provare secondo lo schema del sillogismo giudiziario previsto dall’art. 192, comma 2, c.p.p. (1). (Omissis). — FATTO. — A seguito di appello dell’imputato Widmann Herbert avverso la sentenza 21 dicembre 1998 del Tribunale di Bolzano — con la quale lo stesso, con la ritenuta continuazione, era stato condannato alla pena di anni tre e mesi tre di reclusione, oltre alla pena accessoria consequenziale, siccome ritenuto responsabile del reato previsto dall’art. 423, comma 1 e 2, c.p., per avere, appiccando il fuoco alla sua autovettura, cagionato un incendio con pericolo per l’incolumità pubblica, nonché del reato previsto dall’art. 388, comma 3, c.p. per avere deteriorato la propria autovettura sottoposta a pignoramento — con sentenza 16 giugno 1999 la Corte di appello di Trento (sezione distaccata di Bolzano) riduceva la pena inflitta al Widmann ad anni due e mesi quattro di reclusione, revocando la pena accessoria e confermando nel resto la sentenza impugnata. La Corte di merito — dopo aver condiviso la motivazione del primo giudice con riferimento alla questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione agli artt. 423 e 424 c.p. sotto il profilo della disparità di trattamento — riteneva provata la responsabilità dell’imputato sulla base delle attendibili dichiarazioni dei testi escussi (vedi in particolare dichiarazioni dei testi Pecora e Ferrari, specificamente riportate in motivazione), dalle quali era emerso che l’imputato era stato visto vicino all’autovettura poco prima dell’incendio e che lo stesso in precedenza aveva detto (vedi teste Tschisner) che piuttosto che lasciarla ad altri avrebbe bruciato la propria autovettura. Inoltre, tenuto conto della ricostruzione dell’episodio secondo gli elementi di generica e di specifica risultanti dagli atti, l’incendio doveva ritenersi di vaste proporzioni con pericolo per la pubblica incolumità, tanto che erano rimaste danneggiate anche altre autovetture e che vi era stato il pericolo che le fiamme si estendessero verso il bar ed un’abitazione adiacente. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso il difensore, che ne ha chiesto l’annullamento per i seguenti motivi. MOTIVI DELLA DECISIONE. — Inammissibile per la sua manifesta infondatezza deve ritenersi il primo motivo, con il quale si deduce la mancanza di motivazione in ordine alla richiesta di rinnovazione del dibattimento diretta all’escussione del teste Decassiani, che avrebbe potuto riferire in quale luogo si trovasse l’imputato nel momento in cui scoppiò l’incendio. Infatti — a parte la considerazione che già nel giudizio di primo grado la difesa dell’imputato non aveva provveduto a rintracciare il suddetto teste, regolarmente ammesso — la decisione della Corte di merito di poter decidere allo stato degli atti non può essere censurata in questa
— 1037 — sede, tenuto conto che dal contesto di tutta la motivazione della sentenza impugnata si evince che la Corte di merito ha accertato in modo incontrovertibile, alla luce degli elementi di prova già acquisiti, la presenza dell’imputato nei tempi e nei luoghi in cui scoppiò l’incendio. Infondato deve ritenenersi il secondo motivo, con il quale si deduce la manifesta illogicità della motivazione in ordine al giudizio di responsabilità dell’imputato. Orbene nei caso in esame la Corte di merito, con motivazione immune da vizi logici, ha correttamente proceduto prima alla valutazione di specifiche circostanze emerse dagli atti in modo certo, traendo da ciascuna di esse indizi significativi; successivamente, operando il collegamento tra i vari indizi tutti gravi precisi e concordanti, è pervenuta al convincimento che l’imputato fosse pienamente responsabile del reato di incendio della propria autovettura. Né possono ritenersi fondate le censure dirette a dimostrare l’inattendibllità del teste Pecora, che riferì in merito alla presenza dell’imputato sul posto poco prima dell’incendio. Infatti — a parte la considerazione che tali censure, così come formulate, devono ritenersi inammissibili, in quanto dirette alla rivalutazione di questioni di fatto non proponibili in questa sede — va rilevato che la Corte di merito ha chiarito la ragione per la quale dette dichiarazioni sono credibili, indicando una serie di elementi di riscontro (vedi dichiarazioni rese da altri testi), indubbiamente di elevato spessore probatorio. Parimenti infondato deve ritenersi il terzo motivo, con il quale si contesta la sussistenza degli elementi costitutivi del reato di incendio. Invero i giudici di merito, con sentenze che si integrano tra loro per essere conformi sul punto, hanno adeguatamente motivato in merito alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato di incendio, ancorando il proprio giudizio ad elementi specifici, dai quali è emerso non solo che l’incendio era di vaste proporzioni, tanto da potersi diffondere fino alle autovetture vicine, ma anche che ricorreva un concreto pericolo per la pubblica incolumità, tenuto conto delle costruzioni limitrofe frequentate da persone. Inammissibile per la sua manifesta infondatezza deve ritenersi il quarto motivo, con il quale si deduce che il reato di incendio contestato doveva essere derubricato nell’ipotesi delittuosa prevista dall’art. 424 c.p. Invero, alla luce della ricostruzione dell’episodio operato dalla Corte di merito (versamento di carburante nel vano motore e spargimento del carburante per terra anche sotto altre autovetture), deve ritenersi pacifico che intenzione dell’imputato era quello di danneggiare la propria autovettura, accettando il rischio di provocare un vero e proprio incendio, attesa la vicinanza delle altre autovetture e le modalità con le quali fu appiccato il fuoco. A tal proposito è appena il caso di rilevare che — come già osservato dai giudici di merito — la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione agli artt. 423 e 424 c.p. sotto il profilo della disparità di trattamento è manifestamente infondata. Invero — a parte la considerazione che tale questione è già stata oggetto di precedenti pronunce della Corte costituzionale (vedi nn. 286/1974, 58/1977 e 71/1979) — va rilevato che i due anzidetti reati hanno una loro autonomia e regolano ipotesi diverse, di guisa che non può essere censurata la discrezionalità del legislatore nelle sue scelte di politica criminale. Pertanto, non ravvisandosi vizi logico-giuridici della motivazione, il ricorso
— 1038 — deve essere rigettato con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ex art. 616 c.p.p. P.T.M. — La Corte Suprema di cassazione, letti gli artt. 606-615-616 c.p.p., rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. (Omissis).
—————— (1) Nuova (vecchissima) giurisprudenza in tema di indizi e massime d’esperienza. 1. Si trovavano tra le mani degli elementi che sotto nessun profilo, in alcun modo, potevano essere considerati ‘‘prove’’. E allora, come purtroppo frequentemente avviene, i giudici, tribunale, appello e cassazione, hanno operato una sorta di ‘‘retrocessione’’ di quegli elementi, li hanno spostati, da una insostenibile piattaforma probatoria a quella, silenziosa ed accogliente, nella quale vagano gli indizi, sempre tanto disponibili ad essere individuati come tali, a ‘‘ricevere’’ un significato che essi non sono in grado di offrire. Il che vuol dire, pronti ad essere manipolati. Di fronte ad una decisione come questa, che ha purtroppo una miriade di precedenti dello stesso tipo, è inevitabile chiedersi come sia possibile che quegli stessi elementi reperibili nei dintorni del fatto, che prove non sono e che perciò i giudici si guardano bene dal considerarli come prove, siano ciò nonostante ritenuti sufficienti per la condanna, una volta sistemati sotto una diversa etichetta linguistica come indizi, e grazie al salvifico intervento di una provvidenziale massima di esperienza (1). In altre parole non è il significato suo proprio, quello cioè che il dato porta con sé, a qualificarlo come prova, a consentire di coglierne lo spessore probatorio in rapporto al fatto oggetto dell’imputazione, bensì un’attribuzione, dall’esterno e a posteriori, di un significato che il dato non possiede e perciò non può manifestare. Ma, proprio perché è muto, e perché a questo silenzio non ci si vuole rassegnare, gli si possono appioppare allora (si fa per dire, restando al gioco) voci diverse ed anzi opposte da quelle, non captate, solo appunto appioppate, dai giudici della, anzi delle sentenze in questione (tribunale, appello e cassazione). Si trovava l’imputato a passare nei pressi del luogo del fatto perché sperava di incontrare una donna ammirata, o perché aveva bisogno di comprare le sigarette, o solo per fare quattro passi ... aveva l’imputato profferito parole minacciose per concretizzarle in seguito in un’azione da piromane o non piuttosto solo per sfogare in qualche modo la sua irritazione o forse anche per un impulso gradasso di (1) ‘‘L’indizio è un fatto certo dal quale, per inferenza logica basata su regole di esperienza consolidate ed affidabili, si perviene alla dimostrazione del fatto incerto da provare secondo lo schema del cosiddetto sillogismo giudiziario’’, Cass., sez. un., 4 febbraio 1992, Musumeci ed altri, n. 6682, in CED 191230; ‘‘In assenza di prove dirette, il giudice — nel libero processo di formazione del suo convincimento — può fondare legittimamente il giudizio di responsabilità su prove indirette (indizi) purché dall’analisi critica delle risultanze processuali esaminate nella loro concatenazione logica, si possa pervenire, per l’univocità e convergenza delle stesse, ad una soluzione di certezza. Occorre, cioè, che gli elementi indiretti, giudizialmente accertati, costituiscano la premessa di un sillogismo, in forza del quale sia possibile pervenire con rigore logico ad un giudizio di certezza del fatto ignoto’’, Cass., sez. II, 5 marzo 1991, Belleri, n. 8939, in CED 188129; nel medesimo senso, tra le numerosissime, Cass., sez. VI, 13 dicembre 1991, Grillo ed altro, n. 2398, in CED 189566; Cass., sez. I, 29 aprile 1992, Di Martino, n. 1882, in CED 190133; Cass., sez. VI, 17 novembre 1992, Altamura ed altri, n. 1898, in CED 193781; Cass., sez. I, 6 aprile 1993, Cafari ed altri, n. 1489, in CED 193985; Cass., sez. I, 2 febbraio 1996, Monaro ed altro, n. 2226, in CED 203895; Cass., sez. VI, 25 marzo 1997, Martinese, n. 1327, in CED 208892.
— 1039 — fronte a chi sarebbe poi diventato testimone a carico, chissà... E naturalmente l’individuazione di ulteriori, diverse possibili attribuzioni di significato a quei dati silenziosi potrebbe di certo continuare, dato che per qualsivoglia apparente interpretazione essi non hanno comunque alcuna risposta: non di interpretazione infatti si tratta, come la giurisprudenza ritiene, ma di null’altro che dell’incorreggibile tendenza a... fare luce nel buio anche quando il buio è assolutamente impenetrabile. 2. La verità è che il dato che ‘‘porta’’ una prova incorpora, e rivela, la sua ‘‘qualità’’ di prova: l’impone senza che ci sia bisogno, per individuarla in quanto tale, di ricorrere a parametri ad essa esterni e del tutto superflui, che dovrebbero collegarla al fatto da valutare. Ad esso la prova si rapporta direttamente e il riferimento ad una massima di esperienza è del tutto privo di senso, anche se una parte della dottrina e la giurisprudenza quasi unanime ritengono di non poterne fare a meno. Si tratta in realtà di un vecchio concetto (2) che si trascina acriticamente in virtù dei mai accantonati intenti di ‘‘sistemare’’ ogni cosa nella chiave della logica formale che qui invece, quando si tratta di prove vere e proprie, non gioca alcun ruolo e, soprattutto, non fa danno. Perché interviene quando la prova ha già illuminato il fatto, lucidati i contorni della vicenda da chiarire, e solo allora, a cose fatte, risulta disponibile tutto lo spazio del quale si intende servirsi per gli esercizi della logica formale, a questo punto del tutto innocui, dato che in alcun modo essi possono interferire nel momento della ricostruzione del fatto che la verità della prova ha reso possibile e che, quando arriva la massima, è ormai un momento che appartiene al passato (3). È perciò certamente singolare questa retrodatazione del momento logico dell’intervento, che si suppone spostato alla fase in cui la prova, la qualità della prova ha reso possibile il giudizio sul fatto, la qualità della prova e null’altro. Ma come mai questo accada, in realtà non è tanto impervio da comprendere se solo si tiene presente la credenza che i dati della realtà, quelli delle azioni e dei comportamenti umani che sono la materia del processo, e quelli delle prove in grado di svelare il significato e le dimensioni del fatto, siano del tutto privi di valore prima dell’intervento valutativo del giudice (4). Il quale in tanto può diradare (2) L’utilità del concetto di massima di esperienza, la cui nozione alla quale tradizionalmente la dottrina si riporta è quella dello STEIN, secondo il quale (Das private Wissen des Richters, Leipzig, 1893, p. 21) le massime sono definizioni o giudizi ipotetici di contenuto generale, indipendenti dal caso concreto da risolvere e autonome rispetto ai casi passati dall’osservazione dei quali sono state dedotte, era già stata fermamente negata da G. CALOGERO, il quale, pur ammettendo che ‘‘non c’è giudizio di fatto il quale non ne implichi in maggiore o minore misura’’, tuttavia ne contesta la funzione che la concezione logicistica vorrebbe attribuirle, all’interno del più generale quadro di ribellione ‘‘contro ogni astratta schematizzazione logica dell’attività giudicatrice del giudice’’. Senza alcun ripensamento CALOGERO afferma ‘‘il concetto di massima di esperienza non ha alcuna utilità concreta per la scienza processualistica, e quindi può venire da essa definitivamente abbandonato’’, La logica del giudice e il suo controllo in cassazione, Padova, 1937, pp. 105, 108. (3) Proprio in tale senso CALOGERO osserva: ‘‘Cosicché, se dal punto di vista della logica formale questa (la massima di esperienza) può apparire una premessa maggiore che unendosi con la premessa minore generi la conclusione, dal punto di vista della logica reale, cioè dell’effettivo e concreto sforzo mentale del giudice, essa diventa addirittura l’unica conclusione, perché quando il giudice vi è giunto (cioè è giunto alla convinzione che di certi fatti presentati alla sua consapevolezza, egli può, o meno, considerarne alcuni come prova di altri), il suo reale ragionamento probatorio è compiuto, tutto il resto potendo essere, nel migliore dei casi, una sua postuma e capovolta raffigurazione verbale’’, La logica del giudice, cit., p. 101. (4) Esemplificativa, in questo senso, la distinzione operata con estrema chiarezza da P. TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, 1999, p. 150 ss., a proposito del concetto di prova. Dopo aver precisato che il termine ‘‘prova’’ può avere almeno quattro significati a seconda che si riferisca alla fonte di prova, al mezzo di prova, all’elemento di prova o al risultato probatorio, l’autore fornisce una definizione per ciascuna delle espressioni indicate, affermando in particolare che elemento di prova è ‘‘il dato grezzo che si ricava dalla fonte di prova, quando ancora non è stato valutato dal giudice’’, mentre il risultato di
— 1040 — il mistero che porta con sé il dato che si affaccia insignificante sul percorso della ricostruzione della vicenda, in quanto si trova per sua fortuna ad essere assistito da una massima di esperienza. Qualcosa di simile ad una torcia che gli consente di farsi strada nel buio. A volte il riferimento alla massima è esplicito, dichiarato, a volte è implicito, ma comunque è sempre partendo da questo punto fermo che la massima rappresenta, che il suo veleggiare verso la decisione viene ogni volta ricostruito. Non è vero, naturalmente (5). Si tratta in fondo soltanto di un’illusione, che appaga una pretesa, quella di disegnare i significati del dato probatorio e dell’azione, che è infondata ma certamente non lascia vittime sulla sua strada. Infatti, vale la pena di ribadirlo, siffatte esercitazioni di tipo logicistico sono per definizione estranee al percorso mentale del giudice verso la decisione, che si muove esclusivamente tra le prove, se l’accertamento ne rivela l’esistenza, e non hanno certo bisogno di una massima di esperienza che ne riveli il significato. Anzi non è improbabile che accada che il risultato della prova sia tale da smentire la massima, astrattamente ipotizzabile sulla base di esperienze dello stesso tipo, e da consentire l’individuazione, o meglio la formulazione di una diversa massima, una massima nuova di zecca, egualmente idonea per le esercitazioni successive alla decisione in cui apparirà che la massima, figlia dunque della prova, paradossalmente ne ha reso possibile la valutazione. 3. Sembra quantomeno doveroso tentare di comprendere le ragioni che, in modo forse anche inconsapevole, inducono ancora oggi gli studiosi del processo a ritenere che la fondamentale fase dell’accertamento probatorio si attui sulla base di un marchingegno scovato negli anfratti della logica. Innanzitutto, persiste l’equivoco di fondo sul ruolo della logica quando essa, anziché essere vista per quello che è, vale a dire nella sua funzione di legare, di correlare, di raccordare, tra loro e rispetto al fatto, i significati offerti dai dati dell’esperienza, viene intesa come lo strumento indispensabile per consentire l’attribuzione a quei dati di un significato del quale sarebbero altrimenti privi. Andando con il pensiero un poco più lontano, anzi addirittura fuori dal perimetro mentale del processo, su un terreno che non è più solo del diritto, è possibile imbattersi in una ragione ulteriore che forse più di ogni altra si ritrova alla base del discorso sulla prova, sulle massime, sulla logica: la credenza, non l’ingenua credenza di cui così limpidamente parlava Capograssi di credere nella verità (6), bensì quella di crearla, la verità, considerando i dati dell’esperienza umana alla stessa stregua dei dati della natura. E quindi questa ragione risiede nella convinzione che prima dell’intervento dell’uomo non c’è nulla, che nulla significhino questi dati, questi comportamenti, di per sé: dall’esterno, dal di fuori essi vengono rivestiti di un senso, di un significato. Etico, estetico, giuridico, a seconda del contesto nel quale i dati stessi insistono. Eppure, per quanto riguarda il giudizio giuridico, in particolare quello sulla prova è appunto ciò che il giudice ricava dopo aver valutato la ‘‘credibilità della fonte e l’attendibilità del risultato ottenuto’’. La concezione relativa alla possibilità di tenere distinte le diverse fasi dell’accertamento probatorio, come se esso si articolasse in momenti funzionalmente e cronologicamente autonomi l’uno dall’altro, appare peraltro del tutto in linea con la posizione assunta al riguardo dalla giurisprudenza, come emerge senza possibilità di equivoco, tra le tante, da Cass., 28 novembre 1986, Giordano, in Riv. pen., 1988, p. 199 ‘‘In tema di prova critica (così come nella prova diretta), si distinguono due momenti: uno meramente percettivo ed uno relativo alla valutazione; il primo presuppone l’esistenza di un dato di fatto che consente la ricostruzione indiziaria con estremo rigore; deve cioè presentarsi certo, sicuro, inoppugnabile affinché sia lecito prenderne le mosse per ogni ulteriore ricerca e valutazione; il momento valutativo, invece, attraverso l’individuazione di una regola di esperienza, con un procedimento induttivo, permette di far discendere dal dato indiziante la conclusione probatoria’’. (5) Perché non si tratta di avanzare nel buio, che proprio le prove hanno diradato. (6) G. CAPOGRASSI, Giudizio processo scienza verità, in Opere, vol. V, Milano, 1959.
— 1041 — prova, non può non affacciarsi alla mente del ricercatore un dubbio, che una volta intravisto diventa difficile superare: non può essere che all’origine di questa concezione che fa della logica la padrona del sistema, dei dati della prova elementi muti e neutri, del giudice piccolo dio in terra che dispensa significati e attribuisce valori, vi sia la pretesa, non confessata perché inconsapevole in quanto pretesa, di mettere sullo stesso piano la prova e l’indizio? (Talvolta anche confessata, come si può vedere nella più recente letteratura processuale) (7). Sembra proprio, infatti, che l’andirivieni tra il dato che emerge carico di significato nella vicenda processuale, il dato della prova cioè, e i postulati della logica formale, e le massime di esperienza, e la configurazione sillogistica dell’accertamento siano soltanto un girovagare lezioso e privo di senso: la prova parla, e ci dice come sono andate le cose. Non resta che prenderne atto e trarne le conclusioni, con un’operazione che certo, spesso non è poi così semplice se si tiene presente che non di rado, nel groviglio delle risultanze e delle apparenze processuali, nonostante abbia parlato, la prova stenti a farsi strada. Ma questo non è un problema che concerna direttamente la prova che una volta che ha parlato non può essere messa a tacere, bensì dall’equilibrio tra pesi e contrappesi tra i quali il giudice è costretto a districarsi. E allora è questo il momento della logica, il cui intervento è possibile, anzi inevitabile soltanto quando i dati dell’accertamento hanno ormai espresso, se ce l’hanno e lo rivelano, il proprio significato. Si tratta infatti, a questo punto, di pesarli e compararli, i significati della prova, con tutte, nessuna esclusa, le risultanze processuali, ed è proprio in questo, non certo in uno sforzo, del tutto lontano dalla realtà, di attribuire significati a dati muti, che consiste la fa(7) S. RAMAJOLI, La prova nel processo penale, Padova, 1995, p. 28: ‘‘Sotto il profilo dell’attuale normativa, ne deriva il superamento della tradizionale distinzione tra prova rappresentativa e prova critica, presentando entrambe un’identica attitudine alla dimostrazione probatoria, stante la frequente attendibilità della categoria delle prove indirette, superiore a quella delle prove dirette’’; S. BATTAGLIO, ‘‘Indizio’’ e ‘‘prova indiziaria’’ nel processo penale, in questa Rivista, 1995, p. 421 ‘‘(...) la prova critica (...) non riveste di per sé un’efficacia probatoria inferiore a quella della prova storica, ben potendo, sia pure in casi che raramente si verificano nella pratica, essere posta sola a fondamento di un’affermazione di responsabilità’’; P. TONINI, Manuale, cit., p. 155: ‘‘L’indizio non è una prova ‘minore’, bensì una prova che deve essere verificata’’; G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 2000, p. 193, il quale osserva a proposito del comma 2 dell’art. 192 c.p.p. ‘‘Siffatta prescrizione non è certo determinata da una scarsa consistenza della prova indiziaria rapportata alla c.d. prova storica: non v’è dubbio che un’impronta digitale può risultare molto più significativa di una testimonianza avente per oggetto il fatto di reato’’; A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, Milano, 2000, p. 189 ‘‘Oggi è generalmente diffusa la consapevolezza che sia la prova rappresentativa sia la prova critica ‘possiedono la stessa attitudine alla dimostrazione, quando abbiano superato il vaglio della verifica’ ’’, richiamando E. FASSONE, La valutazione della prova, in AA.VV., Manuale pratico dell’inchiesta penale, a cura di L. Violante, Mlano, 1986, p. 149; N. SCAPINI, La prova per indizi nel vigente sistema del processo penale, Milano, 2001, p. 7 ss., il quale ritiene che la tradizionale definizione di indizio quale ‘‘circostanza certa dalla quale, per induzione logica, si può trarre una conclusione circa l’esistenza o l’inesistenza di un fatto da provare’’, possa essere accolta, contrariamente a quanto ritiene parte della dottrina, che non la considera idonea a differenziare l’indizio dalla prova. Secondo l’autore, infatti: ‘‘la ricerca di una definizione che differenzi totalmente e radicalmente l’indizio dalla prova si basa sul loro preteso diverso valore dimostrativo (...) ’’. Anche nella dottrina meno recente possono registrarsi posizioni analoghe a quelle appena richiamate, come dimostra, ad esempio, la nota critica di E. BATTAGLINI a Cass., sez. I, 22 giugno 1945, n. 374, Tridente ed altri, in Giur. compl. Cass. pen., 1946, I, p. 228, in cui è considerato un ‘‘pregiudizio’’ quello secondo il quale ‘‘l’indizio (...) sia fonte imperfetta e meno attendibile di certezza rispetto alla prova diretta’’. Per quanto attiene alla giurisprudenza, particolarmente significative sembrano, tra le tante, Cass., 13 novembre 1991, Cosseddu ed altri, in Foro it., II, 1993, c. 247: ‘‘Devesi ritenere superata la tradizionale distinzione tra la prova rappresentativa e quella critica, dovendo riconoscersi all’una e all’altra identica attitudine alla dimostrazione del thema probandum una volta che abbiano superato il controllo della verifica’’; Cass., 6 luglio 1992, Russo ed altri, n. 8511, in CED 191509: ‘‘Quanto al concetto di ‘indizio’ in contrapposizione a quello di ‘prova’, deve ritenersi superata la tradizionale distinzione tra la prova rappresentativa e quella critica che viene fatta al fine di un’attribuzione di un maggiore o minore valore processuale all’una piuttosto che all’altra’’; Cass., sez. VI, 9 giugno 1997, Satanassi, n. 8402, in CED 209100: ‘‘La prova (logica) così raggiunta, (...), non costituisce uno strumento meno qualificato della prova diretta, o storica’’.
— 1042 — tica del giudicare di cui parlavano i nostri antichi maestri (8). Ma in tanto questo lavoro lo può fare, in tanto questo suo lavoro ha un senso, in quanto si muove attraverso dati che hanno la loro voce e non tra dati che gli rimandano, come un eco, la sua stessa voce. 4. È proprio questo che accade quando non di prove si tratta, bensì di indizi. Dottrina e giurisprudenza guardano all’indizio come ad una prova meno pesante, quindi solo quantitativamente diversa dalla prova vera e propria, quindi appartenente allo stesso genere che in prova e indizio poi si biforca (9). È un procedimento mentale a dir poco singolare quello per cui, per il fatto di utilizzarlo come se fosse una prova, allo stesso fine cioè di rendere possibile l’accertamento, che è proprio delle prove, l’indizio viene considerato con una sorta di prognosi postuma, come se fosse già in partenza una prova, sia pure più ‘‘leggera’’. Rendere non decisiva questa leggerezza, conferire all’indizio un significato probatorio pieno, è esattamente la funzione che sono destinate a svolgere le massime di esperienza. Si è adoperata l’espressione prognosi postuma perché all’origine, in realtà, come è fin troppo evidente, l’indizio non appartiene al ceppo dal quale discendono le prove, essendo da esse ‘‘qualitativamente’’ diverso. Ed è proprio nell’aver risolto la diversità ad un problema di quantità, in questo equivoco della prova ‘‘leggera’’, che alligna la micidiale confusione per cui ci imbattiamo in decisioni della giurisprudenza che credono di vedere prove là dove non ci sono che indizi e solo indizi là dove si tratta di prove. Che poi questa confusione non sia generata da un’ontologica difficoltà di distinguere tra prova e di indizio, bensì dalla convinzione che i dati che portano sia la prova che l’indizio siano comunque muti (10) e che solo la loro valutazione può qualificarli come prova o come indizio, non sembra che possa essere messo in dubbio. La reductio ad unum della prova e dell’indizio operata dagli addetti ai lavori, dottrina e giurisprudenza, fatalmente si trasferisce all’opinione pubblica e quindi ai mezzi di comunicazione che se ne fanno portatori e al tempo stesso la condizionano, anche qui in un andirivieni forsennato, per tornare nuovamente ad influenzare e suggestionare le decisioni dei giudici. Così il ritrovamento nell’abitazione dell’indagato della pistola dalla quale è partito il colpo che ha provocato la morte di Tizio, e dalla quale manca il proiettile ritrovato nel corpo della vittima, viene considerato come un indizio e viceversa un alterco tra coniugi seguito a breve distanza di tempo dalla morte mediante strangolamento della donna, viene fatto passare, sia pure in presenza di altre risultanze processuali, come una prova e concorre, con un peso notevole ed anzi determinante, alla condanna. (8)
Gu. SABATINI, Teoria delle prove nel diritto giudiziario penale, Catanzaro, 1911; F. CARNE-
LUTTI, Diritto e processo, Napoli, 1958; G. CAPOGRASSI, Giudizio, cit.
(9) Ad esempio, G. UBERTIS, voce Prova, in Dig. disc. pen., X, 1995, p. 334: ‘‘può dirsi che la successione dei primi due commi dell’art. 192 c.p.p. abbia la funzione di disciplinare le caratteristiche del convincimento giudiziale concernenti, prima, il genus rappresentato dalla prova in senso lato e, poi, la species costituita dall’indizio’’; M. MILLO, Il processo indiziario, in Doc. giust., 1998, 9, p. 1510: ‘‘non v’è dubbio che prova diretta e prova indiziaria, pur appartenendo allo stesso genere, rappresentino due diverse specie di tale genere’’; e l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale la pur riconosciuta ambiguità dell’indizio può essere superata attraverso la valutazione complessiva di tutti gli indizi disponibili, in cui ciascun indizio si ‘‘somma’’ con gli altri (così tra le altre, Cass., sez. un., 4 febbraio 1992, Musumeci ed altri, cit.; Cass., sez. VI, 17 novembre 1992, Altamura ed altri, cit.; Cass., sez. I, 6 aprile 1993, Cafari ed altri, cit.; Cass., sez. VI, 30 maggio 1994, Di Dato, n. 9916, in CED 129451; Cass., sez. VI, 12 dicembre 1995, Meocci, n. 4825, in CED 203600), sembra essere proprio la traduzione pratica di tale convinzione dottrinale. (10) Chiarisce esemplarmente la diversa fisionomia dei due elementi Cass., 22 giugno 1945, Tridente ed altri, cit., con nota critica di E. BATTAGLINI, in cui è limpidamente sotolineato che ‘‘(...) l’indizio (...) è il muto testimone del fatto o della colpevolezza, la prova è la loro espressione eloquente’’.
— 1043 — Sia consentito di osservare che se nella sentenza che si annota la circostanza che l’imputato era stato visto sul luogo nel quale si verificò l’incendio, anziché essere considerato come un indizio fosse stata ritenuta una prova, (ma prova non era), non ci sarebbe stato motivo per stupirsi. Ma forse è accaduto che, poiché quella circostanza era tutt’altro che ciarliera, ed anzi era in realtà insignificante, così come l’altra circostanza ritenuta indiziante dello sfogo con gli attendibili testimoni, si è pensato bene di ripiegare su una spiegazione indiziaria dell’accaduto, in modo che fosse la massima di esperienza a dare certezza ai dati che non potevano offrirla. L’indizio, si sa, non è in grado di opporre alcuna resistenza: gli si può far dire tutto ciò che si vuole. 5. La ricerca di una definizione di indizio, sia nei manuali di procedura penale, sia nelle innumerevoli ricerche sul tema della prova risulta assai meno semplice di quanto si possa immaginare (11). Generalmente, ci si limita ad affermare che mentre la prova è certa, vale a dire che ci dà la certezza, l’indizio è invece incerto, vale a dire che certezza non ce ne dà. Le ridotte dimensioni di questa piccola nota non ci consentono, come si vede, che inevitabili formule di sintesi, che però proprio in quanto tali sembrano almeno rendere meno probabile il sorgere di equivoci o fraintendimenti. Si deve aggiungere, sempre a volo di uccello, anche se qualche cenno si è già fatto prima, che l’incertezza dell’indizio viene eliminata grazie al soccorso alle massime di esperienza. E si deve ancora far notare quanto poco sia convincente la pretesa di guardare all’indizio come ad una prova, sia pure di minore peso, se si tiene presente che la prova serve a spiegare i fatti laddove è l’indizio a dover essere spiegato. Tra la prova e il fatto corre un filo diretto che proprio dalla prova si muove, tra l’indizio e il fatto non c’è alcun filo né diretto né (11) Come anche di recente è stato osservato (P. FERRUA, Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, in P. FERRUA-F.M. GRIFANTINI-G. ILLUMINATI-R. ORLANDI, La prova nel dibattimento penale, Torino, 1999, p. 233) fiumi di inchiostro sono stati versati per tentare di chiarire il concetto di indizio e il significato dei requisiti (gravità, precisione, concordanza), alla cui presenza il legislatore subordina la possibilità di inferire l’esistenza del fatto da provare. D’altra parte non può essere trascurato il fatto che il tema della prova, del quale fa parte, pur con le dovute precisazioni, anche il problema dell’indizio, e soprattutto l’esatto significato del principio che presiede alla valutazione di essa, devono sempre essere guardati in una prospettiva problematica, essendo per loro natura strettamente legati al contesto storico-sociale che di volta in volta si ha per riferimento: M. NOBILI, Il principio del libero convincimento del giudice, Milano, 1974, p. 465 ss. La complessità della questione definitoria è determinata in buona parte dalla frequente confusione tra termini e distinzioni che sottintendono criteri diversi. L’indizio viene infatti per lo più definito facendo leva sulla distinzione tra prove dirette e prove indirette, la quale però a volte viene operata con riferimento ad una diversità di oggetto, nel senso che quando il tema ed il mezzo di prova si riferiscono al fatto oggetto di imputazione si ha prova diretta, ed indiretta se attiene ad un fatto secondario dal quale sia possibile, mediante un procedimento critico, dedurre il fatto principale. In questo senso S. BATTAGLIO, ‘‘Indizio’’ e ‘‘prova indiziaria’’, cit., p. 392; D. SIRACUSANO-A. GALATI-G. TRANCHINA-E. ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, vol. I, Mlano, 1996, p. 372 ss.; G. LOZZI, Lezioni, cit., p. 192; V. GREVI, Prove, in AA.VV., Compendio di procedura penale, a cura di G. Conso-V. Grevi, Padova, 2000, p. 287; altre volte, invece, essa è ricostruita ponendo l’accento su di un fattore diverso, vale a dire la relazione, immediata nel caso delle prove dirette, mediata nel caso di quelle indirette, tra il giudice e i fatti, cosicché viene definita diretta la prova quando il fatto viene direttamente percepito dal giudice, indiretta se tra quest’ultimo e il fatto da provare vi è un fatto intermedio (F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1995, p. 543 ‘‘Ora i casi sono due: ha — il giudice — sperimentato i fatti; o li sa da fonti mediate; alle rispettive ipotesi corrispondono le prove ‘diretta’ e ‘indiretta’ ’’). Chi accoglie quest’ultimo tipo di classificazione distingue poi, all’interno della categoria delle prove indirette, tra quelle storiche e quelle critiche, a seconda che il fatto sia rappresentato al giudice ovvero sia necessaria un’operazione inferenziale da parte dello stesso. In tale ultimo senso, F. CORDERO, Procedura penale, op. e loc. cit.; P. TONINI, La prova penale, Padova, 2000, p. 36. Sembra importante sottolineare tuttavia che, nonostante il costante impegno volto all’elaborazione di un soddisfacente criterio di distinzione, non è dato di trovare una definizione dell’indizio che sia in grado di differenziarlo dalla prova. Un’eccezione è costituita dalle ricerche di M. MASSA, Contributo all’analisi del giudizio penale di primo grado, Milano, 1964, al quale si deve la puntualizzazione della profonda diversità tra prova e indizio sul piano del significato di valore che la prova esprime e che è invece del tutto assente nell’indizio, nonché su quello scriteriato ed illusorio del ricorso alle massime di esperienza.
— 1044 — indiretto: il collegamento tra l’indizio e il fatto è null’altro che una creazione successiva all’apparizione, meglio si direbbe il reperimento, della circostanza indiziante, ed avviene per le vie della logica, lontano cioè da un improbabile significato dell’indizio, che non ne ha. Fuori dal processo, fuori dal diritto, c’è stato però qualcuno che una definizione l’ha tentata, riconducendo l’indizio all’interno della categoria dei segni naturali, dal momento che la sua comprensione o decifrazione non dipende dal significato intenzionale che il veicolo probatorio è in grado di trasmettere, quanto piuttosto dalle scelte soggettive ed arbitrarie che l’interprete adotta a posteriori per la sua ricostruzione (12). Anche sulla base di questa analisi si può dunque dire che l’indizio è muto, privo si significato probatorio, e che soltanto ‘‘scelte’’, arbitrarie perché effettuate tra tutte quelle possibili, e che dipendono da fattori per definizione estranei al dato che non parla, non ultimi quelli relativi alla personalità di chi opera la scelta, dovrebbero essere in grado di attribuirgli un significato. Come si vede, siamo assolutamente lontani dal terreno della prova e nessun marchingegno verbale può provocare un avvicinamento tra due concetti tanto dissimili, se non sul piano di un’illusione, che però si risolve in una sopraffazione, potendo il procedimento mentale che si svolge sulla base di elementi indiziari dare luogo soltanto ad un ragionamento non intellettualmente cogente e a conclusione meramente probabile ed ipotetica, inidoneo in quanto tale ad istituire qualsivoglia correlazione necessaria tra due avvenimenti (13). E si deve dire allora che quando ci si imbatte, e questo non di rado accade, in quelle sentenze che ritengono di poter pervenire ad un’affermazione di responsabilità sulla base di ‘‘indizi schiaccianti’’, in realtà ci si trova di fronte ad un linguaggio surreale, che concorre a dare luogo all’equivoco a cui si è fatto cenno. Se l’indizio non porta con sé alcun ‘‘significato intenzionale’’, e sembra proprio ovvio che sia così, se l’indizio è ‘‘inidoneo ad istituire qualsivoglia correlazione tra due avvenimenti’’, e anche questa conclusione appare pacifica, come si può seriamente parlare di indizi schiaccianti dato che, galleggiando sul mare delle supposizioni, dei sospetti, delle interpretazioni, essi non hanno maggior o minor peso, bensì semplicemente non ne hanno alcuno? 6. La giurisprudenza ritiene le proprie decisioni in tema di indizi assolutamente in linea con il contenuto delle disposizioni dell’art. 192, comma 2, c.p.p. e la dottrina in realtà non dissente, solo sforzandosi di comprendere e circoscrivere il significato dei requisiti della gravità, precisione e concordanza degli elementi indiziari (14). Nel quotidiano dei tribunali, in realtà, avviene che per adeguarsi all’esigenza della molteplicità degli indizi richiesta come condizione per la loro rilevanza, si assiste non di rado ad una straordinaria operazione di frazionamento dell’unico indizio reperito, per cui da uno solo se ne fanno due e forse, chissà, anche tre. Per tentare di comprendere la norma in questione, è indispensabile ricordare (12) U. ECO, Segno, ISEDI, 1973, p. 33 ss. (13) KALINOWSKI, Introduzione alla logica giuridica, Milano, trad. it., 1971, p. 197 ss. (14) Nella vigenza del codice Rocco parte della dottrina, denunciando l’assoluta mancanza di limiti normativi alla libertà di apprezzamento delle risultanze probatorie da parte del giudice, auspicava l’introduzione, in tema di rilevanza degli indizi, di ‘‘un substrato di ‘regole minime’, volte esclusivamente ad una funzione di contenimento garantistico’’. Così, P. DI RONZA, Elemento probatorio, indizio e massime di esperienze, in Giur. mer., 1979, p. 127. I requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dal legislatore dell’88 sulla scorta della disciplina delle presunzioni civili per l’utilizzazione di elementi indiziari ai fini del giudizio, vengono infatti salutati quasi con sollievo da quella stessa dottrina (ad esempio, M. BONETTI, Gli indizi nel nuovo processo penale, in Ind. pen., 1989, p. 497 ‘‘Sono finalmente indicati dal legislatore i parametri per qualificare l’elemento indiziario’’), che aveva assistito con preoccupazione al fraintendimento del principio del libero convincimento, che di fatto era ‘‘giunto persino ad abbattere ogni distinzione tra prova ed indizio’’. Così, G. BETOCCHI, Libero convincimento, prova, indizio: verifica giurisprudenziale, in Riv. dir. proc. pen., 1978, p. 716.
— 1045 — che nella situazione precedente al codice dell’88, di indizi il codice parlava soltanto con riferimento alla fase istruttoria (ma già per il rinvio a giudizio erano richieste ‘‘sufficienti prove di colpevolezza’’). Era evidente l’intento del codice di negare qualsiasi rilevanza agli indizi per la condanna, e la loro funzione era limitata esclusivamente ad una fase iniziale del processo (ad esempio per l’emissione di ordini e mandati). Ciò nonostante la giurisprudenza sistematicamente riconosceva rilevanza agli indizi, anche ad un solo indizio, e li riteneva sufficienti per la condanna. Se si tiene presente questa situazione, diventa meno problematica l’interpretazione dell’art. 192: lungi dal contenere una norma d’apertura verso il riconoscimento di una sostanziale parificazione dell’indizio alla prova, essa si rivela al contrario come una norma di chiusura verso le azzardate interpretazioni precedenti in tema di prova e di indizio. In realtà essa va scomposta e analizzata nelle sue due parti, nella prima delle quali si stabilisce che l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi, e quindi c’è l’affermazione inequivoca della necessità dell’esistenza della prova per ritenere accertata l’esistenza del fatto (15); l’impossibilità di utilizzare a tale fine gli indizi sta a significare che non è possibile considerarli come se si trovassero nella medesima dimensione logica della prova. Nella sua seconda parte la norma si rivolge a chi incautamente ritiene di poter fare a meno delle prove ed è disposto ad accontentarsi degli indizi nonostante il divieto così fermamente sancito e allora, memore di quel che accadeva in precedenza, cerca di opporre almeno degli ostacoli all’utilizzazione scriteriata degli indizi, ritenendo di poter raggiungere lo scopo attraverso la previsione dei requisiti della gravità precisione e concordanza (16). Quest’ultima condizione è innegabilmente posta a scongiurare l’eventualità che ci si possa servire di un unico indizio, divieto del resto già implicito nella circostanza che sempre al plurale si parla anche per i requisiti della gravità e della precisione, ma che potrebbe essere aggirato con lo spezzettamento di un indizio in due, laddove è un po’ difficile immaginare un indizio che concordi con se stesso (17). Sta di fatto che anche la norma dell’art. 192, comma 2 è comunque figlia (15) L’indicazione incontrovertibile fornita dall’interpretazione letterale dell’art. 192 è riconosciuta unanimemente. Ad esempio, V. GREVI, Libro III, in AA.VV., Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. Conso-V. Grevi, Padova, 1990, p. 158; S. BATTAGLIO, ‘‘Indizio’’ e ‘‘prova indiziaria’’, cit., p. 407; N. SCAPINI, La prova, cit., p. 119: ‘‘dunque, la regola è che l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi mentre la legittimità della prova per indizi a condizione che questi siano gravi, precisi e concordanti costituisce l’eccezione’’. (16) La gravità viene generalmente fatta consistere nell’elevato grado di pertinenza-rilevanza del fatto noto rispetto al thema probandi, nel senso che l’indizio può essere considerato tale quando è in grado di dimostrare con un’alta probabilità l’esistenza del fatto ignoto da provare; la precisione viene invece di regola ricondotta all’inidoneità dell’indizio a prestarsi ad interpretazioni diverse ed alternative rispetto al fatto ignoto da provare; mentre la concordanza, di cui non è pacifico se la pluralità costituisca il necessario presupposto (vedi nota successiva), starebbe ad indicare l’armonico muoversi di tutti gli elementi indiziari verso la medesima ricostruzione. (17) Nonostante la chiarezza lapalissiana della norma in questione in ordine alla necessità di una pluralità di elementi indiziari ai fini dell’applicabilità dell’eccezione in essa contenuta, non mancano in dottrina autori che ammettono la possibilità che il giudice per fondare il proprio giudizio si serva, anche se in ipotesi di rara verificazione, di un solo indizio, in netta antitesi rispetto all’indicazione normativa. In questo senso, BATTAGLIO, ‘‘Indizio’’ e ‘‘prova indiziaria’’, cit., p. 421; N. SCAPINI, La prova, cit., p. 167. Ritengono invece che la pluralità degli indizi non costituisca un requisito meramente virtuale, ma rappresenti una necessaria premessa ai fini di una corretta applicazione dell’art. 192, D. SIRACUSANO-A. GALATIG. TRANCHINA-E. ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, cit., p. 373 ss. In giurisprudenza non è possibile registrare un indirizzo costante, essendovi da una parte pronunce, certamente prevalenti nel complesso, che ritengono indispensabile la pluralità degli indizi, come ad esempio, tra le altre, Cass., sez. I, 29 aprile 1992, Di Martino, cit.; Cass., sez. I, 9 aprile 1992, Pirisi n. 8045, in CED 191303: ‘‘al risultato finale, (...), si può pervenire solo attraverso una pluralità di indizi, i quali siano gravi, precisi e concordanti, proprio perché ‘quae singula non probant, simul unita probant’. L’insufficienza del singolo dato indiziante, ancorché grave e preciso, è quindi connaturale al carattere stesso dell’indizio’’; e ancora, nel medesimo senso, Cass., sez. VI, 25 marzo 1997, Martinese, cit. Dall’altra, pronunce che ritengono invece sufficiente anche un unico indizio a fondare una sentenza di condanna, come ad esempio Cass., sez. VI, 13 dicembre
— 1046 — della confusione: essa suppone che più indizi possiedano una forza tale da poter essere a volte utilizzati ‘‘in luogo della prova’’ (perché prova non sono e soltanto come un surrogato della prova vengono considerati) laddove, come sappiamo, nel caso degli indizi l’unione non fa la forza, dato che nessuno di essi può concorrere a svelare il significato del fatto, per la ragione così semplice che essi stessi un significato non lo possiedono. Figlia della confusione dunque, ma anche figlia di compromessi, la norma dell’art. 192, alla quale come era più che prevedibile si usa quotidiana violenza integrandone il contenuto con questa o quella massima d’esperienza, alla quale nulla può opporre l’indizio, e che alla fine sarà essa a dare lo spessore della gravità e della precisione che, per definizione, non possono essere dell’indizio (18). Ogni tanto, però, in questo panorama che forse a causa della limitata esperienza di chi scrive appare al tempo stesso incomprensibile ed agghiacciante, ogni tanto, come un fiore nel deserto, ci capita di ascoltare una voce fuori dal coro. Pensiamo alla sentenza di Palermo nel processo contro Giulio Andreotti, una sentenza di proscioglimento nonostante l’accusa avesse fornito ai giudici una molteplicità di indizi e ritenesse perciò che avrebbe vinto la partita (19). Nei motivi di appello della Procura avverso quella sentenza la critica più severa si basa sul fatto che i giudici hanno esaminato autonomamente rispetto agli altri ciascuno degli indizi, rivelandone ogni volta l’infondatezza, e non hanno invece guardato, come secondo la Procura avrebbero dovuto fare, l’intero quadro indiziario, nella sua totalità (20). Ed è invece proprio questo che ne fa una sentenza esemplare: l’aver 1991, Grillo e altro, cit.: ‘‘i requisiti della precisione e della concordanza (...) non possono coesistere in ciascun indizio da valutare, dato che, ove uno di essi possegga quello della precisione (nel senso della ‘necessarietà’), di per sé e da solo risulta idoneo e sufficiente a provare il fatto ignoto; al contrario, in presenza di più indizi, nessuno dei quali sia fornito del requisito della precisione, è necessario pervenire ad un’operazione logico-concettuale di complessiva valutazione sotto la regia della regola di esperienza assunta dal decidente. Può perciò affermarsi, in tema di prova critica, che il legislatore, quando parla di concordanza, si riferisce ai più indizi, senza escludere l’utilizzabilità di un singolo indizio che sia fornito del requisito della precisione’’; allo stesso modo, Cass., sez. IV, 25 gennaio 1993, Bianchi, n. 2967, in CED 193406: ‘‘I due requisiti della precisione e della concordanza non possono coesistere in ciascun indizio da valutare in quanto, ove uno di essi sia fornito del requisito della precisione, intesa come necessarietà, è possibile utilizzarlo singolarmente, risultando di per sé e da solo idoneo e sufficiente a provare il fatto ignoto. Al contrario, in presenza di più indizi nessuno dei quali munito del requisito della precisione, occorre che essi siano concordanti’’; e ancora, Cass., sez. IV, 26 aprile 1996, Piscopo, n. 8662, in CED 206960. (18) La conferma di quanto appena affermato si può agevolmente trarre dalla considerazione, pressocché costante in dottrina, secondo la quale il ‘‘peso’’ dell’indizio rispetto all’accertamento del fatto è dato dal grado di consistenza della regola di esperienza utilizzata. Ad esempio, E. BATTAGLINI, nota a Cass., sez. I, cit., p. 228: ‘‘Ne consegue che il grado di attendibilità e la forza probatoria dell’indizio derivano dal grado di certezza della circostanza indiziante e dal grado di consistenza della massima di esperienza su cui si basa l’efficacia logica dell’illazione’’; S. BATTAGLIO, ‘‘Indizio’’ e ’prova indiziaria’’, cit., pp. 397-398; A. NAPPI, Guida al codice, cit., p. 187; N. SCAPINI, La prova per indizi, cit., p. 247. (19) Trib. Palermo, sez. V, 23 ottobre 1999. (20) Secondo un costante orientamento della giurisprudenza, infatti, la ‘‘regola metodologica’’ dettata dall’art. 192 cpv., impone di raggiungere il cosiddetto sinergismo indiziario (utilizza questa espressione accattivante Cass., sez. I, 9 aprile 1992, Pirisi, cit. ‘‘l’essenziale è che l’univocità probatoria venga raggiunta attraverso i collegamenti e la confluenza univoca dei plurimi indizi, evitandosi, da parte del giudice di merito, l’errore di una valutazione frazionata, e come tale, viziata dall’apparenza, non avendo essa tenuto conto del significato promanante dal sinergismo indiziario’’) proprio in forza dell’unitaria considerazione di tutti gli elementi indiziari a disposizione. Tra le tante, Cass., sez. un., 4 febbraio 1992, Musumeci ed altri, cit.; Cass., sez. VI, 30 maggio 1994, Di Dato, cit.: ‘‘(...) il giudice, a fronte di una molteplicità di indizi, deve procedere in primo luogo all’esame parcellare di ciascuno di essi definendolo nei suoi contorni, valutandone la precisione, che è inversamente proporzionale al numero dei collegamenti possibili col fatto da accertare e con ogni altra possibile ipotesi di fatto, nonché la gravità, apprezzata con i medesimi criteri; deve quindi procedere alla sintesi finale accertando se gli indizi, così esaminati possono essere collegati tutti ad una sola causa o ad un solo effetto, armonicamente, in unico contesto, dal quale possa per tale via esser desunta l’esistenza o, per converso, l’inesistenza di un fatto’’; Cass., sez. I, 2 febbraio 1996, Monaro ed altro, cit.: ‘‘In tema di valutazione della prova in un procedi-
— 1047 — compreso appieno che la fatale insignificanza di ogni singolo indizio è destinata a restare tale, si tratti di uno o di una molteplicità di indizi, e che nessun intervento esterno può trasformare una serie di elementi, ciascuno dei quali insignificante, in un tutt’uno miracolosamente significante. LAURA CAPRARO Ricercatrice di Procedura penale Università di Roma ‘‘Tor Vergata’’
mento di natura indiziaria, a fronte della molteplicità degli indizi, il giudice deve procedere, in primo luogo, all’esame analitico di ciascuno di essi, qualificandone i connotati individuali di precisione e gravità, e poi alla sintesi finale, in un unico contesto, dal quale poter inferire logicamente, sulla base di regole di esperienza consolidate e affidabili, l’esistenza del fatto incerto, provato secondo lo schema del sillogismo giudiziario’’; Cass., sez. VI, 25 marzo 1997, Martinese, cit.; Cass., sez. VI, 9 giugno 1997, Satanassi, cit.; Cass., sez. VI, 19 maggio 1998, Bernardoni ed altro, n. 7175, in CED 211129.
— 1048 — d) Giudizi di Merito
TRIBUNALE DI MILANO - sez. IV - 13 ottobre 1999 Pres. ed Est. Martino Lavoro - Sicurezza - Prevenzione infortuni - Delega formale - Assenza - Posizione di garanzia del datore di lavoro - Indelegabilità - Dovere di vigilanza e controllo - Sussistenza. Fermo il principio della non delegabilità sic et simpliciter degli adempimenti relativi alla sicurezza, il datore di lavoro è tenuto ad avvalersi della collaborazione di persone interne all’azienda in possesso delle necessarie competenze professionali per integrare l’azione di prevenzione e protezione con la creazione di un servizio che svolge un ruolo consultivo e di protezione delle iniziative più adeguate per la sicurezza. Il datore di lavoro, naturale centro d’imputazione dei doveri inerenti al tema de quo, non avendo delegato nulla formalmente ad altri soggetti e mantenendo su di sé i poteri decisionali, può fare limitato affidamento sulle capacità e competenze e sulla diligenza altrui e assume il dovere di vigilanza e controllo della materia in cui, mediante l’elaborazione delle misure di prevenzione, viene data attuazione al dovere primario di sicurezza (1). (Omissis). — IL FATTO. — (Omissis). Alle h. 11.26 del giorno 31 ottobre 1997 al centralino dei Vigili del Fuoco pervenne una chiamata di persona che... denunciò che nella camera iperbarica dell’Istituto Ortopedico Galeazzi... si era verificato un incendio che era già stato spento. (Omissis). La camera era adibita ai trattamenti di ossigenoterapia iperbarica che all’Istituto Ortopedico Galeazzi venivano effettuati in un reparto specifico dotato di due camere multiposto. (Omissis). L’apertura dello scafo consentì di verificare che tutti coloro che l’occupavano, i dieci pazienti e l’infermiere incaricato della loro assistenza, erano deceduti in conseguenza delle ustioni che anche l’esame dei loro corpi da parte di un profano rendeva evidenti ed eziologicamente rilevanti. (Omissis). Ogni camera iperbarica è dotata di una consolle che contiene il monitor che trasmette le immagini dell’interno della camera, e altri strumenti indicatori tra i quali quello relativo alle concentrazioni d’ossigeno che si raggiunge durante il trattamento, e quello alla cui soglia di ossimetria è tarata l’attivazione del sistema d’allarme acustico e sonoro. Alla consolle è preposto un tecnico con il compito di provvedere alla pressurizzazione della camera iperbarica fino al raggiungimento della quota indicata per la terapia e alla successiva operazione di depressurizzazione che a fine trattamento serve a riportare lo scafo alla pressione atmosferica ordinaria così da permettere la riapertura del portellone e l’uscita di pazienti e assistente. Il compito del tecnico non si esaurisce in questo, essendo sua mansione anche controllare costantemente il valore di ossimetria e, nel caso in cui tale valore dovesse avvicinarsi a quello sti-
— 1049 — mato di rischio, richiamare l’assistente per verificare che una non corretta sistemazione degli strumenti di inalazione dell’ossigeno (maschera o casco) non stia provocando una dispersione d’ossigeno. (Omissis). La camera iperbarica andata a fuoco era munita di un sistema antincendio che poteva essere attivato dall’esterno azionando un comando pneumatico posto sulla consolle, oppure dall’interno girando una manichetta situata nella tubazione che corre sul cielo dello scafo. Al suo arrivo il consulente Bardazza, dopo aver provveduto a segnare la posizione della strumentazione del quadro comandi, constatò che le operazioni di emergenza e di attivazione dell’impianto antincendio dall’esterno apparivano eseguite correttamente, e che anche la valvola, all’interno della camera, era in posizione di aperto e, tuttavia, siccome nello scafo non vi era traccia di acqua sorse il sospetto che di fatto l’impianto antincendio non avesse funzionato. Nessuno del personale anche tecnico dell’Istituto Ortopedico Galeazzi dichiarò di conoscere l’esistenza del serbatoio d’acqua e, percorrendo a ritroso le tubazioni, apparve chiaro che il serbatoio era vuoto. Durante le operazioni di rimozione delle salme, all’interno della camera furono rinvenuti diversi oggetti e, tra questi, uno scaldamani che i consulenti individuarono come la fonte d’innesco di un fuoco che, per non essere stato tempestivamente spento, si era trasformato in incendio. Il Procuratore della Repubblica presso questo Tribunale... avanzò al giudice per le indagini preliminari richiesta di giudizio immediato nei confronti di Antonino Ligresti, presidente del consiglio di amministrazione dell’Istituto Ortopedico Galeazzi s.p.a., Silvano Ubbiali, amministratore delegato del predetto Istituto, Ezio Zambrelli, direttore sanitario, Giorgio Oriani, primario del reparto di ossigenoterapia iperbarica, Andrea Bini, tecnico addetto al quadro comandi della camera iperbarica durante il trattamento nel corso del quale si era sviluppato l’incendio, Roberto Beretta, capo dell’ufficio tecnico dell’Istituto Ortopedico Galeazzi; l’esercizio dell’azione penale avvenne anche nei confronti di Raffaele Bracchi, responsabile del servizio di prevenzione e protezione dell’Istituto Ortopedico Galeazzi per esserne stato designato dalla Clinica Service s.r.l. A tutti gli imputati il P.M. contestò i reati di incendio colposo e di plurimo omicidio colposo. LA MOTIVAZIONE. — (Omissis). Si è correttamente osservato che lo status di datore di lavoro risulta riassuntivo di una posizione di garanzia definita originaria perché prende corpo con l’attribuzione al soggetto dei poteri necessari per la gestione dell’impresa nella sua totalità e unitarietà, ovvero di una unità, e la nuova normativa non ha sminuito ma rafforzato la centralità del ruolo del datore di lavoro mantenendo il principio di indelegabilità dei cosiddetti ‘‘obblighi strutturali’’ già espresso dalla giurisprudenza di legittimità formata al massimo livello. Ai fini della sicurezza la qualifica datoriale non è un dato meramente formale e simbolico perché comporta una responsabilità il cui contenuto si comprende, per un verso, osservando che non possono essere delegate la valutazione del rischio, la formazione e l’aggiornamento del relativo documento, la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione e, per altro verso, ponendo mente al ruolo limitatamente consultivo e promozionale assegnato al servizio di
— 1050 — prevenzione e protezione che lascia integro il potere e le correlative responsabilità del datore di lavoro cui competono le determinazioni finali. Il datore di lavoro, insomma, rimane centro d’imputazione dei doveri in sinallagmaticità con l’attribuzione dei poteri decisionali lato sensu e di spesa in particolare, funzionali alla gestione dell’impresa; coagula in sé l’uno e l’altro. Non tutto è indelegabile, anzi può dirsi che la maggior parte delle competenze non lo sono, ma per ciò che lo è l’unico mezzo per trasferire ad altro soggetto gli obblighi essenziali in materia di sicurezza, è fare di lui un ulteriore datore di lavoro. La possibilità che in funzione della prevenzione e della sicurezza esista contemporaneamente una pluralità di datori di lavoro, non deve sorprendere più di tanto, essendo il riflesso della definizione di datore di lavoro che si trova nell’art. 2 del d.lgs. n. 626/1994 dopo le modificazioni introdotte con il d.lgs. n. 242/1996. Una struttura imprenditoriale dotata di più unità produttive, ciascuna autonoma in senso finanziario e tecnico-funzionale, si può trovare ad avere più soggetti con le qualifiche e i poteri indicati all’art. 2, lett. b) e, quindi, più datori di lavoro. In questo limitato senso si può concludere che il legislatore indicando i soggetti responsabili dell’unità produttiva e titolari dei poteri decisionali e di spesa, ha recepito l’orientamento giurisprudenziale fondato sull’effettività, precisando il contenuto di tale requisito che in coerenza alla scelta normativa di indelegabilità va inteso in maniera rigorosa: poteri di spesa autonoma e gestione autonoma di uno stabilimento o struttura finalizzata alla produzione di beni e servizi e, a sua volta, di autonomia finanziaria e tecnico-funzionale, secondo la definizione che dell’unità produttiva fornisce l’art. 2, lett. i). Un datore di lavoro deve esistere e deve essere chiaramente individuato da prima del momento patologico e, se si affermasse che se viene meno il datore di lavoro rimane pur sempre la struttura a realizzare la garanzia, si finirebbe per riproporre quella tendenza a ricercare il responsabile sempre più in basso, che una giurisprudenza di decenni ha sempre efficacemente contrastato. Scomparsa la figura del datore di lavoro di fatto che non può più esistere occorrendo per intuibili ovvie ragioni, un incarico formale, la necessità di creare un’autonoma unità produttiva impone addirittura una previsione statutaria che possa così mettere al riparo, a un tempo, il datore di lavoro periferico da ingerenze che ne comprimano l’autonomia, e la collettività da condotte di pura apparenza finalizzate ad eludere la normativa frustrando le legittime aspettative di tutela del bene giuridico. L’inderogabilità della posizione di garanzia per l’intima connessione con il ruolo del datore di lavoro che si è visto essere naturale centro di aggregazione di determinati doveri, non comporta quell’agire in solitudine più volte evocato (negativamente) nel corso del dibattimento e che anzi, qualora significasse rinuncia ad utilizzare le nozioni tecniche indispensabili per realizzare il compito prioritario di rendere sicuro il luogo di lavoro, sarebbe colpevole. Fermo il principio della non delegabilità sic et simpliciter degli adempimenti relativi alla sicurezza, il datore di lavoro è tenuto ad avvalersi della collaborazione di persone interne all’azienda in possesso delle necessarie competenze professionali per integrare l’azione di prevenzione e protezione con la creazione di un ser-
— 1051 — vizio che svolge un ruolo consultivo e di promozione delle iniziative più adeguate per la sicurezza. Unico punto di riferimento normativo, però, rimane il datore di lavoro che nulla avendo delegato ad altri — non avendone il potere in virtù dello sbarramento posto all’art. 1, comma 4-ter — e, mantenendo su di sé i poteri decisionali, può fare limitato affidamento sulle capacità e competenze e sulla diligenza altrui e assume il dovere di vigilanza e controllo della maniera in cui mediante l’elaborazione delle misure di prevenzione viene data attuazione al dovere primario di sicurezza. (Omissis). Possibile addebito di culpa in eligendo e anche in vigilando, pertanto, e quest’ultima almeno nella misura minima che serva a conservare un senso concreto all’indelegabilità di un dovere che trova unico centro di riferimento nel datore di lavoro alla cui piena discrezionalità, del resto, il legislatore ha rimesso l’organizzazione del servizio di prevenzione e protezione e, quando possibile, la scelta dei consulenti esterni. Discutendosi dei criteri di validità della delega si era affermata l’opinione che il problema potesse trovare adeguata soluzione se visto come verifica della misura di attenzione e diligenza con la quale è stato svolto l’adempimento del precetto penale mediante la ‘‘collaborazione’’ di terzi, adempimento che rimane personale nel momento costitutivo e in quello del controllo, nel senso di verifica che le aspettative di salvaguardia permangano nel tempo. È questa la ragione per la quale si è sempre detto che pure una delega correttamente attribuita a soggetti idonei lascia residuare margini per doveri di controllo e nella specie, in un certo senso, vi è di meno perché per adempiere il dovere era sufficiente leggere la scheda di valutazione del rischio e constatare che era priva di contenuto sostanziale; vi è di più perché nessuna delega è ipotizzabile verso il ‘‘valutatore’’. (Omissis). Il momento di maggiore significatività della centralità del ruolo che il datore di lavoro mantiene per la sicurezza nella forma della prevenzione e della protezione, è la valutazione del rischio il cui aspetto conclusivo è il documento di valutazione destinato a contenere l’individuazione degli specifici fattori di rischio e della maniera di gestirlo per programmare la sicurezza in vista dell’obiettivo di pervenire non all’eliminazione totale, che è impossibile, bensì al contenimento del rischio entro i limiti consentiti dalle conoscenze tecniche del momento. E allora un conto è constatare che la sicurezza normalmente richiede conoscenze complesse che il datore di lavoro deve acquisire aliunde, altro è sostenere che proprio quel soggetto, che della sicurezza rimane per legge l’unico garante, possa liberarsi del proprio dovere soltanto con la nomina di chi quelle conoscenze possiede, così attuando una surrettizia delega di fatto in favore di soggetti i cui poteri sono pari al ruolo puramente consultivo e di indirizzo che rivestono e che, per questa ragione, sono ritenuti dalla nuova legislazione irresponsabili come lo erano gli addetti alla sicurezza che li hanno preceduti. (Omissis). È stata eccepita la legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, lett. a) e 4, comma 1 e 2 del d.lgs. n. 626/1994 e della legge delega per violazione degli artt. 1, 4, 41, comma 2 e 3 della Costituzione ‘‘nella parte in cui non prevede che la valutazione del rischio e i piani di sicurezza debbano essere elaborati sulla base
— 1052 — di linee guida e di programmi tipo, emanati da organi ed enti pubblici, a ciò espressamente delegati dal Parlamento’’. Ancora è stata eccepita, per contrasto con l’art. 25 della Costituzione, la legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 1 e 2, e 1, comma 4-ter del d.lgs. n. 626/1994 con riferimento all’art. 40 cpv. e 589 c.p. ‘‘nella parte in cui non prevedono il rinvio a linee guida di valutazione del rischio e programmi tipo di sicurezza, elaborati da enti o agenzie espressamente delegate dal Parlamento’’. (Omissis).
—————— (1) Colpevolezza o solvibilità: quale criterio per la responsabilità del delegante? Sommario: 1. I recenti orientamenti della dottrina e della giurisprudenza in tema di delega di funzioni: il criterio funzionalistico e le nuove pronunce della Corte di cassazione. — 2. La nozione di datore di lavoro fra vecchie e nuove problematiche interpretative. — 3. Le responsabilità penali colpose del delegante nella sentenza annotata. — 4. ‘‘Oltre’’ la delega di fatto: prospettive de iure condendo.
1. I recenti orientamenti della dottrina e della giurisprudenza in tema di delega di funzioni: il criterio funzionalistico e le nuove pronunce della Corte di cassazione. — La pronuncia in esame è di notevole interesse. L’istituto della delega di attribuzioni, in particolare, occupa una posizione centrale all’interno di questa sentenza del Tribunale di Milano in considerazione sia della portata giuridica che assume nel sistema penale sia dei contenuti della motivazione fornita dai giudici. Ad accentuare il rilevante interesse di questa decisione, contribuisce il fatto che, proprio la delega di funzioni, è stata recentemente oggetto sia di interventi legislativi sia di sentenze della Suprema Corte che hanno acutamente posto l’accento, da un lato, sulla necessità di definire, il più dettagliatamente possibile, i contorni ed i caratteri della delega e dei soggetti in essa coinvolti, dall’altro l’urgenza del pieno riconoscimento giuridico della c.d. delega di fatto. Connesso al tema della delega di funzioni il problema della trasmissibilità della posizione di garanzia e delle relative responsabilità penali gravanti in capo al delegante o al delegato. Dunque, l’articolazione giuridica del tema de quo, di notevole importanza in quanto strettamente legata alle esigenze del moderno mondo imprenditoriale, determina inevitabilmente una particolare attenzione orientata verso le pronunce che di esso si occupano. Più precisamente, la decisione in oggetto risulta, a nostro avviso, piuttosto deludente se si considera che ogni responsabilità penale colposa — a titolo di culpa in eligendo e di culpa in vigilando — peraltro non avvalorata da alcun nesso eziologico accertato in relazione all’evento, è stata attribuita ai ‘‘vertici aziendali’’ sostanzialmente sulla base della collocazione strutturale di questi all’interno dell’istituto Galeazzi. Il riconoscimento di una responsabilità ‘di posizione’, appare inaccettabile soprattutto nell’attuale contesto caratterizzato dai recenti sforzi compiuti dal legislatore comunitario e italiano nel settore, che qui interessa, della sicurezza del lavoro. Esso, soprattutto se considerato in relazione alle grandi organizzazioni d’impresa, risulta particolarmente importante in quanto attiene all’incolumità dei soggetti impegnati nelle più varie attività lavorative e di tutti coloro che, a vario titolo, ne sono comunque coinvolti. In questo caso, infatti, i giudici di Milano sono
— 1053 — stati chiamati a pronunciarsi sulle responsabilità derivanti da un incidente occorso durante una delle attività terapeutiche, svolte nell’istituto Galeazzi, in cui hanno trovato la morte undici persone a causa del mancato funzionamento del sistema antincendio della camera iperbarica in cui la terapia si svolgeva. Si tratta, peraltro, di un settore sicuramente delicato e di rilevanza estremamente attuale, se si considerano le normative di cui è stato recentemente oggetto. In proposito, l’entrata in vigore del d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, modificato dal successivo d.lgs. 19 marzo 1996, n. 242, ha contribuito non poco alla notevole produzione di decisioni giurisprudenziali e studi dottrinali che negli ultimi anni si sono succeduti ed intrecciati al tema della delega di funzioni, divenuto ormai ‘‘classico’’ nel diritto penale dell’economia. Le problematiche penalistiche in tema di delega, essenzialmente legate alla sussistenza di tipiche posizioni di garanzia, partono dall’assunto che il datore di lavoro è il principale e ‘‘naturale’’ destinatario degli obblighi di sicurezza (1) in quanto primo coordinatore (e quindi responsabile in toto) delle attività svolte all’interno dell’impresa e dunque garante della posizione che assume. La pur riconosciuta necessità di utilizzare l’istituto de quo, soprattutto all’interno delle grandi organizzazioni aziendali (2) per la molteplicità dei compiti da assolvere e l’elevata specializzazione degli stessi, non ha finora eliminato le incertezze sul problema della trasmissibilità dell’originaria posizione di garanzia. In proposito, in dottrina e in giurisprudenza, si evidenzia un opposto schieramento che prevede da un lato l’operatività della delega esclusivamente sul piano della colpevolezza e, dunque, la permanenza in capo al delegante dell’obbligo originario (3), nonostante la presenza di una delega formale, dall’altro l’operatività della stessa su un piano oggettivo e con conseguente esonero di responsabilità penali per il delegante (4) in caso di evento lesivo causato dal delegato. Relativamente al primo orientamento esposto, la giurisprudenza ha voluto precisare che l’originario obbligo di adempimento diretto delle mansioni da parte del delegante sarebbe sostituito da un dovere di controllo dello stesso, facendo in (1) CULOTTA-COSTAGLIOLA-DI LECCE, Prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro, Milano, 1986; PADOVANI, Diritto penale del lavoro. Profili generali, Milano, 1990; PULITANÒ, Igiene e sicurezza del lavoro (tutela penale), in Dig., disc. pen., vol. IV, Torino, 1992; PEDRAZZI, Profili problematici del diritto penale d’impresa, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1988, p. 139 ss.; PALOMBI, La delega di funzioni, in Trattato di dir. pen. impr., a cura di A. Di Amato, Padova, 1990. (2) Questa precisazione si collega alla serie di requisiti di validità della delega individuata dalla giurisprudenza; in particolare tale elemento suscita perplessità in riferimento all’impedimento che pone all’applicazione dell’istituto della delega per tutti quegli imprenditori che, a capo di imprese di piccole dimensioni, necessitano di tale istituto per la presenza di diversificate competenze professionali, in questo senso CULOTTA, Il nuovo sistema sanzionatorio in materia di sicurezza e igiene del lavoro e le responsabilità penali in caso di attività date in appalto, in questa Rivista, 1996, p. 959 ss.; PADALINO, Vecchie e nuove disposizioni in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in Cass. pen., 1996, p. 210; PADOVANI, Il problema dei soggetti in diritto penale del lavoro nel quadro della più recente giurisprudenza, in Leg. pen., 1981, p. 416; SECCI, La ripartizione della responsabilità penale per infortuni sul lavoro ed il problema dell’esigibilità del controllo, in questa Rivista, 1977, p. 1169; cfr. TRUCCO, Responsabilità penale dell’impresa: problemi di personalizzazione e delega, ivi, 1985, p. 777. (3) PADOVANI, Diritto penale del lavoro, cit., p. 61 ss.; in giurisprudenza: Cass. pen., 2 giugno 1989, in Cass. pen., 1990, p. 1795; Cass. pen., 17 ottobre 1989, ivi, 1991, p. 1456; Cass. pen., 14 febbraio 1992, ivi, 1992, p. 1354; Cass. pen., 10 ottobre 1991, n. 10171, in GUARINIELLO, Sicurezza del lavoro e Corte di cassazione. Il repertorio 1988-1994, Milano, p. 15; Cass. pen., 10 ottobre 1989, n. 13303, ivi; Cass pen., 21 gennaio 1992, n. 624, ivi. (4) In dottrina: FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell’impresa, Firenze, 1985, p. 11 ss.; PALOMBI, La delega di funzioni, cit.; in giurisprudenza: Cass. pen., 2 febbraio 1976, in Cass. pen. Mass., 1977, p. 1025; Cass. pen., 10 giugno 1977, ivi, 1979, p. 247; Cass. pen., 20 febbraio 1980, ivi, 1981, p. 1880; Cass. pen., 1o ottobre 1980, ivi, 1982, p. 364; Cass. pen., 11 luglio 1984, ivi, 1985, p. 1909; Cass. pen., 23 marzo 1987, ivi, 1988, p. 1713; Cass. pen., 10 marzo 1988, ivi, 1989, p. 888; Cass. pen., 2 maggio 1989, ivi, 1990, p. 2190; Cass. pen., 12 novembre 1993, ivi, 1994, p. 3090; Cass. pen., 8 settembre 1994, ivi, 1995, p. 3504.
— 1054 — tal modo residuare una responsabilità penale a suo carico in caso di inosservanza delle regole prevenzionali da parte del delegato. Occorre, però, segnalare la presenza di un terzo orientamento che tende ad ‘‘ammorbidire’’ tali opposti schieramenti e che costituisce una posizione intermedia tra i due. Parte della dottrina, infatti, pur sostenendo l’inderogabilità delle posizioni di garanzia, non manca di riconoscere la possibilità, per l’imprenditore, di costituire altri soggetti « in posizioni tipiche di garanzia », precisando che « i requisiti della delega rappresentano condizioni positive della (eventuale) responsabilità » del soggetto delegato (5). Anche l’emergere, inoltre, del criterio funzionalistico secondo cui la titolarità di determinate posizioni di garanzia non è riconosciuta a chi riveste formalmente la carica di datore di lavoro ma a colui che svolge concretamente i compiti ad essa propri, ha contribuito ad arricchire ulteriormente il variegato panorama dottrinale in materia. Ciò che ne deriva è certamente un rafforzato vigore del criterio della effettività che consente di distinguere ed accertare con precisione i soggetti responsabili. In questo senso la Corte di cassazione si è recentemente pronunciata in due sentenze particolarmente significative (6). La complessità delle grandi strutture aziendali è stata oggetto di scrupolosa attenzione da parte della Suprema Corte che, nel sottolineare la necessità di una maggiore applicazione del criterio funzionalistico, ha anche posto l’accento sull’urgente riconoscimento della delega di fatto. Infatti, in considerazione delle esigenze pratiche che le caratteristiche della moderna economia presentano, si è reso necessario intervenire con determinatezza sul delicato punto dell’attribuzione soggettiva della responsabilità penale in caso di funzioni delegate. In particolare la Corte ha voluto precisare l’ ‘‘ancoraggio’’ della responsabilità penale al dato sostanziale e funzionale che tiene conto della titolarità di poteri effettivi legati al concreto svolgimento di alcune attività. Anche l’assenza di un documento scritto col quale si proceda a delegare specifiche funzioni è stato individuato come dato puramente formale che occorre superare proprio sulla base dell’attribuzione di particolari compiti e dello svolgimento di concrete mansioni. Dunque proprio la predeterminata suddivisione di attribuzioni e compiti rende superflua l’esigenza della delega poiché sono l’investimento ed il concreto esercizio della funzione svolta ad avere rilievo e, cosa ancor più importante, tali da esonerare da responsabilità il legale rappresentante di una società preventivamente suddivisa in rami, settori o servizi. Tuttavia esistono ancora riserve da parte di molti giudici penali che, ancorati a posizioni, per così dire, ‘‘conservatrici’’ continuano a sostenere la sostanziale intrasmissibilità della posizione di garanzia del soggetto delegante individuando pertanto sempre e comunque il dante causa come responsabile. Un ulteriore esempio della resistenza di tale orientamento è costituito proprio dalla sentenza annotata, in cui i giudici hanno riconosciuto penalmente responsabili dell’evento occorso i vertici aziendali in quanto ritenuti obbligati al controllo capillare di ogni attività svolta all’interno della società in questione. (5) Cfr. PULITANÒ, Posizioni di garanzia e criteri d’imputazione personale nel diritto penale del lavoro, in Riv. giur. lav., 1978, IV, p. 180 ss. (6) Cass., sez. III pen., 26 febbraio 1998, n. 681 e Cass., sez. IV pen., 3 marzo 1998, n. 548, in questa Rivista, 2000, p. 364, con nota di CENTONZE.
— 1055 — 2. La nozione di datore di lavoro fra vecchie e nuove problematiche interpretative. — I problemi che le recenti normative emesse in materia di sicurezza del lavoro hanno fatto emergere relativamente alla giusta interpretazione da attribuire alla nozione di datore di lavoro, riteniamo necessitino di particolari considerazioni per poter adeguatamente affrontare il tema delle responsabilità penali del delegante. Le varie definizioni di datore di lavoro che si sono alternate negli ultimi anni, se da un lato hanno evidenziato una chiara volontà da parte del legislatore di fare il più possibile chiarezza sul punto, pur tuttavia non hanno consentito di pervenire ad una definitiva soluzione dei problemi interpretativi che animano le opinioni della dottrina e della giurisprudenza. Fino all’emanazione del d.lgs. n. 626/1994 (7), nessuna definizione di datore di lavoro era mai stata fornita, essa si desumeva dalla nozione di lavoratore subordinato stabilita dalle norme penali in materia di igiene e sicurezza (art. 3 del d.P.R. n. 547/1955 e art. 3 del d.P.R. n. 303/1956) (8). Soccorrevano all’uopo i tradizionali canoni interpretativi che individuavano il datore di lavoro, all’interno delle imprese individuali, nel titolare dell’impresa, o comunque, in caso di dissociazione tra quest’ultimo ed il titolare formale, in colui che ricopriva la carica di titolare effettivo. Le strutture imprenditoriali particolarmente complesse e a struttura societaria hanno sempre presentato problemi maggiori, rispetto alle altre, rendendosi necessario per esse fondare il canone interpretativo sui criteri di rappresentanza della società e sul successivo accertamento dell’effettiva ripartizione dei compiti e dei poteri assegnati ai vari componenti della società stessa (9). Risulta chiaro, pertanto, che i soggetti sostanzialmente interessati venivano rintracciati nelle persone dell’amministratore unico, dell’amministratore delegato, del presidente del consiglio di amministrazione. La prima nozione di datore di lavoro che venne fornita dal d.lgs. n. 626/1994 deluse, in verità, le aspettative di chiarificazione sul punto in quanto essa, ripresa integralmente da quella contenuta nella direttiva comunitaria n. 391/89, mal si adattava alle esigenze proprie di un ordinamento quale quello italiano (10). Uno dei limiti che tale definizione presentava era quello relativo al soggetto persona giuridica in considerazione del principio di personalità della responsabilità penale improntata al soggetto persona fisica (art. 27 Cost.). Si è così inteso interpretare il riferimento alla persona giuridica in termini puramente definitori e non certamente in termini sanzionatori per i quali invece è necessario il riferimento alle persone fisiche (11). Un ulteriore limite che tale nozione presentava era relativo al riconoscimento (7) Per un commento a tale decreto v., CERVETTI-SPRIANO, La nuova normativa di sicurezza sul lavoro, Milano, 1996; AA.VV., La sicurezza del lavoro, a cura di Galantino, Milano, 1996; BERTOCCO, La sicurezza del lavoro nelle fonti internazionali del lavoro, Padova, 1995; CORBO-SPEZIALE-CILEPPI-GUARINO, La sicurezza sul lavoro, 2a ed., Milano, 1996; LOY, La tutela della salute nei luoghi di lavoro, Padova, 1996. (8) ‘‘Ai fini particolari dell’igiene e sicurezza del lavoro, è datore di lavoro colui che impiega lavoratori, fuori dal loro domicilio, alle proprie dipendenze e sotto le proprie direttive con o senza retribuzione, anche al solo fine di far loro apprendere un’arte o un mestiere’’. (9) PADOVANI, Diritto penale del lavoro. Profili generali, Milano, 1990, p. 43; FIORELLA, Il trasferimento di funzioni, cit. (10) Dalla definizione originaria, secondo cui datore di lavoro era considerato ‘‘qualsiasi persona fisica o giuridica o soggettto pubblico che è titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore ed abbia la responsabilità dell’impresa ovvero dello stabilimento’’, si evince che egli era, al tempo stesso, il titolare del rapporto di lavoro con i dipendenti ed il responsabile dell’impresa o dello stabilimento. (11) DE FALCO, La figura del datore di lavoro nell’ambito della normativa di sicurezza. Dal d.lgs. n. 626/1994 al c.d. decreto n. 626-bis, in Cass. pen., 1996, p. 1695.
— 1056 — contemporaneo, in capo al datore di lavoro, della titolarità del rapporto di lavoro con il lavoratore e della responsabilità dell’impresa o dello stabilimento. Anche a questo proposito occorre procedere ad una opportuna distinzione. Se tali condizioni possono ritenersi normalmente compresenti all’interno delle imprese individuali, lo stesso non può dirsi per le altre strutture societarie e gli altri enti pubblici. Per queste ultime figure, infatti, la titolarità del rapporto di lavoro e la responsabilità dell’impresa sono scisse; il fatto che la prima faccia giuridicamente capo alla persona giuridica o all’ente non presuppone né implica l’individuazione, in capo allo stesso soggetto, anche della seconda. Su questa base non potrebbe certamente qualificarsi come datore di lavoro l’amministratore delegato il quale, avendo la responsabilità dell’impresa non può essere definito anche datore di lavoro che è invece propriamente l’impresa, in quanto persona giuridica, della quale egli cura la gestione. Un grande passo avanti è stato compiuto, nella direzione del superamento dei limiti esposti, dalla nuova formulazione della nozione di datore di lavoro fornita dall’art. 2 del d.lgs. n. 242/1996. Essa definisce il datore di lavoro come il ‘‘soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’organizzazione dell’impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa ovvero dell’unità produttiva in quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa. Nelle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionamento non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale’’. Da questa nuova formulazione emerge, sostanzialmente, la presenza di tre diverse figure possibili di riferimento per individuare il datore di lavoro, al fine degli adempimenti previsti dalla normativa in tema di sicurezza. In particolare le prime due (il soggetto titolare del rapporto di lavoro e il soggetto responsabile dell’impresa o unità produttiva) si riferiscono alle imprese private, la terza (il dirigente con poteri di gestione o il funzionario preposto ad ufficio con autonomia funzionale) alle pubbliche amministrazioni. Particolare rilevanza viene ad assumere soprattutto la seconda definizione relativa al soggetto responsabile dell’impresa o unità produttiva. Come detto precedentemente, mentre nelle imprese a struttura aziendale semplice sono facilmente individuabili, in concreto, le caratteristiche richieste per la figura del datore di lavoro, i problemi invece sorgono in tutti i casi in cui titolarità e gestione siano disgiunte e nelle ipotesi di scissione fra titolarità del rapporto di lavoro e titolarità dei poteri organizzativi. In questo caso si dovranno valutare i caratteri della singola attività per stabilire, in concreto, chi debba essere considerato, per l’attuazione della normativa, datore di lavoro e, in quanto tale, responsabile dell’organizzazione della sicurezza. Viene attribuito pertanto valore decisivo al principio dell’effettività (12), in modo da far ricadere la responsabilità della prevenzione in capo al soggetto che sia titolare del potere decisionale, per quel particolare tipo di attività ed in relazione alla sua concreta organizzazione. Pertanto, indice dell’attribuzione della figura del datore di lavoro responsabile non sarà la posizione verticistica assunta all’interno della piramide aziendale, ma il disporre concretamente di poteri decisionali e di autonomia di spesa. (12) In merito a tale principio, per la dottrina italiana v. FIORELLA, op. cit., p. 29; per la dottrina tedesca, seppur con alcune riserve, BRUNS, Faktische Betrachtungweise und Organhaftung, in JZ, 1958, p. 461.
— 1057 — È proprio attraverso tali poteri, infatti, che il datore di lavoro può effettuare le scelte imprenditoriali ed il necessario passaggio dall’elaborazione delle strategie di politica d’impresa alla realizzazione concreta di esse. Dalla nuova definizione di datore di lavoro emerge, dunque, la possibilità del riconoscimento di tale qualifica sia in capo al titolare del rapporto di lavoro con i dipendenti, sia a chi, indipendentemente da tale requisito, sia stato posto a dirigere un’unità produttiva dotata di autonomia finanziaria e tecnico-funzionale con adeguati poteri decisionali e di spesa; in virtù di ciò si potrebbe ipotizzare la coesistenza, all’interno di una stessa impresa, di una pluralità di datori di lavoro (13). Tale ipotesi, se da un lato consente di facilitare l’individuazione del responsabile dell’applicazione delle norme di sicurezza, dall’altro favorisce il preoccupante rischio dello slittamento della qualifica di datore di lavoro ‘‘verso il basso’’ della gerarchia aziendale, frammentando e disperdendo, così, l’unitarietà delle scelte di politica prevenzionale e accentuando la difficoltà d’individuazione del datore di lavoro cui imputare responsabilità penali per omesso impedimento dell’evento in caso d’infortunio. Da qui l’esigenza di individuare la ratio, sottesa alla formulazione dell’art. 1, comma 4-ter del d.lgs. n. 626/1994 (14), che stabilisce gli adempimenti non delegabili da parte del datore di lavoro, per tentare di fornire un’interpretazione adeguata all’ipotesi appena esposta. Il senso della norma è quello di limitare, essenzialmente, la ‘‘circolazione’’ della qualifica de qua per evitare che eccessivi ‘‘scivolamenti a valle’’ della stessa possano compromettere adempimenti preliminari e fondamentali, tra i quali appunto, la valutazione dei rischi (15) in azienda (16). Per evitare, altresì, di generare confusione tra la figura del datore di lavoro e quella del dirigente, si è inteso interpretare gli elementi della titolarità del rapporto di lavoro e della responsabilità dell’impresa, dello stabilimento o dell’unità produttiva, offerti dalla nozione del d.lgs. n. 242/1996, nel senso secondo cui il primo sarebbe da riferire alle imprese individuali, mentre il secondo, in via sussidiaria, alle imprese a struttura complessa in considerazione della particolare articolazione che le caratterizza (17). Tale interpretazione conferma, coerentemente con quanto si va sostenendo, la corrispondenza della sfera delle responsabilità all’effettivo esercizio di funzioni caratterizzanti una posizione gerarchicamente sovraordinata, comprensiva di autonomia decisionale e finanziaria e non ad una mera investitura formale. Tale autonomia (18) costituisce, tra l’altro, uno dei requisiti individuati dalla giurisprudenza, e su cui anche la dottrina concorda, che caratterizzano la validità della delega dal punto di vista formale e sostanziale (19). (13) Sul punto tra le voci più recenti: VENEZIANI, Infortuni sul lavoro e responsabilità per omesso impedimento dell’evento: problemi attuali, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1998, 493; DE FALCO, op. cit. (14) Secondo il quale: ‘‘Nell’ambito degli adempimenti previsti dal presente decreto, il datore di lavoro non può delegare quelli previsti dall’art. 4, commi 1, 2, 4, lett. a) e 11 primo periodo’’. (15) La valutazione dei rischi è, infatti, uno degli obblighi non delegabili da parte del datore di lavoro, in base al dettato della norma di cui all’art. 4, richiamato dall’art. 1 del d.lgs. n. 626/1994, come esposto nella precedente nota. (16) VENEZIANI, Infortuni sul lavoro, cit., p. 514. (17) DE FALCO, op. cit., p. 1697. (18) Cass., sez. IV pen., 19 aprile 1989, n. 5962, dove si sottolinea che l’esonero da responsabilità penale non può essere applicato al datore di lavoro se il delegato non ha ricevuto, insieme al compito di attuare le misure di sicurezza, anche la possibilità giuridica e concreta di disporle come avrebbe potuto e dovuto l’imprenditore, con la dotazione dei mezzi economici occorrenti, in questo senso v. anche Cass., 18 ottobre 1990, in Cass. pen., 1992, p. 242; Cass., 7 luglio 1992, in Dir. prat. lav., 1992, p. 34; Cass., 23 febbraio 1993, ivi, 1993, p. 949; Cass., 7 marzo 1995, ivi, 1995, p. 1126. (19) Per ritenere valida la delega di funzioni occorre che l’imprenditore abbia delegato ad altro soggetto i compiti antinfortunistici a condizione che si trovi impossibilitato, per ragionevoli evenienze, ad
— 1058 — Dunque, secondo quanto espresso dalla normativa, la figura del datore di lavoro non presuppone necessariamente una coincidenza con il titolare giuridico dell’impresa o dell’azienda. Tuttavia, a nostro avviso, occorre considerare il dato dell’autonomia decisionale e finanziaria, che di per sé costituisce un validissimo elemento attestante l’applicazione della delega e qualificante il soggetto datore di lavoro, con particolare attenzione. Esso, infatti, potrebbe costituire una pericolosa arma nelle mani dei sostenitori dell’intrasmissibilità della posizione di garanzia dei vertici aziendali, in quanto potenziale humus con cui rafforzare la loro convinzione. È inconfutabile, infatti, che i detentori dei poteri decisionali e di spesa sono gli amministratori e ciò si evidenzia, maggiormente, all’interno delle strutture particolarmente complesse. Essi, infatti, occupandosi delle ‘‘casse’’ dell’azienda e di tutte le decisioni ad esse inerenti potrebbero facilmente essere identificati, in quanto ‘‘datori di lavoro’’, come penalmente responsabili qualora si verificassero infortuni all’interno dell’impresa. In proposito riteniamo di estrema importanza operare una distinzione che definiremmo tecnico-pratica, in particolare relativamente ai poteri di spesa del datore di lavoro. Potrebbe infatti configurarsi, a ben guardare, una doppia interpretazione di questi poteri rivelatisi di fondamentale importanza poiché, come si è visto, risultano decisivi per qualificare i vari operatori dell’impresa. Se si intendono, infatti, i poteri di spesa in ‘‘senso lato’’ (sia consentita l’espressione) riferiti, cioè, a quelle che sono le grandi decisioni finanziarie relative, ad esempio, all’acquisto di attrezzature indispensabili per il funzionamento della struttura aziendale, ad ingenti investimenti destinati all’allestimento o all’ammodernamento di impianti, e quant’altro possa riguardare la previsione di spese che necessitano della valutazione di esperti, quali appunto gli amministratori, risultano certamente i ‘‘vertici aziendali’’ i diretti destinatari di tali poteri ed i responsabili delle decisioni ad essi inerenti. Se, invece, si intendono i poteri in questione in ‘‘senso stretto’’ attinenti, ad esempio, al controllo periodico di macchinari di uso quotidiano e che sono comunque indispensabili per i soggetti preposti ai vari settori operativi, per i soggetti specializzati nei vari settori produttivi e che, per ragioni di competenza e tempestività, sono più in grado di altri — il riferimento è ai suddetti ‘‘vertici’’ — di occuparsi di determinati ambiti, e anzi assunti per specifiche mansioni, riteniamo essenziale, oltre che coerente, attribuire questi poteri a tali soggetti (20). Al di là di questa particolare interpretazione, tesa a chiarire il più possibile il punto di vista di chi scrive, riteniamo opportuno che, di volta in volta, anche sotto esercitare di persona tali compiti e che provi rigorosamente (in merito alla prova della necessità della delega Cass., sez. IV pen., 6 luglio 1989, n. 9853; Cass., sez. IV pen., 28 luglio 1993, n. 7436) di averli affidati a persona tecnicamente capace (Cass., 17 dicembre 1992, in Cass. pen., 1994, p. 349; Cass., 9 febbraio 1993, ivi, 1994, p. 1635), la quale abbia volontariamente accettato la delega nella consapevolezza dei relativi obblighi (Cass., sez. IV pen., 29 gennaio 1990, n. 1005, in GUARINIELLO, Sicurezza del lavoro e Corte di cassazione. Il repertorio 1988-1994, Milano, 1994, p. 14, che richiama Cass., 3 marzo 1988 e Cass., 29 maggio 1987) e sia stato fornito dei poteri autoritativi e decisori autonomi pari a quelli dell’imprenditore, compreso l’accesso ai necessari mezzi finanziari (sul punto v. nota n. 12); occorre inoltre che si sia provveduto ad una preventiva e dettagliata specificazione dei compiti delegati (Cass., 27 aprile 1987, in Riv. pen., 1988, 905; Cass., 13 luglio 1989, in GUARINIELLO, op. cit., p. 13; Cass., 14 aprile 1989, in Cass. pen., 1991, p. 477) e che sia esclusa qualsiasi forma di ingerenza del delegante sull’operato del suo delegato (Cass., 23 maggio 1986, in Dir. prat. lav., 1988, p. 1250; Cass., 10 ottobre 1991, ivi, p. 3131; Cass., 18 ottobre 1990, in Cass. pen., 1992, p. 242). (20) Questa interpretazione si lega all’ipotesi, esposta in seguito al punto 4, relativa alla considerazione di una delega di funzioni intesa come insita nello stesso contratto di assunzione del sottoposto da parte del datore di lavoro.
— 1059 — questo profilo si debba operare una analisi delle caratteristiche del contesto all’interno del quale l’evento si verifica (21). Spesso, infatti, tale analisi può consentire di meglio focalizzare la realtà oggetto di esame al fine sempre di ben inquadrare effettive inadempienze e connesse responsabilità. Fermo restando, dunque, l’indubbia positività dello sforzo compiuto dal legislatore del ’96 nel ‘‘riprogettare’’ la nozione di datore di lavoro adeguandola ai principi del nostro ordinamento e riconfermando la validità del requisito inerente i poteri decisionali e finanziari che contribuiscono a ridurre le difficoltà relative all’attribuzione soggettiva della qualifica datoriale, riteniamo opportuno sottolineare la potenziale gravità delle conseguenze cui potrebbero condurre generalizzazioni operate in questo senso. In sede d’imputazione soggettiva delle responsabilità penali, in caso d’infortunio, l’individuazione del soggetto-datore di lavoro non può prescindere da un attento esame della dinamica dell’evento occorso per evitare che venga considerato responsabile indipendentemente da una verifica dell’esistenza di un nesso causale tra la sua condotta e l’evento verificatosi. Inoltre, la necessità del rispetto del principio personalistico della responsabilità penale sancito dalla nostra Carta fondamentale risulta particolarmente incombente nelle organizzazioni complesse dove maggiori sono le difficoltà d’individuazione del soggetto direttamente responsabile dell’accaduto. Appare, in proposito, poco condivisibile la decisione dei giudici di Milano in merito al caso dell’istituto Galeazzi. La motivazione della sentenza, basata sull’esistenza di un datore di lavoro che sia precedente al momento patologico, non è affatto in discussione, come pure non lo è l’intenzione di evitare concentrazioni di responsabilità ‘‘verso il basso’’. La richiamata ratio della normativa esaminata non può, però, indurre a considerare sempre inevitabile il collegamento fra datore di lavoro (sostanzialmente i vertici aziendali) e responsabilità penali (per lo più omissive colpose) che, si badi, non vogliono essere escluse a priori, ma motivate con inoppugnabili verifiche che costituiscano il fondamento imprescindibile dell’imputazione soggettiva. Diversamente, un’alterata interpretazione della normativa, potrebbe far assistere ad una sorta di ‘‘strumentalizzazione’’ della stessa, arrivando a configurare la riproposizione di forme di responsabilità di posizione. 3. Le responsabilità colpose del delegante nella sentenza annotata. — Nodo cruciale della tematica che si va affrontando è quello relativo all’obbligo di sorveglianza che, secondo uno degli orientamenti sostenuti in materia, residuerebbe in capo al soggetto delegante. Secondo tale orientamento, infatti, all’obbligo di adempimento diretto del datore di lavoro si sostituirebbe un obbligo di vigilanza dello stesso, sull’operato dei delegati, di natura assolutamente non delegabile (22). Di conseguenza, al di fuori di ipotesi dolose, le responsabilità penali che, in caso di sinistro, deriverebbero a carico del delegante sarebbero di natura colposa e, per lo più, a titolo di concorso con il delegato (23). (21) Nel caso concreto, infatti, non può ritenersi trascurabile il fatto che l’attenzione da rivolgere al corretto funzionamento del sistema antincendio della camera iperbarica in cui si è verificato l’evento fosse da considerare di spettanza del tecnico all’uopo preposto piuttosto che del presidente del consiglio di amministrazione o dell’amministratore delegato. (22) Una compiuta elaborazione di tale teoria anche in termini di esigibilità dell’obbligo di vigilanza da parte del datore di lavoro si è avuta soprattutto ad opera di PADOVANI, Diritto penale del lavoro, cit.; PULITANÒ, Igiene e sicurezza del lavoro, cit.; PALOMBI, La delega di funzioni, cit. (23) Risulta difficile, infatti, individuare una responsabilità sul piano monosoggettivo poiché, sia
— 1060 — Nel caso di specie, secondo la motivazione della sentenza, non essendo stato delegato nulla formalmente, da parte dei responsabili della società ad altri soggetti, le incombenze relative al controllo di ogni attività produttiva dell’istituto Galeazzi sarebbero inevitabilmente di spettanza dei dirigenti dello stesso. Più precisamente, a questi ultimi, sono state addebitate responsabilità colpose a titolo generico, specifico, in eligendo ed in vigilando (24). Alla generica negligenza, imprudenza ed imperizia è stata aggiunta anche una responsabilità colposa specifica per violazione delle norme in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, nonché una responsabilità colposa in eligendo, per aver scelto quale responsabile del servizio di prevenzione e protezione ‘‘un soggetto professionalmente inadeguato’’, ed in vigilando, per non aver ‘‘vigilato sul suo operato con la conseguenza di non aver dotato l’istituto delle misure di prevenzione e protezione incendi efficienti e idonee rispetto alla natura e ai ritmi dell’attività svolta nel reparto di ossigenoterapia’’. Per quanto attiene la colpa generica non si riescono precisamente ad individuare i motivi secondo i quali il datore di lavoro non avrebbe operato nel rispetto delle norme cautelari. In primis, l’asserito ‘‘limitato affidamento’’ del responsabile dell’impresa nei confronti dell’operato dei suoi collaboratori che giustificherebbe l’assunzione, da parte sua, del dovere di vigilanza e di controllo su di essi, non risulta argomentato (25). Il punto risulta particolarmente importante e grave in quanto affermazioni di questo tipo non possano prescindere da valutazioni soggettive specifiche e chiari elementi di prova che attestino l’assenza di capacità tecniche e professionali di tali soggetti. Ogni attività svolta all’interno della struttura sanitaria prevede la specifica individuazione di un soggetto che attenda ad essa e ciò, se non ricorrono fondati motivi che inducano il responsabile d’impresa a dubitare della corretta condotta di questo, genera quella spontanea e necessaria aspettativa sociale nota come affidamento (26). Riteniamo, dunque, che se nulla, fino al momento dell’accadimento del disastro, ha fatto in modo da ingenerare, nel responsabile d’impresa, una sfiducia nel per il delegante sia per il delegato, mancherebbero i requisiti necessari per il riconoscimento di una responsabilità di questo tipo: il primo infatti difetterebbe dell’elemento psicologico e, comunque, non sarebbe l’autore del fatto tipico, mentre il secondo difetterebbe della qualità di intraneo richiesta per integrare il reato proprio. Tuttavia è anche da sottolineare che esigenze di carattere sanzionatorio, ed ancor più di temuta impunità, portano spesso la giurisprudenza a forzare la portata dell’istituto del concorso di persone, su quest’ultimo punto in particolare, cfr. ALDROVANDI, Il concorso di persone nel reato colposo: rassegna critica di giurisprudenza, in Indice pen., 1994, p. 116 ss. (24) M. GALLO, Colpa penale, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, VII, p. 624 ss.; approfonditamente MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965, p. 231 ss.; FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, p. 356 ss. (25) Nella sentenza, infatti, si legge solo che ‘‘il datore di lavoro è tenuto ad avvalersi della collaborazione di persone interne all’azienda in possesso delle necessarie competenze professionali per integrare l’azione di prevenzione e protezione con la creazione di un servizio che svolge un ruolo consultivo e di promozione delle iniziative più adeguate per la sicurezza. Unico punto di riferimento normativo, però, rimane il datore di lavoro che nulla avendo delegato ad altri — non avendone il potere in virtù dello sbarramento posto all’art. 1, comma 4-ter — e mantenendo su di sé i poteri decisionali può fare limitato affidamento sulle capacità e competenze e sulla diligenza altrui e assume il dovere di vigilanza e controllo della maniera in cui mediante l’elaborazione delle misure di prevenzione viene data attuazione al dovere primario di sicurezza’’. (26) Sul principio di affidamento, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 1995; M. MANTOVANI, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997; SERENI, Istigazione al reato e autoresponsabilità. Sugli incerti confini del concorso morale, Padova, 2000; da ultimo sul punto si veda pure: SALCUNI, Aporie e contraddizioni in tema di colpa professionale, in questa Rivista, 2000, p. 1592.
— 1061 — modus operandi del collaboratore o lavoratore subordinato o un qualsiasi dubbio sul rispetto, da parte di questo, degli standards di diligenza, l’affidamento del datore di lavoro nei confronti dei suoi collaboratori — definito limitato senza motivazione — porterebbe ad avvalorare le convinzioni circa la volontà di riconoscere una responsabilità di posizione. Appare, inoltre, alquanto contraddittorio affermare, da un lato, per il datore di lavoro, l’obbligo — ex art. 8 d.lgs. n. 626/1994 — di nominare un responsabile del servizio di prevenzione e protezione che lo coadiuvi nell’elaborazione del piano di sicurezza, sopperendo in tal modo a carenze tecniche specifiche, e dall’altro avanzare la pretesa di una valutazione finale, da parte dello stesso datore, del contenuto del documento di valutazione del rischio risultante dall’elaborazione suddetta. La contraddizione consiste, a nostro parere, nel fatto che l’assenza di conoscenze tecniche del datore, motivo fondante la necessità di procedere alla nomina di un responsabile esterno della sicurezza, non scompare nel momento in cui tale nomina viene eseguita: l’ignoranza del datore, in materia, rimane ed impedisce, sul piano logico e materiale, che possa operare ogni pretesa valutazione del rischio, valutazione che facilmente può qualificarlo negligente, imprudente ed imperito (27). Quanto alla violazione dell’art. 8 del d.lgs. n. 626/1994, risulta difficilmente condivisibile la motivazione sottesa a tale decisione poiché, in concreto, l’inadeguatezza del servizio di prevenzione e protezione fornito dalla Clinica Service s.r.l. è stata oggetto di una valutazione che tiene conto solo dell’evento occorso. Una valutazione operata, ex post, risulta piuttosto discutibile: la rilevazione di una carenza che sia dimostrabile solo sulla base dell’accadimento reale di eventi lesivi l’incolumità dei soggetti, renderebbe confutabile ed opinabile ogni tipo di scelta in qualsivoglia ambito e, dunque, anche al di fuori di quello strettamente prevenzionale. Ancora una volta occorre che siano elementi rilevabili obiettivamente all’atto della selezione di sistemi o di soggetti — e cioè, in un momento decisamente precedente l’inizio di una qualsiasi attività ad essi relativa — ad essere costitutivi di una responsabilità colposa a carico del ‘‘vertice’’ d’azienda, responsabilità che invece sarebbe giuridicamente corretto imputare nel caso in cui si dimostrasse la sua conoscenza preventiva in merito alle carenze del servizio che intende scegliere. Peraltro, la nomina del servizio di prevenzione e protezione esterno è stata eseguita nel rispetto del comma 6 dello stesso art. 8, evidentemente trascurato dai giudici nella valutazione da essi operata. Tale comma è particolarmente significativo poiché, salvo quanto disposto dal comma 5, prevede la facoltà, per il datore di lavoro, di far ricorso a persone o ser(27) In proposito risultano particolarmente significative le eccezioni di legittimità costituzionale sollevate dalla difesa dell’imputato Ligresti (presidente del consiglio di amministrazione dell’istituto ortopedico Galeazzi) relativamente agli artt. 3, comma 1, lett. a) e 4, comma 1 e 2 del d.lgs. n. 626/1994 e della legge delega per violazione degli artt. 1, 4, 41, comma 2 e 3 della Costituzione ‘‘nella parte in cui non prevede che la valutazione del rischio e i piani di sicurezza debbano essere elaborati sulla base di linee guida e di programmi tipo, emanati da organi ed enti pubblici, a ciò espressamente delegati dal Parlamento’’. Tali eccezioni sono state dichiarate manifestamente infondate dai giudici, secondo i quali, le argomentazioni addotte non prenderebbero in considerazione la particolarità della fattispecie de qua che ha visto mancare la valutazione del rischio non perché il datore di lavoro Ligresti e il suo esperto Bracchi non sapevano come orientarsi in difetto di linee guida emanate del Parlamento ovvero da enti delegati dal potere legislativo, (...) ma più semplicemente perché il primo non lo riteneva suo compito ingenerando, così, l’ipotesi che questi non abbia mai incontrato Bracchi che a sua volta non riteneva la camera iperbarica oggetto di valutazione di rischio incendio, ignorando completamente la normativa N.F.P.A. da tutti gli esperti del settore assunta a stato dell’arte, e la relazione 23 novembre 1988 della commissione tecnico-scientifica nominata dalla Regione Lombardia che tratta anche della sicurezza antincendio.
— 1062 — vizi esterni all’azienda, qualora la capacità dei dipendenti all’interno della stessa ovvero dell’unità produttiva, risultassero insufficienti e ciò, a nostro avviso, è indicativo della volontà del datore di provvedere, nel modo più adeguato possibile, all’obbligo di prevenzione di cui è destinatario. Relativamente poi, alle responsabilità colpose in eligendo le motivazioni fornite dai giudici della sentenza de qua, risultano di nuovo vaghe e, perciò, poco convincenti. L’accadimento dell’evento costituisce la motivazione fornita per spiegare l’addebito anche di questo tipo di responsabilità. Forti perplessità sono ingenerate proprio da tale impostazione e dal fatto che viene fondata su ragionamenti operati alla luce di un inaccettabile ‘‘senno di poi’’. La culpa in eligendo (28) determina una responsabilità derivante da una scelta operata nominando soggetti privi dei necessari requisiti di idoneità formali e sostanziali e, dunque, incapaci di svolgere le attività loro assegnate. Non è però questa la situazione del caso: nulla di anomalo si presentava al momento della scelta della Clinica Service s.r.l. cui affidare il servizio di prevenzione e di protezione. Tali considerazioni risultano, a nostro avviso, opportune anche in relazione alla scelta dei soggetti che lavoravano all’interno alla struttura sanitaria; infatti, anche l’assunzione di personale specializzato è stata eseguita in modo del tutto regolare, nessuna incapacità rilevava, né alcuna ‘‘leggerezza’’ era possibile prevedere in momenti successivi alla loro nomina e cioè durante lo svolgimento dell’attività professionale di tali soggetti. Non risulta chiaro, in definitiva, l’effettivo momento in cui il responsabile d’impresa avrebbe operato senza osservare le norme cautelari. In proposito, le insufficienti preoccupazioni del personale medico, infermieristico e tecnico nei confronti dei potenziali pericoli che potevano derivare da un utilizzo poco attento delle camere iperbariche e del relativo sistema antincendio, sono decisive per fondare una responsabilità — definibile per colpa grave — solo a carico di detto personale, non certo per il vertice aziendale (29), mancando ogni nesso eziologico tra il comportamento di detto vertice e l’accadimento dell’evento. Ragionando diversamente, non si riescono a rintracciare, seppur solo sul piano teorico, quali possano essere i casi in cui si potrebbe configurare un esonero da responsabilità penale del datore di lavoro dal momento che i contorni di responsabilità colpose si presentano così latamente estendibili. Non paiono chiari cioè, gli elementi che permetterebbero la specifica configurazione di una responsabilità per culpa in eligendo. Se infatti a tale tipo di responsabilità inerisce la scelta operata dal responsabile d’impresa che non osserva le necessarie regole cautelari e che, di fatto, poco si preoccupa del buon andamento della sua impresa, non appare appropriato attribuire, al soggetto in questione, tale genere di culpa dal momento che la responsabilità ad essa connessa viene riconosciuta, nel caso di specie, anche in capo a chi ha operato scelte adottando e rispettando tutti i criteri dell’homo eiusdem condicionis et professionis. Per quanto concerne, invece, la responsabilità colposa in vigilando, essa è oggetto di particolare interesse per le problematiche che presenta in relazione alle (28) SGUBBI, La responsabilità per omesso impedimento dell’evento, Padova, 1975, p. 194. (29) È stata riconosciuta la cooperazione colposa dell’imputato Ligresti con gli imputati Ubbiali (consigliere delegato dell’istituto Galeazzi), Zambrelli (direttore sanitario) e Oriani (primario del reparto di ossigenoterapia), tra l’altro, per aver ‘‘affidato il sistema dei controlli interni a personale insufficiente e inadeguato sul piano professionale’’.
— 1063 — concrete possibilità di esecuzione dell’attività di sorveglianza del delegante sull’operato dei propri collaboratori (30). Ci si chiede infatti se, anche in aziende di notevoli dimensioni, quale è appunto l’istituto ortopedico in esame, è possibile esigere, da parte del responsabile d’impresa, un obbligo di vigilanza sull’intero apparato produttivo sulla base di quella trasformazione di contenuto che subirebbe l’obbligo originario del datore di lavoro sostenuto da una parte della dottrina (31). Anche le teorie maggiormente rigorose sul punto (32), infatti, subordinano la permanenza di un obbligo di sorveglianza in capo al delegante, ad alcune importanti variabili. Una di esse è rappresentata dalla rilevanza delle dimensioni dell’impresa che rendono particolarmente difficile esigere dal datore di lavoro un controllo capillare e completo di ogni singola attività e che, tra l’altro, comprometterebbe l’adempimento delle incombenze che gli sono proprie. L’altra variabile è costituita dalla ragionevolezza del principio di affidamento, importante elemento nella determinazione della colpa. Tale ragionevolezza è commisurata alla posizione ed alle caratteristiche funzionali del collaboratore cui è delegato l’adempimento, perciò, quanto maggiore sarà l’autonomia effettivamente concessa al collaboratore nello svolgimento delle mansioni affidategli, tanto minore sarà la diligenza esigibile dal datore di lavoro (33). A queste considerazioni di fondo riteniamo di aggiungere che la struttura in esame, oltre ad essere di notevoli dimensioni, per la sua particolare natura, prevede lo svolgimento di attività di vario genere, organizzate per settori e reparti di degenza e cura che presuppongono l’impiego di personale dotato di competenze specifiche che impediscono un controllo minuzioso delle singole attività da parte di un solo soggetto, il responsabile d’impresa appunto, competente peraltro solo in materia amministrativa ed impossibilitato, perciò, all’adempimento di tale obbligo (ad impossibilia nemo tenetur). Sul punto vi sono studiosi che individuano una necessaria correlazione fra il dovere di agire ed il potere di agire del soggetto (34); la dottrina finalistica, in particolare, fonda l’essenza stessa dell’omissione proprio sulla possibilità di agire nella direzione prevista dalla norma giuridica che si ritiene violata (35). Dunque, se tale possibilità viene a mancare, viene meno la stessa difformità del comportamento rispetto al comando prescritto. Non si ha, perciò, violazione dell’obbligo di legge da parte del soggetto se, nella situazione concreta, non era possibile adempiere (36). (30) Interessanti in proposito le osservazioni relative alla ‘‘misura dell’obbligo di vigilanza sensibilmente variabile in relazione alla complessità ed all’articolazione della struttura aziendale’’ esposte da PADOVANI, op. cit., p. 61 ss. (31) Compiutamente sul punto PADOVANI, op. cit. (32) Cfr. PEDRAZZI, op. cit., in Riv. trim. dir. pen. ec., 1988, 139; GRASSO, Organizzazione aziendale e responsabilità per omesso impedimento dell’evento, in Arch. pen., 1975, p. 751. (33) Cfr. PADOVANI, op. cit., p. 85 ss. (34) Per la dottrina d’oltralpe, sull’inesigibilità di una condotta conforme al comando di agire, nei reati omissivi propri, cfr. HENKEL, Zumutbarkeit und Unzumutbarkeit als regulatives Rechtsprinzip, in MEZGER-FESTSCHR, 1954, p. 276 ss.; H. WELZEL, Zur Problematik der Unterlassungsdelikte, in Jur. Zeit., 1958, p. 495 ss.; E. SCHMIDHAUSER, Strafrecht, Allgemeiner Teil, Tübingen, 1970, p. 557; sui rapporti tra ‘‘potere di agire’’ e ‘‘obbligo di attivarsi’’ v. inoltre ARMIN KAUFMANN, Die Dogmatik der Unterlassungsdelikte, Göttingen, 1959, p. 35 ss.; N. ANDROULAKIS, Studien zur Problematik der Unterlassungsdelikte, München u. Berlin, 1963, p. 110 ss. (35) Per la teoria finalistica dell’omissione v. per tutti nella dottrina tedesca, A. KAUFMANN, Die Dogmatik, cit., p. 36 ss.; ed in quella italiana T. GALIANI, Sul fondamento ontologico dell’omissione, in Foro pen., 1963, p. 306 ss. (36) Sulla particolare pregnanza di tale ragionamento nell’ambito delle omissioni colpose v. l’ana-
— 1064 — Questo tipo di considerazioni coinvolge, inevitabilmente, anche la seconda variabile esaminata, relativa al grado di autonomia concesso al collaboratore nello svolgimento delle sue mansioni. È chiaro che, nella realtà appena presentata, l’autonomia di cui gode ogni componente del personale specializzato può definirsi decisamente ampia dato che, sul piano decisionale ed economico, ciascuno è abilitato — e giuridicamente tenuto — a garantire la perfetta produttività del settore cui è preposto come responsabile. Riteniamo che ciò rifletta, a livello dogmatico, l’orientamento secondo cui, in tema di posizione di garanzia del delegante, sia riconoscibile una sorta di ‘‘trasmissibilità’’ della stessa in capo al delegato sulla base del fatto che nessuno è in grado di controllare situazioni di pericolo potenziale, derivanti da una determinata attività lavorativa, più di colui che, concretamente e quotidianamente, attende ad essa. Tale orientamento infatti, ritenendo abbandonata la tesi secondo cui l’imprenditore sarebbe responsabile, a titolo di culpa in vigilando, di ogni irregolarità penale riscontrata nella gestione d’azienda, ha individuato nel lavoratore il soggetto più adeguato a garantire il corretto svolgimento dell’attività da lui stesso espletata e ad essere considerato il primo garante di essa (37). Proprio sul punto, il legislatore del ’94, ha voluto rafforzare la portata del dovere di sicurezza posto in capo al datore di lavoro, prevedendo, oltre al già richiamato comma 6 dell’art. 8, una sorta di ‘‘autotutela’’ del lavoratore. Si può affermare che ci si trovi di fronte ad una nuova concezione della sicurezza che può essere definita ‘‘prevenzione soggettiva’’ (38). La novità consiste nel fatto che tale prevenzione è basata sulla collaborazione fattiva del lavoratore all’interno della propria azienda. Si ritiene, infatti, non più sufficiente la sola sicurezza tecnologica a garantire gli obiettivi di prevenzione degli infortuni, rendendosi necessario sviluppare in tal senso una consapevolezza culturale e giuridica che preveda, accanto alla sicurezza oggettiva rappresentata da macchinari ed impianti sicuri, anche un’organizzazione del lavoro consapevole. Secondo questa impostazione ogni lavoratore, in quanto tale, è ritenuto il primo soggetto attivo dell’obbligo di prevenzione ed ha il dovere di prendersi cura della propria sicurezza e salute e di quella degli altri lavoratori che potrebbero essere posti in pericolo dalle sue azioni od omissioni (39). Riteniamo opportuno però precisare che se tali affermazioni, dalle quali si desume indubbiamente un’ampia responsabilità a carico del lavoratore, certamente non consentono di affermare che questo, da ‘‘creditore’’ della sicurezza si trasformi in ‘‘debitore’’ di essa — ed ancor più — in ‘‘garante della sicurezza’’, tuttalisi di G. MARINUCCI, Il reato come ‘‘azione’’ - Critica di un dogma, Milano, 1971, p. 232 ss.; per l’analisi dei diversi momenti in cui può incidere una situazione di inesigibilità v. PADOVANI, La condotta omissiva nel quadro della difesa legittima, in questa Rivista, 1970, p. 713 ss.; per la rilevanza dei fattori dipendenti dalla struttura aziendale sul piano della sola colpevolezza del datore di lavoro v., nel diritto penale del lavoro, G. GILARDI, Considerazioni sul concetto di ‘‘datore di lavoro’’ come soggetto di reati in materia di assistenza, previdenza e prevenzione antinfortunistica, in Arch. resp. civ., 1968, p. 132 ss. (37) In proposito, nella giurisprudenza risalente: Cass. pen., 17 maggio 1958, in Rep. Giur. it., 1959, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, 11 ottobre 1963, ivi, 1964, n. 268; 8 novembre 1963, ivi, 1964, n. 288; 12 agosto 1964, ivi, 1966, n. 251; 26 maggio 1972, ivi, 1975, n. 272; sul punto inoltre v. CHIARAVIGLIO, Le responsabilità penali nelle aziende, Milano, 1983, p. 206 ss. (38) CERVETTI-SPRIANO, La nuova normativa, cit., p. 40 ss. (39) In proposito l’art. 5 del d.lgs. n. 626/1994 recita: ‘‘ciascun lavoratore deve prendersi cura della propria sicurezza e della propria salute e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui possono ricadere gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione ed alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro’’.
— 1065 — via, non si può non dare il giusto rilievo al fatto che un ruolo decisamente attivo e pregno di obblighi è posto dalla normativa a suo carico (40). In proposito non sono mancate pronunce da parte della Suprema Corte che hanno riconosciuto la responsabilità di un lavoratore, in caso di infortunio occorso ad altro lavoratore (41), ascrivendolo a colpa — esclusiva o concorrente — di altro lavoratore (42). Relativamente al caso di specie rilevano, in modo particolare, le norme relative all’obbligo di segnalazione di deficienze di mezzi o di situazioni di pericolo sancito dall’art. 5, comma 2, lett. d) e dall’art. 44, comma 4, del d.lgs. n. 626/1994, che ha trovato nei suoi antecedenti (43) uno dei doveri ritenuti di maggior rilievo in giurisprudenza. È stato precisato (44) che l’art. 6, lett. c), d.P.R. n. 547/1955, nell’imporre l’obbligo suddetto, si riferisce esclusivamente a situazioni di deficienze manifestatesi improvvisamente e mai prima conosciute dal datore di lavoro (45) e che, lo stesso articolo, impone tale obbligo solo ai lavoratori esperti del mestiere e pratici del lavoro da svolgere e non ai lavoratori che possono ignorare le tecniche particolari e le specifiche caratteristiche del lavoro (46). Si tratta di pronunce particolarmente significative per il rilievo che assume il problema — che qui interessa — relativo all’incidenza della condotta del lavoratore nella determinazione della responsabilità dell’imprenditore (47) e che si ricollega al principio dell’ ‘‘autoresponsabilità’’, strettamente legato a quello della personalità della responsabilità penale, in base al quale ‘‘nessuno può essere considerato garante del lecito condursi di un soggetto pienamente responsabile’’ (48). In proposito, di contro alle opinioni che in materia tendono a ‘‘ridimensionare’’ la portata del principio di autoresponsabilità sulla base del fatto che esigenze funzionali, per quanto pressanti, non consentano di minimizzare la pregnanza delle garanzie poste in capo ai vertici di azienda, è da sottolineare che l’imputazione di responsabilità penali a titolo di concorso dell’imprenditore — che non si sia adeguatamente attivato per evitare la commissione di uno o più reati da parte dei suoi sottoposti — rischierebbe di ricondurre al riconoscimento di mancati (40) In merito all’ipotesi secondo cui il lavoratore, beneficiario del dovere di sicurezza, sia destinatario della delega divenendo, in sostanza, garante di se stesso, cfr. Cass., 3 maggio 1979, in Cass. pen., 1981, p. 325; Id., 20 aprile 1989, in Giust. pen., 1990, II, p. 551; in dottrina cfr. PULITANÒ, Posizioni di garanzia, cit., p. 183; SMURAGLIA, La sicurezza del lavoro e la sua tutela penale, Milano, 1967, p. 222. (41) Cass., sez. IV pen., 20 febbraio 1989, n. 2807, in GUARINIELLO, Sicurezza del lavoro e Corte di Cassazione. Il repertorio 1988-1994, Milano, 1994, p. 81. In argomento si veda inoltre Cass., 8 febbraio 1977, in Giust. pen., 1978, II, p. 156; Cass., 19 giugno 1964, ivi, 1965, II, p. 47; e in dottrina PERSICO, Cooperazione del lavoratore alla tutela della salute e della sicurezza, in Riv. giur. lav., 1984, IV, p. 68 ss.; DOMENEGHETTI, Rassegna giurisprudenziale sulla rilevanza del comportamento del lavoratore sul piano della responsabilità penale, ivi, 1980, IV, p. 241 ss. (42) Significative, in particolare, Cass., 30 novembre 1984, in Cass. pen. Mass. ann., 1986, p. 366 (‘‘risponde di lesioni colpose aggravate il lavoratore che, manovrando il carter di un rullo compressore i cui meccanismi di controllo siano risultati efficienti, senza osservare la distanza di sicurezza rispetto alla macchina che lo precede e senza azionare per tempo il convertitore di marcia, investa alle spalle un altro lavoratore, cagionandogli lesioni’’); Cass., 24 gennaio 1984, in Riv. pen., 1985, p. 213. (43) Il riferimento è, in particolare, all’art. 6 del d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547; e all’art. 5, lett. c) del d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303. (44) Cass., sez. IV pen., 30 maggio 1989, n. 7789. (45) In questo senso, v. Cass., 15 novembre 1985, Goglio, in Cass. pen. Mass., ann., 1987, p. 1639; Cass., 11 ottobre 1084, Marchi, ivi, 1986, p. 816; Cass., 28 gennaio 1981, Egger, ivi, 1982, p. 1061. (46) Cass., sez. IV pen., 4 novembre 1989, n. 15161. (47) Secondo GRILLI, Diritto penale del lavoro, Milano, 1985, p. 365 ss. ‘‘l’eventuale colpa concorrente del lavoratore può incidere sull’entità della pena o del risarcimento del danno, non certo sull’affermazione della responsabilità penale dell’imprenditore’’. (48) Cfr. FIORELLA, Il trasferimento di funzioni, cit., p. 206.
— 1066 — compiti di ‘‘polizia’’ da parte di tale soggetto con possibili conseguenze rilevabili sul piano della responsabilità per omesso impedimento dell’evento (49). 4. ‘‘Oltre’’ la delega di fatto: prospettive de iure condendo. — Il principio enunciato, all’interno di un contesto d’impresa a carattere fortemente specialistico, quale può essere considerata la struttura sanitaria in esame, può giungere — a nostro avviso — a consentire significativi avanzamenti nella direzione di un riconoscimento particolarmente pregnante della delega c.d. di fatto, soprattutto se associata agli elementi che si possono desumere dalle considerazioni appena esposte. Negli ultimi anni la tendenza, sul tema, è stata quella di riconoscere una progressiva rilevanza all’istituto della delega di funzioni tanto da poter affermare che l’orientamento che gli attribuisce una efficacia meramente subiettiva, seppur autorevolmente sostenuto (50), risulta oggi decisamente minoritaria. In questo senso non poco ha contribuito il criterio funzionalistico (51) che, cercando di superare il problema del limite posto dalla qualifica formale del soggetto responsabile, ha voluto ridimensionare la portata degli ostacoli posti dal principio di inderogabilità della posizione di garanzia. Recentemente, inoltre, importanti pronunce della Suprema Corte (52) si sono espresse circa l’ammissibilità di una delega che, basandosi sugli elementi fattuali che la caratterizza, giunge a ritenere — in particolari casi — addirittura ‘‘superflui’’ i tradizionali canoni formali di validità della delega, individuati dalla giurisprudenza. Un problema di difficile soluzione è dato essenzialmente dall’individuazione della norme cautelari che l’imprenditore è tenuto ad osservare in caso di trasferimento di funzioni e, tali norme, assumono particolare rilevanza se si considera che esse trovano la loro fonte nell’obbligo di vigilanza, dell’imprenditore, sulla conduzione delle attività delegate (53). Non vi è dubbio sull’importanza della necessità di accertamento, caso per caso, delle eventuali colpe ascrivibili al comportamento dell’imprenditore che, pur potendo attivarsi per impedire l’accadimento dell’evento, non lo abbia fatto, cooperando, in tal modo, alla realizzazione di esso. Ciò che così, in ultima analisi, si vuole evitare è il rischio di riconoscere forme di responsabilità oggettiva di posizione (54). È chiaro che, qualora venisse accertata la conoscenza, da parte dell’imprendi(49) Il riferimento, in particolare, risulta ancor più ampio nell’ambito dell’accurata distinzione fra il concetto di istigazione e quello di tolleranza da parte del dirigente di azienda degli illeciti commessi dai suoi sottoposti operata relativamente al tema del concorso morale all’interno di organizzazioni societarie, in SERENI, Istigazione al reato e autoresponsabilità. Sugli incerti confini del concorso morale, Padova, 2000, p. 143 e quivi p. 174. (50) PADOVANI, op. cit.; ID., Reati contro l’attività lavorativa, in Enc. dir., XXXVIII, 1987, p. 1208 ss. (51) In questa direzione, anche la proposta elaborata dalla Commissione Vassalli-Pagliaro del 1992 sul problema delle qualifiche soggettive e dell’espressa previsione normativa di doveri di sorveglianza e sul trasferimento di funzioni, il riferimento è allo Schema di Disegno di legge-delega al Governo per l’emanazione di un nuovo codice penale, pubblicato in PISANI (a cura di), Per un nuovo codice penale, Padova, 1993. Deve rilevarsi, altresì, come il legislatore abbia già introdotto, in materia di reati societari, alcune fattispecie in cui l’individuazione dei soggetti attivi avviene tramite un criterio funzionalistico. Lo rileva, da ultimo, INFANTE, Partecipazione al capitale e tutela dell’attività di vigilanza (artt. 169 e 171 d.lgs. n. 58 del 1998), in MANNA (a cura di), Riciclaggio e reati connessi all’intermediazione mobiliare, Torino, 2000, p. 282 e ss. (52) Cass., sez. III pen., 26 febbraio 1998, n. 681; Cass., sez. IV pen., 3 marzo 1998, n. 548; in commento v. CENTONZE, Ripartizione di attribuzioni aventi rilevanza penalistica e organizzazione aziendale. Un nuovo orientamento della giurisprudenza di legittimità, in questa Rivista, 2000, p. 369 ss. (53) Per una compiuta disamina sul punto v. ALDROVANDI, Orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in materia di delega di compiti penalmente rilevanti, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1995, p. 699 ss. (54) Sull’esigenza di un’adeguata ‘‘personalizzazione’’ delle regole di diligenza, cfr., MARINUCCI, Il reato come azione, cit. p. 162; FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 239 ss.
— 1067 — tore, di una inadempienza di un suo sottoposto, e fossero accertate altresì, le sue concrete possibilità di attivarsi per impedire che da quella inadempienza derivi un evento lesivo, o per limitare la prosecuzione di eventuali danni già provocati, si potrebbe configurare — alla luce di non trascurabili esigenze di causalità e di probabilità statistica (55) — una responsabilità penale a carico di detto imprenditore, a titolo di omesso impedimento dell’evento. Ciò che però occorre precisare è che il dovere di agire imposto all’imprenditore, è strettamente legato al potere di agire dello stesso e che il secondo, spesso senza troppe preoccupazioni, viene automaticamente associato al primo, prescindendo da ogni valutazione che il caso concreto richiederebbe. Seppur lungi dal negare o dal voler minimizzare la portata dell’obbligo dell’imprenditore di adottare ‘‘tutte le misure (...) necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro’’ — ex art. 2087 c.c. — riteniamo piuttosto riduttivo affermare l’imputazione di responsabilità penali dell’imprenditore, per ogni tipo di infortunio che possa verificarsi all’interno della sua impresa. Come accennato in precedenza, è l’analisi di ogni caso concreto che deve determinare non solo la effettiva conoscenza di eventuali carenze della struttura da parte dell’imprenditore ma anche, e soprattutto, le sue concrete possibilità d’intervento. La sentenza del ‘‘caso Galeazzi’’ è emblematica da questo punto di vista: responsabilità a titolo di colpa grave di gran parte del personale medico, infermieristico e tecnico, sono state addebitate anche ai ‘‘vertici’’ dell’azienda a prescindere da ogni valutazione in termini di causalità. Anche sul piano della posizione di garanzia rivestita da certi soggetti, ritenuti garanti ex lege, occorre procedere ad una valutazione non astratta, ma che tenga concretamente conto del tipo di bene giuridico tutelato, delle caratteristiche delle attività svolte e delle qualifiche dei soggetti ad esse preposti. Una valutazione che, invece, si basi esclusivamente sulla avvenuta corretta predisposizione dei mezzi per adempiere, e che trascuri ogni considerazione possibile sul piano della colpevolezza, risulterebbe fortemente limitata, specie se poi, tale predisposizione risulta eseguita, come nel caso de quo (56). È da precisare che, attraverso l’utilizzo della delega, non si intende né esonerare l’imprenditore dalle incombenze che gli sono proprie, né disconoscere l’importanza della posizione che egli assume all’interno dell’impresa. Riteniamo, però, che l’analisi attenta di ogni caso giurisprudenziale consenta di distinguere la portata della delega stessa che si traduce, sul piano penalistico, in elemento caratterizzante dell’esigibilità o meno di determinati comportamenti. In questa direzione, pertanto, consideriamo di fondamentale importanza ‘‘l’apertura’’ posta dalla Corte di cassazione in tema di delega di fatto, occorrendo però, a nostro parere, operare un ulteriore passo in avanti e, con ulteriori argomentazioni, arricchire tale impostazione. Posto che, in imprese a struttura particolarmente articolata e complessa dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro, la delega di funzioni si presenta come elemento imprescindibile e dunque necessario per il buon funzionamento della struttura stessa (57), le differenti professioni richieste determinano la presenza di soggetti dotati di competenze altamente specializzate, tali da non consen(55) Sul punto v. CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, 2a ed., Padova, 1999, p. 132 ss. (56) Nello stesso senso, VENEZIANI, op. cit., p. 494 ss. (57) Autorevolmente, in argomento, STELLA, Criminalità d’impresa: nuovi modelli di intervento, in questa Rivista, 1999, p. 1254 e ss.; CULOTTA-DI LECCE-COSTAGLIOLA, op. cit., p. 119; MONTUSCHI, I
— 1068 — tire ad altri (ed in primis all’imprenditore che li assume) l’espletamento di funzioni e attività che sono loro proprie. Riteniamo, dunque, di poter affermare che proprio all’atto della stipulazione del contratto di lavoro si realizzi una delega di funzioni, una delega che potrebbe essere definita ‘‘in re ipsa’’ che possa consentire un più adeguato approccio, in particolare, al tormentato problema del dovere di vigilanza dell’imprenditore. Per evitare fraintendimenti che possano dare origine ad un generalizzato esonero da responsabilità per il soggetto in questione, precisiamo che, responsabilità a suo carico sarebbero riconosciute ogni volta in cui, per dolo o per colpa, indiscutibili elementi probatori siano rilevabili, nel caso concreto, e determinanti per l’accadimento dell’evento lesivo della vita o dell’incolumità dei prestatori di lavoro. A ben guardare, anche gli elementi richiesti da un normale contratto di assunzione coincidono con i requisiti che tradizionalmente vengono attribuiti ad una delega valida e, non ultima, la stessa fonte — ex contracto — (58) dalla quale avrebbe origine l’efficacia della delega, presenta elementi calzanti con essa. Un primo elemento è da rintracciare nella necessità che una delle parti stipulanti sia, imprescindibilmente, il soggetto garante a titolo originario, in quanto detentore dei poteri giuridici impeditivi (59) che, a loro volta, costituiscono il fondamento del corrispondente obbligo e che rendono tale soggetto, l’unico effettivamente ‘‘abilitato’’ a disporne nei limiti consentiti dalla legge (60). Il secondo elemento essenziale risiede nella necessità di una concreta presa in carico del bene da parte del garante a titolo derivato, si tratta, dunque, di elementi che, in una delega intesa come insita nello stesso contratto di lavoro, sono facilmente rilevabili e consentono, a nostro parere, di rispondere efficacemente alle esigenze di adeguata tutela del bene giuridico attraverso l’esercizio di professionalità basate su conoscenze specialistiche, abilità tecniche, attenzione e prontezza che non possono che essere attribuiti a soggetti all’uopo preposti. In definitiva, pur non intendendo alterare la validità e la portata delle previsioni ex lege, né volendo spostare la problematica relativa alla posizione di garanzia e alla responsabilità per omesso impedimento dell’evento su di un piano meramente fattuale, occorre considerare, tuttavia, che tale piano risulta di imprescindibile rilievo se si considerano le variegate realtà presenti nel mondo imprenditoriale che, inevitabilmente, proiettano le più diverse esigenze in ambito giuridico. In proposito, l’accettazione di una delega (sia consentito definirla in re ipsa) intesa nel modo appena esposto, potrebbe contribuire a ridurre l’enorme distanza esistente tra il manager ed il giurista — o per meglio dire tra le loro mentalità — desumibile dai risultati di recenti studi svolti dalle c.d. scienze organizzative (61). principi generali del d.lgs. n. 626 del 1994 e le successive modifiche, in AA.VV., Ambiente, salute e sicurezza (a cura di), Torino, 1997, p. 47. (58) Sul punto, compiutamente, LEONCINI, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza, Torino, 1999, p. 177 ss., quivi, p. 230. (59) In argomento, per la dottrina dominante, v. FIANDACA, Il reato commissivo mediante omissione, Milano, 1979, p. 186 ss.; GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, p. 264; FIANDACAMUSCO, Dir. pen. Parte generale, cit., p. 552. (60) SGUBBI, La responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, Padova, 1975, p. 195 ss. (61) Il riferimento è ad un insieme di studi, che ha raggiunto una sua autonomia scientifica, volta ad affrontare l’analisi dei sistemi complessi — le c.d. organizzazioni — attraverso l’ausilio di discipline come la sociologia, la psicoanalisi, la psicologia del comportamento aziendale ed, in generale, di tutte quelle materie che si occupano dello studio dell’indagine introspettiva dell’uomo sia come singolo individuo, sia inserito in un contesto collettivo. Tra i massimi esponenti contemporanei, per tutti, K.E. WEICK, Senso e significato nell’organizzazione, Milano, 1997, il quale, con la formulazione della teoria del c.d. sensemaking, ha spiegato con geniale intuizione come, attraverso tale processo, si pervenga a conferire forma e significato, retrospettivamente, ai flussi di esperienza. Più precisamente l’A. non intende negare ai soggetti la possibilità (e la necessità) di pensare e di decidere, prima di agire, ma la creazione di senso
— 1069 — Lo scopo di tale sforzo vuole essere quello di applicare i principi del sistema penale nel modo più adeguato possibile al tema delle responsabilità penali per infortunio in azienda. Si badi, però, a non interpretare tale intento come volontà di rendere detto sistema ‘‘servente’’ le concrete esigenze imprenditoriali; ciò che appare di rilevante importanza è, invece, l’efficacia di un sistema penale che sia in grado di operare un giusto discernimento delle situazioni sottoposte al suo esame e che eviti l’attribuzione di responsabilità penali di dubbia fondatezza. Ciò che interessa, essenzialmente, è capire, con l’ausilio di queste scienze, i processi decisori seguiti dal manager nello svolgimento della sua attività. Essendo ormai chiare le difficoltà che la gestione di un’azienda comporta, riteniamo fondamentale calarsi all’interno di questa realtà per meglio valutare l’efficienza o meno del sistema penale, così come formulato e applicato, per prevenirne le disfunzioni. Peraltro, se si pensa allo sforzo compiuto dal legislatore di disciplinare — in modo sempre più particolareggiato attraverso la formulazione di un complesso corpus normativo — i vari aspetti della vita imprenditoriale (62), risulta di notevole importanza studiare dall’interno questa realtà per essere pienamente a conoscenza degli elementi che la caratterizzano. Dunque, lo studio del comportamento manageriale, dei meccanismi mentali, dei processi decisionali dei soggetti di un’organizzazione, e la comparazione di questi con gli omologhi processi del giurista, ha evidenziato, appunto, una distanza tale da poter considerare la figura del manager e quella del giurista come mondi completamente separati e divergenti. All’interno di questo contesto si inserisce il problema della delega di funzioni, necessità imprescindibile per l’imprenditore che può avvertire come eccessivamente vincolanti i rigorosi schemi imposti dalle tecniche giuridiche inerenti tale istituto. Attraverso le funzioni delegate, infatti, egli riesce a contribuire notevolmente alla massimizzazione della produttività della propria azienda con risparmio di tempo e ottimizzazione di risultati derivanti dal vantaggio fornito dalla possibilità di avvalersi di professionalità e competenze specializzate. Non si tratta di trascuratezza o di indifferenza del manager nei confronti dei beni che il giurista intende tutelare, ma di un ‘‘naturale’’ comportamento che non prevede lunghi tempi di riflessione per decisioni che, proprio nella velocità di realizzazione, trovano la loro concretezza ed efficacia. La rinegoziazione continua degli accordi imprenditoriali, l’improvvisazione e l’estrema flessibilità delle decisioni che caratterizzano il primo, dunque, mal si conciliano con le forme rigide e l’impostazione formale del secondo che, invece, considera l’improvvisazione come elemento di potenziale sconvolgimento degli equilibri imposti dal diritto positivo. Tale divergenza, comporta, sul piano pratico, una totale incomunicabilità tra questi due soggetti, tale da determinare una sorta di situazione di ‘‘stallo’’ che vede, da un lato, il giurista non riuscire ad interpretare l’operato e le scelte manageriali come esigenze professionali dell’imprenditore, dall’altro, il manager non comprendere il formalismo ed il rigore del giurista che, dunque, gli apparirà poco pragmatico e concreto. Non si può non considerare tale situazione se si vuole procedere sul terreno consente di sussumere le decisioni, di fondarle e dar loro significato attraverso quella singolare circolarità dell’azione (fare) dell’espressione (dire) e del pensiero (pensare) che caratterizza la mentalità del manager e la differenzia, in modo diametralmente opposto, da quella del giurista; tra gli altri, in argomento, v. BONAZZI, Dire fare pensare, Milano, 1999. (62) Significativo, in proposito, proprio il d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626.
— 1070 — di una concreta operatività degli istituti giuridici ed, in particolare, di quello della delega di attribuzioni. In questo senso ci sembra significativa la formulazione del progetto di riforma del codice penale proposto della Commissione Grosso che all’art. 25 comma 5 prevede l’ammissibilità della delega di funzioni, indipendentemente dalle dimensioni dell’organizzazione (63). Un indiscusso passo in avanti si può dire effettuato attraverso tale precisazione poiché, per la prima volta ex lege, si potrebbero dissipare i dubbi inerenti l’ammissibilità dell’istituto della delega di attribuzioni all’interno di aziende di piccole dimensioni. Seppur sia da sottolineare che, ad avviso di certa giurisprudenza, difficilmente in tali aziende possa esistere la necessità di delegare determinate funzioni, è pur vero che, anche all’interno di esse, è possibile trovare diversificazioni di competenze tali da renderle complesse, se non da un punto di vista propriamente dimensionale, quantomeno da quello professionale. Inoltre, ciò che desta maggiore interesse è la formulazione della seconda parte della norma secondo la quale la presenza della delega, in ogni caso, non esclude i doveri di controllo da eseguire ‘‘in conformità al modello organizzativo adottato’’. In realtà, sul punto, si potrebbe ravvisare una apparente contraddizione data dalla previsione di una notevole evoluzione in tema di ammissibilità della delega — quella dimensionale — e, contestualmente, della permanenza di un obbligo di vigilanza. Non bisogna trascurare però un dato, a nostro parere fondamentale, relativo alla espressa conformità di tale obbligo al modello organizzativo adottato, poiché esso si pone, all’interno del nostro commento, come elemento essenziale e determinante in prospettiva de iure condendo sul tema. La precisazione espressa dal c.d. progetto Grosso, potrebbe essere il frutto di una adeguata riflessione effettuata tenendo conto delle particolari esigenze, evidenziate in precedenza, che la moderna articolazione imprenditoriale presenta, nonché di una chiara volontà di aderire all’impianto del d.lgs. n. 626/1994, così come modificato dal d.lgs. n. 242/1996 ed, in particolar modo, al dettato dell’art. 2, lett. b) che fornisce la nuova nozione di datore di lavoro, individuato in colui che ha ‘‘la responsabilità dell’impresa o dell’unità produttiva’’ (64). Accettando questo tipo di interpretazione si avrebbe una piena aderenza del progetto all’impostazione fornita dal legislatore del ’94 che porterebbe ad evidenziare un coerente legame tra i due dati normativi e getterebbe le basi per una possibile ‘‘delegabilità’’ del dovere di controllo ai collaboratori dell’imprenditore. In tal modo, verrebbero forniti nuovi impulsi all’istituto de quo che, senza dubbio, si arricchirebbe di notevoli contenuti. Tornando al caso di specie, in conclusione, una responsabilità penale riconosciuta in capo al ‘‘vertice’’ aziendale a titolo di cooperazione colposa, non può prescindere né da elementi probatori che attestino l’esistenza di un nesso causale tra il comportamento di detto vertice e l’accadimento dell’evento, né da elementi che costituiscano il fondamento di responsabilità in eligendo ed in vigilando. Il legittimo affidamento dell’imprenditore nelle capacità dei suoi collaboratori (63) L’art. 25, comma 5 del progetto Grosso recita: ‘‘La delega di funzioni è ammessa indipendentemente dalle dimensioni dell’organizzazione. In ogni caso essa non esclude i doveri di controllo in conformità al modello organizzativo adottato’’. (64) In riferimento a tale nozione si pone l’ipotesi, in precedenza affrontata, dell’ammissibilità di una pluralità di datori di lavoro, in argomento v. CULOTTA, Il nuovo sistema sanzionatorio in materia di sicurezza ed igiene del lavoro e le responsabilità penali in caso di attività date in appalto, in questa Rivista, 1996, p. 959 ss.
— 1071 — e nel dovere di diligenza da essi contrattualmente assunto, svolge un ruolo determinante dal quale è possibile prescindere solo sulla base di fondate motivazioni. Diversamente, la culpa in vigilando, in particolare, finisce per essere priva di sostanziale contenuto se giustificata solo da una ‘‘manifesta riconoscibilità’’ dell’inefficienza della struttura, dell’errore tecnico e, soprattutto, se ulteriormente avvalorata da pretese ‘‘superiori conoscenze’’ del datore di lavoro rispetto a quelle dell’esperto. La contraddizione sul punto ci pare evidente: le conoscenze tecniche del datore si suppongono inferiori a quelle dell’esperto — quest’ultimo non sarebbe qualificabile tale altrimenti — e l’asserito facile riconoscimento di inefficienze o danneggiamenti della struttura, da parte dell’imprenditore, di un soggetto, lo ripetiamo, assolutamente non esperto, circoscrive la propria efficacia ai casi di errore grossolano e di macroscopica deficienza del sistema (65). Non bisogna dimenticare, poi, che la normativa in esame prevede espressamente, a carico del responsabile del servizio di prevenzione e protezione — ex art. 9, comma 1 (66) — particolari compiti cui si ricollegano responsabilità specifiche in caso di verificazione d’infortunio. Dalla lettera della norma si potrebbe desumere l’obbligo di impedire l’evento, proprio a carico di tale soggetto. Più in generale, può trattarsi di responsabilità sia nell’illecito contravvenzionale consistente nell’ omessa adozione di misure antinfortunistiche sia nel delitto colposo di evento che l’apprestamento della misura avrebbe evitato. Si potrebbe altresì configurare una responsabilità concorrente con quella del datore di lavoro potendo risultare, il responsabile del servizio, punibile per colpa anche in relazione a fattispecie ‘‘proprie’’ — sia contravvenzionali di pericolo sia delittuose di evento, cui parteciperebbe a titolo di ‘‘estraneo’’, ex art. 40 cpv. c.p. (67). Come detto precedentemente, infatti, il legittimo affidamento del datore di lavoro sul corretto adempimento di tale soggetto che si presenti come persona idonea sotto il profilo tecnico e dotata di necessari poteri, posto che il datore non sia dotato di conoscenze supplementari che gli consentano di percepire eventuali inadeguatezze dell’altrui operato, svuota in larga parte di significato i parametri cui vengono ancorate responsabilità per culpa in eligendo e in vigilando. Al riguardo sembra potersi evidenziare anche la rigida ‘‘indelegabilità’’ dell’obbligo di valutazione del rischio e di elaborazione del piano attuativo di sicurezza facente capo al datore di lavoro, che viene ad essere piuttosto ridimensionata, stando non solo alla lettera della normativa, ma anche alla sua ratio. In base ad essa, i principi-guida della conoscenza della concreta situazione (65) Nel caso di specie, in particolare, solo i tecnici, tecnicamente preparati e materialmente dotati dei mezzi idonei per svolgere al meglio il loro lavoro, potevano essere a conoscenza del funzionamento delle camere iperbariche nonché dell’azionamento e della manutenzione del sistema antincendio. Parimenti solo il personale medico e paramedico poteva sapere, in quanto effettivi operatori, dell’infausta prassi relativa al troppo superficiale, o addirittura, inesistente controllo degli oggetti che ogni paziente poteva introdurre con sé all’interno delle camere e continuare a tenere durante lo svolgimento della terapia. (66) L’articolo citato recita: ‘‘Il servizio di prevenzione e protezione dei rischi professionali provvede: a) all’individuazione dei fattori di rischio, alla valutazione dei rischi e all’individuazione delle misure per la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, nel rispetto della normativa vigente sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione aziendale; b) ad elaborare, per quanto di competenza, le misure preventive e protettive e i sistemi di cui all’art. 4, comma 2, lett. b) e i sistemi di controllo di tali misure; c) ad elaborare le procedure di sicurezza per le varie attività aziendali; d) a proporre i programmi di informazione e formazione dei lavoratori; e) a partecipare alle consultazioni in materia di tutela della salute e di sicurezza di cui all’art. 11; f) a fornire ai lavoratori le informazioni di cui all’art. 21’’. (67) M. MANTOVANI, Il principio di affidamento, cit., p. 415 ss.; ed in tema di concorso di persone P. SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione nel delitto colposo, Milano, 1988; interessanti, sul punto, anche le considerazioni di VENEZIANI, Infortuni sul lavoro, cit., p. 518.
— 1072 — aziendale e dell’applicazione della normativa vigente si traducono, sul piano operativo, nella diretta conoscenza della situazione ambientale — compreso il funzionamento dei macchinari — e nell’interazione fra i sistemi produttivi, sulla cui base, il servizio dovrà elaborare le idonee misure di sicurezza per prevenire ed eliminare, per quanto possibile, i rischi; seguirà l’obbligo, da parte del servizio, di stabilire il controllo sulle misure prese, in modo da mantenere costante il livello ottimale di sicurezza. Alla luce delle considerazioni finora esposte, sembrerebbe emergere, tenuto conto della motivazione della sentenza de qua, una sorta di traslazione dei criteri ispiratori della responsabilità intesa in senso civilistico, sul piano propriamente penalistico. Il principio ‘‘ubi commoda ibi incommoda’’ pare infatti sotteso all’attribuzione delle responsabilità che i giudici hanno riconosciuto in capo ai ‘‘vertici’’ della struttura sanitaria, al pari del dettato dell’ art. 2049 c.c. È pur vero, tuttavia, che in termini di risarcimento, sia certamente più comodo e conveniente imputare responsabilità a quei soggetti che concretamente saranno in grado di provvedere in tal senso, ma i criteri economici non possono essere considerati adeguati parametri per formulare giudizi di tal genere; l’elemento della solvibilità economica, in base alla quale preferire certi soggetti ad altri, non può sostituirsi a quello di una comprovata colpevolezza. È per questo che vogliamo ribadire con forza l’imprescindibilità di un attento esame dell’accertamento dell’esistenza del nesso causale fra la condotta attiva od omissiva del responsabile d’impresa e la verificazione dell’evento che coinvolge ogni settore e, dunque, non solo quello prevenzionale. Diversamente si potrebbe assistere ad un pericoloso sbilanciamento nella direzione dell’affermazione di una responsabilità per fatto altrui, in aperto contrasto con quanto espressamente vietato dal nostro ordinamento, oltre che, all’evidente perdita di contenuti sostanziali dell’istituto della delega di attribuzioni, se da un lato intende evitare lo slittamento di responsabilità ‘‘verso il basso’’ della gerarchia aziendale, intende pure limitare ripetute spinte ‘‘verso l’alto’’ delle stesse. Riteniamo, tuttavia necessario puntualizzare che, spesso, tali decisioni sono il frutto di accanite ricerche di ‘‘capri espiatori’’ che, oltre a soddisfare diffusi bisogni emotivi di pena, portano all’individuazione di facili bersagli da colpire, soprattutto in considerazione del limite riconosciuto alla responsabilità delle persone giuridiche ad opera dell’interpretazione fornita da parte della dottrina risalente del principio di personalità della responsabilità penale previsto dalla nostra Legge fondamentale’’ (68). (68) Sul problema della responsabilità penale delle persone giuridiche, diffusamente, ALESSANDRI, Commento all’art. 27, comma 1, in Commentario alla Costituzione (a cura di), Bologna, 1991; FIANDACAMUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 1995, p. 139 ss.; BRICOLA, Il costo del principio ‘‘societas delinquere non potest’’ nell’attuale dimensione del fenomeno societario, in questa Rivista, 1970, p. 951 ss.; DE FRANCESCO, Il principio della personalità della responsabilità penale nel quadro delle scelte di criminalizzazione, ivi, 1996, p. 22 ss.; DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa, ivi, 1995, p. 88 ss.; recentemente, in tema di trattamento sanzionatorio MANNA, La responsabilità penale delle persone giuridiche: il problema delle sanzioni, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1999, p. 919 ss.; MAUGERI, Il regolamento n. 2988/95: un modello di disciplina del potere punitivo comunitario, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1999, p. 929 ss.; si segnalano inoltre recenti Convenzioni, quali il Secondo Protocollo della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee (Convenzione P.I.F.) del 19 giugno 1997 (in Gazzetta ufficiale delle Comunità europee n. C221 del 19 luglio 1997, p. 12 ss.) e la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle transazioni economiche internazionali, del 17 ottobre 1997, nelle quali si prevede una responsabilità diretta delle persone giuridiche; si segnala inoltre, di recente emanazione, il decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231 (pubbl. in G.U. del 19 giugno 2001 n. 140) che disciplina la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’art. 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300.
— 1073 — Sono di particolare rilievo, a questo proposito, le preoccupazioni relative al discrezionale intervento del Legislatore sul tema. È stato ribadito infatti che la finalità garantistica dell’art. 27, comma 1, Cost. non risulterebbe affatto frustrata da una scelta legislativa orientata al riconoscimento della responsabilità penale della persona giuridica: né il significato ‘‘minimo’’ relativo all’impedimento della imputazione di responsabilità penale per fatto altrui, né la garantita esclusione di una inflizione della pena in misura superiore al limite segnato dalla colpevolezza, comprometterebbero, infatti, una scelta di questo tipo. Dunque, se dall’operato dell’amministratore di una società conseguissero sanzioni penali anche per la società stessa, e non solo per la persona fisica, nessun individuo sarebbe ritenuto responsabile per fatto altrui, né ciò lo renderebbe responsabile oltre i limiti definiti dalla colpevolezza (69). Qualora, infatti, venisse dimostrato che l’infortunio occorso sia stato determinato da scelte che, a posteriori, si rivelano errate, in quanto risultato di una discutibile politica d’impresa, non si riesce a comprendere il motivo secondo cui debbano rispondere penalmente soltanto le persone fisiche e non la società in cui esse operano, riconoscendo, così, la rilevanza penalistica della specifica volontà da questa espressa, qualificabile in termini dolosi o colposi (70). Concludendo, le responsabilità di cui agli artt. 113 (71) e 449 in relazione all’art. 423 c.p. imputate ai responsabili dell’impresa, non convincono sul piano della colpevolezza e in considerazione della ammissibile esistenza, nel caso di specie, di una delega di fatto (in piena adesione alle già richiamate sentenze che la Suprema Corte ha emesso sul tema) o di una delega concepita come parte integrante dello stesso contratto di lavoro stipulato fra i prestatori di lavoro della società e la società stessa; non ultimi, anche relativamente agli elementi richiesti in ordine al principio della delega (72), ritenuto concettualmente e concretamente applicabile all’interno della struttura dei delitti colposi di danno (art. 449 c.p.), sono rinvenibili sia nel rispetto della totale astensione da ogni ingerenza tecnica da parte del responsabile d’impresa nelle attività dei suoi sottoposti, sia nell’assoluta ignoranza, da parte dello stesso, di eventuali inosservanze delle norme sia tecniche che giuridiche. ANNALISA PETROZZI Università di Foggia
(69) A supporto di tali affermazioni è particolarmente aderente il riferimento alla teoria organicistica, DOLCINI, Principi costituzionali e diritto penale alle soglie del nuovo millennio. Riflessioni in tema di fonti, diritto penale minimo, responsabilità degli enti e sanzioni, in questa Rivista, 1999, p. 10 ss., e quivi pp. 21-22. (70) Sul punto, in tema di reati societari, MUSCO, Diritto penale societario, Milano, 1999. (71) Con particolare riferimento alla struttura di questo articolo v. P. SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione nel delitto colposo, Giuffrè, 1998, p. 127, che, ammettendo in caso di trasferimento di funzioni — e diversamente dal caso dell’incarico di esecuzione — la trasmissibilità della posizione di garanzia sostiene, proprio in relazione alla materia prevenzionale, l’esonero di responsabilità per il dante causa. (72) Con riferimento al disastro di Seveso la S.C. ha ritenuto concettualmente ammissibile il principio della delega in materia di destinatari della normativa antinfortunistica, seppur con assoluto rigore nell’accertamento dei suoi presupposti, in argomento v. STELLA, Commentario, cit., p. 1272 ss.
RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE
COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (*)
L’indipendenza del giudice ad quem nell’estradizione europea Commentando una decisione elvetica in tema di estradizione richiesta dal Paraguay, tempo addietro avevamo avuto modo di osservare (1) che l’estensione della garanzia del ‘‘giudice indipendente’’ all’ambito della cooperazione internazionale rappresenta un passo importante lungo la linea di tendenza, su scala mondiale, nel senso di orientare i criteri della cooperazione sulla base dei princípi che ispirano il processo penale interno. A riprova dell’estensione in discorso, sembra il caso di aggiornare il quadro delle riserve formulate, negli anni più recenti (e alla data del 5 aprile 2001), in sede di deposito degli strumenti di ratifica della Convenzione europea di estradizione (2). Andorra — Premesso che l’art. 85, § 2, della Costituzione del Principato vieta le giurisdizioni d’exception, nella riserva formulata al momento del deposito dello strumento di ratifica (13 ottobre 2000) si è previsto che l’estradizione non sarà concessa allorquando la persona richiesta dev’essere giudicata nello Stato richiedente da una giurisdizione di tale natura, ovvero allorquando l’estradizione è richiesta ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza disposta da tale tipo di giurisdizione. Inoltre, sulla base dell’art. 14 della legge di estradizione del Principato, si è previsto che l’estradizione non sarà concessa, tra l’altro (caso sub c), neanche ‘‘allorquando la persona richiesta sarà giudicata, nello Stato richiedente, da un tribunale che non assicura le garanzie fondamentali di procedura e di protezione dei diritti della difesa oppure da un tribunale appositamente costituito per il suo caso particolare, come sola persona implicata o meno’’. Belgio — ‘‘Il Belgio si riserva il diritto di non concedere l’estradizione allorquando l’individuo richiesto potrebbe essere sottoposto a un tribunal d’exception, ovvero se l’estradizione è richiesta in vista dell’esecuzione di una pena pronunciata da un tale tribunale’’ (Riserva del 29 agosto 1997). Malta — ‘‘Nel concedere l’estradizione di una persona, Malta si riserva il diritto di concordare che questa persona non potrà essere perseguita per il reato in questione davanti ad un tribunale che sarebbe competente a pronunciarsi su tale tipo di reato solo a titolo provvisorio o in circostanze eccezionali. La richiesta di estradizione in vista dell’esecuzione di
(*) A cura di MARIO PISANI. (1) L’‘‘indipendenza’’ del giudice della Parte richiedente l’estradizione, in Ind. pen., 1992, p. 78. V. anche I rapporti Svizzera-Repubblica d’Irlanda in materia di estradizione: la ‘‘Special Criminal Court’’ e la detenzione di esplosivi, ibid., 1986, p. 158. (2) Parlando di aggiornamento, intendiamo qui riferirci al quadro delle riserve all’art. 1 della Convenzione, così come presentate nella 3a ed. (1996) del nostro (PISANI e MOSCONI) Codice delle convenzioni internazionali di estradizione e di assistenza giudiziaria. Le riserve provenivano dai seguenti Paesi: Austria (p. 387); Bulgaria (p. 389); Danimarca (p. 391); Finlandia (p. 392); Francia (p. 393); Islanda (p. 398); Liechtenstein (p. 401); Lituania (p. 402); Portogallo (p. 408); Spagna (p. 409); Svezia (p. 410); Svizzera (p. 411); Ungheria (p. 414).
— 1075 — una pena pronunciata da un tribunale speciale del genere potrà essere rifiutata’’ (Riserva 19 marzo 1996). Moldava — ‘‘La Repubblica di Moldava rifiuterà l’estradizione allorquando la persona richiesta debba essere giudicata, sul territorio della Parte richiedente, da parte di un tribunal d’exception (costituito per un singolo caso), ovvero allorquando l’estradizione è richiesta in vista dell’esecuzione di una sentenza o di una misura di sicurezza pronunciata da un organo di tale natura’’ (Riserva del 2 ottobre 1997). Russia — ‘‘Per quanto concerne l’art. 1 della Convenzione, la Federazione Russa si riserva il diritto di rifiutare l’estradizione: a) se l’estradizione è richiesta allo scopo di tradurre la persona davanti ad un tribunal d’exception o di sottoporla ad una procedura sommaria (procédure simplifié), o di far eseguire la pena pronunciata da un tribunal d’exception o nel quadro di una procedura sommaria, quando vi sono delle ragioni per ritenere che, nello svolgimento di tali procedure, la persona non ha beneficiato, o non beneficerà, delle garanzie minime enunciate nell’art. 14 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e negli artt. 2, 3 e 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e della libertà fondamentali. I termini tribunal d’exception e procédure simplifié non riguardano i tribunali penali internazionali la cui autorità e competenza sono state riconosciute dalla Federazione Russa; b) se esistono ragioni per ritenere che la persona della quale viene richiesta l’estradizione sarà sottoposta, nello Stato richiedente, alla tortura ovvero a delle pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti nel corso del processo penale, oppure per ritenere che la persona non ha beneficiato o non beneficerà delle garanzie minime enunciate nell’art. 14 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e negli artt. 2, 3 e 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (...)’’ (Riserva del 10 dicembre 1999).
Consiglio d’Europa: una ‘‘nuova partenza’’ per il sistema della cooperazione.
‘‘...Con un documento conosciuto come New Start o nouveau départ, datato aprile 2000 e discusso e approvato nel giugno successivo, il Consiglio d’Europa ha avviato una profonda riflessione sul sistema della cooperazione giudiziaria internazionale in materia penale. Si tratta di una riflessione a 360 gradi: cosa significa prestare cooperazione giudiziaria oggi, in un’era di globalizzazione; se essa, insieme con gli interessi degli Stati interessati e della comunità internazionale nel suo complesso, non debba anche avere particolare attenzione ai diritti individuali, e specificamente ai diritti delle vittime; se sia opportuno avere un quadro di riferimento giuridico che tenga conto dei legami che tengono uniti questi settori; se sia opportuno avere un momento di risoluzione di controversie interpretative sulle convenzioni; se sia opportuno conferire alla cooperazione internazionale di polizia parametri giuridici certi, soprattutto in relazione ai diritti individuali, una volta che le frontiere diventano più labili per una lotta a una criminalità che non conosce frontiere e che le tecniche di indagine diventano sempre più sofisticate e invasive. Il terzo millennio ci riserva scenari impensabili solo qualche anno fa, che richiedono la collaborazione di tutti per la realizzazione di una cooperazione giudiziaria internazionale adeguata ai tempi ed efficiente’’. (E. SELVAGGI, Noi e gli altri: appunti e divagazioni in tema di rapporti giurisdizionali con autorità straniere, in Cass. pen., 2001, p. 1393).
Unione Europea: cooperazione per le vittime.
Sulla Gazzetta ufficiale delle Comunità europee del 22 marzo è stata pubblicata la ‘‘Decisione quadro del Consiglio del 15 marzo 2001 relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale’’.
— 1076 — Si tratta di un atto adottato — su iniziativa del Portogallo — a norma del titolo VI del Trattato sull’Unione europea, e che entra in vigore (art. 19) dalla data della pubblicazione. Nell’art. 12 — intitolato Cooperazione tra Stati membri — si prevede che: ‘‘Ciascuno Stato membro promuove, sviluppa e migliora la cooperazione tra gli Stati membri in modo da consentire una più efficace protezione degli interessi della vittima nel procedimento penale, o sotto forma di reti direttamente collegate al sistema giudiziario o di collegamenti tra organizzazioni di assistenza alle vittime’’. La norma, alla stregua dell’art. 17, fa parte del gruppo di disposizioni in ordine alle quali è prevista, per il 22 marzo 2002, la decorrenza della entrata in vigore, a cura di ogni Stato membro, delle ‘‘disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie ai fini dell’attuazione’’ della ‘‘Decisione quadro’’. Entro il termine di un anno da quella data, è previsto (art. 18) uno specifico monitoraggio riguardante le misure adottate dai vari Stati membri per conformarsi alla ‘‘decisione’’ in discorso.
Unione Europea: l’‘‘Unità provvisoria di cooperazione giudiziaria’’.
Il Consiglio dell’Unione Europea, visto il trattato sull’Unione europea, in particolare l’art. 31 e l’art. 34, § 2, lett. c), vista l’iniziativa della Repubblica federale di Germania e l’iniziativa della Repubblica portoghese, della Repubblica francese, del Regno del Belgio e del Regno di Svezia (GU C 243 del 24 agosto 2000, p. 21), visto il parere del Parlamento europeo (Parere del Parlamento europeo del 14 novembre 2000 (non ancora pubblicato nella Gazzetta ufficiale), considerando quanto segue: 1. Gli artt. 29 e 31 del trattato invitano in particolare ad una più stretta cooperazione in sede di Unione europea tra le autorità competenti in materia di lotta contro la criminalità organizzata. ll miglioramento effettivo della cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri richiede senza ulteriori indugi l’adozione a livello di Unione europea di misure strutturali destinate ad agevolare il coordinamento delle attività di indagine e delle azioni giudiziarie in materia di forme gravi di criminalità, in particolare di criminalità organizzata, che riguardano il territorio di più Stati membri e, in particolare, l’istituzione di un’Unità provvisoria di cooperazione giudiziaria. 2. Il Consiglio ha adottato l’azione comune 98/428/GAI, del 29 giugno 1998, sull’istituzione di una rete giudiziaria europea (GU L 191 del 7 luglio 1998, p. 4). 3. Le conclusioni del Consiglio europeo di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999, in particolare il punto 46 delle stesse, riguardano l’istituzione, prima della fine del 2001, di un’Unità (Eurojust), composta di procuratori, giudici o funzionari di polizia di pari competenza, per rafforzare la lotta contro le forme gravi di criminalità organizzata. 4. Tale Unità provvisoria dovrebbe riunirsi avvalendosi delle infrastrutture del Consiglio, fermo restando che la sua esperienza sarà tale da arricchire l’elaborazione dell’atto che istituisce l’Eurojust. 5. L’esperienza maturata con questa unità provvisoria fungerà da base per l’elaborazione dell’atto che istituisce l’Eurojust, decide: ART. 1. — È istituita una formazione denominata ‘‘Unità provvisoria di cooperazione giudiziaria’’, ubicata a Bruxelles e che si avvale delle infrastrutture del Consiglio. ART.
2. — 1. L’Unità provvisoria ha i seguenti obiettivi:
— 1077 — a) migliorare la cooperazione tra le autorità nazionali competenti per le attività di indagine e le azioni giudiziarie riguardanti le forme gravi di criminalità, in particolare di criminalità organizzata, che coinvolgano due o più Stati membri: b) nello stesso ambito, stimolare e migliorare il coordinamento delle indagini e delle azioni giudiziarie tra gli Stati membri, tenendo conto delle richieste delle autorità nazionali competenti e delle informazioni fornite dagli organi competenti ai sensi delle disposizioni adottate nell’ambito dei trattati. 2. L’Unità provvisoria fornisce consulenza agli Stati membri e al Consiglio, ove necessario, nella prospettiva della negoziazione e dell’adozione, ad opera del Consiglio, dell’atto che istituisce l’Eurojust. ART. 3. — 1. Gli Stati membri designano presso la formazione di cui all’art. 1 un procuratore, un giudice o un funzionario di polizia con pari prerogative che possa svolgere le funzioni di collegamento necessarie alla realizzazione degli obiettivi di cui all’art. 2 e dei compiti di cui al § 2 del presente articolo. Ai fini della realizzazione dei loro compiti questi membri possono organizzare missioni in uno Stato membro le cui autorità siano impegnate in attività di indagine o in azioni giudiziarie specifiche e riunirsi, se del caso, in qualsiasi altra sede. 2. Nell’ambito della legislazione nazionale di ciascuno Stato membro, in relazione agli organi competenti ai sensi delle disposizioni adottate nell’ambito dei trattati e nel rispetto delle rispettive competenze, i membri dell’Unità provvisoria contribuiscono ad assicurare un appropriato coordinamento e ad agevolare la cooperazione giudiziaria tra autorità nazionali competenti per le attività di indagine e le azioni giudiziarie riguardanti le forme gravi di criminalità, in particolare di criminalità organizzata, sempre che siano coinvolti due o più Stati membri. Il coordinamento potrebbe, in particolare, contribuire all’esame di soluzioni per l’avvio e lo svolgimento delle indagini e delle azioni giudiziarie. In particolare, i membri dell’Unità provvisoria dovrebbero appoggiare, per quanto possibile, il coordinamento e lo svolgimento delle attività delle squadre investigative comuni. ART. 4. — La Commissione è pienamente associata ai lavori dell’Unità provvisoria, a norma dell’art. 36, § 2, del trattato. ART. 5. — La presente decisione [2000/799/GAI] ha effetto alla data dell’adozione. Essa cessa di essere applicata alla data in cui ha effetto l’atto che istituisce l’Eurojust, atto che dev’essere adottato prima della fine del 2001. Fatto a Bruxelles, addì 14 dicembre 2000. Per il Consiglio Il Presidente D. GILLOT (Dalla G.U.C.E., L 324/3, del 21 dicembre 2000) (3).
Estradizione e detenzione ingiusta: la Federazione Russa e la Convenzione europea.
Ritornando su un tema già altre volte prospettato in questa rubrica (4), sembra il caso di ricordare che, al momento del deposito, in data 10 dicembre 1999, dello strumento di ra-
(3) Per il testo della circolare ministeriale illustrativa (Prot. n. 2.107.63 - 1/2060/01, in data 1o giugno 2001) si rinvia a Cass. pen., 2001, p. 2008. (4) Riparazione della detenzione ingiusta nei procedimenti di estradizione in questa Rivista, 1998,
— 1078 — tifica della Convenzione europea di estradizione, la Federazione Russa ha formulato la seguente dichiarazione (che prende effetto dal 9 marzo 2000): ‘‘La Federazione Russa non assumerà alcuna responsabilità per quanto concerne le domande di riparazione dei danni materiali e/o morali derivanti dall’arresto provvisorio di una persona nel territorio della Federazione Russa in applicazione dell’art. 16 della Convenzione’’.
La Turchia e l’estradizione.
‘‘Al contrario di Paesi come la Francia, la Svizzera o il Belgio che, accanto a convenzioni bilaterali o multilaterali di cui sono parte, hanno da tempo inserito i principi generali dell’estradizione nella loro legislazione interna, la Turchia non ha adottato una legislazione specifica in materia, limitandosi a menzionare alcuni princípi-base nell’art. 9 del codice penale, vale a dire: l’estradizione può essere concessa a condizione che la persona richiesta abbia commesso un crimine o delitto di diritto comune (e cioè diverso da un reato politico o connesso a un crimine o delitto politico, e da un reato militare), che non abbia la cittadinanza turca. Questa disposizione contiene soltanto dei principi del tutto elementari e non è sufficiente per risolvere tutti i problemi che possono porsi nel quadro di domande di estradizione fondate sulle consuetudini internazionali o sul criterio di specialità. Tale carenza, in linea pratica, non pone troppi problemi per il fatto che la maggior parte delle domande sono fondate su base convenzionale. Tuttavia sarebbe auspicabile che, a somiglianza di altri Paesi, come ad es. l’Austria, che ha legiferato in materia nel 1979, anche la Turchia adotti una legge in ordine a tutto l’ambito della cooperazione giudiziaria, estradizione compresa, che non solo potrebbe applicarsi nelle relazioni non disciplinate da convenzioni con la Turchia, ma anche supplire alle lacune delle convenzioni bilaterali. L’esistenza di una legge di estradizione consente di far riferimento al sistema nazionale a titolo sussidiario. Inoltre, essa consentirebbe una soluzione chiara nel dibattito dottrinale relativo alla possibilità di estradare verso Paesi non legati da convenzioni. Poiché il codice penale turco si è largamente ispirato al codice italiano Zanardelli del 1889, una parte della dottrina turca (5) in effetti si riporta alla dottrina italiana secondo la quale, in mancanza di una legge che espressamente lo preveda, in assenza di convenzioni l’estradizione non potrebbe essere concessa (6). (...) la pratica turca segnala però estradizioni concesse anche in assenza di convenzione (trad. da D. TEZCAN, L’extradition en droit turc, in Rev. sc. crim., 1996, pp. 800-801).
Italia-Turchia: associazione per delinquere e ‘‘doppia incriminabilità’’.
Pubblichiamo (omettendo l’epigrafe) il testo della sentenza 14 maggio 2001 della Corte d’appello di Milano, sez. V (presid. Riccardi, rel. Budano): « 1. Con domanda n. 2268/2000, in data 15 novembre 2000, del Procuratore Generale presso la Corte di Sicurezza di Stato di Istanbul e con ulteriore domanda n. 376/2001,
p. 1438; Estradizione e detenzione ingiusta: il nuovo trattato col Paraguay, ibid., 2000, p. 1259. V. inoltre — anche per il richiamo della pertinente Raccomandazione n. R (86)13 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa — Ind. pen., 1992, p. 695. (5) A questo proposito l’A. segnala la monografia sull’estradizione di E. ÖZGEN (1962, p. 9). (6) Com’è noto, invece, il comma 3o dell’art. 13 c.p. (1930), consente l’estradizione anche in mancanza di convenzione.
— 1079 — in data 23 febbraio 2001, del Procuratore presso il Tribunale Statale di Sicurezza di Istanbul (7), la Repubblica di Turchia ha chiesto alla Repubblica Italiana la ‘‘restituzione’’ del cittadino turco indicato in epigrafe, colpito dai due predetti ‘‘mandat[i] di arresto in contumacia’’, perché accusato; a) nella sua qualità di ‘‘Direttore Generale e Presidente del Consiglio di Gestione’’ della Sumerbank A.S. nel periodo 27 ottobre 1995 / 23 febbraio 1998, di avere ‘‘composto un’organizzazione con il proprietario e [gl]i amministratori della banca [e di avere] utilizzato i fondi della banca per i suoi interessi personali’’, rendendosi responsabile dei reati di ‘‘associarsi nell’inten[t]o di commettere delitti, fare apparire clandestinamente un credito, frode per il tramite della banca, violazione della Legge delle Banche (concussione)’’, il tutto in riferimento a una banca, come appunto la banca ridetta, ‘‘lasciata al Fondo d’‘Assurance des Dépots d’Epargne’ ... in data 22 dicembre 1999’’; b) nella sua qualità di ‘‘direttore generale e anche membro del consiglio d’amministrazione’’ della Etibank A.S. nel periodo 2 marzo 1998 / 1o marzo 1999, di avere ‘‘partecipa[to] all’organizzazione a delinquere formata dai dirigenti e proprietari della banca’’, banca ‘‘ceduta nel Fondo Assicurativo per Risparmi e Depositi con il decreto ministeriale del 27 ottobre 2000’’, e di avere in tal modo ‘‘commesso i reati di falso e truffa e stornamento [di] fondi bancari ... in complicità con il presidente del consiglio d’amministrazione e maggiore azionista della banca Dinç Bilgin ed altri membri e dirigenti’’. A sostegno delle domande in esame, lo Stato richiedente ha dedotto: sub a) che l’accusato, partecipe, in posizione eminente, di un’organizzazione criminale comprende ‘‘il proprietario e [gl]i amministratori della banca’’, non soltanto aveva reso possibile lo ‘‘stornamento’’ di ben dieci milioni di dollari — originariamente destinati alla Sumerbank — alla società Akmaya, società appartenente a Hayyam Gariboglu (‘‘grande azionista e membro del consiglio di gestione del[la] Sumerbank’’), ma aveva anche reso possibile la concessione di finanziamenti per complessivi 28.025.000 D.M. — finanziamenti, poi, non rimborsati — a società ‘‘apparten[enti] all’altro accusato Muhammet Ciger’’; sub b) che l’accusato, partecipe di un’organizzazione criminale comprendente ‘‘dirigenti e proprietari della banca’’, aveva reso possibile il trasferimento di ‘‘85.290.766.000.000 di lire turche’’ dalla banca amministrata alla banca New York Off Shore della Repubblica Turca di Cipro, la quale, come ‘‘mediatrice tra la banca [ridetta] e le società del gruppo Bilgin’’, aveva poi provveduto a ‘‘canalizza[re] i fondi nella disponibilità di queste ultime, senza mai ‘‘ripaga[rli], il tutto a vantaggio ‘‘del maggior azionista della banca, Dinç Bilgin’’. 2. Sulla base di tali domande e sull’assunto che ‘‘nel caso di specie’’, soggetto alla disciplina della convenzione multilaterale europea di estradizione del 13 dicembre 1957, ‘‘non ricorre alcuna causa ostativa all’accoglimento della richiesta dell’Autorità Turca’’, in particolare sussiste ‘‘il requisito della doppia incriminalità [e] i reati contestati alla persona richiesta sono previsti e puniti anche dalla legge italiana’’, trattandosi dei reati di ‘‘appropriazione indebita ed altro’’ relativamente alla domanda sub a) e dei reati di ‘‘associazione per delinquere, truffa e falso’’ relativamente alla domanda sub b), il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte ha chiesto di ‘‘deliberare favorevolmente per l’estradizione’’. Il K. (...) ed i suoi difensori si sono opposti. Sentite le parti, all’udienza del 14 maggio 2001 la Corte si è riservata di decidere. 3. A scioglimento della riserva predetta, il Collegio deve osservare: Sia nell’originaria domanda di estradizione sia nella successiva (la c.d. domanda aggiuntiva), l’accusa di associazione per delinquere formulata nei confronti dell’estradando si pro-
(7) Si tratta pur sempre di una Corte di sicurezza dello Stato, la Corte di Istanbul n. 6, mentre la domanda precedente proveniva dal Procuratore generale della Corte n. 5, della stessa sede. Sull’istituzione delle Corti turche di sicurezza dello Stato (ovvero dei famosi DGM) v. l. 11 luglio 1973, n. 1173 (in conformità all’art. 136 della Costituzione del 1961); art. 143 § 1 della Costituzione del 1982; l. 16 giugno 1983, n. 1983, n. 2845; art. 9 l. 12 aprile 1991; l. 1o agosto 1999, n. 4442.
— 1080 — fila come nulla di più di un concorso di persone nei reati di volta in volta addebitati (8). Infatti, fra gli elementi sottoposti all’esame della Corte non ne è enucleabile alcuno, che possa dar conto dell’effettiva esistenza di quel minimo di assetto organizzativo necessario perché il delitto in questione risulti integrato. E non è senza significato, del resto, che, in un tale contesto, manchi persino l’enunciazione del concreto obiettivo dell’associazione; l’enunciazione, cioè, di quel programma criminale che, nel vigente sistema, consente di distinguere il semplice accordo per la perpetrazione di uno o più reati determinati dall’accordo associativo — cosa questa, è appena il caso di notare, ben differente, anche ove dimostrabile per fatti concludenti soltanto —. Quanto agli altri reati considerati nelle domande, precisato da un canto che, in linea con il consolidato orientamento della Corte di Cassazione, questa Corte territoriale ritiene l’estradizione concedibile anche in presenza di un’eventuale diversità, negli ordinamenti interessati, della qualificazione giuridica degli illeciti addebitati — con la conseguenza che, nel caso in esame, non può attribuirsi negativo rilievo alla definizione degli illeciti (illeciti indicati, in fatto, nelle relazioni allegate alle domande ridette) in termini indubbiamente impropri per l’ordinamento italiano: ‘‘fare apparire clandestinamente un credito, frode per il tramite della banca, violazione della Legge delle Banche (concussione)’’, ‘‘falso, truffa e stornamento [di] fondi bancari’’ — e precisato dall’altro che, sempre in linea con il consolidato orientamento della Corte di Cassazione, questa Corte territoriale ritiene preclusa, nel sistema risultante dalla convenzione europea di estradizione, qualunque verifica della sussistenza di gravi indizi di colpevolezza nei confronti dell’estradando — con la conseguenza che, nel caso in esame, il rifiuto dell’estradizione non è riconducibile a valutazioni del genere, non si può non rilevare, tuttavia, che una puntuale indicazione degli specifici elementi di ascrivibilità degli illeciti all’estradando, comunque, non possa mancare; ed è sotto tale particolare profilo che le domande di estradizione appaiono, almeno allo stato, immeritevoli di deliberazione favorevole, non essendo dato sapere sulla base di quali specifici elementi di addebito gli illeciti risultino ascritti al K. (...), al di là delle formali qualifiche dallo stesso rivestite, di tempo in tempo, all’interno delle banche —. Del resto, la circostanza che l’autorità giudiziaria civile dello Stato richiedente, già investita dell’esame dei fatti di cui alla domanda di estradizione sub 1/b (la c.d. domanda aggiuntiva), avesse disposto in favore del K. (...), poco prima dell’avvio della vicenda penale cui l’estradizione si correla, non soltanto la restituzione del passaporto, ma anche la liberazione dei beni sequestrati, evidenzia l’incertezza riscontrabile in ordine all’effettiva riferibilità degli addebiti all’estradando, avvalorando, indirettamente ma inequivocamente, la conclusione testé formulata. 4. L’assorbente tenore di quanto detto dispensa dall’esame di ogni altra questione, segnatamente dall’esame delle questioni relative alla non concedibilità dell’estradizione ex art. 705, comma 2, c.p.p. (9). 5. La deliberazione sfavorevole alla richiesta di estradizione del K. (...) comporta la revoca delle restrizioni e degli obblighi imposti al medesimo, già in stato di custodia cautelare e rimesso, poi, in libertà con l’obbligo di presentazione periodica all’autorità di polizia. P.q.m. — la Corte di Appello di Milano pronuncia sentenza contraria all’estradizione, dall’Italia in Turchia, di K. (...) S. (...), nato a T. (...) (Turchia) il 1o febbraio 1947, revo-
(8) È il caso di ricordare che il codice Zanardelli — al quale, v. supra, il codice turco in vigore si è largamente ispirato — disciplinava la figura dell’associazione per delinquere (art. 248), mentre non configurava alcuna particolare aggravante quanto al numero dei concorrenti nel reato. (9) Tali questioni erano state ovviamente prospettate e argomentate dalla difesa. È nota l’aspirazione della Turchia di entrare a far parte dell’Unione Europea. Orbene, nella risoluzione del Parlamento europeo del 6 ottobre 1999, riguardante tale Paese, è stata auspicata l’abolizione delle Corti per la sicurezza dello Stato. Nello stesso senso v. le più recenti conclusioni della Presidenza del Consiglio Europeo (Helsinki, dicembre 1999). Quanto alla giurisprudenza della Corte europea v., da ultimo, la sent. 21 dicembre 2000 (rich. n. 28340/95), nella causa Büyürdach c. Turchia.
— 1081 — cando, per l’effetto, le restrizioni e gli obblighi imposti al medesimo, segnatamente l’obbligo di presentazione periodica all’autorità di polizia ».
Italia-Egitto: accordi di cooperazione internazionale.
Il 15 febbraio 2001 sono stati sottoscritti a Il Cairo, nelle lingue italiana, araba e francese, tre nuovi accordi di cooperazione internazionale in materia penale: — un accordo di assistenza giudiziaria (di 24 articoli); — un accordo di estradizione (di 22 articoli); — un accordo sul trasferimento delle persone condannate (di 23 articoli). Nella stessa data è stato sottoscritto un accordo tra i ministri della giustizia dei due Paesi con lo scopo (art. 1) ‘‘di avviare una cooperazione bilaterale al fine di: — condividere le esperienze in materie giuridiche e giudiziarie di interesse comune; — esaminare le modalità più idonee per affrontare problematiche che possono sorgere relativamente al trattamento dei cittadini dell’altro Paese o le relazioni fra cittadini ed imprese di entrambe le Parti; — analizzare questioni che potrebbero rivestire un interesse comune per i Paesi del bacino del Mediterraneo ed elaborare proposte da sottoporre congiuntamente nei consessi internazionali competenti’’. L’accordo prevede la costituzione di un gruppo di lavoro, la cooperazione diretta (mediante ‘‘gemellaggio’’) fra le autorità giudiziarie dei due Paesi, l’attivazione di diversi moduli organizzativi.
L’Australia come rifugio.
« ...Perché scelse di rientrare in Australia? Lo spiega il ricercatore australiano Mark Aarons nel libro ‘‘Santuario’’: secondo Aarons, almeno 500 criminali nazisti si rifugiarono in Australia dopo la guerra. Non è una follia, nascondersi nel Paese con la minor densità di popolazione del mondo? No, anzi. Alla fine della guerra, l’Australia aveva bisogno di immigrati, e non guardava troppo per il sottile al loro passato. ‘‘Questo Paese è un buco nero di criminali di guerra’’ — dice Aarons —. È come se sapessero che qui possono vivere impunemente. Anche oggi: ‘‘Membri della polizia segreta afghana all’epoca dell’occupazione sovietica, centinaia di veterani della pulizia etnica nei Balcani, aguzzini del regime cambogiano di Pol Pot: tutti rifugiati in Australia’’ ». (M. FARINA, Australia, in trappola l’aguzzino nazista, in Corriere della Sera del 30 maggio 2001, p. 12).
Una lacuna che permane.
« ...Pongo termine a questo studio concludendo che, come affermai fino dal principio, la mancanza di una legge speciale sulla estradizione, che completamente la regoli, costituisce nella nostra legislazione una vera lacuna di fronte ad altri paesi che hanno leggi speciali su tale materia. Sarebbe perciò desiderabile che anche l’Italia nostra adottasse lo stesso sistema, essendo evidenti i vantaggi da esso derivanti, sistema che si voleva attuare nel 1881 colla legge il cui
— 1082 — Progetto venne accuratamente elaborato dalla Commissione istituita dall’on. MANCINI per lo studio della importantissima materia della estradizione. Ma siccome non è molto facile la realizzazione di siffatto desiderio, per le difficoltà, come già accennai, che rendono presso di noi così lente le riforme legislative, dobbiamo essere lieti che siasi colta l’occasione del nuovo Codice di procedura penale per riempire, se non totalmente, almeno parzialmente, l’accennata lacuna, colle disposizioni del capo II del titolo IV sulla estradizione. Con tali disposizioni si viene a completare la saggia riforma, iniziata dal Codice penale del 1889 colla trasformazione della estradizione da istituto amministrativo in istituto essenzialmente giudiziario, con disciplinare le norme di procedimento della estradizione tanto passiva, quanto attiva ». (P. ESPERSON, La estradizione nel Progetto del nuovo Codice di procedura penale, in Giust. pen., 1906, c. 559).
LA RIFORMA DEL CODICE PENALE
LA DISCIPLINA DEL CONCORSO DI PERSONE
1. In tema di concorso di persone nel reato gli autori del Progetto si sono in primo luogo preoccupati di superare la formula omnicomprensiva del vigente art. 110, ritenuta inespressiva, inadeguata a uno standard accettabile di tassatività, foriera di aggiramenti del presidio garantistico dell’art. 25.2 Cost. Il rimedio è stato trovato nella riproposizione di una tipologia tradizionale, ovvia e risaputa, articolata nei sottotipi della correità, della partecipazione morale e della partecipazione materiale. Con l’avvertenza, al tempo stesso, di non ricadere nell’esperienza negativa del Codice Zanardelli, che alle molteplici figure di compartecipi accuratamente disegnate ricollegava trattamenti punitivi differenziati. Non può che apprezzarsi la coerenza con cui il progetto tiene separate le due funzioni dell’istituto: l’estensione della punibilità agli apporti che sfuggirebbero alla presa delle fattispecie di parte speciale e un’equa graduazione della risposta sanzionatoria. Questa seconda prospettiva è infatti affidata alle circostanze aggravanti e attenuanti dell’art. 46, le quali non interferiscono in alcun modo con la casistica dell’art. 45.1, chiamata a delimitare la fattispecie di base. Anche se in ultima analisi il punto di arrivo non è, né poteva essere, diverso dall’assetto attuale, in cui principio dell’equiparazione, fissato dalla norma a doppio uso dell’art. 110, viene derogato dalle circostanze degli artt. 112 e 114. Il Progetto spinge lo scrupolo fino a non collegare alla definizione dell’art. 45, co. 1 una diretta affermazione di responsabilità, ricavabile solo dal co. 2 (congiuntamente al presupposto inderogabile della colpevolezza). Mi sia lecito dubitare che una casistica per sommi capi, estremamente schematizzata, come quella del co. 1, segni un passo decisivo sul cammino della determinatezza. Casistica oltre tutto incompleta, che lascia fuori un fenomeno di primario rilievo quale il concorso omissivo, per omesso impedimento, che affiora a più riprese dalle disposizioni del Capo intitolato alla « Responsabilità per omissione », dominato dall’assillo di ricondurre a tassatività le posizioni di garanzia. Altre sono però le mie ragioni di perplessità. Mi ha colpito un passag-
— 1084 — gio della Relazione della Commissione ministeriale: dopo di avere duramente stigmatizzato l’« opzione causale » proposta dal legislatore del 1930 come criterio di tipizzazione delle condotte concorsuali, tale documento non a torto denuncia la tendenza della giurisprudenza di legittimità a dilatare oltre misura l’area della compartecipazione. Per così concludere: « Questo criterio amplissimo, che dà rilievo a contributi anche non rigorosamente causali, fa rilevare sul terreno del concorso condotte che si sono limitate ad incrementare il rischio della produzione dell’evento, concede indiscriminata rilevanza ad ogni condotta agevolatrice o di rinforzo, deve essere superato in sede di riforma. Attraverso una norma che dia invece rilevanza soltanto a condotte sicuramente causali in ordine alla condotta di un altro concorrente o al comune evento criminoso attraverso una dettagliata descrizione delle condotte tipiche ». Siamo così al punto critico. Non mi pare che l’articolato rifletta davvero una siffatta impostazione di principio. Diamo uno sguardo alla casistica dell’art. 45.1. Nessun problema per l’ipotesi di partecipazione all’esecuzione, che attinge direttamente alla tipizzazione di parte speciale (magari allargata a ricomprendere gli « atti immediatamente antecedenti », secondo la definizione che l’art. 43 fornisce del tentativo). Si prenda invece la prospettazione del concorso morale, che si avvale di due voci semanticamente disomogenee. Il verbo « determinare » richiama un effetto empiricamente ben individuato e, almeno tendenzialmente, verificabile. Il vocabolo « istigare » denota invece una modalità operativa, un tipo di messaggio, un impulso a delinquere, lasciando però in ombra il momento effettuale. Chiunque può essere « istigato » a commettere un reato, anche l’omnimodo facturus, che invece non è suscettibile di « determinazione », già essendosi determinato. Ancor più evidente, specie alla luce del noto dibattito dottrinale, l’ampia apertura del termine « agevolare », che descrive il concorso materiale, cui poco aggiunge l’alternativa modale « fornendo aiuto o assistenza ». Per non dire dell’ambigua collocazione della particella « ne » (logicamente riferita al reato in cui si concorre, ma topograficamente contigua all’« altro concorrente » oggetto di determinazione o istigazione). Tale definizione in termini di « agevolazione » ci riporta alle posizioni dello Schema Pagliaro, nel cui art. 26 il contributo « agevolatore » figura in alternativa a quello « necessario », con la precisazione che si concorre per agevolazione « nei casi in cui la condotta ha reso più probabile, più pronta o più grave la realizzazione dell’evento offensivo ». Soluzione autorevolmente sostenuta, ma dalla quale la Relazione al Progetto prende decisamente le distanze, rilevando come essa « realizzi in misura ancora insufficiente le esigenze di tipizzazione degli apporti causali idonei a rilevare come concorso nel reato ».
— 1085 — Si confronti del resto l’agevolazione come forma di concorso con la « condizione necessaria », che nell’art. 13.1 individua il rapporto di causalità, e con il giudizio controfattuale in termini di « certezza » cui l’art. 14 vincola la causazione per omesso impedimento. Mentre ai sensi dell’art. 15 il sensibile aumento del rischio di verificazione dell’evento si inquadra nella nozione di « pericolo concreto », in un’ottica anticipatoria e ipotetica. La differenza è infatti di angolo visuale: mentre il contributo « necessario » (anche marginale, anche di minima entità) si misura a posteriori, sul fatto criminoso concretamente verificatosi, l’« aumento del rischio di verificazione » rimanda a una valutazione ex ante. Mi sembra in conclusione fin troppo evidente che in materia di concorso la problematica causale non è esorcizzabile e postula una soluzione chiara e univoca. Il problema del « requisito minimo » è essenzialmente un problema di collegamento causale fra il singolo apporto e l’opera comune, ben più che di incasellamento in questa o quella sottospecie. Direi di più: malgrado la sua deprecata genericità la locuzione « concorso nel reato » è ancora la più pregnante e dice ben più di un nomen iuris di categoria, risolvibile in una serie di varianti specifiche. Dire « concorso nel reato » equivale a sottolineare l’esigenza di un collegamento effettuale tra le condotte concorsuali, comunque configurate, e la realizzazione concreta: dire « concorso » è cioè dire « contributo », comunque fornito di efficacia. In quest’ottica un’innovazione significativa — di dubbia coerenza con la definizione base — va salutata nell’art. 49 che codifica gli esiti dell’elaborazione dottrinale in tema di ravvedimento del concorrente. Subordinando l’esclusione della punibilità alla neutralizzazione integrale degli effetti della propria condotta, ovvero all’impedimento della consumazione, il co. 2 ripropone per trasparenza il substrato causale della compartecipazione. Gli « effetti della propria condotta » altro non sono che il contributo individuale del concorrente ravveduto: contributo la cui effettiva neutralizzazione è accertabile solo a posteriori, al pari della perdurante efficacia. Una valutazione pronostica è richiesta invece dal co. 2 per il caso che intervenga un’altra causa a impedire la consumazione: l’esclusione della punibilità presuppone allora l’idoneità (ex ante), oltre alla volontarietà, del ravvedimento (a meno che — è sottinteso — il blocco prematuro dell’iter criminis non precluda la responsabilità di tutti i concorrenti). 2. Non si può non plaudire all’enunciato del co. 2 dell’art. 45, che pone la colpevolezza come limite inderogabile alla responsabilità di ciascun concorrente, eliminando ogni residuo di responsabilità oggettiva in nome del principio proclamato nel co. 1 dell’art. 28: la colpevolezza presupposto indefettibile della responsabilità penale.
— 1086 — Con l’aggancio alla categoria unitaria della colpevolezza l’originalità della « forma di manifestazione » rappresentata dal concorso di persone resta in certo modo confinata sul terreno dell’oggettività; mentre la valorizzazione dell’atteggiamento psicologico di ogni singolo concorrente viene demandata alle regole generali dell’apposito Capo (il III) del Titolo II, senza deroghe né sconti. Il che ovviamente non esclude il compito della dottrina e della giurisprudenza di adattare le figure del dolo e della colpa alla variegata fenomenologia della partecipazione criminosa. L’enunciazione della colpevolezza come limite assume pienezza di portata alla luce di due ulteriori innovazioni del Progetto: la soppressione da un lato dell’art. 113, dall’altro dell’art. 117. a) Caduta la separata previsione del « concorso nel reato » e della « cooperazione nel delitto colposo », la fattispecie plurisoggettiva dell’art. 45 diventa un contenitore entro il quale possono convivere manifestazioni dolose e manifestazioni colpose: senza preclusioni di legge, salvo il rispetto dovuto alle nozioni generali di dolo e di colpa, che potranno adattarsi alla varietà dei rapporti fra concorrenti, non però deformarsi. Fuori dalla casistica dell’art. 45.1 sarà in particolare la tematica dell’omesso impedimento da parte del garante a esigere scrupolosa aderenza alle nozioni di dolo e di colpa: la responsabilità oggettiva può facilmente mascherarsi dietro una responsabilità di posizione affatto priva di basi legali. b) Dalla soppressione sic et simpliciter dell’art. 117 discende, in virtù del principio di colpevolezza in funzione di limite, la responsabilità per reato comune in capo al concorrente estraneo che, ignorando la qualifica del consocio intraneo, che fa mutare il titolo di reato, non possa rispondere a titolo di dolo del reato proprio. Nel contenitore del « concorso » verrebbero così a confluire anche diversi titoli di reato, fra loro differenziati dalle condizioni o qualità personali del colpevole o dai rapporti fra il colpevole e l’offeso. Ma lo stesso fenomeno può verificarsi anche al di fuori di un mutamento di titolo nel senso dell’art. 117. Basti pensare a diverse figure di reato in rapporto di continenza: può accadere che, in ragione del rispettivo volere, qualche concorrente risponda di rapina, altri solo di furto, secondo la soluzione prospettata nell’art. 29.2 dello Schema Pagliaro. Senza, sia chiaro, che perciò venga meno la comune cornice concorsuale: segnalata dalla messa in comune (con estensione a tutti i concorrenti) della materialità del reato e relativa tipicità: estensione, eventualmente, anche solo parziale; nonché dalla comune esigenza di un principio di esecuzione, ribadita dall’art. 48, equivalente all’odierno art. 115. c) In questo sistema il persistere di una disciplina del « reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti » si spiega in ragione del tormentato precedente dell’attuale 116. La soluzione dell’art. 47 del Pro-
— 1087 — getto è in termini di colpa, sul duplice presupposto che della colpa ricorrano gli estremi e che il fatto sia preveduto dalla legge come delitto colposo. Il ripiego della colpa sembra però porsi come extrema ratio, dovendo prevalere l’imputazione a titolo di dolo ogni volta che il reato voluto dal singolo concorrente sia contenuto in quello effettivamente commesso (come il furto nella rapina). In conclusione, sembra opportuno un migliore coordinamento fra il principio dell’art. 45.2 e l’applicazione dell’art. 47 (quest’ultima ad avviso della Relazione « sostanzialmente inutile »). Anche sul piano sanzionatorio quest’ultima disposizione mi sembra insufficiente. Il rigoroso ripudio del versari in re illicita non preclude un adeguamento della risposta sanzionatoria alla misura della colpevolezza. Ciò per un’esigenza di proporzionalità, insita nel concetto stesso di colpevolezza come limite: indipendentemente dalle preoccupazioni di prevenzione generale che la Relazione reputa infondate. Un aumento di pena mi sembra spettare al concorrente che risponda a solo titolo di colpa, in ragione della componente psicologica dolosa data dalla volontà indirizzata a un reato diverso. Lo stesso si dica per il concorrente che risponde a titolo di dolo del reato minore (di furto anziché di rapina), avendo però cagionato colposamente il reato più grave. A ben vedere, quando si passa a esaminare la colpevolezza del concorrente e i relativi limiti, è ben difficile scindere il problema del titolo dell’imputazione da quello della congruità del trattamento punitivo. 3. Anche il sistema di circostanze cui l’art. 46 affida la graduazione della risposta sanzionatoria non mi sembra del tutto soddisfacente. a) Nessun dubbio che l’attenuante dell’art. 114, la cui conformazione troppo riduttiva è esasperata dalla discrezionalità applicativa, meriti di essere riscritta e resa obbligatoria. Ritengo però che l’attributo qualificante della « rilevanza oggettivamente modesta » riesca più intelligibile se venga riferito, piuttosto che alle « condotte attive », al contributo individuale del partecipe alla realizzazione comune (all’« opera prestata », nel linguaggio del 114). Con il vantaggio, inoltre, di lasciare intendere che non può darsi concorso in assenza di qualunque tangibile contributo, neanche minimo. b) Non mi persuade l’attenuante del n. 2: dare per scontata una sminuita rilevanza delle condotte di concorso omissivo, violatrici di un obbligo giuridico di impedimento, equivale a svalutare le posizioni di garanzia così accuratamente disciplinate, anche quelle che si radicano in strettissime relazioni interpersonali o in rapporti di supremazia di natura pubblica o privata. La discrezionalità dell’effetto non sembra temperamento sufficiente,
— 1088 — potendo anzi esasperare le disparità di trattamento. Quanto alla deroga « fuori dei casi di previo accordo », ne pare evidente la non pertinenza, poiché il previo accordo comporta un’adesione che va ben al di là, da parte del garante, della pura omissione del doveroso impedimento. c) Quanto all’aggravante del n. 3, mi chiedo se una circostanza a effetto ordinario basti a fronteggiare il disvalore di un fenomeno allarmante come l’impiego nel reato di persone totalmente o parzialmente incapaci. Le recenti addizioni agli art. 111 e 112 meritano di essere depurate di un certo sapore di emergenzialità, ma rispondono a bisogni di prevenzione da non trascurare. All’aggravante dovrebbe poi fare riscontro un’attenuante speculare a favore delle persone determinate a commettere il reato, come nel vigente art. 114. CESARE PEDRAZZI
UN MODELLO DI TENTATIVO PER IL CODICE PENALE (*)
SOMMARIO: 1. Introduzione. — 2. Ambito di applicazione della fattispecie di tentativo. — 3. L’elemento soggettivo: il dolo intenzionale. — 4. L’elemento oggettivo: gli atti esecutivi. — 5. L’elemento oggettivo: gli atti idonei. — 6. Disciplina sanzionatoria. — 7. Una proposta di norma sul tentativo.
1. Introduzione. — Mediante i suoi editti e le sue minacce contro i fatti più gravemente dannosi l’ordinamento penale mira a orientare i destinatari sui massimi valori e disvalori sociali e insieme esercita astratta funzione preventiva deterrente. Ma dove e quando quei precetti restano nel concreto inascoltati e disattesi e dunque inefficace risulta quella funzione di prevenzione generale, la giustizia penale arriva troppo tardi, entra in azione quando ormai il danno si è verificato: la vittima dell’omicidio è morta e la vittima della rapina è stata spogliata del suo bene. È vero che il diritto di polizia getta un ponte tra legge penale e giustizia penale, nel senso che opera per prevenire in concreto la realizzazione di quei delitti di danno, ma nei tempi recenti il diritto penale va appropriandosi di parte del campo tradizionalmente affidato al diritto di polizia e tende vieppiù a intervenire anticipatamente con le sue sanzioni contro i fatti di pericolo di danno. Il mondo contemporaneo conosce in dimensioni sempre più grandi il diritto penale del pericolo accanto al diritto penale della lesione, a tutela di beni di importanza capitale, come l’ambiente, la salute e l’economia. Ma al di là di tale moderna estensione di competenza, l’ordinamento ha fin dalle origini sottratto al diritto amministrativo di polizia, consegnandoli al diritto penale, quei fatti aggressivi che sono consapevolmente diretti alla realizzazione di eventi di danno e ha trattato anch’essi come reati: reati di tentativo; motivandone la punibilità in ragione della loro pericolosità per i beni giuridici e della colpevole volontà che li dirige. Queste due funzioni, pericolo e volontà, hanno da sempre accompagnato, anzi connotato la figura penale del tentativo, o con pari rilevanza o con rango e risalto diverso a favore dell’una o dell’altra componente, a seconda del (*) Si tratta del testo della Relazione tenuta al Convegno su La riforma del codice penale. La parte generale, Pavia, 10-12 maggio 2001.
— 1090 — periodo storico e del sistema politico, a seconda che prevalga il diritto penale del fatto o il diritto penale dell’atteggiamento interiore. Comunque sia, l’oggettivismo del pericolo e il soggettivismo della volontà sono i due grandi poli del tentativo. Di questa realtà è consapevole la dottrina contemporanea: « L’istituto del tentativo rappresenta sempre un fondamentale banco di prova del modello del diritto penale fatto proprio da qualsiasi legislatore: sia la struttura che il trattamento sanzionatorio del tentativo sono infatti diversi a seconda che ci si ispiri a una concezione del reato di impronta soggettivistica o sintomatica, ovvero, all’opposto, alla concezione del reato come offesa a un bene giuridico. Nella prima ipotesi il legislatore considera responsabile di tentativo chiunque manifesti, in qualsiasi modo la volontà di — o la inclinazione a — commettere questo o quel fatto di reato e punirà nella stessa misura chi tenta di commettere il reato e chi lo porta a consumazione. Nella seconda ipotesi, invece, la punibilità del tentativo sarà innanzitutto fondata sulla creazione, o sulla mancata neutralizzazione, di un pericolo per il bene giuridico tutelato dalla norma che prevede il corrispondente reato consumato; d’altra parte il reato tentato, incarnando un’offesa meno grave rispetto al reato consumato, sarà sanzionato con una pena obbligatoriamente più lieve » (1). 2. Ambito di applicazione della fattispecie di tentativo. — Essendo gli ordinamenti contemporanei improntati al diritto penale del fatto e della colpevolezza, e, almeno come intento, al diritto penale come rimedio estremo di controllo sociale, ogni legislatore del presente e del futuro è chiamato a decidere coerentemente: quali requisiti oggettivi e soggettivi devono contraddistinguere il tentativo punibile, quale sanzione assegnargli e prima ancora a quali fattispecie di reato (consumato) accordare una anticipazione della tutela nella forma del corrispondente reato tentato. In teoria il legislatore ha a disposizione le seguenti opzioni: a) prevedere la rilevanza della forma tentata per tutte le fattispecie di parte speciale, consentite nei limiti della concepibilità e compatibilità logica (cosi è a priori esclusa la figura del tentativo di attentato); b) all’opposto, prevedere solo fattispecie di tentativo singolarmente nominate nella parte speciale (era la formula del codice tedesco del Reich, 1871); c) in mezzo stanno le scelte operate da (tutti?) gli ordinamenti vigenti, che nella parte generale del codice contemplano una disposizione sul tentativo collegata a individuate categorie astratte di reati della parte speciale. Così in Italia e in Spagna vige la regola che delle due categorie di (1) MARINUCCI e DOLCINI, Corso di diritto penale, 3 ed., 2001, p. 528 s. (con postilla di storia del diritto alla nota 6). Nello stesso senso SEMINARA, in Verso un nuovo codice penale, 1993 (Atti convegno Centro studi Cesare Terranova, Palermo, novembre 1991), p. 441, 447.
— 1091 — reato contemplate nell’ordinamento, delitto e contravvenzione, solo per i delitti e non per le contravvenzioni è prevista la rilevanza del tentativo. Similmente avviene in Germania, dove sono punibili i tentativi di Verbrechen e non i tentativi di Vergehen. In Francia è sempre punibile il tentativo di crimine, eccezionalmente il tentativo di delitto e mai il tentativo di contravvenzione. Invece in altri ordinamenti la selezione dei tentativi rilevanti è legata all’indice della gravità della pena comminata per i corrispondenti reati consumati: in Portogallo la rilevanza del tentativo è prevista, salvo deroga espressa, con riferimento ai reati consumati punibili nel massimo con più di tre anni di prigione; in Slovenia, con riferimento ai reati punibili con almeno tre anni di detenzione e in Croazia, riguardo ai reati punibili con almeno cinque anni di carcerazione. Dappertutto la rilevanza del tentativo è limitata ai reati dolosi ed esclusa per quelli colposi. Ebbene, la scelta del futuro legislatore italiano può trovare proprio sul punto dell’ambito di applicazione della fattispecie di tentativo uno dei terreni pertinenti per l’esplicazione effettiva del sempre ostentato e mai concretizzato principio di selezione (o di ultima ratio) (2). Se si porta uno sguardo al codice vigente, si può notare che la selezione apportata all’area del tentativo mediante la sua limitazione ai delitti, è modesta. Nulla vieta oggi in Italia di punire il tentativo di minaccia, di rissa, di appropriazione indebita, di falsità documentali, di bigamia, di simulazione reale di reato, e così via. Nel progetto 92 era confermato il collegamento tra tentativo e delitti, ma essendo anche là, come nel codice vigente, molto vasta l’area dei delitti, assai ridotta ne risultava la selezione dell’area del tentativo. Anche il progetto 2000 limita la rilevanza del tentativo ai delitti (3), ma non si può sapere se si tratta di una congrua limitazione, poichè il progetto non ha elaborato (per ora) la parte speciale delle singole fattispecie incriminatrici. Se si prosegue a operare con il sistema della bipartizione tra delitti e contravvenzioni, dove queste ultime recitano una parte meramente residuale, c’è da dubitare che la selezione delle fattispecie di tentativo, operata mediante il loro riferimento alla categoria dei delitti, possa essere di grande effetto (4). (2) Cioè il cd. principio di frammentarietà. Ma, a rigore, « frammentarietà » significa nel linguaggio comune l’essere privo di unità organica e corrisponde dunque alla « disorganicità », e invece se c’è una cosa che deve essere organica questa è un codice; un codice deve aspirare a essere più organico possibile e meno « frammentario » possibile. Antepone a tutti i princìpi quello di ultima ratio FORTI, Relazione alla Conferenza nazionale dell’Isisc sul Progetto di riforma della parte generale del codice penale, Siracusa, novembre 2000. (3) Commissione per la riforma del codice penale, Relazione finale, su Internet, www.giustizia.it/studierapporti/riformacp/comm-grosso2.htm, p. 40. (4) PALAZZO e GROSSO, Documento n. 6, in Quaderni Indice Penale, 2000, p. 154: « Indubbiamente, il sistema bipartito può comportare il rischio che nella vasta categoria dei delitti confluiscano, accanto a fatti di indubbia gravità, anche reati poco significativi ». Gli
— 1092 — A questo proposito (anche se non va sottaciuta la prospettiva molto settoriale da cui qui è formulata l’ipotesi) sarebbe forse il caso di prendere in considerazione la scelta del codice francese, che opta per una tripartizione fra crimini, delitti e contravvenzioni, con fra altre la conseguenza che se ne trae in ordine alla punibilità delle fattispecie tentate (5). Se ora si volge lo sguardo alla superficie dell’esperienza giuridica (documentabile anche attraverso le statistiche giudiziarie, se in Italia fossero analitiche e esaurienti e non si riducessero — alludo a quelle dell’Istat — a poverissima cifra) (6), si nota che il totale dei reati tentati presi in considerazione dall’autorità giudiziaria corrisponde a una quota inferiore al 10 per cento del totale dei reati, con oscillazioni rilevanti nella frequenza a seconda delle singole fattispecie (7). La quota percentuale dei reati tentati rispetto al totale dei reati (consumati e tentati) è particolarmente elevata (attorno al 70 per cento in Germania e del 50 per cento in Italia) con riferimento ai delitti di omicidio e di estorsione, medio bassa (circa il 10 per cento) in tema di sequestro estortivo e di rapina, bassissima in tema di danneggiamento (0,5 per cento) (8). Tali cifre rivelano due fenomeni distinti: in primo luogo che, riguardo ai tipi di reato di pari gravità o quasi, Autori inoltre rilevano (p. 155): « Nonostante che la maggioranza della Commissione non inclini a individuare in via legislativa tipologie criminose sottratte come tali alla applicabilità della norma sul tentativo, non è mancato chi tuttavia ha raccomandato di prendere in considerazione una siffatta eventualità, che probabilmente rispecchierebbe anche ragioni sostanziali messe in luce dalla realtà criminologica e dall’esperienza giudiziaria ». (5) Per inciso, una superficiale notazione (forse non solo) terminologica: se si restasse fermi, per ragioni magari plausibili, alla logica della bipartizione, perché non utilizzare le figure di crimine e di delitto e riservare il nomen contravvenzione all’illecito amministrativo? In fondo la gente comune — se ne si concede il richiamo — quando pensa alla contravvenzione ha tuttora in mente le infrazioni del codice della strada, dal divieto di sosta al divieto di transito in zona pedonale. Se si riducesse coraggiosamente l’area della rilevanza penale (volendo veramente dare fede all’idea di ultima ratio), il diritto penale attuale diventerebbe vero e proprio diritto criminale. E contro l’usuale obiezione che depenalizzare comporta anche il costo di affidare all’autorità amministrativa il controllo dell’area di illiceità depenalizzata, con minori garanzie d’imparzialità e obbligatorietà di azione rispetto all’autorità giudiziaria, si potrebbe proporre l’affidamento della persecuzione degli illeciti amministrativi (più rilevanti) a un’autorità giurisdizionale minore (come il giudice di pace). In fondo anche il Progetto 2000 conosce illeciti « parapenali », quelli delle persone giuridiche, assegnati alla cognizione dell’autorità giudiziaria. (6) Sul tema che qui interessa, il tentativo, nelle tabelle dell’Istat sono poste in evidenza le sole figure di tentato omicidio, tentato omicidio del consenziente (!), rapina tentata, estorsione tentata, tentativo di sequestro di persona a scopo di estorsione. Dunque, a parte un’intrusione, sono considerate, sì, fattispecie tra le più gravi del codice, ma non esistono cifre sul delitto impossibile, sul rapporto tra condanne e assoluzioni di imputati di delitti tentati, sulle cause di assoluzione, sulle derubricazioni in corso di processo del titolo di reato, sulle archiviazioni e i motivi di archiviazione, e così via. (7) J. MEYER, in ZStW, 1975, p. 598 ss. (8) ISTAT, Statistiche giudiziarie penali, anno 1996, in Annuario Istat, 1998, p. 49 ss.
— 1093 — il rapporto di frequenza del tentativo rispetto alla consumazione è dipendente dalla realtà fenomenica e strutturale dei singoli tipi di delitto: il rapporto è alto nei delitti con bassa potenzialità di riuscita (come gli omicidi e le estorsioni) ed è viceversa piccolo nei delitti con grande potenzialità di successo (come i sequestri e le rapine). In secondo luogo, la quota estremamente bassa dei tentativi di reati minori nel rapporto con i corrispondenti fatti consumati (come nel danneggiamento) mette in risalto che la propensione alla denuncia da parte della vittima di fatti di tentativo è in generale direttamente proporzionale alla gravità del reato. Ciò può dipendere e dalla coscienza nella popolazione della bagatellarità dei reati minori e dalla sua sensazione (realistica) che l’autorità giudiziaria impiega misure diverse di impegno nelle indagini, proporzionalmente all’indice, appunto, di gravità dei reati. Altro dato interessante è il rapporto di frequenza tra esercizio dell’azione penale e condanna: in tema di omicidio esso è diverso (in senso discendente) a seconda che riguardi omicidi consumati o omicidi tentati: in Italia, nel 1996, il totale degli omicidi denunciati è stato di 1497 e il totale degli omicidi tentati di 1336; ma nello stesso anno le condanne per omicidio sono state 343 e per tentato omicidio 209 (9). Si può ragionevolmente presumere che tale scarto (ancora più sensibile se si considera che non di rado a singola azione penale corrispondono più condanne, nei casi di concorso di persone) dipenda dall’accertabilità processuale, per natura più difficile per il fatto tentato rispetto al fatto consumato, oltrechè dall’eventualità di derubricazione del titolo di reato, più frequente nei casi di tentativo che nei casi di consumazione (per es. da tentato omicidio a lesioni). La scarsa disposizione alla denuncia di tentativi di reati lievi, la minore spendita di energie indagatrici e accusatorie con riguardo ai delitti minori, tanto più se solo tentati, la più ardua verificabilità processuale degli elementi del fatto tentato (dolo, univocità e idoneità degli atti) rispetto a quelli del fatto consumato inducono a ritenere fattispecie di « facciata » molte delle ipotesi di delitto tentato del codice vigente. Certo, sul piano della concreta deflazione del carico giudiziario processuale una depenalizzazione all’interno dell’area delle fattispecie di tentativo sortirebbe effetti trascurabili. Ma non è questo il punto, il punto è che la tavola dei valori e disvalori incarnata nel codice penale ne guadagnerebbe in termini di congruità, trasparenza e persuasività. La conclusione di questo piccolo discorso è che il principio di selezione risulta meglio garantito, se agli effetti della rilevanza della forma tentata dalla vastissima categoria dei delitti si estrae la classe dei delitti gravi, designata con la tecnica del rinvio al livello sanzionatorio: tre anni (9) ISTAT, cit., p. 208 (con la precisazione, ma probabilmente non influente, che le condanne si riferiscono a fatti commessi ovviamente negli anni precedenti).
— 1094 — di detenzione massima, o chissà, proporzionalmente alla scala sanzionatoria generale, si presume temperata, che il legislatore sovranamente vorrà determinare. Allora esclusivamente tale classe di delitti superiori ricomprenderebbe tra le sue fattispecie quelle di tentativo, e l’effetto di selezione sarebbe raggiunto. 3. L’elemento soggettivo: il dolo intenzionale. — Secondo il significato lessicale metagiuridico il tentativo di qualcosa implica una volontà indirizzata al raggiungimento di quel qualcosa, dunque una volontà intenzionale. Trasposto nel campo giuridico ciò significherebbe esigenza di un dolo intenzionale. Tuttavia nel diritto comparato si ritiene comunemente che il dolo del tentativo si atteggi nelle medesime forme riconosciute valide per il delitto consumato, dunque pure comprensivo del dolo eventuale. Solo in Italia, anche per influenza della formulazione dell’art. 56 (che parla fra l’altro di atti « diretti in modo non equivoco a commettere un delitto »), è invece oltremodo discusso se la forma tentata consenta la rilevanza giuridica del dolo eventuale. Gli argomenti pro e contro tale rilevanza sono noti (10). Alla fine si può comunque anche pensare che nella formula vigente il requisito di « direzione non equivoca » abbia duplice valenza con pari dignità: oggettivistica e soggettivistica insieme. Ammettendo che cosi sia, la « univoca direzione » significa sul piano soggettivo volontà rivolta alla realizzazione e pertanto intenzionale. Peraltro, argomenti testuali ricavabili dalla normativa vigente perdono molto del loro valore nel momento in cui la prospettiva muta dal de iure condito al de lege ferenda. A questo punto non giova più richiamarsi a una disposizione di legge che il nuovo legislatore può benissimo non più riprodurre. Per cercare di risolvere la questione della rilevanza o no del dolo eventuale nel tentativo, si tratta allora di giudicare a campo sgombro. Per rispondere al dilemma si può partire dalla premessa dell’irrilevanza della colpa nel tentativo (sia che valgano ragioni d’inconfigurabilità logico-concettuale sia che ci si accontenti di ragioni di scelta di diritto positivo). Irrilevanza vigente nell’ordinamento italiano e dappertutto nel diritto comparato. Allora ci si può porre la domanda se il dolo eventuale sia così lontano dalla colpa (11) da vedersi precluso un trattamento pari a essa nel campo del tentativo. Per quanti ritengono che il dolo eventuale è figura talmente prossima alla colpa con previsione da lambirla, al punto anzi che solamente sottigliezze concettuali (di problematica accertabilità processuale) sono in grado di separarle; e ritengono inoltre che la colpa grave, la recklessness degli anglosassoni, cioè la spericolatezza, la temerarietà, la (10) Per tutti DE MATTEIS, Il dolo eventuale nel tentativo, 1980; e in sintesi da ultimo, MANTOVANI, Diritto penale, parte gen., 4 ed., 2001, p. 455 s. (11) Nel senso del discorso sviluppato nel testo: EUSEBI, in questa Rivista, 2000, p. 1071 ss.; FORTE, in questa Rivista, 2000, p. 820 ss.
— 1095 — sconsideratezza, meriti il riconoscimento di autonoma forma di colpevolezza (accanto o in luogo della culpa levis) (12) nel futuro del diritto penale del nostro paese, non possono appunto che giungere alla posizione di inscrivere il dolo eventuale nell’alveo della colpa (grave), rescisso il suo forzoso legame con il dolo autentico, il dolo intenzionale. È vero che il progetto 2000 si sforza di disegnare il dolo eventuale in termini restrittivi, circoscrivendolo verso l’alto nel richiedere la rappresentazione dell’alta probabilità di realizzazione del fatto; ciò sul versante della componente conoscitiva del dolo (peraltro contaminato sul versante della componente volitiva dall’accontentarsi, contradditoriamente?, di una mera accettazione del rischio: status psicologico che pare non si sia ancora riusciti a dimostrare come non peculiare della colpa con previsione) (13). È forse tale innalzamento e restringimento del concetto di dolo eventuale che ha trattenuto il progetto 2000 dal prendere esplicita posizione contro la rilevanza del dolo eventuale nel tentativo: almeno a livello di articolato (che poi è il vero livello decisivo). Solo nella relazione di accompagnamento i progettisti assumono una tendenza verso il rifiuto di rilevanza, ma poi concludono rimettendo alla giurisprudenza il compito di orientarsi e decidere in questo senso (peraltro con una credenza nella vivente supremazia dell’indirizzo anti-dolo eventuale nella giurisprudenza, predominio di cui è lecito dubitare). Al forte argomento, poi, secondo cui non si comprendono le ragioni perchè una forma di dolo (quello eventuale) riconosciuta valida per il delitto consumato debba, per la mera assenza magari casuale dell’evento, soccombere nel corrispondente delitto tentato (14), si può rispondere facendo appello nuovamente al delitto colposo. Anche nel campo della colpa la presenza o l’assenza dell’evento (anche qui spesso puramente casuali) comportano la punibilità del fatto consumato e l’irrilevanza di quello « tentato ». Ma ciò non è visto come scandalo: è solo il portato del principio moderno dell’ultima ratio: l’ordinamento risponde penalmente a parità di colpevolezza soltanto in presenza del disvalore di evento che è quello che in definitiva lascia la traccia più tangibile e durevole sulla vittima. Si aggiunga che se sussistono esigenze serie di prevenzione generale, nella parte speciale si possono prevedere con riferimento ai beni giuridici più importanti fattispecie colpose di pericolo. Già oggi nell’ambito dell’incolumità pubblica l’ordinamento italiano contempla nell’art. 450 delitti colposi di pericolo di disastro e nell’art. 452 cpv. delitti colposi di pericolo per la salute pubblica. Il dolo eventuale potrebbe trovare riconosci(12) Per tutti da ultimo DONINI, Relazione alla Conferenza ISISC, cit. (nota 2), p. 6 della bozza. (13) Sempreché si sia consapevoli appieno della netta distinzione esistente sul piano psicologico tra accettazione dell’evento e mera accettazione del rischio dell’evento. (14) Per tutti, limpidamente, C. FIORE, Diritto penale, parte gen., vol. II, 1995, p. 59.
— 1096 — mento in tipologie normative consimili o dentro queste stesse tipologie (15). Sul tema presente il progetto 92 è stato risoluto ed è giunto (senza peraltro illustrazione espressa dei motivi della scelta) alla delimitazione perentoria dell’elemento soggettivo del tentativo nei soli termini del dolo intenzionale e del dolo di certezza. Invece il progetto 95 restringe ulteriormente al solo dolo intenzionale. Fra le due linee progettuali è preferibile la prima, per il motivo che la previsione certa della realizzazione del fatto, seppure non preso di mira, non può non implicare in soggetto dotato di ragione la volontà del fatto stesso e pertanto deve rilevare. Si tratta del dolo indiretto in senso proprio, cioè come « atteggiamento dell’agente nei confronti della realizzazione del fatto considerata come sicura conseguenza collaterale del fine perseguito » (16). La figura del dolo indiretto — ben distinta, sia detto per chiarezza, da quella del dolo eventuale — riguarda propriamente i casi in cui l’evento è voluto non per sè stesso, ma perchè considerato necessariamente connesso al risultato perseguito intenzionalmente (17). Tale indissolubilità di destino fra evento perseguito e evento collaterale rende opportuna l’ulteriore precisazione che, a rigore, non è proprio necessario (per essere rilevante) che l’evento collaterale sia assunto dall’agente come certo; così come non è necessario che l’evento intenzionale sia dall’agente previsto come certo. Quel che importa veramente è che l’evento collaterale sia rappresentato dall’agente come indissolubilmente legato all’evento principale (intenzionale): se questo si realizzerà, anche quello si realizzerà. Così, anche se la realizzazione del risultato intenzionale dovesse apparire al soggetto come incerta (es. ordigno collocato per uccidere il nemico che dovrebbe transitare per quel punto), la certezza della connessione esistente tra risultato principale e risultato collaterale (es. morte della guardia del corpo) (18), comporterebbe la dovuta parificazione, quanto a rilevanza, di evento intenzionale e evento indiretto inseparabile dal primo. In tali casi siamo assolutamente fuori dalla logica e dal campo di azione della figura del dolo eventuale. In conclusione: nella fattispecie di tentativo al dolo intenzionale va (15) L’ordinamento tedesco è fin troppo minuzioso in tema di reati di comune pericolo e in particolare nel par. 315 e specificazioni: per es. nei par. 315 a e b, dove sono distinte fattispecie dolose di evento di pericolo, fattispecie miste di dolo e di colpa, composte cioè di condotta dolosa con evento colposo di pericolo, e fattispecie colpose di evento di pericolo, in cui pertanto sono colposi sia la condotta che l’evento. Insomma, la fantasia normativa ha larghi spazi per dispiegarsi. (Resta peraltro da vedere se un’esagerazione di sottodistinzioni non conduca a costi eccessivi nell’accertamento processuale, circa la delimitazione delle singole sottofattispecie tra loro). (16) PROSDOCIMI, Dolus eventualis, 1993, p. 134. (17) PROSDOCIMI, op. cit., p. 135. (18) PROSDOCIMI, op. loc. cit.; MANTOVANI, Diritto penale, cit. (nota 10), p. 456.
— 1097 — accomunato nelle conseguenze giuridiche non solo il dolo di certezza ma anche il dolo indiretto in senso proprio (con esclusione invece del dolo eventuale). Questa sembra essere l’esatta interpretazione (estensiva) da dare all’elemento soggettivo del tentativo, quale è descritto nel progetto 92. Il dolo intenzionale, come caratteristico della figura del tentativo, avrebbe anche riflessi — come si vedrà — nella configurazione della struttura oggettiva del delitto tentato (esso è cioè veicolo di sostegno nella ricerca dell’esatta delineazione del requisito di idoneità). 4. L’elemento oggettivo: gli atti esecutivi. — Tra l’ideazione del fatto e la sua consumazione c’è una zona grigia (che può essere temporalmente anche lunga nei reati programmati o di proposito ed è sempre brevissima nei reati d’impeto) (19), all’interno della quale si situa il momento d’inizio della condotta rilevante di tentativo. Tale momento è di difficile determinazione e rappresenta perciò il punto cruciale di ogni definizione legale del tentativo. Premessa di tale individuazione è la tradizionale e tuttora usuale divisione della zona grigia in due fasi con opposta efficacia: la fase cd. preparatoria (20), (ancora) irrilevante, e la fase cd. esecutiva, (ormai) rilevante. Le due qualificazioni sono un portato del senso comune, che coglie intuitivamente le differenze tra loro di funzione e di struttura. Con i comportamenti preliminari di organizzazione, di predisposizione, di allestimento, in una parola atti « preparatori » (21), il fatto interiore dell’ideazione prende forma in comportamenti esterni con la funzione di studiare o creare le pre-condizioni di base per la successiva, effettiva realizzazione del reato (per es. l’acquisto dell’arma che servirà per la commissione del delitto, l’esercitazione nell’uso dell’arma, lo studio delle abitudini della vittima, l’eliminazione di ostacoli o difese). È una fase in cui l’atteggiamento interiore può assumere già il carattere della decisione (sicura) all’azione o può essere sospesa nello stato della risoluzione non ancora definitiva o della indecisione. Per l’indirizzo soggettivistico (estremo), che vede il fondamento della punibilità del tentativo nella mera esternazione della volontà delittuosa o (19) I reati di proposito sono in genere i più frequenti tra i delitti di maggiore rilevanza sociale: per es. sequestro di persona, estorsione, rapina, furto, incendio; però reati d’impeto configurabili agevolmente sono l’omicidio e anche la violenza sessuale. (20) Peraltro pressoché inesistente nei reati d’impeto. (21) Dà una definizione-descrizione di atti preparatori il codice penale russo (art. 30, primo comma: « Per preparazione di un reato si intende la ricerca, la provvista o l’approntamento da parte dell’agente dei mezzi o degli strumenti necessari a commettere un reato, la ricerca di complici, l’accordo per commettere un reato o altra intenzionale creazione delle condizioni atte a commettere un reato »).
— 1098 — nella manifestazione di un sentimento ostile al diritto, già l’attività preparatoria, se assistita dalla decisione di proseguire, è degna di rilevanza penale. Per l’opposto indirizzo oggettivistico, che fonda la punibilità del tentativo sul presupposto della sua (concreta?) pericolosità per il bene giuridico preso di mira, l’attività preparatoria non è meritevole di pena, in quanto ancora lontana dalla conclusione. Un indirizzo intermedio e mediatore, quello cd. dell’Eindruckstheorie (traducibile senza ombra spregiativa con l’aggettivo « impressionistico »), secondo cui il fondamento della punibilità consiste nello scuotimento del sentimento di sicurezza del soggetto passivo e dei consociati, anch’esso considera gli atti preparatori di norma come irrilevanti e la differenza pratica dalla teoria oggettivista si coglie piuttosto — come si vedrà — sul versante del requisito di idoneità e della figura del tentativo inidoneo (oltre che sul piano delle conseguenze sanzionatorie) (22). Ma — comunque siano fissati i suoi contorni — quali sono per oggettivisti e « impressionisti » le ragioni dell’irrilevanza degli atti « preparatori »? Poichè lo stadio preparatorio è ancora lontano dalla consumazione, esso rispetto al successivo stadio « esecutivo » possiede minore pericolosità a motivo della maggiore eventualità di desistenza dell’autore e insieme delle maggiori chances per la vittima designata e le forze di polizia di prevenire la compiuta realizzazione del delitto. Sotto questo aspetto si può evocare il concetto di proporzione delle scienze matematiche, che designa l’eguaglianza tra due rapporti. L’atto preparatorio sta all’atto esecutivo come il pericolo remoto sta al pericolo attuale. Un’altra ragione di non punibilità è dovuta alla difficoltà di provarne la consistenza o comunque il significato di fatto aggressivo e doloso: gli atti preparatori, osservati all’esterno, appaiono ancora equivoci (l’acquisto di un’arma, l’esercitarsi al tiro a segno...) e fra l’altro è generalmente arduo accertare processualmente la loro direzione delittuosa. Inoltre alla mentalità e sensibilità comune appare inopportuno se non perfino illegittimo che la giustizia penale si interessi di tali fatti, intromettendosi profondamente nella sfera (ritenuta ancora) di intangibilità e di libertà dei destinatari delle norme. Per almeno tali ragioni nell’esperienza giuridica odierna si fissa la soglia d’inizio dell’attività penalmente rilevante al più presto nell’area degli atti esecutivi in s.s. o nei suoi dintorni (23), come mostrano le legislazioni (22) In Italia è efficace sostenitore di tale indirizzo MORSELLI, in Dig. pen., vol. XIV, 1999, p. 187, 195. (23) Solo in via eccezionale gli ordinamenti moderni puniscono anche attività meramente preparatorie, mediante la previsione di singole fattispecie nominate, poste a tutela di beni di rango elevato (ESER, in Schönke/Schröder, Kommentar, 25. Aufl., Vorbem. § 22, n. 13 ss.). Tra i codici penali contemporanei si differenzia quello russo, che già in disposizione generale (art. 30, secondo comma) sancisce la responsabilità penale « per i preparativi di un reato, nell’ipotesi di reati gravi o molto gravi ».
— 1099 — vigenti. In Italia occorre che gli atti siano diretti in modo non equivoco a commettere il delitto; in Germania che il soggetto, secondo la sua rappresentazione del fatto (24), si accinga direttamente alla realizzazione della fattispecie; in Austria l’autore mette in moto la sua decisione di eseguire il fatto, attraverso un’azione che precede direttamente l’esecuzione; in Spagna occorre che il soggetto dia inizio all’esecuzione del delitto direttamente con fatti esteriori, realizzando in tutto o in parte gli atti che oggettivamente dovrebbero produrre l’evento; in Francia (e in Svizzera) il tentativo è costituito a partire dal momento in cui è manifestato da un cominciamento di esecuzione. In Portogallo occorre che l’agente compia atti di esecuzione di un delitto che ha deciso di commettere, cioè atti che: a) integrano un elemento costitutivo di un tipo di delitto, b) o sono idonei a produrre (subito?) un risultato tipico, c) o secondo la comune esperienza e salvo circostanze eccezionali sono di natura tale da fare ritenere che a essi seguano atti del genere indicato alle lettere precedenti. Infine i codici sloveno e croato puniscono per tentativo chi inizia con dolo la realizzazione di un reato. Nei progetti italiani del 92 e del 95 si conserva la formula del codice vigente con l’aggiunta che gli atti devono essere « oggettivamente » diretti in modo non equivoco. Il progetto 2000 adotta la formula austro-tedesca, omettendo però il richiamo soggettivistico alla rappresentazione dell’agente. I dettati normativi citati si possono schematicamente raggruppare in più classi, con contenuto di rilevanza penale da più ampio a più ristretto: a) codice portoghese, perlomeno atti che si presume siano seguiti da atti tipici o idonei; b) codice italiano, atti univocamente diretti alla commissione; e) progetti 92 e 95, atti oggettivamente diretti in modo non equivoco a realizzare un delitto; d) codici tedesco e austriaco e progetto 2000, atti che precedono immediatamente l’esecuzione (o la realizzazione della fattispecie); e) codici francese, svizzero, spagnolo, sloveno e croato: atti che costituiscono inizio di esecuzione (25). Resta da vedere quali contenuti concreti ricevano o possano attribuirsi alle singole formulazioni (26). Prima è però opportuno, per proseguire con cognizione di causa, ragionare brevemente sul concetto di atti esecutivi. a) In prospettiva formale atto esecutivo è qualunque atto che integri almeno un elemento o un frammento della fattispecie incriminatrice di parte speciale: dunque si identifica con un atto facente parte del fatto conforme al tipo, con l’avvertenza che appartengono a questa categoria anche atti costitutivi delle circostanze speciali della fattispecie. Così, nella fattispecie a forma vincolata del furto è primo atto formalmente esecutivo l’i(24) Su tale inciso vd. infra, alla fine del paragrafo. (25) Invero, a prima vista non si sa se la formula dei progetti 92 e 95 sia più estensiva o no di quella austriaca, tedesca e del progetto 2000. (26) Sorvolando sull’art. 56 c.p., le cui diverse interpretazioni si presumono note.
— 1100 — nizio della sottrazione (sia esso la contrectatio, l’amotio, l’ablatio, ecc.), ma anche il danneggiamento del contenitore della cosa nel furto con effrazione. E nella fattispecie della truffa è atto formalmente esecutivo anche la simulazione di un furto con scasso (= artificio) al fine di ingannare la società di assicurazione. Tale concetto formale di atto esecutivo ha il pregio della precisione, ma è esposto ad almeno tre obiezioni: 1) in molti casi (come nell’esempio citato di furto) l’area di rilevanza del tentativo appare a molti troppo ristretta, con effetti d’impoverimento della funzione di anticipazione della tutela penale e d’indebolimento della prevenzione generale. 2) In alcuni casi (come nell’esempio dell’artificio-simulazione con finalità ingannatoria) l’atto, pur formalmente corrispondente a un elemento del tipo (art. 640), rappresenta a ben vedere un esempio di atto sostanzialmente preparatorio (l’ipotesi è citata e criticata in letteratura come caso emblematico di tentativo dal punto di vista soggettivistico) (27). Ma se cosi è, vuol dire che il criterio formale della « tipicità » non è poi propriamente univoco nel denotare gli autentici atti esecutivi e distinguere tra atti esecutivi e atti preparatori. 3) Ma il rilievo più grave riguarda le fattispecie causali (commissive e omissive): dove la tipizzazione della componente oggettiva del reato avviene mediante l’elemento della causalità (cagionare la morte, cagionare un incendio ... ). Se si vuole applicare a fattispecie di questo genere il concetto formale di atto esecutivo (= atto che integra un frammento del tipo), la chiarezza e precisione prima riconosciutagli con riferimento alle fattispecie vincolate, è perduta. Infatti: nelle fattispecie causali è atto tipico solo l’ultimo decisivo (quello finale che conduce all’epilogo), o anche il penultimo, o anche precedenti e perfino ... il primo atto della serie causale? Qui ogni risposta può essere data, e infatti è stata data (28), e probabilmente ciascuna fondata, almeno sul piano gnoseologico. Ma sul piano teleologico — che è poi quello che alla fine interessa il giurista — la ratio che presiede alla distinzione fondamentale tra atti preparatori e atti esecutivi può essere che induca a restringere il campo dei fattori potenzialmente causali, rilevanti a titolo di tentativo, concentrandosi su quegli atti che compongono la fase finale dell’iter criminis: il premere il grilletto, il prendere la mira, il togliere la sicura, il caricare l’arma, l’estrarre dal fodero l’arma ancora scarica, l’avvicinarsi alla vittima in modo che entri al di qua del limite di portata dell’arma, l’aspettarla in agguato, il pedinarla attendendo il momento propizio, e cosi via. Quale che sia la scelta della soglia iniziale dell’attività punibile, essa non è però certamente ricavata sulla scorta del criterio-formale di esecuzione o di tipicità; il quale appunto per il suo formalismo naufraga proprio nelle fattispecie più bisognose di « tipicizzazione ». (27) ESER, op. cit. (nota 23), § 22, n. 29/30. (28) Per tutti, in breve, FIANDACA e MUSCO, Diritto penale, parte gen., 3 ed., 1995, p. 411; MANTOVANI, Diritto penale, cit. (nota 10), p. 452 s.
— 1101 — b) Dal punto di vista materiale atto esecutivo è invece qualunque atto che superi la fase di predisposizione e approntamento e volga decisamente all’opera attuativa verso la consumazione finale: in breve, qualunque atto che ... non sia preparatorio. Ossia, qualunque atto per il quale non valgano più le ragioni adducibili a favore della punibilità degli atti preparatori. Al contrario di questi ultimi gli atti (materialmente) esecutivi sono pervenuti ormai al punto in cui una volontaria desistenza o resipiscenza appare molto improbabile (29) e infine dubbie le risorse di prevenzione del soggetto passivo. A questa stregua il nascondersi nei locali del negozio all’ora della chiusura, in modo da poter commettere indisturbati un furto mirato, può apparire formalmente atto preparatorio, ma materialmente è qualificabile già come atto d’inizio dell’esecuzione del furto. Alla luce dei concetti formale e materiale di atti esecutivi le definizioni normative vigenti e progettuali vengono forse ad assumere nuovi significati, e perde consistenza la classificazione prima tracciata e rapportata all’ampiezza dell’area punibile dell’iter criminis. Infatti, ci si può domandare: « I codici che linearmente e senza contorcimenti verbali esigono ai fini della rilevanza del tentativo un « commencement d’execution » un « dar principio a la ejecuciòn directamente por echos exteriores », pretendono veramente di più di quei codici e progetti che si « accontentano » dell’« Unmittelbares Ansetzen » alla esecuzione della fattispecie? E, posta la questione in altra prospettiva: non sarà che i codici legati al requisito dell’inizio di esecuzione si riferiscano all’esecuzione in senso materiale? E, per converso, non sarà che i codici e i progetti attestatisi sul requisito degli atti che precedono direttamente e immediatamente l’esecuzione o realizzazione del fatto intendano per esecuzione (o realizzazione) l’esecuzione in senso formale? Ebbene, anticipando per chiarezza espositiva l’esito della presente riflessione, va subito detto che la risposta alle domande ora prospettate suona affermativa. Suona cioè nel senso del rinvenimento nel panorama delle realtà normative di un orientamento delimitativo fondamentalmente comune, al di là delle formule e formulazioni letterali di volta in volta adottate (30). Tale conclusione fin qui soltanto predicata va convalidata: a questo punto è urgente andare a visitare (31) l’effettiva esperienza interpretativa sulle norme definitorie presenti nei codici. (29) È il criterio sintomatico di accertamento del tentativo penalmente rilevante proposto tanto tempo fa da ANTOLISEI (vd. oggi nel suo Manuale dir. pen., parte gen., 15. ed., a cura di L. Conti, 2000, p. 491). (30) E per inciso ciò mostrerebbe il rischio di fraintendimenti e falsi giudizi che nella visita comparatistica promanerebbero dall’adagiarsi sulla mera lettura testuale delle disposizioni dei vari ordinamenti penali campionati. (31) In maniera necessariamente sintetica, in questa sede.
— 1102 — a) Ordinamento francese (32). L’orientamento oggettivistico più rigoroso, secondo cui si ha « inizio d’esecuzione quando l’agente ha compiuto o iniziato a compiere una delle operazioni materiali che figurano fra gli elementi costitutivi del delitto consumato, non ha ottenuto alcun successo nella prassi, giacché finisce per largire l’impunità a atti che tuttavia sono molto vicini al risultato finale » (33). La concezione più seguita in Francia è invece quella cosiddetta mista, secondo cui deve essere riconosciuto come rilevante a titolo di inizio di esecuzione l’atto tendente direttamente e immediatamente alla perpetrazione del delitto, cioè a dire l’ultimo o uno degli ultimi prima dell’esecuzione propriamente detta. Nelle decisioni della giurisprudenza si parla di « atto che non lascia alcun dubbio sulle intenzioni del suo autore e che conduce direttamente alla realizzazione dell’infrazione ». Nella giurisprudenza si fa talvolta persino allusione al « cominciamento d’esecuzione ... della fattispecie di tentativo », nozione dalla dottrina ritenuta peraltro di dubbia ortodossia, dato che la legge si riferisce manifestamente all’inizio di esecuzione del delitto consumato (e non all’inizio di esecuzione del delitto tentato!) (34). Ma in definitiva le commencement d’execution è concepito dai penalisti come il segno oggettivo del carattere irrevocabile della risoluzione criminale di un soggetto che ha preparato e poi incominciato la sua intrapresa. Con la precisazione che certe variazioni nelle soluzioni giudiziarie si spiegano in funzione della struttura dei singoli tipi di delitto. E così si distinguono le infrazioni consumabili indipendentemente da qualsiasi partecipazione volontaria di terze persone e quelle invece il cui perfezionamento richiede il contributo di un terzo (vittima o complice). Nel secondo caso l’agente non può essere considerato entrato nella fase esecutiva (« entré en action ») fin tanto che non ha preso contatto con il terzo (la vittima o il complice). È una caratteristica assai significativa in tema di truffa, di estorsione e di spaccio di stupefacenti. b) Ordinamento spagnolo (35). L’opinione maggioritaria in Spagna vede nella prossimità oggettiva alla lesione del bene giuridico la ragione determinante della punibilità del tentativo. L’indirizzo tradizionale cd. obiettivo-materiale si richiama alla formula di Frank: « sono esecutivi gli atti che stanno talmente uniti all’azione tipica da apparire come sua parte ». Nella determinazione concreta dell’inizio di esecuzione si prende in considerazione il piano dell’autore, valutandolo secondo un prisma oggettivo che assume di fatto uno dei due criteri seguenti: o quello della (32) Testo di riferimento: MERLE e VITU, Traité de droit criminel, tome I, 7 ed., 1997, p. 627 ss. (33) MERLE e VITU, op. cit., p. 630. (34) Idem SEMINARA, op. cit. (nota 1), p. 450. (35) Testo di riferimento: MIR PUIG, Derecho penal, parte general, 5 ed., 1998, p. 326 ss.
— 1103 — messa in pericolo immediata o quello dell’immediatezza temporale: dunque nel primo caso il tentativo rilevante comincia quando si produce un immediato (= attuale?) pericolo per il bene giuridico. Tale criterio è utilizzato soprattutto in tema di delitti commissivi mediante omissione. Nel secondo caso il tentativo rilevante inizia con l’effettuazione di un atto immediatamente anteriore alla piena realizzazione di tutti o di alcuno degli elementi del tipo. La teoria dell’immediatezza temporale comporta la necessità che non si frapponga nessuna fase intermedia fra il singolo atto assunto come rilevante di tentativo e la stretta realizzazione di almeno uno degli elementi del tipo di delitto. In tema di omicidio si porta l’esempio di un agguato: la soglia rilevante della punibilità si situa nel momento in cui la vittima arriva nel luogo dell’appostamento, dove cioè si trova, pronto a sparare, l’attentatore. c) Ordinamento tedesco (36). La formulazione del par. 22 è generalmente ritenuta un prodotto della concezione cd. individuale obiettiva. Per la sussistenza degli atti esecutivi sono essenziali due criteri: il piano dell’autore sul fatto che intende commettere (37); e l’accingersi direttamente alla realizzazione della fattispecie. Secondo la giurisprudenza e la dottrina assolutamente dominanti l’Ansetzen non implica la realizzazione neppure parziale della fattispecie; e dunque funge da elemento estensivo della tipicità del tentativo. La delimitazione dai confinanti atti preparatori è data invece dal requisito di « Unmittelbarkeit » (immediatezza): perché l’accingersi alla realizzazione della fattispecie sia qualificabile atto esecutivo, occorre che esso sia « direttamente », « immediatamente » collegato alla realizzazione della fattispecie; cioè legato alla fattispecie senza che ci siano essenziali passi intermedi. Si tratta perciò di un criterio di immediata prossimità temporale; dunque occorre una condotta che preceda immediatamente la realizzazione della fattispecie. Caso classico tratto dalla giurisprudenza è quello di due soggetti che con l’intento di commettere una rapina a danno di una stazione di rifornimento si presentano davanti alla porta d’ingresso della casa adiacente del benzinaio, mascherati e con le pistole cariche, e suonano il campanello di casa (senza spioncino, né citofono, né finestre frontali), affinché la vittima apra. Ma nessuno apre la porta: condanna per tentata rapina aggravata. A questa stregua è invece mero atto preparatorio l’appostamento in attesa della vittima ancora lontana. Invece l’appostamento con armi e mezzi di fuga con l’intenzione di rapinare un incaricato di banca che porta con sé il denaro della cassa, diviene atto esecutivo dal momento in cui il mezzo di locomozione su cui si trova la vittima arriva al luogo dell’agguato. Per i reati omissivi di evento, (36) Testi di riferimento: JESCHECK e WEIGEND, Lehrbuch, AT, 5.Aufl., 1996, p. 518 ss.; ESER, op. cit. (nota 23), Vorbem. § 22, n. 13 ss. e § 22, n. 24 ss.; VOGLER, in Leipziger Kommentar, 10.Aufl., 33.Lieferung, 1983, Vor. § 22, p. 2 ss.; § 22, n. 23 ss. (37) Una riflessione sul punto infra, alla fine di questo par.
— 1104 — nei quali il criterio naturalistico dell’immediatezza temporale dell’Ansetzung non è praticamente utilizzabile (38), è usuale l’adozione del criterio del pericolo immediato per l’oggetto del bene giuridico (39). d) Ordinamento austriaco (40). Non tutte le azioni che costituirebbero una condizione della realizzazione della fattispecie sono punibili a titolo di tentativo, ma solo quelle che precedono immediatamente l’esecuzione. Per prossimità di esecuzione si intende l’avere raggiunto uno stadio di sviluppo in connessione percettibile e diretta, e anche in prossimità temporale, con l’inizio di esecuzione. Il tutto giudicato (secondo l’orientamento dominante) ex ante dalla prospettiva dell’autore e sulla base del suo piano del fatto. Peraltro il termine di riferimento è la prossimità all’esecuzione non la prossimità dell’evento. Nella giurisprudenza il requisito previsto dalla legge è inteso nel senso che occorre il raggiungimento di uno stadio così vicino all’inizio dell’azione esecutiva tipica, che non esistono più distanze di luogo, intervalli di tempo o soste per ragioni di messa in opera finale degli strumenti o del materiale da impiegare nel fatto. Non è invece recepito nella prassi il noto criterio di autorevole dottrina (41) (un prodotto della « Eindruckstheorie ») consistente nel « superamento dell’ultimo decisivo stadio inibitore ». Tale stato psicologico, pur necessario, non può sostituire il requisito di prossimità oggettiva. Se adesso si comparano i brevi quadri riassuntivi dello stato interpretativo nei quattro ordinamenti, si notano fortissime concordanze e analogie, nonostante le differenti formule definitorie del tentativo, a dimostrazione di quanto prima affermato in via di ipotesi: che al di là della letterale formulazione delle singole disposizioni di legge sussiste alla fine una sostanziale convergenza di contenuti interpretativi e applicativi. Ma se così è, non ci sono ragioni per non preferire in Italia l’espressione di tradizione liberale degli « atti di esecuzione », tout court. Piuttosto, di passaggio, può essere utile far cenno al requisito subiettivo della rappresentazione del fatto nell’economia della fattispecie tedesca del tentativo (il cd. « Täterplan », piano dell’agente). A norma del par. 22 del codice tedesco il piano dell’autore concorre a determinare la qualifica di atto immediatamente prossimo all’esecuzione (e nello stesso senso intende la dottrina spagnola) (42). È ammissibile o opportuna tale soggettivizzazione? Atti che oggettivamente (cioè osservati dall’esterno), inqua(38) Infatti in essi il soggetto garante opera in maniera puramente passiva, sta inattivo: vd. JESCHECK e WEIGEND, op. cit., p. 521. (39) ESER, op. cit., § 22, n. 31, 36, 42 s., 50 s. (40) Testo di riferimento: HAGER e MASSAUER, in Wiener Kommentar zum StGB, 40. Lieferung, 1994, § 15 e 16, n. 2 ss., 30 ss., 40 ss. (41) Burgstaller, Nowakowski, Triffterer. (42) Per tutti: ESER, op. cit., § 22, n. 33 ss.; MIR PUIG, op. cit. (nota 35), p. 339. In Italia a favore di questa logica MORSELLI, op. cit. (nota 22), p. 197 s.; M. ROMANO, Commentario cod. pen., vol. I, 2.ed., 1995, art. 56, n. 20 ss., afferma: « Quando si tratti di atti non
— 1105 — drati nel contesto in cui operano, appaiono come neutri o al massimo « preparatori », possono trasfigurarsi in atti esecutivi solo in virtù della considerazione del piano dell’agente? Se all’osservatore esterno l’atto non appare come esecutivo, vuol dire che al massimo appare come preparatorio. Ma si è veduto prima che tra le ragioni dell’irrilevanza penale degli atti preparatori c’è anche quella dell’illegittimità o perlomeno inopportunità di indagini giudiziarie volte alla ricerca dell’eventuale sussistenza di uno stadio così arretrato dell’iter criminis; non sembra allora congruo operare indagini di tal fatta al solo scopo di verificare attraverso la conoscenza del piano dell’agente se l’atto apparentemente preparatorio costituisca in realtà un vero e proprio atto esecutivo (o immediatamente prossimo all’esecuzione), secondo il programma criminoso dell’agente. Sulla base dei discorsi precedenti si possono brevemente commentare le proposte avanzate nei progetti italiani. Il progetto 92 si mantiene fermo al requisito di non equivocità degli atti del codice vigente, però con un’importante specificazione: gli atti devono essere oggettivamente diretti alla realizzazione del delitto. Tale innovazione deriva, secondo i progettisti, « dalla necessità di meglio fondare la materialità del fatto di tentativo, svincolandone la struttura, per quanto possibile, da riferimenti di carattere personale-soggettivo ». Come si vede, è una scelta netta a favore di uno dei due indirizzi interpretativi assunti nei settant’anni di vigenza del codice Rocco, quello oggettivistico: la direzione univoca intesa come tendenza accertabile dall’esterno e non come segno dell’intenzione soggettiva. La posizione di chi scrive è invece di rinuncia definitiva all’uso di tale formula (sia quella originaria senza specificazioni, sia questa con specificazione oggettiva), perché: quella soggettivistica è nel migliore dei casi un inutile duplicato dell’elemento soggettivo e nel peggiore dei casi darebbe adito a un’ambigua soggettivazione dell’elemento oggettivo del tentativo, offrendo il destro a un’inferenza discutibile: consentire o imporre la determinazione della tipicità del fatto tentato dal piano dell’agente. Dalla parte opposta, la versione oggettivista della direzione univoca esige strettamente tipici, o meglio, di atti non « decisivi » per la consumazione nei delitti causalmente orientati, non si potrà prescindere dal concreto piano dell’agente ». « È il programma dell’agente ad orientare a determinare la prossimità degli atti alla consumazione ». L’A. conclude con l’auspicio che in una futura riforma la formulazione della norma, nel solco della distinzione fra atti preparatori e atti esecutivi, attesti la punibilità nella necessità di un relativo grado di sviluppo dell’azione, cioè su un rapporto di stretta anticipazione rispetto agli atti « decisivi » per la consumazione, con un esplicito riferimento al concreto piano dell’agente. La conseguenza di tale posizione — riconosciuta dallo stesso A. — è che « la necessità di analizzare i singoli accadimenti in base al piano concreto non consente di escludere radicalmente intere tipologie di comportamenti », che invece giudicati dall’esterno, cioè prescindendo dal piano concreto dell’agente, sarebbero considerati meri atti preparatori. Seguono esemplificazioni, cui si rimanda. Sulla presente questione la posizione di chi scrive è enunciata qui appresso nel testo.
— 1106 — invece che il fatto materiale di per sè manifesti la sua tipicità, cioè vieta (o dovrebbe vietare) che l’eventuale ambiguità oggettiva del fatto possa essere eliminata tramite il riferimento all’intenzione dell’agente. Ma un tale divieto porterebbe a conseguenze pratiche non accettabili: in ipotesi, anche il puntare un’arma carica contro taluno — atto che bene potrebbe essere l’ultimo estremo di un tentativo di omicidio — è, giudicato da un punto di vista strettamente oggettivo, atto ambiguo: sia per quanto riguarda il suo preciso senso illecito (per es. un tentativo di omicidio o una minaccia grave), sia perfino riguardo alla sua illiceità o no (per es. uno stupido scherzo). La posizione di chi scrive è: 1) atti che oggettivamente non denotano, neppure all’apparenza, di essere (materialmente) esecutivi sono a priori irrilevanti e non sarebbe lecito sostituire il carattere mancante di esecutività oggettiva con un eventuale atteggiamento interiore del soggetto (altrimenti si precipiterebbe in una visione soggettivistica del tentativo, incompatibile con il diritto penale del fatto). 2) Fatti invece, il cui carattere ‘esecutivo’ visto oggettivamente appare incerto e ambiguo, non sono per ciò solo irrilevanti: lo diventano (a rigore, lo sono) se la ulteriore, doverosa indagine sulle effettive intenzioni dell’agente rivela lo specifico intento criminoso (il soggetto ha puntato l’arma per uccidere); lo pérdono (a rigore non l’hanno mai avuto) se l’indagine sul dolo dell’agente accerta l’intento solo scherzoso. Il punto è sottile ma la differenza c’è: nella presente prospettiva l’elemento soggettivo (l’intenzione dell’agente) non concorre a creare (come nel soggettivismo) il carattere di esecutività (non è ratio essendi), ma invece ha mera funzione euristica di scioglimento di un’ambiguità apparente (ratio cognoscendi). Comunque sia, va anche aggiunto, per la verità, che il requisito della direzione oggettiva (di cui al progetto 92) approderebbe a risultati pratici molto vicini a quelli propri del requisito qui patrocinato, degli atti esecutivi in senso materiale; soprattutto se si ha cura di specificare che la direzione in senso oggettivo andrebbe giudicata e ricavata non dal singolo atto per sè, ma dall’atto visto nel contesto del fatto (43). Il progetto 2000 opta per il modello di delimitazione tedesco e austriaco, richiedendo come condotta minima di tentativo quella di chi « si accinge a intraprendere l’esecuzione di un fatto di delitto con atti immediatamente antecedenti ». Per ragioni di politica criminale all’esecuzione in senso formale sono equiparati gli atti che immediatamente la precedono; al fine — si sostiene — di assegnare rilevanza penale ad « atti che pur essendo totalmente atipici, sono però immediatamente antecedenti all’inizio di esecuzione, e con riferimento a molti dei quali (44) si pone con(43) PAGLIARO, Sommario diritto penale, 2001, p. 295. (44) Perché si dice « a molti dei quali » e non « a tutti »?
— 1107 — cretamente una esigenza di punibilità » (45). I risultati pratici cui perverrebbe una tale disposizione sarebbero in linea con l’esperienza giuridica europea. Sennonchè — lo si ripeta ancora — l’aggancio al concetto formale di esecuzione non è in grado di funzionare (cioè di tipicizzare) nè nelle ipotesi di fattispecie causalmente orientate (certamente non marginali) nè in quelle delle fattispecie omissive di evento (neppure esse trascurabili); e per le une e le altre il criterio aggiuntivo-estensivo dell’immediata antecedenza non fornisce una tipicizzazione surrogatoria. La realtà è che se si vuole trovare una formula onnicomprensiva, che cioè si possa in astratto attagliare a qualunque genere di fattispecie, si deve necessariamente abbandonare il concetto formale di esecuzione e sostituirlo con il concetto materiale, che d’altro canto preserva anch’esso l’intangibile principio della prossimità spazio-temporale alla consumazione (46). In questo senso atti esecutivi sono quelli non più preparatori, ma direttamente prossimi alla consumazione: in una parola, atti che ormai sono giunti allo stadio finale del pericolo attuale per il bene tutelato o comunque atti in presenza dei quali è raggiunta una situazione di pericolo attuale di consumazione del fatto. A chi ritenesse che un criterio simile sia troppo elastico, si potrebbe rispondere appellandosi all’esperienza giuridica, che da sempre lo collauda nelle primigenie figure della legittima difesa e dello stato di necessità. 5. L’elemento oggettivo: gli atti idonei. — Nel tentativo l’idoneità è l’elemento che più di ogni altro è influenzato dal modello di diritto penale che regge l’ordinamento: oggettivistico o soggettivistico, del fatto o dell’autore. E corrispondentemente il suo contenuto e la sua rilevanza vengono a dipendere dalla ratio della punibilità che (nel processo di produzione delle norme) si attribuisce al tentativo. Nei sistemi improntati al diritto penale del fatto, dove il reato è concepito anzitutto come offesa di beni giuridici, il tentativo è punito perché costituisce formalmente pericolo di realizzazione del corrispondente delitto consumato e sostanzialmente pericolo (diretto o indiretto) (47) per il bene giuridico tutelato. Qui l’idoneità assume un significato a doppia faccia: da una parte assurge a re(45) Relazione finale, su Internet, cit. (nota 3), p. 41. (46) È forse opportuno precisare che il requisito di prossimità spazio-temporale vale in generale, ma non può essere predicato alla lettera nei reati a distanza e nei reati a esito differito. Nei primi l’esigenza di prossimità conserva un senso solo se intesa più limitatamente come vicinanza esclusivamente temporale. Nei delitti a evento differito (dove evidentemente una contiguità temporale è esclusa per definizione) atto materialmente esecutivo (e non più preparatorio) sarà anche quello che pur ancora cronologicamente distaccato dalla consumazione, sia in grado di per sé, senza ulteriori interventi dell’agente, di raggiungere il risultato finale prefisso (per es. accensione di un ordigno a orologeria). (47) Su pericolo diretto e pericolo indiretto MARINUCCI e DOLCINI, op. cit. (nota 1), p. 592 ss.
— 1108 — quisito del tentativo penalmente rilevante, dall’altra specularmente la sua controfigura, l’inidoneità, assume tutt’al più portata residuale: il tentativo inidoneo è oggetto di attenzione come espressione della pericolosità del suo autore e come tale richiede al massimo una sanzione penale minore rispetto al tentativo idoneo o diversa (una misura di sicurezza) oppure una reazione giuridica non penale (misure di polizia). Tutto l’opposto avviene nei sistemi improntati al diritto penale d’autore o al diritto penale dell’atteggiamento interiore, dove il reato, nulla importando che sia consumato o tentato, è concepito come sintomo della pericolosità sociale del soggetto o come espressione della volontà ostile al diritto. Qui la qualità di idoneità perde ogni rilievo: tentativo idoneo e tentativo inidoneo sono trattati nello stesso modo; anzi sono tendenzialmente parificati quanto a conseguenze giuridiche perfino il reato consumato e il reato tentato. Il diritto contemporaneo non conosce più sistemi penali cosi rigidamente soggettivistici (48), tuttavia non solo a livello dottrinale ma anche di legislazione sopravvivono schegge di soggettivismo, che proprio nell’ambito dell’istituto del tentativo si contrappongono alla visione oggettivistica. D’altra parte all’interno dei sistemi oggettivisti è riscontrabile — come si vedrà subito — una molteplicità di realtà normative (oltrechè di indirizzi interpretativi). A cavallo tra tentativo come pericolo del bene giuridico e tentativo come pericolosità dell’autore o come cattiva Gesinnung si pone la concezione intermedia della Eindruckstheorie, secondo cui fondamento della punibilità è lo scuotimento del sentimento di sicurezza della comunità provocato dalla manifestazione della volontà delittuosa. Sue conseguenze pratiche (prendendo a espressione paradigmatica di tale concezione il par. 23 del codice tedesco) sono: per il tentato crimine la diminuzione solo facoltativa della pena rispetto al crimine consumato; e la rilevanza dello stesso tentativo inidoneo, in termini variabili: o indistinto dal tentativo idoneo, o se « grossolano » soggetto alla piena discrezionalità del giudice, che può scegliere tra non punibilità e punibilità diminuita rispetto al crimine consumato o perfino eguale (49). Per ragioni di chiarezza si può anteporre al proseguo dell’indagine una classificazione in ordine decrescente dei concetti di idoneità e inidoneità comunemente ricevuti o che comunque hanno trovato un qualche riconoscimento normativo o dottrinale. a) Idoneità concreta (in senso stretto): corrisponde alla Gefährdung dei tedeschi e consiste nell’idoneità come oggetto del giudizio ex ante a (48) Sul soggettivismo nel diritto penale del tentativo: VOGLER, op. cit. (nota 36), Vor. § 22, n. 46 ss. (49) Tali conseguenze rivelano invero la maggiore vicinanza dell’Eindruckstheorie alle concezioni soggettivistiche piuttosto che a quelle oggettivistiche, come riconoscono fra gli altri HAGEN e MASSAUER, in Wiener Kommentar, cit. (nota 40), § 15, 16, n. 4.
— 1109 — base totale, cioè fondato su tutte le circostanze esistenti al momento della condotta, sia allora conoscibili sia non conoscibili dall’osservatore modello. In Italia è concetto minoritario in dottrina e meno che sporadico in giurisprudenza (al di là della terminologia spesso equivoca risultante nelle massime giurisprudenziali). b) Idoneità astratta (chiamata anche ‘idoneità concreta’ in senso lato oppure inidoneità relativa): corrisponde alla Gefährlichkeit dei tedeschi (54 bis) e al tradizionale concetto di adeguatezza (causale) e consiste nell’idoneità come oggetto di un giudizio ex ante a base parziale, cioè fondato sulle circostanze presenti al momento della condotta allora conoscibili all’osservatore modello. Sono escluse dalla base del giudizio le circostanze allora non riconoscibili. c) Inidoneità assoluta. Mentre l’inidoneità ‘relativa’ corrisponde alla precedente figura dell’idoneità astratta, l’inidoneità assoluta (chiamata anche tentativo impossibile) consiste in una impossibilità incondizionata o perfino « in rerum natura ». L’inidoneità ‘grossolana’ (prevista espressamente nel solo codice tedesco) è una sottospecie di quella assoluta, alla quale molto si avvicina, ma ha un connotato più soggettivistico, in quanto è legata alle deficienze conoscitive del singolo soggetto agente. Il codice tedesco la definisce come « il non rendersi conto per propria crassa incomprensione che il tentativo per il tipo di oggetto o di strumento della condotta non può portare in nessun caso alla consumazione ». d) Al di sotto delle tre classi indicate si è ormai fuori dell’orizzonte concettuale della coppia idoneità-inidoneità. È il campo riservato al cd. tentativo irreale (per es. tentare di realizzare un delitto mediante pratiche superstiziose, di magia, ecc.), che non è mai punibile, neppure per le concezioni soggettivistiche radicali ed è citato in letteratura come figura concettuale con funzione logica di limite estremo e di alterità dalle figure precedenti. Le tre classi di idoneità-inidoneità sono ricavate in via d’interpretazione dalla dottrina o di applicazione del diritto da parte della giurisprudenza. a) Laddove la legge contempla espressamente il requisito di idoneità, come nel codice italiano vigente (e nel codice spagnolo con formulazione più sfumata), il problema si incentra sul significato da attribuire all’idoneità: in senso concreto-effettivo o in senso meno concreto = astratto? (È un punto fondamentale del presente tema e sarà affrontato fra poco). b) Molto spesso l’idoneità non è nominata direttamente ma viene a rilevare egualmente per via indiretta, cioè per il tramite della figura del tentativo inidoneo (questa sì nominata). È il caso dei codici austriaco, croato, sloveno e in fondo del codice tedesco, che cita l’inidoneità grossolana. c) Il codice francese non prevede espressamente né il requisito di idoneità né la figura del tentativo inidoneo (o impossibile), ma il tema dell’idoneità è lì egualmente trattato da dottrina e giurisprudenza.
— 1110 — Prima di prendere posizione sul ruolo e il contenuto da conferire all’idoneità (e all’inidoneità) in un futuro ordinamento italiano, può essere utile tracciare un quadro sommario dello stato di dottrina e giurisprudenza in alcuni paesi europei. a) In Germania il concetto di idoneità non è rilevante; e dunque anche il suo rovescio, l’inidoneità, è punibile, tranne la sottospecie dell’inidoneità grossolana, la cui non punibilità — come detto — è lasciata alla discrezione del giudice. Per inidoneità grossolana è intesa l’assoluta inattitudine causale dovuta alla crassa ignoranza nomologica dell’autore. « Sussiste grossolana incomprensione, se taluno nel suo fatto parte dall’assunzione di relazioni causali della natura, la cui inesistenza è manifesta anche al cittadino non istruito » (50). Senza scendere nei particolari, può essere qui sufficiente evidenziare l’estremo soggettivismo che tuttora prevale in Germania e che ha influenzato la normativa vigente. Infatti, proprio in tema di idoneità, l’unica ipotesi eventualmente non punibile, oltre al cd. tentativo irreale, è appunto quello grossolano, che così come è configurato (e interpretato dai giuristi) è di rarissima verificazione pratica e riguarda soggetti completamente immaturi per età o per deficienze psichiche (gli esempi scolastici sono quello della ragazza, che credendo di essere rimasta incinta per un bacio (!) intraprende una pratica « abortiva » o della donna gravida che tenta di abortire, ingerendo infusi di camomilla). Tanto più sorprendente appare perciò che la legge consenta l’eventuale punizione di queste forme d’inidoneità. Il progetto tedesco del 1962 aveva cercato di giustificarla con il solito argomento di marca soggettivistica radicale che la volontà delittuosa dell’autore ottuso possa in futuro dirigersi di nuovo alla commissione del fatto, usando questa volta mezzi idonei. Dove però è facile rilevare che il timore di futuri reati non è presupposto legittimo della penalizzazione del fatto (51). D’altra parte la relazione al codice vigente aveva riferito a altri casi più realistici la figura del tentativo grossolano, casi però invero ritenuti dalla dottrina non proprio grossolani (es. un tentativo di omicidio mediante impiego di un sedativo, che l’autore crede sia mortale nella dose da lui scelta). Infatti, poichè un sovraddosaggio di un sonnifero o analgesico può in effetti portare a morte, un errore sulla quantità necessaria a uccidere non rappresenta una credenza totalmente aberrante rispetto alle relazioni causali comunemente note (52). Plausibile in linea teorica è comunque la motivazione, portata dai compilatori del codice vigente, che riferisce la figura del tentativo grossolano alle ipotesi che non possiedono nè pericolosità concreta nè possibilità (50) ROXIN, in Jus, 1973, p. 331. (51) ROXIN, op. loc. cit. (52) ROXIN, op. cit., p. 332.
— 1111 — astratta. Si può concludere con la dottrina (53) che a fini pratici di decisione è sufficiente il criterio secondo cui sussisterebbe tentativo grossolano laddove una persona giudiziosa dotata di media scienza non può prendere sul serio il fatto stesso. b) In Austria il tentativo non è punibile se la consumazione non era assolutamente possibile (unter keinen Umständen) per mancanza di requisiti personali presupposti dalla legge o per il tipo dell’azione o dell’oggetto del fatto (par. 15 terzo comma del codice). Dunque non punibilità del solo tentativo inficiato da inidoneità assoluta. In questo paese la disputa tra oggettivisti e soggettivisti è particolarmente vivace proprio in tema di idoneità e il risultato provvisorio è rappresentato da una sentenza (54) con la quale l’ago della bilancia è venuto a pendere chiaramente nella direzione dell’oggettivismo, nel senso che in tema di idoneità dell’oggetto materiale si ritorna a una considerazione obiettiva (cd. ex post = totale ex ante), cioè non si fa riferimento all’impressione dell’osservatore al tempo del fatto, ma alla situazione reale allora esistente. Nel caso concreto deciso dalla corte suprema con assoluzione per inidoneità assoluta del tentativo, gli imputati, ingannati dal fornitore, avevano tentato di introdurre in Austria, con la convinzione che si trattasse di sostanza stupefacente, un miscuglio di fecola, zucchero a velo e soda. Da notare che la prevalente dottrina, nonostante tale sentenza, si mantiene su posizioni vicine o seguaci dell’Eindruckstheorie: la comunità sarebbe rimasta scossa da un fatto del genere e quindi il caso in esame avrebbe dovuto essere trattato come ipotesi di inidoneità soltanto relativa e dunque punibile (55). A prescindere da casi come il precedente, che riguardano ipotesi di inesistenza assoluta (occasionale?) dell’oggetto materiale, la giurisprudenza si mantiene piuttosto larga nel riconoscimento dell’inidoneità relativa a scapito dell’inidoneità assoluta. Per es. ha ritenuto casi d’inidoneità relativa (dunque punibile): il tentativo di riscossione di denaro per mezzo di carta bancomat altrui senza conoscenza del numero di codice, poiché nel presente caso la chance di successo della sottrazione di denaro dalla cassa automatica, benché minima, non è totalmente da escludere (56). L’impiego di una chiave di automobile per aprire un’auto altrui, perfino di marca diversa. Casuale non presenza di un oggetto in sé esistente (come il caso della vittima di tentativo di rapina che non aveva con sé la merce). (53) JESCHECK e WEIGEND, op. cit. (nota 36), p. 531. (54) Sezioni unite della Corte suprema di giustizia, 23 ott. 1986 [cit. in Wiener Kommentar, cit., (nota 40), § 15, 16, n. 78]. (55) Per tutti BURGSTALLER, in JurBl., 1986, p. 77. (56) Qui, come nell’esempio seguente, è toccato l’aspetto della misura della possibilità rilevante (su cui brevemente infra alla fine del par.).
— 1112 — La giurisprudenza ha invece ritenuto ipotesi di inidoneità assoluta (non punibile) l’uso di carta di credito trattata come fosse carta bancomat. c) In Francia la questione sulla punibilità o no del tentativo impossibile è da lungo tempo al centro di vivaci controversie dottrinali e di lunghe esitazioni e oscillazioni giurisprudenziali, e non è ancora risolta. Una parte della dottrina propende per la non punibilità, sostenendo che in caso di delitto impossibile (manovre abortive su donna non gravida, omicidio di...un cadavere; ma anche apertura in chiesa di una cassetta per le elemosine vuota) non sono concepibili né l’esecuzione né l’inizio di esecuzione (che sono propriamente i soli requisiti espressi previsti per il tentativo dal codice francese), poiché non si può cominciare a eseguire un’azione impossibile. Ma è stato risposto che invero ciò che è impossibile è in tali casi il risultato dei concreti atti compiuti, i quali per parte loro (manovre abortive, apertura di cassaforte, ecc.), presi di per sé, sono atti esecutivi. Successivamente un terzo indirizzo ha mediato tra le due posizioni precedenti, proponendo differenze tra le diverse cause di impossibilità (come mostrerebbero anche esempi prima addotti, non tutti dello stesso tenore): 1) o richiamandosi alla distinzione di origine germanica tra impossibilità assoluta e impossibilità relativa (l’impossibilità è assoluta se i mezzi impiegati erano radicalmente inefficaci — fucile caricato a salve — ed è relativa quando i mezzi avrebbero potuto produrre il risultato voluto se fossero stati utilizzati meglio — colpo di fucile fuori della portata della vittima — o quando l’oggetto dell’infrazione era solo momentaneamente impossibile — cassa di sicurezza occasionalmente vuota —). 2) Oppure dissociando le ipotesi di impossibilità giuridica (infanticidio di un bambino ... nato morto) da quelle di impossibilità di fatto (tasca vuota della vittima:): le prime non punibili, le seconde sì. La corte di cassazione si è prima attestata su quest’ultima distinzione per poi procedere nella direzione della repressione incondizionata (es. condanna in un caso considerato d’impossibilità assoluta dalla medicina legale: immissioni di acqua di colonia mischiata ad acquavite allo scopo di provocare l’aborto). L’ipotesi che divide tuttora gli animi è quella cd. d’impossibilità di diritto (caso guida: il tentativo di omicidio nei confronti di persona già morta) (57): nel 1986 la corte di cassazione con una sentenza impregnata di soggettivismo ha condannato, ricevendo l’approvazione di parte della dottrina ma esponendosi al rilievo che per legge il tentativo punibile deve costituire l’inizio di esecuzione di un atto suscettibile di ricevere in sé stesso, se fosse consumato, una qualificazione penale. La definizione legale dell’omicidio implica necessariamente l’attentato alla vita, cioè l’azione mortale commessa su una persona vivente. d) In Spagna il nuovo codice richiede che il soggetto esegua tutti o (57)
In Italia tale caso è risolto in base all’art. 49 c.p.
— 1113 — parte degli atti che « oggettivamente dovrebbero produrre l’evento ». Come si può notare, tale definizione allude nella parte virgolettata proprio al requisito di idoneità (= atti con capacità obiettiva di risultato). La dottrina oggettivista, premesso che « il diritto penale di uno Stato sociale e democratico di diritto (art. 1 Costituz. spagnola) è chiamato al compito politico-sociale di prevenzione di comportamenti esterni nella misura della loro pericolosità oggettiva per i beni giuridici » (58), ha cura di precisare che « pericolosità oggettiva non significa che così come sono andate le cose nel caso concreto gli atti esecutivi hanno potuto produrre la consumazione, ma bensì che in altre circostanze avrebbero potuto condurre a essa » (59). E si spiega: « Si tratta di una pericolosità statistica sufficiente per una fondazione di prevenzione basata sulla variante dell’utilitarismo che oggi suole considerarsi preferibile tra i seguaci di tale dottrina etica: l’utilitarismo della regola, non dell’atto » (60). Questa specie di pericolosità si presenta tanto nel tentativo idoneo (in senso stretto) che nel tentativo inidoneo (= astrattamente idoneo). Quanto al cd. delitto impossibile (o tentativo assolutamente inidoneo), dovuto a inidoneità dell’oggetto, del mezzo o del soggetto, si possono distinguere ‘ex post’ (= ex ante con base totale) (cioè una volta che si conoscono tutte le caratteristiche del fatto) le azioni che di massima erano idonee alla consumazione (sebbene dopo falliscano per circostanze posteriori) e quelle altre che sin dall’inizio si mostrano incapaci di lesione. Solo queste ultime costituiscono tentativo assolutamente inidoneo (61) (nello stesso senso una sentenza della corte suprema, con riferimento al versamento di una quantità insufficiente di veleno nella bevanda della vittima: esempio peraltro di dubbio significato). La dottrina sia soggettivistica (62) che soggettivo-oggettivistica (63) (corrispondente alla teoria tedesca dell’Eindruck) ritengono sempre punibile anche il tentativo assolutamente inidoneo. Invece gli oggettivisti distinguono tra inidoneità e inidoneità e ritengono punibile il tentativo inidoneo solo a condizione che esso, giudicato ex ante, appaia idoneo alla consumazione per lo spettatore obiettivo posto nella situazione dell’autore (64). L’idoneità ex ante (65) implica d’altra parte la realtà della pericolosità statistica del diritto. Si tratta di un pericolo astratto, a differenza del pericolo concreto che ricorre nel tentativo idoneo anche concretamente. Come in tutti i delitti di (58) (59) (60) (61) (62) (63) (64) (65)
MIR PUIG, op. cit. (nota 35), p. 329. MIR PUIG, op. cit., p. 330. MIR PUIG, op. loc. cit. Corte suprema di Spagna, 16 febbr. 1989 (cit. in MIR PUIG, op. cit., p. 346). CEREZO MIR, in Hirsch/Festschr., 1997, p. 135 ss. Riferimenti di dottrina e giurisprudenza in MIR PUIG, op. cit., p. 338, 346. MIR PUIG, op. cit., p. 346. Corrispondente al nostro giudizio ex ante « a base parziale ».
— 1114 — pericolo astratto non occorre la risultanza che un concreto bene giuridico sia stato (effettivamente) messo in pericolo, ma è sufficiente la « pericolosità tipica » (es. guidare in stato di ubriachezza senza incontrare nessun compartecipe del traffico: condotta pericolosa ex ante, sebbene non fosse nei dintorni presente una possibile vittima). Appunto tale fondamento permette di includere anche il tentativo « inidoneo » (purchè astrattamente idoneo) nella definizione di tentativo dell’attuale codice penale, sebbene questo richieda alla lettera « atti di esecuzione che oggettivamente dovrebbero produrre il risultato »: la oggettività che qui può esigersi deve intendersi nel significato di intersoggettività insito proprio nel criterio dell’uomo medio situato ex ante (66). La breve analisi di diritto comparato, condotta a fini conoscitivi e informativi, denota anzitutto varietà terminologiche che vanno decodificate con attenzione (67). Nel sèguito del discorso si useranno le espressioni senza più specificare: a) idoneità concreta, ricavata tramite giudizio totale ex ante; b) idoneità astratta, ricavata tramite giudizio parziale ex ante; c) inidoneità assoluta, ricavata anch’essa tramite giudizio ex ante a base parziale, e costituente l’esatto contrario dell’idoneità astratta. Sul piano della sostanza delle cose si può notare come l’esperienza giuridica di buona parte dei paesi europei insegni che l’idoneità è data per implicita una volta che il soggetto compie dolosamente atti esecutivi. E solamente in via residuale e talvolta eccezionale la inidoneità rileva con effetti di non punibilità. Ciò, prima di essere criticato e contestato, deve fare riflettere. Sulla scorta del quadro europeo sarebbe allora superficiale meravigliarsi, o per ciò solo disapprovare, se il progetto 2000 non menziona più l’idoneità come requisito diretto del tentativo. In fondo il progetto, cosi operando, segue la corrente maggioritaria (68). Piuttosto, la tradizione ha il suo peso (69): se solo si pone mente che l’idoneità del tentativo è una figura sempre esistita nel diritto penale italiano (70) — una sua bandiera — e perfino campeggiante nel codice autoritario del Trenta, abbandonarla proprio oggi che oltre a tutto si fa sempre un gran parlare del principio di offensività, può suonare di incerta opportunità. E non possono accogliersi (66) MIR PUIG, op. cit., p. 347. (67) MORSELLI, op. cit. (nota 22), p. 195. Si guardi per es. alla dottrina spagnola (e anche a quella italiana, come è noto). Sui rapporti e implicazioni tra contenuto della norma e linguaggio PULITANÒ, Relazione alla Conferenza dell’ISISC (vd. supra alla nota 2), p. 5 s. della bozza. (68) Tuttavia si noti che numerose legislazioni latino-americane prevedono espressamente l’elemento dell’idoneità. (69) In discorso più ampio, PULITANÒ, op. cit., p. 7 della bozza. (70) Vd. il ricco quadro storico offerto da GIACONA, Il concetto d’idoneità nella struttura del delitto tentato, 2000, p. 218 ss.
— 1115 — pianamente due motivazioni portate nel documento di sostegno al Progetto (71). La prima è che l’idoneità non sarebbe criterio funzionale alla delimitazione della soglia iniziale di rilevanza del tentativo. Il che può essere vero solo parzialmente, giacché è opinione prevalente nella stessa letteratura tedesca — come si è avuto modo di riferire — che nei reati omissivi di evento la soglia di inizio rilevante è data proprio dalla messa in pericolo (cioè una sorta di idoneità), attraverso l’omissione, del bene giuridico tutelato (salvo doverosamente aggiungersi che il pericolo deve essere ormai « immediato », e salvo poi discutersi sul contenuto di tale pericolo: oggettivo, soggettivo o altro) (72). Ma a parte questa funzione delimitativa — che costituisce per cosi dire la sua funzione complementare — il senso e la portata principale dell’idoneità sta altrove: nell’esigenza di accordare attenzione penale al tentativo serio, a quello capace di giungere al risultato prefisso (come riconosce da sempre la manualistica italiana, del passato e del presente) (73). La seconda motivazione dei progettisti — detta en passant, ma comunque detta — è di non menzionare l’idoneità per evitare che essa venga intesa in senso ... troppo radicale (alla lettera: « Il requisito dell’idoneità di cui all’art. 56 potrebbe rivelarsi inadeguato: fra l’altro perchè potrebbe ingenerare l’equivoco che il tentativo non sia punibile in presenza di una inidoneità anche solamente relativa ») (74). Ma non si elimina un elemento del reato solo perché se ne paventa un’interpretazione che non convince o non piace. Certo, si potrebbe rispondere che in fondo l’esclusione non è assoluta e definitiva, posto che l’idoneità è pur sempre menzionata, in negativo, nella parte in cui si decreta la non punibilità per inidoneità della condotta. Ma non è la stessa cosa: in questa maniera si opera un confinamento alla tedesca. Come si sa, un conto è che un certo requisito costituisca elemento del tipo o della fattispecie, altro conto è che il suo rovescio funga da causa di non punibilità. Ma si venga alla relazione definitiva che accompagna il Progetto (75). Il requisito di idoneità è rifiutato, adducendosi: « La Commissione dubita che nella realtà tale elemento sia in grado di assolvere alle esigenze di sufficiente tipizzazione della fattispecie generale del tentativo, tanto più che il giudizio deve necessariamente avvenire ex ante sulla base degli incerti parametri dell’uomo medio di categoria, integrati dalle particolari capacità del singolo soggetto agente. Inoltre, essendo la idoneità riferibile pure a fattispecie di reato prive di contenuto offensivo per il bene giuri(71) (72) (73) (74) (75)
PALAZZO e GROSSO, Documento n. 6, cit. (nota 4), p. 153 ss. Dettagliatamente ESER, op. cit. (nota 23), § 22, n. 42 ss. Da Antolisei a Bettiol; da Pagliaro a Mantovani, a Fiandaca e Musco. PALAZZO e GROSSO, Documento n. 6, cit., p. 156. Relazione finale al Progetto 2000, su Internet, cit. (nota 3), p. 39 ss.
— 1116 — dico, anche come indice di una concezione del reato necessariamente fondata sulla offesa del bene protetto la sua efficacia appare tutt’altro che sicura » (76). Peraltro — come già detto — l’idoneità è in qualche modo indirettamente richiamata nel terzo comma dell’art. 43 del Progetto, dove si decreta la non punibilità « quando, per l’inidoneità della condotta o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile la consumazione del delitto ». La Relazione spiega che « la riproposizione della norma sul reato impossibile (limitata ai delitti, e specificamente inserita all’interno della disciplina del tentativo) è apparsa utile allo scopo di contribuire ulteriormente alla delimitazione dell’area della punibilità, enunciando formalmente che se la consumazione del delitto risulta impossibile a causa dell’inidoneità (ex ante) della condotta, o della inesistenza dell’oggetto materiale della stessa, il soggetto non può essere comunque soggetto a pena, anche se ha iniziato la esecuzione di una condotta tipica » (77). Su tale posizione viene da rilevare: a) Anzitutto sorprende il negare fiducia al tradizionale giudizio ex ante dell’osservatore esterno. Se c’è un giudizio nel diritto penale di cui non si è mai fatto a meno questo è proprio il giudizio in parola. Dai tempi dei grandi criminalisti tedeschi alla von Liszt il metodo ex ante della cd. prognosi postuma (78) si è imposto in settori cruciali, da quello dell’adeguatezza causale a quello soprattutto della colpa (dove è tuttora irrinunciabile), oltrechè (a torto o a ragione) nell’ambito del pericolo come elemento di fattispecie e del pericolo come presupposto di legittima difesa e stato di necessità (ed è infine accolto nello stesso Progetto a proposito del delitto impossibile) (79). b) Il rilievo che l’idoneità, essendo riferibile anche ai cd. reati senza offesa, non è proprio il concetto più adatto in una concezione che si richiama al principio di necessaria offensività, è irricevibile. Infatti è vero che l’idoneità, essendo un concetto neutro quanto a considerazioni di valore, si attaglierebbe anche a fattispecie prive di offesa (ammesso pure che esistano o è lecito che esistano in diritto penale) (80). Ma tale affermazione non esclude affatto che l’idoneità possa impiegarsi altrettanto bene nei reati di offesa: essendo concetto assiologicamente neutrale (come i concetti di possibilità, probabilità, attitudine, ecc.) non tollera eterolimita(76) Relazione, ult. cit., p. 40. (77) Relazione, ult. cit., p. 42. (78) Su cui le precisazioni di MARINUCCI, in questa Rivista, 1983, p. 1224 s., che distingue opportunamente tra due diverse prospettive, quella soggettiva, adatta a giudicare sulla condotta dell’agente, e quella oggettiva, che incarna il punto di vista del soggetto passivo e del bene giuridico. (79) Relazione, ult. cit., p. 42. (80) MARINUCCI e DOLCINI, op. cit. (nota 1), p. 559 ss.
— 1117 — zioni, di ordine assiologico, al suo impiego. Anzi, se lo si vuole caricare di contenuti di valore (che, si ripeta, originariamente non ha), il concetto di idoneità diventa sinonimo del concetto di pericolosità, di pericolo, questi sì traboccanti di disvalore (il pericolo si definisce da sempre: la probabilità di un evento temuto, la possibilità qualificata di un danno). Ma allora, proprio in omaggio al principio di offensività, si deve reclamare anche nell’area del tentativo un elemento oggettivo del reato, un requisito che denoti l’offensività del tentativo stesso. c) Ma nel progetto 2000 l’idoneità, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra, anche se travestita in forma « negativa »: nella figura del cd. delitto impossibile, una riedizione dell’ambiguo art. 49 del codice vigente, espressamente riferita al tentativo. E come nella norma ispiratrice resta in piedi la doppia evenienza: il tentativo non è punibile « quando, per l’inidoneità della condotta o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile la consumazione del delitto » (art. 43 terzo comma del Progetto). Questa disposizione, così come è testualmente formulata, implica certamente l’illegittimità di una considerazione ex ante a base totale del delitto impossibile, giacchè lo smembramento della ragione dell’impossibilità in due sottocause separate: condotta inidonea e oggetto inesistente, comporta necessariamente che il giudizio sull’inidoneità della condotta deve prescindere dal suo oggetto materiale; cioè per stabilire se una condotta è inidonea oppure no, non importa affatto chiedersi e accertare se una vittima era o no presente nel raggio di azione della condotta stessa: il giudizio, per disposizione di legge, diventa qui necessariamente un giudizio ex ante a base parziale, poichè appunto esula dal quadro ambientale da prendere in considerazione la circostanza della presenza del soggetto passivo (o dell’oggetto materiale) (81). D’altro canto, l’altra causa di non punibilità, trattandosi non di mancanza o di assenza dell’oggetto, ma bensì di inesistenza, è presumibilmente da riferire ai soli soggetti passivi e oggetti inesistenti in rerum natura e perciò il giudizio su di essa dovrebbe essere ex post in senso stretto. d) La perpetuazione della figura del tentativo impossibile (in luogo di un’eventuale figura del tentativo inidoneo, che peraltro sarebbe superflua, almeno sul piano strutturale, se nella descrizione del tentativo punibile la legge menzionasse il requisito di idoneità), comporterebbe inoltre la conseguenza che, ove la consumazione non sia impossibile, riprende(81) A proposito dell’art. 49 vigente un’attenta dottrina ha evidenziato: « Accanto all’inidoneità dell’azione l’art. 49 menziona, in alternativa ad essa, l’inesistenza dell’oggetto dell’azione medesima. Ciò sta a dimostrare che l’inidoneità dell’azione è concepita dal legislatore a prescindere dall’oggetto — persona o cosa — su cui l’azione va a cadere, il che è errato, dato che l’assenza di possibilità di consumazione può dipendere in concreto anche dalla non presenza dell’oggetto (di cui alla figura criminosa) » (M. ROMANO, op. cit. (nota 42), art. 49, n. 29).
— 1118 — rebbe vigore la norma generale sul tentativo punibile, con la ulteriore obbligata conseguenza — sgradita alla dottrina dominante ma conforme alle leggi della logica — che sarebbe sufficiente per la integrazione del tentativo punibile la non impossibilità, ossia la mera possibilità della consumazione. Questo esito non confacente (82) (ma, riguardo all’art. 49 vigente, esegeticamente corretto, anzi invincibile) è oggi, de lege ferenda, evitabile: mediante la non riproposizione di un testo che faccia riferimento al tentativo impossibile. Alla fine del commento precedente balza evidente la proposta che qui si avanza: conferire nuovamente all’idoneità il suo rango, nel luogo che le compete. Una volta che si riconoscesse il dovere di conservazione dell’elemento dell’idoneità, irromperebbe la questione centrale: idoneità concreta oppure idoneità astratta (83)? Questione che potrebbe ricevere tre risoluzioni diverse: 1) affidare la risposta a dottrina e giurisprudenza; 2) scegliere d’imperio una delle due alternative; 3) accogliere in seno alla legge ambedue le figure (eventualmente con qualche diversità nelle conseguenze giuridiche). La prima risposta è stata data implicitamente dai progetti 92 e 96, che nel testo da loro suggerito hanno conservato la dizione del codice vigente: « atti idonei », senza specificazioni (può essere che non si siano posti il problema). La seconda risoluzione (scegliere una specie di idoneità a scapito dell’altra) potrebbe essere preferita da quanti intendano dare ascolto incondizionato al principio della concreta offensività. In questa logica si manterrebbe ferma la ratio e quindi l’esigenza del pericolo concreto e pertanto l’idoneità elemento della fattispecie di tentativo sarebbe l’idoneità concreta in s.s. (84). Se cosi fosse, l’idoneità astratta non costituirebbe (più) una componente sufficiente e essenziale del delitto tentato. Tuttavia, per evitare innegabili lacune di tutela penale e non eludere il dovere di tenere conto del quadro generale del diritto comparato, si potrebbe operare nei seguenti modi: a) Applicare all’autore dei fatti di mera idoneità astratta una misura di sicurezza adeguata (a cagione della mostrata pericolosità del soggetto). Ma il progetto 2000 non prevede misure di sicurezza se non per i casi dei soggetti non imputabili; e parimenti il progetto 92 limita fortemente l’impiego delle misure di sicurezza. b) Affidare il soggetto agente al diritto di polizia. Ma sarebbe un ripiego che, allo stato attuale della rilevanza del diritto di polizia nell’ordinamento italiano, non sarebbe realistica e non troverebbe consensi. (82) PADOVANI, in Il delitto politico, 1984, p. 179 s.; FIANDACA e MUSCO, Diritto penale, cit. (nota 28), p. 415 s. (83) Sul preciso significato delle due qualifiche vd. supra in questo par. (84) Per tutti: MARINUCCI, op. loc. cit. (nota 78); SEMINARA, op. cit. (nota 1), p. 452 s.
— 1119 — c) Prevedere (per i casi d’idoneità meramente astratta) una o più figure di reato ad hoc con specifico oggetto dell’offesa: per es. la tranquillità (o la sicurezza) pubblica (e del soggetto passivo). In fondo si opererebbe in analogia alla vigente previsione di reati contro l’ordine pubblico; e si metterebbe in risalto sui generis la nota teoria dell’Eindruck. Tuttavia tale soluzione avrebbe anzitutto un grave inconveniente pratico riguardo alla determinazione della pena edittale, che dovrebbe essere congrua con riferimento a fattispecie tentate di diversissima gravità (da tentativo di furto a tentativo di omicidio). E la creazione di più fattispecie del genere a fini di perequazione comporterebbe un appesantimento forse eccessivo del quadro delle fattispecie di parte speciale. Resterebbe inoltre da stabilire se in presenza dell’idoneità astratta l’evento di turbamento della tranquillità (o sicurezza) sia sempre implicito e presunto oppure sia effettivo elemento della fattispecie (dunque da accertare appositamente). Si consideri infine che il turbamento della tranquillità pubblica non sarebbe un effetto proprio ed esclusivo di tali fatti, ma si addice anche ai delitti tentati di idoneità concreta e ancor più a quelli consumati e in fondo a tutti i reati (delitti e contravvenzioni, dolosi e colposi). d) Per esclusione delle opzioni precedenti, statuire la rilevanza penale a titolo di tentativo sia dei fatti d’idoneità concreta che dei fatti d’idoneità astratta. Si dovrebbe però prevedere — a segnalare l’irriducibile diversità di offesa tra l’una e l’altra figura — una tangibile differenziazione di pena: ovviamente sanzione maggiore nel caso di idoneità concreta e minore nel caso di idoneità astratta (85). A questo punto, melius re perspecta, si vengono a indicare le ragioni che dovrebbero indurre ad abbandonare — con riferimento al tentativo e ai fini del giudizio d’idoneità degli atti — la tesi della rilevanza del solo giudizio ex ante a base totale (86). 1) Nel quadro dell’analisi comparatistica di dottrina e giurisprudenza questa tesi risulta estrema e isolata, e ciò non depone a favore, anche in vista di una futura unificazione o comunque armonizzazione degli ordinamenti penali nazionali, perlomeno dei paesi dell’Unione europea. 2) Il panorama italiano egualmente rivela che la giurisprudenza quasi unanime (87) e la dottrina dominante non accolgono la tesi. 3) La tesi conduce a conseguenze non soddisfacenti dal punto di vista dell’efficacia della tutela dei beni giuridici e della funzione generalpre(85) Sul punto infra, par. 7. È la soluzione patrocinata fra gli altri da GIACONA, op. cit., (nota 70), p. 461 ss., con specificazioni. (86) La tesi è sostenuta (fra pochi altri) da Marinucci, Fiandaca e Musco, Seminara, C. Fiore, Prosdocimi, Giacona e F. Angioni. (87) Come risulta non tanto dalla scorsa delle massime giurisprudenziali, spesso di ambigua decifrazione, quanto dalla lettura per esteso delle sentenze. Un quadro efficace dell’orientamento della giurisprudenza in SEMINARA, op. cit. (nota 1), p. 441 s.
— 1120 — ventiva delle norme penali, poichè comporta la negazione della punibilità, a titolo di tentativo, di condotte che dimostrano rilevante antisocialità e producono allarme sociale (es. condotta seriamente operante per la realizzazione del delitto, in effetti andata a vuoto per l’intervento predisposto dalla forza pubblica o per l’occasionale assenza del soggetto passivo o dell’oggetto materiale) (88). 4) La tesi, pur essendo di tutte la più rispettosa e garante del principio (costituzionale) di offensività, non è l’unica a esso conforme. A ben vedere, anche giudizi più astratti (89) (per es. il giudizio di pericolo cd. generico (90), cioè il giudizio di Gefahrlichkeit dei tedeschi — distinto dal giudizio sulla Gefahrdung —), non contrastano con il principio di offensività, tanto più se si riflette che le stesse fattispecie di pericolo astratto in s.s. di norma (salvo cioè le eventuali ipotesi di pericolo presunto in esse incuneate) sono ormai dalla stragrande maggioranza della dottrina considerate conformi al principio stesso. 5) Al fine di un’anticipazione della tutela rispetto alle fattispecie di lesione (o di risultato), il legislatore ha fra l’altro a disposizione: nei confronti di fatti colposi fattispecie colpose di evento di pericolo (e di condotta pericolosa) e nei confronti di fatti dolosi fattispecie di tentativo (oltreché eventuali fattispecie combinate di dolo e di colpa) (91). Ma nelle figure colpose il pericolo e la pericolosità devono essere intesi nel senso più reale e concreto per evitare di costruire tali elementi del reato come meri doppioni della colposità (oggettiva) della condotta (92); invece nelle figure dolose il requisito d’idoneità della condotta di tentativo non incorre mai — anche se costruito in senso meno concreto del pericolo nei reati colposi — nell’inconveniente di costituire una superfluità, un duplicato di altro elemento del reato. 6) Il dolo — soprattutto la sua forma più intensa, il dolo intenzionale — costituisce il rovescio esatto, l’antipode della colpa, sotto molteplici aspetti, fra i quali si può mettere in evidenza il seguente: per definizione la condotta colposa tipica configura una violazione di regola cautelare preventiva; dunque il suo autore produce una situazione di rischio (88) È una delle ragioni poste a fondamento della teoria dominante in Germania (Eindruckstheorie). (89) Si ricordino le brevi ma importanti considerazioni di MIR PUIG, op. cit. (nota 35), p. 346 ss. (90) Per questa terminologia: GRASSO, in questa Rivista, 1986, p. 700. (91) Le cd. Mischtatbestände sono frequenti nella legislazione tedesca, mentre in Italia sono talora ricavate in via d’interpretazione, in particolare con riferimento a fattispecie contenenti (supposte) condizioni di punibilità (si può vedere F. ANGIONI, in questa Rivista, 1989, p. 1510 ss.). (92) F. ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, 2 ed., 1994, p. 178 ss. Un’importante conferma del punto di vista qui sostenuto (identità concettuale tra pericolosità astratta e colposità): KORIATH, in GA, 2001, p. 54 ss.
— 1121 — neppure pensato (nella colpa incosciente) oppure assume un rischio di cui è consapevole (nella colpa cosciente). Ma — e ciò è fondamentale — benchè contrario al diritto, alla pretesa dell’ordinamento, il comportamento colposo opera pur sempre in un contesto generale di rispetto dei beni giuridici finali e all’occorrenza il suo autore farà di tutto per stornare il pericolo in atto (e da lui cagionato) e evitare la lesione del bene giuridico. Tutto il contrario avviene nel comportamento doloso e massimamente nella condotta di dolo intenzionale: qui il soggetto non solo assume coscientemente un rischio per il bene giuridico, ma ricerca deliberatamente il raggiungimento della lesione del bene e fa di tutto per vincere gli ostacoli che si frappongono. Ne deriva che nella condotta dolosa (intenzionale) è insita una pericolosità generale molto maggiore che nella corrispondente (ceteris paribus) condotta colposa. La differenza tra colpa e dolo (intenzionale) non corre dunque soltanto sul filo tradizionale e naturale della colpevolezza, ma anche sul piano dell’offesa. Il riconoscimento di tale ulteriore differenza tra i due atteggiamenti interiori induce l’ordinamento penale a distinguere anche sotto questo aspetto la sua posizione nei confronti del dolo intenzionale da una parte e della colpa dall’altra. Contro la condotta dolosa diretta intenzionalmente alla realizzazione del delitto l’ordinamento reagisce (come in Italia la sua giurisprudenza) non solo in presenza di un’idoneità concreta, ma anche in presenza di un’idoneità astratta occasionalmente fallibile (93). Invece contro la causazione di un pericolo da parte della condotta colposa l’ordinamento penale di norma non reagisce e nelle ipotesi in cui tuttavia reagisce (come nei reati colposi di pericolo comune), il fatto colposo rileva solo a patto che il pericolo causato sia concreto e effettivo. Dagli argomenti precedenti può derivare la conclusione — che qui si propone — di riconoscere valido e rilevante, nel tentativo, accanto all’elemento dell’idoneità concreta in senso proprio, l’elemento dell’idoneità astratta (magari con diversità quantitativa sul piano delle conseguenze sanzionatorie). Infine brevi note sul grado di probabilità rilevante nella realizzazione del tentativo. Se la ragione della punibilità del tentativo — oltre alla presenza del dolo di consumazione — è il pericolo (diretto, indiretto) per il bene giuridico, la misura della possibilità è in linea di massima quella che generalmente si richiede per la sussistenza del pericolo: una seria possibilità, una possibilità qualificata di realizzazione del delitto consumato. Per possibilità seria e qualificata si intende quella che metterebbe in allarme (93) E gli ordinamenti stranieri — come si è veduto prima — o neppure richiedono per la punibilità del tentativo l’attributo di idoneità o si astengono dall’intervenire solo nei riguardi dei tentativi assolutamente (o grossolanamente) inidonei.
— 1122 — una persona imparziale e ragionevole che conoscesse l’iter criminoso, inducendolo a prendere adeguate contromisure (94). È invece da ritenere insufficiente la misura della possibità semplice (o non impossibilità) (95). Si possono portare almeno due argomenti contro tale grado minimo di possibilità. 1) Se fosse valida una misura così bassa ne risulterebbe sul punto una discrasia tra idoneità e pericolo, dato che il pericolo per comune opinione richiede la possibilità qualificata, la probabilità dell’evento dannoso. Con l’effetto irragionevole che, davanti a un fatto ormai giunto allo stadio del tentativo ma dotato di mera possibilità di successo, la vittima (l’aggredito) non potrebbe accampare la legittima difesa per mancanza del presupposto del pericolo (= probabilità qualificata di lesione). 2) Il principio di esiguità, che è un derivato del principio di ultima ratio, tende a vietare la rilevanza penale di comportamenti dotati di mera possibilità (= esiguità) di offesa. 6. Disciplina sanzionatoria. — Per quel che riguarda la disciplina sanzionatoria del tentativo, il diritto comparato presenta soluzioni multiformi. Si va dalla sorprendente parificazione della pena per il tentativo e di quella del rispettivo reato consumato nel diritto francese; alla diminuzione soltanto facoltativa della pena nel diritto tedesco. Quest’ultima è ritenuta un derivato dell’Eindruckstheorie (96); per cui dipende dalla propinquità del fatto alla consumazione, dalla pericolosità del tentativo, e dall’intensità della volontà criminosa, se il fatto merita o no la diminuzione di pena quantificata nel par. 49 I (dove la cornice edittale attenuata consiste in un quadro che va da un massimo di tre quarti della pena principale a un minimo mediamente di un terzo) (97). Il codice italiano e così i progetti 92, 95 e 2000 tutti prevedono una diminuzione della pena, obbligatoria e più o meno congrua. Si tratta di uno degli effetti naturali dell’oggettivismo in diritto penale, che pone in risalto la mancanza del disvalore dell’evento nel delitto tentato. Il progetto 92 prevede una pena congruamente ridotta, senza specificare. Il progetto 95 conserva la diminuzione da un terzo a due terzi prevista nel codice vigente. Invece il progetto 2000 statuisce che « il colpevole è punito con la pena prevista per il delitto consumato diminuita da un terzo alla metà ». Nella relazione di accompagnamento si spiega che « la sostituzione della indicazione dei due terzi con quella della metà risponde all’orientamento generale di circoscrivere per quanto possibile la discrezionalità giudiziale nella commisurazione della (94) Sul punto un quadro e un’indagine approfondita in GIACONA, op. cit. (nota 70), p. 63 ss. (95) Tesi invece sostenuta — de iure condito (art. 49 c.p.) — da F. ANGIONI, Pericolo concreto, cit., p. 257 ss. (96) JESCHECK e WEIGEND, op. cit. (nota 36), p. 522. (97) Maggiori particolari si ricavano dalla lettura diretta del § 49 I cod. pen. tedesco.
— 1123 — pena ». Va tuttavia evidenziato che tale delimitazione edittale ridonda a scapito del reo: mentre nel codice Rocco, supposta pari a 100 la pena del delitto consumato, la pena del delitto tentato va da 66 a 33; nel progetto 2000 la pena per il tentativo andrebbe da 66 a 50 (98). Piuttosto, quanto al meccanismo di determinazione astratta della pena può essere utile prestare attenzione a un particolare. Nella fattispecie di tentativo la cornice edittale della pena è il risultato del concorso di due norme, quella originaria che fissa la sanzione del singolo tipo di delitto e quella integratrice che disciplina il tentativo (es. art. 56 secondo comma c.p.). Ne sortisce un effetto di amplificazione, poichè alla forbice tra massimo e minimo della pena prevista per il delitto consumato si aggiunge la forbice prevista per la fattispecie derivata di tentativo. Per es., premesso che la rapina consumata è attualmente punibile con la reclusione da 3 a 10 anni, stando alla disposizione sanzionatoria vigente del tentativo (diminuzione della pena prevista per il delitto principale da un terzo a due terzi), la pena edittale valevole per la rapina tentata va da 1 anno a 6 anni e 8 mesi. Nell’esempio scelto, mentre il rapporto tra minimo e massimo della fattispecie consumata è di 1 a 3,33, il medesimo rapporto tra minimo e massimo diventa nella fattispecie tentata di 1 a 6,66, cioè addirittura si raddoppia (99). Questo è un effetto automatico dipendente dalla logica matematica, che non può essere eluso e che suona nel senso contrario a quello attualmente predicato del contenimento dell’ampiezza del rapporto tra minimo e massimo della pena e del connesso potere discrezionale di commisurazione giudiziale. La soluzione patrocinata è allora a favore di una corrispondenza piena tra cornice del delitto principale e cornice del delitto tentato, nel senso appunto di identità di rapporto tra minimo e massimo della pena edittale. Questo risultato si ottiene semplicemente stabilendo una frazione unica nella disposizione sanzionatoria della norma sul tentativo (per es.: il fatto tentato è punito con la metà della pena prevista per il corrispondente delitto consumato, oppure il fatto tentato è punito con un terzo della pena prevista per il fatto consumato, ecc.) (100). 7. Una proposta di norma sul tentativo. — Alla fine del discorso si avanza una proposta di disposizione sul tentativo, con breve commento. (98) Così si va nella direzione di un maggiore rigore rispetto allo stesso codice Rocco. (99) Per ragioni di logica matematica ciò si verifica in tutte le ipotesi, nessuna esclusa, di relazione tra pena edittale del delitto consumato e pena edittale del corrispondente delitto tentato. (100) In vista del principio di proporzione e congruenza si stia attenti a evitare sperequazioni quantitative sul piano sanzionatorio o disfunzionalità (per es. nel rapporto tra aumento di pena per le circostanze comuni e aumenti di pena nei concorsi di reati).
— 1124 — Delitto tentato 1) Commette tentativo di un delitto chi compie con dolo intenzionale o di certezza atti esecutivi del fatto e idonei alla sua consumazione, se l’azione o l’evento non si realizzano. 2) Il tentativo commesso con atti concretamente idonei è punito con la pena prevista per il delitto consumato diminuita della metà. 3) Il tentativo commesso con atti astrattamente idonei è punito con un quarto della pena prevista per il delitto consumato. 4) Il tentativo è punibile se per il delitto consumato è prevista una pena massima pari o superiore a tre anni di detenzione, salvo che la legge disponga altrimenti. Sul primo comma. In via interpretativa si ricava che: a) Il dolo intenzionale ricomprende il dolo indiretto degli eventi indissolubilmente connessi con l’oggetto dell’intenzione. b) Per atti esecutivi si intendono non solo o non tanto quelli formalmente tipici ai sensi delle fattispecie di parte speciale (qualificazione di problematica o arbitraria determinazione nelle fattispecie causali a forma libera commissive e omissive), ma quelli materialmente esecutivi, cioè non preparatori e giunti a uno stadio direttamente collegato alla consumazione (con la precisazione che il ‘direttamente’ comprende in sé anche il concetto di immediatezza temporale, ma vale pure per i fatti composti di più atti separati nel tempo) (101). c) Sotto il profilo quantitativo della misura della possibilità rilevante si intende per idoneità la possibilità qualificata di realizzazione del risultato: vale a dire quel grado di evenienza che supera il limite dell’adeguatezza sociale e provoca timore nella vittima e nella comunità, inducendoli a prendere misure di prevenzione e di difesa. d) Sotto il profilo strutturale il requisito di idoneità indica la necessità della presenza di una pericolosità degli atti, e il requisito di esecutività aggiunge la necessità che tale pericolo sia ormai attuale. Sul secondo e il terzo comma. Per idoneità concreta si intende l’idoneità che è accertata con giudizio ex ante a base totale secondo il metro dell’esperto universale. Per idoneità astratta (requisito complementare al precedente) si intende l’idoneità che è accertata secondo un giudizio ex ante a base parziale, ossia limitata alla situazione conosciuta dall’agente o riconoscibile dall’osservatore modello posto nella prospettiva spazio-temporale del soggetto e dotato delle cognizioni nomologiche proprie dell’esperto del settore cui appartiene il fatto. Sul quarto comma. Il riferimento alla pena dei tre anni di detenzione (101) Si risponde così a un’obiezione di GIULIANI BALESTRINO, Relazione alla Conferenza dell’Isisc (vd. retro alla nota 2), p. 11 della bozza. Vd. anche retro nel testo la nota 46.
— 1125 — è puramente indicativo, poichè la cifra più adeguata dipende dal quadro completo dei livelli di sanzione che siano stabiliti nella parte speciale. Per il resto, non è preveduta alcuna disposizione che sancisca la non punibilità del tentativo inidoneo o del tentativo impossibile. Non solo perché la non punibilità è agevolmente ricavabile dalle ipotesi dei commi 2 e 3, ma anche per ragioni sostanziali. In primo luogo, la dicitura di ‘inidoneo’ è equivoca — come mostra la legislazione e la dottrina comparata —: può intendersi per inidoneità sia l’inidoneità relativa, equivalente all’idoneità astratta di cui al terzo comma, sia l’inidoneità assoluta, che nel diritto penale del fatto e dell’offesa non può trovare collocazione e cittadinanza. In secondo luogo, un’eventuale figura di tentativo « impossibile » avrebbe l’inconveniente di prolungare la legittimità (o obbligatorietà) di un’esegesi che dall’equazione inidoneità=impossibilità induca a ricavare per converso l’equazione di idoneità=possibilità. Infine, mediante interpretazione teleologica, ecc. si può pervenire, anche senza esplicito richiamo, all’irrilevanza del fatto (benché in ipotesi astrattamente idoneo) indirizzato contro un oggetto o soggetto inesistente in rerum natura (102). FRANCESCO ANGIONI Ordinario di Diritto penale nell’Università di Sassari
(102)
MERLE e VITU, op. cit. (nota 32), p. 646 s.
STRUTTURA E NATURA GIURIDICA DELL’ILLECITO DI ENTE COLLETTIVO DIPENDENTE DA REATO LUCI ED OMBRE NELL’ATTUAZIONE DELLA DELEGA LEGISLATIVA
SOMMARIO: 1. Considerazioni preliminari. — 2. La questione cruciale di struttura dell’illecito dell’ente collettivo: costruzione unitaria o separata, in rapporto ai reati commessi da soggetti in posizione rispettivamente ‘‘apicale’’ e ‘‘subordinata’’? — 3. L’opzione del legislatore delegato in favore di una configurazione sostanzialmente unitaria della ‘‘colpevolezza’’ dell’ente ed i suoi negativi riflessi sulla ‘‘scusante’’ ex art. 6 d.lgs. relativa ai reati commessi dagli ‘‘apici’’: a) il carente sostrato empirico-criminoso della fattispecie. — 4. (Segue): b) l’incerto ancoraggio della disposizione ad autentici profili di (esclusione della) colpevolezza in senso normativo e ad una reale attitudine generalpreventiva. — 5. L’insufficiente statuto normativo dei modelli organizzativo-cautelari nella responsabilità dell’ente per i reati commessi dai ‘‘subordinati’’. — 6. La mancata attuazione degli obblighi di penalizzazione di matrice europea nei confronti dei dirigenti per i reati commessi dai sottoposti. — 7. La soluzione prospettata nel Progetto Grosso, in ordine all’incriminazione dei soggetti titolari di poteri di direzione e controllo per i reati commessi dai sottoposti, nel senso della responsabilità per omesso impedimento dell’evento-reato: superiore agibilità di una costruzione in termini di fattispecie di agevolazione colposa. — 8. La natura giuridica dell’illecito di ente collettivo dipendente da reato: a) precisazioni preliminari. — 9. (Segue): b) l’illecito dell’ente collettivo non ha natura amministrativa, mentre sembra ostare ad una sua piena qualificazione in termini di illecito penale l’estraneità delle sanzioni punitive per esso previste alla dimensione della pena criminale; precarietà di una sua configurazione quale tertium genus all’interno del più generale sistema punitivo. - 10. (Segue): c) l’illecito dell’ente collettivo come autentico illecito penale e configurabilità delle corrispondenti sanzioni punitive quale terzo binario del diritto penale criminale.
1. Il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 ha dato come è noto tempestiva attuazione alla delega legislativa contenuta nell’art. 11 l. 29 settembre 2000, n. 300, relativa alla responsabilità cosiddetta amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di personalità giuridica in relazione alla commissione di determinati reati da parte di soggetti incardinati in vario modo nella struttura dell’ente. Le ragguardevoli novità normative così introdotte nel nostro ordinamento giuridico meritano in via di principio convinta adesione, salvo naturalmente l’approfondimento critico delle distinte articolazioni di tale complessa ed inedita disciplina. Le ragioni di un positivo approccio preliminare non stanno tanto nella constatazione dell’adempimento degli ob-
— 1127 — blighi legislativi derivanti dalle fonti normative internazionali ed europee citate nell’intitolato della legge delega (1): una soverchia (quanto scontata) sottolineatura di tale profilo, da parte della dottrina e più in generale degli operatori del diritto, potrebbe anzi tradire una sorta di malcelata insofferenza nei confronti di un vincolo sostanzialmente avvertito come ‘‘eteronomo’’ dal punto di vista dell’esperienza giuridica e della sensibilità politico-legislativa ‘‘nazionali’’. Ciò che induce ad accostarsi con una generosa apertura di credito all’apparato normativo predisposto dal legislatore delegato è piuttosto la precisa consapevolezza di quanto fossero ormai maturi — e probabilmente indilazionabili, anche dall’angolo visuale ‘‘interno’’ — i tempi per ‘‘fare i conti’’ con la criminalità d’impresa mediante l’introduzione di una inequivocabile responsabilità diretta, penale o amministrativa che voglia qualificarsi, della societas per i reati lesivi di rilevanti beni collettivi commessi nell’interesse di questa da persone fisiche operanti al suo interno (2). Testimonianza significativa della propensione (1) Conviene sin d’ora sottolineare che, dal novero degli atti internazionali oggetto di ratifica ed esecuzione da parte della legge in parola, esula il secondo protocollo della Convenzione c.d. PIF (relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee), stabilito dal Consiglio dell’Unione Europea il 19 giugno 1997 e contenente disposizioni circa l’adozione da parte degli Stati membri di forme di responsabilità diretta delle persone giuridiche per i reati di frode, corruzione attiva e riciclaggio commessi a loro beneficio da soggetti individuali. D’altra parte, gli atti internazionali di matrice europea ratificati ed eseguiti si limitano a prescrivere, in rapporto alla criminalità d’impresa, che gli Stati membri introducano la responsabilità penale dei dirigenti delle imprese per analoghi reati commessi da persone soggette alla loro autorità. Si è venuta pertanto a creare, almeno in rapporto agli atti convenzionali collocati nel c.d. terzo pilastro dell’Unione Europea, la singolare situazione per cui, per un verso, la l. n. 300/2000 ha ‘‘ecceduto’’ gli obblighi legislativi che ne derivano e, per altro verso, ha omesso di adempiere gli obblighi di penalizzazione relativi, innanzitutto, a determinati soggetti individuali operanti all’interno dell’impresa collettiva: sul punto, v. ancora infra, n. 6. (2) La questione politico-legislativa, con i connessi consistenti risvolti dogmatici e sistematici, di una responsabilità diretta delle persone giuridiche per i reati commessi dai soggetti in rapporto più o meno stretto di ‘‘immedesimazione’’ con esse, si è posta all’attenzione della dottrina penalistica italiana con caratteri di urgenza, suscitando il confronto vivace di contrapposte prese di posizione, da almeno trent’anni: come punto di riferimento di tale periodizzazione può assumersi il fondamentale lavoro di BRICOLA, Il costo del principio ‘‘societas delinquere non potest’’ nell’attuale dimensione del fenomeno societario, (1970), ora in Scritti di diritto penale, II/2, Milano, 1997, p. 2975 ss. In questa sede può essere sufficiente richiamare, tra i molteplici significativi contributi dell’ultimo decennio: ALESSANDRI, Commento dell’art. 27, comma 1, in Commentario della Costituzione. Rapporti civili, BolognaRoma, 1991, p. 150 ss.; DOLCINI, Principi costituzionali e diritto penale alle soglie del nuovo millennio. Riflessioni in tema di fonti, diritto penale minimo, responsabilità degli enti e sanzioni, in questa Rivista, 1999, p. 19 ss.; FLORA, L’attualità del principio ‘‘societas delinquere non potest’’, in Studi urbinati, 1994-95, p. 529 ss.; MANNA, La responsabilità delle persone giuridiche: il problema delle sanzioni, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1999, p. 919 ss.; MILITELLO, La responsabilità penale dell’impresa societaria e dei suoi organi in Italia, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1992, p. 101 ss.; PALIERO, La sanzione amministrativa come moderno strumento di lotta alla criminalità economica, ivi, 1993, p. 1021 ss.; ID., Problemi e prospet-
— 1128 — ‘‘autonoma’’ della politica legislativa nazionale nei riguardi di tale problematica, è espressa, a tacer d’altro, dal Progetto preliminare di riforma del codice penale definitivamente licenziato di recente dalla Commissione Grosso (3): in più punti delle relazioni che accompagnano l’articolato — nel quale, come è noto, la questione della responsabilità delle persone giuridiche si estrinseca in una disciplina particolarmente complessa (4) — si coglie l’attenzione continua e ‘‘sinergica’’ con cui la commissione ha seguito i pressoché paralleli lavori parlamentari della legge delega n. 300/2000, instaurando una sorta di costruttiva interlocuzione a distanza al di là dei margini di coincidenza delle soluzioni rispettivamente adottate. Ma c’è una ragione ancora più precisa e squisitamente penalistica — sulla quale dovrebbe convenire anche chi dubita di una corrispondente natura della responsabilità delle persone giuridiche — che invoglia il giurista ad una preliminare valutazione positiva del lavoro svolto dal legislatore delegato. Intendo far riferimento al notevole ed apprezzabile grado di self-restraint, al limite del ‘‘difetto’’ di delega, con cui il decreto in parola ha costruito la ‘‘parte speciale’’ del sistema di responsabilità diretta degli enti collettivi. Già l’art. 11 della legge delega, discostandosi dall’opposta ditive della responsabilità penale dell’ente nell’ordinamento italiano, ivi, 1996, p. 1173 ss.; ROMANO, Societas delinquere non potest (nel ricordo di Franco Bricola), in questa Rivista, 1995, p. 1031 ss.; STELLA, Criminalità d’impresa: lotta di sumo e lotta di judo, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1998, p. 459 ss. In una prospettiva di diritto penale straniero e comparato, v., sempre di recente, AA.VV., Bausteine des europäischen Strafrechts, (Thema 5: Die strafrechtliche Haftung des Unternehmens und der Unternehmensorgane), Köln-Berlin-BonnMünchen, 1995; DE FARIA COSTA, Contributo per una legittimazione della responsabilità penale delle persone giuridiche, in questa Rivista, 1993, p. 1238 ss.; DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa. Crisi e innovazioni nel diritto penale statunitense, in questa Rivista, 1995, p. 88 ss.; DE SIMONE, Il nuovo codice penale francese e la responsabilità penale delle personnes morales, ivi, p. 189 ss.; ESER-HEINE-HUBER, (a cura), Criminal Responsibility of Legal and Collective Entities, Freiburg, i.Br., 1999; HEINE, Die strafrechtliche Verantwortlichkeit von Unternehmen. Von individuellen Fehlverhalten zu kollektiven Fehlentwicklungen, insbesondere bei Großrisiken, Baden-Baden, 1995; HIRSCH, Die Frage der Straffähigkeit von Personenverbänden, Opladen, 1993; PRADEL, Il nuovo codice penale francese. Alcune note sulla sua parte generale, in Indice pen., 1994, pp. 13 ss. e 23 ss.; TIEDEMANN, La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto comparato, in questa Rivista, 1995, p. 615 ss. Per un inquadramento nel più ampio contesto della criminalità d’impresa e delle relative tecniche sanzionatorie di contrasto v. FORNARI, Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie. Confisca e sanzioni pecuniarie nel diritto penale ‘‘moderno’’, Padova, 1997, p. 247 ss. (3) Tale progetto, già pubblicato nel settembre 2000, insieme alla relazione d’accompagnamento, dalla Commissione ministeriale istituita con d.m. 1o ottobre 1998, è stato definitivamente messo a punto, tenendosi conto del vivace dibattito sviluppatosi in sede scientifica, nel maggio 2001: i rispettivi testi sono consultabili sulla rete telematica al sito www.giustizia.it. (4) Ad essa è dedicato l’intero Titolo VII del Progetto.
— 1129 — mensione ‘‘universale’’ prescelta invece dal Progetto Grosso (5), aveva ritagliato un catalogo di tipologie delittuose di riferimento circoscritto, seppure sufficientemente ampio da coprire i più significativi e rilevanti campi di evidenza della criminalità d’impresa. Da parte sua, il decreto legislativo opera un’ulteriore selezione, richiamando nella sezione III del capo I — contenente appunto la ‘‘parte speciale’’ del nuovo corpus normativo — soltanto i reati di concussione, corruzione e frode già previsti e/o appena inseriti nel codice penale contestualmente alla ratifica delle convenzioni internazionali di cui all’intitolato della l. n. 300/2000. La relazione che accompagna il decreto legislativo non esclude che in futuro l’ambito di estensione della responsabilità da reato degli enti collettivi possa allargarsi, ma sottolinea come sia in atto preferibile ‘‘una scelta minimalista’’, che prenda atto dei forti contenuti innovativi del nuovo sistema di disciplina sanzionatoria, tali da consigliarne un’attuazione graduale (6). Ora, l’opzione espressa dal legislatore delegato, anche se una sorta di pudore dogmatico impedirà a qualcuno di riconoscerlo apertamente, rappresenta né più né meno che un’esemplare applicazione ‘‘sul campo’’ del principio di frammentarietà, vale a dire del canone di politica legislativa probabilmente più tipicamente identificativo della materia penale. Si tratta di una dimensione della frammentarietà distinta da quella tradizionalmente riconosciuta, che attiene all’immediata identificazione di una tipologia criminosa sulla base della selezione delle modalità empiricamente rilevanti di aggressione di un certo bene giuridico, e che si potrebbe definire come frammentarietà orizzontale, in vista appunto dell’estensione ‘‘a macchia di leopardo’’ che ne risulta sul piano della tutela (altrimenti priva di soluzioni di continuità) del bene in questione. Qui viene piuttosto in evidenza una sorta di frammentarietà verticale o, se si preferisce, di secondo grado. Posto che preesistono determinate figure criminose già identificative di puntuali forme di aggressione, occorre verificarne in sede politico-legislativa il conveniente livello di penetrazione in profondità; bisogna cioè interrogarsi — e questo appunto ha saggiamente fatto il legislatore delegato — se davvero tutte (o non invece talune, magari solo secondo un ordine di gradualità) le fattispecie di reato previamente individuate in un certo ambito — nella specie: la criminalità d’impresa — meritino quella sorta di ‘‘clonazione’’ o comunque quel notevole complessivo (5) Si veda l’art. 121 (già 123) del Progetto. Naturalmente anche qui non manca un fondamentale criterio di selezione preliminare dei reati commessi dalle persone fisiche, coerente con la posizione da queste occupata nella struttura dell’ente e con la natura stessa dei criteri di imputazione al soggetto collettivo degli illeciti penali perpetrati. (6) La Relazione di accompagnamento al decreto legislativo in esame è stata pubblicata su Diritto e giustizia, 2001, n. 20, p. 10 ss.
— 1130 — aggravio di effetti sanzionatori rappresentato dalla responsabilità diretta degli enti collettivi che si aggiunge a quella delle persone fisiche (7). Anche di questo lodevole esercizio di frammentarietà da parte del legislatore delegato si dovrà tener conto al momento di sciogliere l’alternativa sul carattere amministrativo o penale (criminale) di tale responsabilità (8). 2. Proprio il carattere di ‘‘provvisorietà’’ o di ‘‘non definitività’’, attribuito dalla relazione di accompagnamento alle scelte operate almeno in sede di ‘‘parte speciale’’ dal legislatore delegato, sollecita lo studioso a segnalare subito e spiegare talune puntuali ragioni di dissenso relative piuttosto alla struttura dell’illecito degli enti collettivi dipendente da reato, quale risulta in particolare dalle norme contenute nella sezione I del capo I ed incentrate sui criteri di imputazione oggettiva e soggettiva all’ente del reato commesso dalla persona fisica. Si ha cioè la netta impressione che un prossimo riesame in sede legislativa della materia si renda non solo opportuno nella prospettiva di un eventuale ampliamento del catalogo dei reati di riferimento, ma probabilmente necessario per correggere taluni difetti di impostazione della stessa ‘‘parte generale’’. Si tratta di difetti che, sia pure all’interno di una normativa complessivamente adeguata e talora più evidenti nel contesto argomentativo della relazione che nell’articolato, rischiano di denunciare preoccupanti momenti di scollamento rispetto, da un lato, alla dimensione empirico-criminosa del fenomeno disciplinato e, dall’altro lato, alla fisionomia acquisita o in corso di definizione del quadro normativo europeo in materia. Dico subito che il punto di partenza delle successive riflessioni è dato dalla seguente questione cruciale: i criteri di imputazione all’ente del reato commesso nel suo interesse debbono essere costruiti su base essenzialmente unitaria, così da dar luogo ad un ‘‘filone’’ di responsabilità diretta sostanzialmente omogeneo o non debbono piuttosto essere subito configurate due distinte e separate tipologie di responsabilità delle persone giuridiche, coerenti con la diversa natura del soggetto attivo-autore ‘‘imme(7) Ho già avuto occasione di richiamare l’attenzione della dottrina su questa doppia dimensione del principio di frammentarietà, soffermandomi sulle esigenze di riforma di quell’autentico sottosistema penale disegnato dalle c.d. forme di manifestazione del reato: DE VERO, Le forme di manifestazione del reato in una prospettiva di nuova codificazione penale, in AA.VV., Valore e principi della codificazione penale: le esperienze italiana, spagnola e francese a confronto, Padova, 1995, p. 195 ss.; per una compiuta valorizzazione di quest’ordine di idee già sul piano dell’interpretazione sistematica degli istituti coinvolti, con particolare riguardo ai casi di applicazione congiunta di clausole generali d’incriminazione, v. ora RISICATO, Combinazione e interferenza di forme di manifestazione del reato. Contributo ad una teoria delle clausole generali di incriminazione suppletiva, Milano, 2001, passim. (8) V. infra, n. 8 ss.
— 1131 — diato’’ e del suo rapporto con la societas, e tali da riflettersi anche e soprattutto a livello di editto sanzionatorio? L’articolato e la relazione del decreto legislativo sembrano a prima vista orientarsi decisamente verso questa seconda alternativa, in quanto gli artt. 6 e 7, dopo che nell’art. 5 sono stati fissati criteri unitari di imputazione ‘‘sul piano oggettivo’’, distinguono, a livello di ‘‘imputazione soggettiva’’, i reati commessi da soggetti collocati in posizione apicale all’interno dell’ente dai reati commessi da soggetti sottoposti all’altrui direzione. Eppure la suddistinzione in parola viene proposta ed attuata in misura non sufficientemente netta e, soprattutto, non corrispondente alla lettera ed alla ratio dell’art. 11 lett. e) della legge delega (9). Questa fondamentale disposizione della legge delega individua innanzitutto il canale di imputazione oggettiva all’ente collettivo del reato commesso, cioè quel nesso in assenza del quale il reato si configurerebbe come fatto ‘‘altrui’’ rispetto alla societas, allo stesso modo che risulta irrimediabilmente estraneo alla persona fisica il fatto che non abbia con essa alcun collegamento già sul piano della causalità materiale. Tale canale viene identificato, in termini ancora e opportunamente unitari, nel ‘‘vantaggio’’ o nell’ ‘‘interesse’’ dell’ente, requisito del quale nello stesso contesto normativo si ribadisce, forse superfluamente, la mancanza ogniqualvolta ‘‘l’autore abbia commesso il reato nell’esclusivo interesse proprio o di terzi’’. Subito dopo la disposizione in esame distingue i reati commessi da soggetti in posizione ‘‘apicale’’ dai reati commessi dai soggetti sottoposti alla direzione o vigilanza di costoro e richiede quale ulteriore criterio di imputazione all’ente, per questa seconda tipologia di illeciti penali, che la commissione del reato sia stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi connessi a tali funzioni di direzione e di vigilanza. Insomma, per quanto riguarda i reati commessi da chi nella struttura dell’ente svolge funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione, ovvero esercita anche di fatto poteri di gestione e di controllo, non sembra richiesto da parte del legislatore delegante alcun criterio di imputazione aggiuntivo rispetto al fondamentale requisito dell’interesse o vantaggio della societas. Ora, mentre il riferimento della legge delega al criterio d’imputazione aggiuntivo — che d’ora in avanti chiamerò di agevolazione criminosa — viene puntualmente riprodotto dall’art. 7 comma 1 del decreto legislativo (9) Se ne riporta il testo per comodità del lettore: ‘‘ e) prevedere che i soggetti di cui all’alinea del presente comma sono responsabili in relazione ai reati commessi, a loro vantaggio o nel loro interesse, da chi svolge funzioni di rappresentanza o di amministrazione o di direzione, ovvero da chi esercita, anche di fatto, poteri di gestione e di controllo ovvero ancora da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza delle persone fisiche menzionate, quando la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi connessi a tali funzioni; prevedere l’esclusione della responsabilità dei soggetti di cui all’alinea del presente comma nei casi in cui l’autore abbia commesso il reato nell’esclusivo interesse proprio o di terzi’’.
— 1132 — in ordine ai reati commessi da persone sottoposte all’altrui direzione, viene altresì sviluppato nella relazione di accompagnamento un discorso preliminare inteso ad accreditare la necessità politico-legislativa di rifornire anche i reati della prima specie, commessi cioè dai ‘‘vertici’’, di un coefficiente ulteriore di imputazione. Tale criterio — perseguito nella prospettiva di una colpevolezza in senso normativo dell’ente collettivo da configurarsi come sostanzialmente unitaria — consisterebbe nella riferibilità del singolo reato commesso dalla persona fisica, e già proprio dell’ente sul piano oggettivo dell’interesse o vantaggio, ad una sorta di politica organizzativa d’impresa aliena dall’instaurare i controlli preventivi necessari ad impedire che nell’esercizio della relativa attività possano essere perpetrati reati della specie di quello verificatosi. Da qui l’emersione dei modelli di organizzazione e di gestione ispirati a tale finalità cautelare (tributari dei compliance programs dell’esperienza giuridica nordamericana) (10) già nell’ambito della responsabilità per i reati dei soggetti in posizione apicale, sia pure con riflessi sulla struttura dell’illecito dell’ente sensibilmente diversi rispetto all’ipotesi dei reati commessi dai sottoposti (11). Va subito detto che può convenirsi con la relazione al decreto circa la non piena univocità letterale del disposto dell’art. 11 lett. e) della legge delega, nel senso che la clausola di ‘‘agevolazione criminosa’’ sopra richiamata potrebbe riferirsi all’intero periodo che la precede e riguardare pertanto, nella sua funzione di criterio aggiuntivo di imputazione all’ente collettivo, non solo i reati commessi dai sottoposti, ma anche i reati dei ‘‘vertici’’ (12). Eppure esiste una serie di controindicazioni che dovrebbero distogliere dall’enfatizzare tali eventuali margini di equivoco e convincere l’interprete che i reati commessi nell’interesse dell’ente dai soggetti in posizione apicale non abbisognano, alla stregua dei principi e criteri direttivi contenuti nella delega, di ulteriori requisiti di imputazione per fondare la concorrente responsabilità diretta della persona giuridica. Innanzitutto può valere a sciogliere il preteso margine di equivoco il ricorso all’interpretazione sistematica, con l’avvertenza che qui si tratta di allargare la considerazione al di là del tradizionale orizzonte dell’ordinamento nazionale, per coinvolgere gli atti normativi di matrice europea che dettano una sorta di disciplina quadro nella materia della responsabilità (10) Per riferimenti comparatistici a questo caratteristico istituto incidente sulla disciplina (invero più della commisurazione della pena che dei presupposti) della responsabilità penale delle persone giuridiche v. DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie, cit., p. 118 ss.; STELLA, Criminalità d’impresa, cit., p. 473 ss. (11) La disciplina della responsabilità dell’ente collettivo, in rapporto ai reati commessi dai soggetti rispettivamente in posizione apicale e subordinata, è contenuta negli artt. 6 e 7 del decreto legislativo, su cui v. infra, nn. 3-6. (12) Relazione, cit., p. 18.
— 1133 — da reato delle persone giuridiche. Assume così rilievo una convenzione che non figura tra quelle ratificate dalla legge delega, eppure contiene disposizioni a riguardo ben più puntuali degli altri strumenti normativi, pure elaborati sulla base del Trattato sull’Unione europea e richiamati nell’intitolato e nell’art. 1 della l. n. 300/2000 (13). Alludo all’art. 3 del secondo protocollo della convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, in materia di riciclaggio, stabilito dal Consiglio dell’Unione europea il 19 giugno 1997 e tuttora non ratificato dalla Repubblica italiana (14). Qui — ferma restando l’unità del presupposto di imputazione ‘‘oggettiva’’ in termini di ‘‘beneficio della persona giuridica’’ — risulta quanto mai netta ed inequivocabile la dicotomia tra reati commessi da ‘‘persona che detenga un posto dominante in seno alla persona giuridica’’ e reati commessi da ‘‘persona soggetta alla sua autorità’’, per i quali ultimi soltanto si richiede che siano stati resi possibili da ‘‘carenza di sorveglianza o controllo’’ da parte dei soggetti in posizione apicale. Ma è ancora più significativa la disciplina prefigurata dall’art. 4 del suddetto protocollo in relazione alle sanzioni che gli Stati membri dell’Unione dovranno adottare per le persone giuridiche (15). Non soltanto (13) Cfr. supra, nota 1. (14) Questo il testo: ‘‘Responsabilità delle persone giuridiche. — 1. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché le persone giuridiche possano essere dichiarate responsabili della frode, della corruzione attiva e del riciclaggio di denaro commessi a loro beneficio da qualsiasi persona che agisca individualmente o in quanto parte di un organo della persona giuridica, che detenga un posto dominante in seno alla persona giuridica, basati sul potere di rappresentanza di detta persona giuridica, o sull’autorità di prendere decisioni per conto della persona giuridica, o sull’esercizio del controllo in seno a tale persona giuridica, nonché della complicità, dell’istigazione a commettere tale frode, corruzione attiva o riciclaggio di denaro o del tentativo di commettere tale frode. - 2. Oltre ai casi già previsti al par. 1, ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché le persone giuridiche possano essere dichiarate responsabili quando la carenza di sorveglianza o controllo da parte di uno dei soggetti di cui al par. 1 abbia reso possibile la perpetrazione di una frode, di un atto di corruzione attiva o di riciclaggio di denaro a beneficio della persona giuridica da parte di una persona soggetta alla sua autorità. - 3. La responsabilità della persona giuridica ai sensi dei parr. 1 e 2 non esclude l’azione penale contro la persone fisiche, che siano autori, istigatori o complici della frode, della corruzione attiva o del riciclaggio di denaro’’. Il testo dell’art. 3 del secondo protocollo della Convenzione PIF è stato integralmente riprodotto nella proposta di direttiva relativa alla tutela penale degli interessi finanziari della Comunità europea presentata dalla Commissione europea il 23 maggio 2001: v. Diritto e giustizia, 2001, n. 27, p. 63 ss. Tale proposta recepisce sostanzialmente i contenuti del suddetto protocollo e si colloca in quel contesto di ‘‘concorrenza’’ in atto ravvisabile tra fonti normative afferenti rispettivamente al primo e al terzo pilastro dell’Unione europea (cioè: prospettiva comunitaria o intergovernativa) in ordine ad una disciplina penale degli illeciti in pregiudizio degli interessi finanziari delle Comunità europee: cfr. SALAZAR, Rete di protezione (penale e uniforme) per gli interessi finanziari comunitari, ivi, p. 60 ss. (15) Eccone il testo: ‘‘Sanzioni per le persone giuridiche. — 1. Ciascuno Stato membro prende i provvedimenti necessari affinché la persona giuridica dichiarata responsabile ai
— 1134 — viene mantenuta l’impostazione dicotomica di cui al precedente articolo, ma lo specifico riferimento all’eventuale natura penale, oltreché amministrativa delle sanzioni pecuniarie richieste, viene espressamente limitato ai reati della prima tipologia; per i reati commessi dai sottoposti, il protocollo si accontenta di esigere che la persona giuridica dichiarata responsabile ‘‘sia passibile di sanzioni o di misure effettive, proporzionate e dissuasive’’, le quali, per quanto è dato di intendere, potrebbero anche rivestire natura civile. Siamo qui al cuore del problema. Non può esservi dubbio che sul piano empirico-criminoso esiste un incolmabile divario di meritevolezza di sanzione — dall’angolo visuale (anche) dell’ente collettivo — tra i reati commessi dai soggetti in posizione apicale e quelli commessi dai sottoposti ed al contempo agevolati da comportamenti negligenti dei primi: gli uni esprimono in ogni caso un coinvolgimento pieno, mediato dal rapporto di immedesimazione organica, della persona dell’ente collettivo nell’opzione criminale, anche quando non sia ravvisabile una particolare coerenza di questa con una più generale e deviante politica d’impresa; gli altri segnalano semplicemente, attraverso il difetto di vigilanza, una colpa d’organizzazione in senso stretto (16). Che in un testo normativo di prossima attuazione nel nostro ordinamento, quale quello appena richiamato, si prospettino addirittura sanzioni non punitive (né penali né amministrative) per l’ente in relazione al secondo ordine di crimini, conduce forse ad una divaricazione eccessiva del sistema di responsabilità degli enti collettivi; ma sicuramente non pare condivisibile l’opposta scelta del legislatore delegato di configurare (non solo una responsabilità omogenea, amministrativa o penale che sia, ma addirittura) cornici edittali unitarie per le vasensi dell’art. 3, par. 1, sia passibile di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive, che includono sanzioni pecuniarie o di natura penale o amministrativa e possono includere altre sanzioni, tra cui a) misure di esclusione dal godimento di un vantaggio o aiuto pubblico; b) misure di divieto temporaneo o permanente di esercitare un’attività commerciale; c) assoggettamento a sorveglianza giudiziaria; d) provvedimenti giudiziari di scioglimento. - 2. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché una persona giuridica dichiarata responsabile ai sensi dell’art. 3, par. 2, sia passibile di sanzioni o di misure effettive, proporzionate e dissuasive’’. (16) Faccio riferimento nel testo ad una ‘‘colpa d’organizzazione in senso stretto’’ per distinguere ciò che nella sostanza è una specie di agevolazione colposa da quella unitaria colpevolezza o colpa d’organizzazione (cfr. infra, note 17 e 26) che sembra rappresentare il reale ascendente dogmatico delle scelte di disciplina effettuate dal legislatore delegato. Che la ‘‘carenza di sorveglianza o controllo’’ da parte dei ‘‘vertici’’, e quindi il criterio di imputazione alla persona giuridica dei reati commessi dalle persone soggette all’autorità di costoro, non possano che essere colposi, risulta a contrario con particolare chiarezza dal testo dell’art. 3 par. 1 del protocollo in parola. Qui il reato presupposto in capo ai ‘‘vertici’’ viene individuato altresì nella complicità e nell’istigazione a commettere i crimini di frode, corruzione e riciclaggio: un’agevolazione dolosa del reato del sottoposto configurerebbe quindi immediatamente un reato del ‘‘vertice’’ ed impegnerebbe a tale primario titolo la responsabilità della persona giuridica.
— 1135 — rie tipologie di reati presupposti, ad onta della distinta portata di disvalore espressa dai momenti di collegamento ‘‘soggettivo’’ del reato con l’ente. Eppure, alla stregua di una non azzardata analogia antropomorfica, tale diversità di collegamento ben si potrebbe esprimere discutendo di una responsabilità rispettivamente dolosa e (di agevolazione) colposa della societas (17). 3. La sottovalutazione da parte del legislatore delegato della (pur non disconosciuta) separazione dei due fondamentali ordini di responsabilità dell’ente, per i reati commessi da soggetti in posizione rispettivamente apicale e subordinata, per un verso è conseguenza della preoccupazione probabilmente eccessiva di fondare a tutti i costi una unitaria colpevolezza normativa in capo all’ente, e, per altro verso, conduce ad anticipare l’indiscutibile ruolo e rilevanza dei modelli organizzativi, intesi a prevenire la commissione di reati all’interno della societas, dal campo loro sicuramente proprio dell’agevolazione dei reati dei sottoposti a quello primario dei crimini commessi immediatamente dai soggetti collocati al vertice. Tornerò più avanti sulle preoccupazioni normativiste e generalpreventive espresse a tal riguardo nella relazione (18). Ora si rende necessario procedere all’analisi dell’art. 6 del decreto, incentrato sulla responsabilità dell’ente in rapporto ai reati dei ‘‘vertici’’, in cui appunto giocano già un ruolo significativo i ‘‘modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi’’. Tale analisi evidenzierà una serie cospicua di inconvenienti, non certo di carattere ‘‘teorico-dottrinale’’, ma, più concretamente, di congruità delle soluzioni normative adottate rispetto alla sostanza dei problemi politico-criminali sul tappeto. La preoccupazione, che ha indotto il legislatore delegato ad attribuire, ai sensi della complessa disciplina contenuta nell’art. 6 del decreto, rilevanza ‘‘scusante’’, già rispetto ai reati dei ‘‘vertici’’, alla previa adozione ed efficace attuazione da parte dell’ente dei ripetuti modelli di ‘‘legalità preventiva’’, scaturisce dalla constatazione che la struttura manageriale e decisionale della moderna realtà dell’impresa è di solito notevol(17) La relazione d’accompagnamento non ignora tale possibilità ricostruttiva; tant’è vero che richiama la distinzione tra forma dolosa e forma colposa della mens rea della persona giuridica prospettata dal Criminal Code Act australiano del 1995 (cit., p. 17), mentre in sede di introduzione (p. 11 s.) non esita a qualificare come meno riprovevoli, in quanto non derivanti ‘‘da una specifica volontà sociale’’, i comportamenti criminosi realizzati da soggetti in posizione subordinata. Ma quando si tratta di spiegare i criteri di formazione degli editti sanzionatori adottati, la relazione ripiega inopinatamente verso una costruzione unitaria della colpevolezza normativa dell’ente, attestata su di una generale colpa di organizzazione consistente nel ‘‘deficit di controllo o di vigilanza (anche verso i soggetti in posizione apicale)’’ (p. 32). (18) Infra, n. 4.
— 1136 — mente articolata e policentrica, tale dunque da poter escludere che la risoluzione criminosa di uno dei tanti ‘‘apici’’ sia realmente impegnativa di una deviante ‘‘volontà sociale’’ o ‘‘politica d’impresa’’ propria dell’ente. Tale ordine di idee trova peraltro puntuale riflesso nella scelta di estendere la previsione dei soggetti in posizione apicale, contenuta nell’art. 5, comma 1 lett. a), a quanti rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione non già dell’intero ente, bensì ‘‘di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale’’. Senonché le osservazioni svolte a riguardo nella relazione d’accompagnamento rischiano di provare troppo. Enfatizzare la frantumazione della base manageriale e decisionale della moderna impresa significa in un certo senso, in paradossale contrasto con la fondamentale e meritoria opzione politico-legislativa di affermazione della responsabilità diretta della persona giuridica, sminuire la consistenza di un centro di interessi, di attività e di decisioni autonomamente individuabile e promuovere una sorta di deresponsabilizzazione complessiva della compagine collettiva. Vero è che la base manageriale delle odierne realtà imprenditoriali è sovente parcellizzata; ma ciò avrebbe dovuto semmai condurre ad inserire i responsabili di singole unità organizzative non già al primo livello, ma al secondo gradino dei soggetti che commettono reati nell’interesse dell’ente, coloro appunto rispetto ai quali già la legge delega richiede espressamente l’ulteriore requisito dell’agevolazione criminosa da parte dei veri e propri ‘‘vertici’’. Altrimenti tanto varrebbe portare alle estreme conseguenze la configurazione tendenzialmente unitaria della responsabilità dell’ente già presente nel decreto, nel segno di una generalizzata colpa per organizzazione, ed escludere ogni differenziazione di posizioni soggettive individuali, tanto più che — conviene ribadire — tale diversità a livello di fattispecie di responsabilità viene comunque neutralizzata sul piano sanzionatorio dall’identità di comminatorie edittali. Il legislatore delegato cerca invece di coniugare la tendenziale unità strutturale della responsabilità dell’ente collettivo, ancorata alla mancata predisposizione e/o efficace attuazione dei modelli organizzativi idonei a prevenire i reati di riferimento e comunque ad una generalizzata carenza di controlli, con una diversa distribuzione dell’onere della prova di questo fondamentale e sostanzialmente unitario canone di imputazione: afferma la relazione che in caso di reato commesso dagli ‘‘apici’’, è l’ente che deve fornire la prova della sua assenza di coinvolgimento; in caso di reato commesso dai subordinati, il difetto di direzione o vigilanza deve essere invece provato dall’accusa. In termini tecnicamente più congrui, e per vero più rispondenti alla stessa fisionomia degli artt. 6 e 7, potrebbe dirsi che nel primo caso la (prova dell’) adeguata vigilanza si atteggia a vera e propria ‘‘scusante’’ rispetto ad una fattispecie di responsabilità già di per sé integrata sulla base del reato commesso dall’ ‘‘apice’’ nell’interesse della so-
— 1137 — cietas; nel secondo caso l’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza costituisce elemento positivo essenziale dell’illecito dell’ente collettivo (19). Senonché la struttura della scusante di cui all’art. 6, prevista in rapporto ai reati commessi da soggetti in posizione apicale ed imperniata su di una serie cospicua di elementi concorrenti e non alternativi (20), si rivela particolarmente farraginosa sul piano della tecnica normativa e — ben al di là delle difficoltà di prova riconosciute dalla stessa relazione — di problematica rispondenza ad un effettivo o quanto meno rilevante sostrato empirico-criminoso, tale da giustificare una così complessa ed inedita costruzione. Sul piano tecnico-normativo, appare singolare la commistione di componenti che riguardano una sorta di ‘‘vita anteatta’’ dell’ente con altre componenti della fattispecie scusante più congruamente innestate nel contesto immediato dell’illecito penale commesso dalla persona fisica nell’interesse della societas. La struttura della scusante presuppone, per un verso, la previa verificazione di due ‘‘eventi’’ organizzativi di notevole consistenza e dislocazione anche temporale, quali l’adozione e l’efficace attuazione di modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi (comma 1, lett. a)) e la costituzione di un organismo all’interno dell’ente, dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo, cui sia affidato il compito di vigilanza sull’osservanza e di aggiornamento dei suddetti modelli (comma 1, lett. b)). Per altro verso, con più diretto riferimento alla vicenda criminosa de qua, si richiede che l’autore ‘‘immediato’’ del reato abbia eluso fraudolentemente i modelli ‘‘preventivi’’ in parola (comma 1, lett. c)) e che, da parte sua, l’organismo già descritto alla lett. b) non abbia omesso o prestato insufficiente vigilanza. Questa complessa formulazione — difficile non soltanto da provare nei fatti, ma preliminarmente da dominare sul piano della sintassi legisla(19) Ricostruisce la sostanza delle due distinte discipline in termini non dissimili FERRUA, Le insanabili contraddizioni nella responsabilità dell’impresa, in Diritto e giustizia, 2001, n. 29, pp. 8 s. e 79 ss.: l’A. osserva in particolare che, rispetto ai reati commessi dai ‘‘vertici’’, la c.d. colpa organizzativa non si atteggia a fatto costitutivo della responsabilità dell’ente. (20) Si riporta per comodità del lettore l’intero comma 1 dell’art. 6 d.lgs. n. 231/2001: ‘‘Se il reato è stato commesso dalle persone indicate nell’art. 5, comma 1, lett. a), l’ente non risponde se prova che: a) l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; b) il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di cui alla lett. b)’’.
— 1138 — tiva — avrebbe intanto potuto essere resa in modo più semplice e diretto, assumendosi come abbrivo non già i momenti di ‘‘vita anteatta’’ dell’ente, ma piuttosto il contesto immediato di azione del soggetto individuale autore dell’illecito. Si sarebbe dovuto, in altre parole, concentrare per intero nel comma 2 dell’art. 6 la connotazione dei modelli organizzativi e dell’organismo interno di vigilanza e risolvere quindi la descrizione della scusante nel fatto del soggetto in posizione apicale, ‘‘che ha commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli e sottraendosi alla vigilanza dell’organismo rispettivamente previsti nel comma 2’’. Una formulazione di questo tipo avrebbe recato il vantaggio, non solo di fornire immediatamente all’interprete la chiave di corretta articolazione logico-sintattica dei ben quattro distinti periodi di cui consta l’attuale comma 1 dell’art. 6, ma di mettere in più chiara evidenza che il nucleo essenziale della fattispecie scusante non è dato tanto dalla pregressa ‘‘condotta di vita aziendale’’ della societas, quanto piuttosto dal significato di ‘‘inopinata’’ e del tutto ‘‘personale’’ estraniazione da un’osservante (21) politica d’impresa ravvisabile nella condotta della persona fisica, come tale non impegnativa della colpevolezza dell’ente. Tornerò tra breve sulla effettiva capacità di prestazione ‘‘scusante’’ di questa fattispecie (22), così faticosamente ricavabile dall’art. 6 comma 1 del decreto legislativo in esame. Mi interessa ora sviluppare l’accenno sopra fatto alla reale consistenza e plausibilità del sostrato empirico-criminoso al quale la complessa previsione in esame sembra rinviare. L’art. 6 comma 1 intende in sostanza ipotizzare la seguente situazione: da un lato, un’impresa in forma collettiva caratterizzata da una ‘‘condotta di vita’’ particolarmente ubbidiente (23), testimoniata dall’adozione ed efficace attuazione in via di principio dei modelli di ‘‘legalità preventiva’’ nonché dall’istituzione di un credibile organo interno di controllo in materia; dall’altro lato, un ‘‘vertice’’ mosso da un atteggiamento di tale ‘‘infedeltà’’ nei confronti del virtuoso ente di appartenenza, da orchestrare una frode raffinata — non può che essere tale, posto che si presuppone al contempo (21) Utilizzo questo aggettivo con riferimento al significato letterale di compliance e non senza una sfumatura ironica connessa con l’ascendenza immediata che — a parte l’indubbia diversità di statuto normativo — i ‘‘programmi’’ di tal genere trovano nei codici etici, a suo tempo attuati dalle imprese collettive nordamericane sul piano dell’autodisciplina privata più allo scopo di accreditarsi un’immagine ‘‘pulita’’, idonea a promuovere un atteggiamento indulgenziale da parte dei giudici, che di impegnarsi in un’autentica prevenzione dei reati derivanti dallo svolgimento delle loro attività: su tali problematiche v., anche per gli opportuni ulteriori riferimenti, DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie, cit., p. 130 ss.; STELLA, Criminalità d’impresa, cit., p. 469 ss.; appare più disponibile in via di principio a cogliere l’utilità di norme di comportamento basate sull’autonomia privata, in quanto opportunamente collegate con la normativa statuale, PEDRAZZI, Codici etici e legge dello Stato, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1993, p. 1049 ss. (22) Infra, n. 4. (23) Cfr supra, nota 21.
— 1139 — che l’attuazione dei modelli sia in via di principio ‘‘efficace’’ — e da riuscire a sottrarsi alla vigilanza dell’organo deputato, la quale pure si richiede — e questa volta, ai sensi della lett. d) del comma 1, non in via di principio, ma nel concreto contesto di azione criminosa — essere intervenuta addirittura in misura ‘‘non insufficiente’’ (24)! Che i margini di frequenza empirica di una tale eventualità siano alquanto ristretti sembra essere di per sé evidente; ma conviene procedere ad un’ulteriore riflessione, dalla quale risulta un’alternativa ancora meno esaltante. Invero, delle due l’una. O è dato realmente verificare una tale brusca e fraudolenta cesura da parte del ‘‘vertice’’ rispetto ai comprovati virtuosi standard comportamentali dell’ente di appartenenza; ma in tal caso è molto probabile che il soggetto agisca nell’interesse esclusivo proprio o di terzi o addirittura — come pure prospetta la relazione governativa, sia pure nella distinta ipotesi di reato commesso da soggetto in posizione subordinata — al solo fine di arrecare un danno all’ente collettivo, con la conseguenza che, ancor prima della colpevolezza, viene meno il fondamentale criterio di imputazione oggettiva di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 5 del decreto (25). Oppure — ed è l’eventualità più inquietante — ciò che vorrebbe accreditarsi come straordinaria, inopinata, quasi ‘‘rocambolesca’’ dissociazione da parte del soggetto in posizione apicale dall’osservante condotta di vita aziendale dissimula una realtà molto più volgare: una sostanziale collusione che — ad onta della conclamata frantumazione dei centri decisionali — investe l’intera struttura dell’ente, accomunando in un’unica gravissima corresponsabilità criminosa dirigenti e ‘‘controllori’’, e relegando a mera impalcatura di facciata — non necessariamente, si badi bene, in via generale, ma anche solo in una particolare, cruciale congiuntura della vita aziendale — la ‘‘efficace attuazione’’ dei modelli organizzativi e la ‘‘sufficiente vigilanza’’ dell’organo di controllo. Con la conseguenza che i ristretti margini di configurabilità (e/o di prova) della ‘‘scusante’’ in parola finirebbero paradossalmente per coincidere con i casi di massimo coinvolgimento ‘‘personale’’, di più elevata ‘‘riprovevolezza’’ dell’ente collettivo come tale. 4. La verità è che alla base dei molteplici inconvenienti sopra denunciati si collocano — nel complessivo atteggiamento assunto dal legislatore delegato in favore di una costruzione sostanzialmente unitaria della (24) Su questo quarto elemento della complessa fattispecie si appunta in particolare il rilievo di probatio diabolica espresso da FERRUA, Le insanabili contraddizioni, cit., p. 80. (25) Per un’attenta analisi della condizione ‘‘esistenziale’’ del manager societario e della sua possibile incidenza su comportamenti orientati verso la criminalità d’impresa, eppure sostenuti da obiettivi personali, v., con interessanti esemplificazioni, STELLA, Criminalità d’impresa, cit., p. 462 ss.
— 1140 — responsabilità dell’ente collettivo fondata su di una generalizzata valorizzazione del ruolo dei compliance programs — da un lato scrupoli di ‘‘colpevolezza normativa’’ probabilmente eccessivi e dall’altro lato un difetto di impostazione della funzione generalpreventiva ascrivibile ai modelli organizzativi e gestionali rispetto alla commissione di reati da parte dei soggetti in posizione apicale. 4.1. Con riguardo al primo aspetto, è difficile sottrarsi all’impressione che l’insistenza da parte della relazione governativa, nel sottolineare l’opportunità o addirittura la necessità di radicare il processo d’imputazione soggettiva del reato alla societas su momenti di ‘‘riprovevolezza’’, nasca dalla comprensibile preoccupazione di superare le riserve che in ambienti dottrinali possano ancora residuare circa la responsabilità punitiva degli enti collettivi: se un processo di imputazione su basi propriamente psicologiche può apparire inadeguato a fondare una tale responsabilità, in quanto affetto da ingenuità o rozzezza ‘‘antropomorfica’’, non ci sarebbe di meglio che ‘‘raffinare’’ l’imputazione soggettiva spostandosi sul piano normativo e ancorare quindi il ‘‘rimprovero’’ nei confronti dell’ente alla mancata adozione e/o rispetto di predeterminati standard comportamentali. Senonché sfuggono in tal modo due essenziali aspetti. La concezione normativa della colpevolezza, certamente nella sua genesi storica ed in massima parte anche nelle sue attuali configurazioni, non si afferma per ‘‘sostituire’’ (carenti) momenti di imputazione psicologica, ma per riunificarli e ‘‘trasfigurarli’’ in una dimensione più elevata (26). D’altro canto, il perno di ogni concezione normativa della colpevolezza — che assurge a cardine pressoché esclusivo nella variante ‘‘pura’’ — è costituito dall’imputabilità, come capacità di intendere e di volere del soggetto attivo del (26) Tra i più recenti contributi all’inesausto dibattito sulla categoria penalistica della colpevolezza, v. CEREZO MIR, Der materielle Schuldbegriff, Leipzig, 1997; FRISTER, Die Struktur des ‘‘voluntativen Schuldelements’’. Zugleich eine Analyse des Verhältnisses von Schuld und positiver Generalprävention, Berlin, 1993; JESCHECK, Wandlungen des strafrechtlichen Schuldbegriffs in Deutschland und Österreich, in Dienst am Strafrecht-Dienst am Menschen. Ehrenpromotion Hans-Heinrich Jescheck, Linz, 1998, p. 57 ss.; MORSELLI, Un breve bilancio fine-secolo su finalismo e le sue prospettive di sviluppo, in questa Rivista, 1999, p. 1319 ss. Occorre tuttavia riconoscere che il legislatore delegato, quando nella relazione d’accompagnamento al decreto in esame sottolinea la ‘‘capacità di prestazione’’ della colpevolezza in senso normativo rispetto ad una soddisfacente costruzione della responsabilità diretta dell’ente collettivo, ha in realtà di mira non tanto la corrispondente categoria tradizionalmente elaborata in rapporto al soggetto individuale, quanto piuttosto quella colpevolezza o colpa (in senso lato) d’organizzazione, alla quale parte della dottrina contemporanea europea guarda — insieme ad altre idee-guida, quale ad esempio il rischio d’impresa — nello sforzo di elaborare ‘‘una categoria di responsabilità propria dell’impresa’’ (TIEDEMANN, La responsabilità penale, cit., p. 628: corsivo dell’A.) e che ‘‘dalle forme di imputazione soggettiva sinora note prende piuttosto vistosamente le distanze’’ (così ROMANO, Societas, cit., p. 1041).
— 1141 — reato. Ora, non sembra operazione particolarmente riuscita quella che, per svincolarsi dalla pretesa stretta ‘‘antropomorfica’’ di una colpevolezza dell’ente fondata su momenti di imputazione di tipo psicologico, finisce per evocare una categoria, quale l’imputabilità, che neanche il più risalente ed ostinato fautore della responsabilità autenticamente penale delle persone giuridiche si azzarderebbe mai a postulare in capo ad esse (27). In realtà non esiste alcuna controindicazione a ritenere che il dolo del reato commesso dal soggetto in posizione apicale, qualificato dallo scopo di perseguire l’interesse o il vantaggio dell’ente collettivo, rappresenta un coefficiente di imputazione soggettiva del reato alla societas del tutto adeguato e non bisognevole di ulteriori integrazioni (28). Del resto, anche a voler seguire l’impostazione del legislatore delegato, intesa ad ancorare la responsabilità dell’ente al ‘‘rimprovero’’ per la mancata adozione-attuazione dei compliance programs, non sembra, ad un esame più approfondito, che la struttura della fattispecie ‘‘scusante’’ già analizzata consegua in tale prospettiva risultati meritevoli di approvazione. Si è già visto come i margini di configurabilità (prima ancora che di prova, come conviene la relazione) sul piano empirico-criminoso di una scelta criminale autonoma da parte dei ‘‘vertici’’ siano quanto mai ristretti e rischino di risolversi o nella totale estraneità dell’ente al fatto di costoro già a livello di imputazione oggettiva o, al contrario, nel massimo grado di coinvolgimento ‘‘riprovevole’’ della societas. Volendo ora per ulteriore scrupolo aguzzare lo sguardo, può forse cogliersi l’autentico e congruo sostrato di fatto della previsione ex art. 6 comma 1 in una situazione dalle seguenti caratteristiche. Sullo sfondo di una politica d’impresa in via di principio irreprensibile, testimoniata dall’adozione ed efficace attuazione delle cautele dirette a prevenire reati, si profila un momento di emergenza, di ‘‘fibrillazione’’ (29) nella vita dell’ente, che la persona col(27) Né sarebbe proponibile, riguardo all’imputabilità, una traslatio dalla persona fisica alla persona giuridica analoga a quella sostenibile invece rispetto ai momenti soggettivi del dolo e della colpa: a norma dell’art. 8, comma 1, lett. a) del decreto in esame la responsabilità dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato non è imputabile. (28) L’interesse dell’ente collettivo svolge insomma una doppia funzione nella struttura complessiva dell’illecito della persona giuridica dipendente da reato: da un lato, criterio concorrente (insieme alla qualifica che incardina la persona fisica nell’ente) di imputazione oggettiva di ciò che altrimenti sarebbe il reato di altri; dall’altro, elemento soggettivo che, accidentale rispetto alla primaria e permanente responsabilità penale dell’individuo, diventa coefficiente essenziale dell’attribuzione di essa alla societas. Per un riesame dei rapporti tra le categorie del motivo, scopo e dolo v., di recente, VENEZIANI, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000, passim. (29) Sia consentita questa (maliziosa?) interferenza lessicale del linguaggio utilizzato dalla giurisprudenza di legittimità per argomentare la distinzione, nell’ambito dei reati genericamente commessi per agevolare le associazioni di tipo mafioso, tra quelli semplicemente rilevanti ai sensi della circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152 e
— 1142 — locata in posizione ‘‘apicale’’ avverte nella sua piena urgenza e ritiene non potersi superare altrimenti che realizzando ad esempio — si ribadisce: nell’interesse dell’ente — un delitto di corruzione di pubblico ufficiale straniero in un’importante e delicata operazione economica internazionale; di tale scelta il soggetto si assume l’esclusiva ‘‘titanica’’ responsabilità, eludendo fraudolentemente i controlli attivati in via generale all’interno della struttura in cui opera. Orbene, in una tale eventualità, che sembra finalmente dare consistenza allo sfuggente profilo empirico-criminoso dell’art. 6 comma 1, perché mai — mi chiedo — dovrebbe restare esclusa la responsabilità della persona giuridica? Solo per la discrepanza tra il singolo episodio criminoso e la virtuosa condotta di vita ‘‘anteatta’’, come se la scelta criminale non fosse spesso, tanto nella ‘‘vita’’ della persona fisica quanto in quella della persona giuridica, un dato occasionale e in controtendenza? Sarebbe come dire — e sia consentito insistere nell’uso di una ‘‘analogia antropomorfica’’ che, piuttosto che rozza, mi sembra illuminante — che il reato commesso dal soggetto individuale non debba essere punito (e non soltanto punito di meno) quando non si ponga in alcuna relazione di continuità con la condotta di vita precedente. D’altra parte, potrebbe darsi che una simile situazione di fraudolenta ‘‘deviazione’’ del soggetto in posizione apicale rispetto ad un’osservante politica d’impresa, che il legislatore delegato ritiene pregna di significato scusante, abbia a verificarsi pur in mancanza della previa adozione ed efficace attuazione dei ripetuti modelli di legalità preventiva. Poiché — conviene ripetere — i quattro requisiti della fattispecie scusante di cui all’art. 6 comma 1 sono di applicazione cumulativa, in questa eventualità la societas dovrebbe rispondere del reato commesso dal ‘‘vertice’’ per il solo fatto di non aver predisposto quei protocolli organizzativo-gestionali, che, secondo l’ipotesi ora tratteggiata, non avrebbero comunque evitato il singolo episodio criminoso in questione. Si concretizza in tal modo, paradossalmente, proprio quel rischio di responsabilità per versari in re illecita, al fine di scongiurare il quale il legislatore delegato opera preliminarmente la scelta di ‘‘normativizzare’’ la colpevolezza dell’ente. 4.2. In questo quadro va pure attentamente vagliata la funzione di prevenzione generale che la relazione d’accompagnamento ritiene di poter attribuire di per sé alla — comunque problematica e variamente condizionata — rilevanza scusante dell’adozione dei compliance programs. Si afferma che tale meccanismo di esonero dalla responsabilità dovrebbe motivare adeguatamente l’ente a promuovere l’applicazione dei relativi standard comportamentali, riducendo così il rischio complessivo di fatti criminosi ad opera dei soggetti che vi fanno capo. quelli la cui perpetrazione integra invece il substrato oggettivo di un concorso c.d. esterno nel reato associativo: cfr. Cass., Sez. un., 5 ottobre 1994, in Cass. pen., 1995, p. 842 ss.
— 1143 — Ora, la funzione di prevenzione generale non mi sembra possa risiedere in un meccanismo scusante, quale che ne sia l’agibilità (30); è ben noto anzi come tra prevenzione e (esclusione della) colpevolezza sussista in via di principio un rapporto di tensione piuttosto che di (quanto meno immediata e agevole) integrazione. La funzione di prevenzione generale, anche nell’ipotesi qui in esame di responsabilità diretta della persona giuridica, va in realtà interamente ascritta, come d’ordinario, alla semplice esistenza della comminatoria legale di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive. È questo il dato saliente che dovrebbe motivare i (nuovi ed inediti) destinatari della norma penale — il cui spessore ‘‘esistenziale’’ non dovrebbe neanche a tal fine essere messo in discussione — ad assumere ogni iniziativa idonea a ridurre al minimo i presupposti potenziali di fatti di reato destinati a ripercuotersi anche pesantemente sulla propria dimensione di enti collettivi. In questo quadro ben venga certo l’adozione di codici interni di comportamento, ma senza quel significato di predisposizione di scusa legale attribuito in atto dalla disciplina in esame, oltretutto priva di un’autentica garanzia totale, posto che il reato commesso dal ‘‘vertice’’ al di fuori della ‘‘elusione fraudolenta’’ dei modelli organizzativi resta comunque a carico della societas che abbia adottato i modelli medesimi. La verità è che la preoccupazione dell’ente di scongiurare il proprio coinvolgimento criminale — che dovrebbe scaturire immediatamente, giova ribadire, dall’effetto dissuasivo-persuasivo esplicato dalla stessa comminatoria legale — dovrebbe concretizzarsi in un ventaglio di comportamenti, se non di ‘‘stili’’ di vita aziendale, ben più ampi e comprensivi della (sacramentale?) adozione dei compliance programs (31): tra questi resta probabilmente fondamentale l’attenta selezione dei soggetti cui attri(30) Non va del resto dimenticato che l’effetto tipico dell’adozione dei compliance programs nell’ordinamento giuridico di riferimento si risolve non tanto nell’esclusione della responsabilità penale degli enti collettivi, ma piuttosto in una congrua riduzione della pena pecuniaria applicata dal giudice, secondo una dosimetria commisurativa di stampo addirittura aritmetico: v. DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie, cit., p. 123 ss. In questa prospettiva appare invero corretto attribuire, a quella che sostanzialmente si configura come una circostanza attenuante (propria o impropria), una finalità generalpreventiva di tipo persuasivo o incentivante collegata con il ventilato vantaggio di una sensibile riduzione di pena (c.d. Carrot and Stick Approach; v. peraltro le osservazioni di DE MAGLIE, op. cit., p. 155 ss., circa il rischio di enfatizzare questa proiezione generalpreventiva dei modelli organizzativi); e ci sarebbe stato da aspettarsi che il legislatore delegato avesse trasfuso l’adozione dei modelli organizzativi anteriore alla commissione del reato appunto in una circostanza attenuante, sulla falsariga di quella prevista dall’art. 12, comma 2, lett. b) del decreto per la diversa ipotesi di adozione successiva e comunque precedente alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. (31) Il giudizio complessivo della dottrina italiana sull’esperienza dei compliance programs è allo stato non univoco. Si registrano posizioni tendenti a non tacerne le controindicazioni, in termini soprattutto di condizionamento e manipolazione della vita e delle strutture degli enti collettivi ad opera di un diritto penale ‘‘invadente e tecnocratico’’: DE MAGLIE,
— 1144 — buire qualifiche e responsabilità apicali, nella precisa consapevolezza che sarà in definitiva l’autonoma determinazione di costoro, nelle varie contingenze più o meno ‘‘emergenziali’’ della vita dell’ente, ad impegnare con inesorabile e tuttavia non iniqua conseguenzialità la responsabilità diretta della societas. 4.3. Come esito di tutte le considerazioni sopra svolte, mi sembra possa riproporsi su basi di maggiore consapevolezza la fondamentale intuizione che tradizionalmente sottosta al riconoscimento o all’auspicio di una responsabilità diretta delle persone giuridiche per i reati commessi da quanti rivestano al loro interno un ruolo ‘‘organico’’ e svolgano funzioni di rappresentanza e direzione (32): se costoro, in quanto agiscono per conto o nell’interesse dell’ente, possono impegnarne la responsabilità civile (contrattuale o extracontrattuale), non diversamente possono impegnarne la responsabilità punitiva (amministrativa o penale che sia), senza necessità di ulteriori mediazioni e filtri ‘‘normativi’’. Non è del resto un caso — per citare ancora la parallela seppure allo stato incompiuta esperienza di riforma — che il Progetto Grosso, mentre pure valorizza anche in chiave di esclusione della responsabilità degli enti collettivi i modelli organizzativo-gestionali volti alla prevenzione dei reati d’impresa, esclude espressamente la rilevanza scusante della loro adozione da parte della persona giuridica rispetto ai reati commessi dai ‘‘vertici’’ (33). Sanzioni pecuniarie, cit., p. 157 s.; mentre da parte di altri si assumono atteggiamenti di maggiore apertura: STELLA, Criminalità d’impresa, cit., p. 476 s. (32) V., per tutti, ARENA, Le società in quanto persone giuridiche agiscono direttamente, non a mezzo di rappresentanti (per una rivalutazione della teoria organica), in Studi in memoria di Tullio Ascarelli, V, Milano, 1969, p. 2536, anche se con riferimento generale agli ‘‘atti illeciti’’; FALZEA, La responsabilità penale della persona giuridica, in AA.VV., La responsabilità penale delle persone giuridiche in diritto comunitario, Milano, 1981, p. 151 ss.; PAGLIARO, Il fatto di reato, Palermo, 1960, p. 366 s., che riconosce la compatibilità di un’eventuale responsabilità diretta delle persone giuridiche con il principio di personalità dell’illecito appunto in forza del rapporto di immedesimazione organica con la persona fisica, anche se esclude che possa trattarsi di responsabilità autenticamente penale a causa dell’impossibilità di imputare agli enti collettivi sanzioni dotate dello specifico contenuto finalistico delle sanzioni penali. (33) Si veda l’art. 124, comma 3 (già 126, comma 3) del Progetto; e la Relazione del settembre 2000 (in www.giustizia.it/studierapporti/riformacp/comm_grosso2.htm, p. 74) spiega tale deroga rilevando come ‘‘in tali ipotesi, l’elevato livello di poteri e di responsabilità dell’autore del reato, per il ruolo dirigente ricoperto nell’organizzazione, consente di identificare nella sua colpa la colpevolezza dell’organizzazione stessa’’. Significativo a riguardo appare anche il riferimento comparatistico di DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie, cit., p. 138, all’esperienza nordamericana sviluppatasi sulla base delle federal sentencing guidelines relative alle persone giuridiche, laddove si precisa che la partecipazione al reato di un soggetto rivestito di ‘‘autorità sostanziale’’ all’interno dell’ente costituisce una presunzione, sia pure iuris tantum, che l’impresa manchi di un compliance program caratterizzato da requisiti di effettività.
— 1145 — 5. Assolutamente plausibile è per contro, almeno in via di principio, l’ancoraggio della responsabilità dell’ente collettivo all’adozione ed efficace attuazione dei modelli di ‘‘legalità preventiva’’ in rapporto ai reati commessi da soggetti in posizione subordinata e ‘‘resi possibili’’ dall’inosservanza di obblighi di direzione e vigilanza. L’esplicita indicazione contenuta nella legge delega, e puntualmente recepita nel decreto legislativo (34), in favore di questo criterio d’imputazione, aggiuntivo rispetto all’interesse o vantaggio dell’ente, poneva indubbiamente un preciso problema ad un legislatore delegato sensibile alla necessità dell’accertamento in concreto di questa sorta di colpa agevolatrice in capo all’ente: come evitare il rischio, che tuttora si concretizza, ad esempio, in rapporto alla responsabilità penale del direttore per i reati commessi col mezzo della stampa periodica, di una sbrigativa presunzione di colpa, del tutto scissa dal riferimento alla violazione di precise norme cautelari intese a prevenire la commissione di reati del tipo di quello verificatosi. L’ingresso nel sistema di responsabilità dell’ente dei modelli di gestione e di controllo contenenti ‘‘misure idonee a garantire lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio’’ (art. 7, comma 3) costituisce appunto la risposta, in linea di principio corretta, a questa pressante istanza politicolegislativa. Invero la configurazione di tali modelli rappresenta, per un verso, un sicuro punto di riferimento per l’individuazione delle modalità di esercizio (e quindi dell’eventuale deficit) della vigilanza ‘‘anti-crimine’’ all’interno della societas; e per altro verso, in quanto il modello sia stato adottato ed efficacemente attuato, costituisce il fondamento (questa volta sicuro ed inequivoco) di una corrispondente scusante, ai sensi dell’art. 7 comma 2 del decreto in esame (35). Senonché la disciplina dei compliance programs contenuta nel decreto, a proposito della sottospecie di responsabilità dell’ente collettivo per i reati commessi dai subordinati, si presta a rilievi critici in un certo senso speculari a quelli sopra mossi in rapporto ai reati commessi dal management. Se a quest’ultimo riguardo la normativa relativa è apparsa farraginosa, di ardua applicazione e sostanzialmente inutile se non controproducente, si rende di contro necessario procedere a robuste integrazioni della disciplina ‘‘preventiva’’ contenuta nel decreto legislativo in rapporto (34) V., rispettivamente, art. 11, comma 1, lett. e) l. n. 300/2000 e art. 7, comma 1, d.lgs. n. 321/2001. (35) Probabilmente, a differenza dell’ipotesi disciplinata nell’art. 6, qui è più corretto parlare non di fattispecie scusante, che dovrebbe presupporre l’ingresso di un elemento aggiuntivo rispetto a quelli di per sé idonei ad integrare la responsabilità e tale da neutralizzarne il rilievo, ma piuttosto di assenza del relativo criterio d’imputazione: allo stesso modo che l’errore sul fatto non costituisce a ben vedere una ‘‘scusante’’, bensì evidenzia più semplicemente la mancanza del dolo.
— 1146 — all’agevolazione dei reati dei sottoposti per inosservanza di obblighi di controllo. Una prima, fondamentale notazione riguarda la fisionomia stessa ed il ruolo che norme di tale contenuto ‘‘cautelare’’ debbono assumere all’interno (non tanto dell’organizzazione d’impresa, ma, ben al di là,) dell’ordinamento giuridico nel suo complesso. Sembra invero notevolmente riduttiva l’impostazione a riguardo del legislatore delegato: questi, invaghito dell’idea che l’adozione dei modelli debba essere per così dire ‘‘persuasivamente suggerita’’ all’ente, come strumento di esonero dalla responsabilità per i reati commessi dai sottoposti, insiste nel caratterizzare come ‘‘onere’’ l’adozione da parte della societas di programmi e misure organizzative intesi a garantire lo svolgimento delle attività sociali nel rispetto della legge penale e l’eliminazione delle corrispondenti situazioni di rischio (36); mentre la struttura della corrispondente scusante ex art. 7, comma 2, continua ad essere incentrata su elementi valutativi, ruotanti nell’orbita della ‘‘efficace attuazione’’ del modello, che concedono indubbiamente eccessivo spazio al potere discrezionale del giudice penale (37). A ben vedere proprio l’essenziale funzione di parametro di un accertamento del difetto di controllo che non scada nella presunzione di colpa e quindi nella responsabilità oggettiva, dovrebbe promuovere un ben diverso e più elevato statuto per le norme organizzative intese a neutralizzare il rischio-reato all’interno dell’attività dell’impresa collettiva. Piuttosto che essere sostanzialmente rimesse all’autonomia dei soggetti privati, con il rischio peraltro che il giudice possa in concreto disconoscerne l’efficacia e quindi il rilievo scusante rispetto al reato commesso dal sottoposto (38), tali norme dovrebbero essere contenute in atti normativi legislativi o regolamentari, che delineino un corpus tendenzialmente esaustivo di disposizioni intese ad evitare che nell’esercizio di attività lecite si commettano determinati reati portatori di particolare pregiudizio sociale. Oggetto di una precisa tipizzazione in questa sede, e comunque refrattarie a valu(36) Sulla ‘‘tecnica dell’onere’’, come perno dell’operatività dei compliance programs, v. DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie, cit., p. 158. (37) Sottolinea più in generale l’inaccettabile preminenza del ruolo del giudice nella disciplina del nuovo istituto MUSCO, Le imprese a scuola di responsabilità tra pene pecuniarie e misure interdittive, in Diritto e giustizia, 2001, n. 23, p. 8 ss. (38) Questo sembra essere il dato caratterizzante dell’istituto, anche quando, ai sensi dell’art. 6, comma 3, d.lgs. n. 231/2001, l’adozione dei modelli organizzativi assume una (eventuale) coloritura vagamente pubblicistica, in quanto i codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti siano comunicati al Ministero della giustizia, che può formulare entro trenta giorni osservazioni sulla loro idoneità a prevenire i reati. Questa singolare procedura fa venire in mente un ipotetico paragone paradossale: è quasi come se le norme di comportamento a contenuto cautelare relative alla disciplina della circolazione stradale, invece che essere emanate attraverso il relativo ‘‘codice’’, fossero definite dalle associazioni degli automobilisti (perché no l’ACI?) e semplicemente comunicate al Ministero dei trasporti.
— 1147 — tazioni integrative di ‘‘efficacia’’ da parte del giudice, disposizioni del genere non dovrebbero essere semplicemente proposte all’adozione da parte degli enti collettivi, facendo leva sull’interesse di questi a precostituirsi una scusa per i reati che possano essere commessi dai subordinati, ma dovrebbero essere applicate obbligatoriamente; ed al limite potrebbe configurarsi un illecito (penale o) amministrativo già nella stessa mancata attuazione di esse. Si potrebbe obiettare che i modelli organizzativi e gestionali in oggetto risultino scarsamente compatibili, in ragione della loro complessità e di una indubbia esigenza di flessibilità, con la rigorosa funzione tipizzatrice propria delle fonti normative pubbliche (39). Non si tratterebbe qui di individuare — come avviene ad esempio nella disciplina della circolazione stradale — puntuali e quasi ‘‘atomistiche’’ norme di comportamento, la cui violazione fondi altrettante ipotesi di colpa specifica rispetto alla causazione dell’evento lesivo, ma piuttosto di costruire una rete complessa di cautele, dipanantesi in una serie di adempimenti suscettibili di realizzazione integrata e/o subordinata e rimessi a distinti soggetti operanti a vari livelli dell’organizzazione aziendale. Eppure una normativa di tal genere non sarebbe affatto inedita nel nostro ordinamento giuridico. Basti pensare al corpus di disposizioni cautelari relative alla sicurezza ed alla salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro risultante dal d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626. In particolare l’art. 4 di tale decreto prevede una serie di obblighi a carico del datore di lavoro, del dirigente e del preposto, la cui compiuta attuazione — autonomamente sanzionata a livello penale o amministrativo negli artt. 89 ss. — prefigura una ‘‘rete protettiva’’ rispetto alla sicurezza ed alla salute dei lavoratori non troppo dissimile da ciò che i compliance programs dovrebbero rappresentare in vista dell’eliminazione o del contenimento del rischio-reato nelle attività dell’ente collettivo (40). Per di più, la natura in(39) È quanto in sostanza osserva la relazione d’accompagnamento (cit., p. 19) per spiegare la mancata attuazione a livello legislativo di un più avanzato grado di determinazione dei contenuti dei modelli organizzativi. (40) L’art. 4 d.lgs. n. 626/1994 — i cui dodici commi, molti dei quali articolati in una serie cospicua di lettere, non conviene qui riportare — disciplina in effetti varie e complesse procedure intese a conseguire l’obiettivo unitario di garantire il maggior livello di sicurezza nei luoghi di lavoro; e ciascuno dei passaggi intermedi di tali procedimenti — i cui contenuti concreti sono naturalmente rimessi all’autonoma elaborazione dei soggetti interessati: v., ad es., la redazione del documento contenente la valutazione dei rischi, l’individuazione delle misure preventive ed il programma di ulteriore miglioramento dei livelli di sicurezza di cui al comma 2 — costituisce oggetto di un obbligo, distintamente sanzionato. Non è del resto un caso che la Relazione al Progetto Grosso afferma di aver assunto come punto di riferimento, ai fini dell’elaborazione delle ‘‘posizioni di garanzia nell’ambito di organizzazioni complesse’’ (che sostanzialmente rispondono alle medesime istanze politico-legislative sottese ai compliance programs), proprio le norme contenute nel d.lgs. n. 626/1994 (cit., p. 22). Richiama altresì tale normativa, come punto di riferimento per una formalizzazione di
— 1148 — trinsecamente ‘‘frammentaria’’ del rischio-reato, rispetto ai pericoli genericamente gravanti sulla onnicomprensiva ‘‘sicurezza e salute dei lavoratori’’ con cui ha dovuto misurarsi il d.lgs. n. 626/1994, dovrebbe notevolmente agevolare un impegno di disciplina legislativa nella materia dei presupposti di tipo organizzativo della responsabilità dell’ente per reati commessi dai soggetti in posizione subordinata. Torna qui in evidenza il fondamentale pregio di questa prima attuazione della delega legislativa segnalato in apertura: il meritorio self-restraint impostosi dal legislatore delegato, quanto alle tipologie criminose di riferimento della responsabilità diretta della societas, costituisce il miglior viatico perché successivi e ponderati allargamenti di tale area di responsabilità siano contestualmente accompagnati dalla prescrizione (per via di obbligo e non più di onere) di modelli organizzativo-gestionali ritagliati sulla particolare natura (e quindi sugli specifici rischi di perpetrazione) dei reati da prevenire (41). 6. Il sistema di responsabilità dell’ente collettivo per i reati commessi dai sottoposti presenta poi una carenza di proporzioni più evidenti, anche se si tratta di un difetto che risale innanzitutto alla legge delega ed alla limitata attuazione dalla stessa apprestata sul punto all’insieme delle convenzioni internazionali pure richiamate nell’intitolato e nell’art. 1. Se si considerano attentamente le prescrizioni, in particolare di matrice europea, che la l. n. 300/2000 avrebbe dovuto attuare in tema di reati comunque commessi nell’ambito di enti collettivi, si deve inopinatamente concludere che la medesima legge risulta assolutamente inadempiente (42). Tanto il testo base della Convenzione del 1975 per la protezione degli interessi finanziari delle Comunità europee quanto il primo Protocollo del 1996, così come la Convenzione relativa alla corruzione di funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea del 1997, non impongono agli Stati membri di introdurre nei rispettivi ordinamenti giuridici la responsabilità diretta delle persone giuridiche, ma piuttosto — e direi preliminarmente — la responsabilità penale dei dimodelli di tipo procedimentale intesi a minimizzare il rischio di illegalismi nelle attività d’impresa PALIERO, La responsabilità penale delle persone giuridiche e la tutela degli interessi finanziari della Comunità europea, in GRASSO (a cura di), La lotta contro la frode agli interessi finanziari della Comunità europea tra prevenzione e repressione. L’esempio dei fondi strutturali, Milano, 2000, p. 84. Sulla disciplina in parola, oggetto di continua evoluzione sulla spinta di direttive comunitarie, v., di recente, PULITANÒ, Igiene e sicurezza del lavoro (tutela penale), in Dig. disc. pen., Aggiornamento, Torino, 2000, p. 388 ss., nonché, da ultimo, MORGANTE, Le posizioni di garanzia nella prevenzione antinfortunistica in materia di appalto, in questa Rivista, 2001, p. 88 ss. (41) Si tratterebbe in sostanza di specificare e puntualizzare, in rapporto alle distinte tipologie criminose di riferimento, quanto l’art. 22 (già 24) del Progetto Grosso prescrive in rapporto alla generalità dei reati che possono essere commessi all’interno dell’ente collettivo. (42) Cfr. supra, nota 1.
— 1149 — rigenti delle imprese per i reati rispettivamente indicati che siano commessi per conto dell’impresa da persona soggetta alla loro autorità. Soltanto la Convenzione OCSE sulla corruzione dei pubblici funzionari stranieri impone alle parti contraenti di apprestare nei rispettivi ordinamenti ed in conformità ai relativi principi una responsabilità — non necessariamente penale — delle persone giuridiche per tali fatti di corruzione. Da ciò discende che la legge di ratifica ed attuazione delle fonti internazionali in esame avrebbe dovuto delegare il Governo ad introdurre distintamente, seppure con il necessario coordinamento, innanzitutto una responsabilità per agevolazione colposa in capo ai soggetti individuali titolari di funzioni ‘‘apicali’’ e quindi l’eventuale responsabilità diretta dell’ente per i reati commessi dai sottoposti ed agevolati dal difetto di direzione e controllo. Che il complessivo sistema di responsabilità per i reati commessi dai sottoposti debba essere in tal modo articolato sul contrappunto tra responsabilità entro e della persona giuridica (43), non risponde peraltro solo ad una logica per così dire ‘‘eteronoma’’ di adempimento di obblighi internazionali, ma riflette precise esigenze di una più compiuta risposta politico-criminale, come testimoniano le soluzioni ispirate al medesimo orientamento, seppure tecnicamente strutturate in modo diverso, contenute in un recentissimo progetto di riforma del codice penale (44). Secondo il sistema risultante dal decreto delegato — ma il difetto, va ribadito, scaturisce dalla legge delega — il fatto di agevolazione colposa del reato dei sottoposti, ravvisabile nel comportamento dei soggetti titolari degli obblighi di direzione e vigilanza, rileva soltanto come canale di imputazione soggettiva (in un certo senso colposa) del reato del sottoposto all’ente collettivo: il soggetto in posizione ‘‘apicale’’ risulta così essere una sorta di ‘‘portatore sano’’ di un germe di responsabilità punitiva (l’agevolazione colposa) che si trasmette all’ente di appartenenza, ma dal cui influsso il primo resta esente. Anzi a ben guardare — e qui è ravvisabile una precisa deviazione rispetto all’impostazione dell’art. 11, comma 1, lett. e) della legge — il legislatore delegato finisce per allentare lo stretto rapporto tra responsabilità dell’ente ed inosservanza dei doveri di vigilanza, sia pure non autonomamente sanzionati, da parte di un preciso soggetto in posizione ‘‘apicale’’: l’art. 7, comma 1, del decreto fonda il coefficiente soggettivo di responsabilità diretta dell’ente in una generica inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza, riferibile all’ente nel suo complesso; e la conferma di ciò risulta dall’art. 7, comma 2, laddove l’adozione ed efficace attuazione dei modelli di organizzazione viene presentata come caso di esclusione dell’inosservanza dell’obbligo in sé, piuttosto (43) È il binomio valorizzato in via generale, relativamente alle posizioni di garanzia nell’ambito di organizzazioni complesse, dalla relazione al Progetto Grosso (cit., p. 23). (44) Infra, n. 7.
— 1150 — che come scusante, da riferire al solo ente collettivo, di un inadempimento individuale che si sia comunque verificato e permanga come tale (45). Ora questo modello, che sostanzialmente risolve ed esaurisce la rilevanza punitiva del difetto di controllo sull’operato criminoso dei sottoposti nella mancata adozione e/o efficace attuazione del compliance program da parte dell’ente, finendo per disinteressarsi dell’omessa vigilanza imputabile innanzitutto alla persona del soggetto in posizione apicale, risulta non soltanto, come già osservato, deficitario rispetto agli obblighi di penalizzazione di matrice europea, ma evidenzia soprattutto sensibili lacune di tutela. Si faccia distintamente il caso che il soggetto sottoposto commetta un reato nell’interesse dell’ente collettivo in presenza o in mancanza di modelli organizzativi efficacemente attuati. Nella prima eventualità non subentra, in base al chiaro disposto dell’art, 7, comma 2, la responsabilità diretta dell’ente. Ma non vi sarà neanche una responsabilità penale in capo al soggetto in posizione apicale, nonostante che sia ben possibile ravvisare nel comportamento di questi una carenza colposa di sorveglianza o di controllo proprio sulla base dei parametri di valutazione forniti dalle norme contenute nel modello organizzativo. Il saldo della vicenda, in termini di controllo penale della criminalità d’impresa, si risolve nella sola responsabilità del soggetto sottoposto, esattamente come se questi non avesse agito nell’ambito di una struttura e di un milieu societario, con conseguente misconoscimento delle complessive e specifiche esigenze di tutela che emergono in tale contesto. Nell’eventualità in cui il modello organizzativo non sia stato attuato, dovrebbe intervenire la responsabilità dell’ente, in aggiunta a quella del sottoposto, per il reato da questi commesso; eppure anche in tal caso è spesso configurabile innanzitutto un difetto di vigilanza e controllo da parte del ‘‘vertice’’, che assume consistenza e ‘‘visibilità’’ proprio nel raffronto con le procedure (nella specie non adottate all’interno dell’ente) contenute nei corrispondenti modelli preventivi. Anche qui non si vede perché il soggetto in posizione apicale non debba concorrere con la sua personale responsabilità a completare un quadro di tutela penale realmente efficace e pienamente adeguato rispetto alla pericolosità della criminalità d’impresa (46). (45) Conviene peraltro sottolineare come non solo la legge delega, ma altresì l’art. 3, comma 2 del secondo protocollo della Convenzione c.d. PIF (dalla prima non ratificato: cfr. supra, note 1 e 14) collega strettamente la responsabilità della persona giuridica per il reato dei sottoposti ad una carenza di sorveglianza o controllo imputabile direttamente e personalmente ad un soggetto in posizione ‘‘apicale’’. (46) Un sistema di triplice incriminazione, in ordine alle medesime tipologie di reato, innanzitutto dei soggetti individuali che siano autori o concorrenti nel reato, quindi dei soggetti dotati di poteri di decisione o controllo sull’operato di costoro all’interno dell’impresa
— 1151 — 7. L’incriminazione di quanti esercitano poteri di direzione e controllo all’interno dell’ente collettivo per i reati commessi dai soggetti ad essi sottoposti — richiesta da norme di matrice europea rimaste a tutt’oggi inattuate e sicuramente rispondente ad un efficace e compiuto sistema di repressione della criminalità d’impresa — ha già avuto modo di affacciarsi sulla scena dell’ordinamento interno per il tramite della già richiamata vicenda di lavori di riforma del codice penale, tuttora in corso, che ha conosciuto la singolare coincidenza di procedere in parallelo con la gestazione della disciplina della responsabilità delle persone giuridiche finalmente attuata attraverso la legge delega ed il decreto delegato in esame. Alludo chiaramente alla complessa disciplina della responsabilità delle persone giuridiche contenuta nel Progetto preliminare di riforma del codice penale, parte generale, presentato alla comunità scientifica ed agli operatori del diritto dalla commissione ministeriale presieduta dal prof. Grosso nel settembre del 2000 e messo ulteriormente a punto nel maggio 2001 a seguito di un intenso dibattito sviluppatosi in tali sedi (47). Nel tracciare l’ambito di responsabilità degli enti collettivi, il progetto delinea una distinzione, tra reati perpetrati da soggetti legittimati ad agire per l’ente e reati commessi con inosservanza delle disposizioni relative allo svolgimento dell’attività della persona giuridica, non molto dissimile da quella contenuta nell’art. 11 lett. e) della legge delega (48). La differenza più significativa è data dal fatto che l’individuazione dei soggetti autori di questa seconda specie di reati non è fatta per il tramite della sottoposizione alla direzione o vigilanza dei ‘‘vertici’’, bensì indicando quanti, ai sensi dell’art. 22 (già 24) comma 2 del Progetto, inserito nel capo della responsabilità per omissione, risultano titolari di posizioni di garanzia dirette ad impedire la commissione di reati alla stregua dei modelli organizzativi — sostanzialmente corrispondenti a quelli descritti nel decreto delegato — dei quali tutte le imprese, anche individuali, sono tenute a doed infine degli enti collettivi come tali è espresso dagli artt. 12-14 del Corpus Iuris contenente disposizioni penali per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea (si tratta — come è ben noto — di un corpo di disposizioni penali sostanziali e processuali, elaborato da una commissione di studiosi di varie nazionalità, che — ove fosse assunto nelle fonti regolamentari del diritto comunitario sul presupposto, invero tuttora contestato dalla dottrina maggioritaria, di una potestà normativa penale in capo alle relative istituzioni — realizzerebbe uno spazio giudiziario europeo limitatamente all’incriminazione e persecuzione di taluni reati particolarmente pregiudizievoli per gli interessi finanziari della Comunità e dell’Unione europea): se ne veda il testo originario — corretto in taluni punti nell’ultima versione licenziata dal suddetto gruppo di studiosi tra il 1999 ed il 2000 — in Verso uno spazio giudiziario europeo, prefaz. di GRASSO, Milano, 1997, p. 117; per un inquadramento della relativa problematica v. PALIERO, La responsabilità penale delle persone giuridiche, cit., p. 77 ss. (47) Tutti questi documenti sono consultabili sulla rete telematica al sito www.giustizia.it. (48) Cfr. art. 121, comma 1 (già art. 123, comma 1) del Progetto.
— 1152 — tarsi (49). Ora, da questa intersezione tra gli ambiti normativi della responsabilità per omissione e della responsabilità delle persone giuridiche, effettuata dal Progetto, risulta che la sottospecie di reati per la quale ricorre quest’ultima è costituita in buona parte, anche se non esclusivamente (50), dalle figure di omesso impedimento dei reati dei sottoposti per le quali già di per sé l’art. 22 (già 24) comma 2 prevede innanzitutto la responsabilità penale dei titolari delle corrispondenti posizioni di garanzia. Si realizza insomma un compiuto sistema di repressione penale ruotante attorno al reato commesso dal sottoposto, comprensivo innanzitutto di un’autonoma responsabilità del soggetto titolare di posizione qualificata all’interno dell’ente e quindi della responsabilità dell’ente stesso: è quanto sopra auspicato come ottimale risposta ai problemi politico-criminali suscitati dalla criminalità d’impresa riferibile a soggetti diversi dal management. Il sistema delineato dal Progetto Grosso presenta tuttavia alcuni inconvenienti, almeno nel raffronto con il dato normativo contenuto nella legge delega, ribadito nel decreto delegato e ormai acquisito nell’ordinamento interno. Il criterio di imputazione all’ente dei reati commessi dai sottoposti consiste, nel complesso normativo appena entrato in vigore, nel fatto che questi illeciti sono stati ‘‘resi possibili’’ dall’inosservanza di obblighi di direzione o di vigilanza gravanti su soggetti in posizione apicale: si tratta cioè di un semplice nesso agevolativo, che non postula alcun rapporto di natura strettamente condizionalistica tra il deficit di controllo e la perpetrazione del reato. Molto più impegnativa, e con esiti evidentemente più restrittivi, risulta di contro l’impostazione data alla questione dal Progetto Grosso. Si badi bene: i ‘‘materiali normativi’’ che sostanziano, rispettivamente, gli obblighi di direzione e vigilanza da un lato, e le posizioni di garanzia dall’altro lato, vengono a coincidere, essendo definiti da quei modelli organizzativi valorizzati tanto nel Progetto Grosso quanto nel decreto delegato (51). Ciò che fa la sensibile differenza è l’inquadramento tecnicostrutturale del fenomeno: invero incardinare la responsabilità del dirigente nel quadro dell’omesso impedimento dell’evento-reato (commesso dal sot(49) Per uno sguardo d’insieme sulla disciplina della responsabilità omissiva nel Progetto Grosso v. GIUNTA, La responsabilità per omissione nel progetto preliminare di riforma del codice penale, in Dir. pen. proc., 2001, p. 401 ss. (50) V. le precisazioni contenute nella Relazione alla prima versione del Progetto, cit. (supra, nota 33), p. 73. (51) Per un’argomentata distinzione, sia pure all’interno di una medesima prospettiva generale di impedimento del reato altrui, tra obbligo di sorveglianza ed obbligo di garanzia, v., di recente, LEONCINI, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza, Torino, 1999, p. 151 ss.: secondo l’A. la violazione dell’obbligo di sorveglianza non è riconducibile all’ambito di operatività dell’art. 40, comma 2, c.p., né esprime in atto altra rilevanza penale, almeno in via generale.
— 1153 — toposto) significa postulare l’accertamento di una causalità omissiva che è requisito ben più rigoroso del mero nesso agevolativo, come risulta ben presente agli stessi estensori del Progetto, laddove ancorano la responsabilità commissiva mediante omissione alla certezza che l’attività omessa avrebbe impedito l’evento (52). Una tale restrizione dell’ambito di responsabilità del soggetto in posizione apicale non sembra in alcun modo conveniente. Per altro verso, la disciplina proposta in materia dal Progetto Grosso si rivela invece particolarmente ‘‘punitiva’’ nei confronti della persona fisica inadempiente rispetto agli obblighi di (vigilanza o) garanzia. Per il tramite dell’inserimento nella costellazione dell’omesso impedimento dell’evento-reato, il comportamento deficitario di tale soggetto finisce per sottostare alla medesima sanzione prevista per il reato non impedito, la qual cosa appare eccessiva nei confronti di una condotta di sostanziale agevolazione. La strada per conferire un adeguato statuto penalistico ai comportamenti dei dirigenti in rapporto ai reati commessi dai sottoposti risulta a questo punto obbligata e semplice nello stesso tempo. Si è visto che la legge delega individua nel comportamento agevolativo del soggetto in posizione apicale il momento di imputazione soggettiva all’ente del reato del sottoposto, sempreché non siano stati adottati o efficacemente attuati i modelli di organizzazione. Orbene, si tratta soltanto di conferire a questo stesso sostrato di fatto un’ulteriore rilevanza giuridica: oltreché (o prima di) rappresentare il canale di imputazione alla societas del reato commesso dal soggetto in posizione subordinata, l’inosservanza del dovere di controllo dovrà altresì costituire il nucleo della condotta di un corrispondente reato di agevolazione colposa da configurarsi direttamente in capo al ‘‘vertice’’, con una congrua riduzione della pena prevista per il reato di riferimento. La concretizzazione di questa colpa specifica sarà guidata dal riferimento alle prescrizioni dei modelli organizzativi, i quali pure verranno così a svolgere una doppia funzione di (52) Si veda l’art. 14 del Progetto Grosso, in cui, nella versione modificata del maggio 2001, il riferimento alla probabilità confinante con la certezza ha sostituto quello alla certezza, senza che peraltro, a detta della stessa Commissione, debba ravvisarsi in tale variante un indebolimento dell’orientamento di disciplina. Sulla causalità omissiva v. in generale — oltre alle riflessioni di STELLA, ora in appendice al fondamentale studio monografico Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1990, p. 377 ss. — DONINI, La causalità omissiva e l’imputazione ‘‘per aumento del rischio’’, in questa Rivista, 1999, p. 32 ss.; PALIERO, La causalità nell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, in Riv. it. med. leg., 1992, p. 821 ss.; SOFOS, Mehrfachkausalität beim Tun und Unterlassen, Berlin, 1999. Sulla piena equiparazione tra causalità attiva ed omissiva, in ordine all’elevato grado richiesto di frequenza statistica del rapporto di successione tra condotta ed evento, v. le recenti pronunce della Corte di cassazione riportate in questa Rivista, 2001, p. 277 ss.
— 1154 — qualificazione della responsabilità in conformità del principio di colpevolezza: rispetto all’ente, al punto da escluderla — come già prevede l’art. 7 comma 2 del decreto legislativo — nel caso in cui siano stati adottati ed efficacemente attuati; rispetto al dirigente, il quale abbia comunque disatteso gli obblighi di vigilanza in essi tipizzati. Naturalmente esulerà un nesso di necessaria reciproca implicazione tra le due forme di responsabilità (salva sempre, naturalmente, quella del sottoposto in quanto autore per così dire ‘‘immediato’’ del reato in questione): anzi, proprio nell’auspicabile eventualità di una generalizzata adozione ed attuazione dei compliance programs da parte degli enti collettivi, sarà la (in questa ipotesi esclusiva) responsabilità del dirigente a costituire in definitiva lo strumento repressivo elettivo di tale sottospecie di criminalità all’interno dell’impresa. 8. Dalle considerazioni fin qui svolte risulta la necessità di un triplice urgente intervento legislativo ad integrazione della disciplina della responsabilità da reato delle persone giuridiche predisposta nel d.lgs. n. 231/2001, con particolare riguardo ai reati commessi nell’interesse dell’ente dai soggetti sottoposti all’altrui direzione: da un lato, l’assunzione dei modelli organizzativi, opportunamente delineati in rapporto alla specifica tipologia dei reati di riferimento, in norme di diritto pubblico inserite nell’ordinamento generale e di applicazione obbligatoria, con conseguente recupero dal limbo di substrato persuasivo della corrispondente fattispecie scusante nel quale sono attualmente confinati; dall’altro lato, la configurazione, per ciascuna tipologia criminosa di riferimento, di altrettante fattispecie di agevolazione colposa proprie dei dirigenti; ed infine una distinzione degli editti sanzionatori in capo all’ente collettivo — attualmente indifferenziati — rispetto a quelli previsti per i reati commessi dai soggetti in posizione apicale (53). Tali variazioni de lege (proxima) ferenda (54) non impediscono peraltro, sotto l’altro versante annunciato nel titolo del presente lavoro, di trarre indicazioni abbastanza definitive circa la natura giuridica della responsabilità da reato degli enti collettivi, quale già risulta dalla normativa appena entrata in vigore. A riguardo sembra necessario prendere le mosse dalle seguenti considerazioni. (53) A rigore si renderebbe altresì opportuna, secondo quanto sopra argomentato (nn. 3 e 4), l’abrogazione della disciplina ‘‘scusante’’ prevista per i reati commessi dai soggetti in posizione apicale; ma probabilmente sarà lo stesso ‘‘diritto vivente’’ ad incaricarsi di renderla sostanzialmente inoperante. (54) Sottolinea l’urgenza di una revisione complessiva del quadro della responsabilità, penale e/o amministrativa, per gli illeciti connessi con l’attività d’impresa PALAZZO, Nuova legislatura e politica penale, in Dir. pen. proc., 2001, p. 800 s.
— 1155 — A) La fattispecie che condiziona le conseguenze sanzionatorie a carico dell’ente collettivo è in gran parte costituita dal medesimo fatto di reato commesso da taluna delle persone fisiche incardinate nella struttura della societas: non ricorre dunque — come bene è stato osservato (55) — quella divaricazione fattuale tra illecito penale ed illecito cosiddetto amministrativo dipendente da reato, che sembra suggerita dalla formula adottata in apertura dall’art. 1, comma 1 e successivamente ribadita in più punti della disciplina contenuta nel d.lgs. n. 231/2001 (56). Il fatto di reato commesso dal soggetto individuale può peraltro prescindere dall’imputabilità, e quindi dall’assoggettabilità a pena (criminale) di costui, come si incarica di precisare l’art. 8, comma 1, nell’intento di sancire la reciproca autonomia delle conseguenze sanzionatorie (del medesimo fatto criminoso) a carico rispettivamente della persona fisica e della persona giuridica. Questo dato normativo — che la stessa relazione d’accompagnamento si preoccupa in un certo senso di ridimensionare, attribuendogli il ruolo di mero completamento di una disciplina informata all’autonomia della responsabilità dell’ente (57) — assume a ben guardare una notevole valenza sistematica, capace di proiettare alcuni primi riflessi sulla questione della natura giuridica della responsabilità dell’ente collettivo. In sostanza siamo di fronte ad un nuovo corpus sanzionatorio — definito in termini di sanzioni amministrative sia dall’art. 11 lett. f) della legge delega sia dalla rubrica dell’art. 9 del decreto delegato — che consegue ad un fatto di reato che può essere commesso indifferentemente da un soggetto imputabile o non imputabile. Sorge immediato allora il riferimento analogico — naturalmente limitato a questo particolare profilo — con il sistema delle misure, anch’esse a suo tempo definite amministrative, di sicurezza, che pure presuppongono un fatto di reato non necessariamente commesso da persona imputabile; e si profila, tra le altre, l’ipotesi che le sanzioni a carico dell’ente collettivo possano configurare una sorta di terzo binario nell’ambito del complessivo sistema penale (criminale), così come — al di là dell’evidente e scontata diversità di presupposti — le misure di sicurezza rappresentano appunto da tempo il secondo, seppure sempre meno frequentato binario (58). B) La fattispecie — che l’art. 1 comma 1 del decreto in esame definisce in termini di ‘‘illecito amministrativo dipendente da reato’’ — non si (55) MUSCO, Le imprese, cit., p. 8 s.: l’A. parla di ‘‘doppia qualificazione del medesimo fatto storico’’. (56) V. artt. 9, 10, 34, 36, comma 2, 38, 55, 59, 69. (57) Relazione, cit. (supra, nota 6), p. 20. Lamenta che sia stato in tal modo assunto a presupposto della responsabilità dell’ente collettivo un modello di reato che, nella prospettiva della concezione tripartita, risulta mutilato di un fondamentale profilo attinente alla colpevolezza MUSCO, op. cit., p. 9. (58) V. infra, n. 10.
— 1156 — esaurisce tuttavia interamente nel reato commesso dal soggetto in posizione apicale o sottoposto all’altrui direzione all’interno dell’ente collettivo. Essa comprende altresì elementi i quali, mentre risultano del tutto ininfluenti ai fini dell’affermazione della responsabilità dei soggetti individuali, sono essenziali per dare ingresso a quella della societas: si tratta appunto di quei canali di imputazione del reato alla persona giuridica, sopra esaminati, dei quali occorre ora dare una connotazione dogmatica riassuntiva e definitiva. La circostanza che il reato sia commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente dal soggetto in posizione apicale, ovvero dal soggetto sottoposto alla direzione o vigilanza del primo quando in più sia ravvisabile un nesso agevolativo con l’inosservanza dei corrispondenti obblighi, rappresenta un criterio d’imputazione dell’illecito penale alla societas, che è nello stesso tempo oggettivo e soggettivo. È oggettivo poiché svolge in rapporto all’ente collettivo innanzitutto un ruolo analogo a quello che il nesso causale tra evento e condotta del reo svolge in rapporto alla responsabilità penale del soggetto individuale: in assenza del canale dell’interesse o vantaggio dell’ente, il reato commesso dal soggetto inserito a vario titolo nella struttura della societas risulterebbe assolutamente estraneo a questa, sarebbe irrimediabilmente un fatto altrui. Ma si tratta altresì di un canale di imputazione intrinsecamente soggettivo: il perseguimento di un vantaggio per l’ente di appartenenza, da parte del soggetto in posizione apicale, può promuovere una sorta di traslatio del dolo di questi in capo alla societas; per converso, la condotta di agevolazione colposa del ‘‘vertice’’ rispetto al reato del sottoposto — pur non determinando in atto, come sopra visto, una responsabilità penale a tal titolo in capo alla persona fisica — può legittimamente suggerire il fondamento di una colpa in senso stretto riferibile all’ente come tale. Beninteso, ciò non significa necessariamente che occorrerà concludere le presenti riflessioni nel senso della costruzione di una superiore figura ‘‘complessa’’ di illecito punitivo (amministrativo o ulteriormente penale che sia) della persona giuridica, nella cui struttura il reato della persona fisica, al completo degli elementi oggettivi e soggettivi, si atteggi come una sorta di evento imputabile alla prima sulla scorta dei ripetuti momenti di collegamento (che a loro volta assumono una valenza tanto oggettiva che soggettiva). Voglio soltanto dire che una tale eventualità, che conferirebbe un indubbio spessore dogmatico alla formula di ‘‘illecito (amministrativo) dipendente da reato’’ coniata dal legislatore delegato, non può al momento escludersi. Ai successivi e conclusivi paragrafi spetta la verifica definitiva. 9. Procediamo dunque nella direzione in ultimo indicata, alla ricerca di una plausibile e convincente configurazione del complesso feno-
— 1157 — meno normativo in esame in termini di autentico illecito dell’ente collettivo, amministrativo o penale che possa risultare. Per una sorta di riguardo per la netta presa di posizione del legislatore delegato, tributario in proposito della stessa legge delega, e pur nella consapevolezza che tali opzioni dogmatico-sistematiche non hanno valore vincolante per l’interprete al di fuori di quanto non si rifletta sull’effettiva articolazione della disciplina, consideriamo innanzitutto l’eventualità che tale preteso illecito abbia realmente natura amministrativa. 9.1. Va subito detto che sarebbe conclusione davvero singolare, da un punto di vista sistematico, quella di qualificare come amministrativo un illecito, il cuore della cui fattispecie è costituito da un reato completo di tutti i suoi elementi costitutivi (59). A ciò sembra ostare innanzitutto una ragione di carattere logico-giuridico: può mai un illecito penale, nel momento in cui viene non già mutilato di taluni dei suoi elementi, ma piuttosto corredato di ulteriori requisiti di fattispecie funzionali alla piena attuazione del principio di personalità della responsabilità punitiva nei confronti dell’ente collettivo, venire per ciò stesso ‘‘degradato’’ a illecito amministrativo? Può mai questa (ipotizzata) fattispecie complessa essere privata della natura giuridica propria della sua componente fondamentale, quando gli elementi che vi si aggiungono, lungi dal diminuirne lo ‘‘statuto’’ di rilevanza giuridica, intendono al contrario affinare e potenziare i meccanismi di imputazione in vista della peculiare natura del soggetto attivo di riferimento? Ma al di là dell’immediato disagio avvertibile sul piano logico-giuridico, viene in evidenza una più profonda ragione di carattere sistematico. Le categorie politico-legislative, prima ancora che dogmatiche, dell’illecito amministrativo e dell’illecito penale sono ormai caratterizzate nel nostro ordinamento giuridico da un preciso rapporto di alternatività, fondato su basi di valutazione giuridico-sostanziale che costituiscono un prius piuttosto che un posterius della qualificazione giuridico-formale della rispettiva natura. Ciò si è reso subito evidente nella prima genesi delle moderne figure di illecito (punitivo) amministrativo, frutto, come è noto, di un progressivo e robusto processo di depenalizzazione di precedenti fattispecie (59) Che gli illeciti in questione di amministrativo presentano solo il nome, mentre hanno in realtà natura propriamente penale, è stato affermato fin dai primi commenti intervenuti sul decreto in esame: FERRUA, Le insanabili contraddizioni, cit., p. 8; MUSCO, Le imprese, cit., p. 8, sia pure con la riserva relativa al mancato riconoscimento del ruolo dell’imputabilità (cfr. supra, nota 57). Tra le norme che segnalano quanto preponderante (o esclusivo) sia il ‘‘peso’’ dell’illecito penale commesso dalla persona fisica nell’economia dell’illecito ‘‘amministrativo’’ dell’ente collettivo, assume particolare evidenza l’art. 26, che stabilisce una sensibile riduzione delle sanzioni pecuniarie ed interdittive in capo all’ente, quasi corrispondente alla misura indicata nell’art. 56 c.p., ove il delitto sia stato commesso nella forma del tentativo.
— 1158 — criminose (60). Quando poi, a seguito dell’introduzione di poli di disciplina generale (61), è parso chiaro che l’illecito amministrativo veniva ormai a rivendicare un’autonoma posizione e funzione all’interno del più ampio sistema del diritto punitivo, la cultura giuridico-penale non si è sottratta al compito di individuare e precisare le ragioni che dovrebbero sovrintendere al ricorso, appunto alternativo, all’uno o all’altro strumento di tutela (62). Insomma, la fisionomia politico-legislativa e giuridico-sostanziale dell’illecito amministrativo è ben sufficientemente e correttamente delineata, perché possa tollerarsi un uso improprio della relativa qualificazione, dettato dalla sola motivazione di non urtare la pruderie di quanti si dichiarano in via di principio contrari ad ammettere un’autentica responsabilità penale delle persone giuridiche. Se poi si considera che il decreto legislativo detta una disciplina di accertamento ed applicazione delle sanzioni in parola chiaramente ed esplicitamente ispirata, al di là dell’attribuzione della relativa competenza al giudice penale chiamato a conoscere dei reati presupposti, ai principi della procedura penale (63), risulta ancora più evidente la forzatura insita nell’insistente qualificazione in termini ‘‘amministrativi’’ dell’illecito (e delle sanzioni) in questione. 9.2. Sembrerebbe a questo punto che non vi sia altra soluzione che qualificare risolutamente come ‘‘penale’’ l’illecito dell’ente collettivo di(60) V., per tutti, PALIERO, Depenalizzazione, in Dig. disc. pen., III, Torino, 1989, p. 425 ss. (61) Alludo tanto al primo fondamentale corpus di disciplina, contenuto nella l. 24 novembre 1981, n. 689, quanto al più recente d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, in materia di sanzioni tributarie; di tale ultimo complesso normativo, in particolare, non sembra potersi negare l’afferenza al più ampio sistema del diritto punitivo, pur in presenza di taluni elementi di disciplina non del tutto corrispondenti a quella dell’illecito amministrativo punitivo in senso stretto: cfr., per tutti, PALAZZO, Introduzione ai principi del diritto penale, Torino, 1999, p. 101 ss. (62) V., tra gli altri, DELMAS-MARTY, I problemi giuridici e pratici posti dalla distinzione tra diritto penale e diritto amministrativo penale, in questa Rivista, 1987, p. 731 ss.; DOLCINI, Sui rapporti fra tecnica sanzionatoria penale e amministrativa, ivi, p. 777 ss.; ID., Sanzione penale o sanzione amministrativa: problemi di scienza della legislazione, ivi, 1984, p. 589 ss.; PADOVANI, La distribuzione di sanzioni penali e di sanzioni amministrative secondo l’esperienza italiana, ivi, p. 952 ss.; PALAZZO, I criteri di riparto tra sanzioni penali e amministrative, in Indice pen., 1986, p. 35 ss. Come è ampiamente noto, alcuni degli orientamenti così emersi hanno trovato tempestiva espressione a livello ‘‘istituzionale’’ per il tramite della Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri in data 19 novembre 1983 (in Suppl. ord. G.U.R I. n. 22 del 23 gennaio 1984) rivolta agli uffici legislativi dei vari ministeri e contenente criteri orientativi per la scelta tra sanzioni penali e sanzioni amministrative. (63) Particolare significato esprimono a tal riguardo l’art. 35, che estende all’ente collettivo le disposizioni relative all’imputato, in quanto compatibili, e l’art. 59, che disciplina la contestazione dell’illecito c.d. amministrativo in termini pressoché coincidenti con la contestazione dell’illecito penale, istituto in cui tradizionalmente si ravvisa una delle più consistenti manifestazioni del diritto di difesa.
— 1159 — pendente dal reato commesso dalla persona fisica. Ma anche questo percorso è più problematico di quanto non possa sembrare sulla base delle considerazioni già svolte. Innanzitutto bisogna distinguere un profilo d’indagine attinente alla struttura dell’illecito di cui si discute da altro profilo, che riguarda la natura e la funzione delle conseguenze sanzionatorie, considerate sia di per sé che in rapporto alla peculiare natura del soggetto collettivo che ne risulta destinatario. 9.2.1. Con riferimento ai problemi di struttura, la questione può essere riassunta nei seguenti termini: è possibile rintracciare nella fattispecie di illecito in parola tutti gli elementi costitutivi di una preesistente fattispecie tipica di reato, la quale risulti pertanto commessa, sulla base degli stessi elementi, non soltanto dalla persona fisica, ma altresì dall’ente collettivo in cui il soggetto individuale è inserito (64)? La risposta, alla stato di attuazione della delega legislativa e degli adempimenti legislativi di matrice europea, non può essere univoca. Con riferimento al reato realizzato dai soggetti in posizione apicale, nulla osta a ravvisare nella fattispecie complessa riferibile all’ente collettivo la commissione da parte (anche) di questo del medesimo illecito penale. Come più volte accennato nel corso del presente lavoro, il criterio di imputazione, oggettivo e soggettivo, rappresentato dall’(agire nell’) interesse o a vantaggio dell’ente è assolutamente idoneo a legittimare l’affermazione che, ad esempio, la corruzione di pubblico funzionario sia stata commessa contemporaneamente ed insieme dall’amministratore e dalla societas (65): ferma l’unità di fattispecie obiettiva, anche il dolo dell’uno sembra poter integrare il (quasi?) dolo dell’altra. (64) Un tale interrogativo presuppone evidentemente la convinta adesione ad un preciso postulato politico-legislativo in materia: la responsabilità della persona giuridica deve sempre innestarsi sulla (ovvero aggiungersi alla) responsabilità penale delle (singole) persone fisiche, nel senso che non può concepirsi la creazione di una figura di reato che sia tale solo per gli enti collettivi: cfr. ROMANO, Societas, cit., p. 1038 ss., le cui osservazioni, sviluppate in rapporto ad un’auspicata responsabilità di tipo amministrativo degli enti collettivi ed incentrate sulla necessità di evitare la deresponsabilizzazione degli individui, valgono a maggior ragione per chi non è alieno dall’ammettere una responsabilità penale in senso stretto in capo alle persone giuridiche. In quest’ultima prospettiva va registrata, anche se meno recente, la severa presa di posizione di FALZEA, La responsabilità, cit., p. 160, secondo cui certe inclinazioni, ravvisabili sul piano comparatistico, ad escludere la previa responsabilità penale degli individui per l’illecito riferibile all’ente ‘‘sono pericolose e devianti’’. Prospetta di contro, sia pure in chiave problematica, l’opportunità di un radicale mutamento di approccio nel senso della configurabilità di ‘‘illeciti di organizzazione’’, riferibili come tali esclusivamente alla persona giuridica senza il tramite dela persona fisica, DE FRANCESCO G., Variazioni penalistiche alla luce dell’esperienza comparata, in questa Rivista, 1997, p. 241; ID., Profili di una « codificazione europea » dei principi generali della responsabilità penale, in Politica dir., 1999, p. 329. (65) Quest’ordine di idee si inscrive — come è chiaro a chi abbia confidenza con le
— 1160 — Lo stesso non può dirsi a proposito del reato commesso dal sottoposto in difetto di adeguata vigilanza da parte del ‘‘vertice’’. Qui, dalla compenetrazione tra l’illecito penale della persona fisica ed il canale d’imputazione ‘‘agevolativo’’, risulta in capo all’ente collettivo un illecito (questa volta davvero ‘‘complesso’’) che non trova rispondenza in una preesistente fattispecie tipica: non si riscontra infatti nel catalogo dei reati, per continuare nell’esempio ritagliato sull’attuale limitata ‘‘parte speciale’’ degli illeciti della societas, un delitto di agevolazione colposa della corruzione commessa da altri. Diversamente starebbero le cose se — come più volte sopra auspicato — nel costruire la parte speciale della responsabilità punitiva delle persone giuridiche per i reati commessi dai sottoposti, il legislatore si preoccupasse di introdurre contestualmente una corrispondente fattispecie di agevolazione colposa in capo innanzitutto al ‘‘vertice’’ (66). In tal caso si riprodurrebbe la medesima situazione appena analizzata in rapporto alla prima sottospecie di responsabilità: la fattispecie di reato rilevante per l’ente sarebbe (non più il reato del sottoposto, ma) quella posta in essere pur sempre dal soggetto in posizione apicale, e la colpa agevolatrice di quest’ultimo sarebbe allo stesso modo pienamente trasferibile — in base al permanente canale dell’(agire nell’) interesse — alla societas (67). 9.2.2. Da un punto di vista strutturale non vi sarebbero dunque difficoltà, una volta incentrata la responsabilità dell’ente non più sul reato commesso dal sottoposto ma sul (nuovo) delitto di agevolazione colposa commesso dall’ ‘‘apice’’, a radicare in ogni caso la responsabilità diretta della societas su di un autentico illecito penale, alla stregua di un processo principali costruzioni teoriche messe a punto, specie nell’esperienza giuridica anglosassone, per spiegare sul piano tecnico-giuridico la responsabilità penale delle persone giuridiche — nella identification doctrine, secondo cui i soggetti collocati ai vertici dell’organizzazione societaria rappresentano un autentico alter ego dell’ente: v., per tutti, TIEDEMANN, La responsabilità penale, cit., p. 623 ss. (66) A ben guardare, un esempio di nuova incriminazione della persona fisica, corredata di una corrispondente responsabilità ‘‘cumulativa’’ della persona giuridica, è già prefigurato nel punto p) dell’art. 11 della legge delega, laddove si prevede, per un verso, l’incriminazione del soggetto individuale responsabile della violazione degli obblighi e divieti relativi a sanzioni interdittive già applicate e, per altro verso, la responsabilità ‘‘amministrativa’’ — con soggezione alla sanzione pecuniaria, alla confisca e, nei casi più gravi, di nuovo a sanzioni interdittive — dell’ente nell’interesse o a vantaggio del quale è stata commessa la violazione dei suddetti obblighi e divieti. (67) La sostanziale riunificazione in capo ai soggetti in posizione apicale di ogni forma di responsabilità penale individuale che fa da presupposto a quella dell’ente collettivo — da me proposta — recherebbe il vantaggio di promuovere un’applicazione della identification doctrine coestensiva ad ogni manifestazione della criminalità d’impresa e di superare quindi le secche della vicarious liability (pericolosamente tendente verso la responsabilità oggettiva) in cui incorre la dottrina che ritiene invece di dotare la responsabilità dell’ente per i reati commessi dai ‘‘subordinati’’ di un distinto e meno ‘‘personale’’ statuto in rapporto ai criteri di imputazione: cfr. ancora TIEDEMANN, op. lc. cit.
— 1161 — di qualificazione giuridica distinto, seppure parallelo, di quello stesso sostrato di fatto che già integra l’illecito commesso dalla persona fisica. Occorre ora procedere oltre nella verifica intrapresa. È necessario appurare se anche le conseguenze di tale illecito si lascino assimilare agli strumenti sanzionatori tipicamente utilizzati nel nostro ordinamento per contrastare i reati; e ciò non tanto dal punto di vista ‘‘morfologico’’, quanto e soprattutto in rapporto alla funzione ad essi attribuibile, che ha una precisa e vincolante fisionomia giuridico-costituzionale, quanto meno con riferimento alla pena (criminale). Ora, non è dubitabile che l’insieme delle sanzioni pecuniarie ed interdittive predisposte per gli enti collettivi dal decreto legislativo (68) rientrino nel genus delle sanzioni punitive: esse richiamano da vicino non soltanto le sanzioni punitive amministrative, ma, come è stato tempestivamente sottolineato, sembrano accostarsi alle nuove tipologie di pene di cui si discute in prospettiva di riforma sullo stesso terreno del diritto penale criminale (69). Risulta allora decisivo stabilire se queste specie non inedite (neanche sul piano strettamente penale, oltreché su quello della responsabilità amministrativa) di sanzioni punitive siano assimilabili alla pena criminale anche sotto il profilo funzionale. Partendo dall’ineludibile presupposto che la pena criminale deve caratterizzarsi per il tramite dell’orientamento rieducativo nei confronti del reo, la risposta alla questione in ultimo posta non può che essere negativa; e ciò, si badi bene, per ragioni che non attengono — come di solito accade quando analoga domanda viene posta in rapporto a pene che debbano colpire persone fisiche — alla natura intrinseca del pregiudizio che si intende infliggere all’autore della violazione, ma che riguardano invece la natura intrinseca del soggetto attivo di essa. Beninteso, nell’affermare l’incompatibilità tra funzione rieducativa della pena e natura dell’ente collettivo, mi guardo bene dal revocare in dubbio gli indiscutibili connotati di soggettività che contraddistinguono la societas e che ne fanno un ben individuabile centro di interessi, di attività coordinate in vista di programmi e finalità precisi e addirittura un polo irradiatore di politiche d’impresa. Ed arrivo anche ad asseverare senza difficoltà che tale nucleo di soggettività sia di per sé — indipendentemente cioè dal riferimento alle persone fisiche coinvolte — sensibile almeno ad alcune componenti delle funzioni di prevenzione generale e speciale (70). (68) Si vedano le disposizioni contenute nella Sezione II del Capo I (artt. da 9 a 22). (69) MUSCO, Le imprese, cit., p. 82. (70) Per il riconoscimento che la capacità degli enti collettivi di essere soggetti passivi di sanzioni penali comporta minori problemi se si fa riferimento alle finalità preventive della pena, v., per tutti, TIEDEMANN, La responsabilità penale, cit., p. 629 s. Non escludeva la compatibilità della responsabilità della persona giuridica con il finalismo rieducativo della pena, accennando alla possibilità di individuare sanzioni ‘‘atte a favorire il ‘recupero nell’or-
— 1162 — Il punto è che il finalismo rieducativo della pena — l’espressione più elevata delle componenti positive della prevenzione speciale, in quanto mira a promuovere a posteriori quella propensione al rispetto e direi quasi confidenza con i valori tutelati dal diritto penale, che l’orientamento culturale già presente nella funzione di prevenzione generale non è riuscito a conseguire in rapporto al singolo — presuppone necessariamente come interlocutore la complessa ed articolata unità di esperienza esistenziale della persona fisica. Le norme che prevedono pene criminali, già nel momento della comminatoria, si rivolgono certo ad una generalità di soggetti, ma non in via anonima ed indifferenziata; esse investono tutti e ciascuno dei componenti di una comunità statuale, al fine di sollecitare l’acquisizione della personale consapevolezza di quanto sia necessario, ai fini della stessa permanenza del consorzio civile, che tutti e ciascuno si astengano da determinati comportamenti pregiudizievoli di rilevanti interessi individuali e collettivi. Quando poi un reato viene tuttavia commesso, l’applicazione ed esecuzione della pena (criminale) nei confronti del singolo intende semplicemente riallacciare questo rapporto di stretta interlocuzione già avviato dalla comunità statuale con i suoi componenti e traumaticamente interrotto dal crimine: la funzione rieducativa della pena non è insomma una sorta di imbarazzante incomodo, che si profili più o meno inopinatamente solo ad un certo livello della fenomenologia della pena; essa è piuttosto la naturale prosecuzione di un processo di orientamento culturale ai valori intrinsecamente unitario, diretto a dislocare su tutti e su ciascuno dei consociati la responsabilità e la garanzia primarie del mantenimento delle condizioni irrinunciabili della convivenza civile (71). E se anche questo processo di orientamento culturale e sociale è per sua natura dine economico’ della società’’, BRICOLA, Il costo del principio, cit., p. 2987. Di recente, propende ad ammettere la compatibilità della responsabilità degli enti collettivi con il fine rieducativo, DOLCINI, Principi costituzionali, cit., p. 21 s.: l’A. sembra peraltro valorizzare in tale contesto essenzialmente la componente (negativa) della rieducazione espressa dall’intimidazione-ammonimento. (71) È riconoscimento abbastanza diffuso che il finalismo rieducativo, riferito dall’art. 27, comma 3, Cost. al ‘‘condannato’’, pervade in realtà tutte le fasi del ciclo della pena: v., per tutti, ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, 2a ed., Milano, 1995, Pre-Art. 1, nn. 41-42. Per un’approfondita rassegna dei vari significati attribuibili e/o attribuiti da dottrina penale e giurisprudenza costituzionale al termine ‘‘rieducazione’’, è fondamentale il riferimento a FIANDACA, Commento dell’art. 27, comma 3, in Commentario della Costituzione, cit., p. 222 ss., laddove in particolare si ripropone il contrappunto tra una prospettiva di socializzazione secondaria o sostitutiva dei carenti risultati conseguiti in rapporto al singolo dalle agenzie primarie del controllo sociale ed un’accezione più generale, incentrata sulla (ri)acquisita consapevolezza dei valori disattesi col comportamento trasgressivo. La prima opzione mi sembra tuttora gravata da un vago sentore classista risalente al positivismo criminologico e con ogni probabilità è la vera responsabile delle ricorrenti ed accorate denunce del ‘‘mito’’ nel quale la rieducazione sarebbe pressoché irrimediabilmente confinata. La seconda accezione della rieducazione corrisponde invece ad una più matura consapevolezza delle reali dimensioni del fenomeno criminale, certamente monopolio non esclu-
— 1163 — frammentario, in quanto limitato alla prevenzione di ben definite modalità di offesa di determinati e rilevanti interessi, frammentata non può invece essere la dimensione soggettiva dei destinatari delle norme incriminatrici e della pena (criminale), i quali solo nel compiuto orizzonte etico-sociale della persona (fisica) possono rinvenire i presupposti contestuali di effettivo e non fittizio insediamento di esperienze, sia pure circoscritte, di (educazione-)rieducazione. La coessenziale settorialità della dimensione soggettiva degli enti collettivi, peraltro a vocazione prevalentemente ‘‘economico-mercantile’’, è di contro incompatibile con tale prospettiva, mentre resta coniugabile con più superficiali influenze di prevenzione negativa, generale ed anche speciale: da questo punto di vista nulla osta a che l’ente collettivo sia destinatario di sanzioni pur sempre punitive, ma di carattere sostanzialmente amministrativo (72). 9.3. Facciamo il punto dello svolgimento del discorso. La verifica dei margini di insediamento nel nostro ordinamento giuridico di quello che il decreto legislativo definisce ‘‘illecito amministrativo dell’ente collettivo dipendente da reato’’ sembra aver imboccato una strada senza uscite. Tale illecito, che dovrebbe distinguersi dal previo e indefettibile illecito penale della persona fisica se non sul piano fattuale almeno a livello di qualificazione giuridica, non adempie in pieno i crismi né dell’illecito amministrativo né dell’illecito penale: osta alla configurazione in termini di illecito amministrativo il fatto che il cuore (se non l’insieme) della relativa fattispecie è costituito da un reato; sembra peraltro opporsi ad una definisivo degli strati disagiati di appartenenza sociale evocati dall’idea del recupero sociale tout court; essa peraltro, lungi dal deresponsabilizzare il legislatore ordinario e gli operatori delle istituzioni penali, rende anzi più severo e vincolante l’impegno di assicurare nella fase di esecuzione della pena (in particolare, carceraria) condizioni di vita rispettose della dignità dell’uomo, non desocializzanti e, ove necessario e per quanto possibile, anche orientate ad un positivo reinserimento sociale. In questa prospettiva la rieducazione non rappresenta la promessa sostanzialmente velleitaria di un’improbabile reintegrazione piena nella vita associata, ma piuttosto una concreta chance offerta al reo di ripresa e continuazione di quel rapporto di interlocuzione sui valori, già avviato in via generale e su basi paritetiche tra l’istituzione penale ed i consociati al momento della comminatoria legale, che si è purtroppo rivelato insufficiente a vincolare il singolo al rispetto di quel determinato bene offeso dal reato. Per taluni significativi accenni alla continuità tra la funzione motivazionale svolta erga omnes dalla norma incriminatrice e l’appello, certo più incisivo, rivolto al trasgressore nelle fasi di applicazione della pena, v. EUSEBI, La pena ‘‘in crisi’’. Il recente dibattito sulla funzione della pena, Brescia, 1990, pp. 89 e 100; per un’esplicita valorizzazione unitaria delle componenti positive della prevenzione generale e speciale, all’interno di una concezione della pena come integrazione sociale, cfr. MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 1992, p. 109 ss. (72) Un analogo ordine di idee è sinteticamente espresso da PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, 7a ed., Milano, 2000, p. 168 s. (ma v. già ID., Il fatto di reato, cit., p. 365 ss.), con cui concordo a proposito dell’assenza nelle sanzioni punitive a carico della persona giuridica della ‘‘finalità di emenda’’, ma non della ‘‘finalità di afflizione’’.
— 1164 — tiva ‘‘consacrazione’’ come illecito penale la peculiare natura dell’ente collettivo, tale da escludere in partenza che la sanzione (sia pure punitiva) che viene in evidenza possa qualificarsi come pena rieducativa e quindi autenticamente criminale. A questo punto risulta del tutto comprensibile la soluzione prospettata tanto dalla relazione al decreto legislativo in esame (73), quanto dalla relazione al progetto preliminare di codice penale redatto dalla Commissione Grosso (74). Se l’illecito dell’ente collettivo non è propriamente né amministrativo né penale, occorre ipotizzare che esso dia ingresso nel nostro ordinamento ad un tertium genus di (illecito e di) sistema punitivo, che in varia misura miscela elementi del sistema punitivo criminale (il fatto di reato e le garanzie del processo penale) e del sistema punitivo amministrativo (la natura sostanzialmente amministrativa delle sanzioni). Senonché le soluzioni ‘‘centauresche’’, come quella così ipotizzata, vanno sempre riguardate con molta cautela, se non diffidenza, poiché, mentre sembrano sul momento appaganti, rischiano di apportare elementi di ulteriore complicazione difficilmente controllabili. Si pensi all’eventualità tutt’altro che peregrina, anzi assolutamente plausibile sul piano politico-legislativo, dell’introduzione di una responsabilità punitiva diretta dell’ente collettivo non più soltanto ‘‘in relazione al reato’’, ma altresì ‘‘in relazione all’illecito amministrativo’’ commesso nel suo interesse da persona fisica (75). Dovremo in tal caso attrezzarci a costruire un quartum genus di sistema punitivo? E per segnalarne la differenza rispetto al terzo appena introdotto, finirà il (futuro) legislatore per proporre la denominazione di ‘‘illecito doppiamente amministrativo’’ (in quanto dipendente appunto da illecito già di per sé amministrativo) della persona giuridica? La verità è che le soluzioni ‘‘centauresche’’ vanno adottate solo come extrema ratio, quando non residua altra possibilità di soddisfacente qualificazione ed inquadramento sistematico delle novità legislative. Ma non è questo il caso, almeno se ci si ingegna a superare il pregiudizio — che (73) Cit., p. 12. (74) Cit., p. 71. (75) Alludo chiaramente ad un decisivo passo in avanti rispetto alla semplice responsabilità solidale in atto prevista dall’art. 6, comma 3, l. 24 novembre 1981, n. 689, in capo all’ente collettivo (ed all’imprenditore in genere) in rapporto all’illecito amministrativo commesso dal rappresentante o dipendente nell’esercizio delle rispettive funzioni o incombenze. Questa forma di responsabilità, a parte il fatto che prescinde da qualsiasi addebito di colpa, non pare allo stato sufficiente a promuovere un’autentica corresponsabilizzazione dell’ente collettivo rispetto agli illeciti amministrativi delle persone fisiche, sia per la mancanza di una doppia commisurazione della sanzione pecuniaria in rapporto all’ente, sia perché il diritto di regresso nei confronti dell’autore della violazione è previsto per l’intera somma dovuta.: cfr. PALIERO, Problemi e prospettive, cit., p. 1187 ss.; ROMANO, in ROMANO-GRASSO-PADOVANI, Commentario sistematico del codice penale, III, Milano, 1994, Art. 197, n. 12 ss. Una disciplina analoga, ma più complessa, è prevista dall’art. 11 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie.
— 1165 — pure ho implicitamente sin qui osservato — che per concepire una responsabilità autenticamente penale in capo ai soggetti che commettono un illecito integrante i crismi di una fattispecie di reato sia assolutamente imprescindibile ipotizzare la loro assoggettabilità, almeno in via di principio, alla pena criminale. 10. Siamo così arrivati finalmente al cuore del problema. A ben guardare, si tratta di riproporre una questione centrale della teoria generale del reato e dell’intero diritto penale, che, lungi dall’apparire superata o obsoleta, torna ad imporsi con urgenza sempre nuova proprio quando ci si trova di fronte a svolte che non è azzardato definire epocali nella configurazione del sistema sanzionatorio: può costituire reato il fatto nei confronti del cui autore non possa trovare applicazione la pena criminale, ma altro tipo di sanzione da questa più o meno divergente dal punto di vista della natura e della funzione? Non è un caso che la questione abbia a lungo travagliato la dottrina in seguito all’introduzione nel sistema penale del secondo binario sanzionatorio, quelle misure di sicurezza anch’esse pudicamente e tuttora definite nel codice penale come amministrative, allo stesso modo delle sanzioni ora introdotte a carico degli enti collettivi in rapporto alla commissione di determinati reati. Allora ci si interrogava sulla possibilità di qualificare come reato il fatto del soggetto non imputabile, al quale, in quanto pericoloso, dovesse applicarsi una misura di sicurezza senza che gli si potesse irrogare la pena (76). Oggi si pone una questione analoga. Siamo di fronte ad un soggetto (l’ente collettivo) da parte del quale lo stesso linguaggio legislativo predica ormai la possibilità che possa essere ‘‘commesso’’ un illecito (77), cui segue addirittura una sanzione in senso lato punitiva e quindi molto più vicina alla pena criminale di quanto non lo sia la misura di sicurezza. Eppure si tarda a compiere l’ultimo decisivo e necessario passo, nel senso di affermare che questo illecito, ‘‘commesso’’ dalla persona giuridica, costituisce reato almeno nella misura in cui si sia già disposti a riconoscere che costituisce reato il fatto della persona fisica non imputabile e pericolosa. Ma oso sperare che proprio le aporie sopra denunciate in rapporto all’inquadramento dogmatico e sistematico dell’at(76) Gli echi dell’intenso dibattito — che nel dopoguerra ha trovato la concentrazione tematica probabilmente più densa nella monografia di BRICOLA, Fatto del non imputabile e pericolosità, (1961), ora in Scritti di diritto penale, Opere monografiche, Milano, 2000, p. 199 ss. — sono ancora percepibili di recente, tra gli altri, in BERTOLINO, L’imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Milano, 1990, p. 505 ss.; CONTENTO, Corso di diritto penale, II, Roma-Bari, 1996, p. 241 ss.; MANNA, L’imputabilità e i nuovi modelli di sanzione. Dalle ‘‘finzioni giuridiche’’ alla ‘‘terapia sociale’’, Torino, 1997, p. 29 ss.; MARINI, Imputabilità, in Dig. disc. pen., VI, Torino, 1992, p. 249 ss.; ROMANO, in ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, II, 2a ed., Milano, 1996, Pre-Art. 85, n. 1 ss. (77) Così recita, in particolare, l’art. 55 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
— 1166 — tuale vicenda legislativa possano costituire, anche per quella notevole parte della dottrina italiana legata al dogma che non si dia reato senza imputabilità e dunque senza assoggettabilità a pena (criminale) da parte del soggetto attivo, un forte impulso al superamento di tale posizione, in favore di una più moderna e soddisfacente costruzione complessiva della fattispecie penale nei suoi poliedrici rapporti con la pluralità di sanzioni criminali che ne conseguono. La fattispecie penale (criminale), come insieme degli elementi di tipicità che condizionano l’insorgere delle conseguenze sanzionatorie (criminali), è costituita innanzitutto da un fondamentale nucleo sempre identico a se stesso, cioè il fatto di reato (il ‘‘crimine’’) al completo dei suoi elementi costitutivi di natura oggettiva e soggettiva. Da questa base comune si dipartono quindi ulteriori distinti elementi, attinenti alle condizioni personali del reo, deputati ad orientare la fattispecie verso una pluralità di sbocchi sanzionatori corrispondenti alle fondamentali opzioni politico-criminali circa gli strumenti (legittimi e) più adatti di lotta contro il crimine (78). Ne deriva dunque che il fatto di reato: a) se commesso da persona fisica imputabile è sanzionato con pena criminale, vale a dire quella specie di sanzione punitiva destinata a realizzare la prevenzione dei reati per il tramite delle più elevate componenti (positive) della prevenzione generale e speciale, delle quali può risultare valida destinataria ed interlocutrice solo la ricchezza di articolazione esistenziale dell’individuo; b) se commesso da persona fisica pericolosa è sanzionato con misura di sicurezza, destinata a realizzare la prevenzione dei reati per il tramite di componenti di prevenzione speciale distinte dal percorso rieducativo specificamente inerente all’esperienza afflittiva della pena; c) se commesso da persona giuridica o ente collettivo con l’indefettibile concorso dei criteri di imputazione personale sopra indagati, dà luogo ad una sanzione punitiva intesa a realizzare la prevenzione dei reati per il tramite delle componenti più superficiali (negative) della prevenzione generale e speciale, le sole (78) Come è ben noto, un ordine di idee analogo — con esclusione naturalmente del riferimento, solo ora attuale, alla responsabilità degli enti collettivi — ha trovato nella dottrina italiana espressione compiuta, e fondata su di un raffinato impianto di teoria generale del diritto, nella monografia di PAGLIARO, Il fatto di reato, cit., specie pp. 332 ss. e 363 ss., i cui contenuti essenziali sono altresì rinvenibili in forma sintetica nella voce Fatto (dir. pen.), in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, specie p. 957, e nel manuale Principi di diritto penale, cit., pp. 175 ss, 253 s. e 625 s. L’analogia risiede nella accentuata autonomia di imputabilità e pericolosità rispetto alla nozione di fatto di reato; la differenza consiste nell’idea che tali categorie, piuttosto che concorrere ad integrare la nozione di capacità penale ovvero la teoria dell’imputazione dell’illecito (come appunto argomenta PAGLIARO, Il fatto di reato, cit., pp. 345 ss. e 369 ss.), sembrano costituire più semplicemente, in quanto condizioni personali del reo, quel necessario completamento della fattispecie penale, senza il quale nessun fatto di reato potrebbe di per sé promuovere alcuna conseguenza penale.
— 1167 — compatibili con la depotenziata e settoriale dimensione soggettiva dell’ente collettivo (79). In breve. Le sanzioni punitive a carico dell’ente collettivo, per i reati da esso commessi per il tramite delle (ma forse sarebbe meglio dire insieme alle) persone fisiche in rapporto di immedesimazione organica, rappresenta, piuttosto che lo scarsamente plausibile tertium genus di un più ampio diritto punitivo (80), il terzo binario del diritto penale criminale, accanto alla pena ed alla misura di sicurezza. Nata come indilazionabile risposta politico-criminale alla spesso devastante criminalità d’impresa, disciplinata in modo da essere perseguita e accertata con le garanzie proprie del processo penale, questa responsabilità (e l’illecito che ne è il presupposto) proprio non tollera la riduttiva, se non grottesca qualificazione in termini di responsabilità e di illecito amministrativi. Già ha rappresentato miglior partito quello saggiamente seguito dalla Commissione Grosso, la quale ha evitato almeno di qualificare in alcun modo la responsabilità diretta istituita in capo alla persona giuridica per i reati commessi al suo interno. E se neanche a questo si è disponibili, ritenendosi irrinunciabile una qualche aggettivazione, resta solo un’estrema alternativa di qualificazione, che proposta all’inizio di queste riflessioni avrebbe potuto assumere un significato quasi provocatorio, mentre confido che in chiusura riveli la sua reale e pressoché lapalissiana consistenza: la responsabilità degli enti collettivi, in dipendenza dei reati commessi dalle persone fisiche di appartenenza, altro non può essere che una responsabilità criminale. GIANCARLO DE VERO Ordinario di Diritto penale nell’Università di Messina
(79) È appena il caso di avvertire che questa classificazione intende solo riflettere la condizione attuale del sistema sanzionatorio, senza sottintendere alcuna adesione piena ai complessivi contenuti di esso, specie in relazione al punctum dolens delle misure di sicurezza (sulle prospettive di riforma di quest’ultimo istituto, si veda il chiaro ed esauriente quadro tracciato da GRASSO, in ROMANO-GRASSO-PADOVANI, Commentario, cit., Pre-Art. 199, n. 55 ss.). (80) Cfr. supra, n. 9.
DOTTRINA
IDONEITÀ ED UNIVOCITÀ DEGLI ATTI. OFFESA DI PERICOLO
SOMMARIO: 1. Offesa di pericolo nella previsione dell’art. 56 c.p. e della singola norma incriminatrice. — 2. Idoneità dell’atto, pericolo e possibilità o probabilità del danno. — 3. Giudizio di causalità e giudizio di pericolo. — 4. Idoneità potenziale dell’atto e potenziale verificazione del danno. — 5. Causalità potenziale e causalità reale. — 6. Pericolo quale possibilità del danno. Giudizio ex ante e giudizio ex post. — 7. Pericolo da accertarsi in concreto e pericolo presunto. — 8. Limiti della presunzione. — 9. Idoneità dell’azione ed idoneità dell’atto. — 10. Tentativo incompiuto e reato consumato. — 11. Atti preparatori ed atti esecutivi. — 12. Limiti del giudizio di idoneità. — 13. Idoneità dell’atto, giudizio di colpevolezza e presunzione. — 14. Giudizio di colpevolezza, tentativo ed univocità dell’atto. — 15. Idoneità ed univocità dell’atto. — 16. Univocità dell’atto e dolo eventuale. — 17. Univocità dell’atto, dolo diretto e dolo indiretto. — 18. Univocità dell’atto e dolo specifico. — 19. Dolo generico e dolo specifico. — 20. Offesa di pericolo, norma generale e norma speciale.
1. Il diritto penale italiano, come ogni moderno diritto penale, contempla l’offesa, con la cui verificazione si consuma il reato, quale danno ovvero quale messa in pericolo dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice (1). I commi primi degli artt. 40 e 43 c.p., compresi nel titolo dedicato al reato in generale, hanno per l’appunto riguardo all’evento ‘‘da cui dipende la esistenza del reato’’, o ‘‘da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto’’, quale ‘‘dannoso o pericoloso’’. In sintesi, la fattispecie criminosa è fattispecie di danno, ovvero fattispecie di pericolo. In linea generale, a fronte della fattispecie delittuosa di danno, il comma 1 dell’art. 56 c.p. prevede l’alterna fattispecie di pericolo: ‘‘Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica’’. (1) Sul concetto di reato come offesa e sulla distinzione di tale ultima nelle forme della lesione e della messa in pericolo del bene protetto dalla norma incriminatrice, anche per i riferimenti bibliografici, MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 2001, p. 434 ss.
— 1169 — La parte speciale del diritto penale nondimeno presenta una nutrita gamma di norme incriminatrici che contemplano l’offesa con la cui verificazione si consuma il reato, prima ancora che nello stadio del danno, in quello della messa in pericolo dell’interesse protetto. Il sopravvento del danno al pericolo rimane in alcune ipotesi penalisticamente indifferente, se non a norma dell’art. 133 c.p., mentre in altre funge da circostanza (od evento) aggravante. La multiforme categoria dei reati che si denominano di attentato offre esempi sia del primo che del secondo tipo. Si possono vedere, rispettivamente, gli artt. 242, 276, 277, 289 e 296 c.p. e gli artt. 280, 295, 420, 432 e 433 c.p. (2). Sotto l’epigrafe attentato figurano, tuttavia, sia un’ipotesi, quella dell’art. 294 c.p., nella quale l’offesa è concepita secondo gli estremi del danno; sia un’ipotesi, quella dell’art. 565 c.p., nella quale si pone il più generale problema di cogliere l’offesa, soprattutto se genericamente contemplata, nei termini del danno, ovvero già in quelli del pericolo allorquando ne formi oggetto un interesse, o bene immateriale. Se poi si ritenesse che la disciplina del comma 1 dell’art. 56 c.p. si estenda con riguardo anche alle singole fattispecie delittuose di pericolo, od almeno ad una determinata loro categoria, l’ipotesi del tentativo si raffigurerebbe, nel corrispondente caso, come anticipazione della tutela penale, anziché dallo stadio del danno a quello del pericolo, da un grado di pericolo più prossimo ad un grado più remoto, cui i riferimenti strutturali dell’istituto sarebbero da adattarsi. 2. La prospettiva del tentativo incompiuto postula la sincope in atti, nel testo del comma 1 dell’art. 56 c.p., dell’azione preveduta dalla legge come reato nella dizione dell’art. 42 c.p., ovvero cui consegue l’evento dannoso o pericoloso in quella dei commi primi degli artt. 40 e 43 c.p.. Il pericolo che si verifichi il danno, rappresentato dalla commissione del delitto cui gli atti sono diretti, sta comunque nella loro idoneità a commetterlo, così come, nella prospettiva del tentativo compiuto, sta nell’idoneità, a tale medesimo riguardo, dell’azione (compiutamente) eseguita, cui l’evento dannoso tuttavia non consegue (3). Idoneità degli atti, o dell’azione rispetto alla produzione del danno e pericolo dagli stessi rappresentato rispetto alla verificazione del danno esprimono dunque uno stesso rapporto, visto rispettivamente dal lato del (2) In tema di offesa di pericolo quale nota comune del reato di attentato e del delitto tentato, E. GALLO, Il delitto di attentato nella teoria generale del reato, Milano, 1966, p. 252 ss. Per un quadro critico, ZUCCALÀ, Profili del delitto di attentato, in questa Rivista, 1977, p. 1234 ss. (3) Per un ampio quadro anche di carattere storico in merito al requisito di idoneità dell’atto penalmente rilevante, con una folta bibliografia, si veda GIACONA, Il concetto d’idoneità nella struttura del delitto tentato, Torino, 2000.
— 1170 — momento esecutivo e dal lato del momento consumativo del delitto tentato. L’equivalente di sintesi sta nella formula atti pericolosi, od azione pericolosa rispetto all’evento di danno. Le osservazioni che precedono, tratte dall’ipotesi del comma 1 dell’art. 56 c.p., evidentemente si ripropongono ideologicamente immutate con riguardo ad ogni altra ipotesi di reato di pericolo prevista nella parte speciale del diritto penale. Il quesito in merito all’essenza, nel suo contenuto di genus, della fattispecie di pericolo, si pone dunque come quello che, indifferenziatamente, investe il concetto di idoneità dell’atto, od azione a produrre il danno, ovvero il concetto stesso di pericolo che, in conseguenza dell’atto, od azione, il danno si verifichi. Sinonimo di idoneità non infrequentemente usato dalla legge penale è attitudine. Sotto il corrispondente aspetto, l’ipotesi, ad esempio, del comma 1 dell’art. 501 c.p., dove si esige che l’artificio costitutivo della modalità esecutiva del reato sia atto a consumare la frode, non differisce da quella del comma 1 dell’art. 56 c.p. A sua volta, il contenuto del rapporto tra idoneità, od attitudine dell’atto, od azione e pericolo di verificazione del danno si esprime comunemente anche secondo il criterio di possibilità, o probabilità che, dato l’atto, od azione, il danno si verifichi. Si verte, dunque, in presenza di denominazioni formalmente diverse, ma sostanzialmente unitarie. Nella loro accezione sia comune che specialistica, esse rimandano sempre, come anche nelle osservazioni che precedono non poteva non avvenire, ad un giudizio causale, nel quale atti od azione, da un lato, danno cui riferisce il pericolo che essi rappresentano, dall’altro lato, ricoprono rispettivamente i ruoli di potenziale causa e di potenziale effetto (4). In proposito, per toccare sin d’ora un punto di specie intorno al quale potrebbero sorgere talune perplessità distintive, non sembra che il concetto di probabilità abbia a mutare, se non nell’evoluzione di una matrice quantitativa, da quello di possibilità cui l’idea causale, come quella del fattibile od effettuabile, è connaturata. 3. Il giudizio causale è giudizio ontologico di certezza: un primo fenomeno è causa di un secondo fenomeno che, per ciò stesso, ne è l’effetto. Esso può anche muovere da una posizione di dubbio: è possibile, od anzi probabile che l’antecedente produca (giudizio ex ante), ovvero abbia prodotto (giudizio ex post) il susseguente. Il giudizio, fino a tale punto tratto da criteri sostanzialmente statistici, tuttavia diviene giudizio causale sol(4) Sul tema, nel senso che ‘‘con il riferimento all’idoneità, si rientra nella prospettiva della causalità’’, NUVOLONE, Il sistema del diritto penale, Padova, 1982, p. 415.
— 1171 — tanto se la valutazione critica consentita dagli strumenti conoscitivi cui si affida l’idea del rapporto eziologico sfocia nella convinzione della sua esistenza: ossia, soltanto se il dubbio si risolve in certezza sulle rispettive qualità dei due fenomeni, di causa e di effetto (5). Il diritto penale si uniforma a tale ordine di concetti. Gli artt. 40 e 41 c.p. contemplano il rapporto di causalità, o di concausalità tra gli elementi che compongono il fatto del reato e subordinano alla sua esistenza la dichiarazione di punibilità. In coincidenza, il rapporto forma oggetto di prova a norma del comma 1 dell’art. 187 c.p.p. e così, a norma del comma 2 dell’art. 530 c.p.p., l’incertezza sulla sua sussistenza comporta la pronuncia di sentenza di assoluzione, al pari di quando la prova manca o, giusta il comma 1 dell’articolo, ne esclude l’esistenza. In sintesi, il giudizio di causalità è giudizio di certezza, nella sua accezione comune come in quella penalistica, in ragione del suo stesso contenuto: il giudizio investe due fenomeni come tali appartenenti alla realtà, l’antecedente ed il susseguente, in funzione di coglierne il nesso eziologico. Giudizio di possibilità, o probabilità è, viceversa, giudizio di pericolo che l’esistenza di un primo fenomeno rappresenti rispetto alla verificazione di un secondo. Il mutamento concettuale rispecchia il differente dato ontologico sul quale il giudizio viene a cadere: solo il primo fenomeno appartiene alla realtà; all’opposto, il sopravvento come suo effetto del secondo è non più che possibile, o probabile, a fronte dell’idoneità del primo a produrlo (6). Si tratta, valga per inciso notare, della consueta proposizione ideologica afferente alla possibilità o probabilità, dato un certo antecedente, che ne segua un certo effetto: se tale ultimo è temuto, il giudizio è di pericolo; se desiderato, di auspicio. L’antitesi rispecchia, o può rispecchiare un differente metro di valutazione. Il giudizio di pericolo, secondo il quale si (5) Motivi fondamentalmente riconducibili alla ‘‘irreperibilità di un concetto ‘puro’ di causa’’ — si avverte — ‘‘inducono a raffigurare la spiegazione ‘mediante leggi’ dell’accadimento lesivo come spiegazione a struttura probabilistica’’ (STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1975, p. 315). Ma non sembra che si apra con ciò una contraddizione con il testo, se si considera l’avvertimento che segue: ‘‘Abbiamo visto, in effetti, che la parola ‘probabilità’, quando viene usata per designare una relazione (non fra classi di eventi ma) fra proposizioni, assume il significato di ‘credibilità razionale’, di ‘relazione di conferma’; dire che la spiegazione ha natura probabilistica significa quindi asserire che l’enunciato esplicativo deve apparire, sulla base delle ‘informazioni’ disponibili, razionalmente credibile’’ (ivi). Sul punto ci si permette di ricordare quanto già in precedenza si è avuto occasione di considerare in argomento (AZZALI, Scritti di teoria generale del reato, Milano, 1999, p. 17 ss.). Recentemente, sul problema della causalità in generale, AGAZZI, La spiegazione causale di eventi individuali (o singoli), in questa Rivista, 1999, p. 393 ss.; con riguardo alla tematica penalistica, MORSELLI, Il problema della causalità nel diritto penale, in Ind. pen., 1998, p. 879 ss. (6) Sul tema, ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, Milano, 1994, p. 22 ss.
— 1172 — configura la corrispondente fattispecie criminosa, ovviamente è quello proprio della norma incriminatrice. Ma non è se non questo il costante criterio che presiede alla scelta degli interessi penalmente protetti, nel quadro dei reati di pericolo come in quello dei reati di danno. 4. Il punto critico della riduzione dell’ipotesi di pericolo nell’ordine concettuale del rapporto di causalità è, peraltro, già venuto in risalto: il giudizio di idoneità della causa — nella prospettiva penalistica, l’atto, od azione — si riferisce ad un effetto — l’evento di danno — che in concreto non si verifica. Ipotesi cui equivale quella del sopravvento dell’effetto per una causa diversa da quella che forma oggetto del giudizio di idoneità. Il rapporto eziologico al quale si ha riguardo è, dunque, meramente potenziale. Il concetto di idoneità della causa, ovvero di pericolo rispetto ad un certo (suo proprio) effetto — nella prospettiva penalistica, temuto — che (in quanto tale) non si verifica non è, dunque, se non un’astrazione a confronto della realtà, o come si può anche dire, un concetto controfattuale (7). L’ipotesi di pericolo, d’altro canto, è propriamente tale in quanto l’effetto dannoso (come conseguenza della causa potenzialmente idonea) non si verifichi. In caso contrario, solo impropriamente può definirsi di pericolo il momento che precede la verificazione del danno. In realtà, esso rappresenta la fase finale del rapporto eziologico che da una causa come tale reale conduce ad un effetto altrettanto reale. A ben guardare, la fattispecie criminosa di pericolo, concepita in assenza della verificazione del danno e la corrispondente fattispecie più severamente punita essendosi il danno verificato, sono due fattispecie strutturalmente distinte. Eppure, la riduzione del giudizio di pericolo, ovvero di idoneità della causa cui non segue l’effetto di danno ai parametri logici del giudizio causale rispecchia una contrapposizione concettuale presente nel comune ordine logico, cui attinge lo stesso ordinamento penale. Il giudizio, nella previsione del comma 1 dell’art. 56 c.p., come in quella di ogni altra norma incriminatrice concernente un’offesa di pericolo, ossia una con(7) Il concetto di idoneità della causa, ovvero degli atti, quale astratto, ovvero quale concreto ha formato e forma materia di dibattito, con tendenza a considerare pertinente la seconda opzione (in argomento, MORSELLI, voce Tentativo, in Digesto disc. pen., vol. XIV, Torino, 1999, p. 194). S’impone, peraltro, la distinzione che si mira a tenere presente nel testo: sul piano dell’accertamento, il giudizio si presenta quale concreto allorquando abbia a fare conto di tutte le ‘‘circostanze concrete’’ secondo le quali l’atto si riveli idoneo; sul piano dell’essenza, l’idoneità di una causa meramente potenziale, ovvero di un atto che non produce l’effetto, è per ciò stesso un’astrazione. In argomento, con particolare riguardo critico al concetto di idoneità in astratto, avulso dalla considerazione delle particolari situazioni concrete, MARINI, Lineamenti del sistema penale, Torino, 1993, p. 706; PAGLIARO, Principi di diritto penale, Parte generale, Milano, 2000, p. 518; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte generale, Torino, 2000, p. 493 s.
— 1173 — dotta idonea a produrre un danno che non si verifica, è per ciò stesso un giudizio di carattere astratto. Il comma 2 dell’art. 49 c.p., tuttavia, contempla l’ipotesi del reato impossibile, nella quale l’idoneità dell’azione e con essa il pericolo manca anche in astratto. Non si intende dire che tale ultima norma si esaurisca in un’enunciazione negativa rispetto alla fattispecie del tentativo (8). Tuttavia, nel loro confronto, l’ipotesi del comma 1 dell’art. 56 c.p. segna la prospettiva di ciò che non è, ma può essere; l’ipotesi del comma 2 dell’art. 49 c.p., di ciò che non è e non può essere (9). E, quantomeno nell’ordine del confronto, in tale seconda ipotesi, intesa come quella di inidoneità anche in astratto (dell’atto o) dell’azione a cagionare l’evento dannoso con la cui verificazione il delitto si consuma, in ultima analisi si risolve pure l’alternativa, cui lo stesso comma 2 dell’art. 49 c.p. fa luogo, che (dell’atto o) dell’azione non esista l’oggetto. La ricerca causale, nella quale si traduce il tema dell’idoneità della condotta a cagionare il danno, ovvero del pericolo che ne derivi il danno, ritrae dunque dal carattere potenziale dei due termini del rapporto la propria nota peculiare. Carattere potenziale, si voglia notare, che in merito al primo termine del rapporto, la condotta idonea, attiene alla sua (potenziale) qualificazione di causa; in merito al secondo, il danno, attiene alla sua (potenziale) qualificazione di effetto qualora esso derivi da una causa diversa, mentre riguarda, altrimenti, la sua stessa (potenziale) consistenza ontologica. Obiettivo della ricerca in definitiva non è ciò che è, ma per l’appunto ciò che può essere. Si ripropone, pertanto, l’immagine possibilistica, o probabilistica del giudizio di pericolo, in contrapposto al canone di certezza cui si uniforma il giudizio (reale) di causalità. 5. Il giudizio di pericolo ripete il contenuto sperimentale proprio del giudizio causale, facendo tuttavia spazio, accanto alle regole certe, anche alle regole statistiche, secondo un’immagine eziologica potenziale che non collima con il contesto reale: con attinenza alle componenti strutturali della causa, ai fattori concorrenti, ovvero ai dati ambientali non sussistono una o più condizioni positive, necessarie affinchè la causa sia in (8) Sul punto, GALLO, Appunti di diritto penale, vol. II, Torino, 2000, p. 27. (9) Sul tema, NUVOLONE, Il sistema, cit., p. 420. La distinzione certamente presenta, o può presentare difficoltà sul piano dell’accertamento. In proposito, SINISCALCO, La struttura del delitto tentato, Milano, 1959, p. 172 ss. È il caso ricorrente, peraltro, dell’accertamento causale, tanto reale che potenziale. In tema di rapporti tra atto idoneo e tentativo inidoneo, o reato impossibile, anche per i riferimenti bibliografici, ANTOLISEI, Manuale, cit., p. 497 ss. In particolare, in tema di tentativo idoneo e tentativo inidoneo in materia di reati omissivi, RISICATO, Combinazione e interferenza di forme di manifestazione del reato, Milano, 2001, p. 167 ss.
— 1174 — realtà tale, ossia produca l’effetto; ovvero anche, sussistono una o più condizioni impeditive. Tuttavia, giusta una certa regola statistica, se non anche secondo un dato genericamente sperimentale, è possibile, o probabile che dette condizioni abbiano rispettivamente a sussistere o a non sussistere, trasformando una causa meramente potenziale in una causa reale. E, più o meno elevate appaiono le probabilità che ciò avvenga, più o meno intenso si rivela il pericolo che l’effetto (temuto) si verifichi. È manifesto, già pertanto, come il concetto di pericolo, al pari dell’idea di causa, sia legato alle nozioni di tempo e di spazio: la maggiore o minore intensità del pericolo in ultima analisi riflette la maggiore o minore prossimità o vicinanza dei fenomeni per effetto della cui (mancante od impedita) combinazione eziologica la causa del danno, anziché potenziale, potrebbe essere reale: direttamente, o tramite una concatenazione od una convergenza di cause (o concause). Il cosiddetto pericolo di un pericolo altro non è che un pericolo (più) remoto o lontano di verificazione del danno. Ovviamente, il progredire delle conoscenze e delle scoperte scientifiche amplia i confini cui si spingono l’idea di causa e, parimenti, l’idea di pericolo. Entrambe, per loro intrinseca essenza, sono idee relative legate al sapere, presso una certa società, in un determinato momento storico. Ma, proprio in quanto tali, entrambe rispecchiano un giudizio obiettivo, che nella teoria del reato cade sul fatto, ovvero su di una sua componente, dialetticamente in antitesi con le conoscenze, possedute od esigibili, dell’autore del fatto, cui corrisponde il giudizio di colpevolezza. Essendo pur tuttavia l’idea di pericolo un’astrazione, tale non può non essere anche l’idea di offesa di pericolo: se non muta il quadro eziologico nel quale si colloca la supposta causa, venendo a sussistere le condizioni positive ovvero a non sussistere quelle impeditive, per quanto abbia a ripetersi all’infinito l’esperimento, l’effetto (quale proprio della supposta causa) ossia il danno, non si verifica mai. In armonia con l’idea stessa di pericolo, ovverosia di offesa di pericolo, la corrispondente fattispecie criminosa trova la propria enunciazione — anche volendo al presente proposito prescindere da una sua paritetica qualificazione soggettiva — nella formula del reato a consumazione anticipata rispetto all’offesa di danno, alla cui prevenzione è pur sempre rivolta la norma incriminatrice (10). Si avverte, nel contempo, come la funzione di tutela propria di tale ultima risulti o possa risultare attuale già nei confronti dell’offesa di pericolo, data per l’appunto la possibilità, o probabilità del danno secondo la quale essa si raffigura. Il rilievo, se è calzante rispetto alla singola disposizione la cui fattispecie è concepita in termini di (10) In tema di rapporti tra delitto di attentato, reati a consumazione anticipata e tentativo, RAMACCI, Corso di diritto penale, vol. II, Torino, 1993, p. 182.
— 1175 — pericolo, egualmente lo è con riguardo all’ipotesi estensiva di anticipazione della tutela — oltretutto contrassegnata dal dolo di danno — cui fa luogo il comma 1 dell’art. 56 c.p. contemplando il delitto tentato (11). 6. Il quesito, a questo punto, è se il giudizio di pericolo si attesti già nello stadio della possibilità, ovvero esiga una progressione di intensità secondo i gradi di probabilità della verificazione del danno. E, si deve subito notare, la seconda opzione vorrebbe, a sua stessa determinazione, anche una scelta nel succedersi di tali stessi gradi, la cui difficoltà è manifesta. La soluzione del quesito, comunque, non può non seguire l’ordine cui si affida il giudizio causale, cui attinge il giudizio di pericolo, in particolare avendo riguardo al sistema normativo. Le note comuni all’uno ed all’altro sono già venute in risalto. In ambo i casi, il giudizio è di natura obiettiva, tratto dalle complessive conoscenze che in un determinato momento storico appartengono alla collettività. In sintesi, è giudizio del giudice, eventualmente assistito dagli esperti nella materia cui esso si riferisce. Il quesito se il giudizio di pericolo si attesti su una posizione di possibilità, ovvero di probabilità rispetto alla verificazione del danno va così di pari passo con il quesito se il giudizio causale segua la regola contenuta nella formula della conditio sine qua non, nelle linee di un accertamento a tutto campo necessariamente condotto (anche) ex post; ovvero se tale regola abbia a subire taluni temperamenti volti a discriminare la congiuntura causale allorquando non si uniformi, usando una consueta espres(11) Si ritiene che sarebbe ‘‘improprio ravvisare nel pericolo verso il bene giuridico il fondamento della punibilità dei reati di pericolo, così come sarebbe errato ravvisarlo nella lesione dello stesso per i reati di danno’’. In realtà, ‘‘la ratio della punibilità dei reati’’ (omissis) ‘‘non consiste nel cosiddetto danno criminale, bensì nell’allarme sociale, ossia in quell’impatto psicologico negativo della trasgressione nel tessuto sociale, da cui scaturisce la ‘reazione di rigetto’ espressa con la pena’’ (MORSELLI, voce Tentativo, cit., p. 186 s.). Sebbene l’opinione si riannodi ad una concezione del reato ‘‘non già come la produzione di un evento antigiuridico, bensì come la produzione antigiuridica di un evento’’, un punto non può non essere fermo: l’allarme sociale riflette il danno criminale. Si aggiunge, con particolare riguardo all’ipotesi del tentativo, che mancando in essa, ‘‘per definizione, l’evento naturalistico, viene meno il presupposto sine quo non sarebbe possibile parlare non solo di un danno, ma altresì di un pericolo per l’oggetto materiale’’. Ma, con ciò, non si viene a proporre se non il tema del carattere astratto dell’offesa di pericolo e, pertanto, il tema della scelta legislativa, peraltro scontata, di sussumere tale tipo di offesa ad oggetto giuridico del reato. Sul tema, con particolare chiarezza: ‘‘Dal punto di vista dell’incidenza sugli interessi penalmente tutelati, consumazione e tentativo riflettono dunque, rispettivamente, la lesione effettiva e la lesione potenziale del bene oggetto di protezione: ed è il minore grado di aggressione al bene che giustifica, nella logica di un diritto penale del fatto, la minore severità del trattamento penale del tentativo’’ (FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 1995, p. 409). Si veda anche, in ordine al fondamento della punibilità del tentativo ‘‘sulla manifestazione della volontà criminosa e sulla messa in pericolo dell’interesse tutelato’’, MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1992, p. 438.
— 1176 — sione tuttavia non scevra di significati oscillanti, all’id quod plerumque accidit, secondo la prospettiva del giudizio ex ante, ossia della cosiddetta prognosi postuma (12). Concezione, tale ultima, a suo tempo maturata nell’intento di porre argine ad una allora più variegata e diffusa forma di responsabilità oggettiva, tuttavia di fragile fondamento sia generalmente sul piano ideologico, che specificamente a confronto della disciplina penalistica del rapporto di causalità, dettata espressamente agli artt. 40 e 41 c.p. ed insita nella struttura di altri istituti di tipo estensivo, quali in particolare sono il concorso di persone nel reato e, per l’appunto, il tentativo in quanto concepito secondo un requisito di indifferenziata idoneità, o potenzialità della causa rispetto all’effetto di danno. E, come si può riassuntivamente dire, nell’identità dei criteri che stanno alla base del giudizio causale e del giudizio di pericolo, si rinviene, unitamente all’armonia concettuale, l’equilibrio normativo del sistema: se il giudizio causale è improntato alla formula condizionale, volta a ricomprendervi ogni rapporto logicamente riconducibile al nesso di causalità secondo un’oggettiva applicazione delle conoscenze storico-sociali, tale stessa formula, debitamente adattata al suo contenuto potenziale, presiede pure al giudizio di pericolo. Anch’esso — in linea di regola, fatte salve eventuali, specifiche disposizioni che regolino altrimenti l’accertamento od il grado dell’offesa — è giudizio condotto (anche) ex post, volto a ricomprendere ogni ipotesi logicamente riconducibile alla potenziale verificazione del danno secondo tale medesima fonte cognitiva e, pertanto, è giudizio improntato al criterio (quale requisito minimo) di possibilità. L’accertamento ex post indubbiamente si avvale di un osservatorio privilegiato, al fine di cogliere, unitamente agli altri dati reali di fattispecie, le condizioni positive (insussistenti) ed impeditive (sussistenti) la cui possibilità o probabilità di rispettiva sussistenza od insussistenza si traduce nella possibilità, o probabilità di verificazione dell’effetto. Si obietta tuttavia che ex post, non essendosi l’effetto verificato, l’accertamento approderebbe inevitabilmente alla negazione dell’idoneità della causa, ossia della stessa fattispecie del delitto tentato, ad essa improntata (13). Il giu(12) Cfr. VASSALLI, La disciplina del tentativo, in Atti del Convegno nazionale di studio su alcune fra le più urgenti riforme del diritto penale, Milano, 1961, p. 232 ss. (13) Si veda, in particolare, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 414; PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1998, p. 356; ANTOLISEI, Manuale, cit., p. 495. Sul tema si veda altresì PARODI GIUSINO, I reati di pericolo tra dogmatica e politica criminale, Milano, 1990, p. 318 ss.; ID., La condotta nei reati a tutela anticipata, in Ind. pen., 1999, p. 690 ss. Per una soluzione ‘‘offerta forse da quello che si potrebbe chiamare un giudizio ‘ex post attenuato’ ’’, GRASSO, L’anticipazione della tutela penale: i reati di pericolo e i reati di attentato, in questa Rivista, 1986, p. 701. In ordine poi alla ‘‘misura di idoneità richiesta’’, diverse sono le graduazioni proposte in dottrina: possibilità, ragionevole possibilità, adeguatezza, verosimiglianza, probabilità. Nondimeno, si osserva: ‘‘si tace però sui criteri che dovrebbero presiedere alla graduazione del giudizio’’, e pertanto si da ‘‘il rischio che le diversità riscontrabili
— 1177 — dizio, peraltro, concerne un’ipotesi controfattuale: ha per tema un effetto potenziale (possibile o probabile) che tuttavia in realtà non è, ovverosia una causa in astratto idonea a produrlo, ma non in concreto. Il contenuto del giudizio ed il dato reale, dunque, muovono su piani diversi, senza rischi di collisione. In breve, ex ante il giudizio si esprime nel senso che l’effetto, seppure non si verifica, è possibile o probabile, ossia potrebbe verificarsi; ex post, nel senso che l’effetto, pur non essendosi verificato, era possibile o probabile, ossia avrebbe potuto verificarsi. Giudizio nel quale propriamente si rispecchia la fattispecie del delitto tentato e, in genere, del reato di pericolo. 7. Il requisito dell’idoneità della condotta a produrre l’evento di danno, ossia la stessa configurazione del reato come fattispecie di pericolo, è o dovrebbe essere, di regola, espressamente enunciato nella descrizione del fatto cui essa partecipa, alla quale fa luogo la norma incriminatrice. È precisamente quanto avviene nella previsione del comma 1 dell’art. 56 c.p. e di svariate disposizioni di parte speciale. La regola, sovente, non è osservata. Tuttavia, la concezione del reato come offesa postula che, nell’alternativa del pericolo, il requisito dell’idoneità della condotta a cagionare il danno, sebbene inespresso, connoti la fattispecie (14) La divergenza tra l’ipotesi nella quale il requisito dell’idoneità figura espressamente enunciato e l’ipotesi nella quale rimane sottaciuto, si rivela, peraltro, sul piano del rispettivo accertamento (15). In entrambe le ipotesi il giudice è chiamato ad accertare in concreto, ossia con riguardo all’essenza del fatto concreto preso in esame, la sussistenza della condotta esecutiva del reato, nonché dei suoi presupposti e dei suoi eventuali effetti (intermedi) in conformità alla descrizione che ne nelle posizioni ora enunciate si riducano a differenze di natura terminologica’’ (FIANDACAMUSCO, Diritto penale, cit., p. 415). Secondo il criterio probabilistico, tra gli altri, PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 357 s.; GIACONA, Il concetto d’idoneità, cit., p. 63 ss. In argomento, si veda anche FLORA-TONINI, Nozioni di diritto penale, Milano, 1997, p. 126; RIZ, Lineamenti di diritto penale, Parte generale, Padova, 2000, p. 345. Per un collegamento tra giudizio di pericolosità sociale, in quanto probabilità che il soggetto compia fatti costituenti reato e giudizio di idoneità dell’atto del tentativo di consumazione del reato, quale ‘‘non irrilevante margine di possibilità, se non proprio con ogni probabilità’’, CONTENTO, Corso di diritto penale, vol. II, Bari, 2000, p. 423. (14) Cfr., nel senso che il pericolo costituisce comunque la ratio dell’incriminazione, GRASSO, L’anticipazione della tutela penale, cit., p. 697. Sul punto, con riferimento agli stessi reati di pericolo astratto o presunto, di cui più oltre nel testo, nel senso che non si tratta ‘‘della repressione di mere disobbedienze o di personalità pericolose, bensì dell’unica forma possibile di protezione dei beni giuridici’’, MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 567. (15) Sulla distinzione, della quale si sta per dire, tra reati di pericolo da accertarsi in concreto e reati di pericolo presunto, MARINUCCI-DOLCINI, Corso, p. 561 s.
— 1178 — fa la norma incriminatrice, in forza e ai fini del comma 1 dell’art. 187 e dei commi 1 e 2 dell’art. 530 c.p.p. Ma soltanto nella prima ipotesi il requisito dell’idoneità della condotta, espressamente enunciato, fuori di ogni dubbio rientra nell’oggetto di tale accertamento in concreto. Il giudice, vale a dire, è chiamato ad accertare in concreto, nel quadro fenomenico in atto, la possibilità, o probabilità di sussistenza anche delle ulteriori condizioni (insussistenti) necessarie perché la condotta esecutiva del reato sia causa non semplicemente potenziale ma reale del danno, ovvero di insussistenza delle condizioni (sussistenti) a tale riguardo impeditive: in sintesi, è chiamato ad accertare in concreto l’idoneità (astratta) di tale condotta a produrre il (potenziale) danno, cui corrisponde l’idea di pericolo. Siffatto criterio di concretezza, se ne concerne la prova, evidentemente non ne tocca l’essenza: il pericolo sta sempre nel giudizio di possibilità, o probabilità in merito alla sussistenza delle condizioni, in realtà insussistenti, necessarie per la verificazione del (potenziale) danno, ovvero in merito all’insussistenza di quelle impeditive, in realtà sussistenti e pertanto rimane un’astrazione. Tuttavia, il giudizio segue i suoi termini logico-probatori alla volta di un risultato di possibilità o probabilità rispetto alla produzione di un danno che non si verifica, a similianza, seppure anche a differenza, del giudizio di causalità che persegue un risultato di certezza rispetto alla produzione di un effetto — nella predetta visuale, un danno — che si verifica. Nella seconda ipotesi, il silenzio della norma in merito all’idoneità della condotta induce viceversa a ritenere che il requisito formi oggetto di presunzione. In dettaglio, accertata giudizialmente l’esistenza degli elementi descritti dalla norma incriminatrice, la possibilità, o probabilità che sussistano le ulteriori condizioni (insussistenti) necessarie perché la condotta esecutiva del reato sia causa non semplicemente potenziale ma reale del danno, ovvero che non sussistano le condizioni impeditive (sussistenti) è dalla norma stessa, in senso assoluto o relativo, presunta; in sintesi, è legislativamente presunto il pericolo. Più o meno significativi e numerosi sono i caratteri del fatto — ossia della condotta e dei suoi presupposti, od effetti — da accertarsi giudizialmente, ossia in concreto, sui quali si fonda la presunzione di pericolo, più o meno aderente alla realtà si rivela la presunzione medesima e più o meno osservato il principio di effettività dell’offesa secondo il quale si concepisce il diritto penale (16). Viene in considerazione, in particolare, l’eventualità che la norma incriminatrice esiga un singolo fattore di pericolo: ad esempio, l’essenza pe(16) In merito alla classificazione del pericolo con attinenza ‘‘alle caratteristiche intrinseche del fatto di cui si ricerca la pericolosità (e che può essere un presupposto, una condotta, un evento) o alle circostanze ambientali in cui esso opera, o alle caratteristiche peculiari del soggetto passivo titolare del bene giuridico minacciato, ANGIONI, Il pericolo concreto, cit., p. 210 s.
— 1179 — ricolosa di una determinata sostanza, ma non anche del suo trattamento, suscettibile di cautele atte a sventare il danno, in cui consiste la modalità esecutiva del reato. Il caso è tutt’altro che infrequente in materia di reati ambientali. Si veda, ad esempio, l’ipotesi di cui all’art. 51, comma 1, lett. b), d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22. I rifiuti pericolosi, nell’esempio, sono tuttavia dichiarati tali per legge (art. 7, comma 4 del d.lgs., secondo l’elenco allegato). Si verte, comunque, nell’ordine del rapporto tra presupposto e condotta. 8. L’ipotesi di pericolo presunto, occorre d’altro canto osservare, costituisce una soluzione politico-legislativa diretta a superare, od aggirare un problema probatorio. Il confine ultimo di una siffatta soluzione, se ad essa non è dato rinunciare, è o dovrebbe essere tuttavia segnato da una linea logicamente e giuridicamente invalicabile, sebbene non facile a tracciarsi: quella che separa la presunzione, in particolare in quanto assoluta, dalla finzione con la quale altra si passa dall’ambito dell’idoneità seppure in astratto della supposta causa a quello della sua inidoneità anche in astratto a produrre il mancato effetto (danno). Le regole generali del sistema, con le quali l’ipotesi di pericolo presunto comunque confligge, sollecitano ad ogni buon conto l’interprete non solo a contenere la presunzione nei suoi effettivi confini, ma ancor prima a sondarne la presenza (17). L’espressa previsione normativa del fine di danno cui tenda la condotta esecutiva del reato, come ad esempio si verifica nel testo dell’art. 435 c.p., coinvolge nel proprio ambito logico anche il requisito dell’idoneità della stessa a cagionarlo. Non è escluso, tuttavia, che il requisito, sebbene non espresso, possa cogliersi quale tacito nella complessiva descrizione cui fa luogo la norma incriminatrice, avendone presente la collocazione sistematica e la ratio: in sintesi, il requisito, piuttosto che non presunto, può anche rivelarsi come implicito nella funzione di prevenire il danno cui è destinata, nell’ordine dei principi generali del sistema, la norma incriminatrice (18). Avendo in particolare riguardo all’esempio appena sopra portato, si consideri che l’art. 435 c.p. è per l’appunto compreso in un capo, quello dei delitti contro l’incolumità pubblica mediante frode, le cui ipotesi criminose, al pari di quelle contemplate nel precedente capo dedicato ai delitti contro l’incolumità pubblica mediante violenza, sono generalmente improntate, sia pure secondo dizioni talvolta formalmente diverse, ad un’offesa di pericolo da accertarsi in concreto. È d’altra parte indubbio che la classe nella quale più facilmente la (17) Si avverte ‘‘che la categoria dei reati di pericolo astratto è molto più ristretta di quanto si sostiene comunemente in dottrina e, ciò che più conta, in giurisprudenza’’, MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 563. (18) Sul tema, si veda ancora MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., pp. 563-567.
— 1180 — norma incriminatrice propende verso una soluzione presuntiva in merito al dato di pericolo è quella dei reati concepiti in violazione di regole specifiche di condotta, solitamente di natura colposa. Ne offrono un quadro cospicuo sia il diritto penale in tema di inquinamento ambientale, che il diritto penale in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro. Valga tuttavia ricordare, in senso contrario, come il capo dei delitti colposi di comune pericolo ricalchi l’impostazione dei due capi precedenti, in esso compreso l’art. 451 c.p., concernente l’omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro, il cui impiego dell’aggettivo destinati a proposito della funzione di tali mezzi, non diversamente da quanto fa l’art. 437 c.p. nel prevedere la corrispondente fattispecie dolosa, offre argomento per un’interpretazione dell’ipotesi alla stregua del pericolo da accertarsi in concreto, secondo il criterio della (astratta) idoneità della condotta a produrre il danno. 9. Il giudizio di idoneità trova un suo predefinito oggetto nell’azione che integri la modalità esecutiva tipica del delitto consumato, in quanto causa (potenziale) del (potenziale) effetto dannoso. È per l’appunto l’ipotesi, nella previsione del comma 1 dell’art. 56 c.p., del tentativo cosiddetto compiuto, quale si configura rispetto alla fattispecie causale di evento. Il giudizio si ripropone, tuttavia, con riguardo all’atto esecutivo che non integri la condotta tipica del delitto consumato per dare luogo, sempre nella previsione del comma 1 dell’art. 56 c.p., all’ipotesi del tentativo incompiuto, configurabile alternativamente al tentativo compiuto se il delitto consumato consiste in una fattispecie causale di evento; in via esclusiva, se consiste in una fattispecie di mera condotta. Le due ipotesi si possono affacciare, in forme consimili, nelle linee strutturali delle singole fattispecie di pericolo. Si riesamini, da un canto, l’esempio offerto dall’atto idoneo di cui all’art. 501 c.p.; si consideri, dall’altro canto, sullo spunto offerto dall’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, l’atto del preparare, produrre o detenere una certa cosa o sostanza sussunto a pericolo (remoto) di un danno destinato a verificarsi in seguito alla vendita, o comunque al trasferimento ad altri di tale cosa o sostanza, la cui messa in vendita, o comunque messa a disposizione costituisca l’alterna ipotesi di ricorrente (prossimo) pericolo. In ogni caso, sia l’azione esecutiva del tentativo compiuto, che l’atto esecutivo del tentativo incompiuto e così parimenti, nelle corrispondenti ipotesi, la condotta esecutiva della singola fattispecie di pericolo da accertarsi in concreto, ritraggono tale loro qualificazione e con essa la propria rilevanza dal criterio di idoneità: l’azione, in quanto causa potenziale del danno; l’atto, in quanto base, o presupposto del potenziale succedersi degli ulteriori atti esecutivi che compongono l’azione causale, o costitutiva del danno.
— 1181 — 10. L’incidenza esercitata dal criterio di idoneità nella raffigurazione del tentativo incompiuto si rivela, tuttavia, sotto un duplice aspetto. Il criterio non solo qualifica come esecutivamente rilevante un atto, od un complesso di atti che non esauriscono la modalità esecutiva tipica del reato consumato, presa di per sè od in quanto causa dell’evento di danno. Ma, per altro verso, il criterio risale una potenziale graduatoria causale destinata a condurre anche a forme di aggressione dell’interesse protetto che ancora non principiano quella tipica del reato consumato (19). Alla nota comune che contrassegna la fattispecie del delitto tentato, rappresentata dall’incompleta esecuzione dell’azione tipica, ovvero dalla mancata verificazione dell’evento tipico del reato consumato, viene dunque a fare da contrappunto, nell’ipotesi del tentativo incompiuto, il configurarsi della fattispecie anche secondo modalità esecutive che non partecipano di quella descritta dalla norma che prevede l’ipotesi della consumazione, ma costituiscono base, o presupposto del suo inizio. La condotta propria del delitto di omicidio, ad esempio, consiste in quella che causa l’evento di morte; sempre ad esempio, nell’esplosione del colpo d’arma da fuoco. Atto idoneo, nella prospettiva del comma 1 dell’art. 56 c.p. in rapporto all’art. 575 c.p., è tuttavia, nel contesto ambientale che ne determina tale qualificazione, anche il puntamento dell’arma, o già l’appostarsi armati in agguato. 11. L’incerta distinzione (20), rivolta a stabilire il discrimine di configurabilità del tentativo incompiuto, tra atti preparatori, come tali irrilevanti ed atti esecutivi, come tali rilevanti (21), non trova un riscontro dogmatico nella costruzione della fattispecie del tentativo improntata al criterio dell’idoneità dell’atto (o dell’azione) rispetto alla consumazione del delitto, cui fa luogo il comma 1 dell’art. 56 c.p. In linea di tesi, l’essenza dell’atto esecutivo può concepirsi sia nella prospettiva del delitto consumato, in quanto frammento della relativa condotta tipica; sia nella prospettiva dello stesso tentativo incompiuto, per l’appunto quale momento dell’iter della condotta sua propria. La prima delle due concezioni indubbiamente risponde ad un criterio rigoroso di determinatezza. L’appunto pressoché unanime è tuttavia che ne rimangono esclusi atti pregressi, la cui inclusione nell’ambito della fattispecie del tentativo rispecchia un’istanza razionale, od almeno una comunemente avvertita esigenza politico-legislativa (22). Si pensi all’atto di (19) In merito alla disputa apertasi sul punto, SINISCALCO, La struttura, cit., p. 41 ss. (20) Sul punto, anche per i richiami bibliografici, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 410 s. (21) Sul tema, anche per riferimenti alla legislazione pre-vigente, FIORE, Diritto penale, Parte generale, vol. II, Torino, 1995, p. 47 ss. (22) Nelle linee di tali considerazioni, la dottrina si è sovente orientata su di un con-
— 1182 — chi, munito di strumenti per lo scasso, penetra nel forziere della banca, dove tuttavia è casualmente sorpreso prima che principi ad impossessarsi della sottraenda refurtiva (23). La seconda concezione è viceversa sciolta da un predeterminato modello normativo di riferimento e per ciò stesso postula un suo peculiare metro costruttivo che non sembra possa essere se non quello causale, ossia della (astratta) idoneità dell’atto a sfociare, sebbene ancora non ne partecipi, nella compiuta esecuzione della condotta esecutiva tipica del delitto consumato e, comunque, nella sua consumazione (24). Il codice italiano del 1889 adottava, in apparenza, una soluzione mista: secondo la dizione del comma 1 dell’art. 61, il tentativo incompiuto stava nel cominciare con mezzi idonei l’esecuzione del delitto consumato. Ma, delle due l’una: o il requisito dell’idoneità interveniva a selezionare l’atto rilevante all’interno dei frammenti della condotta tipica del delitto consumato; oppure soverchiava il concetto di atto esecutivo quale frammento di tale condotta, avocando a se, secondo il corrispondente concetto causale, il giudizio sulla rilevanza dell’atto (25). L’ultimo progetto elaborato per la riforma dell’attuale codice penale italiano (Commissione istituita con d.m. 1o ottobre 1998) ripropone il principio di esecuzione della condotta tipica del delitto consumato quale criterio di configurabilità del tentativo, tuttavia assegnando una pari rilevanza anche all’atto immediatamente precedente. La relazione della Commissione denota, nondimeno, che tale estensione non intende riflettere una mera collocazione formale dell’atto (26). cetto di atto esecutivo tratto dalle ‘‘nozioni comuni dell’esecuzione e della preparazione di una determinata azione umana’’, senza sottacere che ‘‘anche il requisito dell’idoneità abbia un suo peculiare valore e che debba concorrere, specialmente nei reati di evento, a definire la figura e i limiti del tentativo punibile’’ (VASSALLI, La disciplina del tenativo, cit., p. 226). (23) Si veda, tuttavia, nel senso che il concetto di atto esecutivo seppure inteso come parte della condotta tipica del delitto consumato, sarebbe tuttavia da individuarsi sulla base del criterio di univocità destinato a sfociare in una ‘‘fluidità della distinzione tra gli atti punibili a titolo di tentativo e quelli non punibili’’, comunque rispondente ‘‘a concezioni tratte dalla vita comune’’, PAGLIARO, Principi, cit., p. 527 s. (24) Nella prospettiva di una soluzione del ‘‘problema dell’individuazione in concreto degli atti esecutivi’’, problema che poi ‘‘coincide con quello dell’individuazione degli atti il cui compimento dà vita all’inizio dell’azione illecita’’, avendosi come punto di riferimento il momento in cui il soggetto ‘‘ha deciso di tradurre in atto l’intenzione’’ e pur tuttavia nella contezza della difficoltà di ‘‘questo accertamento, come tutti gli accertamenti dei fatti psicologici o interiori’’, CONTENTO, Corso, cit., p. 415. (25) Con riferimento al tema e comunque per un quadro della dottrina formatasi sull’art. 61 del codice penale del 1889, MAJNO, Commento al codice penale italiano, vol. I, Torino, 1924, p. 169 ss. (26) Sulla nozione di immediatezza dell’atto, da stabilirsi ‘‘in base ad un criterio di normale successione o concatenazione, determinabile a sua volta in relazione al contenuto dell’azione tipica di ciascun reato, alle particolarità del suo manifestarsi nel caso concreto, e infine sempre in subordinazione al criterio fondamentale della messa in opera dei mezzi, il
— 1183 — Traspare, si direbbe, il riferimento ai concetti di prossimità nel tempo e di contiguità nello spazio secondo l’ordine logico cui si affida l’idea causale e così, nella visuale del delitto tentato, al pari che di ogni altro consimile procedimento eziologico-deduttivo, il riferimento all’idea di idoneità (astratta) della (potenziale) causa rispetto alla verificazione del (potenziale) effetto (27). 12. L’iter verso una più avanzata posizione di tutela secondo il criterio di idoneità degli atti rispetto al potenziale compimento della condotta tipica, così come rispetto alla potenziale verificazione dell’evento tipico del reato consumato, trova il suo punto di arresto, nondimeno, all’interno dell’ordine logico che presiede al criterio medesimo. I termini sono sempre quelli del giudizio causale, seppure di stampo controfattuale, legato ai canoni della continuità nel tempo e della contiguità nello spazio. Fuori di essi il giudizio, da immagine di potenziale conseguenzialità da un determinato antecedente ad un determinato susseguente, sfuma in quella del generale possibile divenire della realtà, sottratto a specifiche regole di esperienza, od al controllo sperimentale. La figura del tentativo incompiuto, come anche la singola figura di pericolo che ne ripeta i caratteri, implica bensì, quale suo tratto peculiare, la potenziale progressione dell’atto verso lo stadio del danno mediante un’ulteriore attività esecutiva, propria del medesimo soggetto. La peculiarità si ripropone nell’immagine della corrispondente qualificazione soggettiva. Nondimeno, è con l’atto idoneo eseguito, in quanto costitutivo del fatto del tentativo che, stante tale qualificazione, se ne perfeziona l’ipotesi quale incompiuto. In simmetria, la volontaria desistenza dall’azione, ossia dal compimento del potenziale atto successivo, funge, a norma del comma 3 dell’art. 56 c.p., da sopravvenuta causa di non punibilità (28). Si apre piuttosto la via, con ciò, ad una differente tematica: quella della qualificazione soggettiva, ossia del giudizio di colpevolezza in merito al delitto tentato e, più in generale, al delitto di pericolo. 13. Il giudizio di colpevolezza, oltre che al comando penalistico secondo quanto stabilisce il costituzionalmente modificato art. 5 c.p., in forza degli artt. 42, 43, 59 comma 2 e, a contrario, 45 prima parte, 47, 48 e 59 comma 4, attiene a tutti gli elementi costitutivi e negativi, pur nella contrapposta prospettiva cui fa luogo tale loro differente rilevanza struttuquale circoscrive la rilevanza dei coefficienti causali nel campo dell’intera serie’’, PETROCELLI, Il delitto tentato, Milano, 1955, p. 151. (27) Sul rapporto tra atto preparatorio ed atto (non) idoneo, SCARANO, Il tentativo, Napoli, 1960, p. 103 ss. (28) In tema di tentativo incompiuto e desistenza volontaria, PROSDOCIMI, Profili penali del postfatto, Milano, 1982, p. 61 ss.
— 1184 — rale, dalla cui presenza e dalla cui assenza dipende l’esistenza del fatto descritto dalla norma incriminatrice, con le sole eccezioni, genericamente riconducibili al campo della responsabilità oggettiva o comunque soggettivamente anomala, espressamente stabilite dalla legge. Sono pertanto già indicati i limiti del giudizio di colpevolezza nelle ipotesi di pericolo presunto. Esso concerne tutti, ma anche soltanto gli elementi descritti dalla norma incriminatrice, dall’accertamento della cui esistenza discende la presunzione. Tale ultima, unitamente al giudizio oggettivo di idoneità della condotta a produrre il danno, ossia unitamente alla valutazione del relativo pericolo, viene così a coinvolgerne anche la corrispondente qualificazione soggettiva. Il compito cui è chiamato l’interprete, come più sopra si diceva, di circoscrivere se non anzi di elidere, per quanto lo consenta la singola norma ed il suo ordine sistematico, l’ambito della presunzione, si riflette, dunque, (anche) sul piano del giudizio di colpevolezza. In particolare, il fine di produrre l’offesa che sia espressamente richiesto dalla norma incriminatrice, come ad esempio avviene nella previsione dell’art. 435 c.p., mentre consente di dedurne il corrispondente requisito di (astratta) idoneità causale della condotta, ne assume il (potenziale) contenuto a proprio oggetto e con riguardo ad esso assurge in senso proprio a criterio di rimprovero. 14. Il requisito di idoneità della condotta, ossia il pericolo che si verifichi il danno, se partecipa della descrizione cui fa luogo la norma incriminatrice, vale a dire se non è presunto, per ciò stesso partecipa dell’oggetto del giudizio di colpevolezza. Il giudizio ricalca lo stesso giudizio di idoneità, ovviamente non più secondo il metro oggettivo della conoscenza storico-sociale che presiede all’idea di causa, bensì secondo il metro di valutazione soggettiva, riferibile all’autore del fatto, nel momento della condotta esecutiva del reato. Sotto tale aspetto, il giudizio di colpevolezza segue dunque le sue regole ordinarie. In armonia con le stesse, è consentita un’annotazione: il requisito di idoneità partecipa dell’oggetto del giudizio non tanto sotto il profilo della coscienza e volontà della condotta del reato, comunemente prescritta dal comma 1 dell’art. 42 c.p., pur nel suo atteggiarsi come potenziale in una determinata casistica di carattere colposo; quanto invece sotto il profilo della rappresentazione, effettiva nell’ipotesi dolosa e potenziale in quella colposa, degli ulteriori addendi (costitutivi) del fatto del reato. È quanto per l’appunto avviene, per citare un esempio di valenza sistematica, a proposito della (reale) rilevanza eziologica della condotta. La distinzione discende dalla stessa portata generale del comma 1 dell’art. 42 c.p.: oggetto della coscienza e volontà, quale momento del giudizio di colpevolezza comune sia all’ipotesi dolosa che a quella colposa, è la condotta
— 1185 — in quanto, come si suole dire, movimento corporeo (azione) o mancanza di movimento corporeo (omissione), al cui confronto assurge ad una propria autonomia ideologica e strutturale ogni altro fattore di fattispecie, sebbene ad essa inerente, cui corrisponde, nell’ordine di tale giudizio, l’una ovvero l’altra di tali due ipotesi. Si consideri, quale esempio di specie, il ruolo di elemento costitutivo non indistintamente coinvolto nella qualificazione della condotta come cosciente e volontaria, ma sussunto ad oggetto di rappresentazione unitamente alle ulteriori componenti del fatto del reato, che compete alla falsità della scrittura (art. 485 c.p.) o comunque dell’atto (art. 489 c.p.) di cui si faccia uso, ovvero anche della moneta (artt. 455 e 457 c.p.) che sia spesa. La fattispecie del delitto tentato nondimemno presenta taluni problemi particolari, seppure riproponibili, a parità di qualificazione soggettiva, in merito alla fattispecie di pericolo in genere. Lo stesso verbo tentare implica l’estremo del dolo, al quale comunque rimanda la norma estensiva di cui al comma 2 dell’art. 42 c.p. Il comma 1 dell’art. 56 c.p., con perentoria dizione, vuole nondimeno che l’atto eseguito (od azione, nella prospettiva del tentativo compiuto), oltre ad essere idoneo, sia diretto in modo non equivoco a commettere il delitto. 15. È nota la tesi, prevalente, secondo la quale il requisito di univocità dell’atto darebbe corpo, unitamente a quello di idoneità, alla consistenza oggettiva della condotta esecutiva del tentativo e fungerebbe, nel contempo, da criterio per accertarne la finalità (29). Non sembra, tuttavia, che i due requisiti, idoneità ed univocità, presentino quell’unità strutturale sulla quale la tesi si fonda. Il giudizio di idoneità esprime una nota, sia pure potenziale, intrinseca all’atto: per l’appunto, la sua (potenziale) rilevanza causale. Il giudizio sulla direzione dell’atto ne esprime, viceversa, una connotazione riflessa. Solo impropriamente, per invalso uso di sintesi, si parla di atto diretto, come ad esempio anche di atto cosciente e volontario, ovvero do(29)
In argomento, anche per i richiami bibliografici, si veda, in particolare, MANTO-
VANI, Diritto penale, cit., p. 440 ss.; CARACCIOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale,
Padova, 1998, p. 445. Nel senso di assegnare al requisito di univocità una posizione di primato, quanto meno nel senso ‘‘di consentire di imputare la fattispecie consumata in assenza della sua realizzazione, riducendola nella forma del tentativo’’, RAMACCI, Corso, cit., p. 195. La tesi sovente presenta taluni temperamenti di stampo soggettivo. Nel senso che ‘‘l’azione in sé, per quello che è e per il modo in cui è compiuta, deve rivelare l’intenzione dell’agente’’, ANTOLISEI, Manuale, cit., p. 490; nel senso che ‘‘gli atti compiuti debbano presentare un nesso finalistico obiettivamente rilevante con la commissione del delitto’’, PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 359; nel senso che, dall’univocità degli atti deve ‘‘oggettivamente emergere il dirigersi della condotta spesa dal soggetto verso la preventivata lesione dell’interesse protetto’’, MARINI, Lineamenti, cit., p. 710.
— 1186 — loso o colposo. In realtà, siffatta connotazione non è intrinseca all’atto, bensì alla psiche del soggetto che lo compie. L’univocità della direzione (dell’atto) a sua volta non ne rappresenta, proprio in quanto tale, se non una modulazione, o forma specifica di intensità, per ciò stesso partecipe del suo carattere psichico. Nella struttura della fattispecie penalistica, il requisito dell’idoneità, in quanto si riferisce al fatto del reato, è dunque di stampo oggettivo; il requisito dell’univocità è viceversa di ordine soggettivo, concernente il giudizio di colpevolezza (30). Le loro immagini, seppure nei limiti eventualmente imposti dalla singola fattispecie cui essi appartengano, possono divergere, come anche coincidere. I due requisiti, stante la loro contrapposizione strutturale, sono comunque tra loro infungibili. L’interferenza è nondimeno possibile sul terreno probatorio (31). Se è vero che nel giudizio di idoneità convergono tutte le caratteristiche obiettive dell’atto, rilevanti nell’ordine della fattispecie del delitto tentato, è ugualmente vero che un elevato grado di idoneità dell’atto compiuto — da misurarsi, operazione peraltro non semplice, lungo la scala della probabilità — ne può già di per sè indicare la direzione non equivoca a commettere il reato. Ciò non significa — per così dire in parallelo agli sviluppi della tesi poco sopra ricordata, riguardanti il significato dell’univocità come criterio di accertamento del proposito criminoso, se non anzi dell’inizio dell’attività punibile (32) — che il fatto del delitto tentato, se per un aspetto ne forma oggetto, per altro aspetto abbia ad accentrare esclusivamente in sè la prova della propria qualificazione soggettiva. La chiusura probatoria atto (probabilmente) idoneo — atto diretto (in modo non equivoco) a commettere il reato, a fronte della diversità strutturale dei due elementi, collide con il senso razionale della dizione normativa. Ma non solo: la chiusura, più ancora che esserne estranea, è contraddetta dall’ordine del sistema che, agli artt. 187 e segg. c.p.p., affida la prova in merito all’elemento soggettivo del reato, non diversamente da quanto ne riguarda l’elemento oggettivo, a tutte le fonti di conoscenza (30) Cfr. G. BETTIOL, Diritto penale, Padova, 1982, p. 564, dove si ricorda il passo della relazione al codice sul punto e si aggiunge: ‘‘Quando l’atto è concretamente idoneo e si può stabilire essere questo inequivocabilmente diretto a cagionare un evento lesivo abbiamo il tentativo’’ (p. 567), per riferire quindi l’univocità dell’atto all’intenzione del soggetto (p. 568 s.). Sui concetti di ‘‘idoneità’’ come efficienza causale e di ‘‘univocità’’ come prova delle intenzioni, SINISCALCO, La struttura, cit., p. 61 ss. Sul tema, con la bibliografia citata, PAGLIARO, Principi, cit., p. 510. (31) In particolare, con riguardo al requisito dell’univocità in quanto qualità intrinseca dell’atto, ovvero in quanto nozione meramente strumentale di ordine probatorio, CONTENTO, Corso, cit., p. 416 ss. (32) In tale ultimo senso, in particolare, MORSELLI, voce Tentativo, cit., pp. 189 e 195.
— 1187 — che concorrono alla sua formazione, cui non contraddica un divieto di legge, giusta i prescritti criteri di valutazione. In breve, il giudizio di colpevolezza, da un punto di vista generale e così pure in tema di delitto tentato, ovviamente attinge anche e, talvolta, forse soprattutto al fatto tipico commesso. Ne costituiscono possibili punti di orientamento, tuttavia, anche fatti e comportamenti diversi, in genere sussumibili nella multiforme realtà esteriore il cui apprezzamento consente, o può consentire di risalire a quella realtà interiore al soggetto sulla quale il giudizio si appunta (33). 16. L’impegno ermeneutico rivolto a non lasciare l’espresso dettato del comma 1 dell’art. 56 c.p. privo di un effettivo significato, induce nondimeno a trasferire la ricerca sul piano sostanziale. Si tratta, in sintesi, di comparare il requisito dell’univocità con le diverse forme che può assumere il dolo, al fine di sondarne la compatibilità. Sovente si ritiene che ne risulterebbe escluso il dolo cosiddetto eventuale (34). Tesi solitamente tratta dal criterio di accettazione del rischio da parte del soggetto a fronte di una dubbia verificazione del fatto, od evento del reato: la variante affermativa contrassegnerebbe — differenziandola dalla colpa definita cosciente, o con previsione — tale forma di dolo. Il punto critico, peraltro, sta innanzitutto nel criterio adottato, di significato controvertibile e, in ultima analisi, riguardante uno stato emotivo del soggetto, come tale estraneo ai parametri del giudizio di colpevolezza ed in particolare del dolo, essenzialmente costituito dalla combinazione di un momento rappresentativo e di un momento volitivo. Il dubbio sulla verificazione del fatto, o dell’evento del reato, nel quale generalmente si coglie la connotazione tipica del dolo eventuale, attiene al primo momento: il soggetto è incerto se la sua condotta approderà alla consumazione dell’illecito. È già pertanto palese la compatibilità del dolo eventuale con un momento volitivo del dolo che pur assuma la forma dell’intenzione diretta. I due momenti, gnoseologico ed intenzionale, pur essendo il secondo condi(33) Sul tema, secondo un criterio di doppia verifica tratta sia dall’atto compiuto che aliunde, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 418. In senso analogo, PAGLIARO, Principi, cit., p. 513 s. (34) Per tutti, GALLO, voce Dolo, in Enc. dir., vol. XIII, Milano, 1964, p. 795; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 439; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 420 s. Non sembra, tuttavia, che la concezione del dolo eventuale segua tratti uniformi, nell’alternarsi, o nel fondersi dei criteri di incertezza sulla verificazione dell’evento, ovvero di diversità dell’evento sussunto a scopo (PAGLIARO, Principi, cit., p. 511), ovvero anche dell’incidenza del motivo perseguito (VENEZIANI, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000, p. 126). Per un excursus critico sulla nozione di dolo eventuale, G. DE FRANCESCO, Fatto e colpevolezza nel tentativo, in questa Rivista, 1992, p. 703 ss. Si veda anche A. ALIBRANDI, Delitto tentato e dolo eventuale, in Riv. pen., 1990, p. 1017.
— 1188 — zionato dal primo, sono psicologicamente diversi ed autonomi per ciò che ne concerne la forma di specie. Si faccia l’esempio di chi punta l’arma con il fermo proposito di uccidere e pur versa nel dubbio, per la distanza della vittima designata o per la luce fioca che ne confonde la vista, di conseguire l’intento. L’atto, posto che sia oggettivamente idoneo, nella sua stessa qualificazione intenzionale è soggettivamente univoco: l’eventualità che il colpo vada a vuoto si risolve nell’ipotesi del tentativo (35). È nella comune realtà, del resto, che si auspichino anche molto intensamente risultati nella cui consecuzione, sebbene perseguiti nel modo più acconcio che sia consentito, non parimenti si confida. Se poi si vuole cogliere un dato normativo di ben altro segno che non il comma 1 dell’art. 56 c.p., si vedano gli artt. 368 e 369 c.p.: gli incisi ‘‘che egli sa innocente’’, riferito al calunniatore nei confronti del calunniato e ‘‘che egli sa non avvenuto’’, riferito all’autocalunniatore rispetto al reato del quale egli si incolpa, derogano alle regole generali in materia di previsione estensiva del dolo riproponendone nel contesto descrittivo della singola fattispecie il momento gnoseologico, o rappresentativo. E qui, in considerazione della concreta rilevanza che abbia a competere ad un così formulato intervento normativo, in effetti si pone il tema della concezione del giudizio di colpevolezza in termini di certezza con esclusione, stanti le particolarità di fattispecie, della forma del dolo che, per essere caratterizzato dal dubbio sulla verificazione dell’offesa, si definisce eventuale. 17. L’attenzione converge, dopo quanto precede, sulla distinzione tra dolo diretto, o di proposito e dolo indiretto: il primo quale emblematico dell’univocità dell’atto, il secondo di sfuggente valenza al riguardo. La scelta cui farebbe dunque luogo il comma 1 dell’art. 56 c.p. si ripropone, del resto, anche nell’ordine di talune altre disposizioni incriminatrici. Si ponga mente all’art. 323 c.p., dove l’evento dell’abuso d’ufficio è previsto quale intenzionalmente procurato od arrecato (36). Ma, in (35) In senso sostanzialmente conforme, FIORE, Diritto penale, cit., p. 59; muovendo dalla considerazione che ‘‘il dolo del tentativo non può essere altro che il dolo della consumazione’’, MORSELLI, Condotta ed evento nella disciplina del tentativo, in questa Rivista, 1998, p. 46. (36) Si scrive: ‘‘Non v’è dubbio che con ciò’’ — l’inciso intenzionalmente — ‘‘si sia voluto evitare che, attraverso la figura del dolo eventuale, si potesse eccessivamente scolorire l’elemento soggettivo’’. Si aggiunge, tuttavia, per così dire una riserva: ‘‘L’indicazione normativa, però, non sembra limitarsi a questo ma pretendere un più intenso atteggiarsi dell’elemento subbiettivo in termini di diretta ed esclusiva intenzionalità. Se così è, deve ritenersi che, per il perfezionarsi del reato sotto il profilo del dolo, sarà necessario che il soggetto agisca con il precipuo scopo di perseguire il danno o il vantaggio’’ (STORTONI, Delitti contro la pubblica amministrazione, in Diritto penale - Lineamenti di parte speciale, Bologna, 1998, p. 140 s.).
— 1189 — ispecie, si consideri l’ipotesi di pericolo caratterizzata dal requisito del fine di danno, come in particolare si verifica nella previsione dell’art. 501 c.p., dove si richiede il ‘‘fine di turbare il mercato’’. Già nella definizione cui fa luogo la prima parte del comma 1 dell’art. 43 c.p. ed a maggior ragione nelle linee di una concezione del dolo come rappresentazione degli (altri) elementi costitutivi del fatto del reato nell’immanenza della quale sopravviene, cosciente e volontaria, la condotta esecutiva, il dato intenzionale tende a confondersi con quello genericamente volitivo. La stessa distinzione tra dolo diretto e dolo indiretto finisce per essere, dunque, fonte di perplessità. Si aggiunga una riflessione per così dire di fondo. Se è vero che l’idea del dolo è logicamente inscindibile da quella dell’offesa e, più precisamente, che l’oggetto del dolo, per l’appunto in quanto oggetto di giudizio di colpevolezza, consiste nel fatto dannoso o pericoloso che costituisce il reato, se non anzi nella stessa offesa con la cui verificazione il reato si consuma, tra dolo e scopo al quale mira il soggetto si apre inevitabilmente uno iato. Scopo e movente non sono se non il medesimo fenomeno psichico, rispettivamente visto dal lato dell’obbiettivo perseguito e dal lato del soggetto che lo persegue. Tale obbiettivo, peraltro, si identifica non già con la produzione di un’offesa in sé e per sé considerata, bensì con la consecuzione di un determinato profitto o vantaggio. Non si uccide per uccidere, ma per acquisire la qualità di erede, per eliminare un concorrente, per appagare un sentimento di vendetta. In tale prospettiva, l’offesa non è che il mezzo per ottenere il profitto e pertanto, sebbene in siffatta prospettiva necessaria, non è il risultato sul quale si accentra il proposito del soggetto, se non in senso indiretto. Il ridimensionamento del concetto di dolo sotto quello stesso aspetto alla cui stregua usualmente si definisce diretto, toglie se non altro spazio alla forma nella quale il dolo viceversa si definisce indiretto. In effetti, già nella visuale di una comune interpretazione, l’ipotesi presa tendenzialmente ad esempio in materia di dolo indiretto è quella del concorso formale di offese tra loro strutturalmente connesse, una delle quali è necessaria in via immediata, o costante quale mezzo per conseguire lo scopo perseguito, mentre una, o più delle quali lo sono soltanto in via mediata, od occasionale. A fronte dello scopo di ottenere un auspicato mutamento politico od istituzionale attentando alla vita del Capo dello Stato, cui viene a corrispondere l’idea del dolo di proposito, il coinvolgimento della vita o dell’incolumità personale dell’agente di scorta entra solo indirettamente nell’alone della qualificazione dolosa. Tali, almeno in linea di tesi, possono dunque considerarsi i confini entro i quali sono chiamate ad operare la formula dell’univocità degli atti
— 1190 — nella previsione del comma 1 dell’art. 56 c.p. e le formule ad essa consimili più sopra accennate. Non sembra fuori di luogo osservare, tuttavia, che forse soltanto impropriamente si tratta, nei corrispondenti casi, di tipologie differenti del dolo; la distinzione tra dolo diretto e dolo indiretto, in ultima analisi, attiene più che non all’essenza qualitativa del dolo, ad una graduazione di intensità del suo momento volitivo (37). 18. L’univocità degli atti rispetto alla commissione del delitto nella previsione del comma 1 dell’art. 56 c.p. e così parimenti, ad esempio, il fine di turbare il mercato cui gli atti si rivolgono nella previsione dell’art. 501 c.p., tuttavia si riferiscono, come del resto è implicito nella prospettiva dell’idoneità, od attitudine in astratto degli atti medesimi a cagionarlo, ad un potenziale evento che trascende la struttura obiettiva della fattispecie criminosa in cui consiste il tentativo, o comunque il reato di pericolo: ovverosia, evento la cui verificazione non è necessaria perché tale fattispecie si perfezioni ed il reato si consumi. Si verte dunque, per tale aspetto, in presenza di quella forma di dolo che si denonima specifico (38). Sovente si coglie la nozione di una siffatta forma di dolo secondo criteri di assai ampia portata: ne offrirebbe comunque riscontro ogni tipo di finalità sussunta nella descrizione normativa di fattispecie, il cui obiettivo tuttavia non ne partecipa: sia che si tratti di un fine di offesa, come è nelle norme poco sopra citate e così pure, ad ulteriore esempio, nel contesto degli artt. 285, 289 e 289-bis c.p.; sia che si tratti di un fine di profitto, come ad esempio è nella previsione degli artt. 624, 627 e 628 c.p. La nozione, peraltro, appare sovradimensionata rispetto allo stesso concetto di reato, in quanto colto sul piano dell’offesa. Se il reato, nella sua consistenza oggettiva, è offesa dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice, è sulla produzione dell’offesa che si accentra il giudizio di colpevolezza, in particolare nella sua forma dolosa. In sintesi, oggetto del (37) Si veda, a conclusione di un’indagine critica sul tema, G. DE FRANCESCO, Forme del dolo e principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1988, p. 973: ‘‘Non si comprende, infatti, per quali ragioni l’univocità non potrebbe essere stimata rispetto ad un risultato delittuoso individuato attraverso la previsione da parte dell’agente della possibilità della sua verificazione. Una volta stabilito che l’autore ha previsto — sia pure come possibile — un determinato fatto delittuoso come conseguenza della sua azione, non si vede proprio perché quest’ultimo non possa consentire di fondare un giudizio di non equivocità — oggettiva — degli atti a conseguirlo’’. Non sembra, d’altra parte, che la conclusione sia necessariamente condizionata dalla concezione della ‘‘non equivocità’’ quale ‘‘oggettiva’’. (38) La conclusione, ovviamente, muta se muta il criterio di classificazione, come tale, del dolo specifico: in particolare se il criterio è, genericamente, rappresentato dallo scopo perseguito, posto che il suo obiettivo non partecipi del fatto del reato. In argomento, PICOTTI, Il dolo specifico, Milano, 1993, p. 179 ss. Ma, con ciò, si apre la via a quell’ampliamento della nozione di dolo specifico di cui si sta per dire.
— 1191 — dolo non è se non l’offesa e, così, non è se non nell’ordine dell’offesa che si colloca l’obiettivo del dolo specifico: per l’appunto in quanto specificazione di quello generico, esso non può che riproporne la nota qualificante di criterio di rimprovero. Ed essendo il reato, nella sua stessa configurazione oggettiva, offesa di danno o di pericolo, il campo del dolo specifico, propriamente inteso, è poi quello dei reati che si denominano a consumazione anticipata, quali reati che si consumano nello stadio della messa in pericolo dell’interesse protetto, essendo tuttavia contrassegnati dal fine di produrne il danno. Nel contempo, la ratio di una così concepita incriminazione, come già più sopra si notava, vuole che la condotta esecutiva, ne faccia o non ne faccia menzione la previsione normativa, sia del pari idonea, seppure in astratto, rispetto al progredire dell’offesa dal pericolo al danno: in proposito, instano congiuntamente e l’essenza medesima del pericolo che non si raffigura come tale se non alla stregua della possibilità, o probabilità che traligni nel danno; e la stessa sussunzione, nel quadro normativo del giudizio di colpevolezza, del fine di danno. 19. Il compito che si pone all’interprete di fronte alle non poche norme di parte speciale che, nella descrizione della fattispecie criminosa, enunciano apparentemente quale sua componente un risultato, od una finalità di profitto, è dunque rivolto a ridurne la dizione nell’ordine del sistema: ovverosia, nell’ordine delle norme attinenti alla teoria generale del reato le quali, ben più che non ricomprendere tale risultato o finalità nel novero degli elementi costitutivi della fattispecie criminosa, logicamente ne fanno esclusione. Le vie che si offrono all’interprete sono più di una, talvolta convergenti e talvolta dissimili, a seconda della struttura delle singole ipotesi normative. Già in altra sede si è cercato di tracciare, in proposito, taluni criteri-guida, od almeno di individuare talune direttive di carattere ricorrente (39). Oggetto del dolo specifico, nell’ipotesi del comma 1 dell’art. 56 c.p., come del resto anche in quella esemplificativa dell’art. 501 c.p., è comunque un evento di offesa e più in particolare di danno, come in genere lo è nella prospettiva del reato a consumazione anticipata. Il requisito dell’idoneità dell’atto e con esso la potenziale verificazione dell’evento, in forza delle disposizioni generali in tema di giudizio di colpevolezza, già forma oggetto, peraltro, del dolo generico. La sovrapposizione, od identificazione, se è generalmente conseguenziale alla presenza di tale requisito tra gli elementi di fattispecie, può anche proporsi secondo una peculiare formulazione: nella previsione dell’art. 501 c.p., alla turbativa del mercato, obiettivo del fine, è sinonimo (39)
AZZALI, Scritti di teoria generale del reato, cit., pp. 141 ss., 148 ss.
— 1192 — l’aumento o diminuzione dei prezzi, esito potenziale dell’atto idoneo a perpetrare la frode, oggetto del dolo generico. La stessa categoria del dolo specifico, non soltanto quale supposta finalità di profitto, bensì nella sua reale e sostanziale connotazione di dolo di danno entra dunque in crisi. Volendo nondimeno assegnare un suo proprio significato all’espressa previsione del fine perseguito dal soggetto, l’attenzione ritorna, a contrario, al tema del dolo indiretto, quale forma marginale del relativo giudizio di colpevolezza. Ma, con ciò, non si ripropongono se non i rilievi a tale stesso proposito già svolti, nelle linee e nei termini che circoscrivono la contrapposizione tra dolo diretto e dolo indiretto. 20. Quesito ricorrente è quello della configurabilità del tentativo rispetto a talune categorie criminose. Se ne propone la soluzione negativa, per ragioni ontologiche o giuridiche, talvolta del tutto ovvie, con riguardo ad un’abbastanza nutrita casistica: delitti colposi, delitti unisussistenti, delitti preterintenzionali, contravvenzioni, cui una certa opinione aggiunge la classe dei delitti di pericolo in genere, oltre che dei delitti di attentato in particolare. La preclusione, a tale riguardo, sarebbe ontologica, poiché non sarebbe concepibile il pericolo di un pericolo, ovvero anche giuridica, poiché il pericolo di un pericolo si risolverebbe in un non pericolo a paragone del principio che fissa nell’offesa dell’interesse protetto l’essenza sostanziale del reato (40). Occorre peraltro dire che, all’interno dei limiti radicati nelle idee di tempo e di spazio, il pericolo è suscettibile di graduazione da più o meno remoto o lontano, a più o meno prossimo o vicino e così di una valutazione di intensità, cui la norma incriminatrice attinge i propri criteri di intervento, in rapporto ai caratteri delle singole fattispecie. Ma, se questo è vero, ne segue una deduzione. La singola norma di specie che punisce l’offesa già nello stadio della messa in pericolo adempie essa stessa alla funzione, generalmente affidata al comma 1 dell’art. 56 c.p., di costituire una più avanzata linea di difesa dell’interesse che ne forma oggetto; eventualmente, fissando anche il grado di intensità del pericolo cui corrisponde l’intervento penale. In breve, nei confronti della norma generale enunciata al comma 1 dell’art. 56 c.p., essa è norma speciale che, giusta l’art. 15 c.p., avoca a sé l’intera disciplina della ‘‘stessa materia’’, così come ad esempio lo è, in caso di apparente concorso, la norma che contempla il reato necessariamente plurisoggettivo rispetto agli artt. 110 e segg. c.p. GIAMPIERO AZZALI Ordinario di Diritto penale nell’Università di Pavia (40) Sul punto, con la bibliografia citata in merito alle contrapposte tesi in argomento, MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 449.
IL DIRITTO PENALE INCERTO ED EFFICACE (*)
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. L’incertezza del diritto penale. - 2.1. Scomparsa della riserva di legge. - 2.2. Scomparsa della norma di legge astratta e generale. - 2.3. Scomparsa della divisione dei poteri. - 2.4. I co-legislatori. - 2.5. Precarietà della norma. - 2.6. Il relativismo: politeismo dei valori. - 2.7. Il relativismo (segue): il male sostenibile. 2.8. Distacco dei diritti e degli obblighi dalla legge. - 2.9. Scomparsa delle certezze extralegali. - 2.10. Conclusione sul punto. — 3. L’efficacia del diritto penale incerto. 3.1. Prevenzione generale tramite l’incertezza. - 3.2. Educazione del cittadino a farsi legislatore e a produrre certezza.
1. Premessa. — L’efficacia del diritto penale ‘‘certo’’ è rapportata — tradizionalmente — ad un risultato, preciso e voluto: cioè consentire previsioni attendibili riguardo alle conseguenze delle azioni umane, azioni compiute per raggiungere fini soggettivi. La certezza della norma penale è alla base dell’idea di prevenzione generale, per lo meno sotto il profilo della intimidazione, e dell’esigenza di prevedibilità dell’uso del potere coercitivo statuale. L’odierno diritto penale è ‘‘incerto’’. Mi chiedo quale sia la sua efficacia. 2. L’incertezza del diritto penale. — Si tratta di un dato acquisito e anche ampiamente studiato. Condivido la tesi di chi sostiene che una ragione molto significativa dell’incertezza del diritto penale sia la scomparsa dello Stato sovrano. La certezza del diritto penale è nata e vissuta su un presupposto: la legge come atto di uno Stato sovrano che ha una sua efficacia di tipo territoriale nei confronti dei soggetti che vivono ed operano in tale ambito. La legge come espressione di sovranità è uno dei connotati fondamentali dell’Illuminismo: la legge come espressione di uno Stato Sovrano che raggiunge fini collettivi e, per ciò che qui interessa, raggiunge fini collettivi che sono propri del diritto penale. 2.1. Scomparsa della riserva di legge. — Certo, oggi non è più così. La sovranità del singolo Stato è minata dai noti fenomeni di globalizza(*) Relazione tenuta il 12 marzo 2001 presso l’Istituto di diritto e procedura penale dell’Università di Macerata, all’interno del ciclo di incontri ‘‘Lavori in corso’’. Raccogliendo l’invito rivoltomi dal Prof. Gaetano Insolera, in tale incontro ho sintetizzato le riflessioni maturate nell’ambito di una ricerca che sto svolgendo.
— 1194 — zione. Correlativamente scompare il legislatore come figura unitaria, sostituito da una pluralità di fonti normative. Anche le regole comportamentali penalmente significative hanno ormai fonti composite. Le fonti sono sovranazionali (come il diritto dell’Unione europea), o di grado secondario come espressione normativa di enti territoriali diversi dallo Stato, regolamenti, circolari, ecc.: la produzione legislativa statuale diventa sussidiaria, in senso verticale o orizzontale. 2.2. Scomparsa della norma di legge astratta e generale. — Non solo: scompare la norma astratta e generale da sempre alla base dell’eguaglianza: quanto più una norma è dettagliata e minuziosa quanto maggiore è la sua operatività, poiché è in grado di meglio concretizzare la norma agendi. Un esempio ben noto: in materia tributaria, le circolari ministeriali o della Guardia di Finanza sono al vertice della gerarchia delle fonti, ben al di sopra della legge e della Costituzione, semplicemente perché contengono quella precisa e specifica regola di condotta che la legge non è in grado di assicurare. 2.3. Scomparsa della divisione dei poteri. — Non si tratta soltanto del Parlamento che diventa giudice con le commissioni parlamentari di inchiesta, ovvero della Magistratura che, con le sentenze, diventa legislatore dettando frequentemente il ‘decalogo’ per una corretta condotta (si cominciò con il decalogo in materia di diffamazione a mezzo stampa, poi l’abitudine si è diffusa). Il fenomeno è più esteso. Penso alle cosiddette autorità amministrative indipendenti: il superamento della divisione dei poteri è evidente. Invero, l’autorità amministrativa indipendente è indubbiamente legislatore: l’autorità garante introdotta dalla legge sulla privacy produce di continuo norme regolamentari. Ma è al tempo stesso Giudice che irroga sanzioni. 2.4. I co-legislatori. — Come è stato bene osservato, oggi il precetto comportamentale deriva dall’intreccio di una pluralità di fonti: la legge è soltanto una di queste e, forse, neppure, la più significativa. L’intreccio di varie fonti rende incerto il profilo della disciplina comportamentale in maniera inedita: la rende incerta non per la fumosità intrinseca del precetto (anzi, spesso le norme non legislative sono tecnicamente molto minuziose: si pensi al diritto comunitario). Il precetto diventa inattingibile per un avvicendarsi ed affollarsi di fonti che continuamente rinviano ad altre fonti. 2.5. Precarietà della norma. — Un altro fattore di incertezza è dato dalla precarietà della norma. L’idea illuministica della legge come norma stabile, della legge come codificazione dei valori e dei principi è decisamente tramontata. La norma — anche penale — è in un continuo divenire: nasce come manufatto semilavorato che viene elaborato, approvato, pubblicato, diventa sì vigente ma viene poi affidato alla realtà pratica per
— 1195 — il suo rodaggio. La legge nasce come sperimentale. La legge, poi, ha vita breve: talvolta diventa rapidamente desueta e dimenticata, altre volte viene gettata via perché l’esperimento legislativo non è riuscito oppure ha dati risultati opposti a quelli auspicati. 2.6. Il relativismo: politeismo dei valori. — Anche il cosiddetto politeismo dei valori dà un contributo all’incertezza del diritto penale. In una società multiculturale non esiste quella omogeneità di valori che indubbiamente rappresentava il presupposto della legge certa. La certezza della legge penale è data non solo dalla tassatività e determinatezza del testo formale, ma anche — ed anzi, questo era forse il dato più cogente per il giudice — dai presupposti di tipo sociale e culturale rappresentati da quel complesso di valori che una società omogenea condivideva. L’attuale pluralismo dei valori rende difficile per i legislatori la scelta che risolve il conflitto: e, allora, spesso i legislatori affidano la scelta al giudice, il quale deciderà in concreto, cioè cercherà di trovare l’equilibrio sciogliendo il conflitto di valori nel contesto della situazione concreta: il giudice, come è stato detto, si troverà a decidere senza verità. Qualcuno ha parlato di un’etica ‘‘situazionale’’ cioè nel senso che la scelta dei valori in gioco emerge nell’ambito di quella specifica situazione concreta oggetto del processo: in questi casi la norma agendi è individuata ex post dal giudice che la concretizza e nel contempo la crea. 2.7. Il relativismo (segue): il male sostenibile. — Si tratta di un altro aspetto del relativismo. Non esistono più valori assoluti e non esistono più precetti validi in assoluto. Caduto l’universalismo, il precetto vale finché non incontra un valore che sia prevalente. Non c’è più una distinzione netta tra bene e male, ma ci sono soglie di male accettato e sostenibile. Penso alla fissazione di valori-soglia in materia di inquinamento. Ma penso anche al drastico relativismo dei precetti penali: non si dice più ‘‘non ti drogare’’, ma si dice ‘‘se assumi droghe, usa le siringhe messe a disposizione nei dispensers comunali’’. Emerge la metodologia del male, emergono le regole del male: non devi commettere azioni cattive (offensive di beni o diritti), ma se proprio le commetti, realizzale almeno in modo tale da cagionare il livello di offesa più basso possibile. Si tratta di una evidente visione relativistica dell’illecito. Il disvalore del fatto non risiede nell’offesa come tale, ma risiede nel creare un pregiudizio insostenibile, oltre il tollerabile: non sta nel drogarsi, ma nel drogarsi senza utilizzare le siringhe messe a disposizione, sta nell’omicidio commesso senza rispettare le regole che disciplinano l’eutanasia; sta nel cagionare l’aborto senza rispettare le regole sui consultori. Ritorna, adattato, il monito di Robespierre: ‘‘Generate procedure perché non avete (più certezza sui) principi’’. 2.8.
Distacco dei diritti e degli obblighi dalla legge. — Come è stato
— 1196 — messo bene in luce, stiamo oggi assistendo ad un fenomeno molto delicato: cioè il distacco dei diritti e degli obblighi dalla legge. Le norme comportamentali, i diritti di cui il cittadino è titolare e gli obblighi di cui il cittadino è destinatario non stanno nella legge ma fuori della legge. È passata l’epoca dell’obbedienza alla legge quale parametro di valutazione della condotta dell’individuo. L’osservanza della legge non mette al riparo il cittadino da problemi penali: il cittadino osservante della legge può sempre, successivamente, sentirsi rimproverare — anche penalmente — per aver rispettato una legge ingiusta. Basti ricordare le condanne pronunciate nei confronti dei Vopos per aver ucciso — in esecuzione delle leggi vigenti al momento dei fatti — coloro che fuggivano da Berlino est. L’esigenza politica di colpire la criminalità istituzionale comporta sacrifici inaccettabili al principio di legalità e in particolare al principio di irretroattività. Dunque, non è sufficiente essere fedeli alle leggi: talvolta si deve essere fedeli ai principi e trasgredire le leggi. È scritto in alcuni passi delle sentenze in argomento che il cittadino deve ribellarsi rispetto ad una legge ingiusta. Ma allora, non solo non c’è certezza del diritto penale, ma non c’è neppure certezza rispetto alle norme che sono certe. Il cittadino è investito di un compito critico: tutto è a suo carico, a suo onere, perfino il vaglio della conformità della legge ai principi di giustizia. E paga se sbaglia la valutazione. È stato rilevato: oggi il criterio comportamentale, il criterio per valutare i comportamenti umani non è più l’obbedienza ma la possibilità. L’obbedienza non conta più: sia perché il diritto non è così certo e determinato da giustificare un rimprovero per disubbidienza, sia perché il cittadino è tenuto a valutare la legge e a rispettare obblighi che non stanno nella legge. Allora, in questo contesto, il problema penalistico si pone in un’ottica completamente ribaltata: si è sempre detto che la certezza del diritto penale serve a prevedere come l’autorità userà la sua forza coercitiva. Oggi questo non vale più, e in un duplice senso: da un lato i precetti sono vaghi e indeterminati, dall’altro lato, l’osservanza della regola normativa non rappresenta un criterio valido per valutare il comportamento individuale. 2.9. Scomparsa delle certezze extralegali. — Aggiungo che sono scomparse le certezze extralegali, pregiuridiche, che esercitavano un forte vincolo per l’interprete e per il giudice in particolare. Ho già detto del politeismo dei valori: non c’è più un’omogeneità di valori di base e il giudice è portato a optare per il valore predominante nel caso concreto. Anche le incertezze scientifiche contribuiscono all’incertezza penale. Un esempio: si dice che il diritto penale deve occuparsi anche delle vittime del futuro. Ora, un importante fattore di certezza operativa del diritto penale è
— 1197 — costituito dalla centralità del singolo e specifico fatto, incentrato sulle coordinate espresse dall’hic et nunc: la condotta umana, la causalità, l’evento, l’elemento psicologico si apprezzano tradizionalmente in un arco temporale concentrato di verificazione e valutazione. Oggi, nel contesto dell’attuale società del rischio, la prospettiva muta radicalmente. La potenzialità offensiva della condotta umana non viene più colta con riferimento all’hinc et nunc: rilevano i rischi anche non conosciuti — o non identificati con sicurezza scientifica — al momento della condotta, rischi per si possono concretizzare in un danno in un futuro vicino, ma anche molto lontano. Certo, il diritto penale non può non occuparsi delle vittime future: però è difficile conciliare questa doverosa preoccupazione con il dogma del fatto su cui poggiano tutte le fondamentali garanzie penali. Elettrosmog, mucca pazza, uranio impoverito, uso dei telefoni cellulari, clonazione, organismi geneticamente modificati: è incerta la loro pericolosità; in ogni caso, si discute di eventuali danni futuri, dovuti all’accumulo di piccole ‘‘dosi di pericolo’’ collegate a fattori causali diversi (predisposizione soggettiva, convergenza di altre fonti di pericolo, ecc.) con periodi di latenza pur essi incerti, ma sempre nell’ordine di anni. I processi che si celebrano oggi in materia di amianto (ad esempio) costituiscono il modello di ciò che potrà accadere in futuro rispetto ad altre fonti di rischio oggi non considerate. Allontanandosi dall’hinc et nunc, quale è il criterio di valutazione penalistica della condotta umana? Quale è il parametro che il giudice deve seguire oggi per giudicare delle condotte di un tempo e dovrà seguire tra vent’anni per giudicare le condotte commesse attualmente? È un criterio di precauzione o di evidenza? Il giudice che effettua il suo giudizio — ex post — sulla base del principio di precauzione, sarà orientato a configurare un obbligo di attivarsi ed adottare cautele (obbligo penalmente sanzionato in caso di inerzia) nel momento in cui uno studio scientifico anche isolato e non accreditato dice ‘‘che c’è pericolo’’. E tale conclusione potrà anche retroagire, con riferimento al comportamento posto in essere anni prima: realizzando con ciò una ‘‘criptoreatroattività’’ penalmente rilevante, dovuta alla retroattività non del precetto, bensì della valutazione giudiziale del rischio. Il fenomeno è insidioso, perchè non concerne la legge. Invero, non siamo di fronte né ad un nuovo precetto applicato a fatti pregressi (le fattispecie di disastro colposo, di omicidio o lesioni personali colpose, sono quelle tradizionali), né ad operazioni di interpretazione o di creazione analogica effettuate dal giudice sul diritto positivo. Siamo invece di fronte ad una scoperta tecnico-scientifica che avviene in sede giudiziale, cioè alla presa di conoscenza di una realtà del mondo naturale prima ignorata (o tutt’al più soltanto sospettata). Le risultanze di tale scoperta reagiscono
— 1198 — dall’esterno sul diritto positivo e inducono il giudice, ex post, a rimodulare i parametri della colpa generica e a ricostruire le situazioni di fatto che danno luogo ad obblighi di agire. La scienza e la tecnica trionfano sulla legge. Con ciò, vengono eluse le tradizionali garanzie (divieto di retroattività e di analogia, vincolo di stretta interpretazione) forgiate per l’operatività della legge penale. L’imputato, privato di tali garanzie, potrà difendersi soltanto con argomenti di tipo soggettivo, quali la buona fede, la non conoscenza, la non rimproverabilità, la non esigibilità. Il principio di precauzione porta poi ad una valutazione del rischio di tipo sociologico: può essere addirittura sufficiente — e perfino a fini penali — che l’opinione pubblica percepisca emotivamente l’esistenza di un rischio. Così ragionando, gli obblighi di attivarsi nascono dalla realtà sociale: e nascono anche prima della — o, comunque, a prescindere dalla — legge che imponga una soglia positivizzata di accettabilità del rischio. Ovviamente, si perviene a diverse conclusioni se viene seguito il principio di evidenza scientifica: una cosa, un prodotto, un’attività sono pericolosi solo quando la scienza accreditata lo afferma. 2.10. Conclusione sul punto. — Tutti i profili esaminati, portano a confermare una conclusione: oggi il criterio per valutare penalmente la condotta umana è profondamente mutato: non è più l’osservanza e la fedeltà alle norme; l’alternativa non è più tra lecito ed illecito, tra permesso e proibito, ma tra possibile e impossibile tra esigibile e inesigibile. 3. L’efficacia del diritto penale incerto. — Si tratta di studiare quale sia l’efficacia del diritto penale incerto. Per efficacia intendo non solo la capacità di conseguire lo scopo voluto, ma — a livello tutto oggettivo — la produzione di effetti voluti, non voluti o ‘perversi’. 3.1. Prevenzione generale tramite l’incertezza. — Innanzitutto, la vecchia idea della prevenzione generale, della intimidazione, del messaggio non ha più senso perché il messaggio per essere obbedito, dovrebbe essere certo, dotato di un minimo di riconoscibilità. Si dice che la prevenzione generale deve essere letta in termini pedagogici, cioè nel senso non tanto di intimidazione e deterrenza, quanto piuttosto di educazione dei cittadini ai valori che stanno alla base della legislazione penale. Ma ciò presuppone un’omogeneità dei valori che non c’è più. Allora, a mio giudizio, un primo profilo di efficacia del diritto penale incerto è dato da una nuova struttura della prevenzione generale: cioè la prevenzione generale tramite l’incertezza, come produzione di disorientamento nella collettività; con il risultato, voluto o non voluto (o quale con-
— 1199 — seguenza ‘perversa’ della produzione normativa), di generare responsabilità individuale attraverso l’incertezza legislativa. L’incertezza favorisce la crescita spirituale dei cittadini che devono capire da soli cosa è lecito e cosa è illecito. Il diritto penale diventa deontologia. Poi, l’incertezza del diritto sostanziale trasferisce la prevenzione generale nel processo penale, che diventa la sede della educazione collettiva. 3.2. Educazione del cittadino a farsi legislatore e a produrre certezza. — C’è un altro aspetto che merita considerazione: il diritto penale incerto produce una singolare effettività in termini di educazione. La famosa sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale sull’art. 5 del codice penale vedeva il diritto penale incerto come fattore di promozione nell’informazione giuridica: il cittadino ha il dovere di informarsi secondo le proprie capacità. In tale sentenza emergeva l’idea di un diritto penale che non mira ad educare ai valori, che non mira alla deterrenza e alla intimidazione: ma un diritto penale che, in quanto incerto, stimola alla educazione giuridica, alla informazione, alla ricerca di pareri, e ciò per tutti i consociati. Se il cittadino non si informa viola il principio dell’art. 2 Cost. sui doveri di solidarietà: la nuova infedeltà, secondo la Corte costituzionale è rappresentata non dalla trasgressione del precetto, ma dalla non informazione e dal non attivarsi per informarsi. A mio giudizio, oggi, l’efficacia del diritto penale incerto si pone in un’angolazione ancora diversa. Educazione non all’informazione, ma educazione dei cittadini alla produzione giuridica. Il diritto penale è incerto, inattingibile, incomprensibile e questo comporta che i cittadini devono adoperarsi recuperare certezza. Se la certezza non è più un connotato della legge statale, deve essere la società civile ad operare per ripristinarla. Il compito del cittadino non è tanto quello di informarsi per ottenere chiarezza. L’impostazione della Corte costituzionale è astratta. La realtà, ben nota a tutti noi, è che più ci si informa e più si è disorientati: qualunque argomento giuridico si voglia approfondire, all’esito dello studio la soluzione è sempre più incerta. Il cittadino è chiamato necessariamente ad una produzione giuridica secondaria, cioè a produrre certezza visto che la legge non la fornisce. Si tratta di un onere di creazione giuridica per riconquistare privatisticamente e pattiziamente la certezza della norma di comportamento. Vediamo infatti che si sviluppano i protocolli di comportamento nei più svariati settori: ricordo tali protocolli o codici di condotta elaborati per i sindaci di società, per i medici, per le banche nell’ambito della gestione delle crisi dei debitori, ecc.; ricordo poi i comitati etici, i comitati deontologici, le consensus conferences in cui gruppi di scienziati cercano
— 1200 — di raggiungere un accordo circa lo stato attuale della scienza in ordine alla pericolosità di cose o di attività. La supremazia della legislazione è andata in crisi. Prevalgono fonti extralegislative e prevale il diritto giurisdizionale. Riemerge allora con prepotenza quel diritto pattizio che ha contribuito alla nascita delle società libere e aperte. Ecco allora un effetto del diritto penale incerto: il cittadino è indotto a produrre certezza ed a recuperare tramite normazioni secondarie e settoriali quel livello di prevedibilità operativa che la legge non è più in grado da sola di assicurare. FILIPPO SGUBBI Ordinario di Diritto penale Università di Bologna
PROFILI STORICO-COMPARATISTICI DELL’ABUSO D’UFFICIO (1)
SOMMARIO: 1. Sintesi dell’evoluzione storica e della portata attuale dell’abuso d’ufficio nel diritto penale italiano. — 2. I due differenti modelli seguiti nei codici penali di lingua tedesca: a) l’abuso del diritto nei sistemi penali tedesco e danese. — 3. (segue): b) l’abuso d’ufficio nei codici penali austriaco e svizzero. — 4. L’abuso d’autorità e le sue due forme nel nuovo c.p. francese, anche in rapporto alla presa illegale d’interesse, e nel c.p. belga. — 5. La prevaricazione e l’abuso di potere nei c.p. spagnolo e portoghese. — 6. L’abuso della posizione nel c.p. norvegese e l’abuso di autorità nel c.p. svedese. — 7. L’abuso d’ufficio nelle nuove codificazioni di taluni dei Paesi ex-socialisti. — 8. L’abuso d’ufficio nel Model Penal Code e, più in generale, nel diritto penale anglosassone. — 9. L’abuso d’ufficio nel Corpus Juris. — 10. Conclusioni.
1. Sono notoriamente assai tormentate e complesse le vicende legislative che ha subìto in Italia il delitto d’abuso d’ufficio, a partire dalla sua originaria configurazione come abuso d’autorità, mutuato dal Code Napoleon del 1810 (2) — soprattutto nella sua dimensione lesiva dei diritti dei singoli e quale emancipazione, assieme agli altri delitti contro la P.A., dall’originario ceppo del crimenlese (3) — che caratterizzava diversi dei codici penali pre-unitari (4) e lo stesso codice Zanardelli (5). Ad essa seguì, (1) Testo, con l’aggiunta delle note, della Relazione al Forum su: ‘‘Esperienze, storiche e contemporanee, di federalismo penale in Europa (Toscana Napoleonica; Belgio, Germania e Gran Bretagna 2000)’’, Padova, 22-23 settembre 2000. Trattasi, altresì, della prima parte di un’opera monografica, in corso d’elaborazione. (2) Cfr. gli artt. 184 e 188 del Codice Napoleone de’ delitti e pene, Roma, 1810, p. 113 ss., nelle sue due forme di abuso contro i particolari e contro la cosa pubblica. In argomento, v. più ampiamente postea, § 4. (3) Per tale evoluzione storica, TAGLIARINI, Il concetto di pubblica amministrazione nel codice penale, Milano, 1973, spec. p. 35 ss. (4) Per la loro indubbia importanza, vanno ricordate soprattutto due norme: in primo luogo, l’art. 234 del codice per il Regno delle Due Sicilie, del 1819, che era così formulato: ‘‘Ogni uffiziale pubblico o impiegato che comanda o commette qualche atto arbitrario, sia contro la libertà individuale, sia contro i diritti civili di uno o più cittadini, sarà punito colla interdizione dalla carica da 1 anno a 5. Se l’atto arbitrario si commetta per soddisfare una passione o un interesse privato l’ufficiale pubblico che lo comanda o commette sarà inoltre punito colle relegazioni, salve le pene maggiori nei casi stabiliti dalle leggi...’’, ed era, pertanto, caratterizzato sia dalla locuzione ‘‘atto arbitrario’’, che verrà ai giorni nostri riutilizzata dal Progetto elaborato dalla Commissione Morbidelli (cfr. la Relazione in D’AVIRRO, L’abuso di ufficio — La legge di riforma 16 luglio 1997 n. 234, II, Milano, 1997, p.
— 1202 — invece, con l’art. 323 del c.p. del ’30, un modello di abuso d’ufficio in cui ‘‘l’arretramento della linea di consumazione del reato dal momento lesivo dei diritti del cittadino al momento di realizzazione dell’abuso’’ (6) — in armonia, del resto, con i nuovi princìpi dello Stato autoritario — mostrava come il disvalore s’incentrasse piuttosto sulla violazione del dovere di fedeltà del pubblico funzionario nei confronti dello Stato. Da ciò la sua sostanziale indeterminatezza, peraltro non rilevata dalla Corte costituzionale, in una risalente ed assai discussa sentenza (7), ma che poteva non preoccupare soverchiamente il legislatore, attesa la natura sostanzialmente residuale della fattispecie. La prospettiva, invece, non ha potuto che mutare laddove, con la riforma del ’90, l’abuso d’ufficio ha assunto una dimensione centrale nella configurazione dei delitti dei p.u. contro la P.A., in quanto la scissione in due ipotesi distinte, l’abuso per finalità non patrimoniali e quello per finalità patrimoniali, è servita al legislatore per inglobare in esse il peculato per distrazione, da un lato, e l’intreresse privato in atti d’ufficio, formalmente aboliti, ma, in realtà, rifluiti nel nuovo ‘‘contenitore’’ proteiforme 147 ss.), sia dall’utilizzazione, nell’ipotesi-base, di una pena accessoria, assurta al rango di pena principale, che ritroveremo nel nuovo c.p. spagnolo. In secondo luogo, va menzionato l’art. 196 del c.p. toscano che così stabiliva: ‘‘...Se, fuori dei casi specialmente contemplati negli articoli precedenti di questo capo, un pubblico ufficiale ha dolosamente violato i suoi doveri d’ufficio, sia per favore od inimicizia, sia per procurare a sè o ad altri un’illecita utilità, sia per recare pregiudizio allo Stato od ai particolari, è punito...’’, ove emergono sia la caratterizzazione sussidiaria di tale delitto, che, seppure in nuce, le sue diverse componenti, di prevaricazione, di favoritismo affaristico ed, infine, di sfruttamento privato dell’ufficio, con ciò utilizzando la terminologia e gli stilemi moderni, fatti propri dalla Commissione Morbidelli, che infatti aveva proposto l’introduzione, su tale falsariga, di tre distinte ipotesi criminose: cfr. la Relazione, in D’AVIRRO, op. cit., p. 157. Su tali codici preunitari, BRICOLA, In tema di legittimità costituzionale dell’art. 323 c.p., in questa Rivista, 1966, p. 984 ss., e quivi in ID., Scritti di diritto penale, II, I, p. 2245 ss., e, spec., p. 2252 ss.; sull’abuso d’autorità in Carrara, v., di recente, GARGANI, L’ ‘‘abuso innominato di autorità’’ nel pensiero di Francesco Carrara, in AA.VV., La riforma dell’abuso d’ufficio, Milano, 2000, p. 121 ss. (5) L’art. 175, infatti, così disponeva: ‘‘Il pubblico ufficiale che abusando del suo ufficio, ordina o commette contro gli altrui diritti qualsiasi atto arbitrario non preveduto come reato da una speciale disposizione di legge, è punito con la speciale detenzione da 15 giorni ad un anno; e, qualora agisca per un fine privato, la pena è aumentata...’’, ove prevale decisamente l’aspetto legato alla prevaricazione, d’altronde in armonia con la concezione liberale dello Stato, mentre quello connesso allo sfruttamento privato dell’ufficio diventa oggetto soltanto di un’ipotesi aggravata. Per taluni spunti assai interessanti al riguardo, soprattutto in confronto con l’art. 323 del cp. Rocco, PEDRAZZI, Problemi e prospettive del diritto penale dell’impresa pubblica, in questa Rivista, 1966, p. 349 ss., e, quivi, p. 388 ss. Sui codici preunitari ed il codice Zanardelli, cfr. VINCIGUERRA (coord. da), I codici preunitari e il codice Zanardelli, Padova, 1993. (6) Per utilizzare l’espressione efficacemente usata da BRICOLA, op. cit., p. 2255. (7) Corte cost., 19 febbraio 1965, n. 7, in questa Rivista, 1966, p. 984 ss., con nota, appunto, critica di BRICOLA, op. loc. cit.
— 1203 — espresso dal rimodellato art. 323 c.p. (8) Essendo, peraltro, restato immutato l’arretramento della linea di consumazione del reato, dal danno al pericolo, mediante la consueta utilizzazione del dolo specifico, ne consegue pianamente come i rischi per il principio di determinatezza non si sono potuti che accrescere, in sintonia, del resto, con l’accresciuto ruolo della fattispecie. ‘‘Dietro’’ il vulnus al principio di precisione si è giuocata, in realtà e non a caso, una partita ben più drammatica, in cui il giudice penale sovente ha ‘‘invaso il campo’’ riservato all’Amministrazione, ripercorrendone l’iter e, ciò che più preoccupa, le scelte che hanno condotto al supposto abuso, facendo così vacillare lo stesso principio della divisione dei poteri. Da qui l’ultima riforma, quella del ’97, in cui per la prima volta il legislatore, in nome del rispetto delle esigenze legate alla determinatezza, non ha utilizzato più l’evanescente concetto d’abuso, ma ha tentato di definirlo, soprattutto mediante la locuzione ‘‘in violazione di norme di legge o di regolamento’’, nonché è ritornato all’originaria configurazione del reato di danno ed infine, anche qui per la prima volta, ha introdotto espressamente un’ipotesi di dolo intenzionale. La nuova norma trova, tuttavia — ed è storia dell’oggi — ancora divisi gl’interpreti, in particolare fra chi ritiene definitivamente estromesso dal raggio d’azione del giudice penale l’eccesso di potere (9) e chi invece opina che l’obbiettivo avuto di mira dal legislatore non sia stato in realtà (8) In particolare, sull’argomento, PADOVANI, L’abuso d’ufficio. La nuova struttura dell’art. 323 c.p. e l’eredità delle figure criminose abrogate, in Atti del Io Congresso Nazionale di Diritto Penale su: ‘‘I delitti contro la Pubblica Amministrazione dopo la riforma. Il nuovo codice di procedura penale ad un anno dall’entrata in vigore’’, Napoli, 1991, p. 79 ss. Sull’art. 323 c.p., a seguito della riforma del ’90, vedansi l’esaustiva ricostruzione di SEMINARA, sub art. 323, in PADOVANI (coord. da), I delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, Torino, 1996, p. 226 ss., e gli AA. ivi citati. (9) Che, del resto, ha costituito lo scopo avuto di mira dal legislatore con la riforma, come emerge, seppure con qualche voce dissenziente, dai lavori parlamentari, su cui DALIA, Sintesi dei lavori parlamentari, in CUTRUPI-DALIA-DELLA MONICA-FERRAIOLI-MACRILLÒ-MANZIONE-RUSSO-SCARPETTA-TELLONE, La modifica dell’abuso di ufficio e le nuove norme sul diritto di difesa, Milano, 1997, p. 236 ss.; autorevolmente ritengono che solo l’intepretazione conforme alla voluntas legislatoris consenta di adeguare la stessa al principio costituzionale di precisione, MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, 1, 2o, Milano, 1999, p. 93 ss.; analogamente, BENUSSI, Il nuovo delitto di abuso di ufficio, Padova, 1998, p. 87 ss. L’art. 323, nella sua ultima formulazione, ha comunque ricevuto l’avallo della Corte costituzionale nella sentenza n. 447 del 15-28 dicembre 1998, in Giur. cost., 1999, p. 351 ss., con nota di PREZIOSI, Norma di favore e controllo di costituzionalità nel nuovo abuso d’ufficio, pur se va osservato che la questione era mal posta, perché avrebbe voluto condurre ad un’inammissibile ‘‘reformatio in peius’’ della norma incriminatrice, mediante l’applicazione dei tanto discussi ‘‘obblighi costituzionali’’ di tutela penale. Anche la prevalente giurisprudenza, di legittimità e di merito, sembra aver rispettato sinora l’intenzione del legislatore: per un panorama esaustivo, BENUSSI, op. cit., p. 89 ss. Sulla ‘‘storia’’ della riforma, dal ’90 al ’97, per un quadro completo, cfr. MANES, Abuso d’ufficio e progetti di riforma: i limiti dell’attuale formulazione alla luce delle soluzioni proposte, in questa Rivista, 1997, p. 1202 ss.; da ultimo, seppure in
— 1204 — raggiunto, sia perché talune ‘‘figure sintomatiche’’ di eccesso di potere costituiscono attualmente altrettante violazioni di specifiche disposizioni di legge (10), sia in quanto si potrebbe alla fine ricorrere persino all’art. 97 Cost. (11), di cui comunque risulta difficile contestare la natura di ‘‘norma di legge’’ (12). una prospettiva più specifica, RIZ, L’abuso d’ufficio nella pianificazione urbanistica, in Studi in ricordo di Giandomenico Pisapia, I, Diritto penale, Milano, 2000, p. 875 ss., e, quivi, p. 885. (10) Così, in particolare, SEMINARA, Il nuovo delitto di abuso d’ufficio, in Studium iuris, 1997, p. 1253 ss.; CONTENTO, Ma la formulazione rivisitata espone a troppe interpretazioni, in Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 1996; e, nella manualistica, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte speciale, I, Bologna, 1997, p. 235 ss.; sul punto, v. anche MANES, Abuso d’ufficio, violazione di legge ed eccesso di potere, in Foro it., 1998, II, p. 390 ss.; G.A. DE FRANCESCO, La fattispecie dell’abuso di ufficio: profili ermeneutici e di politica criminale, in Cass. pen., 1999, p. 163 ss., il quale rileva significativamente il passaggio dal modello dell’ ‘‘abuso di potere’’ a quello della ‘‘violazione del dovere’’. (11) In tal senso soprattutto, altrettanto autorevolmente, PAGLIARO, Principi di diritto penale, Parte speciale, Delitti contro la Pubblica Amministrazione, 8o, Milano, 1998, p. 240 ss.; GROSSO, Condotte ed eventi del delitto di abuso di ufficio, in Foro it., 1999, V, p. 329 ss., e, spec., p. 333 ss.; LAUDI, Abuso d’ufficio: una riforma dal duplice volto — Profili sostanziali, in Diritto penale e processo, 1997, p. 1050 ss., e, spec., p. 1051, il quale rileva come la contraria opinione ‘‘significa relegare la norma dell’art. 97 Cost. al ruolo di semplice dichiarazione programmatica, così svuotandola di ogni contenuto concreto’’; sia consentito altresì, pure per ulteriori indicazioni bibliografiche, il rinvio a MANNA, Luci ed ombre nella nuova fattispecie d’abuso d’ufficio, in Indice pen., 1998, p. 13 ss., e, spec., p. 18 ss. Da ultimo, anche STORTONI, Delitti contro la Pubblica Amministrazione, in CANESTRARI-GAMBERINI-INSOLERA-MAZZACUVA-SGUBBI-STORTONI-TAGLIARINI, Diritto penale - Lineamenti di parte speciale, 2a, Bologna, 2000, p. 137-138, ritiene preferibile per ricomprendere nella violazione di legge anche l’eccesso di potere e l’incompetenza ‘‘sia perchè essa risponde meglio alla ratio legis, sia perchè sarebbe altrimenti ingiustificata la diversità di trattamento che verrebbe a determinarsi tra i veri vizi dell’atto amministrativo’’. (12) Peraltro, circa la distinzione tra norme di legge che pongono principi e norme di legge che, invece, impongono regole, fra i sostanzialisti, DONINI, Teoria del reato — Una introduzione, Padova, 1996, p. 25 ss.; e, fra i processualisti, GAROFOLI, Presunzione d’innocenza e considerazione di non colpevolezza. La fungibilità delle due formulazioni, in AA.VV., Presunzione di non colpevolezza e disciplina delle impugnazioni, Milano, 2000, p. 63 ss., e, spec., p. 66 ss. Tale distinzione è stata utilizzata in tema di art. 323 c.p. dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., 4 dicembre 1997, Tosches, in Foro it., 1998, II, p. 258 con nota di TESAURO, La riforma dell’art. 323 c.p. al collaudo della Cassazione), che ha affermato come nel concetto di ‘‘violazione di legge’’ non può essere compresa la violazione di norme generali o di principio, quali le norme costituzionali (ad es. l’art. 97 Cost.), che peraltro appaiono di carattere organizzativo e non impongono ai singoli soggetti specifici comportamenti; analogamente, in dottrina, in particolare PAVAN, La nuova fattispecie di abuso d’ufficio e la norma di cui all’art. 97, comma 1, Cost., in RTDPE, 1999, p. 283 ss.; tuttavia, per un’utilizzazione ben più ampia della stessa norma costutuzionale in questione, non limitata, cioè, al solo aspetto organizzativo, ma ‘‘fondante’’ la stessa tutela penale della P.A., autorevolmente BRICOLA, Tutela penale della Pubblica Amministrazione e principi costituzionali, in Temi, 1968, p. 563 ss., e, spec., p. 566 ss. Di recente, in giurisprudenza, sempre per l’esclusione delle rilevanze dell’eccesso di potere ai fini del novellato art. 323 c.p., ma per un’interessante estensione del concetto di violazione di legge anche alle norme procedimen-
— 1205 — Se, dunque, nemmeno l’ultima formulazione dell’art. 323 c.p. ha acquietato gl’interpreti, in quel che è stato icasticamente definito la ‘‘quadratura del circolo’’ (13), perennemente in bilico fra efficienza e garanzia, riteniamo a questo punto particolarmente utile il panorama comparativistico, per verificare cosa avvenga in altri sistemi e se da essi possano trarsi utili suggerimenti. 2. Nei Paesi di lingua tedesca sono presenti due differenti modelli, l’uno con cui si preferisce limitare l’intervento del diritto penale soltanto avverso le decisioni ingiuste emesse dai giudici e dagli arbitri, mediante la fattispecie dell’abuso del diritto (Rechtsbeugung) e ciò per evidenti ragioni di certezza, l’altro che invece privilegia una fattispecie più ampia, estesa a tutti i pubblici agenti, come l’abuso d’ufficio. Il primo è quello seguito principalmente in Germania, ove già la Constitutio Criminalis Carolina, del 1532, si occupava delle decisioni ingiuste, intese come delitto essenzialmente contro i singoli, per cui era prevista, oltre al risarcimento del danno, anche la pena, seppure il relativo nomen juris era ancora quello del falsum, o, a seconda dei casi, dell’iniuria (14). Successivamente, anche il Codex juris bavarici criminalis, del 1751, puniva chi emettesse sentenza ‘‘contro la miglior scienza e coscienza’’, enucleando così per la prima volta la c.d. teoria soggettiva nell’interpretazione di tale reato, seppure ancora derubricato sotto il nomen juris del falso. Sarà invece l’Allgemeine Landrecht fuer die preussischen Staaten, del 1794, uniformemente, del resto, a ciò che avveniva in quel periodo anche in altri Paesi, ad enucleare in un titolo autonomo i reati dei pubblici ufficiali, definitivamente così emancipati dall’originario crimenlese, presupposto affinché, nel 1825, acquisisse infine autonomia, con relativo nomen juris proprio, anche l’abuso del diritto, per merito, questa volta, non del legislatore, bensì di un esponente della dottrina, il Martin, che diede ad esso una compiuta desrizione nel suo ‘‘Lehrbuch des... Criminaltali, Trib. Taranto, 19 marzo 1999, Civo e altro, in Foro it., 2000, II, c. 487 ss., con nota di GIAMMONA, Una decisione interessante in tema di abuso di ufficio e di ordinanze di necessità e urgenze in materia di rifiuti. In dottrina, ribadisce la necessità dell’accertamento di un preciso nesso di congruità offensiva che deve legare la violazione addebitata all’agente e l’evento lesivo conseguenza dell’abuso, TESAURO, Violazione di legge ed evento abusivo del nuovo art. 323 c.p., Torino, 1999, p. 2655 e, spec., p. 153. (13) FIANDACA, Verso una nuova riforma dell’abuso d’ufficio?, in Questione giustizia, 1996, p. 319 ss. (14) Per le notizie storiche sull’argomento, cfr. SCHMIDT SPEICHER, Hauptprobleme der Rechtsbeugung — unter besonderer Beruecksichtigung der historischen Entwicklung des Tatbestandes, Berlin, 1982, p. 20 ss.; nonché, più di recente, anche SCHOLDERER, Rechtsbeugung im demokratischen Rechtsstaat, Baden-Baden, 1993, p. 32 ss.
— 1206 — rechts’’ (15). La situazione che dunque si presentava fra i codici penali tedeschi pre-unitari era, al proposito, la seguente: taluni non possedevano una fattispecie di ‘‘Rechtsbeugung’’, giacché, come nel c.p. della Turingia, del 1850, si era preferito utilizzare due ipotesi criminose generali di violazione dei doveri d’ufficio, cioè di abuso d’ufficio; altri, come il c.p. bavarese del 1813, invece la contemplavano, ma limitata ai giudici penali; un terzo gruppo, infine, nel quale era ricompreso anche il prussiano del 1851 (§ 314) — particolarmente importante giacché, come noto, esercitò un notevole influsso sul cp. della Lega degli Stati della Germania del Nord, dal quale originò il c.p. del Reich nel 1871 — in cui la fattispecie in oggetto ricomprendeva anche i giudici civili. Prevalse quindi quest’ultimo modello, che infatti ritroviamo nel c.p. del 1871 il quale, seppure con qualche modifica, giunse sino all’attuale formulazione, contenuta nel vigente § 339, che così recita: ‘‘Il giudice o un altro pubblico ufficiale o un arbitro che, nel trattare o nel decidere una questione giuridica, si rende colpevole di un abuso del diritto a vantaggio o a svantaggio di una delle parti è punito con la pena detentiva da uno a cinque anni’’ (16). Come si può agevolmente constatare, il delitto in esame è stato esteso anche agli altri pubblici ufficiali — e ciò rende la sua analisi ancora più interessante per noi — ma ciò non toglie che lo scopo della norma è in ogni caso quello di tutelare i cittadini dalle ‘‘decisioni ingiuste’’, vera ‘‘croce e delizia’’ della fattispecie. Ciò spiega pertanto la ragione per cui si ritiene che la dimensione offensiva riguardi tanto la Pubblica Amministrazione, che i diritti dei cittadini (17). Il problema centrale resta però anche in questo caso l’ubi consistam dell’abuso del diritto. Se si privilegia la c.d. teoria soggettiva (18), si reputa consistere in una decisione presa ‘‘contro il proprio intimo convincimento’’, il che, a parte le notevoli difficoltà probatorie, dovute allo scivolamento nel Gesinnungsstrafrecht, incontra un sicuro limite nelle decisioni collegiali, ove il singolo si può veder costretto, ovviamente in modo del tutto lecito, a dover assumere una decisione presa anche contro la propria intima convinzione. Ecco perché appare decisamente da preferire un’interpretazione oggettiva, in base alla quale la (15) Sul punto, SCHMIDT SPEICHER, op. cit., p. 34, con ivi ulteriori citazioni, cui, per maggiori approfondimenti, si rinvia. (16) Cfr. Il Codice penale tedesco, intr. di JESCHECK, tr. di DE SIMONE-FOFFANI-FORNASARI-SFORZI, Padova, 1994, pp. 316-317. Lo ‘‘spostamento’’ dall’originaria collocazione, nel § 336, al § 339, è dovuto alla sesta legge di riforma del diritto penale, del 31 gennaio 1998, che ha per il resto lasciata inalterata la struttura della norma; sulla riforma, in generale, KRESS, Das Sechste Gesetz zur Reform des Strafrechts, in NJW, 1998, p. 634 ss. (17) Sul punto, WAGNER, Amtsverbrechen, Berlin, 1975, p. 195 ss., con particolare riguardo, com’è, del resto, intuibile, all’abuso del diritto commesso dal giudice, con ivi ulteriori riferimenti bbibliografici. (18) In argomento, diffusamente WAGNER, op. cit., p. 197 ss.
— 1207 — ‘‘Rechtsbeugung’’ si realizzerebbe mediante: a) la falsificazione dello stato delle cose; b) la non applicazione o la falsa applicazione del diritto, inteso quest’ultimo sia in senso formale, che persino materiale ; c) oppure, infine, l’abuso nella commisurazione (19). Quid iuris, tuttavia, nell’ipotesi in cui sussista una pluralità d’interpretazioni? Qui la teoria oggettiva mostra tutto il suo limite, per cui, per evitare quella che a ragione Rudolphi ha definito la ‘‘capitolazione’’ della norma (20), si è costretti a ricorrere di nuovo alla teoria soggettiva, nel senso che costituirà abuso del diritto l’aver scelto una delle interpretazioni possibili, ma contro il proprio intimo convincimento. Le conseguenti, inevitabili difficoltà probatorie danno quindi ragione della ben scarsa applicazione della norma, nel corso del tempo: si contano, infatti, solo 4 pronuncie del Reichsgericht e, sino almeno ai primi anni ’80, 8 del Bundesgerichtshof (21), ma la situazione, in questi ultimi tempi, non pare aver dato luogo a significativi cambiamenti (22). Ciò potrebbe allora spiegare il perché si era ritenuto necessario proporre, nel Progetto governativo E 62 (§ 455), l’ampliamento della norma sino a ricomprendere ogni pubblico agente, ma costruendo la fattispecie più sul modello dell’abuso d’ufficio (23), evidentemente pure allo scopo di progettare una tutela più ampia, tale, nel contempo, da ‘‘rivitalizzare’’ un settore oggetto di ben scarse applicazioni giurisprudenziali; la proposta, tuttavia, fors’anche a causa del ‘‘peso’’ della tradizione storica, non fu accolta. Da ultimo, va rilevato che pure il ‘‘pendant’’, per gli organi dell’accusa, dell’abuso del diritto, ovverosia la fattispecie relativa alla ‘‘persecuzione di soggetti incolpevoli’’, di cui al § 344 StGB, si è rivelata di assai scarso interesse, sia da un punto di vista teorico, che paratico, se si eccettua il problema dei rapporti, indubbiamente non semplici, con la fattispecie ‘‘madre’’ (24). Anche il codice penale danese, entrato in vigore il 15 aprile 1930 e più volte riformato, contiene, fra i reati del pubblico ufficio, una fattispecie di abuso del diritto (§ 146) molto simile a quella tedesca, giacché riguarda sia i giudici che gli altri pubblici ufficiali, che devono decidere una questione giuridica che riguarda i privati. La condotta criminosa è quindi anche in questo caso di difficile delimitazione, in quanto consiste nella (19) Sul punto, soprattutto RUDOLPHI, Zum Wesen der Rechtsbeugung, in ZStW, 82, 1970, p. 610 ss. (20) RUDOLPHI, op. cit., p. 614 ss. (21) Menzionate in SCHMIDT SPEICHER, op. cit., p. 11. (22) V. più di recente sul tema OLG Duesseldorf, in NJW, 1990, p. 1347 ss.; nonché, per un esaustivo quadro d’insieme, CRAMER, sub § 336, in SCHOENKE-SCHROEDER, StGB Kommentar, 25. Aufl., Muenchen, 1997, p. 2279 ss. (23) In argomento, SEEBODE, Das Verbrechen der Rechtsbeugung, Neuwied und Berlin, 1969, p. 128 ss. (24) Sul tema, di recente, GEILEN, Rechtsbeugung durch Verfolgung — § 344 StGB im Spiegel eines Fehlurteils, in Festschrift fuer H.J. Hirsch, Berlin, 1999, p. 507 ss.
— 1208 — ‘‘commissione di un’ingiustizia’’ nella decisione o nella trattazione della questione. La pena è assai elevata, in quanto può giungere fino a sei anni di reclusione, nell’ipotesi-base, mentre in quella aggravata, che si verifica se la condotta ha cagionato a qualcuno la perdita dell’‘‘esistenza economica’’, oppure se il fatto era intenzionale, aumenta da tre a ben 16 anni (25). Va comunque rimarcato pure l’uso del dolo intenzionale, seppure a livello di aggravante, che appare così costituire un’interessante analogia con la nuova normativa italiana. 3. L’altro modello, seguito invece nei codici penali svizzero ed austriaco, è quello del ricorso ad una fattispecie più generale, di abuso d’ufficio, che quindi avvicina maggiormente tali esperienze a quella nostrana. Il codice austriaco, del 23 gennaio 1974, anch’esso più volte riformato, contiene, nell’ambito del Capo attinente alle ‘‘Violazioni penalmente rilevanti dei doveri d’ufficio’’, due fattispecie, l’una di carattere doloso, sull’‘‘abuso del potere d’ufficio’’ (§ 302), e l’altra, avente ad oggetto la ‘‘violazione colposa della libertà della persona o del suo diritto di abitazione’’ (§ 303). La prima di esse incrimina l’abuso consapevole, commesso da un pubblico agente nel trattare una questione d’ufficio in esecuzione della legge, in nome dello Stato, di una provincia, di una comunità o come organo di un’altra persona giuridica di diritto pubblico, e lo punisce con la pena della reclusione da sei mesi a cinque anni. Se poi il fatto risulta commesso nella gestione di una questione d’ufficio con una potenza straniera, oppure con una organizzazione sovranazionale, od, infine, ha causato un danno superiore a 500.000 scellini, la pena è da uno a dieci anni di reclusione. Con la seconda, invece, si punisce il pubblico agente che colposamente danneggia un altro soggetto nei suoi diritti, mediante un’illecita lesione o privazione della libertà personale, oppure una illegittima perquisizione domiciliare. La pena è della reclusione sino a tre mesi, oppure la multa fino a 180 tassi giornalieri. La norma di cui al § 302 costituisce dunque la classica ipotesi d’abuso d’ufficio, giacché non si limita, come nel c.p. tedesco, ad incriminare la decisione contra ius. Appare peraltro notevole la specificazione delle varie tipologie di soggetti attivi, che infatti possono appartenere sia alla giurisdizione, che all’amministrazione (26), mentre resta di nuovo indeterminato il concetto di abuso, che i commentatori cercano di chiarire argomentando che l’atto deve essenzialmente porsi in contrasto con il ‘‘diritto materiale’’, e ciò anche nella (25) Cfr. Das daenische Strafgesetz-Straffeloven (Deutsche Uebersetzung und Einfuehrung von CORNILS und GREVE), Freiburg i. Br., 1997, p. 93. (26) Sul punto, BERTEL-SCHWAIGHOFER, Oesterreichisches Strafrecht-Besonderer Teil II (§§ 169 bis 321 StGB), 2. Aufl., Wien, 1994, p. 219.
— 1209 — fase procedimentale, nonché con l’esame di taluni casi concreti (27). D’altro canto, non sembra aiutare più di tanto né il ben noto termine ‘‘wissentlich’’, che, riferito all’abuso, viene inteso nel senso che il soggetto attivo deve essere consapevole che la sua condotta, la quale può anche essere di tipo omissivo, non è ‘‘giuridicamente difendibile’’ (28), né il dolo specifico di danneggiare, il quale invece contrassegna il solito arretramento della linea di consumazione del reato, quantomeno nella sua ipotesi-base, a livello del pericolo (29). La dimensione lesiva dei diritti individuali, che pur riemerge nell’ipotesi aggravata, sembra così cedere il passo alla prevalenza dell’interesse pubblicistico. Piuttosto, va anche qui rimarcato l’intento del legislatore di arricchire il dolo, evidentemente non soltanto per distinguere il fatto criminoso dal mero illecito disciplinare, ma anche quasi per ‘‘bilanciare’’ a livello di colpevolezza l’indeterminata condotta d’abuso. Riemerge invece la dimensione lesiva dei diritti dei singoli nella ipotesi speciale, di cui al successivo § 303, classico esempio di prevaricazione, seppure di carattere colposo, che ci riporta al modello ottocentesco dell’abuso di autorità e che, infine, può trovare qualche analogia con gli artt. 607, 608 e 609 del cp.italiano. Anche il codice penale svizzero, entrato in vigore il 21 dicembre 1937, contiene due norme, i §§ 312 e 314, assai interessanti ai nostri fini, giacché la prima incrimina l’abuso d’ufficio mediante una fattispecie che ricorda molto da vicino il nostro abuso innominato, mentre la seconda prevede la ‘‘gestione infedele di un pubblico ufficio’’, che a sua volta assomiglia molto al nostro interesse privato. Il § 312 punisce infatti il pubblico ufficiale o impiegato che abusa del suo ufficio ‘‘al fine di procurare a sè o ad altri un ingiusto vantaggio, oppure di cagionare ad altri un danno’’, con la reclusione sino a cinque anni. Il § 314, invece, punisce il pubblico agente che nella gestione di una questione giuridica a lui affidata, danneggia gl’interessi pubblici, ‘‘al fine di procurare a sè o ad altri un ingiusto vantaggio’’, ma con una pena sorprendentemente più bassa, perché è sino a tre anni di reclusione. (27) Ancora BERTEL-SCHWAIGHOFER, op. cit., p. 220 ss. (28) Testualmente, BERTEL-SCHWAIGHOFER, op. cit., p. 225 ; va comunque ricordato che il termine in questione possiede anche interessanti ascendenze storiche, se si pone mente, ad es., alla formulazione della fattispecie relativa alla ‘‘violazione del diritto’’, contenuta nel Progetto per un codice penale tedesco del 1921 (tr. it. di RATIGLIA), Palermo, 1923, p. 69, elaborato da JOEL, EBERMAHER, GORMANN e BUMKE, che così disponeva: ‘‘Un giudice o un arbitro che, nell’intento di favorire o danneggiare una delle parti, nella direzione della causa o nella sentenza che vi pone fine, viola deliberatamente il diritto, è punito con la reclusione’’, la quale, anzi, si avvicina maggiormente a quella utilizzata da noi con la riforma del ’97. (29) Non è infatti necessario che nell’ipotesi-base si verifichi anche il danno: così FOREGGER-KODEK-FABRIZY, StGB Kurzkommentar, 6. Aufl., Wien, 1997, p. 673 ss.
— 1210 — Non è un caso, quindi, che la dottrina più attenta alle esigenze di garanzia giustamente stigmatizzzi il modo altamente indeterminato di descrizione di entrambe le fattispecie, ove infatti manca una chiara linea d’interpretazione, che, fra l’altro, non giustifica una pena così elevata (30). In conclusione, da entrambi i modelli sin qui esaminati emergono sia vantaggi che svantaggi. I vantaggi di una fattispecie generale di abuso d’ufficio sono nel senso di poter ricomprendere tutte le possibili forme di uso illecito dell’ufficio, il che comporta però sempre il pericolo per la certezza del diritto, nonché il rischio di trattare allo stesso modo casi gravi e casi meno gravi, ove quindi, in ultima analisi, molto è lasciato alla discrezionalità del giudice. Il modello, invece, delle fattispecie più specifiche consente di proteggere meglio il senso di sicurezza dei cittadini, ma rischia, al contempo, di lasciare scoperte talune, pericolose lacune (31). Va, tuttavia, aggiunto che anche con questo secondo modello non può dirsi del tutto rispettato il principio di precisione, giacché resta il nodo della condotta criminosa, laddove il tentativo di fornire un contenuto determinato al concetto di abuso del diritto, ricorrendo alla teoria oggettiva o a quella soggettiva, o, infine, ad entrambe, non può ritenersi coronato da successo. 4. Il nuovo codice penale francese, entrato in vigore il 1o marzo 1994, si fonda in materia sulle due fattispecie-base, mutuate dalla tradizione risalente al codice Napoleone (32), dell’abuso di autorità, nelle sue due forme, contro l’Amministrazione e contro i singoli, e della presa illegale d’interesse, arricchite, però, da ulteriori ipotesi criminose, che rendono il quadro particolarmente ricco (33). Iniziando ovviamente dall’abuso di autorità, oggetto principale della nostra analisi, la sua prima forma, cioè quella in cui l’abuso è diretto contro l’Amministrazione (art. 432-1), è incentrata sul fatto del pubblico agente che, nell’esercizio delle sue funzioni, prende misure destinate, letteralmente, a ‘‘fare scacco’’ all’esecuzione della legge; se, poi, si è raggiunto l’effetto, la pena è raddoppiata (art. 432-2). La prima Sezione del Capitolo II, sui reati dei p.u. contro la P.A., termina con una fattispecie con cui s’incrimina il pubblico agente che continua ad operare nonostante sia stato ufficialmente informato della cessazione delle sue funzioni (art. (30) In tal senso, STRATENWERTH, Schweizerisches Strafrecht, Bes. Teil II: Straftaten gegen Gemeininteressen, 4. Aufl., Bern, 1995, p. 331 ss.; su tali fattispecie v. anche REHBERG, Strafrecht IV — Delikte gegen die Allgemeinheit, 2. Aufl., Zuerich, 1996, p. 395 ss. (31) Analogamente, SCHMIDT SPEICHER, op. cit., p. 120-121. (32) Su cui v. supra, § 1. (33) Cfr. Das franzoesische Strafgesetzbuch — Code pénal (Deutsche Uebersetzung von BAUKNECHT und LUEDICKE — Einfuehrung von H. JUNG), Freiburg i. Br., 1999, p. 242 ss.
— 1211 — 432-3). La seconda forma, ovverosia l’abuso di autorità contro i singoli, è oggetto della seconda Sezione, che contiene varie ipotesi di prevaricazione, cioè di attentati alla libertà individuale (artt. 432-4; 432-5; 432-6), all’inviolabilità del domicilio (art. 432-8), al segreto della corrispondenza (art. 432-9), sulla falsariga, quindi, degli artt. 607 ss. del c.p. italiano, ma inseriti fra i reati contro la P.A., ed inoltre un’interessante fattispecie di discriminazione, commessa dal pubblico agente (art. 432-7, che rinvia, per il relativo concetto, al precedente art. 225-1). Più in particolare, quanto alle caratteristiche della condotta d’abuso, essa viene descritta dal legislatore o ricorrendo alla nozione di ‘‘atto arbitrario’’ (es., art. 432-4), oppure di atto commesso ‘‘contro la volontà della persona’’, ovvero ‘‘fuori dai casi consentiti dalla legge’’ (es., art. 432-8). Quanto alla presa illegale d’interessi, è inserita nella terza Sezione e prevista nell’art. 432-12. Trattasi di una fattispecie che incrimina essenzialmente lo sfruttamento privato dell’ufficio, per cui le analogie con il nostro pre-vigente art. 324 c.p. sono evidenti, pur se la disposizione risulta più ricca. La presa d’interesse è infatti collegata ad un’operazione di cui il pubblico agente ha l’incarico della sorveglianza, dell’amministrazione, della liquidazione o del pagamento. È prevista, però, molto opportunamente, una causa di liceità per i funzionari dei piccoli comuni (34), per affari comunque assai limitati. Vanno infine menzionate due ulteriori figure criminose, l’una assai interessante ed innovativa, in quanto ha ad oggetto ‘‘gli attentati alla libertà di accesso ed all’eguaglianza dei candidati nei pubblici mercati e nelle deleghe dei servizi pubblici’’ (art. 432-14) e costituisce una chiara ipotesi di ‘‘favoritismo" (35), mentre l’altra riguarda la ‘‘sottrazione e la distrazione dei beni’’ (artt. 432-15; 432-16), molto simile ai nostri delitti di peculato e malversazione, come si presentavano prima della riforma del ’90. Quanto al loro impatto sulla pratica, va rilevato che sia l’abuso di autorità contro l’Amministrazione, che la presa illegale d’interessi risultano di rara applicazione (36), per cui manca una sedimentazione interpretativa soprattutto sul contenuto delle rispettive condotte. Va comunque osservato che, per quanto riguarda la seconda forma di abuso, cioè quella contro i cittadini, il carattere arbitrario dell’atto viene alquanto stranamente inteso come integrante l’elemento intenzionale (37), mentre, circa (34) In argomento, VERON, Droit pénal spécial, 6o, Paris, 1998, p. 285 ss. (35) Così anche la considerano J. LARGUIER-A.M. LARGUIER, Droit pénal spécial, 10o, Paris, 1998, p. 278. (36) Del primo viene menzionato come significativo un precedente addirittura assai risalente, ovverosia T. Corr. de la Seine, 4 décembre 1934, in DP, 1935.2.57, con nota di WALINE; su entrambi, per tale giudizio, GATTEGNO, Droit pénal spécial, 2o, Paris, 1997, rispettivamente pp. 315 e 323. (37) Così GATTEGNO, op. cit., p. 316; VERON, op. cit., p. 275.
— 1212 — l’estremo dello ‘‘scacco all’esecuzione della legge’’, si osserva soltanto che uno dei casi più frequenti sarebbe costituito dal cessare di esercitare le proprie funzioni e, soprattutto, nel fare sciopero, ovviamente in relazione a quelle ipotesi ove il diritto di sciopero sia interdetto (38). Si riconosce, però, comunque che la formulazione della ‘‘presa illegale d’interesse’’ risulta troppo ampia (39). In questa situazione, ove né la dottrina, né la giurisprudenza sono di grande ausilio nel ricostruire più a fondo i nodi problematici delle condotte d’abuso, può risultare interessante addentrarci su di un terreno finitimo a quello che stiamo trattando, per verificare fin dove possa spingersi il sindacato del giudice penale sull’atto amministrativo. Ciò rileva, beninteso, soprattutto perché il legislatore italiano, con la riforma del ’97, ha voluto — almeno nelle intenzioni — escludere la possibilità che il giudice penale, ex art. 323 c.p., sindachi il vizio dell’eccesso di potere. In Francia al giudice penale si riconoscono in linea di principio gli stessi poteri riservati al giudice amministrativo, tranne la riforma o l’ annullamento dell’atto amministrativo; in particolare, ne è ad entrambi inibita la valutazione di opportunità (40). Quanto ai vizi di legittimità, se ne riconoscono quattro ipotesi principali, ovverosia l’incompetenza, il vizio di forma, la violazione di legge e lo sviamento di potere (détournement de pouvoir). Orbene, mentre non sussistono particolari problemi per i primi tre, va registrata inizialmente qualche resistenza, da parte della giurisprudenza penale, ad occuparsi del quarto, per la ben nota ragione per cui, nella valutazione dei motivi dell’atto, appare ben difficile non addentrarsi anche nell’esame della sua opportunità e, dunque, non ingerirsi nel funzionamento della Pubblica Amministrazione (41). Va tuttavia rilevato che, con la nota sentenza Dame Le Roux, del 1961 (42), i giudici penali hanno superato tali resistenze, ritenendo invece molto chiaramente che l’eccesso di potere integri a pieno titolo un’ipotesi d’illegittimità, giacché, invece di fondare la decisione sulla violazione di legge, si valuta l’uso fatto (38) VERON, op. cit., p. 273. (39) VERON, op. cit., p. 285. (40) In argomento, nella dottrina italiana, per un’efficace ricostruzione della problematica, v., di recente, COCCO, L’atto amministrativo invalido elemento delle fattispecie penali, Cagliari, 1996, p. 186 ss., con ivi ampie citazioni della dottrina e della giurisprudenza francesi. Quanto sopra lo si desume anche da un’importante disposizione contenuta nel nuovo code pénal, cioè dall’art. 111-5, che infatti così stabilisce: ‘‘Les juridictions pénales sont compétentes pour interpréter les actes administratifs, réglementaires ou individuels et pour en apprécier la légalité lorsque, de cet examen, dépend la solution du procès pénal qui leur est soumis’’. (41) Così, da ult., Cass. crim., 20 mars 1980, in Bull. crim., n. 97. (42) Cass. crim. 21 décembre 1961, Dame Le Roux, in D., 1962, p. 102; nonché in J.C.P., 1962, II, p. 12680, con nota di LAMARQUE.
— 1213 — dal pubblico agente dei suoi poteri che ‘‘n’est pas conforme au but en vue duquel ils lui sont conférés’’ (43). A tale sentenza ne è poi seguita un’altra, che appare aver completato il procedimento di assimilazione dei vizi che integrano l’eccesso di potere con quelli di legittimità: trattasi della decisione Dame Montorio, del 1987 (44), con cui la Camera criminale attribuisce per la prima volta rilievo anche all’errore evidente di valutazione (erreur manifeste d’appréciation), cioè ‘‘une erreur grossière, grave, voire flagrante que commet un administrateur dans l’appréciation des faits qui motivent sa décision’’ (45). Se, dunque, si può registrare in Francia una chiara tendenza a riconoscere al giudice penale sempre maggiori poteri di controllo sugli atti amministrativi, non può poi stupire se, nel campo finitimo in cui si tratta invece di valutare l’atto come oggetto di abuso penalmente rilevante, le relative fattispecie risultino ‘‘a maglie larghe’’, come abbiamo cercato di evidenziare sinora. Ciò non toglie, tuttavia, che anche oltralpe i due campi di materia restino distinti, giacché, mentre nei delitti di abuso il giudice penale giudica la condotta del pubblico agente, che può anche, ma non necessariamente, sfociare in un atto amministrativo, nell’ambito del sindacato sugli atti amministrativi il giudice penale controlla le fonti legali e regolamentari della fattispecie (46). In questa prospettiva, la riforma del ’97 dell’art. 323 c.p. non può quindi non integrare una significativa eccezione, giacché per la (43) Sulla sentenza, v. ampiamente COCCO, op. cit., p. 164 ss.; p. 197 ss., cui si rinvia anche per gli ulteriori approfondimenti bibliografici. (44) Cass. crim. 21 octobre 1987, Dame Montorio, in Rev. sc. crim., 1988, p. 516, con nota di DELMAS SAINT HILAIRE; su di essa, COCCO, op. cit., p. 199 ss. (45) In tal senso, fra i penalisti, PRADEL, Droit pénal, I, Introduction générale, Droit pénal général, 9o, Paris, 1994, p. 283. (46) Nella dottrina italiana, chiarisce molto bene la distinzione tra il sindacato sugli atti e quello sulla attività della P.A., il quale ultimo — oggetto precipuo della nostra analisi — riguarda il ‘‘controllo, da parte del giudice, al fine di stabilire se il pubblico agente ha realizzato, compiendo (o non compiendo) quegli atti, il modello tipico di un fatto descritto — come criminoso — da una norma penale’’, CONTENTO, Il sindacato del giudice penale sugli atti e sulle attività della pubblica amministrazione, in STILE (a cura di), La riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, Napoli, 1987, p. 79 ss. ; analogamente, STORTONI, L’abuso di potere nel diritto penale, Milano, 1976, p. 227 ss., e, spec, p. 228. Tanto ciò è vero che lo stesso CONTENTO, Giudice penale e Pubblica Amministrazione, Bari, 1979, p. 116117, ebbe in altra sede ad affermare ‘‘che non possa essere posto alcun limite a priori per il giudice penale (...) in tutti quei casi in cui il c.d. ‘sindacato’ sulla legittimità degli atti non rileva ai fini della disapplicazione incidentale dei medesimi, ma rappresenta l’oggetto primario ed immediato della sua attività, o, per meglio dire, della sua funzione, in quanto si risolva nell’accertamento degli elementi specificamente enunciati dalla descrizione della fattispecie’’, per cui (124) ‘‘ne deriva la duplice conseguenza dell’ampliamento del c.d. ‘sindacato’ del giudice penale anche al ‘merito’ dell’atto amministrativo posto in essere, da un canto; e della sua possibile esclusione, invece, in relazione a talune ipotesi di mera ‘violazione di legge’, dall’altro’’.
— 1214 — prima volta i due piani s’intersecano e, a nostro giudizio, pericolosamente si confondono (47). Quanto poi al codice penale belga, promulgato, nella sua originaria formulazione, nel lontano 8 giugno 1867, anch’esso distingue in materia fra abuso d’autorità contro la P.A. (artt. 254-255-256) e abuso d’autorità contro i singoli (artt. 257-258-259), al quale ultimo si sono aggiunte di recente ulteriori ipotesi specifiche di prevaricazione, aventi ad oggetto la captazione e la registrazione di comunicazioni e di telecomunicazioni private (art. 259 bis) (48), che ricordano i nostri artt. 617 ss c.p., che sono invece collocati nell’ambito dell’inviolabilità dei segreti. Va tuttavia rilevato che la prima forma d’abuso differisce da quella esistente nel c.p. francese, giacché la condotta risulta assai più specifica, incriminandosi il pubblico funzionario che ordina l’impiego della forza pubblica contro l’esecuzione di una legge o di un decreto reale, oppure contro la percezione di un’imposta legalmente stabilita, oppure, infine, avverso l’esecuzione di un’ordinanza o di un mandato di un giudice o di un’altro ordine emanato dall’Autorità. Risalta quindi in tal modo particolarmente l’atto di ribellione del pubblico agente e quindi, sostanzialmente, la sua infedeltà. Quanto, poi, all’altra forma di abuso, si registra l’utilizzazione, anziché del termine ‘‘atto arbitrario’’, di quello, invero assai simile, ‘‘senza un motivo legittimo’’. Circa, infine, le ulteriori ipotesi di prevaricazione, va segnalata l’utilizzazione massiva dei termini ‘‘intenzionalmente’’ e ‘‘scientemente’’, che servono così a connotare e, soprattutto, a delimitare il dolo. 5. A) Il nuovo codice penale spagnolo, del 24 novembre 1995, ha in primo luogo innovato profondamente la stessa configurazione dei delitti dei funzionari pubblici, non più incentrati, come nel c.p. abrogato (49), sulla fedeltà alla funzione ed alla gerarchia, bensì sulla ben diversa concezione per cui la pubblica funzione è intesa al servizio della cittadinanza (50), tanto che gli stessi assumono una nuova rubrica, come delitti contro la Pubblica Amministrazione (51). Quanto poi al delitto di (47) Così anche PICOTTI, Sulla riforma dell’abuso d’ufficio, in RTDPE, 1997, p. 283 ss., e, quivi, p. 291 ss.; ID., Continua il dibattito sull’abuso d’ufficio, in Diritto penale e processo, 1997, p. 347 ss., e, spec., p. 349 ss. (48) Cfr. Code pénal, par TULKENS-BERNAERT, Bruxelles-Antwerpen, 1995, p. 72-73. (49) Ove, infatti, il Titolo VII conteneva la generica, ma, a questo proposito, significativa formulazione ‘‘Dei delitti dei funzionari pubblici nell’esercizio delle loro funzioni’’: cfr. Còdigo penal (nel testo riformulato nel 1973, secondo la legge n. 44 del 15 novembre 1971), Madrid, 1983, p. 177 ss. (50) Così QUINTERO OLIVARES, Il codice penale spagnolo del 24 novembre 1995, in Il Codice penale spagnolo (intr. di QUINTERO OLIVARES, tr. di NARONTE), Padova, 1997, p. 1 ss., e, quivi, p. 34-35. (51) Cfr. il Titolo XIX, in Il codice penale spagnolo, cit., p. 251 ss.
— 1215 — prevaricazione (art. 404), che costituisce, in un certo senso, l’omologo del nostro abuso d’ufficio, ha subìto alcune modifiche, quali la sostituzione dell’appellativo ‘‘ingiusta’’ con quello di ‘‘arbitraria’’ al termine ‘‘decisione’’, l’eliminazione della fattispecie colposa, nonché l’introduzione di una nuova ipotesi criminosa, prevista nei successivi artt. 405 e 406, avente ad oggetto una classica ipotesi di favoritismo, giacché consiste nell’inserimento in un incarico pubblico di un soggetto che non possiede i requisiti richiesti, per la quale sono puniti sia il pubblico funzionario, che il privato che accetta la proposta o la nomina. L’ipotesi c.d. base di prevaricazione — cui è aggiunta, fra i delitti contro l’amministrazione della giustizia, un’ipotesi speciale (art. 446), che riguarda i giudici e, più in generale, i magistrati, sia dolosa, che (art. 447) colposa — risulta, quindi, così costruita: ‘‘L’autorità o funzionario pubblico che, conoscendone l’ingiustizia, emette una decisione arbitraria in un atto amministrativo, è punito con la pena dell’inabilitazione speciale al pubblico impiego o incarico, da sette a dieci anni’’. Nella più grave delle forme di prevaricazione ‘‘giudiziaria’’ dolosa (52), si aggiungono anche le pene della reclusione e della multa. La dottrina spagnola che se ne è occupata funditus, rileva in primo luogo la bontà della scelta, operata dal nuovo codice, di limitare la prevaricazione ‘‘amministrativa’’ all’ipotesi dolosa, giacché consente di scindere più nettamente che in passato la tutela penale da quella più propriamente di natura disciplinare (53), evidentemente anche in ossequio al canone dell’extrema ratio, pur se questa prospettiva non vale per la prevaricazione ‘‘giudiziaria’’, ritenuta più grave, in quanto riguardante i giudici e, quindi, meritevole di un intervento penale più ad ampio spettro. Il delitto di prevaricazione, essendo incentrato sulla ‘‘decisione arbitraria’’, risulta soprattutto assai simile alla ‘‘Rechtsbeugung’’ del codice penale tedesco, tanto è vero che, per determinare il concetto di ‘‘ingiustizia’’, o l’omologo, attuale, di ‘‘arbitrarietà’’, sia la dottrina, che la giurisprudenza spagnole ricorrono o alla c.d. teoria soggettiva, oppure a quella oggettiva (54), oppure ad una ‘‘sintesi’’ fra le due, com’è avvenuto, a metà degli anni ottanta, nel famoso ‘‘caso Bardelino’’ (55). Il Tribunal Supremo in tale sen(52) Cioè quella, prevista nel n. 1 dell’art. 446, avente ad oggetto una sentenza ingiusta contro l’imputato di un delitto, anziché di una contravvenzione, invece disciplinata nel n. 2. (53) GONZALEZ CUSSAC, El delito de prevaricaciòn de funcionario pùblico, Valencia, 1994, spec. p. 26 ss. e 140.; su tale fattispecie, v. altresì, seppur meno di recente, OCTAVIO DE TOLEDO Y UBIEDO, La prevaricaciòn de funcionario pùblico, Madrid, 1979, spec. p. 317 ss., che infatti, sotto il vigore della precedente normativa, già sottolineava come la stessa ricostruzione del bene giuridico non dovesse condurre ad un’accezione formalistica, tale cioè da implicare che qualsiasi infrazione dello stesso comportasse una responsabilità penale. (54) In argomento, GONZALEZ CUSSAC, op. cit., p. 50 ss., con ivi ulteriori riferimenti bibliografici, cui pertanto anche si rinvia. (55) S.T.S. de 3 mayo 1986 (R.A. 4666).
— 1216 — tenza ha infatti affermato che concorrono due elementi per la definizione legale della prevaricazione, l’uno di carattere oggettivo, costituito dalla ingiustizia intrinseca della decisione adottata, e l’altro, di indole soggettiva, integrato dalla coscienza e volontà deliberata ‘‘de quien lo dicta de faltar a la justicia quebrantando la ley’’. Si aggiunge altresì, quanto al primo elemento, che la decisione sarà da considerarsi ingiusta quando sarà ‘‘manifestamente contraria alla legge’’ (56), oppure quando produrrà ‘‘lesiòn del Derecho’’. Vi è dunque in tale asserto una chiara apertura alla c.d. illegittimità sostanziale, che infatti verrà puntualmente ripresa in relazione al vero nodo problematico dell’intiera questione dell’abuso, ovverosia gli atti discrezionali. In relazione ad essi la dottrina spagnola, che si riferisce espressamente ai cinque gradi differenti di illegalità amministrativa, ivi elaborati dai cultori del diritto amministrativo, non si accontenta soltanto della illegittimità formale, bensì ritiene che la nozione di arbitrarietà debba essere completata con quella di ‘‘desviaciòn de poder’’, che si verifica quando la decisione si colloca fuori dall’ordinamento giuridico, in quanto persegue fini da quest’ultimo non contemplati (57). Sulla stessa falsariga si pone anche uno dei massimi esponenti del diritto penale spagnolo, quale Muñoz Conde, il quale ha nel contempo però cura di rilevare come lo stesso significato linguistico di ‘‘prevaricazione’’ risulti eccessivamente vago (58). Ciò dimostra, quindi, come sia possibile ormai tracciare una correlazione biunivoca fra estensione della cornice della fattispecie, conseguente ampliamento dei poteri del giudice penale e relativa ‘‘preoccupazione’’ per la tenuta del principio di legalità, sotto il profilo della determinatezza e della conseguenziale certezza del diritto. L’ipotesi criminosa in discorso contiene tuttavia ulteriori profili d’interesse, da un punto di vista comparatistico. Il primo attiene alla colpevolezza, in quanto il requisito della coscienza dell’ingiustizia della decisione non appare ancora sufficiente ad escludere categoricamente il ricorso al dolo eventuale, ammesso infatti da taluno (59), ma negato invece da altri (60). (56) L’equivalenza fra ‘‘arbitrarietà’’ e ‘‘illegittimità manifesta’’ è invece sostenuta da SERRANO GOMEZ, Derecho penal, Parte especial, 2o, Madrid, 1997, p. 685, con ivi riferimenti anche giurisprudenziali, con chiare finalità limitative dell’intervento penale, che sembra rieccheggiare quanto allo stesso fine sostenuto in Italia da CONTENTO, Giudice penale e pubblica amministrazione, dopo la riforma, in Atti del I Congresso nazionale di diritto penale, etc., cit., p. 3 ss. (57) GONZALEZ CUSSAC, op. cit., p. 66-67; anche OCTAVIO DE TOLEDO Y UBIEDO, op. cit., p. 378 ss., ritiene che il concetto di ingiustizia richieda qualcosa di più della illegalità. (58) MUÑOZ CONDE, Derecho penal, Parte especial, 11o, Valencia, 1996, p. 835-837. (59) Ad es., da GONZALEZ CUSSAC, op. cit., p. 102 ss., utilizzando, non a caso, il rilievo per cui il legislatore non ha utilizzato, come in altri casi, i termini ‘‘di proposito’’ o ‘‘intenzionalmente’’. (60) Ad es., da GARCIA ARAN, La Prevaricaciòn judicial, Madrid, 1990, p. 124 ss., ar-
— 1217 — Il secondo attiene alla sanzione: nella prevaricazione ‘‘amministrativa’’ ed, in parte, anche in quella ‘‘giudiziaria’’, infatti, il legislatore, come si è potuto constatare, utilizza una sanzione interdittiva, notoriamente rientrante fra le pene accessorie, come pena principale. Se ciò è, da un lato, da salutare con favore, perché la scelta si allinea al movimento internazionale di riforma nel campo delle sanzioni (61), che tende giustamente a ridurre quanto più possibile il ruolo della pena detentiva, intesa quest’ultima quale extrema ratio (62), dall’altro ha fatto però sorgere non pochi problemi nel caso del concorso dell’extraneus nel reato dell’intraneus. Posto, infatti, che la sanzione prevista dalle norme incriminatrici in questione è ‘‘l’inabilitazione speciale al pubblico impiego o incarico’’, che, come tale, non può non riguardare il pubblico agente, la soluzione da taluno caldeggiata per il concorrente extraneus (63), ovverosia l’inabilitazione dalla professione o ufficio, se hanno influito sulla commissione del reato, oppure, in mancanza, il divieto di esercitare un incarico pubblico analogo (64), ovvero, infine, la privazione del diritto di suffragio (65), pur se basata sull’art. 39 del c.p. spagnolo, che disciplina le pene privative di diritti, come pene principali, fra le quali, così ampiamente caratterizzata, pure l’inabilitazione speciale, nonché su di un evidente criterio di equanimità, rischia tuttavia di violare il principio di legalità. La tesi in oggetto conduce, infatti, ad applicare all’extraneus una pena non prevista dalla norma incriminatrice della prevaricaciòn, il che dovrebbe comunque far riflettere in ordine alla prospettiva, per il resto da salutare senz’altro con favore, di utilizzazione delle sanzioni interdittive come pene principali (66). Sarebbe tuttavia fallace l’immagine del c.p. spagnolo, se, in materia, gomentando, non senza fondamento, che l’ammissione del dolo eventuale nella prevaricazione sarebbe paragonabile ad un ‘‘gatto che si morde la coda’’, giacché la specificità della materia obbliga a ridurre il dolo eventuale ai casi di ingiustizia manifesta e, se è così, delle due l’una: o il giudice ne è cosciente e, per tanto, agisce con dolo diretto, o non se ne rende conto, ed allora agisce con imprudenza o ignoranza inescusabile. (61) Va infatti ricordato che, ad es., in Francia già con la l. 11 luglio 1975 era stata prevista la possibilità che il giudice infligga a titolo principale pene c.d. complementari: in argomento, PADOVANI, Evoluzione storica ed aspetti di diritto comparato nelle misure alternative, in Cass. pen., 1979, p. 492 ss. (62) Per analoghe considerazioni anche MANES, L’abuso d’ufficio nel nuovo codice penale spagnolo, in Diritto penale e processo, 1998, p. 1441 ss., e, quivi, p. 1445. (63) In particolare, da GONZALEZ CUSSAC, op. cit., p. 135. (64) Contro tale possibilità, tuttavia, OCTAVIO DE TOLEDO Y UBIEDO, op. cit., p. 428429. (65) Così LLORCA OTREGA, Manual de determinaciòn de la pena, 2o, Valencia, 1988, p. 123. (66) Questo problema potrebbe dunque in teoria presentarsi pure in relazione al c.d. Progetto Grosso di nuovo codice penale, limitato sinora alla parte generale, ma ormai pervenuto alla fase dell’articolato, giacché utilizza le sanzioni interdittive anche come pene principali. Nella materia che qui ci occupa, esso risulta tuttavia risolto ‘‘a monte’’ dall’art. 74,
— 1218 — si limitasse l’analisi alle sole fattispecie di prevaricazione: l’indubbia genericità delle stesse, fra l’altro costruite come reati di pericolo e non, come invece il ‘‘nuovo’’ abuso d’ufficio nel c.p. italiano, di danno (67), è infatti in un certo senso ‘‘bilanciata’’ dalla previsione di numerose, ulteriori ipotesi ‘‘specifiche’’ di abuso, oppure che potrebbero, seppure in parte, ‘‘interessare’’ il nostro art. 323, quali il delitto di ‘‘traffico di influenze’’, le varie figure di malversazione, i delitti di ‘‘frode ed esazioni illegali’’ ed, infine, particolari tipologie d’abuso nell’emissione di pareri e nell’esercizio di attività incompatibili con la funzione (68). Trattasi, nel complesso, di un coacervo numeroso di altre fattispecie, spesso difficilmente riconducibili ad un denominatore comune (69), che può comportare anche notevoli difficoltà nell’individuazione della normativa da applicare al caso concreto, con riferimento al conflitto apparente di norme (70), ma che presenta anche importanti novità, come sicuramente il ‘‘traffico illecito di influenze’’, nonché il merito di non essersi, quantomeno espressamente, affidati a categorie extrapenalistiche, come invece ha, purtroppo, fatto il legislatore italiano con la riforma del ’97. B) Anche il codice penale portoghese del 1982, riformato nel 1995 — ove si è aggiunto, in relazione alla materia che qui ci occupa, il delitto di ‘‘traffico d’influenze’’ (art. 335) (71), costruito, tuttavia, come reato comune — contiene una fattispecie generale di abuso di potere (art. 382), incentrato sulla locuzione dell’ ‘‘abuso dei poteri o della violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione’’ e caratterizzato altresì dal dolo specifico, sia di vantaggio (al fine di ottenere, per sé o per un terzo un illegittimo beneficio), che di danno ( ovvero al fine di cagionare un pregiudizio ad altra persona). Con la riforma del 1995 anche quest’ultima fattispecie ha subìto talune modifiche, quali soprattutto l’inserimento della clausola comma 2, in base al quale ‘‘sono sempre applicate come pene accessorie: a) le pene interdittive temporanee di cui all’art. 51, comma 2, lett. a), b), c), d), o all’art. 52, comma 1, lett. b), nel caso di condanna per reati commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti a un pubblico ufficio o servizio, o a un ufficio direttivo delle persone giuridiche o imprese, o a una professione o mestiere; in ciascuno di tali casi le pene sopra indicate possono essere applicate congiuntamente o disgiuntamente’’. (67) La prospettiva legata al danno era invece presente sia nell’art. 462 del Proyecto del 1980, ove la prevaricazione era punita se aveva causato ‘‘un grave dano a la causa pùblica o a un tercero’’, sia nell’art. 391 della Propuesta del 1983, sia, infine, nell’art. 462 del Proyecto del 1992, entrambi costruiti nello stesso modo: cfr. GONZALEZ CUSSAC, op. cit., p. 137-138. (68) Vedine, nella dottrina italiana, l’interessante disamina effettuata da MANES, op ult. cit., p. 1443 ss. (69) Così anche MUÑOZ CONDE, op. cit., p. 835. (70) MANES, op. ult. cit., p. 1445. (71) Sull’evoluzione storica e le caratteristiche della codificazione penale portoghese, v. DE FIGUEIREDO DIAS, Introduzione, in Il codice penale portoghese (intr. di DE FIGUEIREDO DIAS; tr. di TORRE), Padova, 1997, p. 1 ss., e, per quanto attiene all’art. 335, p. 32.
— 1219 — di sussidiarietà ‘‘fuori dai casi previsti dagli articoli precedenti’’, nonché taluni aggiustamenti in materia di pena (72). Lo stesso de Figueiredo Dias ricorda come il punto di vista della Commissione riformatrice fosse nel senso che l’abuso di potere è un ‘‘delitto d’intenzione’’, che, in quanto tale, giustifica una certa gravità della pena (73). Su analoga falsariga si è del resto posta anche la giurisprudenza, che ha infatti affermato come il delitto in oggetto richieda il dolo specifico, nelle sue due forme, alternative, del vantaggio ingiusto, o del danno, la cui verificazione non è quindi necessaria per l’integrazione del tipo (74). Va infine rilevato che l’indubbia ampiezza della previsione legale è anche dovuta al fatto che la norma in oggetto condensa in un unico precetto condotte che erano invece tipizzate in vari articoli del codice penale pre-vigente, del 1886, in particolare negli artt. 291 a 293, 296, 298 e 299, abrogando al contempo altre che erano previste in altri articoli inseriti nel Capitolo XIII di quel codice (75). Sembra dunque trattarsi di una precisa scelta legislativa, a favore di una fattispecie ampia ed onnicomprensiva, sulla falsariga, per intendersi, di quella operata anche nei c.p. austriaco e svizzero, a differenza di quella adottata, invece (76), nel c.p. tedesco. La configurazione del delitto di abuso di potere, nel codice penale portoghese, anche a causa dell’avvenuto inserimento della clausola di sussidiarietà, risulta, in definitiva, molto simile a quella originaria dell’art. 323, nel c.p. italiano. 6. Fra i codici penali scandinavi, quello norvegese, del 22 maggio 1902, entrato in vigore il 1o gennaio 1905 (77), si può dire che in materia assomigli in parte al codice penale tedesco, ma, soprattutto, a quello spagnolo, giacché nel Capo XI, sui ‘‘Delitti nell’esercizio di funzioni pubbliche’’, contiene in primo luogo una fattispecie ‘‘giudiziaria’’ d’abuso, riguardante i giudici, i giurati ed i consulenti tecnici (§ 110), seguìta da numerose ipotesi ‘‘speciali’’, chiaramente di ‘‘prevaricazione’’, dei pubblici (72) Anteriormente, infatti, nel corrispondente art. 432 del testo dell’ ’82, la pena era della reclusione da tre mesi a tre anni, nonché la multa da 10 a 90 giorni, con il sistema dei tassi giornalieri, mentre attualmente si è eliminata l’indicazione del minimo, per la reclusione e, quanto alla multa, ci si è rifatti ai limiti generali: cfr, per le modifiche apportate con la riforma del ’95, DE OLIVEIRA LEAL HENRIQUES-CARRILHO DE SIMAS SANTOS, Còdigo penal, 2o, Lisboa, 1996, II, p. 1216. (73) Sul punto, DE OLIVEIRA LEAL HENRIQUES-CARRILHO DE SIMAS SANTOS, op. loc. ult. cit. (74) Così, ad es., Ac. S.T.J., de 8 aprile 1987, T.J. n. 29/28, su cui DOMINGOS PIRES ROBALO, Còdigo penal portugues, Lisboa, 1997, p. 581. (75) Sul punto, DE OLIVEIRA LEAL HENRIQUES-CARRILHO DE SIMAS SANTOS, op. loc. ult. cit. (76) V. supra, §§ 2 e 3. (77) Sull’evoluzione storica e le caratteristiche, soprattutto della parte generale, cfr. ANDENAES, Introduzione al codice penale norvegese, in Il codice penale norvegese (intr. di ANDENAES, tr. di RISPO), Padova, 1998, p. 1 ss.
— 1220 — funzionari, in materia di utilizzazione di mezzi illegali per ottenere una deposizione (§115); di perquisizione domiciliare illegittima (§ 116); di esecuzione illegale di una pena privativa della libertà personale (§ 117); di impedimento di una condanna legittima (§ 118); di mancata esecuzione di una pena irrogata (§ 119); di attestazione di falsità (§ 120); rivelazione di segreti (§ 121); ed, infine, di violazione di corrispondenza (§ 122). Esso, a differenza del c.p. tedesco e similmente al c.p. spagnolo, prevede altresì un’ipotesi ‘‘amministrativa’’ d’abuso, di cui al § 123, incentrata, però, sull’ ‘‘abuso di posizione’’ del pubblico funzionario, tale da ‘‘ledere, con il compimento o l’omissione di un atto del proprio ufficio, il diritto di taluno’’. La dimensione lesiva del diritto fa dunque pensare anche qui ad un’ipotesi di prevaricazione. È altresì degno di nota il meccanismo sanzionatorio adottato, giacché la relativa fattispecie è punita alternativamente o con pene pecuniarie, o con l’interdizione dall’ufficio, oppure, infine, con la reclusione fino a sei anni. Se poi il pubblico agente ha agito con il dolo specifico di procurare a sè od altri un indebito profitto, oppure ha dolosamente causato un danno o la violazione di un diritto, il meccanismo sanzionatorio ritorna unitario, giacché è prevista soltanto la reclusione fino a cinque anni. Al confronto, la fattispecie ‘‘giudiziaria’’ di abuso, di cui al precedente § 110, sembra risentire maggiormente del modello della ‘‘Rechtsbeugung’’, giacché la condotta criminosa del giudice, del giurato, o del consulente tecnico consiste nell’ ‘‘agire in mala fede’’ nell’esercizio delle proprie funzioni, che appare simile al caso dell’emissione di una decisione ingiusta, soprattutto se interpretata alla luce della c.d. teoria soggettiva (78). Concludono, infine, il Capo XI, due norme incriminatrici, l’una in cui il pubblico funzionario utilizza illecitamente la sua posizione per indurre un privato a fare, tollerare od omettere alcunché (§ 124) (79) e l’altra in cui lo stesso induce o istiga altro pubblico funzionario a commettere un delitto (§ 125), ove soprattutto la seconda appare integrare un’ipotesi molto simile al ‘‘traffico illecito d’influenze’’ (80), del c.p. spagnolo. Anche nel c.p. sevedese è stata introdotta una fattispecie generale di (78) Su di essa, cfr. supra, § 2. (79) Questa norma risulta molto simile all’art. 365 del codice penale olandese, con cui si punisce, appunto, il pubblico agente che, attraverso l’abuso del suo potere, costringe taluno a fare, tollerare od omettere qualcosa; il c.p. olandese è, peraltro, privo di una fattispecie autonoma di abuso del diritto: cfr. SCHMIDT SPEICHER, op. cit., p. 119. (80) Nel c.p. spagnolo non è però richiesto che il p.u. c.d. ‘‘subornato’’ commetta addirittura un reato, essendo sufficiente che emetta una decisione favorevole al p.u. c.d. ‘‘subornante’’ (cfr. artt. 428-429).
— 1221 — ‘‘abuso d’autorità’’ con la riforma del 1975 (81), mentre esso è privo di una ipotesi criminosa autonoma di ‘‘abuso del diritto’’ (82). Può dunque affermarsi che il sistema penale svedese ha optato per il secondo modello, cioè, appunto, di affidarsi ad una norma incriminatrice onnicomprensiva (83). Quella svedese è divisa in due ‘‘sottofattispecie’’, la dolosa, di cui al Cap. 20, § 1, comma 1; e la colposa — caratterizzata dalla necessità che si tratti in ogni caso di una colpa ‘‘grave’’, anche per distinguerla da un mero illecito disciplinare — prevista invece nel Cap. 20, § 1, comma 2. In entrambi i casi è infine necessario che la condotta d’abuso abbia cagionato un danno od un vantaggio ingiusto — che non possono comunque essere di minima entità — o per la collettività, oppure per un singolo, da cui emerge la natura di reato di danno, per di più con un’interessante clausola, si potrebbe dire, di ‘‘irrilevanza penale del fatto’’, ma in cui sono inopinatamente accomunate l’ipotesi dell’abuso ‘‘a vantaggio’’ con quella ‘‘a danno’’ (84). 7. Affrontiamo ora la disamina, in materia, di alcuni recenti codici penali varati in altrettanti Paesi ex-socialisti, iniziando dal codice penale sloveno del 1995 (85). Esso contiene, al Capo XXVI, i reati contro la Pubblica Amministrazione, che iniziano proprio, all’art. 261, con l’abuso d’ufficio; esso è costruito, nella sua ipotesi-base, sulla falsariga della formulazione originaria del nostro art. 323 c.p., in quanto è caratterizzato dalla condotta di abuso del proprio ufficio, cui però è aggiunta la dizione ‘‘eccede i propri poteri’’, nonché è accomunata anche l’ipotesi di omissione d’atti d’ufficio, tutte caratterizzate dal dolo specifico del vantaggio non patrimoniale, per sè o per altri, oppure del danno a terzi. La pena è aumentata (fino a tre anni di reclusione (86)), laddove si sia cagionato un danno, ma di discreta entità, oppure si sia commessa una grave violazione dei diritti di taluno. L’art. 261 prevede altresì una seconda fattispecie, caratterizzata dallo scopo di procurare a sè o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, che quindi sembra riecheggiare l’ipotesi di abuso con finalità patrimoniali, in(81) Cfr. AGGE-THORNSTEDT, in MEZGER-SCHOENKE-JESCHECK, Das auslaendische Strafrecht der Gegenwart, V. Band, Berlin, 1976, p. 467 ss. (82) Sul punto e, più in generale, sull’abuso d’autorità introdotto nel c.p. svedese, v. anche SCHMIDT SPEICHER, op. cit., p. 120, con ivi ulteriori riferimenti bibliografici. (83) Sui due modelli di legislazione, l’uno caratterizzato da fattispecie specifiche d’abuso e l’altro, invece, da un’ipotesi generale ed onnicomprensiva, v. supra, § 2. (84) Per un’autorevole critica a tale ingiusta equiparazione, seppure in riferimento all’originario art. 323 del c.p. italiano, PEDRAZZI, op. cit., p. 389. (85) Cfr. Il codice penale sloveno (intr. di BAVCON, tr. di FISER-FOLLA-UKMAR), Padova, 1998, spec. p. 235 ss.; in argomento v. anche AA.VV., Il nuovo codice penale sloveno, Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche, 3, Trieste, 2000, p. 3 ss. (86) La pena per l’ipotesi-base è, invece, fino ad un anno di reclusione.
— 1222 — trodotta da noi con la riforma del ’90. Per quest’ultima, salvo che il fatto costituisca reato diverso, la pena sale da tre mesi a cinque anni di reclusione. Anche in relazione a tale seconda fattispecie è prevista una specifica ipotesi aggravata — che sembra quindi seguire il paradigma del reato aggravato dall’evento — laddove si sia acquisito un ingiusto vantaggio patrimoniale di grande entità e l’autore abbia agito ‘‘proprio con l’intenzione’’ di procurarsi tale vantaggio patrimoniale, punita con la reclusione da uno ad otto anni. Come si può quindi agevolmente constatare, anche in altri sistemi penali si è cominciato ad utilizzare la categoria del c.d. dolo intenzionale, che tanto scalpore ha invece suscitato da noi con la riforma del ’97 (87), nonché ipotesi aggravate dai margini alquanto indefiniti. La norma sull’abuso d’ufficio è seguita da altra fattispecie degna di nota, relativa alla c.d. gestione infedele di un pubblico ufficio (art. 262), con la quale si incrimina la violazione consapevole, da parte del pubblico ufficiale, di leggi od altre disposizioni normative, l’omissione dei dovuti controlli o in qualunque altro modo, appunto, la ‘‘gestione manifestamente infedele del proprio ufficio’’, con una forma di colpevolezza si potrebbe definire ai limiti tra il dolo e la colpa, giacché è così costruita: ‘‘pur prevedendo o pur potendo e dovendo prevedere che a causa di tale condotta può derivare una grave violazione dei diritti di taluno o un danno a un bene pubblico oppure un danno materiale’’. Il precetto termina con un inciso ‘‘qualora si realizzino la violazione o il danno di discreta entità’’, che, quantomeno dalla dizione letterale, sembrerebbe prefigurare una condizione obiettiva di punibilità c.d. intrinseca se non, forse meglio, per il rispetto integrale del principio di colpevolezza, l’evento del reato (88). Anche il meccanismo sanzionatorio utilizzato è degno di nota, giacché si punisce alternativamente o con la pena pecuniaria, oppure con la pena detentiva fino ad un anno, segno evidente che quest’ultima non è più considerata l’unica ratio. Degno di menzione è infine anche l’uso descrittivo della condotta nei termini della violazione di leggi o altre disposizioni normative, che presenta interessanti analogie con l’art. 323 c.p., così come riformato nel ’97. Proseguendo nella disamina dei reati in oggetto, che possano avere una qualche attinenza con la tematica che qui ci occupa, va rilevato altresì che il delitto di peculato, previsto dal successivo art. 263, è limitato alla condotta di appropriazione, evidentemente perché quella di distrazione è ricompresa nella forma di abuso con finalità patrimoniale, prevista dal precedente art. 261, comma 3. Il settore in oggetto prevede infine, due chiare ipotesi di ‘‘prevaricazione’’, ovverosia la ‘‘violazione (87) Sia consentito sul punto, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, il rinvio a MANNA, op. cit., p. 27 ss. (88) Nella dottrina italiana, sembrano infatti chiaramente limitare le condizioni obiettive di punibilità alle estrinseche, autorevolmente MARINUCCI-DOLCINI, op. cit., p. 498.
— 1223 — della dignità umana con abuso d’ufficio o dei relativi poteri’’ (art. 270) e l’‘‘estorsione di dichiarazioni’’ (art. 271). Il codice penale croato, di due anni successivo, in quanto approvato con la legge 19 settembre 1997, n. 1668, contiene anch’esso, nel Capo XXV, riguardante i ‘‘reati contro il dovere d’ufficio’’, talune fattispecie d’abuso (89). La prima, prevista dall’art. 337, è quella che a noi interessa più da vicino, in quanto riguarda l’‘‘abuso di posizione e di potere’’. Essa è costruita sulla falsariga della omologa fattispecie esistente nel c.p. sloveno, in quanto la condotta criminosa è descritta non solo con riferimento allo sfruttamento della posizione o del potere del pubblico agente, ma anche con riguardo all’eccesso dei limiti del potere, nonché all’inadempimento del proprio dovere. L’ipotesi-base è caratterizzata altresì dal dolo specifico del profitto non patrimoniale, oppure del danno, che fà chiaramente intendere come si sia di fronte ad un reato di pericolo, in cui anzi appare prevalere — in armonia, del resto, con la intitolazione dello stesso Capo — la violazione del dovere di fedeltà su di una dimensione più propriamente lesiva, che invece caratterizza le ipotesi aggravate, di cui ai successivi commi 2, 3 e 4, in relazione alle quali le disposizioni di cui agli ultimi due commi prefigurano una forma di abuso di carattere patrimoniale. Anche qui va purtroppo rimarcato lo scarso rispetto per il principio di precisione, con riferimento sia alle caratteristiche della condotta di abuso, sia alla descrizione ‘‘quantitativa’’ del profitto e del danno nelle ipotesi aggravate. Questa norma è accompagnata dalle due successive, che in un certo senso completano le ipotesi di abuso, di cui la prima (art. 338) ha ad oggetto: ‘‘l’abuso nell’adempimento dei doveri derivanti da un potere statale’’. La descrizione della condotta criminosa, contassegnata dallo sfruttamento della posizione o del potere, ‘‘favoreggiando in un concorso, concedendo, prendendo o accordando lavori’’, unita al dolo specifico dello ‘‘scopo di procurare un profitto patrimoniale alla sua attività privata o all’attività dei membri della sua famiglia’’, fanno chiaramente intendere come si sia di fronte ad una fattispecie di favoritismo o, comunque, di sfruttamento privato dell’ufficio. La seconda, invece, di cui all’art. 339, che ha ad oggetto il ‘‘lavoro non coscenzioso in servizio’’, è costruita come un reato di danno, ove l’evento è costituito da una ‘‘grave lesione dei diritti altrui’’ oppure da un ‘‘danno patrimoniale ingente’’, in relazione al quale va purtroppo anche qui rimarcata la scarsa determinatezza, che riscontriamo anche nella descrizione della condotta. Quest’ultima è costituita infatti sia dalla trasgressione della legge o di altre disposizioni, sia nel tralasciare un controllo dovuto, sia, infine, ‘‘ovvero in altro modo’’ nell’azione ‘‘in modo palesemente non coscienzioso nell’adempimento del (89) Il codice penale croato (intr. di PAVISIC; tr. di BACCARINI-BERTACCINI-BLASKOVICMARION-PAVISIC), Padova, 1999, quivi p. 315 ss.
— 1224 — servizio’’, ove tali ultime aggettivazioni non sembrano essere di grande ausilio per l’interprete nella pur necessaria distinzione tra illecito penale e illecito disciplinare, che a questo punto resta essenzialmente affidata al criterio dell’evento. Entrambi i codici penali sinora descritti hanno comunque profondamente innovato la materia, rispetto al codice penale jugoslavo, che invece seguiva il modello tedesco dell’abuso del diritto, giacché all’art. 315 puniva i giudici che emettevano una decisione illegittima con l’intenzione di procurare ad altri un vantaggio oppure di cagionare un danno (90). Anche il codice penale della Federazione russa, entrato in vigore nel 1996, al Capitolo XXX contiene alcune norme di notevole interesse per la materia che qui ci occupa (91). La prima è contenuta nell’art. 285 e riguarda proprio l’abuso d’ufficio. Essa si caratterizza per essere una norma definitoria, giacché appunto si descrive l’esercizio dell’ufficio da parte di un pubblico agente contro l’interesse del servizio, allorquando il fatto è commesso per cupidigia o altro analogo interesse personale ed ha provocato una rilevante violazione dei diritti e degli interessi legittimi dei cittadini oppure delle organizzazioni, degli interessi legislativamente tutelati della società oppure dello Stato. Esso è punito sia con la pena pecuniaria, commisurata all’entità dello stipendio o delle entrate per un periodo da uno a due mesi, con l’interdizione dall’ufficio fino a cinque anni, con l’arresto da quattro a sei mesi, oppure con la reclusione fino a quattro anni. Sono previste altresì due ipotesi aggravate, l’una in base alla qualità del soggetto passivo, soprattutto se trattasi di un soggetto pubblico, e l’altra se sono state provocate gravi conseguenze. Va quindi rimarcata sia la dimensione lesiva dell’illecito, chiaramente orientata al danno, sia la severità dell’apparato sanzionatorio, in cui peraltro coesistono, quali pene principali, diversi modelli di sanzione. Fattispecie assai simile alla precedente è poi quella contenuta nel successivo art. 286, che si differenzia dalla prima in quanto in questo secondo caso si incrimina l’ ‘‘evidente superamento’’, da parte di un pubblico agente, ‘‘dei limiti del proprio ufficio’’, che abbia per il resto cagionato una rilevante lesione dei diritti e degli interessi legittimi agli stessi soggetti indicati nel precedente art. 285. Anche in questo caso la pena è la medesima, nonché eguale è la prima ipotesi aggravata, mentre la seconda si differenzia, giacché riguarda tre casi e cioè l’aver commesso i fatti, di cui ai precedenti commi 1 e 2: a) con l’uso della violenza o sotto la minaccia della sua utilizzazione; b) con (90) Cfr. SCHMIDT SPEICHER, op. cit., p. 114-115, con ivi riferimenti anche al codice penale cecoslovacco del 29 novembre 1961 ed a quello rumeno del 18 marzo 1936, che invece contenevano una fattispecie generale di abuso d’ufficio. (91) Strafgesetzbuch der Russischen Foederation (Deutsche Uebers. von F.C. SCHROEDER und BEDNARZ; Einf. von F.C. SCHROEDER), Freiburg im Breisgau, 1998, quivi p. 216 ss.
— 1225 — l’uso di un’arma o di uno speciale mezzo; c) causando gravi conseguenze. La terza fattispecie, disciplinata dal successivo art. 288, prevede invece il delitto di usurpazione di una pubblica funzione, anch’esso caratterizzato per essere orientato al danno, pur se, anche in relazione a detta ipotesi, va rimarcato l’aver accomunato inopinatamente l’aspetto lesivo dei diritti dei cittadini con quello offensivo degli interessi sociali e dello Stato, con ciò trattando allo stesso modo, pure quoad poenam, il profilo della tradizionale ‘‘prevaricazione’’ e gli estremi più propriamente di natura pubblicistica. Anche in questo caso va registrata una profonda innovazione in materia, operata dal codice penale della Federazione russa, quantomeno rispetto al codice penale delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, del 22 novembre 1926, che era invece caratterizzato da un compromesso tra fattispecie casistiche e generali, giacché conteneva sia un’ipotesi criminosa di abuso d’ufficio (§ 109), che due ulteriori, più specifiche disposizioni, che incriminavano l’una l’emissione di una sentenza ingiusta (§ 114) e l’altra l’arresto illegale (§ 115) (92). Infine, il codice penale più recente in quell’area è il polacco, entrato infatti in vigore il primo settembre 1998 (93). Il Capitolo XXIX si occupa dei reati ‘‘contro il funzionamento delle istituzioni dello Stato e l’amministrazione autonoma territoriale’’, nell’ambito dei quali due fattispecie interessano soprattutto la nostra analisi. La prima è il classico reato d’abuso d’ufficio, previsto dall’art. 231, che consiste nella condotta del pubblico funzionario, che, abusando del suo ufficio o non adempiendo ai propri doveri, agisce per danneggiare i pubblici o i privati interessi. La struttura della norma, invero alquanto generica, sembra quindi riecheggiare l’originaria formulazione del ’30 del nostro art. 323 c.p.. La norma di cui all’art. 231 contiene, altresì, un’ipotesi più grave, contrassegnata dall’ ‘‘intenzione’’ di conseguire un vantaggio patrimoniale o personale, che, almeno prima facie, potrebbe convalidare la convinzione che l’abuso d’ufficio sia un classico ‘‘delitto d’intenzione’’ (94), in cui cioè il dolo, sia generico, che specifico, è la forma ‘‘naturale’’ di colpevolezza. Questa impressione è tuttavia subito contraddetta dalla disposizione contenuta nel terzo comma dell’art. 231, che prevede invece un’ipotesi colposa di abuso, ovviamente meno grave e, quantomeno, delimitata dalla necessità che si sia cagionato un ‘‘danno significativo’’. In tal modo riesce ovviamente più difficile l’ac(92) Cfr. GERSTER, Die Rechtsbeugung (§ 336 StGB), Diss., Tuebingen, 1948, p. 64 ss., e, spec., p. 68. (93) Das polnische Strafgesetzbuch — Kodeks karny (Deutsche Uebers. und Einfuehrung von E. WEIGEND), Freiburg im Breisgau, 1998, quivi p. 142 ss. (94) Così, ad es., si espresse la Commissione di riforma del c.p. potroghese (v. supra, nota 68) ed in tal senso si è altresì orientato, come noto, il legislatore italiano con la riforma del ’97.
— 1226 — tio finium regundorum con l’illecito disciplinare, in questo caso affidato soltanto (95) al profilo lesivo, fra l’altro anch’esso assai indeterminato. La seconda fattispecie è quella prevista dal precedente art. 228, che ha ad oggetto una tipica figura di ‘‘interesse privato in atti d’ufficio’’, in quanto si incrimina colui che prende o reclama un vantaggio patrimoniale o personale nell’esercizio di una pubblica funzione. È prevista altresì un’ipotesi meno grave, costruita come una c.d. attenuante indefinita, nel secondo comma, mentre, nei commi successivi, sono contenute talune ipotesi aggravate. In complesso, anche il nuovo codice penale polacco sembra comportare rilevanti innovazioni, rispetto al codice precedente dell’11 luglio 1932, che invece in materia si era allineato al codice penale sovietico, contenendo infatti anch’esso sia una fattispecie generale di abuso d’ufficio, che fattispecie più specifiche aventi ad oggetto l’emissione di sentenze illegittime e l’arresto illegale (artt. 286-290) (96). Il nuovo codice penale polacco appare invece più orientato verso l’originaria tradizione francese. 8. Manca, nel diritto penale inglese ed in quello nordamericano, una fattispecie simile all’abuso del diritto, mentre è presente una fattispecie generale di abuso d’ufficio, considerata come ‘‘misdemeanor’’, in cui incorre il pubblico agente che, nell’esecuzione di una pubblica funzione, oppure abusando del potere a lui affidato, violi i suoi doveri e provochi, con la sua decisione, un danno ad altri (97). Va anzi ricordato che nel Model Penal Code statunitense, del 1962, erano previste, nell’art. 243, avente ad oggetto proprio l’ ‘‘Abuse of office’’, due Sections, delle quali la prima, cioè la 243.1., riguardava l’abuso d’ufficio propriamente detto. Esso consisteva nel fatto del pubblico agente che, esercitando una pubblica funzione e sapendo che la sua condotta è illegittima, a) assoggetta taluno ad arresto, detenzione, perquisizione, sequestro, confisca, valutazione, od altra violazione dei diritti personali o patrimoniali; b) rifiuta od impedisce ad altri l’esercizio od il godimento di diritti, privilegi, poteri od immunità (98). Trattasi, quindi, di una classica figura di ‘‘prevaricazione’’, di cui è altresì da rimarcare la particolare costruzione dell’elemento soggettivo, richiedente la coscienza dell’antigiuridicità della condotta. La (95) Nel c.p. svedese, che pure prevede anche una forma colposa di abuso d’ufficio, quest’ultima è quantomeno limitata alla colpa grave: cfr. supra, § 6. (96) In argomento, cfr. GERSTER, op. cit., p. 65. (97) Sul tema, SCHMIDT SPEICHER, op. cit., p. 117, con ivi ulteriori riferimenti bibliografici, cui, per maggiori approfondimenti, anche si rinvia. (98) Vedine il testo in Appendice a LA FAVE-SCOTT, Substantive Criminal Law, vol. 2, St. Paul, Minn., 1986, p. 535; sulla ‘‘storia’’ del Model Penal Code, v. anche, nella letteratura nordamericana, KAPLAN-WEISENBERG, Criminal Law — Cases and Materials, Boston and Toronto, 1986, p. 1113 ss.
— 1227 — seconda Section, ovverosia la 243.2., conteneva invece una figura criminosa assimilabile al nostro interesse privato, in quanto aveva ad oggetto la ‘‘Speculazione od il guadagno su di un atto od una informazione pubblici’’. Con essa si puniva infatti il pubblico agente che, nell’esecuzione di una pubblica funzione a lui affidata personalmente, oppure affidata ad una organizzazione governativa di cui facesse parte, ovvero in rapporto ad una informazione alla quale avesse accesso per la sua pubblica funzione e che non doveva essere resa pubblica, 1) acquistasse un interesse patrimoniale in ogni proprietà, transazione o impresa che potesse concernere tale informazione, o pubblica funzione; 2) oppure speculasse o guadagnasse sulla base di detta informazione o pubblica funzione; 3) oppure, infine, aiutasse un altro nelle attività sopra indicate. La fattispecie in questione appare pertanto contenere nel suo interno sia ipotesi di ‘‘sfruttamento privato dell’ufficio’’, che anche di ‘‘favoritismo affaristico’’ (99), in cui traspare altresì uno sforzo maggiore di tipizzazione, rispetto quantomeno al nostro pre-vigente art. 324 c.p. (100). 9. Meritano da ultimo talune riflessioni le disposizioni in materia del Corpus Juris, contenente disposizioni penali per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea (101), segno evidente che anche a livello sovranazionale si è sentita l’esigenza di prevedere specifiche norme incriminatrici degli abusi dei funzionari comunitari. Dato tuttavia l’oggetto del Corpus Juris e la sua finalità di creare, come è stato giustamente rilevato, una sorta di diritto penale mercantile (102), ne consegue come le disposizioni oggetto specifico della nostra analisi sono rivolte alla tutela di interessi essenzialmente economici, senza quindi alcuno spazio, per intenderci, ai profili attinenti alla c.d. prevaricazione. Nella versione originaria, due sono le fattispecie d’abuso, l’una, contenuta nell’art. 4, intitolata proprio ‘‘abuso d’ufficio’’, ed avente ad oggetto sia un’ipotesi di ‘‘favoritismo (99) Anche qui per usare la nomenclatura e la felice suddivisione operata in Italia dalla Commissione Morbidelli, Relazione, loc. ult. cit. (100) Su quest’ultima fattispecie v., per tutti, l’esaustiva ricostruzione effettuata da BRICOLA, voce Interesse privato in atti d’ufficio, in Enc. dir., XXII, 1972, spec. p. 74 ss. (101) Cfr. Verso uno spazio giudiziario europeo — Corpus Juris contenente disposizioni penali per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea (pref. di G. GRASSO; tr. a cura di SICURELLA), Milano, 1997, quivi p. 59-60; in generale, sull’argomento, v. anche G. GRASSO (a cura di), Prospettive di un diritto penale europeo, Milano, 1998, spec. p. 27; sugli interessi finanziari dell’Unione europea, cfr. altresì MEZZETTI, La tutela penale degli interessi finanziari dell’Unione europea — Sviluppi e discrasie nella legislazione penale degli Stati membri, Padova, 1994; nonchè, da ultimo, GRASSO G. (a cura di), La lotta contro la frode agli interessi finanziari della Comunità europea tra prevenzione e repressione - L’esempio dei fondi strumentali, Milano, 2000. (102) Così, testualmente, PALIERO, Il sistema sanzionatorio ed i presupposti generali di applicazione delle pene, in PICOTTI (a cura di), Possibilità e limiti di un diritto penale dell’Unione europea, Milano, 1999, p. 171 ss., e, quivi, p. 173.
— 1228 — affaristico’’, che una seconda, di ‘‘sfruttamento privato dell’ufficio’’, molto simile al modello dell’interesse privato. L’art. 5 prevede inoltre una fattispecie, più generale rispetto alla precedente, intitolata ‘‘malversazione’’, ma avente in realtà ad oggetto una classica ipotesi di abuso dei poteri, seppure nell’amministrazione dei fondi a livello comunitario e tale da aver cagionato un danno agli interessi affidati, che, se supera un determinato importo (103), comporta anche un aumento della pena. Ciò spiega allora il perché si sia osservato come il bene giuridico protetto, più in generale, nei delitti dei pubblici ufficiali contenuti nel Corpus Juris non sia soltanto il patrimonio dell’Unione, ma anche ‘‘l’onestà della gestione d’ufficio degli organi europei’’ (104). Così come formulate, le due fattispecie risultano tuttavia chiaramente da invertire (105), giacché quella che è definita ‘‘abuso d’ufficio’’ è, in realtà, una doppia ipotesi di malversazione, o, meglio, secondo i nostri stilemi, di peculato ‘‘per distrazione’’, cui risulta inserito anche un nucleo corrispondente all’interesse privato, mentre quella classificata quale ‘‘malversazione’’ integra invece un’ipotesi ‘‘residuale’’ di abuso d’ufficio. Va inoltre rilevato che fra gli Stati membri le disposizioni in oggetto avevano suscitato riserve anche sotto il profilo del rispetto del principio di stretta legalità, soprattutto, per quel che qui interessa, con riguardo ai concetti di ‘‘interesse personale’’, di cui all’art. 4, comma 1, lett. a), e di ‘‘abuso di potere’’, di cui al successivo art. 5 (106). Della necessità dell’inversione si è quindi tenuto conto nella versione aggiornata del Corpus Juris, elaborata a Firenze nel 2000 (107), ove, all’art. 6, si è, più opportunamente, prevista la ‘‘Misappropriation of funds’’, costruita come un’ipotesi di appropriazione, o distrazione di fondi comunitari, da parte di un funzionario, o a favore di una persona che non vi ha diritto, oppure intervenendo, direttamente o indirettamente, in qualunque affare od operazione, in cui ha un interesse personale. Il succes(103) 100.000 ecu. (104) Così, autorevolmente, JESCHECK, La tutela dei beni giuridici dell’Unione europea, in PICOTTI (a cura di), op. cit., p. 119 ss., e, quivi, p. 120. (105) Così anche DELMAS MARTY, Necessite, legitimite et faisabilite du Corpus Juris (projet de rapport, juillet 1999) (Rapport général établi à la demande de la Commission [OLAF et DGXX] et du Parlement européen sur la base des travaux du groupe d’étude pour le suivi du Corpus juris), pp. 73-74 (del dattil.); della stessa v. anche ID., Il Corpus Juris delle norme penali per la protezione degli interessi finanziari dell’Unione europea, in Questione giustizia, 2000, p. 164 ss., e, quivi, p. 172, ove si riconosce espressamente che ‘‘avevamo anche dato definizioni non precise dei delitti dei funzionari (malversazione e abuso di funzione) e ora abbiamo modificato titoli e definizioni’’. (106) Sul punto, SICURELLA, Droit pénal spécial: Articles 1-8 Corpus Juris (version de 1997), in DELMAS MARTY-VERVAELE (eds.), La mise en oeuvre du Corpus Juris dans les Etats Membres, I, Antwerpen-Groningen-Oxford, 2000, p. 221 ss., e, quivi, p. 248 ss., pp. 250251. (107) Cfr. Guiding Principles of Corpus Juris 2000 (Draft agreed in Florence), artt. 6 and 7.
— 1229 — sivo art. 7 è invece dedicato, quale tipica ipotesi residuale, all’‘‘Abuse of office’’, inteso come abuso di potere nella disposizione di fondi comunitari, tale da aver danneggiato gl’interessi finanziari della Comunità europea. Come si può quindi agevolmente constatare, l’inversione delle norme è senz’altro da salutare con favore, mentre, almeno a nostro avviso, permangono inalterate le riserve in ordine al rispetto del principio di precisione, soprattutto con riguardo a questa seconda fattispecie, la cui natura residuale non sembra anzi idonea a salvarla dalle stesse, giacché possono formularsi al riguardo obiezioni analoghe a quelle che a suo tempo furono sollevate in rapporto all’art. 323 del c.p. italiano, nella sua originaria versione, anche se, purtroppo, non fatte proprie dalla Corte costituzionale (108). Vi è, anzi, da interrogarsi sulla stessa opportunità di una norma siffatta, atteso che — trattandosi di proteggere penalmente gl’interessi finanziari dell’Unione europea, in cui non vi è, quindi, spazio per figure di ‘‘prevaricazione’’ — sembrano all’uopo sufficienti le incriminazioni, con la c.d. ‘‘Misappropriation’’, sia del ‘‘favoritismo affaristico’’, che dello ‘‘sfruttamento privato dell’ufficio’’, se non, appunto, riesumando, quale bene giuridico, la nozione di ‘‘onestà nella gestione dell’ufficio’’ (109), che appare tuttavia riportarci ai pericolosi ed indistinti lidi del delitto ‘‘d’infedeltà’’. 10. Dalla complessa ed analitica disamina di diritto comparato emerge in primo luogo l’esistenza di norme che in varia guisa colpisono gli abusi dei funzionari pubblici in tutti gli ordinamenti considerati, segno evidente della necessità avvertita di una tutela penale, non apparendo all’uopo sufficiente affidarsi soltanto all’illecito disciplinare, oppure ad una tutela affidata esclusivamente al settore dell’illecito amministrativo. Due sono comunque i modelli seguiti: o affidarsi ad una fattispecie generale di abuso, oppure preferire ipotesi specifiche, come la Rechtsbeugung della Germania federale. In entrambi i casi, il nucleo davvero problematico resta comunque la definizione della condotta d’abuso, ove nei vari sistemi considerati abbiamo rilevato incertezze continue, sia da parte dottrinaria, che giurisprudenziale, nel tentativo di precisarne meglio i confini, ma, si potrebbe aggiungere, con scarso successo. In molti dei sistemi analizzati, la tradizionale fattispecie d’abuso è tuttavia affiancata, come nel c.p. francese, da un’altra, avente ad oggetto la presa illegale d’interesse, oppure, come nel c.p. spagnolo, da un coacervo di ulteriori ipotesi specifiche, segno evidente come non sia necessario affidarsi, come da noi, ad un’unica (108) Sul punto, autorevolmente, BRICOLA, In tema di legittimità costituzionale, etc., loc. ult. cit. (109) Su cui però JESCHECK, op. loc. ult. cit.
— 1230 — ipotesi onnicomprensiva, ma, anzi, possa risultare più opportuno, pure per esigenze di ‘‘chiarezza’’, distinguere la ‘‘prevaricazione’’, dal ‘‘favoritismo affaristico’’ e, infine, dallo ‘‘sfruttamento privato dell’ufficio’’ ed in tale ultimo senso si era infatti orientata la Commissione Morbidelli. L’ ‘‘eredità’’ della riforma del ’90 ha invece da noi indotto il legislatore ad insistere sulla fattispecie ‘‘contenitore’’, seppure notevolmente depotenziata, ma proprio l’analisi comparatistica dovrebbe far ulteriormente riflettere sulla bontà della scelta ‘‘perpetuata’’ nel ’97. Dall’analisi sinora effettuata emerge altresì l’indubbia novità di quest’ultima riforma, rispetto alle fattispecie similari esistenti negli altri ordinamenti, che invece tutte si caratterizzano per l’utilizzazione di moduli penalistici, contrassegnanti la condotta d’abuso, senza quindi affidarsi a moduli provenienti da categorie extrapenalistiche, quali quelle afferenti ai vizi dell’atto amministrativo. Qui risiede il vero nocciolo del problema: il modulo penalistico sconta in tutti gli ordinamenti esaminati evidenti deficit in termini di determinatezza della fattispecie, mentre quello ‘‘extrapenalistico’’, imboccato per la prima volta dal legislatore italiano con l’ultima riforma, se indubbiamente contribuisce meglio dell’altro a delimitare i margini della fattispecie, per altro verso rischia di confondere i piani d’indagine, tanto che non ha soddisfatto gl’interpreti, nonché ha depotenziato, non solo quoad poenam, la stessa condotta d’abuso penalmente rilevante. Ciò risulta ulteriormente aggravato dalla cronica inefficienza, da noi, dei cd. controlli ‘‘a monte’’, sul versante, cioè, più propriamente amministrativo e disciplinare. Questo, tuttavia, non deve significare, ovviamente, ‘‘privilegiare’’ di nuovo il controllo penale, giacché comporterebbe un improbabile ritorno ad un pur recente passato, con tutti i problemi, anche di sicurezza per i pubblici funzionari, che ciò ha dato luogo. Può essere tuttavia utile proseguire, in termini generali, nella riflessione sulla tutela penale dalle condotte d’abuso, in primo luogo in termini di bene giuridico protetto. Anche dal panorama comparativistico è infatti emerso come il riferimento al ‘‘buon andamento’’ della P.A. conduca inevitabilmente alla costruzione di fattispecie orientate al pericolo, anziché al danno, ove quindi i margini della stessa risultano alquanto indefiniti, né appaiono, conseguentemente, chiare le differenze con l’illecito disciplinare. Appare, invece, decisamente più opportuno incentrare il disvalore del fatto sull’offesa all’‘‘imparzialità’’ (110), nel senso del rispetto della par condicio civium, quale vera ‘‘essenza’’ dei delitti d’abuso, il che consente non solo di raccordarsi con l’origine storica degli stessi, ma anche di (110) Così anche PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., 9o, Milano, 2000, p. 233; PARODI GIUSINO, voce Abuso innominato di ufficio, in Digesto delle discipline penalistiche, I, 1987, p. 42 ; SEMINARA, Il delitto di abuso d’ufficio, in questa Rivista, 1992, p. 585; BRUNELLI, In tema di abuso innominato di ufficio, in Giur. merito, 1977, p. 382; contra, nel senso che il bene tutelato sia e l’imparzialità, e il buon andamento della P.A., ad es., SEo GRETO-DE LUCA, Delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, 3 , Mi-
— 1231 — incentrarli sul requisito del danno. In secondo luogo, anche nella prospettiva, ormai purtroppo abbracciata dal legislatore del ’97, della fattispecie unica, andrebbe rivitalizzato il contenuto sostanziale di ‘‘conflitto d’interessi’’, indubbiamente insito in tali fattispecie, inteso non più quale interessante proposta di riforma (111), bensì almeno quale criterio ermeneutico che guidi il giudice penale soprattutto nella non facile interpretazione dell’inciso ‘‘in violazione di leggi o di regolamenti’’, pure per evitarne esegesi troppo formalistiche. D’altro canto, anche nel settore del diritto penale societario è stato autorevolmente sostenuto che l’agognata introduzione della fattispecie di abuso del patrimonio sociale debba poggiarsi proprio sul conflitto d’interessi (112). In terzo luogo, anche dall’indagine comparatistica è emersa la netta preferenza per il dolo, per di più in una configurazione che denoti l’intenzione lesiva, che appare del resto connaturale al modello d’abuso come lesione della par condicio civium, derivata da un conflitto d’interessi, che solo appare meritare l’intervento del diritto penale. Certo, la strada è ancora lunga per giungere ad una più soddisfacente configurazione dei delitti d’abuso, ma ci auguriamo che l’indagine comparatistica possa aver rischiarato quantomeno la via di questo lungo ed impervio cammino. ADELMO MANNA Straord. di Diritto Penale Università di Foggia
lano, 1999, p. 478, e la prevalente giurisprudenza, ivi citata; RAMPIONI, Bene giuridico e delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., Milano, 1984, p. 321. (111) In tal senso, VINCIGUERRA, L’abuso d’ufficio: stato delle cose e ragioni di una riforma, in Diritto penale e processo, 1996, p. 858 ss., e, quivi, p. 861; dello stesso v. anche ID., Non tutte le riforme sono migliorative: il nuovo art. 323 c.p., in Giur. it., 1998, p. 1021 ss. (112) PEDRAZZI, La riforma dei reati contro il patrimonio e contro l’economia, in AA.VV., Verso un nuovo codice penale — Itinerari-Problemi-Prospettive, Milano, 1993, p. 350 ss., e, quivi, p. 358; in argomento v. anche l’ampia monografia di FOFFANI, Infedeltà patrimoniale e conflitto d’interessi nella gestione d’impresa - Profili penalistici, Milano, 1997. Specificamente, sul conflitto d’interessi in ambito societario, ROMANO M., Profili penalistici del conflitto di interessi nell’amministrazione di società per azioni, Milano, 1967; nonchè, da ultimo, seppure in una prospettiva particolare, MANGANO, Il gruppo di imprese dal conflitto di interessi alla bancarotta patrimoniale, in RTDPE, 2000, p. 105 ss. Non a caso, la fattispecie di infedeltà patrimoniale, contenuta nel recente ‘‘decreto Draghi’’ in tema di ‘‘corporate governance’’ è caratterizzata per la descrizione della condotta in termini di ‘‘violazione di norme che disciplinano il conflitto d’interessi’’, utilizzandosi, pertanto, entrambi i criteri in discorso ma, quanto a quello relativo alla violazione, con uno spettro più ampio di quello dell’art. 323 c.p., giacché non è specificato il rango della norma violata. Sull’art. 167 d.lg. 58/98, v. SEMINARA, La tutela penale del mercato finanziario, in PEDRAZZI-ALESSANDRIFOFFANI-SEMINARA-SPAGNOLO, Manuale di diritto penale dell’impresa, 2a, Bologna, 2000, p. 605 ss.
SCIENZA ‘‘SPAZZATURA’’ E SCIENZA ‘‘CORROTTA’’ NELLE ATTESTAZIONI E VALUTAZIONI DEI CONSULENTI TECNICI NEL PROCESSO PENALE
SOMMARIO: 1. Un campanello d’allarme dalla Corte Suprema degli Stati Uniti. — 2. Una preliminare chiave di lettura: la reale metodologia di lavoro dello scienziato, ossia il superamento della dicotomia fatto-valore. — 3. Situazioni di crisi del modello meramente interne al processo: credibilità ed affidabilità dei consulenti tecnici. - 3.1. Le consulenze ‘‘false’’: nelle ricerche condotte in occasione del processo e nella selezione di studi e ricerche precedenti. - 3.2. La trasposizione nel processo di metodologie e concetti propri esclusivamente delle scienze naturali, ma estranei al ‘‘punto di vista’’ del giudice penale: i rischi di una distorsione dei principi cardine della responsabilità penale. Gli inganni semantici. — 4. Limiti e contraddizioni del modello esterni al processo: la validità scientifica delle ricerche presupposte dai consulenti. - 4.1. Provvisorietà e mutabilità della scienza. - 4.2. Gli errori in buona fede. - 4.3. La scienza ‘‘spazzatura’’. - 4.4. I ‘‘falsi profeti’’ ed i ‘‘traditori della verità’’: frodi e conflitti d’interessi nella prassi della scienza. - 4.5. Valutazioni scientifiche o valutazioni politiche? I limiti della ‘‘strategia del giudizio degli esperti’’ per il processo penale. — 5. La reazione del giudice all’incertezza scientifica: il possibile rifugio nel libero convincimento e nella pretesa imparzialità del consulente tecnico del p.m. — 6. Quali le possibili soluzioni? Un giudice ‘‘custode’’ del metodo scientifico. — 7. L’eventuale obbligo di verità dei consulenti tecnici nel processo penale tra affermazioni dottrinali ed esigenze della prassi giudiziaria. — 8. Per una ridefinizione della questione. — 9. Le condotte penalmente rilevanti del consulente tecnico ed il mancato coordinamento del codice sostanziale alle norme processuali. - 9.1. Non applicabilità dell’art. 373 c.p. (falsa perizia) al consulente tecnico. - 9.2. Applicabilità della norma sulla falsa testimonianza? - 9.3. Riconducibilità di talune condotte di falsa consulenza tecnica agli artt. 374, 374-bis e 380 c.p.
1. Un campanello d’allarme dalla Corte Suprema degli Stati Uniti. — ‘‘Le prove addotte dagli esperti possono essere importanti, ma anche del tutto fuorvianti, a causa delle difficoltà nel valutarle. In considerazione di questo rischio [...] il giudice esercita un controllo maggiore sugli esperti che non sui normali testimoni’’ (1). Con questo monito la Corte Suprema degli Stati Uniti, nella sentenza sul caso Daubert, pone ogni giudice di fronte ai limiti del rapporto tra la (1) Daubert v. Merrell Dow Pharmaceuticals, Inc., 509 U.S. 579, 113 S. Ct. 2786 (1993), trad. it. in STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 2000, 2a ed., p. 425.
— 1233 — comunità scientifica ed il processo penale. Dietro le parole della rivoluzionaria pronuncia della Corte Suprema ed il vasto dibattito scaturito negli ordinamenti anglosassoni da quella sentenza vi è, in altre parole, la consapevolezza di problematiche che anche il giurista europeo non può più eludere: la generale fallibilità e mancanza di certezza della scienza; la naturale tendenza all’errore nella prassi scientifica; l’indeterminatezza che si nasconde anche dietro le scienze giovani (dall’epidemiologia alla valutazione del rischio); la reale prassi e metodologia di lavoro degli scienziati; la crescente patologia della frode scientifica; gli interessi e le contraddizioni che governano il lavoro delle agenzie regolamentatrici; il superamento della ingenua visione positivista ancorata al dogma della dicotomia fatti-valori e la acquisita consapevolezza della non neutralità della scienza rispetto ai valori; il tranello della ‘‘strategia del giudizio degli esperti’’. Proprio queste tematiche sono state di recente oggetto del lavoro di Stella, Giustizia e modernità, che ne ha impietosamente svelato le devastanti implicazioni per il processo penale (2). Lavoro, questo, che nasce con la precisa consapevolezza della importanza cruciale dei temi trattati e con l’esplicito invito ai giovani perché forniscano ‘‘un apporto critico alla discussione’’ (3). Questo contributo vuole, allora, essere il primo ad accogliere tale invito per sviluppare, nello specifico, il problema della verità nell’apporto scientifico dei consulenti tecnici ed i momenti di crisi di un modello processuale che, nel contesto delle problematiche evidenziate, si fonda proprio sull’affidamento, o meglio sulla ‘‘deferenza’’ (4), agli esperti. Si tratterà, quindi, innanzitutto, di appurare come effettivamente lavora lo scienziato, per poi verificare, da un lato, il problema, tutto interno al processo, della credibilità ed affidabilità dei consulenti tecnici; dall’altro il problema, esterno al processo, ma capace di distorcerne sistematicamente gli esiti, della validità e della correttezza scientifica delle ricerche e degli studi su cui i consulenti tecnici fondano i propri contributi al processo. Si vedrà, poi, a quali ‘‘scorciatoie’’ il giudice penale potrebbe essere tentato di ricorrere per supplire al proprio disagio di fronte al prepotente ingresso della scienza nel processo ed alla mancanza di metodologie di valutazione del contributo scientifico degli esperti e quali siano, invece, gli strumenti di cui egli può disporre per affermare il proprio ruolo di gatekeeper, secondo la terminologia della sentenza della Corte Suprema. L’ultima parte del lavoro sarà infine dedicata all’analisi di come l’or(2) STELLA, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano, 2001. (3) STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. IX della prefazione. (4) BREWER, Scientific expert testimony and intellectual due process, in Yale L. J., 1998, p. 1540 ss.
— 1234 — dinamento italiano affronti il problema delle consulenze false, ossia delle più gravi ipotesi di utilizzo improprio della scienza da parte degli esperti, capace di fuorviare anche il giudice più scrupoloso ed attento. 2. Una preliminare chiave di lettura: la reale metodologia di lavoro dello scienziato, ossia il superamento della dicotomia fatto-valore. — Per poter affrontare le problematiche preannunciate è indispensabile, innanzitutto, sgombrare il campo dai possibili equivoci sul metodo di lavoro degli scienziati e sulla visione di una scienza impermeabile e neutra rispetto ai valori. Vogliamo riferirci a quelle impostazioni, che in altro contesto vengono ritenute proprie dei ‘‘positivisti ingenui’’ (5), consistenti nel ritenere che lo scienziato agisca, nell’approccio ai problemi e alle controversie che affronta, in modo rigorosamente oggettivo; a quello stereotipo, insomma, dello scienziato ‘‘freddo, privo di emozioni, impersonale e passivo che riflette in modo esatto il mondo sulle lenti dei suoi occhiali immacolati’’ (6). Questo luogo comune non solo è contraddetto, come meglio vedremo in seguito, dalla prassi quotidiana del lavoro dello scienziato, ma è foriero di rischiosi malintesi proprio sul terreno del processo penale. È allora il caso di verificare quali siano le componenti soggettive che permeano l’operato della scienza, quali siano, in altre parole, i valori che influenzano i risultati delle ricerche scientifiche. Aderendo ad una classificazione, particolarmente chiara ai nostri fini, possiamo enucleare tre tipologie di valori (7). Innanzitutto i valori pregiudiziali, che si manifestano tutte le volte in cui lo scienziato consapevolmente altera la misurazione dei dati, ignora gli elementi contrari al suo scopo, interpreta la realtà in modo difforme dai canoni scientifici unanimemente condivisi. Queste situazioni sono più ricorrenti di quanto si possa immaginare: d’altronde lo scienziato, come scrive Kuhn, non è mai stato ‘‘l’uomo che alla soglia del proprio laboratorio respinge il pregiudizio, che raccoglie ed esamina i fatti puri e oggettivi, e la cui fedeltà è a quei fatti e a essi solo’’ (8); anzi di solito lavora in modo diverso: ‘‘egli sembra generalmente conoscere, prima ancora che il suo progetto di ricerca sia ben avviato, tutti i dettagli (eccetto i più pic(5) SHRADER FRECHETTE, Valutare il rischio. Strategie e metodi di un approccio razionale, trad. it., Milano, 1993, p. 57 ss., testo più volte richiamato da STELLA, Giustizia e modernità, cit., da p. 127. (6) RUDNER, The scientist qua scientist makes value judgments, in Introductory readings in the philosophy of science (a cura di Klemke, Hollinger, Kline), Buffalo, 1980, p. 236. (7) LONGINO, Beyond bad science: skeptical reflection on the value-freedom of scientific inquiry, in Science, Technology, and Human Values, 1983, v. 8, pp. 7-17. (8) KUHN, La funzione del dogma nella ricerca scientifica, in ID., Dogma contro critica, Milano, 2000, p. 4.
— 1235 — coli) che la sua ricerca realizzerà. Se il risultato arriva velocemente, tutto bene. Altrimenti egli lotterà con l’apparato strumentale [...] a sua disposizione’’ finché questo non produrrà ‘‘risultati che si conformino al tipo di modello che egli aveva previsto fin dall’inizio’’ (9). Vedremo nelle prossime pagine a cosa ha portato nel processo e nella comunità scientifica l’estremizzazione di tali atteggiamenti. La scienza è, poi, permeata da valori contestuali, ossia da tutti quegli elementi personali, culturali, sociali, da quelle influenze, insomma, determinate dal contesto in cui opera l’esperto (10). Tali valori hanno assunto oggi un rilievo crescente in virtù di quella che è stata definita ‘‘feudalizzazione’’ della prassi scientifica: ‘‘la scienza, che ha perduto la realtà, sta di fronte alla minaccia che altri le dicano cosa debba intendersi per verità’’; cioè, di fronte alla ‘‘ipercomplessità’’, alla ‘‘natura approssimativa’’ ed all’alto grado di differenziazione dei risultati della scienza, i criteri di selezione finiscono con l’implicare ‘‘la compatibilità delle concezioni politiche di fondo, gli interessi dei committenti’’, i vantaggi economici (11). Constateremo più avanti come tali valori si insinuino, ad esempio, nelle valutazioni delle agenzie di controllo come nei più svariati programmi di ricerca. Per il momento è sufficiente sottolineare come proprio i valori relativi al contesto giudiziario influenzino gli scienziati quando assumono il ruolo di esperti di parte nel processo determinandone la congenita parzialità delle rispettive posizioni e delle ricerche scientifiche proposte. I valori contestuali sono difficili da svelare ed eliminare, ma il compito del fruitore di quelle conoscenze scientifiche, del giudice nell’ambito del processo, è quello di conoscerne l’esistenza e saperne controllare la manifestazione. Infine i valori essenziali o metodologici, inevitabili poiché gli scienziati ‘‘formulano giudizi di valori essenziali ogni volta che seguono una norma metodologica invece di un’altra’’, un particolare criterio di raccolta dei dati, una determinata teoria (12). D’altronde gli stessi filosofi della scienza contemporanei ci spiegano il perché ‘‘quando gli scienziati devono scegliere tra teorie in concorrenza, due di loro, impegnati verso il medesimo elenco di criteri di scelta possono tuttavia giungere a conclusioni differenti’’: la ragione, scrive Kuhn, è che la scelta di una teoria dipende non solo da un insieme di criteri condivisi, ma anche ‘‘da fattori caratteristici’’ di ogni scienziato. Non si mette, (9) KUHN, La funzione del dogma nella ricerca scientifica, cit., p. 5 s. (10) LONGINO, Beyond bad science, cit., pp. 7-17; ID., Science as social knowledge: values and objectivity in scientific inquiry, Princeton, 1990, pp. 4 ss. e 62 ss. (11) BECK, La società del rischio, trad. it., Roma, 2000, pp. 222 e 234 ss., su cui diffusamente STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 399 ss. (12) SHRADER FRECHETTE, Valutare il rischio, cit., p. 73.
— 1236 — quindi, ‘‘in dubbio la loro aderenza ai canoni che rendono scientifica la scienza’’, ma piuttosto ci si rende conto che la scelta di una teoria è influenzata da ‘‘fattori soggettivi’’ o, meglio, da ‘‘valori caratteristici’’ del singolo scienziato (13). Andiamo allora subito a verificare, dopo questo sguardo sintetico sui connotati propri della prassi scientifica, come il processo rispecchi al suo interno, per il tramite dei consulenti tecnici, questi valori caratteristici della ricerca scientifica e come questi possano distorcere i fini del processo penale minando la credibilità e l’affidabilità dei consulenti. 3. Situazioni di crisi del modello meramente interne al processo: credibilità ed affidabilità dei consulenti tecnici. 3.1. Le consulenze ‘‘false’’: nelle ricerche condotte in occasione del processo e nella selezione di studi e ricerche precedenti. — I valori pregiudiziali espressi dai consulenti tecnici nel processo giocano un ruolo forse non sufficientemente evidenziato, almeno dagli studiosi italiani. Negli Stati Uniti, infatti, l’estrema parzialità e, spesso, gli abusi, degli expert witnesses — la figura che il legislatore italiano ha tenuto presente nel delineare quella del consulente tecnico (14) — sono ormai un dato di fatto indiscutibile, assodato, tanto da divenire questione pregiudiziale nel dibattito sull’idoneità dell’adversary system alla ricerca della verità processuale o sulla stessa capacità di giudizio della giuria su questioni di carattere tecnico-scientifico (15). Significativa la schiettezza con cui un avvocato della fine del 1800 disse, rivolgendosi alla Corte, che ‘‘esistono tre tipi di bugiardi: il comune bugiardo, il dannato bugiardo, e l’expert wit(13) KUHN, Oggettività, giudizio di valore e scelta della teoria, in ID., La tensione essenziale. Cambiamenti e continuità nella scienza, Milano, 1985, p. 356 ss. (14) KOSTORIS, I consulenti tecnici nel processo penale, Milano, 1993, p. 325. (15) Si veda su tale ultimo punto: nella letteratura italiana TARUFFO, Le prove scientifiche nella recente esperienza statunitense, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1996, p. 247 ss., con ampie indicazioni bibliografiche. In generale, per un’efficace puntualizzazione di tali problemi nel dibattito nordamericano, FOSTER, HUBER, Judging Science. Scientific knowledge and Federal Courts, Cambridge, 1997, pp. 207-224; FAIGMAN, Legal alchemy. The use and the misue of the science in the law, New York, 1999, p. 58 ss.; il lungo editoriale della HARVARD LAW REVIEW, Confronting the new challenges of scientific evidence, in Harvard L. R., 1995, v. 108, in part. p. 1585 ss.; BERNSTEIN, Out of the freyeing pan and into the fire: the expert witness problem in toxic tort litigation, in Rewiew of Litigation, 1990, p. 119 ss. Sembrerebbe che, tra gli ordinamenti di common law, tale problema sia particolarmente sentito negli Stati Uniti — così FRECKELTON, in AA.VV., Controversies in helth law (a cura di Freckelton, Petersen), Sydney, 1999, p. 96 —, ma anche per la Gran Bretagna si veda, BELLONI, HODGSON, Criminal Injustice. An evaluation of the criminal justice process in Britain, London, 2000, pp. 162-168 che fanno riferimento alle alterazioni di prove scientifiche da parte degli esperti come cause di ricorrenti condanne inique; GEE, The expert witness in criminal trial, in Criminal L. R., 1987, p. 307.
— 1237 — ness’’ (16), e con cui ancora oggi la dottrina afferma che ‘‘il disprezzo di giudici e avvocati (per gli esperti) è noto. Essi regolarmente descrivono gli expert witness come prostitute [...]’’ (17). E non sono solo frasi ad effetto. Un attento studioso americano di tali problemi ha di recente reso note una serie impressionante di falsità degli esperti: tra i più eclatanti quello del dott. Erdmann, un patologo che per più di dieci anni aveva fatto false autopsie, commissionate da più o meno ignari prosecutors, facendo in modo di confermare sempre l’ipotesi accusatoria e dando, tra l’altro, il proprio decisivo contributo per venti condanne a morte; gli abusi del dott. Erdmann furono poi casualmente svelati quando, dopo aver riportato nella relazione illustrativa di un’autopsia la presenza della milza, con l’indicazione dello stato e del peso, gli increduli parenti della vittima obbiettarono che in realtà la milza gli era stata asportata diversi anni prima (18). Eppure, ed è un dato storico significativo, anche nel nostro paese i problemi appena evidenziati non sono affatto inediti: già sotto il codice del 1865, nel quale era previsto una sorta di contraddittorio al dibattimento tra periti dell’accusa e della difesa, si denunciavano ‘‘gli scandali di certi periti e di certe perizie’’ (19), ‘‘il doloroso spettacolo’’, ‘‘lo sconcio di vedere al processo orale una scienza al servizio della difesa e una a servizio dell’accusa’’ (20), mentre Rocco realisticamente scriveva, accingendosi a illustrare le modifiche apportate all’istituto della perizia, che ‘‘tale problema diviene invece quasi insolubile, perché implica la questione della lealtà e della veridicità individuali [...]’’ (21). Proprio di recente, poi, in un processo balzato agli onori della cro(16) FOSTER, Expert Testimony. Prevalent complaints and proposed remedies, in Harvard L. R., 1897, v. 11, p. 169, cit. in GRAHAM, Impeaching the professional expert witness by a showing of financial interest, in Indiana L. J., 1977, v. 53, p. 35. (17) GROSS, Expert evidence, in Wisconsin L. R., 1991, p. 1113 ss. (18) GIANNELLI, The abuse of scientific evidence in criminal cases: the need for independent laboratories, in Virginia J. Social Policy & Law, 1997, n. 4, p. 439 ss.; per altri riferimenti RICHMOND, The emerging theory of expert witness malpractice, in Capital University L. R., 1993, p. 694. Secondo FAIGMAN, Legal alchemy, cit., p. 76, il peggior utilizzo della « pseudo-scienza » nelle corti può essere rintracciato nell’operato dei forensic scientists dell’accusa. In realtà il problema dell’abuso delle prove scientifiche, negli Stati Uniti, non è limitato ai consulenti di parte, ma sembra essere proprio anche dei laboratori della polizia: GIANNELLI (p. 442 ss.) riporta l’inquietante caso del dott. Zain, seriologo, direttore dello State Police crime laboratory, il quale aveva falsificato, a favore dell’accusa, i risultati delle indagini in circa 134 casi, tra il 1979 ed 1989. Su questa ed altre analoghe vicende si vedano anche KELLY, WARNE, Trainting evidence. Inside the scandals at the FBI crime lab, New York, 1998. (19) CONTI, La nuova procedura criminale italiana, Pisa, 1903, p. 39. (20) Relazione ministeriale del 1905, in AA.VV., Commento al codice di procedura penale, v. II, Torino, 1913, p. 330. (21) ROCCO, Relazione al codice di procedura penale, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, Roma, 1929, p. 62.
— 1238 — naca, il p.m. affermava nella sua ‘‘atipica’’ discussione finale, e con riferimento agli stessi consulenti dell’accusa, che ‘‘un’amplissima documentazione scientifica contraddice così totalmente la perizia della consulente (358 perizie in 9 anni) che io non riesco più a capire se sia una totale incompetente o una persona in mala fede’’, mentre anche ‘‘l’altro perito è di una superficialità che rasenta lo scandalo’’ (22). Certo, gli abusi non sono sempre così evidenti: secondo diverse voci, si tratterà, piuttosto, di un regolare riproporsi di pareri fuorvianti perché basati su ‘‘gravi forzature rispetto ai dati disponibili’’ (23), di consulenze tecniche che escludono deliberatamente i dati contrari agli interessi della parte che assistono e che ‘‘spesso si avvalgono di letture parziali e dolosamente mutilate di lavori scientifici citati o addirittura citati in copia fotostatica’’ (24), di pareri in cui viene presentata come ‘‘dominante’’ o ‘‘maggioritaria’’ una esigua corrente di pensiero, ovvero in cui, più subdolamente, viene dissimulato e tenuto nascosto al giudice l’alto tasso di errore delle ipotesi prospettate (25). Forse una parte di tali comportamenti è anche dovuta alla prassi, invalsa in talune procure, di nominare regolarmente gli stessi consulenti tecnici con il rischio che la prospettiva di uno stabile vincolo economico ed il reiterato legame con la pubblica accusa possa andare a scapito di una obbiettività e serietà di giudizio dell’esperto. Il recente caso appena ricordato, con 358 consulenze in 9 anni, deve allora far riflettere. Da non sottovalutare, poi, sono tutte quelle ipotesi, offerteci dalla giurisprudenza nordamericana (26), in cui il consulente mente sulla propria qualifica, sulle tipologie di ricerche svolte durante la propria carriera di scienziato, sui titoli scientifici acquisiti ingannando così il giudice sulle (22) La citazione letterale è contenuta nell’articolo di FERRARELLA, Milano, processo alle indagini sui pedofili, in Corriere della Sera, 22 dicembre 2000, p. 17. (23) TAORMINA, Diritto processuale penale, Torino, 1995, v. II, p. 582. (24) FIORI, Medicina legale della responsabilità medica, Milano, 1999, p. 697. (25) Il problema del tasso di errore dei test scientifici, giustamente sottolineato dalla sentenza Daubert, ha acquisito, con il rapido sviluppo della Forensic Science, un’importanza considerevole nella valutazione della affidabilità del consulente tecnico. È, quindi, assolutamente opportuno che il consulente dichiari il tasso di errore delle tecniche utilizzate per consentire al giudice di attribuire alle stesse la più corretta valutazione probatoria. Si veda ora su questo punto STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 343 ss. (26) Doepel v. United States, 454 U.S. 1037 (1981); Commonwealth v. Mount, 435 Pa. 419, 422 (1969); Maddox v. Lord, 18 F.2d 1058, 1062 (2d Cir. 1987); Kline v. State, 444 So. 2d 1102 (Fla. Ct. App. 1984); People v. Alfano, 420 N.E. 2d 1114, 1116 (1983); State v. De Frozo, 394 N.E. 2d 1027, 1030 (C.P. 1978). Questa giurisprudenza è riportata da GIANNELLI, The abuse of scientific evidence in criminal cases: the need for independent laboratories, cit., pp. 469-470, il quale rimanda anche ai lavori di STARRS, Mountebanks among forensic scientist, in Forensic Science Handbook 1, 1988; SAKS, Prevalence and impact of ethical problems in forensic science, in J. Forensic Science, 1989, v. 34, p. 789 ss.; VAN TOL, Detecting, deterring and punishing the use of fraudolent academic credentials: a play in two acts, in Santa Clara L. R., 1990, v. 30, p. 791 ss.
— 1239 — proprie credenziali e, quindi, su una delle possibili modalità di controllo della propria credibilità ed affidabilità (27). Certo, oggi rimane aperto il problema concreto dell’individuazione e dell’eventuale repressione penale di questi abusi da parte del giudice. Problema che tratteremo più avanti e che si presenta oltremodo complesso per la particolare ambiguità del nostro codice processuale sul punto e per il mancato adeguamento delle norme sostanziali al nuovo rito penale. 3.2. La trasposizione nel processo di metodologie e concetti propri esclusivamente delle scienze naturali, ma estranei al ‘‘punto di vista’’ del giudice penale: i rischi di una distorsione dei principi cardine della responsabilità penale. Gli inganni semantici. — In virtù della rapida analisi sull’ineliminabile presenza di valori nel lavoro quotidiano dello scienziato siamo ora in grado di passare in rassegna un’altra concreta estrinsecazione di quelle riflessioni nel processo penale. Vogliamo riferirci a casi in cui i valori pregiudiziali e contestuali dei consulenti tecnici, trasfusi nelle consulenze, finiscono addirittura per distorcere gli stessi principi cardine della responsabilità penale ed, in particolare, i criteri di identificazione ed accertamento del nesso causale e della colpa. Stella descrive molto bene questa realtà con riferimento al nuovo diritto giurisprudenziale della ‘‘causalità generale’’ manifestatosi in numerose sentenze di diversi Paesi europei, in materia di responsabilità da prodotto e per emissione di sostanze tossiche. In questi settori ‘‘la percezione dei rischi legati alla ‘civilizzazione tecnica’ — dei ‘grandi rischi’ tecnologici-scientifici — ha determinato, negli ordinamenti dei paesi del mondo occidentale, una sorta di ‘shock da modernità’ ’’che ha generato, tra gli altri effetti (28), la ‘‘creazione giurisprudenziale’’ di un nuovo modello di diritto penale, ossia, il modello ‘‘della causalità generale’’ (cioè della idoneità ex ante o aumento del rischio). Tale modello è caratterizzato dall’erosione del paradigma causale basato sulla imputazione ex post dell’evento lesivo secondo il criterio del nesso di condizionamento, a vantaggio di una ricostruzione della causalità fondato, viceversa, sui concetti di idoneità, probabilità ex ante, aumento del rischio connesso all’esercizio di una determinata attività (29). Il prepotente ingresso della causalità generale nel processo penale nasce allora dalla ‘‘spinta ‘esogena’ esercitata da concetti elaborati — a fini diversi da quello della spiegazione di singoli eventi lesivi — da scienze (27) Si veda sulle possibili modalità di controllo del contributo dell’esperto DENTI, Scientificità della prova e libera valutazione del giudice, in Riv. dir. proc., 1972, p. 434. (28) STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 226s., individua un ulteriore effetto, a cui è dedicata un ampia parte del lavoro, nella ‘‘creazione legislativa’’ del modello di ‘‘diritto penale del comportamento’’. (29) Si veda ancora diffusamente STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 161 ss., anche per i necessari riferimenti bibliografici.
— 1240 — come l’epidemiologia, la tossicologia, la medicina del lavoro, la scienza della valutazione del rischio, la biologia animale’’ (30). Non possiamo certo soffermarci sugli innumerevoli risvolti di tali problemi. Quello che qui ci preme sottolineare è, invece, l’apporto, per così dire, ‘‘causale’’ che i consulenti tecnici dell’accusa hanno fornito allo sviluppo di tale modello introducendo e dando rilievo, in quei processi, esclusivamente ai profili di causalità generale, anche attraverso la strumentalizzazione delle elaborazioni, che vedremo in seguito, di agenzie internazionali (OMS) o regolamentatrici (EPA). I consulenti della difesa ed i giudici sono poi caduti in pieno nel tranello: i primi, non svelando il ‘‘trucco’’ ed anzi contribuendo a nasconderlo, hanno seguito l’accusa sul suo terreno ed hanno incentrato il proprio contributo critico sempre sui profili di causalità generale; i secondi hanno preso ‘‘a prestito dal mondo scientifico l’idea della ‘capacità’, dell’ ‘essere in grado’ di una certa sostanza a produrre ‘nell’uomo’ un certo tipo di patologia, senza preoccuparsi di testare l’adattabilità di quell’idea al pensiero dello stesso mondo scientifico sulla causalità individuale ed alle tradizioni concettuali dello stato di diritto’’, strenuamente ancorate all’unico criterio che garantisce l’accertamento del nesso causale al di là di ogni ragionevole dubbio, ossia, la conditio sine qua non (31). In questi processi emerge chiaramente l’influenza di valori pregiudiziali e contestuali sui contributi dei consulenti, i quali infatti disattendono, più o meno consapevolmente, l’unanime letteratura scientifica che puntualizza come sia impossibile, tra le più svariate potenziali cause, ricollegare i singoli eventi lesivi proprio all’uso di o all’esposizione a sostanze tossiche, come sia assolutamente arbitrario basarsi, in queste condizioni di incertezza, sulla mera differenza tra il numero di casi verificatosi negli esposti e il numero di eventi attesi in quel contesto (32). Ma non basta. Anche gli studiosi di medicina legale hanno contribuito per lungo tempo a perpetrare analoghi equivoci pretendendo di elaborare un autonomo concetto di causa, anch’esso fondato su valutazioni di idoneità ex ante slegate dal criterio condizionalistico, il cui accertamento viene demandato alla c.d. criteriologia elaborata da Cazzaniga. Ed anche in questo caso il giudice rischia di essere tratto in errore perché ‘‘raramente — se non mai — nelle perizie medico-legali si precisa apertis verbis che la prospettiva seguita è non già quella della condizione necessa(30) STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 227. (31) Diffusamente sulla conditio sine qua non come ‘‘minimun’’ assoluto per l’imputazione dell’evento nelle società democratiche si veda STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 157 ss. (32) Per un efficace sintesi del dibattito scientifico su tali questioni si veda STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 228 ss.; ed anche WALKER, Risk regulation and the ‘‘faces’’ of uncertainty, in Risk: Health, Safety & Environment, 1998, v. 27, p. 29 ss.
— 1241 — ria, ma quella della idoneità causale, in sostituzione della condizione sine qua non’’ (33). Nella stessa direzione si collocano gli inganni semantici dei consulenti, l’utilizzo cioè di concetti ambigui e fuorvianti. Uno per tutti: l’impiego del concetto di ‘‘compatibilità’’, ossia la tendenza di taluni medici legali ad asserire, di fronte a dati ed elementi dubbi, potenzialmente riconducibili ad una pluralità di possibili spiegazioni, che l’insieme delle risultanze è comunque ‘‘compatibile’’ con l’ipotesi proposta, senza chiarire che quel giudizio nasce proprio dall’incertezza di interpretazione del dato obbiettivo e, quindi, dalla mera possibilità che tra le diverse spiegazioni vi sia anche quella sostenuta dal ‘‘committente’’ (34). Ecco un altro esempio di come i giudizi dei consulenti intrisi di valori pregiudiziali possono fuorviare il giudice penale. 4. Limiti e contraddizioni del modello esterni al processo: la validità scientifica delle ricerche presupposte dai consulenti. — I problemi per il giudice penale non si limitano, però, alla questione, interna al processo, della credibilità ed affidabilità dei consulenti, ma si estendono alle incognite sul controllo di validità delle ipotesi e delle ricerche scientifiche introdotte dai consulenti, ma generate fuori dal processo. È questo un problema, esterno al giudizio, che trova la propria radice nella inefficacia dei meccanismi interni di controllo ed autotutela della scienza e nella congenita provvisorietà ed incertezza di ogni conoscenza scientifica. Proprio quest’ultimo aspetto è il primo passaggio logico obbligato per il prosieguo della nostra analisi. 4.1. Provvisorietà e mutabilità della scienza. — ‘‘Nella scienza non ci sono certezze’’, troviamo finalmente scritto nella citata sentenza Daubert della Corte Suprema degli Stati Uniti che, raccogliendo il frutto del moderno dibattito epistemologico, ribadisce che le leggi della scienza sono ‘‘null’altro che delle ipotesi di cui non si saprà mai se sono vere o false’’ (35). Ed in effetti ‘‘la storia delle singole scienze — dalla fisica alla chimica, alla biologia, alla medicina — è la storia di errori compiuti e poi superati; nel suo complesso, e pur negli innegabili progressi la scienza appare come un cimitero di errori, e le leggi scientifiche — anche le leggi (33) STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 193. (34) Molto bene su tali questioni GENTILOMO, Consulenze e consulenti. Un discorso sul metodo, in Rass. it. crim., 1997, p. 47 ss.; GENTILOMO, PANZERI, Testimonianze e accertamenti tecnici tra indagini preliminari e dibattimento nei casi di sospetto abuso sessuale infantile, in Riv. it. med. leg., 1997, p. 1083, nota a Trib. Milano, sez. IV pen., 22 gennaio 1996. (35) STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 314.
— 1242 — causali — non perdono mai la loro natura di ipotesi, di cui è sempre possibile dimostrare la falsità’’ (36). La Corte cita Popper ed Hempel, fa implicito riferimento a Kuhn fornendo poi, come vedremo avanti, insegnamenti utilissimi sullo stesso ruolo del giudice di fronte alla fallibilità della scienza. Sarebbe qui impossibile riassumere con efficacia il dibattito epistemologico che costituisce il retroterra culturale di quella sentenza, mentre può essere utile adottare un approccio più immediato e richiamare l’attenzione sulle conseguenze più dirette della mancanza di certezze nella scienza (37). Dedicheremo allora i prossimi paragrafi innanzitutto alla ‘‘manciata di errori’’ che affliggono quotidianamente la prassi scientifica, successivamente a quella che è stata icasticamente definita ‘‘scienza spazzatura’’ (junk science) (38), per poi analizzare come la non oggettività della scienza spiani la strada all’insinuarsi di valori pregiudiziali, contestuali e metodologici degli esperti. 4.2. Gli errori in buona fede. — Proprio gli errori, d’altronde, costituiscono la più diretta manifestazione del reale carattere della ricerca scientifica, sia nella loro forma ‘‘rispettabile’’, quindi inevitabile, sia in quella ‘‘disdicevole’’, cioè dovuta a negligenza e trascuratezza del singolo ricercatore (39), e pongono il giurista di fronte a interrogativi cruciali: come raggiungere la soglia oggettiva dell’oltre ogni ragionevole dubbio necessaria per emettere una sentenza di condanna se l’errore è sempre in agguato, se è sempre presente il rischio che le ipotesi scientifiche cui il giudice fa riferimento siano il frutto di fraintendimenti ed imprecisioni; come poter ritenere valida una consulenza fondata su ricerche che domani potranno essere falsificate; come, più in generale, conciliare la certezza di cui necessita la decisione giudiziale con la congenita incertezza della scienza (40). La prassi della scienza, si diceva, vive e si alimenta dell’errore, e le riviste scientifiche sono così divenute il palcoscenico sul quale quegli errori si manifestano: esse sono, infatti, piene di ricerche scientifiche pubblicate e poi smentite, anche dagli stessi autori, tra cui studi epidemiologici fortemente contraddittori e fonte di innumerevoli equivoci (41). D’altra parte, è sufficiente leggere il brillante saggio di Skrabanek e McCormick, i quali (36) STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 313. (37) Per i risvolti del contemporaneo dibattito epistemologico sul processo penale si veda STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 319 ss. (38) HUBER, Galileo’s revenge. Junk science in the courtroom, New York, 1993, pp. 2-6, 40-41. Ed anche FOSTER, HUBER, Judging Science. Sientific knowledge and Federal Courts, cit., p. 17, su cui diffusamente STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 313. (39) Per questa terminologia KOHN, Falsi profeti, trad. it., Bologna, 1991, p. 261. (40) STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 313 ss. (41) TIMOTHY, Sources of epidemiological equivocacy, in Risk, 1997, v. 7, p. 1 ss.; si
— 1243 — cercano di classificare i diversi tipi di errore nella ricerca medica, per avere la conferma di quanto la scienza viva su ‘‘convinzioni e ragionamenti sbagliati, e procedimenti logici erronei’’ (42). Per esempio, è stato notato che la letteratura contiene diverse relazioni su presunti effetti biologici dei campi elettromagnetici che ‘‘non sono riproducibili e sono presumibilmente errati’’ (43); che dodici studi sugli effetti cancerogeni dell’acrilonitrile sui lavoratori erano privi di riscontri e insufficientemente motivati (44); che persino due stimati studiosi come Doll e Peto, hanno errato nell’indicare le percentuali di associazione tra l’inquinamento industriale ed i tumori (45); che, per scendere sul campo della forensic science, la fallibilità del test del DNA fu dimostrata pubblicamente solo dopo che era stato utilizzato in quasi duecento processi (46). Il problema maggiore è che l’errore nella prassi scientifica presenta serie difficoltà di emersione, sia per la debolezza del controllo da parte delle riviste e della comunità scientifica (47), sia per una sorta di culto dell’autorità che, nascendo proprio dall’idea di una scienza certa la quale cresce non mediante la correzione dell’errore, ma attraverso la mera accumulazione di conoscenze, ha effetti devastanti: ‘‘un’autorità non deve sbagliare, e se lo fa i suoi errori vengono coperti per continuare a tenere alta l’idea stessa di autorità. Così la vecchia morale porta a praticare la disonestà intellettuale. Questo ci induce a nascondere i nostri sbagli e le conseveda poi la letteratura citata e le considerazioni di STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 309 ss. (42) SKRABANEK, MCCORMICK, Follie e inganni della medicina, trad. it., Venezia, 1992, p. 27. (43) FOSTER, HUBER, Judging Science, cit., p. 90. A conferma di queste osservazioni si noti che proprio di recente la Corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla configurabilità dell’art. 674 c.p. nel caso di impianti che danno luogo alla produzione di onde elettromagnetiche, ha affermato che ‘‘non v’è alcuna certezza della nocività dei campi elettromagnetici’’. Si vedano Cass., 13 ottobre 1999, n. 5592 e Cass., 14 ottobre 1999, n. 5626, con nota di DE FALCO, Una nuova stagione per l’art. 674 c.p.: strumento di tutela contro l’inquinamento elettromagnetico, in Cass. pen., 2001, p. 144, che sottolinea il ‘‘[...] livello non sempre univoco e non troppo tranquillizzante dei risultati che la conoscenza scientifica è stata in grado di raggiungere in ordine alle conseguenze che derivano alla salute umana e all’ambiente dalla presenza di campi elettromagnetici’’. Di recente in argomento TUMBOLO, L’inquinamento elettromagnetico, Milano, 2001. (44) ROTHMAN, Cancer occurrance among workers exposed to acrylonitrile [abstract], in Scandinavian J. of Work and Environmental Health, 1994, v. 5, p. 313 ss. (45) Si veda per gli opportuni riferimenti su tale caso ed una rassegna di analoghe vicende STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 31. (46) JASANOFF, Science at the bar, Harvard, 1997, p. 208. (47) FOSTER, HUBER, Judging Science, cit., p. 163 ss., si dilungano incisivamente sui limiti della peer review e sulle ripercussioni di tali limiti in quella prassi giudiziaria che tende a utilizzare il mero criterio della ‘‘accettazione generale da parte della comunità scientifica’’ nella valutazione del contributo dei consulenti.
— 1244 — guenze di questa tendenza ad insabbiare possono essere perfino peggiori di quelle dello sbaglio che volevamo nascondere’’ (48). Queste ultime considerazioni spianano la nostra strada verso i diversi e più gravi fenomeni della junk science e della frode scientifica. Mentre l’errore è una componente essenziale, fisiologica e, salvo i casi ‘‘riprovevoli’’, inevitabile, la ricerche assolutamente prive di rigore scientifico e la frode appartengono alla dimensione patologica della ricerca scientifica. Identici però sono gli effetti sul processo ed i rischi, quindi, di distorcerne gli esiti. 4.3. La scienza ‘‘spazzatura’’. — Se il risultato ultimo di ogni ricerca scientifica non è mai definitivamente acquisito, ma viceversa esposto alla perenne falsificabilità ed all’incognita dell’errore, è allora evidente che il giudice non può limitarsi a ricevere acriticamente i risultati di quelle ricerche, ma deve piuttosto vagliare con scrupolo il procedimento e il metodo che ha portato a quei risultati: ‘‘è come le conclusioni sono raggiunte, e non quali sono le conclusioni, che rende le stesse ‘buona scienza’ ’’ (49). Il problema è che proprio percorrendo coscienziosamente questa via il giudice si deve imbattere nella questione di come in concreto le conclusioni scientifiche vengono raggiunte; ed il quadro è sorprendente perché non limitato agli errori in buona fede. Il giudice rischia infatti di trovare sulla sua strada una moltitudine di ricerche presentate come scientifiche, ma realmente prive dei necessari canoni della scienza. È la c.d. ‘‘scienza spazzatura’’, ossia, ‘‘il catalogo di ogni tipo di errore possibile ed immaginabile: dragaggio dei dati, illusione, feroce dogmatismo, e, talvolta, frodi integrali’’ (50). Tali ricerche infestano le riviste specialistiche ed hanno una straordinaria potenzialità di inganno proprio perché mascherate dall’apparenza di ‘‘buona scienza’’: ‘‘la scienza spazzatura’’, scrive infatti Huber, è ‘‘l’immagine speculare (mirror image) della vera scienza, con molto della stessa forma, ma niente della stessa sostanza’’ (51). È chiaro dunque come questi studi, oltre che invadere i media ed essere utilizzati per le più diverse finalità, possono essere introdotti anche (48) MCINTYRE, POPPER, The critical attitude in medicine: the need for a new ethics, in BMJ, 1983, v. 287, p. 1919, ripresi da SKRABANEK, MCCORMICK, Follie e inganni della medicina, cit., p. 72. (49) Così HUTCHINSON, ASHBY, Daubert v. Merrel Dow Pharmaceuticals, inc.: redefining the bases for admissibimility of export scientific testimony, in Cardozo L. R., 1994, p. 1875 s. (50) HUBER, Galileo’s revenge, cit., p. 2. Per una serie di concrete esemplificazioni tratte dalla letteratura scientifica, STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 310 ss. (51) HUBER, Galileo’s revenge, cit., p. 3.
— 1245 — nel processo attraverso il contributo dei consulenti tecnici e falsare gli esiti dell’accertamento giudiziale (52). Nell’ambito della junk science ha assunto oggi dimensioni preoccupanti la frode scientifica. È proprio su quest’ultimo fenomeno, che, concentreremo adesso, brevemente, la nostra attenzione. 4.4. I ‘‘falsi profeti’’ ed i ‘‘traditori della verità’’: frodi e conflitti d’interessi nella prassi della scienza. — Nell’attività scientifica, l’abbiamo visto, si insinuano degli elementi pregiudiziali del singolo scienziato che ne possono condizionare fortemente gli esiti e renderne, di fatto, inaffidabili i risultati. Si deve a due opere divulgative dei primi anni ’80 la diffusione anche tra i non addetti ai lavori di una stupefacente serie di falsificazioni, plagi, manipolazioni di dati nella prassi quotidiana della scienza (53). Questi autori non hanno scoperto nulla di nuovo: si sono, infatti, limitati ad analizzare i numerosi articoli apparsi fino ad allora sulle principali riviste scientifiche di tutto il mondo, che svelavano periodicamente i pregiudizi che affliggevano la ricerca scientifica. E da allora sembra davvero che la comunità scientifica si sia mobilitata: è sufficiente scorrere le più accreditate riviste scientifiche dell’ultimo anno per verificare come il dibattito sul fenomeno della frode scientifica abbia assunto una dimensione impensabile fino a qualche anno fa (54), come sempre più numerosi siano convegni e incontri di studio dedicati al tema, come, infine, sia diventata pressante l’esigenza di nuove strategie di contrasto al fenomeno (55). (52) Tali rischi, ignorati nella lettera giuridica italiana, sono stati ora paventati da STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 311 ss., anche per una serie di concrete esemplificazioni tratte dalla letteratura scientifica. Per la letteratura statunitense, dove il problema è molto sentito, per tutti FOSTER, HUBER, Judging Science. Sientific knowledge and Federal Courts, cit., p. 17. Tra le riviste scientifiche PRICE, ROSEMBERG, The war against junk science: the use of expert panels in complex medical-legal scientific litigation, in Biomaterials, 1998, v. 19, p. 1425 ss. (53) BROAD, WADE, Betrayers of the Truth, Londra, 1983; KOHN, Falsi profeti, cit. (54) Ancora nel 1987 suscitarono grande scalpore STEWART, FEDER, The integrity of the scientific literature, in Nature, v. 325, p. 207 ss.; si veda anche LOCK, Misconduct in medical research: does it exist in Britain?, in BMJ, 1988, v. 297, p. 1351. (55) Tra gli innumerevoli scritti e limitatamente allo scorso anno si veda MARSHALL, Scientific misconduct. How prevalent is fraud? That’s a million-dollar question, in Science, 2000, v. 290, pp. 1662-3; MALAKOFF, Research misconduct. Texas scientist admits falsifying results, ivi, p. 246; HAGMANN, Scientific misconduct. Cancer researcher sacked for alleged fraud, ivi, v. 287, p. 1901 s.; ID., Scientific misconduct. Panel scores of suspect papers in German fraud probe, ivi, v. 288, p. 2106 s.; DYER, Professor reprimanded for failing to act over fraud, in BMJ, 2000, v. 322, p. 573; WHITE, Plans for tackling research fraud may not go far enough, ivi, v. 321, p. 1487; FERRIMAN, Consultant suspended for research fraud, ivi, p. 1429; MAYOR S., New governance framework for NHS research aims to stop fraud, ivi, p. 701; GOTTLIEB, Breast cancer researcher accused of serious scientific misconduct, ivi, v. 320,
— 1246 — Le cause sono le più disparate. È qui sufficiente riflettere sulla pressione sociale tipica di determinati ambienti scientifici, sulle ciniche ambizioni di carriera, sui più reconditi fattori psicologici ed emotivi, sulle parole, insomma, di Broad e Wade quando scrivono che i casi di frode da loro evidenziati rappresentano uno straordinario campionario ‘‘del comportamento dell’uomo, e spesso, della tragedia umana’’ (56). I due studi degli anni ’80 differiscono nelle conclusioni sulla reale estensione quantitativa della frode scientifica. Per quanto possa valere può essere per noi sufficiente il riferimento ad un recente studio norvegese dal quale emerge che il 18% dei ricercatori anziani intervistati è stato testimone durante la propria carriera di frodi scientifiche, contro il 36% di giovani tirocinanti in biomedicina risultanti da uno studio statunitense (57). Strettamente connesso alla frode scientifica, e probabilmente una delle conseguenze di quella, è un altro fenomeno, sempre più studiato dalle stesse riviste specialistiche, ossia i conflitti d’interessi che dominano le ricerche scientifiche. Proprio recentemente Marcia Angell, editorialista del New England Journal of Medicine, chiedendosi provocatoriamente se la ricerca medica sia stata ormai ‘‘posta in vendita’’, punta il dito sui rapporti sempre più stretti tra l’industria e il mondo accademico, sul quel conflitto d’interessi che si genera in capo allo scienziato quando l’industria contribuisce con corposi finanziamenti a sovvenzionarne le ricerche, quando perfino gli stessi tirocinanti vengono fin da subito ‘‘avvicinati’’ con ‘‘cene opulente’’ ed altro genere di eventi mondani a spese, ad esempio, delle società farmaceutiche (58). Le conseguenze emergono da una indagine pubblicata sul Journal of American Medical Association con riferimento a studi oncologici: solo il 5% delle ricerche condotte sulla base di sovvenzioni delle industrie farmaceutiche raggiungono conclusioni sfavorevoli sull’uso di un farmaco prodotto da quella società, comparato con il 38% di studi sullo stesso prodotto effettuati grazie a finanziamenti non profit (59). p. 398; CHRISTIE, Panel needed to combat research fraud, ivi, v. 319, p. 1222; HOEKSEMA, TROOST, GROBBEE, WIERSINGA, VAN WIJMEN, KLASEN, Fraud in a pharmaceutical trial, in Lancet, 2000, v. 356, p. 1773; CLAYBOURN, ANSELL, Using Raman spectroscopy to solve crime: inks, questioned documents and fraud, in Science Justice, 2000, v. 40, pp. 261-71; ELLENBERG, Fraud is bad, studying fraud is hard, in Control Clinical Trials, 2000, v. 21, p. 498 ss. (56) BROAD, WADE, Betrayers of the Truth, cit., p. 8. (57) A tali studi si riferiscono LYNÖE, JACOBSSON, LUNDGREN, Fraud, misconduct or normal science in medical research. An empirical study of demarcation, in J. Medical Ethics, 1999, v. 25, p. 505. (58) ANGELL, Is Academic Medicine for sale, in New England J. Medicine, n. 20, 2000, p. 1516 ss. (59) FRIEDBERG, SAFFRAN, STINSON, NELSON, BENNET, Evaluation of conflict of inte-
— 1247 — I meccanismi di controllo ed autotutela della scienza sono, dunque, deboli, incapaci di filtrarne le impurità ed i pregiudizi. Ed il giudice penale può, allora, davvero affidarsi ciecamente ai verdetti degli scienziati? Può veramente confidare nella neutralità dei giudizi degli esperti? Può davvero essere un consumatore ‘‘passivo’’ di leggi scientifiche o deve piuttosto divenire un consumatore ‘‘informato’’? Non dovrebbero esserci dubbi su questa seconda alternativa ed anche i paragrafi successivi lo confermeranno. 4.5. Valutazioni scientifiche o valutazioni politiche? I limiti della ‘‘strategia del giudizio degli esperti’’ per il processo penale. — Nel 1992 l’allora presidente della FDA (Food and Drug Administration), David Kessler, su pressioni della opinione pubblica, dei media, delle potenti corporazioni di medici e avvocati, e di importanti istituzioni americane, emanò un provvedimento con cui, valutando come possibile la relazione tra un determinato tipo di impianto di silicone al seno e alcune gravi malattie per la donna sottoposta all’impianto, impose il ritiro dal mercato di quelle protesi (60). Nonostante Kessler non avesse in mano le prove della dannosità dell’impianto, le conseguenze di quest’atto furono devastanti: centinaia di avvocati, che videro in quel provvedimento di fonte autorevole l’esplicita dichiarazione della dannosità di quel prodotto, si misero a disposizione di ogni donna che avesse subito quell’operazione e che avesse poi avuto il più diverso problema di salute chiedendo alle aziende produttrici risarcimenti miliardari (61). Nel 1994 il colpo di scena: dopo centinaia di milioni di dollari elargiti dalle case produttrici su condanna delle corti americane e dopo il fallimento di queste aziende, alcuni ricercatori della Mayo Clinic del Minnesota pubblicarono un articolo sulla New England Journal of Medicine con il quale riportavano un approfondito studio condotto su 749 donne che in economic analyses of new drugs used in oncology, in JAMA, 1999, v. 282, p. 1453. Ancora di recente evidenziano tali conflitti d’interessi BODENHEIMER, Uneasy Alliance. Clinical investigators and the pharmaceutical industry, in New England J. Medicine, 2000, v. 342, p. 1539; STELFOX, CHUA, O’ROURKE, DETSKY, Conflict of interest in the debate over calciumchannel antagonist, ivi, 1998, v. 338, p. 101 ss.; DIEPPE, CHARD, TALLON, EGGER, Funding clinical research, in Lancet, 1999, v. 353, p. 1626; CHO, BERO, The quality of drug studies published in symposium proceedings, in Annual Internal Medicine, 1996, v. 124, p. 485 ss. Per l’esperienza di due studiosi italiani GARATTINI, LIBERATI, The risk of bias from omitted research, in BMJ, 2000, v. 321, p. 845 s. (60) Si veda l’articolo del presidente KESSLER, The basis for the FDA’s decision on breast implant, in New England J. of Medicine, 1992, v. 326, p. 1713 ss., che illustra le ragioni di quel provvedimento. (61) Su questa vicenda si veda l’interessante lavoro della ANGELL, Science on Trial: the clash of medical evidence and the law in the breast implant case, Londra-New York, 1997, con i necessari riferimenti bibliografici per il dibattito scientifico e giuridico allora in corso.
— 1248 — avevano ricevuto l’impianto dal 1964 al 1991 dal quale risultava che non vi fosse ‘‘alcuna connessione tra gli impianti al seno e malattie del tessuto connettivo e altri disturbi’’ (62). Ma non basta. Vi sono casi in cui le agenzie, non solo pronunciano verdetti di certezza su vicende caratterizzate viceversa da dubbi e incertezze, ma addirittura giungono ad addomesticare ‘‘la procedura consueta e le norme scientifiche per dare validità’’ alle proprie conclusioni (63). Questo è accaduto nelle valutazioni dell’EPA, espresse in un documento del 1989, sui danni cagionati dal fumo passivo in cui si affermava che ‘‘il fumo passivo è causa nota di cancro al polmone’’. Si scoprì, poi, solo nel 1992, in occasione della divulgazione del rapporto, che l’EPA non aveva dato spiegazioni sul fondamento della sua teoria, e per sostenerla aveva invece ‘‘chiamato in causa l’epidemiologia’’, ma escludendo il riferimento a quegli studi ‘‘da cui risulta la mancanza di associazione tra il fumo passivo ed il cancro, ed enfatizzando il bassissimo rischio messo in evidenza da studi selezionati ad hoc’’ (64). Anche questo documento era stato emanato per motivi politici, per assecondare le lobby anti-fumo, per rafforzare il prestigio della agenzia a scapito di altri organismi. Priva di simili influenze è, invece, un’altra vicenda che ha coinvolto l’EPA e che ci permette di analizzare una terza tipologia di giudizi contrassegnati da valori, questa volta metodologici: nel 1987 l’EPA emanò un documento con cui affermava che l’esposizione ad una determinata sostanza (formaldeide), impiegata nel processo di trattamento del legno pressato, esponeva i lavoratori ad un dato rischio di cancro. Due ricerche successive utilizzando metodologie opposte di valutazione di quel rischio sostennero conclusioni diametralmente opposte tra loro: la prima riteneva che l’EPA aveva errato in eccesso e che non era scientificamente provata (62) Ancora ANGELL, Science on Trial, cit., p. 101 ss. la quale fa poi riferimento anche ad un successivo studio, sempre della Mayo Clinic, del 1996. Sui recenti sviluppi della questione il breve articolo di SHARP, ‘‘Bias’’ challenge fails in breast implant cases, in Lancet, 1999, v. 353, p. 1506. (63) Si veda per queste affermazioni la sentenza della Corte distrettuale per il Distretto centrale della North Carolina contro l’EPA riportata da STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 449 s. (64) STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 448. Per un breve resoconto di questa vicenda si veda REYNOLDS, EPA finds passive smoking causes lung cancer, in J. of National Cancer Institut, 1993, v. 85, pp. 179-180; ID., EPA’s passive smoke assessment: where is it?, ivi, 1992, v. 84, pp. 480-481. Sugli studi che già nel 1992 smentivano l’EPA si veda MAHANEY, Pro-tobacco group attempts to discredit EPA’s announcement, ivi, 1993, v. 85, pp. 609610; per il successivo dibattito scientifico si veda JINOT, BAYARD, Respiratory health effects of passive smoking: EPA’s weight-of-evidence analysis, in J. of Clinical Epidemiology, 1994, v. 47, p. 339 ss., coautori del report dell’EPA, e il deciso attacco a quegli studi da parte di GORI, Science, policy, and ethics: the case of environmental tobacco smoke, ivi, p. 325 ss.
— 1249 — la correlazione tra la sostanza e il cancro, la seconda, viceversa, che il rischio era ben superiore a quello evidenziato dall’EPA (65). Il fatto è che, in realtà, queste vicende, come ulteriori innumerevoli decisioni dell’EPA e delle altre agenzie (66), dimostrano la reale natura delle valutazioni ‘‘scientifiche’’ delle agenzie pubbliche (67). Alle incertezze della scienza gli esperti suppliscono con giudizi permeati da valori pregiudiziali (come nel caso del fumo passivo), contestuali (nel caso della FDA), metodologici (nell’ultima vicenda dell’EPA). È, allora, davvero fuorviante, anche per il giudice, il cieco affidamento alla ‘‘strategia del giudizio degli esperti’’, l’illusione che gli esperti giungano sempre e comunque ad effettuare valutazioni scientifiche oggettive (67-bis). Le conclusioni di quei giudizi sono, infatti, potenzialmente in grado di sviare gli esiti del processo penale, presentando come assolute ed oggettive le deduzioni di agenzie ed organismi i cui processi decisionali sono orientati da logiche e moventi incompatibili con la certezza al di là di ogni ragionevole dubbio che deve guidare il giudice penale nella decisione del caso concreto. Ma v’è di più: proprio il carattere ‘‘autorevole’’ di queste fonti di conoscenza fa sì che il giudice vi presti, quasi incondizionatamente, fede. E si badi, le conseguenze sono devastanti: mentre negli Stati Uniti si ricorrerebbe in questi casi al giudice civile in Italia, in una vicenda analoga, ad esempio, a quella degli impianti al seno, si sarebbero probabilmente condannati ad anni di carcere decine di dirigenti e medici innocenti sulla base di ‘‘venerati’’ documenti di matrice pseudo-scientifica (68). Insomma, per usare le parole del dissacrante Feyerabend, ‘‘è ora di ridurre questa sopravvalutazione e di attribuire alla scienza un posto più modesto nell’ambito della società’’ (69). (65) SHRADER FRECHETTE, Valutare il rischio, cit., p. 122. (66) Per un’ampia panoramica anche delle più recenti sentenze delle Corti statunitensi si veda STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 424 ss. (67) Sulle ambiguità e le interpretazioni contraddittorie delle prove scientifiche nel contesto dei conflitti di carattere politico si vedano anche SCHWARZ, THOMPSON, Il rischio tecnologico. Differenze culturali e azione politica, trad. it., Milano, 1993, p. 66 ss., i quali efficacemente parlano di « controversie tra esperti » (e tra esperti sulle controversie degli esperti) ». Più in generale, le stimolanti riflessioni di BECK, (La società del rischio, cit., p. 219 ss.) sulla « feudalizzazione della prassi della conoscenza scientifica » e sulla trasformazione dei tradizionali destinatari ed « applicatori dei risultati scientifici nella politica, nell’economia e nella sfera pubblica in co-produttori attivi nel processo sociale di definizione della conoscenza ». (67-bis) STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 442 ss. (68) Sulle differenze tra i due ordinamenti e sulla diversa regola di giudizio che deve guidare il giudice nel processo civile e nel processo penale si veda diffusamente STELLA, Giustizia e modernità, cit., in particolare p. 356 ss., ed infra § 6. (69) FEYERABEND, La scienza in una società libera, in Il realismo scientifico e l’autorità della scienza, trad. it., Milano, 1983, p. 414.
— 1250 — 5. La reazione del giudice all’incertezza scientifica: il possibile rifugio nel libero convincimento e nella pretesa imparzialità del consulente tecnico del p.m. — Il giudice nel processo penale vive, allora, in quei casi che implicano il ricorso alle leggi della scienza, una condizione di perenne disagio: un giudice, dunque, sempre più ‘‘consumatore di leggi scientifiche’’ (70), ma al contempo perennemente gravato dalla ‘‘fragilità del mito dello iudex peritus peritorum’’ (71). Per due ordini di ragioni. Non solo per una presunta inaccessibilità del sapere scientifico al campo di cognizione del giudice ‘‘profano’’: già Carnelutti scriveva che ‘‘per giudicare il consiglio del perito il giudice dovrebbe sapere quello che non solo non sa ma che con la chiamata del perito confessa di non sapere’’ (72). Ma anche per gli evidenziati limiti, da un lato, di credibilità ed affidabilità dei consulenti nel processo, dall’altro, di validità delle ricerche scientifiche nate fuori dal processo, ma presupposte nei contributi dei consulenti. Di fronte a queste difficoltà il rischio è che il giudice finisca per rifugiarsi nelle due strade più semplici, in quelle che gli garantiscono ‘‘l’assuefazione’’, ‘‘l’indifferenza burocratica’’, ‘‘l’irresponsabilità anonima’’ (73). La prima consisterebbe nel ricorrere al suo libero convincimento, privo di ogni argine e barriera, quindi, al suo personale intuito svincolato dalla leggi della scienza. Rischio, questo, non peregrino. Come nota Stella, nelle sentenze di diverse corti italiane ed europee si assiste oggi ad un ‘‘rilancio del principio del libero convincimento’’ attraverso degli iter motivazionali assai singolari: alla piena e molte volte esplicita, cognizione, infatti, da parte di quei giudici della oggettiva incertezza delle leggi della scienza nella spiegazione di un determinato nesso causale, seguono sentenze di condanna fondate invece su un convincimento soggettivo che il giudice si forma indipendentemente dai risultati della ricerca scientifica, magari rafforzato dall’utilizzo dei concetti di mera idoneità ex ante o di aumento del rischio (74). (70) STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1990, p. 156. (71) KOSTORIS, I consulenti tecnici nel processo penale, cit., p. 322. (72) CARNELUTTI, Principi del processo penale, Napoli, 1956, p. 215, il quale continua: ‘‘insomma alla superiorità in diritto del giudice sul perito corrisponde la sua inferiorità in fatto di fronte a lui’’. (73) STELLA, Giustizia e modernità, cit., pp. 32 ss., 142 ss., il quale riprende il pensiero di CALAMANDREI (Processo e democrazia, Padova, 1954, p. 63 ss.) per evidenziare che l’indifferenza burocratica del giudice, cioè, il distacco dalle conseguenze delle proprie azioni, dal peso dei dolori inflitti, ostacola la concreta protezione dell’innocente e finisce per avallare l’idea di un ‘‘giudice onnisciente’’, privo di barriere al suo libero convincimento e concentrato piuttosto sull’efficienza burocratica del proprio agire. (74) Con ciò, è stato già detto, queste sentenze hanno dato vita ad una deprecabile
— 1251 — La seconda scorciatoia del giudice potrebbe consistere nell’affidarsi al parere del consulente dell’accusa, ausiliario di un organo spesso ritenuto comunque imparziale, dedito alla ricerca della verità e pur sempre ‘‘autorità giudiziaria’’ e ciò in virtù di un antico retaggio culturale: come scrive Nobili, ‘‘qui da noi giudice e pubblico ministero stanno entrambi dentro quella stessa parola (autorità)’’. Questa è ‘‘l’atavica stortura, l’incrostazione di fondo [...] che quasi fa passare in secondo piano la struttura e l’importanza, altrimenti decisiva, dei modelli processuali via via adottati o riformati’’; ed infatti il concepire che a fronte dell’accusato stia una entità unica, l’autorità giudiziaria, incide profondamente sugli ‘‘atteggiamenti operativi’’, sulle ‘‘strutture mentali, procedurali, istituzionali, operative’’ (75). In effetti, nonostante l’asserito sviluppo del nostro modello processuale, talune ambiguità del codice di rito hanno continuato a fornire l’avallo ad interpretazioni non in linea con la struttura di un autentico processo di parti (76), tanto che diversi settori della magistratura ordinaria prassi giudiziaria incline a manipolare lo schema classico del diritto penale d’evento attraverso una flessibilizzazione del requisito della causalità e della colpevolezza, prassi i cui esiti, raggiunti anche attraverso le già citate consulenze tecniche che introducevano nel processo penale la causalità generale, hanno costituito la più chiara violazione dei principi di legalità e di personalità della responsabilità penale. Su tutti questi argomenti e per le sentenze cui si fa riferimento nel testo, si veda ampiamente STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 163 ss. (75) NOBILI, Un quarto potere?, in Recenti orientamenti in tema di pubblico ministero ed esercizio dell’azione penale (Atti del convegno di Modena, 27 aprile 1996) (a cura di Tirelli), Milano, 1998, p. 34; sull’autorità del giudice e del p.m. anche STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 35 s. (76) Si pensi all’art. 358 c.p.p. che già all’indomani dell’entrata in vigore del codice è stato oggetto di interpretazioni divergenti. Innanzitutto chi — SALVI, in Commentario al nuovo codice di procedura penale (coordinato da Chiavario), Torino, 1990, sub art. 358 c.p.p., p. 171 ss. — trae dal dato letterale (le due congiunzioni e... altresì) la conclusione che ‘‘l’attività di indagine a favore non è meramente accessoria di quella finalizzata all’esercizio dell’azione penale’’, ma ha una sua autonomia capace di incidere sulle finalità della attività del p.m., ‘‘non più solo attività strumentale alla decisione in ordine alla promozione dell’azione penale, ma attività investigativa ad ampio spettro sull’intero tema della decisione con il rischio che le indagini preliminari possano diventare ‘‘l’ampio serbatoio al quale difensore e giudice (quest’ultimo con qualche sbarramento) attingeranno ogni elemento del processo’’. Di diverso avviso, invece, CORDERO, Procedura penale, 5a ed., Milano, 2000, p. 762: ‘‘che debba vedere anche l’altro non è provvidenzialismo inquisitorio, ma elementare cautela’’. Ed in effetti, nonostante l’ambiguità del tenore letterale della norma — anche in rapporto con l’art. 2 n. 37 della legge delega — la Corte costituzionale (ord. n. 96 del 1997, in Cass. pen., 1997, p. 2403, con nota di MELE, Una norma inutile l’art. 358?) chiamata a pronunciarsi sull’omessa previsione di sanzioni processuali per il caso di mancata osservanza del p.m. dell’obbligo di svolgere accertamenti anche a favore dell’indagato, ha affermato che la norma va interpretata in combinato disposto con l’art. 326 c.p.p., quindi ‘‘obbligo funzionale ad un corretto e razionale esercizio dell’azione penale’’ e ‘‘strettamente correlato alla disciplina codicistica che pone al pubblico ministero l’alternativa, al termine delle indagini preliminari, tra la richiesta di archiviazione e l’esercizio dell’azione penale’’. Si confronti, per i medesimi
— 1252 — — come risulta da scritti scientifici (77) e come emerso da una recente rilevazione empirica (78) — e la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale hanno perpetrato l’equivoco di un pubblico ministero ‘‘organo di giustizia’’ (79), ‘‘parte sui generis’’ (80), ‘‘parte pubblica’’ (81), accreditando la ‘‘bizzarra idea di costituire il pubblico ministero come ricercatore imparziale di ogni prova, a carico e a favore’’ (82). concetti espressi dall’estensore in veste scientifica, NEPPI MODONA, Indagini preliminari ed udienza preliminare, in CONSO, GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, 4a ed., Milano, 1996, p. 405. Sostanzialmente sulla stessa linea DALIA, FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, Padova, 2000, 3a ed., p. 457; LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 2000, 3a ed., p. 103; SIRACUSANO, GALATI, TRANCHINA, ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, 3a ed., Milano, 1999, v. II, p. 122; FERRUA, Declino del contraddittorio e garantismo reattivo: la difficile ricerca di nuovi equilibri processuali, in Quest. giust., 1995, n. 2, p. 429: ‘‘la ricerca di elementi a favore non è un fine, ma un mezzo dell’indagine’’; mentre PISANI, ‘‘Italian style’’: figure e forme del nuovo processo penale, Milano, 1998, p. 18, parla di un ‘‘ruolo di supplenza che il p.m. è chiamato a svolgere [...] nei confronti di eventuali carenze della difesa’’. (77) Per tutti MADDALENA, Il ruolo del pubblico ministero nel processo penale, in AA.VV., Il pubblico ministero oggi, Milano, 1994, p. 47 ss. (78) MORISI, Anatomia della magistratura italiana, Bologna, 1999, p. 69 in cui vengono analizzati i risultati di un questionario inviato a tutti i magistrati italiani che, sebbene nel limitato numero di risposte ottenute, consente all’Autore di affermare che i magistrati del pubblico ministero si propongono ‘‘essenzialmente come organo di giustizia a prescindere dalla configurazione di parzialità che esso assume nel processo accusatorio’’. Forse, allora, ha ragione BALDASSARRE (Una Costituzione da rifare, Torino, 1998, p. 51) quando afferma che ‘‘l’innaturale e lunga convivenza dei principi pre-democratici legati al modello inquisitorio con i (pur non organicamente esposti) principi democratici presenti nella Costituzione repubblicana ha prevalentemente generato nei magistrati una cultura formata sui modelli inquisitori ed ha prodotto in loro un diffuso ottundimento nella percezione del contrasto di tale cultura con i modelli democratici’’. (79) ‘‘Organo di giustizia obbligato a ricercare tutti gli elementi di prova rilevanti per una giusta soluzione, ivi compresi gli elementi favorevoli all’imputato’’, così Corte cost., sentenza n. 88 del 1991, in Giur. cost., 1991, p. 586, in particolare p. 590. (80) ‘‘[...] essa opera non per fini propri ma a tutela del superiore interesse al rispetto delle leggi’’, così Corte cost., sentenza 403 del 1999, in Giur. cost., 1999, p. 708. (81) Corte cost., sentenza n. 4 del 1992, ivi, 1992, p. 30; Corte cost., ordinanza n. 8 del 1992, ivi, p. 50; Corte cost., sentenza n. 190 del 1991, ivi, 1991, p. 1777; Corte cost., sentenza n. 262 del 1991, ivi, p. 2125. (82) FERRUA, Declino del contraddittorio e garantismo reattivo: la difficile ricerca di nuovi equilibri processuali, cit., p. 429. La conseguenza di simili impostazioni è che oggi, come scrive questo Autore, il pubblico ministero ‘‘agisce con poteri istruttori’’: sia perché ‘‘i suoi atti d’indagine, pur istituzionalmente destinati all’esercizio dell’azione penale, sono anche utilizzabili nel dibattimento a fini decisori’’ — nello stesso senso MOLARI, Introduzione, in Recenti orientamenti in tema di pubblico ministero ed esercizio dell’azione penale, cit., p. 5: ‘‘la realtà attuale è quella di un p. m. collocato in una posizione che ricorda da vicino i lineamenti dell’istruzione sommaria’’; MARINUCCI, in Recenti orientamenti in tema di pubblico ministero ed esercizio dell’azione penale, cit., p. 377: ‘‘solitario cacciatore di elementi, che poi diventeranno prove’’; GIOSTRA, Quale contraddittorio dopo la sentenza 361/1998 della Corte costituzionale?, in Quest. giust., 1999, n. 2, p. 207 — sia perché nei casi in cui il pro-
— 1253 — Il rischio è che oggi il pubblico ministero, proprio in virtù di quella ‘‘atavica stortura’’, goda di una sorta di ‘‘presunzione di lealtà e probità’’ (83) che produce effetti paradossali nella dinamica del processo: egli è pur sempre autorità giudiziaria, quindi, laddove ‘‘sostiene l’accusa (ciò che accade pressoché sempre) ha la possibilità di farlo tanto più fortemente ed efficacemente proprio in quanto è considerato organo di giustizia, orientato eventualmente a chiedere una giusta punizione all’imputato. Il paradosso, insomma, è che il p.m. svolge una funzione concretamente parziale, ottenendo ciononostante il trattamento di un promotore di giustizia’’ (84). È chiaro l’equivoco: dal carattere tendenzialmente pubblico ed imparziale della funzione dell’organo dell’accusa viene ricavato ed avallato un maggior ‘‘credito’’ processuale dello stesso (85). Questo paradosso si riflette poi in modo speculare sul suo consulente tecnico: secondo quanto risulta dalle ‘‘insospettabili’’ e illuminanti parole di Fiori — il quale esprime il frutto di osservazioni ‘‘sul campo’’ — ‘‘i consulenti del pubblico ministero, pur essendo consulenti di una parte, cioè della accusa, assumono spesso, [...] un credito che finisce per farli equiparare, agli occhi dei giudicanti, a veri e propri periti d’ufficio’’ (86). cesso si conclude con un rito alternativo gli elementi raccolti in solitudine dal pubblico ministero costituiscono la piattaforma su cui si formerà la decisione giudiziale. (83) Così PISANI, ‘‘Italian style’’: figure e forme del nuovo processo penale, cit., p. 17. (84) ZANON, Pubblico ministero e Costituzione, Padova, 1996, p. 114, il quale continua sottolineando i corollari di tale paradosso: ‘‘la pretesa punitiva dello Stato di cui il p.m. chiede al giudice la realizzazione, diventa in questo quadro una funzione quasi sacrale, rispetto alla quale limitazioni processuali e controlli sono meno facilmente giustificabili, la parità delle armi tra accusa e difesa risulta per definizione impossibile e i diritti di difesa e di libertà dei singoli possono costituire, al limite, un fastidioso impiccio’’. (85) Certo che il pubblico ministero svolge una funzione pubblica e deve essere imparziale, ma nello specifico senso, rinvenibile tra le righe di talune sentenze della Corte costituzionale, che sullo stesso ‘‘grava un dovere istituzionale di correttezza e di indifferenza al risultato’’ (Corte cost. sent., n. 241 del 1994, in Giur. cost., 1994, p. 1987), ‘‘di distacco dalle vicende processuali’’ (Corte cost., sent. 215 del 1997, ivi, 1997, p. 2165): come è stato lucidamente messo in luce da FOSCHINI (Tornare alla giurisdizione, Milano, 1971, p. 123125), « una siffatta imparzialità sinonimo di lealtà e rettitudine nell’adempimento della propria funzione, significa che questa non deve essere né distorta verso diverse e particolari finalità, né asservita a preconcetti, né attuata straripando dai limiti suoi naturali’’. È, allora, assolutamente diversa dall’imparzialità come « caratteristica specifica del giudice, nel senso cioè di essere non parte, ma super partes ». Si veda, poi, con esplicito riferimento a quest’ultimo Autore, ZANON, Pubblico ministero e Costituzione, cit. p. 122 s. A ragionare diversamente, ritenendo, come MADDALENA (Il ruolo del pubblico ministero nel processo penale, cit., p. 47 ss.) che il p.m. è ‘‘imparziale come il giudice’’ dovendo come quest’ultimo ‘‘ricercare imparzialmente la verità’’, si continua a perpetrare quell’equivoco, quella commistione tra la funzione del decidere e quella dell’accusare, tra la proposizione di un’ipotesi e la verifica della sua fondatezza (FERRUA, Declino del contraddittorio e garantismo reattivo: la difficile ricerca di nuovi equilibri processuali, cit., p. 429). (86) FIORI, Medicina legale della responsabilità medica, cit., p. 683. In senso analogo
— 1254 — Ecco allora il motivo per cui il giudice potrebbe essere tentato dall’affidarsi alle conclusioni del consulente del p.m., ignorando, però, ciò che è sotto gli occhi di chiunque frequenti le aule giudiziarie e cioè che ‘‘non tutti i consulenti tecnici della pubblica accusa sono capaci di sottrarsi, con distaccata obbiettività, dalla psicologia accusatoria che è inevitabilmente collegata con l’ufficio del pubblico ministero, e in tal modo danno spesso supporto a tesi scientificamente fragili o francamente infondate’’ (87). 6. Quali le possibili soluzioni? Un giudice ‘‘custode’’ del metodo scientifico. — Due, quindi, sono stati gli ordini di problemi evidenziati: uno meramente interno al processo, riguardante falsità ed abusi dei consulenti tecnici, l’altro, esterno al processo e relativo alla generale fallibilità della scienza in cui si insinuano valori soggettivi, capaci persino di degenerare nella frode, che possono alterare i corretti esiti della ricerca scientifica e sviare così il giudice penale. Prendendo a prestito le parole di Sheffler, filosofo della scienza, potremmo dire che per il giudice il dilemma si presenterebbe ‘‘severo e senza speranze: o inghiottire il mito della certezza o ammettere che non possiamo distinguere il fatto dalla fantasia’’ (88). Un ragionevole ventaglio di soluzioni a tali problematiche, invece, deve partire da un ridimensionamento sia della asserita impenetrabilità del sapere scientifico da parte del giudice, sia della aura di infallibilità che circonda ogni verdetto scientifico, per sostenere invece l’ipotesi che ‘‘gli esperti possano sbagliarsi anche nel loro campo di competenza, che cerchino di mascherare la propria insicurezza, che il loro sapere specialistico non sia così inaccessibile come si pensa e che un profano intelligente con TAORMINA, Diritto processuale penale, cit., v. II, p. 557. Tali affermazioni sono confermate dalla giurisprudenza: in alcune pronunce, infatti, viene in modo nitido argomentata la qualifica di pubblico ufficiale in capo al consulente tecnico del p.m., e ciò, si badi bene, in contrapposizione all’esperto della difesa: i primi, ‘‘a differenza dei consulenti dell’imputato, che perseguono interessi di parte privata, concorrono oggettivamente all’esercizio della funzione giudiziaria’’ (Cass., 13 marzo 1996, n. 2675, CED 204516). Tale assunto viene motivato, in altra sentenza, in ragione della ‘‘investitura ricevuta dal magistrato (art. 359 c.p.p.)’’ e dello ‘‘svolgimento di un incarico ausiliario all’esercizio della funzione giurisdizionale’’ (Cass., 30 marzo 1999, n. 4062, CED 214142). I rischi di una simile impostazione dovrebbero essere evidenti: complice la natura di ‘‘autorità giudiziaria’’ del p.m. e il suo ruolo durante le indagini preliminari, il consulente dell’accusa si avvierebbe a diventare un surrogato del perito d’ufficio, dotato di un’aura di oggettività ed imparzialità, partecipe della funzione giurisdizionale, assimilabile poi al testimone durante l’esame dibattimentale, contrariamente al collega della difesa, ‘‘ridotto’’ a difensore tecnico, portatore di interessi di parte e, quindi, di un contributo considerato solo ‘‘parziale’’. (87) FIORI, Medicina legale della responsabilità medica, cit., p. 683. (88) SHEFFLER, Scienza e soggettività, trad. it., Roma, 1983, p. 101.
— 1255 — un po’ di impegno possa impadronirsene in un tempo relativamente breve e servirsene, per poi vedere i loro sbagli’’ (89). Questa ipotesi è del resto talvolta confermata nelle aule giudiziarie: ‘‘scienziati presuntuosi che incutono soggezione, coperti da onorificenze, titoli, cattedre, presidenze di società scientifiche, vengono smontati da un avvocato che abbia il talento di scoprire il loro gergo e di mettere a nudo l’incertezza, la vaghezza, e la monumentale ignoranza che si cela dietro ogni giudizio umano’’ (90). Da questa considerazione generale deve scaturire un ripensamento del compito e del ruolo del giudice, secondo il modello tracciato dalla succitata sentenza della Corte Suprema statunitense e ribadito di recente da Stella: un giudice non più passivo ed acritico recettore delle più diverse ipotesi scientifiche introdotte nel processo, ma strenuo difensore e ‘‘custode del metodo scientifico’’, un giudice, cioè, vincolato nel proprio libero convincimento, da una parte, dal costante riferimento alle leggi della scienza e dall’impiego del metodo scientifico e, dall’altra, dalla regola di giudizio, che deve presiedere ogni processo penale, della certezza al di là di ogni ragionevole dubbio. È chiaro, allora, che, il giudice penale, quando si imbatte in questioni scientifiche complesse, ‘‘ha le mani legate’’: egli deve operare il controllo di scientificità delle ipotesi prospettate dai consulenti, e, quindi, ‘‘verificare non solo se quell’ipotesi ha ricevuto, dai controlli empirici, delle conferme senza controesempi, ma anche se ha resistito ai necessari tentativi di falsificazione e se risulta perciò corroborata in via provvisoria’’ (91). (89) FEYERABEND, La scienza in una società libera, in Il realismo scientifico e l’autorità della scienza, trad. it., Milano, 1983, p. 423. Per considerazioni analoghe sulla possibilità che un lavoro diligente ed accurato possa permettere anche al giudice di valutare l’apporto scientifico degli esperti si veda FAIGMAN, Legal alchemy, cit., p. 64. (90) FEYERABEND, La scienza in una società libera, cit., p. 424. (91) STELLA, Giustizia e modernità, cit., pp. 334-335. I giudici della Corte Suprema, cioè, si rendono conto che la mancanza di certezze nella scienza e le procedure di lavoro degli scienziati impongono alle Corti di ridimensionare l’atteggiamento di pura deferenza verso la comunità scientifica e di sposare un approccio critico, basato sul metodo scientifico e sul rigoroso controllo delle ipotesi scientifiche introdotte nel processo: ‘‘la lezione del Daubert è che le opinioni degli esperti, nei processi civili, non sono più ammissibili sulla base delle loro credenziali; poiché ‘nella scienza non vi sono certezze’, ciò che conta è il rispetto del metodo scientifico; d’altra parte, poiché le concezioni del metodo scientifico che consentono al giudice di ridurre al più possibile il margine di errore, secondo Daubert, sono due — la concezione induttivistica di Hempel e quella anti-induttivistiva di Popper — le Corti, quali custodi del metodo scientifico, debbono seguire l’una o l’altra. [...]’’. Il criterio del consenso generale della comunità scientifica può invece essere solo un criterio ‘‘sussidiario’’ che ‘‘si aggiunge agli altri due’’. In definitiva ‘‘la conferma e la corroborazione dell’ipotesi scientifica restano, per definizione, provvisorie, come resta provvisorio il consenso generale della comunità scientifica; ma l’uso congiunto delle tre concezioni del metodo scientifico dà le maggiori garanzie possibili sull’affidabilità dell’ipotesi provvisoria [...]’’. Per una discussione dei criteri forniti da questa sentenza, anche con riferimento alla realtà italiana, si vedano inoltre
— 1256 — Tutto ciò senza tenere conto delle regole probatorie e di giudizio proprie del processo penale. A questo grande tema Stella dedica i primi due capitoli del suo lavoro; ne esce per la prima volta illuminata in Italia la differenza tra processo penale e processo civile, l’uno dominato dalla regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, l’altro (non purtroppo in Italia) dalla regola del più probabile che no. Ed è appunto dalla penetrazione di queste regole nella quotidiana esperienza giudiziaria che Stella vede il superamento di una grave arretratezza del nostro ordinamento, superamento destinato a determinare una rilevante contrazione del diritto penale e, per quello che qui interessa, una drastica riduzione dell’ambito del sapere scientifico utilizzabile nel processo penale (92). Raramente, allora, nelle questioni scientifiche più complesse, il giudice, operato il controllo di scientificità delle ipotesi prospettate dai consulenti, potrà veramente affermare di aver vinto ogni dubbio ragionevole. E che tale modus procedendi sia possibile, oltre che doveroso, lo dimostra, in concreto, una acuta sentenza del Pretore di Padova, il quale, infatti, dopo aver affermato che ‘‘il giudice deve essere posto nelle condizioni di capire e conoscere il livello di affidabilità scientifica delle informazioni tecniche che riceve e che costituiscono il supporto necessario della sua decisione’’, ha compiuto un approfondito studio clinico, comparando scientificamente le diverse ipotesi prospettate da sei consulenti, per poi esporre le ragioni per le quali ha ritenuto ‘‘di non essere in grado di superare un dubbio che mina la tranquillità di coscienza che deve presiedere ogni affermazione di responsabilità penale’’ (93). Certo, tali indicazioni possono non essere sufficienti per eliminare dalla scena del processo il problema degli abusi dei consulenti tecnici. Innanzitutto perché taluna di quelle condotte produce risultati che TAGLIARO, D’ALOJA, SMITH, L’ammissibilità della prova scientifica in giudizio ed il superamento del Frye Standard: note sugli orientamenti degli USA successivi al caso Daubert v. Merrel Dow Pharmaceuticals, inc., in Riv. it. med. leg., 2000, p. 721. Nella letteratura processualcivilistica italiana sulla sentenza Daubert, TARUFFO, Le prove scientifiche nella recente esperienza statunitense, cit., p. 233 ss.; DONDI, Paradigmi processuali ed ‘‘expert witness testimony’’ nel diritto statunitense, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1996, p. 261 ss.; PONZANELLI, Scienza, verità e diritto: il caso Bendectin, in Foro it., 1994, IV, c. 184 ss. (92) Per queste considerazioni si veda diffusamente STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 53 ss., il quale conclude così le incisive pagine dedicate alla regola del ragionevole dubbio: ‘‘[...] dalla valutazione delle prove va eliminata ogni connotazione autoritaria e totalitaria, e con essa ogni pretesa di ravvisare in una inesistente ragion di stato la fonte di legittimazione delle decisioni giudiziarie. Bisogna proclamare la morte del libero convincimento del giudice, così come è stato inteso fino ad oggi: l’attività del giudice deve limitarsi alla valutazione delle prove offerte dall’accusa; se queste fanno oggettivamente sorgere dei dubbi ragionevoli, il giudice — quali che siano le sue intuizioni, i valori in cui crede, la visione del mondo che si è formata nel ‘crogiuolo’ del suo spirito — deve assolvere’’. (93) Pret. Padova, 7 dicembre 1995, con nota di INTRONA, RAGO, REGAZZO, Il giudice e il coraggio del dubbio, in Riv. it. med. leg., 1997, p. 447 ss.
— 1257 — esulano dall’ambito di un controllo scientifico intersoggettivo: se un consulente omette di riferire taluni elementi osservati durante una autopsia, se consapevolmente altera la raccolta di alcuni dati, se riporta degli studi privati della loro parte essenziale, la controparte difficilmente riuscirà a farne emergere le falsità ed il giudice, per quanto scrupoloso, potrà ben poco. In secondo luogo vi sono una serie di momenti del processo che sfuggono alla sfera del contraddittorio delle parti: si pensi agli accertamenti tecnici irripetibili (94), all’utilizzabilità in dibattimento degli accertamenti di cui è sopravvenuta la irripetibilità, alla valenza probatoria delle indagini scientifiche ai fini dei riti alternativi o delle richieste di provvedimenti cautelari (95). Si tratta, dunque, di verificare quali precauzioni abbia predisposto il nostro ordinamento per prevenire i casi di consulenze false. Il nostro passaggio obbligato consiste, allora, nell’affrontare uno dei nodi irrisolti dal legislatore: la controversa estensione al consulente dell’obbligo di impegnarsi a dire la verità, il valore da attribuire alla deposizione del consulente di parte e la connessa eventuale responsabilità per dichiarazioni false. 7. L’eventuale obbligo di verità dei consulenti tecnici nel processo penale tra affermazioni dottrinali ed esigenze della prassi giudiziaria. — Agli albori del nuovo codice di procedura penale uno studioso, membro della Commissione ministeriale redigente, affermava, con riferimento all’inedita figura di consulenza tecnica ‘‘extraperitale’’ (96), che il ‘‘legislatore [...] non si è sbilanciato molto nella costruzione del sistema, e forse è meglio così [...]’’ poiché ‘‘ci sono degli spazi che devono essere lasciati alla (94) Si pensi soprattutto al caso, abbastanza frequente, in cui, al momento del conferimento dell’incarico al consulente, non sia già stata formalmente individuata la persona nei confronti della quale si procede: in tali fattispecie, ovviamente, ‘‘non ricorre l’obbligo di dare l’avviso al difensore’’ (Cass., 22 giugno 1996, n. 6293, CED 205181), ma le risultanze dell’indagine saranno comunque inserite nel fascicolo del dibattimento. Colui il quale ha la ‘‘sventura’’ di divenire indagato successivamente all’espletamento della consulenza, e magari in virtù proprio di quella consulenza, perde, quindi, anche la possibilità che il proprio consulente partecipi agli accertamenti, attraverso un contraddittorio ‘‘imperfetto’’ (CORDERO, Procedura penale, cit., p. 831), su uno degli elementi che saranno poi ponderati dal giudice per la sentenza dibattimentale ed eventualmente per le decisioni pre-dibattimentali. (95) Queste ipotesi sembrano stridere con il generale riconoscimento che anche, e soprattutto, per quegli aspetti del fatto che richiedono il ricorso alle leggi della scienza, il legislatore ritiene indispensabile, almeno in dibattimento, il vaglio del contributo degli esperti attraverso la contrapposizione dialettica tra tesi ed antitesi. Questo, d’altronde, è ‘‘un corollario applicativo della moderna epistemologia che diffida delle verità unilaterali’’ (così KOSTORIS, I consulenti tecnici nel processo penale, cit., p. 321; più in generale TARUFFO, Modelli di prova e di procedimento probatorio, in Riv. dir. proc., 1990, p. 420 ss.). (96) La definizione è di AMODIO, Perizia e consulenza tecnica nel quadro probatorio del nuovo processo penale, in Cass. pen., 1989, p. 171; ripresa, poi, da KOSTORIS, I consulenti tecnici nel processo penale, cit., p. 29.
— 1258 — prassi’’ e ‘‘solo l’esperienza operativa può plasmare un istituto nella sua precisa fisionomia’’ (97). Ebbene, a distanza di tredici anni siamo, purtroppo, costretti a constatare un eccesso di ottimismo in quelle affermazioni. La norma di riferimento, l’art. 501 c.p.p., disponendo che ‘‘per l’esame dei periti e dei consulenti tecnici si osservano le disposizioni sull’esame dei testimoni, in quanto applicabili’’, ha sostanzialmente demandato alla discrezionalità dei singoli giudici di merito la determinazione delle modalità con cui condurre e del valore da attribuire all’esame del consulente tecnico. ‘‘Questa è una valvola che si può aprire e chiudere per assimilare o disgiungere la posizione del consulente tecnico a quella del testimone’’ (98): ed infatti a seconda dei diversi tribunali — come può agevolmente constatare chiunque frequenti le aule giudiziarie — il consulente sembra avvicinarsi all’expert witness del processo angloamericano, al ‘‘testimone esperto’’ o appare, piuttosto, ridotto ad un semplice ‘‘difensore tecnico’’ delle parti, quasi ricordando così il modello propugnato dal codice Rocco (99). Le conseguenze pratiche sono paradossali e ben esemplificate da due ordinanze del Tribunale di Torino: diverse sezioni nello stesso giorno hanno sostenuto tesi opposte. Da una parte si afferma l’intenzione del legislatore che ‘‘il consulente si ispiri ai principi di lealtà e sincerità che sono alla base della formazione della prova nel processo penale’’ impegnandosi ‘‘a dire tutta la verità’’ (100) creando, al contempo, un serio affidamento nel giudice sulla lealtà e correttezza del proprio operato; dall’altra, invece, che il consulente è soltanto un ‘‘ausiliare della parte’’, non tenuto a ‘‘quel formale impegno che ex art. 226 c.p.p. caratterizza l’attività del perito’’ (101), a cui per usare le parole di Rocco, ‘‘il giudice crederà nei limiti in cui crede agli avvocati’’ (102), vale a dire, nella terminologia del nuovo processo, alle parti (103). (97) AMODIO, Perizia e consulenza tecnica nel quadro probatorio del nuovo processo penale, cit., p.171. (98) AMODIO, Perizia e consulenza tecnica nel quadro probatorio del nuovo processo penale, cit., p. 171. (99) Ovviamente con riferimento ai soli consulenti della difesa, si veda la Relazione del Guardasigilli al progetto preliminare di un nuovo codice di procedura penale, in Lavori preparatori del codice penale e del nuovo codice di procedura, Roma, 1929, vol. VIII, p. 63. (100) Trib. Torino, sez. I, ord. 20 marzo, 1991; nonché Trib. Torino, sez. III, ord. 8 giugno, 1990, entrambe con nota di MARINI, Obbligo di veridicità del consulente tecnico, in Giur. pen., II, 1994, p. 77 ss. (101) Trib. Torino, sez. II, ord. 20 marzo, 1991; App. Torino, sez. III, 14 febbraio, 1992, ivi. (102) Relazione del Guardasigilli al progetto preliminare di un nuovo codice di procedura penale, cit., p. 64. (103) La scelta per l’una o l’altra opzione ha, tra l’altro, effetti rilevanti sulle modalità di audizione del consulente: se questi viene ritenuto un testimone verrà, infatti, esaminato singolarmente e separatamente, mentre gli altri consulenti, impegnati nello stesso pro-
— 1259 — L’alternativa, quindi, non è irrilevante. È chiaro, comunque, che dietro la formale questione di un possibile obbligo dei consulenti di prestare la dichiarazione d’impegno (104), e quindi dell’applicabilità agli stessi dell’art. 497 c.p.p., si nasconde il più ampio e prioritario problema del ruolo del consulente tecnico, del valore probatorio delle sue dichiarazioni e del suo contributo anche pre-dibattimentale, del suo eventuale obbligo di verità in analogia a quanto previsto per i testimoni (105). Naturalmente la contraddittorietà del dato testuale produce anche in dottrina i più diversi ‘‘punti di vista’’: accanto a chi, autorevolmente, sostiene l’estensione dell’art. 497 c.p.p. anche ai consulenti, con l’obbligo, quindi, di prestare la dichiarazione d’impegno a dire la verità (106), v’è chi distingue tra le posizioni del consulente dell’accusa e quello dell’imputato, correndo, però, in tal modo, il rischio di svalutare l’apporto del consulente tecnico della parte privata, alterare l’equilibrio tra le parti e pregiudicare il metodo dialettico di formazione della prova (107). Anche questi pericoli, d’altronde, hanno indotto Kostoris, autore di cedimento, dovranno rimanere fuori dall’aula, con ciò precludendo, in concreto, un contraddittorio tecnico e il vaglio contestuale dei pareri tecnici. Su questo notevole problema, FIORI, Medicina legale della responsabilità medica, cit., p. 769; Pret. Padova, 7 dicembre 1995, con nota di INTRONA, RAGO, REGAZZO, Il giudice e il coraggio del dubbio, cit., p. 447 ss. (104) La questione se i consulenti debbano o meno prestare il formale impegno a dire la verità passa decisamente in secondo piano: non è tale dichiarazione che, come scrive E. GALLO (Il falso processuale, Padova, 1973, p. 270), ‘‘si riduce unicamente a quella funzione di sollecitazione dell’impegno globale della coscienza verso la società nel momento in cui il teste si accinga a compiere un atto fondamentale del processo’’, il fondamento di un eventuale obbligo di verità. (105) Su quest’ultimo punto, infatti, vi è un preciso orientamento dei giudici di legittimità incline ad assimilare la posizione dei consulenti a quella dei testimoni: i consulenti tecnici, scrive la Corte, ‘‘hanno sostanziale qualità di testimoni’’, la loro posizione ‘‘è in tutto assimilata a quella dei testi’’ con la conseguenza che ‘‘non può essere poi negata al giudice la possibilità di desumere elementi di prova e di giudizio dalle loro dichiarazioni e dai loro chiarimenti, senza l’obbligo di disporre apposita perizia se con adeguata e logica motivazione, il medesimo giudice ne dimostri la non necessità per essere gli elementi forniti dai consulenti privi di incertezze, scientificamente corretti, basati su argomentazioni logiche e convincenti’’ (Cass., 10 aprile 1997, n. 3383, in G. dir., 1997, n. 26, p. 68; Cass., 13 giugno 1994, n. 6792, CED 198108; Cass., 16 marzo 1995, n. 2793, CED 200996). Un tale orientamento, operando una concreta assimilazione tra le due figure e conferendo all’apporto del consulente valore di prova, implica necessariamente un dovere di verità in capo al consulente tecnico. (106) CORDERO, Codice di procedura penale, Torino, 1992, p. 607. (107) Secondo una prima impostazione, ammesso un dovere di veridicità a carico di entrambi, si tratterebbe di differenziarne l’estensione in ragione dei diversi ruoli processuali: il consulente del p.m. ‘‘a differenza dei consulenti delle parti private, potrà svolgere anche una funzione quasi testimoniale, nel momento in cui sarà chiamato a riferire circa le indagini compiute e i dati acquisiti’’, mentre per il consulente della parte privata si tratterà di escludere un simile obbligo con riferimento ‘‘alle conoscenze particolari’’ acquisite ‘‘al di fuori del procedimento’’ — a tutela, naturalmente, della riservatezza del rapporto fiduciario con il
— 1260 — un’approfondita monografia sui consulenti tecnici nel nuovo processo penale, ad escludere un obbligo di verità degli esperti nominati dall’accusa o dalla difesa. Vediamo le principali argomentazioni a sostegno della sua tesi. Innanzitutto il consulente è un ausiliare della parte, da questa nominato e a questa legato da un contratto di prestazione d’opera, con cui si impegna a fornire un supporto tecnico-scientifico (108). Ciò implica che il consulente è tenuto a ‘‘proporre e sostenere gli argomenti favorevoli alla parte che rappresenta’’ (109), quindi, senza alcun obbligo di far conoscere la verità. D’altronde ‘‘il concetto di sincerità non si attaglia tanto ad un parere tecnico-scientifico’’ (110), tanto che il legislatore non ha previsto una specifica dichiarazione di impegno per il consulente tecnico di parte, mentre una tale dichiarazione è espressamente prevista per il perito d’ufficio dall’art. 226 c.p.p. Né d’altra parte sarebbe estendibile ai consulenti tecnici di parte, mediante il rinvio dell’art. 501 all’art. 497 c.p.p., la dichiarazione d’impegno prevista in quest’ultima norma per l’esame testimoniale a causa della profonda differenza tra la figura e il ruolo del consulente tecnico e del testimone (111). proprio assistito —, limitandolo viceversa alle ‘‘generali conoscenze scientifiche [...], e a quanto di particolare possa(no) percepire nel corso delle operazioni compiute nell’ambito del procedimento’’, così NAPPI, Guida al codice di procedura penale, Milano, 2000, p. 401. Sempre su questa linea sembrerebbe chi argomenta l’obiettività della funzione del consulente tecnico, deducendola dalla ratio delle norme sulle cause di incompatibilità per l’assunzione di questo ufficio: queste norme sarebbero indicative di ‘‘posizioni processuali legate a quella dell’imputato da nessi che le rendono palesemente inconciliabili con l’obiettività che deve improntare l’esercizio della funzione di consulente tecnico’’ (corsivo mio) TRANCHINA, I soggetti, in SIRACUSANO, GALATI, TRANCHINA, ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, v. I, Milano, 1996, p. 240. Per altri Autori, invece, la differenza sarebbe ben più netta: il consulente dell’accusa è un pubblico ufficiale, tenuto a dire la verità e a prestare la dichiarazione d’impegno, e, quindi, alle sue dichiarazioni dovrà essere ‘‘attribuito valore probatorio’’, mentre il consulente della difesa, fornendo ‘‘il suo apporto tecnico mediante un’attività sostanzialmente difensionale’’, non è vincolato ‘‘al perseguimento di fini di verità oggettiva super partes’’ si vedano POTETTI, Note in tema di consulente tecnico extraperitale, in Cass., pen., 1997, p. 289 ss.; CREMONESI, Natura giuridica e funzioni del consulente tecnico del pubblico ministero nelle indagini preliminari, in Giust. pen., 1995, fasc. 4, p. 240; MARINI, Obbligo di veridicità del consulente tecnico, cit., p. 78 s. (108) KOSTORIS, I consulenti tecnici nel processo penale, cit., pp. 122 e 218 dove, a conferma della complessità del problema, l’Autore non nasconde il fatto che il consulente svolge ‘‘un ruolo che si pone a metà strada tra la ricostruzione scientifica dei fatti e l’attività retorica’’. (109) KOSTORIS, I consulenti tecnici nel processo penale, cit., p. 320. (110) KOSTORIS, I consulenti tecnici nel processo penale, cit., p. 341. (111) Mentre la testimonianza è ‘‘una dichiarazione narrativa a titolo di verità, che descrive (sia pur non prescindendo da giudizi di valore) episodi del passato ai quali il soggetto ha assistito o che ha percepito o che ha appreso per altra via in modo casuale’’, la con-
— 1261 — Vi è, poi, un argomento di fondo, di stampo epistemologico. Nel metodo dialettico, nel confronto tra tesi ed antitesi, sembra ‘‘passare in secondo piano’’ la possibilità di un impegno a far conoscere la verità: ‘‘le opinioni espresse nel contraddittorio delle parti contano di più per il loro valore intrinseco, per quanto di esso resiste alle confutazioni del controesame che non per la posizione del soggetto che le ha rese’’ (112). Infine, si sostiene, la mancata previsione di un reato di ‘‘falsa consulenza tecnica’’ sarebbe indice inequivocabile della volontà del legislatore di non imporre un obbligo di verità a carico del consulente tecnico (113). 8. Per una ridefinizione della questione. — Al quadro offerto dalla dottrina e dalla giurisprudenza può opporsi una diversa e più concreta ipotesi di ricostruzione della questione che parta proprio dal problema da risolvere — e cioè l’inquietante dato che ci offre la prassi sugli abusi dei consulenti e sulle devastanti conseguenze che questi possono avere in un processo penale — magari ridimensionando i contrastanti ed equivoci profili dogmatici. Dopo tutto ciò che si è detto sulla incertezza della scienza e sui valori soggettivi che permeano la ricerca scientifica è evidente che di ‘‘verità’’, nel processo penale, può davvero parlarsi solo come corrispondenza al corpo delle conoscenze corroborate in via provvisoria in una precisa cornice storica: in relazione, cioè, ad un sistema di conoscenze ‘‘comunemente accettato [...] costituito dal sapere oggettivo che in un certo momento storico si è consolidato ed è contenuto nei trattati, nei manuali, nelle riviste, negli atti congressuali, nei grafici, nei disegni, nelle microfotografie e in tutti gli altri supporti materiali capaci di veicolare informazioni’’. Quest’insieme di conoscenze rappresenta ‘‘la realtà a cui fare riferimento, [...] una descrizione del mondo che, per una convenzione accettata universalmente, in un certo momento storico viene considerata vera’’. sulenza tecnica, cioè ‘‘la percezione dei fatti e la conseguente opera deduttiva sul piano tecnico-scientifico’’, si svolge, post factum, in adempimento di un incarico, in una prospettiva, quindi, sempre parziale. Allora ‘‘far testimoniare il consulente tecnico sull’oggetto della sua consulenza, anziché esaminarlo come consulente, implica di voler trasformare un soggetto di parte, che ha agito sino a quel momento in una prospettiva di parte, in un soggetto imparziale, accreditando come oggettive e veridiche le sue affermazioni’’. Per il consulente nominato dal p.m., poi, ciò implicherebbe la possibilità che costui possa testimoniare su quanto da lui percepito, compiuto e dedotto in occasione degli accertamenti (ripetibili) effettuati ex art. 359 c.p.p. — unilateralmente e senza garanzie per la difesa — che, destinati, in via generale, al fascicolo del p.m., finirebbero per acquisire valore probatorio, così KOSTORIS, I consulenti tecnici nel processo penale, cit., p. 121 ss. (112) KOSTORIS, I consulenti tecnici nel processo penale, cit., p. 319. Nello stesso senso FRIGO, Il consulente tecnico della difesa nel nuovo processo penale, in Cass. pen., 1988, p. 2185: ‘‘dentro questo metodo di conoscenza si scolora persino quell’obbligo formale di verità che siamo abituati a vedere solennemente espresso nel giuramento’’. (113) KOSTORIS, I consulenti tecnici nel processo penale, cit., p. 305.
— 1262 — È chiaro, allora, che le consulenze, possono ‘‘essere considerate vere o false a seconda che si adeguino o meno a quel sistema di conoscenze’’ (114). All’interno di questo corpus di conoscenze, quindi, il consulentescienziato svolge le proprie ricerche inevitabilmente condizionato dal contesto in cui opera, dal ruolo, cioè, di ausilio tecnico assunto all’interno del processo: l’operare nel processo è, quindi, per lo scienziato, uno di quegli ‘‘elementi caratteristici’’, di quei ‘‘fattori soggettivi’’, di quei valori contestuali che influenzano le sue scelte. Ogni esperto, infatti, tenderà a sostenere le ragioni della parte a cui è legato secondo i dettami del metodo dialettico, così come prescelto dal legislatore: la componente retorica assume certamente un rilievo decisivo, l’accentuazione di taluni aspetti rispetto ad altri diviene del tutto lecita (115). D’altra parte, come scrivono Perelman e Olbrechts-Tyteca, ‘‘ogni argomentazione presuppone [...] una scelta consistente non solo nella selezione degli elementi dei quali si fa uso, ma anche nella tecnica con cui vengono presentati’’ (116). Tutto ciò è perfettamente legittimo (117). Anche se il consulente fosse intimamente convinto della bontà della tesi della controparte potrebbe e, addirittura, dovrebbe comunque sostenere un iter argomentativo che, sempre all’interno e nei limiti di quel corpo di leggi della scienza, favorisca la propria parte. E lo dicono esplicitamente anche i più autorevoli studiosi di medicina legale: ‘‘il consulente di parte non deve (solo perché è ‘di parte’) stravolgere il dato obbiettivo, ma deve trovare spazio d’azione, in favore della propria parte, solo quando il dato obbiettivo è in(114) Queste considerazioni sono compiute da due autorevoli studiosi di metodologia clinica con riferimento alla verità e falsità delle diagnosi; si vedano FEDERSPIL, SCANDELLARI, L’errore clinico: un’introduzione, in Atti della Società italiana di medicina interna, Roma, 1994, p. 362, il cui pensiero è ampiamente illustrato da STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 331 ss.; in senso analogo il ‘‘punto di vista’’ medico-legale di FIORI, Medicina legale della responsabilità medica, cit., p. 697, il quale con riferimento alla valutazione della responsabilità medica ritiene imprescindibile avvalersi ‘‘della letteratura ufficiale del contingente momento storico, in particolare di quella accreditata nei manuali e trattati di indiscusso prestigio, ovvero di rassegne aggiornate pubblicate sulle riviste internazionali più selettive e prestigiose’’. (115) GENTILOMO, Consulenze e consulenti. Un discorso sul metodo, cit., p. 45. (116) PERELMAN, OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione, trad. it., Torino, 1966, p. 127. Sulla retorica scientifica, ossia sull’ ‘‘insieme di tecniche argomentative di persuasione che gli scienziati usano per raggiungere le proprie conclusioni’’, si veda PERA, Il ruolo e il valore della retorica nella scienza, in AA.VV., L’arte della persuasione scientifica, Milano, 1992, p. 49 ss.; ID., Scienza e retorica, Roma-Bari, 1991. (117) Già nel 1897 LUCCHINI (La perizia scientifica nel processo penale, cit., p. 23) scriveva che nei procedimenti penali ‘‘non di rado’’ avvengono ‘‘dissensi profondi in materie che si dicono esatte [...] fra periti di rigida onestà e di altissima capacità’’.
— 1263 — certo oppure è certo, ma può consentire valutazioni in qualche punto divergenti’’ (118). D’altra parte la consulenza per essere tale, per poter assolvere alla propria funzione, non può eludere quelle che sono le sue caratteristiche essenziali, costitutive ed, innanzitutto, la completezza della motivazione: in qualunque consulenza ‘‘si deve poter dimostrare ogni asserto enunciato’’ e quindi ‘‘l’argomentazione deve valersi di un supporto bibliografico ampio, circostanziato e criticamente illustrato’’ (119). Questo è possibile solo se l’apporto scientifico del consulente rimane circoscritto al corpo delle conoscenze scientifiche corroborate in via provvisoria (120). La particolare prospettiva di parte e la scientificità dell’ipotesi possono, dunque, convivere: anzi, è bene ribadirlo, ogni ricerca scientifica è parziale, ma non per questo falsa o scientificamente infondata (121). Lo scienziato, l’abbiamo già visto, non è mai stato ‘‘l’uomo che alla soglia del proprio laboratorio respinge il pregiudizio, che raccoglie ed esamina i fatti puri e oggettivi, e la cui fedeltà è a quei fatti e a essi solo’’ (122). In quest’ultimo senso si può, allora, certamente concordare con quanti ritengono che non si possa parlare di un obbligo di verità dei consulenti tecnici e che la sincerità non si attaglia ad un parere scientifico: il consulente, nell’ambito di quel corpo di conoscenze scientifiche corroborate in via provvisoria in una determinata cornice storica, deve portare al giudice gli argomenti a sostegno della parte che assiste. Diversi sono, però, i casi in cui il consulente, secondo le ipotesi esa(118) INTRONA, Tipologia, tecnica e rilevanza probatoria delle perizie medico-legali in relazione alla riforma del codice di procedura penale, in AA.VV., La medicina legale ed il nuovo codice di procedura penale (a cura di De Fazio, Beduschi), Milano, 1989, p. 42. (119) GENTILOMO, Consulenze e consulenti. Un discorso sul metodo, cit., p. 47. Tra l’altro anche il nostro codice di procedura penale, quando fa riferimento, all’art. 220 c.p.p., a ‘‘specifiche competenze scientifiche’’, fa un implicito rinvio ad un sistema di conoscenze che deve avere carattere scientifico: come troviamo scritto nella sentenza Daubert v. Merrell Dow Pharmaceuticals, cit., ‘‘l’aggettivo scientifica implica un radicamento nei metodi e nella procedura della scienza’’. (120) Addirittura i più attenti studiosi di medicina legale sostengono che un’altra prerogativa della consulenza, peraltro strettamente correlata alla realizzazione delle finalità di ausilio tecnico che la consulenza si pone, è la ‘‘sostanziale imparzialità’’. Così GENTILOMO, Consulenze e consulenti. Un discorso sul metodo, cit., p. 46 s. Anche nella dottrina nordamericana si sottolinea come caratteristiche dell’expert witness debbano essere l’indipendence e l’objectivity, così, diffusamente, LUBET, Expert witness: ethics and professionalism, in Georgtown J. of Legal Ethics, 1999, p. 467 s. Negli stessi termini il giudice WEINSTEIN, Science, and the challenges of expert testimony in the courtroom, in Oregon L. R., 1998, v. 77, p. 1015 s. (121) La parzialità è quindi intrinseca, congenita alla metodologia individuale di ricerca scientifica, come all’operato del consulente, inevitabilmente influenzato dalle finalità di difesa della parte che lo ha assoldato. (122) KUHN, La funzione del dogma nella ricerca scientifica, cit., p. 4.
— 1264 — minate (123), ponendosi deliberatamente al di fuori di quel corpo di ipotesi scientifiche corroborate, prospetta delle ricerche e dei dati falsi, privi dei connotati costitutivi ed essenziali di ogni indagine scientifica. In questo caso i suoi resoconti non sono ‘‘discutibili’’, non possono adempiere all’obbligo della motivazione e si sottraggono alla possibilità di verifica del giudice e al vaglio in contraddittorio delle parti. È evidente, infatti, che il contraddittorio condotto in malafede, con la consapevolezza, cioè, della non correttezza, della non genuinità, delle proprie affermazioni, finirà per bloccarsi nella contrapposizione tra asserti scientifici falsi, sganciati dai canoni della scienza, non suscettibili di verifica empirica né di quel ‘‘controllo intersoggettivo’’ che si ritiene essere garanzia dell’oggettività delle asserzioni della scienza (124): di un tale contraddittorio il giudice non potrà mai venire a capo, frustrando, così, come ben messo in evidenza dal dibattito angloamericano sul punto, le stesse finalità dell’esame incrociato (125). E si badi: nelle ipotesi di falsità evidenziate non sembrerebbe esservi concretamente una distinzione tra giudizi di fatto e giudizi di valore. Non v’è, infatti, differenza tra il ritenere una consulenza falsa quando contiene una asserzione non corrispondente ad un dato di fatto (si pensi ad esempio ‘‘alla descrizione di noduli silicotici in un polmone il quale presenti solo fibrosi ed enfisema polmonare’’ (126) o alla omessa indicazione della milza nel caso del dott. Erdmann citato in apertura); oppure quando, presupponendo dati, ricerche, studi non veritieri, viene falsata negli ‘‘enunciati valutativi’’ conseguenti (127) (si pensi al caso, riportato dalla giurisprudenza americana, di un esperto medico-legale che, sulla base di dati scientemente falsi desunti da una autopsia, ha indicato come assolutamente corretta una determinata ora del decesso al fine di poter così sup(123) Ci si riferisce al § 3.1. (124) POPPER, Congetture e confutazioni, cit., p. 29. COMOGLIO, ZAGREBELSKY, Modello accusatorio e deontologia dei comportamenti processuali nella prospettiva comparatistica, in questa Rivista, 1993, p. 487, scrivono che ‘‘la pienezza del contraddittorio non ha nulla a che vedere con l’alterazione consapevole della verità dei fatti. Il contraddittorio attiene a tutto quello che — in fatto ed in diritto — è controvertibile’’. (125) Per una interessante riflessione dal punto di vista del giudice, WEINSTEIN, Science, and the challenges of expert testimony in the courtroom, cit., p. 1005 ss.; ma anche GEE, The expert witness in criminal trial, cit., p. 307; SPENCER, The neutral expert: an implausible bogey, in Criminal L. R., 1991, p. 106. (126) PELLEGRINI, Perizia medico-legale, in Noviss. Dig., 1965, p. 975. (127) Per dirlo anche con le parole della Cassazione, in tema di reati contro la fede pubblica, ‘‘può dirsi falso l’enunciato valutativo posto a conclusione di un ragionamento fondato su premesse contenenti false attestazioni’’, così, da ultimo, Cass., 9 febbraio 1999, in Cass. pen., 2000, p. 377; Cass., 11 febbraio 1997, ivi, 1998, p. 107, alla cui nota si rinvia per i precedenti conformi. In dottrina si veda NAPPI, Falso e legge penale, Milano, 1999, p. 11.
— 1265 — portare l’ipotesi accusatoria) (128); ovvero quando utilizza falsamente la ‘‘struttura teorica che media la connessione tra l’asserto e la realtà’’ formulando un giudizio non conforme alle teorie ritenute vere in un dato momento storico (ad esempio, sulla cancerogenicità di una determinata sostanza) (129). Insomma, per dirlo con le parole di Fiori, ‘‘la faziosità della consulenza di parte, che stravolge spesso i confini della scienza accreditata, non può giustificarsi, qualunque sia il suo obbiettivo’’ (130) ed in questo senso è, quindi, indubbio che i consulenti abbiano un obbligo di verità e che l’ordinamento debba sanzionarne la violazione. D’altronde nei casi in cui non possa concretamente ritenersi una consulenza vera, quando, cioè, manchi quella base di conoscenze accettate in un determinato momento storico e le questioni scientifiche affrontate nel processo sono molto complesse, ‘‘dominate dal paradigma dell’incertezza’’, il problema della correttezza della consulenza è risolto alla radice perché ‘‘la pronuncia di una sentenza di condanna risulta [...] impossibile’’ proprio in virtù della regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio (131). Avendo delineato, dunque, cosa debba intendersi per consulenza ‘‘falsa’’, non resta ora che verificare se abbiano ragione coloro i quali ritengono che il codice penale non preveda delle fattispecie incriminatrici sotto le quali possano essere sussunte le condotte di falsa consulenza, e da tale carenza traggono argomenti per negare un obbligo di verità dei consulenti tecnici; o se, piuttosto, nonostante il legislatore abbia sottovalutato il fenomeno non contemplando una specifica fattispecie, comunque residui un complesso di norme che reprimono irragionevolmente solo talune condotte di falsità. 9. Le condotte penalmente rilevanti del consulente tecnico ed il mancato coordinamento del codice sostanziale alle norme processuali. — Autorevoli studiosi denunciavano, già ai tempi dell’emanazione del nuovo codice di procedura penale, il mancato coordinamento tra le norme processuali ed il ‘‘vecchio’’ codice penale sostanziale, e, in particolare, per il (128) GIANNELLI, The abuse of scientific evidence in criminal cases: the need for independent laboratories, cit., p. 451 s. (129) FEDERSPIL, SCANDELLARI, L’errore clinico: un’introduzione, cit., p. 363. Anche qualche giudice di legittimità sembra condividere la possibilità di sindacare una consulenza articolata su un’interpretazione critica della realtà quando scrive che ‘‘può dirsi falso l’enunciato valutativo che contraddica criteri di valutazione indiscussi o indiscutibili’’, così, Cass., 9 febbraio 1999, cit., p. 379 ss. Lo stesso codice penale, d’altronde, conferma che un tale accertamento è tutt’altro che impossibile come dimostra il reato di falsa perizia (art. 373 c.p.), nel caso in cui il perito, secondo la lettera della norma, ‘‘dà parere o interpretazioni mendaci’’. (130) FIORI, Medicina legale della responsabilità medica, cit., p. 778. (131) STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 347.
— 1266 — nostro tema, l’ambito dei delitti contro l’amministrazione della giustizia (132). Queste fattispecie sono, in effetti, rimaste poi pressoché invariate nel loro nucleo originario fatte salve, per quanto di nostro interesse, le modifiche del d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (poi convertito, con modificazioni, nella l. 7 agosto 1992, n. 356) il cui esame segnala due utili indicazioni ai nostri fini: l’introduzione dell’art. 374-bis c.p., che come vedremo può avere rilevanza in determinati casi; e la modifica dell’art. 377 c.p. che prevede ora, tra i destinatari della condotta di subornazione, anche il consulente tecnico, ritenendo, quindi costui soggetto attivo di almeno uno dei reati di cui agli art. 371-bis (false informazioni al pubblico ministero), 372 (falsa testimonianza), 373 c.p. (falsa perizia) (133). Invero, su tale ultima questione si sostiene generalmente che per ‘‘consulente tecnico’’ nell’art. 377 c.p. si intenderebbe esclusivamente il consulente tecnico nel processo civile (134); ma proprio il codice di procedura civile contiene una norma che renderebbe superflua questa successiva specificazione: l’art. 64 c.p.c. già prevedeva, infatti, che al consulente tecnico d’ufficio ‘‘si applicano le disposizioni del codice penale relative ai periti’’. A conferma del fatto che l’art. 377 c.p. potrebbe fare riferimento anche al consulente tecnico nel processo penale, la Corte di cassazione, in una recente pronuncia, rende un consulente del pubblico ministero destinatario di una condotta di subornazione ‘‘mirante, in sostanza, alla manipolazione dell’accertamento tecnico’’ e ciò in quanto la modifica del 1992 ha incluso ‘‘tra i destinatari dell’offerta non accolta anche il consulente del p.m.’’ (135). La stessa sentenza suggerisce, poi, indirettamente, che il consulente tecnico possa essere soggetto del reato di falsa testimonianza: si dice infatti che si applicherà l’art. 377 c.p. purché il consulente ‘‘abbia già assunto la veste di testimone per effetto di citazione a comparire’’ (136). (132) BRICOLA, Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale, in Ind. pen., 1989, p. 316 ss.; FIANDACA, Dalla riforma del processo alla riforma del codice penale, in Quest. giust., 1990, p. 381; PADOVANI, Il nuovo codice di procedura penale e la riforma del codice penale, in questa Rivista, 1989, p. 922 s.; PISA, La riforma dei reati contro l’amministrazione della giustizia tra adeguamenti ‘‘tecnici’’ e nuove esigenze di tutela, ivi, 1992, p. 814 ss. (133) Identico discorso, naturalmente, deve essere fatto con riferimento alla modifica dell’art. 384 c.p. per i casi di non punibilità. (134) ROMANO B., La subornazione, Milano, 1993, p. 83: ‘‘la vera portata dell’inclusione del consulente tecnico tra i destinatari dell’attività allettatoria è esclusivamente quella di chiarire che risponde del reato di subornazione anche chi suborna il consulente di ufficio del processo civile’’. (135) Cass., 30 marzo 1999, n. 4062, CED 214146. (136) Cass., 30 marzo 1999, n. 4062, cit.
— 1267 — Si tratterà, allora, tra breve, di andare più in profondità e valutare se eventuali condotte del consulente tecnico possano avere rilevanza penalistica anche secondo le norme sostanziali preesistenti al nuovo codice di procedura penale ed in particolare se talune di quelle condotte possano essere sussunte nell’art. 372 c.p. dedicato alla falsa testimonianza. Prima, però, è necessario sgombrare il campo dalla possibile applicabilità dell’art. 373 sulla falsa perizia. 9.1. Non applicabilità dell’art. 373 c.p. (falsa perizia) al consulente tecnico. — Sull’impossibilità di ricomprendere tra i soggetti attivi del reato di falsa perizia il consulente tecnico del pubblico ministero è concorde la dottrina (137) supportata, da ultimo, da una pronuncia della Corte di cassazione (138). I motivi sono facilmente comprensibili. Innanzi tutto viene rimarcata la distinzione nel nuovo processo penale tra perito nominato dal giudice e consulente tecnico nominato dalle parti e quindi anche dal p.m.: tale distinzione precluderebbe, in ragione del principio di stretta legalità, l’estensione al consulente del pubblico ministero dell’art. 373 c.p. che si riferisce esclusivamente al perito. Per di più, dice la Cassazione, l’omesso riferimento al consulente tecnico non è stato dovuto ‘‘a pura dimenticanza o ad un difetto di coordinamento con il codice di rito’’, ma è ‘‘intenzionale’’, come è dato evincere dalle modifiche, viceversa, effettuate con il d.l. n. 306/1992 sopra citato (139). Eppure se si esaminano le proposte che avevano preceduto l’emanazione di questo decreto, pur prescindendo dai motivi che l’hanno poi in concreto determinata, una tale omissione parrebbe quantomeno irragionevole. Il disegno di l. n. 5390, presentato alla Camera dall’allora ministro di grazia e giustizia Vassalli il 22 gennaio 1991 e titolato ‘‘nuove disposizioni in tema di reati contro l’amministrazione della giustizia’’, aveva ritenuto opportuno affiancare ai soggetti attivi del delitto di falsa perizia i consulenti tecnici (anche delle parti private) sulla base di tre considerazioni: i consulenti contribuiscono alla formazione della prova tecnica su un piano (137) PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte speciale, Milano, v. II, 2000, p. 79 ss.; PADOVANI, Commento all’art. 11 d.l. 8 giugno 1992, n. 306, in Legisl. pen., 1993, p. 121; GRIECO, Falsa perizia o interpretazione, in I delitti contro l’amministrazione della giustizia (a cura di Coppi), Torino, 1996, p. 310; FIORAVANTI, Perizia od interpretazione (falsità in), in Dig. disc. pen., Torino, v. IX, 1995, p. 483 ss.; ROMANO B., La subornazione, cit., p. 81; ID., Subornazione, in Dig. disc. pen., Torino, 1999, v. XIV, p. 68 s.; ANTOLISEI, Diritto penale. Parte speciale, Milano, 1996, v. II, p. 462. (138) Cass., 26 marzo 1999, con nota di RANZATTO, Sulla configurabilità del delitto di falsa perizia rispetto al consulente tecnico, in Cass. pen., 1999, p. 3425 ss. (139) Nello stesso senso anche PADOVANI, Commento all’art. 11, d.l. 8 giugno 1992, n. 306, cit., p. 121 s.
— 1268 — paritetico rispetto ai periti; sotto altro profilo, addirittura è previsto che i consulenti possano ‘‘sostituire’’ integralmente il contributo del perito (nei casi di consulenza fuori dai casi di perizia); infine, alla consulenza tecnica svolta nel corso delle indagini preliminari è riconosciuto valore di prova rispetto a talune decisioni (ad esempio rito abbreviato) e nel caso dell’art. 360 c.p.p. Peraltro, proprio quest’ultimo punto è, poi, stato confermato dai giudici di legittimità quando, in quella sentenza che ritiene non applicabile l’art. 373 c.p. al consulente tecnico, hanno affermato la ‘‘sostanziale identità con la perizia’’ della consulenza disposta dal p.m. (140). La scelta del legislatore è stata, comunque, diversa. Certo, se le cose stessero effettivamente nei termini descritti dal disegno di legge Vassalli non sarebbe così ardito ipotizzare una illegittimità costituzionale dell’art. 373 c.p. per violazione dell’art. 3 Cost.: è ovvio, infatti, che ci si trovi di fronte ad una discriminazione priva di ragionevolezza insita nel punire penalmente soltanto una determinata categoria di soggetti, i periti, ritenendo esenti da pena i consulenti tecnici per gli stessi comportamenti (141). Naturalmente la Corte costituzionale non può, in ossequio all’art. 25 comma 2o Cost., intervenire con una sentenza additiva che porti ad un ampliamento dell’ambito della punibilità, ma deve, comunque, eliminare le norme illegittime, a meno che non si voglia sostenere, come pure è stato fatto in altri tempi dalla Consulta, la legittimità costituzionale di ‘‘norme incriminatrici arbitrariamente discriminatorie’’, ma ‘‘in se stesse ragionevoli’’ (142). 9.2. Applicabilità della norma sulla falsa testimonianza? — La sentenza della Corte di cassazione che ha ritenuto di poter includere i consulenti tecnici tra i destinatari della condotta di subornazione ci induce, invece, a ricercare quegli elementi che potrebbero militare a favore dell’ap(140) Effettivamente il consulente del p.m., in quelle determinate ipotesi, cioè accertamenti tecnici non ripetibili e riti speciali, ha una funzione probatoria non dissimile da quella del perito. Ma una tale constatazione non può indurre a soluzioni che differenzino le posizione del consulente di parte da quella del consulente del p.m., imponendo solo a quest’ultimo un obbligo di verità penalmente sanzionato, come invece previsto schema di disegno di legge-delega al Governo per l’emanazione di un nuovo codice penale elaborato dalla Commissione presieduta da Pagliaro, la quale all’art. 134 ipotizza un delitto di ‘‘falsa perizia, interpretazione o consulenza, includendo tra i soggetti attivi il consulente nominato dal p.m. nel corso delle indagini preliminari’’ (l’articolato e la relazione sono ora consultabili su http://www.giustizia.it/studierapporti/riformacp/art—pagliaro.htm). (141) Su questa problematica ROMANO, Norme incriminatrici arbitrariamente discriminatorie ‘‘in se stesse ragionevoli’’ e costituzionalmente legittime?, in questa Rivista, 1986, p. 1319 ss.; ID., Commentario sistematico del codice penale, cit., p. 22 ss. (142) ROMANO, Norme incriminatrici arbitrariamente discriminatorie ‘‘in se stesse ragionevoli’’ e costituzionalmente legittime?, cit., p. 1329.
— 1269 — plicabilità dell’art. 372 c.p. nell’ipotesi di false affermazioni del consulente in dibattimento. Innanzi tutto vi è quella giurisprudenza, già citata (143), secondo cui i consulenti ‘‘hanno sostanziale qualità di testimoni’’ (144) e la loro posizione ‘‘è in tutto assimilata a quella dei testi’’ (145). Giurisprudenza questa confermata dall’operato quotidiano dei giudici di merito che estendono ai consulenti durante l’esame dibattimentale le norme previste per l’assunzione dei testimoni compreso l’obbligo di prestare la dichiarazione d’impegno a dire la verità ai sensi dell’art. 497 c.p.p. (146). D’altronde una tale estensione è resa possibile dal fatto che, come si è visto, l’art. 501 c.p.p., prescrive che si osservino, per l’esame dei consulenti tecnici, ‘‘le disposizioni sull’esame dei testimoni in quanto applicabili’’. Il diritto ‘‘vivente’’ sembra, quindi, aver optato per l’applicabilità delle norme sui testimoni ai consulenti tecnici. Ma anche l’analisi letterale dell’art. 372 c.p. può dare qualche utile indicazione: tale norma incriminando la condotta di falsa testimonianza, rende soggetto attivo del reato ‘‘chiunque’’ depone ‘‘come testimone’’. Il legislatore, quindi, non ha usato direttamente il termine ‘‘testimone’’ — analogamente a quanto ha fatto, per esempio, nel successivo art. 373 c.p. con riferimento al perito — per evitare, probabilmente, che ‘‘l’interprete vi ricollegasse una significazione squisitamente tecnica’’ (147). Si potrebbe dire, allora, che anche il consulente tecnico quando depone ‘‘come testimone’’ davanti all’autorità giudiziaria può incorrere nella sanzione prevista dall’art. 372 c.p. Peraltro anche nel codice di rito, all’art. 468, comma 2o, c.p.p., troviamo una conferma a questo argomento letterale: accomunando testimoni, periti e consulenti di parte nella disciplina della citazione, il secondo comma definisce, l’apporto di tali differenti figure come ‘‘testimonianze’’, utilizzando, quindi, questo termine ancora una volta in senso ‘‘non squisitamente tecnico’’. D’altronde, se rimane incontrovertibile, come ben evidenziato da Kostoris, la differenza strutturale che sussiste tra testimone e consulente, non può negarsi, tuttavia, una similitudine tra le due figure nella fiducia che devono ingenerare nel giudice e nel deficit conoscitivo di quest’ultimo (143) Si veda la giurisprudenza riportata alla nota 106. (144) Cass., 10 aprile 1997, n. 3383, cit., p. 68; Cass., 13 giugno 1994, n. 6792, cit. (145) Cass., 16 marzo 1995, n. 2793, cit. (146) PONTI e MERZAGORA (Psichiatria e giustizia, Milano, 1993, p. 193) affermano che ‘‘non si è mai incontrato alcun giudice che non richieda al consulente di parte il formale impegno solenne di dire il vero’’. (147) E. GALLO, Il falso processuale, cit., p. 260 ss., secondo il quale ciò che conta, in sostanza, è ‘‘l’obbligo di dire la verità e di non essere reticenti che incombe a chiunque venga comunque ad assumere la posizione qualificata dal fatto di trovarsi concretamente a deporre davanti all’Autorità giudiziaria’’.
— 1270 — verso i contenuti delle loro affermazioni: i consulenti si pongono, di fatto, come ponte, come tramite esclusivo tra la comunità scientifica ed il processo penale. Anche i giudici italiani saranno, allora, probabilmente d’accordo con ciò che scrive, negli Stati Uniti, Weinstein, un noto giudice-studioso: ‘‘cosa si aspetta il giudice dall’expert witness [...]? Posso rispondere con una sola parola: onestà’’. È chiaro, continua l’Autore, che nelle questioni scientifiche complesse le risposte ‘‘oneste’’ possono essere diverse, ma ciò non si traduce in una ‘‘licenza di ingannare’’ (148). In conclusione potrebbe, allora, sostenersi che il consulente debba rispondere in determinati casi di falsa testimonianza. Ma vediamo di esemplificare le diverse ipotesi. Innanzitutto i casi in cui il consulente riporta in dibattimento dei dati non corrispondenti ad elementi di fatto appresi durante l’indagine scientifica da lui compiuta (l’assenza della milza, per ricordare il caso del dott. Erdmann più volte citato) ovvero dichiara di aver svolto determinati accertamenti in realtà mai compiuti. Pensiamo, poi, a quelle consulenze, segnalate da Fiori (§ 3.1), basate su studi scientifici ‘‘mutilati’’ di una parte essenziale o privati di quelle argomentazioni dalle quali scaturirebbero conclusioni opposte a quelle invece espresse dai consulenti. Qui siamo chiaramente oltre la legittima retorica scientifica: i risultati della consulenza sono, di fatto, falsi. Ancora, di falsa testimonianza si dovrà parlare quando, secondo le ipotesi della giurisprudenza americana, il consulente mente sulla propria qualifica, creando, magari, un curriculum scientifico ad hoc per il processo, ed ingannando così il giudice sull’autorevolezza delle proprie asserzioni (§ 3.1). Alle stesse conclusioni si dovrà giungere nel caso in cui l’esperto, presupponendo dati, ricerche, studi non veritieri, espone valutazioni che risultano conseguentemente false (l’ora del decesso desunta da falsi elementi autoptici). Quando, invece, si entra nel campo delle pure valutazioni il confine tra la legittima interpretazione, per quanto singolare o minoritaria, della realtà e l’alterazione di dati di fatto diventa alquanto incerto. È, quindi, arduo, se non altro per indiscutibili difficoltà probatorie ed incertezze applicative, poter impiegare la norma sulla falsa testimonianza (149). Taluni (148) WEINSTEIN, Science, and the challenges of expert testimony in the courtroom, cit., p. 1015 s. (149) È noto come in dottrina ed in giurisprudenza il campo di più vivace dibattito sulla falsità delle valutazioni sia stato quello delle false comunicazioni sociali (art. 2621 n. 1 c.c.), dove il problema è stato quello di individuare un criterio di riferimento cui poter rapportare i giudizi di valore espressi dai redattori delle comunicazioni sociali. Problema, quindi, analogo al nostro: come poter gatantire la determinatezza applicativa della fattispecie? Sul terrerno delle false comunicazioni sociali la via più ragionevole (sebbene non unani-
— 1271 — casi limite possono, però, essere immaginati: si pensi alle ipotesi in cui il consulente utilizza falsamente la ‘‘struttura teorica che media la connessione tra l’asserto e la realtà’’ formulando un giudizio assolutamente non conforme alle teorie scientifiche ritenute vere in un dato momento storico (ad esempio, l’attribuzione, priva di ogni supporto scientifico, di una malattia ad una determinata sostanza tossica). Ciò non vuol dire, naturalmente, che non debbano essere rappresentate anche le teorie minoritarie, ma che deve essere proibito l’ingresso nel processo di ipotesi non-scientifiche. In altri termini, come afferma, in differenti settori, la giurisprudenza, ‘‘la valutazione è un modo di rappresentare la realtà analogo alla descrizione o alla constatazione, sebbene l’ambito di una sua possibile qualificazione in termini di verità o di falsità sia variabile e risulti, di regola, meno ampio, dipendendo dal grado di specificità e di elasticità dei criteri di riferimento’’: può, dunque, ‘‘dirsi falso l’enunciato valutativo che contraddica criteri di valutazione indiscussi o indiscutibili’’ (150). Decisamente problematiche sono anche le consulenze fuorvianti perché cariche di inganni semantici o di concetti propri della scienza, ma incompatibili con i principi cardine della responsabilità penale (§ 3.2); alle stesse difficoltà di inquadramento soggiacciono quelle consulenze ambigue in cui l’esperto, nell’ambito delle proprie valutazioni soggettive, non ‘‘esprime un dubbio, quando il dubbio esiste’’, presenta ‘‘una mera possibilità come una certezza’’, una teoria controversa come un fatto assodato (151). Su questo terreno, nonostante l’indubbia potenzialità ingannatoria di tali condotte, la norma penale sembrerebbe davvero inapplicabile e altre dovrebbero essere le strade da percorrere: da un lato, nel contesto processuale, la via è quella, già illustrata (§ 6), di uno stringente e penetrante controllo del giudice, custode del metodo scientifico (oltre, naturalmente, all’indispensabile vaglio attraverso il contraddittorio delle parti), dall’almamente condivisa) è stata da tempo tracciata da BARTULLI, (Tre studi sulle falsità in bilancio, Milano, 1980, p. 132) il quale individua la falsità nella « mancata corrispondenza tra la rappresentazione in bilancio dei valori stimati e il criterio relazionato che ne ha informato la stima ». Una tale soluzione fornendo un sicuro parametro di riverimento è in grado di rispondere alle esigenze di determinatezza della fattispecie (per una sintesi delle diverse posizioni si veda FOFFANI, Reati societari, in PEDRAZZI, ALESSANDRI, FOFFANI, SEMINARA, SPAGNOLO, Manuale di diritto penale dell’impresa, Bologna, 2000, p. 241 ss.). In modo diverso sembrerebbe, invece, porsi il problema per le false valutazioni del consulente tecnico dove un tale parametro, il più delle volte, non è rintracciabile. (150) Cass., 9 febbraio 1999, cit., p. 379 ss. Si vedano le note 128 e 130. La stessa sentenza rinvia anche a quella giurisprudenza che, ad esempio, ritiene punibili ex art. 379 c.p. le false attestazioni di idoneità alla guida ovvero di ‘‘sana e robusta costituzione’’. (151) Richiama queste ultime ricorrenti ipotesi anche WEINSTEIN, Science, and the challenges of expert testimony in the courtroom, cit., p. 1016.
— 1272 — tro, su di un piano extra-processuale, non può che essere auspicato un coinvolgimento più attivo degli ordini professionali di medici e scienziati per il rispetto delle norme deontologiche (152) e per promuovere la partecipazione al processo dei più autorevoli esponenti della comunità scientifica. 9.3. Riconducibilità di talune condotte di falsa consulenza tecnica agli artt. 374, 374-bis e 380 c.p. — Naturalmente, l’eventuale applicazione dell’art. 372 c.p. è limitata all’esame del consulente ‘‘innanzi all’Autorità giudiziaria’’, quindi, solo ad una possibile modalità di ingresso del contributo del consulente nel processo. Si tratta, allora, di ricordare le altre norme sostanziali che possono intervenire nelle ipotesi di consulenza tecnica pre-dibattimentale, ovvero, reprimere le ulteriori possibili condotte fuorvianti degli esperti (ad es. alterazioni materiali). Ci si vuole riferire, almeno per quanto riguarda l’ambito dei delitti contro l’amministrazione della giustizia, agli artt. 374-bis, 380 e 374 c.p. che, pur trovando applicazione alle consulenze effettuate sia in dibattimento che durante le indagini preliminari, offrono una limitata (ed incompleta) tutela (153): la prima norma sanziona, infatti, solo talune particolari ipotesi di false dichiarazioni ed attestazioni del consulente tecnico (154); la seconda può applicarsi a quei casi in cui i consulenti si ap(152) D’altra parte, il Codice di deontologia medica (pubblicato in Riv. it. med. leg., 1999, p. 347 ss.), ad esempio, prescrive all’art. 64 che ‘‘nell’espletamento dei compiti e delle funzioni di natura medico legale, il medico [...] deve procedere, sul piano tecnico, in modo da soddisfare le esigenze giuridiche attinenti al caso in esame nel rispetto della verità scientifica, dei diritti della persona e delle norme del presente Codice di deontologia medica’’. (153) Potrebbe essere ritenuto, a prima vista, applicabile ad una delle ipotesi in questione anche l’art. 371-bis, che incrimina le false informazioni al pubblico ministero (in senso dubitativo GRIECO, Falsa perizia o interpretazione, cit., p. 310), ma la ratio della norma non permette un simile esito: il legislatore pare aver formulato tale fattispecie con stretto riferimento all’art. 362 c.p.p., cioè all’assunzione di informazioni da parte del p.m. ‘‘da persone che possano riferire circostanze utili ai fini delle indagini’’, escludendo così dal novero dei soggetti attivi il consulente tecnico (in argomento PADOVANI, Commento all’art. 11 d.l. 8 giugno 1992, n. 306, in Legisl. pen., 1993, p. 115; PREZIOSI, Testimonianza e false informazioni al pubblico ministero, in I delitti contro l’amministrazione della giustizia (a cura di Coppi), cit., p. 215 ss.; PIFFER, in Codice penale commentato (a cura di Marinucci, Dolcini), Milano, 1999, sub art. 371-bis, p. 2125 e bibliografia ivi citata). (154) L’art. 374-bis c.p. punisce le false dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all’autorità giudiziaria, ma si limita — come illustra un preciso orientamento della Cassazione proprio con riferimento al consulente tecnico — ‘‘a due specifiche attività documentative (‘dichiarare’ e ‘attestare’) e a due specie di documenti (‘certificati’ ed ‘atti’). Con il certificato si dichiarano dati, fatti e situazioni di cui si ha cognizione aliunde; con l’atto si attestano fatti compiuti da chi attesta o avvenuti in sua presenza ovvero dichiarazioni da lui ricevute. In entrambi i casi, l’attività è di natura documentativa. Ne consegue che nel caso in cui la consulenza tecnica di parte dichiari o attesti dati, qualità, condizioni essa ha natura certificativa o attestativa: pertanto ove riporti in modo difforme dal vero detti dati, qualità e condizioni ricade nella previsione della norma incriminatrice di cui all’art. 374-bis c.p.’’. Riman-
— 1273 — piattiscono sulla posizione della parte, nella speranza magari di ‘‘essere graditi al committente e mantenere in tal modo un flusso costante di incarichi peritali’’ (155), e, dando avallo a tesi scientifiche false o alterando i dati, arrecano pregiudizio alla parte che assistono (compreso nel nuovo processo il p.m.) pregiudicandone la strategia processuale o il favorevole esito del processo (156); l’art. 374 c.p., infine, può riguardare delle specifiche ipotesi di alterazioni materiali (157). In conclusione andrebbe, forse, ridimensionato l’argomento che degono, però, fuori dalla portata della disposizione ‘‘valutazioni, pareri e giudizi’’, nonché le false attestazioni e dichiarazioni che riportano dati pur oggettivi, ma non riferibili, secondo la lettera della norma, a ‘‘condizioni, qualità personali, trattamenti terapeutici, rapporti di lavoro [...] relativi all’imputato, al condannato, o alla persona sottoposta a procedimento di prevenzione’’. In questi termini Cass., 9 giugno 1999, n. 1749, CED 213892; Cass., 5 dicembre 1995, n. 3446, in Cass. pen., 1997, p. 407 ed in Riv. it. med. leg., 1997, p. 505 ss., oggetto dell’editoriale di INTRONA, Il medico legale e l’art. 374-bis: un rischio professionale?. In dottrina PADOVANI, Commento all’art. 11 d.l. 8 giugno 1992, n. 306, cit., p. 115; CARRARO, False dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all’autorità giudiziaria, in I delitti contro l’amministrazione della giustizia (a cura di Coppi), cit., p. 343 ss.; PIFFER, in Codice penale commentato (a cura di Marinucci, Dolcini), cit., sub art. 374-bis, p. 2140. (155) FIORI, Medicina legale della responsabilità medica, cit., p. 797. (156) L’art. 380 c.p., come noto, punisce la consulenza infedele che abbia arrecato nocumento agli interessi della parte assistita. L’infedeltà è costituita dalla difformità dalle norme che pongono obblighi di correttezza e lealtà che il consulente deve osservare in base alle regole stabilite dai rispettivi ordini professionali. Anche a prescindere dalla questione della rilevanza o meno del consenso della parte alla condotta di infedeltà del consulente, tale fattispecie di reato sarà, però, integrata solo nel caso in cui la falsa consulenza abbia cagionato un ‘‘nocumento’’ per la parte stessa. In argomento MIRRI, Infedeltà del patrocinatore o del consulente tecnico, in Dig. disc. pen., Torino, 1992, v. VI, p. 418; DEL RE, Patrocinio o consulenza infedele e le altre infedeltà del patrocinatore e del consulente tecnico, in I delitti contro l’amministrazione della giustizia (a cura di Coppi), cit., p. 475 ss.; DURIGATO, Sul delitto di infedele patrocinio, Padova, 1966; PIFFER, in Codice penale commentato (a cura di Marinucci, Dolcini), cit., sub art. 380, p. 2178. Saranno escluse, invece, dalla portata dell’art. 380 c.p. tutte quelle condotte che non abbiano in concreto recato danno o che abbiano magari portato dei vantaggi alla parte che si assiste. (157) Anche l’art. 374 c.p., che incrimina la frode processuale, offre una limitata tutela contro talune particolari condotte dei consulenti tecnici. La norma, infatti, punisce solo le condotte di ‘‘falso per alterazione materiale’’, mediante immutazione dello stato originario di luoghi, persone o cose che al reato direttamente si riferiscono, escludendo, invece, infedeli rappresentazioni verbali o documentali. Ma la disposizione pone anche ulteriori limitazioni in virtù del dolo specifico in essa previsto: l’agente, infatti, deve porsi il ‘‘fine di trarre in inganno il giudice in un atto di ispezione o di esperimento giudiziale, ovvero il perito nella esecuzione di una perizia’’. Il consulente tecnico potrà, quindi, porre in essere le condotte previste da questa norma in due specifiche ipotesi: nella fase dibattimentale (ovvero durante un incidente probatorio), solo, però, se è stato nominato il perito o se il consulente ritiene che il perito verrà nominato e possa, quindi, essere ingannato; o, secondo quanto deducibile dal comma secondo dello stesso art. 374 c.p., anteriormente a tale fase, purché anche qui l’agente abbia di mira l’inganno al perito e, quindi, si aspetti che questo verrà poi nominato in dibattimento. Su questo punto E. GALLO, Il falso processuale, cit., p. 162 ss.; in argomento anche PISA, Frode processuale, in Dig. disc. pen., v. V, Torino, 1991, p. 330 ss.; SAMMARCO, Frode processuale, in Enc. giur., Roma, 1989, v. XIV, p. 3; CONTI, Frode processuale, in Enc.
— 1274 — duce dalla mancanza di una norma che punisce le ipotesi di falsa consulenza tecnica l’esclusione di un obbligo di verità (nel senso da noi prospettato § 7.1) in capo al consulente tecnico. In realtà, se è oggi scontata la non applicabilità dell’art. 373 c.p., mentre può sostenersi la possibilità di ricorrere all’art. 372 c.p., vi sono anche delle altre norme sotto le quali possono essere sicuramente sussunte talune specifiche condotte del consulente tecnico. Quindi, se è vero che il legislatore non prevede una specifica norma che punisca la falsa consulenza, è ugualmente vero che il codice ne contempla diverse. Ma è un sistema, nel suo complesso, irragionevole perché limita, senza alcuna giustificazione, l’ambito dell’intervento penalistico solo a talune delle possibili condotte fuorvianti dei consulenti tecnici. FRANCESCO CENTONZE Assegnista di Diritto penale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
dir., 1962, p. 163; MAURO, Frode processuale, in I delitti contro l’amministrazione della giustizia (a cura di Coppi), cit., p. 322; FASCE, La frode processuale e la truffa processuale: una disciplina da rimeditare, nota ad App. Genova, 5 febbraio 1990, n. 2574, in Riv. pen., 1990, p. 1042 ss., il quale sottolinea proprio la limitatezza delle ipotesi delittuose previste dall’art. 374 c.p. Come si vede, da un lato, la limitazione della condotta alle alterazioni materiali, dall’altro, la finalità d’inganno del giudice e del perito riducono, nella vigenza del nuovo codice di rito, l’ambito di applicazione della norma e la riducono senza una ratio plausibile: la consulenza tecnica, infatti, può essere nel nuovo codice di procedura anche sostitutiva della perizia e quest’ultima si può svolgere solo in dibattimento. Rimangono, quindi, prive di tutela la fase delle indagini preliminari ed i procedimenti che si concluderanno, attraverso i riti alternativi, prima del dibattimento.
LE CONTESTAZIONI A CATENA NELL’APPLICAZIONE DELLA CUSTODIA CAUTELARE: DALLA REPRESSIONE DI UN ABUSO AD UN AUTOMATISMO INDIFFERENZIATO
SOMMARIO: 1. Considerazioni preliminari. — 2. Contestazioni a catena ed ‘‘abuso del diritto’’. Le successive contestazioni del medesimo fatto. — 3. (Segue): le successive contestazioni di fatti diversi. — 4. Le origini dell’istituto: dalle prime applicazioni giurisprudenziali alle nuove garanzie introdotte nel 1984. — 5. Le contestazioni a catena nel codice del 1988. — 6. La legge n. 332 del 1995 sulle contestazioni di fatti connessi. — 7.(Segue): le contestazioni relative al medesimo fatto. — 8. (Segue): le contestazioni relative a fatti connessi. — 9. (Segue): le contestazioni a catena relative a fatti non connessi — 10. La nuova disciplina dinanzi alla Corte costituzionale. — 11. Il bilanciamento degli interessi coinvolti. — 12. Le contestazioni relative a fatti connessi, che siano oggetto di separati procedimenti. — 13. Altre questioni inerenti all’ambito applicativo. — 14. I rimedi esperibili dall’imputato contro le contestazioni a catena. — 15. Rilievi conclusivi.
1. Considerazioni preliminari. — Con l’espressione ‘‘contestazioni a catena’’ si allude a quelle ipotesi nelle quali in tempi successivi vengano emesse più ordinanze applicative della custodia cautelare nei confronti del medesimo imputato in relazione al medesimo fatto o a fatti comunque già noti ab initio all’autorità giudiziaria. Tale comportamento persegue lo scopo di spostare in avanti l’avvio della decorrenza dei termini di custodia cautelare, così da prolungare la durata della misura ed aggirare i limiti stabiliti dalla legge. Il fenomeno è noto alla prassi giudiziaria da oltre un cinquantennio, e cioè da quando il nostro Paese ha adottato, in relazione alla durata della custodia cautelare, un sistema strutturato secondo un modello che possiamo definire ‘‘rigido’’, in base al quale la custodia non può protrarsi oltre un determinato limite temporale, pena la perdita di efficacia della misura e la conseguente scarcerazione automatica dell’imputato (1). (1) Dall’analisi degli ordinamenti contemporanei è possibile ricavare due modelli teorici relativi alla disciplina della durata della custodia cautelare. Dallo studio dei sistemi di matrice accusatoria emerge una summa divisio. Da un lato, vi è un modello che potremmo definire rigido; dall’altro lato, ve ne è uno che può essere denominato flessibile. Vi sono infine sistemi che cumulano le caratteristiche di entrambi i predetti modelli e possono chiamarsi ‘‘misti’’.
— 1276 — Il principale difetto dei sistemi fondati sul ‘‘modello rigido’’ consiste nell’automatismo del loro operare, che prescinde in toto dalle esigenze del caso concreto. Viceversa, proprio la materia della custodia cautelare è collocata nel punto di frizione tra le istanze di difesa della società e la necessità di tutelare la libertà individuale; spesso si rende necessario quell’adeguamento alla singola fattispecie, che soltanto un sistema flessibile può consentire. Siffatte carenze rendono inevitabile che nelle maglie dei sistemi rigidi si creino prassi elusive volte ad aggirarne i limiti, quando essi si rivelano inadeguati alle esigenze del caso concreto. Una prassi consiste proprio nelle cosiddette contestazioni a catena. Le reiterate contestazioni del medesimo fatto a carico del medesimo imputato costituiscono all’evidenza un escamotage per prolungare artificiosamente la durata della custodia, aggirando i termini stabiliti dalla legge. In prima battuta il fenomeno è stato identificato e represso in via giurisprudenziale. Soltanto nel 1984 il legislatore è pervenuto ad una disciplina positiva, successivamente riproposta con minimi adeguamenti nel codice del 1988. Infine nel 1995 si è registrato un ulteriore intervento in materia. Tuttavia il legislatore, nell’intento di prevenire a largo spettro ogni sorta di abuso ed aggiramento, ha finito per stabilire una disciplina oltremodo repressiva, che ha avuto l’effetto non di alleggerire il sistema, bensì di irrigidirlo ulteriormente. In particolare, la legge ha accomunato sotto il medesimo regime giuridico sia le ipotesi ‘‘patologiche’’ di vere e proprie contestazioni a catena, sia ipotesi ‘‘fisiologiche’’ nelle quali si verifica un mero concorso di titoli cautelari nei confronti della medesima persona. Di conseguenza, nel sistema sono state create ulteriori sperequazioni. 2. Contestazioni a catena ed ‘‘abuso del diritto’’. Le successive contestazioni del medesimo fatto. — Prima di soffermarsi sull’evoluzione storica della disciplina nel codice del 1930 ed in quello del 1988, è importante effettuare una precisazione sul piano della teoria generale. È necessario, a nostro avviso, focalizzare il profilo di ‘‘antigiuridicità’’ (nell’acceCome abbiamo accennato nel testo, nel modello rigido sono previsti termini massimi prefissati, la cui scadenza comporta la perdita di efficacia della custodia e la cosiddetta ‘‘scarcerazione automatica’’ dell’imputato detenuto. Un esempio di sistema rigido è quello italiano. Il modello flessibile non prevede di regola termini massimi, ma assicura il rispetto della presunzione di innocenza mediante una disciplina ispirata al canone della ragionevole durata della custodia. Si tratta, a ben vedere, di due modalità alternative per dare attuazione al principio, pacifico, in base al quale la custodia cautelare non può trasformarsi in una anticipazione della pena. Un esempio di modello flessibile è il sistema federale statunitense. Infine il modello misto è strutturato secondo un sistema rigido nella fase anteriore al dibattimento e secondo un modello flessibile nella fase successiva. Come esempio si può ricordare l’ordinamento francese successivamente all’approvazione della l. n. 516 del 2000.
— 1277 — zione più ampia e generica del termine) insito nella pratica qui oggetto di analisi. All’uopo è necessario precisare meglio la distinzione prospettata in apertura tra le contestazioni a catena relative al medesimo fatto e quelle relative a fatti diversi. Nel primo caso, più semplice, il pubblico ministero in tempi successivi chiede l’emissione di nuove ordinanze di custodia cautelare contro il medesimo imputato in relazione ad un identico fatto storico. Il secondo istituto ricorre quando l’autorità giudiziaria, che procede in relazione a più fatti di reato, ritarda deliberatamente la richiesta cautelare in relazione ad uno di essi, allo scopo di evitare la simultanea decorrenza dei termini. In tal modo è possibile prolungare artificiosamente la durata della custodia cautelare sommando i termini relativi ai diversi reati. I due fenomeni appena esposti sono piuttosto simili. Tuttavia, ad un esame più attento, essi presentano peculiarità che rendono opportuno analizzarli partitamente. Il più rilevante elemento differenziale è il seguente: nelle ipotesi di successive ordinanze relative a fatti diversi, è subito evidente che non si pone alcun problema di legittimità formale o sostanziale dei provvedimenti. Viceversa, quando esse concernono il medesimo fatto potrebbe prospettarsi qualche dubbio circa la validità dei successivi provvedimenti con riferimento al principio del ne bis in idem cautelare. In realtà, sia nel codice del 1930, sia in quello vigente, l’applicazione di più provvedimenti cautelari, che dispongono la medesima misura in relazione allo stesso fatto, non ha mai incontrato alcun divieto né espresso, né implicito. Al contrario, il sistema ha sempre incoraggiato le successive precisazioni della contestazione del fatto storico effettuate a seguito delle risultanze investigative; ciò appare addirittura un contributo all’adeguatezza della misura al fatto (art. 275 c.p.p. 1988) (2). In assenza di una apposita disciplina, la successiva contestazione del medesimo fatto sortirebbe l’effetto di protrarre nel tempo la carcerazione dell’imputato e determinerebbe la perdita di una proporzione tra gravità del reato e durata della custodia. Infatti, il principio di autonomia dei titoli cautelari impone che ogni nuova contestazione costituisca titolo autonomo di custodia e faccia decorrere ex novo il relativo termine. Viceversa, sul piano degli effetti sarebbe logico ritenere che l’unico titolo cautelare rilevante per determinare l’inizio della decorrenza del termine sia la prima ordinanza. I successivi adeguamenti della contestazione del fatto storico, (2) Si tratta di un’applicazione del « principio di fluidità della contestazione »; in tal senso L. AMBROSOLI, L’estinzione delle misure, in AA.VV., Nuove norme sulle misure cautelari e sul diritto di difesa, diretto da E. AMODIO, Milano, 1996, p. 65. Sottolinea G. CIANI, sub art. 297 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, vol. III, Torino, 1990, p. 197, che « è ben possibile nel corso delle indagini preliminari adeguare l’imputazione all’evolversi delle stesse; ma tutto ciò non può risolversi in un artificioso prolungamento della durata delle misure cautelari, che decorre, in ogni caso, dal momento in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e dev’essere commisurata all’ultima imputazione ».
— 1278 — in punto di qualificazione giuridica o elementi accessori, hanno esclusivamente la funzione di aggiornare l’imputazione (3). In base a tale aggiornamento, poi, dovrebbe determinarsi l’ammontare del termine di custodia, la cui decorrenza, tuttavia, resterebbe ancorata al dies a quo, costituito dalla prima ordinanza. Come emerge dai rilievi appena formulati, la contestazione a catena consta di una condotta pienamente legittima sul piano formale e si limita a sortire quegli effetti che la legge riconduce alla predetta condotta. Tuttavia tale prassi, se non porta segni di antigiuridicità formale, sembra afflitta da quel vizio sostanziale che la dottrina chiama ‘‘abuso del diritto’’. In proposito occorrono alcuni chiarimenti. La nozione più accreditata di abuso del diritto consiste nella distorsione nell’impiego di uno strumento processuale, in sé legittimo, che viene destinato al conseguimento di scopi diversi da quelli che sono ad esso propri. L’antigiuridicità non concerne né lo strumento processuale utilizzato, né lo scopo perseguito, bensì l’intenzione di colui che impiega in modo distorto lo strumento processuale. Si tratta, in altre parole, di un ‘‘abuso funzionale’’ che si annida nella struttura degli istituti processuali e negli effetti che essi sortiscono. Più concretamente: la possibilità di emettere successivi provvedimenti cautelari in relazione al medesimo fatto non è finalizzata a prolungare indeterminatamente la custodia cautelare. Il prolungamento, in assenza di apposita disciplina, costituisce un effetto collaterale che lo strumento processuale sortisce nel sistema. Il rimedio che l’ordinamento può apprestare in questo caso è assai semplice e consiste nel reprimere quell’effetto collaterale, imponendo che, in caso di più ordinanze cautelari per il medesimo fatto, i termini decorrano comunque dal primo provvedimento. In tal modo, lo strumento processuale viene ricondotto al suo scopo naturale che consiste nel progressivo adeguamento dell’addebito originario. A ben vedere, tuttavia, nell’ipotesi in oggetto il problema non consiste tanto nella intenzione di abusare dello strumento processuale. L’elemento ‘‘spurio’’ è costituito dall’effetto collaterale delle successive contestazioni (la nuova decorrenza del termine) che si produce a prescindere dall’intenzione del pubblico ministero. Potrebbe parlarsi di ‘‘abuso in re ipsa’’ o di cattivo funzionamento dell’istituto processuale. In altre parole, (3) Cfr. Cass., sez. I, 22 maggio 1986, Graziano, in Giust. pen., 1987, III, p. 626: « la successiva emissione di mandati o ordini di cattura è legittima non solo per contestare nuovi fatti, ma anche per integrare ed aggiornare i termini dell’accusa. Il nuovo provvedimento restrittivo, però, può incidere sul termine di custodia cautelare soltanto quando riguardi un fatto nuovo, e non quando si basi su circostanze conosciute in precedenza dall’autorità giudiziaria e che costituiscano la rappresentazione fenomenica dello stesso fatto, inteso come il medesimo episodio storico, pur giuridicamente qualificato in modo diverso ».
— 1279 — il carattere antigiuridico dell’effetto collaterale non dipende dall’intenzione abusiva di chi si avvale dello strumento processuale, bensì è fisiologicamente connesso all’uso proprio di tale strumento. Nell’ipotesi in discorso, pertanto, non è necessario accertare quale sia l’intento del pubblico ministero. Quel che rileva è una circostanza di tipo oggettivo, e cioè che le successive ordinanze si riferiscano al medesimo fatto. In tali ipotesi, è possibile e necessario stabilire un criterio automatico che imponga la retrodatazione ex lege di tutti i provvedimenti cautelari a partire dalla data di emissione del primo tra di essi (4). 3. (Segue): le successive contestazioni di fatti diversi. — A diverse conclusioni, come abbiamo anticipato, si perviene ove le categorie concettuali dell’abuso del diritto siano applicate alle successive contestazioni di fatti diversi. In tale ipotesi, la nozione di abuso emerge con maggiore chiarezza. La circostanza che i termini di più provvedimenti cautelari pronunciati in relazione a fatti diversi, decorrano a partire dalla data della rispettiva emissione, non reca di per sé alcun profilo di antigiuridicità. Quello che può indurre ad una differente valutazione di tale fattispecie è esclusivamente il comportamento del pubblico ministero. Egli ha il potere-dovere di chiedere l’applicazione della custodia cautelare non appena, in relazione ad una determinata notitia criminis, emergano le condizioni di applicabilità e le esigenze cautelari, e cioè si delinei quel quadro che legittima l’emissione di una misura custodiale (5). Se l’autorità artificiosamente ritarda la richiesta cautelare rispetto a tali risultanze, essa compie un cattivo esercizio (id est un abuso) del proprio potere discrezionale in relazione al momento nel quale la misura deve essere applicata (6). In questo caso, all’evidenza, non è dato riscontrare alcun difetto nel sistema dal punto di vista oggettivo. Le plurime ordinanze cautelari in relazione a fatti diversi costituiscono autonomi titoli cautelari anche agli effetti della decorrenza dei relativi termini. Quello che occorre impedire è che l’autorità giudiziaria abusi della sua discrezionalità scegliendo la data (4) Del resto, in tutte queste ipotesi l’autorità giudiziaria poteva ab initio stabilire le violazioni della legge penale conseguenti al fatto di reato. Così M. BARGIS, sub art. 12 l. n. 332 del 1995, in Leg. pen., 1995, p. 690. (5) Cfr. P.P. RIVELLO, ‘‘Graziata’’ dalla Corte costituzionale la nuova anomala disciplina circa il computo dei termini delle misure cautelari in caso di ‘‘contestazioni a catena’’ per fatti diversi, in Giur. cost., 1996, 835. In giurisprudenza, si veda Cass., sez. fer., 9 settembre 1997, Piscopo, in Giur. it., 1998, III, p. 769. (6) In dottrina si è correttamente sottolineato che « più ridotto è l’ambito della discrezionalità, ossia la varietà delle ipotesi ammesse, maggiore è il rischio che scelte discrezionali vengano compiute in modo scorretto, esorbitando dai limiti della discrezionalità consentita ». Così M. TARUFFO, Elementi per una definizione di « abuso del processo », in AA. VV. L’abuso del diritto (Diritto privato, 1997, III) 1998, p. 443.
— 1280 — nella quale far venire ad esistenza il titolo cautelare. È chiaro come, in questa seconda ipotesi (contestazioni a catena relative a fatti diversi), risulti ben più arduo per l’ordinamento predisporre mezzi idonei a prevenire abusi. Essi sono, in un certo senso, ‘‘insidiosi’’ perché il profilo di antigiuridicità corre sul crinale che separa l’impiego legittimo della discrezionalità da quello abusivo. In tal caso, l’accertamento dello sviamento del potere non può fondarsi su parametri automatici, bensì si sposta, come vedremo meglio nel prosieguo, sul terreno della prova del comportamento scorretto. Un ultimo rilievo, prima di concludere la parentesi di teoria generale, concerne il criterio di imputazione soggettiva dell’abuso del diritto. Nell’ipotesi di reiterata contestazione del medesimo fatto che, come abbiamo precisato, non rientra appieno nel concetto di abuso del diritto, non rileva l’intenzione del pubblico ministero. La repressione opera in modo oggettivo, anche se chi si è avvalso dello strumento processuale era in buona fede: quando il fatto storico è unico, l’effetto costituito dal prolungamento della durata della custodia cautelare non deve mai prodursi, a prescindere dal comportamento dell’autorità inquirente. Si tratta di una sorta di ne bis in idem riferito agli effetti in punto di durata della custodia. La questione è più complessa in relazione alle contestazioni a catena relative a fatti diversi, perché in tal caso viene in rilievo l’abuso della discrezionalità. A rigore, lo sviamento del potere presuppone il dolo dell’agente. Un abuso colposo appare una contraddizione in termini. L’equiparazione della colpa (quanto meno della colpa grave intesa come negligenza) al dolo è tuttavia possibile ogni qual volta si miri ad ampliare l’ambito di tutela. Tale esigenza, di regola, deriva dal rango costituzionale dell’interesse giuridico protetto. Nell’ipotesi in esame, ad esempio, tenuto conto della rilevanza della libertà personale, potrebbe ravvisarsi una condotta ‘‘abusiva’’ anche nella negligenza del pubblico ministero che abbia omesso di contestare un addebito ‘‘desumibile’’ dagli atti. 4. Le origini dell’istituto: dalle prime applicazioni giurisprudenziali alle nuove garanzie introdotte nel 1984. — I cenni di teoria generale che abbiamo tratteggiato nel paragrafo precedente sono destinati a una concretizzazione nel prosieguo dell’analisi. È adesso il momento di effettuare un excursus storico, per dare conto della evoluzione della disciplina relativa al fenomeno in esame (7). La prassi delle contestazioni a catena, (7) Tra i primi contributi, si vedano G. CONSO, Concorso materiale, concorso formale, concorso apparente e mandato di cattura con particolare riferimento ai termini per la carcerazione, in questa Rivista, 1957, p. 1031; V. GREVI, Libertà personale e Costituzione, Milano, 1976, p. 216; M. CHIAVARIO, ‘‘Nuovo modello’’ di Giustizia penale e libertà personale dell’imputato, in Pol. dir., 1984, p. 454. Stigmatizza la prassi con icastica rappresentazione F. CORDERO, Procedura penale, 9a ed., Milano. 1987, pp. 133-134: « diluendo le mosse
— 1281 — come abbiamo anticipato, è strettamente legata alla adozione di un sistema rigido di termini di custodia cautelare. È chiaro, infatti, che in un sistema nel quale la custodia cautelare non è sottoposta a termini massimi, la successiva contestazione del medesimo fatto non può prestarsi a strumentalizzazioni volte ad eludere i limiti di durata della detenzione. L’istituto della scarcerazione automatica per decorrenza dei termini è stato introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento con il codice liberale del 1913 (8). In tale sistema erano previsti dei termini massimi di custodia cautelare in relazione alla fase istruttoria articolati in funzione della gravità del reato addebitato (artt. 325 e 327 c.p.p. 1913) e prorogabili per esigenze attinenti alle « difficoltà di indagini » (art. 326). Con l’avvento del regime autoritario, la custodia tornò ad essere indeterminata nella sua durata. Il codice del 1930 non prevedeva termini massimi per la carcerazione preventiva (9). Il ritorno alla libertà politica e l’approvazione della Carta fondamentale resero necessario intervenire sul sistema della custodia cautelare, tutelando la presunzione di innocenza; con la l. 18 giugno 1955, n. 517 venne sostanzialmente ripristinato il sistema del codice del 1913. Erano previsti termini per la sola fase istruttoria, la cui scadenza comportava la scarcerazione automatica. Successivamente, in seguito ad una evoluzione legislativa della quale non è possibile dare conto in questa sede, furono previsti termini complessivi, entro i quali dovevano essere esauriti i vari gradi del processo (d.l. 11 aprile 1974 n. 99, convertito con modificazioni nella l. 7 giugno 1974, n. 220). L’assetto così delineato, attraverso succesnel tempo, un inquirente poco scrupoloso tiene l’imputato in carcere finché voglia... dall’embrione contenuto nella richiesta d’istruzione formale alleva quanti fantasmi criminosi vuole ». In giurisprudenza si veda Cass., 23 marzo 1984, Lombardi, in Riv. pen., 1985, p. 85; Cass., 30 novembre 1983, Musi, in Cass. pen., 1984, p. 625; Cass., 27 ottobre 1982, Tutolo, in Cass. pen., 1983, p. 1817; Cass., 20 novembre 1981, Selmo, in Cass. pen., 1983, p. 358; Cass., 25 ottobre 1977, Giurin, in Cass. pen., 1978, p. 1125; Cass., 1o novembre 1973, Eleota, in Cass. pen., 1975, p. 315; Cass. 15 ottobre 1965, Calabria, in Giust. pen., 1966, III, p. 486. (8) Sulla disciplina della libertà personale nel codice del 1865 si veda T. GALIANI, La scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare, Napoli, 1975, p. 12. Tale codice prevedeva, invero, un termine massimo di custodia cautelare, ma esso poteva essere posticipato con proroghe successive sempre rinnovabili. (9) Come ebbe a precisare la Relazione al progetto preliminare del codice del 1930, la concezione totalitaria dei rapporti tra Stato e individuo portava a respingere « in pieno l’assurda presunzione di innocenza » poiché si trattava di « una stravaganza derivante da quei vieti concetti, germogliati dai princìpi della Rivoluzione Francese, per cui si portano ai più esagerati e incoerenti eccessi le garanzie individuali ». Il testo originario del codice per la fase istruttoria prevedeva dei termini entro i quali l’organo procedente era tenuto a riferire ad altro organo deputato al controllo (il giudice istruttore riferiva al presidente del tribunale; il pubblico ministero al giudice istruttore; il pretore al procuratore del re).
— 1282 — sivi passaggi (si ricordano in particolare le leggi n. 398 del 1984, sulla quale si veda infra nel testo, e n. 29 del 1987) diede luogo ad un articolato sistema di termini di custodia, estesi all’intero procedimento. Tale sistema è stato riproposto, senza sostanziali mutamenti, nel codice del 1988 (10). Il fenomeno delle contestazioni a catena era emerso in nuce già al tempo del codice del 1913 (11). Tuttavia esso ha iniziato a manifestarsi con maggiore consapevolezza nel periodo successivo alla l. n. 517 del 1955, che ha modificato il codice del 1930 ed ha imposto termini massimi alla carcerazione con riferimento alla fase istruttoria (12). È a tale epoca, infatti, che risalgono le prime pronunce volte ad isolare e reprimere le condotte abusive poste in essere dall’autorità giudiziaria (13). La repressione è rimasta a lungo affidata alla giurisprudenza. In via interpretativa si prevedeva una eccezione alla regola, stabilita all’art. 271, comma 2 c.p.p. abr., in base alla quale la custodia preventiva in relazione a un nuovo reato attribuito a persona già detenuta iniziava a decorrere dal giorno della notifica al detenuto stesso del relativo provvedimento di cattura (14). La predetta regola costituiva applicazione del principio di auto(10) La dottrina maggioritaria ritiene che un simile assetto sia imposto da due canoni costituzionali: da un lato, la presunzione di innocenza, intesa come regola di trattamento, impone che la custodia cautelare non possa trasformarsi in una anticipazione della pena (art. 27, comma 2, Cost.); da un altro lato, e parallelamente, l’art. 13, comma 5, Cost., richiede la previsione di limiti massimi alla carcerazione preventiva. Il legislatore ordinario ha ritenuto di dare attuazione ai predetti princìpi mediante la predisposizione di un imponente apparato di termini. (11) Si veda Cass., sez. I, 11 febbraio 1921, Cipollaro, in Proc. pen. it. (allegato a Giust. pen.), 1921, p. 351: « se, perdurando la detenzione, il reato assume la figura di delitto di competenza diversa e superiore a quella derivante dalla originaria definizione, il termine per la perenzione sarà quello stabilito per questo reato »; Cass., sez. I, 13 ottobre 1924, Bartoli, ivi, 1925, p. 167: « emesso un secondo mandato di cattura per l’ipotesi più grave, se anche ad esso non voglia riconoscersi l’efficacia di un mandato di cattura, esso resta sempre come un atto di notificazione della circostanza aggravatrice ». (12) Significativo in proposito è quanto affermato da F. CORDERO, Procedura penale, 5a ed., Milano, 2000, p. 515: « restaurata (anno 1955) la scarcerazione cosiddetta automatica... i termini massimi dipendono dall’ipotetico reato; ed essendo allora un’opera progressiva l’imputazione, variamente elaborabile dall’istruttore, tessitori cauti la decomponevano in segmenti successivi, affinché, a termine quasi scaduto, ne decorresse uno nuovo... così i termini defluivano a libito dell’inquirente ». (13) Per la giurisprudenza, che già affermava il principio, in via teorica, si veda Cass., sez. III, 10 dicembre 1951, Berisso, in Giust. pen., 1952, III, p. 468, nota C. LOASSES, Dell’escarcerazione per decorrenza del termine in relazione al fatto contestato con susseguenti mandati di cattura per appropriazione indebita e per bancarotta fraudolenta: « non può prorogare il termine di escarcerazione, conseguente ad un mandato di cattura, un secondo mandato emesso per lo stesso fatto, anche se questo sia diversamente definito ». (14) Invero, nelle ipotesi di concorso di titoli cautelari nei confronti del medesimo imputato in astratto sono prospettabili due soluzioni alternative: 1) è possibile attendere che spiri il termine della carcerazione in atto, facendo decorrere solo successivamente quello relativo alla nuova custodia (si tratta del cosiddetto cumulo); 2) è possibile far decorrere il ter-
— 1283 — noma decorrenza dei titoli cautelari. Tuttavia, è stato subito chiaro che una applicazione rigida di tale principio si sarebbe prestata ad inaccettabili abusi da parte dall’autorità, idonei a vanificare la garanzia dei termini di custodia (15). Dall’esame delle sentenze, che sono state emesse dalla Corte di Cassazione tra gli anni ’50 e il 1984, risulta che oggetto di repressione in via giurisprudenziale erano sia le successive contestazioni del medesimo fatto, sia le ipotesi nelle quali l’autorità giudiziaria avesse diluito artificiosamente nel tempo la contestazione di più fatti diversi (16). Nel caso di plurime contestazioni in relazione ad un fatto unico, la Cassazione sosteneva la legittimità delle successive ordinanze; tuttavia, stabiliva che tale pluralità non aveva alcuna influenza sulla decorrenza dei termini di custodia, che restava comunque ancorata alla data di emissione della prima misura. « Il giudice — si affermava — può emettere in ogni momento dell’istruzione altro mandato di cattura anche al solo fine di aggiornare e precisare la contestazione, lasciando inalterata la decorrenza del termine di custodia preventiva » (17). Quanto all’ammontare del termine, si discuteva se esso dovesse essere parametrato sulla contestazione originaria, ovvero sull’ultimo adeguamento della qualificazione giuridica. La giurisprudenza maggioritaria appariva orientata nel secondo senso (18). Nell’ipotesi di successive contestazioni di fatti diversi, la giurisprudenza (per ritenere la sussistenza di una contestazione a catena) richiemine di custodia dalla data di notificazione della misura, senza attendere che sia terminata la custodia attuata in forza di altro titolo cautelare. Il rilievo è di T. L. MILELLA, Nuovo mandato di cattura e legittima protrazione della custodia preventiva, in Giur. it., II, 1979, p. 216. (15) Si voleva eliminare il rischio che l’autorità ricorresse al « sotterfugio di distribuire in tempi successivi più provvedimenti di cattura, uno alla volta per più reati, allo scopo di trattenere in stato di detenzione l’imputato anche dopo la scadenza del periodo massimo di custodia preventiva stabilito dalla legge ». Così Cass., 29 agosto 1967, Liguori, in Cass. pen. mass., 1968, p. 1184; nello stesso senso, Cass., 22 dicembre 1971, Capace, in Mass. dec. pen., 1972, p. 480. (16) « Fermo restando che non è lecito distribuire nel tempo con successivi mandati, la contestazione di fatti-reato già noti, in modo da conseguire la proroga del termine massimo di custodia preventiva, deve riconoscersi la legittimità e la rilevanza ai fini della durata di detta custodia, della emissione di nuovi mandati che abbiano riferimento ad elementi di fatto completamente nuovi, i quali in precedenza non avrebbero potuto costituire oggetto di imputazione. Può affermarsi l’illegittimità della protrazione della custodia preventiva per effetto della emissione di un nuovo mandato per dei fatti nuovi, soltanto qualora sia provata la colpevole inerzia del giudice inquirente nella verifica della sussistenza e della coesistenza degli indizi di colpevolezza in ordine ai fatti di reato contestati con il nuovo provvedimento restrittivo ». Così, Cass., sez. I, 17 novembre 1976, Mavilla e altro, in Giur. it., 1979, II, p. 214. (17) Cass., sez. VI, 5 agosto 1980, Calleri di Sala, in Giust. pen., 1981, III, p. 65. (18) Cass., 26 aprile 1967, Prato, in Cass. pen. mass., 1968, p. 173; Cass., 23 giugno 1965, Tiraballi, ivi, 1966, p. 442. Si richiedeva, tuttavia, che le circostanze ulteriori, che giustificavano l’aggravamento dell’imputazione originaria fossero state conosciute dall’autorità successivamente all’emissione della prima misura.
— 1284 — deva che i fatti fossero « conosciuti o conoscibili ab initio dall’autorità giudiziaria » (19). In tal caso, il secondo mandato di cattura, pur valido, sarebbe stato inidoneo a determinare una nuova decorrenza del termine di custodia preventiva. È evidente, peraltro, la delicatezza e la difficoltà della valutazione dell’abuso. Da un lato, occorreva dimostrare l’intento persecutorio dell’autorità giudiziaria (20). Da un altro lato, vi erano le ipotesi nelle quali l’autorità era venuta a conoscenza di un nuovo reato successivamente all’emissione della ordinanza relativa ad un determinato fatto. Anche in tal caso, infatti, poteva darsi l’ipotesi di una contestazione a catena ogni qual volta l’autorità avesse differito l’emissione del provvedimento cautelare rispetto alla scoperta del nuovo fatto (21). In tutte le predette ipotesi la logica imponeva che il termine di custodia in relazione al secondo reato decorresse dalla data in cui il relativo provvedimento avrebbe potuto e dovuto essere emesso (22). Come emerge dai rapidi cenni sinora tratteggiati, la giurisprudenza aveva acquisito una piena e matura coscienza del problema ed aveva altresì tracciato linee ermeneutiche idonee a reprimere il fenomeno delle (19) Cass., sez. VI, 5 agosto, 1980, Calleri di Sala, cit. (20) V. GREVI, Libertà personale, cit., p. 219, sottolineava la « difficoltà di accertare in quale momento l’autorità giudiziaria [avesse] raccolto intorno ai nuovi fatti di reato un complesso di elementi sufficiente a giustificare anche per essi il mandato di cattura ». (21) Cass., 22 gennaio 1969, Cacciapuoti, in Cass. pen. mass., 1970, p. 538. (22) Così V. GREVI, Libertà, cit., p. 221; P. FERRUA, I termini massimi di custodia, in AA.VV., La nuova disciplina della libertà personale nel processo penale, a cura di V. GREVI, Padova, 1985, p. 275; F. CORDERO, Procedura penale, 9a ed., Milano, 1987, p. 134. In giurisprudenza, per tutte, si veda Cass., sez. I, 7 novembre 1988, Dolce, in Cass. pen., 1990, I, p. 100: « ai fini del computo dei termini della custodia preventiva, nel caso di emissione di un nuovo provvedimento restrittivo che riguardi un fatto diverso da quello per il quale l’imputato già si trova in custodia cautelare, e non concorrente formalmente con esso, la decorrenza dei termini rispetto al nuovo reato ha inizio, di regola, dal giorno della notificazione del relativo provvedimento di cattura (art. 271, comma 2, c.p.p.), salvo ove si riscontri una colpevole inerzia dell’autorità inquirente o, comunque, un ingiustificato ritardo nel procedere alla nuova contestazione, nel qual caso il termine decorre dalla data (che è compito del giudice di merito determinare con la maggiore approssimazione possibile), in cui l’inquirente avrebbe potuto e dovuto emettere il nuovo titolo di custodia. Tale data non può identificarsi con quella di acquisizione della notitia criminis. Invero al fine di stabilire se il ritardo della nuova contestazione sia o meno giustificato, occorre tener conto non solo del tempo necessario per l’elaborazione delle suddette notizie e per la definizione giuridica del fatto, ma anche di quello occorrente per verificare l’esistenza di un adeguato supporto indiziario, tale da legittimare l’ulteriore restrizione della libertà personale. La relativa valutazione si risolve in un giudizio di fatto che, se congruamente motivato, non è sindacabile in sede di legittimità ». Merita ricordare la precisazione effettuata da Cass., sez. I, 11 luglio 1994, Di Caro, in Mass. dec. pen., 1994, n. 198810: « la data in rapporto alla quale occorre stabilire se fossero stati acquisiti o no (tenuto conto anche del tempo necessario alla loro elaborazione) gli elementi posti a base dell’ordinanza successiva non è quella di emanazione dell’ordinanza precedente, ma quella in cui era stata avanzata dal pubblico ministero la relativa richiesta ».
— 1285 — contestazioni a catena. Tuttavia, nella prima metà degli anni ’80 il legislatore ha voluto dare una disciplina positiva alla materia. L’occasione è stata l’approvazione della l. 28 luglio 1984 n. 398, con la quale sono state apportate notevoli modifiche in senso garantista alla disciplina della custodia cautelare. Il provvedimento in esame, tra l’altro, ha affermato il principio di segmentazione dei termini scanditi in relazione alle varie fasi processuali e ha ridotto l’ammontare dei limiti massimi della custodia cautelare (23). Al tempo stesso, la l. n. 398 aveva modificato l’art. 271 c.p.p. 1930 introducendovi una disciplina repressiva delle contestazioni a catena relative al medesimo fatto, che costituiva la codificazione dell’indirizzo giurisprudenziale sopra ricordato (24). In particolare si precisava, da un lato, che il termine doveva commisurarsi all’ultima delle imputazioni contestate; da un altro lato, che le ipotesi di concorso formale di reati integravano una contestazione a catena relativa ad un fatto unico. In quest’ultimo caso, tuttavia, conformemente al criterio del cumulo giuridico delle pene (art. 81 c.p.) si stabiliva che il termine fosse commisurato all’imputazione più grave (25). Il silenzio, che era stato serbato dal legislatore in merito alle contestazioni a catena relative a fatti diversi, venne interpretato come un self restraint, motivato dalla difficoltà di intervenire con lo strumento legislativo — per definizione generale ed astratto — su di una disciplina magmatica (23) Anche dal punto di vista simbolico nella legge in esame è possibile ravvisare un’istanza garantista: l’art. 11 stabiliva che « nel codice di procedura penale e nelle altre leggi le espressioni ‘‘carcerazione preventiva’’ e ‘‘custodia preventiva’’ sono sostituite dalla seguente: ‘‘custodia cautelare’’ ». Secondo M. CHIAVARIO, Libertà personale e processo penale, in Ind. pen., 1987, p. 223, il mutamento terminologico costituiva un ‘‘segnale’’ del ripudio della finalità di anticipazione della pena, che è tipica del sistema inquisitorio. (24) Riportiamo l’art. 271, comma 3, così come sostituito dall’art. 2 della l. n. 398 del 1984: « se nei confronti di un imputato sono emessi più provvedimenti di cattura o di arresto per uno stesso fatto, benché diversamente circostanziato o qualificato, i termini di carcerazione cautelare decorrono dal giorno in cui è iniziata l’esecuzione del primo provvedimento e vengono commisurati in relazione all’ultima delle imputazioni contestate. Le disposizioni che precedono si osservano anche nei casi previsti dal comma 1 dell’art. 81 del codice penale; in tal caso i termini vengono commisurati in relazione al più grave dei reati contestati ». Secondo P. TONINI, Le nuove norme sul processo penale, Padova, 1985, p. 30, la norma appena citata costituiva la cristallizzazione di una soluzione già applicata in giurisprudenza. Nello stesso senso, E. JANNELLI, sub art. 2, l. 28 luglio 1984, n. 398, in Leg. pen., 1985, p. 77. (25) È chiara la differenza tra le ipotesi di concorso formale e quelle di successive contestazioni del medesimo fatto. Nel primo caso, la nuova contestazione si aggiunge a quella precedente anche se ha come referente il medesimo fatto storico. Nel secondo caso, la nuova contestazione costituisce una riformulazione o una precisazione della precedente e si sostituisce alla stessa.
— 1286 — e mutevole alla quale risultava viceversa maggiormente consentaneo un approccio casistico (26). Invero, nel corso dei lavori preparatori della l. n. 398 si era da più parti prospettata la possibilità di disciplinare legislativamente le contestazioni a catena relative a fatti diversi, purché legati da un vincolo di connessione (27). Ma era prevalso l’orientamento contrario ad imbrigliare in una disciplina positiva il fenomeno in oggetto, sul rilievo che la prova della malafede del pubblico ministero era « diabolica » e la materia richiedeva un controllo ex post svolto caso per caso dalla giurisprudenza (28). Così la problematica era rimasta affidata alla elaborazione giurisprudenziale. La Cassazione, negli anni successivi all’entrata in vigore della legge del 1984, aveva confermato il precedente orientamento e aveva prodotto una giurisprudenza ricca ed equilibrata (29). 5. Le contestazioni a catena nel codice del 1988. — Come è avvenuto per la maggior parte delle disposizioni relative alla disciplina della (26) Si veda P. FERRUA, I termini, cit., p. 277: « l’inevitabile elasticità di una... distinzione imperniata su presupposti di non facile accertamento, come la ricerca del giorno a partire dal quale gli indizi di colpevolezza avrebbero consentito di emettere il nuovo provvedimento coercitivo, spiega perché, nonostante le ripetute sollecitazioni, il legislatore abbia preferito non interloquire sul punto ». L’Autore, tuttavia, ravvisa nel silenzio del legislatore, una ulteriore più recondita ragione, che consiste nella opportunità di non prevedere nel codice di rito norme che evochino abusi immorali da parte dell’autorità giudiziaria. In senso contrario si era espresso E. JANNELLI, sub art. 2, cit., p. 82. Ad avviso di quest’ultimo, sulla determinazione della colpevole inerzia del pubblico ministero incidevano « fattori di incerta determinazione, quali la colpa del giudice nella conoscenza degli atti processuali, l’eccessivo carico di lavoro gravante sugli uffici giudiziari, i ritardi nella trasmissione di documenti probatori, le disfunzioni in genere degli uffici giudiziari... Il legislatore [aveva] quindi perso l’occasione per la formulazione di una disciplina ancorata a dati certi ed incontrovertibili, in grado di essere controllati con uniformità dall’imputato e dal giudice ». (27) P. FERRUA, I termini, cit., p. 277, nota 44. (28) Rel. Testa, in Camera dei deputati, IX legislatura, discussioni, 24 gennaio 1984, res. somm., p. 11. (29) Tra le tante, merita ricordare Cass., sez. I, 9 febbraio 1987, Montarro, in Giust. pen., 1988, III, p. 43: « è dovere del giudice di merito, quando è chiamato a stabilire se sussista un caso di cosiddetta contestazione a catena, di individuare, sia pure con l’approssimazione più vicina alla realtà, in base alle emergenze processuali, quale sia stato il momento in cui l’autorità giudiziaria competente avrebbe dovuto e potuto emettere il nuovo provvedimento restrittivo della libertà personale. Ciò avuto riguardo al tempo necessario per la verifica della notizia di reato e per la definizione giuridica dei fatti, senza trascurare la garanzia di non prolungare la custodia cautelare al di là del consentito ed arbitrariamente »; Cass., sez. I, 16 dicembre 1985, Faranda in Cass. pen., 1987, p. 781 e in Giust. pen., 1987, II, p. 145; Cass., sez. VI, 10 dicembre 1985, Medici, in Cass. pen., 1987, p. 957; Cass., sez. I, 24 novembre 1986, Mercurio, in Cass. pen., 1988, p. 899; Cass., sez. I, 3 ottobre 1986, Mazzarella, in Giust. pen., 1987, III, p. 500; Cass., sez. III, 23 ottobre 1987, Elena, in Cass. pen., 1988, p. 1924; Cass., sez. VI, 23 luglio 1986, Ammaturo, in Giust. pen., 1987, III, p. 669; Cass., sez. I, 15 dicembre 1986, Fidanzati, in Giust. pen., 1988, III, p. 184; Cass., sez. I, 8 novembre 1988, Lojacono, in Giust. pen., 1989, III, p. 411.
— 1287 — custodia cautelare, in tema di contestazioni a catena il codice del 1988 non si è discostato dalle scelte effettuate durante gli ultimi anni di vigenza del codice del 1930. Sul punto la legge delega non aveva previsto alcuna specifica direttiva. Il legislatore delegato si era limitato a disciplinare l’ipotesi nella quale nei confronti della stessa persona fossero state emesse più ordinanze applicative della custodia cautelare in relazione al medesimo fatto, anche se diversamente qualificato o circostanziato. In tal caso i termini avrebbero dovuto decorrere dalla data di emissione della prima ordinanza e sarebbero stati commisurati all’ultima imputazione. Una disciplina apposita — come del resto avveniva nel codice del 1930 — era prevista in relazione alla ipotesi di concorso formale di reati. In caso di concorso formale in senso stretto, di aberratio delicti e aberratio ictus plurioffensive, era stabilito che il termine avrebbe dovuto essere stabilito sulla base dell’imputazione più grave. Era chiara la ratio di una siffatta disciplina: si trattava di ipotesi nelle quali l’imputato con un’unica condotta aveva cagionato più reati; le aberrationes sono ipotesi qualificate di concorso formale (30). È chiara la ragione che aveva indotto il legislatore del 1988 ad estendere a tutte le predette ipotesi la disciplina delle contestazioni a catena. Si trattava di situazioni nelle quali più reati erano stati cagionati con un’unica condotta (31). In tali ipotesi, se era necessario che i titoli cautelari, basati sulla qualificazione giuridica multipla di una condotta unitaria, decorressero simultaneamente, era altresì necessario che il termine fosse computato in relazione al reato più grave. Una disciplina diversa avrebbe costituito un irragionevole privilegio per l’imputato. Prima di passare all’esame delle successive evoluzioni della materia, è opportuno soffermarci sui due parametri utilizzati dall’art. 297, comma 3 per individuare le ipotesi di contestazioni a catena. Come si è avuto modo di precisare, si tratta di ordinanze che applicano la « medesima misura » in relazione allo « stesso fatto ». È evidente che i due concetti appena menzionati (« stesso fatto » e « medesima misura ») sono piuttosto gene(30) In tal senso M. BARGIS, sub art. 12, cit., p. 688; G. CIANI, sub art. 297 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, Torino, 1990, vol. III, p. 1198. In giurisprudenza, Cass., 9 settembre 1985, Tufano, in Cass. pen., 1987, p. 782; Cass., 4 luglio 1983, Fausto, in Cass. pen., 1985, p. 379; Cass., 21 gennaio 1977, Barra, in Cass. pen. Mass. annot., p. 1225. L’aberratio ictus è disciplinata dall’art. 82: quando per errore nell’esecuzione del reato o per altra causa l’agente lede sia la persona alla quale l’offesa era diretta, sia una persona diversa, si applica la pena stabilita per il reato più grave aumentata della metà. L’aberratio delicti consiste nell’ipotesi in cui il reo con un’unica condotta cagioni sia l’evento voluto, sia un evento ulteriore; in tal caso si applicano le norme relative al concorso di reati (art. 83, comma 2). (31) Cfr. A. SCELLA, Commento all’art. 12, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale. Nuovi diritti della difesa e riforma della custodia cautelare, Padova, 1995, p. 167; L. AMBROSOLI, L’estinzione, cit., p. 61.
— 1288 — rici; pertanto, l’ambito applicativo della disciplina dipende in larga misura dalla interpretazione che, di volta in volta, ne viene prospettata. In particolare nella valutazione della identità del fatto è insita una notevole discrezionalità, che richiama alla memoria le querelles giurisprudenziali in merito alla portata applicativa dell’art. 649 (32); la norma utilizza l’espressione « medesimo fatto » per delimitare l’operatività del principio del ne bis in idem processuale. Il giudice, chiamato a verificare la sussistenza di una contestazione a catena, deve esaminare le ordinanze applicative della custodia cautelare e verificare se esse si riferiscono allo stesso fatto, anche se « diversamente circostanziato o qualificato ». Merita ricordare che le ordinanze applicative delle misure cautelari, ai sensi dell’art. 292, comma 2, lett. b, debbono contenere « la descrizione sommaria del fatto con l’indicazione delle norme di legge che si assumono violate ». Poiché, ai sensi dell’art. 297, comma 3, è indifferente che il fatto risulti diversamente qualificato, l’indicazione delle norme di legge che si assumono violate è irrilevante. Il giudice deve limitarsi a considerare la descrizione sommaria del fatto. All’uopo, occorre stabilire quale sia la portata applicativa del concetto di « stesso fatto ». A nostro avviso, la soluzione dipende da una scelta di valore, piuttosto che da una analisi strettamente formale. La giurisprudenza maggioritaria interpreta la locuzione ricomprendendovi condotta, evento e nesso di causalità, mentre ritiene irrilevante la variazione dell’elemento soggettivo (es. da dolo a colpa) (33). Di conseguenza, ove (32) Sull’argomento, si veda F. CORDERO, Procedura penale, 5a ed., Milano, 2000, p. 1123 ss. (33) Ex multis, Cass., sez. II, 12 marzo 1998, Frazzatte, in Giust. pen., 1999, III, 39, secondo cui il fatto deve rimanere identico nei suoi elementi caratterizzanti: « condotta, evento e nesso di causalità »; Cass., sez. I, 21 ottobre 1996, Greco, in Cass. pen., 1998, p. 188; Cass., sez. I, 30 marzo 1995, Campanella, in Arch. n. proc. pen., 1995, p. 625. Interessante ricordare quanto affermato da Cass., sez. I, 10 novembre 1998, n. 5518, in Cass. pen., 2000, p. 450: « l’art. 297, comma 3, c.p.p., nello stabilire la decorrenza unitaria dei termini di custodia in ipotesi di pluralità di ordinanze coercitive emesse per lo stesso ‘‘fatto’’, ha inteso, con quest’ultima espressione, fare riferimento alla identità della condotta e dell’evento nel loro aspetto fenomenico. Pertanto, ove plurime siano le azioni od omissioni concrete, deve escludersi l’identità del fatto, anche se la condotta sia inglobata in un unico reato permanente ». Quanto al rapporto tra l’art. 649 e l’art. 297, comma 3, la Cassazione appare orientata a prospettare una distinzione piuttosto artificiosa: Cass., sez. I, 21 ottobre 1996, n. 5429, in Cass. pen., 1998, p. 188: « la locuzione ‘‘stesso fatto’’ di cui all’art. 297, comma 3, c.p.p. ha un significato più esteso dell’espressione ‘‘medesimo fatto’’ di cui all’art. 649 c.p.p., ricomprendendo — fermo restando un nucleo originario comune — tutte le diverse possibilità di commissione o di articolazione di un determinato fatto criminoso »; nello stesso senso, Cass., sez. VI, 13 luglio 1998, in Cass. pen., 1999, p. 2924. Contra, in dottrina, si veda A. SCELLA, Pluralità di ordinanze cautelari per ‘‘uno stesso fatto’’ e divieto di ‘‘contestazioni a catena’’, in Cass. pen., 2000, p. 131; M. MERCONE, L’effetto di retrodatazione delle ordinanze cautelari, ivi, 1999, p. 2927.
— 1289 — la seconda ordinanza muti uno dei predetti elementi, non risulterà applicabile l’unificazione dei termini di custodia. L’alternativa teorica consiste nel ritenere che, ai fini dell’identità del fatto, rilevi esclusivamente la ‘‘condotta’’ (34). Pertanto, eventuali spostamenti relativi agli altri elementi oggettivi del reato saranno inidonei a determinare una nuova decorrenza dei termini. La scelta in merito alle alternative appena esposte determina anche il significato da attribuire alla locuzione « diversamente circostanziato ». Chi faccia propria la tesi restrittiva, che ricomprende nello stesso fatto condotta, evento e nesso di causalità, interpreta il termine « circostanziato » nel suo significato tecnico: l’espressione allude alla presenza di circostanze aggravanti o attenuanti non indicate nella prima ordinanza cautelare. Viceversa, chi collega l’identità del fatto esclusivamente alla condotta, ritiene che anche le variazioni attinenti all’evento ed al nesso causale rendano il fatto « diversamente circostanziato ». Occorre precisare che alla irrilevanza dell’evento è possibile pervenire anche mediante una applicazione analogica dell’art. 649. La norma appena citata stabilisce che il fatto resta identico pure se diversamente considerato quanto al « grado ». Pacificamente si ritiene che tale termine alluda al passaggio da tentativo a consumazione dovuto, in molti casi, al verificarsi dell’evento. Tale modifica rileverà ai fini della individuazione dell’ammontare dei termini di custodia cautelare; viceversa, non inciderà sulla decorrenza degli stessi, che resterà ancorata alla prima contestazione. Tra le due soluzioni prospettate, preferibile appare quella che attribuisce rilevanza alla sola condotta. È più che naturale, infatti, che la fluidità delle indagini preliminari comporti mutamenti in relazione ai vari elementi del fatto. L’elemento determinante, perché si possa ritenere esistente una contestazione a catena, è la condotta. Tuttavia, anche nel quadro di una interpretazione garantista, come quella prospettata, occorre un minimo di ‘‘precisione’’ nella identificazione di tale elemento. Riteniamo che fondamentale importanza sia da attribuirsi al tempus commissi delicti. Il dato temporale, infatti, risulta fondamentale ai fini della identificazione del concetto di ‘‘stesso fatto’’ incentrato sulla condotta (35). (34) In tal senso si era espresso già G. CONSO, Concorso materiale, cit., p. 1034. (35) Del resto, la rilevanza dell’elemento temporale si desume con chiarezza dalla norma che disciplina l’informazione di garanzia (art. 369); non occorre che quest’ultima rechi una enunciazione del fatto, ma è indispensabile l’indicazione della data e del luogo del medesimo. Di recente, la Corte di Cassazione (Cass., sez. VI, 13 luglio 1998, Pacini Battaglia, in Cass. pen., 2000, 131, nota di A. SCELLA) ha ritenuto non rilevante il dato temporale di commissione del reato, richiamandosi ad una pronuncia delle Sezioni Unite, secondo cui « l’indicazione della data in cui si assume essere stato commesso un determinato reato è un elemento non indispensabile alla descrizione del fatto » (Cass., sez. un., 25 marzo 1997, D’Abramo, in Cass. pen., 1998, p. 2874). Tuttavia, tale affermazione, pur criticabile, si riferiva alla valutazione della legittimità della motivazione di una ordinanza cautelare in sé con-
— 1290 — Ci corre obbligo di sottolineare, tuttavia, che la infinita varietà delle vicende prospettabili induce a privilegiare una interpretazione elastica. Nella singola concreta fattispecie il giudice, chiamato all’accertamento, potrebbe desumere la identità del fatto attraverso differenti indici, che inducono ad una soluzione maggiormente aderente alle esigenze di Giustizia sostanziale. Di nuovo, ci troviamo a valorizzare la inevitabile dose di flessibilità che si rende necessaria in materia cautelare. Riteniamo pertanto condivisibile la scelta del legislatore di utilizzare nell’art. 297, comma 3 un parametro estremamente generico, senza ingabbiare la discrezionalità del giudice entro indici rigidamente predeterminati. Resta peraltro da ricordare che il giudice, chiamato a individuare l’esistenza di una contestazione a catena, dispone di un panorama probatorio piuttosto limitato e soprattutto selezionato dal pubblico ministero. In concreto, specie nelle ipotesi nelle quali l’inquirente voglia porre in essere manovre elusive dei termini di custodia cautelare, può rivelarsi arduo per il giudice rilevare l’applicabilità dell’art. 297, comma 3. Minori problemi suscita la determinazione dell’ambito applicativo della locuzione « medesima misura ». In tal caso occorre esaminare l’indicazione della misura cautelare contenuta nell’ordinanza applicativa. Una interpretazione letterale induce a ritenere che debba aversi riguardo alla specie delle misure. Tuttavia il concetto di « medesima misura » non allude esclusivamente al nomen iuris. Nella predetta categoria rientrano tutte le misure che incidono sul medesimo bene giuridico (36). In applicazione di tale tesi, la giurisprudenza ritiene che la custodia cautelare in carcere e gli arresti domiciliari possano essere considerate la medesima misura, giacché limitano la libertà personale. A conferma di tale assunto, l’art. 284, comma 5 prevede che « l’imputato agli arresti domiciliari si considera in stato di custodia cautelare » (37). Evidentemente la disposizione vuole stabilire una equiparazione tra le due specie di misure custodiali dal punto di vista delle conseguenze; il computo della durata della custodia (art. 297) può a buon diritto annoverarsi tra gli effetti della misura. Un analogo rapporto dovrà ravvisarsi tra la nuova misura degli arresti domiciliari sottoposti a « particolari modalità di controllo » (art. 275bis, introdotto dal decreto l. 24 novembre 2000, n. 341, convertito con modificazioni nella l. 19 gennaio 2001, n. 4) e la custodia cautelare in carcere. Il Legislatore ha recepito nel nostro ordinamento quello strumento siderata, e prescindeva del tutto dal tema delle contestazioni a catena. Una estensione di tale principio anche alla materia in oggetto appare una forzatura, che può sortire effetti distorti. In tal senso A. SCELLA, Pluralità di ordinanze, cit., p. 132. (36) Cfr. M. MERCONE, L’effetto, cit., p. 2928. (37) Cass., sez. VI, 13 dicembre 1996, De Luca, in Giust. pen., 1998, III, p. 407 e in Riv. pen., 1997, p. 300.
— 1291 — che è noto come ‘‘braccialetto elettronico’’, mediante il quale è possibile controllare costantemente gli spostamenti del detenuto. L’art. 275-bis, comma 1, stabilisce che se l’imputato nega il consenso all’applicazione delle particolari modalità di controllo, la custodia cautelare deve essere eseguita in carcere. Da tale disposizione si desume la stretta affinità esistente tra la misura in oggetto e la custodia in carcere. Pertanto è presumibile che i predetti istituti saranno considerati la « medesima misura » ai fini dell’applicazione della disciplina delle contestazioni a catena. 6. La legge n. 332 del 1995 sulle contestazioni di fatti connessi. — Il legislatore del 1988 si era opportunamente astenuto dal prendere posizione in relazione alle contestazioni a catena di fatti diversi. La repressione del fenomeno restava affidata alla giurisprudenza, che continuava a seguire gli orientamenti consolidatisi sotto il codice precedente (38). La stabilizzazione della materia, tuttavia, non è durata a lungo. Con la l. 8 agosto 1995, n. 332, recante la « nuova disciplina della custodia cautelare e dei diritti della difesa », il legislatore ha introdotto rilevanti modifiche nel codice di procedura penale con un intervento di ampio respiro. In particolare, ha previsto nuove garanzie nel procedimento applicativo della custodia cautelare ed ha notevolmente ridotto i termini finali, che costituiscono il limite massimo imposto alla durata della custodia. Con l’occasione è stata modificata anche la disciplina delle contestazioni a catena. Si è trattato, invero, di un intervento in qualche misura estemporaneo e collaterale, come è attestato dalla laconicità dei lavori preparatori sul punto. In sintesi, il Parlamento ha ridisegnato la disciplina delle contestazioni a catena estendendola anche alle ipotesi di fatti diversi. Tuttavia, mai come nel caso in esame si è potuto affermare che la penna ha tradito l’intenzione del legislatore (39). Tra l’intenzione (voluto) (38) La Relazione al progetto preliminare del 1988, in Legislazione italiana, Torino, 1988, p. 469, risultava assai laconica sul punto. Si limitava ad affermare che « nel comma 3, in rapporto ai casi di concorso tra diversi titoli cautelari relativi al medesimo fatto, si è fissata una normativa che ricalca quella dell’art. 271, comma 3, c.p.p. ». La Relazione al testo definitivo taceva del tutto sul punto. (39) Si veda A. SCELLA, Commento all’art. 12, cit., p. 160, ad avviso del quale « si tratta di riforme non strettamente necessarie e che potrebbero addirittura produrre il nefasto effetto di rimettere in discussione consolidati orientamenti giurisprudenziali che rappresentano un apprezzabile punto d’equilibrio in una materia così importante e delicata ». Ad avviso di M. BARGIS, sub art. 12, cit., p. 683, i parametri per rilevare l’esistenza di una contestazione a catena erano in passato elasticamente manipolabili; « compito del legislatore, intenzionato a ridisciplinare la materia appariva, quindi, quello di coniare criteri il più possibile oggettivi, i quali fungessero da strumento di tutela per il soggetto sottoposto a misura cautelare ». Tuttavia, la l. n. 332 del 1995 ha previsto una norma che opera con « meccanica assolutezza ». In termini analoghi, L. D’AMBROSIO e G. FIDELBO, Incidenza del tempo sulle misure cautelari, in AA.VV., Misure cautelari e diritto di difesa, a cura di V. GREVI, Milano, 1995, p. 146; P.P. RIVELLO, ‘‘Graziata’’, cit., p. 834.
— 1292 — e il risultato (realizzato) vi è uno iato enorme, che non ci pare colmabile se non mediante interpretazioni acrobatiche. È necessario esporre sinteticamente le novità apportate dalla legge del 1995. Anzitutto il legislatore ha stabilito che nelle ipotesi di contestazioni a catena relative al medesimo fatto i termini di custodia debbono sempre essere commisurati all’imputazione più grave, anziché all’ultima imputazione contestata. In secondo luogo, si è espressamente disciplinata l’ipotesi delle successive contestazioni relative a fatti diversi. Il legislatore ha stabilito che quando nei confronti del medesimo imputato sono emesse più ordinanze di custodia cautelare in relazione a fatti connessi, i termini di custodia di regola decorrono dalla data della prima ordinanza e sono commisurati alla imputazione più grave. All’uopo, la l. n. 332 del 1995 ha ritagliato un’area di connessione ‘‘qualificata’’, che consiste nelle ipotesi di concorso formale, reato continuato e connessione teleologica in senso stretto (art. 12, comma 1, lett. b e c, ma limitatamente ai reati commessi per eseguirne altri) (40). Il predetto criterio di computo non si applica quando il reato connesso, oggetto della seconda ordinanza, non era desumibile dagli atti anteriormente al rinvio a giudizio disposto in relazione al primo reato (41). 7. (Segue): le contestazioni relative al medesimo fatto. — Il primo rilievo, che si impone all’attenzione dell’interprete, consiste nella estrema complessità della disciplina: il legislatore ha voluto concentrare in una sola disposizione la regolamentazione di ipotesi differenti. Ciò comporta risultati non soddisfacenti, dal momento che fattispecie completamente diverse vengono accomunate entro il medesimo regime giuridico. In tutte le ipotesi di contestazioni a catena il codice impone di commisurare il termine di custodia sull’imputazione più grave. Tuttavia, è di immediata evidenza che tale criterio impone un trattamento di sfavore nelle ipotesi di contestazioni a catena relative ad un unico reato. Infatti, ogni qual volta il pubblico ministero, a seguito dello sviluppo delle indagini, opti per la derubricazione del reato originariamente contestato i ter(40) Merita precisare che, a seguito della l. 14 febbraio 2001, n. 63, che ha profondamente modificato il sistema probatorio per adeguarlo ai nuovi princìpi sanciti dall’art. 111 Cost., la lettera c dell’art. 12 oggi disciplina esclusivamente la connessione teleologica (reati commessi per eseguire o occultare gli altri). Le altre ipotesi (cd. connessione occasionale e consequenziale) sono state inserite nell’area del collegamento tra indagini condotte da diversi pubblici ministeri mediante una modifica dell’art. 371, comma 2, lett. b. La modifica non rileva ai nostri fini. Infatti non sortisce alcuna incidenza sulla ‘‘connessione qualificata’’ definita dall’art. 297, comma 3, che costituisce ancora un ‘‘sottoinsieme’’ dell’art. 12, lett. c. (41) Ad avviso della Corte di Cassazione, l’art. 297, comma 3, stabilisce il « principio della concentrazione dei provvedimenti cautelari ». Così Cass., sez. IV, 13 novembre 1996, in Giust. pen., 1997, III, p. 636.
— 1293 — mini dovrebbero restare commisurati alla incriminazione più grave, contestata nella prima ordinanza, ma ormai abbandonata anche dalla pubblica accusa (42). La disciplina appare tanto irragionevole da imporre una interpretazione correttiva per non incorrere in una declaratoria di illegittimità costituzionale. Pertanto, quante volte l’evolversi delle indagini porti ad una attenuazione della gravità dell’originaria contestazione, i termini di custodia cautelare debbono essere commisurati all’ultima delle imputazioni poste a base di una misura cautelare (43). Ma quella che abbiamo appena affrontato è soltanto una questione marginale. Infatti, come abbiamo accennato, i problemi più seri derivano dalla regolamentazione delle contestazioni relative a fatti diversi. In tal caso, sul solo presupposto della connessione tra i reati, scatta un criterio di computo automatico che impone la retrodatazione dei termini a partire dalla emissione del primo provvedimento cautelare (44). 8. (Segue): le contestazioni relative a fatti connessi. — Le critiche, che possono essere mosse ad una disciplina del genere, sono di immediata evidenza. Come abbiamo sottolineato in precedenza, in caso di contestazione a catena del medesimo fatto, l’abuso sta in re ipsa; pertanto non occorre dimostrare la malafede o la negligenza del pubblico ministero (45). (42) Cfr. M. BARGIS, sub art. 12, cit., p. 684; P.P. RIVELLO, ‘‘Graziata’’, cit., p. 829; L. D’AMBROSIO e G. FIDELBO, Incidenza, cit., p. 146. Ad avviso di A. SCELLA, Commento all’art. 12, cit., p. 164, la disposizione sembra adottata sul presupposto che sia impossibile che l’evolversi delle investigazioni comporti un miglioramento, e non un deterioramento, della posizione dell’indiziato. L’Autore prospetta una possibile obiezione fondata sul rilievo che in caso di derubricazione il pubblico ministero non sarebbe comunque tenuto alla successiva contestazione cautelare. In ogni caso, tuttavia, l’indagato potrebbe chiedere la revoca della misura per sopravvenuta carenza di una condizione di applicabilità. (43) In tal senso V. GREVI, Commento all’art. 12 l. 8 agosto 1995 n. 332, in La riforma, cit., pp. 19-21; M. BARGIS, sub art. 12, p. 684; G. CONTI, La « radiografia » della nuova normativa su misure cautelari e diritto alla difesa, in Guida dir., 26 agosto 1995, p. 53; A SCELLA, Commento all’art. 12, cit., pp. 164-165; L. D’AMBROSIO e G. FIDELBO, Incidenza, cit., p. 147. Merita rilevare che il termine ‘‘imputazione’’ usato dalla norma in esame, appare scorretto. Nella fase applicativa della custodia cautelare non si parla di imputazione, bensì di ‘‘addebito’’ o di ‘‘contestazione’’. (44) Come ha correttamente rilevato P.P. RIVELLO, ‘‘Graziata’’, cit., p. 827: « il legislatore ha finito per amalgamare, in tutta una serie di ipotesi, l’artificiosa diluizione nel tempo delle contestazioni con il fisiologico succedersi di richieste di misure cautelari, dovuto alla fruttuosità delle indagini esperite ed alla conseguente individuazione di episodi in precedenza ignoti, tali da concretare ulteriori reati connessi ». (45) Merita sottolineare che le ipotesi di concorso formale, aberratio ictus e aberratio delicti, a rigore non rientrano più nella disciplina delle contestazioni a catena relative ad un unico fatto, bensì in quella relativa a più reati connessi, giacché il concorso formale rientra nella connessione ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. b. Tuttavia, una interpretazione razionale dovrebbe indurre a ritenere che la prima parte dell’art. 297, comma 3, relativa alle qua-
— 1294 — Viceversa, nel caso di successive contestazioni relative a fatti diversi, è indispensabile verificare, caso per caso, se il pubblico ministero ha agito correttamente oppure se ha inteso aggirare la disciplina dei termini. Non è possibile stabilire una regola automatica; essa può sortire l’effetto di colpire anche quelle condotte che siano del tutto legittime. Si faccia il caso che il pubblico ministero chieda una ordinanza cautelare per un fatto A e, in un momento successivo, scopra l’esistenza di un nuovo fatto B e, pure in relazione ad esso, chieda la custodia cautelare. In tal caso, la condotta dell’inquirente appare legittima ed i termini relativi ai due reati dovrebbero decorrere dalla data di emissione delle relative ordinanze. Eppure, ai sensi dell’art. 297, comma 3, se si tratta di reati connessi teleologicamente, che siano stati compiuti anteriormente alla emissione della prima ordinanza, i termini devono essere unificati. La disciplina è piuttosto complessa e può essere ricostruita come segue. La legge utilizza tre indici presuntivi per stabilire se si è in presenza di una contestazione a catena relativa a fatti diversi: a) la data di commissione del reato oggetto della seconda ordinanza (B), che deve essere anteriore a quella di emissione della ordinanza relativa al reato A; b) il rapporto di connessione qualificata intercorrente tra di essi; c) il non essere stato disposto il rinvio a giudizio in relazione al reato oggetto della prima ordinanza (A). Il primo ed il terzo requisito, e cioè la data di commissione dei fatti ed il non avvenuto rinvio a giudizio, hanno natura oggettiva e, di regola, non richiedono un accertamento discrezionale (46). Viceversa, il legame di connessione qualificata (secondo requisito) può comportare una indagine più complessa ed implicare profili valutativi da parte del giudice chiamato a verificarne la sussistenza (47). lificazioni giuridiche multiple in relazione ad un medesimo fatto si riferisca anche alle ipotesi di concorso formale ed assimilate. Per una panoramica sul concorso di norme si rinvia a M. PAPA, Le qualificazioni giuridiche multiple nel diritto penale: contributo allo studio del concorso apparente di norme, Torino, 1997. (46) In tal senso si veda Trib. Marsala, ord. 4 dicembre 1995, D.V. e altri, in Cass. pen., 1996, p. 2396, ad avviso del quale si tratta di un requisito fondato su un’indagine obiettiva di mera comparazione cronologica. Il Tribunale, tuttavia, riferisce tale rilievo anche al requisito della connessione. (47) In giurisprudenza, si veda Cass., sez. I, 22 ottobre 1997, in Cass. pen., 1999, p. 1558. In dottrina non manca chi ha posto l’accento sulla difficoltà dell’accertamento del legame di connessione. L’ipotesi più pacifica si verifica quando la connessione costituisce oggetto di specifica contestazione nel testo del secondo provvedimento emesso a catena. « Diversamente, e cioè nell’ipotesi di più frequente verificazione in cui nessuna indicazione in proposito sia espressamente contenuta nel testo del provvedimento, simile carenza determinerà per il giudice chiamato a valutare l’asserita sussistenza di una ‘‘contestazione a catena’’, un obbligo di interpretazione della parte motiva dei singoli provvedimenti al fine, appunto, di individuare gli eventuali vincoli connettivi normativamente rilevanti ». Così A. RICCI, Sulle condizioni di applicabilità del divieto di contestazioni a catena per « fatti diversi », in Giur. it., 1998, III, p. 772. All’uopo, riteniamo determinante il contributo della difesa nella
— 1295 — Se ricorrono tutti e tre i requisiti sopra menzionati, opera una presunzione assoluta di ‘‘malafede’’ (o comunque di negligenza) in capo al pubblico ministero (48). Questi non è ammesso a provare che ha agito legittimamente, e cioè che la contestazione del reato B è stata effettuata non appena il fatto è stato scoperto. La fattispecie è trattata alla stregua di una contestazione a catena relativa ad un unico fatto (49). Per contro, se manca il terzo requisito, e cioè se è già stato disposto il rinvio a giudizio in relazione al primo fatto di reato (A), il pubblico ministero è ammesso a provare che il reato oggetto della seconda ordinanza (B) non era desumibile dagli atti anteriormente a detto rinvio (50). In ricostruzione prospettata nell’istanza di scarcerazione. Il difensore potrà esaminare gli atti posti a base di entrambe le misure cautelari, ai sensi dell’art. 293, comma 3. Sul punto, Cass., sez. I, 15 gennaio 1997, in Giur. it., 1997, II, p. 450, « ai fini dell’applicazione dell’art. 297, comma 3, c.p.p. la sussistenza del nesso teleologico tra i diversi reati oggetto di una pluralità di ordinanze custodiali, in assenza della formale contestazione della circostanza aggravante ex art. 61, n. 2, c.p., non può essere desunta del fatto che le diverse ipotesi criminose abbiano formato oggetto di un’unica richiesta di rinvio a giudizio ». Si veda anche Trib. Marsala, ord. 4 dicembre 1995, D.V. e altri, in Cass. pen., 1996, p. 2395. (48) La dottrina civilistica afferma che le presunzioni legali assolute operano sul piano sostanziale piuttosto che su quello probatorio. Rileva A. PROTO PISANI, Diritto processuale civile, 3a ed., Napoli, 1999, p. 483, che « allo scopo di perseguire esigenze di certezza si sostituisce nella fattispecie legale ad un fatto oscuro, ambiguo, non apparente, un fatto chiaro, netto facilmente individuabile ». In tal modo è possibile facilitare l’adempimento di oneri probatori, che in caso contrario difficilmente potrebbero essere assolti (così G. FABBRINI TOMBARI, Note in tema di presunzioni legali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1991, p. 917). Infatti le presunzioni assolute operano una « equipollenza tra fatto produttivo di un dato effetto ed altro fatto dalla legge equiparato »: cfr. F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, 8a ed., Napoli, 2000, p. 103. In presenza di tali presupposti, il legislatore effettua una fictio iuris volta a far decorrere dal medesimo giorno i termini di custodia cautelare relativi a fatti diversi: così V. GREVI, Pluralità di ordinanze cautelari per ‘‘fatti diversi’’ e computo dei termini di custodia cautelare nel nuovo art. 297, comma 3, c.p.p.: una disciplina di assai dubbia ragionevolezza, in Cass. pen., 1996, p. 2104. Viceversa, il medesimo Autore auspica una interpretazione correttiva della norma. Esclude la possibilità di accogliere una siffatta interpretazione, pur astrattamente prospettabile, R. NORMANDO, Le modificazioni dei termini di durata della custodia cautelare, in Ann. Ist. Salerno, 1995, p. 287, cit., p. 292. (49) In tal senso, G. GIOSTRA, Ancora interventi legislativi estemporanei e disorganici per il processo penale, in Gazz. giur., 1995, n. 2, p. 23; C. RIVIEZZO, Pluralità di ordinanze di custodia cautelare e pluralità di procedimenti nel nuovo art. 297, comma 3, c.p.p., in Cass. pen., 1996, p. 3383; G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, 3a ed., Torino, 2000, p. 283; A. SCELLA, La disciplina delle ‘‘contestazioni a catena’’ tra sospetti di incostituzionalità e discrezionalità del legislatore, in Dir. pen. proc., 1996, p. 843. (50) Sottolinea A. CRISTIANI, Misure cautelari e diritto di difesa, Torino, 1995, p. 62, che « la locuzione ‘‘fatti non desumibili dagli atti’’, oltre a prestarsi a valutazioni soggettive, appare tipicamente destinata a motivazioni di merito difficilmente censurabili in sede di legittimità ». Per un’interessante applicazione giurisprudenziale, si veda Cass., sez. II, 7 febbraio 1997, D’Agata, in Riv. pen., 1997, p. 770: « il fatto non desumibile dagli atti deve essere inteso anche come quello che, sebbene noto al giudice nella sua connotazione storica, non sia tuttavia, sostenuto da gravi indizi di colpevolezza sufficienti a legittimare l’adozione di un nuovo provvedimento restrittivo ». Ad avviso di V. GREVI, Il nuovo art. 297, comma 3,
— 1296 — questa ipotesi il legislatore ha stabilito una presunzione relativa (iuris tantum) che ammette la prova contraria (51). Probabilmente si è ritenuto che quella delle indagini preliminari sia la fase nella quale sono più probabili gli abusi da parte del pubblico ministero (52). Viceversa, una volta che il procedimento relativo al primo reato è stato stralciato ed ha intrapreso il separato binario che inizia con il rinvio a giudizio, il legislatore ha reputato meno probabile che il pubblico ministero aggiri la disciplina dei termini. Merita precisare, inoltre, che il rinvio a giudizio si limita ad attenuare la presunzione di contestazione a catena, ma lascia gravare l’onere della prova sul pubblico ministero; quest’ultimo è tenuto a dimostrare la non desumibilità dagli atti (53). È chiara la distanza della nuova versione dell’art. 297, comma 3, rispetto all’orientamento tradizionale della Cassazione (54). La giurisprudenza accertava in concreto l’atteggiamento del pubblico ministero; perc.p.p. di fronte alla Corte costituzionale: una sentenza deludente ed elusiva del giudizio di ragionevolezza, in Cass. pen., 1996, p. 2106, una disciplina del genere potrebbe sortire l’effetto perverso di indurre alcuni pubblici ministeri a « coltivare con particolare intensità determinati filoni di indagini collegate solo dopo che sia stato ottenuto il rinvio a giudizio per il fatto contestato con la prima ordinanza cautelare ». (51) Rileva la Corte di Cassazione che « lo scopo della norma è quello di evitare che la artificiosa separazione dei procedimenti con rinvii a giudizio opportunamente frazionati nel tempo, possa essere destinata ad una protrazione della durata delle misure, che viceversa non si avrebbe se, disposto il rinvio a giudizio per tutti i reati, il processo risultasse unico anche nelle fasi successive ». Così Cass., sez. V, 6 maggio 1999, in Cass. pen., 2000, p. 1010. Si veda Cass., sez. VI, 27 aprile 1999, n. 1499, in Arch. n. proc. pen., 1999, p. 518: « l’intervenuta declaratoria di nullità del decreto che ha disposto il giudizio non incide sulla sua idoneità a produrre comunque gli effetti di cui all’art. 297, comma 3, c.p.p., per cui deve in ogni caso farsi ad esso riferimento ai fini della verifica in ordine alla desumibilità o meno dagli atti, prima della sua emanazione, di fatti per i quali sia stata emessa ordinanza di custodia cautelare e che si assumano connessi con altri per i quali sia stata in precedenza emessa analoga ordinanza ». Sottolinea Trib. Palermo, 14 ottobre 1998, in Foro it., 1999, II, p. 355 che in caso di regresso, il limite temporale rilevante per la desumibilità dei fatti dagli atti è l’originario rinvio a giudizio. (52) Sottolinea M. BARGIS, sub art. 12, cit., che « in sostanza, si è tutelata la fase delle indagini preliminari non solo fino al momento della formulazione dell’imputazione da parte del pubblico ministero, ma anche successivamente, ad esempio con riguardo alle eventuali indagini suppletive esplicate dal pubblico ministero, ex art. 419, comma 3, c.p.p., dopo la richiesta di rinvio a giudizio per il fatto principale ». Si vedano anche le osservazioni di C. RIVIEZZO, Custodia cautelare e diritto di difesa. Commento alla l. 8 agosto 1995, n. 332, Milano, 1995, p. 107. (53) Si ponga mente all’ipotesi nella quale la desumibilità dagli atti del fatto connesso si manifesti immediatamente prima del rinvio a giudizio. In tale ipotesi il pubblico ministero potrebbe trovarsi a svolgere indagini quando ormai i termini relativi a tale fase sono scaduti. (54) Ad avviso di G. FRIGO, L’interpretazione fornita dalla Consulta rafforza le garanzie introdotte con la riforma, in Guida dir., 1996, p. 16, p. 72, la presunzione stabilita dalla disciplina in esame è da condividere, in quanto si discosta dalla giurisprudenza precedente in base alla quale la tempestività delle acquisizioni del pubblico ministero « [avrebbe
— 1297 — tanto non era necessario ricorrere all’indice presuntivo costituito dalla connessione dei reati e si poteva applicare la disciplina delle contestazioni a catena anche in ipotesi di fatti diversi (55). La rilettura della materia effettuata dal legislatore del 1995 appare non soddisfacente, perché consiste nella meccanica estensione della disciplina prevista per le contestazioni a catena, relative ad un unico fatto, alle ipotesi di successive contestazioni di fatti diversi. Mentre nel primo caso non occorre la prova della malafede del pubblico ministero, perché res ipsa loquitur, altrettanto non può dirsi in caso di pluralità di fatti. Il legame di connessione intercorrente tra i reati non consente di assimilare le due ipotesi, perché non è in grado di trasformare più fatti storici di reato in una unica fattispecie. 9. (Segue): le contestazioni a catena relative a fatti non connessi. — Dopo aver precisato la ratio e l’ambito applicativo della nuova disciplina, occorre domandarsi che cosa avvenga quando il pubblico ministero diluisca artificiosamente nel tempo la contestazione di fatti diversi. Una interpretazione massimalista potrebbe concludere che in quest’ultima ipotesi debba sempre applicarsi il principio di autonoma decorrenza dei titoli cautelari. Infatti, giacché l’art. 297, comma 3 reca circoscritte eccezioni a tale regola, occorre ritenere, a contrario, che le ipotesi non previste espressamente rientrino nel principio generale. Le norme eccezionali non possono essere applicate per analogia. A nostro avviso, tuttavia, una simile soluzione non è corretta. dovuto] avere come riferimento non già la conoscenza del dato utile, ma la sua conoscibilità in concreto: un elemento, quindi assolutamente incerto, quando non aleatorio ». (55) La giurisprudenza sosteneva che per stabilire in modo corretto la data di decorrenza dei termini relativi alla seconda misura, occorreva tenere conto di un fattore determinante costituito dal momento in cui il pubblico ministero ha appreso la notizia di reato ed ha conosciuto l’esistenza delle condizioni di applicabilità della custodia cautelare. Si veda Cass., sez. I, 25 febbraio 1992, Mazzuoccolo, in Giur. it., 1993, II, p. 49; Cass., sez. II, 1o dicembre 1993, Prete, in Riv. pen., 1995, p. 126; Cass., 23 luglio 1992, Pezzella, in CED 191938. In particolare, ad avviso della Cassazione, in presenza di elementi i quali consentissero di affermare in modo incontestabile che gli indizi originariamente a disposizione dell’autorità giudiziaria erano tali da consentire l’emissione di un unico provvedimento cautelare, i termini di custodia cautelare avrebbero dovuto essere unificati a partire dall’emissione della prima ordinanza. La commissione di abusi da parte del pubblico ministero avrebbe dovuto essere esclusa nel caso in cui quest’ultimo pur avendo acquisito la notitia criminis in relazione al reato connesso avesse avuto necessità di ricercare ulteriori indizi (Cass., sez. I, 6 dicembre 1986, La Rosa, in Cass. pen., 1988, p. 898; Cass., sez. VI, 7 febbraio 1990, Costantino, in Cass. pen., 1990, p. 1965; Cass., sez. VI, 10 dicembre 1985, Medici, in Cass. pen., 1987, p. 957); o avesse dovuto rimuovere ostacoli di natura giuridica, come l’assenza di una condizione di procedibilità (Cass., sez. I, 28 maggio 1986, Caserta, in Cass. pen., 1987, p. 1600). Cfr. G. CIANI, I provvedimenti applicativi delle misure cautelari personali, in Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, diretta da M. CHIAVARIO e E. MARZADURI, Libertà e cautele nel processo penale, Torino, 1996, p. 99.
— 1298 — Quando il pubblico ministero artificiosamente diluisce le contestazioni, egli ritarda quella che sarebbe stata la legittima e fisiologica decorrenza del termine. Pertanto, in tali ipotesi, ove in concreto vi sia la prova della malafede del pubblico ministero, continua ad essere legittima e doverosa la soluzione alla quale erano pervenute in precedenza dottrina e giurisprudenza: i termini di custodia in relazione al reato oggetto della seconda ordinanza decorrono dalla data in cui essa poteva e doveva essere emessa (56). Ove si ritenesse non applicabile tale soluzione, si riconoscerebbe al pubblico ministero una inammissibile disponibilità in relazione al dies a quo della decorrenza dei termini di custodia cautelare (57). Tra l’altro, ciò costituirebbe un indebito aggiramento della ratio sottesa al principio della autonoma decorrenza dei titoli cautelari. 10. La nuova disciplina dinanzi alla Corte costituzionale. — A seguito delle prime applicazioni dell’art. 297, comma 3, così come modificato dalla l. n. 332 del 1995, la giurisprudenza non aveva tardato a mettere in rilievo i difetti della disciplina. In particolare il Tribunale di Milano, con un’articolata ordinanza, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale della disposizione (58). Merita, a nostro avviso, soffermarsi sia sulle linee argomentative tratteggiate dal Tribunale, sia sulla soluzione prospettata dalla Corte costituzionale. Il giudice di merito prendeva le mosse dalla affermazione di un « principio indiscutibile »: ogni reato può dare luogo ad un trattamento cautelare e quest’ultimo ha una durata connessa alla gravità del reato (56) In dottrina si è rilevato che i risultati precedentemente raggiunti dalla giurisprudenza (che estendeva la disciplina delle contestazioni a catena anche alle ipotesi nelle quali il pubblico ministero avesse deliberatamente ritardato la contestazione di fatti non connessi con quello oggetto della prima ordinanza) dovrebbero restare applicabili alle ipotesi non disciplinate dall’art. 297, comma 3. In tal senso L. AMBROSOLI, L’estinzione, cit., p. 63. Sottolinea correttamente M. MARGARITELLI, Quali meccanismi per calcolare i termini di durata della custodia cautelare nelle ipotesi di contestazione a catena?, in Dir. pen. proc., 1996, p. 1513, che l’unificazione del dies a quo del termine di custodia è possibile e doverosa, anche nelle ipotesi in cui non sussista connessione qualificata, se e quando « sia comunque accertato che fin dal momento della richiesta iniziale risultava un quadro indiziario tale da legittimare il provvedimento coercitivo anche per il fatto reato diverso ». (57) In giurisprudenza, si veda Cass., sez. VI, 29 aprile 1996, in Arch. n. proc. pen., 1996, p. 740. Contra, Cass., sez. I, 12 luglio 1999, n. 4894, Stanganelli, in CED 214091, secondo cui, fuori dalle ipotesi di connessione qualificata deve applicarsi il principio di autonoma decorrenza dei termini di custodia cautelare. Nello stesso senso si è espressa Cass., sez. I, 25 ottobre 1996, in Giust. pen., 1997, III, p. 635. (58) Trib. Milano, 13 settembre 1995, Sarlo e altri, in Cass. pen., 1995, p. 3095, con nota adesiva V. GREVI, Pluralità di ordinanze cautelari per ‘‘fatti diversi’’ e computo dei termini di custodia cautelare nel nuovo art. 297, comma 3, c.p.p.: una disciplina di assai dubbia ragionevolezza; e in Dir. pen. proc., 1996, p. 109, nota di G. SPANGHER. La questione è stata dichiarata infondata da C. cost., sent. 28 marzo 1996, n. 89, in Dir. pen. proc., 1996, 835 e in Cass. pen., 1996, 2094.
— 1299 — stesso ed alla qualità effettiva e concreta delle necessità cautelari. Tuttavia, è possibile che la legge ragionevolmente deroghi a tale principio. Ciò avviene quando si ravvisi un’ipotesi di contestazione a catena, e cioè ogni qualvolta si verifica uno « iato tra possibilità ed effettività della nuova contestazione ». In tal caso, la legge deve effettuare una comparazione di interessi e collegare al comportamento abusivo del pubblico ministero « la ‘‘sanzione’’ d’una decorrenza precoce del termine per la custodia ». Alla luce di tale ricostruzione emerge la irragionevolezza dell’art. 297, comma 3. La disposizione ricollega l’effetto punitivo, che consiste nella decorrenza precoce dei termini, « unicamente al rapporto di connessione qualificata tra i reati, senza alcun riguardo all’epoca di acquisizione delle distinte notitiae criminis »; quindi, nell’assenza totale di quei fattori d’allarme che costituiscono indice della malafede del pubblico ministero (59). Complessivamente considerata, la norma provocava, ad avviso del Giudice di merito, una triplice disparità di trattamento: anzitutto, prevedeva la stessa disciplina in relazione alle ipotesi patologiche di contestazione a catena ed a quelle, fisiologiche, nelle quali le contestazioni fossero state effettuate in modo corretto ma in relazione a reati emersi tardivamente; in secondo luogo, stabiliva irragionevolmente una disciplina differenziata allorché fosse stato disposto il rinvio a giudizio. Viceversa — si affermava — sarebbe stato ragionevole prevedere la retrodatazione dei termini di custodia cautelare soltanto in presenza della prova che il pubblico ministero conosceva fin dall’inizio il reato oggetto della seconda ordinanza. In tale ipotesi, infatti, l’inquirente aveva la possibilità di svolgere indagini fin dall’acquisita conoscenza della notitia criminis; pertanto non vi era il rischio che il termine relativo al reato, oggetto della seconda ordinanza, risultasse già decorso prima che la relativa indagine fosse iniziata. Ad avviso del Tribunale, nella sua applicabilità generalizzata anche alle ipotesi nelle quali il pubblico ministero avesse agito correttamente, la norma rompeva completamente la relazione tra gravità del fatto e durata del trattamento cautelare, con il rischio di un « completo abbandono di necessità cautelari attualissime »; il tutto a prescindere da un bilanciamento tra libertà individuale e difesa della società. Ove il pubblico mini(59) Constatata la totale irrilevanza legislativa della prova relativa alla artificiosa diluizione delle contestazioni, il Tribunale si è interrogato circa la ratio dell’art. 297, comma 3, nella parte in cui disciplina le successive contestazioni di reati connessi. Tale norma, così come formulata appariva andare oltre la disciplina delle contestazioni a catena. Tuttavia essa, da un lato, era inserita nel contesto normativo relativo a quest’ultimo istituto; da un altro lato, racchiudeva una « ‘‘spia’’ rappresentata dalla seconda parte della norma, che annette[va] rilevanza, in casi limitati [e cioè successivamente al rinvio a giudizio] alla tardività della cognizione ». Pertanto, risultava chiaro che la disciplina, per quanto mal congegnata, era finalizzata a reprimere la predetta prassi. Sul punto, si veda A. MOSCARINI, Un buon uso della tecnica di ragionevolezza in tema di applicazione delle misure cautelari, in Giur. cost., 1995, p. 841.
— 1300 — stero avesse acquisito tardivamente la notizia del reato connesso a quello oggetto della prima ordinanza, la retrodatazione dei termini di custodia poteva comportare la scadenza dei termini ad esso relativi quando le indagini erano appena all’inizio e senza che il pubblico ministero avesse commesso alcun abuso (60). Conclusivamente il Tribunale ha confermato che l’art. 297, comma 3 stabilisce una presunzione legale, in base alla quale la sola presenza di connessione tra reati fa ritenere sussistente un’ipotesi di contestazione a catena. Tuttavia, se è comprensibile una inversione dell’onere della prova in ragione della oggettiva difficoltà che la difesa incontra, è irragionevole la previsione di una presunzione assoluta, che non consente di vagliare in concreto la situazione processuale. Tra l’altro, la fattispecie all’esame del Giudice di merito costituiva un’ipotesi emblematica nella quale l’applicazione dell’art. 297, comma 3 determinava una ingiustizia sostanziale. Infatti, in relazione ad una serie di gravi reati di mafia, il giudice per le indagini preliminari aveva accertato che « la progressività delle contestazioni era pienamente giustificata dalla progressività in concreto dell’acquisizione delle fonti di prova » (61). Tuttavia, applicando l’art. 297, comma 3 per tutti i nuovi reati, doveva concludersi per la inefficacia sopravvenuta della misura cautelare in corso di esecuzione. In conclusione, il Tribunale di Milano aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 297, comma 3 nella parte in cui prevedeva la retrodatazione del termine massimo della custodia cautelare (per tutti i reati in rapporto di connessione qualificata) a far tempo dalla data di più remota contestazione, anche nei casi in cui la notizia dei fatti di successiva contestazione non risultasse dagli atti all’epoca del primo provvedimento. In subordine, il Tribunale chiedeva la declaratoria della incostituzionalità della norma nella parte in cui escludeva la rilevanza della ve(60) « Il tempo a disposizione per le indagini sul fatto più grave sarà ridotto in misura corrispondente a tutta la custodia disposta per il reato precedentemente contestato, ed in ipotesi ridotta a pochi giorni. Nei casi di ordinanze ‘‘a catena’’ il fenomeno è giustificato, certo per la necessità di garantire dall’arbitrio il cittadino, ma, prima ancora, per il carattere non accidentale della riduzione del termine per il reato più grave (che, per definizione, avrebbe potuto essere prima indagato) ». Nel caso, invece, di perfetta « normalità della dilazione... la conseguenza appare davvero abnorme: per il sol fatto d’essere stato precocemente catturato riguardo al furto della vettura, che poi si scopra essere stata da lui utilizzata per un omicidio, il fortunato destinatario della contestazione patrimoniale sarà irragionevolmente favorito, quale autore dell’omicidio (e non, si badi, quale ladro), rispetto a chi, nel caso analogo, veda accertate contemporaneamente l’una e l’altra responsabilità ». In ipotesi del genere, il soggetto potrebbe anche non essere sottoposto a misura cautelare. Così G. CIANI, I provvedimenti, cit., p. 109. (61) In particolare, si trattava di dichiarazioni accusatorie rese in tempi successivi da un imputato connesso.
— 1301 — rifica positiva di tempestività delle nuove contestazioni cautelari anche anteriormente al rinvio a giudizio per i fatti di più remota contestazione. Con la sentenza 28 marzo 1996, n. 89, la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione. È opportuno tracciare una ricostruzione della trama del giudizio. Prima di scendere nel merito, il Giudice delle leggi ha posto due premesse. Anzitutto, ha affermato che la l. n. 332 del 1995 si è « effettivamente spint[a] ben oltre i risultati cui era pervenuta la giurisprudenza di legittimità che aveva preso in esame il patologico fenomeno delle cosiddette contestazioni a catena ». Le scelte del legislatore « possono offrire spazio alle perplessità ed ai dubbi di coerenza » prospettati dal giudice a quo. Si tratta di riserve che concernono sia la congruità del meccanismo di retrodatazione agli effetti della salvaguardia delle esigenze cautelari relative alle misure di successiva contestazione; sia il diverso regime stabilito in relazione all’avvenuto rinvio a giudizio. La seconda premessa, che poi di fatto assume le sembianze di una lunga digressione (obiter dictum), concerne i parametri del giudizio di ragionevolezza che la Corte è chiamata ad effettuare ai sensi dell’art. 3 Cost. In sintesi la Corte, con un forte self restraint, sostiene che non le spetta una valutazione di opportunità della disciplina, giacché la selezione ed il bilanciamento dei valori, che vi sono sottesi, sono rimessi al legislatore (art. 28 l. n. 81 del 1953). Viceversa, al Giudice delle leggi compete la valutazione circa l’esistenza di una « correlazione tra precetto e scopo che consente di rinvenire, nella ‘‘causa’’ o ‘‘ragione’’ della disciplina l’espressione di una libera scelta che soltanto il legislatore è abilitato a compiere ». A ben vedere, la distinzione tra legittimità e opportunità è piuttosto artificiosa: la Corte si arrocca su di essa in tutte quelle ipotesi nelle quali sceglie di mantenere in vita una disciplina che appare obiettivamente contraddittoria (62). Nel merito, il Giudice delle leggi ha ritenuto che il fine della norma sottoposta al suo vaglio consisteva nel « comprimere entro spazi sicuri il termine di durata massima delle misure cautelari » in attuazione dell’art. 13, comma 5 Cost. Alla luce di tale finalità, non può ritenersi irrazionale « la scelta di individuare alcune ipotesi che, più di altre, presentano elementi di correlazione contenutistica di spessore tale da consentirne una valutazione unitaria agli effetti del trattamento cautelare » (63). In altre (62) Rileva V. GREVI, Il nuovo, cit., p. 2099, che « questa dissertazione suscita l’impressione di una sorta di ‘‘cortina fumogena’’ volta a scolorire, e quasi ad allontanare dall’attenzione dell’interprete, il vero tema in concreto sottoposto al vaglio di legittimità costituzionale ». (63) Sottolinea correttamente A. SCELLA, La disciplina, cit., p. 842 che « pure ad ammettere... che la norma di cui si eccepisce l’incostituzionalità risulti perfettamente aderente
— 1302 — parole, il Giudice delle leggi ha reputato sufficiente l’indice presuntivo costituito dalla connessione qualificata. Successivamente, la Corte ha affermato che anche il discrimine costituito dal disposto rinvio a giudizio in relazione al reato oggetto della prima ordinanza appare ragionevole per due motivi: in primo luogo, perché corrisponde alla scansione dettata dall’art. 303 c.p.p. nella previsione dei termini di custodia cautelare; in secondo luogo, perché la disciplina risponde all’intenzione del legislatore di riservare solo alla fase delle indagini l’operare di una norma (art. 297, comma 3) che evita di imporre all’imputato la prova della malafede del pubblico ministero. Infatti, è proprio la fase delle indagini che « mal si presta a controlli successivi sul sempre opinabile terreno della tempestività delle relative acquisizioni ». A nostro avviso, l’argomentazione della Corte sarebbe stata pienamente condivisibile se l’art. 297, comma 3 si fosse limitato a prevedere una presunzione relativa (inversione dell’onere della prova) in relazione alla fase delle indagini ed una ripartizione regolare del predetto onere successivamente al rinvio a giudizio (64). Viceversa il rilievo, in base al quale la connessione costituisce un ragionevole indice in grado di giustificare la presunzione assoluta stabilita dal legislatore, appare del tutto indimostrato. Tanto è vero che la Corte, nel sottolineare che i reati connessi « presentano elementi di correlazione contenutistica di spessore tale da consentire una valutazione unitaria agli effetti del trattamento cautelare », finisce per adombrare una improbabile ratio di tipo sostanziale. Si tratta della possibilità di ravvisare nell’art. 297, comma 3 c.p.p., piuttosto che una ipotesi di responsabilità oggettiva del pubblico ministero, un regime di cumulo giuridico dei termini di custodia cautelare (65). 11. Il bilanciamento degli interessi coinvolti. — È opportuno soffermarsi su di una questione di fondamentale importanza, spesso trascurata nel corso delle analisi relative alla disciplina in oggetto. Si tratta dell’indial proposito avuto di mira dal legislatore nel regolamentare la materia, resta sempre lo spazio per dimostrare che la suddetta norma vulnera l’art. 3 Cost., riservando un trattamento irragionevolmente diverso a situazioni eguali o un trattamento irragionevolmente eguale a situazioni diverse ». (64) Ad avviso di P.P. RIVELLO, ‘‘Graziata’’, cit., p. 835, la Corte costituzionale avrebbe dovuto trasformare la presunzione assoluta stabilita dall’art. 297, comma 3 in una presunzione relativa. (65) Merita ricordare che la Corte è stata nuovamente chiamata a valutare la legittimità costituzionale della norma in commento. Tuttavia, ha dichiarato la questione manifestamente infondata, perché identica a quella già affrontata con la sentenza in commento. C. cost., ord. 5 febbraio 1999, n. 20, in Giur. cost., 1999, p. 160; C. cost., 18 ottobre 1996, n. 349, in Giur. cost., 1996, p. 3039.
— 1303 — viduazione e del bilanciamento degli interessi coinvolti nella materia in esame. Di solito si afferma che, in caso di contestazioni a catena, la retrodatazione dei termini di custodia cautelare costituisce una ‘‘sanzione’’ nei confronti del pubblico ministero che viene ‘‘punito’’ per aver cercato di cercato di aggirare la legge. Tra l’interesse dello Stato (inteso come macchina giudiziaria) a prolungare la custodia, e il diritto dell’individuo alla libertà personale, l’ordinamento accorda prevalenza a quest’ultimo. La ratio di una simile soluzione è incentrata sulla condotta abusiva del pubblico ministero che degrada l’interesse dello Stato e rende prevalente la tutela della libertà. A nostro avviso, questa ricostruzione polarizzata sul rapporto tra individuo e autorità rischia di trascurare un terzo fattore, di enorme rilievo: la difesa della società. Si ponga mente all’ipotesi nella quale il pubblico ministero, pur conoscendo i fatti A e B, chieda la custodia esclusivamente per il fatto A e, soltanto poco prima del rinvio a giudizio in relazione a quest’ultimo, presenti la richiesta relativa al fatto B. In tale ipotesi la giurisprudenza impone la retrodatazione dei termini relativi al fatto B; potrebbe accadere che essi risultino vicini a scadere o già decorsi al momento della emissione della ordinanza cautelare. Un simile meccanismo è perfettamente consentaneo al bilanciamento di interessi incentrato sul rapporto tra cittadino ed autorità; viceversa lascia perplessi ove si chiamino in causa le esigenze di difesa della società. Viene infatti da chiedersi perché l’abuso posto in essere dal pubblico ministero valga a giustificare il sacrificio della difesa sociale, che potrebbe conseguire alla scarcerazione di pericolosi criminali. In tal modo, il pubblico ministero con la sua condotta verrebbe a disporre arbitrariamente dell’interesse generale. Ebbene, per rispondere al quesito occorre tenere conto della situazione processuale che si verifica nelle ipotesi in esame. Invero, la tesi che impone la retrodatazione del termine di custodia ritiene altamente probabile che il pubblico ministero abbia effettivamente svolto indagini in relazione al reato per il quale ha artificiosamente differito la richiesta cautelare. Di conseguenza, il risultato che consegue alla retrodatazione in caso di consumazione quasi totale del termine per le indagini dovrebbe corrispondere all’effettivo avanzamento delle indagini stesse; esse dovrebbero essere prossime alla conclusione. Tali rilievi inducono ad affermare che la disciplina delle contestazioni a catena dovrebbe avere non tanto la finalità di punire un abuso, quanto quella di sterilizzarne le conseguenze e di ripristinare quello che sarebbe stato l’assetto processuale fisiologico se il pubblico ministero avesse tenuto una condotta corretta. Vi sono peraltro molte ipotesi nelle quali tale finalità non sembra tro-
— 1304 — vare attuazione. Spesso il decorso anticipato dei termini non copre le effettive esigenze di indagine e ciò può comportare la scarcerazione dell’imputato, penalizzando la difesa sociale. A ben vedere, tuttavia, si tratta di ipotesi nelle quali i termini sarebbero risultati inadeguati anche se il pubblico ministero non avesse posto in essere alcun abuso. L’ordinamento non deve omettere di sanzionare il pubblico ministero in nome della tutela della società; in tal modo darebbe un avallo implicito all’aggiramento della legge. Viceversa, a nostro avviso, occorre garantire la difesa sociale con interventi che abbiano ad oggetto il sistema dei termini. È necessario valorizzare istituti (come la sospensione e la proroga) che siano idonei a prolungare i termini di custodia quando essi si rivelino inadeguati a far fronte alle esigenze del caso concreto. In tal modo sarebbe possibile prevenire comportamenti scorretti da parte del pubblico ministero e, al tempo stesso, tutelare la società senza ledere il rispetto della libertà personale. 12. Le contestazioni relative a fatti connessi, che siano oggetto di separati procedimenti. — L’art. 297, comma 3 non precisa se la disciplina ivi prevista trovi applicazione soltanto all’interno di un unico procedimento oppure anche in caso di una pluralità di procedimenti separati relativi al medesimo fatto o a fatti connessi. Sul punto, la giurisprudenza si era divisa in due contrapposti orientamenti. Un primo indirizzo, che aderiva al filone formatosi antecedentemente alla riforma del 1995, sosteneva che la disciplina in oggetto trovava applicazione esclusivamente all’interno di un unico procedimento (66). Ciò sul rilievo che la ratio del divieto di contestazioni a catena era costituita dalla volontà di punire gli abusi posti in essere dal pubblico ministero: perché potesse esservi rim(66) In dottrina, si veda V. GREVI, Pluralità, cit., p. 3108, il quale ritiene che la norma si applichi soltanto nell’ipotesi di pluralità di ordinanze di custodia adottate all’interno dello stesso procedimento, ma afferma che una disciplina del genere appare una anomalia, perché fa dipendere la repressione delle contestazioni a catena dalla « casualità della pendenza di... distinti procedimenti connessi presso differenti sedi giudiziarie, o addirittura all’interno dello stesso ufficio ». In termini analoghi si esprime P.P. RIVELLO, ‘‘Graziata’’, cit., p. 834, nota 35 ad avviso del quale « è dovuta a fattori del tutto occasionali e contingenti la celebrazione di un unico procedimento cumulativo o di una pluralità di procedimenti separati a carico dello stesso individuo, presso varie sedi giudiziarie o innanzi a diversi magistrati dello stesso ufficio ». Secondo F. PULEIO, Pluralità di ordinanze di custodia cautelare e computo dei termini di durata delle misure, in Giust. pen., 1997, III, p. 402, « la circostanza che gli elementi in contestazione siano emersi nell’ambito di un diverso procedimento vale, di regola, ad escludere il sospetto di speculazioni ». Anche la giurisprudenza sviluppatasi sotto il codice del 1930 era orientata ad escludere l’applicabilità della disciplina delle contestazioni a catena in ipotesi di pluralità di procedimenti. Cfr. Cass., sez. I, 13 dicembre 1988, Sorrentino, in Cass. pen., 1990, I, p. 104; Cass., sez. I, 24 giugno 1985, Scricciolo, in Cass. pen., 1986, p. 1804; Cass., sez. I, 2 febbraio 1989, Imparato, in Giust. pen., 1989, III, p. 394.
— 1305 — proverabilità, occorreva che l’autorità giudiziaria fosse a conoscenza degli atti del procedimento. E tale conoscenza poteva aversi soltanto se il procedimento era unitario. Il filone giurisprudenziale in esame argomentava anche sulla base del secondo periodo dell’art. 297, comma 3, che stabilisce la presunzione relativa di contestazione a catena successivamente al rinvio a giudizio. Si sosteneva che la norma era diretta ad evitare la separazione di procedimenti riuniti, con rinvii a giudizio artificiosamente frazionati nel tempo per eludere il divieto di contestazioni a catena (67). L’indirizzo contrapposto riteneva che l’art. 297, comma 3 trovasse applicazione anche in caso di procedimenti separati. Si sosteneva che, a seguito della riforma del 1995, la disciplina della custodia cautelare prescindeva dal comportamento del pubblico ministero. Si era passati infatti da un’impostazione soggettivistica, incentrata sulla condotta dell’autorità, ad un’impostazione oggettiva, che dava rilevanza al legame di connessione tra fatti. Ciò comportava che, se il pubblico ministero avesse potuto eludere la disciplina legislativa frazionando i procedimenti, la ratio della modifica legislativa sarebbe stata frustrata. Pertanto l’art. 297, comma 3 risultava destinato ad operare anche in ipotesi di più indagini collegate svolte da uffici differenti (art. 371, comma 2, lett. b) (68). (67) Cass., sez. V, 30 settembre 1996, Cuzzola, in Arch. n. proc. pen., 1997, 61; Cass., sez. I, 21 dicembre 1996, Ferraro, in Giust. pen., 1997, III, 240. (68) Cass., sez. VI, 13 marzo 1997, Comandè, in Arch. n. proc. pen., 1997, 161; Cass., sez. V, 28 gennaio 1997, Foria, in Cass. pen., 1998, 1421; Cass., sez. V, 2 maggio 1997, Patamia, in Arch. n. proc. pen., 1997, 318; Cass., sez. V, 26 aprile 1996, Cuneo, in Cass. pen., 1997, 1814; Cass., sez. fer., 23 settembre 1996, Micheletti, in Dir. pen. proc., 1996, p. 1207. In dottrina ed in giurisprudenza, per stabilire se la norma sia applicabile nei casi di pluralità di procedimenti si è fatto leva, in sensi contrapposti, sulla clausola relativa alla desumibilità dagli atti prima del rinvio a giudizio. Da un lato, si è affermato che la pluralità di procedimenti non è contraddetta, ma anzi è presupposta, dalla disposizione in esame (Cass., sez. VI, 26 aprile, 1996, Cuneo). Ad avviso di M. MARGARITELLI, Quali meccanismi, cit., p. 1513, la disposizione « basta a ricomprendere tanto le ipotesi in cui il rinvio a giudizio riguardi anche il fatto ‘‘nuovo’’ e connesso, quanto il caso in cui nel corso di indagini cumulative, venga separatamente richiesto, da parte del pubblico ministero, il rinvio a giudizio per l’imputazione oggetto della meno recente ordinanza cautelare (continuando ad indagare per il fatto connesso); nonché le ipotesi in cui, per effetto di autonome iscrizioni della notizia criminis, i distinti fatti-reato connessi siano oggetto di procedimenti autonomi (pendenti dinanzi allo stesso giudice o ad altro giudice; collegati o meno ex art. 371 c.p.p.) ». L’Autrice sostiene che i pubblici ministeri che procedono ad indagini collegate debbano valorizzare l’istituto del coordinamento delle indagini. In senso contrario, si è affermato che laddove la norma parla di desumibilità ‘‘dagli atti’’ non può che fare riferimento agli atti di un unico procedimento, se del caso derivante dalla riunione di procedimenti relativi a diversi reati commessi da un unico imputato. In tal senso M. BARGIS, sub art. 12, cit., p. 688; A. SCELLA, Commento all’art. 12, cit., pp. 169170; ID., Osservazioni minime sul computo dei termini di custodia cautelare ex art. 297, comma 3, c.p.p. nell’ipotesi di più ordinanze per « fatti connessi », in Cass. pen., 1996, p. 1627; A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, 7a ed., Milano, 2000, p. 603: « la
— 1306 — Il contrasto è stato risolto dalle Sezioni unite, che hanno fatto propria la tesi in base alla quale l’art. 297, comma 3 opera anche se i procedimenti sono separati (69). Tale soluzione, di fatto, estende fino alla sua portata massima l’area applicativa di una norma che è costruita come un criterio di computo automatico. Tuttavia, il Supremo collegio giunge alla conclusione appena prospettata mediante una ricostruzione peculiare dell’istituto. Il ragionamento delle Sezioni unite può essere così sintetizzato: la disciplina delle contestazioni a catena relative a fatti connessi (art. 297, comma 3) opera in modo oggettivo; essa non richiede la prova della malafede del pubblico ministero; si limita ad esigere che il fatto connesso fosse oggettivamente desumibile dagli atti in data anteriore alla prima ordinanza. Poiché non rileva l’effettiva conoscenza, ma la potenziale conoscibilità, non occorre l’identità dell’autorità inquirente; pertanto non è necessaria neppure l’unicità del procedimento. È chiaro che la Cassazione effettua una interpretazione che si discosta dalla lettera della disposizione in oggetto. Nelle parole del Supremo collegio non vi è alcun accenno alle differenti presunzioni stabilite dall’art. 297, comma 3 (assoluta, prima del rinvio a giudizio; relativa, nel periodo successivo). La Corte interpreta la disposizione come se essa stabilisse in entrambe le ipotesi una presunzione relativa, con possibilità per il pubblico ministero di provare che il fatto oggetto della seconda ordinanza non era desumibile dagli atti. Anzi, le Sezioni unite sottolineano che ai fini di tale dimostrazione sarà utile il contributo della difesa (70). In sostanza, il Giudice di legittimità ha effettuato una interpretazione norma, dettata per prevenire gli effetti di strumentali scissioni di un procedimento originariamente unico, non è applicabile ai casi in cui per i reati connessi pendano procedimenti già distinti ab origine ». In giurisprudenza, Cass., sez. I, 30 maggio 1996, Manuele in Foro it., 1997, II, 91; Trib. min. Bologna, 25 gennaio 1996, Battaglino, in Cass. pen., 1996, p. 1626. Secondo Cass., sez. I, 12 novembre 1996, Rotolo, in Giust. pen., 1997, p. 396, con nota adesiva di F. PULEIO, Pluralità, cit.: « il disposto dell’art. 297 c.p.p. secondo cui la fattispecie della contestazione a catena non si realizza quando non si tratta di fatti desumibili dagli atti antecedenti al rinvio a giudizio, fa chiaramente riferimento a fatti che siano emersi nell’ambito di un unico procedimento penale. Ma l’unicità cui fa riferimento la detta norma riguarda il procedimento nella fase delle indagini preliminari e non il processo penale che ha inizio in seguito al decreto che dispone il giudizio. Anzi la norma tende proprio a sanzionare il fatto che da un unico procedimento in indagini preliminari si dia luogo a più ordinanze cautelari ed a più decreti che dispongono il giudizio relativamente a fatti che erano emersi dagli atti già al momento in cui sia stato disposto il primo rinvio a giudizio »; nello stesso senso Cass., sez. I, 3 maggio 1996, Manuele, in Cass. pen., 1996, p. 3379. (69) Cass., sez. un., 25 giugno 1997, Atene, in Cass. pen., 1997, p. 3000, nota redazionale M. VESSICHELLI, e in Giur. it., 1998, III, p. 122, nota redazionale A. RICCI. (70) In tal senso, in dottrina, si erano espressi L. D’AMBROSIO e G. FIDELBO, Incidenza, cit., pp. 150-152. Gli Autori sottolineavano che la desumibilità dei fatti connessi dagli atti fosse un requisito implicito anche nella prima parte dell’art. 297, comma 3. In presenza della predetta desumibilità, la disciplina prevista dalla norma si sarebbe applicata anche in caso di provvedimenti diversi attribuiti a differenti autorità giudiziarie.
— 1307 — correttiva, senza affermarlo apertamente. La soluzione ermeneutica prospettata, ad avviso della Corte, appare l’unica esegesi che consente di salvare la norma. La posizione della Cassazione si desume da una affermazione incidentale, che suona come una condanna: se non fosse necessaria la prova della desumibilità dagli atti, l’art. 297, comma 3 opererebbe « con un paradossale e irragionevole automatismo ». In sintesi, sia pure mediante passaggi logici in parte impliciti, la Corte afferma che è possibile estendere a diversi procedimenti l’operatività del divieto di contestazioni a catena soltanto se si richiede in concreto la prova della artificiosa diluizione operata dal pubblico ministero. La malafede (o la negligenza) dell’autorità inquirente costituirà l’elemento unificante e sarà, anzi, necessario applicare la retrodatazione dei termini di custodia per evitare abusi consistenti in artificiose separazioni (71). Se in ipotesi siffatte si ritenesse inoperante la disciplina repressiva delle contestazioni a catena, l’imputato risulterebbe sprovvisto di tutela proprio in quelle situazioni nelle quali è più facile un esercizio scorretto del potere discrezionale da parte del pubblico ministero. Del resto, la separazione è un istituto che non ha natura sostanziale, bensì processuale. Essa dipende, in situazioni fisiologiche, da vicende burocratiche o casuali; in situazioni patologiche, può anche conseguire a manovre poco limpide dell’autorità procedente. Pertanto, se si ritenesse che la tutela contro le contestazioni a catena opera soltanto nell’ambito del medesimo procedimento, si creerebbero irragionevoli disparità di trattamento tra imputati in ragione di un dato estrinseco come la separazione o la riunione dei procedimenti a loro carico. Per giungere alla soluzione che consente l’applicabilità della disciplina delle contestazioni a catena ai procedimenti separati, il Supremo collegio ha ravvisato nell’art. 297, comma 3 un requisito praeter legem (di fatto inesistente) costituito dalla prova in concreto della condotta del pubblico ministero. Viceversa, come sappiamo, la disposizione in esame, per la fase anteriore al rinvio a giudizio, stabilisce una presunzione assoluta, che non ammette prova contraria. In un simile contesto, la pronuncia delle Sezioni unite, pur apprezzabile da un punto di vista teorico, rischia di sortire effetti opposti all’intento perseguito. La sentenza creerà un precedente soltanto per la parte in (71) In tal senso si veda C. RIVIEZZO, Pluralità, cit., p. 3384: « se il presupposto perché la nuova disciplina non si applichi al caso di procedimenti plurimi è costituito dal fatto che in questo caso, normalmente, non si può ravvisare un atteggiamento colposo o doloso dei magistrati, appare del tutto coerente affermare che, se invece questo intento viene provato, la nuova disciplina trova applicazione... Non pare equo ritenere che, a causa della colpevole inerzia del pubblico ministero nel rilevare l’esistenza della causa di connessione, l’indagato debba subire effetti negativi, con una protrazione ingiustificata della custodia cautelare. In tal modo si fronteggerebbe adeguatamente l’esigenza di evitare che... eventuali ‘‘accordi scellerati’’ tra uffici diversi, ...possano raggiungere l’obiettivo che si erano prefissati ».
— 1308 — cui consente di applicare l’art. 297, comma 3 anche ai procedimenti diversi. Viceversa, la rilettura correttiva della disposizione, in base alla quale occorre sempre la prova della desumibilità, resterà un mero passaggio logico, implicito nella motivazione della sentenza (72). In tal modo, la Cassazione ha involontariamente avallato una applicazione estensiva dell’art. 297, comma 3 anche ai procedimenti separati, e ciò non potrà che aggravare gli effetti deleteri della disposizione (73). Per contro, fino a che l’art. 297, comma 3 resterà strutturato come un criterio automatico di computo, appare non opportuno estenderne l’applicazione anche a diversi procedimenti; pena la dilatazione eccessiva di una norma che già sacrifica irragionevolmente l’esigenza di difesa sociale. 13. Altre questioni inerenti all’ambito applicativo. — Prima di concludere l’esame dell’ambito applicativo della disciplina relativa alle contestazioni a catena, è necessario accennare a due ulteriori questioni che sono state affrontate dalla giurisprudenza. In primo luogo, ci si è chiesti se quella unificazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, che era stata disposta ai sensi dell’art. 297, comma 3 nella fase delle indagini preliminari, restasse operativa per tutta la durata del procedimento. Il secondo problema affrontato dalla giurisprudenza concerneva la possibilità che la sussistenza di una ipotesi di contestazione a catena fosse rilevata per la prima volta nella fase del giudizio. La prima questione prospettata è stata risolta positivamente dalla Corte costituzionale con la sentenza 30 dicembre 1997, n. 453 (74). Il Giudice delle leggi ha affermato che l’unificazione disposta nel corso delle (72) Si veda, tuttavia, Cass., sez. VI, 11 marzo 1999, in Arch. n. proc. pen.1999, p. 388; Cass., sez. VI, 29 gennaio 1999, ivi, p. 384; Cass., sez. VI, 29 aprile 1996, in Cass. pen., 1998, p. 188, secondo cui « il requisito della desumibilità dagli atti dei fatti posti a base delle ordinanze cautelari successive alla prima deve intendersi riferito anche alle ipotesi contemplate nel primo periodo di detto comma, nel senso che la retrodatazione della decorrenza nei termini di custodia cautelare alla data di esecuzione o modifica della prima ordinanza richiede in ogni caso che fossero già stati acquisiti, prima dell’emissione di tale ordinanza, gli elementi che avrebbero legittimato l’emissione delle ordinanze successive ». (73) Infatti, tale soluzione è stata recepita dalla giurisprudenza successiva. Si veda Cass., sez. fer., 9 settembre 1997, Piscopo, cit., p. 768; Cass., sez. VI, 25 novembre 1997, Cardone, in Giur. it., 1998, III, p. 1209, con nota G. INZERILLO, Disorientamenti interpretativi in tema di provvedimenti cautelari a catena: « la disciplina dettata dall’art. 297, comma 3, ultima parte... sempreché i fatti posti a fondamento delle ulteriori ordinanze fossero conosciuti o conoscibili dal pubblico ministero anteriormente al rinvio a giudizio, si applica anche quando le distinte ordinanze siano emesse da giudici diversi ». (74) In Cass. pen., 1998, p. 1321. La Corte costituzionale ha stabilito che « non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 297, comma 3, c.p.p., sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede una unificazione del termine di custodia cautelare per la fase del dibattimento, in presenza di più ordinanze cautelari ed anche se il termine iniziale di fase è unico, aggravando così senza ragione la posizione processuale
— 1309 — indagini preliminari resta operativa in relazione a tutte le fasi del procedimento; di conseguenza, anche successivamente al rinvio a giudizio, i termini resteranno commisurati al reato più grave. A sostegno della propria tesi, la Corte ha rilevato che l’art. 297, comma 3 è « norma di carattere generale dedicata proprio, come recita la relativa rubrica, al ‘‘computo dei termini di durata delle misure’’ ». Pertanto non c’è ragione di ritenere che successivamente al rinvio a giudizio i termini di custodia cautelare tornino ad essere parametrati sulla pena prevista in relazione ai singoli reati. Naturalmente, tale soluzione non opera quando l’imputato viene prosciolto in relazione al reato più grave. Il proscioglimento, infatti, rompe qualunque legame tra i reati connessi: i termini di custodia cautelare torneranno ad essere commisurati alla pena prevista per il reato in ordine al quale si procede. Il principio affermato dalla Corte costituzionale risulta utile anche per risolvere l’ulteriore problema, che abbiamo anticipato. Occorre chiedersi se la disciplina delle contestazioni a catena sia applicabile anche nelle fasi successive alle indagini preliminari. Poiché l’art. 297, comma 3 stabilisce un criterio di computo di portata generale, non vi è ragione di circoscriverne l’applicazione alla sola fase delle indagini. Pertanto, ove nel corso del giudizio di primo grado siano emesse più ordinanze di custodia cautelare relative allo stesso fatto o a fatti connessi, il giudice dovrà valutare se si tratta di contestazioni a catena ai sensi dell’art. 297, comma 3 (75). 14. I rimedi esperibili dall’imputato contro le contestazioni a catena. — Il quadro della disciplina in esame si completa con l’analisi dei rimedi esperibili dall’imputato che ritenga di avere subito una contestazione a catena. Come abbiamo accennato in apertura, quella in oggetto è una prassi insidiosa proprio perché si serve di strumenti legittimi per ottenere dell’imputato raggiunto nella fase delle indagini preliminari da più ordinanze cautelari anziché da una sola ». (75) In tal senso, si veda Cass., sez. V, 3 dicembre 1997, Di Dio, in Gazz. giur., 1998, n. 6, p. 26. Nella fattispecie, era accaduto che più procedimenti relativi al medesimo fatto, conclusisi autonomamente in primo grado, erano stati riuniti in appello. In tale ipotesi, la Corte d’Appello aveva rilevato ex novo l’esistenza di una contestazione a catena ed aveva stabilito l’unificazione dei termini di custodia relativi a tale fase. Contra, Cass., sez. VI, 6 febbraio 1998, Di Fazio, in Cass. pen., 1999, p. 1558, secondo cui l’art. 297, comma 3, non è applicabile nella fase del dibattimento; Cass., sez. I, 12 novembre 1996, Rotolo, in Cass. pen., 1998, p. 186. In dottrina, sostiene l’applicabilità generalizzata dell’art. 297, comma 3, M. MERCONE, L’effetto, cit., p. 2930. L’Autore sottolinea che la norma non deve indurre in errore nella parte in cui richiama la desumibilità del fatto successivamente al rinvio a giudizio. Infatti tale termine non ha la funzione di limitare l’ambito applicativo della norma. « Una cosa è il momento cognitivo della desumibilità [prima del rinvio a giudizio], altra cosa è la sfera di applicabilità della retrodatazione », e cioè l’intero procedimento.
— 1310 — quegli effetti antigiuridici che consistono nell’aggiramento dei termini di custodia cautelare. Il pubblico ministero abusa della discrezionalità vincolata che l’ordinamento gli attribuisce in relazione alla scelta del momento nel quale richiedere la custodia cautelare in relazione ad un determinato fatto. Alla luce di questi rilievi, emerge che nessun vizio, né formale né sostanziale, affligge le successive ordinanze emesse nei confronti del medesimo imputato. L’ordinamento può e deve limitarsi a reprimere soltanto gli effetti che sortisce la condotta abusiva del pubblico ministero. In particolare, la giurisprudenza ha chiarito che le successive contestazioni del medesimo fatto non incontrano alcuna preclusione. Il principio del ne bis in idem ha una applicazione molto ristretta in tema di misure cautelari, tendenzialmente limitata alla materia delle impugnazioni (76). La successiva ordinanza cautelare, che applica la medesima misura in relazione al medesimo fatto, non è afflitta da alcuna invalidità, neppure se la contestazione è immutata rispetto al primo provvedimento (77). Ciò comporta che nei confronti di tale ordinanza non può essere esperito nessun mezzo di impugnazione. Considerazioni identiche valgono a fortiori quando la successiva ordinanza cautelare concerne un fatto connesso (78). In tutte le predette ipotesi l’imputato dispone di una tutela ex ante costituita dal criterio di computo automatico, stabilito dall’art. 297, (76) Sul giudicato cautelare, si vedano M. BARGIS, Procedimento de libertate e giudicato cautelare, in Gazz. giur., 1998, n. 42, p. 1 ss.; G. PIERRO, Il giudicato cautelare, Torino, 2000, spec. 285 ss.; M. POLVANI, Le impugnazioni de libertate, 2a ed., Padova, 1999, p. 65 ss. (77) Così Cass., sez. V, 28 novembre 1995, in Cass. pen., 1996, p. 3732. Per una chiara enunciazione, si veda Trib. Genova, 23 marzo 1992, in Foro it., 1993, II, p. 56: « il principio del ne bis in idem, stabilito dall’art. 649 c.p.p. quale effetto del giudicato penale, non può trovare applicazione in sede di misure cautelari, per le quali vige il diverso principio della fluidità della contestazione dell’accusa nella fase delle indagini ». Di recente la giurisprudenza di merito si è espressa in senso contrario ed ha ritenuto che la successiva ordinanza in relazione allo stesso fatto sia affetta da nullità per violazione dell’art. 297, comma 3 (Trib. Perugia, 31 gennaio 2000, Amore, in Giur. it., 2000, III, p. 1713). Si tratta all’evidenza di una affermazione tanto apodittica quanto errata: il principio di tassatività stabilito dall’art. 177 impedisce di ravvisare nel sistema nullità implicite. Cfr. R. M. GERACI, Contestazioni a catena e regime custodiale, ivi, pp. 1715-1716; G. CIANI, sub art. 297 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, Torino, 1993, Primo Agg., p. 183; L. D’AMBROSIO e G. FIDELBO, Incidenza, cit., p. 148. (78) In tal senso Cass., sez. I, 15 aprile 1991, Falanga, in Cass. pen., 1992, p. 705; Cass., 14 settembre 1990, Osareme, in Giust. pen., 1990, III, p. 732; Cass., sez. un., 5 ottobre 1994, Demitry, ivi, 1995, p. 529; Cass., sez. I, 10 marzo 1994, Annis, in Giust. pen., 1994, III, p. 360 e in Cass. pen., 1995, p. 1577, nota redazionale M. D. LOSAPIO. In senso contrario, si veda M. MURONE, Riflessioni sull’esperibilità della richiesta di riesame in caso di « contestazioni a catena », ivi, p. 361. Rileva A. NAPPI, Guida, cit., p. 603, che l’imputato « non può lamentarsi della sola reiterazione impugnando direttamente l’ordinanza impositiva della misura cautelare ».
— 1311 — comma 3, che opera in base a parametri di tipo oggettivo. Ove tuttavia l’autorità giudiziaria in sede di emissione dell’ordinanza di custodia cautelare ometta di applicare la norma appena ricordata, l’imputato potrà rendere operativo il criterio di computo mediante la presentazione di un’istanza di scarcerazione per decorrenza dei termini (79). Contro l’eventuale rigetto, la difesa potrà proporre appello (art. 310); in effetti, tutta la ricca giurisprudenza in materia di contestazioni a catena si è formata in sede di gravame avverso il rigetto dell’istanza di scarcerazione. Quando le contestazioni a catena concernono fatti non legati da un vincolo di connessione qualificata, l’imputato non dispone di alcuna tutela ex ante dal momento che l’art. 297, comma 3 non prevede una disciplina in merito. A nostro avviso, la difesa potrà comunque presentare istanza di scarcerazione allegando la prova che il pubblico ministero ha artificiosamente diluito nel tempo le successive contestazioni. Del resto fino al 1984, in assenza di una disciplina positiva che munisse l’imputato di una tutela anticipata, l’unico strumento esperibile per reprimere gli abusi del pubblico ministero consisteva nella istanza di scarcerazione per decorso dei termini. 15. Rilievi conclusivi. — Dall’analisi, che abbiamo condotto, emerge un dato incontrovertibile. La prassi delle contestazioni a catena non si presta ad una repressione rigida mediante criteri che operano in astratto. In simili discipline è insito il rischio di trattare in maniera uguale situazioni differenti: l’art. 297, comma 3 equipara le ipotesi nelle quali l’autorità giudiziaria ha tenuto una condotta legittima a quelle in cui ha tenuto comportamenti abusivi o negligenti. Soltanto un accertamento effettuato in concreto consente quella elasticità che è requisito indispensabile per la disciplina in esame. Viceversa, il legislatore nel contesto di un automatico apparato di termini ha voluto inserire una disciplina anch’essa rigida, che mal si adatta alle esigenze delle fattispecie da regolare. L’unico elemento di flessibilità è costituito dal secondo periodo dell’art. 297, comma 3, che successivamente al rinvio a giudizio passa da una presunzione assoluta ad una semplice inversione dell’onere della prova a carico del pubblico ministero. (79) Cass., sez. VI, 17 novembre 1998, n. 3680, in Cass. pen., 2000, p. 1337: « le cause che determinano la perdita di efficacia dell’ordinanza impositiva della misura cautelare, tra le quali rientra quella prevista dal comma 3 dell’art. 297 c.p.p. ... si risolvono in vizi processuali che non intaccano l’intrinseca legittimità dell’ordinanza, ma agiscono sul diverso piano dell’efficacia della misura, per cui devono essere dichiarati nell’ambito di un procedimento appositamente promosso con l’istanza di revoca ex art. 306 c.p.p. »; nello stesso senso Cass., sez. I, 20 maggio 1998, in Cass. pen., 1999, p. 2258; Cass., sez. IV, 3 settembre 1996, ivi, 1998, p. 150; Cass., sez. I, 15 aprile 1991, ivi, 1992, p. 705.
— 1312 — Tuttavia, il criterio temporale, costituito dall’intervenuto rinvio a giudizio, appare estrinseco e privo di una consistente ratio giustificatrice (80). Non è dato comprendere quale sia il motivo che ha indotto il legislatore a prevedere una disciplina differenziata successivamente a tale atto. Sotto un profilo più ampio, merita rilevare che il pubblico ministero spesso è spinto a ricorrere alla prassi illegittima delle contestazioni a catena proprio perché il rigido apparato dei termini massimi risulta inadeguato a far fronte alle esigenze del caso concreto. Né esiste alcun istituto che consenta di ritagliare una qualche elasticità all’interno del sistema. La proroga e la sospensione dei termini sono anch’esse rigidamente assoggettate a limiti temporali la cui scadenza comporta inevitabilmente la scarcerazione automatica. È chiaro quindi che, sul piano eziologico, l’abuso consegue ad un disagio. Anche a voler considerare l’art. 297, comma 3, per la parte che interessa, come un criterio di computo in relazione a reati connessi, il legislatore avrebbe dovuto stabilire un apposito prolungamento della durata della custodia. Lo stesso art. 81 c.p., nel prevedere il cumulo giuridico delle pene, stabilisce che in caso di concorso formale o reato continuato, la pena è quella prevista per il reato più grave aumentata fino al triplo. Viceversa, così come è strutturato, l’art. 297, comma 3 reca una previsione di eccessivo favore nei confronti dell’imputato autore di più reati. In base al principio di proporzionalità è accettabile che nelle ipotesi, nelle quali la pena subisce un temperamento, anche la durata della custodia sia in qualche modo ridotta rispetto al cumulo della durata massima prevista per ciascuna delle fattispecie autonomamente considerate. Tuttavia non è tollerabile che nelle ipotesi in oggetto la durata della custodia cautelare sia parametrata soltanto sul reato più grave tra quelli connessi. In un periodo come quello attuale, nel quale l’intero sistema preme sulla custodia cautelare, è assolutamente indispensabile che il legislatore operi in base ai princìpi di proporzione e ragionevolezza. Nella norma in esame si annida un pericoloso grimaldello che rischia di compromettere la difesa della società specialmente in relazione a quella criminalità organizzata, che difficilmente pone in essere fatti criminosi singoli ed indipendenti (81). (80) Rileva correttamente A. NAPPI, Il divieto di « contestazioni a catena » opera solo per fatti contestati nell’ambito dello stesso procedimento, in Gazz. giur., 1996, p. 30, p. 1: « ciò che dovrebbe rilevare ai fini della contestazione a catena è solo la situazione probatoria esistente al momento della richiesta di ciascun provvedimento, non quella esistente al momento del rinvio a giudizio per alcuno dei fatti contestati ». In tal senso, Cass., sez. I, 19 giugno 1998, in Cass. pen., 1999, p. 2258. (81) La giurisprudenza, tuttavia, appare orientata ad escludere che tra il reato di associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.) e i reati-scopo sussista un legame di connessione qualificata. Di conseguenza ritiene non applicabile l’art. 297, comma 3 (Cass., sez. I, 18 dicembre 1998, n. 6530, in Cass. pen., 2000, 1982; Cass., sez. VI, 15 ottobre 1997, ivi, 1998, p. 2358). Sul punto, si veda A. RICCI, Sulle condizioni, cit., p. 773; in passato E. RUBIOLA,
— 1313 — Non è accettabile una norma che estende senza adeguamenti quel criterio di computo, che è nato come disciplina punitiva degli abusi del pubblico ministero ed è strutturato sull’ipotesi peculiare di successiva contestazione del ‘‘medesimo’’ fatto (82). L’art. 297, comma 3, paradossalmente, reca una disciplina automatica per reprimere un tipo di comportamento abusivo, che nasce proprio per eludere i limiti del sistema rigido. Come abbiamo accennato, simili disfunzioni potrebbero essere evitate, da un lato, mediante la valorizzazione di istituti come la sospensione e la proroga, che rendono più elastiche le maglie del sistema. Da un altro lato, sempre al fine di reprimere eventuali condotte abusive, sarebbe necessaria una disciplina articolata su una pluralità di indici e basata su accertamenti da effettuare in concreto. CARLOTTA CONTI Dottoranda di ricerca in Procedura penale Università di Firenze
Nuove contestazioni e computo dei termini di durata massima della custodia cautelare, ivi, 1992, II, p. 397. (82) È eloquente, circa gli effetti perversi che può sortire la disciplina, quanto affermato da V. GREVI, Il nuovo art. 297, comma 3, cit., p. 2105, nota 24: « ... un’ipotesi particolarmente clamorosa, ma non inverosimile, potrebbe verificarsi allorché nel corso delle indagini preliminari una ordinanza di custodia cautelare per un grave delitto (ad esempio per omicidio), di cui non si fosse avuto anteriormente conoscenza, venga richiesta dopo un anno dall’esecuzione di altra ordinanza di custodia emessa nei confronti della medesima persona per un precedente omicidio (al quale il delitto successivamente contestato risulti legato da nesso di continuazione), ma ‘‘prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale sussiste connessione’’. In una simile ipotesi la seconda ordinanza non potrebbe venire nemmeno emessa, essendosi già esaurito, in forza del meccanismo di ‘‘retrodatazione’’ previsto dall’art. 297, comma 3, c.p.p., il corrispondente termine di durata della custodia, e non essendo del resto ipotizzabile per l’assenza dei presupposti ex art. 305, comma 2, c.p.p., una proroga del suddetto termine (già scaduto, non ‘‘prossimo a scadere’’) con riferimento alle indagini per il delitto solo tardivamente conosciuto ». Rileva P.P. RIVELLO, ‘‘Graziata’’, cit., p. 830, che la soluzione prospettata dal legislatore, « oltre a determinare il rischio di ingiustificate scarcerazioni automatiche, finisce per privare di senso lo scrupoloso ragguaglio operato dal legislatore, all’art. 303 c.p.p., fra i termini di durata massima della custodia cautelare ed i ‘‘tetti’’ edittali fissati in relazione alle singole fattispecie criminose ».
IL DANNO DA REATO, DERIVANTE DA LESIONE DI INTERESSI LEGITTIMI, È RISARCIBILE ANCHE IN SEDE PENALE
Il susseguirsi di interventi, sulla stessa materia, dell’interpretazione nomofilattica della Suprema Corte e del legislatore, quando non anche della Corte costituzionale, costringe spesso il commentatore a veri e propri mutamenti radicali di rotta. È il caso, di cui ora si discorre, del risarcimento del danno da reato, derivante dalla lesione di un interesse legittimo, e della possibilità di costituirsi parte civile in dipendenza di un danno siffatto (1). 1. Il momento fondamentale per parlare di tale argomento era (il tempo passato, per quanto si osserverà, è qui d’obbligo) rappresentato dalle ‘‘storiche’’ decisioni delle Sezioni unite civili n. 500 e 501 del 1999 (2). Si è trattato di una vera e propria svolta a 180o nell’orientamento del giudice di legittimità, il quale, secondo una posizione definita come ‘‘pietrificata’’ (3), aveva sempre ritenuto che non vi fosse luogo a parlare di responsabilità della p.a., a termini dell’art. 2043 c.c., per il risarcimento (1) Trattandosi di una evoluzione normativa. peraltro a seguito di una evoluzione giurisprudenziale, il presente elaborato ripercorrerà, almeno in parte ed in relazione allo stato precedente all’ultima riforma, lo scritto Costituzione di parte civile ed interessi legittimi, in Giur. it., 2000, p. 1537 ss. (2) Le sentenze de quibus sono state pubblicate da pressoché tutte le riviste. Si segnalano, fra le prime, Il Corriere giuridico, 1999, p. 1367; Foro it., 1999, I, c. 2487. Quanto alla portata delle decisioni, efficacemente sono state subito dette ‘‘epocali’’, poiché con esse si è infine sgombrato il campo da un vero e proprio stato di privilegio e di immunità riconosciuto alla p.a.; così A. PALMIERI-R. PARDOLESI, in Foro it., loc. cit. Nello stesso senso, V. CARBONE, La Cassazione apre una breccia nella irrisarcibilità degli interessi legittimi, in Il Corriere giuridico, 1999, p. 1061; V. MARICONDA, «Si fa questione d’un diritto civile... », in Il Corriere giuridico, 1999, p. 1381; F. FRACCHIA, Dalla negazione della risarcibilità degli interessi legittimi all’affermazione della risarcibilità di quelli giuridicamente rilevanti: la svolta della Suprema Corte lascia aperti alcuni interrogativi, in Foro it., 1999, I, c. 1312; L. SCODITTI, L’interesse legittimo e il costituzionalismo. Conseguenze della svolta giurisprudenziale in materia risarcitoria, ivi, c. 3226. (3) Primo ad utilizzare la ‘‘colorita’’ espressione, destinata a venire ripresa da pressoché tutti i commentatori successivi, V. CARBONE, La Cassazione apre una breccia nella irrisarcibilità degli interessi legittimi, cit., p. 1061. Non appare superfluo riportare un passaggio
— 1315 — dei danni patiti da soggetti privati, e conseguenti all’emanazione di atti o di provvedimenti amministrativi illegittimi, lesivi dunque di posizioni di interesse legittimo (4). Come detto, un tale principio di diritto, assoluto per oltre cinquanta anni, è stato superato dalle pronunce surriferite, a termini delle quali, ‘‘posto che ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana in capo all’autore di un fatto lesivo di interessi giuridicamente rilevanti non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto danneggiato, va affermata la risarcibilità degli interessi legittimi, quante volte risulti leso, per effetto dell’attività illegittima e colpevole della pubblica amministrazione (con accertamento che, ove competa all’autorità giudiziaria ordinaria, prescinde da una previa decisione di annullamento del giudice amministrativo), l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla, e sempre che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo: a tale stregua, la contestazione circa la risarcibilità degli interessi legittimi non dà luogo a questione di giurisdizione, ma attiene al merito, sicché va dichiarato inammissibile il ricorso per regolamento di giurisdizione proposto in una controversia instaurata anteriormente al lo luglio 1998, in cui sia stata dedotta davanti al giudice ordinario una domanda risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione per illegittimo esercizio della funzione pubblica’’. Invero, la stessa Corte di cassazione, con una ricostruzione approfondita, attenta, esaustiva, ripercorre l’evoluzione in subjecta materia, individuando con estrema precisione le ragioni per cui era stato sempre sostescritto, come suol dirsi, ‘‘a caldo’’ dall’Autore, per cui ‘‘si può ben dire che è crollato un antico, blasonato privilegio, prima regio poi repubblicano, ma tutto italiano, dell’irrisarcibilità dei danni derivanti da lesione di interessi legittimi. Infatti si riconosce, per la prima volta, dopo anni e anni di radicata e monolitica interpretazione giurisprudenziale... che non debbano ricadere sul cittadino le conseguenze patrimoniali dannose di un provvedimento illegittimo della p.a., non rimosse o non rimovibili attraverso la tutela in forma specifica. Da oggi il privato può chiedere al giudice ordinario di valutare, ai fini del richiesto risarcimento del danno nei confronti della p.a., gli effetti dannosi dell’atto amministrativo illegittimo, tuttavia non revocabile né modificabile’’. (4) Per una anodina definizione, in considerazione del fatto che si tengono primariamente presenti le menzionate sentenze delle Sezioni Unite civili, appare opportuno riportare le parole dello stesso Supremo Giudice: ‘‘l’interesse legittimo va... inteso (ed ormai in tal senso viene comunemente inteso) come la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo e consistente nell’attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione dell’interesse al bene. In altri termini, l’interesse legittimo emerge nel momento in cui l’interesse del privato ad ottenere o a conservare un bene della vita viene a confronto con il potere amministrativo, e cioè con il potere della p.a. di soddisfare l’interesse (con provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dell’istante), o di sacrificarlo (con provvedimenti ablatori)’’.
— 1316 — nuto l’opposto convincimento, e quelle per le quali, invece, tale orientamento deve venire rimeditato (5). Due le ragioni in base alle quali la giurisprudenza aveva sempre ritenuto di non potere configurare una responsabilità della p.a. ai sensi dell’art. 2043 c.c.: in primo luogo, la chiara separazione fra diritti soggettivi ed interessi legittimi, ai sensi della quale l’atto illegittimo poteva solo venire annullato dal giudice amministrativo, senza poteri in capo a quest’ultimo per pronunciare in tema di risarcimento (6). In secondo luogo, l’interpretazione dell’art. 2043 stesso, per cui un danno in tanto è risarcibile, in quanto sia ingiusto, e cioè in quanto segua alla lesione di un diritto soggettivo, ed inoltre in quanto sia prodotto non iure e contra ius; ossia, secondo le parole della Cassazione, ‘‘non iure, nel senso che il fatto produttivo del danno non debba essere altrimenti giustificato dall’ordinamento giuridico; contra ius, nel senso che il fatto debba ledere una situazione soggettiva e garantita dall’ordinamento medesimo nella forma del diritto soggettivo perfetto’’ (7). Ebbene, tale diuturno argomentare è stato efficacemente ribaltato, a (5) Le stesse Sezioni unite civili indicano, in motivazione, i precedenti ritenuti assolutamente significativi, e di cui, cionondimeno, si imponeva il ripensamento. Si tratta espressamente delle sentenze Sez. unite civ., 7 febbraio 1997, n. 1186; Sez. unite civ., 9 luglio 1991, n. 2723; Sez. unite civ., 21 gennaio 1988, n. 436; Sez. unite civ., 18 ottobre 1984, n. 5255; Sez. unite civ., 15 novembre 1983, n. 6776; Sez. unite civ., 19 luglio 1982, n. 4204; Sez. unite civ., 16 marzo 1981, n 1484. (6) In motivazione, il passaggio è ben chiarito. ‘‘Il principio della irrisarcibilità degli interessi legittimi si è formato e consolidato con il concorso di due elementi, l’uno di carattere formale (o meglio processuale), l’altro di carattere sostanziale: a) il peculiare assetto del sistema di riparto della giurisdizione nei confronti della p.a. tra giudice ordinario e giudice amministrativo, incentrato sulla dicotomia diritto soggettivo-interesse legittimo e caratterizzato dall’attribuzione ai due giudici di diverse tecniche di tutela (il giudice amministrativo, che conosce degli interessi legittimi, può soltanto annullare l’atto lesivo dell’interesse legittimo, ma non può pronunciare condanna al risarcimento in relazione alle eventuali conseguenze patrimoniali dannose dell’esercizio illegittimo della funzione pubblica, mentre il giudice ordinario, che pur dispone del potere di pronunciare sentenze di condanna al risarcimento dei danni, non può conoscere degli interessi legittimi)...’’. (7) Ancora, le parole della Suprema Corte: ‘‘la tradizionale interpretazione dell’art. 2043 c.c., nel senso che costituisce «danno ingiusto » soltanto la lesione di un diritto soggettivo, sul rilievo che l’ingiustizia del danno, che l’art. 2043 c.c. assume quale componente essenziale della fattispecie della responsabilità civile, va intesa nella duplice accezione di danno prodotto non iure e contra ius; non iure, nel senso che il fatto produttivo del danno non debba essere altrimenti giustificato dall’ordinamento giuridico; contra ius, nel senso che il fatto debba ledere una situazione soggettiva riconosciuta e garantita dall’ordinamento medesimo nella forma del diritto soggettivo perfetto’’. Più nel dettaglio, e con rilerimento proprio alla categoria che qui interessa, le Sezioni unite civili così ricostruiscono il pregresso granitico orientamento: ‘‘il tema della irrisarcibilità degli interessi legittimi è stato in primo luogo affrontato ed esaminato... sotto il profilo del difetto di giurisdizione. In relazione a fattispecie in cui il privato, ottenuto dal giudice amministrativo l’annullamento dell’atto lesivo di una posizione avente la originaria consistenza di interesse legittimo, aveva proposto davanti al giudice ordinario domanda di risarcimento dei danni conse-
— 1317 — mezzo di quattro argomenti fondamentali: a) la dottrina aveva sempre espresso un generalizzato dissenso nei confronti di un sistema che, in fondo, non faceva altro che garantire una forma di vera e propria impunità per il comportamento della p.a., vieppiù in presenza di un illegittimo esercizio delle funzioni pubbliche che, al contrario, dovrebbero sempre ispirarsi al principio diametralmente opposto; b) la giurisprudenza, dal canto suo, negli ultimi anni aveva sempre maggiormente ampliato l’interpretazione dell’art. 2043 c.c., anche in rapporti in cui fosse parte una p.a., fondando ciò sul nesso sussistente fra l’interesse legittimo e l’interesse materiale sottostante, considerato, però, come interesse direttamente tutelato; c) la Corte costituzionale, inoltre, in più occasioni aveva manifestato anch’essa seri dubbi sulla ortodossia del sistema vigente (8); d) infine, il legislatore, il quale, col d.lgs. n. 80/1998, ha introdotto il risarcimento del guenti alla lesione di detta posizione giuridica soggettiva (rimasta immutata nel suo originario spessore malgrado l’annullamento del provvedimento negativo, poiché questo si limita a ripristinare la situazione antecedente), le Sezioni unite, in sede di regolamento preventivo, hanno costantemente dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione. Hanno invero tratto argomento dall’avvenuto esaurimento della tutela erogabile in virtù dell’ordinamento, poiché il giudice amministrativo aveva ormai fornito la tutela rimessa al suo potere, mentre davanti al giudice ordinario non poteva essere proposta domanda di risarcimento del danno da lesione di posizione avente la consistenza dell’interesse legittimo, non essendo prevista dall’ordinamento, alla stregua del quale doveva essere vagliata la pretesa secondo il criterio del c d. petitum sostanziale..., l’invocata tutela, perché riservata, ai sensi dell’art 2043 c.c., ai soli diritti soggettivi... Secondo un diverso indirizzo... la questione relativa alla risarcibilità degli interessi legittimi non attiene propriamente alla giurisdizione, bensì costituisce questione di merito. Si è infatti affermato che con la proposizione di una domanda di risarcimento la parte istante fa valere un diritto soggettivo, sicché bene la domanda è proposta davanti al giudice ordinario, che, in linea di principio, è giudice dei diritti..., al quale spetta stabilire, giudicando nel merito, sia se tale diritto esista, e sia configurabile, sia se la situazione giuridica soggettiva dalla cui lesione la parte sostenga esserle derivato danno sia tale da determinare, a carico dell’autore del comportamento illecito, l’insorgere di una obbligazione risarcitoria. Va comunque rilevato che, in forza di tale indirizzo (che appare essenzialmente rivolto a delimitare, restringendoli, i confini del regolamento preventivo, e non già ad incidere sul tema di fondo della risarcibilità degli interessi legittimi), la decisione rimessa al giudice di merito risulta comunque vincolata (e di segno negativo), in ragione della persistente vigenza del principio che vuole limitata la risarcibilità ex art. 2043 c.c. al solo danno da lesione di diritti soggettivi... Può constatarsi, quindi, che i due menzionati orientamenti approdano entrambi al medesimo risultato negativo circa la questione della risarcibilità dei danni conseguenti alla lesione dell’interesse legittimo: a) nel primo caso, è la stessa Suprema Corte, in sede di regolamento preventivo, a negare (anticipatamente) l’accesso alla tutela; b) nel secondo, la decisione negativa è soltanto differita, essendo rimessa al giudice del merito l’adozione di una pronuncia dal contenuto già prefigurato. Ed in entrambi i casi, in definitiva, l’ostacolo insormontabile è costituito da una ragione di ordine sostanziale, e cioè dalla tradizionale lettura dell’art. 2043 c.c., che identifica il « danno ingiusto » con la lesione di un diritto soggettivo’’. (8) Trattasi della decisione Corte cost., 25 marzo 1980, n. 35, in Foro it., 1980, I, c. 890, che in motivazione, sul punto che qui interessa, recita: ‘‘sono ben comprensibili le con-
— 1318 — danno per il privato, con giurisdizione del giudice amministrativo per le materie ad esso rimesse. Dall’approfondimento di questi punti nevralgici, il passo di cui sopra. E così, ricostruito il concetto di interesse legittimo e di diritto soggettivo, nonché di danno risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c., la Corte di legittimità ha primariamente precisato che il danno è ingiusto quando è arrecato non iure, ossia quando viene inferto in assenza di una causa di giustificazione, e per ciò solo va a dare luogo alla lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento (9). Dunque, specifica la Cassazione, ‘‘una volta stabilito che la normativa sulla responsabilità ha funzione di riparazione del « danno ingiusto » e che è ingiusto il danno che l’ordinamento non può tollerare che rimanga a carico della vittima, ma che va trasferito sull’autore del fatto, in quanto lesivo di interessi giuridicamente rilevanti, quale che sia la loro qualificazione formale, ed in particolare senza che assuma rilievo determinante la loro qualificazione in termini di diritto soggettivo, risulta superata in radice, per il venir meno del suo presupposto formale, la tesi che nega la risarcibilità degli interessi legittimi quale corollario della tradizionale lettura dell’art. 2043 c.c. La lesione di un interesse legittimo, al pari di siderazioni che hanno condotto la corte di merito, di fronte al deplorevole comportamento tenuto da una amministrazione comunale, responsabile di una serie di atti illegittimi reiterativi in spregio alle decisioni del giudice amministrativo, con grave pregiudizio d’un privato proprietario, a sollevare l’arduo problema, tanto discusso in dottrina come nella giurisprudenza, della responsabilità civile delle pubbliche amministrazioni per il risarcimento dei danni derivati ai soggetti privati dalla emanazione di atti o provvedimenti amministrativi illegittimi, lesivi di situazioni di interesse legittimo. Problema di indubbia gravità, e di particolare attualità... che... si impone ormai all’attenzione del legislatore’’. Il monito è davvero chiaro; tuttavia, nonostante la incisività, il legislatore non ha mai ritenuto di doversi o potersi fare carico del problema in parola, preferendo lasciare la p.a. arbitra di sé stessa. (9) La Cassazione, dunque, rilegge la dicotomia non iure — contra ius, ritenendo che possa parlarsi di ingiustizia del danno già ove esso sia arrecato non iure. Dunque, in merito all’art. 2043 c.c. secondo la Corte di legittimità, ‘‘non può negarsi che nella disposizione in esame risulta netta la centralità del danno, del quale viene previsto il risarcimento qualora sia « ingiusto », mentre la colpevolezza della condotta (in quanto contrassegnata da dolo o colpa) attiene all’imputabilità della responsabilità. L’area della risarcibilità non è quindi definita da altre norme recanti divieti e quindi costitutive di diritto (con conseguente tipicità dell’illecito in quanto fatto lesivo di ben determinate situazioni ritenute dal legislatore meritevoli di tutela), bensì da una clausola generale, espressa dalla formula « danno ingiusto », in virtù della quale è risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell’ingiustizia, cioè il danno arrecato non iure, da ravvisarsi nel danno inferto in difetto di una causa di giustificazione (non iure), che si risolve nella lesione di un interesse riilevante per l’ordinamento... In definitiva, ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante’’.
— 1319 — quella di un diritto soggettivo o di altro interesse (non di mero fatto) ma giuridicamente rilevante, rientra infatti nella fattispecie della responsabilità aquiliana solo ai fini della qualificazione del danno come ingiusto... la lesione dell’interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell’attività illegittima (e colpevole) della p.a. l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo’’. Da sempre è dato distinguere due tipi di interesse legittimo: quello oppositivo e quello pretensivo (10). Solo per il primo, però, era dato, in alcune ipotesi, parlare di tutela risarcitoria, per di più a mezzo di un lungo e complicato procedimento: dapprima doveva ottenersi dal giudice amministrativo l’annullamento dell’atto; successivamente era possibile chiedere al giudice civile il risarcimento del danno subìto. Inoltre, al fine di sostenere la possibilità di un risarcimento del danno, si era costruita la teoria della rinascita del diritto soggettivo: ossia il diritto soggettivo originariamente esistente, leso da un provvedimento amministrativo, retroattivamente tornava in vita a seguito dell’annullamento del provvedimento stesso (11). (10) Si parla di interessi legittimi oppositivi in relazione a quegli interessi per cui è concessa tutela dall’ordinamento ad un soggetto contro un provvedimento sfavorevole, al fine di conservare (appunto tutelare) la propria sfera giuridica personale e/o patrimoniale. Viceversa, con gli interessi legittimi pretensivi si indicano quegli interessi per cui è concessa una tutela al fine di ottenere (appunto pretendere) un provvedimento favorevole da parte della p.a., al fine di migliorare, incrementare la propria sfera giuridica personale e/o patrimoniale. (11) Il procedimento, a tutta evidenza farraginoso, era però l’unico che, in una certa misura, consentisse di pervenire ad un qualche risultato utile. La Suprema Corte si sofferma, censurandolo, sul punto: ‘‘la vicenda può invero essere... intesa in termini di tutela di un « interesse legittimo oppositivo », considerando che il provvedimento illegittimo estingue il diritto soggettivo, ed il privato riceve tutela grazie alla facoltà di reazione propria dell’interesse legittimo, prima davanti al giudice amministrativo per l’eliminazione dell’atto, e successivamente davanti al giudice ordinario che dispone del potere di condanna al risarcimento, per la riparazione delle ulteriori conseguenze patrimoniali negative. L’esigenza di ravvisare un diritto soggettivo che rinasce è palesemente dettata dalla necessità di muoversi nell’area tradizionale dell’art. 2043 c.c. Ed analoga considerazione può valere in relazione all’ipotesi (che costituisce sviluppo di quella precedente) della cosiddetta riespansione della quale beneficia anche il diritto soggettivo (non originario ma) nascente da un provvedimento amministrativo, qualora sia stato annullato il successivo provvedimento caducatorio dell’atto fonte della posizione di vantaggio... Anche nell’ambito di tale vicenda può invero rilevarsi che il privato, una volta acquisita in forza del provvedimento amministrativo (di concessione, autorizzazione, licenza, ammissione, iscrizione e così via) la posizione di vantaggio, risulta titolare di un «interesse legittimo oppositivo » alla illegittima rimozione della detta situazione, del quale si avvale utilmente sia per eliminare l’atto, sia per ottenere la reintegrazione dell’eventuale pregiudizio patrimoniale sofferto (rivolgendosi in successione ai due diversi giudici, poiché nessuno del
— 1320 — In dottrina (12) si è segnalato come la creazione della autonoma categoria degli interessi legittimi, sconosciuta in altri ordinamento, parallelamente all’interpretazione restrittiva in subjecta materia dell’art. 2043 c.c., abbia creato una sorta di area di privilegio in favore della p.a. Un Autore (13), sul punto, ha molto efficacemente affermato che ‘‘il ragionamento sul quale si fonda l’intera costruzione ha invero la linearità del paralogismo: ex art. 2043 c.c. può considerarsi ingiusto soltanto il danno derivante da lesione di diritto soggettivo; l’interesse legittimo è una posizione giuridica soggettiva diversa dal diritto soggettivo (un minus del diritto soggettivo), ergo l’interesse legittimo non è risarcibile’’. Dunque, può propriamente aggiungersi, tutte le volte in cui il cittadino veniva leso da un atto relativo alla funzione pubblica, siccome era titolare solo di un interesse legittimo, non poteva venire risarcito. La giurisprudenza, stanti le serrate critiche mosse dalla dottrina all’impostazione ora ricordata, non si è mostrata del tutto insensibile, e, attraverso una lenta ma incisiva evoluzione (14), dapprima ha recuperato all’area del risarcimento gli interessi oppositivi; poi, con le storiche sendue è titolare di giurisdizione piena: ed è palese la macchinosità del sistema che, di regola, richiede tempi lunghissimi)’’. (12) Fra i più convinti assertori dell’esistenza di una vera area di privilegio in capo alla p.a., grazie alla categoria degli interessi legittimi, si ricordano G. ALPA, La responsabilità civile, in Giur. sist. civ. e comm., UTET, 1987, p. 495; A. CASETTA, L’illecito degli enti pubblici, in Memorie dell’istituto giuridico dell’Università di Torino, Torino, vol. LXXX, p. 1953; F. SATTA, Responsabilità civile (voce), in Enc. del dir., Giuffrè, 1988, vol. XXXIX. p. 1369. Appare, peraltro, opportuno ricordare che la stessa Cassazione, nelle ormai note sentenze di cui si discorre, precisa: ‘‘non può negarsi che dallo stato della giurisprudenza deriva una notevole limitazione della p.a. nel caso di esercizio illegittimo della funzione pubblica che abbia determinato diminuzioni o pregiudizi alla sfera patrimoniale del privato. Ma una siffatta isola di immunità e di privilegio, va ancora rilevato, mal si concilia con le più elementari esigenze di giustizia’’ (corsivo qui aggiunto per esaltare il passaggio). (13) Così F.G. PIZZETTI, Risarcibilità degli interessi legittimi e danno ingiusto. Se un giorno d’estate la Corte di cassazione..., in Giur. it., 2000, I, p. 1383. E, prosegue l’Autore, ‘‘la conseguenza di questo ragionamento «alla don Ferrante » è che in tutti i casi in cui di fronte all’esercizio della funzione pubblica il cittadino può vantare soltanto un interesse legittimo il danno eventualmente prodottosi a cagione dell’esercizio di tale funzione non è risarcibile. Si osservi che una siffatta costruzione non esiste in rerum natura e si fonda su una lettura (giurisprudenziale) della clausola generale del danno ingiusto di cui all’art. 2043 c.c., clausola che, per l’appunto essendo generale, ammette evidentemente anche altre possibili interpretazioni’’. (14) F.G. PIZZETTI, op. cit., ricostruisce con attenzione l’evoluzione de qua. Egli, così, illustra come la giurisprudenza della irrisarcibilità ebbe a pietrificarsi all’indomani del 1958, con la decisione Sez. Unite civ., 15 aprile 1958, n. 1217, in Riv. Amm., 1958, p. 479. Secondo l’Autore, ‘‘la regola dell’irrisarcibilità dell’interesse legittimo non è, dunque, una conseguenza necessaria del nostro sistema; essa è, viceversa, un principio giurisprudenziale, affermatosi nella sua compiutezza negli anni Cinquanta e contrastato, fin dagli anni Sessanta, dalla quasi unanime dottrina.
— 1321 — tenze di cui si discorre, ha definitivamente scardinato l’area dell’irrisarcibilità del danno derivante da lesione di interesse legittimo. Non appare inopportuno spendere ancora qualche parola sulla ‘‘nuova’’ chiave di lettura fornita dalla Cassazione dell’art. 2043 c.c., in ordine a quanto si osserverà in prosieguo più puntualmente per la costituzione di parte civile. Le Sezioni unite hanno ritenuto di riconoscere alla norma de qua il carattere di norma primaria (15), così recuperandone una lettura ampia, integrale; norma primaria, in quanto contenente sia il precetto (il danno ingiusto) che la sanzione (obbligo di risarcire il danno). Da alcuni (16) si è, tuttavia, osservato che il carattere così attribuito non pare esatto, in quanto, tradizionalmente, norma primaria è quella che si presenta come superiore rispetto ad un’altra fonte; si sarebbe dovuto parlare allora, con maggiore esattezza, di norma completa. Qualunque sia la terminologia più corretta, è indubitabile che la Suprema Corte ha affermato con forza il momento di vertice dell’art. 2043 c.c. nel sistema della responsabilità aquiliana (17). Peraltro, di fronte a tali serrate critiche della dottrina, la stessa giurisprudenza del Supremo Collegio ha lavorato su questa « pietra » di cesello e di martello. Di martello, affermando l’ingiustizia del danno in re ipsa in tutte le ipotesi in cui il pregiudizio subito dal cittadino consegua ad una condotta della p.a. che integri gli estremi di reato. Di cesello, affermando la risarcibilità della lesione derivante da illegittimo provvedimento di autotutela dell’amministrazione’’ (p. 1384). (15) Per un riferimento di insieme, V. ZAGREBELSKY, Diritto costituzionale, Giuffrè, 1987, vol. I; L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996; V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, Cedam, 1996; ecc. (16) F.G. PIZZETTI, op. cit., p. 1387, sostiene che ‘‘tradizionalmente... la norma primaria non è quella che contiene in se il precetto e la sanzione — che viene piuttosto definita come norma perfetta o completa — ma quella che possiede un’efficacia superiore a quella di ogni altra fonte (eccezion fatta per la Costituzione nei sistemi a Costituzione rigida). In quest’ottica, il rischio insito nella scelta terminologica della Cassazione ora evidenziata è quello di attribuire all’art. 2043 c.c. un ruolo di primus inter pares all’interno dello stesso Codice civile... Da queste riflessioni emerge che il modo migliore per attribuire un significato corretto alla scelta del Supremo Collegio di qualificare l’art. 2043 c.c. come una norma primaria è di considerare tale scelta quale espediente lessicale per recuperare appieno il modello italiano di atipicità dell’illecito’’. (17) Affermano le Sezioni unite civili: ‘‘la norma sulla responsabilità aquiliana non è norma (secondaria), volta a sanzionare una condotta vietata da altre norme (primarie), bensì norma (primaria) volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell’attività altrui. In definitiva, ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante’’.
— 1322 — Dunque, diventa centrale l’illecito tout court, in quanto lesione di un interesse ad un bene della vita vantato da un soggetto e tutelato dall’ordinamento, indipendentemente dalla sua qualificazione come diritto soggettivo o meno. Altro problema affrontato dal giudice di legittimità è stato quello del se definire o meno l’insieme degli interessi tutelati dall’ordinamento. Opportunamente la Cassazione ha ritenuto che una loro individuazione esaustiva a priori non fosse possibile, e che il relativo compito debba venire demandato al giudice del merito, il quale, caso per caso, dovrà valutare se, stante la tradizionale atipicità dell’illecito, l’interesse dedotto nel singolo caso sia o meno meritevole di tutela, alla luce dell’ordinamento, e se quindi la sua lesione possa godere della protezione di cui all’art. 2043 c.c., non lasciando, però, il giudice completamente sfornito di strumenti ermeneutici (18). E difatti la Corte ha ritenuto di dettare alcuni principi — guida (già definiti guidelines) (19), alla luce dei quali potrà pervenirsi al riconoscimento in parola. 2. Venendo più decisamente al tema della costituzione di parte civile, e prima di trarre le (dovute) conseguenze da quanto sinora riportato, sembra corretto inquadrare brevemente l’istituto, anche se solo in ordine al tipo di danno di cui in sede penale possa domandarsi, ai sensi dell’art. 185 c.p., il risarcimento e/o le eventuali restituzioni. È noto che due sono gli orientamenti in base ai quali individuare il danno risarcibile a mezzo della costituzione di parte civile. Da un lato, secondo una linea interpretativa piuttosto tradizionale, e più letteralmente aderente alle norme di legge, si suole dire che la costitu(18) Ancora le parole della Suprema Corte, per cui ‘‘quali siano gli interessi meritevoli di tutela non è possibile stabilirlo a priori: caratteristica del fatto illecito delineato dall’art. 2043 c.c., inteso nei sensi suindicati come norma primaria di protezione, è infatti la sua atipicità. Compito del giudice, chiamato ad attuare la tutela ex art. 2043 c.c., è quindi quello di procedere ad una selezione degli interessi giuridicamente rilevanti, poiche solo la lesione di un interesse siffatto può dare luogo ad un « danno ingiusto », ed a tanto provvederà istituendo un giudizio di comparazione degli interessi in conflitto, e cioè dell’interesse effettivo del soggetto che si afferma danneggiato, e dell’interesse che il comportamento lesivo dell’autore del fatto è volto a perseguire, al fine di accertare se il sacrificio dell’interesse del soggetto danneggiato trovi o meno giustificazione nella realizzazione del contrapposto interesse dell’autore della condotta, in ragione della sua prevalenza’’. (19) La definizione è di A. DI MAJO, Il risarcimento degli interessi « non più solo legittimi », in Il Corriere giuridico, 1999, p. 1379. Il passaggio, per la sua estrema delicatezza, necessita di essere riportato integralmente. Secondo l’Autore, una siffatta comparazione di interessi facenti capo a danneggiante e danneggiato dovrà, dunque, venire ponderata anche alla luce di una valutazione degli interessi stessi, onde non fermarsi ad un giudizio prevalentemente equitativo. ‘‘Ma il criterio è più facile a declamarsi che ad applicarsi’’. Ed invero, essendo parte del rapporto una p.a., si ha una situazione di potere a fronte della quale il privato potrebbe naturalmente venire limitato.
— 1323 — zione di parte civile è ammissibile solo in presenza della lesione di un diritto soggettivo (20), origine di un danno derivante in modo diretto ed immediato dalla commissione del fatto di reato (21). Altro orientamento (22), invece, riteneva possibile la costituzione di (20) Appare particolarmente illuminante, per la giurisprudenza, il precedente Sez. lav., 15 novembre 1996, n. 10045, a termini del quale ‘‘il trasferimento nel processo penale dell’azione civile di risarcimento del danno derivante da reato, effettuato anteriormente all’entrata in vigore del nuovo c.p.p. del 1988, comporta a norma dell’art. 4 c.p.p. previgente la declaratoria di estinzione de giudizio... ancorché sulle domande risarcitorie così trasferite intervenga in sede penale una declaratoria di inammissibilità, sempreché questa derivi da ragioni solo di merito, quali... la riscontrata inesistenza di situazioni suscettibili di tutela risarcitoria, per avere la posizione del danneggiato consistenza di interesse legittimo anziché di diritto soggettivo’’. Altre massime estremamente significative, che giova menzionare, sono Sez. VI, 1o giugno 1989, Ponticelli, in Cass. pen., 1990, p. 1546; Sez. Unite, 21 aprile 1989, Iori, in Mass. Giur Lav., 1989, p. 254; Sez. III, 21 giugno 1982, Polenghi, ivi, 1983, p. 1826; Sez. III, 5 luglio 1978, in Giust. pen., 1979, p. 646. In dottrina, V. ARTEMISIO, Tutela degli interessi diffusi nel nuovo codice di procedura penale, in Nuovo dir., 1989, p. 659; A. GALATI, La tutela degli interessi diffusi nel processo penale, in Il Tommaso Natale, 1979, p. 1089; F. GIAMPIETRO, Danno all’ambiente e legittimazione al giudizio dello Stato, degli enti territoriali e delle associazioni protezionistiche (art. 18 della l. n. 349 del 1986), in Cass. pen., 1988, p. 732. Decisamente chiuso a possibilità di costituzione di parte civile per lesione di un diritto od interesse non inquadrabile nella categoria del diritto soggettivo, G. TRANCHINA, I soggetti, in AA.VV., Diritto processuale penale, Giuffrè, 1996, vol. I, p. 183, per il quale perché sia possibile la costituzione di parte civile, appunto, ‘‘dev’essere rimasta lesa una situazione personale classificabile come diritto soggettivo, con esclusione di situazioni di mero interesse o di interesse legittimo’’. Più possibilista appare P. TONINI, L’intervento dei sindaci nel processo penale, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, p. 1424. (21) Con molta chiarezza Sez. VI, 21 gennaio 1992, Dalla Bona, in Riv. pen. economia, 1992, p. 479, afferma: ‘‘il diritto al risarcimento della persona danneggiata dal reato alla restituzione ed al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale ha natura civilistica, e le disposizioni dell’art. 185 c.p. non hanno efficacia costitutiva di tali diritti, ma mera funzione di regole integratrici dei generali principi degli artt. 2043 e 2059 c.c., che ne fanno un’enunciazione e un’applicazione più ampia di quella penale’’; nello stesso senso, Sez. V, 18 maggio 1989, Moruzzi, in Cass. pen., 1991, p. 86. In dottrina, F. GROSSO, Enti esponenziali ed esercizio dell’azione civile nel processo penale, in Giust. pen., 1987, III, p. 6. Cfr. altresì V. ZENO ZENCOVICH, La responsabilità civile da reato, Giuffrè, 1989, p. 20; C. SALVI, Il danno extracontrattuale, Napoli, 1985, p. 138; F. IACOBONI, Costituzione di parte civile degli enti collettivi e postille in tema di lesione degli interessi superindividuali, alla luce di un decennio di giurisprudenza, in Foro it., 1982, II, c. 193. Più decisamente ed analiticamente, G. RICCIO, I principi informatori della responsabilità civile da reato, in Il Tommaso Natale, 1979. p. 1375; A. GALATI, La tutela degli interessi diffusi nel processo penale, cit., p. 1088, che parla di effetto normale delle conseguenze di un reato, per essere fonte di risarcimento. V. altresì M. MEDUGNO, Il problema della legittimazione delle associazioni di protezione dell’ambiente a costituirsi parte civile nei giudizi penali, in Riv. giur. ambiente, 1990, p. 517. (22) L’Autore più decisamente orientato nel senso di considerare possibile la costituzione di parte civile pure in presenza di un danno derivante dalla commissione del fatto di reato anche in modo indiretto e/o mediato è G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, Giappi-
— 1324 — parte civile in presenza di un danno, derivante dal reato, comunque classificabile, sia ontologicamente, sia in base al nesso di consequenzialità. Disposizione chiave per discorrere di tali interpretazioni è l’art. 185 c.p., per cui ogni reato, che abbia causato un danno, obbliga alle restituzioni ed al risarcimento, a norma delle leggi civili. Sul punto, come detto, l’interpretazione non può dirsi, più che altro in dottrina, univoca; viceversa, dalla giurisprudenza, almeno da quella di legittimità, si ha una certa unitarietà di posizioni. E così, come detto secondo la corrente maggioritaria, il danno derivante da reato, risarcibile, sarebbe solo quello derivante dalla lesione di un diritto soggettivo, e comunque indipendentemente dalla lesione del diritto, con la conseguenza che deve considerarsi (tacitamente ma pacificamente) esclusa ogni situazione di interesse legittimo. Da altri si è invece osservato che la espressa previsione normativa di cui si è detto giustificherebbe la presenza di una nuova categoria di illecito civile: l’illecito civile derivante da reato, appunto, con regole sue prochelli, 2000, p. 116, che afferma: ‘‘si è osservato, con estrema precisione e notevole rigore logico, che il danno non patrimoniale rientra nelle previsioni dell’art. 185 c.p., e non in quella dell’art. 2043 c.c. e che l’art. 185 c.p., riferendosi ad « ogni » fattispecie criminosa, ammette il risarcimento del danno pure nelle ipotesi di responsabilità obiettiva mentre l’art. 2043 c.c. richiede quantomeno la presenza della colpa. Si rileva, inoltre, che il fatto realizzato in presenza di stato di necessità (e, quindi, non costituente reato) non attribuisce al danneggiato il diritto al risarcimento ex art. 185 c.p., mentre l’at. 2045 c.c. gli attribuisce il diritto ad una indennità. Queste ed analoghe osservazioni comproverebbero l’autonomia dell’illecito civile creato dall’art. 185 c.p. e spiegherebbero il fatto che per questo illecito non si sia preteso che il danno costituisca una conseguenza immediata e diretta’’. Il ragionamento era già stato espresso dall’Autore nel precedente lavoro La costituzione di parte civile in un Consiglio dell’Oriente in un procedimento per omicidio, in questa Rivista, 1985, p. 843. Sempre in dottrina, nello stesso senso F. PRICOLO, Una nuova legge per le sofisticazioni vinicole: brevi note a margine di un recente convegno, in questa Rivista, 1987, p. 128; L. SMURAGLIA, Una sentenza sconcertante, in Riv. giur lav., 1980, p. 171. Il ragionamento ora riportato, indubbiamente analitico e profondo, solleva una sola perplessità, in relazione alla conclusione per cui dalle premesse, indubitabili, si perviene all’inquadramento del danno c.d. indiretto e mediato. Invero, attentamente riguardato, dal rilievo per cui il fatto compiuto in stato di necessità, non costituente reato, e dunque fonte sì di risarcimento, ma solo ai sensi dell’art. 2045 c.c., e non dell’art. 185 c.p., non sembra così necessariamente fonte per tali gravose conclusioni. Anzi, è forse possibile ermeneuticamente arrivare al convincimento opposto: il fatto che il risarcimento del danno derivante da una fattispecie astrattamente inquadrabile in un reato (ma non tale in presenza dello stato di necessità) venga disciplinato dall’art. 2045 c.c., sicuramente peculiare applicazione del risarcimento del danno extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c. (definito dalla Suprema Corte, si è visto, norma primaria; comunque norma completa), può correttamente portare ad affermare che ogni ipotesi di illecito (civile) appartenga comunque alla generale categoria del danno extracontrattuale, e da questa venga disciplinata. In altre parole, che un certo fatto sfugga alla disciplina dell’art. 185 c.p., ma venga comunque attratto in quella dell’art. 2043 c.c., può legittimamente far concludere che tale ultima norma è la vera norma di riferimento per tutte le fattispecie di danno extracontrattuale.
— 1325 — prie, difformi rispetto a quelle di cui agli art. 2043 ss. c.c. Di conseguenza, restando svincolati dalla categoria generale dell’illecito civile, non vi sarebbero serie regioni per dubitare della risarcibilità anche dell’interesse legittimo, ovvero di un qualunque interesse protetto dall’ordinamento. Non appare inutile segnalare come, almeno a prima vista, questa seconda interpretazione troverebbe (il condizionale è d’obbligo) consistente avallo in un obiter dictum della Suprema Corte, e ciò proprio nelle storiche decisioni delle quali qui si discorre, in quanto in un passaggio in cui veniva complessivamente ricostruito l’istituto del danno risarcibile, si osservava che la fattispecie disciplinata dall’art. 185 c.p. supererebbe quella generale dell’art. 2043 c.c., in quanto, ai fini risarcitori, non è ivi chiesta l’ingiustizia del danno (23). Orbene, senza insistere ancora sul passaggio de quo, forse non troppo meditato perché non particolarmente importante ai fini del tessuto argomentativo della decisione, può osservarsi che un simile asserto, ove fosse da tenere presente in modo letterale, andrebbe a cozzare con principi che possono invece dirsi ormai davvero consolidati (24). (23) L’asserto sembra davvero importante; affermano infatti le Sezioni unite che l’art. 185 c.p., per dar luogo al risarcimento, non richiede l’ingiustizia del danno. Così seccamente letto, il passaggio si mostrerebbe di portata fondamentale. È ben strano, però, che esso non sia adeguatamente supportato, in quanto nel tessuto della motivazione non v’è una sola riga esplicativa. Appare, allora, più corretto stemperare il rigore dell’affermazione, inquadrandola nell’orientamento consolidato della Corte stessa, per cui ‘‘mentre per tutti i fatti dannosi non costituenti reato l’ingiustizia del danno è da intendersi — oltreché nell’accezione di danno prodotto in assenza di cause giustificative del fatto dannoso — anche contra ius, cioè come fatto che incida su una posizione soggettiva attiva tutelata come diritto perfetto, per i danni prodotti da reato l’ingiustizia è in re ipsa, e non ha quindi bisogno di essere riconnessa alla violazione di un diritto soggettivo’’; così Sez. I civ., 11 febbraio 1995, n. 1540. (24) Una lettura di estremo interesse è data da F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, ESI, 2000, p. 719, per il quale ‘‘certamente pena accessoria è... il risarcimento ex art. 185 c.p., basato sulla particolare offensività dell’illecito penale, che lede comunque l’interesse tipico protetto dalla norma (penale) violata e prescinde dunque dall’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043. Trova così giustificazione, se c’è reato, il risarcimento anche della lesione degli interessi di fatto o, pur a prescindere dalla prova della colpa, degli interessi legittimi, in presenza, ad esempio, rispettivamente, di omicidio del convivente o di silenzio della P.A.’’ Per una impostazione più restrittiva, E. SQUARCIA, Il convivente more uxorio può costituirsi parte civile per l’omicidio del partner?, in Cass. pen., 1998, p. 2753. Orbene, l’interpretazione che appare davvero la più in linea con le norme di cui si discorre è offerta da C.M. BIANCA, Diritto civile 5, la responsabilità, Giuffrè, 1994, p. 622, il quale lucidamente precisa che ‘‘chi commette reato commette per ciò stesso un illecito civile nei confronti del soggetto portatore dell’interesse penalmente tutelato: la vittima del reato. La lesione dell’interesse protetto dalla norma penale, dunque, costituisce danno ingiusto... Le conseguenze economiche negative saranno risarcibili secondo il criterio generale, che non ha riguardo limitato ai danni « ingiusti » ma comprende tutte le perdite patrimoniali e i mancati guadagni derivanti dall’illecito (art. 1223 c.c.)’’. Dunque, una piena riaffer-
— 1326 — Inoltre, appare più logico ritenere che, molto semplicemente, il giudice di legittimità abbia voluto riaffermare il principio per cui in presenza di un reato il danno è da considerarsi ingiusto per definizione, in quanto sicuramente arrecato non iure (ed anche contra ius). V’è, poi, l’altro problema, di assoluto rilievo, per cui ci si chiede se il danno, per essere risarcibile, debba derivare dal reato in modo diretto ed immediato, ovvero possa altresì essere arrecato anche in modo indiretto e mediato. Ora, senza appesantire inutilmente queste brevi riflessioni, si può rapidamente osservare, alla luce di quanto prima ricordato, come l’orientamento prevalente (in giurisprudenza può dirsi dominante) ritenga possibile la costituzione di parte civile esclusivamente in presenza di danno derivante in modo diretto ed immediato dal reato. Ed invero, considerato giustamente l’art. 185 c.p. come una particolare fattispecie del danno extracontrattuale, ossia di quell’illecito civile derivante dalla commissione di un fatto di reato, giurisprudenza e dottrina ritengono che, consequenzialmente, si debbano seguire le norme generali in tema di illecito civile per la individuazione del tipo di danno. Dunque, punto di riferimento il sistema di cui agli art. 2043 ss. c.c., e fra questi l’art. 2059 che tacitamente prende in considerazione l’art. 185 c.p. Un simile rinvio al danno da reato, ove esso costituisse categoria autonoma, non troverebbe una valida ragione di esistere. E del resto, non è certo a caso che il citato art. 185 faccia espresso riferimento alle norme civili per disciplinare il caso del risarcimento, riferimento peraltro estensibile anche al caso delle restituzioni. Infine, il rilievo per cui il legislatore del 1942 ebbe ad intervenire in un campo che già conosceva l’art. 185 c.p. (formulato nel 1930): quindi appare corretto ritenere che il (nuovo) sistema dell’illecito civile, per espressa affermazione dei compilatori guidato altresì dall’intento di procedere a riunificazione delle forme appunto di illecito, abbia voluto ricomprendere in sé anche l’ipotesi in parola; così come sembra corretto sostenere che apparirebbe strano che il legislatore di tale autonoma figura non avesse dato in qualche modo contezza, atteso che il risarcimento del danno non patrimoniale ha, come primo riferimento, non tanto l’art. 2059 c.c. (che lo prevede), ma lo stesso danno derivante da reato. In conseguenza, stante che il danno da reato è una (importantissima) categoria del generale danno da illecito civile, per la determinazione del risarcimento ci si deve riportare al sistema dettato dal legislatore civile che, ai sensi del combinato disposto degli art. 8, 2056 e 1223 c.c., consimazione del criterio di cui si è discusso: il danno (derivante dal reato), per essere risarcito deve essere una conseguenza diretta ed immediata del reato stesso, come previsto, in tema di illecito extracontrattuale, dall’art. 1223 c.c.
— 1327 — dera risarcibile solo quel danno che derivi dall’illecito in modo diretto ed immediato (25). Tornando alla costituzione di parte civile per la lesione di un interesse legittimo, si è detto che la giurisprudenza di legittimità e la dottrina erano orientate pressoché unanimemente in senso negativo. Inammissibile l’azione civile, in sede penale, per il risarcimento di un danno siffatto. Vi erano, poi, altre fattispecie, non inquadrabili nella categoria del diritto soggettivo né in quella dell’interesse legittimo, per le quali si è assistito ad un vero e proprio oscillare di posizioni (26). (25) Per un migliore approfondimento del punto, si riporta quanto già affermato in Costituzione di parte civile ed interessi legittimi, cit., p. 1539: ‘‘detto immediato e diretto nesso eziologico appare... assai più convincente per coloro i quali... ritengono che l’art. 185 c.p. costituisca... nulla più che una peculiare fattispecie della generale responsabilità extracontrattuale, disciplinata dalle norme del codice civile, e primariamente dall’art. 2043. Tale ultima norma sembra ricomprendere davvero ogni illecito, e sembra essere completata dal successivo art. 2059, a norma del quale « il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge ». Una lettura asettica di detta disposizione induce davvero a ritenere che il legislatore del 1942 abbia tenuto debito conto di quanto già disposto dal legislatore del 1930 con l’art. 185 c.p., ed abbia inteso, con una norma unica... disciplinare compiutamente la fattispecie del fatto illecito e del danno che ne consegue... Esso legislatore, difatti, ben conscio dell’esistenza della norma penale, ha voluto contenerne gli effetti, stabilendo che solo in tali casi può darsi luogo al risarcimento del danno non patrimoniale. E tale convincimento appare avallato dalla considerazione che non vi sarebbe stato bisogno della specifica di cui all’art. 2059 c.c., se non fossero state ben presenti ipotesi in cui, viceversa, era normale procedersi a risarcimento anche del danno morale... Infine, ove effettivamente l’art. 185 c.p. costituisse categoria autonoma e svincolata rispetto al (successivo) art. 2043 c.c., apparirebbe quanto meno strano che il legislatore del 1942 di ciò non abbia dato menzione. In conclusione, non sembra dato riscontrare ragioni lessicali certe per affermare l’autonomia dell’illecito civile derivante da reato rispetto alla categoria generale dell’illecito civile. Se ciò è vero... per la determinazione del danno risarcibile ci si deve rifare all’art. 1223 c.c., espressamente richiamato (per l’illecito) dall’art. 2056 stesso codice. Il detto art. 1223 prevede la risarcibilità dei danni in quanto siano conseguenza immediata e diretta dell’illecito’’. (26) Vengono primariamente alla mente i cc.dd. interessi diffusi; nonché gli interessi di mero fatto. Una pronuncia apparentemente discutibile della Cassazione rende bene l’idea del marasma in cui, spesso, l’interprete ha dovuto muoversi. Ha affermato la Suprema Corte (Sez. III, 26 settembre 1996, Perotti, in Giust. pen., 1998, III, c. 590) che ‘‘in tema di legittimazione degli enti e delle associazioni ecologistiche a costituirsi parte civile, deve ritenersi che, quando l’interesse diffuso alla tutela dell’ambiente non è astrattamente connotato, ma si concretizza in una determinata realtà storica di cui il sodalizio ha fatto il proprio scopo, diventando la ragione e, perciò, elemento costitutivo di esso, è ammissibile la costituzione di parte civile di tale ente, sempre che dal danno sia derivata una lesione di un diritto soggettivo inerente allo scopo specifico perseguito. Pertanto è, in primis, configurabile, in capo alle associazioni ecologistiche, la titolarità di un diritto soggettivo e di un danno risarcibile, individuabile nella salubrità dell’ambiente, sempre che una articolazione territoriale colleghi le associazioni medesime ai beni lesi, sicché esse sono legittimate all’azione « aquiliana » per la difesa del proprio diritto soggettivo alla tutela dell’interesse collettivo alla salubrità dell’am-
— 1328 — Ebbene, senza appesantire troppo il passaggio, vale solo osservare che, al fine di ammettere la costituzione di parte civile per la lesione degli interessi in parola, i giudici hanno spesso compiuto vere e proprie alchimie, e ciò per rientrare sempre nella ‘‘categoria madre’’ del diritto soggettivo. Ossia, i giudici hanno ritenuto di potere qualificare come diritto soggettivo situazioni che col diritto soggettivo nulla o poco avevano a che vedere, al fine di poterle tutelare (27). Ora, se da un lato tali qualificazioni azzardate non sono sempre condivisibili (28), da altro lato appare lodevole l’intento di confermare, per dare una certa logica al sistema, il principio in virtù del quale, per costituirsi parte civile, era necessario aversi la lesione di un diritto soggettivo. In altre parole, ciò che appare degno di ogni rilievo è che per la giurisprudenza la chiave di volta, al fine di ritenere risarcibile un danno derivante da una certa lesione, era riuscire a considerare quel danno come derivante dalla lesione di un diritto soggettivo, così da potere restare nei sicuri confini già tracciati per la categoria. Eppure, nemmeno il sensibile legislatore del 1986 (29) era arrivato a dire che di fronte a certi importantissimi interessi (non qualificabili come biente’’. Seguendo questa decisione, però, si dovrebbe condividere l’assunto per cui un soggetto (collettivo), che abbia deciso del tutto autonomamente di farsi portatore di certe esigenze sociali, possa poi qualificare tale suo interesse come un vero e proprio diritto soggettivo, da tutelare con gli stessi strumenti previsti dalla legge per la categoria. È argomentare che non convince. (27) Cfr. Sez. I, 24 luglio 1992, Bono, in Giust. pen., 1993, II, c. 225; Sez. VI, 1o giugno 1989, Monticelli, in Cass. pen., 1990, p. 1546; Pret. Brescia, 28 giugno 1990, Piccardo, in Giur. merito, 1992, p. 140. (28) La dottrina aveva parlato, in proposito, di una distorsione dell’istituto della costituzione di parte civile, per consentire l’intervento di soggetti portatori di mere esigenze collettive, ma non certo di legittime richieste risarcitorie: cosi G. DI CHIARA, Interessi collettivi e diffusi e tecniche di tutela nell’orizzonte del codice del 1988, in questa Rivista, 1989, p. 435. Nello stesso senso, G. NOSENGO, in Comm. al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, UTET, 1989, vol. I, p. 419, secondo il quale ‘‘l’ingresso delle formazioni collettive nel processo penale, passando attraverso l’allargamento dei tradizionali presupposti per la costituzione di parte civile, ha finito per realizzarsi mediante una « slabbratura » dei criteri... il che ha comportato l’artificiosa dilatazione di un istituto avente, fisiologicamente, tutt’altra funzione’’. Sul punto, per F. IACOBONI, Soggetti e interessi emergenti nella costituzione di parte civile, in Quest. Giustizia, 1982, p. 282, ‘‘è prassi comune addurre la lesione solo morale dei menzionati interessi, con ciò conducendo, impercettibilmente, l’istituto verso finalità di mero interesse alla corretta applicazione della legge penale, recuperando in modo vieppiù stringente il rapporto di parallelismo con la funzione d’accusa’’. (29) Il riferimento è, ovviamente, alla l. 8 luglio 1986. n. 349, i cui artt. 13 e 18 si pongono come elementi di svolta nell’intervento di enti ed associazioni nel processo penale per reati ambientali. Si era, difatti, ammessa la Costituzione di parte civile degli enti rappresentativi degli interessi lesi dal reato (dunque, massimamente di interessi diffusi), purché essi avessero ricevuto un riconoscimento. Ossia, non era possibile che, come accaduto nel caso prima ricordato, l’ente si attribuisse un certo diritto (soggettivo), in quanto v’era la ne-
— 1329 — legittimi, né soprattutto come diritti soggettivi, ma) che si volevano tutecessità di un previo riconoscimento eterodeterminato. Che poi il riconoscimento fosse intervenuto a livello statale o locale poteva al più costituire un dettaglio. In dottrina, S. BELLOMIA, I cittadini, le associazioni e il danno ambientale: dalla « porta stretta » della legge n. 349 del 1986 ad una nuova ipotesi di partecipazione democratica, in Riv. giur. edil., 1990, II, p. 88; S. CINELLI, Sulla legittimazione a costituirsi parte civile delle associazioni ambientalistiche, in Cass. pen., 1995, p. 1934. Lucidamente, L. FRANCARIO, La tutela dell’interesse collettivo dei consumatori contro le frodi alimentari, in Riv. critica dir. priv., 1989, p. 323, si riferisce ad una: ‘‘esigenza mai sopita di garantire l’accesso nel processo penale alla tutela di interessi collettivi che, pur non potendo reclamare una violazione di situazioni protette dal diritto civile, appaiono egualmente interessate alla repressione dell’illecito’’. Cfr. altresì F. GIAMPIETRO, Danno all’ambiente e legittimazione al giudizio dello Stato, degli enti territoriali e delle associazioni protezionistiche, cit., p. 730; R. QUARTO-P. MENDOZA, La legittimazione delle associazioni ambientalistiche nei giudizi per danno ambientale, in Cass. pen., 1992, p. 805, per i quali, visto che le associazioni in parola non possono vantare alcun diritto soggettivo proprio, il loro intervento avviene ai sensi dell’art. 105 c.p.c con le forme dell’intervento adesivo dipendente. Appare piuttosto singolare la posizione di A. BARONE, Enti collettivi e processo penale, Giuffrè, 1989, p. 200, per cui gli enti disciplinati dalla l. n. 349/1986 sarebbero titolari di un diritto a costituirsi parte civile. Al fine non sarebbe di ostacolo il fatto che il legislatore abbia previsto la destinazione del risarcimento in favore dello Stato, ‘‘allorché si rifletta che l’intervento in questione non è preordinato al risarcimento del danno, essendo accostabile con tutta evidenza a quello che prescinde dalle « prove di danno diretto ed immediato ». Anche qui il legislatore... ha voluto riaffermare il principio della tutela partecipativa che non può essere disattesa mediante interpretazioni strettamente tecniche e tradizionali. Se non si può parlare di costituzione di parte civile in senso proprio, cioè tipico,... non si può escludere una costituzione di parte civile atipica, che prescinda cioè dal danno tradizionalmente inteso, evitando così di stravolgere la voluntas legis e togliere vigore ad una disposizione di legge che pur esiste’’. Ora, fermo restando che la costituzione di parte civile realizza già di per sé una forma atipica di esercizio dell’azione civile di danno (proprio perché in sede penale), non è chiarissima la ragione dl dovere addirittura ipotizzare nuove e non disciplinate forme dell’istituto che ci riguarda. Si tratterebbe, a tutta evidenza, di una interpretazione non tanto (e non solo) analogica in un campo in cui, semmai (e per quanto si osserverà in appresso) il criterio guida dovrebbe essere quello opposto, ma forse di ipotizzare istituti che lo stesso legislatore non ha mai previsto. Non appare ultroneo riportare le parole di un chiarissimo Autore, per cui, con la costituzione di parte civile ‘‘l’impressione superficiale è certo nel senso che una parte di più non può che giovare... Il fatto è, però, che l’intervento della parte civile altera quasi sempre l’atmosfera del processo... Il processo penale, che dovrebbe esaurirsi in una ricerca serena e pacata, diventa quasi sempre, quando vi agisce la parte civile, una accanita contesa. C’è di peggio, purtroppo. Non bisogna dimenticare che il processo penale, di per sé e tanto più... nel clima moderno, impone una grave, spesso gravissima, sofferenza all’imputato... basta il fatto innegabile che il processo penale importa, di per sé, un rischio e un danno assai più grave che il processo civile. Di qui la tentazione... di servirsi del processo penale, anzi che o oltre che del processo civile, per ottenere dall’altra parte ciò che si pretende... Il processo penale diventa così uno strumento di pressione con una inversione di quello che dovrebbe essere l’ordine delle iniziative: anzi che la parte civile intervenire in un processo promosso dal pubblico ministero, è la parte civile che opera in realtà da forza motrice del processo attraverso l’azione del pubblico ministero opportunamente e spesso inopportunamente sollecitata’’ (F. CARNELUTTI, Crisi della giustizia penale, in Riv. dir. proc., 1958, p. 3389.
— 1330 — lare nel modo più ampio, fosse possibile l’azione civile in sede penale liberamente, ossia con i criteri dettati in generale (oggi) dagli artt. 74 ss. c.p.p. Invero, l’art. 91 c.p.p. esattamente individua i poteri degli enti, rappresentativi di interessi lesi (30), all’interno del processo penale, nonché le modalità per il loro accesso, relegandoli in una posizione di ausilio dell’accusa pubblica, senza un interesse proprio da far valere e, massimamente, da risarcire. Almeno in questo senso, inoltre, non sembrava che vi fosse una gran differenza col danno risarcito vigente il sistema precedente, in quanto il più delle volte tali enti pretendevano di rivestire un ruolo nel processo penale al solo fine di sostenere meglio l’accusa, e chiedendo un risarcimento simbolico (nummo uno) (31). 3. Le decisioni della Cassazione, di cui si è detto, hanno inciso profondamente anche nel sistema dell’azione civile in sede penale, inducendo un ripensamento in relazione alla possibilità di costituirsi parte civile per il risarcimento del danno derivante da lesione di un interesse legittimo. (30) Si fa spesso il caso degli interessi diffusi. Per essi, da ultimo, D. CARLETTI, Lesione degli interessi diffusi, in AA.VV., I precedenti, la formazione giurisprudenziale del diritto civile, a cura di G. Alpa, UTET, 2000, vol. II, p. 1165 ss., per cui ‘‘già la stessa espressione « interessi diffusi » è stata indicata... formula « equivoca », da altri autori, forse postulando tale giudizio scettico, gli preferiscono invece altra terminologia, si allude spesso all’uso delle definizioni di interessi senza struttura o adespoti. Nella letteratura giuridica non è mancato infine chi, con l’intento di consentire l’accesso al giudizio, ha utilizzato il termine « interesse collettivo » come autentico sinonimo dell’interesse diffuso... Divergono sicuramente dagli interessi diffusi gli interessi di fatto caratterizzati da esigenze rilevanti soltanto economicamente o magari socialmente ma non tutelati giuridicamente, ed a volte rappresentano solo l’aspetto personale di un interesse. Da quanto detto emerge che le suddette istanze di tutela o magari di maggior tutela degli interessi in discorso, accompagnate alla richiesta di una partecipazione « generalizzata » ai correlati processi decisionali o gestionali, si sono andate a coagulare su un numero cospicuo di beni-valori indivisibili e non monetizzabili (quasi sempre di rilevanza costituzionale e numericamente in continua espansione nel tentativo di sottrarli, in alcuni casi, alla esclusiva ed « inadeguata » tutela in chiave individualistica) quali il patrimonio artistico, storico ed urbanistico dello Stato, l’ambiente nelle variegate componenti, la salute globalmente intesa, la migliore fruibilità dei servizi, la sicurezza delle strade pubbliche, la qualità dei prodotti di consumo, il risparmio, in maniera tale da tentare di garantire un generalizzato miglioramento delle condizioni di vita delle persone e mitigare con questo obiettivo le continue trasformazioni che la società impone... Bisogna operare una distinzione degli interessi diffusi da quelli, pur sempre metaindividuali, rappresentati dai collettivi. Questi ultimi... attengono e sono tipici di collettività « omogenee » a forte e stabile autorganizzazione (destinata a farli valere all’esterno) e sono qualificati proprio dai requisiti di appartenenza a quel gruppo non occasionale al quale normativamente il legislatore riconosce rilevanza’’. (31) Per tutti, G. BARONE, op. cit., p. 159. Nello stesso senso, S. COSTA, Sulla domanda di risarcimento del danno nella misura di una lira, in Riv. dir. proc., 1965, p. 471; F. IACOBONI, Soggetti e interessi emergenti nella costituzione di parte civile, in Quest. Giust., 1982, p. 283.
— 1331 — La costruzione merita di essere seguita, specie per quanto si osserverà in tema di stato attuale della materia. Il Supremo Collegio, come già osservato, ha posto, quale punto fondamentale del suo ragionamento, il principio per cui deve procedersi a risarcimento ogni qual volta risulti leso un interesse giuridicamente rilevante per l’ordinamento, senza, però, segnalare quali siano gli interessi di cui si discute, in considerazione dell’atipicità (32) della fattispecie disciplinata dall’art. 2043 c.c. Dunque, il giudice dovrà in primo luogo valutare se nel singolo caso l’attività della p.a. abbia leso un interesse giuridicamente rilevante, in quanto solo da una tale lesione può discendere la conseguenza risarcitoria. Poi dovrà, a seguito di un giudizio di comparazione fra l’interesse del soggetto che si assume leso e quello dell’autore del comportamento preteso lesivo, valutare se il sacrificio così imposto abbia o meno giustificazione nella prevalenza dell’interesse dell’autore della condotta in contestazione, ‘‘alla stregua dell’ordinamento positivo’’. Infine, dovrà verificare se la p.a. abbia o meno leso l’interesse al bene della vita cui l’interesse legittimo abbia a collegarsi, e che si mostri meritevole di tutela secondo l’ordinamento positivo. La dottrina ha prontamente posto in discussione tali passaggi che, almeno a prima vista, non appaiono adeguatamente sostenuti se non con l’intento di limitare la portata della decisione stessa. Si è, difatti, osservato che la serie di detti momenti nevralgici indicati dalle Sezioni unite civili (esistenza di un interesse legittimo; lesione-ingiustizia del danno; esistenza di un interesse al bene della vita violato e collegato all’interesse legittimo; meritevolezza di tutela in capo all’interesse stesso) non pare molto calzante, in quanto in tema di interesse legittimo unico parametro da sempre certo è che pacificamente esso costituisce una situazione soggettiva sicu(32) Ha precisato F.G. PIZZETTI, op. cit., p. 1387, ‘‘è questo uno dei passaggi più delicati della sentenza, soprattutto ai fini dell’applicazione pratica del principio affermato. Infatti, se la frontiera attuale del danno ingiusto è quella dell’interesse non tutelato dall’ordinamento (in quanto interesse di mero fatto) occorre definire quali siano gli interessi che, invece, l’ordinamento tutela. Si tratta di una definizione, enumerazione o classificazione che la stessa sentenza riconosce come impossibile a priori... Siamo in presenza di una impossibilità che è la conseguenza strutturale e necessaria della stessa collocazione sistemologica del modello italiano di responsabilità civile... Molto correttamente, dunque, il Supremo Collegio ha demandato al giudice il delicato compito di riconoscere, caso per caso, l’interesse meritevole di tutela e di accordare ad esso la protezione risarcitoria di cui all’art. 2043 c.c. Delicato sarà... il compito del giudice nel fissare il criterio di normale probabilità in base al quale stabilire se il privato poteva o meno aspettarsi l’esito positivo della domanda rivolta all’Amministrazione’’.
— 1332 — ramente meritevole di tutela (33); ciò è tanto vero che l’ordinamento ha apprestato una apposita tutela proprio per tale tipologia di interessi. Quindi, poiché l’interesse legittimo rappresenta una situazione giuridica soggettiva, la sua lesione ha da essere risarcita; null’altro serve, e men che mai un secondo giudizio in chiave di meritevolezza, già formulato con la stessa individuazione della categoria in parola (34). Volendo, però e comunque, arrivare alla individuazione degli interessi che sono suscettibili di tutela ai sensi di quanto osservato, ci si deve appuntare sulla comparazione fra gli interessi del danneggiato e del danneggiante, ed alla loro valutazione. Con tutte le difficoltà connesse al fatto che una delle parti di detto rapporto è una p.a., rappresentativa di una posizione di potere istituito per la generalità (35), ed a fronte della quale la (33) C. CASTRONOVO, L’interesse legittimo varca la frontiera della responsabilità civile, in Europa e diritto privato, 1999, p. 1270. (34) C. CASTRONOVO, op. loc. cit., per cui ‘‘accertata la situazione soggettiva lesa, è stato individuato tutto quanto l’ordinamento esige ai fini della qualificazione di ingiustizia del danno. Un giudizio di meritevolezza a valle di quello che è già pervenuto alla valutazione di ingiustizia non solo non è consentito all’interprete perché aggiunge alcunché ai requisiti messi insieme dalla legge nella fattispecie di responsabilità, ma è contraddittorio perché presuppone che possa non essere meritevole di tutela ciò che tale ormai risulta qualificato in seguito all’accertamento dell’ingiustizia’’. (35) Secondo A. ROMANO, Sono risarcibili; ma perché devono essere interessi legittimi?, in Foro it., 1999, I, c. 3224, ‘‘vi è un tratto di differenziazione della figura dell’interesse legittimo da quella del diritto soggettivo: l’interesse individuale che l’ordinamento tutela (solo) secondo il primo schema, lo è perché l’ordinamento medesimo lo pone come subordinato rispetto a quelli pubblici, che soggettiva nell’amministrazione; mentre quello che tutela (addirittura) secondo l’altro schema, lo è perché lo pone rispetto a questi in posizione paritaria; e addirittura, entro i limiti nei quali li tuteli come tali... Non è, dunque, che gli interessi legittimi, o, almeno, alcune loro categorie siano diventati risarcibili. È che gli interessi legittimi, o, meglio, alcune loro categorie, si sono trasformati in diritti soggettivi. E solo per questo mutamento della loro natura sono diventati risarcibili. In tutta la vicenda della risarcibilità dei cosiddetti interessi legittimi vi sono aspetti sconcertanti’’. Il riferimento è ovviamente ai principi comunitari, o di altri ordinamenti, che non conoscono la figura dell’interesse legittimo, e che pure la Cassazione pone a base della sua svolta epocale. Per l’Autore, invece, la tesi ora prospettata ‘‘non solo è più lineare... ma è soprattutto la più adatta per valutare l’ampiezza e la profondità dell’evoluzione in atto. Evoluzione che può così essere definita: una gamma sempre più ampia di interessi individuali, che l’ordinamento in precedenza subordinava a quelli collettivi che soggettiva nell’amministrazione, ora li contrappone ad essi. Nel senso che l’ordinamento medesimo media tra gli uni e gli altri, dettando l’assetto delle loro relazioni reciproche: stabilendo fin dove devono prevalere tali interessi collettivi, ossia limitando in modo corrispondente i poteri che attribuisce all’amministrazione per il loro perseguimento; e fin dove, viceversa, devono essere salvaguardati gli interessi individuali contrapposti, limitando in modo corrispondente i diritti soggettivi che così attribuisce al riguardo ai loro titolari’’. Sulla contrapposizione di posizioni, con particolare riguardo ai poteri tipicamente riconosciuti alla p.a., A DI MAJO, Il risarcimento degli interessi « non più solo legittimi », cit., p. 1379. Quanto al distinguo, anche con riferimento ad altri sistemi, si è detto che ‘‘la stessa
— 1333 — possibilità del privato di esprimere una doglianza potrebbe risultare menomata. Un primo passo significativo era stato fatto dal legislatore, ancor prima che dalla Cassazione, col d.lgs. n. 80/1998, il quale agli artt. 29 ss. aveva attribuito al giudice amministrativo la possibilità di apprezzare eventuali danni e procedere alla conseguente condanna. Dunque, da un lato il sistema presentava materie esclusivamente rimesse al giudice amministrativo, il quale poteva pronunciare anche in tema di danno. Da altro lato vi erano materie in cui il giudice civile conosceva (solo) incidentalmente dell’illiceità dell’atto amministrativo, e pronunciava esclusivamente in tema di danno (36). Elemento unico e sufficiente per accedere alla porta del risarcimento del danno risulta lo stesso interesse legittimo, inteso come situazione soggettiva e non come generale categoria; con esclusione, allora, dei meri interessi procedimentali, non direttamente collegati al bene della vita (37), scelta lessicale di qualificare alcuni interessi a beni della vita tutelati dall’ordinamento come diritti soggettivi ed altri come interessi legittimi sembra perdere progressivamente le sue solide basi. In quest’ottica, anche alla luce del diritto comunitario stesso che tali distinzioni non conosce e che si esprime sempre in termini di « diritti », varrebbe forse la pena di interrogarsi sulla necessità, attuale, di siffatte classificazioni terminologiche’’ (F.G. PIZZETTI, op. cit., p. 1388). (36) A. DI MAJO, op. cit., p. 1379 s., chiarisce il passaggio: ‘‘en revanche, è intervenuto il giudice ordinario, che si è preso anch’esso una sua fetta di potere, non coperta dalla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Alla cognizione piena di quest’ultimo (in termini di tutela: annullamento piu risarcimento) ha corrisposto dunque la cognizione, anch’essa piena, del giudice ordinario quanto all’oggetto della sua conoscenza (diritti e interessi nei riguardi della P.A.)’’. E prosegue nel senso che, in ordine alla cognizione del giudice ordinario, deve ammettersi ‘‘come gli interessi, dei quali esso oggi conosce, più non si comportano, almeno al suo cospetto, come interessi « legittimi » ma come interessi tout court, giuridicamente rilevanti... A tale conclusione sembra pervenire la sentenza n. 500, allorquando riferisce la lesione all’« interesse al bene della vita » al quale l’interesse legittimo si collega... Un siffatto sistema di tutela presuppone un passaggio necessario. E cioè che le situazioni soggettive di cui è parola siano sottoposte ad un duplice ordine di valutazioni, che non è detto debbano fra di loro coincidere. Da un lato, l’apprezzamento della situazione come interesse « legittimo » e ciò nei termini della (eventuale) illegittimità-caducazione del provvedimento amministrativo. Tale compito è riservato costituzionalmente al giudice amministrativo... Dall’altro lato spetta al giudice ordinario l’apprezzamento di tale situazione... in termini di liceità/illiceità dell’operato della P.A., con conseguente condanna al risarcimento. L’accertamento della illegittimità dell’azione amministrativa è solo un tassello, pur necessario, di tale giudizio’’. (37) Il punto è ricostruito in dottrina da A. DI MAJO, Danno ingiusto e danno risarcibile nella lesione di interessi legittimi, in Il Corriere giuridico, 2000, p. 328, per cui i riferimenti al ‘‘bene della vita’’, per la individuazione del danno risarcibile, in fin dei conti non hanno quell’importanza che la Cassazione sembrava avergli attribuito. ‘‘Del resto, quel passaggio, a ben riflettere, deve rivelarsi più tributario di ragioni di politica del diritto, al fine di evitare un impatto troppo brusco con l’assetto preesistente. Invece, l’alternativa è di considerare già l’interesse legittimo come situazione soggettiva (e non categoria)... autosufficiente al
— 1334 — per l’ovvia ragione che il privato non potrebbe trarre benefici di sorta dall’eventuale annullamento dell’atto. Questa, davvero per grandi linee, la situazione all’indomani del luglio 1999, ma prima del luglio 2000: per un anno si è avuta la detta dicotomia, non più basata sulla rigida separazione diritti soggettivi-interessi legittimi, ma piuttosto su nuovi criteri di materie, riservate per scelta del legislatore (38). 4. Il 21 luglio 2000 il legislatore, con l’intento di riordinare il sistema, ha dettato nuove norme in tema di giudizio amministrativo, mutando profondamente proprio la posizione in tema di cognizione (recte giurisdizione) e di risarcimento del danno (39). Invero, l’art. 7, l. n. 205/2000, modificando l’art 35, d.lgs. n. 80/1998 già ricordato, ha stabilito che d’ora in poi l’intera materia della responsabilità civile connessa all’operato della p.a. venga rimessa alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, con contestuale sottrazione di cognizione in capo al giudice ordinario dei casi di risarcimento del danno conseguente ad atto amministrativo illegittimo. Ovviamente, non è stata toccata la ormai accertata risarcibilità di tale tipo di danno; solo si è deciso di rimettere tutta la cognizione (sia in tema di illegittimità dell’atto, che in tema di risarcimento) ai TAR. In sostanza, qualora responsabile di un comportamento doloso o colfine di accedere alla risarcibilità del danno... A risultare esclusi dall’accesso alla soglia del « danno ingiusto » dovrebbero essere soltanto gli interessi definiti meramente procedimentali, ossia quegli interessi che non sono direttamente connessi a beni della vita. L’esclusione è qui giustificata dal fatto che non può ipotizzarsi una fattispecie di danno ove il privato non possa trarre alcuna utilità pratica dall’annullamento dell’atto illegittimo’’. (38) Il sistema in parola, in realtà, per quanto riguarda il risarcimento del danno nelle materie riservate al giudice amministrativo, per il limitato periodo indicato ha costituito una sorta di banco di prova, in cui il giudice si è preoccupato più del danno e del modo di quantificarlo, che non della responsabilità, come indicatagli dalle Sezioni unite civili (le ormai famose guidelines). Le prime decisioni sono state, da questo punto di vista, bene inquadrate da A. DI MAJO, Danno ingiusto e danno risarcibile nella lesione di interessi legittimi, cit., p. 328 ss., il quale ha affermato che ‘‘la sentenza n. 500/1999 ha indubbiamente rotto il muro della irrisarcibilità degli interessi legittimi... ma naturalmente, superato quel muro, non poteva in pari tempo provvedersi a ricomporre unitariamente un quadro normativo e giurisprudenziale, quale risultante dal superamento... Si deve constatare... come lo spazio che i giudici riservano alla ricerca della ingiustizia del danno si rivela piuttosto modesto’’. Sempre in merito al danno ingiusto ha osservato V. CARBONE, La responsabilità per violazione degli interessi legittimi come prospettiva di legalità per la P.A., in Il Corriere giuridico, 2000, p. 316, con riferimento al discorso che ci interessa, che il danno ingiusto ‘‘è rappresentato dalla ripercussione patrimoniale negativa subita dal ricorrente’’. (39) Per un generale commento in ordine alla portata dell’intervento del legislatore, C. CONSOLO, Il processo amministrativo fra snellezza e « civilizzazione », in Il Corriere giuridico, 2000, p. 1265 ss.
— 1335 — poso (ai sensi dell’art. 2043 c.c.) sia una p.a. ogni eventuale conseguenza patrimoniale dannosa verrà rimessa alla cognizione del giudice amministrativo, con esclusione di quello ordinario. Immediata, in merito, una censura della dottrina, che ha colto prontamente un aspetto di primaria importanza: nonostante si discuta di risarcimento del danno extracontrattuale, il controllo di legittimità (40) della Suprema Corte, con il nuovo sistema, viene eliminato nel caso in cui, appunto, parte sia una p.a. È, invero, una critica davvero convincente, in quanto non si capisce bene perché, una volta stabilito che il comportamento causativo di danno della p.a. dà luogo a risarcimento come il comportamento di qualunque altro soggetto (pur con tutte le comparazioni di cui sopra), non sia poi possibile suscitare il controllo dell’organo di vertice dell’ordinamento giudiziario. Anzi! da (una parte di) un campo così importante come quello del risarcimento del danno extracontrattuale viene espunta sic et simpliciter la funzione nomofilattica (e la correlativa garanzia di legittimità). In definitiva, e per chiudere il passaggio, almeno allo stato, e salvi eventuali interventi della Corte costituzionale e/o del legislatore, il sistema che si presenta è quello appena descritto. (40) Critico e alquanto scettico sul punto, V. CARBONE, Dannosità e illegittimità dell’atto amministrativo prima della l. 205/2000 e della sentenza n. 292/2000 della Corte costituzionale, in Il Corriere giuridico, 2000, p. 1141 s., che osserva: ‘‘con l’inizio del nuovo millennio queste diverse e successive formulazioni dell’art. 35, comma 4, hanno modificato profondamente il vecchio riparto di giurisdizione ribadito nell’art. 7 comma 3 che riserva « sempre » al giudice ordinario le questioni attinenti ai diritti patrimoniali consequenziali, ivi compreso il risarcimento del danno. Non è possibile, oggi, prevedere se questa riforma, così incisiva, resisterà al vaglio dell’incostituzionalità, in quanto la l. 205/2000 sottrae al controllo di legittimità della Corte di cassazione interi settori di violazione dei diritti con risarcimento del danno, sia se connesso alla giurisdizione generale di legittimità, sia appunto di fronte alle nuove fattispecie di giurisdizione esclusiva della P.A. La stessa tenuta costituzionale del sistema del riparto di giurisdizione viene messa in crisi dalle nuove scelte del legislatore, perché l’ultimo comma dell’art. 111 Cost... nel limitare i ricorsi alle sezioni unite della Cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato ai soli motivi inerenti alla giurisdizione, presupponeva il carattere del tutto eccezionale delle ipotesi di giurisdizione estesa ai diritti, ma non al risarcimento del danno perché, prima delle modifiche operate con il comma 4 dell’art. 35 del d.lgs. 80/98 i diritti patrimoniali consequenziali, in base al comma 3 dell’art. 7 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 e al comma 2 dell’art. 30 r.d. 26 giugno 1924, n. 1054 erano attribuiti in ogni caso alla giurisdizione del giudice ordinario. La riforma del primo e quarto comma dell’art. 35 meritano un’attenta riflessione. Con le nuove disposizioni tutte le controversie sulla responsabilità della pubblica amministrazione per danno ingiusto appartengono al giudice amministrativo e il giudice ordinario non deve sindacare, neppure ai soli fini della responsabilità per danni, la discrezionalità della P.A. La P.A. che per anni ha voluto evitare la risarcibilità della lesione degli interessi legittimi, se proprio deve subire questa svolta di fine millennio, si sente più tranquilla se almeno le relative controversie siano affidate ad un giudice più « vicino », nel senso di più « attrezzato » a capire e valutare gli eventuali errori compiuti nell’esercizio dell’attività amministrativa’’.
— 1336 — 5. Numerose ed importanti le implicazioni in tema di costituzione di parte civile. Subito dopo le ricordate decisioni delle Sezioni unite civili, e prima della 1. n. 205/2000, si parlava del riconoscimento della risarcibilità anche del danno derivante dalla lesione di un interesse legittimo (recte di un interesse giuridicamente rilevante per l’ordinamento e meritevole di tutela); si era osservato che, almeno entro certi limiti e secondo una interpretazione tendenzialmente restrittiva dell’art. 185 c.p., un simile danno, ove derivante dalla commissione di un fatto di reato, avrebbe giustificato la costituzione di parte civile del danneggiato. Veniva così superata la posizione in virtù della quale, come già ricordato, la costituzione poteva avvenire solo in dipendenza della lesione di un diritto soggettivo, causativa di un danno derivante dal reato in modo diretto ed immediato. Peraltro, il riferimento al ‘‘diritto soggettivo’’ non andava inteso che in senso meramente indicativo (e comunque non rigido), designante, appunto, una categoria di situazioni analoghe, ed in ogni caso già pacificamente rientranti nella fattispecie dell’art. 2043 c.c. Come passaggi esemplificativi vengono in mente primariamente i cc.dd. diritti relativi; le lesioni all’integrità del patrimonio, non immediatamente incidenti su un diritto soggettivo (si pensi all’ipotesi della truffa); la lesione alla libertà nella determinazione negoziale: la lesione di legittime aspettative, ad es. nel caso dei rapporti di diritto di famiglia. Tratta(va)si di situazioni sicuramente ricomprendibili nell’illecito aquiliano, e dunque pacifica origine della costituzione di parte civile (41). Arricchendosi l’art. 2043 c.c di nuove figure, deve sottoporsi a rimeditazione anche il principio ora ricordato della (limitata) possibilità di costituirsi parte civile. Secondo la posizione di maggioranza prima ricordata, l’art. 185 c.p. è una specificazione (importantissima) della generale figura di cui all’art. 2043 cit. La norma, però, opera un richiamo, francamente importante, alle leggi civili. In altre parole, il danno conseguente al reato obbliga alle restituzioni ed al risarcimento del danno a norma delle leggi civili. Orbene, poiché la presenza della parte civile in sede penale, ormai tradizionalmente riconosciuta dal nostro ordinamento per motivi superiori, primo fra tutti quello dell’unitarietà (od unicità) della giurisdizione (42) opera inevitabilmente uno snaturamento e dell’azione civile (41) Il fenomeno, ben ricostruito nelle decisioni delle Sezioni unite civili in argomento, viene riportato in E. SQUARCIA, Costituzione di parte civile ed interessi legittimi, cit., p. 1543, nota 30. (42) Il principio dell’unicità della giurisdizione, come ragione giustificatrice per la esperibilità dell’azione civile in sede penale, è affermato dalla prevalente dottrina. L’istituto della parte civile, si è detto, realizza un potenziamento del processo penale, che non si pone in contrasto con la domanda propria della parte civile, ossia il risarcimento del danno e le re-
— 1337 — propriamente intesa, e dell’azione penale, che viene così costretta ad occuparsi di questioni non immediatamente attinenti al fatto di reato, secondo una interpretazione che può dirsi pacifica, alcuni contemperamenti debbono venire tenuti presenti, anche considerato che, almeno tendenzialmente, l’azione civile in sede penale è stata ritagliata sul modello dell’azione civile (43) ordinaria (i compilatori parlano di criteri cui ci si deve ispirare). Da ciò il passo di sostenere che non dovrebbe procedersi ad interpretazioni estensive delle norme in tema di costituzione di parte civile, attesa la loro eccezionalità (44), è davvero breve. Non è raro assistere ad ordinanze che negano l’ammissibilità della costituzione di parte civile proprio in considerazione, ad es., del tipo di danno azionato. Il discorso necessitava di ancora maggiore attenzione a seguito, come ormai fin troppe volte ripetuto, non solo delle decisioni della Corte di legittimità (civile), ma altresì delle disposizioni del d.lgs. n. 80/1998, profondamente innovative in tema di riparto della giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo (si è già osservato che il legislatore aveva ritenuto di abbandonare il tradizionale riparto diritti soggettivi-interessi legittimi, preferendo ora un nuovo riparto c.d. ratione materiae). E così, al giudice amministrativo era stata riservata integrale cognizione sia in ordine all’eventuale annullamento dell’atto amministrativo che in ordine al risarcimento del danno patito, ma solo per certe materie; al giudice stituzioni eventuali, né con l’essenza stessa dell’azione civile; anzi, verrebbero a convergere due interessi, quello pubblico e quello privato, in un unico rapporto processuale, per l’appunto fondato sull’unitarietà della giurisdizione (Gius. SABATINI, L’immanenza della costituzione di parte civile, in Giur. pen., 1951, III, c. 202). Altro chiaro Autore ha sottolineato che il principio dell’unicità della giurisdizione giustifica la ‘‘trasferta’’ dell’azione civile in sede penale ‘‘anche perché mentre illumina la ratio legis che consente la proposizione o il trasferimento di una azione civile nel processo penale, non pregiudica, né contrasta l’accostamento dommatico della parte civile all’intervento del terzo, della cui natura giuridica coglie innegabili analogie, certo non trascurati gli speciali adattamenti che l’istituto del processo civile deve logicamente subire’’ (G. BELLAVISTA, Azione civile nel processo penale (voce), in Nov.mo Digesto it., UTET, 1958, vol. II, p. 55; cfr. altresì E. CAPALOZZA, Parte civile (voce), in Nov.mo Digesto it., 1965, vol. XII, p. 468). Recentemente, P. DELLA SALA, Natura giuridica della azione civile nel processo penale e conseguenze sul danno, in questa Rivista, 1989, p. 1108, ha messo in dubbio la permanenza di validità in capo al detto principio, vigente il codice Vassalli. Peraltro, non sembra che possa seriamente dubitarsi del fatto che anche il nuovo legislatore abbia voluto rifarsi al principio stesso (E. SQUARCIA, La revoca tacita della costituzione di parte civile e si applica anche nel giudizio di appello, in Cass. pen., 1998, p. 2161). (43) Espressamente, il legislatore delegato del 1988, nella redazione del codice di procedura penale, ha perseguito ‘‘l’intento di assimilare — ovviamente nei limiti della compatibilità — il trattamento della dichiarazione di costituzione di parte civile al trattamento riservato alla vocatio in iudicium ed all’acquisto della qualità di parte di chi propone l’atto di citazione in sede civile’’, in questi termini, Rel. prog. def., in Il nuovo codice di procedura penale, a cura di G. Lattanzi e E. Lupo, Giuffrè, 1989, p. 174. (44) E. SQUARCIA, Costituzione di parte civile ed interessi legittimi, cit., p. 1544.
— 1338 — civile, invece, restava la competenza sulle altre materie, senza però la possibilità di pronunciare l’annullamento (45). Dunque, si era osservato, il soggetto leso dall’atto amministrativo, nelle materie non espressamente riservate al giudice amministrativo, avrebbe potuto adìre il giudice ordinario, per chiedere il risarcimento del danno: il giudice ordinario, dal canto suo, per giungere ad una siffatta decisione, avrebbe potuto conoscere incidentalmente della illegittimità dell’atto amministrativo, ma non certo annullarlo, in quanto un simile potere era e restava del solo giudice amministrativo (46). Stando le cose in questi termini, sembrava corretto affermare, nella già segnalata interpretazione restrittiva dell’art. 185 c.p. (e comunque delle ipotesi in presenza delle quali è ammissibile la costituzione di parte civile) che potesse adirsi il giudice penale per il risarcimento del danno nelle sole fattispecie disciplinate dalle sole leggi civili (fossero esse sostanziali o processuali). In conseguenza, e venendo più direttamente al tema dell’interesse legittimo, la lesione di quest’ultimo, causativa di danno, (45) Cfr. L. SCODITTI, L’interesse legittimo e il costituzionalismo. Conseguenze della svolta giurisprudenziale in materia risarcitoria, cit., c. 3226. Secondo l’Autore, dopo le ormai note decisioni delle Sezioni unite civili, ‘‘con riferimento al privato che agisca davanti alla giurisdizione ordinaria, esso viene liberato dall’onere aggiuntivo costituito dalla necessità di previamente agire in sede giurisdizionale amministrativa onde ottenere l’annullamento dell’atto. Tale onere evidentemente non è richiesto quando la controversia attenga ad una materia rientrante nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, nel cui ambito... può condannare anche al risarcimento del danno... Per altro verso, l’affermazione secondo cui non sussiste pregiudizialità amministrativa non esclude che il ricorrente decida anche in via giurisdizionale amministrativa e, parallelamente, proponga l’azione di risarcimento danni innanzi al giudice ordinario’’. Ovvio che una decisione di rigetto del giudice amministrativo, in questo caso, impedirebbe al giudice ordinario di pronunciarsi a favore dell’attore. Come osservato, i rilievi in parola valevano fino all’intervento del legislatore del 2000. V. altresì A. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè, 1999, p. 587; F. FRACCHIA, op. cit., c. 3216. (46) Della farraginosità di detto sistema si è già detto. Peraltro, anche in presenza di una simile censura, l’intervento del legislatore del 1998 merita ogni più ampia attenzione. Secondo F.G. PIZZETTI, op. cit., p. 1385, ‘‘le peculiarità di tale atto normativo sono di un duplice ordine. Per un verso, infatti, il decreto legislativo in questione amplia in misura considerevole l’area della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e, per l’altro, pur adoperando la formula codicistica del danno ingiusto, stabilisce implicitamente che nelle materie riservate a tale giurisdizione esclusiva del G.A., quest’ultimo può conoscere anche del risarcamento dei danni patrimoniali consequenziali, ivi compresi quelli derivanti da lesione di interesse legittimo. L’ampliamento stesso della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dimostra inequivocabilmente la tendenza in atto nel nostro ordinamento ad abbandonare il modello del riparto di giurisdizione fondato sulla posizione giuridica vantata dal soggetto a favore di un modello di tipo diverso costruito su cataloghi omogenei di materie secondo l’esperienza d’Oltralpe. Una tale tendenza fa sì che si affievoliscano le stesse ragioni storiche che... hanno presieduto alla nascita ed all’affermarsi dell’interesse legittimo’’.
— 1339 — avrebbe potuto dare luogo alla costituzione di parte civile esclusivamente ove si fosse trattato di una di quelle materie conoscibili dal giudice civile, con esclusione di quelle rimesse integralmente al giudice amministrativo. In sostanza, non ogni danno derivante da lesione di interesse legittimo sembrava tutelabile innanzi il giudice penale, ma solo quel danno espressamente perseguibile (in sede civile) a norma delle (sole) leggi civili. Il contenimento sembrava corretto e percorribile. Più in dettaglio, appariva corretta l’affermazione per cui la costituzione di parte civile per la lesione di un interesse legittimo poteva considerarsi ammissibile soltanto per quegli interessi legittimi non espressamente riservati al giudice amministrativo dagli artt. 29 ss. d.lgs. n. 80/1998. Peraltro, non sfuggiva una certa complicatezza di siffatta posizione, la quale aveva lo svantaggio di imporre al giudice penale lo sgradito compito di operare un distinguo fra più tipi di interessi legittimi, e valutare la ammissibilità della relativa domanda: ammissibile dunque la costituzione in tema di lesione conoscibile dal giudice civile (47). 6. Alla luce del nuovo intervento legislativo, la posizione così abbozzata non manifesta più pregio, e sembra da rimeditare integralmente. Il legislatore, si è detto, ha inciso in maniera profonda sul sistema di riparto della giurisdizione. In conseguenza, a seguito della l. n. 205/2000, ‘‘il giudice ordinario non potrà più conoscere della risarcibilità degli atti amministrativi illegittimi, così come già avveniva precedentemente alla sentenza n. 500/1999, non per il principio ormai caducato della irrisarcibilità, ma per sopravvenuto difetto di giurisdizione del giudice ordinario, essendo l’intera materia della responsabilità civile connessa all’attività amministrativa della p.a., devoluta... al giudice amministrativo. In altri termini, non si dovrebbe perdere il valore ormai acquisito, per (47) Poiché il pensiero, ora in fase di correzione, è stato espresso, vigente il sistema c.d. transitorio, da questo scrivente, se ne deve riportare un passaggio: ‘‘la costituzione di parte civile dovrebbe considerarsi ammissibile solo ove con essa venga chiesto il risarcimento del danno da lesione di un interesse legittimo, la cui cognizione non sia riservata esclusivamente al giudice amministrativo dagli artt. 29 e segg. d.lgs. n. 80/1998. Solo in tal caso, difatti, risulterà osservata la prescrizione dell’art. 185 c.p. (recepito dall’art. 74 c.p.p.), per cui l’azione civile derivante dalla commissione di un reato deve svolgersi secondo le leggi civili, pur se in sede penale. Una estensione della domanda risarcitoria a fattispecie sottratte alla cognizione del giudice civile non appare, difatti, del tutto coerente. Essa sembrerebbe una sorta di interpretazione ed applicazione analogica delle norme in tema di costituzione di parte civile pure a fattispecie non disciplinate dall’art. 185 c.p... Ovviamente, definire detto distinguo costituisce un compito ulteriore e di non facile soluzione che verrà demandato al giudice penale, il quale, oltre alle valutazioni sulla sussistenza delle condizioni di ammissibilità solitamente richieste, dovrà altresì verificare che non si controverta in tema di domande risarcitorie e/o restitutorie devolute al giudice amministrativo. In tale seconda ipotesi, infatti, la declaratoria di inammissibilità... dovrebbe discendere consequenzialmente.
— 1340 — il cittadino, della risarcibilità degli interessi legittimi lesi dall’illegittimità dell’atto amministrativo, ma il relativo risarcimento dei danni andrà sempre richiesto al giudice amministrativo, come una tutela risarcitoria, connessa a quella specifica dell’annullamento dell’atto, sia nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, sia in quella assai più diffusa di giurisdizione di legittimità’’ (48). Il passaggio, così lucidamente espresso, può verosimilmente, e per quanto qui interessa, stigmatizzarsi come segue: determinati danni derivanti da lesione di interesse legittimo, prima ritenuti irrisarcibili tout court, sono oggi invece risarcibili a norma dell’art. 2043 c.c., e dunque (per lo meno in senso sostanziale) a norma delle leggi civili. Essi, tuttavia, possono venire conosciuti solo dal giudice amministrativo (49), il quale, però, tale cognizione piena avrà si in base alla nuova l. n. 205/2000, ma, in generale, in base sempre a leggi pacificamente definibili civili (50) (si versa in materia risarcitoria extracontrattuale). Se ciò è vero (e non sembra vi siano ragioni fondate per dubitarlo), può, riassuntivamente, affermarsi che oggi come oggi il danno da lesione di un interesse legittimo viene risarcito alla stregua dei principi generali in tema di danno, pur se la cognizione è affidata (potrebbe specificarsi ratione materiae) al giudice amministrativo integralmente, e cioè senza più quei limiti in un primo tempo stabiliti dall’art. 35 d.lgs. n. 80/1998. Stante ciò, sembra allora davvero difficile sostenere ancora una (sempre auspicabile, ma in via generale) lettura in senso restrittivo dell’art. 185 c.p., nella direzione di limitare, per quanto possibile, la costituzione di parte civile, in presenza della lesione di interessi legittimi, ovviamente derivante da reato. Segnatamente, non essendovi più due ‘‘diverse’’ categorie di interessi legittimi (conoscibili, in punto di risarcimento del danno, l’una dal giudice ordinario, l’altra dal giudice amministrativo), si presenta all’interprete una sola alternativa: o considerare ogni lesione di interesse legittimo come va(48) Così, V. CARBONE, Dannosità e illegittimità dell’atto amministrativo prima della l. 205/2000 e della sentenza n. 292/2000 della Corte costituzionale, cit., p. 1137. (49) Gli interventi più recenti, soprattutto alla luce della giurisprudenza in corso di formazione, sono di F. FRACCHIA, Giurisdizione esclusiva, servizio pubblico e specialità del diritto amministrativo, in Foro it., 2000, III, c. 368; D. DALFINO, art. 33 d.lgs. 80/98: La nozione di « pubblici servizi » secondo le sezioni unite, ivi, I, c. 2210; A. TRAVI, Giurisdizione esclusiva e legittimità costituzionale, ivi, I, c. 2399; F. FRACCHIA, Risarcimento danni da c.d. lesione di interessi legittimi: deve riguardare i soli interessi a « risultato garantito »?, ivi, III, c. 479. Si segnala, per uno sguardo di insieme, AA.VV., Verso il nuovo processo amministrativo, a cura di V. Cerulli Irelli, Giappichelli, 2000. (50) Per un commento generale relativo alla materia dei diritti soggettivi, devoluti alla cognizione del giudice amministrativo dalla l. n. 205/2000. G. VERDE, Ancora su arbitri e Pubblica Amministrazione (in occasione della L. 21 luglio 2000, n. 205), in Riv. dell’arbitrato, 2000, fasc. 2, con ampia rassegna di dottrina.
— 1341 — lido presupposto per la costituzione di parte civile; o considerare che l’interesse legittimo non rientra fra le fattispecie previste dall’art. 185 c.p. La seconda via, però, alla luce di tutto quanto sinora osservato, specie in ordine all’interpretazione offerta dal Supremo Collegio, appare davvero difficoltosa. In realtà, posto che secondo la nuova interpretazione, fornita in modo più che adeguato dalla Cassazione, la lesione di un interesse legittimo (o comunque di un interesse meritevole di tutela) obbliga il soggetto agente al risarcimento (ed alle restituzioni), e ciò in base all’art. 2043 c.c.; e posto che il legislatore ritiene che della cognizione integrale della fattispecie debba, in via ordinaria, occuparsi il giudice amministrativo, le condizioni poste dall’art. 185 c.p. appaiono soddisfatte. Vi è un danno; il danno è risarcibile; il risarcimento avviene in base alle leggi civili. In conclusione, appare corretto affermare che il soggetto il quale abbia subito un danno, causato dalla lesione di un interesse legittimo, e derivante dal reato in modo diretto ed immediato, potrà legittimamente adìre, a sua scelta, il giudice amministrativo per la relativa azione ordinaria, ovvero il giudice penale a mezzo della costituzione di parte civile. Ulteriore corollario di cui dovrà tenersi conto è la necessità di rileggere l’art. 75 c.p.p. in relazione ai rapporti fra giudizio penale e (oggi) giudizio amministrativo. Sembra, difatti, che le ipotesi ivi previste di trasferimento dell’azione risarcitoria dalla sede penale a quella civile e viceversa debbano ricevere analoga applicazione anche nell’ipotesi di cui si discorra di interessi legittimi, e dunque di azione da esercitare davanti al giudice amministrativo (competente, per quanto qui rileva, negli stessi termini in cui prima lo era il giudice ordinario). 7. In perfetta sintonia con la premessa, questo discorso può sì fondatamente considerarsi sostenibile, ma solo fino ad oggi. Invero, già nelle more della redazione di questo scritto l’intera vicenda è stata rimessa alla Corte costituzionale, con riferimento all’art. 34 d.lgs. n. 80/1998, per ritenuta incostituzionalità rispetto agli artt. 3, 24, 25, 100, 102, 103, 111 e 113 della Costituzione (51). Come si evince immediatamente, si tratta non tanto di una congerie di violazioni davvero rilevante, quanto piuttosto della incostituzionalità della fondamentale norma (52) che, come modificata dalla l. n. 205/2000, ha devoluto al (51) Tribunale di Roma, Giudice Lamorgese, ord. 16 novembre 2000, in Il Corriere giuridico, 2001, p. 72. Col provvedimento in oggetto è stata sollevata d’ufficio l’indicata questione di legittimità costituzionale, sorretta da una argomentazione non solo approfondita e giuridicamente ineccepibile (salvo, ovviamente, diverso avviso del giudice delle leggi), ma altresì completa sia storicamente che scientificamente, ed arricchita da un ampio panorama della giurisprudenza e di analoghe esperienze di altri Paesi. (52) Si rifletta, a mero titolo esemplificativo, che sono stati attribuiti al giudice am-
— 1342 — Giudice Amministrativo la cognizione di tutte le controversie in cui parte sia una p.a. Del resto, si è avuto un ‘‘primo assaggio’’ del pensiero della Corte costituzionale (53) in ordine all’art. 33, d.lgs. n. 80/1998, che non lascia certo presagire una tenuta della normativa così come modificata (54). ministrativo poteri tipici del giudice ordinario, sia in materia probatoria, che in materia di provvedimenti di condanna anticipata e di urgenza. Ovvio che trattasi di strumenti incompatibili con l’originaria funzione di controllo di legittimità sugli atti della p.a., riservata al giudice amministrativo. (53) Cfr. Corte cost., 17 luglio 2000, n. 292, in Foro it., 2000, I, c. 2393, per cui ‘‘è incostituzionale l’art. 33, comma 1, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, nella parte in cui, eccedendo la delega conferita dall’art. 11, comma 4, lett. G), l. 15 marzo 1997, n. 59, istituisce una giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di pubblici servizi, anziché limitarsi ad estendere in tale materia la giurisdizione del giudice amministrativo alle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali consequenziali, ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno, e di conseguenza il comma 2, contenente esemplificazione delle controversie in materia di pubblici servizi. È incostituzionale l’art. 33, comma 3, ... in quanto attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la cognizione delle controversie riguardanti indennità, canoni ed altri corrispettivi nella concessione di pubblici servizi’’. (54) In modo sicuramente incisivo e perplesso in ordine alla tenuta costituzionale della novella, V. CARBONE, È costituzionale il nuovo riparto di giurisdizione?, in Il Corriere giur., 2001, p. 79. Secondo l’Autore, oltre le censure già prima ricordate, la stessa procedura di emanazione della disciplina solleva non infondate perplessità; il passaggio merita ogni attenzione: « con un’insolita, e quindi, sospetta solerzia, mentre la Corte costituzionale interveniva sul riparto determinato dagli artt. 33, 34 35 d.lgs. 80/1998, pervenendo ad un giudizio di illegittimità costituzionale per eccessodei limiti fissati nella delega (art. 11 co. 4 lett. G) l. 15 marzo 1997, n. 59) con sentenza n. 292 del 2000 deliberata l’11 luglio, depositata il 17 luglio e pubblicata il 19 luglio, lo stesso giorno 19 il Parlamento approvava, dopo un inconsueto balletto tra sede deliberante e referente nello stesso giorno, il nuovo testo della l. 205/2000. Quante volte la Corte ha sollecitato inutilmente la proverbiale inerzia del legislatore a colmare le carenze normative, ma questa volta non era stata ancora formulata la clausola di rito che il Parlamento non solo aveva sanato l’eccesso di delega, ma aveva portato avanti il disegno riformatore di sottrarre al giudice ordinario... la tutela risarcitoria del cittadino per la dannosità degli atti illegittimi della p.a., per affidarla al giudice amministrativo sia se si tratti di giurisdizione esclusiva, estesa anche ai diritti, sia se si tratti della sola giurisdizione di mera legittimità... Ancora una volta... lo Stato, che per anni aveva evitato di risarcire la lesione degli interessi legittimi, ha ritenuto, di fronte all’inevitabile svolta di fine millennio, preferibile il ritorno al sistema del contenzioso amministrativo abolito dallostato liberale del 1865, affidando le relative controversie di risarcimento del danno ad un giudice, « più vicino », più « attrezzato » e, in definitiva più « incline » a comprendere e valutare gli eventuali errori compiuti nell’esercizio dell’attività amministrativa. Dal rifiuto di una giurisprudenza non gradita — ritenuta, a torto o ragione, favorevole al cittadino e al contempo pregiudizievole per gli interessi economici della p.a., esposta a richieste di risarcimento — emerge, da un lato, la ribadita sfiducia dello Stato italiano, per quanto concerne i rapporti tra la p.a. e il privato, della funzione giurisdizionale ordinaria esercitata con caratteri di indipendenza, autonomia e terzietà, e dall’altro, la riaffermata completa fiducia nella giustizia amministrativa ». Meno scettico, A. DI MAJO, Chi è il giudice dei diritti?, ivi, p. 90, per cui « ormai la
— 1343 — Non stupirebbe, quindi, trovarsi a rimeditare nuovamente tutte le conclusioni cui si è giunti, a seguito di un nuovo intervento (magari illuminato), che riordini la materia una volta per tutte. Invero, il tentativo del legislatore del 2000, di attribuire integralmente la cognizione di una certa materia ad un certo giudice, è stato non solo criticato ma, come detto, duramente tacciato di incostituzionalità. Eppure, almeno per una volta, non sembrava così assurda la decisione di eliminare ogni incertezza sulla giurisdizione in ordine a rapporti con la p.a., in luogo di una divisione per singoli tipi di conflitto, che poteva agevolmente ingenerare confusione. Ma tant’è. Avv. EMANUELE SQUARCIA
‘‘materia’’ è indice sintomatico di pubblica funzione e degli effetti e conseguenze di essa è giudice unico quello amministrativo. Il maggiore guadagno è del cittadino che non è costretto ad arrovellarsi circa il giudice cui ricorrere, perdendo tempo e danaro. Se poi la tutela (avanti il giudice amministrativo) darà i risultati sperati, e ciò in termini di effettività, sarà l’esperienza a dirlo, non l’opinione dei savant. Le difficoltà cui andrà incontro il giudice amministrativo sono proprio quelle, e specie quelle, di non dimenticare le « dimensioni civilistiche » del conflitto per perseguire bilanciamenti di interessi alla stregua di criteri di policy che possono risultare discutibili ».
NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO
LA TUTELA DELLE ACQUE NELL’ORDINAMENTO INGLESE
PREMESSA Per affrontare in modo corretto lo studio dell’inquinamento delle acque e degli strumenti giuridici di cui un ordinamento si serve per prevenire questo fenomeno, è necessario fare una premessa fondamentale: in natura non esiste acqua completamente pura. L’acqua, infatti, presenta sempre un certo grado di impurità in dipendenza di fattori geologico-ambientali. Quando si parla di inquinamento delle acque in senso tecnico, però, non ci si riferisce a questo tipo di impurità, ma a quello determinato dall’uomo nell’opera di modificazione dell’ambiente — e quindi, direttamente o indirettamente, delle acque — finalizzata a renderlo più consono alle proprie esigenze. La responsabilità, civile e penale, per l’inquinamento idrico sorge così in conseguenza dell’alterazione della qualità naturale — di per sé non perfettamente pura — di un corso d’acqua. Alterazione che può riguardare le caratteristiche fisiche (colore, temperatura, volume), chimiche (durezza, presenza di determinati elementi chimici quali l’ammonio e l’azoto), biologiche (soprattutto in riferimento ai batteri che sottraggono ossigeno all’acqua). Si parla di inquinamento, quindi, quando in conseguenza dell’attività umana si verifichi l’alterazione di una o più di queste caratteristiche. Tanti possono essere i fattori che concorrono ad inquinare le acque. Limitandoci ad analizzare i principali, si possono menzionare le acque di rifiuto (dette anche acque di scarico o, ancora, liquami), gli scarichi commerciali e industriali, gli scarichi provenienti dall’attività mineraria, nonché dall’attività agricola. Le acque di rifiuto consistono in liquidi di scarico di origine domestica che, se non vengono sottoposti ad adeguato trattamento, prima di essere scaricati nei corsi d’acqua o in mare, possono avere un effetto inquinante di grave entità, in quanto determinano una grave alterazione della qualità biologica dell’acqua. Esse, infatti, hanno una grande capacità di sottrazione d’ossigeno all’acqua in cui vengono scaricate che, nei casi più gravi e a lungo andare, può determinare l’asfissia dei pesci e delle altre forme di vita acquatica. I rifiuti provenienti dalle attività commerciali e industriali possono essere direttamente scaricati dal produttore nelle acque, quando vi sia un’autorizzazione statale, altrimenti devono essere, prima, convogliati attraverso canali di scolo verso le opere fognarie per essere sottoposti ad un trattamento di depurazione, e poi scaricati nelle acque in qualità di rifiuti trattati. Se lo scarico di rifiuti commerciali e industriali non avviene in uno di questi modi, sorge il pericolo di gravi forme di inquinamento, in quanto detti rifiuti possono cagionare forti alterazioni delle qualità fisiche, chimiche o biologiche dell’acqua, a seconda del tipo di materiale scaricato (1). (1)
Nel 1996 è stato rilevato che l’89% dell’inquinamento delle acque inglesi è stato
— 1345 — I rifiuti dell’attività mineraria (2) consistono nei materiali sedimentosi provenienti dal lavaggio dei minerali. Lo scarico di essi determina un forte aumento della presenza di corpi solidi nell’acqua e quindi un’alterazione del volume, oltreché della colorazione, dell’acqua con effetti dannosi per la fauna e per la flora acquatica. Esistono, inoltre, minerali particolarmente tossici, le cui scorie, se scaricate, hanno particolari effetti inquinanti sulle acque, soprattutto attraverso la sottrazione di ossigeno. Anche l’attività agricola può avere effetti inquinanti sull’ambiente idrico. Ciò avviene principalmente in conseguenza dello scarico dei rifiuti di foraggio. Può accadere, infatti, che il foraggio, a causa di difetti di costruzione o di manutenzione delle cisterne in cui è conservato, fuoriesca e si riversi nei corsi d’acqua, il ché può avere un effetto inquinante — in conseguenza della sottrazione d’ossigeno all’acqua da esso cagionata — pari a 200 volte quello determinato dalle acque di rifiuto domestiche (3). Ciò nonostante, l’attività agricola — lo si vedrà in seguito — pur quando cagioni l’inquinamento delle acque, non necessariamente comporta per l’ordinamento inglese una responsabilità civile e/o penale. Anzi fino al 1989 era addirittura coperta da una specifica causa di non punibilità (4). Il presente lavoro si propone di vedere come l’ordinamento inglese affronta il problema dell’inquinamento delle acque, sia analizzando la disciplina legislativa, sia verificando l’atteggiamento delle corti nell’applicazione concreta delle disposizioni in materia. Sarà data particolare attenzione a questo secondo aspetto, in quanto le corti giocano un ruolo importante anche laddove un settore sia disciplinato non dalla common law, ma dalla legge scritta (« statute law »), come nel nostro caso (5): esse, infatti, spesso integrano la disciplina legislativa dove questa appaia carente, formulando principi fondamentali. Vedremo, ad esempio, che in ordine al titolo di imputazione del reato di causazione dell’immissione di sostanze inquinanti nelle acque, mancando un’espressa previsione legislativa, la giurisprudenza ha fissato il principio dell’imputazione oggettiva, basata sull’accertamento del solo nesso eziologico. L’analisi dei reati posti a repressione delle condotte inquinanti sarà fondata, quindi, essenzialmente sulle sentenze più significative in materia, al fine di integrare e coordinare i principi di diritto in esse enunciati con la disciplina legislativa. Operazione questa non semplice dal momento che in questo settore non esiste una vera e propria dottrina come la nostra che svolga un lavoro di interpretazione e di critica della legislazione e della giurisprudenza, salvo qualche sporadica opinione su aspetti peraltro poco significativi. Ciò spiega la carenza di riferimenti dottrinari nel nostro lavoro, che appunto non dipende da trascuratezza nei confronti del pensiero giuridico inglese, il quale ci sarebbe anzi stato di grande aiuto nello studio dell’argomento, bensì dalla presa d’atto della mancanza di esso in questo settore. provocato primariamente da effluenti industriali e di fogna. Il restante 11%, è stato causato da scarichi di provenienza agricola. I dati sono pubblicati in Code of good agricultural practice for the protection of water, Ministero dell’agricoltura pesca e alimentazione, Ottobre 1998, p. 2. (2) Nell’ordinamento inglese i rifiuti provenienti dall’attività mineraria sono equiparati ai rifiuti industriali. Tuttavia, essi sono presi in considerazione in modo autonomo in relazione ad una particolare causa di non punibilità, che è prevista esclusivamente nei confronti degli scarichi provenienti da una miniera abbandonata. Vedi infra CAUSE DI NON PUNIBILITÀ. (3) House of Commons Environment Committee, 3o Report, 1997. (4) La causa di non punibilità era prevista dall’art. 31. c. 2o, lett. c), del Control of pollution Act del 1974, disposizione che è stata abrogata dal Water Act del 1989 (art. 116). (5) L’ordinamento inglese, notoriamente, è nato come diritto giurisprudenziale (common law). Negli ultimi decenni, però, questo ha ceduto gradualmente il passo alla legislazione parlamentare (statute law) in molti settori, soprattutto quelli in evoluzione continua, come il diritto ambientale.
— 1346 — SEZIONE PRIMA. — LA DISCIPLINA DEGLI SCARICHI 1. La normativa vigente. — La gestione e la tutela del patrimonio idrico nell’ordinamento inglese sono ripartite a due livelli, uno politico e uno amministrativo. A livello politico, la competenza è attribuita al Segretario di Stato per l’ambiente e al Ministro dell’agricoltura, pesca e alimentazione (6), i quali promuovono la politica nazionale per le acque ed hanno il compito di assicurare ciascuno l’effettiva realizzazione di una parte di essa: al Segretario di Stato è affidato primariamente il settore della rete fognaria, nonché del trattamento e dello smaltimento delle acque di rifiuto; al Ministro quello dell’attività ittica nelle acque interne e costiere e quello degli scarichi dei rifiuti in mare (7). A livello amministrativo, bisogna distinguere tra attività di controllo e tutela delle acque da un lato, e attività di gestione del servizio di erogazione dell’acqua dall’altro. La prima è affidata alla competenza di un organo amministrativo, l’Environment Agency; la seconda è svolta da società private di erogazione (8). La legge attualmente in vigore in materia di tutela delle acque è il Water Resources Act del 1991. Essa è subentrata, senza peraltro apportare modifiche di rilievo, al Water Act del 1989. Quest’ultimo ha avuto un ruolo molto importante, in quanto ha rivoluzionato il precedente assetto normativo stabilito dal Control of Pollution Act del 1974, privatizzando la gestione del servizio di erogazione dell’acqua; non ha invece cambiato nulla in ordine alla tutela delle acque. La politica adottata dal legislatore per tutelare le acque si basa su due momenti, quello del controllo preventivo, tramite la regolamentazione degli scarichi, e quello dell’intervento repressivo successivo ai fenomeni di inquinamento, tramite Ia previsione di reati. 2. Gli obiettivi di qualità delle acque. — Sul primo versante, il Water Resources Act sancisce il potere in capo al Segretario di Stato di fissare, mediante regolamenti, degli ‘‘obiettivi di qualità delle acque’’ (water quality objectives), vale a dire di determinare dei limiti massimi di concentrazione di certe sostanze nelle acque, affinché queste possano avere un grado di purezza sufficiente a farle rientrare entro una determinata classificazione (9), sempre stabilita, mediante regolamento, dal Segretario di Stato. In tal senso, sono stati al momento (10) emanati due regolamenti di portata generale, vale a dire applicabili a tutte le (6) D’ora innanzi queste due autorità verranno citate, per brevità, con i termini rispettivamente di Segretario di Stato e di Ministro. (7) Art. 1 del Water Act del 1973. (8) L’Environment Agency ha sostituito — per opera dell’Environment Act del 1995 — un altro organo amministrativo, la National Rivers Authority. La ripartizione di competenze tra quest’ultimo organo amministrativo e le società private di erogazione dell’acqua era stata effettuata dal Water Act 1989, una legge molto importante e di grande risonanza in Inghilterra, in quanto ha privatizzato il servizio di erogazione dell’acqua, affidandolo a società private e cambiando completamente il precedente assetto caratterizzato dalla concentrazione delle due attività — di controllo e tutela delle acque da un lato, di gestione del servizio di erogazione dall’altro — in capo a 10 organi amministrativi regionali, detti water authorities. (9) Le classificazioni sono determinate in base all’uso-destinazione delle acque stesse. Ad esempio, allo stato attuale sono previste due classificazioni delle acque, vale a dire ‘‘acque balneari’’ e ‘‘acque potabili’’, rispettivamente dal Bathing waters (Classification) regulations del 1991 (S.I. 1991, n. 1597) e dal Surface waters (classification) regulations del 1989 (S.I. 1989, n. 1148). (10) Si è messo in evidenza in dottrina (Thornton & Beckwith, Environmental law, cit., p. 206) che allo stato attuale in Gran Bretagna vige ancora un stato di transizione dal vecchio regime sotto il Water Act del 1989, in cui detti obiettivi erano stati stabiliti in via non regolamentare, a quello del Water Resources Act del 1991 che, in adeguamento alle direttive europee, richiede una disciplina formalmente regolamentata.
— 1347 — acque interne e costiere (11), che stabiliscono il massimo di concentrazione ammissibile nelle acque di certe sostanze pericolose. Regolamenti ulteriori potranno in futuro fissare per particolari corsi d’acqua livelli di concentrazione di sostanze pericolose più bassi rispetto a quelli generali. In mancanza di essi, nell’attuale fase di transizione continuano ad applicarsi per alcuni di questi gli obiettivi di qualità non regolamentati preesistenti. 3. L’autorizzazione agli scarichi. — Il Segretario di Stato e l’Environment Agency hanno la responsabilità di controllare che le acque continuino a mantenere inalterate le proprie caratteristiche chimiche e fisiche, vale a dire a rimanere conformi allo standard relativo alla classificazione in cui rientrano. Per consentire l’adempimento da parte di questi organi di tale funzione, il Water Resources Act sancisce il principio secondo il quale lo scarico di certe sostanze o materiali nelle ‘‘acque controllate’’ (12) è vietato — in ragione della loro attuale o potenziale nocività — a pena di commettere un reato, salvo che avvenga a seguito di rilascio di un’autorizzazione a scaricare da parte dell’Environment Agency, e in conformità alle condizioni in essa fissate. L’autorizzazione può essere incondizionata o condizionata. Quest’ultima è l’ipotesi più frequente, in quanto offre maggiori garanzie che le acque non vengano inquinate. Le condizioni apposte dall’Environment Agency possono avere qualunque contenuto, essendo ampia la discrezionalità dell’organo. In genere, comunque, esse attengono al luogo di scarico, alla temperatura, al volume e alla percentuale dello scarico, al numero di volte di scarico consentito (13). L’autorizzazione deve avere una durata minima di quattro anni, durante la quale non può essere revocata né modificata, per consentire al titolare di svolgere la propria attività con una certa tranquillità (14). Se, però, durante questo periodo egli non ha rispettato le condizioni contenute nell’autorizzazione per almeno un anno, l’Environment Agency può revocare l’autorizzazione anche prima della scadenza di detto periodo (15). Inoltre, il Segretario di Stato può richiedere all’Environment Agency di revocare, apportare modifiche alle condizioni o trasformare da incondizionata a condizionata un’autorizzazione, qualora sia necessario per dare attuazione ad impegni comunitari o comunque internazionali, ovvero per ragioni di tutela della salute pubblica e della flora e fauna acquatiche (16). L’Environment Act del 1995 ha messo a disposizione dell’Environment Agency un ulteriore strumento per meglio garantire il mantenimento delle acque pulite. Ha, infatti, ag(11) Surface waters (dangerous substances) (Classification) regulations del 1989 (S.I. 1989, n. 2286) e Surface waters (dangerous substances) (Classifications) regulations del 1992 (S.I. 1992, n. 337). (12) Le acque controllate, che costituiscono l’oggetto della tutela apprestata dal Water Resources Act, in base all’art. 104 comprendono le acque dolci interne (laghi, fiumi, torrenti, ruscelli), le acque sotterranee, il mare nei limiti delle acque territoriali (tre miglia dalla linea costiera) e delle acque costiere, che vanno dalla terra fino alla linea dell’alta marea (questa segna la linea costiera da cui iniziano le acque territoriali). Per diritto internazionale, in realtà, le acque territoriali si estendono per dodici miglia dalla linea costiera, mentre ai fini del Water Resources Act sono rilevanti solo le acque comprese nelle prime tre miglia. (13) Il Water Resources Act (Sch. 10) elenca, ma solo a titolo esemplificativo, alcune condizioni che possono essere apposte ad un’autorizzazione, come l’obbligo di tenere un registro degli scarichi, o di avere appositi recipienti per la raccolta di campioni da esaminare in caso di ispezioni. (14) Art. 8, c. 3, Sch. 10, del Water Resources Act, così come modificato dalla Sch. 22 dell’Environment Act del 1995. L’art. 8, originariamente, stabiliva un periodo di durata minima dell’autorizzazione di due anni. (15) Oltre a comportare la revoca, si vedrà tra breve, la violazione delle condizioni per gli scarichi stabilite nell’autorizzazione costituisce reato. (16) Art. 7. Sch. 10, Water Resources Act.
— 1348 — giunto nel Water Resources Act una disposizione che attribuisce all’Environment Agency il potere di emanare un enforcement notice, vale a dire un atto con il quale egli, nel caso in cui ritenga che il titolare di un’autorizzazione abbia violato o vi sia il pericolo che violi le condizioni di essa, intima a questo di adottare determinate misure per rimediare o prevenire la violazione entro un termine perentorio (17). La mancata attuazione delle misure intimate costituisce reato ed è punibile con la pena detentiva fino a tre mesi e la pena pecuniaria fino a 20.000 sterline, nei casi meno gravi; con la pena detentiva fino a due anni e una pena pecuniaria illimitata (cioè determinata liberamente dalla Crown Court), nei casi piu gravi. Il Water Resources Act ha sottratto alla generale disciplina dell’autorizzazione un particolare settore, quello riguardante soggetti che, per la loro attività o servizio, hanno o intendano avere la custodia o il controllo di sostanze o materiali velenosi, nocivi o inquinanti. Tenuto conto del grave pericolo che questo fenomeno può costituire per l’ambiente in generale, e per le acque in particolare potendo dette sostanze essere smaltite tramite scarico nelle acque, il Water Resources Act prevede che il Segretario di Stato, con un proprio regolamento, possa proibire la custodia o il controllo di queste sostanze, salvo che il soggetto che ne ha la disponibilità adotti determinate misure precauzionali stabilite nel regolamento e finalizzate a prevenire o controllare l’immissione di queste sostanze nelle acque controllate (18). L’Environment Agency determina con un proprio atto sia le circostanze in presenza delle quali scatta l’obbligo di adottare le misure precauzionali, sia il tipo di misura che deve essere presa in ragione della migliore efficacia relativamente al caso concreto. La violazione dei suddetti obblighi imposti a colui che ha il controllo o la custodia di dette sostanze nocive costituisce reato ed è punibile con pene stabilite nel regolamento del Segretario di Stato, che non devono eccedere i limiti di quelle sancite dall’art. 85 del Water Resources Act per i reati di immissione e di scarico (19). 4. Il codice di buona pratica agricola per la protezione delle acque. — La purezza delle acque è maggiormente minacciata quando nelle vicinanze di esse siano situate industrie, aziende agricole o comunque produttive, dato il pericolo di scarico da parte di queste di sostanze e materiali inquinanti. In considerazione di ciò, per quanto concerne specificamente l’attività agricola, il Water Resources Act, oltre alla summenzionata previsione dell’imposizione di misure precauzionali nei confronti di chi ha la custodia o il controllo di sostanze velenose, nocive o inquinanti, stabilisce all’art. 97 che il Ministro può, con un proprio atto, approvare un codice di disciplina finalizzato a dare una guida pratica a coloro che svolgono un’attività agricola, soprattutto quando questa possa intaccare le acque controllate, nonché a promuovere quelle pratiche che ritenga più consone a prevenire o ridurre l’inquinamento delle acque stesse. Il codice può essere in qualunque momento dal Ministro modificato o revocato, sempre con un proprio atto. Allo stato attuale è in vigore, dal 22 gennaio 1999, il Code of good agricultural practice for the protection of water, approvato dal Ministro con il Water (Prevention of pollution) (Code of practice) Order del 1998 (20), che contestualmente ha anche revocato il precedente Code of practice del 1991. La violazione delle norme del codice di buona pratica agricola non comporta di per sé responsabilità penale o civile, ma può costituire un presupposto per l’emanazione da parte dell’Environment Agency del divieto di scarico ex art. 86 del Water Resources Act, la cui violazione, come si vedrà, configura una delle fattispecie del reato di scarico ai sensi dell’art. (17) Art. 90 B, Water Resources Act. (18) Art. 92, c. 1, Water Resources Act. (19) Art. 92, c. 2, Water Resources Act. (20) S.I. 1998 n. 3084.
— 1349 — 85, nonché una delle circostanze in presenza delle quali può venire imposta l’adozione di misure precauzionali, ex art. 92, nei confronti di chi ha la custodia o il controllo di sostanze velenose, nocive o inquinanti. 5. Zone di protezione delle acque. Aree sensibili ai nitrati. — Il pericolo che le attività produttive, agricole e non, possano intaccare le acque è ulteriormente preso in considerazione dal Water Resources Act nella parte in cui prevede la creazione delle c.d. ‘‘zone di protezione delle acque’’. II potere di creare queste zone è attribuito al Segretario di Stato e consiste nell’individuare un’area nella quale si svolgono attività produttive che possono costituire una minaccia per le acque, al fine di vietare o limitare le stesse in ragione di detto pericolo. In genere, il Segretario di Stato delega all’Environment Agency l’individuazione delle attività vietate o limitate, nonché la determinazione dei limiti cui queste ultime sono soggette (21). Soltanto divieti e restrizioni possono essere imposti a coloro che svolgono attività su dette zone, mai oneri positivi. Il mancato rispetto delle condizioni alle quali un’attività è ammessa in una zona di protezione comporta per l’esercente responsabilità penale: nel regolamento con il quale la zona è stata designata, infatti, il Segretario di Stato determina anche i reati e le relative pene per la violazione dei divieti e delle restrizioni (22). Il rischio di inquinamento è particolarmente elevato per le acque nelle cui vicinanze si svolgano attività agricole in cui si faccia largo uso di fertilizzanti contenenti nitrati. Ciò in quanto i nitrati, qualora vengano scaricati nelle acque, provocano, da un lato, un’abnorme crescita di alcune piante acquatiche e, dall’altro, la distruzione di altri tipi, il che determina un forte squilibrio nella flora acquatica. In considerazione di ciò, il Water Resources Act prevede, per le zone in cui vi sia questo rischio, la possibilità di creare vincoli di protezione più intensi rispetto a quelli validi per le ‘‘zone di protezione delle acque’’. Le zone in questione vengono chiamate ‘‘aree sensibili ai nitrati’’ (23), e si differenziano dalle ‘‘zone di protezione delle acque’’ per tre aspetti. In primo luogo, la designazione dell’area spetta al Ministro per l’agricoltura, pesca e alimentazione, anziché al Segretario di Stato. In secondo luogo, nell’area in questione non soltanto possono essere imposti divieti e limiti allo svolgimento delle attività rischiose per l’integrità delle acque, ma possono essere imposti anche oneri positivi a carico degli esercenti, come ad esempio la costruzione di cisterne per la raccolta delle acque di rifiuto contenenti nitrati, o ancora la creazione di canali di scolo (24). Infine, in relazione al condizionamento particolarmente intenso che subiscono gli imprenditori nell’esercizio della propria attività agricola nelle aree in questione, il Water Resources Act prevede che l’atto col quale il Ministro designa l’area possa anche fissare un indennizzo a loro favore (25). (21) L’Environment Agency è l’organo effettivamente competente in materia, in quanto a lui spetta determinare le zone da proteggere. Una volta individuata una certa area a rischio di inquinamento, l’Environment Agency predispone un progetto da sottoporre al Segretario di Stato, affinché questi la designi come ‘‘zona di protezione delle acque’’. (22) Le pene devono mantenersi entro gli stessi limiti che l’art. 85 del Water Resources Act sancisce per gli scarichi non autorizzati o in violazione dell’autorizzazione. Per l’entità delle pene vedi infra PENE E MISURE PREVENTIVE. (23) Art. 94, Water Resources Act. (24) La competenza a designare l’area è stata dalla legge posta in capo al massimo organo amministrativo in materia (Ministro) anziché al sottoordinato Segretario di Stato, in ragione del fatto che essa comprende non solo poteri impeditivi e limitativi ma anche il potere di imporre obblighi positivi di facere. (25) L’indennizzo a favore di chi svolge un’attività rischiosa per la purezza delle acque contrasta in un certo senso col principio generale « l’inquinatore deve pagare’’ (polluter
— 1350 — Allo stato attuale il Ministro ha designato 12 aree (26), in aggiunta ad altre dieci che aveva già designato prima dell’entrata in vigore del Water Resources Act (27).
SEZIONE SECONDA. — I REATI 1. Il reato di immissione di sostanze inquinanti nelle acque. — Si è detto all’inizio che la tutela delle acque è apprestata dal Water Resources Act sia attraverso un’attività di controllo preventivo, sopra illustrata, sia tramite la previsione di reati per la repressione di condotte inquinanti. Oltre alla violazione di alcune disposizioni e di obblighi imposti a scopo preventivo, di cui si è poc’anzi parlato, che costituiscono reati punibili con pene non superiori a quelle fissate dall’art. 85 del Water Resources Act, quest’ultima disposizione prevede tre reati a tutela delle acque, e precisamente quello di immissione di sostanze inquinanti, quello di scarico delle stesse e quello di aggravamento dell’inquinamento. Il primo è previsto dal primo comma dell’art. 85, in base al quale commette il reato di immissione chiunque ‘‘cagiona o consapevolmente permette l’immissione nelle acque controllate di sostanze velenose, nocive o inquinanti, ovvero di rifiuti solidi’’. La condotta è individuata dal legislatore alternativamente nel ‘‘cagionare o consapevolmente permettere’’ l’immissione. Ciò significa che in realtà due sono i reati, uno consistente nel cagionare l’immissione di sostanze inquinanti nelle acque, l’altro nel permettere consapevolmente la suddetta immissione. Già nel vigore del Rivers pollution prevention Act 1876, che prevedeva un reato in buona sostanza analogo a quello attuale di immissione, la giurisprudenza aveva affermato che le condotte di causazione e di permissione davano origine a due reati, ed aveva anche tentato di spiegare la differenza tra le due in modo da individuare due distinte sfere di applicazione. ‘‘Causare — affermava Lord Wright nel caso Mc Leod v.. Buchanan (28) — implica un comando espresso o reale, ovvero un’autorizzazione da parte di una persona ad un’altra. Permettere è un termine più vago e indefinito. Può denotare un permesso espresso, generale o particolare, diverso da un comando... Comunque, è un termine che ricomprende anche i casi di permesso meramente presunto’’. È opportuno pertanto procedere ad un’analisi distinta delle due condotte. 1.1. (Segue) La condotta di « cagionare l’immissione di sostanze inquinanti ». — Il reato incentrato sulla ‘‘causazione’’ pone innanzittutto il problema della determinazione della portata di questa condotta, vale a dire di stabilire se essa richieda necessariamente un atto positivo o possa anche essere realizzata con un’omissione, con una dimenticanza o con un semplice atto di tolleranza. Sul punto rappresenta leading case nella giurisprudenza inglese Alphacell Ltd. v. Woodward (29). In tale caso, un’impresa di produzione cartacea si era installata sulle rive di un fiume per attingere l’acqua necessaria a lavare i materiali greggi. L’acqua utilizzata, essendo inquinata, veniva poi convogliata, attraverso apposite pompe, in vasche di sedimentazione per evitare di inquinare il fiume. Le pompe, dotate di filtri per le foglie e i rami, si spegnepays principle), ma trova in realtà una sua giustificazione nel fatto che l’attività agricola subisce in queste aree un sensibile decremento. (26) Nitrate sensitive areas regulations 1994 (S.I. 1994, n. 1729). (27) Nitrate sensitive areas (designation) order 1990. (28) 1940, 2 All E.R., 187. (29) 1972. 2 All E.R., 475.
— 1351 — vano automaticamente quando l’acqua raggiungeva un certo livello. Accadde, però, che, un eccessivo deposito di foglie e di rami ostruì i filtri; conseguentemente le pompe, malfunzionando, continuarono a convogliare, anche dopo il raggiungimento del livello di guardia, l’acqua sporca che, fuoriuscendo dalle vasche, si riversò nel fiume con grave effetto inquinante. I responsabili dell’impresa, condannati in primo grado ai sensi dell’art. 2 del Rivers (Prevention of Pollution) Act del 1951 per aver cagionato l’immissione di sostanze inquinanti nel fiume (30), eccepirono in appello che non era stata provata a loro carico né la consapevolezza che l’acqua inquinata si era riversata nel fiume, né una negligenza nel non aver constatato il guasto della pompa: nella specie, insomma, era mancato sia il dolo che la colpa (mens rea) (31). La House of Lords, nel respingere l’appello (32), prese spunto per chiarire il significato di ‘‘cagionare’’ affermando che ‘‘una persona non può essere responsabile del reato di cagionare l’immissione di sostanze inquinanti in un fiume se non compie almeno un atto positivo nella catena di atti e fatti che conducono a quel risultato’’ (33). Per ‘‘cagionare’’ l’immissione, pertanto, è necessario porre in essere almeno un atto positivo, essendo irrilevante un comportamento meramente passivo (34). Questo principio si è consolidato nel tempo, in quanto le corti, successivamente chiamate a pronunciarsi sul punto lo hanno costantemente ribadito, riportando spesso passi della sentenza Alphacell, divenuta così una pietra miliare della giurisprudenza in tema di reato di immissione di sostanze inquinanti nelle acque (35). Così, ad esempio, nel caso Price v. Cormack (36), immediatamente successivo ad Alphacell, e anch’esso spesso citato dalla giurisprudenza degli anni ottanta e novanta, la Divisional Court ha escluso la responsabilità per il reato di causazione dell’immissione nei confronti di una persona che aveva accettato di far costruire da un’impresa due bacini sul suo terreno per la raccolta di effluenti (37). Ciò in quanto il comportamento di accettazione, vale a dire di semplice tolleranza, non poteva assurgere a causazione dell’immissione della sostanza inquinante nel fiume, essendo necessario almeno un atto positivo (38). (30) Si tratta della norma che, con alcune modifiche relative all’ambito di applicazione, è stata ribadita prima dall’art. 107 del Water Act e poi dall’art. 85, c. 1o, del Water Resources Act del 1991. L’interpretazione data ad essa va pertanto estesa alle disposizioni suddette che successivamente l’hanno sostituita. (31) Su questo punto si ritornerà tra breve, in quanto a partire da questa sentenza si è affermato che il reato di causazione dell’immissione è a responsabilità oggettiva. (32) La House of Lords, come si vedrà in seguito, rigettò l’appello affermando che la consapevolezza è elemento riferito solo alla condotta di permissione, non anche a quella di causazione. Secondo la Corte, infatti, la legge, avendo affiancato l’aggettivo ‘‘consapevolmente’’ soltanto all’azione di permettere, ha inteso escludere la sua estensione all’azione di causare, con la conseguenza di rendere il reato di causazione a responsabilità oggettiva, e non dolosa o colposa. L’appello, fondato sull’assenza di dolo o colpa, doveva pertanto ritenersi infondato. (33) Lord Cross of Chelsea, p. 489. (34) Il comportamento passivo può comunque assurgere a reato di immissione, come si vedrà in seguito, nella forma di « consapevolmente permettere ». (35) Leggendo alcune sentenze, infatti, abbiamo potuto constatare come il modus procedendi dei giudici sia sempre quello di fissare i punti di diritto e di fatto del caso di specie sotto forma di quesiti e di risolverli utilizzando i principi stabiliti in precedenti vincolanti. A tal fine vengono riportati nella sentenza lunghi passi di detti precedenti, sulla base dei quali viene poi formulata la risposta (dispositivo) ai quesiti di specie. (36) 1975, 2 All E.R., 113. (37) Nella specie, parte dell’effluente si era riversato, a causa di due fratture nei muri di contenimento dei bacini, in un fiume circostante provocandone l’inquinamento. Di tale fatto venne, comunque, riconosciuta la responsabilità dell’impresa costruttrice dei due bacini per il reato di causazione dell’immissione. (38) Nello stesso senso, ma in riferimento all’art. 85 del Water Resources Act, vedi anche Wychavon DC v. National Rivers Authority, 1993, 2 All E.R., 440.
— 1352 — Dalla casistica presa da noi in considerazione abbiamo constatato che il principio suddetto ha continuato a venir utilizzato per l’interpretazione della condotta di ‘‘cagionare’’ l’immissione anche quando questo reato è stato riformulato dal legislatore, all’art. 107 del Water Act del 1989. Così, ad esempio, nel caso National Rivers Authority v. Yorkshire Water Services Ltd. (39) venne condannata, ai sensi dell’art. 107 del Water Act del 1989, sia in primo grado sia in appello davanti alla Crown Court per aver cagionato l’immissione di sostanze inquinanti nelle acque controllate, una società che svolgeva, con regolare autorizzazione della National Rivers Authority, attività di trattamento di effluenti industriali con successivo convogliamento degli stessi, tramite una propria rete fognaria, nelle acque controllate. Ciò in quanto tra gli effuenti che un’industria cliente di detta società convogliava nel sistema fognario di raccolta e trattamento degli stessi, un giorno venne versata anche una parte contenente una sostanza altamente inquinante per i fiumi, l’iso-octanolo, per la quale l’autorizzazione di cui la società di trattamento era titolare prevedeva espressamente il divieto di scarico. La società non si accorse di questa intrusione e quindi lasciò che il suddetto effluente, insieme agli altri precedentemente trattati, venisse scaricato nel fiume, con la conseguenza che questo si inquinò. Il fatto che l’immissione nelle acque controllate fosse dipesa da un versamento illegittimo della sostanza inquinante effettuato da un terzo all’insaputa della società non venne ritenuto neppure dalla House of Lords come fattore escludente la responsabilità della società. Secondo la Corte, infatti, l’aver creato un sistema di trattamento e convogliamento, tramite una propria rete fognaria, di effluenti nelle acque controllate, costituiva un atto positivo di causazione dell’immissione degli effluenti inquinanti nelle acque controllate, indipendentemente dal fatto che ad esso si fosse accompagnata una circostanza ‘‘speciale’’, quale l’inserimento della sostanza inquinante nell’effluente scaricato da parte di un terzo (peraltro altrettanto responsabile del reato) (40). L’interpretazione giurisprudenziale sulla condotta di cagionare è stata ribadita anche in riferimento alla disposizione attualmente in vigore, vale a dire l’art. 85 del Water Resources Act del 1991. Nel caso Empress Car Co (Abertillery) Ltd. v. National Rivers Authority, ad esempio, una società, che teneva su un suo terreno adiacente ad un fiume una cisterna contenente carburante, è stata condannata ai sensi dell’art. 85 del Water Resources Act in primo grado dalla Crown Court per aver cagionato l’immissione nel fiume del suddetto carburante. Nonostante intorno alla cisterna fosse stato costruito un argine per trattenere le eventuali fuoriuscite di carburante, accadde, infatti, che qualcuno di nascosto aprì la valvola della cisterna (cosa facilmente realizzabile dato che essa non era munita di alcun lucchetto), determinando così un travaso di carburante di tale entità da non poter essere trattenuto dall’argine circostante, che si riversò nel fiume adiacente con grave effetto inquinante. La House of Lords (41), chiamata a pronunciarsi in sede di appello, ha confermato la condanna, affermando che per cagionare l’immissione di sostanze inquinanti nelle acque non è necessario porre in essere la causa immediata, ma è sufficiente realizzare un atto positivo che sia ‘‘una’’ causa, anche se non quella diretta e anche se concorrente con altra, come in questo caso. Infatti, l’atto di apertura della valvola da parte di un terzo (che è sicuramente la causa immediata dell’immissione) non è stato la sola causa, ma si è aggiunto ad un atto positivo della società, consistente nell’aver installato sul terreno la cisterna e nell’aver adottato determinate cautele (costruzione dell’argine circostante) per prevenire fuoriuscite di carburante. Pertanto, quest’ultimo atto può, nella discrezionale valutazione dei fatti da parte del giudice, (39) 1995, 1 All E.R., 225. (40) In senso conforme a National Rivers Authority v. Yorkshire Water Services Ltd., cfr. Attorney’s General Reference (N. 1 del 1994), Corte d’Appello, 1995, 2 All. E.R., 1007. (41) 1998, 1 All E.R., 481.
— 1353 — essere considerato condotta di causazione dell’immissione nonostante la concomitante presenza dell’atto altrettanto causale di apertura della valvola da parte del terzo. Questa casistica mette in luce un altro problema delicato attinente all’accertamento della causazione, vale a dire il concorso di cause. Si è visto, infatti, come in molti casi le corti abbiano rilevato che accanto alla condotta dell’imputato si fosse affiancata la condotta di un terzo, sconosciuta e imprevedibile da parte del primo. Sulla rilevanza di questo fattore estraneo, umano o naturale che sia, non c’è un indirizzo uniforme in giurisprudenza. Alcune sentenze, peraltro risalenti anche se autorevoli, tendono a dare efficacia causale esclusiva alla concausa quando essa abbia il carattere della obiettiva imprevedibilità, e sempre che abbia un peso così determinante da rendere ‘‘circostanziale’’ la condotta dell’agente. Questo principio lo abbiamo rinvenuto, ad esempio, nel caso Impress (Worcester) Ltd. v. Rees (42) in cui una persona, entrata di notte abusivamente negli stabili di un’impresa, aveva aperto la valvola di una cisterna contenente nafta, situata vicino ad un fiume, provocando l’inquinamento di questo. La Corte escluse la responsabilità dell’impresa per il reato di causazione ai sensi dell’art. 2 del Rivers (Prevention of Pollution) Act 1951, per rottura del nesso causale tra l’attività di questa e l’inquinamento del fiume, proprio in quanto causa essenziale dell’inquinamento era stata l’apertura della valvola, vale a dire una condotta completamente priva di collegamento con l’attivita dell’impresa e ragionevolmente imprevedibile da parte dei responsabili della cisterna. Il principio, peraltro, ha trovato applicazione anche in qualche sporadico caso recente, giudicato in base al Water Resources Act. Così è avvenuto nel National Rivers Authority v. Wright Engineering Co Ltd. (43), in cui una società è stata assolta dal reato di causazione ex art. 85, per l’immissione in un ruscello di petrolio fuoriuscito da una cisterna, in quanto la fuoriuscita era dipesa dal danneggiamento della cisterna provocato da atti di vandalismo di un terzo. La causa determinante dell’inquinamento del ruscello doveva, secondo la Corte, ravvisarsi nell’atto di vandalismo sulla cisterna e non in un malfunzionamento della stessa imputabile alla società. In altri casi, molto simili, come il già analizzato Empress Car Co relativo alla fuoriuscita di carburante da una cisterna per apertura della valvola da parte di uno sconosciuto, viceversa la House of Lords ha affermato che la concausa, umana o naturale, non esclude il nesso causale per il solo fatto di essere imprevedibile, ma soltanto nel caso in cui abbia il carattere della straordinarietà, vale a dire quando fuoriesce totalmente dai ‘‘normali fatti della vita’’. Peraltro se nell’opinione della Corte sia l’atto di vandalismo del National Rivers Authority v. Wright Engineering Co Ltd., sia l’apertura di nascosto della valvola di Impress rientrerebbero nei normali accadimenti della vita, non riusciamo ad immaginare quali circostanze di fatto possano assurgere a fattori di carattere straordinario escludenti il nesso causale. La questione oltrettutto è particolarmente delicata in quanto determinante per stabilire la sussistenza o meno della responsabilità penale: il reato di causazione dell’immissione, infatti, è a responsabilità oggettiva (strict liability), vale a dire imputato sulla base del solo nesso causale, a prescindere dall’accertamento del dolo o della colpa (mens rea). Questa forma di imputazione, in realtà non è sancita espressamente dalla legge (né dal Rivers (Prevention of Pollution) Act né dal Water Act, né dal Water Resources Act), ma è stata fissata dalla giurisprudenza a partire da Alphacell che ha costituito sul punto un precedente. La House of Lords, infatti, ha rigettato in detto caso l’appello fondato sulla mancata consapevolezza da parte degli appellanti del malfunzionamento delle pompe e comunque sull’assenza di una loro negligenza, affermando che, ai fini del reato di causazione di cui al(42) (43)
1971, 2 All E.R., 357. 1994, 4 All E.R., 281.
— 1354 — l’art. 2, c. 1o, del Rivers (Prevention of Pollution) Act 1951, non si richiedeva il dolo né la colpa, ma semplicemente il nesso causale con l’evento dannoso in quanto, altrimenti, la maggior parte delle condotte inquinanti sarebbe andata esente da pena, data l’estrema difficoltà di provare in tali situazioni la colpevolezza. In detta sede Lord Salmon giustificò la scelta della responsabilità oggettiva per tale reato sulla base di esigenze di ‘‘public policy’’: ‘‘se la condanna dovesse farsi dipendere dalla prova che l’inquinamento è stato provocato intenzionalmente o colposamente, un gran numero di casi rimarrebbe impunito.... con la conseguenza che molti fiumi si inquinerebbero sempre di più’’. È stato, tuttavia, rilevato da parte di certa dottrina (44) con la quale concordiamo, che l’imposizione della responsabilità oggettiva per il reato di causazione, in virtù del principio ‘‘l’inquinatore deve pagare’’, può in certi casi portare a risultati irragionevoli. Un esempio di decisione irragionevole si può trovare in CPC (U.K.) Limited v. National Rivers Authority (45). Nella specie, la Corte aveva in primo grado condannato i titolari di una fabbrica per il reato di causazione in quanto, in conseguenza di un difettoso funzionamento delle condutture di scarico, si era verificato un riversamento di sostanze inquinanti in un fiume. La Corte aveva affermato che a nulla rilevavano le circostanze che il malfunzionamento era dipeso da un difetto di installazione delle condutture, che l’installazione era stata fatta prima dell’acquisto della fabbrica da parte degli imputati e che il difetto non era stato neppure rilevato dai periti di questi ultimi in sede di verifica dello stato della fabbrica ai fini dell’acquisto. Questa decisione è chiaramente applicativa dei principi espressi nel precedente Alphacell, in quanto fonda la responsabilità sul solo nesso causale, vale a dire sul fatto che il riversamento è stato provocato dalle condutture di scarico malfunzionanti, e in questo modo garantisce il rispetto del principio secondo cui l’inquinatore deve pagare. Al tempo stesso è indubbio che, tenendo conto di tutte le circostanze del fatto — il guasto non era stato rilevato al momento dell’acquisto della fabbrica, anche se già presente — essa susciti non poche perplessità. Ciò spiega come la Corte d’Appello abbia riformato la suddetta sentenza, pronunciando la piena assoluzione dei titolari della fabbrica. La Corte affermò che l’unica questione rilevante ai fini della responsabilità degli appellanti era l’accertamento se la fabbrica si trovava sotto il controllo degli stessi nel momento del riversamento, che sostanzialmente sottintendeva l’accertamento di una loro culpa in vigilando. Essendo stato provato che la condotta di controllo era stata costantemente ineccepibile da parte degli appellanti, la Corte d’Appello li assolse ed escluse l’accollo dei costi del risanamento del fiume. È evidente il contrasto tra questa decisione d’appello, basata sulla mancanza di colpevolezza e il principio fissato nel precedente Alphacell secondo il quale il reato di causazione dell’immissione deve essere considerato a responsabilità oggettiva. L’atteggiamento ‘‘trasgressivo’’ della Corte d’Appello non è rimasto un episodio isolato. Infatti, nonostante le corti continuino formalmente a conformarsi al principio fissato in Alphacell, in alcuni casi le decisioni, formalmente fondate su argomentazioni attinenti al nesso causale, in realtà ci sembrano sostanzialmente basate sul principio di colpevolezza. In altri termini, a volte, pur avendo il soggetto tenuto un comportamento attivo nella causazione dell’inquinamento, si è esclusa la sua responsabilità penale formalmente sulla base dell’intervento di un fattore esterno causale determinante, che in realtà sottintendeva la mancanza di colpa nel soggetto. Così è avvenuto nel caso sopracitato National Rivers Authority v. Wright Engeneering Co Ltd., dove si è dato un peso determinante nella catena degli atti che hanno portato all’inquinamento del ruscello all’atto di vandalismo di terzi estranei; e lo stesso è avvenuto nell’altro caso già citato Impress dove si è attribuita efficacia determinante ed esclusiva al comportamento dell’estraneo che ha aperto la valvola di notte. (44) Thornton & Beckwith, Environmental law, cit., 218-219. (45) The Times, 4 agosto 1994.
— 1355 — Al tempo stesso non si dimentichi che nel recente caso Empress Car Co (46), in una vicenda identica alla succitata Impress, la House of Lords ha escluso la natura straordinaria di fattore causale esclusivo in relazione all’apertura della valvola della cisterna da parte di un terzo estraneo, ed ha quindi pronunciato la condanna dell’impresa cui apparteneva la cisterna (47). L’opinione che ci siamo fatti in seguito all’analisi di questa casistica è che i contrasti giurisprudenziali in tema di causalità trovino ragione essenzialmente nel fatto che le corti sentono fortemente la pressione nascente dalle esigenze di far riparare il danno ambientale e di prevenire il fenomeno dell’inquinamento delle acque (48). Al tempo stesso, tuttavia, in certe situazioni concrete l’inquinamento, pur riconducibile in senso lato ad un’impresa, è stato provocato direttamente dall’atto imprevedibile di un terzo estraneo svincolato dall’impresa; ed essendo il terzo in questione ignoto, si è posto per i giudici il problema se dare comunque prevalenza alle esigenze riparative e preventive dell’inquinamento accollando la responsabilità all’unico soggetto individuabile e solvibile che in qualche modo appare collegabile al fatto (l’impresa), oppure riconoscere che l’intervento del fattore estraneo all’impresa è stata l’unica causa diretta e immediata dell’inquinamento che esclude la responsabilità (oggettiva oltre che colpevole) dell’impresa con la conseguenza di lasciare il fatto impunito e il danno ambientale non riparato. 1.2. (Segue) La condotta di « consapevolmente permettere l’immissione di sostanze inquinanti ». — Decisamente meno problematica ci appare l’interpretazione del reato realizzato con la condotta di ‘‘permettere consapevolmente l’immissione’’. In ordine ad essa la giurisprudenza ha sempre affermato — già sotto il vigore del Rivers (Prevention of Pollution) Act 1951 — che ‘‘permettere’’ significa omettere di prevenire l’inquinamento, vale a dire rimanere inattivi quando si ha il potere di agire (49). È stato evidenziato in dottrina che con tale reato si intende punire colui che ‘‘sa che si sta verificando l’inquinamento, ha il potere di fare qualcosa per impedirlo, ma non agisce’’ (50). Si tratta di una norma scarsamente applicata, non sempre a ragione peraltro. Infatti, come le stesse corti più volte hanno sottolineato, l’accusa in genere procede nei confronti di soggetti inquinatori ai sensi del reato di ‘‘causazione’’ piuttosto che di quello di ‘‘permissione’’, anche laddove essi non hanno tenuto una condotta attiva di cagionamento dell’inquinamento. Conseguentemente si sono verificate a volte assoluzioni sostanzialmente inaccettabili, ma formalmente ineccepibili, in quanto motivate dal fatto che la condotta inattiva dell’imputato non poteva assurgere al reato contestato di ‘‘cagionare’’ l’inquinamento, ma tutt’al più a quello di ‘‘consapevolmente permettere l’immissione’’, che però non era stato contestato dall’accusa, e per il quale quindi non era possibile pronunciare condanna (51). (46) 1998, già citato. (47) La House of Lords in questa decisione ha tra l’altro affermato che il principio enunciato nel precedente Alphacell secondo cui il legislatore all’art. 2 del Rivers (Prevention of pollution) Act, riferendo l’aggettivo ‘‘consapevolmente’’ soltanto alla condotta di permissione e non a quella di causazione, ha inteso svincolare quest’ultima dall’elemento psicologico della conoscenza e quindi dalla mens rea, continua ad essere valido anche per l’art. 85 del Water Resources Act in quanto formulato negli stessi termini. (48) Si rinvia in proposito al passo precedentemente citato della sentenza Alphacell dove si legge l’argomentazione di Lord Salmon a favore della responsabilità oggettiva dei reati ambientali in base ad esigenze di public policy. (49) Cfr. Alphacell Ltd. v. Woodward cit., 479. In un caso molto risalente (Berton v. Alliance Economic Investment Co. Ltd., 1922, 1 K.B., 759), si era precisato che ‘‘permettere’’ significa sia dare il permesso di fare qualcosa, senza il quale non sarebbe legalmente possibile, sia omettere di prevenire un atto, pur avendone il potere. (50) J. Thornton & S. Beckwith, Environmental law, cit., 220. (51) Così ad esempio si è argomentato nel caso già citato Price v. Cromack, del pro-
— 1356 — Sul piano soggettivo è la stessa norma incriminatrice a richiedere che l’omessa prevenzione sia sorretta dalla positiva consapevolezza dell’effetto inquinante della condotta. Pertanto, a differenza del reato di causazione, quello di permettere l’immissione è senza dubbio a responsabilità colpevole. Ciò spiega il fatto che nel caso Impress (Worcester) Ltd. v. Rees, già citato, si è esclusa la responsabilità degli imputati: le circostanze di fatto — la valvola della cisterna era stata aperta di notte e da uno sconosciuto entrato abusivamente nello stabile — inducevano a ritenere impossibile la consapevolezza da parte dei responsabili della cisterna del comportamento inquinante dello sconosciuto. La prova della consapevolezza di permettere con la propria inerzia l’immissione è estremamente difficile, salvo confessione. Pertanto le corti hanno fissato il principio dell’inversione dell’onere della prova, affermando che la prova del fatto materiale è sufficiente ad inferire anche la consapevolezza di esso, salvo prova contraria (52). Questo principio fa eccezione alle normali regole sull’onere della prova degli elementi costitutivi di un reato. Esso produce l’effetto pratico di disapplicare nella maggior parte dei casi l’imputazione colpevole a favore di quella oggettiva. Ci pare, pertanto, che le corti abbiano in questo modo voluto allineare il reato di immissione tramite permissione a quello di immissione tramite causazione sul piano del titolo di imputazione, probabilmente sulla base dell’irragionevolezza altrimenti di punire con le stesse pene fatti materialmente simili (di immissione), ma in un caso a prescindere dalla colpevolezza (causazione), nell’altro no (permissione). La consapevolezza deve avere ad oggetto soltanto la condotta, vale a dire il permettere, con la propria inattività, l’immissione. Non deve, invece, coprire anche l’oggetto del reato (sostanze velenose, nocive o inquinanti). È sufficiente, quindi, che l’agente abbia consapevolmente permesso l’immissione delle sostanze, anche se non sapeva che queste erano velenose, nocive o inquinanti (53). 1.3. (Segue) L’oggetto del reato. — Il reato di immissione, sia nella forma di causazione sia in quella di permissione, ha come oggetto della condotta sostanze velenose, nocive o inquinanti, ovvero rifiuti solidi. Di tale formula non esiste alcuna definizione legislativa. In dottrina si è affermato che la locuzione usata dal legislatore è di ampio respiro, tanto da includere anche le sostanze pericolose per la fauna o per la flora, che pur siano innocue per la salute umana (54). Analizzando il significato dei tre tipi di sostanze, si è messo in evidenza (55) che è ‘‘velenosa’’ la sostanza che agisce in senso dannoso o pericoloso su qualunque organismo, salvi i casi in cui il quantitativo di essa sia talmente esiguo da rendere impossibile l’effetto venefico sulle acque in cui la sostanza è stata immessa (56); è ‘‘nociva’’ una sostanza che in senso lato ha ‘‘effetti sgradevoli senza necessariamente essere pericolosa’’. In ordine al significato di sostanza ‘‘inquinante’’ esiste, invece, un’interpretazione giuriprietario del fondo che aveva accettato di far costruire su di esso un bacino, che era stato successivamente causa dell’inquinamento di un fiume. Analogamente, v. Wychavon D.C. v. Nationai Rivers Authority, 1993, 1 W.L.R., 125. (52) Sweet v. Parsley, 1970, A.C., 164. (53) Ashcroft v. Cambro Waste Products, 1981, 1 W.L.R., 1349. (54) J.F. Garner, Control of pollution Act 1974, Butterworths, Londra, 1975, 17. (55) Burnett, Hall, U.K. Environmental law, Londra, 1995. (56) In termini analoghi si esprimeva la dottrina in riferimento al corrispondente reato previsto dal Rivers (Prevention of pollution) del 1951: è velenosa — si affermava — la sostanza che comporta la distruzione della vita, umana o animale (E. Simes, C.E. Scholefield, Lumley’s public health law: the public health Acts annotated, 12a ed., vol. V, 1954, 5158).
— 1357 — sprudenziale, che prende spunto dal caso National Rivers Authority v. Egger U.K. Ltd. (57). Nella specie, una grossa chiazza marrone con un’estensione di più di 100 metri era apparsa in un fiume in conseguenza dell’immissione di certe sostanze causata da una fabbrica situata vicino al fiume. La Corte ritenne applicabile il reato di causazione dell’immissione di sostanze inquinanti ex art. 85, c. 1o, pur non avendo la chiazza provocato danni o pericoli effettivi alle acque e alla vita animale e vegetale del fiume, affermando che ‘‘inquinante’’ deve considerarsi anche una sostanza che provochi semplicemente uno scolorimento delle acque e quindi un pericolo solo potenziale e non effettivo per le stesse. Ciò in quanto il Water Resources Act del 1991 non stabilisce l’esclusione del reato nel caso in cui la sostanza immessa abbia provocato un semplice scolorimento delle acque, a differenza della legge precedente e che ne costituisce la matrice, vale a dire il Rivers (Prevention of Pollution) Act del 1951, nonché della legge precedente a quest’ultima, il Rivers pollution prevention Act del 1876. L’omessa previsione da parte del Water Resources Act dell’irrilevanza dello scolorimento delle acque come carattere inquinante di una sostanza è stata intesa, quindi, dalla corte come una precisa volontà in senso contrario (58). Per quanto concerne i rifiuti solidi, non si rinviene alcuna definizione legislativa, essendo la formula già di per sé abbastanza chiara. Rientrano in tale voce tutti i rifiuti materiali, comunemente denominati immondizie, come contenitori, scatole, involucri, che anziché essere smaltiti secondo i regolari modi delle discariche pubbliche, vengono scaricati nelle acque. L’immissione di questi corpi solidi nelle acque è dalla legge vietata di per sé stessa senza richiedere il carattere velenoso, nocivo o inquinante degli stessi (come fa invece per le sostanze liquide), in quanto la natura solida dei rifiuti costituisce inevitabilmente causa di contaminazione, di deturpamento, nonché (nel caso di materiali non biodegradabili) di inquinamento delle acque. 2. Il reato di scarico di effluenti industriali o di fogna, ovvero di altre sostanze vietate nelle acque controllate. — Come si è poc’anzi analizzato, il reato previsto dal primo comma dell’art. 85 del Water Resources Act si caratterizza per la condotta di immissione di sostanze in vario senso inquinanti, nelle acque controllate. I reati descritti nel secondo, terzo e quarto comma dello stesso articolo sono, invece, realizzati con una condotta di scarico di effluenti industriali, di effluenti fognari o di altre sostanze vietate. Il primo reato di scarico si configura quando una persona ‘‘cagiona o consapevolmente permette l’immissione nelle acque controllate di sostanze diverse da effluenti industriali e di fogna, mediante scarico attraverso condotti in violazione di un divieto imposto in base all’art. 86’’ (59). La seconda fattispecie si configura quando un soggetto ‘‘cagiona o consapevolmente permette lo scarico di effluenti industriali o di fogna: a) nelle acque controllate, ovvero b) da terra, attraverso condotti, nel mare al di là del limite delle acque controllate’’ (60). Il terzo reato si ha quando una persona ‘‘cagiona o consapevolmente permette lo scarico di effluenti industriali o di fogna, in violazione di un divieto imposto in base all’art. 86, da un edificio o da uno stabile: a) sul suolo o nel sottosuolo, ovvero b) nelle acque di un lago o di uno stagno che non siano acque dolci interne’’ (61). (57) Sentenza inedita della Crown Court del 17 giugno 1992, citata da Burnett, Hall, U.K. Environmental law, cit., 351-354. (58) Sempre nel senso della rilevanza come ‘‘inquinanti’’ delle sostanze che abbiano provocato un semplice scolorimento delle acque e che abbiano quindi comportato solo un pericolo potenziale e non effettivo per le acque, si è espressa anche la Corte d’Appello nel caso R. v. Dovermoss Ltd. (The Times, 3 febbraio 1995). (59) Art. 85, comma 2o, del Water Resources Act. (60) Art. 85, comma 3o, del Water Resources Act. (61) Art. 85, comma 4o, del Water Resources Act.
— 1358 — L’art. 85, c. 2-3-4, prevede quindi una serie di situazioni in cui lo scarico di certe sostanze costituisce un pericolo per l’ambiente. Il reato di scarico, in tutte e tre le ipotesi, è caratterizzato da una serie di presupposti di luogo e di circostanze di fatto, nonché dalla condotta a forma vincolata, che esulano completamente dal reato di immissione di cui al primo comma. Ciò in quanto lo scarico di per sé stesso non sempre costituisce un pericolo per le acque, ma soltanto quando avvenga in determinate circostanze e a determinate condizioni (62). Il reato di immissione, invece, non è vincolato da particolari modalità della condotta, in quanto la sua incriminazione si fonda sulla pericolosità delle sostanze versate. Questa differenza di formulazione a nostro giudizio potrebbe spiegare il motivo per il quale nella prassi la pubblica accusa tende a contestare più frequentemente il reato di immissione piuttosto che quello di scarico (63): dovrebbe essere più facile, infatti, provare che la condotta di immissione è stata causa dell’inquinamento delle acque in quanto aveva ad oggetto sostanze inquinanti, nocive o velenose, piuttosto che la provenienza, la destinazione e le modalità dello scarico che ha determinato l’inquinamento, oltre naturalmente alla natura pericolosa per le acque delle sostanze scaricate. Il fatto che questo reato sia strutturato in tre fattispecie, anziché in una sola come avviene nel reato di immissione, non è stato in alcun modo messo in evidenza e spiegato da parte di dottrina e giurisprudenza. A noi pare che la ratio stia in ciò, che nel caso in cui la condotta sia di scarico mediante fogne o altri condotti e non di versamento diretto nelle acque, si possono verificare situazioni tra loro eterogenee e quindi non ipotizzabili in un’unica norma, tutte pericolose per l’ambiente. Questa tecnica di formulazione nascerebbe, quindi, dall’esigenza di evitare vuoti di tutela. Potremmo individuare una prima distinzione normativa a seconda del modo di scarico e dell’oggetto scaricato: il secondo comma dell’art. 85, infatti, prevede l’ipotesi in cui l’inquinamento delle acque controllate derivi dallo scarico non attraverso la rete fognaria, ma mediante altri condotti, di sostanze per le quali, pur non essendo effluenti industriali o di fogna (64) l’Environment Agency ha imposto un divieto di scarico (65). Una seconda distinzione potremmo identificarla all’interno dell’ipotesi di scarico di effluenti industriali o di fogna nella rete fognaria: il terzo comma dell’art. 85, infatti, precisa che è punito non solo lo scarico nelle acque controllate ma, nel caso in cui provenga da terra, anche lo scarico nel mare al di là del limite delle acque controllate (66); e il quarto (62) Si è visto, infatti, che gli scarichi sono regolamentati dal Water Resources Act attraverso la previsione di autorizzazioni amministrative. Pertanto solo gli scarichi che fuoriescono dalla regolamentazione sono pericolosi e quindi puniti. (63) Si tenga presente che sul piano sanzionatorio la contestazione dell’uno o dell’altro reato è indifferente, in quanto le pene per i due sono identiche. (64) Sul significato di questi termini vedi infra L’OGGETTO MATERIALE DEL REATO. (65) Si tratta di sostanze che, pur non rientrando nella categoria di effluenti industriali o di fogna, i quali costituiscono sempre un pericolo per l’ambiente (salvo nei limiti dell’autorizzazione) sono considerate, in via d’eccezione, in ragione di loro composti o di particolari processi da cui derivano o di altre condizioni particolari (questo verrà meglio esposto nel paragrafo L’OGGETTO MATERIALE DEL REATO) pericolose per le acque. (66) La specificazione che lo scarico in mare oltre il limite delle acque controllate deve provenire da terra è dovuta al fatto che, qualora lo scarico provenga da navi, si applica altra disciplina speciale contenuta in una serie di leggi, distinte a seconda del tipo di scarico effettuato (rifiuti di origine terrestre, rifiuti prodotti direttamente sulle navi, sversamenti dalle navi di idrocarburi, ecc.). Per un’analisi di questa legislazione si rinvia al nostro lavoro La tutela penale del mare contro l’inquinamento nell’ordinamento inglese, in questa Rivista, 1998, 596 ss. Per completezza. si tenga presente, inoltre, che gli scarichi dalle navi, quando avvengono in mare entro il limite delle acque controllate, sono puniti in base all’art. 85 del Water
— 1359 — comma che è punito inoltre lo scarico sul suolo, nel sottosuolo o in laghi o stagni senza sbocco (vale a dire in acque che fuoriescono dalla definizione di corso d’acqua che li renderebbe annoverabili nelle ‘‘acque controllate’’), purché proveniente da uno stabile o da un edificio e sempre che gli effluenti siano scaricati in violazione di un divieto imposto dall’Ennvironment Agency in ragione della loro pericolosità per l’ambiente. La condotta, comune a tutte e tre le fattispecie, può assumere, come nel reato di immissione, due forme, quella di causazione o quella di consapevole permissione. A ciascuna di esse corrisponde un autonomo reato, per le cui caratteristiche si rinvia all’analisi fatta in precedenza in riferimento al reato di immissione. La condotta si realizza col cagionare o consapevolmente permettere lo scarico. Essa ha una portata più limitata rispetto alla condotta di immissione di cui al primo comma, in quanto il termine ‘‘scarico’’ indica un modo particolare di versamento di una sostanza nelle acque, vale a dire tramite rete fognaria o comunque attraverso un qualunque tipo di condotto, tubatura, o canale di scolo. La condotta di scarico rappresenta, comunque, uno dei possibili modi di immissione nelle acque, avendo quest’ultima una portata molto ampia comprensiva anche dello stesso scarico, con la conseguenza che tra i reati di immissione e di scarico esiste un rapporto di genus ad speciem. La dottrina afferma unanimemente in proposito che il reato di immissione è quello più largamente utilizzato proprio per la sua maggiore portata, mentre quello di scarico, più specifico, viene meno utilizzato, e comunque in sede processuale si tende sempre a contestarli entrambi — il reato di scarico in via principale, il reato di immissione in via sussidiaria — quando vi siano gli estremi per farlo, vale a dire nel caso in cui un soggetto abbia scaricato nelle acque controllate effluenti che siano nocivi, velenosi o inquinanti (67). Nella seconda e terza fattispecie di scarico l’oggetto della condotta è rappresentato da effluenti. Con questo termine si intende la massa totale dei rifiuti che si elimina attraverso le fognature in corrente liquida (da qui deriva l’uso del sinonimo liquame), per effetto delle acque meteoriche e di raffreddamento (c.d effluente bianco) o dell’acqua scaricata dall’interno degli edifici (c.d. effluente nero). Il tipo di condotta del reato di scarico consistente nel convogliamento tramite fogne o condotti, comporta che oggetto di essa siano non le sostanze nel loro stato originario, precedente all’uso che di esse venga fatto, come spesso accade nel reato di immissione, ma i liquidi di rifiuto che restano dopo che di una sostanza si sia già fatto uso e che vengono eliminati appunto attraverso la rete fognaria. I tipi di effluente previsti dall’art. 85 come oggetto delle condotte di scarico sono due: effluenti industriali ed effluenti di fogna. Per ‘‘effluenti industriali’’ si intendono i liquami provenienti da edifici adibiti ad uso commerciale o agricolo, da vivai, da stabilimenti di ricerca, ad esclusione delle acque reflue domestiche e delle acque meteoriche; per ‘‘effluenti di fogna’’ si intendono i liquami delle fogne eccetto quelli provenienti dagli edifici sopraccitati ed eccetto le acque meteoriche, quindi in pratica le acque di rifiuto domestiche (68). Gli effluenti oggetto materiale del reato di scarico sono quelli per i quali l’Environment Agency non ha dato l’autorizzazione allo scarico, ai sensi dell’art. 88 (69), o per i quali ha imposto un divieto ai sensi dell’art. 86. Quest’ultima ipotesi, che oltre agli effluenti può riguardare anche altre sostanze, si verifica quando tramite la rete fognaria vengano scaricate Resources Act, salvo si tratti di scarichi di effluenti industriali o di fogna e provengano da navi di piccole dimensioni (la legge fissa dei limiti di stazza in proposito), nel qual caso sono coperti dalla scriminante di cui all’art. 89, comma 2o, come si vedrà nel paragrafo CAUSE DI NON PUNIBILITÀ. (67) Vedi per tutti J. THORNTON & S. BECKWITH, Environmentai law, cit., 214. (68) Le definizioni sono date dal Water Resources Act all’art. 221. (69) Vedi infra CAUSE DI NON PUNIBILITÀ.
— 1360 — sostanze o effluenti che normalmente non sono pericolosi, non hanno cioè carattere inquinante per le acque, ma che in particolari circostanze possono diventarlo. In ragione di detta pericolosità, essi sono assoggettati ad un divieto assoluto o condizionato di scarico da parte dell’Environment Agency. In altri termini, il Water Resources Act, invece di creare una lunga serie di reati di scarico di specifiche sostanze o di specifiche concentrazioni di sostanze (70), ha preferito attribuire all’Environment Agency nell’ambito della sua competenza di controllo e tutela delle acque, il potere di vietare o sottoporre a condizioni, di volta in volta, con un proprio provvedimento, detto scarico a pena di commettere un reato ai sensi dell’art. 85. Il provvedimento stabilisce in modo specifico quali sostanze non devono essere scaricate in ragione della pericolosità di esse, o della loro concentrazione o del processo da cui esse derivano (71). Soggetto attivo del reato può essere non solo una persona fisica ma anche giuridica. Ciò è disposto espressamente dalla legge (72) ed è perfettamente in linea con i principi del diritto penale inglese, secondo cui la responsabilità penale è configurabile tanto in capo a singoli quanto in capo a enti, associazioni, persone giuridiche (73). Il fatto che la condotta del reato si configuri come scarico mediante fognature, condotti, tubature o canali di scolo, pone in alcuni casi il problema di individuazione del soggetto responsabile del reato. Ciò accade precisamente nei casi in cui lo scarico abbia ad oggetto effluenti di fogna (e non quindi effluenti industriali e le altre sostanze per le quali sia imposto un divieto di scarico) (74) e l’immissione nelle acque controllate avvenga tramite fognature facenti capo ad un’impresa privata appaltatrice (c.d. sewerage undertaker). L’ipotesi è presa in considerazione espressamente dal Water Resources Act all’art. 87 che dispone — come sempre con una norma estremamente contorta e complessa — che in questo caso la responsabilità per il reato di scarico è attribuita all’imprenditore che gestisce la rete fognaria, quando la sostanza inquinante inclusa nello scarico è stata ricevuta nella propria rete fognaria, sempre che egli fosse tenuto (incondizionatamente o a condizioni che sono state rispettate) a ricevere quelle sostanze nella propria rete fognaria e non abbia a sua volta ricevuto questi effluenti da altro gestore di fognature (c.d. gestore emittente, ‘‘sending (70) La tecnica di legiferazione dettagliata sarebbe stata legislativamente antieconomica, per la lunghezza dell’elenco di scarichi da vietare, e avrebbe comportato il rischio di lasciare dei vuoti di tutela, potendo sfuggire all’elenco alcune sostanze o alcune situazioni particolari di scarico. (71) L’art. 86 sancisce: ‘‘1. Ai fini dei reati di cui all’art. 85 uno scarico si considera in violazione di un divieto imposto in base a questa disposizione quando: a) l’Environment Agency ha dato ad una persona ingiunzione proibendo di effettuare o a seconda del caso continuare ad effiettuare, lo scarico; b) l’Environment Agency ha dato ad una persona ingiunzione proibendo di effettuare o a seconda del caso, continuare ad effettuare lo scarico salvo l’osservanza di specifiche condizioni e dette condizioni non siano state rispettate. 2. Lo scarico si considera altrettanto in violazione di un divieto imposto ai sensi di questa disposizione quando l’effluente o la sostanza scaricata: a) contiene una sostanza prescritta (nel divieto) o una concentrazione prescritta di detta sostanza o b) deriva da un prescritto processo o da un processo che comporta l’uso di prescritte sostanze o l’uso di sostanze in quantità che eccedono il limite prescritto’’. (72) L’art. 217 Water Resources Act sancisce che i reati previsti dalla presente legge possono essere commessi sia da una persona fisica sia da una persona giuridica: e che qualora essi siano commessi col consenso o la connivenza di un dirigente, di un responsabile o comunque di un rappresentante della persona giuridica, ovvero siano attribuibili alla condotta di questi ultimi, dei reati rispondono in concorso (e sono giudicati in un medesimo procedimento) la persona fisica e quella giuridica. (73) Nulla osta in tal senso, dato che il diritto penale inglese prevede una vasta gamma di pene, diverse delle quali sono compatibili con la natura fittizia delle persone giuridiche. (74) Il problema riguarda in altri termini le fattispecie previste dal terzo e dal quarto comma dell’art. 86.
— 1361 — undertaker’’), nel quale ultimo caso responsabile è considerato il gestore emittente, se era tenuto (incondizionatamente o a condizioni che sono state rispettate) a ricevere l’effluente contenente la sostanza inquinante. La responsabilità del gestore della fognatura è concorrente con quella dell’utente della rete fognaria, che ha effettuato lo scarico in violazione delle condizioni contenute nell’autorizzazione. Responsabilità concorrente del gestore fognario per il reato di scarico si è avuta, ad esempio, nel caso Attorney General’s Reference (N. 1 del 1994) (75). Il gestore, infatti, riceveva nella sua rete fognaria rifiuti tossici da parte di una società la quale svolgeva con regolare autorizzazione attività di raccolta e smaltimento degli stessi. I rifiuti, scaricati nella rete fognaria con apposite pompe la cui manutenzione era affidata ad una terza società, venivano dal gestore prima sottoposti a trattamento e poi versati in un fiume. Accadde che, a seguito del malfunzionamento di una pompa (l’unica in uso, peraltro, in quanto l’altra si era già precedentemente rotta), i rifiuti fuoriuscirono dalla pompa e si riversarono direttamente nel fiume, provocando una vasta moria di pesci. Vennero pertanto condannate (76) sia la società utente della rete fognaria, che aveva scaricato i rifiuti tossici nella rete fognaria (in quanto, pur essendo lo scarico avvenuto nel rispetto dell’autorizzazione, secondo la corte costituiva uno degli atti positivi causa dell’inquinamento), sia il gestore della rete in quanto tenuto a ricevere i rifiuti e in quanto lo scarico nella sua rete era avvenuto nel rispetto delle condizioni, sia la società addetta alla manutenzione delle pompe in quanto non aveva rilevato il cattivo stato della pompa, né quindi provveduto alla sua riparazione e non aveva sostituito l’altra già rotta (77). La ratio dell’incriminazione del gestore da parte del Water Resources Act (e da parte del Water Act in precedenza) a nostro giudizio potrebbe individuarsi nel voler costringere colui che gestisce una rete fognaria a svolgere questo servizio con la maggior responsabilità possibile, con doverosa diligenza, predisponendo tutti i mezzi più idonei ad evitare che nelle acque controllate finiscano sostanze pericolose per l’ambiente, per le quali non sarebbe stata concessa l’autorizzazione allo scarico. 3. I reati di aggravamento dell’inquinamento e di violazione delle condizioni di scarico. — Esistono, infine, due reati, previsti dal quinto e sesto comma, rispettivamente di aggravamento dello stato di inquinamento già in atto e di violazione delle condizioni di scarico. Il primo si verifica quando una persona « cagiona o consapevolmente permette l’immissione di qualunque sostanza nelle acque dolci interne in modo tale da tendere (direttamente o in combinazione con altre sostanze) ad impedire il regolare flusso delle acque in un modo che conduca o rischi di condurre, ad un sostanziale aggravamento: a) dell’inquinamento dovuto ad altre cause, ovvero b) delle conseguenze di tale inquinamento ». La norma — per la verità, molto articolata e di tortuosa formulazione, come è tipico (75) Corte d’Appello, 1995, 2 All E.R., 1007. (76) La responsabilità, nella specie, è stata fondata sull’art. 108 del Water Act del 1989, disposizione in vigore all’epoca del giudizio e che è stata poi sostituita, in termini sostanzialmente equivalenti, dall’art. 87 del Water Resources Act attualmente vigente. (77) Nel caso National Rivers Authority v. Yorkshire Water Services Ltd., precedentemente analizzato a proposito del nesso causale, la corte aveva, viceversa, escluso la responsabilità del gestore della rete fognaria, in quanto l’effluente scaricato, che aveva provocato l’inquinamento del fiume, conteneva una sostanza, l’iso-octanolo, che il gestore aveva espressamente escluso come oggetto di scarico nelle condizioni fissate nel contratto di utenza della sua rete fognaria. La violazione delle condizioni da parte dell’utente (violazione, peraltro, inconsapevole in quanto l’iso-octanolo era stato versato clandestinamente da un terzo non identificato) costituiva pertanto una scriminante per il gestore ai sensi dell’art. 108, comma 7o, del Water Act del 1989 (norma identica all’art. 87 del Water Resources Act, che la ha oggi sostituita).
— 1362 — della legislazione scritta inglese — punisce sostanzialmente tutte quelle condotte di immissione di sostanze di qualunque tipo nelle acque interne che abbiano come effetti a catena l’alterazione del flusso e l’aggravamento dell’inquinamento già in atto o delle sue conseguenze. Anche per questo reato è prevista la duplice forma di causazione e di consapevole permissione, che hanno ad oggetto la condotta più generale di ‘‘immissione’’ anziché di scarico. Pertanto le modalità con le quali la sostanza può essere versata nel corso d’acqua, sono molteplici, vale a dire sia mediante versamento diretto sia con scarico tramite condotte. L’oggetto dell’immissione è altrettanto ampio, in quanto si parla di ‘‘qualunque sostanza’’: non si richiede, cioè, né che essa rientri in determinate definizioni, come accade nel reato di scarico (effluenti industriali, di fogna ecc.), né che abbia determinate caratteristiche, come accade nel reato di immissione (sostanze velenose, nocive, inquinanti). Un’altra anomalia rispetto alle altre due fattispecie incriminatrici la cogliamo nella struttura di questo reato, vale a dire nel fatto di essere un reato di evento anziché di pura condotta: si richiede infatti che l’immissione delle sostanze abbia l’effetto di determinare l’alterazione del flusso delle acque (primo evento), nonché l’aggravamento dell’inquinamento gia verificatosi per altre cause o delle sue conseguenze (secondo evento). Si tratta di un reato che necessariamente presuppone uno stato di inquinamento, e quindi presumibilmente la commissione di altro reato d’inquinamento (vale a dire o quello di immissione o quello di scarico). Finora esso non ha trovato pratica applicazione nelle corti inglesi, continuando ad essere utilizzato con maggiore frequenza il reato di immissione e in misura inferiore quello di scarico. 4. Cause di non punibilità. — Gli artt. 88 e 89 del Water Resources Act prevedono alcune situazioni in presenza delle quali i reati di cui all’art. 85 — sia di causazione o permissione dell’immissione sia di causazione o permissione dello scarico — non sono punibili (78). Una prima ipotesi (79) si ha quando l’immissione o lo scarico avvenga in conformità alle condizioni stabilite in un’autorizzazione rilasciata ai sensi della presente legge, ovvero in conformità a un’autorizzazione rilasciata in base all’I.P.C. (80) o a una licenza per il trattamento e smaltimento dei rifiuti, o a una licenza per lo smaltimento di effluenti in mare ai sensi del Food and Environment Protection Act; e in ogni altro caso in cui una legge o un regolamento lo autorizzi. La ratio di questa defence è da individuarsi nella mancanza nelle suddette ipotesi di pericolo di inquinamento per le acque che, altrimenti, giustificherebbe l’esistenza del reato e l’applicazione della pena. Se l’immissione o lo scarico riguarda sostanze consentite e avviene nei modi consentiti da un’autorizzazione amministrativa, significa che non c’è pericolo di inquinamento delle acque. Come si è già accennato in precedenza, l’art. 89, al secondo comma, dichiara non punibili gli scarichi in mare (nel limite delle acque controllate, naturalmente) di effluenti industriali e di fogna effettuati da navi di piccola stazza (c.d. vessels) (81). (78) Le situazioni in questione costituiscono una sorta di cause di giustificazione, in quanto in presenza di esse l’immissione o lo scarico diviene lecito. Nell’ordinamento inglese sono chiamate defences. (79) Art. 88 del Water Resources Act. (80) Con la sigla I.P.C. si intende l’Integrated pollution control che è un sistema di controllo dell’inquinamento a carattere integrale, vale a dire rivolto a tutela di tutto l’ambiente, atmosferico, idrico, terrestre, che è stato introdotto dall’Environmental Protection Act del 1990. (81) Questa causa di non punibilità va inoltre coordinata con l’art. 86, comma 2o, che dispone che gli scarichi dalle navi di piccola stazza non possono essere vietati dall’Environment Agency pur quando ricorrano i requisiti per l’emissione del divieto ai sensi del
— 1363 — Vi è poi una defence simile al nostro stato di necessità, chiamata emergency (82), che opera quando l’immissione o lo scarico è cagionato o permesso ‘‘per prevenire un pericolo per la vita umana o per la salute, purché l’agente abbia adottato tutte le misure possibili per contenere l’estensione dell’immissione o per mitigare i suoi effetti ed abbia immediatamente informato dell’immissione o dello scarico l’Environment Agency ». Una situazione di questo tipo si potrebbe verificare, ad esempio, nei casi di trasporto fluviale di grossi quantitativi di sostanze o materiali inquinanti, quando per l’insorgere di un problema grave risulti necessario versare in acqua le sostanze stesse per salvare le persone a bordo. Esiste poi una defence che copre il reato di immissione e non quello di scarico, che riguarda il caso in cui le sostanze immesse provengano da miniere o cave, e si articola in due ipotesi. La prima copre la sola ipotesi di permissione, quando ha ad oggetto l’immissione di sostanze liquide di rifiuto, provenienti da miniere abbandonate (83). Questa disposizione, tuttavia, avrà applicazione ancora per poco tempo, in quanto l’Environment Act del 1995 prevede all’art. 60 che essa venga abrogata a partire dal primo gennaio 2000 e quindi che si applichi solo alle miniere abbandonate prima di tale data. La seconda si realizza quando vengano depositati sul suolo rifiuti solidi provenienti da cave o miniere — salvo si tratti di sostanze tossiche — i quali si riversino in acque dolci senza sbocco, purché vi sia un’autorizzazione dell’Environment Agency e siano state adottate tutte le precauzioni ragionevoli per evitare l’immissione dei rifiuti nelle acque (84). Come si è già avuto modo di far presente in precedenza, non esiste più la defence c.d. della ‘‘buona pratica agricola’’, che era prevista dal Control of pollution Act del 1974, e che copriva le immissioni realizzate nell’esercizio dell’attività agricola, purché questa fosse conforme alle regole della buona pratica agricola stabilite da un codice approvato dal Ministero per l’agricoltura, la pesca e l’alimentazione. Essa è stata abrogata dal Water Act del 1989. Vi è, infine, una defence prevista specificamente per gli scarichi di effluenti da parte di navi, che trova una propria regolamentazione ad hoc in regolamenti (85). 5. Pene e misure preventive. — Per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio, i reati di immissione e di scarico — sia nell’ipotesi di causazione che nell’ipotesi di permissione — sono puniti con la pena detentiva fino a tre mesi, alternativa o cumulativa ad una pena pecuniaria fino a ventimila sterline, in caso di summary conviction; e con la pena detentiva fino a due anni, alternativa o cumulativa ad una pena pecuniaria indefinita (vale a dire, lasciata alla libera determinazione del giudice), in caso di conviction on indictment (86). Queste pene, in realtà, non sempre costituiscono un buon deterrente per la ‘‘criminalità ambientale’’. Dalla casistica analizzata, infatti, si è potuto verificare come nella maggior parte dei casi l’inquinamento delle acque è provocato non dal gesto occasionale di un sinprimo comma dell’art. 86, vale a dire quando il materiale o l’effluente scaricato contiene una determinata sostanza o concentrazione di sostanza ritenuta pericolosa dall’Environment Agency. Quindi le navi di piccola stazza possono rispondere solo del reato di immissione di sostanze nocive, velenose o inquinanti e del reato di aggravamento dell’inquinamento. (82) Art. 89, comma 1o, del Water Resources Act. (83) Art. 89, comma 3o, del Water Resources Act. (84) Art. 89, comma 4o, del Water Resources Act. (85) Questa ipotesi riguarda le condotte tenute in mare dalle navi. Sul punto si rinvia al nostro La tutela penale del mare contro l’inquinamento nell’ordinamento inglese, in questa Rivista, 1998, 596 ss. (86) Per summary conviction si intende la condanna pronunciata da un organo giudicante senza giuria; per conviction on indictment si intende la condanna pronunciata da un organo giudicante con giuria. Il primo tipo di procedimento si attua nei confronti delle summary offences, cioè dei reati punibili con pena detentiva non superiore a tre mesi; il secondo ai reati di maggiore gravità, detti indictable offences.
— 1364 — golo, ma nell’ambito di un’attività produttiva, industriale o agricola che sia. Si sono viste condannare in casi famosi, che spesso sono diventati precedenti, distillerie, industrie cartacee, industrie del gas e così via. Nei confronti di detti soggetti ci sembra che la pena pecuniaria (87) non costituisca quasi mai un deterrente efficace, perché di regola il vantaggio economico che gli imprenditori traggono svolgendo la loro attività senza l’adozione di particolari sistemi di prevenzione dell’inquinamento — pur tenuto conto dell’eventuale perdita economica dovuta al pagamento della pena pecuniaria (88) nel caso in cui si verifichi l’inquinamento — è largamente superiore rispetto a quello che otterrebbero da un’attività strutturata con l’impiego di costosi sistemi di prevenzione inquinamento. Una maggiore efficacia preventiva ci sembra che potrebbero avere pene come la chiusura temporanea dello stabilimento dal quale è stata causata l’immissione di sostanze inquinanti nelle acque, oppure l’interdizione temporanea dallo svolgimento dell’attività di dirigente di imprese. In considerazione delle osservazioni suesposte, l’Environment Act del 1995 ha inserito nel Water Resources Act del 1991 una disposizione, l’art. 161 A, che disciplina il potere dell’Environment Agency di ordinare al soggetto inquinatore un’azione di prevenzione o di rimedio, ovvero di provvedere egli direttamente alle operazioni necessarie a prevenire o eliminare gli effetti dell’inquinamento, a spese del soggetto inquinatore (89). L’Environment Agency può provvedere direttamente all’adozione delle necessarie misure di prevenzione — in caso di pericolo di inquinamento — o alle operazioni di rimedio — in caso di inquinamento già avvenuto — soltanto nel caso in cui egli ritenga necessario intervenire immediatamente, ovvero quando, a seguito di indagini, non si riesca a contattare il soggetto inquinatore. Negli altri casi, l’Environment Agency deve procedere alla notifica, nei confronti del responsabile dell’inquinamento o del pericolo di inquinamento, di un’ingiunzione ad adottare specifiche misure di prevenzione ovvero a compiere determinate operazioni di ripristino dello status quo ante (detta works notice) (90). Nel caso in cui il soggetto intimato non provveda ad adottare le misure o a compiere le operazioni richieste nel tempo stabilito, l’Environment Agency provvede direttamente a farlo, a spese del soggetto inadempiente, il quale si rende in tal modo anche responsabile di un reato punibile alla stessa stregua di quelli previsti dall’art. 85 del Water Resources Act (91). L’accollo delle spese di depurazione delle acque, in caso di inquinamento, o di prevenzione dell’inquinamento, data la loro gravosità, dovrebbe, nelle intenzioni del legislatore, costituire per il futuro un deterrente più efficace di quanto non lo siano state finora le sanzioni penali nei confronti degli inquinatori. (87) In realtà, oltre alla pena pecuniaria la legge prevede la pena detentiva, che in relazione alle persone giuridiche potrebbe essere applicata ai soggetti che abbiano agito nell’interesse delle stesse. Nella prassi, però, essa non trova mai applicazione. (88) La pena pecuniaria, pur non essendo vincolata a dei limiti edittali, di fatto non è mai irrogata dalle corti in somme particolarmente elevate, tali da costituire un buon deterrente. (89) L’art. 161 del Water Resources Act del 1991 in realtà, prevedeva già il potere dell’Environment Agency di adottare misure di prevenzione, in caso di pericolo di inquinamento, e azioni di rimedio, in caso di inquinamento delle acque; ma non specificava se detto potere poteva concretarsi nell’effettivo compimento delle operazioni di prevenzione o di rimedio con accollo delle spese al soggetto inquinatore o se dovesse semplicemente fermarsi ad una fase istruttoria di investigazione sull’esistenza del pericolo o dell’inquinamento delle acque. L’Environment Act del 1995 ha, pertanto, portato chiarimenti sulla portata effettiva di detti poteri in capo all’Environment Agency. (90) Art. 161 A, comma 11o. (91) Art. 161 A, comma 11o.
— 1365 — 6. Reati minori previsti da altre leggi. — Dall’analisi appena ultimata emerge come il fenomeno dell’inquinamento delle acque controllate sia disciplinato dal Water Resources Act in modo dettagliato e completo sia dal punto di vista preventivo che da quello repressivo. Ciò nonostante, continuano a rimanere in vigore alcune disposizioni penali sparse in varie leggi antecedenti al Water Resources Act, la cui presenza ci pare in realtà del tutto superflua, potendo le fattispecie da esse previste essere ricomprese nell’ampia formulazione dei reati di immissione e di scarico previsti dall’art. 85 del Water Resources Act (92). Ci stupisce quindi che il legislatore nel Water Resources Act, o anche prima nel Water Act non abbia provveduto ad abrogarle espressamente. Una delle più risalenti è prevista dall’art. 68 del Public Health Act del 1875, il quale prevede il reato di colui che nell’esercizio di un’attività di produzione di gas cagiona o permette che siano trasportate o riversate in determinate acque sostanze per il lavaggio o di altro genere prodotte nella lavorazione e nell’erogazione del gas; ovvero compie dolosamente un atto, connesso con la lavorazione o l’erogazione, attraverso il quale le acque vengono sporcate. Il reato è punibile con una pena pecuniaria di 200 sterline, cui si aggiunge il pagamento di quote giornaliere di 20 sterline per la durata di tutto il periodo in cui permangono le conseguenze dannose del reato, a decorrere dalla scoperta del fatto. La superfluità di questa disposizione emerge già dall’esiguità di questa pena, che nel tempo non è stata neppure aggiornata e risulta oggi del tutto sproporzionata e anacronistica. L’unica disposizione di un certo rilievo, nonché con qualche applicazione giudiziale, è sancita dall’art. 4 del Salmon and Freshwater Fisheries Act del 1975 che prevede il reato di chi ‘‘cagiona o consapevolmente permette il fluire, ovvero immette o consapevolmente permette che vengano immesse in acque ittiche o in affluenti di queste sostanze solide o liquide in quantitativo tale da rendere le acque stesse nocive per i pesci, per le uova o per il loro nutrimento ». La fattispecie ha la prima parte della condotta in comune con quella prevista dall’art. 85 del Water Resources Act, vale a dire il cagionare o consapevolmente permettere. La giurisprudenza in proposito afferma che ‘‘cagionare’’ va inteso con lo stesso significato che essa ha attribuito a partire dal caso Alphacell al ‘‘cagionare’’ previsto prima dal Rivers (Prevention of Pollution) Act del 1991, poi dal Water Act del 1989 e infine dal Water Resources Act del 1991. Per cagionare, cioè, è necessario porre in essere almeno un atto positivo, essendo irrilevante un comportamente meramente passivo; atto che non deve essere necessariamente sostenuto dall’elemento psicologico del dolo o della colpa (mens rea), trattandosi di reato a responsabilità oggettiva, fondato cioè sul solo nesso causale tra la condotta e l’evento dannoso o pericoloso (absolute offence) (93). La seconda parte della condotta si discosta parzialmente da quella prevista dall’art. 85 del Water Resources Act. Si richiede, infatti, che il cagionare o consapevolmente permettere riguardi il fluire ovvero l’immettere nelle acque sostanze liquide o solide in quantitativo tale da rendere le acque stesse nocive per i pesci o per le loro uova. Mentre la condotta di immissione è comune a quella del reato previsto dall’art. 85 (94), l’altra (cagionare o permettere il (92) Prova ne è il fatto che queste disposizioni non trovano quasi mai applicazione pratica. (93) Per l’estensione al ‘‘cagionare’’ previsto dall’art. 4 del Salmon and Freshwater Fisheries Act dell’interpretazione giurisprudenziale relativa al reato di ‘‘cagionare l’immissione di sostanze velenose, nocive o inquinanti nelle acque controllate’’, cfr. National Rivers Authority v. Welsh Development Agency, Queen’s Bench Divional Court, 10 dicembre 1992, 158 J.P. 506. (94) Si noti unicamente che il legislatore nelle due disposizioni usa verbi diversi — ‘‘put’’ nell’art. 4 del Salmon and Freshwater Fisheries Act, ‘‘enter’’ nell’art. 88 del Water Resources Act —, ma il significato è sostanzialmente il medesimo. Probabilmente il cambiamento di termini è dipeso dal fatto che il verbo enter meglio si accosta rispetto al generico
— 1366 — fluire) è del tutto estranea sia all’art. 85 del Water Resources Act, sia alle norme incriminatrici previste dalle leggi che lo hanno preceduto (95). Sulla portata di questa condotta non si rinviene alcunché né in giurisprudenza né in dottrina. A ben vedere, ci sembra abbastanza ridotto l’ambito di applicazione di questa parte di disposizione: infatti, cagionare lo scorrere-fluire di una sostanza significa sostanzialmente immetterla nelle acque, e quindi finisce per essere un’ipotesi pleonastica rispetto a quella di immissione. Resta, pertanto, applicabile solo la fattispecie di consapevolmente permettere il fluire di una sostanza inquinante. Questa rappresenta una condotta cronologicamente successiva rispetto a quella di immissione e serve quindi a rendere punibile chi, non avendo immesso la sostanza, la lascia scorrere, pur rendendosi conto del pericolo di inquinamento che comporta, e pur avendo il potere e dovere di impedirlo (96). In ordine alle condotte di immettere e di consapevolmente permettere l’immissione esiste tra l’art. 4 del Salmon and Freshwater Fisheries Act e l’art. 85 del Water Resources Act un rapporto di specialità a favore del primo, in quanto l’immissione deve riguardare sostanze velenose o nocive non per chiunque (uomo, fauna o flora), ma specificamente per la fauna ittica (pesci o loro uova) e di conseguenza l’immissione deve avvenire non in qualunque tipo di acque correnti ma solo in quelle dove esista una fauna ittica (97). Ciò nonostante nelle rare applicazioni giurisprudenziali rinvenute, si nota la tendenza delle corti ad applicare i due reati in concorso, escludendosi quindi un concorso apparente di norme (98). Nelle norme di attuazione del Water Resources Act si precisa, ai fini di coordinamento tra l’art. 85 della stessa legge e l’art. 4 del Salmon and Freshwater Fisheries Act, e per un principio di non contraddizione dell’ordinamento, che qualora sussistano gli estremi dell’art. 4, esso non si applica nell’ipotesi in cui il fatto non sia punibile neppure ai sensi dell’art. 85 in quanto l’immissione sia stata cagionata in base e in conformità ad un’autorizzazione rilasciata ai sensi del Water Resources Act ovvero sia il risultato di un’azione od omissione conforme alla suddetta autorizzazione (99). Al di fuori del ricorso della scriminante suesposta, il reato previsto dall’art. 4 del Salmon and Freshwater Fisheries Act è punito con una pena pecuniaria di 400 sterline, in caso di summary conviction, cui va aggiunta la somma di 40 sterline al giorno per tutto il periodo in cui permangono le conseguenze dannose del reato dopo la condanna; con la pena detentiva fino a due anni cumulativa o alternativa ad una pena pecuniaria discrezionale, in caso di conviction on indictment. Esistono, infine, due disposizioni che riguardano forme particolari di inquinamento. Si put all’oggetto cui si riferisce (acque). Si tenga presente che gli inglesi danno un certo peso alle sfumature di significato dei termini che usano, fatto abbastanza curioso e paradossale se si pensa alla povertà del loro vocabolario rispetto al nostro. (95) L’art. 2 del Rivers (Prevention of Pollution) Act del 1951 e l’art. 107 del Water Act del 1989. (96) Si è visto, infatti, a proposito del reato di cui all’art. 85 del Water Resources Act che la condotta di ‘‘permissione’’ presuppone un potere-dovere di agire e consiste nell’omettere di prevenire l’inquinamento, vale a dire nel rimanere inattivi quando si ha il potere di intervenire per evitare l’inquinamento (Alphacell). (Cfr. il paragrafo LA CONDOTTA DI ‘‘CONSAPEVOLMENTE PERMETTERE L’IMMISSIONE DI SOSTANZE NOCIVE, VELENOSE O INQUINANTI’’). Dato che la giurisprudenza tende a estendere l’mterpretazione della condotta di ‘‘cagionare’’ prevista dall’art. 85 a quella prevista dall’art. 4 del Salmon and Freshwater Fisheries Act, si può dedurre che ciò valga anche per la condotta di ‘‘permettere’’. (97) Le acque cui si riferisce il reato sono sia quelle interne sia quelle marine. Queste ultime ricomprendono, ai sensi dell’art. 2, comma 7o, del Salmon and Freshwater Fisheries Act le acque che dalla costa si estendono fino ad un raggio massimo di 6 miglia nautiche (c.d. mare territoriale). (98) Vedi National Rivers Authority v. Welsh Development Agency, cit. (99) Art. 30, Sch 1, del Water Consolidation (Consequential Provisions) Act del 1991.
— 1367 — tratta dell’art. 35 dell’Animal Health Act del 1981 e dell’art. 73 dell’Harbours Docks and Piers Clauses Act del 1847. Il primo prevede il reato di chi senza autorizzazione o altra causa di giustificazione salva prova contraria, posta a suo carico — getta, immette ovvero cagiona o permette che sia gettata o immessa in un fiume, torrente, canale o altro corso d’acqua, ovvero nel mare in un raggio di Km. 4,8 dalla costa, la carcassa di un animale morto o massacrato. Il fatto è punibile con una pena pecuniaria di 400 sterline unitamente ad una somma di 40 sterline ogni Kg. 508 di peso della carcassa. Il secondo prevede il reato di chi getta o immette in un porto o in un bacino zavorra, terra, ceneri, pietre o altri oggetti, salvo che ciò avvenga nel compimento di opere per la conservazione, il recupero o la bonifica di terreni, ovvero per la protezione di questi dagli straripamenti dei fiumi. Il fatto, data la lieve entità del danno arrecato, è punibile con una pena pecuniaria di 25 sterline. Questi reati si distinguono dagli altri perché hanno la caratteristica di causare esclusivamente un tipo di inquinamento biologico anziché chimico, vale a dire un inquinamento consistente soltanto nello sporcare le acque con elementi naturali (carcasse di animali, terra, pietre ecc.). Questa naturalità ci induce anzi a pensare che più che di inquinamento si debba forse più correttamente parlare di deturpamento delle acque, in quanto non si verifica tanto un’alterazione della composizione delle acque quanto piuttosto del loro aspetto visivo. Sembra pertanto sproporzionato elevare queste condotte a illeciti penali. Più propriamente rivolte alla prevenzione e repressione dell’inquinamento in senso tecnico, vale a dire provocato da materiali o sostanze creati dall’uomo, e quindi difficilmente biodegradabili, sono le norme previste dal Water Resources Act, dal Salmon and Freshwater Fisheries Act e dal Public Health Act. La loro natura di illecito penale risulta quindi maggiormente giustificata rispetto alle altre summenzionate disposizioni. 7. La public nuisance nella common law. — Per la tutela delle acque la common law utilizza sia strumenti civilistici sia strumenti penalistici. Essa prevede, infatti, una figura, la nuisance, che si presenta in due forme, la public nuisance e la private nuisance (100). La public nuisance (turbativa pubblica), che costituisce sia illecito civile sia reato, si configura quando un soggetto compie ‘‘un’azione non autorizzata od omette di adempiere un dovere giuridico da cui deriva un pericolo per la vita, la salute, la proprietà, la morale, pubbliche, ovvero cagiona un impedimento all’esercizio o al godimento di diritti comuni a tutti i sudditi di Sua Maestà » (101). La private nuisance si configura quando un soggetto tiene una condotta, attiva od omissiva, che interferisce con l’uso o il godimento di un bene immobile o di un diritto su di esso ovvero collegato ad esso, in danno dell’avente diritto (102). La differenza tra le due figure si incentra sui beni tutelati e quindi sui soggetti passivi: la condotta di ‘‘disturbo’’ — che è comune a entrambe le figure — ha ad oggetto beni collettivi (salute e incolumità pubblica, morale pubblica, proprietà pubblica) e quindi si rivolge contro una generalità di persone, nel caso della public nuisance; ha ad oggetto un singolo bene immobile e quandi si rivolge contro il titolare di esso, nel caso della private nuisance. Sul piano dell’imputazione, inoltre, mentre la private nuisance è attribuita oggettiva(100) La public nuisance trova origine nella common law, in quanto è stata creata dalla giurisprudenza — la sua formulazione, cioè, è stata elaborata dalle corti nel corso del tempo —, ma è attualmente prevista anche in varie leggi (statutes) di settori variegati, dalla tutela dell’incolumità pubblica (ad esempio nel Public Health Act del 1936), a quella dell’ambiente (ad esempio nell’Environmental Protection Act del 1990), le quali puniscono come public nuisance fatti di vario genere, tutti caratterizzati da una condotta di molestia o disturbo nei confronti di una collettività, che è l’elemento tipico di questa fattispecie. (101) L.F. STURGE, A digest of the criminal law, 8a ed., 1947, art. 235. (102) ROGERS, WINFIELD, JOLOWICZ, On tort, 14a ed., 1994, p. 408.
— 1368 — mente sulla base del mero nesso di causalità (103), la public nuisance richiede almeno la colpa (104), pur non essendo necessario il dolo. Sul piano delle conseguenze, infine, la public nuisance permette a colui che ha subito la turbativa di ottenere, oltre alla compensazione del danno subito, anche l’ingiunzione alla cessazione della molestia; la private nuisance comporta solo il risarcimento del danno. Nell’ipotesi in cui una turbativa privata assurga anche a pubblica, in quanto coinvolga gli interessi di una pluralità di persone, e abbia provocato un ‘‘danno speciale’’ ad un soggetto, quest’ultimo può scegliere tra agire per private nuisance o per public nuisance. Di prassi la scelta cade preferibilmente sulla seconda, sia per la maggiore ampiezza di strumenti di tutela offerti a favore del danneggiato, sia perché sul piano probatorio la public nuisance, a differenza della private nuisance, non richiede che venga dimostrato il possesso del diritto leso dalla condotta di turbativa. Dato che consiste nella turbativa dell’uso o godimento di un bene immobile o di un diritto su di esso o ad esso collegato, la nuisance può costituire uno strumento di tutela delle acque. Il diritto di proprietà, infatti, nell’ordinamento inglese, comporta una serie di facoltà e diritti quali ad esempio il diritto di usare l’acqua di un corso che scorre in prossimità di un terreno, detto ‘‘diritto rivierasco’’ (riparian right) e, per principio generale di common law, quest’ultimo include il diritto di ricevere l’acqua che scorre sul proprio terreno o adiacente ad esso in uno stato incontaminato, non inquinato. Questo diritto non è esclusivo di un soggetto, ma in realtà si pone in capo a tutti coloro che hanno una proprietà adiacente ad un corso d’acqua. Qualora una condotta di turbativa provochi un danno speciale ad un soggetto che abbia un diritto rivierasco sulle acque di un corso, questi può agire per public nuisance. La soddisfazione delle sue richieste, però, non avviene automaticamente dimostrando che c’è stata turbativa nell’uso e godimento delle acque, ma solo quando la corte, nel bilanciare l’interesse di tale proprietario con quello di altro titolare del diritto rivierasco su dette acque che ha provocato la turbativa nell’esercitarlo, reputi prevalente il primo. Ciò per la ragione suddetta che il diritto rivierasco sulle acque di un corso non è mai esclusivo di un soggetto. Un esempio di bilanciamento di interessi si è avuto nel caso Young & Co. v. Bankier Distillery Co. (105). Una distilleria situata sulle sponde di un fiume — sulle cui acque essa aveva un diritto rivierasco — aveva agito per private nuisance nei confronti di una società, collocata anch’essa in riva a quel fiume (in un punto più a monte) dove svolgeva attività estrattiva, in quanto gli scarichi della miniera avevano alterato le caratteristiche naturali delle acque con conseguente mutamento della qualità del whisky prodotto con quelle acque. La corte, in primo luogo, mise in evidenza che il diritto rivierasco era riconosciuto in capo ad entrambi i soggetti, in quanto tutti e due avevano un diritto di proprietà su un terreno situato sulle sponde dello stesso fiume. Si doveva, pertanto, procedere ad un’‘‘azione di bilanciamento’’ per determinare se c’era stata turbativa e quale tra i due usi confliggenti dei diritti rivieraschi fosse ragionevole. La corte, considerando prevalente il diritto rivierasco della distilleria, riconobbe la responsabilità della società mineraria per private nuisance. Nel caso in cui la condotta inquinante di un soggetto comporti un danno particolare per il diritto rivierasco di un singolo, ma coinvolga anche la salute o l’incolumità di una generalità di persone, la tutela delle acque, come si è già detto, è apprestata anche attraverso l’illecito civile e penale di public nuisance. Esso è stato ritenuto sussistente ad esempio in un caso (106) in cui una società del gas aveva scaricato i rifiuti di gas in un fiume, inquinandolo. Gli scarichi, infatti, avevano provo(103) Southport Corpn. v. Esso Petroleum Co. Ltd., 1954, 2 Q.B., 197. (104) Moore, 1832, 3 B. & Ad., 184. (105) 1893, A.C., 691. (106) R. v. Medley, 1834, 6 C. & P., 292.
— 1369 — cato un grosso danno per la flora e fauna fluviale (107), nonché un pericolo per la salute pubblica in quanto l’acqua era diventata non potabile. Analogamente è stata riconosciuta un’ipotesi di public nuisance in un caso (108) in cui una società — che, in base ad un’autorizzazione amministrativa, era impegnata a prelevare acqua da alcuni ruscelli per realizzare un canale — aveva scaricato i propri rifiuti industriali nei suddetti ruscelli, inquinandoli. In conseguenza degli scarichi, i ruscelli inquinati emanavano effluvii maleodoranti che avevano reso insalubre l’aria della zona circostante comprendente centri abitati, con conseguente pericolo per la salute pubblica. La public nuisance come reato ha natura sussidiaria in quanto — sia in materia di inquinamento sia negli altri settori nei quali può configurarsi — è contestato soltanto in ordine a quelle condotte per le quali la statute law non preveda altro reato o lo preveda con una pena inferiore. Alla sua contestazione, inoltre, viene in genere preferita quella per l’illecito civile di public nuisance in quanto, come si è già detto, ciò che interessa a coloro che sono stati lesi dalla condotta inquinante è ottenere il ripristino dello status quo ante, quando possibile o altrimenti il risarcimento del danno, piuttosto che la punizione del soggetto inquinante (109). Ciò spiega il fatto che la common law si è sviluppata maggiormente nel settore civilistico piuttosto che in quello penalistico per la tutela delle acque. ANTONELLA MADEO Ricercatore di Diritto penale Università di Genova
(107) Si era registrata infatti una vasta moria di pesci. (108) R. v. Bradford Navigation co., 1865, 29 J.P., 613. (109) È interessante notare come in Inghilterra l’azione civile per danni derivanti da inquinamento (quindi conseguenti alla commissione dell’illecito di private nuisance) possa essere intentata direttamente dal privato che ha subito il danno, a differenza del nostro ordinamento dove ciò non è possibile in quanto deve costituirsi come attore un ente o un’associazione rappresentante gli interessi di una categoria nella quale rientri il soggetto che ha subito il danno (ad esempio l’Associazione Consumatori, Legambiente, Italia Nostra ecc.).
L’ELEMENTO PSICOLOGICO DEL CRIMINE INTERNAZIONALE NELLA PARTE GENERALE DELLO STATUTO DELLA CORTE INTERNAZIONALE PENALE
SOMMARIO: 1. Introduzione: il concetto di responsabilità internazionale penale individuale. — 2. Il principio di personalità della responsabilità internazionale penale. — 3. L’elemento soggettivo: il significato della clausola di rinvio « unless otherwise provided ». — 4. La nozione di intenzione (intention) e consapevolezza (knowledge). — 5. La prevedibilità delle conseguenze normali della condotta. — 6. Accertamento dell’elemento psicologico. — 7. L’elemento psicologico nella responsabilità dei capi militari e di altri superiori gerarchici. — 8. Errore sul fatto. — 9. Erronea supposizione di cause di giustificazione. — 10. Errore di diritto. — 11. Errore di diritto e coscienza dell’illiceità del fatto. 1. Introduzione: il concetto di responsabilità internazionale penale individuale. — Con l’approvazione dello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale (1), adottato da 120 Stati in seno alla Conferenza diplomatica delle Nazioni Unite a Roma, il 17 luglio 1998, il cd. diritto internazionale penale giunge, almeno in via di principio, ad una svolta decisiva (2). Per la prima volta una maggioranza qualificata di Stati ha accettato di attribuire — il che avverrà con l’entrata in vigore dello Statuto a seguito della ratifica dello stesso da parte della maggioranza degli Stati più uno ai sensi dell’art. 125 (3) — una propria funzione tipica di cd. dominio riservato, rappresentata dalla potestà punitiva, ad un organismo internazionale, con competenza generale e precostituita per legge, al fine di conferirgli una giurisdizione su individui per gravi crimini commessi sul proprio territorio o da propri cittadini all’estero (art. 12). Tale trasferimento di « atti di imperio » (4) riguarda i più gravi crimini del diritto internazionale (art. 5) i cd. core crimes, che ledono l’ordine pubblico internazionale, recando offesa al diritto delle genti (crimina iuris gentium). La prima notazione importante ai fini del presente studio è, dunque, che la Corte non avrà giurisdizione sugli Stati, ma (1) Per una ricostruzione del processo diplomatico che ha condotto all’adozione dello Statuto della Corte internazionale penale cfr. A Court is born. Applause, relief and Jubilation as US and Indians Amendments are rejected, in On the Record, vol. I, Issue 22, July 17, 1998 (in www.igc.org/icc). (2) Per una visione di insieme dello Statuto cfr. VASSALLI, Statuto di Roma. Note sull’istituzione di una Corte penale internazionale, in Riv. di studi politici internazionali, 1999, 9 ss. (3) L’Italia ha ratificato lo Statuto con la L. 232/99 in Suppl. Gazzetta Ufficiale n. 167, 19 luglio 1999. Sulla implementazione dello Statuto di Roma nella legislazione italiana cfr. F. BENVENUTI, Italy and implementation of the ICC Statute in national legislation, in The implementation of the International criminal Court in domestic legal systems, relazione tenuta al Convegno di Teramo 12 novembre 1999 dal titolo The implementation of the International criminal Court in domestic legal systems. (4) In tal senso D. DONAT CATTIN, Lo Statuto di Roma della Corte internazionale: riflessioni a margine della Conferenza diplomatica dell’ONU, in La Comunità Internazionale, 1998, 703 ss., in particolare a pag. 707.
— 1371 — sugli individui (art. 25 dello Statuto); la seconda è che la sua giurisdizione è ispirata al principio di complementarità. Siffatta conformazione della giurisdizione della CIP, disegnata nello Statuto di Roma, fa definitivamente tramontare l’idea, — emersa in meno recenti proposte avanzate anche in seno alle Nazioni Unite, nella Commissione del diritto internazionale (5) e nel corso dei lavori preparatori allo Statuto (6), — che la Corte internazionale dovesse giudicare sia sugli individui, che materialmente realizzino comportamenti criminosi, sia sulle persone giuridiche e sugli Stati per conto dei quali, o con la complicità dei quali, vengano commessi crimina iuris gentium. È utile pertanto, sin d’ora, segnare un confine netto tra la responsabilità internazionale penale individuale e la responsabilità internazionale degli Stati, eventualmente connessa a comportamenti individuali lesivi di interessi internazionali. Nel primo caso si tratta pur sempre di una responsabilità posta a carico di individui per comportamenti gravemente lesivi di interessi comuni a tutti gli Stati, ad opera di un diritto internazionale penale volontariamente adottato dagli Stati o in adempimento di norme internazionale formatesi per consuetudine, per realizzare « un meccanismo di cooperazione che in modo più imparziale ed uniforme assicuri la repressione penale dei crimini e operi da migliore deterrente per il futuro » (7). Una evidente conferma di tale impostazione si ha dal rilievo che, dovendo operare la giurisdizione della Corte internazionale, secondo il principio di complementarietà (8), e cioè in via complementare rispetto alle giurisdizioni statuali, ove queste non esercitino la loro giurisdizione o mostrino unwilligness o inability nella repressione dei reati, non muta la natura giuridica della responsabilità per crimini internazionali, rispetto agli schemi tipici del diritto penale statuale; essa è sempre riferita a comportamenti individuali posti in essere da persone fisiche, sia che agiscano uti singuli o come organi di Stati: atti individuali di genocidio, di schiavitù, di apartheid o persecuzione, anche se commessi da più persone in concorso tra di loro. Diverso è il piano della responsabilità internazionale degli Stati per violazione di norme internazionali, in connessione con comportamenti individuali, qualificati come delicta iuris (5) In tal direzione si collocava il progetto per la creazione di una Corte per l’apartheid del 1981, che avrebbe dovuto avere competenza a giudicare tanto di persone fisiche che persone giuridiche e, fra quest’ultime, espressamente Stati: sul punto si vedano le opinioni espresse in sede di Commissione del diritto internazionale da GRAEFTH, A/CN.4/SR.2154, p. 12. In senso critico sul punto si veda LATTANZI, Riflessioni sulla competenza di una Corte penale internazionale, in Riv. dir. intern., 1993, 661 ss., in particolare 671. (6) Sul punto si veda SERENI, Individual criminal responsibility, in LATTANZI F. (editor), The international criminal court. Comments on the Draft Statute, Napoli, 1998, 145 ss. (7) Così LATTANZI, op. ult. cit., 673, la quale rileva che, sebbene la qualificazione di un certo comportamento individuale gravemente lesivo di interessi comuni possa essere opera diretta di norme internazionali, « la responsabilità penale individuale, come la relativa pena, non può non essere prevista, anche quando lo sia in adempimento di obblighi internazionali, dagli ordinamenti di coloro che sono gli unici ancora a detenere la struttura organizzativa e coercitiva necessaria per l’esercizio in concreto di un’attività punitiva e per l’esecuzione della pena ». (8) Tale principio di complementarità, cui fanno riferimento il par. 10 del Preambolo allo Statuto, l’art. 1 e soprattutto l’art. 17 dello Statuto, implica che la Corte Internazionale penale potrà agire solo dinanzi all’inerzia o all’incapacità delle giurisdizioni penali nazionali nella repressione dei delicta iuris gentium; inerzia che dovrà essere accertata dalla Corte in collaborazione con gli Stati secondo un meccanismo di rapporto dialettico fra Corte e Stati, disciplinato nell’art. 18 dello Statuto: sul principio di complementarietà e sull’ambito di estensione ad esso conferibile cfr. LATTANZI F., The complementarity character of the jurisdiction of the Court with respect to national jurisdiction, LATTANZI F. (editor), The International Criminal Court. Comments on the Draft Statute, Napoli, 1998; nonché della stessa autrice, Problemi di giurisdizione della Corte penale internazionale, in Cooperazione fra Stati e Giustizia penale internazionale, Napoli, 1998, 282 ss.
— 1372 — gentium, e « riferiti all’organizzazione complessiva dello Stato, identificabile nello stesso sistema di governo » (9). In tal caso, sebbene l’accertamento dell’illecito internazionale teoricamente passi per l’accertamento di dette responsabilità individuali, non difficile è il ribaltamento dei piani, con il profilarsi di due pericoli egualmente gravi: da una parte che si voglia desumere automaticamente dalla responsabilità internazionale dello Stato, la responsabilità individuale di posizione del soggetto, organo dell’organizzazione statuale cui si imputa l’illecito internazionale, senza accertare quale sia il reale grado di partecipazione soggettiva ed oggettiva di quell’individuo al crimine materialmente perpetrato da altri (si pensi ai war crimes ed alla possibile criminalizzazione indiscriminata di tutti i soggetti appartenenti ad una struttura militare, anche in posizione non apicale): pericolo di verticalizzazione della responsabilità. Dall’altra che un Tribunale internazionale chiamato a giudicare su crimini internazionali « imputabili » agli Stati per conto dei quali siano stati commessi, si dimentichi di quegli atti individuali di aggressione, di genocidio o di apartheid che siano ugualmente lesivi di interessi interstatuali, e tuttavia non siano riferibili all’organizzazione complessiva dello Stato (10): pericolo di politicizzazione della responsabilità internazionale penale. Non è un caso, del resto, che proprio l’idea che gli Stati possano essere soggetti attivi dei crimini di diritto internazionale — frutto della confusione dei due piani di responsabilità — abbia portato taluni autori a concepire schemi di responsabilità per i crimini internazionali che prescindono dall’accertamento della colpevolezza, richiedendo l’accertamento del semplice rapporto di causalità tra l’azione ed il risultato illecito (11). Appare significativo, in tale ottica, che la scelta dello Statuto sul punto è netta in quanto volta ad evitare la confusione dei due piani di responsabilità; il comma 4 dell’art. 25, infatti, dispone: « Nessuna disposizione del presente Statuto relativa alla responsabilità penale degli individui pregiudica la responsabilità degli Stati nel diritto internazionale ». 2. Il principio di personalità della responsabilità internazionale penale. — Questa breve notazione introduttiva sul concetto della responsabilità internazionale penale individuale consente di attribuire il giusto risalto proprio all’introduzione nello Statuto di Roma dell’art. 30 dedicato espressamente alla disciplina del « mental element », che, letto in collegamento con l’art. 25 dello Statuto, sulla responsabilità individuale, acquista un duplice significato di disciplina e di principio. Se da una parte le norme predette assolvono alla funzione fondamentale di definire la disciplina dell’elemento soggettivo del crimine internazionale a livello della parte generale dello Statuto, dall’altra esse assumono una portata più ampia che è quella di affermare il principio di colpevolezza e di personalità della responsabilità per crimini internazionali, intesa come « responsabilità penale internazionale di individui ». A maggior conferma dell’assunto basta rilevare come sia scomparso il riferimento, contenuto (9) Così LATTANZI, Garanzie dei diritti dell’uomo nel diritto internazionale generale, Milano, 1983, 358. (10) Ci sembra che proprio questa logica criticata nel testo e, secondo noi, giustamente non recepita nello Statuto di Roma, avesse ispirato la proposta di PELLET emersa in sede di Commissione del diritto internazionale, secondo la quale addirittura si sarebbe dovuto escludere dalla competenza di una corte penale internazionale atti individuali di aggressione, genocidio, apartheid, tortura, poiché in essi « Etat se profile derrière les individus que la cour sera appelée à juger » (A/CN.4/SR.2256, p. 12). (11) Sul punto MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova, 1992, 968, il quale rileva come questa linea di pensiero si coniuga con l’avversione del diritto internazionale classico a riconoscere la responsabilità nell’ambito del diritto internazionale degli individui, per la loro ritenuta incapacità di essere soggetti di diritto internazionale. Solo il diritto penale statuale, convertendo per i singoli individui i doveri giuridici facenti capo allo Stato, poteva tutelare le norme di diritto internazionale.
— 1373 — in una proposta alterativa, all’interno del Draft Statute (art. 23, 5-6), ad una responsabilità penale, alla stregua dello Statuto, delle persone giuridiche (12). Nella prima articolazione che si può cogliere sulla base delle considerazioni svolte, dunque, il principio di personalità della responsabilità internazionale penale, escludendo la configurabilità di detta responsabilità in capo a Stati ed altri organi internazionali dotati o meno di personalità giuridica, si conforma come principio del societas delinquere non potest nel diritto internazionale penale. Senza pretesa di svolgere una ricostruzione dello sviluppo del principio di colpevolezza nel diritto internazionale penale, giova solo qui ricordare come mancasse nell’International Militar Tribunal at Nuremberg (13) — Statute una espressa disposizione sulla necessaria dipendenza della punizione dei criminali di guerra dalla sussistenza di una colpevolezza personale, mentre, per contro, alcune fondamentali disposizioni applicabili nel corso del processo come l’art. II 2 c del Kontrollratgesetz 10, dedicato alla disciplina della partecipazione criminosa, non includevano tra i presupposti della responsabilità l’accertamento di detto requisito della volontà colpevole, richiedendo il solo nesso causale del contributo apportato dal correo alla realizzazione del crimine (14). Eppure una solenne affermazione del principio di colpevolezza si rinviene sia in numerose sentenze del IMT che nella nota arringa pronunciata dal Procuratore Robert H. Jacksons in rappresentanza degli Stati Uniti a conclusione del medesimo giudizio (15). Nel processo di Norimberga si affermò, infatti, che uno dei più importanti principi è quello della personalità della responsabilità penale che implica il divieto di condanne di massa (16). In applicazione di questo principio, dinanzi al delicato problema della punibilità di componenti di gruppi e associazioni imputate di gravi crimini (17), l’IMT sostenne l’insufficienza della mera partecipazione all’organizzazione criminale da parte del singolo e, per contro, la necessità di escludere la responsabilità di quanti avessero aderito ad organizzazioni con scopi criminali, senza la consapevolezza dei fini illeciti e delle nefandezze compiute per il tramite di esse o perché costretti dall’apparato statuale nazista. D’altra parte scarso rilievo era riservato all’elemento soggettivo nelle motivazioni delle sentenze emanate nel corso dei processi per crimini internazionali: ci si limitava perlopiù ad affermare che il condannato avesse agito (Knowlingly and intentionally) con volontà e consapevolezza, ma nulla si diceva sull’elemento soggettivo effettivamente richiesto per l’affermazione della responsabilità, né sui criteri adottati dal Giudice nell’accertamento di detto elemento soggettivo (18). Nei recenti Statuti dei Tribunali internazionali per i crimini di guerra commessi nel (12) Sul punto v. retro nota 5. (13) D’ora in poi IMT. (14) Sul punto vedi JESCHECK, Die Verantwortlichkeit der Staatsorgane nach Völkerstrafrecht. Eine Studie zu den Nürnberger Prozessen, Bonn, 1952, 374. (15) V. International Conference on Military Trials - Report of Robert H. Jackson, United States Rappresentative, Washington, 1949, 48. (16) Cfr. Der Prozess gegen die Hauptkriegsverbrecher vor dem Internationalen Militärgerichtshof in Nürnberg, Parte I, pag. 287-288. « einer der wichtigsten dieser Rechtsgrundsätze besteht darin, dass strafrechtliche Schuld eine persönliche ist, und dass Massenbestrafungen vermieden werden sollen ». (17) In attesa che fosse emanata la sentenza del IMT, un illustre autore italiano, osservava come la condanna delle associazioni in quanto tali, per quanto assurda e inattuabile, fosse l’unico sbocco veramente logico all’impostazione data al processo: VASSALLI G., Bilancio di Norimberga, in Mondo europeo, II, 1946, 56, oggi in Scritti giuridici, vol. II, Milano, 1997, 679 ss. (18) Così BASSIOUNI, op. cit., 341, il quale spiega questa reticenza degli organi giurisdizionali a trattare di temi di parte generale con l’accordo tacito instauratosi tra giudici e persecutori (Persecutors) volto ad evitare che le difese degli imputati (defendants) potessero
— 1374 — Ruanda e nella ex Jugoslavia, d’altra parte, sebbene manchino disposizioni espressamente dedicate alla disciplina dell’elemento soggettivo del crimine internazionale, limitandosi le fonti in questione ad una individuazione dell’elemento materiale o oggettivo dell’illecito internazionale penale, è presente l’affermazione del principio di individualità della responsabilità penale (19). Da ultimo, anche nel Progetto di codificazione di crimini contro la pace e la sicurezza dell’umanità (International Law Commission’s 1991 Draft Code of Crimes against security and Mankind), manca una disciplina generale dell’elemento soggettivo ed al contempo un’affermazione del principio nulla poena sine culpa (20). Per quanto premesso si può ben dire che la prima compiuta affermazione del principio di colpevolezza sia contenuta proprio nella disposizione dell’art. 30 dello Statuto in commento. Essa, nello stabilire che « Taluno può essere ritenuto penalmente responsabile e punito per un crimine all’interno che cade sotto la giurisdizione della Corte solo se gli elementi materiali sono commessi con intenzione e previsione » (21), fissa infatti come requisito minimo della colpevolezza l’intent e la Knowledge, o, in altri termini, quel minimum di coefficiente psicologico che costituisce la condicio sine qua non per l’imputazione della responsabilità per crimini compresi nello Statuto. A dir il vero risulta assai difficile fornire una definizione compiuta del principio di colpevolezza, vista la varietà di ricostruzioni che esso ha ricevuto anche nelle legislazioni dei vari Paesi (22). Tale difficoltà si riflette segnatamente nella elaborazione del concetto nel diritto internazionale penale (23). Espresso nelle varie formule del nullum crimen sine culpa (24), o dell’actus non facit aggirare le proprie responsabilità spostando il processo dal piano della prova dei presupposti di fatto della responsabilità a quello della prova delle scusanti. (19) Vedi l’art. 7 dello Statuto (Statute) of the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia, dedicato alla disciplina della « Individual criminal responsability »: sul punto per tutti cfr. BASSIOUNI, The Law of the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia, Irvington — on Hudson, New York, 1996, 345 ss. (20) In senso critico si veda ALLAIN-JONES, A Patchwork of Norms: A commentary on the 1996 Draft Code of Crimes against the Peace and Security of Mankind, in European Journal of International Law, 1997, 100 ss. Rappresentava l’esigenza che il principio nulla poena sine culpa nell’ambito del diritto internazionale penale venisse codificato in una norma a carattere generale cfr. A. ESER, The Need for a General part, in BASSIOUNI (ed), Commentaries on the International Law Commission’s 1991 Draft Code of Crimes against the Peace and Security of Mankind, 1993, 45. (21) « Shall be criminally responsible and liable for punishment for a crime within the Jurisdiction of the Court only if the material elements are committed with intent and knowledge ». (22) Sul punto, per tutti, cfr. VASSALLI, voce Colpevolezza, in Enciclopedia giuridica Treccani, Vol. VI, Roma, 1988, 7. (23) Sottolinea questo aspetto del principio di colpevolezza il GLASER, Infraction Internationale. Ses élements constitutifs et ses aspects juridiques, Paris, 1957, 110 ss.; Culpabilité en Droit International Penal, il quale ricostruiva la colpevolezza del crimine internazionale attraverso un procedimento di astrazione dalle legislazioni dei diversi Stati, in assenza di una legislazione positiva internazionale che ne disciplinasse il contenuto. Analogo procedimento di ricostruzione di tipo sincretistico adotta, in tempi più recenti, WILKITZKI, Die völkerrechtlichen Verbrechen und das staatliche Strafrecht, in ZStW 99 (1987), 473. (24) Nel sistema italiano la Corte costituzionale, nella sentenza n. 364 del 1988, in relazione all’art. 5 del Codice penale sull’ignoranza inevitabile della norma penale, ha affermato la rilevanza costituzionale di detto principio di colpevolezza, richiedendo almeno la colpa rispetto agli elementi significativi della fattispecie vedi sul punto per tutti: FIORELLA, voce Responsabilità penale, in Enciclopedia del diritto, vol. XXXIX, Milano, 1988, 1288.
— 1375 — reum nisi mens sit rea (25), il principio di colpevolezza o di soggettività è stato ampiamente elaborato dalla dottrina tedesca, che ne ha per prima posto in risalto da una parte la sua valenza anche costituzionale a fondamento e limite della pena, dall’altra il suo valore di principio di politica criminale (26). In estrema sintesi, possiamo dire che il principio, nel richiedere la necessaria partecipazione di una persona al fatto, include innanzitutto il divieto della responsabilità per il fatto altrui. Il rilievo appare tutt’altro che pleonastico se si pone mente, ad esempio, all’intricato problema dell’imputazione della responsabilità nell’ambito dei gruppi criminali che perloppiù caratterizzano fenomenologicamente i crimini internazionali. Sotto questo profilo il principio di colpevolezza si lega strettamente all’altro principio di individualità o personalità della responsabilità, rappresentandone una implicazione (27). Come già detto in apertura, la struttura dell’illecito penale internazionale, per come è disegnata nello Statuto — si pensi del resto all’affermazione di principio contenuta nell’art. 25: « la Corte è competente per le persone fisiche in conformità al presente Statuto » — consente di affermare con certezza che soggetti attivi della responsabilità internazionale penale sono solo individui e non Stati o altri soggetti di diritto internazionale dotati di personalità giuridica, in applicazione del principio del societas delinquere non potest. In una sua ulteriore accezione, il principio di colpevolezza si presenta come un’acquisizione fondamentale dei diritti penali nazionali moderni, in quanto segna l’evoluzione dalla concezione della responsabilità oggettiva (strict liability), per la quale si risponde solo per le conseguenze del proprio agire (Erfolgshaftung), alla concezione della responsabilità soggettiva (Schuldhaftung): per essa le conseguenze dell’agire umano devono essere soggettivamente rimproverabili all’agente o almeno dovute al mancato dominio del fatto ascrivibile in termini di rimproverabilità, perché gli siano addebitate penalmente. In realtà, risulta evidente che una netta contrapposizione fra un diritto penale del risultato (Erfolgsstrafrecht) ed un diritto penale della colpevolezza (Schuldstrafrecht), sia solo ideale e non trovi riscontro sul terreno del diritto positivo, atteso che « nessun diritto positivo serio potrà mai prescindere da un contemperamento tra colpevolezza e risultato » (28). Il traguardo, tuttavia, deve essere quello della definitiva eliminazione di ipotesi di responsabilità oggettiva tanto nei sistemi continentali che nei sistemi di Common Law (29). Ad esempio, nei paesi di Common Law, ed in particolare nel sistema statunitense (30) (25) Nella lingua tedesca la formula latina è stata tradotta dal Rudolf Von Jhering con il brocardo « Kein Uebel ohne Schuld ». (26) Per la dottrina tedesca cfr. ZIPF H., Kriminalpolitik, Heidelberg-Karlsruhe, 1980, 65 ss; sul dibattito costituzionalistico in Germania si veda anche PALAZZO F.C., Valori costituzionali e diritto penale (un contributo comparatistico allo studio del tema), in PIZZORUSSO A.-VARANO V., L’influenza dei valori costituzionali nei sistemi giuridici contemporanei, Milano, 1985, 560. (27) BASSIOUNI, Crimes against Humanity in International criminal law, DordrechtBoston-London, 1992, 350: « certain corollairies of the principle of individual responsability also enjoy universal recognition, even though their meanings, contents, and application differ. They are: the accused’s knowledge of the law, and his intent to violate it. ». (28) Così VASSALLI, Colpevolezza, 9. (29) In tal senso si veda per il diritto inglese SMITH, J.C.-HOGAN, B., Criminal law, 66; mentre per il diritto degli U.S.A. BASSIOUNI, Ch. M., Substantive Criminal Law, Springfield, 1977, 140 s., ove si fa riferimento alla strict accountability come ad uno fra i cinque modelli di responsabilità. (30) La Supreme Court ha applicato solo in un caso il principio del nulla poena sine culpa; Lambert v. California 16 febbraio 1975, in U.S. Report, 355 (1958), 225 ss., in relazione al problema dell’ignoranza sulla legge penale, poiché in quell’occasione la Corte ha affermato che fosse stato violato il principio del due process previsto dal 14o emendamento, non essendo stata data la possibilità all’imputata di provare la mancata conoscenza della norma penale.
— 1376 — se da un lato non del tutto assenti sono le affermazioni del principio del nulla poena sine culpa dall’altro lato abbondano le ipotesi di cd. strict liability. Per quanto sin qui detto, la matrice logica del principio di colpevolezza, almeno per come contemplato nel diritto penale italiano, si caratterizza per l’esclusione della responsabilità per fatto altrui; in un secondo momento logico si richiede l’attribuibilità soggettiva del fatto, che di per sé non esclude la responsabilità oggettiva, posto che si richiede soltanto che il fatto sia opera del soggetto, ovvero sia fatto proprio; ad un terzo livello di evoluzione concettuale il principio di colpevolezza importa il rifiuto della responsabilità oggettiva, richiedendosi l’addebitabilità del fatto alla colpevolezza del soggetto. Per concludere sul punto è necessaria un’ultima precisazione. Se è vero che il principio di colpevolezza si è atteggiato negli ordinamenti positivi nei modi più disparati, per comprendere quale sia il grado e la sua effettiva portata nelle norme dello Statuto, è indispensabile chiarire in che misura esso si esplichi in relazione alla struttura dell’elemento soggettivo ed al contenuto effettivo assegnato alla colpevolezza nelle sue articolazioni strutturali: di centrale importanza, ad esempio, sarà chiarire il rapporto tra la rappresentazione del soggetto e l’oggetto della rappresentazione stessa, o, in altri termini, l’oggetto della « intention » e della « knowledge ». 3. L’elemento soggettivo: il significato della clausola di rinvio « unless otherwise provided ». — Passando quindi ad esaminare il contenuto della colpevolezza (mens rea) richiesta per l’integrazione dell’illecito penale internazionale, ossia la struttura dell’elemento psicologico (mental element) del crimine internazionale, come disegnato dal presente Statuto (31), deve innanzitutto osservarsi che la disposizione in esame ha un carattere sussidiario rispetto alle disposizioni che contemplano le singole figure di crimini internazionali rientranti nella giurisdizione della Corte. Allo stesso tempo essa pone, per così dire, una norma di « sbarramento ». Occorre pertanto chiedersi quale sia il senso da attribuire all’espressione contenuta in apertura dell’art. 30 dello Statuto: « salvo diversa disposizione » (unless otherwise provided). Tale clausola di riserva opera innanzitutto per risolvere il conflitto tra il criterio di imputazione soggettiva dolosa contemplata nell’art. 30 come forma di colpevolezza generale e la previsione dell’ipotesi speciale di responsabilità colposa espressamente prevista nell’art. 28 command responsibility, 1 lett. a): « questo capo militare o persona sapeva o, date le circostanze, avrebbe dovuto sapere che le forze commettevano o stavano per commettere tali crimini ». In tal caso, ove ricorrano i presupposti per il sorgere della responsabilità a carico di capi militari o altri superiori gerarchici, evidentemente la disciplina dell’elemento psicologico contemplata nell’art. 28 dello Statuto prevale sull’art. 30. A noi sembra, tuttavia che la disposizione in commento abbia l’ulteriore funzione di fissare un criterio minimo di imputazione soggettiva della responsabilità, rispetto alla variegata specificazione dell’elemento soggettivo contenuta nella definizione che lo Statuto stesso offre dei crimini di guerra (war crimes): tali elementi psicologici, cioè, non possono scendere al di sotto della soglia dolosa, indicata nella norma in parola (32). Si pensi ad espressioni quali « deliberate » o « willful » o ancora « wanton » o « wanton disregard ». In relazione alla formulazione dell’art. 29 del Model Draft Statute, si era sostenuto che (31) Si deve segnalare una variante operata già nella rubrica dell’articolo in commento, che, inizialmente, faceva riferimento alla mens rea, mentre oggi parla di mental element vedi A/AC. 249/1997/L. 5, pp. 27-28; analoga rubrica si ritrova nel Model Draft Statute based on the preparatory Committee’s text to the diplomatic Conference, june 15-July 17 1998. Il cambiamento dal plurale (mental elements) al singolare (mental element) si deve all’espunzione dal testo dell’articolo del paragrafo 4 dedicato alla recklessness. (32) In tal senso il commento all’art. 29 del Model Draft Statute for the International Criminal Court based on the preparatory Committee’s text to the diplomatic conference, Rome, June 15-July 17 1998, Nouvelles etudes penales, 1998, 52.
— 1377 — essa poneva una convenzione interpretativa destinata a svolgere la funzione di integrare le singole previsioni di incriminazioni contenute negli articoli 6, 7 e 8, ove non fosse previsto in esse uno specifico elemento soggettivo. Analogo discorso è stato fatto anche in relazione all’art. 23 del Preparatory Committee Draft. Questa soluzione interpretativa tuttavia deve essere parzialmente corretta alla luce del testo definitivo. E infatti, posto che la scelta è stata quella di lasciar immutata la definizione di speciali stati mentali (mental states) per diverse ipotesi di crimini, che, mutuando termini dai trattati internazionali non sempre sono pregnanti rispetto alla descrizione (33), si dovrà ritenere che l’articolo 30 fissi un canone ermeneutico generale da applicarsi nella definizione dei vari mental elements ed al contempo una norma di sbarramento per il « legislatore » nella definizione degli elements of crimes, come vedremo di qui a poco, e per l’interprete nell’applicazione delle norme dello Statuto. Si pensi così all’espressione utilizzata nell’articolo 6 lettera c) nella descrizione del crimine di genocidio. Essa connota, sotto il profilo soggettivo, la struttura dell’intention che si richiede all’autore della condotta di « inflicting on the group condition of life calculated to bring about phisical destruction ». Si tratta, infatti, di una previsione caratterizzata da un disvalore di atteggiamento soggettivo (Gesinnungsunwert) e da una tutela fortemente anticipata, ragion per cui costituisce genocidio già il solo fatto di infliggere le condizioni di vita con il preciso scopo di cagionare la distruzione fisica del gruppo in tutto o in parte. In altri termini, il termine « deliberately », che deve essere letto in rapporto con l’altro calculated, esprime una species dell’intent (specific intent), ovvero una particolare intensità della volontà colpevole proiettata verso un fine ulteriore rispetto alla realizzazione della fattispecie materiale oggettiva (Actus reus) (34). Per la struttura del fatto, si deve, inoltre, escludere la responsabilità se il soggetto ha agito solo accettando il rischio di verificazione dell’evento: considerazione quest’ultima che trova una conferma di carattere « sistematico », atteso che, come vedremo, tale forma di dolo appare incompatibile con la previsione dell’art. 30 nella parte generale dello Statuto. La riprova, comunque, della giustezza dell’interpretazione fornita con riguardo al crimine di genocidio, si ha nella prima parte dell’art. 6 dello Statuto, ove si richiede che gli atti successivamente descritti siano commessi con l’intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico razziale o religioso (with the intention to destroy, in whole or in part, a national, ethnical, racial or religious group). Si è in proposito giustamente osservato che « It is the element of intent to destroy a designated group in whole or in part, wich makes crimes of mass murder and crimes against humanity qualify as genocide » (35). Ciò premesso sulla funzione cui assolve la clausola di riserva prevista dall’art. 30 dello Statuto, occorre chiedersi se la riserva in parola possa intendersi riferita non soltanto alle norme della parte speciale dello Statuto, ma anche ai cd. elementi costitutivi. Vale la pena di ricordare che nell’ Annesso 1 allo Statuto di Roma, nella Risoluzione F, punto 5 lett. b), si prevede la istituzione di una Commissione preparatoria che deve definire fra l’altro gli elementi costitutivi dei reati (Elements of crimes): si tratta di regole di interpretazione di ausilio ai giudice della Corte nell’applicazione delle singole fattispecie dei crimini. In realtà, all’interno della Commissione preparatoria, si è profilata la proposta statuni(33) Vedi retro nota 11. (34) Vedi il commento all’art. 23 A/AC. 249/1997/ L.5, pp. 27-28 in LEILA SADAT WEXLER, Observations on the consolidated ICC text before the final session of the preparatory Committee, pag. 50. (35) Così nel Final Report of the Commission of Experts sull’art. 4 genocide prevista nello SFRY, in BASSIOUNI, The Law of the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia, Irvington on Hudson, New York, 1996, 527 ove si legge: There was no need to distinguish between general and specifical intention, because any specific intent schould be included as one of the elements.
— 1378 — tense, secondo la quale, in sede di determinazione degli elementi costitutivi dei crimini, dovrebbe essere letteralmente riscritta la parte generale dello Statuto ed in particolare, per la materia che ci occupa, ridefinita la disciplina dell’elemento psicologico con riguardo alle singole figure criminose (36). È di tutta evidenza la potenziale portata « eversiva » rispetto ai princìpi generali fissati nello Statuto, che l’assecondare un siffatto orientamento di pensiero indurrebbe nell’applicazione in concreto delle fattispecie dei crimini. Per non dire della eccessiva frammentazione delle fattispecie che una simile — sia pur impropriamente definibile come — tecnica legislativa comporterebbe: se da un parte essa non gioverebbe alla chiarezza (37) delle norme e quindi alla loro efficacia preventiva, d’altra parte comporterebbe la progressiva erosione della stessa tutela. E allora, tornando al quesito originario, pare opportuno chiedersi se, in virtù della clausola di riserva (38) contenuta nell’art. 30 dello Statuto, sia possibile concepire una qualche efficacia derogatoria agli elementi costitutivi rispetto alla disciplina generale dell’elemento soggettivo fissata nella predetta norma dello Statuto. Tale quesito a nostro avviso merita una risposta decisa, che valga a sgombrare subito il campo da quest’equivoco, sorto in sede di determinazione degli elementi costitutivi del reato; l’art. 9 dello Statuto nel prevedere il rinvio a questa anomala « fonte », infatti, stabilisce il rapporto di priorità gerarchica tra norme statutarie ed elementi costitutivi: « gli elementi costitutivi dei crimini sono di ausilio per la Corte nell’interpretazione e nell’applicazione degli articoli 6, 7 ed 8 del presente Statuto... » (39). È evidente, pertanto, che la clausola contenuta nell’art. 30 non si riferisce agli elementi costitutivi. E infatti se si ammettesse che in sede di determinazione degli elementi costitutivi dei singoli crimini (Elements of crimes), si affermassero, ad esempio, criteri di imputazione soggettiva del fatto diversi da quelli posti nelle norme dello Statuto, proprio in virtù della clausola di riserva, detti elementi costitutivi troverebbero esclusiva applicazione; ma ciò contrasterebbe con il disposto del III comma dell’art. 9: « Gli elementi costitutivi dei crimini e le modifiche allo stesso devono essere compatibili con il presente Statuto ». Ciò detto, tuttavia, il problema si pone allorché lo Statuto stesso non contenga indicazioni esplicite in ordine all’elemento soggettivo o preveda standard psicologici, che non sono rapportabili al contenuto dell’art. 30: si pensi all’ipotesi già richiamata di responsabilità per colpa prevista nell’art. 28 dello Statuto, atteso che in sede di parte generale non ne è contemplata la disciplina (40). A nostro avviso, vale quanto detto in precedenza, e cioè che nel caso in cui non sia esplicitata la disciplina dell’elemento psicologico, deve farsi ricorso al cri(36) Esprime con estrema chiarezza tale orientamento di pensiero il dattiloscritto distribuito, in seno alla Commissione preparatoria da R. CLARK, Elements of the Elements: A very informal discussion paper from the delegation of Samoa, 1 agosto, 1999. (37) Sul principio di chiarezza della norma incriminatrice cfr. FIORELLA, Emissione di assegni a vuoto e responsabilità per colpa. Contributo alla determinazione del concetto di « previsione espressa » della responsabilità per colpa, in questa Rivista, 997 e ss. e specialmente 1007. (38) Sulla nozione di clausola di riserva per tutti cfr. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova, 1992, 471. È da rilevare, tra l’altro, che si tratta di una clausola assolutamente indeterminata che, per come è strutturata, non ponendo alcuna regole atta a risolvere il conflitto fra norme (ad es. rapporto di specialità) porterebbe tendenzialmente a disapplicare la norma dell’art. 30 che reca la clausola. (39) In chiave critica rispetto alla proposta statunitense si è sottolineato, in sede di Commissione preparatoria, la funzione sussidiaria degli elements of crimes e l’assoluta priorità dei general principles of law contenuti nelle norme dello Statuto rispetto all’art. 9 dello Statuto stesso, da parte di diversi paesi: Comments on the proposal submitted by United States of America concerning terminology and crime of genocide, in Preparatory Commission for the international Criminal Court. Working group on Elements of crimes, New York, 22 febbraio 1999 (PCNICC/1999/WGEC/DP.4). (40) Si vedano le considerazioni di CLARK, op. cit., 8.
— 1379 — terio di imputazione soggettiva fissato in via generale nell’art. 30 dello Statuto. Nella seconda delle ipotesi in parola, invece, come meglio vedremo innanzi, ci sembra ragionevole che, ferma restando la struttura dell’elemento soggettivo descritto nella fattispecie, si possa riconoscere agli elementi costitutivi, un limitato ruolo di ausilio nell’individuazione delle regole per l’accertamento dell’elemento soggettivo. 4. La nozione di intenzione (intention) e consapevolezza (knowledge). — L’art. 30 distingue due significative forme di colpevolezza: l’intent e la knowledge. Nei sistemi di Common law il concetto di intent è tuttavia ancora assai generico in quanto, idoneo ad indicare una varietà di elementi psicologici non riconducibili ad un medesimo genus. Per questa ragione un’ulteriore distinzione al suo interno appare particolarmente significativa: quella tra general intent e specific intent. Quest’ultimo stato mentale si pone in rapporto di stretta similarità con la nozione di dolus invalsa nei sistemi di Roman Law; nel sistema del Model penal Code essa può farsi coincidere con la nozione di purpose (41); nel sistema tedesco lo specific intent corrisponde all’Absicht, mentre in Italia essa richiama certamente sia la nozione di dolo intenzionale (meglio descritta dall’espressione direct intention) che la nozione di dolo specifico, per il quale si richiede un fine ulteriore, esterno all’actus reus (42). Quel che caratterizza tale specific intent è dunque la prevalenza della componente volontaristica nella struttura dell’elemento soggettivo, sicchè l’agente deve agire con il preciso scopo (purpose) o desiderio (desire) di raggiungere un particolare risultato, con la consapevolezza che la conseguenza sia certa (43). In tale definizione dello specific intent, i motivi della condotta, almeno ad una prima analisi, potrebbero acquistare un preciso rilievo poiché le conseguenze della condotta rappresentano non solo un risultato previsto, ma la motivazione che ha spinto il soggetto ad agire. Tuttavia è opportuno chiarire che detti motivi possono essere utilizzati solo come mezzo di accertamento del dolus unitamente agli altri criteri oggettivi che denotino un particolare orientamento teleologico della condotta, ma non devono formare oggetto essi stessi di prova, perché si collocano al di fuori dell’intention. Per tale ragione non si è ritenuto di includere i motivi nella definizione degli elementi del crimine internazionale in seno all’art. 30 dello Statuto (44). Recependo la formulazione contenuta nell’art. 23 del Preparatory Committee’s Draft, lo Statuto conferisce in realtà un ambito di estensione molto più ampio alla nozione di intenzione (intention) posto che esso non distingue tra specific intent e general intent. La ragione sarebbe quella di evitare una definizione troppo particolareggiata dell’intention nella parte generale, riservando alla definizione delle singole figure di crimini, la caratterizzazione della specifica intention di volta in volta richiesta (45). Questa scelta, secondo taluno, esporrebbe la norma a letture contrapposte e pertanto (41) Il termine purpose è stato adottato, ad esempio, nel Model Penal Code nel n. 2, a (i) della Section 2.02: « A person acts purposely with respect to a material element of an offense when: if the element involves the nature of his conduct or a result therefore, it is his conscious object to engage in conduct of that nature or to cause such a result » in Model Penal Code and Commentaries, (Official Draft and Revised Comments), Part. I, Philadelphia, 1985, 225. (42) Su tale nozione, nel diritto penale italiano, si veda per tutti M. GALLO, voce Dolo, in Enciclopedia del diritto, vol. XIII, Milano, 1964, 750 ss. (43) Così WILLIAMS G., Textbook of criminal law, II ed. 1983, 123. (44) In senso opposto, ad esempio, si era espresso DROST, The Crime of State, 1959, 83, critico rispetto alla scelta dei compilatori della Convention on the prevention and Punishment of the crime of Genocide, 9 Dec. 1948, di non introdurre il motivo predominante (to commit a genocide) come motivo rilevante nella definizione del crimine di genocidio, ritenendosi sufficiente l’individuazione di uno specific intent to destroy. (45) Sul punto già nel Preparatory committe report 1996, Vol. I, in ICC, Compilation of United Nations Documents and Draft ICC Statute before the diplomatic Conference,
— 1380 — equivoche, poichè « definendo l’intenzione sì da includere la consapevolezza o la coscienza che una certa conseguenza si verificherà la nozione di intent smarrirebbe il suo significato primario, di desiderio, proposito specifico di produrre un certo risultato » (46). Sicché verrebbero ad essere assimilati elementi psicologici caratterizzati da contenuti diversi e tali da esprimere distinti gradi di colpevolezza. A ben vedere, tuttavia, i compilatori dello Statuto hanno inteso, racchiudere nella nozione di intent due distinte componenti della colpevolezza entrambe riconducibili al medesimo genus. Nel diritto penale di Common law si distingue un direct intent ed un oblique intent. Il primo è caratterizzato da una volontà che mira direttamente al raggiungimento di uno scopo, l’altro, invece, da una previsione di certezza da parte dell’autore che il determinato risultato si verificherà come « virtually certain accompainment of what he intended » (47). Il primo è uno stato volitivo, poiché concerne quel che un soggetto vuole e quindi si presenta effettivamente come purpose; il secondo è un cognitive state, poiché riguarda quello che un soggetto si rappresenta come naturale conseguenza della propria condotta, ma a ben vedere ad entrambe queste forme di intention è comune il requisito della previsione di certezza, delle conseguenze della condotta stessa. Nei sistemi continentali, poi, la distinzione concettuale tra direct e oblique intent può farsi coincidere con quella tra dolo intenzionale e dolo diretto ad esempio in Italia (48), ove è pacifico tanto in dottrina quanto in giurisprudenza che il soggetto possa agire con dolo anche quando ha agito con la certezza che dalla propria azione derivi un risultato criminoso, ma « senza che questa rappresentazione eserciti efficacia determinante sulla volizione della condotta » (49). In Germania la distinzione tra direct intention e oblique intention trova un suo corrispondente nella distinzione tra Absicht e direkte Vorsatz (dolus directus) (50), sebbene parte della dottrina ritenga di racchiudere nell’ambito del concetto di dolus directus sia le ipotesi di dolo intenzionale che quelle di dolo caratterizzato da una previsione di certezza (51). Nel Codice penale Austriaco, invece, viene prevista come ipotesi autonoma quella di colui che abbia agito « wissentlich » che si ha quando il soggetto non solo ritiene possibili le circostanze o il risultato, ma li considera certi (52). Anche nel Model Penal Code è presente, sia pur in forma meno accentuata, la distinRoma, 1998, 412 ove si legge: There was non need to distinguish between general and specifical intention, because any specific intent schould be included as one of the elements of the definition of the crime. (46) E. M. WISE, Commentary on the Model draft statute, cit. 51. (47) Sul punto nella dottrina di Common Law vedi NORRIE, Oblique intention and legal politics, in The Criminal Law Review, 1989, 793. (48) L’equiparazione è posta da VINCIGUERRA, Introduzione allo studio del diritto penale inglese. I principi, Padova, 1992, 179. (49) Così per tutti M. GALLO, voce Dolo, in Enciclopedia del diritto, vol. XIII, Milano, 1964, 793. (50) Vedi JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts. Allgemeiner Teil, 5 Aufl., Berlin, 1996, 297. Sul punto anche ENGISCH, Untersuchungen über Vorsatz und Fahrlässigkeit, Berlin, 1930, 170 ss. (51) Così CRAMER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, 25 Aufl., München, sub § 15, Rdn.. 64. (52) V. § 5 (3) Oest. StGB, su cui LEUKAF-STEINIGER, Kommentar zum Strafgesetzbuch, 3 Aufl., Eisenstadt, sub § 5, n. 10, pag. 99 ss, i quali definiscono questa come ipotesi di dolus principalis, contrapposta alla figura accessoria del dolus directus specialis caratterizzata dalla direct intention (Absicht); sul punto si veda EUSEBI, Il dolo come volontà, cit., 48 ss.
— 1381 — zione tra il purpose (direct intention) ed intent (53); e d’altronde si riconosce in quel progetto di codificazione un’autonomia al concetto di intenzione indiretta (oblique intention) che è posta in successione rispetto al « di proposito » (purposely) e si identifica con l’aver agito consapevolmente (knowling), che esprime una situazione mentale di certezza: l’agente ha agito con la consapevolezza che è praticamente certo che la sua condotta cagionerà un determinato risultato (54). E allora a noi sembra che i compilatori dello Statuto abbiano qui tentato di operare una sintesi tra il concetto di intention invalso nei sistemi di Common Law e quello di dolus dei sistemi continentali. Infatti nella dottrina penalistica continentale la componente conoscitiva e quella volitiva devono coesistere nella struttura del dolo. L’agente non deve solo essere a conoscenza degli elementi del fatto e prevedere che una data conseguenza si verificherà nell’ordinario corso degli eventi (that a consequences will occur in the ordinary course of events), quindi deve rappresentarsi detti elementi del fatto tipico, ma deve al contempo anche volere quel fatto per come rappresentato nella sua mente. Da questa considerazione emerge con sufficiente chiarezza la spiegazione del perché nell’art. 30 si richieda che gli elementi materiali devono essere commessi con coscienza e volontà. L’uso della congiunzione aggiuntiva (and) al posto di quella disgiuntiva (or) serve a sottolineare appunto la necessaria coesistenza del momento cognitivo accanto al momento volitivo (55). L’autore deve agire con consapevolezza (knowledge), anche quando ha preso di mira un dato evento ed intende cagionarlo come conseguenza diretta della propria condotta (means to cause the consequences) (56). A questo punto è necessario chiarire quale sia la portata dell’elemento soggettivo in relazione all’oggetto di codesta intenzione (intention). Lo Statuto pone una prima distinzione fondamentale tra l’atteggiarsi dell’intention in relazione alla condotta, ed in relazione all’evento come risultato causalmente riconducibile a quest’ultima. Vale la pena solo di sottolineare che, sia pur implicitamente, se ne ricava una disciplina dell’elemento materiale del crimine, che in parte giustifica l’espunzione dal presente Statuto della disposizione originariamente dedicata alla disciplina dell’actus reus (57). Quanto alla prima ipotesi (58), essa non pone problemi interpretativi particolari: perché possa dirsi che l’agente ha agito con intenzione rispetto alla condotta, occorre che egli abbia la consapevolezza della natura della sua condotta e che intenda impegnarsi in essa; quest’ultima frase esprime proprio l’esigenza che si possa identificare un legame psichico tra l’autore e l’atto, affinché una data condotta sia attribuibile alla volontà dell’autore. La articolazione dell’intention a seconda che essa sia riferita alla condotta o alle conseguenze della stessa, deve essere intesa non in termini di alternatività, postulando in tal caso una distinzione tra crimini di pura condotta e crimini caratterizzati dalla produzione di un dato evento. (53) Vedi FLETCHER, Rethinking Criminal Law, Boston Toronto, 1978, 444 ss.; LA FAVE-SCOTT, Substantive Criminal Law, New York, 1986, I, 296. (54) « Aware that it is pratically certain that his conduct will cause such a result ». (55) Un’interessante affermazione del principio « dass Vorsatz eine grundsätzliche Vorbedingung der Verantwortlichkeit für ein Verbrechen ist » fu espressa nel corso del processo contro Ohlendorf: vedi Urteil des Militär Gerichtschof Nr. II, v. Nürnberg, Part I, pag. 6942. (56) E tuttavia nel dolus directus o oblique intention la rappresentazione ha un ruolo dominante: vedi SAMSON, Abischt und direkte Vorsatz im Strafrecht, in Juristische Arbeitsblätter, 1989, 450. (57) Si veda in proposito art. 22 del Zutphen Draft, nonché l’art. 28 Model Draft Statute for the ICC. È noto che i maggiori problemi erano sorti in seno alla Preparatory Commettee sulla disciplina dei presupposti e l’ambito di estensione della responsabilità omissiva. (58) L’art. 30 dello Statuto sul punto recita: « In relation to the conduct, that a person means to engage in the conduct ». Il significato dell’intenzione con riferimento alla condotta significa che una persona intende intraprendere la condotta stessa.
— 1382 — Vale solo la pena di rilevare che secondo questa definizione dell’intenzione contenuta nella lett. a, dell’art. 30 dello Statuto appaiono non riferibili alla volontà dell’autore condotte causalmente cagionate da un suo movimento corporeo ma non riconducibili ad una sua condotta cosciente e volontaria: atti del tutto involontari dovuti a casus fortuitus o a vis maior. Il punto invece di maggiore importanza è rappresentato dall’espressione contenuta nel capo b) della disposizione in esame: « trattandosi di una conseguenza..., o è consapevole che quest’ultima avverrà nel normale corso degli eventi » (59). Quest’ultima espressione, in particolare, ricorre tanto nella definizione nella nozione di intenzione che nella definizione della nozione di consapevolezza. Ribadiamo senz’altro che la coscienza (awareness) da parte dell’autore dello sviluppo naturale della propria condotta, è una componente essenziale dell’intention tanto nella forma della oblique che della direct intention (60). Nella lett. b dell’art. 30 si affronta il problema dell’imputazione dell’evento come risultato della condotta. È noto che nei sistemi di Common Law si ritiene che l’intention debba essere circoscritta alla sola azione fisica materiale, posto che colui che agisce è in grado di prevedere le conseguenze normali della propria condotta. Tale regola si risolve in una vera e propria regola probatoria (rule of evidence), e spesso in una presunzione relativa (rebuttable presumption) (61). Ad interpretare così l’art. 30, tuttavia, la colpevolezza resterebbe confinata ad un ruolo marginale, mentre riemergerebbe con prepotenza la cd. strict liability, risolvendosi l’accertamento della mens rea in una fictio iuris. A nostro avviso, per contro, la formula va intesa in un duplice senso. Esso consente di operare una selezione tra gli eventi imputabili alla colpevolezza dell’autore, attraverso un criterio di certezza da valutarsi ex ante « nel corso normale degli eventi ». Anche se sul terreno soggettivo, il riferimento all’ordinario corso degli eventi, richiama il criterio della prevedibilità oggettiva (62) che è alla base dello schema della imputazione oggettiva dell’evento rispetto alla condotta dell’agente, per il quale non sono imputabili alla condotta di quest’ultimo conseguenze eccezionali rispetto al normale corso degli eventi (63). Qui il problema è, però, di dare contenuto alla regola di giudizio che porta all’accertamento di questa forma di dolo indiretto (oblique intention), posto che colui che agisce non potrà mai avere una previsione certa nel momento in cui pone in essere la sua azione, visto che tale certezza è per definizione esclusa ex ante (64). Tale certezza può essere allora ancorata ad un parametro esclusivamente soggettivo, e quindi risolversi nella convinzione soggettiva dell’agente che l’evento accessorio rispetto a quello direttamente preso di mira si verificherà; ma ciò porterebbe ad escludere l’oblique in(59) Su punto la formula della disposizione, « or is aware that it will occur in the ordinary cours of the events » ricalca pedissequamente il Draft for a Criminal Code for England and Walles del 1989 v. The Law Commission (Law Com. No. 177), Criminal Law. A Criminal Code for England and Wales, Vol. I (Report and Draft Code Bill), London, 1989. (60) Sul punto in senso conforme la giurisprudenza del ICTY in the Tadic-case sull’art. 7 del ICTY Statute: « First is a requirement of intent, wich involves awareness of the act of partecipation coupled with a conscious decision to partecipate by planning, instigating, ordering, committing, or otherwise aiding and abetting in the commission of crime », in JOHN R. JONES, The practice of the international Criminal Tribunals for the former Yugoslavia and for Ruwanda, Irvington on Hudson, 1997, 47. (61) V. per tutti Director of Public Prosecution v. Smith (1961). (62) Sul concetto si veda FIORELLA, voce Responsabilità penale, in Enciclopedia del diritto, pag. 1312. (63) Sulla distinzione tra nesso di causalità materiale (Kausalzusammenhang) e nesso di imputazione oggettiva (Objektive Zurechnung) cfr. per tutti JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts, A.T., Berlin, 1996, 279-283. (64) Così EUSEBI, Il dolo come volontà, pag. 54.
— 1383 — tention in situazioni nelle quali l’agente, confidi irragionevolmente nel mancato prodursi di una data conseguenza accessoria (65). Diversamente l’opzione formulata nello Statuto è proprio quella di radicare il contenuto della oblique intention al criterio oggettivo della certezza ex ante, che a sua volta inevitabilmente rinvia ad un modello di prevedibilità normativizzato. Si può azzardare nel dire, allora, che secondo la formula dell’art. 30 dello Statuto, un soggetto è consapevole che un dato evento si verificherà nel normale corso degli eventi, allorché si accerti che egli ha concepito l’andamento degli eventi, nel senso che non poteva far conto sul non verificarsi di un data conseguenza, come certezza negativa di un risultato ulteriore rispetto all’evento principale preso di mira dall’agente. Meglio specificando si richiede un grado di certezza che sia pur non assoluta sia almeno superiore a quel grado di elevata probabilità che integrerebbe la semplice recklessness o il dolus eventualis. In conclusione l’accento posto sulla consapevolezza che l’evento « si verificherà... » porta ad escludere dalla sfera di responsabilità dell’agente tutte quelle conseguenze che siano devianti rispetto all’evento direttamente preso di mira dall’agente, perché, alla stregua di un giudizio da effettuarsi ex ante, assolutamente eccezionali ovvero non previsti in termini di certezza dall’agente. Resta così esclusa, almeno in via di principio, la cosiddetta strict liability. 5. La prevedibilità delle conseguenze normali della condotta. — Dopo aver delineato il contenuto delle due forme fondamentali di colpevolezza contemplate nell’art. 30 — intention e knowledge — occorre chiedersi se trovi ingresso nello Statuto quella forma di dolo che nei sistemi continentali è denominato di dolus eventualis (anche dolus indirectus) e che non trova un corrispondente preciso nei sistemi di Common Law (66). Nel dolus indirectus o eventualis l’autore si rappresenta la realizzazione del fatto tipico previsto dalla legge come altamente probabile, e accetta il rischio della sua verificazione, esprimendo quindi un atteggiamento di consenso dinanzi ad essa. Ebbene sul terreno del diritto internazionale penale il quesito se sia o meno ammesso il dolo eventuale come possibile forma di dolo è di centrale importanza, poiché la maggiore difficoltà che si incontra nell’accertamento della responsabilità per crimini internazionali risiede proprio nella prova del dolo intenzionale o diretto, risolvendosi tale prova, in alcuni casi, in una vera e propria probatio diabolica, che vanifica la stessa funzione di tutela della norma. Si è osservato, in proposito, che la peculiarità di tali crimini è costituita dall’essere perloppiù crimini di ispirazione altrui, nel senso che colui che li realizza non agisce di propria iniziativa, ma sulla base di un ordine gerarchico superiore o governativo; da ciò discenderebbe che in molti casi l’autore non abbia la piena e completa consapevolezza di tutti gli elementi del fatto, ma si rappresenti solo la possibilità della loro esistenza, accettando il rischio che la propria condotta sfoci in un comportamento criminoso (67). Un primo argomento che depone, tuttavia, in senso contrario rispetto all’ammissibilità di tale forma di colpevolezza è costituito dal fatto, che mentre nel Model Draft Statut e la formula adottata dall’art. 29 (« accept the risk that those circumstances exist or that those consequences will occur ») (68), rispecchiava espressamente l’esigenza di comprendere pro(65) Nel progetto di riforma del codice penale canadese non compare il riferimento all’ordinary course of the events su cui in senso critico v. J.C. SMITH, A note on « Intention », in Crim. Law. Review, 1990, pag. 89. (66) Sul punto per un’analisi dei rapporti tra recklessness e dolus eventualis si veda VINCIGUERRA, Introduzione allo studio del diritto penale inglese, cit., 187 ss. (67) GLASER, Culpabilité en droit international penal, cit., 489; nonché ID., Infraction International, cit., 118. (68) Così E. WISE, in Model draft statute for IIC based on the Preparatory Committe’s Text to the Diplomatic Conference, cit., 53.
— 1384 — prio il dolo eventuale come forma possibile di elemento soggettivo, nell’attuale formulazione non appare espressamente contemplata tale particolare elemento soggettivo. È vero che quest’ultima considerazione non costituirebbe di per sé un ostacolo alla configurabilità di una responsabilità per crimini internazionali a titolo di dolo eventuale (Dolus eventualis). E infatti se si riflette sul significato dei termini, non si può in alcun modo prescindere dal rilievo che i sistemi giuridici continentali siano pressocché concordi nel ricondurre il dolus eventualis nell’alveo del dolo, pur riconoscendo un meno elevato contenuto di disvalore, di simile forma di colpevolezza in ragione del minor grado di partecipazione soggettiva al fatto di reato (69). D’altra parte è vero che il termine intention di per sé non è univoco, come già detto, poiché esso, nei sistemi di Common Law, « include situazioni nelle quali è possibile ma non praticamente certo che una particolare conseguenza si verificherà come risultato della condotta: situazioni che ricadono nella nozione di rechklessness » (70). Ciò nonostante è anche vero che il grande contrasto testimoniato dai vari progetti nonché dai lavori preparatori e la scelta definitiva adottata nello Statuto di escludere la recklessness (71) come elemento psicologico del crimine internazionale, costituiscono indici inequivocabili proprio della volontà di restringere l’ambito dell’elemento soggettivo al tipo del dolus nella forme del dolus intentionalis e dolus directus. Ci sembra, dunque, che il termine intention debba essere interpretato in un senso tale da escludere nel suo ambito la recklessness, e segnatamente il dolus eventualis (72). Per delimitare i confini del dolus directus, occorre tuttavia, innanzitutto stabilire i limiti tra quest’ultimo e quello denominato nei sistemi continentali di colpa con previsione in Italia (73), in Francia l’imprudence consciente (74) (luxuria sensu strictu). Gli esempi che seguono chiariscono la rilevanza delle distinzioni si qui operate. Si pensi al crimine previsto dalla lett. b n. IV art. 8 « Lanciare deliberatamente attacchi nella consapevolezza che gli stessi avranno come conseguenza incidentale la perdita di vite umane tra la popolazione civile e lesioni a civili o danni a proprietà civili ovvero danni diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale che siano manifestamente eccessivi rispetto all’insieme dei concreti e diretti vantaggi militari previsti ». In relazione a tale ipotesi appare evidente che lo Statuto richiede che coloro i quali hanno ordinato l’attacco e a maggior ragione quelli che lo hanno materialmente eseguito avessero agito consapevolmente, ovvero almeno avessero previsto con certezza, e cioè secondo il corso naturale degli eventi, in base alla regola dettata (69) Così per tutti nella dottrina tedesca JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts, cit., 299. Per il sistema italiano, che distingue nettamente la colpa con previsione (negligence with prevision) dal dolus eventualis, si veda PROSDOCIMI, Dolus eventualis, Milano, 1993. (70) In tal senso E. WISE, in Model draft statute for IIC based on the Preparatory Committe’s Text to the Diplomatic Conference, cit., 54. (71) Sul punto vedi l’art. 23 H del Zutphen Draft (A/AC. 249/1997/L. 5, pp. 27-28. (72) Appare preferibile la soluzione adottata nel Model Draft Statute, come rileva E. WISE, in Model Draft Statute for IIC based on the Preparatory Committe’s Text to the Diplomatic Conference, cit., 55, « to avoid the confusion likely to result from the use of a term that has different meanings in different legal systems, the present draft does not use the term intent — or any other terms — as label for the state described ». (73) Sulla categorie intermedie tra dolo e colpa nell’esperienza comparatistica, anche con riferimento alla recklessness, si rinvia per tutti al recente contributo di CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai confini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, Milano, 1999, 279 e ss. Ritiene che l’essenza della recklessness risieda in una « consapevole assunzione o accettazione del rischio connotata in termini marcatamente normativi tramite il riferimento al carattere ingiustificato » del rischio PROSDOCIMI, Dolus eventualis. Il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali, Milano, 1993, 102. (74) Per la determinazione del concetto si veda GLASER, Culpabilité en droit international penal, cit., pag., 490.
— 1385 — dall’art. 30, che dall’attacco medesimo sarebbero derivate perdite incidentali di vite umane etc. Le conseguenze menzionate nell’art. 8 lett. b IV), tuttavia, sono conseguenze che derivano incidentalmente, il che significa che esse al momento in cui viene sferrato l’attacco senz’altro non sono direttamente volute. Diversamente, ove l’attacco fosse diretto intenzionalmente contro obiettivi civili si ricadrebbe nell’autonoma ipotesi criminosa prevista dal n. II: dirigere deliberatamente attacchi contro popolazioni civili. E allora basta una previsione in termini di probabilità oppure occorre una previsione di certezza delle verificazione delle conseguenze dannose per la vita delle popolazioni o per l’ambiente, a rendere addebitabile all’autore questo crimine internazionale? Questo è il punto. La semplice previsione non basta, ma occorre che chi ha ordinato l’attacco e chi lo ha eseguito, abbia accettato in termini di certezza, che dalla condotta sarebbero derivate le conseguenze indicate nella disposizione: occorre, in altri termini, che il soggetto abbia agito nonostante la previsione di tale risultato. Ciò si evince dall’ultima parte della disposizione che richiede che « the damage would be cleraly excessive in relation to the concrete and direct overall military advantage anticipated ». Tale elemento, non può dubitarsi, deve riflettersi nella sfera soggettiva in termini di certezza. L’autore ha sferrato l’attacco malgrado avesse previsto che un certo evento si sarebbe verificato, sicché ha agito superando tale previsione ed accettandone la verificazione pur di raggiungere il risultato bellico preso di mira. Quest’ultimo è l’elemento caratterizzante del dolus directus ovvero l’esistenza di un momento volitivo che deve essere effettivamente provato, accanto alla previsione di certezza del risultato. Perciò risulta chiaro che nel caso in cui l’agente abbia agito confidando nella particolare precisione dell’intervento militare e quindi nella sua capacità di evitare obiettivi civili, si pensi ai bombardamenti aerei realizzati con le cosiddette bombe intelligenti o all’utilizzo di missili teleguidati, l’elemento dell’intention richiesto dall’art. 30 dovrebbe in tal caso ritenersi escluso. A meno che la prova dell’intention non sia desunta dal fatto che l’attacco sia stato sferrato, nonostante fosse stato previsto con certezza che le conseguenze sulle popolazioni civili o sull’ambiente dell’attacco stesso, fossero ragionevolmente inevitabili attraverso l’impiego dei mezzi a disposizione. Il criterio della certezza delle conseguenze secondo il corso ordinario degli eventi (l’ordinary course of the events) implica in altri termini che, affinché una determinato evento possa essere imputato a titolo di dolo, chi ha agito abbia potuto rappresentarsi quel determinato risultato come conseguenza altamente probabile della sua azione, avendone valutato il rischio di verificazione, secondo la scienza ed esperienza del momento storico e del tipo di attività, ed avendo escluso la possibilità di impedire un dato evento sulla base dei mezzi a disposizione. Si può in conclusione affermare, che tanto la forma del dolo eventuale (dolus eventualis) che della colpa cosciente appaiono in linea generale incompatibili con la previsione dell’art. 30, oltre che con la struttura di taluni crimini previsti dallo Statuto. È indubbio, d’altra parte, che vi sono taluni crimini internazionali, che già solo per come sono tipizzati implicano un dolo escludendo persino la cd. oblique intention: il pensiero va, fra i crimini contro l’umanità, al crimine di Sterminio (art. 7 lett. b) o di Riduzione in schiavitù (lett. c); tra i crimini contro la guerra alla Torture o al saccheggio (art. 8 lett. a IV). 6. Accertamento dell’elemento psicologico. — Una considerazione a sé merita il problema dell’accertamento dell’intention nella sue diverse forme. Al Processo di Norimberga l’orientamento della Corte, come è noto, fu quello di ritenere l’insufficienza del Dolus indirectus (unbestimmter Vorsatz) (75) per l’affermazione di responsabilità degli imputati. Tuttavia a ben vedere, posto che tanto nello IMT Statute quanto nel KRG10 mancavano fattispecie di reato (Tatbestände) nel senso inteso nei sistemi continentali, l’opera dei Giudici di Norimberga fu quella di definire allo stesso tempo pre(75)
Vedi Ohlendorf-Case (AMT) in Nürnberg, Amt Protocol., 6942.
— 1386 — supposti soggettivi della responsabilità e criteri di accertamento dell’elemento soggettivo. Ciò di cui essi più si preoccuparono, fu di evitare che l’accertamento del dolo si risolvesse nella mera applicazione di una presumptio doli (76). Così nel processo che vedeva imputato il capo delle strutture sanitarie della Waffen — SS per gli esperimenti sul sulfonamido (Ärtze-Urteil), l’assoluzione fu basata sulla mancata prova da parte dell’accusa che tali esperimenti fossero stati eseguiti con la sua conoscenza (« mit seiner Kenntnis... ») ovvero con la piena consapevolezza dell’imputato: l’incertezza sulle fasi dell’esperimento o su altre circostanze di fatto rilevanti nella ricostruzione del fatto, escludeva il dolo diretto e quindi la colpevolezza. Anche nel corso dei processi per crimini di guerra contro Hess e Ribbentrop si affermò l’insufficienza di una mera presunzione di conoscenza da parte di questi ultimi dei piani di invasione, per fondare un’addebito di responsabilità a titolo di partecipazione nei crimini di guerra: nel processo contro Hess l’IMT osservò che se da una parte, per i rapporti di stretta fiducia intercorrenti fra Hess ed Hitler, egli avrebbe dovuto conoscere i piani di invasione della Polonia sin dal loro concepimento nella mente del Führer, d’altra parte tale supposizione non poteva equivalere alla prova diretta della conoscenza degli stessi piani di invasione (77). Di qui l’affermazione del principio che la semplice posizione all’interno di un apparato politico, statale o militare, di per sé non poteva bastare a far desumere la prova dell’elemento psicologico (78). Si deve notare, dunque, che l’affermazione (79) del principio della necessità della prova del dolo, andò strettamente congiunto con la reiezione di forme di responsabilità di posizione, camuffate dietro l’accertamento presuntivo del dolo, che in realtà si traduce nell’accertamento della violazione dell’obbligo di conoscenza gravante sull’agente in ragione della posizione ricoperta in seno ad organizzazioni militari, politiche, sanitarie ed economiche dello Stato nazista. Ebbene il pericolo di snaturare il contenuto della colpevolezza dei crimini internazionali, previsti nel presente Statuto, in sede di accertamento, si concretizza proprio con riferimento alle forme di dolo diretto, ove la prova della effettiva volontà e della consapevolezza dell’elemento materiale, si dissolva nell’accertamento della violazione dell’obbligo di conoscenza da parte del soggetto (culpa iuris), prescindendo dall’accertamento dell’elemento volitivo, componente essenziale di tale elemento psicologico. 7. L’elemento psicologico nella responsabilità dei capi militari e di altri superiori gerarchici. — Uno sguardo più attento merita la disciplina dell’elemento soggettivo contemplata nell’art. 28 dello Statuto per l’ipotesi di responsabilità dei capi militari o altri superiori gerarchici. Tale disposizione contiene un’eccezione alla disciplina dell’elemento soggettivo secondo le forme della knowledge and intention, prevedendo un’ipotesi di vera e propria responsabilità colposa: il comandante militare è penalmente responsabile dei crimini di compe(76) Contro le presunzioni di dolo, nella dottrina italiana, cfr. BRICOLA, Dolus in re ipsa, Milano, 1960. (77) Sul punto JESCHECK, Die Verantwortlichkeit der Staatsorganen, cit., 376. Lo stesso schema argomentativo fu utilizzato per assolvere Schachts dall’accusa di partecipazione alla preparazione dei piani di invasione, poiché non fu raggiunta la prova, al di sopra del ragionevole dubbio che egli « tatsächlich von den Angriffsplännen wußte » in Nürnberg, Bd. I, pag. 370. (78) JESCHECK, op. cit., ibidem: « die bloße gehobene politische, staatliche oder militärische Stellung ». (79) Ad esempio negli AMT contro Darré, Berger e Schellenberg amministratori di industrie belliche, l’assoluzione fu fondata sul rilievo che non fosse sufficiente la « gehobene Stellung im finanziellen, industriellen oder wirtschaftlichen Leben » a desumerne la completa conoscenza degli elementi del fatto dei crimini a loro imputati: in AMT — Wilhelmstraßen — Urteil, 11 aprile 1949-27750/27753.
— 1387 — tenza della Corte commessi da forze poste sotto il suo effettivo comando o controllo, quando egli sapeva o date le circostanze avrebbe dovuto sapere che le forze commettevano o stavano per commettere tali crimini ». A ben vedere qui il problema della individuazione dell’elemento psicologico si interseca con quello dei limiti della responsabilità omissiva. Quel che si rimprovera al comandante militare, infatti, è di non essersi attivato per prevenire o reprimere (80) la commissione di crimini da parte dei suoi subordinati, e quindi di non aver esercitato quegli speciali ed effettivi poteri di controllo tipicamente connessi all’esistenza di una posizione di garanzia per l’impedimento dei reati commessi dal controllato (81). Sul versante soggettivo si prevede nell’art. 28 dello Statuto, tanto l’ipotesi di omesso impedimento consapevole: il comandante era a conoscenza che si commettevano o si stavano per commettere dei crimini e ciò nonostante ha omesso di attivare le iniziative necessaria per impedirli; si tratta di un’ipotesi di concorso omissivo doloso. Nell’altra ipotesi, la violazione di un dovere di vigilanza (82), sul comportamento dei suoi subordinati, ha fatto sì che il soggetto garante non fosse a conoscenza effettivamente dei crimini perpetrandi, come lo sarebbe stato se avesse vigilato in conformità ai suoi doveri. Lo schema è dunque quello dell’agevolazione colposa, ovverosia della responsabilità per omesso impedimento colposo di un altrui condotta criminosa da parte del comandante militare che aveva un obbligo di vigilare sul comportamento del militare sottoposto. Interessante da ultimo è esaminare, sempre sotto il versante dell’elemento soggettivo, la fattispecie prevista nell’art. 28 dello Statuto, lett. b), dedicata alla responsabilità del superiore gerarchico. Questi risponde qualora era a conoscenza o ha trascurato « deliberatamente di tener conto di informazioni che indicavano chiaramente che tali subordinati commettevano o stavano per commettere tali crimini ». Ci sembra che in quest’ultima ipotesi i compilatori dello Statuto abbiano applicato la cd. teoria dei segnali d’allarme (83) per strutturare l’elemento psicologico che deve sorreggere la condotta omissiva del superiore gerarchico, in relazione ai reati commessi dal suo sottoposto. In presenza di determinate informazioni, dalle quali poteva desumersi con chiarezza la commissione di reati da parte dei sottoposti gerarchicamente, il superiore ha trascurato di valutarle ai fini delle sue determinazioni doverose: è chiaro che l’informazione deve presentare un margine di valutabilità; viceversa si ricadrebbe nell’ipotesi di conoscenza piena. Ebbene lo spettro dei possibili atteggiamenti psicologici sussumibili nella descrizione, apparentemente va dalla colpa con previsione al dolo eventuale (84). Si tratterà di vedere come la giurisprudenza eventuale e futura della Corte interpreterà questa norma; e cioè se richiederà solo che il superiore gerarchico abbia omesso di considerare certi segnali d’allarme che egli avrebbe dovuto valutare come tali e, conseguentemente, di attivarsi, il che fonderebbe un addebito a titolo di colpa, sia pur con previsione, qualora, come richiesto dall’art. 28, la trascuratezza sia consapevole; senza tuttavia ri(80) Per la verità non si comprende perché si sia voluto parificare la condotta del comandante che ometta di prevenire cioè di impedire i crimini commessi dai soggetti sottoposti alla sua autorità, all’omessa repressione di crimini già commessi dai subordinati, posto che è di tutta evidenza che nel secondo caso il crimine non represso già si è consumato, allorché interviene l’omissione penalmente rilevante. (81) Sul punto SERENI, Individual criminal responsibility, cit., 143. (82) In tal senso E. WISE, Commentary on the Model draft Statute, 46. (83) Sulle implicazioni della teoria dei segnali d’allarme in relazione alla struttura ed alla prova del dolo di concorso nei reati commessi nell’esercizio di attività societaria, per tutti cfr. STELLA-PULITANÒ, La responsabilità penale dei sindaci di società per azioni, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1990, 553, e in particolare 569 ss. Nel senso che la percezione di segnali di allarme costituisca il presupposto stesso per il sorgere dell’obbligo di garanzia in capo al destinatario di un obbligo di vigilanza si veda il fondamentale contributo di FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell’impresa, Firenze, 1986, 297 ss. (84) In tal senso si è sostenuto l’indeterminatezza della descrizione dell’elemento psicologico nell’art. 28 tanto da poter rientrare tanto nella neglicence che nella « willful blindness »: così CLARK, op. cit., 9.
— 1388 — chiedere che l’agente si sia rappresentato concretamente il rischio della commissione di crimini da parte dei suoi sottoposti. O se piuttosto, come a noi sembra più congruo, si richieda che il superiore abbia effettivamente recepito quelle informazioni, e ne abbia al contempo valutata la concreta significatività criminosa, ciò nonostante omettendo qualunque iniziativa impeditiva. Per questa secondo possibilità depone il requisito, inserito nel testo dell’art. 28 dello Statuto, della chiarezza delle informazioni deliberatamente trascurate dal superiore. È anche da dire che riesce assai difficile supporre che crimini contro l’umanità, o di genocidio, che sono ontologicamente crimini di massa e di elevato allarme sociale, possano sfuggire facilmente alla percezione di un superiore gerarchico, ove commessi dai suoi sottoposti, sicché, in questo campo, ulteriore problema sarà quello di accertare se il superiore o il comandante non abbiano celato, dietro una condotta omissiva, il loro contributo morale, consapevole e come tale punibile sulla base dell’art. 25 dello Statuto. Entro questo limitato spazio, ci sembra, tuttavia, che potranno giocare un sia pur limitato ruolo gli elementi costitutivi previsti dall’art 9 dello Statuto, nel fornire ai Giudici della Corte una griglia di criteri di accertamento della mens rea, che però essa sola dovrà scegliere, rispettando il più possibile lo spirito e la lettera della norma in parola. 8. Errore di fatto. — Per completare il quadro della disciplina dell’elemento soggettivo è necessario passare alla disamina delle norme dedicate all’errore. L’art. 32 dello Statuto, in particolare, contempla due distinte forme di errore: la formulazione dell’errore di fatto e dell’errore di diritto, è stata oggetto di un dibattito acceso in seno alla Preparatory Committee. Originariamente il Preparatory Committee’s Draft in una prima versione (option 1) distingueva fra l’errore inevitabile (Unavoidable mistake) di fatto che, in quanto causa di esclusione del mental element, escludeva la responsabilità, e l’errore evitabile (avoidable mistake) che operava come causa di attenuazione della pena. A noi sembra che la scomparsa della distinzione tra errore evitabile ed inevitabile, nello Statuto, sia in armonia con la disciplina del mental element contenuta nell’art. 30 ed in particolare con la mancata previsione della recklessness e della negligence. Il concetto di evitabilità postula un rimprovero a titolo di colpa. Ciò significa che in base all’art. 32 dello Statuto, almeno l’errore di fatto, esclude l’elemento psicologico dell’intention tanto se sia evitabile quanto se sia inevitabile. Quanto all’oggetto dell’errore di fatto, è scomparso anche il riferimento alla necessità della rilevanza « is not inconsistent with nature of the alleged crime » contenuto nella option 1 e nella option 2 del Zutphen Draft ». La forte semplificazione della disposizione, d’altra parte, si pone in linea con il convincimento espresso da alcune delegazioni della inutilità di una disciplina del mistake of fact, considerato che essa risulterebbe implicitamente da quella della mens rea (85). 9. Erronea supposizione di cause di giustificazione. — Secondo il testo definitivo dell’art. 32 dello Statuto, non si richiede che l’agente si sia rappresentato elementi che escludono la wrongfulness della condotta. Anche in ciò, si è detto, la disciplina dell’errore rispecchia in parallelo la scelta dei compilatori dello Statuto di delimitare l’oggetto dell’intention all’elemento materiale del crimine il che comporta che se da un parte, secondo l’art. 32, scusa l’errore che verte su elementi di fatto, in quanto idoneo ad escludere l’elemento mentale, d’altra parte non scusa l’errore che abbia ad oggetto l’esistenza di cause di giustificazione (86) « it does not allow for the kind of mistake that goes not to the nature, circumstances, and consequences of the accused’s conduct, but rather to existence of grounds of justification » In altri termini, poiché la conoscenza dell’elemento materiale non richiede la consapevolezza della illiceità del fatto (aware(85) (86)
Così alla nota 103 art. 24 k del Zutphen Draft. Così E.M. WISE, in Commentary to the Model Draft Statute, cit., pag. 55.
— 1389 — ness of the wrongfullness), per converso l’erronea supposizione di cause di giustificazione non escluderebbe lo stesso elemento psicologico. Ad una prima analisi, sembrerebbe, perciò, che i compilatori abbiano inscritto l’errore sull’esistenza di cause di giustificazione, nell’ambito dell’errore di diritto. Resta escluso da tale ambito soltanto l’ipotesi di ignoranza sull’illegittimità dell’ordine, in virtù dell’espresso richiamo dell’art. 32 all’art. 33 dello Statuto. Sul punto ci limitiamo ad osservare (87) che lo Statuto non distingue tra errore di fatto da cui sia derivato un errore sulla illegittimità dell’ordine ed errore di diritto (88). Tale distinzione, invece, sarebbe auspicabile, posto che diversamente si finisce con il parificare situazione di mancata conoscenza della illegittimità dell’ordine che si risolvono nella vera e propria ignoranza del precetto penale ed ignoranza determinata dall’erronea rappresentazione o mancata conoscenza di un presupposto di fatto, tale che rappresenta un ostacolo alla corretta cognizione della illegittimità di quell’ordine. 10. Errore di diritto. — L’attuale disciplina dell’errore di diritto appare alquanto confusa. Da una parte l’art. 32 contiene la solenne affermazione del principio accolto nei principali ordinamenti giuridici, dell’ignorantia legis non excusat: « A mistake of law as to whether a particular type of conduct is a crime within the jurisdiction of the Court shall mot be a ground for excluding... ». Tuttavia la scomparsa, come detto, di ogni riferimento alla distinzione tra errore evitabile ed inevitabile (Unavoidable mistake), sembrerebbe comportare l’esclusione della rilevanza scusante dell’ignoranza di diritto inevitabile, soluzione, quest’ultima, che desterebbe serie perplessità, posto che oramai nei principali sistemi giuridici contemporanei si riconosce la scusabilità dell’ignoranza di diritto inevitabile come corollario del principio di colpevolezza (89), e visto che detto principio sembra essere stato accolto nello Statuto. Si è inoltre acutamente osservato, che il principio ignorantia legis non excusat, si fonda su di una presunzione di conoscenza della legge, che rispetto all’ordinamento internazionale ha un grado di validità attenuata in ragione della non validità delle sue premesse in ordine alla presunzione assoluta di conoscenza (90). Innanzitutto perché la premessa indefettibile della presunzione in oggetto, quella della conoscibilità (rectius possibilità di conoscere) del precetto che dovrebbe essere attuata attraverso strumenti di pubblicità, idonei a diffondersi nel contesto mondiale, in cui è destinata ad operare la norma penale internazionale, appare certamente dotata di un minor grado di effettività. Ulteriori dubbi sorgono, poi, in relazione alla stessa validità della presunzione di conoscenza, in seno ad un ordinamento come quello internazionale nel quale i destinatari dei precetti sono i soggetti internazionali, e solo in via mediata i singoli individui: appare chiaro che il contrasto tra l’ordinamento statuale e l’ordinamento internazionale già pone il destinatario mediato della norma penale internazionale dinanzi ad un potenziale conflitto di doveri (Pflichtenkollision), già di per sè fonte di possibile alterazione del processo di cognizione del precetto penale internazionale. Di tale peculiarità deve tenersi conto in sede di accertamento dell’elemento soggettivo, come si vedrà, in relazione al requisito della coscienza dell’illiceità del fatto. Le considerazioni appena svolte perciò dovrebbero far propendere di per sé per una presunzione relativa di conoscenza della legge e quindi per una limitata scusabilità dell’errore sulla legge penale internazionale. (87) Cfr. sul punto MEZZETTI, Le cause di esclusione della responsabilità penale nello Statuto della Corte internazionale penale, in questa Rivista, 2000, n. 1, 237 e in particolare 251. (88) Diversamente per il codice penale italiano in base all’art. 51, comma 3 se il soggetto ha ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo per errore di fatto egli è scusato. (89) In generale sul problema dei rapporti tra ignoranza inevitabile e contenuti del principio di colpevolezza v. VASSALLI G., L’inevitabilità dell’ignoranza della legge penale come causa di esclusione della colpevolezza, in Giur. Cost., 1988, 1 ss. (90) BASSIOUNI, Crimes against humanity, 363.
— 1390 — Vero è d’altra parte che anche la codificazione nel presente Statuto dei crimini internazionali e l’elevato grado di determinatezza delle fattispecie in esso contemplate, sebbene garantiscano un più elevato standard di legalità nel diritto penale internazionale, non eliminano le preoccupazioni che discendono da un accoglimento del principio dell’inescusabilità della legge penale internazionale. E infatti basta rivolgere l’attenzione all’art. 21 dello Statuto secondo il quale, la Corte potrà applicare « in secondo luogo, qualora appropriato, i trattati applicabili e i principi e le norme del diritto internazionale includendo i principi del diritto internazionale dei conflitti armati » (91), per intendere che il carattere consuetudinario delle fonti del diritto internazionale che costituiranno materia dell’illecito internazionale, o in via diretta o mediata, attraverso il meccanismo dell’integrazione con lo Statuto, pongono la Corte stessa dinanzi al difficile compito di accertare se, in determinati casi, l’agente abbia effettivamente agito senza consapevolezza della illiceità del fatto (92). 11. Errore di diritto e coscienza dell’illiceità del fatto. — Il tema della Unrechtsbewusstesein ha interessato la comunità giuridica mondiale proprio in occasione del processo di Norimberga, ove uno degli argomenti difensivi più praticati dagli imputati fu proprio quello dell’assenza di coscienza della illiceità dei fatti commessi, in quanto realizzati nella convinzione di agire in conformità all’ordinamento vigente. Fra le più significative esplicazioni di questa tesi si annoverano il memoriale presentato da Jahrreiss al processo di Norimberga contro i generali (Generals-Urteil), nel quale egli sostenne che nell’ipotesi di ordinamenti statuali contrari al diritto internazionale, qualora fosse raggiunta la prova che l’autore riteneva di agire nel rispetto del diritto statuale, si dovesse escludere comunque la coscienza dell’illiceità del fatto (Unrechtsbewusstsein) (93). La tesi fu pacificamente disattesa (94) non solo con riguardo ai più efferati crimini contro l’umanità, rispetto ai quali la coscienza del disvalore del fatto fu fatta giustamente discendere dal riconoscimento di principi del diritto naturale (95), ma anche con riferimento ad esempio ai cosiddetti crimini di aggressione, per i quali non si richiese che gli imputati fossero a conoscenza del carattere aggressivo della guerra alla stregua dei trattati internazionali dalla Germania per affermarne la responsabilità. Ebbene la formula dell’art. 32 non chiarisce entro quali limiti si sia inteso attribuire rilievo al difetto di consapevolezza dell’illeceità del fatto. Il travaglio dei lavori preparatori ne sono testimonianza. Mentre nel Preparatory Committee’s Draft si specificava, che l’errore costituiva causa di esclusione della responsabilità allorchè incidesse sulla coscienza (awareness of the unlawfules of his conduct) dell’illiceità della condotta da parte del soggetto (96), in una seconda (versione option 2), invece, veniva esclusa la rilevanza dell’errore di diritto, sicchè l’art. 24K si limitava ad affermare that « mistake of fact shall be ground for excluding (91) « In the second place, where appropriate, applicable treaties and the principles and the rules of international law »; si rinvia sul punto a CATENACCI, Nullum crimen sine lege, in F. LATTANZI (edited by), The international criminal court. Comments on the Draft Statute, cit., 159 ss. (92) Per analoghe considerazioni vedi GLASER, Culpabilité en droit international penal, 497. (93) II Generals — Urteil, 28 ottobre 1948, 10109. Sul punto vedi JESCHECK, Die Verantwortlichkeit der Staatorgane nach Voelkerstrafrecht, 385. (94) JESCHECK, Die Verantwortlichleit, 384. (95) Ad esempio nel (Pohl-Urteil, 3 novembre 1947, 7974, si affermò. « Es muß auch mit Sicherheit angenommen werden, dass Frank wusste, daß die Sklaverei ein Verbrechen gegen die Menschlichkeit darstellt ». (96) Era evidente il richiamo al § 17 del German Penal Code: « Fehlt dem Täter bei Begehung der Tat die Ensicht, Unrecht zu tun, so handelt er ohne Schuld, wenn er diesen Irrtum nicht vermeiden konnte » su cui per tutti vedi CRAMER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch-Kommentar, § 17, 10.
— 1391 — criminal responsability only if negates the mental element » (97). Anche nel Model Draft Statute all’art. 30, che coincideva sostanzialmente con la option 1 del Zutphen Draft, non figurava più il riferimento alla esclusione della coscienza della illiceità del fatto da parte del soggetto che versa in errore sia di fatto che di diritto. Nella disposizione in commento è riapparso, invece, fatalmente, il requisito della esclusione del mental element come condizione di rilevanza solo dell’errore di diritto: non ogni ignoranza della legge può scusare ma solo quella che esclude l’elemento mentale. Ad una prima lettura sembrerebbe che con questa formulazione dell’articolo 32 si sia inteso attribuire rilevanza al requisito della conoscenza dell’illegalità o coscienza del carattere antigiuridico (knowledge of illegality or consciousness wrongdoing), come nucleo centrale del mental element (98), in linea con una impostazione che riecheggia la Schuldtheorie, anche se si tratta di un accoglimento imperfetto vista il mancato riferimento all’inevitabilità dell’errore. Ciò premesso la seconda parte dell’art. 32 dello Statuto deve essere interpretato nel senso della rilevanza scusante dell’ignoranza della legge penale internazionale, se l’agente non abbia potuto conoscere il precetto penale internazionale per cause non imputabili alla sua volontà colpevole. A tale conclusione si deve giungere, peraltro, in via interpretativa poiché nessun riferimento esplicito all’errore di diritto inevitabile si rinviene nella norma in commento, e tuttavia la soluzione in parola appare in linea con il principio di colpevolezza pure in più parti affermato nello Statuto. I casi di ignoranza scusabile possono essere senz’altro ricondotti a situazioni di caso fortuito o forza maggiore: conflitto bellico che impedisca la diffusione del testo dello Statuto in zone isolate; erronea traduzione del testo dello Statuto; oppure ad un contrasto tra fonti qualificate di diritto internazionale rilevanti nella applicazione delle norme dello Statuto, soprattutto quando si tratti di fonti consuetudinarie non riversate in atti ufficiali e pertanto rimesse alla contrastante accertamento di Autorità internazionale qualificate. Il secondo significato della norma in commento risiede nella esclusione dell’elemento psicologico allorché l’agente abbia erroneamente interpretato o completamente ignorato la norma di diritto internazionale rilevante ai fini dell’applicazione di una norma dello Statuto. Si pensi ad esempio all’ipotesi criminosa di cui all’art. 8 lett. b, iii « intentionally directing attack against the civilian personnel, installations... ». Qui la individuazione dello status di « legittimati alla protezione accordata a civili o a obbiettivi civili secondo il diritto internazionale dei conflitti armati » (99) passa attraverso la cognizione e la corretta interpretazione delle norme internazionali sui conflitti armati. Un errore di diritto che verta su siffatte norme impedisce che l’autore si sia correttamente rappresentato il fatto e pertanto esclude il mental element, incidendo così sulla stessa consapevolezza della illiceità della condotta. Questo è dunque, il primo significato da attribuire alla subordinazione « se esso esclude l’elemento mentale » (100). La conclusione appena esposta evidentemente presuppone che il termine law a cui si riferisce la seconda parte del secondo comma dell’art. 32 dello Statuto possa essere inteso tanto nel significato di disposizione dello Statuto ma anche di norma internazionale da esso richiamata. L’ultimo interrogativo che pone l’art. 32 è se il contrasto tra l’ordinamento interno sta(97) (98)
A/AC. 249/1997/L.5, p. 28. Sul ruolo essenziale della coscienza dell’illiceità del fatto nella struttura del dolo v. CORDOBA RODA, El conoscimiento de la antijuridicidad en la teoria del delicto, Barcelona, 1962; sul rapporto tra la funzione rieducativa della pena nell’art. 27 della Cost. italiana ed il principio della inescusabilità dell’ignorantia legis vedi PALAZZO, Ignorantia legis: vecchi limiti e nuovi orizzonti della colpevolezza, in questa Rivista, 1988, 920. (99) « ...Entitled to the protection given to civilians or civilian objects under the international law of armed conflict ». (100) « ...only if it negates the mental element ».
— 1392 — tuale ed i principi di diritto penale internazionale, che escludano radicalmente quella coscienza dell’illiceità del fatto, intesa non come esatta conoscenza della norma penale internazionale, ma come percezione del disvalore nella sfera laica (101), possa essere valorizzata nell’ottica della disposizione ove si ravvisi in essa un’autonoma causa di esclusione della colpevolezza. In un importantissimo documento difensivo, presentato da Reinhard Maurach nel processo di Norimberga contro le Einsatzgruppen, l’illustre giurista sostenne che gli imputati agirono fomentati dall’idea nazionalsocialista nell’erronea supposizione di versare in una situazione necessitante, consistita nella necessità di salvare il popolo tedesco dal pericolo di distruzione che ad esso sarebbe derivato dall’ebraismo, in conseguenza dell’identificazione operata nella mente dei realizzatori tra quest’ultimo ed il bolscevismo (102). Ciò che importa rilevare, in questa sede, è che se è pur vero che la tesi difensiva di Maurach fu prontamente smontata, poiché si disse, che i carnefici nazisti comunque erano in grado di percepire il disvalore delle loro efferate alla stregua dei princìpi di un diritto umano universalmente riconosciuto, essa tuttavia metteva in luce un aspetto di grande interesse. Maurach poneva, in realtà, un sottile problema, che meriterebbe una più attenta considerazione anche nella prospettiva dello Statuto: alcuni di quei soggetti avevano agito applicando una struttura cognitiva (103) che li portava a ritenere del tutto lecite, anzi necessarie le condotte poste in essere, al punto che difettava in loro la effettiva coscienza dell’illiceità delle loro perfide intraprese. In altri termini l’ignoranza della norma penale internazionale può essere di per sé idonea ad escludere il dolus in casi limite, nei quali si evidenzi che l’imputato non era in grado di percepire il disvalore del fatto realizzato alla stregua del parametro del precetto internazionale, sia per il contrasto esistente tra questa e le norme dell’ordinamento interno che imponevano un dato comportamento, sia per la struttura cognitivo— valutativa propria del soggetto, orientata secondo valori in tutto eccentrici rispetto ai valori del contesto socializzato: si pensi ad eccidi realizzati da tribù primitive in danno di gruppi etnici sulla base di convinzioni religiose fortemente radicate e fondanti la particolare struttura cognitiva degli agenti. In tali casi vale la pena di chiedersi se la Corte, proprio in applicazione dell’art. 32, non possa considerare la ignoranza della legge penale internazionale, come autonoma causa di esclusione dell’elemento soggettivo, facendone discendere le conseguenze evidenti in ordine alla punibilità. Va da sé che, nell’accertamento della coscienza dell’illecito, si deve distinguere tra i crimini contro l’umanità (mala in se) e crimini internazionali come taluni crimini di guerra dotati di un minor disvalore naturale, in quanto costruiti attraverso l’impiego di elementi normativi, che rinviano a fonti di qualificazione di diritto internazionale diverse dallo Statuto (104). NICOLA PISANI Ricercatore presso l’Università degli Studi di Teramo
(101) Nella dottrina tedesca Arth. KAUFMANN, Das Unrechtsbewusstsein in der Schuldlehre des Strafrechts, 1985, 154 ss.; JESCHECK, Lehrbuch, op. cit., 454. (102) MAURACH R., Expert Legal Opinion Presented on Behalf of Defense, US. Versus Ohlenndorf, Trials of War Criminals before the Nuernberg Military Tribunals under Control Law n. 10, vol. 4, 339-355. (103) L’espressione è di GOLDHAGEN J., Hitler’s killing Executioners, 1996, 408 (ed. italiana), il quale ritiene che nel caso dei criminali nazisti la struttura cognitiva era caratterizzata da un antisemitismo demonologico, che li portava ad individuare negli ebrei il pericolo per la futura esistenza del Reich. (104) BASSIOUNI, Crimes against Humanity, cit., 365.
GIURISPRUDENZA
d)
Giudizi di Merito
TRIBUNALE MILITARE DI TORINO — 28 gennaio 1999 (depositata 9 febbraio 1999) Pres. Saeli — Imputato Aimonetto Consenso dell’avente diritto - Lesioni personali - Validità - Limiti - Disponibilità dell’integrità fisica (c.p. artt. 50, 582; c.p.m.p. art. 223). Il valido consenso dell’offeso, consistente nel caso di specie nell’essersi sottoposto volontariamente ad una prova di coraggio al fine di entrare a far parte del ‘‘gruppo’’ dei soldati della Scuola, ha efficacia scriminante rispetto al delitto di lesioni personali, essendo l’integrità fisica un bene disponibile. In tema di consenso dell’offeso non trova applicazione l’art. 5 c.c., norma che ha rilevanza unicamente civilistica (1). (Omissis). — Il Tribunale ritiene che il dibattimento abbia comprovato l’insussistenza dei fatti descritti nel capo di imputazione. Infatti è emerso dalle deposizioni come all’interno della Scuola del Corpo Veterinario Militare di Pinerolo, si fosse radicata la consuetudine di procedere alla ‘‘iniziazione’’ dei militari mediante un atto di presunto o considerato coraggio, costituito da una prova di resistenza alla esposizione del braccio avanti una piccola fonte di calore, quale poteva essere quella cagionata da una accendino, in grado di provocare una lieve ustione. Questa prova di ‘‘iniziazione’’ consentiva di entrare a fare parte del ‘‘gruppo’’ dei soldati della Scuola. È emersa anche la piena volontarietà del comportamento dei singoli, proprio di una mentalità giovanile per cui, in tutti i settori, e non solo in quello militare, occorre sostenere delle prove o sostenere l’attitudine a manifestare certi comportamenti per entrare a fare parte del ‘‘gruppo’’. Il teste Filippini, persona offesa, ha dichiarato di avere chiesto lui stesso la sottoposizione al rito. Queste dichiarazioni sono state confermate dal Silvestris, il quale ha affermato che nessuno gli ha proposto di sottoporsi a tale rito e che comunque si trattava di comportamenti volontari. Più specificamente lo stesso Filippini gli aveva manifestato la sua volontà di compierlo. Essendo chiaro che siamo in presenza di un comportamento spontaneo del Filippini, occorre verificare se tale manifestazione di volontà sia giuridicamente idonea a rendere penalmente lecita la condotta del militare Aimonetto, che gli ha in concreto provocato l’ustione appoggiandogli sul braccio la parte metallica preriscaldata dell’accendino. L’art. 50 c.p., che disciplina l’ambito di applicazione del consenso dell’avente
— 1394 — diritto, riconosce la sua efficacia scriminante solo con riferimento ai diritti disponibili. Tale limite si spiega agevolmente sulla base della ratio dell’istituto ricordando che l’interesse alla repressione è destinato a venire meno solo se il consenso ha ad oggetto beni di pertinenza esclusiva, o prevalente, del privato che ne è titolare. La disposizione lascia tuttavia aperto il problema dell’identificazione della nozione di diritto disponibile, che deve desumersi, in via interpretativa, dall’intero ordinamento e dalla sua natura personalistica. Mentre è assolutamente pacifica, in dottrina ed in giurisprudenza, la natura indisponibile del bene giuridico vita, più aperto è il dibattito sulla integrità fisica. In particolare si è ritenuto sussistente un collegamento teleologico tra l’art. 50 c.p. e l’art. 5 c.c. che prevede il divieto civilistico di compiere atti dispositivi del proprio corpo ‘‘quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume’’. Il Tribunale ritiene inconferente tale presunto collegamento in quanto assai diversa è la ragione sottostante: mentre l’art. 50 risolve un conflitto di interessi, quello di cui è portatore l’autore del fatto e quello tutelato dalla norma incriminatrice, l’art. 5 c.c. persegue la finalità di sanzionare civilisticamente, rendendoli privi di effetti giundici, tutti i contratti posti in essere a scopo lucrativo ed aventi ad oggetto parti del corpo umano. Non è questa la fattispecie in esame. In dottrina si è in seguito ritenuto di dovere distinguere tra gli atti svantaggiosi per la salute della persona offesa, ma che non cagionano una ‘‘diminuzione permanente’’ dell’integrità fisica, e quindi sono leciti, da quelli invece che la cagionano e, pertanto, sono penalmente illeciti. Sulla base di queste considerazioni, si è, pertanto, sostenuto che sia scriminato il tatuaggio sul braccio o in parti nascoste del corpo, così come l’asportazione di pezzi di pelle, ma non uno sfregio permanente, una mutilazione o una sterilizzazione irreversibile. La giurisprudenza (in particolare Cass. 24 aprile 1968 in Giust. pen. 1969, 11, 165) ha però respinto anche quest’ultima impostazione affermando l’irrilevanza del consenso prestato a mere scottature sul corpo effettuate con brace di sigarette. Il Tribunale ritiene che la questione debba essere diversamente esaminata. Non appare corrispondente a verità affermare l’assoluta irrilevanza del consenso dell’avente diritto con riguardo al bene giuridico vita. La presenza di questo elemento infatti comporta la diversa qualificazione giuridica della condotta materiale, riconducibile non più nell’ambito dell’art. 575 c.p. (omicidio volontario), ma in quello dell’art. 579 c.p.(omicidio del consenziente), che prevede una pena inferiore. Non si riscontra, invece, una pari norma che punisca con pena meno grave la lesione del consenziente. Sembra contrario al principio di ragionevolezza che, come insegna la Corte Costituzionale, deve ispirare l’atteggiamento del Legislatore, pensare che, a suo tempo, la Commissione Ministeriale incaricata di redigere il Codice Rocco, abbia voluto conferire rilevanza al consenso dell’avente diritto quando dispone del bene della vita e non vi abbia dato rilevanza alcuna per quanto riguarda l’integrità fisica. L’esistenza di un’unica fattispecie penale, l’art. 582 c.p., poi ripresa nell’art.
— 1395 — 223 c.p.m.p., fa ritenere, ad avviso del Collegio, che il Legislatore si sia limitato a punire solo le lesioni cagionate a persona non consenziente. Pertanto, in forza anche del principio di legalità codificato negli artt. 1 c.p. e 25 Cost., mancando una norma penale espressa, non può essere punito chi lede il fisico altrui con il consenso di questi. Poiché è stato ampiamente provato, nel corso del dibattimento, che l’imputato ha ferito il commilitone Filippini con il suo espresso consenso, il Tribunale ritiene che non debba essere punito in quanto l’azione deve considerarsi, penalmente, del tutto lecita. (Omissis). —————— (1) L’integrità fisica: un diritto illimitatamente disponibile da parte del titolare? SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. La tesi della disponibilità soltanto parziale dell’integrità fisica. — 3. La tesi accolta dal Tribunale Militare di Torino: la totale disponibilità dell’integrità fisica. — 4. Alcune obiezioni agli argomenti del Tribunale in tema di disponibilità del bene ‘‘integrità fisica’’. — 5. Disponibilità dell’integrità fisica, tutela costituzionale della salute e art. 5 c.c. — 6. Alcuni rilievi conclusivi.
1. Premessa. — La questione principale affrontata dalla sentenza del Tribunale Militare di Torino riguarda l’operatività del consenso dell’avente diritto, quale causa di giustificazione prevista dall’art. 50 c.p., in relazione al bene dell’integrità fisica. L’individuazione dei limiti entro cui è possibile consentire alla lesione della propria integrità fisica rappresenta un tema di persistente attualità che occupa una posizione di primo piano nel dibattito dottrinale sin dagli anni trenta, allorché un famoso caso giudiziario affrontò il problema del trapianto di una ghiandola sessuale da un giovane studente ad un anziano e facoltoso signore che desiderava recuperare la virilità perduta. In tale occasione la Cassazione negò la responsabilità penale del chirurgo che aveva effettuato l’intervento, sulla base del consenso prestato dall’avente diritto (1). Tale pronuncia suscitò grande scalpore e richiamò l’attenzione sul problema della responsabilità del medico e sull’efficacia scriminante del consenso in relazione al bene dell’integrità fisica. Stabilisce l’art. 50 c.p. che l’ambito di applicazione del consenso è limitato all’area dei diritti di cui il titolare può validamente disporre (2). L’individuazione del confine fra ciò che è disponibile e ciò che non lo è costituisce una questione particolarmente complessa, posto che il legislatore non si è preoccupato di specificare la natura dei vari diritti e tanto meno di indicare i criteri alla luce dei quali operare tale distinzione (3). Preme comunque sottolineare sin da ora che la determinazione del carattere (1) Cass., Sez. III, 31 gennaio 1934, in Foro it., 1934, II, c. 303, con nota di VANNINI. La Corte Suprema ha sostanzialmente confermato la sentenza assolutoria data nelle precedenti fasi del giudizio, cfr. Trib. di Napoli sent. 28 novembre 1931, in Giust. pen., 1932, II, 592 e Corte App. sent. 30 aprile 1932 in Giust. pen., 1932, II, 1679. È pubblicata anche l’appassionata requisitoria del pubblico ministero innanzi al tribunale: PETROCELLI, Il consenso del paziente nell’attività medico-chirurgica, in Annali di diritto e procedura penale, 1932. (2) Con l’espressione ‘‘diritto’’ si allude non alla nozione tecnica di diritto soggettivo, bensì agli interessi ovvero ai beni giuridici oggetto di tutela da parte delle norme incriminatrici. In questo senso, v. fra gli altri GROSSO, Consenso dell’avente diritto, in Enc. Giur. Treccani, VIII, 1988, p. 2; PEDRAZZI, Consenso dell’avente diritto, in Enc. dir., 1961, IX, p. 141; RIZ, Il consenso dell’avente diritto, Padova, 1979, p. 80. (3) Sui criteri adottati dalla dottrina per individuare la natura disponibile o indisponibile dei vari diritti v., per tutti, ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, 2000, XV ed., p. 287.
— 1396 — disponibile o indisponibile di un determinato bene — operazione con la quale si delimita il campo di operatività del consenso dell’avente diritto — deve essere effettuata alla luce dell’intero ordinamento, prendendo cioè in considerazione anche norme che si trovano in rami del diritto diversi da quello penale (4). Del resto ciò vale non solo per il consenso dell’avente diritto, ma anche per tutte le altre cause di giustificazione, la cui configurazione può derivare dalla composizione di più disposizioni, situate in qualsiasi luogo dell’ordinamento (5). Discende infatti dall’unità dell’ordinamento giuridico, che è alla base dell’istituto delle cause di giustificazione, la necessità che la loro configurazione, da cui deriva la definizione del confine fra lecito ed illecito, sia stabilita inequivocabilmente, a garanzia dei cittadini (6). 2. La tesi della disponibilità soltanto parziale dell’integrità fisica. — La questione relativa alla disponibilità dell’integrità fisica deve essere affrontata alla luce di diversi dati normativi: l’art. 50 c.p., l’art. 5 c.c. e diverse disposizioni costituzionali fra cui, in primo luogo, l’art. 32 comma 1. La difficoltà di comporre in modo organico la disciplina dettata da tali disposizioni fa sì che il dibattito su questo tema sia tuttora aperto (7). Secondo una prima opinione, largamente maggioritaria in dottrina ed in giurisprudenza (8), l’integrità fisica è un bene parzialmente disponibile. I limiti al potere di disporre del proprio corpo sarebbero ricavabili dall’art. 5 del c.c., il quale sancisce il divieto di atti di disposizione che cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica o che siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume (9). Quanto alla ratio dell’art. 5 c.c., ed in particolare del limite della diminuzione permanente, si osserva che, esaminata alla luce della Costituzione, la tutela dell’integrità fisica si rivela funzionale alla tutela della salute, bene garantito dall’art. 32 Cost. come diritto dell’individuo e come interesse della collettività (10). Da ciò discende la logica conseguenza che il divieto di atti di disposizione che cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica non opera quando le lesioni, seppur gravemente menomanti, non siano svantaggiose per la salute, ma siano anzi finalizzate a garantirne la conservazione o il miglioramento; il divieto torna invece ad operare quando gli atti di disposizione siano svantaggiosi per la salute (11). Quanto al significato dell’espressione ‘‘diminuzione permanente’’, secondo la (4) PEDRAZZI, op. cit., p. 142; RIZ, op. cit., p. 91 ss; VIGANÒ, in DOLCINI-MARINUCCI (a cura di), Codice penale commentato, 1999, sub art. 50 c.p., p. 406. (5) MARINUCCI, Cause di giustificazione, in Dig. disc. pen., II, 1988, p. 139; ID., Antigiuridicità, in Dig. disc. pen., I, 1987, p. 183; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, 2001, III ed., p. 633. (6) MARINUCCI, Cause di giustificazione, cit., p. 132. (7) ROMBOLI, Commento all’art. 5, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, a cura di GALGANO, art. 1-10, 1988. (8) In giurisprudenza v.: Cass. Sez. I, 16 giugno 1998, n. 9326, in Giust. pen., 1999, II, c. 73; Cass. Sez. V, 12 maggio 1992, in Giust. pen., 1992, II, c. 551; Cass. Sez. II, 22 gennaio 1988, in Cass. pen., 1990, I, p. 232. (9) Si osservi che l’occasio per l’approvazione della disposizione in esame è stato proprio il caso giudiziario cui più sopra si accennava, cfr. ROMBOLI, op. cit., p. 227. (10) Quanto al limite della diminuzione permanente dell’integrità fisica si deve innanzitutto osservare che esso trova il proprio fondamento, nel quadro del codice civile, in una concezione della persona umana considerata come strumento per la realizzazione di superiori interessi pubblici. In base a tale impostazione, chiara espressione dell’ideologia totalitaria propria del regime fascista, l’integrità fisica non viene tutelata come bene in sé, ma in quanto ‘‘condizione essenziale perché l’uomo possa adempiere i suoi doveri verso la società e la famiglia’’ (Relazione del Guardasigilli al Re sul codice civile 1936, n. 26). Tale concezione contrasta in modo stridente con i principi introdotti nell’ordinamento dalla Costituzione: in essa la tutela e la valorizzazione della persona umana occupano una posizione centrale e si oppongono all’asservimento del cittadino ai fini dello Stato. Proprio alla realizzazione della persona umana come valore in sé la Costituzione ha finalizzato la tutela della salute e quindi dell’integrità fisica. (11) Sul punto cfr., fra gli altri, MANTOVANI, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto ita-
— 1397 — dottrina prevalente essa allude non ad una qualsiasi menomazione funzionale od organica del corpo (12), bensì soltanto a quel ‘‘danno che modifica realmente e sostanzialmente il modo di essere dell’individuo, sotto il profilo dell’integrità funzionale o anche sotto il profilo dell’integrità anatomica nel caso di modificazioni peggiorative del complesso fisionomico, che alterano il modo di essere dell’individuo in rapporto all’ambiente, diminuendo le sue risorse caratterizzanti e, in definitiva, la sua capacità di vita di relazione’’ (13). Da quanto detto si ricava che, per quanto riguarda gli atti di disposizione svantaggiosi per la salute, il consenso potrà operare rispetto ad atti quali la trasfusione di sangue o il trapianto di parti del corpo facilmente riproducibili, come ad esempio la cute o il midollo. Al contrario sarà da considerarsi inefficace il consenso prestato al trapianto di organi anche se doppi (come ad esempio le cornee, i polmoni o le ghiandole sessuali), e ciò in considerazione del fatto che la asportazione anche di uno solo dei due organi determina un indebolimento permanente della funzione cui sono preposti (14). Il generico divieto di atti dispositivi del proprio corpo che importino una diminuzione permanente dell’integrità fisica non esclude l’efficacia scriminante del consenso in ordine a specifici atti dispositivi di volta in volta ritenuti leciti dal legislatore. Così, in deroga alla disciplina contenuta nell’art. 5 c.c., la legge 26 giugno 1967 n. 458 (15) ha reso lecita — in presenza di determinate condizioni — la donazione del rene. Ancora, per effetto della legge 14 aprile 1982 n. 164 (16) recante ‘‘norme in materia di rettificazione e di attribuzione di sesso’’, l’ordinamento ha riconosciuto la liceità degli interventi chirurgici finalizzati al mutamento di sesso. Questione tuttora discussa in dottrina è se per effetto dell’abrogazione, ad opera della legge 22 maggio 1978 n. 194, dell’art. 552 c.p. (norma che incriminava la procurata impotenza alla procreazione) gli interventi di volontaria sterilizzazione (vasectomia e ovariectomia) siano da ricondurre alla generale fattispecie della lesione personale gravissima (art. 583, comma 2, n. 3, c.p.) (17) o se, invece, siano da considerare leciti (18). Risolvendo il contrasto emerso nella giurisprudenza di merito, la Cassazione (cfr. Cass., sez. V, 18 marzo 1987) ha accolto la tesi della liceità della sterilizzazione volontaria (19). L’art. 5 c.c., oltre al limite ‘‘speciale’’ di cui si è detto, prevede anche limiti (la contrarietà alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume) che la dottrina liano e straniero, Padova, 1974, p. 101; PALERMO FABRIS, Diritto alla salute e trattamenti sanitari nel sistema penale, 2000, p. 22; ROMBOLI, op. cit., p. 253; VIGANÒ, op. cit., p. 406. (12) In questo senso, GUZZON, in Riv. pen., 1967, I, p. 399; NEGRO in Foro it., 1956, IV, c. 210211. (13) MANTOVANI, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, 1974, p. 152. (14) In questo senso cfr., fra gli altri, GROSSO, op. cit., p. 3; VIGANÒ, op. cit., p. 407. Sostiene invece la legittimità del trapianto di organi doppi, in presenza di determinate situazioni, ROMBOLI, op. cit., p. 312. (15) Per una diversa lettura della legge, in base alla quale — lungi dal costituire una normativa eccezionale e derogatoria — la legge sarebbe espressione del principio secondo cui l’ordinamento ammette la generale possibilità di un consenso a menomazioni anche notevoli della propria integrità ogni volta che un interesse di rango elevato sia in grado di bilanciare il sacrificio dell’integrità fisica cfr. ALBEGGIANI, op. cit., p. 86. (16) Sul punto cfr. Corte Cost. 161/1985 che ha ritenuto costituzionalmente legittime le disposizioni di questa legge. (17) In questo senso, cfr. fra gli altri STELLA, La sterilizzazione chirurgica: aspetti penalistici, in Riv. it. med. leg., 1980, p. 448. (18) Così FIANDACA, nota a Cass. 18 marzo 1987, in Foro it., 1988, II, 447; PADOVANI, Sterilizzazione, in Enc. dir., XLIII, 1990, p. 1086. (19) Pubblicata in Foro it., 1988, II, c. 447.
— 1398 — considera d’ordine generale, in quanto rilevano in ogni caso, a prescindere dal fatto che si sia cagionata o meno una menomazione permanente (20). In questo contesto, con l’espressione ‘‘ordine pubblico’’ si intende l’insieme dei principi generali dell’ordinamento, con particolare riferimento ai principi posti dalla Costituzione (21). Più discussa invece è l’interpretazione del concetto di buon costume. Secondo parte della dottrina, la contrarietà al buon costume implicherebbe la contrarietà alla ‘‘morale sociale’’, ovvero all’insieme dei principi morali propri della collettività in un certo contesto storico (22); per contro, secondo una diversa opinione, il termine andrebbe interpretato in un’accezione più ristretta, rapportabile soltanto alla sfera sessuale (23). 3. La tesi accolta dal Tribunale Militare di Torino: la totale disponibilità dell’integrità fisica. — Venendo ora alla sentenza in esame, va sottolineato innanzitutto che il Tribunale Militare di Torino non ha ritenuto di aderire alla tesi suesposta, accogliendo invece un’opinione sostenuta in passato dal Vannini (24) ed oggi assolutamente minoritaria in dottrina (25). Secondo questa posizione, quasi del tutto priva di riscontri in giurisprudenza (26), l’art. 5 c.c. non inciderebbe in alcun modo sull’efficacia scriminante del consenso di cui all’art. 50 c.p.: il bene dell’integrità fisica dovrebbe considerarsi completamente disponibile e l’avente diritto potrebbe quindi validamente consentire a qualsiasi lesione, anche gravemente menomante, del proprio corpo (27). A sostegno di questa tesi il Tribunale invoca tre argomenti. 1) Innanzitutto si osserva che l’art. 5 c.c. avrebbe un’efficacia limitata al solo diritto civile, avendo l’unica funzione di sancire la nullità degli atti negoziali compiuti in violazione del divieto (28). 2) Un ulteriore argomento a sostegno della tesi della totale disponibilità dell’integrità fisica si ricaverebbe poi dall’interpretazione sistematica delle norme relative ai delitti contro la persona contenute nel tit. XII del secondo libro del codice penale. Il ragionamento prende le mosse dall’art. 579 c.p., relativo all’omicidio del consenziente, reato sanzionato con una pena decisamente inferiore a quella prevista per l’omicidio comune di cui all’art. 575 c.p.: il raffronto fra le due norme dimostrerebbe che il legislatore ha attribuito rilevanza al consenso in relazione al bene vita. Sviluppando questo argomento, il Tribunale osserva che se il legislatore (20) Cfr. ROMBOLI, op. cit., p. 231. (21) Cfr. RIZ, op. cit., p. 105-106; ROMBOLI, op. cit., p. 231; VIGANÒ, op. cit., p. 408. (22) Così in dottrina RIZ, op. cit., p.106 e in giurisprudenza Cass., sez. V, 12 maggio 1992, in Giust. pen., 1992, II, c. 551, secondo cui è contrario al buon costume il consenso prestato ad un’iniezione di eroina. (23) Cfr. VIGANÒ, op. cit., p. 409. In giurisprudenza v. App. Catanzaro 1 marzo 1957 che ha ritenuto contrario al buon costume il coito anale; Cass. 24 aprile 1968 (in Foro it., 1969, II, c. 635) secondo cui il consenso a bruciature di sigarette durante gli amplessi amorosi non scrimina in quanto contrario al buon costume. (24) VANNINI, Delitti contro la vita e l’incolumità personale, Milano, 1958. (25) AVECONE, La responsabilità penale del medico, Torino, 1981. (26) Si rifà alla tesi del Vannini una sentenza della Pretura di Grosseto (17 gennaio 1957) in Giust. pen., II, 1958, c. 80. (27) Si osservi che Vannini distingue un interesse all’integrità fisica di diretta spettanza dell’individuo (e tale è l’interesse protetto dagli art. 581-583 del c.p.) considerato pienamente disponibile, da un interesse all’integrità fisica di spettanza statale. Tale ultimo interesse non è protetto dalle fattispecie relative ai delitti contro la persona, bensì da norme poste a tutela di altri beni, quali il patrimonio delle imprese assicurative (art. 642 c.p.), la crescita demografica (art. 552 c.p. peraltro abrogato dalla l. 22 maggio 1978, n. 194), l’obbligatorietà del servizio militare (art. 157, 158, 161, 162 c.p.m.p.). In queste ipotesi l’integrità fisica viene tutelata in quanto condizione indispensabile per il soddisfacimento di scopi pubblicistici che trascendono la disponibilità dell’individuo ed il consenso pertanto non può operare. (28) In questo senso, in dottrina, cfr. VANNINI, op. cit., p. 136; AVECONE, op. cit., p. 24.
— 1399 — ha attribuito rilevanza al consenso dell’avente diritto quando dispone del bene vita, una rilevanza ancor maggiore dovrebbe essere attribuita al consenso in relazione all’integrità fisica, e ciò se non altro in ossequio al ‘‘principio di ragionevolezza che deve ispirare l’attività del legislatore’’. Sennonché nel codice non è previsto, accanto all’ipotesi di lesioni comuni, un reato di lesioni del consenziente, analogo all’omicidio del consenziente di cui all’art. 579 c.p. L’assenza di una norma di tal fatta rivelerebbe allora in modo inequivoco che il legislatore ha ritenuto il fatto penalmente irrilevante (29). 3) Anche il principio di legalità, richiedendo l’espressa previsione dei fatti costituenti reato, impedirebbe di ritenere penalmente rilevante la lesione del consenziente, stante l’assenza di una specifica norma incriminatrice (30). Afferma infatti il Tribunale che ‘‘...in forza anche del principio di legalità codificato negli artt. 1 c.p. e 25 Cost., mancando una norma penale espressa, non può essere punito chi lede il fisico altrui con il consenso di questi’’. 4. Alcune obiezioni agli argomenti del Tribunale in tema di disponibilità del bene ‘‘integrità fisica’’. — Le argomentazioni svolte dal Tribunale a sostegno della illimitata disponibilità del bene ‘‘integrità fisica’’ prestano il fianco a numerose obiezioni. 1) Innanzitutto non persuade l’idea secondo cui l’art. 5 del c.c., essendo una disposizione di natura civilistica, non possa essere utilizzato per determinare il limite di disponibilità di un diritto nella sfera penale. Come si è già osservato, la questione della disponibilità o meno di un bene inerisce a tutto l’ordinamento giuridico, per cui una norma dalla quale possa desumersi l’indisponibilità di un diritto può trovarsi in qualsiasi ramo dell’ordinamento (31). Ciò trova conferma anche nei lavori preparatori del codice penale, ove si afferma che ‘‘...la disposizione (art. 50 c.p.) difetta di valore concreto, perché non dichiara quali sono i diritti disponibili, ma è facile obiettare che il legislatore penale non può arrogarsi il compito di far l’elenco dei diritti disponibili. La materia trova regole, limiti, statuizioni in ogni ramo del diritto, privato e pubblico, scritto e consuetudinario, e l’interprete a tali fonti deve attingere, per decidere se il consenso validamente manifestato abbia efficacia discriminante’’ (32). 2) Anche l’argomento in base al quale la totale disponibilità del bene dell’integrità fisica si desumerebbe da una coerente interpretazione delle norme del codice penale non pare fondato. Non si comprende, innanzitutto, perché l’assenza di una norma sulla lesione personale del consenziente dovrebbe suffragare l’assunto della non punibilità di quel comportamento e della piena disponibilità del bene dell’integrità fisica. Vero è che il progetto preliminare del codice penale dedicava un’espressa previsione alla lesione personale del consenziente — l’art.589 (33) — e che tale disposizione non è stata poi riprodotta nel testo definitivo, ma la soppressione di tale norma non dimostra affatto che il legislatore ha optato per la liceità incondizionata delle lesioni cagionate a persona consenziente (34). Altre infatti sono le ragioni per le quali la norma relativa alla lesione del consenziente non è stata inse(29) VANNINI, op. cit., p. 134; AVECONE, op. cit., p. 28. (30) AVECONE, op. cit., p. 28. (31) MARINUCCI, Cause di giustificazione, in Dig. disc. pen., 1988, vol. II, p. 132; RIZ, op. cit., p. 98. (32) Relazione del Guardasigilli in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. V, parte I, 1929, p. 93. (33) L’art. 589 del progetto preliminare al codice penale disponeva che: ‘‘se taluno cagiona la lesione di una persona con il suo consenso, la pena è diminuita’’. (34) PETROCELLI, op. cit., p. 514.
— 1400 — rita nel testo definitivo: in particolare, la considerazione dell’inutilità di una previsione ad hoc per questa fattispecie, data la rara verificazione di ipotesi in cui un soggetto si sottopone volontariamente alla lesione della propria integrità fisica (35). Così infatti si esprime il Guardasigilli Rocco nella relazione ministeriale sul progetto del codice penale: ‘‘...poiché è fuori della realtà della vita pensare che taluno acconsenta, senza apparente motivo, a subire una lesione della propria integrità fisica (...), ho creduto inutile la previsione d’una forma di lesioni, attenuata genericamente per il consenso del leso’’ (36). Si osservi inoltre che, nella relazione riassuntiva, il Guardasigilli — sempre a proposito della soppressione dell’art. 589 c.p. — giudica un ‘‘bene che la disciplina del consenso dell’offeso non sia inserita nel codice penale, ma sia affidata ai principi generali di diritto, riconoscendosi solo l’utilità di un’eccezione per l’omicidio, in relazione alla configurazione tradizionale dell’istigazione al suicidio, ed al fine di coordinare in un completo quadro tutte le ipotesi di morte cagionata a persona consenziente’’ (37). Il legislatore non ha dunque inteso affermare la piena disponibilità dell’integrità fisica, ma ha ritenuto che per individuare i limiti alla rilevanza del consenso nelle lesioni personali occorresse riportarsi all’intero ordinamento (38). Il legislatore è pertanto rimasto fedele al principio — enunciato espressamente in sede di lavori preparatori e mai contraddetto — secondo cui: ‘‘non vi è dubbio, per ragioni che non è qui luogo a diffusamente ripetere ma che si ricollegano con la prevalenza dell’interesse statale e sociale sull’egoismo individuale, che la vita umana e l’integrità fisica siano beni di cui non si può liberamente disporre’’ (39). Questa del resto era la tesi sostenuta dalla più autorevole dottrina del tempo (40), la quale — anticipando sostanzialmente la soluzione poi accolta dall’art. 5 c.c. — riteneva leciti gli atti di disposizione del proprio corpo, a meno che non cagionassero menomazioni tali da rendere il soggetto inidoneo all’adempimento dei suoi doveri sociali. Il fatto che, nel nostro ordinamento, il consenso abbia efficacia scriminante solo entro i limiti posti dall’art. 5 del c.c., non significa peraltro che, al di fuori di questi limiti, esso non abbia alcuna efficacia. Si osservi infatti che, se è vero che il consenso esclude l’antigiuridicità solo quando sia prestato per l’offesa ad un bene disponibile, il nostro ordinamento riconosce un’efficacia ‘‘attenuante’’ al consenso anche in relazione a beni indisponibili. Lo dimostra l’art. 579 c.p.: la minor pena che l’ordinamento ricollega alla fattispecie dell’omicidio del consenziente rispetto all’omicidio comune si può spiegare proprio con la considerazione che il consenso all’offesa di un bene non disponibile, quale appunto è la vita, costituisce un fattore di attenuazione dell’illiceità del fatto (41). Analogamente a quanto accade per l’omicidio, si può ritenere che anche per il reato di lesioni il consenso (laddove ecceda i limiti di cui all’art. 5 c.c.) operi come causa di attenuazione dell’illiceità, anche se ciò non è espressamente previsto dal legislatore. Più in generale, quella parte della dottrina — ormai consistente — che accoglie l’idea dell’antigiuridicità come entità graduabile riconduce il consenso all’offesa di un bene non disponibile fra le situazioni ‘‘quasi scriminanti’’, ovvero fra le (35) Diverso invece il dato criminologico alla base dell’omicidio del consenziente, cosa che giustifica, per questa ipotesi, un’autonoma fattispecie legale (ovvero l’art. 579 c.p.). (36) Relazione ministeriale, cit., p. 92. (37) Relazione riassuntiva dei lavori della commissione in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. IV, parte III, p. 399. (38) PETROCELLI, op. cit., p. 528. (39) Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, 1929, vol. IV, p. 478. (40) ARANGIO RUIZ, Contro l’innesto Woronoff da uomo a uomo, in Foro it., 1934, II, 147; GRISPIGNI, Il consenso dell’offeso, 1924; PETROCELLI, op. cit. (41) MARINUCCI, Antigiuridicità cit., p. 186.
— 1401 — ipotesi di realizzazione parziale degli estremi di una causa di giustificazione (42). In presenza di queste situazioni — non tipizzate dal legislatore — l’antigiuridicità, pur non potendosi ritenere esclusa, risulta quantomeno attenuata in considerazione del fatto che si è determinata una lesione più esigua del bene giuridico. Tale ridotta antigiuridicità del fatto, che deve necessariamente tradursi in una diminuzione di pena, può essere valutata, al di fuori di previsioni legislative espresse quale l’art. 579 c.p., come una circostanza attenuante generica ai sensi dell’art. 62-bis c.p. (43). 3) Quanto poi all’affermazione del Tribunale Militare di Torino secondo cui sarebbe contrario al principio di legalità punire la lesione del consenziente in assenza di una norma che preveda espressamente un delitto che porti quel nomen iuris, si può ribattere, ci sembra, che il fondamento della punibilità di chi lede l’integrità fisica del consenziente oltre i limiti dell’art. 5 c.c. si rinviene comunque nella legge e, in particolare, negli artt. 582 e 50 c.p.: l’art. 582 individua il fatto penalmente rilevante di lesione personale, mentre l’art. 50 concorre ad individuare i limiti entro i quali quel fatto è contrario all’ordinamento giuridico, e quindi può essere fonte di responsabilità penale. Si aggiunga che affermare la completa disponibilità dell’integrità fisica significherebbe ammettere la liceità di condotte anche gravemente lesive di quel bene consentite dal titolare per qualsiasi ragione: si pensi a mutilazioni di intere parti del corpo finalizzate a suscitare pietà o motivate da credenze religiose o da proteste politiche (44). 5. Disponibilità dell’integrità fisica, tutela costituzionale della salute e art. 5 c.c. — Ma l’argomento che più di ogni altro mette in crisi la tesi della totale disponibilità dell’integrità fisica è il confronto con i valori introdotti nell’ordinamento dalla Costituzione. Al fine di trarre dalla Costituzione indicazioni in ordine alla questione della libertà di disporre del proprio corpo, è necessario preliminarmente osservare che essa — come si evince essenzialmente dagli artt. 2 e 3 Cost. — accoglie una concezione personalistica dell’essere umano, in base alla quale l’uomo occupa il primo posto nella gerarchia dei valori. In tale modello di ordinamento, l’uomo viene considerato come un valore in sé, come fine e mai come strumento per il raggiungimento di finalità egoistiche o di utilità collettive (45). Coerentemente con questa impostazione di fondo, l’ordinamento garantisce il più ampio riconoscimento ai diritti individuali di libertà — il cui prototipo è rappresentato dalla libertà personale ex art. 13 Cost. — e fra l’altro anche alla libertà di disporre del proprio corpo (46). Ciò implica, da un lato, il diritto di decidere in ordine ad attività ed interventi che coinvolgono in qualche misura il proprio corpo (c.d. libertà positiva), dall’altro — come si evince dall’art. 32, comma 2, Cost. — il diritto del soggetto a non subire contro la sua volontà interventi sul proprio corpo ad opera di terzi (c.d. libertà negativa) (47). La libertà di disporre del proprio corpo, nella sua accezione positiva e negativa, non è però assoluta, ma incontra dei limiti che sono espressione di altri valori (42) Cfr., fra gli altri, MARINUCCI, Antigiuridicità, cit.; PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’. Ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari, 1985, p. 693 ss.; SCHIAFFO, Le situazioni ‘‘quasi scriminanti’’ nella sistematica teleologica del reato, 1998. (43) In questo senso cfr. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, 1992, p. 420; MARINUCCI, Antigiuridicità, cit., p. 186; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, 1995, p. 643. (44) RIZ, op. cit., p. 104. (45) MANTOVANI, I trapianti, cit., p. 35. (46) ROMBOLI, op. cit., p. 239. (47) ROMBOLI, op. cit., p. 237.
— 1402 — riconosciuti e tutelati dalla Costituzione. In particolare, in un ordinamento quale il nostro che accoglie una concezione personalistica dell’uomo, anche i valori della vita, della salute e dell’integrità fisica devono essere riconosciuti e garantiti in massima misura, in quanto condizioni necessarie per la tutela e la realizzazione dell’individuo (48). Quanto specificamente alla rilevanza costituzionale dell’integrità fisica, essa si desume indirettamente dall’art. 32 Cost. che, tutelando la salute come diritto fondamentale dell’individuo, implicitamente vieta quei pregiudizi all’integrità fisica che si risolvono in una menomazione della salute stessa (49). Vita, salute ed integrità fisica trovano riconoscimento come diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 Cost.) ed in quanto tali devono essere tutelati dallo Stato non solo nei confronti delle aggressioni dei terzi, ma anche — entro i limiti di cui si dirà fra poco — nei confronti degli atti dispositivi del titolare (50). Se si considera poi che l’art. 32 Cost. definisce la salute non solo come diritto dell’individuo, ma anche come interesse della collettività, si può affermare che l’ordinamento, attribuendo un valore ultraindividuale alla salute e, nei limiti di cui si è detto, all’integrità fisica, ha sottratto questi beni all’esclusiva disponibilità del singolo (51). Appare dunque assodato che la nostra Costituzione tutela sia la libertà dell’individuo di disporre del proprio corpo (artt. 13 e 32, comma 2, Cost.), sia la salute e l’integrità fisica (artt. 2 e 32, comma 1, Cost.). Poiché tali valori possono porsi in conflitto (e ciò accade tutte le volte in cui un atto di disposizione, espressione della libertà individuale, si riveli pregiudizievole per la salute e l’integrità fisica del soggetto), si pone il problema di operarne un bilanciamento, ovvero di comporre questi interessi in armonia con la concezione personalistica accolta dalla Costituzione (52). Operare il bilanciamento fra tali beni significa sostanzialmente porsi il problema dei limiti che la Costituzione impone alla libertà di disporre del proprio corpo. Quanto ai limiti alla c.d. libertà negativa (libertà che consiste, come si è detto, nel diritto del soggetto a non subire contro la sua volontà interventi sul proprio corpo da parte di terzi), la loro disciplina può ricavarsi dal comma 2 dell’art. 32 Cost., che attribuisce all’individuo un vero e proprio diritto a non curarsi, fino al punto di lasciarsi morire. Solo la legge può limitare questa libertà, imponendo determinati trattamenti sanitari, purché nel rispetto della dignità della persona (53). Quanto invece ai limiti relativi alla c.d. libertà positiva (libertà cioè di decidere in ordine ad attività ed interventi che coinvolgono in qualche misura il proprio corpo), occorre distinguere fra atti compiuti manu propria, ovvero personalmente e direttamente dal soggetto (si pensi ad esempio alle autolesioni), da quelli compiuti manu alius con il consenso del titolare del bene. Nella prima ipotesi, trattandosi di atti i cui effetti rimangono contenuti all’in(48) MANTOVANI, I trapianti, cit., p. 80 ss.; ROMBOLI, op. cit., p. 239. (49) MANTOVANI, I trapianti, cit., p. 83. (50) MANTOVANI, in Riv. it. med. leg., 1983, p. 844; ROMBOLI, op. cit., p. 242. (51) In un ordinamento che si fonda sulla concezione personalistica dell’individuo, e quindi sul più ampio riconoscimento della libertà individuale, ciò si giustifica considerando che, come si è già visto, salute e integrità fisica rappresentano le condizioni necessarie per lo sviluppo e la realizzazione della persona umana. Cfr. MANTOVANI, I trapianti, cit., p. 86; VIGANÒ, Stato di necessità e conflitti di dovere, 2000, p. 452-453. (52) MANTOVANI, I trapianti, cit., p. 86; PALERMO FABRIS, op. cit., p. 11; ROMBOLI, op. cit., p. 240; VIGANÒ, Stato di necessità, cit., p. 457. (53) Il fatto che i trattamenti debbano essere determinati significa, secondo l’interpretazione unanime della dottrina, che la legge non può imporre all’individuo un generico dovere di curarsi. Sul tema dei trattamenti sanitari obbligatori cfr. ROMBOLI, op. cit., p. 335 ss.; VINCENZI AMATO, Tutela della salute e libertà individuale, in Giurisprudenza costituzionale, 1982, p. 2462.
— 1403 — terno della sfera soggettiva dell’agente, la libertà di decidere in ordine al proprio corpo deve considerarsi sempre prevalente rispetto all’esigenza di salvaguardare la salute e l’integrità fisica, e ciò alla luce del principio personalistico accolto nella nostra Costituzione: di tali atti l’ordinamento non può interessarsi se non per garantire la spontaneità della scelta (54). Nella seconda ipotesi, invece, il contrasto non può essere risolto in via generale a favore della libertà di disporre del proprio corpo (55): il giudizio di bilanciamento fra i due valori in gioco non può in questo caso prescindere dalle finalità poste a fondamento dell’atto di disposizione. Da questo punto di vista è necessario distinguere fra: a) atti che non sono diretti a realizzare alcun vantaggio né per la salute del soggetto né per interessi estranei al soggetto stesso; b) atti svantaggiosi per la salute del soggetto, ma vantaggiosi per la realizzazione di interessi estranei; c) atti vantaggiosi per la salute del soggetto. Per quanto riguarda gli atti sub a), sembra legittimo ritenere, alla luce della Costituzione, che la tutela della salute e dell’integrità fisica prevalga sulla libertà di disporre del proprio corpo quando si tratti di atti che arrecano alla persona danni consistenti ed irreparabili (56). Un ordinamento che accoglie una concezione personalistica dell’uomo non può infatti ammettere che un soggetto subisca indiscriminatamente, e sulla base del suo solo consenso, menomazioni della integrità fisica tali da pregiudicare irrimediabilmente le condizioni necessarie per la realizzazione della sua personalità. Tale principio trova espressione, in termini di diritto positivo, nell’art. 5 c.c., che risulta pertanto applicabile a questa categoria di atti. Queste stesse considerazioni valgono per gli atti sub b), ovvero per quegli atti con cui si dispone del proprio corpo a vantaggio di altri (si pensi ai trapianti a favore di terzi o alle sperimentazioni umane per il progresso scientifico). Un ordinamento fondato sul principio personalistico, ovvero sul valore dell’individuo come fine e non come mezzo, non può autorizzare il sacrificio di un uomo, nemmeno se ciò sia finalizzato alla realizzazione di altri valori tutelati dalla Costituzione quali la salute altrui o il progresso scientifico. Come per gli atti sub a), anche in questo caso la libertà di disporre del proprio corpo trova un limite nella necessità di non compromettere in modo irrimediabile le condizioni fisiche del soggetto, coerentemente con quanto disposto nell’art. 5 c.c. (57). Negli atti sub c) rientrano i trattamenti sanitari volontari e gli interventi chirurgici. In questa ipotesi, i valori costituzionali quali la libertà di decidere su di sé e la tutela della salute e dell’integrità fisica non sono in contrapposizione. Poiché la salute è un diritto fondamentale dell’individuo, la Costituzione non può opporre ostacoli a quegli atti che sono diretti proprio alla sua salvaguardia. Del resto, come si è visto, l’integrità fisica è tutelata solo nei limiti in cui ciò sia funzionale alla salute stessa: da ciò discende che l’art. 5 c.c. non si applicherà agli atti dispositivi finalizzati alla salvaguardia o al miglioramento della salute del soggetto (58). (54) In questo senso cfr. ROMBOLI, op. cit., p. 243. Secondo un’altra opinione la libertà di disporre del proprio corpo non sarebbe illimitata neanche in relazione agli atti compiuti manu propria, ma troverebbe un limite nel divieto di compromettere in modo irrimediabile la salute e l’integrità fisica. Così MANTOVANI, I trapianti, cit., p. 90. (55) MANTOVANI, Problemi giuridici, cit. p. 844; ROMBOLI, op. cit., p. 242. (56) Così MANTOVANI, Trapianti, cit., p. 90. (57) Dall’applicazione dell’art. 5 c.c. alla materia dei trapianti da vivo deriva la sicura liceità dei trapianti di tessuti o di parti del corpo facilmente riproducibili (si pensi alla cute, alle unghie o al midollo) e, viceversa, la sicura illiceità dei trapianti che cagionino una menomazione permanente o addirittura la morte del donatore (si pensi al trapianto degli organi unici come ad esempio il cuore). Sul punto cfr. MANTOVANI, I trapianti, cit. (58) Fra gli altri cfr. MANTOVANI, I trapianti, cit., p. 100; ROMBOLI, op. cit., p. 28; VIGANÒ, op. cit., p. 416.
— 1404 — La disciplina che si ricava dagli artt. 582 c.p. e 5 c.c., in relazione al consenso a fatti di lesione personale, sembra dunque trovare un solido fondamento nella Costituzione: a ulteriore smentita della tesi che, negando qualsiasi rilevanza in questa sfera alla disciplina del codice civile, considera illimitatamente disponibile il bene dell’integrità fisica. 6. Alcuni rilievi conclusivi. — Per finire, va osservato che non è chiara la ragione per cui il Tribunale Militare di Torino nel motivare la propria decisione abbia fatto riferimento alla tesi — ormai abbandonata dalla dottrina e mai accolta dalla giurisprudenza — della totale disponibilità del bene ‘‘integrità fisica’’, dal momento che essa si rivela del tutto ininfluente ai fini della decisione. Il Tribunale sarebbe potuto pervenire alle stesse conclusioni (ossia all’affermazione dell’efficacia scriminante del consenso prestato dall’offeso e della conseguente liceità del fatto) anche fondandosi sull’opinione dominante, secondo cui l’integrità fisica è disponibile solo nei limiti dell’art. 5 c.c. È indubbio, infatti, che l’atto di disposizione nel caso di specie non rientra fra gli atti vietati ai sensi dell’art. 5 c.c., giacché non ha cagionato una diminuzione permanente dell’integrità fisica e nemmeno è contrario alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume. Anche ritenendo operante la disciplina dettata dall’art. 5 c.c., quindi, il Tribunale avrebbe potuto affermare la rilevanza del consenso prestato dal soggetto passivo, purché, si intende, si fosse trattato di un consenso valido, ossia immune da dolo, violenza o errore. A quest’ultimo proposito, notiamo per inciso che nella sentenza in esame il Tribunale afferma la validità del consenso fondandosi soltanto sul rilievo che la persona offesa, come risulta dall’esame testimoniale, ha manifestato espressamente la volontà di sottoporsi alla ‘‘prova di coraggio’’. L’esistenza di un consenso espresso non è però, con tutta evidenza, condizione sufficiente per dimostrarne la spontaneità (59): all’opposto, un’autorevole dottrina sottolinea l’esigenza di riconoscere la massima espansione ai vizi del volere (60) e, proprio con riguardo alla violenza, rileva che l’efficacia del consenso può essere esclusa da qualsiasi forma di captazione o di suggestione che porti il consenziente a subire una volontà altrui (61). Tale rilievo risulta particolarmente calzante al caso in esame, data la frequenza con cui in una caserma si verifica l’esposizione a fattori di coartazione della volontà. L’affermazione della validità del consenso avrebbe dunque dovuto implicare la dimostrazione dell’assenza di condizionamenti e di pressioni sul soggetto: in particolare, dalla motivazione sarebbe dovuto emergere in modo netto che il consenso non era stato prestato per il timore delle conseguenze che potevano derivare da un eventuale rifiuto. In definitiva, nel caso di specie il profilo della validità del consenso meritava ben altra attenzione: un’attenzione probabilmente maggiore di quella prestata dal Tribunale al carattere disponibile del bene ‘‘integrità fisica’’. ANGELA DELLA BELLA Dottoranda di ricerca in Diritto penale italiano e comparato Università degli Studi di Milano
(59) Anzi, si è osservato che spesso il consenso viene espresso proprio per evadere dalle condizioni ambientali in cui l’avente diritto è costretto a vivere. Cfr. PEDRAZZI, op. cit., p. 148; RIZ, op. cit., p. 189. (60) PEDRAZZI, op. cit., p. 150. (61) PEDRAZZI, op. cit., p. 148.
— 1405 — TRIBUNALE DI ORISTANO — 25 maggio 2000 Delitti contro l’onore — Diffamazione — Diffamazione via sito web — Applicabilità delle disposizioni relative alla diffamazione a mezzo stampa ed a quella a mezzo radio televisione — Esclusione — Applicabilità della circostanza aggravante relativa all’uso del mezzo di pubblicità — Ammissibilità (c.p. art. 595, comma 3; L. 47/1948 art. 13; L. 223/1990 art. 30). Alla diffamazione realizzata mediante divulgazione di frasi offensive tramite un sito web non sono applicabili le disposizioni speciali previste per la diffamazione commessa con l’uso del mezzo della stampa o con l’uso del mezzo della radio televisione stante il divieto di analogia in materia penale. La particolare capacità divulgativa del mezzo telematico comporta, invece, l’applicazione della circostanza aggravante relativa all’uso del mezzo di pubblicità prevista, nel codice penale, per la diffamazione in generale. Il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Oristano dott. Elisabetta Tuveri all’udienza del 25 maggio 2000 nel procedimento ha pronunciato in camera di consiglio e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente sentenza nei confronti di:... e..., liberi presenti, imputati del reato p. e p. dagli artt. 110, 595, comma 2 e 3, c.p., art. 13, l. n. 47/1948 e 30, l. n. 223/1990, per avere, in concorso tra loro, anche mediante l’attribuzione di fatto determinato, offeso la reputazione di..., affermando in un sito Internet, gestito dalla ditta ‘‘Tripod’’ con sede al n. 160 Water Street, Williamstown - MA 01267 U.S.A, e precisamente nella premessa al dossier concernente la società..., che il... fosse un ‘‘sedicente’’ avvocato e avesse iniziato un giudizio civile per richiedere un ‘‘ridicolo risarcimento danni degno del peggiore avvocato di provincia, nella speranza di tapparci la bocca’’ e cioè impedire che le malefatte della Società... venissero portate a conoscenza della gente. In Oristano e Pavia, querela depositata il 15 giugno 1998. CONCLUSIONI P.M. — Il P.M. insiste nella richiesta di rinvio a giudizio. L’avv. ... del foro di Oristano si costituisce parte civile per conto di... e si associa alle richieste del P.M. Il difensore degli imputati chiede il proscioglimento di... per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste e di... per non aver commesso il fatto. MOTIVI DELLA DECISIONE. — Con denuncia querela presentata alla Procura della Repubblica di Oristano il 15 giugno 1999, ... ha esposto di essere stato fatto oggetto di dichiarazioni diffamatorie ad opera degli odierni imputati, diffuse tramite la rete Internet in un documento dal titolo ‘‘Dossier... - Una speculazione immobiliare in Sardegna’’. Il... ha riferito di essere il legale che assiste in un procedimento civile pendente innanzi al Tribunale di Oristano la società..., impegnata nella realizzazione di un insediamento turistico da effettuarsi all’interno di una pineta artificiale che insiste sui territori di Narbolia e San Vero Milis. Nella querela in esame, il... ha esposto che la società da lui rappresentata era stata fatta oggetto da tempo di una campagna diffamatoria da parte dell’odierno
— 1406 — imputato..., il quale, proprio per tale ragione, era stato anche di recente condannato dal Tribunale di Oristano per il reato di diffamazione (come dimostrato dalla sentenza Trib. Or. n. 44/19 allegata alla querela). Più precisamente, l’avvocato ha riferito che lo stesso... e l’altra imputata... avevano pubblicato mediante Internet un articolo a loro firma di oltre sessanta pagine dal titolo ‘‘Dossier... - Una speculazione immobiliare in Sardegna’’, leggibile sino a data successiva al 18 marzo 1998 nel sito Internet http://www.tripod.com, e prima ancora collocato presso il sito http://www.geocities.com/rainforest, dal quale ultimo era stato rimosso a seguito di una lettera di diffida inviata dallo stesso querelante. Il... ha affermato che già nella copia del ‘‘Dossier’’ pubblicata presso il provider denominato Geocities erano state inserite alcune affermazioni lesive della sua immagine professionale, dettagliatamente citate dal querelante, che di seguito si riportano — tra virgolette e negli esatti termini riferiti dal... — insieme ad alcune considerazioni contenute nella stessa querela: 1) ‘‘L’immobiliare vuole la chiusura di questo sito per nascondere la verità della sua speculazione’’ si legge testualmente ‘‘Inviando circa un mese fa una lettera di lagnanza a Geocities, che ospita gratuitamente le circa 50 pagine e 20 foto di denuncia dei Verdi di Oristano, un sedicente avvocato, ..., a nome dell’immobiliare... ha chiesto di bloccare (per altro senza riuscirci) la diffusione mondiale di tutte le notizie sulla speculazione immobiliare sarda’’; 2) ed ancora: ‘‘La società... non ha mai presentato alcuna denuncia penale contro di noi, ma si è limitata, a scopo intimidatorio, a citarci civilmente per un ridicolo risarcimento danni (degno del peggiore avvocato di provincia) nella speranza di tapparci la bocca’’; 3) giova precisare, che a differenza di quanto rilevabile nelle affermazioni sopracitate, nel corpo centrale dell’articolo il riferimento al sottoscritto è chiaramente rilevabile, posto che viene fatto il nome (‘‘Il dibattito e le intimidazioni’’) dell’Avv. ... come autore della citazione da cui è derivata la causa pendente avanti il Tribunale di Oristano contro i sigg.... e.... Il querelante..., facendo presente che l’intero ‘‘Dossier...’’ era fruibile gratuitamente da tutti gli utenti di Internet, ha quindi chiesto che la Procura valutasse l’opportunità di procedere penalmente nei confronti degli autori dichiarati del Dossier... e... per il reato di diffamazione aggravata di cui all’art. 595, commi 2o e 3o, c.p. In relazione a tale querela del..., e a quella di pari data e simile contenuto presentata dal legale rappresentante della società..., la Procura della Repubblica presso questo Tribunale, all’esito delle indagini, ha presentato in data 26 aprile 1999 la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dell’... e della... Il rinvio a giudizio è stato richiesto con riferimento a due distinti capi di imputazione aventi rispettivamente ad oggetto il reato commesso nei confronti della società... e quello compiuto in danno del... Entrambi i capi di accusa recano il richiamo agli artt. 110, 595, comma 2 e 3, c.p. e 13, l. n. 47/1948, e, per il solo capo B) relativo alla diffamazione del solo avvocato... oggetto del presente procedimento, anche all’art. 30 della l. n. 223/1990.
— 1407 — All’udienza preliminare hanno presenziato entrambi gli imputati e vi è stata la costituzione di parte civile per conto del... e della stessa società... Il Giudice, sentite le dichiarazioni spontanee degli imputati che hanno anche prodotto alcuni documenti, al termine della discussione ha disposto la separazione dei procedimenti relativi ai due distinti capi di imputazione, rimettendo gli atti al Pubblico Ministero ai sensi dell’art. 33-sexies c.p.p. per il reato di cui al capo A) di diffamazione nei confronti della società ..., riqualificato giuridicamente come reato punito dall’art. 595, comma 2 e 3, c.p. e pronunciando sentenza di non luogo a procedere per il reato di cui al capo B) che si esamina in questa sede. Deve preliminarmente procedersi alla riqualificazione giuridica della fattispecie oggetto dell’imputazione, espungendo i riferimenti normativi all’art. 13 della l. n. 47/1948 sulla diffamazione a mezzo stampa e all’art. 30 della l. n. 223/1990 dettata in materia di diffamazione a mezzo di trasmissioni radiofoniche o televisive. Infatti, deve ritenersi che entrambe le norme considerate non possano essere applicate alla diffamazione commessa attraverso Internet, mezzo di diffusione delle informazioni del tutto peculiare, al quale, vertendo in materia penale, non può essere estesa in via analogica la disciplina dettata per la stampa o la radio o la televisione. A maggior ragione, una attenta lettura delle norme in esame e delle leggi in cui sono contenute non può che condurre ad escludere del tutto l’applicabilità delle norme citate alla fattispecie oggetto del presente procedimento anche in via di interpretazione estensiva, che, stante l’obiettiva diversità delle fattispecie legalmente tipizzate rispetto a quella in esame, si tradurrebbe, ad avviso di questo Giudice, in un larvato giudizio analogico. Un chiaro ostacolo all’interpretazione estensiva è costituito proprio dalla definizione di stampato data dallo stesso art. 1 della l. n. 47/1948 sulla stampa (espressamente dichiarato come insuscettibile di interpretazione analogica anche da Cass. 7 marzo 1989, n. 259) che fa riferimento a ‘‘tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisicochimici’’. È evidente che tale dettagliata definizione è del tutto incompatibile con la modalità di diffusione delle pubblicazioni a mezzo Internet, che avvengono, com’è noto, attraverso la collocazione di dati e informazioni trasmessi per via telematica tramite l’utilizzo della rete telefonica, al server di un cosiddetto provider o webmaster, accessibile a migliaia di utenti contemporaneamente, presso il quale le informazioni restano a disposizione nei diversi siti in modo tale che ciascun interessato può leggerle e conservarle mediante il proprio computer. È poi altrettanto evidente che a tale mezzo di diffusione delle notizie non si può riferire nemmeno l’art. 30, comma 4, della l. n. 223/1990, che estende il regime sanzionatorio previsto dall’art. 13, l. n. 47/1948 ai soggetti indicati nel comma 1 dello stesso art. 30, l. n. 223/1990 (concessionari pubblici e privati e loro delegati) per i reati di diffamazione commessi attraverso non meglio definite ‘‘trasmissioni’’ consistenti nell’attribuzione di un fatto determinato. Invero, a prescindere dal fatto che nel caso di specie non è contestata la responsabilità del concessionario o del webmaster ma degli autori dell’opera dal contenuto diffamatorio, dalla lettura dello stesso art. 30 e della intera legge in cui questo è collocato è agevole osservare che, comunque, le ‘‘trasmissioni’’ menzionate nel citato articolo sono solo quelle televisive e radiofoniche.
— 1408 — Tali mezzi di diffusione di suoni e immagini, in assenza di una esplicita presa di posizione del legislatore, non possono essere equiparate, per le ragioni esposte, alla diffusione di dati attraverso Internet, che avviene con modalità diverse dalla trasmissione via etere oggetto della regolamentazione operata dalla l. n. 223/1990, emanata in un periodo storico in cui la stessa creazione della rete di comunicazione Internet non era nemmeno ipotizzabile dal legislatore. D’altra parte, in presenza di una previsione normativa quale quella di cui all’art. 595, comma 3, c.p. concernente l’offesa arrecata ‘‘con qualsiasi altro mezzo di pubblicità’’ che si attaglia alla perfezione ai contenuti diffamatori diffusi attraverso Internet, non si vede nemmeno quale sia la necessità di effettuare una forzatura interpretativa per ricondurre il caso in esame nell’alveo della disciplina sanzionatoria delle ll. n. 47/1948 o 223/1990. In proposito, vale la pena di ricordare anche la posizione a suo tempo espressa dalla Corte cost. con le sentt. n. 42/1977 e 168/1982, che, sottolineando il divieto di estendere analogicamente la disciplina prevista dalla legge speciale sulla stampa ad altre diverse fattispecie di reato, ha ritenuto che non fosse censurabile la scelta del legislatore di punire più gravemente i reati di diffamazione commessi con il mezzo della stampa rispetto a quelli commessi con la radiotelevisione, puniti in base alla previsione del comma 3 dell’art. 595 c.p. in quanto commessi con ‘‘altri mezzi di pubblicità’’. Alla luce di tali osservazioni, deve quindi procedersi alla riqualificazione giuridica della condotta criminosa in esame, da ricondurre pienamente nell’alveo della fattispecie prevista e punita dagli artt. 110 e 595, commi II e III, del codice penale. In conseguenza della riqualificazione giuridica del fatto attribuito agli imputati, deve rilevarsi che la fattispecie in esame rientra tra quelle per le quali l’art. 550 c.p.p. prevede la citazione diretta a giudizio. Non appare peraltro necessario procedere a norma dell’art. 33-sexies c.p.p., in quanto sussistono gli estremi per la pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non sussiste, la cui pronuncia è imposta dall’art. 129 c.p.p. in ogni stato e grado del procedimento. Deve invero rilevarsi che nel corpo del ‘‘Dossier...’’ pubblicato su Internet, il cui testo integrale è stato stampato anche dalla Polizia Giudiziaria ed è inserito in più copie agli atti del fascicolo, non si possono rilevare contenuti diffamatori nei confronti dell’odierno querelante... Infatti, in nessuna delle parti del ‘‘Dossier’’ citate in querela, né tantomeno in altre parti dell’intero articolo, può ritenersi che la persona offesa dalle dichiarazioni diffamatorie sia proprio l’avvocato... Quanto alle presunte affermazioni offensive della reputazione del... riportate più sopra al punto 1) dell’esposizione del contenuto della querela e citate nell’imputazione, è agevole osservare che, a prescindere da ogni valutazione sul contenuto realmente diffamatorio della frasi riportate, le stesse non possono comunque dirsi riferite al... Se si legge infatti il contenuto dell’articolo citato (cfr. p. 108 degli atti del fascicolo) si rileva immediatamente che il ‘‘sedicente avvocato’’ di cui parla il Dossier nel capitolo intitolato ‘‘L’immobiliare vuole la chiusura di questo sito’’ non è l’avvocato... ma un altro legale, e precisamente l’avvocato..., che, come si rileva dalla carta intestata agli atti, è il collega di studio del querelante.
— 1409 — Infatti è l’avvocato..., che peraltro non ha proposto querela, che viene espressamente nominato nell’articolo in questione all’interno della frase incriminata (‘‘un sedicente avvocato,..., a nome dell’immobiliare...’’), inspiegabilmente stravolta nel testo dell’esposto del... dove, al posto del corretto nominativo ‘‘...’’, si riporta l’incomprensibile vocabolo ‘‘...’’, probabilmente frutto di un errore materiale di battitura. Non può condividersi la prospettazione del querelante nemmeno per ciò che riguarda le frasi riportate al superiore punto 3) dell’esposizione del contenuto della querela, nella quale si afferma che, in ogni caso, le frasi offensive rivolte al legale della... nel testo del ‘‘Dossier’’ sono chiaramente riferibili al ..., nominato quale autore della citazione a giudizio da cui deriva la causa civile pendente al Tribunale di Oristano. Infatti, nel corpo dell’intero ‘‘Dossier...’’ l’avvocato... è citato una sola volta e non è agevolmente collegabile al menzionato ‘‘sedicente avvocato’’ di cui si è detto più sopra. Il nome del... viene infatti riportato in tutt’altro capitolo del ‘‘Dossier’’ rispetto a quello contenente le frasi percepite come diffamatorie contenute alle pagine 108 e 109 del documento. Precisamente il nome del... viene menzionato solo alla p. 80 degli atti, nell’ambito del capitolo ‘‘Il dibattito e le intimidazioni’’, che, tra l’altro, non sembra avere alcun link (collegamento immediato con altro documento Internet) con il capitolo recante le frasi offensive, ed è collocato in un contesto assolutamente non diffamatorio, in cui il legale è citato solo come autore della citazione a giudizio di cui si dà notizia nell’articolo, unitamente ad un altro esponente del Foro locale, avvocato..., che non ha presentato alcuna querela. Quanto poi alle frasi asseritamente diffamatorie di cui al punto 2) sopra riportato (cfr. p. 109 degli atti in cui si legge che ‘‘la società... non ha mai presentato alcuna denuncia penale contro di noi, ma si è limitata, a scopo intimidatorio, a citarci civilmente per un ridicolo risarcimento danni (degno del peggiore avvocato di provincia), nella speranza di tapparci la bocca’’), si deve ancora una volta osservare che la persona offesa della potenziale diffamazione non è il querelante avvocato ma la stessa società..., soggetto grammaticale della frase in esame, e attrice nella causa di risarcimento a cui si riferisce l’articolo. È quindi evidente che il reato di diffamazione ascritto ai due imputati... e... non sussiste nei termini e modi indicati nell’imputazione, non essendo rilevabili contenuti diffamatori in danno della querelante persona offesa... Di conseguenza, deve pronunciarsi sentenza di non luogo a procedere nei loro confronti con coerente formula di rito. In virtù di tale conclusione, si rende superfluo l’esame delle ulteriori difese poste in essere dagli imputati, che hanno eccepito la tardività della querela presentata e hanno negato la paternità dell’opera da parte della... per quanto riguarda i capitoli recanti i contenuti ritenuti diffamatori. P.Q.M. — Ritenuto di dover procedere alla riqualificazione giuridica del fatto di cui all’imputazione, che, essendo esclusa l’applicabilità in via analogica degli artt. 1 e 13, l. n. 47/1948, deve inquadrarsi come reato p. e p. dall’art. 595, comma 2 e 3, c.p., visto l’art. 129 c.p.p. che impone l’obbligo di immediata declaratoria delle cause di non punibilità, dichiara non luogo a procedere nei confronti di... e... in ordine al reato ascritto perché il fatto non sussiste. (Omissis).
— 1410 — Diffamazione via Internet: applicabilità della circostanza aggravante relativa all’uso del mezzo di pubblicità. SOMMARIO: 1. Internet come mezzo di stampa: conseguenze dell’equiparazione e orientamenti giurisprudenziali. — 2. Ragionevolezza della pretesa analogia fra Internet e la stampa. — 3. La nuova definizione di prodotto editoriale prevista dalla l. n. 62 del 2001. — 4. Internet come mezzo di pubblicità: disparità di trattamento e peculiarità del mezzo telematico.
La sentenza in commento, contenente una pronuncia di non luogo a procedere per un’ipotesi di diffamazione via sito web (1) riveste particolare importanza non solo per l’indubbia attualità del caso concreto affrontato, ma soprattutto perché opera un’interessante riqualificazione giuridica del fatto, attribuito a titolo di concorso a carico dei due imputati, autori materiali dei contenuti offensivi, affermando che esso debba essere integralmente inquadrato nell’ambito dell’art. 595 del codice penale (2) ed espungendo i riferimenti normativi, proposti dall’accusa, agli artt. 13 della l. n. 47 del 1948 (cd. legge sulla stampa) (3) e 30 della l. n. 223 del 1990 (4). (1) Per un quadro generale delle problematiche penali connesse all’uso di Internet, Internet, Nuovi problemi e questioni controverse, a cura di Cassano, Milano, 2001, pp. 35 e 443; con particolare riguardo alle fattispecie che implicano la comunicazione del pensiero o la realizzazione della condotta in contesto pubblico, PICOTTI, Profili penali delle comunicazioni illecite via Internet, in Dir. inf., 1999, p. 283. In tema di diffamazione via Internet, SCOPINARO, Internet e delitti contro l’onore, in questa Rivista, 2000, p. 617; in giurisprudenza, sul tema della individuazione del momento consumativo del reato e del giudice competente, Cass. pen., Sez. V., 27 dicembre 2000, n. 4741, in Guida al diritto - Il Sole-24 Ore, 2001, n. 3, p. 73, con commento di GALDIERI, Il momento di consumazione del reato scatta con la percezione dell’offesa, e in Dir. giust., 2001, n. 1, p. 52, con commento di GENOVESE, Nel luogo virtuale della rete, il reato si consuma laddove si percepisce, in Cass. civ., Sez. un., 27 ottobre 2000, n. 1141, in Dir. giust., 2000, nn. 40-41, con commento di ROSSETTI, Dove fu diffamazione, lì c’è il giudice; in tema di applicabilità della tutela cautelare Trib. Teramo, ord. 11 dicembre 1997; Trib. Roma, ord. 4 luglio 1998; Trib. Torino, ord. 7 febbraio 2000. (2) Si fa qui riferimento al comma terzo del suddetto articolo il quale prevede un aggravio di pena per la diffamazione nel caso in cui l’offesa sia recata ‘‘col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità (ovvero in atto pubblico)’’. La norma configura, pressoché pacificamente, una circostanza aggravante di carattere oggettivo, la cui ratio risiede nella maggiore capacità offensiva della condotta quando essa sia divulgata attraverso mezzi particolarmente diffusivi, v., per tutti, SPASARI, Diffamazione e ingiuria, in Enc. dir., XII, Milano, 1964, p. 482; MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, 5a ed., vol. VIII, Torino, 1985, p. 340 e p. 647; SIRACUSANO, voce Ingiuria e diffamazione, in Dig. pen., VII, 1993, p. 30. Un’isolata ma notoria e suggestiva opinione contraria è di NUVOLONE, Il diritto penale della stampa, Padova, 1971, il quale sostiene che la maggiore potenzialità criminosa, che si esplica nello spazio e nel tempo, quando la condotta sia avvenuta tramite il mezzo della stampa, costituisce, rispetto alla condotta ‘‘base’’ di diffamazione, una ‘‘differenza quantitativa che diviene qualitativa’’, comportando una diversa incidenza sul bene giuridico tutelato: l’interesse alla reputazione si manifesta, quindi, nel caso della condotta ‘‘base’’, come interesse alla buona opinione nei confronti di noi stessi da parte di una cerchia limitata di persone e, nel caso della distinta e più grave fattispecie di cui al terzo comma dell’art. 595, come interesse alla buona opinione nei nostri confronti da parte del pubblico. (3) L’art. 13 della legge sulla stampa testualmente reca ‘‘Pene per la diffamazione’’ affermando che ‘‘Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, si applica la pena delle reclusione da 1 a 6 anni e quella della multa non inferiore a lire 500.000 (multa successivamente quintuplicata dall’art. 113, l. n. 689/1981)’’. La norma ha natura di circostanza che, secondo MARINI, Delitti contro la persona, Torino, 1995, p. 219, ‘‘ha carattere di continenza nei confronti delle prime due’’ (quelle del mezzo di pubblicità, di cui al terzo comma dell’art. 595, e dell’offesa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, di cui al secondo comma del medesimo articolo); in giurisprudenza, cfr. Cass. pen., sez. V, 12 aprile 1985, in Cass. pen., 1986, I, p. 466, la quale afferma che ‘‘l’ipotesi di cui all’art. 13 l. 8 febbraio 1948, n. 47... costituisce circostanza aggravante complessa del reato di cui all’art. 595 c.p.’’. Sui reati di stampa, nel complesso, oltre a NUVOLONE, Il diritto penale della stampa, cit., MUSCO, Stampa (dir. pen.), in Enc. dir., XLIII, 1990, p. 633; sulla diffamazione a mezzo stampa, POLVANI, Diffamazione a mezzo stampa, Padova, 1998. (4) L’art. 30 della legge c.d. MAMMÌ sul sistema radiotelevisivo pubblico e privato, sotto la rubrica ‘‘Disposizioni penali’’, al quarto comma afferma che ‘‘Nel caso di reati di diffamazione commessi attraverso trasmissioni consistenti nell’attribuzione di un fatto determinato, si applicano ai soggetti di cui al primo comma le sanzioni previste dall’art. 13, l. 8 febbraio 1948, n. 47’’. Per un quadro generale delle
— 1411 — Non essendo in dubbio la correttezza dell’imputazione a titolo di diffamazione, nel caso aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato, il punto di discussione concerne la qualificazione della possibile ulteriore aggravante giustificata dall’utilizzo del mezzo di comunicazione virtuale per la divulgazione dell’offesa. A fronte della proposta di inquadramento del fatto nell’ambito delle fattispecie contenute nelle leggi speciali che incriminano la diffamazione a mezzo stampa e quella a mezzo radiotelevisivo, ove commesse con l’attribuzione di un fatto determinato, il giudice propende per la riconduzione della vicenda nell’alveo del comma 3 dell’art. 595 c.p. definendo il sito web non come mezzo di stampa ma come uno degli ‘‘altri mezzi di pubblicità’’ idonei, oltre al mezzo di stampa, ad aggravare il reato. Nonostante la questione relativa alla riconduzione del mezzo telematico nell’ambito dei mezzi di stampa (o radiotelevisivi) oppure in quello dei mezzi di pubblicità presenti aspetti che meriterebbero una trattazione unitaria, mi sembra necessario, seguendo l’ordine delle argomentazioni proposte dal Tribunale, affrontare le due questioni separatamente, privilegiando le problematiche specifiche che discendono, con riguardo ad Internet, dall’adozione dell’una o della altra soluzione. Il quadro appare, del resto, ulteriormente complicato dalla recente emanazione, da parte del Parlamento, di ‘‘Nuove norme sull’editoria e sui prodotti editoriali e modifiche alla l. 5 agosto 1981, n. 416’’ (approvate con l. n. 62 del 2001) con le quali si intende per ‘‘prodotto editoriale’’ ‘‘il prodotto realizzato su supporto cartaceo, ivi compreso il libro, o su supporto informatico, destinato alla pubblicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo, anche elettronico, o attraverso la radiodiffusione sonora o televisiva, con esclusione dei prodotti discografici o cinematografici’’ e si detta una sommaria disciplina per il prodotto suddetto. 1. Internet come mezzo di stampa: conseguenze dell’equiparazione e orientamenti giurisprudenziali. — La giurisprudenza che ha, fino ad ora, propeso per l’equiparazione di Internet al mezzo di stampa ha concluso, a partire da questa asserzione, ora a favore dell’assoggettabilità del mezzo telematico alla disciplina amministrativa prevista per la stampa (5), ora a favore dell’assoggettabilità del mezzo a quella penale, entrambe contenute, in nuce, nella, già menzionata, l. n. 47/1948 e, ovviamente, per quel che riguarda la disciplina penale, nel codice. A partire da un’interpretazione di tipo teleologico della norma di cui all’art. 1, l. n. 47/1948 (la quale, come è noto, asserisce che ‘‘Sono considerate stampe o stampati, ai fini di questa legge, tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione’’) per ammetterne la tendenziale onnicomprensività ed applicabilità indiscriminata al nuovo mezzo di diffusione del pensiero, alcuni Tribunali, orientandosi esclusivamente nell’ambito del primo ordine di idee, hanno concesso, la problematiche attinenti alla diffamazione commessa col mezzo radiotelevisivo prima dell’entrata in vigore della l. n. 223/1990, ARMATI-LA CUTE, Profili penali delle comunicazioni di massa, Milano, 1997, p. 133. Sulle ampie perplessità sollevate da questa norma, in relazione soprattutto all’attribuzione della responsabilità esclusivamente a carico del concessionario ovvero della persona da lui delegata al controllo della trasmissione, foriera di discriminazioni e disparità di trattamento rispetto alla disciplina prevista dagli artt. 595/3 c.p. e 13, l. n. 47/1948 per la diffamazione a mezzo stampa, FIORAVANTI, voce Televisione, stampa e editoria, in Dig. pen., XIV, 1999, p. 149; idem, Statuti penali dell’attività televisiva, Milano, 1995; PADOVANI, commento all’art. 30, l. n. 223/1990 in Il sistema radiotelevisivo pubblico e privato, a cura di ROPPO e ZACCARIA, Milano, 1991. (5) Ci si riferisce qui, sommariamente, alle disposizioni non penali contenute nella l. n. 47/1948, che configurano obblighi a carico dei soggetti in vario modo coinvolti nella pubblicazione, con particolare riguardo all’obbligo di registrazione previsto, a determinate condizioni, dall’art. 5 della legge.
— 1412 — registrazione presso le proprie cancellerie ai periodici telematici che ne hanno fatto richiesta (6). Altra giurisprudenza ha tratto invece conclusioni differenti. In ambito strettamente penale, sono note le pronunce in materia di concessione della tutela cautelare per comportamenti che presentavano il fumus di diffamazioni commesse a mezzo Internet, le quali hanno propeso per la concessione del sequestro preventivo delle macchine di proprietà del provider che ospitava sul proprio server i contenuti reputati offensivi. Queste ordinanze, che valutavano i profili di una possibile responsabilità a carico, non solo dell’autore diretto dei messaggi o delle pagine, ma anche del provider, gestore tecnico del supporto telematico, motivavano più o meno esplicitamente in ordine al fondamento della responsabilità del secondo soggetto, suggerendo all’interprete che ci si stesse, comunque, movendo nell’ambito di una responsabilità di tipo concorrente, fondata sull’omissione di un obbligo di controllo, molto simile a quella dettata dall’art. 57 c.p. per il direttore responsabile del periodico cartaceo (7). La dottrina che ha preso posizione sulle conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza citata si è mossa prevalentemente nel senso di una radicale contestazione del presupposto delle varie pronunce, contestando che fosse possibile procedere ad un’equiparazione fra Internet e il mezzo di stampa in campo penale, data l’operatività del principio di legalità e considerate le sue implicazioni in ambito di analogia (8). In questo ordine di idee si colloca la sentenza in commento la quale puntua(6) L’ordinanza del Tribunale di Roma del 6 novembre 1997, che ha concesso per la prima volta la registrazione ad un periodico telematico, considerando, tra l’altro, che ‘‘le nozioni di periodico, quotidiano e agenzia di stampa sono sempre state intese in modo estremamente ampio, proprio allo scopo di evitare forme di sindacato o di controllo sui contenuti’’, sostiene che il periodico telematico possa beneficiare della tutela rappresentata dalla registrazione ‘‘in quanto possiede sia il requisito ontologico, sia quello finalistico relativo alla diffusione delle notizie, sia pur con tecnica diversa’’. La registrazione è stata successivamente concessa ad altri periodici con le ordinanze dei Tribunali di Ragusa (n. 3 del 1998) e di Foggia (n. 2 del 1999). Si è trattato, in tutti questi casi, di ‘‘pubblicazioni registrate volontariamente", come precisa Minotti, I reati commessi mediante Internet, in Internet, Nuovi problemi, cit., p. 472, il quale ulteriormente sottolinea che le suddette decisioni favorevoli alle registrazioni hanno creato confusione poiché, pur essendo la registrazione avvenuta non obbligatoriamente (come prescriverebbe l’art. 5 della legge sulla stampa), nei confronti di queste pubblicazioni ‘‘dovrebbe conseguire, a rigor di logica, l’applicazione di tutta la disciplina sulla stampa, sia quella favorevole (che comporta vantaggi fiscali ed economici in genere) che quella potenzialmente sfavorevole (la responsabilità penale di soggetti diversi dall’autore e le aggravanti speciali)’’. (7) Deve, al riguardo essere preliminarmente sottolineato che non si è mai avuta, in questi provvedimenti, un’esplicita affermazione della responsabilità penale dell’Internet provider per omesso controllo; è, tuttavia, fuor di dubbio, che i provvedimenti in questione, intervenuti in un momento nel quale altri Tribunali (v. note preced.) si orientavano verso la equiparazione fra il web e i periodici telematici, dedicando spazio alla negazione della responsabilità di questo soggetto o disponendo il sequestro preventivo delle macchine di sua proprietà, hanno inevitabilmente sollevato l’attenzione della dottrina su questo tema. Nel primo senso, Trib. Roma, ord. 4 luglio 1994, cit., il quale, in un caso di diffamazione a mezzo di messaggio postato su un newsgroup non moderato, afferma il difetto di legittimazione passiva della Società provider di quel servizio, ‘‘in quanto il news server si limita a mettere a disposizione degli utenti lo spazio virtuale dell’area di discussione e, nel caso di specie, trattandosi di un newsgroup non moderato, non ha alcun potere di controllo e vigilanza sugli interventi che vi vengono inseriti’’. Per un caso di sequestro preventivo presso il provider ‘‘di tutte le attrezzature utilizzate per diffondere via Internet il messaggio’’, Procura della Rep. presso la Pretura circondariale di Vicenza, decr. 23 giugno 1998; contra, Trib. Teramo, 11 dicembre 1997, cit., il quale opta semplicemente per la ‘‘rimozione dal sito Internet delle informazioni e notizie’’. In dottrina, contestano l’ammissibilità di una responsabilità penale del provider ricalcata su quella prevista a carico del direttore responsabile, SEMINARA, La pirateria su Internet e il diritto penale, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1997, p. 71; idem, La responsabilità penale degli operatori su Internet, in Dir. inf., 1999, p. 745; PICOTTI, Fondamento e limiti della responsabilità penale dei Service Providers in Internet, in Dir. pen. proc., 1999, n. 3, p. 379. (8) ZENO ZENCOVICH, La pretesa estensione alla telematica del regime della stampa, in Dir. inf., 1998, p. 15, analizzando la definizione di stampe o stampati fornita dall’art. 1. l. n. 47/1948 contesta che nella telematica si abbia una ‘‘riproduzione tipografica o ottenuta con mezzi meccanici o fisico chimici’’ poiché ‘‘i termini utilizzati sono tecnici e dunque precisi, e non possono estendersi a mezzi che si basano
— 1413 — lizza correttamente in ordine alle questioni su esposte affermando che all’equiparazione fra i due mezzi osta inequivocabilmente il dettato dell’art. 1, l. n. 47/1948, il quale, costituendo il presupposto dell’applicabilità al caso di specie delle più gravi sanzioni previste per la diffamazione a mezzo stampa, rispetto a quelle comuni contenute nell’art. 595/3 c.p., non è suscettibile di interpretazione analogica e la cui formulazione non si presta, in subordine, ad un’interpretazione di tipo estensivo. La sentenza, sul punto, afferma in primo luogo che, vertendosi in materia penale, non possa essere estesa in via analogica ad Internet, quale ‘‘mezzo di diffusione delle informazioni del tutto peculiare’’, la disciplina dettata per la stampa. Secondariamente, motivando in ordine ai limiti di una possibile interpretazione estensiva, essa afferma che un chiaro ostacolo alla suddetta operazione è costituito dalla norma, già citata, di cui all’art. 1, l. 47/1948, la quale fornisce una dettagliata definizione di stampato ‘‘del tutto incompatibile con la modalità di diffusione delle pubblicazioni a mezzo Internet che avvengono attraverso la collocazione di dati e informazioni trasmessi per via telematica tramite l’utilizzo della rete telefonica, al server di un cosiddetto provider o webmaster, accessibile a migliaia di utenti contemporaneamente, presso il quale le informazioni restano a disposizione nei diversi siti in modo tale che ciascun interessato può leggerle e conservarle mediante il proprio computer’’. Il ragionamento non appare contestabile. La norma di cui si tratta definisce, in effetti, la stampa e gli stampati connotandoli duplicemente in senso statico e dinamico o, se si vuole, in senso tecnico e finalistico (9); la stampa deve essere costituita, infatti, tecnicamente, da una riproduzione di esemplari e deve essere caratterizzata, finalisticamente, dalla destinazione alla pubblicazione. Al riguardo autorevole dottrina ha sottolineato come solamente il secondo elemento esprima compiutamente i caratteri della maggiore potenzialità criminosa che si dispiega nel tempo e nello spazio (ove, naturalmente, lo stampato sia veicolo di divulgazione di reati), derivando dalla destinazione alla pubblicazione, e quindi dalla pubblicità del mezzo, un’oggettivazione permanente dell’idea delittuosa, da un lato, e la capacità della stessa idea di influire su un numero indeterminato di persone, dall’alsu tecniche profondamente diverse e non costituiscono nemmeno una evoluzione di quelle della stampa’’. Concordemente si esprime la dottrina, v. ad es. SEMINARA, La pirateria su Internet, cit., p. 91. Non è decisiva l’obiezione in base alla quale, anche nel caso delle comunicazioni telematiche si avrebbe un’attività di stampa consistente nell’utilizzo della stampante normalmente collegata ai computer, ZAINA, Internet, paradiso di non punibilità per la diffamazione? (commento alla sentenza qui annotata, G.U.P. Trib. Oristano, 25 maggio 2000) http://www.penale.it/commenti/zaina—01.htm, poiché, come afferma nuovamente ZENO ZENCOVICH, cit., non solo la dotazione di una stampante non è imprescindibile e non tutte le comunicazioni telematiche sono suscettibili di essere, tecnicamente, stampate (come i contenuti sonori e visivi), ma soprattutto l’attività di stampa è solo facoltativa, dato che ‘‘il soggetto può decidere se stampare e cosa stampare riproducendo l’intero documento o estrapolandone solo una parte’’. L’eventuale successiva attività di stampa avviene quindi ‘‘non per volontà di chi predispone il messaggio’’, come evidentemente richiede l’art. 1 della legge sulla stampa, ‘‘bensì di chi lo riceve’’ il quale, peraltro, ‘‘utilizza lo stampato per uso proprio’’ non risultando quindi il prodotto ottenuto come ‘‘destinato alla pubblicazione’’. È necessario, infine, precisare che, anche se un’estensione analogica della norma ad Internet fosse tecnicamente possibile (come invece non è), si tratterebbe, nel caso, di un’interpretazione analogica a sfavore del reo (comportando essa l’applicazione delle più gravi sanzioni penali previste per la diffamazione e in generale del corpus di norme penali contenute nella legge sulla stampa), impraticabile in campo penale, ai sensi di quanto affermato dagli artt. 14 disp. prel. al c.c. e 1 c.p.; v., al riguardo, con riferimenti ivi contenuti, MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, Padova, 2001, p. 74, PALAZZO, Introduzione ai principi del diritto penale, Torino, 1999, p. 277. (9) Sull’elemento soggettivo dello stampato (destinazione in qualsiasi modo alla pubblicazione) Cass. pen., sez. I, 28 giugno 1985, in Cass. pen., 1986, p. 1542; Idem, 20 giugno 1973, sez. I, in Giust. pen., II, 1974, p. 442; Idem, 13 giugno 1973, sez. I, in Giust. pen., II, 1974, p. 442.
— 1414 — tro (10). Nella definizione, tuttavia, le due componenti si implicano a vicenda poiché la norma intende definire esclusivamente il mezzo di stampa e poiché, negli anni in cui era stata posta, non era dubitabile che l’unico mezzo per portare a conoscenza di una pluralità di individui parole scritte ottenendone la più ampia diffusione fosse quello di riprodurle tipograficamente su carta o, altrimenti, con mezzi meccanici o fisico chimici. Indubbiamente, quindi, se, da un lato, la norma appare, valutando le intenzioni del legislatore del 1948, estesa fino alla sua massima portata, tanto da non sembrare azzardato sostenere una sua applicabilità a mezzi tecnicamente diversi ma ugualmente connotati in senso finalistico, d’altro canto, dovendosi comunque applicare ad essa un’interpretazione letterale, tanto più ove si consideri che essa costituisce il presupposto per la realizzazione di fattispecie penali, non sembra possibile prescindere dalla sua ‘‘tara storica’’, che la àncora ad un dato oggettivamente ben definito, costituito appunto dalla riproduzione in una pluralità di esemplari, e non suscettibile di ampliamento entro i confini della norma né di estensioni a casi simili analogicamente. Peraltro, anche se il ragionamento conduce a conclusioni sostanzialmente opinabili, rendendo inapplicabile ad Internet la disciplina aggravata specifica prevista per un mezzo assai meno divulgativo, sotto altro aspetto non si può negare che, in considerazione dell’evoluzione storica e tecnica dei mezzi di comunicazione di massa, che ha visto la nascita di strumenti di divulgazione delle idee assai peculiari e diversi uno dall’altro, sembra preferibile, in termini di certezza del diritto e di razionalità delle scelte punitive e di disciplina, un aggiornamento costante delle disposizioni che tenga conto delle potenzialità dei nuovi mezzi, di volta in volta disponibili. E, del resto, in questo senso si è mosso il legislatore che, ai fini dell’estensione delle norme penali specificamente previste per il mezzo della stampa, ha equiparato ad esso il nuovo mezzo radiotelevisivo (11), in pratica implicitamente affermando che la disposizione contenuta nell’art. 1, l. n. 47/1948 non fosse suscettibile di interpretazione analogica (12). Conformemente a quanto detto, quindi, la sentenza in commento si pronuncia negativamente anche in ordine alla questione se sia applicabile ad Internet la disposizione in tema di diffamazione commessa a mezzo radiotelevisivo contenuta nell’art. 30 della l. n. 223/1990 affermando che, ‘‘a prescindere dal fatto che nel caso di specie non è contestata la responsabilità del concessionario o del webmaster ma degli autori dell’opera dal contenuto diffamatorio, dalla lettura dello (10) NUVOLONE, Il diritto penale della stampa, cit., p. 12; cfr. POLVANI, La diffamazione a mezzo stampa, cit., p. 71 ss. (11) Si segnalano, al riguardo, le norme di cui agli artt. 10 l. n. 223/1990, che prevede l’estensione alle trasmissioni radiotelevisive di alcune fra le norme amministrative previste per la stampa dalla l. n. 47/1948, con un’equiparazione implicita fra i telegiornali e giornali radio e gli organi di stampa, realizzata dal primo comma il quale afferma che ai suddetti mezzi ‘‘si applicano le norme contenute negli artt. 5 e 6 della l. 8 febbraio 1947, n. 48’’ e che ‘‘i direttori dei telegiornali e dei giornali radio sono, a questo fine, considerati direttori responsabili’’, e 30 della medesima legge il quale, com’è noto, reca le ‘‘disposizioni penali’’ applicabili alle trasmissioni radiotelevisive (con i limiti e le imprecisioni già sommariamente segnalati del comma quarto, riguardo ai quali cfr. nt. 3). (12) In questo senso ZENO ZENCOVICH, La pretesa estensione, cit. L’impossibilità di estendere analogicamente la norma di cui all’art. 1, l. n. 47/1948 è, poi, desumibile dal fatto che alle diffamazioni commesse attraverso le trasmissioni radiotelevisive, prima dell’entrata in vigore della l. n. 223/1990, non si riteneva applicabile l’aggravante del mezzo di stampa, di cui agli artt. 595/3 c.p. e 13 l. n. 47/1948, essendo esse, invece, inquadrate nell’ambito del generico mezzo di pubblicità, come confermano le due successive pronunce della Corte cost., chiamata a pronunciarsi in merito alla situazione di ineguaglianza creata dal suddetto assetto normativo, che ha correttamente propeso per la non ammissibilità dell’analogia. Corte cost. 20 gennaio 1977, n. 42, in Giur. cost., 1977, I, 154, Idem, 22 ottobre 1982, I, 1702 e in Giur. it., 1983, I, I, p. 515, con nota di ROPPO, Disciplina dei mass media e coerenza del legislatore (il regime penale della diffamazione al vaglio di costituzionalità). In dottrina, ARMATI-LA CUTE, Profili penali delle comunicazioni di massa, cit., p. 133.
— 1415 — stesso art. 30 e dell’intera legge in cui questo è collocato è agevole osservare che, comunque, le ‘trasmissioni’ menzionate nel citato articolo sono solo quelle televisive e radiofoniche’’. Infine, ancora riferendosi alle trasmissioni suddette, la sentenza conclude con un invito al legislatore sottolineando che ‘‘tali mezzi di diffusione di suoni e immagini, in assenza di un’esplicita presa di posizione del legislatore, non possono essere equiparate, per le ragioni esposte, alla diffusione di dati attraverso Internet, che avviene con modalità diverse dalla trasmissione via etere oggetto della regolamentazione operata dal legislatore dalla l. n. 223/1990, emanata in un periodo storico in cui la stessa creazione della rete di comunicazione Internet non era nemmeno ipotizzabile’’. 2. Ragionevolezza della pretesa analogia fra Internet e la stampa. — Le considerazioni sin ora effettuate in ordine agli ostacoli che si frappongono ad un’interpretazione analogica della norma di cui all’art. 1, l. n. 47/1948 non sembrano esaurire l’argomento in questione. Restano infatti da verificare le conseguenze che l’asserita impossibilità di assoggettare Internet al regime previsto per la stampa produce in ordine ai tentativi della giurisprudenza di applicare comunque il suddetto regime al mezzo telematico sul presupposto che un’analogia fra esso e quello della stampa, invece, esista. Soffermandosi, peraltro, sulle conclusioni sino ad ora raggiunte nell’ambito dell’orientamento maggioritario che opta per l’inammissibilità dell’analogia, sembrerebbe potersi affermare che anche in questo settore le ragioni di fondo che militano a favore dell’estensione analogica siano sostanzialmente condivise. Sottesa all’affermazione di principio, discendente dai limiti imposti in materia penale dal principio di legalità, sembra infatti essere l’opinione secondo la quale, nonostante i presupposti per giustificare un’analogia fra Internet e il mezzo di stampa siano palesi e sostanzialmente condivisibili, l’interprete si debba tuttavia arrestare di fronte ad un anacronistico dettato legislativo che, ancorando una definizione al peso del mezzo tecnico all’epoca disponibile, ne rende impossibile l’adattamento all’evoluzione dei tempi. Ed effettivamente, si può dire ormai tradizionalmente, per negare l’ammissibilità dell’estensione analogica ci si sofferma sul primo dei due requisiti necessari per realizzare uno stampato, quello oggettivo, descritto dall’art. 1, l. n. 47/1948 nei termini di ‘‘riproduzione comunque ottenuta con mezzi meccanici o fisico chimici’’ (13). Ne sono conferma le stesse parole della sentenza in commento che evidenziano come il raffronto fra Internet e il mezzo di stampa sia avvenuto essenzialmente sul piano della tecnica di trasmissione dei dati. Si legge, infatti, che la dettagliata definizione offerta dall’art. 1 della su citata legge è del tutto incompatibile ‘‘con le modalità di diffusione delle pubblicazioni a mezzo Internet’’, le quali avvengono mediante la trasmissione di dati e informazioni ‘‘per via telematica tramite l’utilizzo della rete telefonica al server di un cosiddetto provider o webmaster’’. Negli stessi termini la sentenza nega la possibilità di equiparare Internet al mezzo televisivo, sottolineando che la diffusione di dati per via telematica avviene ‘‘con modalità diverse dalla trasmissione via etere oggetto della regolamentazione operata dalla l. n. 223/1990’’ e ribadendo inoltre che la stessa legge del 1990 è, riguardo a questo nuovo mezzo, non attuale, essendo stata emanata ‘‘in un periodo storico in cui la creazione della rete di comunicazione Internet non era nemmeno ipotizzabile dal legislatore’’. In conclusione, mentre si contesta una differenza tecnica fra il nuovo mezzo e i precedenti che già godono di una specifica disciplina, per concludere logicamente negando l’ammissibilità di un’analogia in malam partem in campo penale, (13) V. al riguardo le argomentazioni dottrinali già citate nella nota 8.
— 1416 — si dà per acquisita una sovrapponibilità sostanziale fra il mezzo di comunicazione telematico e quello di stampa poiché non solo non ci si sofferma sulla adattabilità ad Internet del secondo requisito dello stampato, quello finalistico, consistente nella destinazione alla pubblicazione, ma, concludendo il ragionamento sull’impossibilità di effettuare un’estensione analogica della norma di cui all’art. 1, l. n. 47/1948 con un invito al legislatore affinché i due mezzi siano espressamente equiparati, si afferma implicitamente che questo requisito sia sempre presente nel caso delle comunicazioni effettuate per via telematica. La sentenza in commento offre nuovamente conferma di quanto detto quando, affermando l’impossibilità di equiparare ad Internet il mezzo della stampa e quelli della radio e della televisione ‘‘in assenza di una esplicita presa di posizione del legislatore’’, caldeggia, in pratica, l’adozione di un espresso provvedimento in tal senso. Come già è avvenuto per la televisione in rapporto alla legislazione per la stampa, si sollecita, quindi, un’equiparazione fra Internet e quest’ultimo mezzo acquisendo come un dato un presupposto che appare incontestabile, costituito dalla capacità divulgativa del nuovo mezzo telematico e che pone, in pratica, lo strumento di comunicazione Internet, considerato nel suo complesso, in una posizione di sovrapponibilità sostanziale (ma non formale) con il mezzo della stampa. Nonostante siano evidenti le ragioni che militano a favore del riconoscimento espresso della maggiore offensività che acquisisce la condotta penalmente rilevante quando sia realizzata via Internet (ove essa sia riconducibile, ovviamente, ad una fattispecie che implichi la divulgazione del pensiero), non sembra che la strada, appena delineata, dell’equiparazione tout court fra il mezzo telematico e quello della stampa sia la migliore. Una equiparazione generalizzata dei due mezzi, fondata appunto sul presunto carattere comune della diffusività, non terrebbe, infatti, nel dovuto conto le peculiarità di ognuno, impedendo di evidenziare, da un lato, le caratteristiche specifiche dei singoli mezzi di comunicazione disponibili on line, non tutti e non tutti in ugual modo capaci di una divulgazione potenzialmente indiscriminata del pensiero (14) e, dall’altro, i connotati parimenti peculiari del mezzo di stampa ove esso assuma le fattezze di un giornale o, comunque, di una pubblicazione periodica. Se, quindi, potrebbe apparire incongruente qualificare, ad esempio, la mailing list come mezzo di stampa, ove si valutassero le caratteristiche specifiche di questo mezzo di comunicazione, capace di diffondere il messaggio, seppur ampiamente, tuttavia esclusivamente nell’ambito della cerchia degli iscritti alla lista (15), rispetto al sito web, capace, al contrario, di una diffusione potenzialmente illimitata dei contenuti, emergono altrettanto chiaramente le conseguenze negative derivanti dall’impossibilità dell’equiparazione fra Internet e il mezzo di stampa ove si tratti di c.d. periodici telematici. (14) V., al riguardo, SCOPINARO, Internet e delitti contro l’onore, cit. (15) Non sembrerebbe potersi applicare alla mailing list la definizione di mezzo di stampa, per difetto dell’elemento soggettivo dello stampato (destinazione alla pubblicazione) se si concordasse con Cass. pen., 20 giugno 1973 cit., la quale afferma che ‘‘fa difetto l’elemento soggettivo dello stampato... nel caso in cui una lettera sia riprodotta in una settantina di esemplari ciclostilati, firmati dall’autore, ciascuno dei quali sia recapitato in busta aperta... ai singoli destinatari, i cui nominativi siano segnati sulle buste stesse, e quindi con diffusione preordinatamente limitata ad una ristretta cerchia di persone’’. Si dovrebbe, tuttavia, propendere per l’orientamento opposto, accogliendo le differenti argomentazioni di Cass. pen., 13 giugno 1973 cit., la quale sostiene che ‘‘l’aspetto soggettivo dello stampato... va riguardato nel momento in cui esso esce dalla sfera di disponibilità dello stampatore e diviene accessibile ad un numero indeterminato di persone, non nel momento successivo della diffusione dello stampato stesso, ed è indifferente che più o meno larga sia la cerchia di persone cui lo stampato è destinato e che tali persone appartengano o meno ad una certa categoria, così come sono indifferenti il modo della diffusione ed il numero degli esemplari a questa destinati’’.
— 1417 — Nell’ampio panorama offerto dalle pubblicazioni via web, il periodico telematico sembra infatti avere una caratterizzazione specifica poiché, pur assumendo la conformazione tipica del documento ipertestuale (che lo connota di una maggiore e più variegata capacità divulgativa rispetto al tradizionale periodico cartaceo), appare il prodotto di una organizzazione di forze umane assimilabile a quella del periodico tradizionale e riassumibile, almeno, nelle figure del direttore responsabile, dell’editore e curatore delle pagine html o webmaster, dell’autore materiale degli articoli. Inoltre, come risulta evidente soprattutto nel caso dei periodici telematici collegati a testate giornalistiche già diffuse col mezzo della stampa, non si può negare che alle spalle del sito si collochi una struttura ad assetto imprenditoriale che gestisce il prodotto editoriale non solo dal punto di vista intellettuale ma anche da quello economico (16). In queste ipotesi, che risultano qualitativamente diverse, dal punto di vista organizzativo ed economico, rispetto alle comuni pagine web, al punto da giustificare l’introduzione della distinzione, nell’ambito delle pubblicazioni telematiche, fra informazione qualificata e non qualificata (17), sembrerebbe ragionevole muoversi nel senso dell’equiparazione soprattutto per ciò che concerne l’individuazione dei soggetti responsabili dell’illecito e quindi per l’applicazione delle norme di cui agli artt. 57 e 58 c.p. in tema di responsabilità sussidiaria del direttore e vice direttore (18). Fermo restando che il ragionamento si svolge in termini ipotetici e non contestando la fondatezza delle ragioni espresse contro la possibilità di estendere analogicamente ad Internet il disposto dell’art. 1 della legge sulla stampa, sembra possibile, quindi, ammettere l’esistenza di alcune ragioni a giustificazione dell’orientamento giurisprudenziale in precedenza citato, favorevole alla registrazione del periodico telematico. Nonostante, infatti, emergano innumerevoli ostacoli di ordine materiale all’assoggettamento del periodico edito on line al sistema degli obblighi previsto dalla l. n. 47/1948, i quali verranno evidenziati in seguito, si profila la necessità di fornire di una regolamentazione simile due settori che presentano, in effetti, notevoli analogie. Appare, anzi, ancor più necessario predisporre nei confronti del periodico virtuale un sistema di adempimenti amministrativi simile a quello previsto per il periodico cartaceo dagli artt. 2 e seguenti della legge in questione ove si considerino le maggiori opportunità di mantenere l’anonimato di cui fruisce, utilizzando Internet, un autore di contenuti (19). Inoltre, considerando, non solo le accennate difficoltà che possono sorgere nel reperimento dell’autore dell’illecito, ma anche la maggiore capacità offensiva di una diffamazione, ove essa sia realizzata sfruttando la mistura di elementi visivi, sonori e testuali (si pensi ai (16) Cfr. DE SIERVO, Stampa (dir. pubbl.), in Enc. dir., XLIII, 1990, p. 577, per il quale la stampa ‘‘costituisce di regola il prodotto di una serie di attività di tipo professionale ed imprenditoriale, e rappresenta a sua volta un bene economico, oltre che un prodotto intellettuale’’. (17) Utilizza la stessa distinzione, CASSANO, Internet e tutela dell’onore, cit., p. 35. (18) A prescindere dall’assetto organizzativo, non è detto, infatti, che la pagina Internet acquisisca una maggiore potenzialità offensiva solo perché i suoi contenuti sono riconducibili ad una testata: la democraticità dell’offerta editoriale su Internet impedisce che sia possibile stabilire a priori un discrimine fra siti più o meno divulgativi, anche se è evidente che, a posteriori, le testate cartacee che si pubblicano via Internet possano godere di una risonanza e di un credito ben maggiori. L’equiparabilità fra periodici cartacei e telematici dovrebbe invece essere affermata con maggiore immediatezza in relazione, oltre al già evidenziato assetto organizzativo ed economico del periodico, agli altri aspetti tipicamente connessi all’utilizzo di un mezzo qualificato di divulgazione delle idee, come ad esempio, quelli collegati all’attività professionale di tipo giornalistico (obblighi di verifica della fonte, scriminante del diritto di cronaca, obblighi di rettifica). (19) V. al riguardo, SEMINARA, Responsabilità penale degli operatori su Internet, cit. e SIEBER, Responsabilità penali per la circolazione di dati nelle reti internazionali di computer, in Juristen Zeitung, 1996, p. 430 e in Riv. trim. dir. pen. ec., 1997, p. 743, il quale sottolinea ‘‘la struttura intrinsecamente resistente a qualsiasi forma di controllo dei procedimenti di routing di Internet », assicurata dall’utilizzo del protocollo TCP/IP e le possibilità, offerte dal mezzo telematico, ‘‘di trasmettere dati in forma cifrata o coperta’’.
— 1418 — link) offerta dall’ipertesto ospitato nelle pagine di un periodico virtuale (oltre, ovviamente, alla straordinariamente maggiore capacità di divulgazione permessa dall’uso del web), non sembra azzardato sostenere che la via dell’equiparazione, ai fini della disciplina, fra periodico telematico e periodico tradizionale debba essere seguita anche in campo penale, con la conseguenza di estendere al giornale virtuale il regime di responsabilità previsto per il direttore responsabile del periodico, di cui agli artt. 57 e 58 c.p. e le più gravi sanzioni per la diffamazione a mezzo stampa previste dall’art. 13 della legge speciale. Alla luce di quanto affermato non si può, d’altro canto, non dissentire riguardo all’altro orientamento giurisprudenziale citato, teso a collocare la figura del provider in una sorta di posizione di garanzia nei confronti degli illeciti perpetrati da soggetti terzi sfruttando lo spazio virtuale offerto dal suo server o utilizzando i suoi servizi, così attribuendo a questo soggetto, una responsabilità colposa simile a quella prevista a carico del direttore responsabile della testata giornalistica dall’art. 57 c.p. Premesso che non è questa la sede per una approfondita analisi del tema (20) e precisato che la questione non attiene alla pacifica ipotesi di una responsabilità a carico del provider nel caso in cui sia egli stesso autore dei contenuti illeciti o compartecipe doloso nel reato, si deve segnalare che all’obbligo giuridico di garanzia previsto in capo al direttore responsabile fanno da corollari un potere di controllo e vigilanza ed un potere di impedimento dell’evento che il provider, in quanto gestore del supporto tecnico che rende possibile la circolazione delle informazioni attraverso Internet e imprenditore, coinvolto a scopo di profitto nella distribuzione dei servizi relativi ad Internet, evidentemente non possiede (21). 3. La nuova definizione di prodotto editoriale prevista dalla l. n. 62 del 2001. — Nel contesto sin’ora evidenziato si collocano, in ultima analisi, le recenti disposizioni legislative, introdotte nel marzo 2001, in materia di editoria e prodotti editoriali. La legge contiene un corpus di norme eterogenee, non di natura penale, in vario modo dedicate alla disciplina del settore editoriale (22). In particolare, l’unica norma che qui importa è la prima, dedicata alla definizione e disciplina del ‘‘prodotto editoriale’’ la quale, significativamente, tenta una prima regolamentazione del prodotto realizzato su supporto informatico e destinato alla pubblicazione o alla diffusione di informazioni presso il pubblico, anche col mezzo elettronico, applicando ad esso la disposizione dell’art. 2 della l. n. 47 del 1948, relativa agli stampati in generale e alle indicazioni che essi devono obbligatoriamente contenere, oppure, oltre ad essa, quella dell’art. 5 della medesima legge, relativa all’ulteriore obbligo di registrazione previsto per la pubblicazione dei giornali o degli altri periodici, ove il prodotto editoriale sia ‘‘diffuso al pubblico con (20) Per la quale si rimanda ai contributi degli autori citati in nota 7. (21) Il provider non può, infatti, esercitare un potere di impedimento dell’evento perché non dispone di un controllo preventivo sul materiale che deve essere pubblicato e non ha la disponibilità del materiale sul quale dovrebbe esercitare il presunto potere onde il suo intervento nei confronti dell’eventuale illecito potrebbe essere solo successivo alla consumazione. Sulla responsabilità del direttore di periodico v. NUVOLONE, Il diritto penale della stampa, cit., p. 83 ss. e p. 100 ss. (22) Si tratta della l. 7 marzo 2001, n. 62, recante ‘‘Nuove norme sull’editoria e sui prodotti editoriali e modifiche alla l. 5 agosto 1981, n. 416’’, in G.U., serie generale, 21 marzo 2001, n. 67. Nel Rapporto del gruppo di lavoro della Presidenza del consiglio per la riforma della legislazione sull’editoria, che definisce, punto per punto, prospettive ed intenti della nuova disciplina, si legge che il provvedimento trova giustificazione nella necessità di intervenire nel settore dell’editoria, resa particolarmente urgente dalla crisi degli anni ’90, ‘‘anche definendo nuove strutture e categorie normative al fine di delineare un sistema che tenti di superare le ragioni profonde della crisi stessa e che, al contempo, si proietti verso gli orizzonti aperti dalle innovazioni tecnologiche’’.
— 1419 — periodicità regolare e contraddistinto da una testata’’ che ne costituisca elemento identificativo (23). Sembra chiaro, quindi, in prima analisi, l’intento, condivisibile in base a quanto affermato in precedenza, di stabilire una linea di demarcazione fra le pubblicazioni diffuse via Internet introducendo un parallelo, da un lato, fra le pubblicazioni comuni, realizzabili da chiunque, come una qualunque pagina web e gli stampati in generale e, dall’altro, fra le pubblicazioni qualificate, periodiche e dotate di una testata (come i periodici telematici) e i giornali (24). A questa innovativa proposta definitoria corrisponde, tuttavia, un intento regolamentativo piuttosto limitato poiché il legislatore, richiamando esclusivamente il dettato degli artt. 2 e 5 della legge sulla stampa, sembra prefiggersi esclusivamente lo scopo di fornire le pubblicazioni suddette di alcuni elementi identificativi obbligatori in modo che, tramite essi, sia più agevole risalire ai soggetti implicati nella pubblicazione. La formulazione del comma 3 dell’art. 1, espressa nei termini di tassativa indicazione delle norme ritenute applicabili (25) implica, infatti, che al prodotto editoriale di nuovo conio non saranno applicabili, non solo le norme di carattere omogeneo a quelle indicate e relative, ad esempio, alle figure del direttore responsabile e del proprietario del giornale o periodico oppure alla ulteriore disciplina della registrazione in tema di inserzione dei mutamenti intervenuti rispetto alla prima dichiarazione o di decadenza dalla registrazione stessa, ma anche, le ulteriori norme di carattere penale contenute nella stessa l. n. 47 del 1948 (26). La prima nota critica che può essere sollevata nei confronti del nuovo provve(23) L’art. 1, l. n. 62/2001, testualmente afferma: ‘‘(Definizioni e disciplina del prodotto editoriale); 1. Per prodotto editoriale, ai fini della presente legge, si intende il prodotto realizzato su supporto cartaceo, ivi compreso il libro o su supporto informatico, destinato alla pubblicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo, anche elettronico, o attraverso la radiodiffusione sonora o televisiva. Con esclusione dei prodotti discografici o cinematografici. 2. Non costituiscono prodotto editoriale i supporti che riproducono esclusivamente suoni e voci, le opere filmiche e i prodotti destinati esclusivamente all’informazione aziendale sia ad uso interno sia presso il pubblico. Per ‘‘opera filmica’’ si intende lo spettacolo, con contenuto narrativo o documentaristico, realizzato su supporto di qualsiasi natura, purché costituente opera dell’ingegno ai sensi della disciplina sul diritto d’autore, destinato originariamente, dal titolare dei diritti di utilizzazione economica, alla programmazione nelle sale cinematografiche ovvero alla diffusione al pubblico attraverso i mezzi audiovisivi. 3. Al prodotto editoriale si applicano le disposizioni di cui all’art. 2 della l. 8 febbraio 1948, n. 47. Il prodotto editoriale diffuso al pubblico con periodicità regolare e contraddistinto da una testata, costituente elemento identificativo del prodotto, è sottoposto, altresì, agli obblighi previsti dall’art. 5 della medesima l. n. 47 del 1948’’. (24) Preso atto che ‘‘attualmente tutta la normativa del settore editoriale è focalizzata e fortemente influenzata dalla regolamentazione della stampa d’informazione politico-economica’’, veicolata dal supporto cartaceo, il Rapporto del gruppo di lavoro segnala l’avvento dei nuovi supporti elettronico-digitali ‘‘che permettono sicuramente una maggiore articolazione delle potenzialità cognitive del prodotto editoriale rispetto alle possibilità più vincolate offerte dal mezzo carta e soprattutto permettono di progettare nuovi prodotti editoriali la cui ricchezza di contenuti è esaltata grazie alle caratteristiche multimediali dei nuovi supporti’’. Da ciò deriverebbe la necessità del superamento dell’importanza del mezzo tecnico di distribuzione del prodotto a favore dell’introduzione di nuove distinzioni basate, invece, sul contenuto, delle quali la principale è individuata nella bipartizione fra ‘‘contenuto d’informazione d’attualità’’ e ‘‘contenuto per la divulgazione della cultura e del sapere’’. (25) Il terzo comma, distinguendo fra prodotto editoriale comune e prodotto editoriale che costituisce una pubblicazione qualificata, afferma, infatti, che al primo ‘‘si applicano le disposizioni di cui all’art. 2 della l. 8 febbraio 1948, n. 47’’ e che il secondo ‘‘è sottoposto, altresì, agli obblighi previsti dall’art. 5 della medesima legge n. 47 del 1948’’. (26) Si segnala, al riguardo una criticabile prima linea interpretativa orientata in senso contrario espressa da Trib. Latina, ord. 7 giugno 2001, il quale afferma, riguardo al terzo comma dell’art. 1, l. n. 62/2001 che ‘‘per l’applicazione dell’art. 2 della l. n. 47/1948 ai prodotti editoriali, si deve ritenere che gli stessi siano equiparati, anche ai fini penali, alla disciplina riservata alla stampa e alle conseguenti maggiori garanzie ad essa attribuite in virtù della importante funzione svolta in una società democratica dai mezzi di comunicazione di massa, dei quali Internet fa parte a pieno titolo’’. Si deve, al riguardo, precisare che la norma in questione non sembra per nulla sovrapponibile con quelle di cui agli artt. 10 e 30 della l. n. 223/1990 delle quali, la prima assoggetta le trasmissioni radiofoniche ad alcune disposizioni della legge
— 1420 — dimento concerne, quindi, l’ambito di operatività dell’art. 1 in questione il quale, prevedendo una disciplina solo parziale, non rimuove ma acuisce i già evidenti problemi di disparità di trattamento discendenti dalla regolamentazione della pubblicazione effettuata via Internet. In ambito penale, infatti, la norma non solo non prende posizione sulla dibattuta questione, di cui qui si tratta, relativa alla possibilità dell’estensione analogica ad Internet del corpus di norme relativo alle pubblicazioni avvenute a mezzo stampa (fra le quali, in particolare, quella relativa all’aggravio di pena per la diffamazione, di cui all’art. 13), poiché la nuova definizione di prodotto editoriale non è per nulla messa in correlazione con quella, esistente, di stampa o stampato, contenuta nell’art. 1 della l. n. 47/1948, ma anche, introducendo una prima equiparazione fra la pubblicazione telematica e quelle cartacee comuni, che discende dal fatto che la prima viene assoggettata ad alcuni degli stessi obblighi che gravano sulle seconde, aumenta le incongruenze insite nella disciplina complessiva poiché il rinvio esclusivo agli artt. 2 e 5 della legge sulla stampa non permette di applicare alle pubblicazioni virtuali le ulteriori norme, contenute nella medesima legge, che in vario modo sanzionano l’inottemperanza ai suddetti obblighi. Col risultato che le pubblicazioni più divulgative — quelle realizzate via Internet — dovranno contenere indicazioni obbligatorie e, in alcuni casi, registrarsi presso le cancellerie dei tribunali, come quelle cartacee ma, a differenza di queste ultime, non saranno nei loro confronti penalmente sanzionabili le inottemperanze agli adempimenti richiesti, non essendo ad esse applicabili gli artt. 16 ‘‘Stampa clandestina’’, 17 ‘‘Omissione delle indicazioni obbligatorie sugli stampati’’, 19 ‘‘False dichiarazioni nella registrazione di periodici’’. A ben vedere, il rinvio alle sole due norme contenute negli artt. 2 e 5 della legge sulla stampa produce incongruenze anche dal punto di vista della disciplina di impronta amministrativa del nuovo prodotto editoriale. Con riguardo, ad esempio, all’obbligo di registrazione, l’art. 5 prevede, fra l’altro, che siano depositate in cancelleria le firme autenticate del direttore o vice direttore responsabile della testata ma, dal mancato rinvio all’art. 3 della legge (il quale al comma 1 afferma che ‘‘Ogni giornale o altro periodico deve avere un direttore responsabile’’) discende che il nuovo prodotto editoriale non deve obbligatoriamente dotarsi di un direttore responsabile (27). Sembra quindi che la norma voglia fornire una regolamentazione a posteriori o di rifinitura di una forma di pubblicazione alle cui spalle sta un assetto soggettivo già delineato nella prassi e consuetudinario poiché essa evidentemente sottintende che nel caso di prodotto editoriale telematico diffuso con regolare periodicità e contraddistinto da una testata un direttore responsabile debba per forza esistere. Tuttavia, la disposizione mostra così di non cogliere le notevoli peculiarità della nuova forma di pubblicazione rivelandosi inadeguata anche dal punto di vista della formulazione. Non sembra inopportuno segnalare in questa sede alcune delle improprietà definitorie della nuova disposizione poiché essa, benché collocata in un contesto non penale, rappresenta indubbiamente il primo passo verso una futura completa disciplina del settore delle pubblicazioni telematiche e, soprattutto, ne potrebbe costituire il presupposto definitorio di partenza. Innanzi tutto, dal punto di vista della definizione, il comma 1 dell’art. 1, l. n. sulla stampa preoccupandosi di sottolineare che esse sono costituite da quelle in materia di obbligo di registrazione (art. 5), di obbligo della dichiarazione di mutamenti (art. 6) e di obbligo di rettifica, mentre la seconda detta compiutamente quali disposizioni penali e con che limiti esse si ritengono applicabili alle trasmissioni suddette. (27) Non si vede perché non sia stato ricalcato il dettato dell’art. 10, l. n. 223/1990, il quale, sancito che ai telegiornali e ai giornali radio si applicano gli artt. 5 e 6 della l. n. 47/1948, afferma che ‘‘i direttori dei telegiornali e dei giornali radio sono, a questo fine, considerati direttori responsabili’’.
— 1421 — 62/2001 ricalca, nella struttura, l’art. 1 della legge del 1948, richiedendo che il prodotto editoriale possieda sia un requisito oggettivo, costituito dal fatto di essere realizzato su supporto cartaceo o informatico e pubblicato con ogni mezzo, anche elettronico o attraverso la radiodiffusione sonora o televisiva, sia un requisito finalistico, rappresentato dalla destinazione alla pubblicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni presso il pubblico. La norma, inoltre, esclude dalla definizione di prodotto editoriale, dopo avervi compreso il libro, i prodotti discografici o cinematografici, le opere filmiche, i prodotti destinati esclusivamente all’informazione aziendale, sia ad uso interno sia presso il pubblico e i supporti che riproducono esclusivamente suoni e voci (art. 1, comma 1 e 2). La definizione di base, formulata in termini tendenzialmente onnicomprensivi e non specificamente dedicata all’ambiente telematico, solleva, con riguardo ad Internet, il problema, simile a quello al quale si è già accennato in tema di applicabilità dell’aggravante prevista dall’art. 595/3, dell’individuazione di quali, fra i mezzi di comunicazione disponibili on line, possano costituire veicolo di informazioni in modo che esse siano destinate ‘‘alla pubblicazione o comunque alla diffusione di informazioni presso il pubblico’’. Dalla lettura combinata dei primi due commi dovrebbe emergere, peraltro, una indiscriminata applicabilità della nuova definizione di prodotto editoriale a tutta la gamma delle pubblicazioni realizzate via web. La norma, infatti, sembra impostata in modo da fornire una definizione del prodotto in termini il più possibile generali, facendo perno su caratteristiche che prescindono dal contenuto dell’opera (il supporto usato per la creazione, il mezzo usato per la diffusione e la destinazione alla diffusione), successivamente escludendo dalla definizione prodotti che presentano un unico connotato contenutistico (l’opera filmica o cinematografica, i supporti che riproducono esclusivamente suoni e voci), risultando così immediatamente applicabile ai nuovi documenti ipertestuali che, come è noto, non sono, per la maggior parte, riconducibili ad un’unica definizione basata sul contenuto, potendo essi contenere contemporaneamente testo, immagini, sonoro e filmati. L’interpretazione suddetta non è, tuttavia, l’unica praticabile. Sia il sito web che la pagina html che, come detto, permettono la diffusione del pensiero nelle più disparate forme, sono, infatti, tecnicamente riducibili ai singoli elementi che li compongono (file audio, immagini, caselle di testo, eccetera), i quali sono, invece, più facilmente isolabili in un unico connotato contenutistico. Il mancato riferimento al web o al sito nel complesso permetterebbe, quindi, di interpretare la norma anche in modo diverso, ritenendo che il legislatore abbia voluto, inspiegabilmente, escludere dalla definizione di prodotto editoriale i file che contengono solo immagini in movimento o sonoro. Anche il comma 3, infine, benché sia corretta negli intenti l’introduzione di una distinzione, anche in termini di disciplina, fra il prodotto editoriale comune e quello qualificato, non sembra sorretto da una adeguata presa di coscienza delle caratteristiche delle pubblicazioni trasmesse via Internet. Invece di fare perno sul contenuto o sul tipo della pubblicazione, prescrivendo l’obbligo della registrazione solo per quei prodotti editoriali che abbiano carattere informativo o, più esplicitamente, per le riviste telematiche, la distinzione fra l’uno e l’altro prodotto poggia sul duplice elemento della diffusione con regolare periodicità e della presenza di una testata che costituisca elemento identificativo del prodotto risultando, in pratica, applicabile a gran parte dei siti Internet, professionali e non. Oltre al fatto che quasi ogni sito possiede una testata o un ti-
— 1422 — tolo che lo identifichi (28), non sembra un adeguato elemento di discrimine la circostanza che il prodotto sia ‘‘diffuso al pubblico con periodicità regolare’’. La formula appare, infatti, in primo luogo, antiquata poiché con l’elemento della ‘‘diffusione periodica al pubblico’’ sembra riferirsi ad un tipo di prodotto cartaceo che venga di volta in volta distribuito al pubblico in nuovi esemplari, quando invece la pubblicazione virtuale è, più che altro, diffusa una sola volta e continuativamente, in quanto le pagine vengono usualmente caricate sul server in un solo momento iniziale e successivamente aggiornate con l’introduzione di nuovi contenuti. In secondo luogo, anche ove si volesse interpretare l’elemento come se esso si riferisse non proprio ad una diffusione ma ad un aggiornamento periodico del prodotto, esso non svolgerebbe comunque la sua funzione di caratterizzare la pubblicazione qualificata di stampo giornalistico poiché è ovvio che un regolare aggiornamento è necessario nei confronti di qualunque sito, anche privato, se si vuole che esso continui ad essere visitato. Infine, anche il rinvio agli artt. 2 e 5, pensati per le pubblicazioni di tipo cartaceo, si rivela impreciso poiché manca uno specifico adeguamento della disciplina alle caratteristiche peculiari ed ai nuovi soggetti coinvolti nelle pubblicazioni telematiche. Innanzi tutto, entrambi gli articoli fanno, a diverso titolo, riferimento al luogo della pubblicazione, dato che, con riguardo ad Internet, non solo si rivela poco significativo, poiché la pubblicazione virtuale si realizza nell’ambiente virtuale, accessibile da ogni parte del mondo, ma anche, e conseguentemente, di assai arduo rinvenimento; in secondo luogo, l’art. 2 richiede che ogni stampato indichi il nome e il domicilio dello stampatore e, se esiste, dell’editore, mentre la pubblicazione telematica non poggia usualmente sul contributo di questi soggetti, richiedendo, se mai, la presenza di un creatore delle pagine html e curatore del sito e di un provider di servizi che metta a disposizione lo spazio sul suo server. 4. Internet come mezzo di pubblicità: disparità di trattamento e peculiarità del mezzo telematico. — A partire dalle ragioni esposte precedentemente, in ordine all’impossibilità di estendere analogicamente la portata dell’art. 1, l. n. 47/1948 fino a comprendervi le pubblicazioni realizzate tramite Internet, la sentenza in commento sposta l’attenzione dal piano della legislazione speciale in materia di mezzi di comunicazione di massa a quello del codice penale, asserendo che ‘‘non si vede quale sia la necessità di effettuare una forzatura interpretativa per ricondurre il caso in esame nell’alveo della disciplina sanzionatoria delle ll. n. 47/1948 e 223/1990’’ quando ci si trova in presenza di una previsione normativa quale quella del comma 3 dell’art. 595 c.p. il quale, oltre all’aggravante del mezzo di stampa, concerne l’offesa arrecata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità ‘‘che si attaglia alla perfezione ai contenuti diffamatori diffusi attraverso Internet’’. In mancanza di una espressa pronuncia del legislatore che qualifichi in termini aggravati la condotta diffamatoria realizzata via web sembra, in effetti, che l’unica via per connotare più gravemente il fatto oggetto della sentenza in commento sia il ricorso alla previsione (generica rispetto a quella del mezzo di stampa) della seconda parte del comma 3 dell’art. 595 c.p. che fa riferimento al mezzo di pubblicità. Il minore aggravio di pena previsto nella suddetta ipotesi rispetto a quella, speciale, del mezzo di stampa che beneficia, come più volte ricordato, della disposizione ad hoc contenuta nella legge sulla stampa sembra, tutta(28) È necessario prendere atto che i connotati tradizionalmente attribuiti esclusivamente al prodotto editoriale che fosse il risultato di un’attività giornalistica, come il testo scritto, la presenza di immagini, fotografie o fotomontaggi, sono oggi in gran parte rinvenibili in qualunque pagina web. Cfr. Cass. pen., 5 febbraio 1980, Cass. pen. mass. ann., 1981, p. 1208 in tema di diffamazione tramite fotomontaggio, oppure Cass. pen., 12 gennaio 1983, Cass. pen., 1984, p. 520 sull’autonoma capacità offensiva del titolo.
— 1423 — via, riproporre i problemi di disparità di trattamento, incidenti sul principio di eguaglianza di cui all’art. 3 cost., già sollevati con riguardo alla disciplina della diffamazione commessa tramite il mezzo radiotelevisivo (29), prima che essa divenisse oggetto della pur farraginosa disciplina speciale prevista dall’art. 30 della l. n. 223/1990 (30). Non sembra, infatti, dubitabile che la condotta diffamatoria realizzata via sito web presenti connotati di offensività, discendenti, quanto meno, dalle potenzialità divulgative del mezzo, meritevoli di una specifica e maggiore sanzione rispetto a quella dell’aggravante contenuta nel codice penale, alla stregua dell’analoga condotta realizzata tramite il mezzo di stampa o tramite quello radiotelevisivo. Si può dire, quindi, che se la riconduzione del fatto nell’alveo del comma 3 dell’art. 595, appare lodevole, in quanto dimostra una presa di coscienza della necessità di riconoscere la maggiore gravità della diffamazione realizzata via web rispetto alla diffamazione comune, essa dovrebbe essere, tuttavia, accompagnata, se non dal sollevamento di una questione di legittimità costituzionale, al pari di quanto è già avvenuto per la radioTV, da un invito al legislatore affinché colmi le disparità. In base a quanto in precedenza osservato sulla non perfetta sovrapponibilità fra l’ambiente telematico e il mezzo di stampa e sulla opportunità di fornire Internet di una disciplina, il più possibile, ad hoc, sembra, comunque, che la migliore via da percorrere sia la seconda e non quella della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma di cui all’art. 1 della legge sulla stampa, in quanto inapplicabile alle pubblicazioni avvenute col mezzo elettronico, che condurrebbe la Corte ad una valutazione di tipo politico, estranea alle sue competenze. La sentenza in questione, tuttavia, pur riconoscendo le peculiarità offensive del mezzo di comunicazione Internet e attribuendo ad esso, innovativamente (31), la qualifica di ‘‘mezzo di pubblicità’’, meritevole di una sanzione specifica, sembra fare un passo indietro, quando, richiamando a sostegno della propria tesi sulla non estensibilità analogica della norma di cui all’art. 1 della l. n. 47/1948 le due successive pronunce della Corte cost. che rigettarono le questioni di legittimità costituzionale proposte per il caso della radiotelevisione in relazione al medesimo articolo, afferma di aderire alla posizione da esse un tempo espressa nel senso che ‘‘non fosse censurabile la scelta del legislatore di punire più gravemente i reati di diffamazione commessi con il mezzo della stampa rispetto a quelli commessi con la radiotelevisione (32)’’. Il giudice, quindi, mostra di propendere per il mantenimento dello status quo, ovvero dell’inquadramento della diffamazione realizzata via Internet nell’ambito dell’aggravante del mezzo di pubblicità, non ventilando la possibilità di una disparità di trattamento, né sollecitando alcuna soluzione legislativa. (29) Ci si riferisce al quadro che ha condotto alle due successive pronunce della Corte cost., n. 42 del 1977, cit. e n. 168 del 1982, cit. V., oltre ai riferimenti già segnalati in nota 12, FARANDA, Problematiche sostanziali e processuali in tema di diffamazione a mezzo di televisioni provate, in Giust. pen., 1989, II, p. 55. (30) Per alcune considerazioni generali sulla legge in questione si rinvia alla nt. 3. (31) La tendenza verso la qualificazione di Internet, nel caso della diffamazione, nell’ambito di questo mezzo era già stata espressa in dottrina, PICOTTI, Profili penali delle comunicazioni illecite via Internet, cit. e SCOPINARO, Internet e delitti contro l’onore, cit.; nell’ambito della giurisprudenza, la sentenza in questione, invece, prende posizioni decisamente innovative. Cfr., nello stesso senso, Cass. pen., 27 dicembre 2000, cit. (32) Il giudice, in pratica, larvatamente accondiscende a quel criticato ragionamento ‘‘sociologico’’ che aveva sorretto le motivazioni della Corte cost. del 1982 in tema di ragionevolezza della scelta di punire meno gravemente la diffamazione a mezzo radiotelevisivo rispetto a quella a mezzo stampa. Non è corretto, invece, il riferimento alla precedente sentenza (42/1977) che si limitava, invece, più ragionevolmente, a rilevare il limite formale all’equiparazione fra il mezzo della stampa e quello radiotelevisivo e a sollecitare una presa di posizione del legislatore. Le differenze fra le due pronunce sono analizzate da ROPPO, Disciplina dei mass media e coerenza del legislatore (nota a Corte cost., 168/1982) cit.
— 1424 — Senza addentrarsi in considerazioni di stampo comparatistico sulle caratteristiche dei diversi mezzi di comunicazione di massa, in relazione alle maggiori o minori possibilità offensive di ognuno, se utilizzati come veicoli di diffamazione, sembra necessario, quanto meno superficialmente, contestare la suddetta linea di tendenza verso l’accettazione della qualificazione di Internet alla stregua di un generico mezzo di pubblicità, sottolineando la specificità del nuovo mezzo telematico (33), che dovrebbe condurre ad una particolare considerazione di esso da parte del legislatore e, al contrario, la aspecificità del mezzo di pubblicità che, d’altro canto, dovrebbe giustificare il mantenimento del ruolo residuale e generico del suddetto mezzo anche rispetto al nuovo mezzo telematico. Mentre, infatti, il mezzo di pubblicità si caratterizza esclusivamente per la particolare diffusività di cui connota la condotta, rendendola più offensiva, la pubblicazione via web, oltre a possedere una capacità divulgativa maggiore, si presenta qualitativamente diversa e più ricca, rispetto a quella realizzabile mediante un media tradizionale (34). Resta una considerazione finale sull’applicabilità del connotato della pubblicità del fatto all’illecito perpetrato tramite Internet. Mentre la qualificazione dello strumento virtuale alla stregua di mezzo di pubblicità non pone problemi all’interprete, se si accetta l’opinione per la quale l’utilizzo di un ‘‘mezzo’’ di divulgazione implica che l’accertamento della destinazione al pubblico dell’offesa si arresti ad uno stato potenziale (35), maggiori difficoltà possono sorgere in tutti i casi in cui il codice penale richiede a vario titolo che la condotta sia avvenuta pubblicamente, nel senso, quindi, non potenziale ma attuale, fra i quali è emblematico quello dell’art. 266, comma 4, c.p. (36). LUCIA SCOPINARO Dottoranda di ricerca in Diritto penale presso l’Università degli Studi di Genova (33) Cass. pen., 27 dicembre 2000, cit., assume, ad esempio, una posizione, seppur concorde, nettamente difforme. La sentenza, pur ammettendo la ragionevolezza — ed affermando la necessità — dell’inquadramento della diffamazione realizzata via Internet nell’ambito dell’aggravante del mezzo di pubblicità, in considerazione del fatto che ‘‘la particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio rende l’agente meritevole di un più severo trattamento penale’’, sottolinea poco dopo che ‘‘la diffusività e la pervasività di Internet sono solo lontanamente paragonabili a quelle della stampa ovvero delle trasmissioni radiotelevisive’’, citando in via esemplificativa, la democraticità di Internet (intesa come fruibilità dei suoi servizi, dal punto di vista attivo, da parte di un numero tendenzialmente illimitato di persone e non da una cerchia selezionata di soggetti professionisti) e il suo carattere transnazionale (rappresentato dalla capacità di esso di divulgare informazioni in tutto il mondo). (34) Al riguardo, il Green Paper on the protection of minors and human dignity in audiovisual e and information services, http://europea.eu.int, descrivendo le novità introdotte dall’ambiente virtuale, seppur ai fini della tutela dei minori dall’accesso al materiale osceno, afferma che due sono le principali differenze rispetto ai comuni media: la prima consta del passaggio da un modello di tipo editoriale ad un modello di comunicazione nuovo, di tipo interattivo, in quanto ‘‘ogni utente diventa potenziale editore di materiale’’. Il che in pratica aumenta esponenzialmente le possibilità non solo di creazione dei testi e delle immagini ma, soprattutto, della loro diffusione nell’ambiente telematico. In secondo luogo si assiste al passaggio da servizi di tipo nazionale a network diffusi in tutto il mondo. Con la differenza, rispetto al fenomeno simile che si verifica in campo televisivo che Internet, pur avendo una dimensione definibile ‘‘internazionale’’ gode di una struttura che ne rende l’isolamento in un particolare settore geografico virtualmente impossibile. Correlativamente al cambiamento della struttura dello strumento, cambiano anche le caratteristiche del materiale divulgato: si passa da un modello lineare, tipico del materiale televisivo, ad un modello con architettura più complessa, nel quale il passaggio da un argomento all’altro è più libero perché l’utente stesso può interagire con il documento. Inoltre, da materiali di natura chiaramente definibile, come il film o il documentario, si passa a forme di materiale ibride: uno stesso documento può contenere pubblicità, documentazione ed elementi di svago, senza che sia possibile scindere un contenuto dagli altri. Infine, Internet permette la manipolazione del materiale da parte dell’utente, la sua trasformazione in materiale nuovo e la sua distribuzione on line con pressappoco le stesse potenzialità di divulgazione di chiunque altro. (35) V., in tal senso, MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, cit., p. 341 e p. 647 e NUVOLONE, Il diritto penale della stampa, cit., p. 28 ss. (36) V., più ampiamente, Scopinaro, Internet e delitti contro l’onore, cit.
RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE
COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (*)
Italia-Svizzera: la ratifica dell’« Accordo aggiuntivo » alla Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale 1. Nella Gazzetta Ufficiale dell’8 ottobre, n. 234, è stato pubblicato il testo della l. 5 ottobre 2001, n. 367, intitolata « Ratifica ed esecuzione dell’Accordo tra Italia e Svizzera che completa la Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959 e ne agevola l’applicazione, fatto a Roma il 10 settembre 1998, nonché conseguenti modifiche al Codice penale e al Codice di procedura penale ». Si tratta di un testo normativo (1) che — in particolare per certe sue peculiari note di attualità processuale — è stato oggetto di ampie e vivaci dispute in Parlamento, ed anche di una vasta eco nell’opinione pubblica. 2. È il caso di rilevare, in primo luogo, che non si tratta certo del primo « accordo aggiuntivo » rispetto alla citata convenzione europea, essendo stato preceduto — sulla base della generale previsione di cui all’art. 26, § 3 del testo convenzionale — da analoghi « accordi » a suo tempo sottoscritti con l’Austria (20 febbraio 1973) e, più tardi, con la Germania (24 ottobre 1979) (2). Potrebbe dunque risultare utile e significativo il raffronto tra tali « accordi aggiuntivi » e quello da ultimo oggetto di ratifica. Non desta poi meraviglia, di per sé, il fatto che l’iter della ratifica abbia offerto l’occasione per quelle che — nella rubrica della legge — impropriamente sono state chiamate « conseguenti modifiche » ai Codici penali, e che, in modo più corretto, avrebbero meglio dovuto figurare (come pure era stato proposto) quali modifiche « connesse » (3). Va da sé, peraltro, che le modifiche che, più o meno occasionalmente o giustificatamente, vengono approntate, in calce a leggi di ratifica, risultano in Italia senz’altro agevolate dalla mancanza di un testo-base di riferimento. Si vuol dire di una specifica e dettagliata
(*) A cura di MARIO PISANI. (1) Sul tema v. Italia-Svizzera: negoziati in tema di assistenza giudiziaria, in questa Rivista, 1998, p. 1441; Italia-Svizzera: ritardi nella ratifica dell’« accordo aggiuntivo », ibid., 1999, p. 742. È da notarsi che nella Gazzetta Ufficiale viene pubblicato il testo della legge sprovvisto del testo dell’accordo oggetto di ratifica... Si è cercato quindi di porvi rimedio nelle forme di un comunicato del Ministero degli Affari Esteri (in Gazz. Uff. 11 ottobre, p. 24) del seguente tenore: « In calce alla legge citata in epigrafe, pubblicata ecc., deve intendersi pubblicato [sic], alla p. 24, il seguente Accordo:... » (segue il testo dell’Accordo, di 33 articoli, contrassegnati con numeri romani). (2) Per il testo dei due « accordi » — entrati in vigore, rispettivamente, il 27 novembre 1977 e il 4 luglio 1985 — v. PISANI e MOSCONI, Codice delle convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, 3a ed., 1996, p. 37 ss., p. 133 ss. (3) Per un ragguardevole precedente al riguardo v. la l. 9 agosto 1993, n. 328 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato, fatto a Strasburgo l’8 novembre 1990) e — con particolare riferimento alle modifiche o innovazioni apportate ai codici penali — il documento La ratifica della Convenzione di Strasburgo (1990) in tema di riciclaggio, in Ind. pen., 1993, p. 751.
— 1426 — legge in tema di cooperazione internazionale in materia penale, che ormai troppe volte chi scrive si è trovato inutilmente ad auspicare, sulla base degli esempi offerti dai vari Paesi europei, proprio a cominciare dalla Svizzera (4). 3. Ciò premesso, non si intende certo offrire in questa sede un quadro completo delle numerose e complesse tematiche affrontate dall’« Accordo aggiuntivo » e dalle « conseguenti modifiche » ai codici, che richiederebbe ben altro impegno analitico (ed anche più ampi spazi, non congeniali a questa nostra rassegna). Si è preferito piuttosto orientare gli interpreti e gli operatori dando voce, in ordine cronologico, ai lavori parlamentari della fase più recente, dei resoconti stenografici di tali lavori dell’aula offrendo, con tutte le inevitabili lacune ed omissioni, alcuni tra i passaggi ritenuti più significativi. 4.
« CAMERA DEI DEPUTATI Seduta n. 37 del 26 settembre 2001
VINCENZO FRAGALÀ, Relatore per la maggioranza per la II Commissione. Signor Presidente, onorevoli colleghi, desidero rammentare come la proposta di legge in esame, approvata dal Senato il 3 agosto scorso, riproduca, pressoché integralmente, il contenuto del provvedimento, atto Camera n. 6499, approvato dall’Assemblea della Camera nel corso della XIII legislatura. E vorrei anche ricordare ai gentili colleghi che l’iter del provvedimento si arrestò al Senato in sede referente, presso le Commissioni riunite affari esteri e giustizia, e che si è, successivamente, arrestato a causa dello scioglimento delle Camere. Il provvedimento, nella scorsa legislatura, quando l’attuale opposizione era maggioranza parlamentare e maggioranza di Governo, è stato, in pratica, tenuto nei cassetti del Parlamento per circa tre anni. Ebbene, oggi noi riproponiamo il contenuto della proposta di legge che è stata presentata al Senato nella legislatura attuale e che ha recepito nell’articolato le modifiche apportate al provvedimento durante l’esame nella scorsa legislatura; nel corso dell’esame presso il Senato sono state apportate al provvedimento ulteriori modifiche. Signor Presidente ed onorevoli deputati, questa proposta di legge, che autorizza la ratifica di un accordo tra l’Italia e la Svizzera, dando piena esecuzione alla convenzione europea di assistenza giudiziaria, avrebbe dovuto essere approvata nella scorsa legislatura e, incredibilmente, non lo è stata. Questo provvedimento è stato tenuto fermo da quella maggioranza parlamentare che oggi si lamenta dell’operosità e dei tempi efficaci che la nuova maggioranza parlamentare ritiene di dedicare ad un provvedimento così importante: devo immediatamente chiarire che questo accordo tra Italia e Svizzera, del quale la proposta di legge già approvata dal Senato della Repubblica italiana non è altro che una mera ratifica, è diretto a dare piena esecuzione, fra i due paesi stipulanti, alla Convenzione europea di assistenza giudiziaria. Ne consegue, onorevoli deputati, che le norme della convenzione europea di assistenza giudiziaria sono inderogabili da parte della legge di ratifica dell’accordo Italia-Svizzera. Anche su questo punto, vorrei chiarire ai cortesi colleghi dell’opposizione che le norme della convenzione europea di assistenza giudiziaria, essendo inderogabili da parte della legge di ratifica, evidentemente, non fanno che segnare un binario, assolutamente ineludibile, per la nostra proposta di legge. Parlare, a tale proposito, di mero rispetto formale di norme o, addirittura, di cavilli posti a favore degli imputati e dei loro difensori, equivale a considerare puramente formale e quindi superflua e, comunque, irrilevante l’intera tematica dell’assistenza giudiziaria tra Stati che, invece, è da sempre regolata da forme rigidissime che devono essere scrupolosamente osservate. Io vorrei fare notare ai cortesi colleghi dell’opposizione che nei rapporti fra Stati le
(4) Sulle più recenti modifiche alla legge 20 marzo 1981 v. Svizzera: modifiche alla legge federale sulla cooperazione internazionale in materia penale, in Ind. pen., 1996, p. 793.
— 1427 — forme delle convenzioni internazionali sono assolutamente obbligate a ubbidire a schemi certamente rigidi e inderogabili. È poi evidente che l’intero diritto e, in particolare, il diritto processuale, è forma che serve a disciplinare l’uso dell’autorità da parte delle istituzioni giudiziarie nei confronti dei singoli, nel rispetto di principi ritenuti fondamentali e, quindi, per questo, previsti normativamente. Nel caso di specie, signori deputati, il valore processuale tutelato dall’articolo 12 del disegno di legge approvato dal Senato è quello della garanzia della genuinità dei documenti acquisiti all’estero, in assenza di partecipazione dell’imputato o della sua difesa e che l’accusa intende invece utilizzare nei confronti dell’imputato stesso. Non sfuggirà alla sensibilità dei colleghi che mi ascoltano come la garanzia di genuinità dell’acquisizione della prova sia un principio fondamentale del diritto processuale. In ogni caso, l’articolo 3 della convenzione europea di assistenza giudiziaria prevede precisi e inderogabili obblighi nell’acquisizione e nella trasmissione degli atti oggetto di rogatoria (5). In qualunque caso, sia in una rogatoria passiva che in una rogatoria attiva, l’acquisizione e la trasmissione di atti deve ubbidire a norme e a forme assolutamente inderogabili. Pertanto, insigni colleghi, rispetto a tali obblighi, l’articolo 12 della proposta di legge approvata dal Senato — quello che ha subito più critiche e più strali da parte dell’opposizione — si configura come norma meramente interpretativa, posto che è evidente [sic] che la violazione delle regole di acquisizione e di trasmissione di atti e documenti oggetto di rogatoria comporta comunque, già nel vigente sistema normativo processuale, la sanzione della inutilizzabilità nei confronti dell’accusato. Allora, quanto all’intervento riportato sulla stampa da parte di esponenti del mondo giudiziario, specialmente della magistratura inquirente (anche se non condivido l’utilizzazione di un incarico istituzionale per amplificare delle critiche rispetto a un iter legislativo rispetto al quale gli esponenti istituzionali del mondo giudiziario sono esclusivamente coloro che poi queste norme devono applicare), devo osservare a chi ha mosso certe critiche richiamandosi ad un eccesso di formalismo, e, addirittura, tentando di banalizzare, in modo artificioso, il problema del rispetto delle forme in una questione — si è detto — di timbri, che tutto ciò a mio avviso risulta — se me lo consentite — pretestuoso, preoccupante e soprattutto interessato. Tutto questo perché, insigni colleghi? Non ci si pone un problema di semplice timbro, quanto piuttosto un tema serissimo di controllo dell’autenticità dei documenti ottenuti brevi manu [sic] all’estero da una parte processuale, cioè dai rappresentanti della pubblica accusa, senza alcuna partecipazione e possibilità di controllo da parte dell’altra parte processuale, cioè della difesa dell’imputato. Quindi, questo è il motivo pretestuoso; il motivo preoccupante è che risulta questione fondamentale — e non banale — quella relativa alla garanzia dell’autenticità dei documenti trasmessi dall’estero che, appunto, secondo l’articolo 3 della convenzione europea di assistenza giudiziaria, devono essere muniti di apposita certificazione di conformità rispetto agli originali. È preoccupante che rappresentanti dell’autorità giudiziaria italiana ritengano non soltanto di intervenire nel dibattito politico, ma soprattutto di sostenere che non sussiste un’esigenza di controllo dell’autenticità dei documenti trasmessi dall’estero. È grave che esponenti del mondo giudiziario — i quali, in quanto soggetti alla legge do-
(5) Più precisamente, l’art. 3 § 3 della convenzione prevede — secondo il testo francese — quanto segue: 3. La Partie requise pourra ne transmettre que des copies ou photocopies certifiées conformes des dossiers ou documents demandés. Toutefois, si la Partie requérante demande expressément la communication des originaux, il sera donné suite à cette demande dans toute la mesure du possible. Del pari, dal testo inglese, che fa fede quanto il testo francese, risulta: 3. The requested Party may transmit certified copies or certified photostat copies of records or documents requested, unless the requesting Party expressly requests the transmission of originals, in which case the requested Party shall make every effort to comply with the request. Secondo la versione italiana non ufficiale della Convenzione, a suo tempo predisposta dall’Ufficio traduzioni di leggi ed atti stranieri dell’allora Ministero di Grazia e Giustizia, era stato impropriamente scritto: « 3. La parte richiesta non potrà trasmettere che semplici copie etc. », anziché: « ...potrà limitarsi a trasmettere... ».
— 1428 — vrebbero essere i primi a difendere la forma giuridica — si scaglino proprio contro l’essenza stessa del diritto che è appunto fondata sul rispetto delle forme. Del resto, il fatto è che rappresentanti o esponenti di uffici giudiziari inquirenti non si rendono conto che anche il loro ruolo si svolge in forza di una particolare forma, di un adempimento formale e che qualunque atto giudiziario (provvedimento, ordinanza, sentenza o provvedimento giuridico) si fonda proprio su un adempimento formale e — come direbbe qualcuno di questi — su un timbro o su una firma che danno poi concretizzazione all’autorizzazione e all’esercizio delle funzioni corrispondenti. Insigni colleghi, devo infine ritenere che, poiché qualche ufficio giudiziario ha forse violato — quantomeno in concorso con organi di polizia che hanno trasmesso dall’estero la documentazione oggetto di rogatorie — l’articolo 3 della convenzione europea di assistenza in tutti i procedimenti seguiti, vi è forse la preoccupazione da parte di esponenti di tali uffici giudiziari che una simile condotta disinvolta venga evidenziata e quindi sanzionata prima processualmente e poi disciplinarmente. Credo che proprio nel campo di una ratifica di una convenzione europea, ma soprattutto di un accordo che completa una convenzione fra l’Italia e la Svizzera che riguarda la collaborazione giudiziaria fra i due Stati, far sì — come fa questo provvedimento — che l’acquisizione degli atti e delle prove sia assolutamente salva da qualunque profilo di illegittimità o di inutilizzabilità non farà altro che consentire che il risultato del processo sia efficace, credibile, giusto ed in perfetta assonanza e consonanza con la legge sul giusto processo, con la riforma costituzionale che il Parlamento precedente ha approvato a larghissima maggioranza (Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza nazionale e di Forza Italia). PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il relatore di minoranza per la II Commissione, onorevole Carboni. FRANCESCO CARBONI, Relatore di minoranza. (...) L’obiettivo dell’accordo e, conseguentemente, della legge di ratifica, è quello di superare le notevoli difficoltà e ritardi che vengono, ad oggi, proposti dal sistema vigente, a causa — come hanno detto anche i relatori di maggioranza — delle molte riserve che la Svizzera ha posto alla Convenzione del 1959 e, soprattutto, per la frammentarietà del diritto processuale penale elvetico che è formato — l’ho desunto dal dossier — da ventisei codici cantonali e da tre codici federali. L’accordo, peraltro, come ha ricordato anche la collega intervenuta poc’anzi, recepisce una convenzione che sta per essere rivista e in gran parte superata, poiché la Comunità europea ne ha constatato i limiti. Tuttavia, possiede il pregio di consentire per il futuro — per quanto ancora potrà essere applicata — la definizione delle numerose rogatorie attive e passive (ma soprattutto di quelle attive, che sono più numerose, come vedremo, tra quelle in corso con la Svizzera). Inoltre, l’accordo supera le numerose riserve introdotte con la ratifica della Convenzione del ’59, decise dalla Svizzera nel 1966 ed inoltre — altro fatto positivo —, estende le disposizioni innovative introdotte con l’accordo di Schengen. Quindi, è evidente che si tratta di un accordo di notevole rilievo. In conclusione, stipulando con la Svizzera l’accordo bilaterale, ai sensi dell’articolo 26 della Convenzione del ’59, la Repubblica italiana, a nostro avviso, ha posto le premesse per definire tutte le procedure rogatoriali in corso con la Svizzera. Nella fase istruttoria in Commissione, il ministero ha fornito — unica risposta resa tra le varie richieste — una nota con cui si dà conto del numero delle rogatorie pendenti. Possiamo constatare che non è rilevante solo il numero di quelle pendenti con tutti gli Stati, ma, in particolare, è rilevante il numero di quelle pendenti con la Svizzera (649 rogatorie attive e 203 passive). Soprattutto, possiamo constatare che i reati interessati dalle procedure rogatoriali suscitano notevoli preoccupazioni: associazione a delinquere, reati contro la pubblica amministrazione, reati contro la fede pubblica, violazione delle leggi sugli stupefacenti, reati di contrabbando e di bancarotta, reati di riciclaggio e pedofilia, per citarne alcuni. Quindi, è opportuno e necessario approvare la legge che ratifica l’accordo e che semplifica notevolmente i rapporti con la Confederazione elvetica.
— 1429 — Come ricordava la relatrice per la maggioranza per la III Commissione, nella precedente legislatura la Camera ha esaminato il disegno di legge presentato dal Governo per la ratifica dell’accordo e lo ha approvato, trasmettendo al Senato il testo che poi, in questa legislatura, è stato utilizzato dal senatore Dell’Utri ed altri per ripresentare la proposta di legge. Dissentiamo da quanto ha detto il collega Fragalà, poiché riteniamo che quel testo sia stato utilizzato al solo fine di poter utilizzare il percorso agevolato previsto dall’articolo 107 del regolamento, essendo stato approvato dalla Camera, e non certo per mantenere quell’articolato, poiché, come si vedrà più avanti, esso è stato complessivamente e negativamente stravolto. Non voglio tornare sulle norme contenute nell’accordo e su quelle contenute nel disegno di legge approvato dalla Camera: esse sono già note e avremo modo di illustrarle domani, durante l’esame degli emendamenti. Tali norme sono, comunque, contenute nella proposta di legge alternativa che abbiamo presentato alla Camera dei deputati. La naturale conclusione della XIII legislatura non ha consentito l’approvazione del provvedimento anche al Senato. In questa legislatura, la ratifica non rientrava tra le emergenze e nel programma dei cento giorni. Alcuni senatori — Dell’Utri ed altri — attraverso un’iniziativa parlamentare — in Commissione ho dichiarato di non aver trovato un riscontro in precedenti, almeno per quanto riguarda ratifiche di accordi così importanti — nell’inerzia del Governo hanno presentato al Senato la proposta di legge (...). Tale proposta — in parte modificata durante i lavori delle Commissioni riunite II e III (Giustizia e Affari esteri) del Senato — è stata completamente stravolta, peggiorata nel corso dell’esame in aula del Senato che lo ha reso praticamente inoperante e rende inapplicabile l’accordo stipulato con la Svizzera in materia penale, introducendo norme che, se applicate, porteranno ad una completa devitalizzazione dell’accordo stesso. Abbiamo lamentato in Commissione — e lo confermiamo oggi — la non disponibilità manifestata dalla maggioranza della Camera nel corso dell’esame in sede referente, che ci ha indotto a presentare il testo alternativo che riproduce quello approvato nella precedente legislatura, che recepisce gli emendamenti che abbiamo proposto in sede referente e che verranno portati all’attenzione dell’Assemblea. Diverse sono le modifiche introdotte dal Senato — che la maggioranza alla Camera ha dichiarato, in apertura dell’esame in sede referente, di non volere assolutamente modificare — che tolgono, a nostro avviso, efficacia all’accordo. Le elenco brevemente: l’articolo 3, introdotto in aula, dal Senato, obbliga la nostra autorità giudiziaria a richiedere l’autorizzazione allo Stato al quale è stata fatta la richiesta, al fine di utilizzare le informazioni rogatoriali in procedimenti diversi da quello per il quale sono state originariamente richieste, seppur si procede per reati che non sono esclusi, dall’accordo. Non vi è alcun obbligo previsto in tal senso dall’accordo (6). Con la proposta di legge di ratifica introduciamo una norma che appesantisce e preclude il lavoro dei giudici. Sappiamo quanto sia lungo nel tempo l’iter di definizione di un percorso rogatoriale; il volerlo introdurre per ogni procedimento diverso — sebbene ciò possa essere fatto, legittimamente, dal giudice italiano — riteniamo sia un tentativo per portare alla disapplicazione dell’accordo (7). Peraltro, debbo dire che non viene sancito [sic] un obbligo analogo a carico dell’autorità elvetica; quindi, la condizione di reciprocità, che richiamiamo a tutela dei nostri principi, diventa per noi una penalizzazione, poiché l’autorità elvetica, come ho detto, non ha un corrispondente obbligo. Nell’articolo 5 — relativo alle indagini compiute congiuntamente e alle indagini comuni — alligna, a nostro avviso, una violazione del principio di sovranità, una vera e propria imposizione illegittima del diritto italiano in territorio svizzero; ed anche in questo caso non viene prevista la condizione di reciprocità. La proposta di legge di ratifica prevede, cioè, con
(6) Se ne veda, peraltro, l’art. IV (e, oggi, l’art. 4 della legge di ratifica). (7) Il relatore dimostra così di ignorare tutto il contenzioso Italia-Svizzera in tema di « specialità ».
— 1430 — riferimento a quelle indagini — quelle comuni e quelle compiute congiuntamente — che, seppure compiute in territorio elvetico, debbano essere portate avanti e concluse secondo il diritto processuale penale italiano. L’articolo 8, che sostituisce l’articolo 696 del codice di procedura penale, oltre alle imperfezioni di fattura, contiene un’evidente stortura: esso disciplina le estradizioni mediante un rinvio alla Convenzione europea di assistenza giudiziaria firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959, che si occupa solamente delle rogatorie e che di estradizioni non parla. L’articolo 12, che il collega Fragalà indicava come un esempio di civiltà giuridica, a nostro avviso, invece, mortifica totalmente la possibilità di applicare l’accordo tra l’Italia e la Svizzera del 10 settembre 1998; infatti, sanzionando con l’inutilizzabilità degli atti anche le imperfezioni formali, comprese quelle concernenti la trasmissione degli atti, si determina una completa paralisi dell’attività giudiziaria in via di rogatoria. Eppure, se in un ordinario procedimento penale vengono acquisiti dei documenti bancari, questi vengono spesso acquisiti in fotocopia. Al contrario, se dobbiamo acquisire dei documenti bancari dalla Svizzera, chiediamo al giudice svizzero che quei documenti bancari vengano trasmessi in copia autentica; ma questo sicuramente la banca elvetica cui vengono richiesti i documenti non lo fa! Di tale adempimento dovrebbe farsi carico la magistratura elvetica, quando nei nostri fascicoli penali i documenti bancari vengono acquisiti presso le banche italiane in fotocopia! Quindi, anche qui c’è un tentativo di travalicare il nostro diritto comune, al solo fine di paralizzare l’efficacia dell’accordo fra l’Italia e la Svizzera. L’articolo in parola contiene, poi, tutta una serie di indicazioni specifiche alla magistratura svizzera di disposizioni del nostro codice sulle modalità di attuazione della rogatoria. Da ultimo, e questo è gravissimo, quest’articolo introdotto al Senato prevede l’inutilizzabilità delle dichiarazioni aventi ad oggetto atti inutilizzabili: si mette, così, una vera e propria pietra tombale sull’applicabilità della rogatoria! Voglio segnalare, inoltre, un fatto che riteniamo gravissimo: alcune delle questioni cui si riferisce l’articolo sono state eccepite in processi pendenti — riportano tale notizia il Corriere della sera, l’Unità e la Repubblica — dagli avvocati di Berlusconi. Ho qui le fotocopie degli articoli. L’articolo 17 è un’altra di quelle previsioni che compromettono l’applicabilità dell’accordo: esso consta di due commi che consentono l’applicazione ai procedimenti in corso, anche in sede di giudizio di legittimità, delle cause di nullità o di inutilizzabilità che la nuova normativa introduce. Per queste ragioni noi abbiamo proposto il testo alternativo. Ci chiediamo quale coerenza vi sia tra questa proposta e quello che la maggioranza si prefigge con riferimento alla situazione internazionale, alla lotta al terrorismo (...). PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo. GIUSEPPE VALENTINO, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Signor Presidente, da troppo tempo questo progetto di legge di ratifica languiva nei cassetti del Parlamento (oltre tre anni), per cui al Senato si è avvertita l’esigenza di dare un impulso, così è stato presentato. Nell’elaborazione del Senato, si è tenuto conto dell’importanza del rigore nell’acquisizione della prova. Questo credo sia il principio fondante [sic] di questa proposta di legge di ratifica. L’accordo è naturalmente teso ad agevolare i rapporti tra l’Italia e la Svizzera, però le regole devono essere rispettate. Da cosa nasce questa esigenza di tipicizzazione dei vari momenti? Nasce dall’esigenza di evitare talune disinvolte interpretazioni che nel passato abbiamo dovuto riscontrare. Nasce dall’esigenza di rispettare le norme procedurali che devono sempre presiedere momenti fondanti del processo, quali sono quelli tesi all’acquisizione della prova. Francamente, se questo è lo spirito che ha indotto una larga maggioranza al Senato a votare la proposta di legge che oggi è sottoposta alla cognizione della Camera dei deputati, io ho delle perplessità a prendere in considerazione le accese, appassionate e comprensibili argomentazioni dell’opposizione. Il rispetto delle regole non deve suscitare turbamento a
— 1431 — nessuno (...). Il Governo ha fatto la sua parte. Né si può sostenere, come qualcuno ha detto nel corso delle sedute di questi giorni, che la mancanza di un timbro potrebbe essere prodromo alla nullità di atti e quindi alla vanificazione di complesse attività processuali. Non è così. Poc’anzi il relatore, onorevole Fragalà, ha sottolineato l’importanza di certificare, nel processo, la natura del documento, soprattutto quando il documento giunge dall’estero, soprattutto quando il documento fa parte di un groviglio di carte male elencate, come sovente accade. Ecco, signor Presidente, onorevoli colleghi le ragioni per le quali, con grande puntualità, la legge di ratifica indica quali sono i percorsi da seguire perché l’accordo possa essere correttamente applicato. Io confido che il Parlamento in questa direzione si contenga e che quelle che sono state le determinazioni del Senato, che il Governo ha apprezzato, possano essere confermate anche in questa sede. (...) PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Kessler, al quale ricordo che ha 12 minuti a disposizione. Ne ha facoltà. GIOVANNI KESSLER. Signor Presidente, poco fa, mentre sentivo parlare la relatrice della Commissione esteri, la collega Baldi, mi sono trovato in un clima davvero surreale. Sentivo parlare la collega, anzi, sentivo leggere la relazione governativa all’originario disegno di legge in cui si magnificava questa impresa legislativa che consentirebbe, finalmente, di favorire le rogatorie internazionali con la Svizzera e con il mondo. Ma, forse, occorre effettivamente ancora ripetere, e ad alta voce, che di quel disegno di legge è rimasto soltanto il titolo, beffardo, peraltro, dove si parla di agevolare l’applicazione degli accordi tra l’Italia e la Svizzera e la Convenzione europea di assistenza giudiziaria. Purtroppo, a questo punto è un titolo beffardo, sardonico (...) Qualcuno dovrà spiegare agli elettori ed al paese perché nelle prossime settimane, dopo l’approvazione di questa legge, in decine e decine di processi contro la criminalità organizzata, contro il crimine organizzato albanese, in processi che sono in corso presso i tribunali di Bari, Napoli, Palermo, verranno buttate nel cestino tutte le prove acquisite faticosamente tramite rogatorie internazionali poiché è uso comune in Europa non fare più la certificazione di autenticità delle carte che vengono trasmesse. Qualcuno dovrà spiegare agli elettori il motivo per cui decine di persone ritenute magari già colpevoli in primo e secondo grado di reati gravissimi, come associazione a delinquere per stampo mafioso o di omicidi, dovranno essere liberate perché le prove documentali che li inchiodavano per mancanza di un timbro se provengono dall’estero (se provengono dall’Italia sono, invece, ancora valide) sono inutilizzabili. Questa è la responsabilità che vi assumete davanti al paese. Seduta n. 38 del 27 settembre 2001 (...) LUCIANO VIOLANTE. Avevo chiesto la parola sull’ordine dei lavori, perciò mi sono permesso di intervenire. Poiché questo, come i colleghi sanno, è un provvedimento sul quale c’è un conflitto molto aspro — perché, a nostro avviso, favorisce il crimine —, vorremmo, cortesemente, che i colleghi della maggioranza e del Governo esprimessero sinteticamente le ragioni per le quali sono contrari agli emendamenti. PRESIDENTE. Gli esponenti della maggioranza intendono fornire le motivazioni richieste? (...) VINCENZO FRAGALÀ (...) In conclusione, onorevole Violante, non possiamo stravolgere l’articolato di questa proposta di legge accogliendo degli emendamenti che, peraltro, sono assolutamente pretestuosi e che ritarderebbero ulteriormente l’approvazione di un provvedimento di ratifica di un trattato di collaborazione giudiziaria con la Svizzera che, invece, è un’esigenza assolutamente
— 1432 — avvertita dalla nostra legislazione (Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza nazionale e di Forza Italia). (...) PRESIDENTE. Passiamo alla votazione degli identici emendamenti Bonito 8.1 e Boato 8.2. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l’onorevole Bonito. Ne ha facoltà. FRANCESCO BONITO. Signor Presidente, con l’articolo 8 affrontiamo uno dei punti più importanti del provvedimento al nostro esame. Qui vi è una delle discipline più pericolose rispetto alle quali noi dobbiamo esprimere tutto il nostro dissenso. Cercherò di spiegare in due parole, nel modo più chiaro possibile, di che si tratta. Con l’articolo 8 si modifica una norma del codice di procedura penale, l’articolo 696, che già era nel nostro codice e che non dava fastidio a nessuno. Ebbene, non è che venga sostituita tutta la norma. In questa norma viene inserita la seguente dizione: « Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959 ». È un inserimento del tutto incongruo e del tutto illogico perché questa norma dice che le rogatorie sono regolate dalle convenzioni internazionali. Perché si specifica, allora, in modo particolare la Convenzione di Strasburgo? Forse la Convenzione di Strasburgo non è una convenzione internazionale? Tale quesito trova immediata risposta se si considera che essa contiene il famoso articolo 3 che è stato utilizzato in tutti processi di criminalità internazionale. È l’articolo che enfatizza il ruolo dei timbri, per cui, se un atto in rogatoria non ha il timbro, se una fotocopia non ha 7 o 8 timbri ed un sigillo di ceralacca, anche se è prova provata del misfatto peggiore, non può esser utilizzata, secondo quello che ci viene qui proposto (8). Questa eccezione è stata fatta in tanti processi, anche importanti, e di questo potrebbero darci conferma alcuni avvocati, autorevolissimi, che oltre a fare gli avvocati fanno i deputati e siedono in quest’aula. (...) Ma questo sarebbe il meno. Il più è che per salvare questi personaggi eccellenti si salvano: il re del contrabbando Prudentino; si salva, cari amici della Lega, la banda degli albanesi dell’operazione Orinoco che si è arricchita, diventando miliardaria, con la vendita di cocaina proveniente dalla Colombia. Tale processo sta avendo luogo a Lecce e si regge tutto su rogatorie. Purtroppo queste ultime non hanno i timbri e non hanno i sigilli di ceralacca però sono prove provate delle responsabilità di quei delinquenti (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra — l’Ulivo, della Margherita, DL-l’Ulivo, di Rifondazione comunista, Misto-Comunisti italiani, Misto-socialisti democratici italiani e Misto-Verdi l’ulivo). (...) VINCENZO FRAGALÀ. Signor Presidente, onorevoli colleghi, credo che tutti i colleghi dell’opposizione, intervenuti sugli articoli 8, 11 e 12, o non conoscano assolutamente il testo della normativa oppure assumano una posizione esclusivamente nutrita dalla più vieta demagogia, perché non è assolutamente vero, anzi direi che è assolutamente falso, che questa normativa, specialmente per quanto riguarda gli articoli 8, 11 e 12, ostacola o impedisce l’acquisizione di elementi di prova presso uno Stato estero attraverso le rogatorie. È esattamente il contrario. Per questo il centrosinistra, quando era maggioranza, ha tenuto nel cassetto questa proposta di legge perché la stessa all’articolo 8 pone, cari colleghi, soltanto l’esigenza che l’atto acquisito abbia una conformità (Commenti dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l’Ulivo e della Margherita, DL-l’Ulivo) e soprattutto un crisma di autenticità. Chi di voi vorrebbe essere processato sulla base di fotocopie di cui non si conosce l’autenticità e
(8) Resta però da opporre, agli uni e agli altri, ... che il « famoso art. 3 » non parla certo di timbri e di ceralacca, e non esige affatto — per prassi costante, mai disattesa — che su ciascuno degli atti, e magari dei numerosissimi documenti bancari, timbri e ceralacca vengano apposti da parte dell’autorità del Paese richiesto. La certificazione di conformità, oltre che conseguire dall’ufficialità globale della trasmissione, per di più entro un sistema che espressamente dispensa gli atti e documenti, trasmessi secondo regola, « da ogni formalità di legalizzazione » (art. 17 Conv. in discorso), deriva dalla fiducia reciproca che sta alla base dei rapporti internazionali. Senza di essa, invero, ben si potrebbe allora dubitare della stessa autenticità di timbri e di sigilli!
— 1433 — che possono essere manipolate, assemblate e costruite in modo fraudolento? (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia). ANTONIO SODA. Fragalà, ma chi te lo fa fare? VINCENZO FRAGALÀ. Quindi, l’articolo 8 non significa il timbro o il timbretto, onorevole Soda; lei è un fine giurista e queste cose le dovrebbe sapere. L’articolo 8 garantisce soltanto che l’atto acquisito presso lo Stato estero, per esempio un atto o una documentazione bancaria, abbia il crisma dell’autenticità, cioè sia conforme, come prevede la Convenzione europea, all’atto autentico (...) (...) Passiamo alla votazione degli identici emendamenti Boato 12.8 e Pisapia 12.17. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l’onorevole Bonito. Ne ha facoltà. FRANCESCO BONITO. Signor Presidente, abbiamo l’occasione di verificare chi è in buona fede e chi, invece, in mala fede, perché, cari colleghi, si ottiene un bellissimo risultato; quello di cui ci stiamo occupando io lo chiamo « il comma Previti ». Il relatore ci ha intrattenuto sulla lode del timbro, dicendo che è assolutamente necessario perché senza timbro non avremmo l’autenticità dei documenti e senza quest’autenticità i processi sarebbero ingiusti. Ebbene, qui si stabilisce il seguente principio: Previti ha risposto ad un interrogatorio in cui gli hanno messo sotto il naso le fotocopie dei conti svizzeri da cui risultano tutti i miliardi che lui ha preso nell’ambito del processo IMI-SIR. L’onorevole Previti ha detto che era vero, che si trattava del suo conto, che erano fotocopie che riguardavano il suo conto e che era vero che aveva preso quei miliardi. Ha inoltre aggiunto che era, come è, un avvocato e che, siccome Rovelli gli aveva dato un mandato, li aveva dati a certe persone, senza però indicarne i nomi proprio perché avvocato. Con questo comma che cosa si fa? Anche queste dichiarazioni con cui si è riconosciuta l’autenticità del documento, in quanto Previti ha detto che sì, si trattava del suo conto, che quelle erano le cifre ed i soldi — ebbene — non contano nulla (9). Onorevole Fragalà, chi è ora in malafede? (Vivi e prolungati applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l’Ulivo, della Margherita, DL-l’Ulivo, di Rifondazione comunista, Misto-Comunisti italiani, Misto-Socialisti democratici italiani, Misto-Verdi-l’Ulivo e Misto-Minoranze linguistiche, che si levano in piedi e scandiscono: « vergogna, vergogna »). 5.
SENATO DELLA REPUBBLICA 47a seduta pubblica del 2 ottobre 2001
(...) PRESIDENTE. Per favore, colleghi; mancano ancora pochi minuti alla fine della seduta. Se tutti riescono a mantenere un certo ordine, possiamo ascoltare il senatore Zancan e andare avanti. ZANCAN (Verdi-U). La necessità di presentare questi emendamenti all’articolo 18 deriva dall’articolo 5 che prevede la nullità o l’inutilizzabilità di tutti gli atti compiuti dalla polizia e dall’autorità giudiziaria italiana in concorso con quella svizzera quando non sono adottate le norme del codice di procedura penale italiano. Si tratta di una sovrana assurdità che renderà sostanzialmente inutilizzabili tutti gli atti compiuti dalla polizia e dall’autorità giudiziaria elvetica per una decisiva ragione: esiste infatti la lex loci e non possiamo quindi pretendere che un altro Stato segua pedissequamente le previsioni della nostra procedura penale; possiamo invece pretendere che in questo ordi-
(9) V. ora — salvo quanto rilevato nella nota precedente — il nuovo art. 729 comma 1-ter c.p.p. (quale risulta dall’art. 13 della legge in discorso): « Non possono in ogni caso essere utilizzate le dichiarazioni, da chiunque rese, aventi ad oggetto il contenuto degli atti inutilizzabili ai sensi dei commi 1 e 1bis ».
— 1434 — namento siano rispettati i princìpi del contraddittorio, i diritti della difesa e i princìpi della nostra civiltà giuridica. (...) Sta qui la sovrana castrazione delle prove raccolte dall’autorità elvetica e la possibilità di renderle inutilizzabili nel nostro processo. Sta qui la sostanza delle ragioni che persone che siedono in questo Parlamento o fuori di esso ripongono nel castrare questa ratifica e la possibilità di acquisizione della prova. (...) (...) CALVI (DS-U). Signor Presidente, abbiamo presentato tre emendamenti che riteniamo essenziali. L’articolo 18 è uno strumento, introdotto dalla maggioranza della Camera dei deputati, per riequilibrare il vulnus provocato dall’articolo 12 — corrispondente all’articolo 13 del testo licenziato dalla Camera dei deputati —, che ha determinato la possibilità di dichiarare l’inammissibilità e l’inutilizzabilità di atti per violazioni meramente formali. Signor Presidente, onorevoli colleghi, se leggessimo con attenzione gli atti dei processi nei quali tali questioni sono state sollevate avanti il tribunale di Milano, comprenderemmo che le disposizioni in esame sono mirate a stravolgere le ordinanze di quei magistrati che avevano legittimamente dichiarato non ammissibili quelle questioni. Farò un esempio. Se un documento, relativo ad un conto corrente che prova la dazione di denaro da un soggetto ad un magistrato per corromperlo, giunge dalla Svizzera e, invece di essere recapitato al magistrato attraverso il Ministero della giustizia, viene inviato direttamente al magistrato del tribunale, l’eccezione relativa all’inutilizzabilità dell’atto è stata giustamente rigettata. NOVI (FI). Non vi è corrispondenza. CALVI (DS-U). II senatore Novi farebbe bene a leggere gli atti. Infatti, la prova circa la responsabilità era stata acquisita attraverso una documentazione priva di vizi, tranne il fatto che la trasmissione non è passata attraverso il Ministero di giustizia. NOVI (FI). È finita la corrispondenza privata. PRESIDENTE. Senatore Novi, per cortesia, non interrompa il collega. CALVI (DS-U). Con l’emendamento approvato alla Camera dei deputati, che la maggioranza del Senato si accinge a confermare, quel documento sarà invece dichiarato inutilizzabile. NOVI (FI). La giustizia non sarà più « cosa loro »! PRESIDENTE. Senatore Novi, si accomodi nella sua parte dell’emiciclo. CALVI (DS-U). Gli emendamenti riferiti alla norma transitoria dell’articolo 18 sono volti a riequilibrare tale situazione. Siccome nella norma transitoria si affermava il principio secondo cui la violazione di una mera formalità rendeva inutilizzabile l’atto, la Camera dei deputati aveva deciso che tale situazione era applicabile anche ai processi attualmente in corso. Attraverso la modifica da noi proposta si tenta di mitigare in qualche modo un ulteriore vizio, un’ulteriore disuguaglianza. La norma approvata dalla Camera, nello spirito, tendeva ad un riequilibrio, stabilendo che la prescrizione sarebbe stata interrotta nei casi in cui si prevedeva la detenzione del soggetto imputato. Ora si crea una situazione di chiara incostituzionalità, perché la prescrizione sarebbe prevista per l’imputato detenuto, ma non per l’imputato non detenuto. Noi vogliamo semplicemente che la prescrizione si applichi a tutti gli imputati, detenuti o non detenuti; è una norma di equilibrio, è una norma di giustizia sostanziale. Questa è la ragione per la quale abbiamo affermato attraverso il nostro emendamento che deve essere espunto dall’articolo 18, comma 5, il riferimento ai commi 3 e 4, dove si fa riferimento appunto ai soggetti detenuti. In questo caso nella norma transitoria e finale — che varrà, badate bene, non soltanto nei processi in corso, ma in tutti i processi anche per il futuro — eliminando questa discrepanza con il riferimento ai commmi 3 e 4, effettivamente diamo un nuovo equilibrio all’intera norma, stabilendo che perlomeno quando il giudice vorrà reiterare l’atto, il tempo per la reiterazione di quell’atto viziato (così bisognerà dire che ora sia) non potrà più essere computato per la prescrizione dei reati addebitati.
— 1435 — Questa è la ragione formale per cui insistiamo su questo emendamento: esso interpreta effettivamente lo spirito che aveva avuto la Camera dei deputati nell’approvare questo emendamento, mentre invece la formulazione letterale è di dubbia interpretazione, per cui potremmo trovare magistrati che applicano in modo non corretto questa norma. Abbiamo tempo per correggerla, approviamo norme chiare, inequivoche, che non diano dubbi di interpretazione. Questo è il dovere del Parlamento e questo è l’impegno che dobbiamo mantenere; quindi, dobbiamo approvare l’emendamento da noi presentato. (Applausi dai Gruppi DS-U, Mar-DL-U e Verdi-U e del senatore Sodano Tommaso). 48a seduta pubblica del 3 ottobre 2001 (...) AYALA (DS-U). Signor Presidente, con l’emendamento 18.33 si ripropone una questione delicata; è delicata due volte, per il suo contenuto, che illustrerò di qui a poco ai colleghi, e perchè tutto sommato è l’unico intervento che il Senato può fare. Siamo in seconda lettura, possiamo intervenire soltanto sui punti che la Camera ha modificato rispetto al testo licenziato dal Senato; uno è già passato con gli emendamenti respinti (nulla quaestio), rimane in piedi questo punto. La delicatezza è poi intrinseca, perché nel bene o nel male, indovinando o sbagliando, la Camera ci rimanda un testo in cui viene prevista la sospensione del termine di prescrizione per il tempo necessario alla rinnovazione degli atti nell’ipotesi ovviamente in cui questi atti siano stati dichiarati nulli o inefficaci. Non c’è dubbio che ha una sua ratio, io personalmente lo condivido, però si pone un grosso problema interpretativo. Il relatore, sia in Commissione che in Aula, circa il comma 5 (colleghi, per aiutarvi a seguirmi, se ne avete voglia, sto parlando del comma 5 dell’articolo 18), dà un’interpretazione che in un primo momento mi ha visto d’accordo, quella secondo cui la sospensione del termine di prescrizione ha efficacia generale. Tutti i processi in cui si proceda alla rinnovazione degli atti per quel tempo vedranno il termine di prescrizione sospeso. Senonché, siccome per un verso vi è un collegamento ai commi 3 e 4 dello stesso articolo 18 e per altro verso un richiamo espresso all’articolo 159 del codice penale, il timore non soltanto del senatore Ayala, che sarebbe pochissima cosa, ma anche di autorevoli giuristi (...) induce a pensare che l’interpretazione possa essere assai diversa. Ciò è sicuramente paradossale. Se si ha la sfortuna di essere imputati in stato di custodia cautelare, la dichiarazione di nullità o inefficacia di quegli atti comporterà il rinnovo degli stessi, pertanto, per quel tempo saranno sospesi il termine di decorrenza della custodia cautelare e quello della prescrizione. Si può avere, però, la fortuna di godere di una condizione diversa. Il sottosegretario Valentino, infatti, ricordava, che nell’ambito dello status libertatis tale situazione può anche essere condizionata da particolari status personali. Ad esempio, nel caso di un parlamentare nei confronti del quale la Camera di appartenenza ha respinto la richiesta di arresto (fondata o infondata che sia), egli non soffrirà la sospensione dei termini di prescrizione. Ciò non è accettabile. Non so se voterete questo emendamento; il problema non è mio. Io lo avrò risolto nel momento in cui potrò dire che in quest’Aula vi ho aperto gli occhi (secondo me li avevate già aperti prima). Il problema è vostro; se non lo voterete, infatti, sosterrete questa pessima legge che ha svuotato di contenuto un importante accordo di cooperazione giudiziaria, ritenuto nel 1998 una conquista e che si muove in controtendenza rispetto alla ormai acquisita necessità sul piano europeo (e non soltanto europeo) di rafforzare e di rendere sempre più efficienti le cooperazioni giudiziarie tra i vari Paesi. Alla miopia istituzionale che permette di votare una legge privatizzando l’uso della funzione legislativa aggiungerete la cecità — scusatemi — di un’arroganza intellettuale che è davvero ottusa. (Applausi dai Gruppi DS-U, Verdi-U e Mar-DL-U). MANZIONE (Mar-DL-U). Signor Presidente, mi rivolgo in modo particolare ai colleghi Valentino e Centaro.
— 1436 — Ho seguìto la dotta disquisizione, svoltasi prima della votazione a scrutinio segreto dell’emendamento 18.33; ho ascoltato ciò che ha detto il rappresentante del Governo — che al momento non vedo in Aula — e ho compreso le obiezioni del relatore. Egli ha affermato che, qualora fossero soppressi, al comma 5 dell’articolo 18, i riferimenti ai commi 3 e 4, nonché all’articolo 159 del codice penale, potremmo trovarci in una situazione meno chiara di quella codificata dopo le modifiche apportate alla Camera. Prendo atto di tale argomentazione. Tutto sommato, le modifiche apportate dalla Camera dei deputati ai commi 3 e 4 prevedono due ipotesi di sospensione dei termini di custodia cautelare, di cui una potrebbe essere definita facoltativa e l’altra — quella prevista dal comma 4 dell’articolo 18 con il riferimento all’articolo 407 del codice di procedura penale — obbligatoria: in quelle due fattispecie in alcuni casi il giudice può, in altri casi, quando i reati sono particolarmente gravi, il giudice deve. Si tratta di un’interpretazione che non è da fini giuristi proprio al fine di consentire a chi ci ascolta di comprendere bene quanto stiamo ora affermando; evitiamo dunque di scendere in quelle che probabilmente sono solo sottigliezze. Con il comma 5, rispetto alle fattispecie in esame (lo dico solo per i tanti che si appassionano alla materia senza avere una competenza profonda), è stato sostanzialmente previsto che qualora per le modifiche apportate dal centro-destra contro il parere e la volontà del centro-sinistra scattassero quelle preclusioni — e fosse necessario rinnovare gli atti perché vi sono delle irregolarità formali che noi non consideravamo importanti, ma che in una logica che si può comprendere, anche se non accettare, vengono ritenute fondamentali e bisogna procedere alla rinnovazione di questi ultimi —, in quel caso scattano i commi 3 e 4 che prevedono, da una parte, la possibilità di sospendere i termini di custodia cautelare e, dall’altra, l’obbligo conseguente in presenza di reati particolari. Non a caso, infatti, quando vi è stato un riferimento specifico ad alcune fattispecie di reato, correttamente il collega Centaro ha più volte richiamato l’attenzione sulla salvaguardia dell’articolo 407 del codice di procedura penale. Il comma 5, quello sul quale vogliamo incidere, prevede una fattispecie diversa, ossia la possibilità o l’obbligo di sospendere non tanto i termini di custodia cautelare quando il decorso della prescrizione. Già ci siamo misurati, anche se in maniera incidentale, con la prescrizione nel corso dell’esame del provvedimento relativo alla riforma del diritto societario e, in particolare, con riferimento al falso in bilancio che, attraverso un abbattimento della pena, rendeva possibile la prescrizione di alcuni reati. Non entrerò però in una polemica che già vi è stata e che è consegnata agli atti. Rispetto all’emendamento che abbiamo prima votato è stata sollevata una serie di obiezioni da parte del relatore e del rappresentante del Governo che, per certi versi, posso condividere. Tuttavia, l’emendamento che presentiamo mi sembra chiarissimo, in quanto propone di aggiungere il comma 5-bis, che recita: « In ogni caso, indipendentemente dall’applicazione di misure di custodia cautelare, » — commi 3 e 4 rispettivamente facoltativo e obbligatorio — « il termine di prescrizione resta sospeso per il tempo necessario alla rinnovazione degli atti, ai sensi dell’articolo 159 del codice penale ». (...) In questo caso non vale nessuna delle obiezioni: noi vogliamo comprendere se è possibile sospendere tout court la prescrizione quando vi è la rinnovazione. E la domanda che le rivolgo è la seguente: nel caso in cui il processo fosse a carico di un parlamentare, (...) e non fosse stato possibile applicare la misura custodiale benché richiesta, solo perché ha beneficiato del provvedimento custodiale, che non opera perché vi è stata l’opposizione all’applicazione della misura cautelare ai sensi dell’articolo 68 della Costituzione da parte degli organi competenti, cioè della Camera o del Senato, in questo caso non solo non scatta la misura custodiale ma addirittura... (Richiami del Presidente) — mi faccia concludere — non scatterebbe la prescrizione. Quindi, si premierebbe un collega a caso, Cesare Previti come dicevo, nel momento in cui non solo non scatta... (Il microfono viene disattivato. Il senatore Manzione lancia alcuni fogli dal suo banco e abbandona l’aula).
— 1437 — (...). SCHIFANI (FI). Mi dispiace che i colleghi dell’opposizione dicano che il provvedimento è stato bloccato al Senato. È stato portato all’approvazione della Camera due mesi prima della fine della legislatura. Perché questo silenzio? Volevate forse tacere la vicenda cui ha fatto cenno il collega della Lega, sulla quale mi soffermerò? Volevate forse tacere che sulle rogatorie si era creato un incidente tra il vostro Governo e la Svizzera, perché vi eravate consentiti il lusso di trasmettere al Secit l’esito di quelle rogatorie, dando in pasto notizie dei nostri contribuenti, e la Svizzera aveva dichiarato di non voler più collaborare? (Applausi dai Gruppi FI, CCDCDU:BF, AN e LNP) Avete violato le regole della specialità. (Commenti dal Gruppo DS-U) Forse per questo, signor Presidente, l’Accordo era fermo? FALONI (DS-U). Lo avete fermato voi l’Accordo! SCHIFANI (FI). Forse per questo, su sollecitazione nei confronti del ministro Flick da parte dell’allora procuratore Borrelli, si stipulò un accordo a tre fra i Ministri dell’epoca? FALOMI (DS-U). Sta dicendo menzogne. PRESIDENTE. Senatore Falomi, la richiamo all’ordine per la seconda volta; la invito a moderare i toni e a stare seduto. FALOMI (DS-U). È una vergogna! PRESIDENTE. Il senatore Schifani ha diritto di svolgere il suo intervento, come ha fatto il senatore Brutti. SCHIFANI (FI). In quella occasione, signor Presidente, qualcosa andava taciuta. Si stipulò un accordo tra il Governo e la Svizzera, ove si disse alla Svizzera: abbiamo sbagliato; sblocca le rogatorie che non ci vuoi più trasmettere perché ne abbiamo fatto un uso improprio e noi stipuliamo con te un accordo sulla reimmissione dei clandestini immigrati in Svizzera venuti dall’Italia. Ecco l’accordo del quale parlava il collega della Lega. (Applausi dai Gruppi FI, CCD-CDU:BF, AN e LNP) Così avete governato. Ecco perché questa ratifica non giungeva in Parlamento; è arrivata all’esame all’inizio di questa legislatura. Vorrei ricordare che il testo è stato approvato a luglio dall’Assemblea, in un impianto che era uguale al 99 per cento al testo che ci viene dalla Camera. ANGIUS (DS-U). Ci spieghi perché avete cambiato quel testo. SCHIFANI (FI). In quella occasione non si fece cenno da parte delle opposizioni ad anomalie, non si fece cenno ad alcuni soggetti che si tendeva a favorire. Ricordo perfettamente quel dibattito come lo ricorderanno i colleghi dell’opposizione. Si aprì una discussione e il collega Calvi fu protagonista di un confronto altamente giuridico con il senatore Centaro sulla opportunità di introdurre una norma transitoria e quando applicarla. Non vi fu altro, perché il testo andava bene. GIARETTA (Mar-DL-U). Avete cambiato il disegno di legge! SCHIFANI (FI). Quel testo sancisce, reitera un principio cardine al quale il nostro Paese era già vincolato dal 1961. Qualunque Paese chiamato ad effettuare una rogatoria nei confronti di un altro è tenuto a trasmettere atti originali o autenticati. Collega Brutti, non è una questione di timbro; dietro quel timbro c’è spesso la libertà dell’individuo perché il documento falso non può determinare la condanna di alcuno. PILONI (DS-U). Quante falsità! SCHIFANI (FI). La falsità dei documenti non può essere accettata da questo Parlamento, da un Paese civile come il nostro. Non è un problema formale, colleghi dell’opposizione. Ci preoccupiamo quando l’opposizione, elencando in modo completo e pedissequo tutti i processi in corso, ove vi sono istruttorie per rogatoria, per bocca del collega Bordon afferma, snocciolando i numeri, che tutti questi processi cadranno nel nulla. È giusto dire la verità: non è così, lei lo sa collega Bordon. BORDON (Mar-DL-U). So bene come stanno le cose. (...) PRESIDENTE. Proclamo il risultato della votazione nominale con appello sul disegno di legge n. 371-B:
— 1438 — Senatori presenti ............................................................................................ Senatori votanti ............................................................................................. Maggioranza .................................................................................................. Favorevoli ...................................................................................................... Contrari ......................................................................................................... Astenuti ......................................................................................................... Il Senato approva. (Applausi dai Gruppi FI, AN, CCD-CDU, BF e LNP) » (10). 6.
274 273 137 161 111 1
LA RISOLUZIONE DEL C.S.M.
Pubblichiamo anche il testo della Risoluzione adottata dal C.S.M. nella seduta del 27 settembre 2001, in pari data trasmessa al Ministro della Giustizia (prot. N. 17997/2001): « Il Consiglio Superiore della Magistratura, Rilevato che è in corso l’esame parlamentare del DDL n. 1507/C, avente ad oggetto « Ratifica ed esecuzione dell’Accordo tra Italia e Svizzera che completa la Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20.4.1959 e ne agevola l’applicazione, fatto a Roma il 10.9.1998, nonché conseguenti modifiche al codice penale e al codice di procedura penale », osserva: il d.d.l. in questione introduce norme destinate a regolamentare le modalità di collaborazione giudiziaria con la Repubblica Elvetica, che possono avere ricadute sull’organizzazione della giustizia in generale. Appare perciò opportuno richiamare l’attenzione del Ministro della Giustizia su tali ricadute nei termini seguenti. La cooperazione giudiziaria in materia di assistenza giudiziaria penale tra Italia e Svizzera è disciplinata dalla Convenzione n. 30 del Consiglio d’Europa firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959 (che, al momento, regola i rapporti tra 39 Stati), strumento al quale i due Paesi hanno aderito — rispettivamente — in data 23 febbraio 1961 (L. 215/61) e 20 dicembre 1966. La normativa in parola, sin dalla metà degli anni ’90, è oggetto di revisione ed a tal fine sono stati avviati processi negoziali per aggiornarla (attraverso la previsione di più moderne forme di collaborazione) e migliorarla (attraverso la modifica di quelle disposizioni che si sono rivelate, nel corso degli anni, di ostacolo ad una rapida ed efficace cooperazione internazionale). Molte delle difficoltà generali di utilizzo della Convenzione n. 30 hanno tratto origine dal fatto che essa — come molti altri accordi multilaterali — non limita la « facoltà di riserva » a specifiche disposizioni e la Svizzera, in particolare, mediante l’esercizio della « riserva » ha introdotto limiti e condizioni al generale obbligo di cooperazione previsto all’art. 1 dell’accordo. In tale contesto, atteso che i rapporti di cooperazione internazionale con la Svizzera sono divenuti nell’ultimo decennio sempre più intensi, l’Italia, di concerto con la Confederazione Elvetica, ha ritenuto opportuno stipulare in base all’art. 26 della Convenzione un « accordo bilaterale integrativo » con l’Italia. Tale Accordo — che ha recepito le disposizioni innovative introdotte dagli accordi di Schengen del 1990 — è stato firmato in Roma il 10 settembre 1998 ed è finalizzato a migliorare sotto vari profili i rapporti di cooperazione e di assistenza giudiziaria tra i due Paesi. Per quanto riguarda l’individuazione dei soggetti legittimati ad evadere le richieste di assistenza giudiziaria la Svizzera ha — nell’accordo bilaterale del 1998 — concentrato sugli Uffici centrali di Berna (con riferimento alle richieste concernenti criminalità organizzata, corruzione ed altri gravi reati) l’esecuzione delle rogatorie formulate dalle autorità giudiziarie italiane, eliminando le competenze cantonali, spesso fonte di ritardi a causa del complesso sistema degli strumenti di gravame.
(10) Il 27 settembre l’omologo testo normativo era stato approvato alla Camera con 292 voti favorevoli e 231 contrari.
— 1439 — Per velocizzare, poi, la cooperazione — nel diffuso caso di indagini che interessino entrambi i Paesi (per es., riciclaggio, corruzione, associazioni mafiose etc.) — è prevista la possibilità di indagini comuni in analogia con quanto già previsto dalla Convenzione di Strasburgo in materia di riciclaggio e lo scambio di atti (di indagine o giudiziari) utili all’altro Stato. L’Accordo esclude la clausola di specialità apposta dalla Svizzera nell’ipotesi di truffa fiscale, mantenendo la situazione invariata per gli altri reati fiscali e per i reati politici e militari. Si è quindi imposto con l’Accordo bilaterale alla parte svizzera di tener conto nello svolgimento delle rogatorie delle modalità esecutive indicate dalle nostre autorità (ad es., consentire la presenza del difensore) salvo che le stesse non siano contrarie ai principi fondamentali del suo ordinamento. L’Accordo, inoltre, riprende molte disposizioni contenute nella Convenzione applicativa degli accordi di Schengen del 1990 (ad es., eliminazione del ruolo di intermediazione svolto dalle autorità governative nella trasmissione delle rogatorie, utilizzazione della via postale per la notificazione di atti all’estero, cooperazione tra autorità amministrative etc.) ed anticipa quelle contenute nella Convenzione di mutua assistenza giudiziaria penale dell’U.E. del 29 maggio 2000 nonché quelle previste dal 2o Protocollo aggiuntivo alla Convenzione n. 30 del 1959, in via di approvazione da parte del Consiglio d’Europa. Il disegno di legge in esame introduce alcune disposizioni destinate a regolamentare in modo più articolato le modalità di collaborazione giudiziaria e a fissare ulteriori regole per l’utilizzazione nel processo italiano degli atti acquisiti a seguito di rogatorie all’estero. Perplessità desta, anzitutto, il regime delle inutilizzabilità. In particolare rilievi critici vanno mossi al testo dell’art. 12 del d.d.l. nella parte in cui sostituisce il comma 1 dell’art. 729 c.p.p. prevedendo: « La violazione delle norme di cui all’art. 696 comma 1, riguardanti l’acquisizione o la trasmissione di documenti o di altri mezzi di prova a seguito di rogatoria all’estero comporta l’inutilizzabilità dei documenti o dei mezzi di prova acquisiti o trasmessi ». La norma in esame pare confliggere con il principio di diritto internazionale generale, secondo il quale gli atti compiuti all’estero dall’Autorità giudiziaria straniera in accoglimento di una domanda di assistenza giudiziaria formulata da un altro paese devono essere assunti secondo la « lex loci ». Inoltre, se da un lato sembra che non si sia tenuto conto in questo caso del « principio di tassatività » delle nullità processuali, dall’altro la norma ha l’effetto di travolgere per « dichiarate irregolarità formali » atti acquisiti all’estero, senza che siano stati tuttavia violati divieti di carattere assoluto. In tale modo viene ad essere ricompresa nella più grave categoria processuale dell’inutilizzabilità qualsiasi inosservanza della normativa interna, che, in base alle disposizioni attualmente vigenti, potrebbe non dar luogo ad alcuna forma di invalidità oppure integrare nullità di carattere relativo o intermedio. Pertanto, l’effetto dell’inammissibilità dei risultati della rogatoria viene esteso (dal comma 1-ter dell’art. 12) anche ad altri atti del procedimento e, precisamente, a tutte quelle « dichiarazioni, rese da chiunque, che abbiano ad oggetto il contenuto degli atti inutilizzabili ». Se quindi è plausibile porre sanzioni per la violazione delle norme convenzionali e delle norme di diritto internazionale generali, è sicuramente eccessiva la sanzione dell’inutilizzabilità, la più drastica tra quelle previste dall’ordinamento, per qualsivoglia violazione anche di tipo formale, quali talune di quelle che possono ipotizzarsi nel dare attuazione alle disposizioni di cui all’art. 696 comma 1 c.p.p. L’art. 12, inoltre, nella parte in cui introduce il comma 1-bis dell’art. 729 c.p.p., può destare perplessità solo in parte fugate da una lettura congiunta con l’art. 11. Premessa indispensabile per l’interpretazione delle norme in questione è il contenuto dell’art. V dell’Accordo, relativo alle modalità di esecuzione delle richieste rogatoriali. Il principio fondamentale sta nell’impegno dello Stato richiesto di « fare tutto il possibile » per-
— 1440 — ché le richieste di assistenza giudiziaria siano espletate nel rispetto delle modalità espressamente indicate dallo Stato richiedente, a meno che non si tratti di modalità in conflitto con i principi del diritto dello Stato richiesto. Vi è, dunque, nell’Accordo l’esigenza che l’Autorità Giudiziaria dello Stato richiedente specifichi le modalità con cui intende che l’atto sia espletato (in proposito si può osservare come l’art. V comma 1 dell’Accordo postuli inequivocabilmente che l’Autorità Giudiziaria dello Stato richiedente indichi le modalità con cui intende che l’atto sia espletato), ciò al fine evidente di evitare, nel processo celebrato presso l’Autorità Giudiziaria dello Stato richiedente, eccezioni di inutilizzabilità o di nullità degli atti, sempre possibili alla stregua della diversità degli ordinamenti e della apprezzabilità sotto un profilo di interesse generale alla difesa di alcune modalità apparentemente soltanto formali. Perplessità — stando ai principi del nostro sistema giuridico — sussistono non soltanto, come si è detto, in ordine alla disciplina a regime, ma anche in ordine alle disposizioni transitorie. L’art. 17 comma 2 statuisce, infatti, nell’ipotesi in cui gli atti, formati prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni, siano stati già acquisiti al fascicolo per il dibattimento, la rilevabilità da parte del giudice o la eccepibilità (entro la prima udienza successiva alla data di entrata in vigore della legge), in ogni stato e grado di giudizio, dell’eventuale causa di nullità o inutilizzabilità. Si determinerebbe così una non condivisibile applicazione retroattiva proprio delle nuove norme. In proposito, da un lato, infatti, va rilevato che vicende legislative recenti (in particolare quelle relative all’art. 513 c.p.p.) hanno creato disagio all’interprete per l’assenza di norme transitorie in materia processuale, con la conseguenza del protrarsi di una situazione di incertezza fino all’intervento della Suprema Corte, con pronuncia a Sezioni Unite, così che è positivo il fatto che il legislatore in questo caso provveda all’emanazione di una norma transitoria, assumendosene la correlativa responsabilità politica. D’altro canto, però, non può sottacersi che la retroattività della norma processuale è cosa eccezionale rispetto ai principi e si giustifica soltanto allorché siano coinvolti pregnanti valori giuridici che la norma vigente al momento del compimento dell’atto disconosceva e che la norma successiva invece riconosce. La previsione pertanto di una generalizzata rilevabilità ed eccepibilità, in ogni stato e grado del giudizio, dei profili di nullità e inutilizzabilità emersi soltanto con la legge successiva, non appare condivisibile. La disciplina transitoria deve tendere infatti ad un raccordo funzionale tra le nuove disposizioni normative e quelle previgenti, evitando in ogni caso che possano mettersi in moto meccanismi che rendano invalidi atti processuali formati, a suo tempo, nel rispetto delle regole processuali. Le perplessità rilevate pongono in luce come gli effetti processuali delle norme in esame si riverbererebbero sull’organizzazione e sul funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Anche altre disposizioni del progetto di legge in esame si prestano ad una lettura problematica. L’art. 5 non chiarisce se faccia riferimento ai casi di « concelebrazione » delle rogatorie o alle ipotesi di mera partecipazione delle Autorità giudiziarie italiane alle rogatorie espletate all’estero nel loro interesse dalle Autorità straniere. In quest’ultimo caso, la norma contrasterebbe con la regola di diritto internazionale in base alla quale gli atti assunti dall’Autorità giudiziaria straniera in accoglimento di una richiesta di assistenza giudiziaria avanzata da un altro Paese devono uniformarsi alla « lex loci ». Tali riserve, legate ad una lettura estensiva della norma, potrebbero essere superate dall’applicazione giurisprudenziale, ma un intervento chiarificatore risulterebbe quanto mai opportuno eliminando ogni perplessità. La preoccupazione che il comma 1 dell’art. 5 introduca ancora una volta una sanzione generalizzata di inutilizzabilità non ha fondamento proprio alla luce del tenore del comma
— 1441 — 2 dell’art. 5 che fa espresso riferimento alle sanzioni previste dal nostro ordinamento interno, in nulla innovando rispetto al regime vigente delle inutilizzabilità. Tanto considerato il Consiglio delibera di trasmettere al Ministro della Giustizia la presente Risoluzione per le iniziative di sua competenza. » Sulla punibilità nella Confederazione Svizzera del genocidio commesso all’estero La legge federale elvetica del 24 marzo 2000 — « concernente la modifica del Codice penale, del Codice penale militare e della procedura penale federale » — ha tra l’altro introdotto, sotto il Titolo dodicesimo bis del Codice penale svizzero (Reati contro gli interessi della comunità internazionale), la figura del crimine di genocidio (art. 264; v. anche art. 260 bis) demandandolo alla competenza della giurisdizione federale. Per quanto più direttamente concerne l’ambito di questa nostra rubrica, va ricordato che, alla stregua del nuovo art. 264 n. 2, « È punibile anche chi commette il reato all’estero, se si trova in Svizzera e non può essere estradato » (11). Le nuove previsioni della legge federale sono entrate in vigore il 15 dicembre 2000. La scrivania e il magistrato inglese di collegamento « Unici indizi le guarnizioni in ottone, le dimensioni ridotte, l’identikit di un funzionario zelante che avrebbe ordinato di spostare il mobile fatto restaurare dal comunista Oliviero Diliberto. È iniziata così l’ennesima caccia alla scrivania che fu di Palmiro Togliatti, Guardasigilli tra il ’45 e il ’46, scatenata in via Arenula dallo staff del ministro della Giustizia Roberto Castelli. Battuti dunque i corridoi del palazzo finché lo scrittoio è stato individuato nella stanza 333. Quella della dottoressa Sully Cullen, magistrato di collegamento con la Gran Bretagna. » (D. MART., Un magistrato inglese aveva « conquistato » la scrivania di Togliatti, in Corriere della Sera del 1o agosto 2001, p. 10). L’Italia e la ‘‘buona prassi’’ europea nell’assistenza giudiziaria Sulla base dell’articolo K. 3 § 2, lett. b) del Trattato sull’Unione europea, in data 25 giugno 1998 il Consiglio dell’Unione ha adottato un’‘‘azione comune’’ (98/427/GAI) sulla buona prassi nell’assistenza giudiziaria in materia penale (Gazz. Uff. n. L 191 del 7 luglio). Nell’art. 1, § 1, si prevedeva che ogni Stato dovesse depositare, presso il segretariato generale del Consiglio, ‘‘una dichiarazione di buona prassi nell’eseguire le rogatorie degli altri Stati membri, compresa la trasmissione dei risultati, e nel trasmettere agli altri Stati membri richieste di assistenza giudiziaria in materia penale’’ (12). Nel mese di febbraio 2000 è stato pubblicato I’insieme (ISBN 92-824-1810-3) delle dichiarazioni dei vari Paesi membri dell’Unione. Facciamo seguire il testo della dichiarazione italiana: Per le richieste di rogatoria provententi dall’estero. 1. Quando una richiesta di assistenza giudiziaria in materia penale viene trasmessa tramite autorità centrale, il Ministero della giustizia assicurerà in ogni caso il suo celere inoltro e darà priorità assoluta alle commissioni rogatorie contrassegnate dalla dicitura « ur-
(11) È fatto peraltro salva — in forza di un richiamo espresso — l’applicabilità dell’art. 6 bis n. 2, alla stregua del quale « L’imputato non è più punito nella Svizzera: se nello Stato del luogo della commissione è stato assolto dal reato con sentenza irrevocabile; se la pena inflittagli all’estero è stata scontata o condonata oppure è prescritta ». La norma si completa con la previsione secondo cui « Se il colpevole ha scontato all’estero solo in parte la pena, questa parte gli sarà computata nella pena da pronunciare ». (12) Per il testo completo v. anche Documenti Giustizia, n. 6/2000, c. 1479.
— 1442 — gente » o nelle quali sia stato evidenziato un termine, inoltrandole alle competenti autorità giudiziarie entro tre giorni dal loro arrivo con il mezzo più celere utilizzabile e segnalandone l’urgenza. 2. Il Ministero della giustizia assicurerà l’osservanza delle medesime modalità in caso di restituzione degli atti di esecuzione della rogatoria per il suo tramite, eccettuata l’ipotesi in cui sia necessario svolgere operazioni particolarmente complesse. 3. Il Ministero della giustizia inviterà le competenti autorità giudiziarie in conformità alla azione comune sulla buona prassi a trattare le richieste di assistenza giudiziaria in materia penale provenienti da uno Stato membro dell’Unione europea osservando le seguenti modalità: a) eccettuati i casi in cui è possibile fornire una rapida risposta e quelli in cui è stata richiesta una notificazione, il procuratore generale presso la competente Corte di appello darà tempestiva comunicazione dell’avvenuta ricezione della richiesta di rogatoria direttamente all’autorità richiedente, anche a mezzo telefono, nei casi in cui ciò sia stato richiesto esplicitamente o sia stata evidenziata l’urgenza o sia stato indicato un termine per l’esecuzione; b) il giudice delegato all’esecuzione della rogatoria comunicherà direttamente anche a mezzo telefono, all’autorità richiedente la data ed il luogo di esecuzione della rogatoria; c) nelle predette comunicazioni all’autorità richiedente il procuratore generale ed il giudice delegato forniranno i propri dati identificativi ed i numeri di telefono e di fax; d) in caso di totale o parziale impossibilità di dar seguito alla rogatoria o di rispettare il termine indicato, il giudice delegato alla esecuzione della stessa comunicherà ciò tempestivamente all’autorità richiedente, indicando possibili soluzioni alternative. Per le rogatorie formulate dall’autorità giudiziaria ilaliana per l’estero. 1. Il Ministero della giustizia inviterà le competenti autorità giudiziarie, in conformità all’azione comune sulla buona prassi, ad indicare nella richiesta di assistenza giudiziaria in materia penale indirizzata ad uno Stato membro dell’Unione europea: a) il trattato o l’accordo internazionale in base al quale s’intende richiedere assistenza giudiziaria; b) i dati identificativi dell’autorità giudiziaria richiedente ed i suoi numeri di telefono e di fax; c) i motivi in base ai quali la richiesta di rogatoria è stata definita « urgente » o è stato indicato un termine. 2. Il Ministero della giustizia procederà ad un primo esame dello stato di applicazione dell’azione comune entro il dicembre 2000, ripetendo lo stesso ogni anno.