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INTRODUZIONE IL DIRITTO PENALE 1. I tre aspetti del diritto penale moderno Il diritto penale è il complesso delle norme di diritto pubblico che prevedono quei particolari fatti illeciti, per i quali sono comminate conseguenze penali, variabili anche in rapporto alla personalità dell'autore. Fatto, personalità, conseguenze, sono i tre pilastri su cui poggia il diritto penale moderno e i tre fondamentali capitoli della moderna scienza penale. Il fatto illecito costituisce la base fondamentale ed insopprimibile del diritto penale: senza il fatto o prescindendo da esso avremmo un diritto penale delle intenzioni, poliziesco e liberticida. La personalità dell'autore è il momento illuminante ed umanizzante del diritto penale moderno, il cui vero oggetto non può che essere costituito dall'azione di un uomo che ha una sua personalità. La personalità dell’autore rileva anche in rapporto alle conseguenze penali che non potrebbero conseguire alcuna finalità razionale se prescindessero da essa. Le conseguenze penali sono il marchio che contrassegna e contraddistingue, formalmente, l'illecito penale da ogni altro illecito giuridico e costituiscono gli strumenti di dissuasione e rieducazione attraverso cui ogni società organizzata combatte e controlla il fenomeno della criminalità. Rispetto al fatto, alla personalità ed alle conseguenze si pongono i tre perenni e ricorrenti problemi del diritto penale: 1) nell'ambito dei fatti umani quali sono i fatti che vengono selezionati come reati e in base a quali criteri avviene la criminalizzazione? 2) chi delinque è libero, determinato o condizionato? 3) quali sono gli strumenti penali più idonei per contenere la delinquenza, prevenendo la caduta e la ricaduta nel reato?

1. Il fatto criminoso Primo e lacerante problema delle scienze criminali è la definizione di criminalità: la criminalità è una realtà ontologico-naturalista o una mera creazione politico-sociale, una entità giusnaturalistica o un semplice dato giuspositivistico? Il diritto penale presenta, accanto ad un largo coefficiente di variabili storiche, un nucleo sostanziale di costanti, indipendenti dalle valutazioni contingenti dei singoli legislatori e dal mutare delle strutture politiche economiche e sociali. Il diritto penale, perciò, se è anche politica, non è tutto politica. Nondimeno il diritto penale è, in misura determinante, condizionato anche dalla politica e quindi dalla storia, poiché ogni sistema presenta anche le variabili criminali, strettamente dipendenti dal tipo di ordinamento politico sociale. E proprio rispetto all'area delle varianti storiche, il diritto penale più di ogni altro ramo del diritto è lo strumento più immediato per proteggere ma anche per negare i diritti umani fondamentali. Come la sua non sempre lusinghiera storia comprova, esso può svolgere la funzione: 1) di un diritto penale dell'oppressione, rispondente in passato agli ordinamenti di tipo assolutistico; 2) di un diritto penale del privilegio, tipico delle società strutturate su profonde discriminazioni tra classi sociali; 3) di un diritto penale della libertà, che in una equilibrata sintesi delle posizioni della vittima e del reo, da un lato tuteli i diritti fondamentali dei cittadini e gli interessi della comunità sociale; dall'altro assicuri ai soggetti agenti la certezza e l'eguaglianza giuridica.

1. La personalità dell’autore Il problema dominante in materia, se cioè chi delinque sia libero, determinato o condizionato nelle proprie azioni, è invece più strettamente dipendente dalla premessa filosofico-scientifica. Sotto questo profilo si possono storicamente distinguere tre tipi fondamentali di diritto penale: 1) un diritto penale della responsabilità morale, che pone a proprio fondamento il postulato della libertà assoluta indifferenziata del volere dell'uomo come causa cosciente e libera


(perciò irresponsabile), e del proprio agire. 2) un diritto penale della pericolosità sociale, che muovendo dall'opposto postulato deterministico per cui l'uomo è determinato al delitto da cause inerenti alla sua struttura biologica o all'ambiente sociale in cui è vissuto, si fondano non sulla responsabilità morale ma sulla pericolosità del soggetto. 3) un diritto penale misto, fondato sul dualismo responsabilità-pericolosità. Con l'apertura del diritto penale moderno verso la personalità del soggetto si è gettato un ponte tra il diritto penale e la criminologia. Pur nella loro autonomia di scienze il diritto penale e la criminologia vivono in un rapporto di complementarietà necessaria ed di interdipendenza.

1. Le conseguenze penali Il problema delle misure penali adottabili per combattere la criminalità è condizionato sia dalla premessa politico-ideologica sia dalla premessa filosofico-scientifica. Quanto alla premessa filosofico scientifica troviamo tre tipi di soluzioni fondamentali, rappresentate: 1) dal sistema classico della pena per il quale si punisce perché è stato commesso un reato; 2) dal sistema positivistico delle misure di sicurezza, che rappresenta invece l'espressione di un diritto penale della pericolosità sociale; 3) dal sistema dualistico o del doppio binario, caratterizzato dalla coesistenza della pena e delle misure di sicurezza. In sintesi, la scienza penale moderna abbraccia nel proprio campo di indagine non solo il diritto penale ma anche le acquisizioni della criminologia e la politica penale.

I DIVERSI TIPI DI DIRITTO PENALE 1. Il diritto penale dell’oppressione Le forme più drastiche di diritto penale dell'oppressione si ebbero innanzitutto con l'assolutismo monarchico, dove il diritto penale fungeva da strumento dello strapotere del dispotismo regio e dell'aristocrazia, e con gli ordinamenti totalitari.

1. Il diritto penale del privilegio Il passaggio attraverso la rivoluzione francese dallo stato assoluto allo stato liberale, che vede nell'individuo l'unica realtà e nei gruppi sociali una pura somma di soggetti, segna il passaggio dal diritto penale dell'oppressione al diritto penale del privilegio. Ma proprio perché concepito come strumento di conservazione delle fondamentali condizioni di vita di una società, il diritto penale liberale fatalmente svolse una funzione conservatrice del privilegio delle classi più ricche, le vere destinatarie della libertà liberale. La crisi dello stato liberale, sotto la spinta di nuove concezioni dei rapporti tra stato e di individuo, porta alla nascita del totalitarismo, tragica connotazione di questo secolo. Nell'Europa occidentale il totalitarismo penale segna un drastico ritorno al diritto penale dell'oppressione, che ha trovato la sua più esasperata e paradigmatica espressione nell'ambito del totalitarismo penale nazista.

1. Il diritto penale della libertà. Il principio di frammentarietà Data l'irrinunciabilità storica della coercizione, il problema è di concepire e costruire il diritto penale non solo come limite alla libertà ma come strumento di libertà. Presupposto primo è la scelta di fondo tra le due contrapposte concezioni, cui sono riconducibili le diverse soluzioni dei problemi di tutela dell'uomo: 1) l'utilitarismo, collettivistico, maggioritario o individualistico, che concepisce l'essere umano come mera entità bio-socio-economica; 2) il personalismo, che afferma il primato dell'uomo come valore etico in sé con il divieto di ogni strumentalizzazione per finalità extra-personali. Un diritto penale a tutela della libertà e dignità umana deve restare inderogabilmente ancorato al principio personalistico operando nella duplice direttrice di fondo: 1) della liberalizzazione del diritto penale, che deve essere strumento non di compressione, ma di protezione, su un piano di uguaglianza e senza discriminazioni, dei diritti umani e delle libertà inviolabili contro le aggressioni di chiunque, soggetto privato o pubblico che sia; 2) della socializzazione del diritto penale, nel senso che deve fungere anche da strumento di tutela degli interessi collettivi e di propulsione del processo di omogeneizzazione sociale e di attuazione delle finalità dello stato sociale di diritto. Il principio di necessarietà si articola nei sottostanti principi: 1) della meritevolezza (o proporzionalità) della tutela penale;


2) di sussidiarietà del diritto penale, dovendosi ad esso ricorrere come extrema-ratio; 3) di legalità, che rappresenta il completamento tecnico del principio di necessarietà.

1. La costituzione e il nuovo diritto penale Al fine di una rifondazione in termini costituzionali del diritto penale italiano, la costituzione va considerata nella triplice prospettiva: 1) dei principi fondamentali di carattere penale in essa contenuti; 2) dei diritti di libertà da essa consacrati; 3) delle clausole qualificanti il tipo del nostro ordinamento. Nell'attuale ordinamento costituzionale, il principio personalistico ed il principio solidaristico-sociale costituiscono i limiti fondamentali alle scelte del legislatore penale delle linee di sviluppo del diritto penale italiano, che deve servire pertanto come strumento di attuazione dei due pilastri costituzionali dell'articolo 2 dell'articolo 3, nella loro pressoché inesauribile portata e nei contenuti via via percepiti. Il nostro diritto penale è, pertanto, costituzionalmente investito della duplice funzione: 1) di tutela dei diritti inviolabili dell'uomo, come singolo e nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità: contro soggetti privati, i soggetti pubblici e quella varietà di gruppi, più o meno istituzionalizzati, dentro i quali i diritti del singolo sono compressi e fuori dei quali sono sempre più misconosciuti. 2) di propulsione per l'adempimento dei doveri individuali di solidarietà economica e sociale e per la rimozione degli ostacoli economico-sociali che si oppongono alla omogeneizzazione sociale e predispongono alla criminalità.

1. Gli aspetti autoritari del codice penale Venuto alla luce nel 1930, in pieno regime autoritario, il codice penale Rocco tuttora vigente è stato profondamente vulnerato da entrambi gli eventi che portano alla riforma di una legislazione: l'intervenuto mutamento politico istituzionale e l'usura del tempo. Alle istanze di liberalizzazione e di socializzazione del diritto penale, espresse dalla nuova costituzione, il codice del 1930 contrappone ora, nella sua duplice anima autoritaria e borghese, un diritto penale sotto certi aspetti dell'oppressione e del privilegio.

1. Gli aspetti anacronistici del codice penale L'anacronismo del codice del 1930 si è andato rivelando, con il passare del tempo, sia nell'esistenza di norme incriminatrici ancorate a valori che l'attuale società non sente più come tali, sia nella mancanza di norme incriminatrici di cui la società attuale sente l'esigenza, sia nella sproporzione, per eccesso o per difetto, tra le pene previste e i valori tutelati.

1. Le riforme effettuate e preannunciate È certamente vero che le grandi riforme presuppongono una società saldamente strutturata attorno a taluni nuovi principi, che nell'attuale crisi della società in genere e di quella italiana in particolare non sono ancora emersi. Ma è pur vero che le esigenze innovative, provenienti dalla nuova costituzione e dalla mutata realtà socio culturale, hanno trovato solo principi di attuazione nella nostra legislazione penale, che in consistente misura è rimasta ferma al codice del 1930.

IL PRINCIPIO DI LEGALITA’ ARGOMENTO IN SINTESI. La genesi di tale principio risale alla teoria del contratto sociale ed al pensiero illuministico proteso ad eliminare gli arbitri e i soprusi dello stato assoluto nei confronti dei cittadini. Il principio di legalità attualmente è statuito sia dall’art. 25/2 della Cost. che dall’art. 1 del c.p.. La norma costituzionale sancisce che nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso, mentre la disposizione penale statuisce che nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite. Nonostante l’art. 25/2, diversamente dall’art. 1 c.p., non menzioni l’avverbio espressamente e non faccia alcun riferimento alle pene, è da ritenere che le due norme di legge abbiano la stessa ratio ed un contenuto del tutto corrispondente. Il principio di legalità si scompone in quattro sotto principi: la riserva di legge, la tassatività della fattispecie penale, l’irretroattività della legge penale e il divieto di analogia in materia penale. La riserva di legge vieta di sanzionare penalmente un fatto in assenza di una legge preesistente che lo configuri come reato. Il riservare esclusivamente al legislatore la potestà normativa in materia penale risponde ad esigenze di garanzia sia formali che sostanziali e tutela i diritti delle minoranze e delle forze politiche dell’opposizione. La riserva di legge, nonostante alcune sentenze in senso contrario della Cassazione, deve intendersi come riserva assoluta; esistono tuttavia, in seno alla dottrina, delle divergenze relativamente alla sua portata e ai suoi limiti. Il principio di tassatività attiene invece alla tecnica di formulazione delle norme che mira principalmente a salvaguardare i cittadini dagli abusi del potere giudiziario imponendo che le norme siano formulate in modo chiaro e preciso, di modo che sia dato al cittadino distinguere senza possibilità di errore ciò che è lecito da ciò che non lo è . Gli


strumenti di tecnica legislativa che attengono alla redazione delle fattispecie penali si distinguono in elementi descrittivi ed elementi normativi; questi ultimi a loro volta si suddividono in giuridici ed extragiuridici. Gli elementi descrittivi, detti anche elementi rigidi, sono quelli che meglio salvaguardano il principio di tassatività : essi traggono il loro significato direttamente dell’esperienza del mondo materiale ed esprimono concetti chiari e univoci come uomo, casa, animale, morte ecc.. Gli elementi normativi, invece, necessitano per la determinazione del loro contenuto il rinvio a norme diverse rispetto a quella incriminatrice: questa etero integrazione può riguardare, come anticipato in precedenza, norme giuridiche, come nel caso dell’altruità della cosa nel reato di furto, oppure norme extragiuridiche, sociali, etiche e di costume, come la morale, il pudore e l’onore, concetti questi, che, sfuggendo ad un’esatta definizione, lasciano al giudice larghi margini di discrezionalità, con conseguente sacrificio del principio di tassatività che viene in questo modo inevitabilmente eluso. Per quanto riguarda il principio di irretroattività , bisogna sottolineare che esso, nonostante sia previsto per tutte le leggi dall’art. 11 delle disposizioni preliminari (la legge non dispone che per l’avvenire, essa non ha effetto retroattivo), ha rilievo costituzionale, come si desume dall’art. 25/2 Cost., solo riguardo la materia penalistica. Tale principio vieta di applicare la legge penale a fatti commessi prima della sua entrata in vigore. Il divieto di analogia in materia penale, infine, si desume espressamente dall’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale e implicitamente dall’art. 1 c.p. (nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente previsto dalla legge come reato). Esso vieta l’applicazione analogica di sanzioni penali relativamente a fattispecie non espressamente previste e disciplinate dal legislatore; è tuttavia un principio avente una valenza relativa, in quanto è ammessa in materia penale l’analogia in bonam partem.

IL PROBLEMA DELLA LEGALITA’ 1. La legalità formale Il principio di legalità formale esprime il divieto di punire un qualsiasi fatto che, al momento della sua commissione, non sia espressamente preveduto come reato dalla legge e con pene che non siano dalla legge espressamente previste. Tale principio implica, pertanto, una nozione formale di reato, dovendosi considerare reato solo ciò che previsto come tale dalla legge. Nel diritto italiano, il principio di legalità ha trovato solenne consacrazione nel codice liberale del 1889. Nonostante l'avvento del nuovo regime autoritario, sopravvisse anche nel codice del 1930 sino a raggiungere con la nuova costituzione italiana il ruolo di fondamento del sistema penale italiano, sancendo l'articolo 25 che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso" e che "nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge".

1. La legalità sostanziale Il principio di legalità sostanziale sta, invece, a significare che reati debbono essere considerati i fatti socialmente pericolosi, anche se non espressamente previsti dalla legge, e che ad essi vanno applicate le pene adeguate allo scopo. Esso implica una nozione sostanziale di reato, dovendosi considerare reato tutto ciò che offende l'ordine sociale di un determinato tipo di stato. Il principio di legalità sostanziale esprime una scelta politica collettivistico-utilitaristica a favore della difesa sociale, ma anche l'esigenza di una più sostanziale e reale giustizia.

1. I vantaggi e gli inconvenienti Il principio di legalità formale svolge una insostituibile funzione garantista del cittadino in quanto tende ad evitare l'arbitrio del potere esecutivo e del potere giudiziario e ad assicurare la certezza dell'eguaglianza giuridica. Due sono però le critiche di fondo: di costituire un ostacolo alla difesa sociale contro il crimine e di legittimare fratture tra criminalità legale e criminalità reale. Il principio di legalità sostanziale può assicurare senza dubbio una più efficace difesa sociale. Ma in quanto si fonda su una nozione materiale di reato ricavabile da fonti extralegali che troppo spesso sfuggono alla possibilità di una conoscenza obiettiva, elide la certezza del diritto ed apre le porte all'arbitrio e alle discriminazioni più gravi. Mentre il principio di legalità sostanziale comporta un adeguamento pressoché automatico del diritto penale al divenire della realtà sociale, per un tale adeguamento il principio di legalità formale richiede continui e tempestivi interventi legislativi. Un diritto penale della libertà non può rinunciare alla conquista civile del principio del “nullum crimen nulla poena sine lege”, che ha una funzione insostituibile di garanzia del cittadino.

1. La concezione formale del reato Per la concezione formale il reato è tutto ciò e solo ciò che è previsto dalla legge come tale. Considerato in astratto (c.d. aspetto precettivo) il reato è il fatto tipico. La tipicità, cioè l'essere il fatto descritto per tipi legali, è un carattere essenziale del reato. Considerato in concreto (c.d. aspetto fenomenico), ossia come fatto storico che si verifica nella realtà sociale, il reato è il fatto conforme al fatto tipico, alla


fattispecie legale. La conformità alla fattispecie legale è ciò che consente di considerare il fatto concreto come reato. Poiché ciò che contraddistingue la norma penale è la particolare sanzione da essa strettamente comminata, cioè la pena, reato è ogni fatto per il quale la legge istituisce una pena criminale. Come sancisce l'articolo 39, sono delitti i reati per i quali sono comminate le pene della morte, dell'ergastolo, della reclusione o della multa. Sono contravvenzioni i reati puniti con l'arresto o l'ammenda.

1. La concezione sostanziale del reato Per la concezione sostanziale reato è tutto ciò e solo ciò che è, in misura rilevante, socialmente pericoloso. Postulata tale nozione di reato in astratto, il reato in concreto è il fatto storico che si rileva pericoloso per la società: ciò che contrassegna il fatto come reato è la sua concreta pericolosità sociale. Su una nazione sostanziale di reato si fondava il diritto penale della Germania nazionale socialista.

1. La concezione sostanziale-formale adottata dalla Costituzione La costituzione italiana accoglie una concezione del reato né meramente formale né integralmente sostanziale bensì sostanziale-formale. Essa tende a realizzare tale compenetrazione, da un lato confermando la propria rigorosa fedeltà al "nullum crimen nulla poena sine lege", ma dall'altro imponendo di positivizzare nella legge i valori e le finalità da essa espressi. Pertanto, reato deve essere considerato solo ciò che è previsto dalla legge come tale in conformità alla costituzione: non solo per quanto riguarda i connotati strutturali-formali, ma anche e ancor prima per quanto concerne i valori tutelati.

IL PROBLEMA DELLA SCIENZA PENALE 1. Cenni storici Convenzionalmente si fa risalire la nascita della moderna scienza penale all'irrompere del pensiero illuministico imponendosi con esso il problema dei rapporti tra diritto penale e ideologia. Mai nessuna epoca fu, e forse mai sarà, così creativamente feconda per le scienze criminali come il secolo XIX.

1. Gli indirizzi formalistici e sostanzialistici Il problema della scienza penale è il problema dell'oggetto e dei metodi di indagine della medesima. La storia della scienza penale è caratterizzata dalla contrapposizione dialettica tra forma e sostanza, che trova la propria espressione nei ricorrenti indirizzi formalistico-giuspositivistici e sostanzialistico- metapositivistici. Pur se profondamente differenziati nelle premesse e nelle finalità, sul terreno pratico gli indirizzi formalistico-giuspositivistici ci presentano il carattere comune di limitare l'oggetto della scienza penale al diritto penale positivo, teorizzando il culto della legge e l'assoluta fedeltà ad essa, e rappresentano l'espressione più rigorosa del principio della legalità formale. Riflettendo come questo una esigenza statica, di conservazione e di stabilizzazione, trovano puntuale riscontro nelle società stabilmente strutturate sulle leggi condivise dalla coscienza sociale e in cui il diritto scritto soddisfa i bisogni della realtà sociale oppure in certi stati autoritari in cui la volontà statale espressa dalla legge non è oggetto di discussione. Nell'uno e nell'altro caso la scienza giuridica si limita ad una attività conoscitiva e di sistematizzazione del diritto positivo. Pur muovendo da premesse e finalità diverse od opposte, gli indirizzi sostanzialistico metapositivistici presentano il carattere comune di allargare l'oggetto della scienza penale ad altre fonti sostanziali, dovendosi attingere diritto anche al di fuori o contro la legge. Esprimendo come queste esigenze dinamiche, di innovazione e trasformazione, essi trovano soprattutto riscontro nei periodi di profonde crisi o di rivoluzioni, in cui il diritto positivo collide con la mutuata realtà sociale o ne frena il processo di trasformazione. Sicché la funzione della scienza giuridica non è più conoscitiva ma creativa del diritto, concorrendo a dare vita ad un ordinamento giuridico nuovo.

1. La situazione attuale della scienza penale Per quanto concerne la scienza penale italiana, essa dopo le brevi aperture dell'immediato dopoguerra, si è venuta richiudendo sui temi del proprio oggetto, del proprio metodo e della propria identità, parallelamente alle battute d'arresto seguite nel processo verso una più reale democrazia, segnata dalla nuova costituzione. Contro il pericolo di evoluzioni sostanzialistiche soprattutto in senso socialista, si ha una riaffermazione del dogma statalistico-giuspositivistico e del metodo tecnico-giuridico. Rotto il tradizionale nazionalismo tecnico giuridico, la scienza penale italiana si è reinserita nel pensiero


penalistico-criminologico internazionale, oltre i consueti scambi dogmatici con la Germania e criminologici con altri paesi.

IL PRINCIPIO DELLA RISERVA DI LEGGE ARGOMENTO IN SINTESI. Il principio della riserva di legge attiene alla questione delle fonti del diritto penale. In forza di tale principio, di origine illuministica, le fonti del diritto penale sono limitate alla legge, ed agli atti aventi forza di legge. La ratio della riserva di legge va individuata nella necessità di attribuire in via esclusiva il potere di creare norme incriminatrici all’organo deputato dall’ordinamento all’esercizio della funzione legislativa, ossia il Parlamento, organo di natura assembleare e rappresentativa. Ciò in quanto la norma incriminatrice è idonea a limitare la libertà personale del cittadino, ossia il bene più incisivamente tutelato dall’ordinamento. In tal modo, si realizza la tutela di tale bene fondamentale, preservandolo dagli arbitrii del potere giudiziario (il giudice è subordinato alla legge) e del potere esecutivo. Per la norma incriminatrice deve intendersi la norma che delinea il tipo di reato, e che determina la pena prevista per ognuno di essi. La riserva di legge può essere assoluta o relativa. E’ assoluta qualora solo un atto avente forza di legge può prevedere una norma incriminatrice. E’ relativa allorché sia consentito delegare a fonti inferiori alla legge la specificazione di taluni elementi costitutivi dell’incriminazione, lasciando all’organo legislativo il potere di fissare le linee fondamentali. Nel nostro ordinamento la riserva di legge va intesa in senso assoluto ancorché siano ammissibili integrazioni mediante fonti inferiori relative ad elementi marginali dell’incriminazione (art. 1 c.p.; art. 25 Cost.). La riserva di legge è statale onde non è consentito alle regioni emanare norme penali. Le norme comunitarie non possono essere fonte dirette di norme penali; è necessario una legge statale che recepisca la norma comunitaria.

1. Il problema delle fonti, formali e sostanziali Il principio di legalità formale si articola in tre sottostanti principi interdipendenti e inscindibili:1) il principio della riserva di legge; 2) il principio di tassatività; 3) il principio di irretroattività. Oltre che negli articoli 1, 2, 199, c.p., il principio di legalità nel suo triplice contenuto è sancito nei 2 capoversi dell'articolo 25 Cost.

1. La funzione della riserva di legge Di fronte alla pluralità di fonti, formali e sostanziali, l'avvento storico del principio della riserva di legge ha inteso riservare il monopolio normativo penale al potere legislativo, circoscrivendo pertanto le fonti del diritto penale alla sola legge o agli atti aventi forza di legge. La funzione della riserva di legge non consiste nella salvaguardia della certezza giuridica, cui provvede invece il principio di tassatività, oltre che per altro profilo quello dell'irretroattività. La ratio della riserva di legge consiste nell'attribuire il monopolio della criminalizzazione al potere legislativo con il duplice scopo: a) di evitare una prima possibilità di arbitrio del potere giudiziario; b) di evitare ancor prima l'arbitrio del potere esecutivo.

1. La consuetudine Nell'ordinamento italiano la consuetudine occupa l'ultimo posto nella gerarchia delle fonti e le è riconosciuta soltanto una funzione integratrice, non mai abrogatrice. Per questo motivo è relegata ai margini del diritto penale, essendo questo dominato dal principio della riserva di legge. In particolare viene unanimemente negata in base a tale principio ogni efficacia alla consuetudine che operi praeter legem a danno della libertà del soggetto nel senso di dare vita a reati o sanzioni diversi da quelli previsti dalla legge. Viene parimenti negata ogni efficacia alla consuetudine abrogatrice o desuetudine, che operi contra legem a vantaggio del soggetto nel senso di abrogare norme incriminatrici o comunque pregiudizievoli per il soggetto. Più controverso è il problema se sia ammissibile una consuetudine contra legem, derogatrice, nel senso cioè di creare nuovi tipi di scriminanti diversi da quelli previsti dalla legge penale. Di consuetudine secundum legem o integrativa sembra possa parlarsi a proposito delle disposizioni penali che rinviano, esplicitamente o implicitamente, a norme di rami dell'ordinamento giuridico in cui la consuetudine può essere fonte di diritto. Concorde è, infine, la dottrina nel riconoscere grande importanza alla consuetudine secundum legem cosiddetta interpretativa. Essa non opera appunto nei limiti della norma o in opposizione ad essa, ma agisce al suo interno in quanto serve per determinare, via via, il significato di quegli elementi della fattispecie, definiti secondo criteri sociali di valutazione, mutevoli nel tempo e nello spazio.

1. La riserva relativa e assoluta Per la riserva relativa il legislatore è tenuto a fissare le linee fondamentali della disciplina con facoltà di affidarne il completamento all'amministrazione. Per la riserva


assoluta solo la legge può disciplinare la materia riservata, con esclusione dell'intervento di norme secondarie anche in ordine ad aspetti marginali della disciplina. Il problema si pone anche in campo penale. Triplice può essere il rapporto tra legge e regolamenti delegati o fonti inferiori in genere, a secondo che la legge: a) rimetta ai medesimi la sola determinazione di alcuni elementi della fattispecie da essa configurata; b) si limiti a qualificare come reato, prevenendone la sanzione, l'inosservanza di una qualunque norma che l'amministrazione emanerà in certe materie; c) rimetta al regolamento la stessa facoltà di stabilire quali comportamenti, fra quelli che esso disciplinata, dovranno essere sanzionati. Mentre si ritiene manifestamente contraria al principio della riserva di legge l’ipotesi sub c) sopraindicata, si considera legittima l'ipotesi sub a). Incerta rimane l’ipotesi sub b), che riguarda le norme penali in bianco. Sono così chiamate perché in esse, mentre la sanzione è determinata, il precetto ha carattere generico, dovendo essere specificato da atti normativi di grado inferiore, quali i regolamenti, i provvedimenti amministrativi ecc. Fra i tanti esempi, tipico è l’art. 650 che sanziona l’inosservanza dei provvedimenti dell’autorità emanati per ragioni di giustizia, di sicurezza, di ordine pubblico, di igiene. La teoria della norma penale in bianco oscilla tra le opposte tesi che ivi ravvisano una norma senza precetto o una norma dal precetto completo. La prima si riallaccia alla c.d. concezione sanzionatoria del diritto penale, della cui validità le norme penali in bianco costituirebbero appunto la conferma. Poiché tale diritto conterrebbe soltanto le sanzioni di precetti stabiliti da altri rami del diritto, è del tutto normale che la legge penale, anziché‚ ripetere il precetto extrapenale, si richiami direttamente alla fonte di esso. La seconda tesi si riallaccia, viceversa, alla concezione costitutiva del diritto penale, i cui sostenitori, al fine di negare la stessa esistenza delle norme in bianco per riconfermare il carattere costitutivo di tale diritto, hanno elargito ad esse l'apparenza di un precetto completo. E questo viene ravvisato nel dovere di obbedienza emergente dalla norma, in quanto il legislatore avrebbe inteso punire la disubbidienza come tale. Ma sorta per altre finalità, nel nuovo quadro costituzionale l'idea di una norma senza precetto porterebbe, automaticamente, a considerare la norma in bianco sic et simpliciter come contraria alla riserva di legge. E, viceversa, l'idea di una norma completa porterebbe, automaticamente, ad affermarne la conformità. Fuori da apriorismi fuorvianti, la verità è che le norme in bianco costituiscono una autonoma categoria di norme. Se è incontestabile che sono munite di precetto, è altrettanto vero che si tratta di precetto generico, esaurentesi in una mera enunciazione di un “obbligo di ubbidienza”, senza indicare le “condotte disubbidienti”. Pertanto esso ha bisogno, per concretizzarsi e divenire attuale, di essere integrato dal contenuto di atti normativi secondari: che si scriva “nero” sul “bianco”. Ed è proprio in rapporto a questa peculiarità delle norme in bianco che va posto il problema della loro costituzionalità: a) con riferimento innanzitutto al principio della riserva di legge, poiché‚ solo in caso di risposta positiva va poi esaminato, caso per caso, se la norma in bianco sia “integrata” dall'atto normativo di grado inferiore in termini sufficientemente “determinati” da soddisfare il principio di tassatività; b) limitatamente ad atti normativi futuri, poiché‚ si ritiene che non vi sia violazione della riserva di legge quando il legislatore assoggetti a sanzione penale la inosservanza di regolamenti o provvedimenti preesistenti, legiferando egli in questi casi per relationem. Di fronte alle opposte tesi della legittimità e della illegittimità, come soluzione compromissoria, si richiede che il precetto amministrativo, che integra la norma penale in bianco, trovi a sua volta nella legge “determinazioni sufficienti”, sì da porsi come svolgimento di una disciplina già tracciata dalla legge. Ed è stata inoltre sostenuta l’assoggettabilità al controllo di costituzionalità della norma penale integrata, in modo che anche gli atti normativi integrativi vengano sottoposti al controllo costituzionale. Una soluzione al problema potrebbe essere costituita dalla decriminalizzazione della norma penale in bianco comminando, in sostituzione della pena, una non meno efficace sanzione amministrativa.

1. Le fonti del diritto penale italiano Il principio della riserva di legge vale sia per le norme incriminatrici che per quelle scriminanti oppure modificative o estintive delle conseguenze sanzionatorie e non solo per i delitti, ma anche per le contravvenzioni. Il termine legge viene pressoché concordemente inteso in senso espansivo, comprensivo della legge in senso tecnico e degli atti ad essa il equiparati. Pertanto, in base all'attuale ordinamento costituzionale, le fonti del diritto penale sono: 1) le leggi formali, che comprendono, oltre alla costituzione e dalle leggi costituzionali emanate dall'assemblea costituente, gli atti normativi emanati dal parlamento, cioè le leggi


costituzionali e, in particolare, le leggi ordinarie. 2) le leggi materiali, cioè gli atti emanati da organi diversi dal potere legislativo ma aventi forza di legge: le leggi delegate o decreti legislativi, emanati dal governo su delegazione del potere legislativo; i decreti legge, emanata su propria responsabilità dal governo in casi straordinari di necessità e di urgenza; nonché i decreti governativi in tempo di guerra, emanati sulla base dei poteri necessari conferiti dalle camere al governo. Pure non senza dissensi, si propende a considerare fonti penali anche i bandi militari, emanati dall'autorità militare con forza di legge nella zona territoriale in cui si esplica il comando. Circa il diritto internazionale si è sempre ritenuto che esso non possa costituire fonte diretta di diritto penale. La riserva di legge non vieta al legislatore di emanare leggi personali o singolari, dirette cioè a singoli soggetti individualmente indicati o, comunque, identificabili a priori, anche in rapporto a fatti commessi.

1. I principali testi legislativi La principale fonte del diritto penale vigente è costituita del codice penale integrato dalle disposizioni di coordinamento e transitorie e modificato da vari provvedimenti legislativi che avremo occasione di richiamare. Accanto a esso va subito ricordato l'ordinamento penitenziario il quale da luogo al diritto penitenziario, che tende sempre più a collegarsi con i diritto penale, sostanziale e processuale. Tra le tante altre fonti, che danno vita al diritto penale speciale o complementare, in senso lato, applicabile solo a particolari categorie di soggetti in ragione della loro qualità o della condizione giuridica in cui vengono a trovarsi, vanno ricordati: 1) il codice penale militare di pace ed il codice penale militare di guerra che costituiscono il diritto penale militare; 2) la legge 7/1/29, n. 4, per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie, che costituisce, assieme al D.L. n. 429/82 la fonte principale del diritto penale tributario; 3) il D.L. 20/7/34, numero 1400, per l'istituzione e il funzionamento del tribunale di minorenni che costituisce la fonte del diritto penale minorile; 4) il DPR 27/10/58, n. 956, sulla disciplina della circolazione stradale; 5) il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza che continua a sopravvivere nonostante gli attacchi della corte costituzionale ed i progetti di riforma. Per quanto riguarda la storia della legislazione penale italiana va accennato alla codificazione posteriore alla rivoluzione francese ed ispirata alla ideologia illuministicoliberale, che segna l'inizio del diritto penale moderno. Con l'avvento del regime del 1922 e la conseguente esigenza di una legislazione penale rispondente alla concezione politica del nuovo stato, il governo fu delegato con L. 24/12/25, numero 2260, ad emanare un nuovo codice. Nominato un comitato diretto dal Professor Arturo Rocco, fu dapprima elaborato un progetto preliminare, discusso dalle università, dalla magistratura e dagli organi forensi, cui fece seguito un progetto definitivo. Sentito il parere di una commissione parlamentare, il guardasigilli Alfredo Rocco formò il testo definitivo, accompagnandolo con una relazione al Re. Approvato nel 1930, esso costituisce il codice penale tuttora vigente, che è improntato soprattutto dal contributo di Arturo Rocco e Vincenzo Manzini.

IL PRINCIPIO DI TASSATIVITA’ 1. La funzione della tassatività Mentre il principio della riserva di legge attiene alle fonti del diritto penale, il principio di tassatività presiede alla tecnica di formulazione della legge penale. Esso sta ad indicare il dovere per il legislatore di procedere, al momento della creazione della norma, ad una precisa determinazione della fattispecie legale, affinché risulti tassativamente stabilito ciò che è penalmente illecito e che ciò che è penalmente lecito; e conseguentemente, per il giudice, di non applicare la stessa a casi da essa non espressamente preveduti. Principio di determinatezza e principio di tassatività, usati come sinonimi, indicano il primo il modo di costruzione della norma e il secondo l'effetto della norma determinata. Mentre il principio della riserva di legge assicura il monopolio della legge per evitare, innanzitutto, l'arbitrio del potere esecutivo, il principio di tassatività assicura innanzitutto la certezza della legge per evitare l'arbitrio del giudice, precludendogli la possibilità di punire i casi non espressamente previsti dalle legge. E con la certezza assicura, altresì, anche la frammentarietà del diritto penale, l'eguaglianza giuridica dei cittadini a parità di condotta e la possibilità di conoscere per i consociati ciò che è e ciò che non è penalmente vietato onde consapevolmente decidere il proprio comportamento. Nella costituzione italiana il principio di tassatività è desumibile in modo soltanto


implicito, ma altrettanto sicuro, dalla ratio dell'articolo 25, quale corollario e completamento logico dei principi della riserva di legge e della irretroattività.

1. La determinatezza della fattispecie Il problema cruciale della tassatività è quello di stabilire il grado di determinatezza della fattispecie, necessario e sufficiente perché tale principio possa dirsi soddisfatto. Rispondente alle esigenze di chiarezza legislativa espressa dal principio di tassatività è la tecnica di normazione sintetica, fondata sulla concentrazione delle fattispecie attorno a reali tipologie ontologiche di aggressione a ben individuati oggetti giuridici. Il principio di tassatività non postula una incompatibilità logica con la formulazione delle fattispecie in termini normativi, ma solo con quegli elementi vaghi, normativi od emozionali, che comportano la indeterminatezza del precetto. Premesso che il principio di tassatività vale per ogni fattispecie, esso è rispettato quando la fattispecie raggiunga il grado di determinatezza necessario e sufficiente a consentire al giudice di individuare, ad interpretazione compiuta, il tipo di fatto dalla norma disciplinato. Tale principio è violato quando la norma, per la indeterminatezza dei connotati, non consente di individuare, nonostante il massimo sforzo interpretativo, il tipo di fatto disciplinato. De lege lata, il principio di tassatività porta alla luce aperti contrasti tra la nuova visione costituzionale dell'illecito penale tassativo e la legislazione penale vigente, cosparsa di norme volutamente vaghe, fonti di pronunce contraddittorie e che violano lo spirito della Costituzione, a prescindere dall'esito di eventuali eccezioni di incostituzionalità . De lege ferenda, richiama il legislatore penale ad un più scrupoloso rispetto della certezza giuridica, perché corregga le norme correggibili, abroghi le incorreggibili, tipizzi le proprie scelte in forme non equivoche.

1. L’analogia L'analogia è il procedimento attraverso cui vengono risolti casi non previsti dalla legge, estendendo ad essi la disciplina prevista per i casi simili o, altrimenti, desunto dai principi generali del diritto. Nel diritto penale italiano il divieto di analogia è espressamente sancito dall'articolo 14 delle disposizioni preliminari, per il quale " le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati "; nonché dagli articoli 1 e 199 c.p., per i quali i reati, pene e misure di sicurezza sono soltanto quelli " espressamente " stabiliti dalla legge.

1. L’analogia a sfavore del reo Si discute se il divieto dell'analogia sia assoluto e relativo: se abbracci anche le norme che vanno a favore dell'imputato, quali innanzitutto le norme scriminanti, oppure sia circoscritto alle sole norme che vanno a sfavore, quali innanzitutto le norme incriminatrici. Per evitare che la fragilità di tale impostazione porti a negare, come già in passato, lo stesso divieto di analogia, anche la portata di questo divieto va ricercata, più che in esigenze puramente razionali di certezza, sul più solido piano politicogarantista, conformemente alla tradizione democratico-liberale. Se questa è la ratio storica del divieto di analogia, non vi è ragione per ritenere che l'articolo 25, nel costituzionalizzarlo, si sia discostato da tale tradizione.

1. L’analogia a favore del reo Ma quali sono le reali possibilità applicative della analogia in bonam partem? Essa sottostà, infatti, a tre limiti, rappresentati: a) dal dovere, innanzitutto, di desumere rigorosamente l'eadem ratio dal diritto scritto, di cui l'analogia costituisce un logico sviluppo, senza possibilità di alimentarla a quelle fonti sostanziali che costituiscono il vero polmone dell'analogia; b) dal fatto che anche le disposizioni a favore del reo debbono presentare, in ossequio al principio di tassatività, un necessario grado di determinatezza, che ne delimita la ratio e consente di individuare con sufficiente precisione e certezza il rapporto di similitudine che diventerebbe ben più evanescente ed incerto se ancorato a disposizioni vaghe ed indeterminate; c) dal divieto generale di analogia delle norme eccezionali che costituisce un ulteriore argine contro utilizzazioni arbitrarie e discriminatorie. Stretta fra suddetti limiti, l'analogia in bonam partem resta circoscritta ad ipotesi marginali, ma altrimenti non risolvibili in termini corretti. Di principio, non è preclusa rispetto alle norme scriminanti. Lo stesso dicasi per il principio della responsabilità dei non imputabili rispetto all'opposto principio della responsabilità degli imputabili, i quali, nei rispettivi


settori, della incapacità e della capacità di intendere e di volere, sono principi parimenti regolari. In realtà, l'analogia è però possibile solo rispetto a quelle scriminanti che non escludono già a priori la stessa possibilità di un ragionamento analogico, che non sono cioè già dalla legge previste nella loro massima portata logica o che non sono comunque formulate in termini tali da preludere che altre ipotesi extra legali siano riconducibili alla ratio della scriminante.

IL PRINCIPIO DI IRRETROATTIVITA’ 1. Il problema della validità nel tempo della legge penale Il principio della irretroattività sta a significare che la legge penale si applica soltanto ai fatti commessi dopo la sua entrata in vigore. Esso è completato dal principio della non ultra attività, per il quale la legge non si applica il fatti posti in essere dopo la sua estinzione. Delimitando verso il passato e verso il futuro la validità della legge penale, tali principi permettono di risalire al superiore principio dell'attualità della legge penale, per il quale la validità della medesima è rigorosamente circoscritta al tempo in cui essa è in vigore. L'opposto principio della retroattività trova, viceversa, il fondamento nell'esigenza, propria della legalità sostanziale, di una più efficace difesa sociale ma anche di una più sostanziale giustizia, non ritenendosi giusto lasciare impuniti, per lacune legislative, gli autori di fatti antisociali che hanno dato causa alla nuova legge penale.

1. L’irretroattività ex art. 25 Cost. Nell'ordinamento italiano la successione delle leggi in generale è regolata dal principio di irretroattività assoluta sancita dall'articolo 11 delle disposizioni preliminari per cui " la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo ". La successione delle leggi penali è regolata dal principio di irretroattività relativa, sancendo l'articolo 2 c.p. la irretroattività della legge sfavorevole e la retroattività della legge favorevole al reo. Senonché l'articolo 25 secondo comma della Costituzione, nella sua formulazione sintetica e generica, sembrerebbe sancire la irretroattività assoluta della legge penale. Nonostante la imperfetta formulazione di sintesi dell'articolo 25 non vi è ragione di ritenere che esso si sia discostato dalla tradizione.

1. La disciplina dell’art. 2 c.p. Come risulta dalla rubrica e dal testo dell'articolo 2, la successione di leggi non si ha solo nell'ipotesi di una nuova legge che modifica soltanto il trattamento penale del fatto. Ma si ha anche nell'ipotesi di una nuova legge, che incrimina un fatto che prima non era reato, e nell'ipotesi inversa in cui un fatto cessi di essere considerato reato. L'articolo 2 disciplina le possibili ipotesi di successione di leggi penali. La prima è quella della nuova incriminazione, che si ha quando una nuova legge crea una figura di reato prima non esistente oppure estende la portata di una norma incriminatrice esistente a fatti prima non rientranti in essa: qui vale il principio dell'irretroattività della legge sfavorevole. La seconda ipotesi riguarda l'abolizione di una incriminazione precedente. Essa si ha quando il fatto cessa di essere reato, in quanto una nuova legge ha abrogato la precedente figura di reato, cui tale fatto era riconducibile, oppure ne restringe la portata applicativa soltanto a taluno dei fatti in essa prima rientranti sì da escludervi il fatto suddetto: qui vale il principio della retroattività della legge favorevole. La stessa ipotesi, per così dire intermedia, concerne la successione di leggi modificative. Essa ricorre quando la nuova legge continua a considerare reato il fatto prevedendo per esso un diverso trattamento: per un fatto cioè che già prima costituiva reato e che continua ad essere tale. I criteri per distinguere la modificazione dalla abolizione è quello di stabilire se un fatto concreto costituisca o meno reato anche per la nuova legge. Nel disporre che " se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile ", l'articolo 2 terzo comma implicitamente distingue due ipotesi: a) la modificazione sfavorevole, per cui vale il principio di irretroattività; b) la modificazione favorevole, per cui vale il principio di retroattività. L'efficacia retroattiva della legge modificativa più favorevole è subordinata al fatto che non sia intervenuta sentenza irrevocabile. In caso contrario la condanna inflitta resta ferma.

1. Le leggi temporanee, eccezionali e finanziarie Il principio di per retroattività della legge favorevole incontrano le deroghe riguardanti:


a) le leggi penali temporanee; b) le leggi penali eccezionali; c) le leggi penali finanziarie. Le prime due sono previste dall'articolo 2 quarto comma, il quale appunto dispone che " se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoverso precedenti ". Temporanee sono le leggi la cui vigenza è sottoposta ad un termine prefissato dal legislatore, scaduto il quale esse cessano di esistere senza bisogno di una nuova legge abrogativa. Eccezionali sono, invece, le leggi la cui vigenza è dal legislatore subordinata al persistere di una situazione eccezionale cui debbono far fronte, cessata la quale esse pure cessano di esistere. La terza deroga al principio di retroattività della legge favorevole è prevista dall'articolo 20 della legge 7/1/29, n. 4, sulla repressione delle violazioni delle leggi finanziarie: "le disposizioni penali delle leggi finanziarie e quelle che prevedono ogni altra violazione di dette leggi si applicano ai fatti commessi quando tali disposizioni erano in vigore, ancorché le disposizioni medesime siano bloccate o modificate al tempo della loro applicazione". Essa riguarda, pertanto, la sola ipotesi in cui i alla legge penale finanziaria succeda una legge abrogativa o modificativa più favorevole, comune o finanziaria, e non anche l'ipotesi, più rara, in cui ad una legge comune succedano una legge finanziaria più favorevole, che sarà perciò applicabile retroattivamente.

1. I decreti-legge non convertiti e le leggi dichiarate incostituzionali Il decreto legge non convertito e la legge dichiarata incostituzionale cessano di avere efficacia ex tunc, con reviviscenza o riespansione retroattiva della legge sospesa in tutto o in parte dal decreto legge e di quella abrogata o limitata dalla legge incostituzionale. Non dando luogo ad un fenomeno di successione di leggi, per un corretto inquadramento del problema si distingue tra: 1. fatti pregressi, cioè commessi prima dell'entrata in vigore del decreto non convertito o della legge dichiarata incostituzionale, i quali sottostanno alla legge vigente al momento della loro commissione, anche se il decreto o detta legge è più favorevole. 2. fatti concomitanti, cioè commessi durante la provvisoria apparente vigenza del decreto non convertito o della legge poi dichiarata incostituzionale, rispetto ai quali occorre ulteriormente distinguere tra: a) l'ipotesi del decreto non convertito o della legge dichiarata incostituzionale, più sfavorevoli, rispetto alla quale trovano applicazione gli articoli 77 e 136-30, che sanciscono la totale caducazione degli stessi; onde va applicata la più favorevole legge preesistente, che ha ripreso vigore, travolgendosi lo stesso eventuale giudicato penale di condanna. b) l'ipotesi, più controversa, del decreto non convertito o della legge dichiarata incostituzionale, più favorevoli, rispetto alla quale c'è da ritenere che trovi applicazione il principio dell'articolo 25/2 costituzione, onde vanno applicati il suddetto decreto e la suddetta legge. In caso di conversione del decreto con emendamenti, se questi consistono nella mancata conversione di una o più norme, vale quanto sopra detto. Se essi consistono nella sola modifica di una o più norme, trattasi di un normale caso di successione di leggi, sottoposto alle regole generali.

1. Il tempo del commesso reato Per applicarsi le regole della successione di leggi è necessario prima stabilire se il fatto è stato commesso sotto una o l'altra legge. Il problema, che non sorge quando il fatto si è interamente svolto sotto una delle due leggi, si pone invece quando si sia svolto in parte sotto l'una e in parte sotto l'altra come appunto può verificarsi nei reati e tempi plurimi, quali i reati ad azione frazionata. Nel silenzio della legge la dottrina ha enunciato i seguenti criteri:1) il criterio della condotta, per il quale il reato si considera commesso nel momento in cui è stata realizzata l'azione o l'omissione; 2) il criterio dell'evento o, più esattamente, del completamento della fattispecie legale, secondo il quale il reato è commesso nel momento in cui si è realizzato l'ultimo elemento della fattispecie stessa; 3) il criterio misto, per il quale dovrebbe guardarsi dalla condotta o all'evento a seconda del risultato più favorevole per il reo. La prevalente dottrina respinge sia il criterio misto sia quello dell'evento ed accoglie quello della condotta. E' al momento della condotta, infatti, che il soggetto sceglie di porsi contro il diritto e che la legge può esercitare su di lui la sua efficacia intimidatrice.

IL REATO ARGOMENTO IN SINTESI. Secondo una tradizionale definizione è reato ogni fatto umano cui la legge ricollega una sanzione penale. Tale


definizione rende conto tuttavia soltanto delle conseguenze giuridiche che la legge prevede nel caso in cui venga posto in essere quel determinato fatto umano. Il tentativo di dare contenuto sostanziale alla nozione della presente voce è stato proprio delle principali scuole di pensiero, che hanno affrontato l’analisi del reato. Secondo il giusnaturalismo, scuola di pensiero che fonda i proprio principi sull’esistenza di un diritto naturale, sarebbe reato ogni fatto che turba l’ordine etico, l’ordine giuridico naturale, e per tale motivo è sanzionato penalmente dallo Stato. La scuola positiva ha impostato l’analisi del reato attraverso lo studio della struttura della società in cui l’uomo opera. Di qui la ricerca ha portato a considerare reato ogni fatto tale da recare danno o porre in pericolo la società; ovvero da essere in contrasto con la moralità media di un popolo, considerata in un determinato contesto storico e sociale. Tali definizioni, non soddisfacenti, hanno indotto ad elaborare una concezione formalesostanziale del reato. E’ evidente che qualsiasi definizione di reato non può non fondarsi su di un sistema di valori da tutelare. La questione riguarda l’individuazione di tale sistema, e soprattutto da parte di quale soggetto tale individuazione deve provenire. Nell’ambito della concezione formale-sostanziale, assume rilevanza il sistema di valori contenuto nella Carta costituzionale, che costituisce già un criterio selettivo dei fatti che meritino una sanzione penale. Perciò, divengono penalmente tutelabili i valori costituzionalmente rilevanti, o compatibili con la Carta costituzionale, con la conseguenza che debbono qualificarsi reati soltanto quei fatti che ledono o pongono in pericolo siffatti valori, o beni giuridici, a condizione che il ricorso alla sanzione penale sia inevitabile al fine di tutelare gli anzidetti valori costituzionalmente prodotti. In forza di tale concezione nasce innanzitutto una nuova nozione formale di reato, per cui è tale ogni fatto umano che sia in contrasto con la legge penale conforme alla Costituzione. Inoltre è reato ogni fatto che si pone in contrasto con il sistema di valori e beni giuridici tutelati dalla Costituzione.

L’ANALISI DEL REATO 1. Sistemi penali oggettivi, soggettivi, misti La teoria del reato presenta profonde varianti a seconda dei tipi di sistemi penali dai quali si muove. La storia del diritto penale è caratterizzata dalla contrapposizione dialettica tra un diritto penale oggettivo ed un diritto penale soggettivo, con le molteplici combinazioni intermedie di un diritto penale misto, oggettivo e soggettivo. Un diritto penale oggettivo puro funziona essenzialmente come un sistema di norme poste a tutela di determinati beni: esso pertanto si incentra sulla obiettiva lesione di tali beni. Caratteri opposti presenta un diritto penale soggettivo, i quali però si differenziano tra di loro a seconda che si tratti di un diritto penale soggettivo in funzione repressiva o di un diritto penale soggettivo in funzione preventiva. Un diritto penale repressivo (o delle volontà) funziona essenzialmente come un sistema di norme-comando: esso pertanto si incentra sulla volontà. Un diritto penale preventivo (o della pericolosità) funzione essenzialmente come un sistema di norme-garanzie: esso si incentra sulla pericolosità del soggetto. Mentre sistemi oggettivi e di sistemi soggettivi puri rappresentano soprattutto dei tipi ideali, nella realtà storica si riscontrano soprattutto dei sistemi penali misti, in cui le istanze oggettivistiche e le istanze soggettivistiche si combinano e si contemperano, funzionando la norma nella duplice direttrice sia della garanzia sia del comando.

1. La concezione analitica e la concezione unitaria del reato Anche per il reato, due sono i metodi fondamentali di comprensione: il metodo della considerazione razionale analitica (il reato va "capito") e il metodo della considerazione emotivo-unitaria (il reato va "sentito"). Lo studio analitico del reato costituisce una esigenza connaturale alla nozione formale del reato e al sottostante principio garantista del nullum crimen sine lege e della certezza e sicurezza giuridica. La consapevole analisi del reato in funzione garantista inizio nel secolo scorso ad opera del pensiero giuridico liberale. Come reazione al formalismo analitico imperante andò sviluppandosi, sotto la spinta di una concezione sostanzialistica del reato, la concezione unitaria del reato, per la quale il reato è un "tutto inscindibile", che può presentare al più diversi aspetti ma che non si lascia dividere in singoli elementi. In Italia anche coloro che hanno sostenuto la necessità di una visione unitaria del reato, si sono soprattutto limitati a sostituire il termine " aspetti " a quello di " elementi " ed hanno finito pur sempre per procedere ad un esame logico-analitico dei vari aspetti del reato. Poiché ogni considerazione unitaria del reato porta, sostanzialmente, nel campo delle intuizioni e delle apprensioni irrazionali, il metodo da seguire nello studio del reato resta sempre il metodo analitico.

1. La tripartizione e la bipartizione del reato La considerazione analitica del reato ha dato luogo, fondamentalmente, a due teorie: la "tripartita", per cui il reato è un "fatto umano antigiuridico e colpevole" e la "bipartita", per cui il reato è "un fatto umano commesso con volontà colpevole". Per la teoria della tripartizione il reato si compone di tre elementi che rappresentano i tre il grandi capitoli della teoria generale del reato: il fatto tipico, inteso restrittivamente come fatto materiale; l'antigiuridicità obiettiva, con la quale si intende


designare non l'antigiuridicità penale globale ma soltanto la contrarietà del fatto materiale all'ordinamento giuridico; e la colpevolezza, cioè la volontà riprovevole nelle sue due forme del dolo e della colpa. Per la teoria della bipartizione, il reato si compone di due elementi, che rappresentano i poli della nuova teoria del reato: l'elemento oggettivo, cioè il fatto materiale in tutti i suoi elementi costitutivi; e l'elemento soggettivo, cioè il diverso atteggiarsi della volontà nelle forme del dolo e della colpa. L'antigiuridicità è intesa in senso non più soltanto oggettivo ma globale. Essa, perciò, non può esser un elemento del reato da porsi sullo stesso piano del fatto e della colpevolezza, ma è l'essenza stessa del reato. La differenza tra tripartitismo e bipartitismo sta nel modo di considerare l'antigiuridicità e di collocare le scriminanti come elementi negativi del fatto o della antigiuridicità.

1. L’antigiuridicità formale e l’antigiuridicità sostanziale Il problema dell'antigiuridicità è intimamente connesso al problema delle fonti. Poiché il reato è un fatto penalmente antigiuridico, l'antigiuridicità è formale o sostanziale a seconda che si assuma come fonte del diritto penale la sola legge positiva o anche altri fonti extra-legali. L'antigiuridicità formale sta ad indicare il rapporto di contraddizione tra il fatto e la legge. L'antigiuridicità sostanziale o materiale sta ad indicare, viceversa, il contrasto del fatto con il diritto materiale o, più propriamente, tra il fatto e gli interessi sociali tutelati dal diritto, legislativo o extra-legislativo che sia. Tale antigiuridicità coincide con la " pericolosità sociale " della condotta: è sostanzialmente antigiuridica la condotta socialmente pericolosa. La costituzione italiana accoglie una concezione della antigiuridicità né sostanziale, aperta all'arbitrio del giudice, né meramente formale, aperta all'arbitrio del legislatore, ma, per così dire, formale-sostanziale. Sicché l'antigiuridicità, se sotto il profilo formale è il rapporto di contraddizione tra il fatto umano e la legge penale costituzionalmente legittima, sotto il profilo sostanziale è il rapporto di contraddizione tra il fatto umano e i valori costituzionali tutelati dalla legge penale. Infine, l'antigiuridicità o illiceità speciale si ha nei casi in cui la legge richiede, tra i requisiti del fatto tipico, anche elementi normativi che ne implicano, di per sé, una illiceità in base a norme extra-penali, giuridiche o extra-giuridiche. Rileva, particolarmente, ai fini dell'errore.

1. Il soggetto attivo del reato Soggetto attivo o autore dell'illecito penale è colui che pone in essere un fatto penalmente illecito. Tutte le persone umane possono essere soggetti attivi di un reato. Occorre distinguere trà la cosiddetta capacità penale, intesa come capacità di essere soggetto di diritto penale e che è propria di tutte le persone umane e la capacità alla pena (imputabilità) e la capacità alle misure di sicurezza (pericolosità), sulle quali soltanto detti fattori (fisiologici, fisico-psichici) possono incidere. In rapporto al soggetto attivo occorre distinguere tra: 1. reati comuni, che sono quelli che possono essere commessi da chiunque e rappresentano la maggioranza (es. omicidio, danneggiamento, ingiuria); 2. reati propri, che sono quelli che possono essere commessi soltanto da soggetti con particolari qualifiche meramente naturalistiche o giuridiche (es. la qualità di imprenditore nei delitti di bancarotta). Nell'ambito della categoria dei reati propri occorre distinguere tra: 1. reati propri ma non esclusivi, costituiti da fatti che, senza la qualifica soggettiva, pur sempre costituirebbero illecito extra penale o resterebbero, comunque, offensivi di altrui interessi; 2. reati propri ma non esclusivi, costituiti da fatti che, senza la qualifica soggettiva, costituirebbero un diverso reato, più grave o meno grave (es. appropriazione indebita anziché peculato) 3. reati propri esclusivi, costituiti da fatti che, senza la qualifica soggettiva, sarebbero inoffensivi di qualsiasi interesse, e perciò, giuridicamente leggi (incerto, evasione, bigamia).

1. Il problema delle persone giuridiche Due sono i problemi che continuamente si ripropongono:1) se soggetto attivo del reato sia solo la persona fisica o possa essere anche la persona giuridica; 2) chi debba considerarsi, nella prima ipotesi, il soggetto attivo del reato. Quanto al diritto italiano, la soluzione del problema si incentra, innanzitutto, sul principio costituzionale della responsabilità personale. Al livello della legge ordinaria,


la responsabilità penale delle persone giuridiche, pur non essendo espressamente sancita da alcuna norma, è concordemente desunta dall'articolo 197 c.p. e dal fondarsi la responsabilità penale su requisiti fisico-psichici e il sistema sanzionatorio su sanzioni incidenti in larghissima parte sulla libertà personale, incompatibili con soggetti non persone fisiche.

1. I responsabili negli enti e imprese Il delicato problema dell'individuazione dei soggetti personalmente responsabili si pone oltre che rispetto alle persone giuridiche e agli enti non personificati, anche rispetto alle imprese in genere. Occorre qui conciliare, con l'inderogabile principio della responsabilità penale personale, quel processo storico di sempre più accentuata "spersonalizzazione" della attività imprenditoriale, sia perché sempre più esercitata in forma societaria, sia perché, comunque esercitata, le dimensioni dell'azienda impongono sovente il trasferimento o delega di funzioni ad altri soggetti, non potendo il formale destinatario del precetto penale provvedere personalmente a tutti gli adempimenti connessi alla sua qualifica.

IL PRINCIPIO DI MATERIALITA’ LA CONDOTTA ARGOMENTO IN SINTESI. La condotta è un elemento costitutivo del reato. Essa indica il comportamento del soggetto che pone in essere un crimine e che è considerato tipico della norma per la realizzazione della fattispecie penale. Per il diritto penale la condotta non può esaurirsi in un mero movimento corporeo, ma è necessario che questo sia correlato e valutato anche alla luce della psiche e della consapevolezza dell’agire del reo. A tal fine la condotta è stata variamente definita come: volontà che si realizza, movimento corporeo cagionato dalla volontà, attività finalisticamente rivolta alla realizzazione dell’evento tipico. Tali definizioni non sono però comprensive di tutti i possibili moduli di comportamento e si riferiscono unicamente ad una condotta intenzionalmente cagionata, ossia dolosa, ed estrinsecantesi in un’attività positiva del soggetto. Per comprendere anche i comportamenti colposi e quelli negativi, c’è chi ha definito la condotta come ogni comportamento socialmente rilevante, non evitare l’evitabile, ossia un’omissione. Mentre la condotta attiva e la condotta dolosa sono concetti naturalistici, la condotta omissiva e quella colposa sono concetti normativi, essendo pensabili solo presupponendo, la prima, una norma impositiva dell’agire, la seconda, una norma cautelare. Condotta commissiva: indica un comportamento attivo, un’azione intesa come movimento del corpo idoneo ad offendere l’interesse protetto dalla norma. Se l’azione per essere tipica deve articolarsi attraverso determinate modalità, il reato si dice a forma vincolata; se invece è sufficiente che l’azione sia idonea a cagionare l’evento tipico, il reato è a forma libera. Condotta omissiva: indica un comportamento passivo di fronte ad una norma penale che ha funzione di comandare al soggetto di tenere una determinata condotta. Essa dunque consiste in un non facere quod debetur, ossia nel non compiere l’azione (che il soggetto ha il potere di compiere) che il soggetto ha il dovere di compiere. Pertanto l’omissione non ha un riscontro naturalistico, ma, non essendo pensabile se non sul presupposto di una norma impositiva dell’agire, ha un’essenza normativa. Il nostro ordinamento ha previsto due forme di reato a condotta omissiva: il reato omissivo proprio, che consiste nel mancato compimento dell’azione comandata e per la sussistenza del quale non occorre il verificarsi dell’evento: il reato omissivo improprio, che consiste nel mancato impedimento dell’azione materiale.

1. Il principio di materialità e il principio di soggettività Il diritto penale del fatto è contrassegnato dai tre principi: a) di materialità; b) di offensività; c) di soggettività. Per il moderno diritto penale il reato consiste innanzitutto in un fatto, che non può essere un mero fatto naturale o animale, ma soltanto un fatto umano, nel senso cioè che deve avere il suo principio nel soggetto. Fatti di esseri inanimati o animati, ma diversi dall'uomo, sono penalmente rilevanti solo in quanto pur sempre imputabili all'uomo. Poiché da un punto di vista generale è fatto umano non solo quello estrinsecantesi nel mondo esteriore, ma anche quello esaurentesi nell'interno della psiche, sempre ricorrente è il problema se il diritto penale debba avere come proprio oggetto soltanto comportamenti esterni o anche fatti meramente interni. Per il principio di materialità può essere reato solo il comportamento umano materialmente estrinsecantesi nel mondo esteriore e, perciò, suscettibile di percezione sensoria. Per il principio di soggettività si tende, viceversa, a considerare reato anche momenti meramente psichici, ossia la nuda cogitatio, gli atteggiamenti volontari puramente interni sui modi di essere della persona. Con il parlare nell'articolo 25 secondo comma di "fatto commesso", la costituzione ha inteso respingere ogni altro tipo di diritto penale ad impronta meramente soggettivistica e fondare il nostro diritto penale sul principio della materialità del fatto. Il principio di materialità svolge la prima funzione di delimitazione dell'illecito penale, con il triplice conseguente divieto di considerare reato: 1) un atteggiamento volontario meramente interno; 2) una intenzione meramente dichiarata, dovendo questa materializzarsi nella realtà naturalistica e sociale;


3) un modo di essere della persona, sia esso consistente in un carattere del soggetto o, segnatamente, in uno stato di pericolosità sociale. La materialità del fatto di reato può andare dalla estrinsecazione minima dell'inizio dell'azione (es. reati di tentativo o di attentato) a quella intermedia della realizzazione dell'intera azione (es. i reati di mera condotta) fino a quella massima della realizzazione dell'evento materiale (es. reati di evento).

1. La condotta in generale Con il termine condotta si indica il comportamento umano che costituisce reato. La condotta costituisce elemento fondamentale, necessario, ma non sufficiente affinché ricorra un'ipotesi di reato. Quanto alla funzione classificatoria, essa consente di assumere una funzione categoriale che fa dello specifico umano il loro referente comune ed il centro del diritto penale. Quanto alla funzione limitativa, appare escludere, in rapporto alle esigenze proprie del diritto penale, dalle estrinsecazioni umane quelle non coscienti o non volontarie o, comunque, non espressive della personalità del soggetto non imputabile. Quanto alla funzione dogmatico-applicativa, può consentire di fondare l'unità del comportamento soltanto nei termini che ora vedremo.

1. L’azione La condotta può consistere in una azione o in una omissione: • sono reati di azione o commissivi quelli che si pongono in essere con una condotta attiva; • reati di omissione o omissivi quelli che si pongono in essere con una condotta omissiva; • reati a condotta mista quelli che esigono sia una azione che una omissione. Sotto il profilo materiale l'azione è il movimento del corpo idoneo ad offendere l'interesse protetto dalla norma o un interesse statale perseguito dal legislatore attraverso l'incriminazione. Si dicono reati a forma vincolata quelli in cui la legge richiede che l'azione tipica si articoli attraverso determinate modalità o, addirittura, attraverso determinati mezzi. Un problema può sorgere quando l'agente pone in essere comportamenti tutti tipici, ciascuno dei quali già di per se idoneo ad offendere il bene protetto. Per capire se in tal caso siamo di fronte ad un'unica azione o ad una pluralità di azioni occorre considerare: a) l'idoneità dei diversi atti tipici ad offendere lo stesso interesse protetto; b) la loro contestualità.

1. L’omissione Superati i tentativi di individuare una dimensione fisica dell'omissione, la dottrina in atto dominante tende ad individuare l'essenza dell'omissione in chiave negativa, come mancato compimento, da parte di un soggetto, di una azione che doveva essere compiuta. In ossequio ai principi costituzionali della materialità e della offensività del fatto occorre procedere ad una interpretazione o ad una riformulazione in termini di offesa delle attuali fattispecie omissive, che sono in genere formulate in termini di mera disubbidienza. Nell'ambito dei reati omissivi fondamentale, per la diversità di strutture di problematiche, è la bipartizione tra: 1) reati omissivi propri o di pura omissione, che consistono nel mancato compimento dell'azione comandata e per la sussistenza dei quali non occorre, pertanto, il verificarsi di alcun evento materiale. Qui la legge attribuisce rilevanza penale a specifiche tipologie di omissione come tali. Pertanto si tratta di reati che sono espressamente e specificamente previsti da norme di parte sociale. 2) reati omissivi impropri o di non impedimento, che consistono nel mancato impedimento di un evento materiale e per l'esistenza dei quali occorre, pertanto, il verificarsi di un tale evento. Qui la legge attribuisce rilevanza penale non alla omissione come tale, ma al non impedimento dell'evento.

1. I presupposti e l’oggetto materiale della condotta I presupposti della condotta sono gli antecedenti logici della stessa, cioè le situazioni di fatto o di diritto, che preesistono alla condotta da cui questa deve prendere le mosse perché le reato possa sussistere.

L’EVENTO ARGOMENTO IN SINTESI. Sul significato del termine evento inteso, secondo la definizione codicistica, come il risultato dell’azione od omissione, si sono scontrate nella dottrina penalistica due opposte teorie: secondo la c.d. concezione naturalistica l’evento consisterebbe nel risultato naturale della condotta umana, nella modificazione esteriore della realtà fenomenica prodotta dall’azione od omissione del soggetto


agente. In una simile costruzione teorica l’evento è separato dal punto di vista spazio-temporale dalla condotta, e ad essa risulta legato da un nesso di causalità. E’ evidente che intendendo il termine evento in questa accezione naturalistica si deve dedurne l’assenza in tutti i c.d. reati di pura condotta (o formali), nei quali si richiede appunto la semplice condotta di un soggetto, senza la necessità di una modificazione della realtà esterna. Al contrario, l’evento sarebbe chiaramente rinvenibile nei reati di evento (o materiali) nei quali risulta necessario che la condotta del soggetto agente produca anche un determinato effetto esterno. Secondo l’opposta concezione giuridica l’evento dovrebbe intendersi come lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma, e quindi come la stessa condotta del soggetto agente vista nella prospettiva dell’interesse protetto. Nell’ambito di una simile opzione interpretativa il nesso di causalità è da intendersi in termini di derivazione logica più che strettamente temporale: è evidente, infatti, che se in alcuni reati l’offesa è distaccata temporalmente dalla condotta come nei reati di pura condotta in altri è contestuale ad essa, come nei reati di pura condotta. La conseguenza più rilevante di questa teoria è che essa, intendendo l’evento come lesione o messa in pericolo del bene protetto, lo postula come necessariamente presente in tutti i reati, anche di mera condotta. Il nostro c.p. sembra presentare appigli testuali a sostegno di ambedue le tesi. A favore della concezione naturalistica sembrano potersi interpretare tutte le norme che, contrapponendo l’evento alla condotta, lo indicano come conseguenza dell’azione od omissione (artt. 40, 42, 43, 56, 116 c.p.). Al contrario, altre norme sembrano postulare necessariamente un evento inteso in senso giuridico: in particolare gli artt. 43 e 49 c.p. nel delineare gli elementi strutturali del reato doloso, colposo e impossibile non paiono potersi riferire all’evento naturalistico poiché, così facendo, non prenderebbero inspiegabilmente in considerazione i reati di pura condotta. Per uscire dalle secche di una sterile contrapposizione dottrinale si è da ultimo affermato che il termine evento dovrebbe intendersi in due distinte accezioni, ossia in senso naturalistico quando si pongono problemi di causalità e in senso giuridico quando esso rilevi ad altro scopo, come a proposito del dolo o della colpa.

L'evento costituisce il risultato dell'azione o dell'omissione; in dottrina vanno segnalate in proposito due distinte correnti di pensiero.

1. La concezione naturalistica L'evento è il risultato dell'azione od omissione. Sul significato di tale espressione e sul tipo di legame che deve intercorrere tra condotta ed evento si scontrano due concezioni: la concezione naturalista e la concezione giuridica. Per la concezione naturalistica, evento è l'effetto naturale della condotta umana, penalmente rilevante ed esteriore alla condotta, da essa logicamente e cronologicamente diverso e distinto. In base alla presente concezione l'evento non può essere elemento costante di tutti reati, poiché per la esistenza di certe fattispecie la legge richiede la semplice condotta di un soggetto, prescindendo da ogni conseguente modificazione del mondo esteriore. L'evento in senso naturalistico non è elemento costitutivo di tutti reati; pertanto, la concezione naturalistica distingue: • reati di pura condotta, che si perfezionano con il semplice compimento di una azione od omissione; • reati di evento, per i quali la legge richiede che l'azione o omissione produca anche un determinato effetto esteriore. Occorre inoltre distinguere tra: • reati ad evento differito, in cui l'evento si verifica dopo un certo intervallo di tempo dalla condotta; • reati a distanza, in cui l'evento si realizza in un luogo diverso da quello in cui si è svolta la condotta. In favore della teoria naturalistica vengono richiamate le norme che pongono in contrapposizione la condotta all'evento, o comunque indicano quest'ultimo come conseguenza dell'azione od omissione e quindi momento logicamente separato rispetto alla condotta.

1. La concezione giuridica Per la concezione giuridica l'evento è, invece, l'effetto offensivo della condotta, e cioè la lesione o messa in pericolo dell'interesse tutelato dalla norma, ad essa legate logicamente da un nesso di causalità. L'evento in senso giuridico esisterebbe in tutti i reati, anche in quelli di pura condotta, essendo ravvisabile un nesso logico di causalità tra condotta ed offesa all'interesse protetto anche senza alcun evento naturale. In favore della teoria dell'evento giuridico, si dice, depone il disposto degli articoli 43 e 49 c.p., i quali, nel fissare le nozioni generali di dolo, di colpa e di reato impossibile, non potrebbero riferirsi all'evento naturale, perché da tali nozioni resterebbero esclusi, inconcepibilmente, i reati di pura condotta.

IL RAPPORTO DI CAUSALITA’ ARGOMENTO IN SINTESI. In base all’art. 40/1 c.p., nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione. Occorre premettere che si ritiene sussistente il rapporto di causalità tra condotta ed evento per i soli reati con evento inteso in senso naturalistico: infatti, in omaggio al principio di personalità della responsabilità penale (art. 27 Cost.), non può considerarsi conseguenza dell’operato di un uomo una modifica del mondo esterno che non sia causalmente collegata con una sua condotta. Ma quando un evento può dirsi per certo conseguenza di una condotta? La


dottrina tradizionale ha spiegato la causalità ricorrendo a tre diverse soluzioni: 1. teoria della condicio sine qua non, o dell’equivalenza delle cause, secondo la quale basta, a collegare condotta ed evento, l’aver posto in essere una qualunque delle cause dell’evento stesso, senza considerazione alcuna per la diversa importanza delle diverse cause, che quindi sono viste come tutte equivalenti nella causazione dell’evento. Tale teoria presenta l’inconveniente di estendere troppo l’ambito della responsabilità penale, finendo per offrire un criterio non univoco; 2. teoria della causalità adeguata, secondo la quale il rapporto di causalità sussiste soltanto quando il soggetto abbia posto in essere l’evento con una condotta idonea a provocarlo in termini di probabilità. Pur prescindendo dalle critiche riservate a livello teorico a questo giudizio di probabilità, si deve sottolineare dal punto di vista pratico, la eccessiva restrizione della responsabilità umana, nel considerare scollegate dal rapporto di causalità tutte le condotte che non presentino, allo stato attuale, probabilità di produrre l’evento considerato (c.d. cause ignote), e finendo quindi per offrire un criterio, se pur in senso opposto, parimenti fuorviante rispetto a quello della teoria precedente; 3. teoria della causalità umana: da una interpretazione sistematica degli artt. 40 e 41 c.p., la teoria in questione ritiene di poter dedurre che per l’esistenza di un rapporto di causalità occorre da un lato l’aver posto in essere una condizione dell’evento (40, comma 1 o , c.p.), dall’altro che il verificarsi dell’evento non dipenda da fattori eccezionali, imprevedibili. Tale teoria, pur risolvendo sotto il profilo teorico i problemi delle due precedenti, e pur avvicinandosi sotto quello pratico alla realtà delle cose, presenta il grave inconveniente di rendere quasi invisibile il confine tra causalità e colpevolezza, col richiedere la prevedibilità dell’evento. La giurisprudenza degli anni Settanta ha fatto propria la teoria della causalità umana, e la dottrina si è dovuta dunque attivare per renderne i confini il meno possibile soggettivi in tema di prevedibilità. Così c’è chi ha ritenuto prevedibile l’evento che si presenta come conseguenza verosimile della condotta, secondo la scienza e l’esperienza di quel dato momento storico. Come si vede, un concetto anch’esso relativo, ma sicuramente più oggettivo del riferimento al singolo agente. Più recentemente si è rivalutata la componente della condicio sine qua non, limitandone la portata mediante il ricorso alla verifica del giudizio di prevedibilità innanzitutto sul fatto concreto, ed inoltre nell’ottica di leggi non più genericamente scientifiche, bensì specificamente statistiche (c.d. leggi di copertura). Tale orientamento è stato da poco recepito dalla giurisprudenza. Una volta fatto il punto della situazione sullo stato attuale delle interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali, si vedranno ora due dei principali problemi relativi alla causalità, e cioè: a) la causalità nei reati omissivi; b) concorso di cause ed imputazione dell’evento. a) La causalità nei reati omissivi; i reati omissivi vengono tradizionalmente distinti in reati omissivi propri, per i quali è necessario e sufficiente il mancato compimento di un’azione che la legge penale impone di realizzare (ad es. omissione di soccorso, art. 593 c.p.), e reati omissivi impropri, previsti esplicitamente dall’art. 40, comma 2 o , c.p., che testualmente recita: non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo; tali reati si dicono anche commissivi mediante omissione, e sono caratterizzati da una struttura in cui si ravvisa la violazione di un obbligo di impedire il verificarsi di un evento previsto da una ulteriore fattispecie (ad es. disastro ferroviario causato dalla mancata manovra di uno scambio da parte del manovratore). Il fatto che per quanto attiene ai reati omissivi propri non possa parlarsi di evento in senso naturalistico, ma solo giuridico, comporta (come conseguenza di quanto detto all’inizio) che non si pongano problemi particolari in tema di causalità. Al contrario, il problema si pone in tutta la sua evidenza nei reati commissivi mediante omissione, proprio perché facenti riferimento ad una fattispecie base. Allo stato attuale, il complesso dibattito sviluppatosi sull’art. 41/2 c.p. vede come maggioritaria la tesi che ravvisa in particolari soggetti obblighi di impedire l’evento, detti anche posizioni di garanzia, a loro volta distinte in posizioni di controllo, originarie e derivate, spontanee, contrattuali, posizioni che, una volta violate, costituirebbero la condotta tipica del reato commissivo mediante omissione. In tema di causalità, la dottrina tradizionale ritiene che l’evento sia causato non dall’omissione in sé, ma dall’aliud factum; la dottrina oggi dominante, invece, in sintonia con l’individuazione delle posizioni di garanzia, ritiene che, non potendosi ricostruire nei reati omissivi un rapporto di causalità simile a quello dei reati commissivi, deva essere effettuato, allo scopo di individuare il collegamento tra condotta omissiva ed evento, un giudizio ipotetico o prognostico sul verificarsi o meno dell’evento, se fosse stata realizzata l’azione doverosa omessa. In sostanza, neppure tale giudizio potrà fornire soluzioni certe, basandosi, come si è detto, su di una struttura probabilistica. Si deve infine ricordare che il tema della causalità nei reati omissivi impropri non è stato fino ad oggi sufficientemente approfondito dalla giurisprudenza, nonostante sia stato definito in dottrina senza alcun dubbio il punto centrale del dibattito sul problema causale di fronte al nostro diritto positivo. b) Concorso di cause ed imputazione dell’evento; una volta chiariti i termini del dibattito sul nesso causale, occorre accertare quale condizione sia causa dell’evento nel caso che ne concorra più di una. L’art. 41 c.p. considera proprio tale ipotesi, specificando al primo comma che il concorso di cause estranee all’operato dell’agente, antecedenti, contemporanee o sopravvenute che siano, di regola non esclude il rapporto di causalità tra condotta ed evento. Tale assunto sembra affermare esplicitamente il principio dell’equivalenza delle cause. Il secondo comma dell’art. 41 c.p. stabilisce che le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono da sole sufficienti a determinare l’evento. In tal caso, se l’azione od omissione precedentemente commessa costituisce di per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita. Tale secondo comma, nella sua prima parte, costituisce a tutt’oggi l’altro grande problema in materia di causalità. Innanzitutto ci si è chiesti perché il codice preveda espressamente soltanto le cause sopravvenute e non anche quelle antecedenti e simultanee; sul punto la dottrina ha finito per equiparare, se pur con diverse motivazioni, i tre gruppi di concause. Ma è evidente che il nodo centrale è costituito dall’identificazione delle caratteristiche che le concause devono avere per essere da sole sufficienti a determinare l’evento. Innanzitutto è stato sottolineato il superamento della vecchia posizione che intendeva come tali le c.d. serie causali autonome: queste infatti esulano dall’art. 41/2, perché escludono in radice il rapporto di causalità ex art. 40/1. Dunque, si ritiene che la locuzione usata dall’art. 41/2, voglia richiamare l’attenzione sulle c.d. serie causali apparentemente indipendenti, cioè su fattori che, pur essendo da soli idonei a provocare l’evento, presuppongono anche tutto quanto è avvenuto prima, dopo o durante il loro verificarsi. Si dice allora che in tali condizioni la serie causale apparentemente autonoma, per interrompere il rapporto causale deve essere anormale, atipica, eccezionale, imprevedibile, tanto che taluno ha parlato addirittura di caso fortuito, laddove, secondo la dottrina dominante, il caso fortuito incide sulla colpevolezza (e quindi sull’elemento soggettivo) e non sull’elemento oggettivo del reato, di cui la causalità fa parte. La giurisprudenza, in sintonia con la dottrina sopra esposta, ha fatto proprio il concetto che il rapporto causale risulta spezzato quando si verifica una serie causale eccezionale, atipica ed imprevedibile, di cui il fatto dell’imputato si pone come mera occasione per svilupparsi, e non come vera e propria concausa.

1. Il problema della causalità


La causalità occupa un posto fondamentale nella storia del diritto penale, perché segna il passaggio dalla responsabilità per fatto altrui verso la responsabilità per fatto proprio. Il problema della causalità della condotta umana sorge per una triplice ragione: a) perché ogni evento è il risultato di una pluralità di condizioni, onde la causa in senso logiconaturalistico è l'insieme delle condizioni necessarie e sufficienti per il verificarsi di esso; b) perché la condotta umana realizza qualcuna, ma mai l'insieme di tali condizioni, concorrendo sempre con l'azione dell'uomo condizioni esterne poste in essere da altri uomini e da forze naturali o animali. c) perché l'insieme dei fattori causati, concorrenti e necessari, non rientra sempre nella sfera di dominabilità umana. Sicché occorre stabilire quando è che la condotta umana, pur concorrendo naturalisticamente all'evento, possa dirsi anche giuridicamente causa dello stesso. La storia della causalità giuridica è la storia dei correttivi della causalità naturale.

1. Le teorie della causalità naturale, adeguata, umana Il fondamentale problema che si pone in ordine al rapporto di causalità è quello di stabilire quando una condotta possa dirsi causa di un evento. Tradizionalmente, tre sono le principali teorie che, nella dottrina penale, si sono contese il campo per definire i termini della dipendenza causale: la teoria della causalità naturale, la teoria della causalità adeguata e infine la teroria della causalità umana. La teoria della causalità naturale ritiene che deve considerarsi causa ogni singola condizione dell'evento, ogni antecedente, senza il quale l'evento non sarebbe venuto in essere: essa considera equivalenti tutte le condizioni e comporta l'eccessiva estensione del concetto di causa portando a conseguenze assurde. La teoria della causalità adeguata ritiene che rapporto di causalità tra condotta ed evento sussiste quando un soggetto ha determinato l'evento con una azione proporzionata, adeguata, e cioè idonea a determinare l'evento, in chiave di probabilità. Contro la teoria si obietta che essa, collegando la sussistenza del rapporto di causalità alla probabilità del verificarsi dell'evento, fa riferimento ad un elemento - la probabilità - che è estraneo alla causazione effettiva dei fenomeni naturali. Essa, inoltre, finisce per limitare eccessivamente il campo della responsabilità umana, e rischia di considerare come tipici degli effetti della condotta, in tutti casi in cui l'evento è frutto di una data causa, ma sono ignoti i meccanismi del processo di sviluppo causale. La teoria della causalità umana, interpretando sistematicamente gli articoli 40 e 41 c.p., richiede, per la sussistenza del rapporto di causalità: • che il soggetto abbia posto in essere una condizione dell'evento, un'antecedente senza il quale, l'evento stesso non sarebbe venuto in essere; • che il verificarsi dell'evento non dipenda dal concorso di fattori causali eccezionali, cioè quelli che hanno una probabilità minima, insignificante, di verificarsi, se non in tantissimi casi, sfuggendo la signoria dell'uomo, e risultando meramente imprevedibili.

1. La causalità scientifica Per la causalità scientifica l’azione è causa dell'evento quando esso ne è conseguenza secondo la scienza umana. La causalità scientifica, per essere tale, esige: a) che il grado di conoscenza umana, richiesto per stabilire quand'è che un evento è, scientificamente, conseguenza dell'azione, sia non quello, di certo, della scienza esperienza personale dell'agente e neppure della scienza ed esperienza umana media comune, ma soltanto quello della migliore scienza ed esperienza del momento storico. b) che il grado di successione tra azione ed evento, per stabilire se esso costituisca o meno conseguenza dell'azione, sia non quello della certezza, né quello della possibilità, bensì quello della probabilità relativa, quale rilevante grado di possibilità. Tra le leggi scientifiche sono, quindi, utilizzabili non solo le cosiddette leggi universali (di certezza), che esprimono una regolarità di successioni dei fenomeni, non smentita da eccezioni, e perciò offrono la massima garanzia di certezza, scientifica e giuridica. Ma anche le leggi statistiche (di probabilità), che esprimono successioni di fenomeni soltanto in una certa percentuale per il subentrare di fattori indeterministici, ma che pur sempre consentono di sussumere un evento sotto la causalità, se esso risulta percentualizzato in un rilevante grado di possibilità. c) che il caso concreto sia risolto con il metodo scientifico, consistente nella c.d. sussunzione del caso sotto le leggi scientifiche di copertura. Concludendo, l'azione è causa dell'evento quando, secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico, l'evento è conseguenza, certa o altamente probabile, dell'azione, in quanto senza di essa l'evento non si sarebbe, con certezza o con alto grado di probabilità, verificato.


1. La causalità nel codice Ai sensi dell'articolo 41: "Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento". "Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento. In tal caso, se l'azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita". "Le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui". Nessuna particolare difficoltà pone il primo comma dell'articolo 41 così come il terzo comma, il quale, con una finalità puramente chiarificatrice, precisa che il concorso di fatti illeciti altrui soggiace alle regole causali generali, fissate nei precedenti commi. Le maggiori difficoltà interpretative sono state sollevate, invece, dal secondo comma. L'interpretazione più corretta è quella per cui il nesso causale è escluso quando l'evento è dovuto al sopravvenire di un fattore eccezionale. L'interpretazione va accolta sempre che per fattore eccezionale sopravvenuta si intenda quel fattore causale, che ha reso possibile il verificarsi di un evento che, secondo la migliore scienza e esperienza, non è conseguenza neppure probabile di quel tipo di condotta.

1. Il caso fortuito e la forza maggiore Il caso fortuito e la forza maggiore presuppongono il nesso causale tra la condotta e l'evento; vengono pertanto studiati nell'ambito della colpevolezza, o anche della stessa condotta, quali cause di esclusione della colpevolezza o della suitas. Concettualmente il caso fortuito e la forza maggiore stanno ad esprimere il mondo degli avvenimenti obiettivamente ritenuti conseguenza non probabile o addirittura impossibile di quel tipo di condotta. Il caso fortuito abbraccia tutti quei fattori causali, non solo sopravvenuti ma anche preesistenti o concomitanti, che hanno reso eccezionalmente possibile il verificarsi di un evento che si presenta come conseguenza del tutto inverosimile secondo la migliore scienza esperienza. La forza maggiore si identifica con tutte quelle forze naturali esterne al soggetto che lo determinano ad un determinato atto. Pertanto, entrambi escludono il rapporto di causalità tra condotta ed evento oltre che alla colpevolezza, quale riflesso soggettivo del fatto che l'agente non poteva prevedere come verosimile ciò che non era tale neppure per la migliore scienza ed esperienza.

1. La causalità dell’omissione Il secondo problema fondamentale dell'omissione è quello dell'essenza della causalità omissiva: naturalistica o normativa? Contro l'artificioso dogma ottocentesco della causalità dell'omissione, la moderna dottrina nega alla condotta omissiva ogni efficacia causale. Rispetto all'omissione può parlarsi soltanto di causalità normativa, in quanto la legge interviene ad equiparare il non impedire l'evento al cagionare, come appunto fa l'articolo 40 secondo comma. Ciò precisato, perché l'omissione dell'azione impeditiva possa essere equiparata alla causa dell'evento occorre, innanzitutto, che secondo la migliore scienza e esperienza del momento storico l'evento sia conseguenza certa o altamente probabile di detta omissione, in quanto l'azione suddetta l'avrebbe, con certezza o con alto grado di probabilità, impedito.

1. L’obbligo di impedire l’evento Per equiparare il non impedire al cagionare i vari ordinamenti ritengono non sufficiente la materiale possibilità di impedire l'evento, non potendo il diritto penale esigere l'intervento impeditivo da parte di ogni soggetto in grado di farlo. Ma richiedono l'ulteriore requisito dell'obbligo di impedire l'evento, sussistendo però profonde divergenze sulla natura, fonti e portata di esso a seconda dei tipi di ordinamenti: nel nostro si impone quella integrazione tra teoria formale e teoria funzionale dell'obbligo di impedire quale mezzo per soddisfare riserva di legge, tassatività e funzione della responsabilità per omesso impedimento. Il principio della riserva di legge viene salvaguardato attraverso: 1) la cosiddetta clausola di equivalenza (non impedire un evento, che si ha l'obbligo di impedire, equivale a cagionarlo); 2) la delimitazione dei doveri di impedire ai soli doveri giuridici; 3) la delimitazione delle fonti del dovere giuridico alle sole fonti formali.


1. Gli obblighi di protezione e di controllo Il principio di tassatività va salvaguardato attraverso la determinazione degli elementi tipici del reato omissivo improprio: • primo elemento è l'obbligo di garanzia, cioè quell'obbligo giuridico del soggetto, fornito dei necessari poteri, di impedire l'evento offensivo di beni, affidati alla sua tutela. Gli obblighi di garanzia sono classificati: a) in obblighi di protezione di determinati beni contro tutte le fonti di pericolo; b) in obblighi di controllo di determinate fonti di pericolo per proteggere tutti i beni ad esse esposti; • secondo elemento è il presupposto di fatto perché l'obbligo di garanzia si renda attuale: cioè la situazione di pericolo per il bene da proteggere; • terzo elemento è l'astensione dall'azione impeditiva, idonea e possibile, che però solo in rari casi le fonti dell'obbligo prescrivono compiutamente; • quarto elemento è l'evento non impeditivo, che è quello, naturalistico, previsto dal reato commissivo. • quinto elemento è l'equivalente della causalità, cioè il nesso di causalità normativa tra l'omissione e l'evento, nei termini già indicati.

IL PRINCIPIO DI OFFENSIVITA’ L’OGGETTO GIURIDICO E L’OFFESA 1. Il reato come offesa o come disubbidienza Per il principio di offensività il reato deve sostanziarsi anche nell'offesa di un bene giuridico, non essendo concedibile non reato senza offesa. Esso presuppone ed integra il principio della materialità del fatto: mentre questo assicura contro l'incriminazione di meri atteggiamenti interni, quello garantisce altresì contro la incriminazione di fatti materiali non offensivi. Nell'ambito del diritto penale dell'offesa occorre subito nettamente distinguere la concezione cosiddetta " realistica " o " necessariamente lesiva " del reato come fatto offensivo tipico dalla contrapposta concezione " sostanzialistica " del reato come fatto socialmente pericoloso. Espressione del liberalismo penale ed in funzione chiaramente garantista è la prima concezione. Compenetrando il principio di offensività nel superiore principio di legalità, considera reato soltanto il fatto che non solo è previsto dalla legge come tale, ma che è costruito dalla medesima in modo da essere necessariamente offensivo dell'interesse specifico tutelato dalla norma. La seconda concezione è propria del socialismo penale ed è attualmente raccolta nei codici dell'Europa orientale. Per aversi reato non è sufficiente che il fatto tipico offenda l'interesse specifico tutelato dalla norma. Occorre altresì che, nella circostanza concreta, esso sia ritenuto pericoloso in misura rilevante per la società socialista e cioè attenti anche a un più ampio interesse sociale esterno alla norma, senza di che diventano illecite anche le offese a specifici interessi del più grande rilievo.

1. Il reato come “fatto offensivo tipico” secondo la Costituzione Il principio di offensività trova riconoscimento oltre che nella legge ordinaria già nella stessa Costituzione con i disposti degli artt. 25, 27 e 13. In particolare: • la libertà personale può essere compressa soltanto per la tutela di un diverso interesse costituzionalmente rilevante: sarebbe pertanto inammissibile una sua compressione che prescinda dall'esigenza di tutelare un diverso bene giuridico; • per dare un senso alla distinzione costituzionale tra le funzioni delle pene e delle misure di sicurezza, occorre che le pene conseguono alla lesione di un bene giuridico: la incriminazione di fatti di mera disubbidienza trasformerebbe la pena in una misura esclusivamente preventiva volta a colpire la mera pericolosità dell'agente, che farebbe venir meno la distinzione tra i due tipi di sanzione.

1. La necessaria offensività del reato secondo l’art. 49/2 c.p. Secondo una recente e contrastata dottrina il principio della necessaria offensività del reato troverebbe riconoscimento già nel codice vigente da parte dell'articolo 49/2. Tale norma esclude la punibilità per il cosiddetto reato impossibile, che si ha quando per la inidoneità dell'azione è impossibile l'evento dannoso o pericoloso. Tale stimolante teoria


si è, però, prestata a forti reazioni, oltre che per le premesse ermeneutiche, per la sua assolutezza ed ambiguità di formulazione: in un sistema incentrato sul principio di legalità già l'idea di un fatto tipico ma non punibile perché inoffensivo è, innanzitutto, una contraddizione in termini. Nella sua portata generale il principio costituzionale di legalità abbraccia tutti gli elementi che riguardano l'esistenza del reato, quindi anche l'offesa. Due sono le condizioni perché il nullum crimen sine iniuria sia attuato nella nuova dimensione costituzionale: che esso si compenetri nel superiore principio di legalità e che all'interno del principio di legalità sia assicurata al principio di offensività una reale funzione garantista.

1. L’oggetto giuridico del reato L'oggetto giuridico del reato è quel bene o interesse, individuale o sovrindividuale, che è tutelato dalla norma ed offeso dal reato. Benché bene e interesse siano concetti distinti, poiché il primo indica tutto ciò che atto soddisfare una esigenza umana e il secondo la relazione tra il soggetto e il bene, essi vengono ormai usati indifferentemente, esprimendo la stessa realtà sotto due distinti angoli visuali e non essendo del resto possibile tutelare l'una senza tutelare l'altro.

1. La funzione politico-garantista dell’oggetto giuridico Per comprendere l'autentica funzione politico-garantista dell'oggettività giuridica occorre innanzitutto chiaramente distingue l'oggetto giuridico del reato, e cioè il bene interesse preesistente alla norma e assunto ad elemento costitutivo della fattispecie, dallo scopo della norma, che è il fine perseguito dal legislatore con l'incriminazione del fatto. La distinzione è fondamentale per comprendere la funzione garantista del bene giuridico e per evitare di elevare a bene giuridico il mero scopo della norma e così munire di bene giuridico anche reati che ne sono privi; nonché per comprendere la contrapposizione, dialettica e storica, tra la concezione metapositivistica del bene giuridico - come entità ontologicamente preesistente al diritto positivo che la norma trova e non crea - e la concezione giuspositivistico del bene giuridico, che è tutto ciò che il legislatore tutela.

1. I valori costituzionali come oggettività giuridica primaria Perché il bene giuridico possa assolvere alla sua funzione critico-garantista è necessario che esso si identificati con valori né semplicemente creati dal legislatore né soltanto pregiuridici. Secondo la innovativa impostazione costituzionalistica, tali sono i beni costituzionalmente significativi (o al più non incompatibili con la costituzione), ai quali va pertanto circoscritta l'oggettività giuridica dei reati. Il bene giuridico non offre magiche soluzioni al problema della tutela penale, per le incertezze e polivalenze della stessa costituzione, non essendo essa un catalogo di beni e non essendo idonea, come sistema chiuso, a recepire nuovi beni emergenti. Ma per il carattere rigido e garantista personalistico della medesima, esso costituisce pur sempre un poderoso strumento per la ricostruzione della parte speciale del diritto penale, segnando le direttrici di fondo per la criminalizzazione, la decriminalizzazione e la depenalizzazione. Tali direttrici consistono, secondo il principio di necessarietà del diritto penale: 1) nella enucleazione di precise tipologie di oggettività giuridiche di categorie, sulla base dei beni già tutelati dalla costituzione o anche desunti dalla realtà socio culturale del nostro tempo e con essa compatibili. Dai fondamentali beni della persona umana ai beni sovraindividuali della famiglia, della comunità, dello stato; 2) nella depenalizzazione dei reati che tutelano interessi non facilmente conciliabili con la costituzione o anche interessi costituzionalmente non rilevanti e anacronistici rispetto alla realtà socio culturale attuale; 3) nella decriminalizzazione, almeno come criterio tendenziale, dei reati che tutelano interessi privati di rilievo costituzionale, pur se compatibili con la costituzione e tuttora meritevoli di protezione giuridica, o di quei reati a tutela anticipata o di lesività trascurabile di interessi rilevanti costituzionalmente; 4) nella criminalizzazione delle nuove tipologie di aggressione, che via via vengono ad offendere, in misura consistente, beni costituzionalmente significativi; 5) nel proporzionare la specie e quantità della pena dei diversi reati al diverso rango dei beni e al diverso grado e quantità dell'offesa; 6) nella qualificazione del reato come delitto o contravvenzione, che, oltre certa misura, non dipende più dalle mutevoli valutazioni del legislatore, ma dalla importanza del bene costituzionale tutelato e dal grado di offesa al medesimo; 7) nell'adeguamento, nei limiti consentiti dalla tipicità, della legislazione penale ai nuovi valori costituzionali: riplasmando gli interessi tutelati nella loro accezione più conforme alla costituzione; sostituendo agli interessi tutelati, incompatibili o discordanti con la costituzione, valori da questa protetti; interpretando estensivamente


o restrittivamente la norma penale quando la sanzione non appaia proporzionata al valore costituzionale.

1. La funzione dogmatico-interpretativa dell’oggetto giuridico All'oggetto giuridico va riconosciuta anche una funzione sia classificatoria dei reati, raggruppabili per soggettività giuridiche omogenee, sia interpretativa, che però è stata da certa dottrina esagerata. Sul postulato che ad ogni norma giuridica corrisponderebbe un oggetto giuridico specifico si è assunto l'oggetto giuridico come principium individuationis delle varie figure criminose e come strumento interpretativo e classificatorio delle singole norme penali. Prima si individua l'oggetto giuridico specifico della figura criminosa, il quale serve poi come elemento illuminante dell'intera fattispecie, come base per risolvere le questioni che sorgono nella interpretazione della norma. Tale dogmatica non si è, però, sottratta a tre obiezioni di fondo. In primo luogo, l'oggetto giuridico è insufficiente a caratterizzare e contraddistingue compiutamente il singolo reato e a graduarne la gravità, poiché da un lato l'essenza di ciascuna figura di reato è data da tutti connotati tipici, oggettivi e soggettivi, e, dall'altro, le norme penali non tutelano sempre beni diversi, ma spesso lo stesso bene. In secondo luogo, l'oggetto giuridico come mezzo di interpretazione da luogo al cosiddetto circolo ermeneutico o, altrimenti, ad una insufficienza logica più profonda, in quanto esso verrebbe identificato a priori, fuori cioè da una vera e propria attività interpretativa analitico razionale ed in via intuitiva: con quel tanto di aprioristico e soggettivistico che, inevitabilmente, in esso si annida. In terzo luogo, l'oggetto giuridico si presenta spesso di difficile individuazione, con gravi disparità ed incertezze di vedute. Il primo rilievo è incontestatabile. Se non si vuole fare coincidere l'oggetto giuridico specifico con l'intera fattispecie legale, assorbendola in esso e cadendo nel vizio logico di confondere l'oggetto della tutela con i limiti entro cui tale oggetto è tutelato, occorre riconoscere che a non poche norme corrispondono non concetti giuridici specifici, ma un identico oggetto giuridico di categoria, nell'ambito del quale le singole figure criminose si stagliano in base ad altri connotati tipici. Il secondo ed il terzo rilievo perdono di consistenza in un nuovo sistema di fattispecie costruite attorno a precise oggettività giuridiche preesistenti e di significato costituzionale. L'oggetto giuridico rappresenta, comunque, il criterio per determinare il soggetto passivo del reato e, perciò, legittimato a proporre la querela e l'istanza, e il soggetto titolare del consenso scriminante.

1. L’offesa del bene giuridico Mentre il bene giuridico è il supporto, l'offesa è la concretizzazione del principio di offensività. Il diritto penale moderno prende in considerazione non solo i risultati lesivi della condotta, che si sono già verificati, ma anche i risultati lesivi che potevano derivarne. L'offesa al bene giuridico può, perciò, consistere: 1. in una lesione, che si concreta in un nocumento effettivo del bene protetto, consistente nella distruzione, nella diminuzione, nella perdita del bene giuridico; 2. in una messa in pericolo, che si concreta in un nocumento potenziale del bene, che viene soltanto minacciato. I reati di offesa abbracciano pertanto: 1. i reati di danno, per la sussistenza dei quali è necessario che il bene tutelato sia distrutto o diminuito; 2. i reati di pericolo, per i quali basta, invece, che il bene sia stato minacciato. Può parlarsi di pericolo quando l'evento lesivo, secondo in giudizio ex ante sulla base delle circostanze al momento verosimilmente esistenti, era prevedibile come verosimile secondo la migliore scienza e esperienza. Il pericolo è, pertanto, la probabilità del verificarsi dell'evento di danno. • Circa il momento del giudizio, la moderna dottrina resta ferma al giudizio prognostico ex ante. Lo retrocede, però, in conformità alla funzione preventiva dei reati di pericolo: 1. al momento della condotta rispetto ai reati di condotta pericolosa o equivalenti, nei quali cioè il pericolo qualifica la condotta o il presupposto o l'oggetto materiale di essa. E se la condotta è plurisussistente o il reato è a condotta plurima, si guarderà, nell'arco dei vari atti o condotte, al momento che consente la prognosi più favorevole di pericolo; 2. al momento, tra la fine della condotta e la fine dell'evento tipico, più favorevole alla prognosi di pericolo, se si tratta di reati di evento di pericolo o di evento pericoloso, nei quali cioè il pericolo costituisce l'evento stesso o un attributo di esso. • Circa la base del giudizio, essa comprende le circostanze al momento verosimilmente


esistenti secondo la migliore scienza e esperienza umana. Circa i criteri del giudizio, la credibilità dell'evento va determinata secondo la migliore scienza e esperienza del momento storico, utilizzandosi cioè le leggi scientifiche universali. Nell'ambito dei reati di pericolo alla bipartizione tradizionale (reati di pericolo concreto e reati di pericolo astratto o presunto) va sostituita la tripartizione tra: 1. reati di pericolo concreto o effettivo, per la sussistenza dei quali il pericolo deve effettivamente esistere, costituendo esso elemento tipico espresso e dovendosi perciò accertarne in ciascun caso la concreta esistenza; i reati di pericolo concreto vengono, poi, distinti in: • reati di pericolo diretto, nei quali si punisce il provocato pericolo di lesione del bene giuridico; • reati di pericolo indiretto, nei quali si punisce il pericolo di un evento pericoloso per il bene protetto. 2. reati di pericolo astratto, nel quale il pericolo è implicito nella stessa condotta, ritenuta per comune esperienza pericolosa, e il giudice si limita a riscontrare la conformità di essa al tipo (es. i reati, ora decriminalizzati, di sorpasso su dosso o in curva); 3. reati di pericolo presunto, nei quali il pericolo non è implicito nella stessa condotta, poiché al momento di essa è possibile controllare la esistenza o meno delle condizioni per il verificarsi dell'evento lesivo, ma viene presunto juris e de jure, per cui non è ammessa neppure prova contraria della sua concreta inesistenza (es. il reato, ora decriminalizzato, di passaggio con semaforo rosso). Sotto il profilo della offesa occorre, altresì, distinguere: 1. i reati monoffensivi, per l'esistenza dei quali è necessaria e sufficiente l'offesa di un sono bene giuridico; 2. i reati plurioffensivi, i quali offendono necessariamente più beni giuridici (es. la rapina che lede il patrimonio e la libertà personale). •

1. La funzione politico-garantista dell’offesa Per comprendere la funzione politico garantista dell'offesa occorre innanzitutto chiaramente distinguere: 1) i reati di offesa, in cui l'offesa è elemento tipico del reato, esplicito (es. estorsione) o implicito (es. omicidio); 2) i reati di scopo, con cui si incrimina non l'offesa ad un bene giuridico, ma la realizzazione di certe situazioni che lo stato ha interesse a che non si realizzino. Mentre nei reati di offesa vi è sempre l'offesa, anche se allo stato della sola messa in pericolo del bene giuridico, qui manca lo stesso bene giuridico. Se vi è l'interesse dello stato alla non realizzazione di certe situazioni, esso però non è l'oggetto giuridico del reato, ma lo scopo della incriminazione.

1. I reati senza bene giuridico Il principio di offensività è vulnerato dai reati senza bene giuridico e dai reati senza offesa, della legittimità dei quali si ripropone il problema. Delitti senza vittime sono chiamati quei reati che non offenderebbero alcun bene perché a sfondo esclusivamente etico quali la prostituzione, l'omosessualità, la sterilizzazione irreversibile, l'eutanasia consensuale, l'uso di stupefacenti, l'aborto, la pornografia, la bestemmia. Se è vero che lo stato non può imporre morali di parte e confondere il reato con il peccato, con la mera devianza e il non conformismo, è anche vero - ed ecco il problema che tali delitti siano realmente e tutti senza bene giuridico? Secondo certa dottrina - ad esempio - nell'aborto procurato vittima sarebbe il concepito; nella inseminazione artificiale della donna non coniugata offeso sarebbe il cosiddetto diritto del nato ad avere due genitori; nei fatti offensivi del sentimento religioso oggetto giuridico sarebbe l'altrui diritto al rispetto delle proprie credenze religiose. Senza vittime sono, invece, la omosessualità e la prostituzione come tali, del resto da noi da tempo impuniti; non però l'attività favoreggiatrice e sfruttatrice del meretricio, essendo questo pur sempre limitativo della dignità umana. Reati con bene giuridico vago o diffuso sono quelli che offendono beni collettivi, non ben identificabili nella loro reale consistenza, rispetto ai quali non è pertanto facilmente identificabile il comportamento lesivo pericoloso, anche perché appaiono ledibili per effetto, più che di una singola condotta, del ripetersi generalizzato e frequente di condotte illecite. In verità non si tratta propriamente di beni giuridici ma, o di astrazioni concettuali, comprensive dei beni specifici realmente offesi da singoli reati e che, pertanto, debbono in questi essere concretizzate (es. reati contro la fede pubblica ove


bene giuridico è l’interesse offeso dalla falsificazione del singolo atto); oppure di metafore concettuali, esperimenti situazioni strumentali, beni intermedi, la cui tutela, anche se autonoma, è pur sempre funzionale alla tutela di beni giuridici individuali preesistenti, non più adeguatamente protetti, attraverso le forme tradizionali di tutela, di fronte alle nuove forme di aggressione (ecosistema, sicurezza della circolazione stradale).

1. I reati senza offesa Il principio di offensività getta un'ombra di incostituzionalità anche rispetto ai reati a criminalizzazione anticipata che restano irrimediabilmente senza offesa del bene giuridico. Particolarmente problematiche e discusse sono le categorie dei reati di pericolo astratto o presunto, di dolo specifico, di sospetto, di ostacolo, di attentato, che hanno posto il problema del grado legittimo di anticipazione della tutela del bene giuridico. Reati di pericolo astratto. Non ammettono alternative, dato l'impossibile controllo ex ante dell'esistenza o meno delle condizioni di verificabilità dell'evento lesivo: o vengono accettati come tali o si rinuncia alla tutela penale preventiva, anche di beni primari. Reati di pericolo presunto. Sollevano sospetti di incostituzionalità proprio perché contrariamente a quanto avviene per i reati di pericolo astratto - l'esistenza o meno delle condizioni di verificabilità dell'evento lesivo è qui accertabile. Reati a dolo specifico. Vanno distinti in: • reati a dolo specifico di offesa, ove l'offesa è prevista come risultato non oggettivo, ma meramente intenzionale, rendendo così punibile una condotta di per sé inoffensiva; • reati a dolo specifico di ulteriore offesa, dove accanto all’offesa obiettiva è richiesta una ulteriore offesa meramente intenzionale, che pertanto ha una funzione restrittiva della illiceità penale di un fatto già di per sé offensivo e, quindi, meritevole di pena; • reati a dolo specifico differenziale del trattamento penale di fatti di pari offensività oggettiva o, comunque, tutti meritevoli di pena. Delitti di attentato (detti anche a consumazione anticipata). Sono quei delitti consistenti in atti diretti a ledere il bene protetto e dalla legge elevati a diritti perfetti, mentre potrebbero essere al più un tentativo o anche meno di un tentativo, come quando si richiede tale direzione, ma hanno anche la idoneità e univocità degli atti. Per il timore di pericolose strumentalizzazioni politiche di tali fattispecie, la dottrina e giurisprudenza più recenti hanno abbandonato le interpretazioni soggettivistiche adottando una interpretazione oggettivistica, che riconduce il reato di attentato alla struttura del tentativo ed esige, comunque, la messa in pericolo del bene protetto. Il delitto di attentato resta un inutile residuo storico. Reati di sospetto. Si intendono quei reati che riguardano comportamenti, in essere né lesivi né pericolosi di alcun interesse, ma che lasciano presumere l'avvenuta commissione non accertata o la futura commissione di reati (così l'essere colto in possesso non giustificato di valori, di chiavi false o di documenti concernenti la sicurezza dello stato). Reati ostativi. Cioè quelle incriminazione arretrate, che non colpiscono comportamenti offensivi di un interesse, ma tendono a prevenire il realizzarsi di azioni effettivamente lesive o pericolose, mediante la punizione di atti che sono la premessa idonea per la commissione di altri reati. Fra le altre, tipiche le incriminazioni del possesso non autorizzato di armi o di esplosivi o di sostanze stupefacenti. Autorevole dottrina propende per un allargamento del campo dei reati ostativi quali mezzi particolarmente idonei per la prevenzione dei reati. Altri autori ne contestano, invece, la costituzionalità. Nella logica di un diritto penale incentrato sul principio di offensività, come direttrice generale di politica legislativa, i suddetti fatti più che al campo della pena dovrebbero appartenere a quello delle sanzioni amministrative o, quando integrino situazioni soggettive di pericolosità, delle misure di prevenzione, nei termini in cui esse sono costituzionalmente legittime. Il principio di offensività appartiene alla razionalità, che non sempre si concilia con la necessità o i diritti della paura.

1. Il momento consumativo del reato Al problema della offesa è legato anche quello del momento consuntivo del reato. Poiché è consumato il reato che integra tutti gli elementi costitutivi, addirittura raggiungendo la sua massima gravità concreta, il momento consuntivo si ha nel momento in cui si chiude l'iter criminis.

IL SOGGETTO PASSIVO DEL REATO 1. La nozione


Soggetto passivo del reato è il titolare del bene che costituisce l'oggetto giuridico del reato. Tale non è pertanto qualunque persona che subisca eventualmente un danno dal reato, ma solo il titolare del bene protetto dalla norma e, quindi, colui che subisce l'offesa essenziale per la sussistenza del reato. Data la correlazione tra soggetto passivo ed oggetto giuridico, vi sono: • reati a soggetto passivo determinato, in cui l'interesse offeso appartiene a soggetti ben individuabili; • reati a soggetto passivo indeterminato, in cui l'interesse offeso appartiene genericamente ad una collettività indeterminata; • reati senza soggetto passivo, in cui il fatto è incriminato dal legislatore in vista di uno scopo assunto come proprio e rilevante dallo stato, senza che sia offeso alcun interesse specifico di alcuno. Soggetto passivo possono essere non solo le persone fisiche, pur se incapaci (minori, infermi di mente) ma anche le persone giuridiche quando la natura del reato lo consenta (es. reati patrimoniali). Può aversi anche una pluralità di soggetti passivi, allorché più siano i titolari del bene offeso.

1. La rilevanza del soggetto passivo nella politica criminale Una politica criminale e coerente deve tendere alla costante sintesi delle posizioni della vittima e del reo: alla costante ricerca del punto di equilibrio tra libertà individuale e difesa sociale. Originariamente si parlava - si pensi al diritto germanico - di diritto penale per la vittima e per mezzo della vittima dove il reato veniva concepito come un fatto non pubblico ma interessante reo e vittima. Ad una tutela spersonalizzata della vittima porta, invece, la progressiva pubblicizzazione del diritto e dell'azione penale, poiché la stessa tutela predisposta per la vittima prescinde di regola dalla volontà privata e viene sempre più intesa come tutela non di interessi del concreto individuo, ma di istituzioni della vita comunitaria. Il valore della vittima e dei suoi diritti è stato ulteriormente adombrato con lo spostamento del fuoco delle scienze criminali sull'autore del reato. La progressiva tecnicizzazione e professionalizzazione del processo, disumanizzando questo, ha spezzato ogni rapporto diretto tra reo e vittima anche sui punti più cruciali pressoché affidati alla intermediazione talora affaristica, dei legali. Senza la dovuta considerazione anche della vittima non vi può essere la necessaria fiducia dei cittadini nella legge, nella giustizia, nelle istituzioni statali. Si ritiene opportuno e fattibile includere tra gli scopi del diritto penale, accanto alla retribuzione, quello della pacificazione sociale, eseguibile innanzitutto attraverso la riparazione della vittima. Ricerche vittimologiche sembrano dimostrare che il bisogno della vittima di vendetta o di punizione si risolve, in molti casi, nel desiderio di una riparazione materiale e che la persona offesa è, in misura assai rilevante, disposta riconciliarsi nel momento in cui il reo riconosce il danno causato e promette il pagamento. Con il triplice vantaggio: di una accresciuta predisposizione delle vittime a denunciare, testimoniare, collaborare con la giustizia; di una possibile riduzione di quella cifra oscura della criminalità, che concorre alla crisi del diritto penale; di una aumentata fiducia nelle istituzioni giudiziarie, volte non solo a prevenire attraverso l'applicazione della pena danni a potenziali vittime, ma anche a salvaguardare gli interessi delle vittime già offese.

1. La rilevanza criminologica del soggetto passivo. La vittimologia La vittimologia è la nuova branca che si propone di stabilire l'incidenza della vittima, per ciò che essa è e per ciò che essa fa, nella genesi e dinamica del delitto. Innanzitutto, il reato è interazione all'interno di un rapporto di tensione tra reo e vittima. La dicotomia fra criminale e vittima, tradizionalmente nettissima, in verità è tale rispetto alle vittime per così dire “del tutto innocenti”. Più confusa e imprecisa essa diventa rispetto a certe vittime e a certi tipi di delinquenza, fino al crearsi delle potenziali o effettive equivalenze o alternative tra soggetto attivo e soggetto passivo. E può essere addirittura il caso a decidere il ruolo del soggetto come autore o come vittima. Il soggetto può diventare vittima o per circostanze del tutto occasionali o fortuite, in quanto egli non ha avuto alcuna incidenza nella sua scelta come soggetto passivo, oppure per le sue cosiddette predisposizioni vittimogene, che incidono sulla sua scelta come vittima, determinando o rafforzando il proposito criminoso o facilitando il passaggio all'atto o la esecuzione criminosa. Circa i meccanismi di incontro tra reo e vittima, fondamentale è la distinzione tra: • vittime fungibili, che assumono il loro ruolo di vittime al di fuori di una qualsiasi relazione con l'agente, non hanno favorito in alcun modo la condotta criminale e sono perciò vittime accidentali;


vittime infungibili, che diventano tali per una precisa relazione con l'agente. Per il determinante influsso esercitato dalla loro qualità o dal loro agire sul medesimo. E sono, pertanto, vittime partecipanti, quali le vittime per imprudenza, volontarie, alternative, provocatrici. Prima legge della vittimologia è che le possibilità di vittimazione di un soggetto sono direttamente proporzionali alla sua infungibilità. Seconda legge è che la pericolosità del delinquente è direttamente proporzionale alla fungibilità della vittima: cresce con il decrescere della importanza della personalità individuale della vittima nella determinazione del crimine. Un ulteriore aspetto della rilevanza criminologica del soggetto passivo viene indicato nella induzione criminale, cioè nella induzione ai delitti di reazione. Per l'elementare principio di azione e reazione, operante anche nel campo psichico, la vittima o i suoi familiari possono essere portati a compiere ulteriori delitti in relazione a quelli subiti (vendette, faide).

1. La rilevanza giuridico-penale del soggetto passivo Il soggetto passivo può rilevare ai fini della stessa esistenza o intensità della tutela, in ragione delle sue particolari qualità o rapporti con il soggetto attivo oppure in ragione della condotta che egli può avere avuto prima, durante o dopo il reato. Dal primo punto di vista occorre, innanzitutto, distinguere tra: • reati che possono essere commessi contro chiunque; • reati qualificati dal soggetto passivo. I rapporti tra soggetto attivo e soggetto passivo possono rilevare, essenzialmente come: • elemento costitutivo del reato o più spesso come circostanza aggravante; • o, all'opposto, come limite alla punibilità, quali i casi in cui i particolari rapporti di parentela rendono opportuno escludere la punibilità di certi reati patrimoniali o subordinarla alla querela dell'offeso. Quanto alla rilevanza della condotta del soggetto passivo, questi può inserirsi nella dinamica del reato già al momento della determinazione psichica dell'azione criminosa, fornendo ad essa il movente (come la provocazione o la cosiddetta causa honoris). La condotta del soggetto passivo può incidere, altresì, nella esecuzione del reato. Infatti, accanto a reati ad esecuzione unilaterale, esistono reati che esigono la cooperazione della vittima. Con la propria condotta il soggetto passivo può anche concorrere, assieme alla condotta del colpevole, a determinare l'evento offensivo. L'attività del soggetto passivo può infine rilevare, dopo la consumazione del reato, ai fini della possibilità della concreta punibilità del fatto, come nei non pochi casi di reati perseguiti a querela o ad istanza di parte.

LE SCRIMINANTI 1. La definizione e il fondamento Le scriminanti - o cause di giustificazione - sono particolari situazioni in presenza delle quali un fatto, che altrimenti sarebbe reato, tale non è perché la legge lo impone o lo consente. Il fondamento politico-sostanziale della liceità del fatto viene individuato nell'interesse mancante, nell'interesse prevalente o nell'interesse equivalente. Il fondamento logico-giuridico è dato, invece, dal principio di non contraddizione, per cui uno stesso ordinamento non può, nella sua unitarietà, imporre o consentire e, ad un tempo, vietare il medesimo fatto senza rinnegare se stesso della sua politica di attuazione. Infine, il fondamento tecnico-dommatico consiste nell'assenza di tipicità del fatto scriminante. Sotto il profilo sostanziale le scriminanti escludono l'offesa, costituendo dei limiti alla tutela del bene giuridico: in presenza di esse manca l'offesa per la semplice ragione che il bene non è più tutelato dalla norma. Le scriminanti vanno nettamente distinte, sotto il profilo ontologico e pratico, non solo dalle cause di esclusione della colpevolezza, ma anche dalle cause di esclusione della pena in senso tecnico e dalle cause di estinzione del reato.

1. L’adempimento del dovere La scriminante dell'adempimento del dovere costituisce l'espressione più tipica del principio di non contraddizione (articolo 51). Si possono avere i seguenti casi: • Dovere imposto da una norma giuridica. Classici esempi sono quelli del saldato che uccide


in guerra, del boia che esegue la condanna a morte, del poliziotto che procede all'arresto obbligatorio in flagranza, del teste che depone su fatti veri lesivi dell'altrui onore. • Dovere imposto da un ordine della pubblica autorità. L'ordine è manifes-tazione di volontà di un superiore a un inferiore perché tenga una certa condotta. Presupposto indiscusso della scriminante è che intercorra tra chi da e chi riceve l'ordine un rapporto di supremazia-subordinazione di diritto pubblico. Il requisito limite della scriminante è che l'ordine sia legittimo. In caso di ordine illegittimo, il reato sussiste e ne risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l'ordine. Ne risponde altresì, in concorso con questo, l'esecutore, che pertanto deve rifiutare l'esecuzione di tale ordine eccetto che in due casi: 1) quando egli abbia ritenuto di ubbidire a ad un ordine legittimo per errore sul fatto; 2) quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell'ordine.

1. L’esercizio del diritto L'esercizio di un diritto esclude la punibilità. Si pongono in materia quattro ordini di problemi, concernenti la individuazione: • Della norma scriminante. Per poter individuare, tra le tante norme che prevedono un diritto, quelle scriminanti, occorre: a) che la norma sul diritto e quella penale diano luogo a una convergenza di norme in conflitto; b) che la norma sul diritto prevalga su quella incriminatrice, sì che risulti essa sola applicabile al fatto in questione. • Del concetto di diritto scriminante. Poiché l'ordinamento giuridico non può punire le attività umane che esso stesso ha autorizzato, il concetto di diritto va inteso, ai fini scriminanti, nella sua massima estensione. • Delle fonti del diritto. Anche rispetto al diritto scriminante si è sempre ritenuto che fonti possono essere, oltre alla legge extra-penale formale e materiale, statale ed ora pure regionale, anche il regolamento, la consuetudine, il provvedimento giurisdizionale, l'atto amministrativo e il contratto privato. • Dei limiti del diritto. Il diritto scrimina nei limiti in cui è giuridicamente riconosciuto, essendo un diritto illimitato giuridicamente un non senso. Ogni diritto reale o personale implica il potere di predisporre "offendicula". Sono così chiamati i mezzi di difesa contro eventuali aggressioni ed idonei a ledere la vita e la integrità fisica altrui (filo spinato, vetri sui muri di cinta, lance sui cancelli, armi automatiche cariche, animali feroci).

1. Il consenso dell’avente diritto Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, con il consenso della persona che può validamente disporne. Si pongono in materia tre ordini di problemi, concernenti: • La natura. Circa la controversa natura giuridica, il consenso non è un negozio né di diritto penale né di diritto privato, ma, come ormai si riconosce, è un mero atto giuridico, un permesso con cui si conferisce al destinatario un potere di agire, senza che si crei alcun rapporto di diritti e obblighi e che ha come unico effetto di escluderne l'illiceità per il semplice abbandono del proprio interesse ed accettazione del fatto. • I limiti. Circa i limiti, il consenso deve avere per oggetto: a) un diritto, comunemente inteso nel senso lato di qualsiasi bene, tutelato dalla norma penale; b) disponibile. Indisponibili sono i beni facenti capo allo Stato, alla collettività non personificata o alla famiglia. Circa i beni, facenti capo i singoli, incontestabilmente disponibili sono i diritti patrimoniali. Nella più controversa categoria dei diritti personalissimi, assolutamente indisponibile è la vita. • La validità del consenso. Quanto alla validità del consenso, occorre, innanzitutto, che chi consente sia legittimato a consentire. Tale è il titolare, persona fisica o giuridica, dell'interesse protetto dalla norma perché, altrimenti, sarebbe soggetto passivo del reato. Il consenso deve essere effettivo, non espresso cioè per scherzo, simulazione, riserva mentale; libero, cioè non viziato da violenza, errore, dolo; attuale, cioè preesistente al momento del fatto, e perdurante per tutta la durata di questo; determinato. E scrimina nei limiti in cui è concesso, potendo il soggetto delimitarne l'oggetto e l'ambito, porre termini, condizioni e modalità di lesione del bene. Non è richiesta, invece, alcuna particolare forma, essendo sufficiente che la volontà sia riconoscibile dall'esterno. Può essere, perciò, non solo espresso, ma anche tacito.


1. La legittima difesa Il codice prevede la legittima difesa nell'articolo 52: “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa”. La legittima difesa si incentra sui due poli: 1) della aggressione ingiusta; 2) della reazione legittima. L'aggressione ingiusta. Presupposto perché il soggetto possa legittimamente difendersi è che sia ingiustamente aggredito. Perché vi sia aggressione ingiusta occorrono i seguenti requisiti: • soggetto attivo dell'aggressione deve essere l'uomo, dovendo essa provenire dalla condotta umana o da animali o cose appartenenti all'uomo e, perciò, soggetti alla sua vigilanza; • tipi di aggressione possono essere non solo un’azione anche non violenta, ma altresì una omissione, contro la quale è pure ammessa la legittima difesa; • oggetto della aggressione deve essere un diritto altrui; • soggetto passivo dell'aggressione può essere, oltre al soggetto che si difende, anche un terzo. Accanto alla difesa dei diritti propri è infatti prevista la difesa altruistica dei diritti altrui: il cosiddetto soccorso difensivo; • l’aggressione al diritto deve concretare un pericolo attuale di una offesa, cioè la probabilità presente della lesione o di una maggiore lesione; • l'offesa minacciata deve essere ingiusta. Contrariamente alla comune opinione, l'offesa ingiusta va intesa non come l'offesa antigiuridica bensì come offesa ingiustificata cioè arrecata al di fuori di qualsiasi norma che la imponga o l'autorizzi. La reazione legittima. Per essere legittima la reazione deve anzitutto cadere sull'aggressore. La reazione è legittima se, inoltre, ricorrono i tre requisiti seguenti: • la necessità di difendersi che si ha quando il soggetto è nella alternativa tra reagire o subire: non può sottrarsi al pericolo senza offendere l'aggressore; • l’inevitabilità altrimenti del pericolo che sta a significare la impossibilità del soggetto di difendersi con una offesa meno grave di quella arrecata; • la proporzione tra difesa ed offesa che si ha quando il male inflitto all'aggressore è inferiore, uguale o tollerabilmente superiore, al male da lui minacciato. Contro certe opinioni dottrinali e giurisprudenziali, il giudizio di proporzione non va fatto né tra i mezzi, né tra i beni soltanto, perché entrambi non sono criteri decisivi. Come si evince dallo stesso articolo 52, il raffronto va fatto, innanzitutto, tra le offese. La necessità, la inevitabilità e la proporzione vanno valutate nella reale situazione concreta, attraverso un giudizio ex ante, che deve essere non meccanico-quantitativo, ma relativistico e qualitativo.

1. Lo stato di necessità Ai sensi dell'articolo 54 "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o ad altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che di fatto sia proporzionato al pericolo”. Per il suo carattere utilitaristico, lo stato di necessità è una scriminante amorale, che diventerebbe immorale se non fosse sottoposta ai rigorosi limiti che vedremo. Pur presentando affinità con la legittima difesa, se ne differenzia sostanzialmente, dal punto di vista etico e giuridico: a) nelle premesse, poiché viene leso il diritto non di una aggressore, ma di un terzo innocente, che non ha determinato la situazione di pericolo; b) nei conseguenti limiti, poiché deve trattarsi di diritti personali ed esistere il pericolo di un danno grave e non volontariamente causato; c) nelle conseguenze, poiché lascia residuare sul piano civile l'onere di versare un equo indennizzo al soggetto pregiudicato. Lo stato di necessità implica una situazione di pericolo e una condotta lesiva da parte del soggetto che versa in pericolo. La situazione di pericolo. Il pericolo deve consistere nella minaccia di un danno alla persona, cioè ad un diritto non patrimoniale, ma personale, che come tale comprende anche la libertà fisica e morale, la libertà sessuale, il pudore e l'onore, e non soltanto la vita e l'integrità fisica. Il pericolo deve essere, come già visto per la legittima difesa, attuale. Inoltre, bisogna che sia non volontariamente causato dall'agente. Il pericolo deve avere per oggetto un danno alla persona, non qualsiasi ma grave, tale cioè da giustificare il pregiudizio di un innocente.


La condotta lesiva. Anche nello stato di necessità debbono ricorrere i tre requisiti autonomi, sovente oggetto invece, di sovrapposizioni: della necessità di salvarsi, della inevitabilità altrimenti del pericolo, della proporzione tra il fatto e il pericolo. • la necessità di salvarsi si ha, anche qui, quando il soggetto era nell'alternativa tra subire o recare un danno, ma deve essere intesa in modo più rigido; • pure la inevitabilità altrimenti del pericolo, che anche qui sta a significare la impossibilità, rapportata alla situazione concreta, di salvarsi con una offesa meno grave di quella arrecata, va interpretata più rigorosamente che nella legittima difesa. • lo stesso vale per la proporzione tra il fatto e il pericolo che si ha quando il male inflitto è uguale o inferiore a quello, grave, che si è evitato. L'articolo 54/3 estende, infine, l'ambito della scriminante anche l'ipotesi del costringimento psichico, che si ha allorché un soggetto commette un reato perché indotto dalla altrui minaccia.

1. L’uso legittimo delle armi Ai sensi dell'articolo 53/1 “…non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di fare uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando viene costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all'autorità”. L'articolo 53/3 richiama gli altri casi in cui la legge autorizza, entro certi limiti, l'uso delle armi o di altri mezzi di coazione fisica. Sono quelli previsti per impedire i passaggi abusivi delle frontiere, le evasioni dei detenuti o violenza tra i medesimi, per reprimere il contrabbando e per le sentinelle nel servizio militare. La scriminante è propria dei pubblici ufficiali appartenenti alla cosiddetta forza pubblica i quali hanno istituzionalmente in dotazione armi o altri mezzi di coazione fisica. L'articolo 53/2 equiparare altresì al pubblico ufficiale la persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza. L'uso legittimo delle armi si incentra sui due poli: • della situazione impediente l'adempimento del dovere concretantesi in una violenza senso latu, comprendente la violenza fisica e quella psichica, o in una resistenza all'autorità; • della reazione eliminante la violenza o la resistenza: requisito primo è la necessità di fare uso delle armi e degli altri mezzi coercitivi, dovendo il pubblico ufficiale trovarsi nell'alternativa di respingere la violenza o vincere la resistenza con le armi o detti mezzi o di non adempiere al proprio dovere. Se tali ostacoli all'adempimento del dovere sono diversamente eliminabili, la scriminante non ricorre, perché, come pure la giurisprudenza riconosce, il ricorso alle armi o ad altri mezzi di coazione fisica deve costituire l'extrema ratio. Deve ritenersi sottinteso il requisito della inevitabilità altrimenti del fatto ostativo; parimenti implicito deve considerarsi requisito della proporzione tra il bene leso e quello che l'adempimento del dovere di ufficio tende a soddisfare.

1. Il problema delle scriminanti tacite Sono dette tacite le scriminanti non previste dalla legge, ma attinte da fonti materiali. Circa il problema della ammissibilità, tali scriminanti sono coessenziali agli ordinamenti penali incentrati sul principio di legalità sostanziale. Esse sono invece inconciliabili con gli ordinamenti incentrati sul principio della legalità formale, quale appunto il nostro, che non ammettono scriminanti oltre quelle espressamente previste. Il problema che si può porre è soltanto quello della estensione analogica delle scriminanti codificate: questa risulta possibile solo per le scriminanti che sono già previste dalla legge nella loro massima portata logica o che non sono comunque formulate in termini tali da precludere che altre ipotesi extra-legali siano riconducibili alla ratio della scriminante. In concreto, attraverso il procedimento analogico, può giungersi a dare rilevanza, ad esempio, alla legittima difesa anticipata ed allo stato di necessità anticipato.

1. La disciplina delle scriminanti Il codice sottopone le scriminanti alle seguenti regole: • Le scriminanti esistenti rilevano, per il solo fatto di esistere. Poiché le scriminanti escludono l'offesa, nell'ambito di un ordinamento a base oggettivistica, incentrato sul principio di offensività, il fatto scriminato non può costituire reato, anche quando l'agente, ignorando l'esistenza della situazione scriminante, credeva di commettere un fatto criminoso.


• •

Le scriminanti putative, cioè erroneamente ritenute esistenti in tutti loro requisiti di legge dall'agente, possono costituire cause scusanti. Si ha eccesso nelle scriminanti quando, nel commettere alcuni dei fatti previsti dagli articoli 51, 52, 53, 54, si eccedono i limiti stabiliti dalla legge o dall'ordine dell'autorità ovvero imposti dalla necessità. L'eccesso va distinto dall'erronea supposizione della scriminante, poiché questa nel primo caso esiste realmente, pur se travalicata, mentre nel secondo esiste solo nella mente dell'agente. L'eccesso è doloso, colposo, o incolpevole, a seconda che il soggetto ecceda i limiti della scriminante con consapevole volontà oppure per colpa o senza colpa alcuna. L'eccesso doloso da luogo a responsabilità per il reato doloso; l'eccesso colposo da luogo a responsabilità colposa, se il fatto è previsto dalla legge come reato colposo.

IL PRINCIPIO DI SOGGETTIVITA’ LA COLPEVOLEZZA 1. L’evoluzione della responsabilità penale Nell'ambito dei moderni diritti penali, il principio di soggettività del fatto sta ad indicare che, per aversi reato, non basta che il soggetto abbia posto in essere un fatto materiale offensivo, ma occorre altresì che questo gli appartenga psicologicamente, che sussista cioè non solo un nesso causale ma anche un nesso psichico tra l'agente ed il fatto criminoso, onde questo possa considerarsi opera di costui. Tale verità è il risultato del processo di subiettivizzazione che ha caratterizzato la storia della responsabilità penale e che si può schematizzare nei progressivi passaggi della responsabilità per fatto altrui, della responsabilità oggettiva, della responsabilità colpevole fino alle forme estreme della responsabilità personale.

1. La colpevolezza in senso psicologico e in senso normativo La colpevolezza, quale requisito del reato, è categoria dottrinale, non trovando, a differenza che in altri codici stranieri, riscontro nel codice penale italiano. E va intesa nel senso tecnico di insieme dei requisiti per l'imputazione soggettiva del fatto all'agente. La colpevolezza si è andata sviluppando attraverso due fondamentali concezioni: • per la concezione psicologica, dominante nella seconda metà del secolo scorso, la colpevolezza consiste e si esaurisce nel nesso psichico tra l'agente ed il fatto; • per la concezione normativa, elaborata all'inizio del secolo, la colpevolezza è il giudizio di rimproverabilità per l'atteggiamento antidoveroso della volontà che era possibile non assumere. Accolta oggi dalla dottrina dominante, specie di lingua tedesca, la concezione normativa della colpevolezza non segna eguale unanimità di vedute circa gli elementi costitutivi, a cominciare dallo stesso rapporto con la personalità dell'autore.

1. La colpevolezza in senso personale Le punte più avanzate del processo di subiettivizzazione della responsabilità penale sono segnate dalla responsabilità personale, per la quale il giudizio di colpevolezza ha per oggetto la personalità del soggetto agente, trasformandosi così l'illecito penale in illecito personale. Tale concezione - nelle sue posizioni estreme - è connaturale al totalitarismo.

1. Il principio costituzionale della responsabilità personale Con l’affermare che la “responsabilità penale è personale”, l’art 27 avrebbe accolto - in un asserito significato massimo - il concetto di responsabilità personalizzata, propria di un diritto penale dell’atteggiamento interiore ed esprimente un’esigenza sentita anche nella quotidiana vita giudiziaria. Al contrario, un significato minimo, banalizzerebbe la portata innovativa dell’art. 27 che si limiterebbe soltanto a bandire la responsabilità per fatto altrui, principio che appartiene ai primordi del diritto penale. Alla luce delle suddette considerazioni, il principio della responsabilità penale personale non sembra possa essere inteso se non nel significato intermedio della responsabilità per fatto proprio colpevole, in cui la colpevolezza, normativa e individualizzabile, riguarda l'atteggiamento psichico antidoveroso nei confronti del singolo fatto e non gli elementi personalistici estranei a questo atteggiamento concreto. All'agente si rimprovera un fatto compiuto con un certo grado di partecipazione psichica, non una attitudine, una qualità personale.


Circa la struttura della colpevolezza, la concezione normativa richiede: • l'imputabilità; • il dolo o la colpa; • la conoscenza o, quanto meno, la conoscibilità del precetto penale; • l'assenza di cause di esclusione della colpevolezza.

1. Colpevolezza e imputabilità Circa i rapporti tra colpevolezza ed imputabilità si discute se questa sia o meno presupposto o requisito di quella. Muovendo sostanzialmente da una concezione psicologica della colpevolezza, parte della dottrina è per la tesi negativa. Quanto alle conseguenze dommatiche e pratiche, la prima tesi porta ad ammettere la configurabilità del reato anche nei confronti dell'agente non imputabile, essendo configurabile la colpevolezza anche senza imputabilità. Considerando invece la colpevolezza inconcepibile senza la imputabilità, si pone il problema se senza imputabilità, e perciò senza colpevolezza, sia configurabile o meno il reato. E se così è, elemento soggettivo essenziale del reato non è la colpevolezza, ma la appartenenza psichica del fatto all'agente. Il principio di soggettività del reato, quale riferibilità psichica del fatto all'agente, ha quindi una validità generale, atteggiandosi però in modo diverso a seconda che si tratti: • di soggetti imputabili, nei confronti dei quali il collegamento psicologico è dato dalla colpevolezza. Non sottostanno ad alcuna conseguenza penale se non hanno realizzato il fatto con dolo o colpa; • di soggetti non imputabili, nei confronti dei quali, essendo la colpevolezza inconcepibile, la riferibilità del fatto di reato al soggetto è data dall'assenza di quelle cause esterne che escludono l'appartenenza della condotta al soggetto o, comunque, escluderebbero la riferibilità psichica dell'evento ad un qualsiasi altro soggetto imputabile.

1. Colpevolezza e conoscenza del disvalore del fatto La colpevolezza normativa presuppone anche la conoscenza del disvalore del fatto: intanto può rimproverarsi al soggetto di avere commesso un fatto che non doveva volere o non doveva produrre, in quanto egli sappia che quel modo di agire è antidoveroso, riprovevole. Ma è imprescindibilmente necessaria la conoscenza effettiva oppure è sufficiente la conoscenza potenziale, la conoscibilità del disvalore giuridico del fatto? O basta anche la mera coscienza del disvalore sociale dello stesso? Per eccesso pecca il tradizionale dogma della inescusabilità assoluta; ma per eccesso opposto pecca pure il dogma della scusabilità assoluta della ignorantia legis. La mediatrice tesi della scusabilità relativa, che afferma la necessità non della conoscenza, ma della conoscibilità della legge e, pertanto, la scusabilità della ignoranza inevitabile e la inescusabilità dell'ignoranza evitabile, ha il duplice merito di armonizzare l'ignorantia legis coi principi costituzionali o, almeno, di eliminarne le più drastiche contrapposizioni, e di evitare sul piano pratico gli opposti eccessi, repressivi e scusanti, della inescusabilità e della scusabilità assolute. La soluzione della scusabilità relativa è stata accolta dalla corte costituzionale la quale ha dichiarato illegittimo l'articolo 5 nella parte in cui non escludeva dalla inescusabilità la ignoranza inevitabile. Sicché il vero problema resta quello della distinzione tra ignoranza inevitabile-scusabile ed ignoranza evitabile-inescusabile, sulla quale la corte si è limitata a fornire indicazioni di massima distinguendo tra: 1) ignoranza colpevole, che comprende: • l'ignoranza preordinata, che si ha quando il soggetto, a conoscenza dell'esistenza della legge, non prende conoscenza del contenuto per agire con maggiore tranquillità di coscienza o per procurarsi una scusa; • l’ignoranza volontaria, che ricorre quando l'agente, consapevole dell'esistenza della legge, non prende conoscenza del contenuto per ostilità o indifferenza verso l'ordinamento giuridico o per pigrizia o trascuratezza; • l’ignoranza colposa, che è il punctum pruriens della teoria dell'ignorantia legis, segnando linee demarcazione con la ignoranza incolpevole. 2) ignoranza incolpevole, che si ha per esclusione al di fuori dei suddetti casi di ignoranza colpevole. Così quando è dovuta a caso fortuito o forza maggiore, o ad errore scusabile.

1. L’inesigibilità


La dottrina germanica, seguita da parte della dottrina italiana, ha ritenuto che per la colpevolezza, normativamente intesa, occorre anche la cosiddetta esigibilità del comportamento conforme al dovere. La inesigibilità del comportamento, dovuto al fatto che il soggetto ha agito in circostanze tali da non potersi umanamente pretende un comportamento diverso, esclude la colpevolezza.

LA “SUITAS” DELLA CONDOTTA 1. La coscienza e volontà della condotta L'articolo 42/1 dispone che “nessuno può essere punito per una azione od omissione preveduta dalla legge come reato se non l'ha commessa con coscienza e volontà”. Con la prevalente dottrina si può ritenere che l'articolo 42/1 sottolinei il principio generale che la condotta, prima che dolosa o colposa, deve essere umana, essendo tale solo la condotta dell'uomo rientrante nella signoria della volontà e differenziantesi come tale dagli accadimento naturali; e che, pertanto, la responsabilità penale presuppone, innanzitutto, la coscienza e volontà della condotta.

1. L’impedibilità della condotta Per non escludere dall'articolo 42/1 tutta l'ampia sfera di comportamenti non sorretti da una coscienza e volontà reali, la dottrina è stata costretta ad interpretare estensivamente tale norma, includendovi anche la coscienza e volontà potenziali. Ai fini dell'articolo 42, debbono perciò essere considerati coscienti e volontarie tutte le condotte attribuibili alla volontà del soggetto, essendo tali non solo quelle che traggono origine da un impulso cosciente, bensì anche quelle che derivano dalla inerzia del volere, ma che con uno sforzo del volere potevano essere impedite. Tra gli stessi atti automatici, come pure tra le omissioni inconsapevoli, occorre perciò distinguere: • quelli che possono essere impediti dalla volontà mediante i suoi poteri di arresto o di impulso; • quelli che si svolgono al di fuori di ogni possibile controllo del volere, come appunto gli atti che la coscienza non avverte e non può avvertire neppure con lo sforzo dell'attenzione, nonché gli atti, che pur essendo avvertiti dalla coscienza, sono determinati da una forza fisiologica, fisica e psichica, superiore al potere della volontà. Con l'incisiva espressione di suitas della condotta si designano entrambe le ipotesi di appartenenza della condotta al soggetto: quella della volontarietà reale è quella della volontarietà potenziale.

1. La esclusione della “suitas” della condotta Quali cause che escludono la attribuibilità psichica della condotta al soggetto vengono in considerazione le seguenti: • l'inconoscienza indipendente dalla volontà. Tali sono le situazioni di piena incoscienza che non risalgono al volere dell'agente, in quanto non sono state da lui procurate né volontariamente, né per imprudenza o negligenza e, comunque, non erano da lui prevedibili di impedibili. • la forza maggiore. È tale ogni forza esterna della natura che determina, in modo irresistibile ed inevitabile, il soggetto a tenere un comportamento attivo o omissivo. • il costringimento fisico.

IL DOLO 1. La nozione Il dolo è la forma fondamentale, generale ed originaria di colpevolezza. Per il nostro codice il dolo è rappresentazione e volontà del fatto materiale tipico, cioè di tutti gli elementi oggettivi della fattispecie del reato.

1. La struttura del dolo Sull'essenza del dolo si sono succedute nel tempo tre teorie: della intenzione, della rappresentazione e della volontà. • la teoria della intenzione ravvisava l'essenza del dolo nella volontà diretta a cagionare l'evento, come fine ultimo o come mezzo necessario per conseguire un fine ultimo;


la teoria della rappresentazione ritenne, invece, che il dolo consistesse nella volontà della condotta e nella previsione dell'evento. • Per la teoria della volontà il dolo è volontà anche dell'evento tipico e nel fuoco della volontà rientra non solo la intenzione, ma anche la accettazione del rischio della causazione dell'evento. Sotto il profilo intellettivo il dolo è rappresentazione del fatto, ma non necessariamente conoscenza, poiché il dubbio non esclude il dolo, pur non essendo coscienza della realtà. Sotto il profilo volitivo il dolo è volontà, che abbraccia: 1. sia il dolo intenzionale o diretto, che si ha quando la volontà ha direttamente di mira l'evento tipico, è diretta alla realizzazione del medesimo, sia esso stato previsto dall'agente come certo o anche soltanto come possibile; 2. sia il dolo eventuale od indiretto, che si ha quando la volontà non si dirige direttamente verso l'evento, ma l'agente lo accetta come conseguenza eventuale della propria condotta.

1. L’oggetto del dolo Oggetto del dolo è tutto ciò che il soggetto deve rappresentarsi e volere per essere in dolo: cioè il fatto oggettivo del reato, nel dolo generico, e altresì il fine richiesto dalla norma, nel dolo specifico. Il fatto va determinato - per quanto riguarda gli elementi dubbi - in base alla loro incidenza sulla offensività e, quindi, sulla illiceità del fatto. E va altresì inteso come fatto tipico, astratto, essendo necessario e sufficiente che il dolo investa gli elementi della realtà, rilevanti per l'integrazione della fattispecie legale, ed indifferente la erronea presentazione di elementi storici diversi dai suddetti. E tra gli elementi del fatto alcuni possono essere solo rappresentati mentre altri possono e debbono essere anche voluti. Costituiscono soltanto oggetto di rappresentazione: 1. tutti gli elementi positivi naturalistici, precedenti e concomitanti, alla condotta; 2. gli elementi negativi del fatto, cioè l'assenza di situazioni previste dalla legge come scriminanti, generali o speciali. Costituiscono invece oggetto di rappresentazione e volizione: 1. la condotta; 2. l'evento naturale quale conseguenza della condotta. Nei reati omissivi propri il dolo è costituito dalla rappresentazione del presupposto del dovere di agire e dalla volontà di non compiere l'azione doverosa. Nei reati omissivi impropri dalla rappresentazione dell'obbligo giuridico extra-penale di garanzia e dei presupposti di esso oltre che dalla volontà di non tenere l'ultima azione impeditiva e dall'evento materiale quale conseguenza di tale omissione. Ma il perenne problema del dolo è se esso abbracci anche la consapevolezza del disvalore del fatto, non essendosi mai acquietata la dottrina sulla sufficienza della mera conoscenza e volontà del solo fatto materiale, che ridurrebbe il dolo a categoria esangue e asignificativa. Di fronte alla irrinunciabile esigenza di una più intima partecipazione psichica nel soggetto al fatto, una più recente dottrina richiede la coscienza di offendere l'interesse protetto dalla norma, cercando di fondare l'assunto sulla base del diritto positivo. Occorre distinguere tra: 1. il dolo dei reati di offesa, che richiede anche la coscienza e volontà della offensività, e la conoscibilità della illiceità penale; 2. Il dolo dei reati di scopo o di mera creazione legislativa, che richiede la coscienza e volontà del mero fatto materiale tipico, ma non dell'offensività e la conoscibilità della illiceità penale del fatto.

1. L’accertamento del dolo L'accertamento del dolo consiste nelle seguenti operazioni: a) nel considerare tutte le circostanze esteriori, che in qualche modo possono essere espressione degli atteggiamenti psichici o comunque accompagnarli o essere con essi collegate; per cui l'ambito delle circostanze significative non può essere, aprioristicamente, determinato dal diritto positivo; b) nell'inferire, dall'esistenza di tali circostanze, certe e precise, l'esistenza di una rappresentazione, di una volizione o di un movente, sulla base delle comuni regole di esperienza, del modo in cui vanno comunemente le cose; c) nel valutare le eventuali circostanze che lascino ragionevolmente supporre una deviazione dal modo in cui vanno normalmente le cose.

1. Le forme del dolo


Una prima distinzione è tra: • dolo generico, proprio della maggior parte dei reati, quando la legge richiede la semplice coscienza e volontà del fatto materiale, essendo indifferente per l'esistenza del reato il fine per cui si agisce; • dolo specifico, tipico di particolari figure criminose, quando la stessa legge esige, oltre alla coscienza e volontà del fatto materiale, che il soggetto agisca per un fine particolare, che è appunto previsto come elemento soggettivo costitutivo della fattispecie legale, ma che sta oltre il fatto materiale tipico, onde il conseguimento di tale fine non è necessario per la consumazione del reato. Altra distinzione, assai ricorrente, è tra: • dolo di danno, quando il soggetto vuole ledere il bene protetto; • dolo di pericolo, quando il soggetto vuole soltanto minacciarlo.

1. L’intensità del dolo Il giudizio sulla intensità del dolo si ispira a canoni sufficientemente precisi, desumendosi dal grado di partecipazione, di aderenza, della coscienza e della volontà al reato. Ne sono criteri di commisurazione il quantum di volontà del fatto, il quantum di coscienza del fatto e il quantum di coscienza del disvalore del fatto Fondamentale è la distinzione, in ordine di intensità crescente tra: • il dolo d’impeto, quando cioè la decisione criminosa è improvvisa e immediatamente eseguita, esplodendo repentinamente nell'atto criminoso; • il dolo di proposito, quando cioè intercorre un consistente distacco temporale tra il sorgere dell'idea criminosa e la sua esecuzione; • il dolo di premeditazione, figura discussa in dottrina e nella pratica giudiziaria, che tradizionalmente rileva pure come aggravante dell'omicidio e delle lesioni personali. Per aversi premeditazione occorre: un intervallo temporale ampio tra l'insorgere e l'esecuzione del proposito criminoso, tale da consentire una ponderata riflessione; un consolidamento, mediante maturata riflessione, di tale proposito; una persistenza, tenace ed ininterrotta, del medesimo.

LA COLPA 1. La nozione Per l'articolo 43/1 il delitto "è colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se previsto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per l'inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”. Trattasi, però, di nozione incompleta, che esprime l'ipotesi comune di colpa, ma non comprende anche la colpa nei reati di mera condotta e la cosiddetta colpa impropria. Essa si completa con il contenuto degli articoli 47, 55, 59, 83. Ma in che cosa consiste la colpa? Le vecchie teorie soggettive sull'essenza della colpa, pur accogliendo aspetti di verità, non sono esaurienti così come - del resto - le teorie soggettive. Più esauriente è la moderna teoria mista, che ha evidenziato una duplice dimensione e funzione della colpa: • oggettiva, consistendo il primo elemento essenziale nella condotta violatrice della regola cautelare obiettiva, volta a salvaguardare i beni giuridici; • soggettiva, consistente il secondo elemento essenziale nella capacità soggettiva del singolo agente di osservare tale regola. Riteniamo, perciò, che l'essenza unitaria della responsabilità colposa debba ravvisarsi nel rimprovero al soggetto per avere realizzato, involontariamente ma pur sempre attraverso la violazione di regole doverose di condotta, un fatto di reato, che egli poteva evitare mediante l'osservanza, esigibile, di tali regole. Tre sono, pertanto, gli elementi costitutivi e caratteristici della colpa: 1. l'elemento negativo della mancanza della volontà del fatto materiale tipico; 2. l'elemento oggettivo della inosservanza delle regole di condotta, dirette a prevenire danni a beni giuridicamente protetti; 3. l'elemento soggettivo della attribuibilità di tale inosservanza al soggetto agente, dovendo avere egli la capacità di adeguarsi a tali regole e potendosi, pertanto, pretenderne da lui l’osservanza.

1. La mancanza di volontà del fatto Poiché il dolo è rappresentazione e volontà del fatto materiale tipico, per aversi colpa


occorre, innanzitutto, che l'agente non abbia voluto, né direttamente né indirettamente, tale fatto. Per la configurabilità della colpa, pertanto, è sufficiente la mancanza della coscienza o della volontà di almeno uno degli elementi positivi oppure l'erroneo convincimento della esistenza di un elemento negativo. Per questo motivo non ha ragione di essere la tradizionale distinzione tra colpa propria e colpa impropria, nella quale l'evento è voluto ma l'agente risponde di reato colposo. La colpa è configurabile non solo quando non è voluto l'evento ma anche quando il soggetto, pur avendo voluto l'evento, non si sia rappresentato un qualsiasi altro elemento positivo o negativo. Sulla base delle premesse sovraesposte del tutto legittima appare, invece, la distinzione tra colpa incosciente, che si ha quando l'evento non è voluto e nemmeno previsto dall'agente, e colpa cosciente (o con previsione dell'evento), posta in rilievo dalla dottrina solo in tempi più recenti e costituente ipotesi più rara, che si ha invece, quando l'evento, pur non essendo voluto, è tuttavia previsto dall'agente. Dolo e colpa possono differenziarsi già rispetto alla condotta, che nel dolo dev'essere effettivamente voluta, mentre nella colpa può essere voluta o anche non voluta, purché impedibile. Il requisito della mancanza di volontà del fatto si atteggia in modo diverso a seconda che si tratti di reati colposi di evento o reati colposi di pura condotta. Nei primi è sufficiente che non sia voluto l'evento, mentre la condotta può essere cosciente e volontaria oppure essere anche essa incosciente e involontaria, pur se impedibile.

1. L’inosservanza delle regole di condotta Il secondo requisito, oggettivo, della colpa è la inosservanza delle regole di condotta, dirette a prevenire gli eventi dannosi involontari e, perciò, a salvaguardare i beni giuridici. Quanto alle fonti, occorre distinguere: • regole di condotta non scritte, quali sono appunto le regole sociali, di diligenza, di prudenza e di perizia; • regole di condotta scritte, cioè cristallizzate in leggi, regolamenti, discipline, ordini. Quanto all'identificazione, le regole di condotta, scritte o non scritte, non possono non avere un carattere obiettivo, tale essendo la loro funzione preventiva. Possono pertanto dirsi regole di condotta preventive quelle che prescrivono comportamenti, attivi od omissivi, non tenendo i quali è prevedibile e tenendo i quali è prevenibile un evento dannoso, secondo la migliore scienza e esperienza specifiche. Quanto al contenuto, le regole di condotta possono prescrivere, a seconda dei tipi di attività: • di astenersi dall'attività pericolosa onde impedire l'insorgere del rischio; • non di astenersi dalla attività pericolosa, ma di adottare misure cautelari per contenere il rischio, onde impedire l'insorgere di un ulteriore rischio; • di informarsi; • di informare.

1. L’attribuibilità dell’inosservanza all’agente Per evitare forme di responsabilità oggettiva occulta occorre che la colpa sia all'agente anche soggettivamente imputabile, rimproverabile. Occorre anzitutto distinguere tra: • colpa cosciente, che ha una indubbia base psicologica, essendo l'evento collegato soggettivamente all'agente dalla previsione e nella quale il rimprovero è di non aver osservato certe regole precauzionali, pur avendo preveduto l'evento; • colpa incosciente, che, mancando anche della previsione dell'evento, è concetto soltanto normativo e rispetto alla quale il rimprovero è di non avere osservato certe regole precauzionali per non aver previsto l'evento, prevedibile. Quanto alla cosiddetta colpa generica, insostituibile è il criterio, anche ai fini dell'accertamento, della prevedibilità dell'evento e della prevenibilità o evitabilità del medesimo che vanno determinante, innanzitutto, tenendo presente tutte le circostanze in cui soggetto si trova ad operare in base al parametro relativistico dell'agente modello, cioè dell'uomo giudizioso ejusdem professionis et condicionis. Ne discende: • che è individuabile una pluralità di agenti modello in corrispondenza dei diversi tipi di attività e condizioni; • che lo stesso soggetto può essere ricondotto a più agenti modello in rapporto alla specifica attività svolta;


che il giudizio sulla colpa è relativo in quanto l'evento può essere prevedibile e evitabile per un'agente modello e non per un altro; • che pertanto, quando l'evento poteva ritenersi prevedibile ed evitabile dal modello di soggetto cui l'agente appartiene, questi non solo ha posto in essere una condotta obiettivamente pericolosa ma è altresì rimproverabile per essere stato imprudente, negligente, imperito. Quanto alla cosiddetta colpa specifica, non vi è, rispetto alla dimensione oggettiva, differenza con la colpa generica: entrambe richiedono l'inosservanza della regola cautelare. Circa la dimensione soggettiva, mentre per la colpa generica occorre accertare caso per caso la prevedibilità ed evitabilità da parte dell'uomo ejusdem professionis et condicionis, per la colpa specifica è controverso se occorra analogo accertamento concreto oppure se basti accertare la inosservanza della regola cautelare scritta e la riconducibilità dell'evento cagionato al tipo di evento che tale regola intende prevenire. L'inosservanza delle norme cautelari scritte comporta responsabilità colposa non per tutti gli eventi cagionati, ma solo per quelli del tipo che esse mirano a prevenire, cioè evitabili con la loro osservanza. D'altro canto l'osservanza delle norme cautelari scritte fa venire meno la responsabilità colposa quando esse siano esaustive delle regole prudenziali realisticamente esigibili rispetto a quella specifica attività o situazione pericolosa. Può residuare, invece, una colpa generica, quando tali norme siano non esaustive delle regole prudenziali adottabili e, perciò, l'agente debba rispettare anche regole cautelari non scritte. Di maggiore rilevanza pratica è la distinzione tra: • colpa comune - che riguarda le attività lecite perché non proibite - caratterizzata dalla inosservanza di regole di condotta finalizzate alla prevenzione di qualsiasi misura di rischio e dalla prevedibilità dell'evento; • colpa speciale o professionale - che riguarda le attività giuridicamente autorizzate perché socialmente utili, anche se per natura rischiose - caratterizzata dalla inosservanza di regole di condotta finalizzate alla prevenzione non del rischio dall'ordinamento consentito ma di un ulteriore rischio non consentito e dalla prevedibilità, non adottando tali misure, dell'evento. Nei casi di situazioni di rischio, implicanti le attività concorrenti di soggetti con obblighi divisi, il problema della colpa va risolto in base al principio dell'affidamento nel corretto comportamento degli altri soggetti. E ciò nei due seguenti casi, volti ad evitare esasperate parcellizzazioni della responsabilità: 1. della previsione o prevedibilità ed evitabilità, in rapporto alle circostanze concrete, della pericolosità del comportamento scorretto altrui; 2. dello specifico obbligo del soggetto, per la sua particolare posizione gerarchica, di prevenire o correggere l'altrui scorretto agire. Infine, la colpa può cadere sotto tutti gli elementi del fatto tipico, commissivo ed omissivo: sui presupposti, sull'oggetto materiale, sulla condotta, sulla scelta della condotta idonea ad impedire l'evento e sulla esecuzione di tale condotta.

1. Le forme e il grado della colpa Circa i criteri di graduazione, attengono alla dimensione soggettiva della colpa: 1. la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa, di creare una concreta situazione di pericolo e, quindi, della previsione o meno dell'evento dannoso come risultato verosimile della condotta, essendo ben maggiore la riprovevolezza del primo caso. Sottostanti criteri conseguenti sono, nella colpa cosciente, il quantum di previsione; nella colpa incosciente, il quantum di prevedibilità dell'evento. 2. il quantum di esigibilità della osservanza delle regole cautelari, essendo la colpa più o meno grave a seconda che si possa pretendere, in misura maggiore o minore, il rispetto di tali regole da parte del soggetto agente. Criteri attinenti alla dimensione soggettiva della colpa sono il quantum di evitabilità, variando il grado della colpa a seconda che l'evento fosse altamente, mediamente o scarsamente prevedibile, astenendosi dalla condotta tenuta; il quantum di divergenza tra condotta doverosa e quella tenuta, essendo la colpa tanto maggiore quanto più il soggetto si è discostato dalla regola di condotta, che doveva osservare.

LA PRETERINTENZIONE 1. La definizione e la struttura Il delitto è preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dalla azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall'agente. Quanto alla struttura, nel delitto preterintenzionale vi è la volontà di un evento minore,


che ne rappresenta la base dolosa, e la non volontà di un evento più grave, neppure a titolo di dolo eventuale, che è pur sempre conseguenza della condotta dell'agente. Si discute se la preterintenzione sia un dolo misto a colpa oppure un dolo misto a responsabilità oggettiva. Riteniamo che debba accogliersi l'antica e diffusa teoria del dolo mista a colpa per più ragioni: • perché sul piano sistematico, essa sola spiega perché il legislatore abbia previsto la preterintenzione come figura intermedia, fra il dolo e la colpa, inserendola materialmente tra l'una e l'altra; • perché essa sola ne spiega la previsione come figura distinta dalla responsabilità oggettiva, ad essa contrapponendo l'articolo 42.

L’ELEMENTO SOGGETTIVO NELLE CONTRAVVENZIONI 1. La particolare disciplina dell’art. 42/4 c.p. Nelle contravvenzioni l'elemento soggettivo ha una disciplina diversa da quella prevista per i delitti. l'articolo 42/4 dispone, infatti, che "nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa". Tale disposizione ha dato luogo, subito dopo l'entrata in vigore del codice, a due contrapposte interpretazioni. Per una prima opinione, nelle contravvenzioni sarebbero sufficienti la coscienza e volontà della condotta, mentre non si richiederebbe né il dolo né la colpa: esse sarebbero, perciò, imputabili a titolo di responsabilità oggettiva. Per altra opinione non basta la suitas della condotta, ma occorre anche il concorso del dolo o della colpa: può esserci indifferentemente il dolo o la colpa, ma è pur sempre necessaria quanto meno la colpa. Quest'ultima interpretazione, non contrastata e adottata dopo non poche oscillazioni anche dalla corte di cassazione, è quella imposta già da la stessa formulazione dell'articolo 42/4, dove l'inciso "sia essa dolosa o colposa", che altrimenti sarebbe superfluo, sta appunto ad indicare che è indifferente il dolo o la colpa, ma non che si può prescinderne. Contrasti permangono, invece, circa l'accertamento di tale elemento soggettivo. L'accertamento del dolo o della colpa appare essere necessario in tutti i casi, e non solo eventuale come sembrerebbe desumersi dall'articolo 42/2. L'accertamento del dolo o della colpa è essenziale per la stessa punibilità del fatto rispetto a quelle contravvenzioni che, per la loro intrinseca natura o per tecnica di formulazione legislativa, possono essere soltanto dolose oppure soltanto colpose.

LE CAUSE DI ESCLUSIONE DELLA COLPEVOLEZZA 1. L’errore in generale Le cause di esclusione della colpevolezza o scusanti sono cause che escludono la punibilità in quanto escludono la colpevolezza, per mancanza di rimproverabilità, rispetto ad un fatto che oggettivamente resta illecito. L'errore è falsa conoscenza della realtà, naturalistica o normativa. A seconda del momento dell'iter criminis su cui l'errore incide, occorre procedere alla fondamentale distinzione tra: • errore motivo, che cade nel momento ideativo del fatto, sul processo formativo della volontà, la quale nasce perciò viziata da una falsa rappresentazione del reale; • errore inabilità, che cade nella fase esecutiva del reato, cioè nella fase in cui la volontà si traduce in atto. Esso viene in considerazione nelle ipotesi del cosiddetto reato aberrante.

1. Il problema dell’errore Il problema della rilevanza dell’errore motivo è tra i più irti di difficoltà e di controversie. Non può infatti essere correttamente impostato e risolto sulla base della natura dell’errore ovvero attraverso l’antica contrapposizione fra errore sul precetto o errore sul fatto: su tale base non si è mai riusciti a dare una spiegazione all’errore sulla legge extrapenale richiamata dalla norma penale. Mentre in certi paesi viene assorbito nell’errore sulla legge penale, e non scusa (come in Francia), in altri viene equiparato all’errore di fatto, e scusa. Entrambe le soluzioni peccano per eccesso, poiché non consentono di distinguere a seconda che l’errore sulla legge extrapenale equivalga, negli effetti psicologici ultimi, all’errore sulla legge penale oppure all’errore di fatto. Presupposto necessario perché l’agente possa rendersi conto di agire in modo offensivo, antisociale e illecito è che egli abbia la coscienza e volontà di porre in essere un fatto identico a quello tipico e non un fatto diverso: quindi l’errore esclude il dolo a seconda


che precluda o meno la coscienza e volontà del fatto, previsto dalla norma penale. Il criterio razionale di distinzione recepito dagli artt. 5 e 47 è quello tra: • errore sul precetto penale, che si ha quando il soggetto si rappresenta e vuole un fatto che è perfettamente identico a quello previsto dalla norma penale, ma che egli, per errore su questa, crede che non sia illecito e non costituisca reato; • errore sul fatto, che costituisce il reato che si ha quando il soggetto, che ben può avere una conoscenza della norma penale, crede di realizzare un fatto diverso da quello da essa previsto. Nel primo caso il soggetto erra sulla sola fattispecie legale, sulla qualificazione penale del fatto commesso; nel secondo sulla fattispecie concreta, sulla corrispondenza del fatto commesso alla fattispecie legale. In ultima analisi, la differenza fra errore sul divieto ed errore sul fatto consiste nella identità nel primo, e nella diversità nel secondo, del fatto voluto rispetto al fatto incriminato dalla norma.

1. L’errore sul precetto dovuto ad errore su legge penale o extrapenale L’errore sul precetto può trarre origine: • direttamente, dalla ignoranza od erronea interpretazione o sensopercezione della stessa legge penale; • indirettamente, dalla ignoranza o dalla erronea interpretazione o sensopercezione della legge extrapenale richiamata dalla norma penale, nelle sole e non frequenti ipotesi in cui tale errore di diritto extrapenale non si traduca anche in un errore sul fatto. Quanto alla disciplina, l’errore sul precetto cade sotto il disposto dell’art. 5, che sancisce il principio dell’error vel ignorantia legis non excusat non più in termini assoluti, ma solo se trattasi di ignoranza o di errore evitabili.

1. L’errore sul fatto dovuto ad errore di fatto L’errore sul fatto può essere determinato: 1. da un errore di fatto, cioè dalla mancata o imperfetta percezione o valutazione di un dato della realtà naturalistica; 2. da un errore sulla legge extrapenale richiamata; 3. da errore sulla legge penale o su norma extragiuridica, richiamate. Per cadere “sul fatto che costituisce reato”, in modo che il soggetto ritenga di porre in essere un fatto concreto diverso da quello vietato dalla norma penale, l’errore deve essere essenziale, cioè deve avere per oggetto uno o più degli elementi oggettivi richiesti per l’esistenza del reato. Cominciamo dall’errore di fatto. Ne possono costituire oggetto: 1. gli elementi positivi del fatto materiale di reato, cioè la condotta, gli elementi ad essa preesistenti o concomitanti, l’evento, il nesso causale; 2. gli elementi negativi del fatto (assenza di scriminanti), come si ha appunto nella erronea supposizione della esistenza di una scriminante o, più brevemente, nella scriminante putativa. L’errore di fatto può aversi anche rispetto agli elementi normativi. Quanto alla disciplina, in conformità del principio della responsabilità personale l’art. 47/1 dispone, in via generale, che “l’errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell’agente. Nondimeno, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo”. Dagli artt. 47/1 e 59/4 si desume, innanzitutto, che l’errore sul fatto, derivante da errore di fatto, esclude sempre e necessariamente il dolo in quando l’agente si è rappresentato ed ha voluto un fatto diverso da quello previsto dalla norma penale. La colpa non viene meno quando, viceversa, l’errore sia colpevole o inescusabile, cioè dovuto a imprudenza, negligenza, ecc. e perciò evitabile osservando le dovute regole di attenzione e precauzione. In tal caso il soggetto risponderà per colpa, allorché la legge preveda il fatto come delitto colposo.

1. L’errore sul fatto dovuto ad errore su legge extrapenale L’art. 47/3 dispone che “l’errore su una punibilità quando ha cagionato un errore fra: • un errore sulla legge extrapenale che scusa; • un errore sulla legge extrapenale che perciò, non scusa.

legge diversa dalla legge penale esclude la sul fatto che costituisce reato”. Distingue così si risolve in un errore sul fatto e che, pertanto, si risolve non in un errore sul fatto e che,


Non distinguendosi chiaramente tra “errore di fatto” e “errore sul fatto”, non si è capito che l’errore sulla legge extrapenale è irriducibile all’errore di fatto, ma ben può dare luogo ad un errore sul fatto. Anche il problema dell’errore sulla legge extrapenale va risolto sulla base degli effetti psicologici ultimi dell’oggetto finale di esso: a seconda cioè che esso si limiti soltanto ad un errore sul precetto oppure si traduca anche in un errore sul fatto. Quando l’errore extrapenale non si esaurisce in un errore sul precetto, ma comporta un errore sul fatto, esso è ontologicamente identico, negli effetti psicologici ultimi, all’errore sul fatto determinato da un errore di fatto. In entrambi i casi l’agente vuole un fatto concreto diverso da quello vietato dalla norma penale, quindi agisce senza la coscienza dell’offensività-illiceità del fatto e non gli è neppure rimproverabile, perché irrilevante, la eventuale ignoranza, evitabile, della legge. Per maggiore chiarezza, va precisato che si ha sempre errore sul precetto quando l’errore cade sul significato penalistico dell’elemento normativo. Invece è configurabile un errore sul fatto quando l’errore cade sulle norme extrapenali richiamate, le quali vengono in considerazione dopo che è stato definito in base alla ratio della norma penale il significato penalistico di tale elemento. Danno luogo ad errore sul fatto anche: • l’errore su legge extrapenale nelle ipotesi di antigiuridicità o illiceità speciale; • l’errore sulla legge extrapenale, richiamata dagli elementi normativi delle scriminanti. Quando l’errore sulla legge extrapenale non comporti un errore sul fatto, ma si limiti ad un errore sul precetto, sulla sola norma penale, esso è ontologicamente identico, negli effetti psicologici, all’errore che cade, direttamente, sulla stessa norma incriminatrice. Qualora l’errore riguardi norme penali richiamate nella fattispecie criminosa (cioè norme di origine penale ma diverse dalla norma penale violata nella specie), occorre risolvere il problema sulla base dei principi generali in materia di dolo, dovendosi distinguere se tale errore si esaurisce al precetto o si traduce in un errore sul fatto, e non soltanto all’errore di fatto, che dell’errore sul fatto costituisce solo un’ipotesi. Negli stessi termini va pure risolto il problema dell’errore sulla norma extragiuridica richiamata da un elemento normativo extragiuridico della fattispecie criminosa.

1. Il reato putativo Si ha reato putativo quando il soggetto crede di commettere un fatto che costituisca reato, mentre reato non è. L’errore agisce, qui, in senso inverso rispetto all’errore finora considerato. Ispirato al principio oggettivistico, il nostro codice coerentemente sancisce che “non è punibile chi commette un fatto non costituente reato nella supposizione erronea che esso costituisca reato.

1. L’aberratio Anche nell’aberratio si ha una divergenza fra il voluto e il realizzato, dovuta però a cause non incidenti sulla fase formativa, ma sulla fase esecutiva della volontà: cioè ad un errore inabilità o ad altri fattori. Si distingue fra: • aberratio causae: si ha quando il processo causale si è svolto in modo diverso da come l’aveva previsto e voluto l’agente, pur avendo egualmente prodotto l’evento. • aberratio ictus: si ha quando per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato o per un’altra causa, è cagionata offesa a persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta. • aberrattio delicti: si ha quando fuori dai casi già visti si cagiona un evento diverso da quello voluto per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione.

LA RESPONSABILITà OGGETTIVA 1. La nozione La responsabilità oggettiva consiste nel porre a carico dell’agente un evento sulla base del solo rapporto di causalità, indipendentemente dal concorso del dolo o della colpa. L’agente è, pertanto, chiamato a rispondere dei risultati della sua condotta, anche se rispetto ad essi nessun rimprovero può essergli mosso, neppure di semplice leggerezza. La responsabilità oggettiva espressa è costituita dalle ipotesi espressamente previste in non poche legislazioni penali, comprese la nostra. L’art. 42 dopo aver stabilito che nessuno può essere punito per un fatto previsto come delitto se non l’ha commesso con dolo, salvo i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente previsti dalla legge, aggiunge che la legge determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente


come conseguenza della sua azione od omissione. La responsabilità oggettiva occulta riguarda quelle ipotesi, o quei coefficienti, di responsabilità oggettiva, che si annidano nello stesso concetto di colpevolezza e nelle sue specifiche forme del dolo e della colpa, quando non siano non solo concepiti ma anche concretamente applicati in termini di autentica responsabilità colpevole.

1. I reati qualificati dall’evento Si dicono qualificati o aggravati dall’evento i reati che subiscono un aumento di pena allorché derivi un ulteriore evento che viene posto a carico dell’agente per il solo fatto di essere stato causato dalla sua condotta criminosa, a prescindere dal dolo o dalla colpa. Controversa è la natura dei reati qualificati dall’evento. Per una opinione prevalente sarebbero figure di reati circostanziati. Da altri si nega la natura unitaria, poiché solo certe ipotesi costituirebbero reati circostanziati, mentre altre costituirebbero figure autonome di reato: e tra queste sarebbero riconducibili al delitto preterintenzionale quelle in cui l’evento ulteriore deve essere non voluto. Con la diversità di conseguenze pratiche, quale anzitutto la assoggettabilità o meno al bilanciamento previsto per le circostanze. Il sottolineare, come fa giustamente certa dottrina, l’analogia di struttura tra la categoria dei delitti qualificati dall’evento non voluto e il delitto preterintenzionale, poiché anche in quelli il risultato maggiore è andato oltre l'intenzione, o il ravvisarvi un vero e proprio delitto preterintenzionale, si riduce, però, ad un problema soprattutto classificatorio, se poi si considerano le due categorie di delitti come le ipotesi più significative di responsabilità oggettiva. In entrambi i casi l'evento ulteriore andrebbe, infatti, posto a carico dell’agente sulla base del solo rapporto causale, in applicazione del vieto canone del versari in re illicita. Già de jure condito, una completa revisione di tale categoria di delitti può aversi allorché si ritenga, come crediamo, che la preterintenzione sia un dolo misto a colpa. In questo modo essi vengono riportati nell'ambito della colpevolezza, in conformità del principio della responsabilità personale. E si dà, altresì, un senso al fatto che il legislatore abbia previsto la preterintenzione come categoria generale, immiserita invece dalla dottrina, inverosimilmente, alla sola ipotesi dell'art. 584. Non costituisce ostacolo insuperabile il fatto che anche i suddetti delitti qualificati dall'evento darebbero vita ad una figura non autonoma ma aggravata di reati: mentre da un lato non esistono prove che l'art. 43/3 consideri il delitto preterintenzionale come figura necessariamente autonoma, e non si è mancato di sostenerne la natura di reato circostanziato, dall'altro una corretta applicazione dei criteri distintivi tra elementi costitutivi ed elementi aggravanti del reato porta a concludere che sono figure autonome e non circostanziate quanto meno le ipotesi più significative e ricorrenti dei delitti qualificati dall’evento. Né osta il fatto che i delitti preterintenzionali debbano essere, ex. art. 42, previsti espressamente dalla legge come tali: esigenza già soddisfatta dal fatto che i singoli reati qualificati dall’evento presentano i requisiti tipici richiesti dalla definizione generale di preterintenzione. Ora, poi, che tutte le circostanze sono soggette a bilanciamento, si evita, altresì, per questa via che l'evento ulteriore, quale anzitutto la morte o le lesioni, possa degradare a mera circostanza bilanciabile con altre attenuanti del tutto eterogenee. Cosa che sarebbe comunque ampiamente compensata dal ricupero dei delitti qualificati dall'evento al principio della colpevolezza. De jure condendo, sulla scia della riforma operata in Germania, ove i reati aggravati dall' evento costituivano l'ultima “isola” di responsabilità oggettiva espressa, se ne propone il ricupero al campo della colpevolezza attraverso l'imputazione dell'evento ulteriore per colpa (e riproporzionando altresì le pene delle singole ipotesi di parte speciale con quelle dei reati colposi: soluzione adottata anche dal Progetto del 1953 attraverso la già vista modifica dell' art. 42/3. Ma ne viene più radicalmente auspicata anche la eliminazione, totale o parziale (volta cioè a circoscriverne la categoria), con conversione alla comune disciplina del concorso formale tra reato doloso e reato colposo. O anche attraverso la riformulazione delle ipotesi, configurate come reati a consumazione anticipata (es.: calunnia), in reati di danno, ove la non verificazione dell'evento darà luogo a tentativo punibile. Soluzione che, mentre sul piano politico-criminale non sembra comportare alcuna sovversione della generalprevenzione, sul piano dommatico e pratico comporta una grande semplificazione, data la quantità e complessità di da tale complicatoria categoria di reati.

1. I reati di stampa Per il nuovo art. 57 sulla stampa pubblicazione e fuori dai casi di il quale omette di esercitare sul necessario ad impedire che con il

periodica, salva la responsabilità dell’autore della concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile, contenuto del periodico da lui diretto il controllo mezzo della pubblicazione siano commessi reati, è punito,


a titolo di colpa, se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente un terzo. L’autonomo reato dell’art. 57 è: • un reato proprio, essendone autori il direttore o il vicedirettore responsabile; • un reato omissivo improprio, consistente nel non impedire, omettendo il necessario controllo, la commissione del reato per mezzo della pubblicazione; • un reato colposo, poiché il mancato impedimento dell’evento deve essere non voluto, ma attribuibile a colpa del direttore, accertabile caso per caso. Pertanto il direttore risponderà: a) di concorso doloso nel reato commesso dall’autore della pubblicazione; b) del reato colposo dell’art. 57, quando il controllo abbia omesso non con intenzione agevolatrice né accettando il rischio di tale evento, sempre che questo fosse prevedibile ed evitabile e nulla importando che l’omissione del controllo sia stata volontaria oppure involontaria; c) di nessun reato quando l’omesso controllo impeditivo non sia dovuto neppure a colpa. Nell’ipotesi di stampa non periodica o di stampa clandestina, la disciplina prevista dall’art. 57 per il direttore si applica all’editore, se l’autore della pubblicazione è ignoto o non imputabile, ovvero allo stampatore, se l’editore non è indicato o non è imputabile.

LE FORME DI MANIFESTAZIONE DEL REATO IL REATO CIRCOSTANZIATO 1. Le circostanze Il reato può assumere aspetti particolari, che pur se non essenziali per la sua esistenza danno luogo, però, a conseguenze giuridiche diverse. Tali differenti modi di atteggiarsi vengono trattati in quel capitolo della teoria generale del reato che ormai va sotto il nome di forme di manifestazione del reato. Fra tali forme eventuali vengono comunemente comprese: il reato circostanziato; il reato tentato; il concorso di reati; il concorso di persone nel reato. Le circostanze sono elementi accidentali, accessori, del reato. Come tali non sono necessari per la sua esistenza ma incidono sulla sua gravità o rilevano come indice della capacità a delinquere del soggetto, comportante una modificazione, quantitativa e qualitativa, della pena. La loro presenza trasforma il reato semplice in reato circostanziato, aggravato o attenuato. Il nostro diritto resta fondamentalmente ancorato al duplice principio della tassatività delle circostanze e della obbligatorietà della loro applicazione. Il principio di tassatività subisce taluni temperamenti, più accentuati nelle leggi speciali che rappresentano delle aperture verso i valori concreti del fatto. Accanto ad un vasto sistema di circostanze definite che sono espressamente individuate dalla legge nei loro specifici elementi costitutivi, sono previste anche circostanze indefinite la cui individuazione è rimessa, in maggiore o minore misura, alla discrezionalità del giudice. Il principio dell'obbligatorietà, enunciato dallo stesso articolo 59/1, vale per ogni tipo di circostanza, definita o indefinita. Circa gli effetti, le circostanze, oltre alla modificazione della pena, determinano gli ulteriori effetti di rilevanza edittale, concernenti principalmente: • la prescrizione del reato; • la procedibilità; • la competenza; • le misure cautelari personali e dell’arresto.

1. L’individuazione delle circostanze Problema primario è stabilire quand’è che un elemento deve considerarsi costitutivo del reato o circostanziante e, pertanto, se si abbia un reato autonomo o un reato circostanziato. Premesso che il problema non si pone per le circostanze estrinseche, nella maggior parte dei casi è la stessa legge ad indicare - nella rubrica o con le formule d'uso - che si tratta di una circostanza, pur se non può sempre attribuirsi alla nomenclatura legislativa un valore decisivo. Il criterio distintivo generale, che per la sua intrinseca razionalità dovrebbe essere scrupolosamente seguito anche dal legislatore, va desunto dalla diversa funzione degli elementi costitutivi e degli elementi circostanzianti. Poiché i primi caratterizzano un tipo di reato ed i secondi non immutano tale tipo di reato, ma ne graduano


soltanto la gravità, possono costituire circostanze solo gli elementi specializzanti di corrispondenti elementi della fattispecie incriminatrice semplice. Al contrario, non potrà mai costituire circostanza l'elemento che, anziché specificare, si sostituisca al corrispondente elemento o si aggiunga agli elementi di altra fattispecie. Il criterio esposto ha il duplice merito: a) di riportare tutta una serie di ipotesi, oggi considerate specie dalla giurisprudenza come aggravanti, nel campo della piena colpevolezza; b) di preludere, tanto più di fronte all'attuale crisi del valore della vita e integrità fisica, l'assurdo logico e giuridico che le lesioni, ancor più se gravi o gravissime, e la morte possano essere bilanciate con circostanze attenuanti del tutto eterogenee ed essere, addirittura, dichiarate soccombenti, con conseguente applicazione della pena nei limiti del reato base.

1. La classificazione delle circostanze Le circostanze si distinguono, oltre che in definite e indefinite ed in obbligatorie e facoltative, come già visto, in: • comuni e speciali, a seconda che siano previste per un numero indeterminato di reati, cioè per tutti reati con cui non siano incompatibili, oppure per uno più reati determinati; • aggravanti e attenuanti, a seconda che comportino un inasprimento od una attenuazione della pena prevista per il reato semplice; • ad efficacia comune e ad efficacia speciale, a seconda che la legge stabilisca la misura della pena in modo indipendente dalla pena ordinaria del reato oppure stabilisca tale misura in modo indipendente o una pena di specie diversa; • oggettive e soggettive: distinzione posta dall'articolo 70 e di particolare importanza nel concorso di persone ai fini della comunicabilità delle circostanze ai concorrenti secondo l'originaria disciplina dell'articolo 118, ma pressoché privata di ogni pratica rilevanza dopo la riforma di tale articolo, nonché dell'estensibilità dell'impugnazione. Sono soggettive quelle che riguardano: a) la natura, la specie, i mezzi, l’oggetto, il tempo, il luogo ed ogni altra modalità dell'azione; b) la gravità del danno o del pericolo; c) le condizioni o le qualità personali dell’offeso. Sono soggettive quelle che riguardano: a) le condizioni o le qualità personali del colpevole; b) l’intensità del dolo o il grado della colpa; c) i rapporti tra colpevole offeso. Così pure quelle inerenti alla persona del colpevole. Si possono ancora distinguere le circostanze in antecedenti, concomitanti e susseguenti. Inoltre, sono dette intrinseche le circostanze che attengono alla condotta o ad altri elementi del fatto tipico; estrinseche quelle che sono estranee all'esecuzione e consumazione del reato, consistendo in fatti successivi, e che attengono più strettamente alla capacità a delinquere.

1. Le aggravanti comuni Il codice del 1930, a differenza di altri codici e della precedente legislazione, prevede non solo attenuanti comuni e speciali e agravanti speciali, ma anche aggravanti comuni. L’art. 61 ne prevede undici: 1. l'avere agito per motivi abietti o futili (sog.): è abietto il motivo ripugnante o spregevole; è futile quello del tutto sproporzionato alla entità del reato commesso; 2. l'aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato (sog.): come ad esempio l’omicidio compiuto per derubare la vittima, l’uccisione del complice per non dividere il bottino, la distruzione del cadavere dell’ucciso o l’uccisione del testimone; 3. l'avere, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell'evento (sog.); 4. l'avere adoperato sevizie, o l'aver agito con crudeltà verso le persone (sog.): sevizia è l’inflizione di una sofferenza atroce di natura fisica; crudeltà è l’inflizione di un patimento morale che rileva parimenti la mancanza di sentimenti umanitari; 5. l'avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa (ogg.): come in caso di calamità naturale per i fenomeni di sciacallaggio; 6. l'avere il colpevole commesso il reato durante il tempo, in cui si è sottratto volontariamente alla esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di


carcerazione spedito per un precedente reato (sog.); 7. l'avere, nei delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, ovvero nei delitti determinati da motivi di lucro, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità (ogg.); 8. l'avere aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso (sog.); 9. l'avere commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto (sog.); 10. l'avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale [c.p. 357] o una persona incaricata di un pubblico servizio, o rivestita della qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello Stato, ovvero contro un agente diplomatico o consolare di uno Stato estero, nell'atto o a causa dell'adempimento delle funzioni o del servizio (ogg.); 11. l'avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d'opera, di coabitazione, o di ospitalità (sog.).

1. Le attenuanti comuni Attenuano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze attenuanti speciali, le circostanze seguenti: 1. l'avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale; 2. l'aver reagito in stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui; 3. l'avere agito per suggestione di una folla in tumulto, quando non si tratta di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o dall'autorità, e il colpevole non è delinquente o contravventore abituale o professionale, o delinquente per tendenza; 4. l'avere, nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità ovvero, nei delitti determinati da motivi di lucro, l'avere agito per conseguire o l'avere comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, quando anche l'evento dannoso e pericoloso sia di speciale tenuità; 5. l'essere concorso a determinare l'evento, insieme con l'azione o l'omissione del colpevole, il fatto doloso della persona offesa; 6. l'avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso, e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l'essersi, prima del giudizio e fuori del caso preveduto nell'ultimo capoverso dell'articolo 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato.

1. Le c.d. attenuanti generiche Ai sensi dell’art. 62bis “il giudice, indipendentemente dalle circostanze prevedute nell'articolo 62, può prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Esse sono considerate in ogni caso, ai fini dell'applicazione di questo capo, come una sola circostanza, la quale può anche concorrere con una o più delle circostanze indicate nel predetto articolo 62”. Per la giurisprudenza e buona parte della dottrina i criteri di massima, cui il giudice deve attenersi, sono quelli indicati dall'articolo 133, che detta appunto le regole generali per l'uso del potere discrezionale del giudice nella determinazione concreta della pena.

1. L’imputazione delle circostanze Le circostanze, sia aggravanti che attenuanti, erano imputabili - secondo l'originario articolo 59 - obiettivamente: se esistevano, si applicano anche se non conosciute; se non esistevano, non si applicano anche se ritenute esistenti. Sicché erano parimenti irrilevanti sia l’ignoranza sia l'erronea supposizione della loro esistenza. Riformulando l’art. 59/1 e 2, la L. n. 19/1990, oltre a tenere ferma l’irrilevanza delle circostanze putative: 1. ha affermato la regola dell'imputazione obiettiva, ovviamente favorevole al reo e mai contestata, per le attenuanti: “le circostanze che attenuano la pena sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti”; 2. ha sancito la regola dell'imputazione almeno colposa per le aggravanti, cioè se conosciute o conoscibili: “le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell'agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa”. In caso di error in persona cioè sull'identità della vittima per uno scambio di persona, l'articolo 60 sancisce le seguenti regole: 1. che “non sono poste a carico dell'agente le circostanze aggravanti, che riguardano le


condizioni o qualità della persona offesa, o i rapporti tra offeso e colpevole”; 2. che “sono invece valutate a suo favore le circostanze attenuanti erroneamente supposte, che concernono le condizioni, le qualità e i rapporti predetti”.

1. Il concorso di circostanze Si ha concorso di circostanze quando rispetto ad un medesimo reato si verificano più circostanze. Occorre distinguere a seconda che si tratti di: • concorso omogeneo cioè di circostanze tutte aggravanti o tutte attenuanti dove si fa luogo a tanti aumenti o diminuzioni di pena quante sono le circostanze concorrenti, salvo i limiti stabiliti dal codice; • concorso eterogeneo, cioè di circostanze aggravanti ed attenuanti dove il giudice deve procedere al loro bilanciamento, cioè ad un giudizio di prevalenza o di equivalenza.

IL DELITTO TENTATO 1. L’iter criminis Il reato, come ogni cosa umana, nasce, vive e muore. Perciò esso, se considerato dal punto di vista dinamico, cioè nel suo concreto divenire, si realizza di regola passando attraverso varie fasi, che costituiscono il cosiddetto iter criminis. Tale iter, nella sua estensione massima, può snodarsi nella ideazione, preparazione, esecuzione, perfezione, consumazione. • La fase della ideazione si svolge all'interno della psiche del reo, passando attraverso il processo di motivazione e culminando nella risoluzione criminosa, in se non punibile. È riscontrabile solo nei reati dolosi e può rilevare ai fini dell'intensità del dolo. • La fase della preparazione può aversi nei reati a dolo di proposito e, in particolare, di premeditazione. • La fase di esecuzione si ha quando il soggetto compie la condotta esteriore richiesta per la sussistenza del reato. • Sì ha la perfezione del reato allorché si sono verificati tutti i requisiti richiesti dalla singola fattispecie legale, nel loro contenuto minimo cioè necessario e sufficiente per la esistenza del reato. • Si ha consumazione quando il reato perfetto ha raggiunto la sua massima gravità concreta. Mentre la perfezione indica il momento in cui il reato è venuto ad esistere, la consumazione indica il momento in cui è venuto a cessare, in cui si chiude l'iter criminis per aprirsi la fase del postfactum. La consumazione segna il momento limite alla configurabilità della legittima difesa, del concorso formale di reati, del concorso di persone, della flagranza. In rapporto alla durata del reato si pone anche la importante distinzione tra reati istantanei e reati permanenti. Sono reati istantanei quelli in cui l'offesa è istantanea, perché viene ad esistenza e si conclude nello stesso istante: per la sua stessa impossibilità di protrarsi nel tempo. Sono reati permanenti quelli per la cui esistenza la legge richiede che l'offesa al bene giuridico si protragga nel tempo per effetto della persistente condotta volontaria del soggetto. Il reato permanente è reato unico. Si perfeziona non nel momento cui si instaura la situazione offensiva, ma nel momento in cui si realizza il minimum di mantenimento di essa, necessario per la sussistenza di tale reato.

1. Il problema della punibilità del tentativo Il primo problema del tentativo è se punirlo e come punirlo. Nella logica di un sistema penale oggettivo, incentrato sulla effettiva lesione dell'interesse tutelato, l'istituto non trova riconoscimento, come del resto comprova il suo tardo affermarsi nella esperienza giuridica. Nella logica di un sistema penale soggettivo viene, viceversa, negata ogni differenza tra reato tentato e reato consumato. I sistemi penali misti adottano, invece, una soluzione intermedia, che appare la più conforme ad una coscienza giuridica progredita. Puniscono il tentativo, ma in misura inferiore al reato perfetto di quanto vi è stata la volontà della lesione ma non la lesione del bene protetto.

1. Il problema dell’inizio del tentativo punibile Il secondo problema è in che cosa debba consistere il tentativo punibile. Secondo la concezione soggettivistica, la nozione di tentativo è la più ampia possibile, abbracciando tutti gli atti sintomatici della pericolosità del soggetto o della ribellione della volontà alla norma fino ad estendersi al più remoto stadio degli atti preparatori. Per la concezione


oggettivistica, propria di un diritto penale misto incentrato sui principi di materialitàoffensività, oltre che di soggettività, del reato, la nozione di tentativo viene ristretta soltanto a quelle manifestazioni della volontà criminosa concretantesi in quegli atti esterni che realizzano una situazione di reale pericolo, non dovendosi punire gli atti ancora obiettivamente innocui. Nei sistemi a legalità formale il principio del nullum crimen sine legem impone, sotto i profili della riserva di legge e tassatività: 1. la previsione espressa, da parte della legge, anche dei reati tentati; 2. la tassativizzazione anche dei reati tentati. La teoria dell'inizio della esecuzione individua il tentativo punibile in base al grado di sviluppo dell'azione criminosa: costituiscono tentativo punibile solo gli atti esecutivi e non gli atti preparatori. È però riconosciuto che, pur nel suo indubbio valore politico, tale teoria, mentre da un lato non soddisfa pienamente l'esigenza di certezza giuridica, dall'altro riduce il tentativo punibile entro limiti troppo ristretti, sacrificando la difesa sociale. La teoria della idoneità-univocità individua il tentativo punibile non più sulla base del grado di sviluppo dell'azione criminosa, ma sulla base della idoneità e dell'univoca direzione degli atti a realizzare il reato perfetto, cioè del pericolo di realizzazione del medesimo. È questa la soluzione seguita dal codice Rocco, che ha abbandonato la formula dell’inizio di esecuzione del codice del 1889, anche per la finalità politica di anticipare la soglia della punibilità del tentativo.

1. La soluzione del nostro codice Ai sensi dell'articolo 56 "chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non si compie o l’evento non si verifica. Il colpevole di delitto tentato è punito: con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l'ergastolo; e, negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto diminuita da un terzo a due terzi ".

1. L’elemento soggettivo Anche sotto l'aspetto soggettivo il delitto tentato presenta caratteri propri rispetto al delitto perfetto. Esso è, anzitutto, un delitto doloso: non solo perché il “tentare”, se inteso nel concetto comune, è incompatibile con la colpa e perché l'articolo 56 parla di "atti diretti a commettere un delitto", ma anche in base alla regola generale dell'articolo 42/2, mancando ogni espressa previsione del tentativo colposo. Per la tesi positiva il dolo del tentativo è volontà di commettere il delitto perfetto che è, come tale, è comprensivo anche del dolo eventuale. Ciò in quanto, imponendo all'agente di realizzare e non tentare tale delitto, il dolo del tentativo non può essere che quello del delitto perfetto. Preferibile appare la tesi negativa, per cui il dolo del tentativo è intenzione di commettere il delitto perfetto, con conseguente esclusione del dolo eventuale. Chi, mirando ad altro risultato, accetta il rischio che abbia a verificarsi anche un delitto (o un ulteriore delitto), non si rappresenta e non vuole gli atti come diretti alla commissione di questo delitto. Il che vuol dire che si ha delitto tentato solo se il soggetto agisce con dolo intenzionale e che non è possibile punire il tentativo con dolo eventuale, senza violare il divieto di analogia in malam partem, dovendosi ammettere un tentativo con atti non diretti. Quanto all'accertamento del dolo, si ha in un certo senso, un capovolgimento del procedimento ordinario. Nel delitto perfetto si parte dal fatto materiale per accertare, poi, se il soggetto lo ha voluto. Nel delitto tentato occorre prima accertare l’intenzione, il fine cui l'agente tendeva, lo stesso piano di attuazione, perché solo in rapporto allo specifico fine ed al concreto piano dell’agente è possibile valutare la idoneità e la direzione univoca degli atti. La prova del dolo sottostà alle stesse regole che valgono per il dolo in generale.

1. L’elemento oggettivo Sotto il profilo oggettivo il delitto tentato è costituito da un elemento negativo e da un elemento positivo: • l'elemento negativo consiste nel non compimento dell'azione o nel non verificarsi dell'evento; • l'elemento positivo consiste nel duplice requisito dell'idoneità degli atti e della univoca direzione degli stessi. Quanto alla inidoneità, da sola dilaterebbe oltre misura il tentativo punibile, dovendo essere intesa in un'ampio senso prognostico. Quanto alla direzione non equivoca degli atti, essa dovrebbe riportare, quale ulteriore requisito limitativo, entro ragionevoli limiti il


tentativo punibile. Sennonché tale requisito viene inteso in due modi diversi, che ne vanificano però entrambi la funzione. Secondo l'accezione soggettiva, risultante anche dai lavori preparatori, l'univocità starebbe ad indicare non un elemento costitutivo-limitativo, ma una semplice esigenza processuale probatoria: che, in sede processuale, sia data la prova che l'atto tendeva al fine criminoso, cioè della intenzione di commettere il delitto perfetto. Secondo l'accezione oggettiva, l'univocità costituirebbe un requisito oggettivo e, quindi, ulteriormente limitativo, del tentativo, in quanto starebbe a significare: a) secondo la tesi della univocità assoluta, che gli atti devono rivelare, in se e per se considerati, cioè nella loro oggettività, la loro direzione finalistica verso lo specifico reato, la specifica intenzione criminosa del soggetto; b) secondo la tesi della univocità relativa, che gli atti debbono rivelare, in rapporto al piano criminoso previamente individuato in base tutte le risultanze probatorie, la loro direzione finalistica allo specifico reato voluto dall’agente. Sennonché la prima tesi non limita, ma elimina il tentativo punibile; la seconda tesi, viceversa, non limita, ma dilata incontenibilmente il tentativo punibile.

1. La necessaria pericolosità del tentativo Per una chiarificazione del problema, va premesso: a) che, a scanso di illusioni, il tentativo, per sua natura, non consente soluzioni parimenti appaganti le opposte esigenze di certezza giuridica e di difesa sociale; b) che la formula dell'articolo 56, pur se introdotta per superare gli angusti limiti degli atti esecutivi tipici, deve però essere interpretata in conformità del principio di offensività, in modo cioè che sia costantemente assicurata la reale pericolosità del tentativo punibile; c) che la pericolosità del tentativo non può che consistere nel pericolo di realizzazione del delitto perfetto, giacché con la perfezione di esso si avrebbe già la lesione dell'oggetto giuridico o dell’interesse statale alla non realizzazione della situazione incriminata; d) che il pericolo di realizzazione del delitto perfetto, perché sia non ipotetico ma reale, deve, altresì, presentare una sua attualità o perché è già in atto la stessa condotta tipica o perché è sul punto di essere iniziata o perché il soggetto ha già proceduto o sta procedendo all'opera di eliminazione dei mezzi di difesa o degli ostacoli materiali che si frappongono alla aggressione del bene protetto.

1. La idoneità degli atti La idoneità degli atti è la condizione prima per la pericolosità del tentativo. Se gli atti sono inidonei a commettere un delitto, viene meno, già priori, ogni probabilità di realizzazione di esso. Sono idonei gli atti che si presentano adeguati alla realizzazione del delitto perfetto, perché potenzialmente capaci di causarne o favorirne la verificazione. Il giudizio di idoneità degli atti, come è ormai pacifico: 1. è un giudizio in concreto, dovendo gli atti essere considerati nel contesto della situazione cui ineriscono. Proprio per questa ragione il codice vigente ha rettificato la formula dei "mezzi idonei" del codice dell'89 in quella degli "atti idonei", in quanto la idoneità o meno del mezzo dipende, non solo dal mezzo in sé ma anche dall'attività spiegata nel suo complesso e dall'insieme delle circostanze concrete; 2. è un giudizio ex ante, cioè prognostico ipotetico, poiché va rapportato, “bloccato”, al momento in cui il soggetto ha posto in essere la sua attività, ed effettuato rispetto ad un reato che non si è verificato; 3. è un giudizio a base parziale, poiché il giudice deve valutare, secondo la migliore scienza ed esperienza umana se sulla base delle circostanze concrete in quel momento verosimilmente esistenti anche se dall’agente non conosciute, appariva verosimile, probabile, la capacità dell'atto a cagionare l'evento o, comunque, la sua adeguatezza allo scopo criminoso. Indipendentemente da ciò che, poi, si è realmente verificato per il concorso di fattori eccezionali impeditivi, estranei alla condotta.

1. La univocità degli atti La seconda condizione perché possa dirsi insorto un reale pericolo è che il comportamento, idoneo, lasci altresì prevedere che tale realizzazione è verosimile. • Gli atti sono diretti in modo non equivoco a commettere un delitto quando, per il grado di sviluppo raggiunto, lasciano prevedere come verosimile la realizzazione del delitto voluto. • Univocità di direzione degli atti significa la loro attitudine a fondare un giudizio probabilistico sulla verosimile realizzazione del delitto perfetto e, quindi, anche sulla verosimile intenzione dell'agente di portare a termine il proposito criminoso.


1. Il tentativo nei singoli delitti Non tutti i reati ammettono il tentativo. E’ ontologicamente inconcepibile: 1. nei delitti colposi, per incompatibilità logica; 2. nei delitti unisussistenti, perché si perfezionano in un solo atto mentre il tentativo richiede un iter criminis frazionabile. E’ giuridicamente inammissibile: 1. nelle contravvenzioni, perché l'articolo 56 lo limita ai soli delitti per quelle ragioni di politica criminale che ne hanno sempre sconsigliato la punibilità rispetto ai reati più lievi e perché molte contravvenzioni sono già forme di tutela anticipata; 2. nei delitti di pericolo, poiché il “pericolo del pericolo” è un “non pericolo” che non si concilia con il principio di offensività; 3. nei delitti di attentato o a consumazione anticipata, poiché il minimum necessario a dare vita al tentativo è, qui, già sufficiente per la consumazione; 4. nei delitti preterintenzionali, o meglio in quelli dell'omicidio e dell'aborto preterintenzionali, dovendo in essi mancare la volontà dell'evento perfezionativo. Il tentativo è invece ammissibile, benché sussista controversia: 1. nei delitti dolosi qualificati dall'evento, nei casi in cui l'evento ulteriore possa verificarsi anche se la condotta incriminata non è portata a termine; 2. nei delitti abituali; 3. nei delitti condizionati, nei casi in cui la condizione oggettiva di punibilità possa verificarsi anche se il reato non si è perfezionato e pur se la punibilità del tentativo si avrà solo dopo che la condizione è intervenuta; 4. nei delitti a condotta plurima, per i quali determinate condotte acquistano rilevanza se seguite da un altro tipo di condotta; 5. nei delitti permanenti, allorché la situazione offensiva non sia stata ancora instaurata o non abbia raggiunto il minimum necessario per la perfezione del reato; 6. nei delitti omissivi impropri, rispetto ai quali è configurabile sia il tentativo incompiuto e quindi la desistenza, sia il tentativo compiuto e quindi il recesso attivo; 7. nei delitti omissivi propri, rispetto ai quali si è sempre negato il tentativo affermandosi che, finché non è scaduto il termine utile per compiere l’azione, il soggetto può sempre adempiervi, mentre se il termine è scaduto il delitto è già perfetto.

1. Il delitto tentato circostanziato e circostanziato tentato Circa il problema della rilevanza delle circostanze del reato rispetto al delitto tentato, occorre distinguere tra: 1. delitto tentato circostanziato che si ha quando, pur non essendosi il delitto perfezionato, la circostanza si è completamente realizzata. Trattasi cioè di circostanza perfetta (es. tentato furto con effettuata violazione di domicilio o praticata infrazione); 2. delitto circostanziato tentato che si ha quando la circostanza non è stata realizzata, ma rientra tuttavia nel proposito criminoso dell'agente e gli atti compiuti sono idonei e diretti in modo non equivoco a commettere il delitto circostanziato. Trattasi, cioè, di circostanza tentata (es. tentativo di rubare gli ingenti valori contenuti nella cassaforte da parte di soggetto, colto con la lancia termica presso la stessa). Ed il punctum pruriens della disciplina può essere risolto nei termini seguenti: • per il delitto tentato circostanziato: a) individuando la cornice edittale della pena del delitto tentato semplice (cioè diminuendo di un terzo il massimo edittale e di due terzi il minimo edittale della pena per il delitto perfetto semplice); b) determinando, tra tale massimo e minimo, la pena in concreto per il delitto tentato semplice; c) aumentando o diminuendo detta pena per la circostanza realizzata. • per il delitto circostanziato tentato: a) individuando la cornice edittale della pena del delitto perfetto circostanziato (cioè aumentando, per l’aggravante, di un giorno il minimo edittale e di un terzo il massimo edittale della pena del delitto perfetto semplice, diminuendo, per l’attenuante, di un terzo il minimo edittale e di un giorno il massimo edittale della suddetta pena; b) determinando, in rapporto a tale cornice, la cornice edittale della pena per il delitto circostanziato tentato; c) determinando, nell'ambito di tale cornice, la pena in concreto per il delitto tentato. In caso di delitto circostanziato tentato circostanziato, che si ha quando sussistono circostanze “perfette” e circostanze “tentate” (es.: tentativo di furto, per motivi abbietti


o futili, di cose di ingente valore), la pena va determinata calcolando, come sopra, la pena per il d.c.t. e sommando o sottraendo ad essa gli aumenti o le diminuzioni per le circostanze realizzate, calcolati come sopra.

1. Le desistenza e il recesso volontari Le due ipotesi si verificano quando il soggetto, dopo aver compiuto atti che già di per sé costituiscono tentativo punibile, muta proposito ed opera in modo che il delitto non si perfezioni. Sicché questa non si completa non per fattori estranei ma per mutata volontà del soggetto. Le due ipotesi sono regolate dall'articolo 56/3 e 4, che dispone: “se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso. Se volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà”. Circa il profilo oggettivo, la “desistenza dall'azione” si ha quando l’agente rinuncia a compiere gli ulteriori atti che poteva ancora compiere perché il reato si perfezionasse. Il recesso si ha, invece, quando l’agente, dopo aver posto in essere tutti gli atti causali necessari, impedisce l'evento tenendo una contro-condotta che arresta il processo causale già in atto. Nei reati di evento la linea di demarcazione tra desistenza e recesso è data, pertanto, dall'essersi o dal non essersi già messo in moto il processo causale corrispondendo alle due diverse situazione quei due diversi gradi di pericolo per il bene protetto, che giustificano il diverso trattamento penale. Per desistere, all’agente basta non continuare nel proprio comportamento, possibile, in quanto il comportamento tenuto o non integra ancora la condotta tipica o, comunque, non esaurisce ancora quanto egli può ancora compiere per perfezionare il reato con altri atti tipici contestuali. Per recedere, all'agente occorre attivarsi per interrompere il processo causale già posto in moto dalla condotta e che, altrimenti, sfocerebbe verosimilmente nell'evento. Quanto all'elemento soggettivo, la desistenza ed il recesso debbono essere posti in essere volontariamente. Secondo la interpretazione più diffusa, conforme alla ratio degli istituti, la volontarietà non va intesa nel ristretto senso di spontaneità, come comprova il fatto che la legge, quando esige la spontaneità, espressamente lo dice. La volontarietà non va, però, neppure intesa nell'opposto senso lato di una qualsiasi possibilità di scelta, perché, come tale, verrebbe meno solo quando esiste la impossibilità di portare a termine l'impresa criminosa. Bensì nel senso di possibilità di scelta ragionevole, onde la volontarietà viene meno allorché la continuazione dell'impresa, pur se materialmente possibile, presenta svantaggi o rischi tali da non potersi attendere da persona ragionevole. Quanto agli effetti, la desistenza comporta la impunità del soggetto per il delitto tentato, salva la responsabilità per un reato diverso se gli atti compiuti ne integrano gli estremi. Il recesso comporta solo una diminuzione della pena stabilita per il delitto tentato. Se per recedere l'agente compie un altro reato, risponderà anche di questo.

1. Il reato impossibile Due sono le ipotesi di reato impossibile: 1. per inidoneità della condotta; 2. per l'inesistenza dell'oggetto materiale. Quanto alla prima ipotesi, non si tratta di un inutile doppione negativo del delitto tentato ma si riferisce ai casi in cui il soggetto ha portato a termine l'intera condotta che per sue caratteristiche intrinseche non ha realizzato l'offesa al bene protetto. Quanto alla seconda ipotesi, le difficoltà sorgono perché vi può essere: a) una inesistenza assoluta dell'oggetto, perché in rerum natura mai esistito o estintosi; b) una inesistenza relativa, perché l'oggetto è esistente in rerum natura ma manca nel luogo in cui cade la condotta criminosa. Meglio contempera i principi di legalità ed offensività la più recente soluzione per cui: a) il reato impossibile riguarda le sole ipotesi di inesistenza assoluta dell’oggetto: costituirebbe una manifesta violazione del principio di offensività punire là dove è precluso, già a priori, un qualsiasi pericolo di perfezione del delitto; b) il tentativo punibile riguarda, invece le ipotesi di inesistenza relativa, sempre che al momento della condotta apparisse verosimile l'esistenza dell'oggetto. Circa l’elemento soggettivo, il reato impossibile - per chi lo intende come doppione negativo del tentativo - è necessariamente doloso ed il dolo è identico a quello del delitto tentato. Per chi lo considera, invece, come figura autonoma, può essere anche colposo essendo esso configurabile anche nei confronti reati colposi e non esistendo alcuna controindicazione nella lettera dell'articolo 49/2. Quanto agli effetti i codici a più marcata impronta soggettivistica affidano al giudice la facoltà di non punire o di applicare


una pena attenuata o prevedono una pena ridotta. Per i codici, più fermamente ancorati al principio oggettivistico di offensività, il reato impossibile è un non reato e, come tale, non può essere punito, ma in ragione della esigenza preventiva l'autore può essere sottoposto a misure di sicurezza. Così per il nostro codice.

L’UNITà E LA PLURALITà DI REATI 1. Il concorso di reati Si ha concorso di reati quando uno stesso soggetto ha violato più volte la legge penale e, perciò, deve rispondere di più reati. Sul piano del diritto sostanziale, il problema è quello del trattamento sanzionatorio. In un sistema penale orientato in senso repressivo retributivo, tre sono i criteri in astratto possibili: 1. il cumulo materiale, per il quale si applicano tante pene quanti sono reati commessi; 2. il cumulo giuridico, per il quale si applica la pena del reato più grave, aumentata proporzionalmente alla gravità delle pene concorrenti, ma in modo complessivamente inferiore al loro cumulo materiale; 3. l'assorbimento, per il quale si applica soltanto la pena del reato più grave, intendendosi in questo assorbite le pene minori. Una particolare ipotesi di concorso di reati è costituita dai cosiddetti reati connessi, cioè fra loro collegati: 1. da connessione teleologica, quando cioè un reato è commesso allo scopo di eseguire un altro reato; 2. da connessione consequenziale, allorché un reato viene commesso per conseguire o assicurare a sé o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto, ovvero l'impunità di un altro reato oppure per occultarlo. Fuori di queste ipotesi è improprio parlare di concorso di reati come categoria sostanziale.

1. Il concorso materiale e il concorso formale Circa il trattamento sanzionatorio il nostro diritto vigente distingue, a differenza di molti altri codici, tra concorso materiale e concorso formale di reati. • Si ha concorso materiale quando il soggetto ha posto in essere più reati con più azioni o omissioni. Può essere omogeneo se è stata violata più volte la stessa norma penale o eterogeneo se sono state violate norme diverse. • Sì ha concorso formale di reati quando il soggetto ha posto in essere più reati con una sola azione od omissione. Anch’esso è omogeneo o eterogeneo a seconda che si violi la stessa norma più volte o più norme diverse. Abbandonato il sistema del cumulo giuridico, adottato dal codice del 1889, il codice del ‘30 accolse il sistema del cumulo materiale temperato. Cioè ha adottato come principio base il cumulo materiale delle pene, apportandovi però degli opportuni temperamenti, consistenti innanzitutto nel fissare dei limiti insuperabili di pena. Con la riforma del D.L. n. 99/74 si è opportunamente passati al cumulo giuridico, così modificandosi l'articolo 81/1: "è punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata fino al triplo chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commetta più violazioni della medesima disposizione di legge".

1. Il problema della unità e pluralità di reati Il concorso di reati presuppone risolto il problema della unità e pluralità di reati. Tra i più impegnativi della scienza penale, il tema ha dato luogo a tre fondamentali opinioni: la concezione naturalistica, la concezione normativa, la concezione normativa su base ontologica. • Per la concezione naturalistica la unità e pluralità di reati va desunta da strutture preesistenti in rerum natura ed individuabili in base ad una teoria generale della realtà. L’agire umano costituirà un solo reato o più reati a seconda che esso sia naturalisticamente unico o plurimo. Si avrà, quindi, un solo reato o più reati a seconda che si abbia, rispettivamente, un'unica azione o più azioni, un unico evento o più eventi, un'unica volontà o più volontà. • Per la concezione normativa, che è la più condivisa, l'unità o pluralità di reati va desunta esclusivamente dalla norma penale, che è l'unico metro per decidere se il fatto storico sia valutato dal diritto penale come un solo illecito o come più illeciti. • Per la concezione normativa a base ontologica, pur affermandosì che la norma costituisce il prius logico per la valutazione del fatto storico come unico o plurimo e che il legislatore non è rigidamente vincolato al dato pregiuridico, tuttavia si riconosce che determinati schemi ontologici fondamentali, determinati sistemi di valori e le


correlative tipologie di aggressione, non possono non costituire l’ossatura concettuale, la struttura portante, di ogni sistema penale razionale e progredito. Ciò premesso, in base alla interpretazione delle norme singolarmente prese o considerate nei loro reciproci rapporti vanno risolti i due problemi, che anche la pratica giudiziaria quotidianamente pone. Quand’è che il soggetto con il suo comportamento viola: 1. una sola volta o più volte la stessa norma penale; 2. oppure una sola norma o più norme diverse? Il primo problema si pone nei cosiddetti casi di ripetizione o moltiplicazione della stessa fattispecie legale nello stesso contesto di tempo. Se tra le singole condotte ripetitive intercorresse, infatti, un apprezzabile lasso di tempo, si avrebbe sicuramente una pluralità di reati. Il secondo problema si pone, oltre che nel cosiddetto concorso di norme, anche rispetto alle norme penali miste. In tutti i casi di realizzazione congiunta di più previsioni si pone il problema se la norma penale mista debba applicarsi tante volte quante sono le ipotesi concretamente realizzate o invece una sola volta. La soluzione più corretta è distinguere tra: 1. disposizioni a più norme che contengono tante norme incriminatrici quante sono le fattispecie ivi previste, la violazione di ognuna delle quali da perciò luogo ad altrettanti reati; 2. norme a più fattispecie, che viceversa sono costituite da un'unica norma incriminatrice e che, perciò, sono applicabili una sola volta in caso di realizzazione sia di una soltanto sia di tutte le fattispecie ivi previste, trattandosi di semplici modalità di previsione di un unico tipo di reato.

1. Il concorso apparente di norme Si parla di concorso di norme allorché più norme appaiono, almeno prima facie, tutte applicabili ad un medesimo fatto. Deve trattarsi di norme non antitetiche, perché in questo caso si avrebbe un conflitto di norme, ma soltanto diverse, tutte vietando, comandando o consentendo il medesimo fatto. Di fronte ai molti casi di concorso di norme incriminatrici si pone sempre l'identico ricorrente problema. Si tratta di un concorso reale di norme, nel senso che tutte debbono essere applicate, e, quindi, di un concorso formale di reati? Oppure si tratta soltanto di un concorso apparente di norme e, quindi, di un solo reato, perché‚ solo a prima vista il fatto appare riconducibile sotto più norme, ma in realtà una soltanto è ad esso applicabile? Il fenomeno del concorso di norme pone tre ordini di indagini riguardanti: 1. i presupposti della sua esistenza; 2. il principio giuridico per stabilire l'apparenza o la realtà del medesimo. 3. i criteri per individuare, nell'ambito del preaccertato concorso apparente, la norma prevalente. I presupposti sono: a) la pluralità di norme, non essendo concepibile il concorso di una norma con se stessa; b) la identità del fatto, che appare contemplato da più nome. Il che è possibile se ed in quanto intercorrano tra le fattispecie le relazioni di specialità (unilaterale) o di specialità reciproca (o bilaterale). Si ha specialità quando una norma, speciale, presenta tutti gli elementi di altra norma, generale, con almeno un elemento in più. Tipico esempio è l'art. 341 rispetto all' art. 594, poiché‚ l'oltraggio presenta tutti gli elementi dell’ingiuria ed inoltre il quid pluris della qualifica di “pubblico ufficiale” nell'offeso. Si ha specialità reciproca allorché nessuna norma è speciale o generale, ma ciascuna è ad un tempo generale e speciale, perché entrambe presentano, accanto ad un nucleo di elementi comuni, elementi specifici e elementi generici rispetto ai corrispondenti elementi dell’altra. Al di là della specialità, unilaterale e reciproca, non è più configurabile concorso di norme, poiché le norme già prima facie appaiono applicabili a fatti diversi, in quanto nessuna ipotesi, integrante l’una, integra anche l’altra e viceversa. Infine, un fenomeno di concorso di norme non si pone quando la legge già espressamente esclude l’applicazione di una di esse, attraverso clausole di riserva determinate (cioè del tipo “fuori del caso indicato nell’art. xx”).

1. Le teorie monistiche e pluralistiche Per stabilire se il concorso è apparente o reale, parte della dottrina ritiene sufficiente il solo criterio di specialità. In forza di esso “quando più leggi o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito” (art. 15 c.p.). Certi autori delimitano l’ambito logico del criterio di specialità alle sole norme con


identico oggetto giuridico, ritenendo tale limite imposto dall’inciso “stessa materia”. Altri autori tendono, viceversa, ad ampliare l’ambito del criterio di specialità interpretando l’inciso “stessa materia” come “stessa situazione concreta”: in tal modo l’art. 15 accoglierebbe un criterio di specialità non solo in astratto ma anche in concreto. La dominante dottrina italiana integra l’insufficiente criterio di specialità con criteri di valore, di varia denominazione e numero, che possono ridursi a quelli della sussidiarietà e della consunzione: • per il criterio di sussidiarietà, pressoché concordemente ammesso, la norma principale esclude l’applicabilità della norma sussidiaria. E’ sussidiaria la norma che tutela un grado inferiore dell’identico interesse che è tutelato dalla norma principale; • per il criterio di consunzione, ammesso da una parte della dottrina pluralistica, la norma consumante prevale sulla norma consumata. E’ consumante la norma, il cui fatto comprende in sé il fatto previsto dalla norma consumata, e che perciò esaurisce l’intero disvalore del fatto concreto. I due suddetti criteri presentano vizi e limiti insuperabili, per il loro non dimostrato fondamento giuridico-positivo e la loro intrinseca insufficienza e vaghezza. In conclusione, tutta la storia del concorso di norme rivela una duplice esigenza: di equità, tesa a fare coincidere il concorso apparente con tutti i casi in cui un medesimo fatto rientri sotto più norme, cioè non solo con la specialità ma anche con la specialità reciproca; e di certezza giuridica, volta a trovare un principio unitario e di immediata applicazione pratica che elimini le incertezze che fanno del concorso di norme il fianco più vulnerato del principio costituzionale di legalità.

1. Il principio del ne bis in idem Equità e certezza sono adeguatamente soddisfatte dal principio generale del ne bis in idem sostanziale, che in tutte le ipotesi di concorso di norme vieta di addossare più volte lo stesso fatto all’autore. Tale principio si desume da numerosi dati legislativi. Cominciando dall’art. 15, esso si fonda sullo schema logico della specificazione, che, come si impone al pensiero umano ogni qual volta intende “distinguere” fra più idee subordinate ad una idea superiore, così si impone al legislatore quando, nell’ambito di una categoria di fatti sottoposta ad una data disciplina, ne valuta taluni meritevoli di una particolare regolamentazione. Parlando di specialità sia tra “disposizioni della stessa legge” sia tra “leggi diverse”, l'art. 15 copre i due modi in cui può estrinsecarsi detto schema logico: 1. la specialità tra fattispecie, che emerge dalla stessa descrizione delle figure criminose, presentando l'una tutti gli elementi costitutivi dell’altra più un quid pluris; 2. la specialità tra leggi, allorché il legislatore provvede a disciplinare, in modo particolare, una categoria di fatti in un distinto testo legislativo, in una “legge speciale”, in ragione della qualità dei soggetti o delle condizioni in cui vengono commessi. Quanto alle clausole di riserva, esse assolvono, anche per la loro frequenza, la fondamentale funzione di affermare l’assorbimento nel maggior numero di fattispecie in rapporto di specialità reciproca. Quanto all'art. 84, se non lo si vuole ridurre ad un inutile ripetizione dell'art. 15 attraverso una inammissibile interpretatio abrogans, occorre affermare che esso abbraccia: a) non solo i reati necessariamente complessi sia in senso stretto sia in senso lato, che costituiscono delle semplici ipotesi di specialità; b) ma anche i reati eventualmente complessi sia in senso stretto sia in senso lato, che costituiscono invece delle ipotesi di specialità reciproca. Quanto, infine, alle circostanze, gli artt. 15, 61-62 e 68 portano ad affermare la perfetta coincidenza del concorso apparente con tutte le ipotesi di disposizioni circostanzianti, siano esse in rapporto di specialità o di specialità reciproca. In sintesi, dal complesso dei dati legislativi esaminati risulta che all’interno dell'identica materia del concorso di norme: a) essi costituiscono particolari espressioni del sopraordinato principio giuridico del ne bis in idem sostanziale, esprimendo tutti la comune esigenza giuridica di non addossare all'autore più volte un fatto, capace di effetti giuridici ad opera di più norme; b) il ne bis in idem è principio non eccezionale ma regolare. In base ai suddetti dati il concorso apparente, infatti, copre tutte le ipotesi di concorso sia di norme circostanzianti sia di norme incriminatrici. Viceversa, la contrapposta normativa degli artt. 71-78 e degli artt. 63, 66, 67, sul concorso di reati e di circostanze, si riferisce, per esclusione, alla identica e autonoma materia del non-concorso di norme (cioè alle ipotesi di fattispecie in rapporto di mera interferenza, di eterogeneità, di incompatibilità). E, nell'ambito di tale materia, costituisce espressione del sopraordinato e regolare principio giuridico, dell'integrale


valutazione giuridica, esprimendo la comune esigenza dell'applicabilità di più norme perché‚ nessuna di esse esaurisce integralmente l'intero disvalore del fatto. Pertanto, tra il complesso normativo degli artt. 15, 84, 61-62, 68 e clausole di riserva e quello degli artt. 71-81, 63, 66-67, non è concepibile alcun problema di regola-eccezione, attenendo essi alle diverse ed autonome materie rispettivamente del concorso e del nonconcorso di norme ed esprimendo, rispettivamente, i due principi altrettanto regolari del ne bis in idem e della integrale valutazione. Ed eccoci al punto. Le residue ipotesi di specialità reciproca, non espressamente risolte dalla legge, siccome rientrano anch'esse nel più ampio settore del concorso di norme non possono che essere risolte nel senso del concorso apparente di norme in virtù del principio sopraordinato del ne bis in idem, che domina tale materia, esistendo tutti gli estremi dell'analogia iuris: favor rei, regolarità del principio, identità di ratio di disciplina. In conclusione, in base al nostro diritto positivo il concorso apparente combacia con l'intero ambito del concorso di norme, cioè con tutte le fattispecie in rapporto di specialità e di specialità reciproca. Il concorso eterogeneo di reati si restringe al nonconcorso di norme, riguardando cioè le fattispecie in rapporto di interferenza, di eterogeneità, di incompatibilità. E la relazione di “interferenza per la condotta” è l'unica che permette di configurare il concorso formale di reati.

1. La norma prevalente Il principio del ne bis in idem nel concorso di norme consente di affermare che una ed una sola norma è applicabile, ma non dice quale. L’individuare la norma prevalente è un problema di interpretazione sistematica, volto a delimitare la rispettiva reale portata delle norme concorrenti, per cui il fatto, che appariva comune ad esse, in realtà cade sotto la previsione di una soltanto di esse. In certe ipotesi la norma prevalente è individuabile in forza di criteri che operano sulla base di determinati rapporti formali fra norme, quali il criterio di specialità (la legge speciale prevale sulla generale), il criterio cronologico (la legge posteriore prevale su quella anteriore), il criterio gerarchico (la legge di grado superiore prevale su quella di grado inferiore). Nelle ipotesi di norme di pari grado, coeve ed in rapporto di specialità reciproca, la norma prevalente va individuata attraverso le clausole di riserva, quando esistono. Nelle ipotesi in cui le clausole non esistono, tra gli indici rivelatori della norma applicabile, il primo e più sintomatico è, certo, quello del trattamento penale più severo. Detto criterio non ha però un valore assoluto, per gli inaccettabili risultati cui in certi casi porterebbe; né ha un valore esclusivo, essendo inapplicabile rispetto alle norme con identica sanzione.

1. I reati a struttura complessa Possono denominarsi reati a struttura complessa i vari tipi di reato che, pur se diversi fra loro, sono tutti composti da fatti già costituenti di per sé reati e cioè: il reato complesso vero e proprio; il reato abituale; il reato continuato.

1. Il reato complesso Il reato complesso (o composto) è previsto dall’art. 84/1, il quale stabilisce che “le disposizioni degli articoli precedenti (riferendosi al concorso di reati) non si applicano quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per sé stessi, reato”. Circa la struttura, nel reato complesso un altro reato può rientrare come elemento costitutivo, dando luogo ad un autonomo titolo di reato (es. rapina rispetto al furto) oppure come circostanza aggravante, lasciando inalterato il titolo del reato-base (es. furto aggravato dalla violazione di domicilio o dalla violenza sulle cose). Si discute se l’art. 84 comprenda soltanto i reati complessi in senso stretto, per l’esistenza dei quali sono necessari almeno due reati, o anche i reati complessi in senso lato, per la sussistenza dei quali basta un solo reato con l’aggiunta di elementi ulteriori non costituenti reato. Deve accogliersi la nozione ampia, sia perché i due tipi di reato complesso presentano problemi comuni, sia perché la disciplina degli artt. 131 e 170/2 è riferibile ad entrambi. Ma ciò che è fondamentale stabilire è se l’art. 84 comprenda soltanto i reati necessariamente complessi, in cui almeno un reato è contenuto come “elemento costitutivo”, onde non è possibile realizzare la fattispecie complessa senza commettere anche quest’ultimo; oppure anche i reati eventualmente complessi, in cui un reato è contenuto come “elemento particolare”, cosicché è possibile realizzare tali reati senza realizzare quest’ultima fattispecie. Species del reato complesso in senso lato è il c.d. reato progressivo, che comprende quei reati che contengono come elemento un reato minore, onde la commissione del reato maggiore


implica il passaggio attraverso il reato minore. Mentre per il reato complesso basta che un reato sia contenuto in un altro, per il reato progressivo occorre altresì l’offesa crescente di uno stesso bene. Circa i requisiti per l’unificazione dei singoli reati nel reato complesso, questi debbono essere legati tra loro non da un rapporto di mera occasionalità, ma da precise connessioni sostanziali, la cui individuazione va rimandata alle singole figure complesse. Quanto ai limiti della contenenza, per l’elementare principio di proporzione giuridica il reato complesso non può assorbire quei fatti criminosi già di per se sanzionati in modo più grave dallo stesso reato complesso. Infine, la disciplina del reato complesso è quella del reato unico; non quella della pluralità dei reati, neppure quando sia più favorevole al reo.

1. L’antefatto e il postfatto non punibili e la progressione criminosa Con le incerte categorie dell’antefatto e del postfatto occorre intendere quei reati che costituiscono la normale premessa o il normale sbocco di altri reati. Per una parte della dottrina resterebbero assorbiti nel reato principale in base, però, agli inconsistenti criteri di sussidiarietà o consunzione. In verità, le categorie dell’antefatto e del postfatto non punibili mancano, invece, di fondamento di diritto positivo. Per progressione criminosa deve intendersi il passaggio contestuale da un reato ad un altro più grave, contenente il primo, per effetto di risoluzioni successive: costituisce un fenomeno, per così dire intermedio, tra il concorso di norme sullo stesso fatto e le ipotesi che danno sicuramente vita ad un concorso di reati. Nel silenzio della legge, la progressione si risolve nel senso della unicità del reato per analogia juris, in quanto esistono i presupposti per l’applicazione del principio, sopraordinato al concorso apparente di norme anziché di quello sopraordinato al concorso di reati. La validità della soluzione appare ancor più evidente rispetto alle ipotesi di progressione in cui il fatto iniziale costituisce una condizione necessaria dell’evento finale. Poiché il fatto minore rientra, nel suo aspetto oggettivo, nella fattispecie maggiore, se si ammettesse il concorso di reati lo stesso fatto finirebbe, anche qui, per essere addebitato due volte all’autore.

1. Il reato continuato La figura del reato continuato sorse per opera dei Pratici, che la introdussero per mitigare la eccessiva severità delle legislazioni dell’epoca sul concorso di reati. Ancor oggi la funzione dell’istituto è quella di introdurre un trattamento penale più mite, che trova però la sua ratio nel fatto che nel reato continuato la riprovevolezza complessiva dell’agente viene ritenuta minore che nei normali casi di concorso. L’art. 81/2, nella sua originaria formulazione, statuì infatti la non applicabilità delle disposizioni sul cumulo materiale delle pene a chi “con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette, anche in tempi diversi, più violazioni della stessa disposizione di legge, anche se di diversa gravità”. Il D.L. 99/74 ha ampliato la portata dell’articolo ammettendo la continuazione nei casi di “più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge”: cioè oltre al reato continuato omogeneo, anche quello eterogeneo. Tre sono i requisiti del reato continuato, istituto di una vitalità espansiva senza pari: 1. Il medesimo disegno criminoso. E’ il coefficiente psicologico che lega e cementa i diversi episodi criminosi e contraddistingue, ontologicamente, il reato continuato dal concorso di reati. Per aversi medesimo disegno criminoso è necessario e sufficiente la iniziale programmazione e deliberazione, generiche, di compiere una pluralità di reati, in vista del conseguimento di un unico fine prefissato sufficientemente specifico. L’identità del disegno criminoso viene meno quando fra l’uno e l’altro fatto criminoso siano intervenute circostanze che abbiano indotto il reo a modificare il piano criminoso nella sua essenza sopra precisata per cui il passaggio ad ulteriori azioni richieda un previo superamento dei nuovi motivi inibitori, generati da tali circostanze, sì da aversi un nuovo atteggiamento antidoveroso del soggetto. 2. Più violazioni di legge. Esiste una stretta interdipendenza tra l’identità del disegno criminoso e una certa omogeneità funzionale di violazioni. Intanto è configurabile un disegno criminoso unitario in quanto le violazioni, pur se di leggi diverse, si presentano tutte come “mezzi” per conseguire il “fine” ultimo, cui tende il disegno. 3. La pluralità di azioni o omissioni. Il reato continuato è punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, aumentata sino al triplo. Tale pena non può, comunque, superare quella che sarebbe applicabile in base al cumulo materiale. Primo problema è l’individuazione della violazione più grave, essendo controverso se debba intendersi quella più grave in astratto, oppure in concreto, con riferimento cioè alla pena edittale, qualitativamente o quantitativamente più grave, o invece alla pena concretamente applicabile, valutati tutti gli indici dell’art. 133 e le circostanze. La giurisprudenza appare orientarsi nel secondo senso. Secondo problema è l’applicabilità


del cumulo giuridico ai reati continuati, puniti con pene eterogenee, essendo la novella del ’74, a differenza del codice del 1889 e di altri codici stranieri, del tutto carente sul punto. Sicché subito si è posto il problema se e come effettuare tale cumulo tra reclusione e arresto e, soprattutto, tra pene detentive e pene pecuniarie. Ai sensi dell’art. 137 delle norme di attuazione del nuovo codice di procedura penale la disciplina del reato continuato, come pure quella del concorso formale, è applicabile anche quando concorrono reati, per i quali la pena è applicata su richiesta delle parti, e altri reati.

1. Il reato abituale A differenza del reato complesso, continuato e permanente, il reato abituale è una categoria di creazione dottrinale, non rinvenendosi nella legge né una definizione né una disciplina di esso. E’ detto abituale il reato per l’esistenza del quale la legge richiede la reiterazione di più condotte identiche o omogenee. E’ proprio il reato abituale consistente nella ripetizione di condotte che sono in sé non punibili, come nello sfruttamento della prostituzione, o che possono essere non punibili, come nei maltrattamenti in famiglia. E’ improprio se consiste nella ripetizione di condotte già di per sé costituenti reato, come nella relazione incestuosa, costituendo il singolo fatto incestuoso delitto di incesto. Quanto all’elemento soggettivo, non può accogliersi la tesi che, al fine di fondare anche il reato abituale su una unità ontologica, richiede un dolo unitario, costituito dalla rappresentazione e deliberazione iniziali, anticipate, del complesso di condotte da realizzare. Deve perciò ritenersi sufficiente la coscienza e volontà, di volta in volta, delle singole condotte, accompagnate dalla consapevolezza che la nuova condotta si aggiunga alle precedenti, dando vita con queste ad un sistema di comportamenti offensivi. Ciò che si rimprovera all’agente è di aver voluto persistere in un certo modo di agire, di non aver desistito nonostante la consapevolezza del suo precedente operare. Il reato (necessariamente) abituale si “perfeziona” allorché è stato realizzato il minimum di condotte e con la frequenza, necessari ad integrare quel sistema di comportamenti in cui si concreta tale reato e la cui valutazione è affidata alla discrezionalità del giudice. Si consuma allorché cessa la condotta reiterativa.

IL CONCORSO DI PERSONE NEL REATO 1. Il fondamento della punibilità del concorso Si ha concorso di persone nel reato quando più persone pongono in essere insieme un reato che, astrattamente, può essere realizzato anche da una sola persona. Il fenomeno viene chiamato anche concorso eventuale di persone per contraddistinguerlo dal c.d. concorso necessario di persone, che si ha quando è la stessa norma incriminatrice di parte speciale che richiede, per la esistenza del reato, una pluralità di soggetti attivi. Negli ordinamenti a legalità sostanziale la punibilità dei concorrenti non ha bisogno, a rigore, di essere espressamente prevista, ma si ricava dalla stessa nozione materiale di reato (sulla c.d. concezione estensiva dell’autore). Negli ordinamenti a legalità formale la punibilità dei concorrenti deve essere, invece, espressamente prevista. Nel nostro diritto penale tale funzione estensiva è assolta dall’art. 110, il quale statuisce che “quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita”. Parlando genericamente di “reato”, essa incrimina il concorso sia nei delitti che nelle contravvenzioni. Tre sono le teorie formulate per spiegare, tecnicamente, la punibilità del concorso: 1. teoria della equivalenza causale, secondo la quale, poiché ogni persona che concorre a produrre l’evento unico e indivisibile lo cagiona nella sua totalità, questo andrebbe integralmente imputato ad ognuno dei compartecipi. Essa, connaturale agli ordinamenti a legalità sostanziale, è inconciliabile con quelli a legalità formale ove i reati sono tipizzati nei loro requisiti oggettivi e soggettivi; 2. teoria della accessorietà, secondo la quale la norma sul concorso estenderebbe la tipicità della condotta principale alle condotte accessorie dei compartecipi: in tal modo il semplice partecipe risponde del reato in quanto la sua condotta atipica accede al fatto tipico dell’autore, dal quale attinge la sua rilevanza penale. Suo vizio sta nell’esigere, per la punibilità dei compartecipi, una condotta principale tipica, con le due conseguenti insuperabili limitazioni: • di non riuscire a giustificare la punibilità dei concorrenti in tutti i casi c.d. di esecuzione frazionata, ove nessuno da solo realizza l’intero fatto tipico, ma ciascuno ne compie una parte soltanto; • di non riuscire a giustificare la punibilità dei concorrenti nel reato proprio,


allorché la condotta materiale sia posta in essere dall’extraneus, dato che l’autore della condotta principale non può essere che l’intraneus, cioè la persona che ha la qualifica soggettiva. 3. teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale per la quale dalla combinazione sulla norma sul concorso con la norma incriminatrice di parte speciale nasce una nuova fattispecie plurisoggettiva, autonoma e diversa da quella monosoggettiva e che ad essa si affianca, con una sua nuova tipicità: la fattispecie del concorso di persone nel reato. Questa appare pertanto essere la teoria da seguire.

1. Il problema della responsabilità dei concorrenti Due sono i modelli fondamentali per valutare e punire i concorrenti, seguiti dalle varie legislazioni passate e presenti e che riflettono le due esigenze, opposte ma entrambe reali, di qualificare e differenziare i medesimi: • quello della responsabilità differenziata, in base al quale i concorrenti sono considerati diversamente responsabili e punibili a seconda dei differenti tipi di concorso; • quello della pari responsabilità, per cui essi sono considerati egualmente responsabili e punibili, in via di principio, salvo valutare in concreto la loro reale responsabilità e graduare la pena in base al ruolo effettivamente avuto. Nel solco della tradizione classica retributivo-legalistica del secolo scorso, buona parte delle legislazioni segue il principio della responsabilità differenziata, tipizzando per figure astratte di concorrenti. Si suole distinguere infatti tra: • l'autore, che è colui che materialmente compie l’azione esecutiva del reato, o il coautore, che è il soggetto che, assieme ad altri, esegue tale azione tipica; • il partecipe (o complice), che è colui che pone in essere una condotta che, di per sé sola, non integra la fattispecie del reato. Si distingue, poi, la partecipazione psichica, che ha luogo nella fase creativa, preparatoria o anche esecutiva del reato, la partecipazione fisica, che ha luogo nelle fasi della preparazione e dell'esecuzione. La prima dà vita alla figura dell'istigatore, di chi cioè fa sorgere in altri un proposito criminoso prima inesistente. La seconda dà luogo alla figura dell'ausiliatore, cioè di chi aiuta materialmente nella preparazione o nella esecuzione. A favore del principio della pari responsabilità si è andata orientando la più moderna dottrina. Oltre a presentare un solido fondamento razionale, esso meglio soddisfa le esigenze della pratica e della difesa sociale. Il principio della pari responsabilità non implica, però, una meccanica eguaglianza del quantum della pena per tutti concorrenti: esso sta a significare l'impossibilità di differenziazioni aprioristiche di responsabilità sulla base di tipi astratti di concorrenti, ma la necessità pur sempre di una graduazione in concreto della stessa in rapporto al reale contributo apportato da ciascun concorrente. Il codice del ‘30 ha adottato, di principio, la soluzione corretta e semplificante della pari responsabilità dei concorrenti. Ma ad un tempo ne ammette la possibilità di concreta graduazione sia attraverso il riconoscimento di specifiche aggravanti ed attenuanti, sia in virtù dell'articolo 133, che vale anche per la commisurazione della pena per i singoli concorrenti.

1. L’elemento oggettivo: la pluralità di agenti Primo ed ovvio requisito del concorso è che il reato sia commesso da un numero di soggetti superiore a quello che la legge ritiene necessario per la esistenza del reato. Nei reati monosoggettivi sono, perciò, necessari e sufficienti almeno due soggetti. Nei reati plurisoggettivi il concorso è possibile da parte di una o più persone diverse dai soggetti essenziali. Secondo una diffusa opinione per poter assumere la qualifica di concorrente il soggetto dovrebbe essere imputabile ed aver agito con dolo, postulando essa l'unicità del titolo della responsabilità. Non vi sarebbe, dunque, concorso di persone, ma sarebbe applicabile la fattispecie del reato monosoggettivo, in tutti i casi di autore mediato. Nel diritto italiano la teoria, fondata in realtà su una “occulta” analogia in malam partem della norma incriminatrice di parte speciale, non ha ragione di essere. Né‚ dal punto di vista pratico, perché‚ la reità mediata è già espressamente punita dalla legge. Né dal punto di vista dogmatico, perché‚ in tutti i casi sopra elencati il soggetto risponde non quale autore mediato, ma come concorrente alla stregua dell'articolo 110 ed è sottoposto alla disciplina del concorso e, in particolare, alle aggravanti previste dal codice. Per integrare la fattispecie incriminatrice del concorso occorre l'attività di più soggetti, ma non anche che questi siano tutti imputabili o abbiano tutte agito con dolo, poiché‚ ciò riguarda non la sussistenza del concorso ma soltanto la punibilità o il titolo della punibilità dei concorrenti. Il medesimo reato dell'articolo 110 va inteso come medesimo fatto materiale di reato.


1. La realizzazione di un reato Secondo elemento costitutivo della fattispecie plurisoggettiva del concorso è che sia stato posto in essere un fatto materiale di reato, consumato o tentato. Siccome il delitto tentato costituisce l'estremo limite dei fatti punibili, il minimo indispensabile perché‚ possa aversi un concorso punibile è che siano realizzati gli estremi di un delitto tentato. Il nostro codice non punisce il tentativo di concorso ma soltanto il concorso nel delitto tentato. Il puro accordo e la semplice istigazione a commettere un reato sono per il nostro diritto qualcosa di meno del tentativo punibile; onde per aversi concorso punibile occorre che vi sia la realizzazione quanto meno di un delitto tentato. Il reato consumato o tentato può essere materialmente posto in essere, indifferentemente: • da uno o taluni soltanto dei concorrenti; • da ciascuno dei concorrenti, allorché‚ ognuno di essi ponga in essere la azione tipica; • da tutti concorrenti insieme, qualora ciascuno di essi ponga in essere soltanto una frazione dell'intera condotta tipica.

1. Il contributo dei concorrenti Problema centrale del concorso è quello del comportamento atipico minimo, necessario per concorrere nel reato. Per il nostro ordinamento, misto e garantista, il problema va risolto alla luce, oltre che del principio di tassatività: 1. del principio di materialità, in forza del quale ciascun concorrente deve, anzitutto, porre in essere un comportamento materiale esteriore, percepibile dai sensi, poiché‚ anche nella partecipazione criminosa vale l’esigenza garantista del cogitationis poenam nemo patitur; 2. del principio della responsabilità personale, in forza del quale il comportamento esteriore deve, altresì, concretizzarsi in un contributo rilevante, materiale e morale, alla realizzazione del reato: a livello ideativo, preparatorio o esecutivo. Ciò per evitare che attraverso il concorso filtri la responsabilità per fatto altrui occulta. Perché‚ possa dirsi rispettato il principio della responsabilità per fatto proprio, nella fattispecie monosoggettiva occorre che il soggetto abbia causato anche materialmente il reato. Nella fattispecie plurisoggettiva basta chi ne abbia agevolato l'esecuzione da parte di altri, poiché‚ in forza del vincolo associativo diventano sue proprie anche le condotte causali dei soci. Per aversi concorso punibile è, poi, sufficiente che la condotta dell'agente, concepita come partecipazione materiale, dia luogo almeno ad una partecipazione morale. Forme di partecipazione psichica, necessarie o agevolatrici, sono, oltre alla istigazione per determinazione o rafforzamento: • l'accordo criminoso, cioè di commettere reato e di fornire ciascuno un determinato contributo, riconducibile, in definitiva, alla istigazione reciproca; • il cosiddetto consiglio tecnico consistente nel fornire all'organizzatore o all'esecutore notizie necessarie o agevolatrici; • la promessa di aiuto da prestarsi dopo la commissione del reato, allorché‚ abbia determinato o rafforzato l'altrui proposito criminoso. Viceversa non può costituire concorso nel reato l'aiuto prestato dopo la commissione del reato, il quale potrà dare luogo a responsabilità per altro reato (favoreggiamento, ricettazione, ecc.). Particolare menzione merita il concorso per omissione nel reato commissivo posto in essere da altri. Per aversi concorso per omissione occorre: • che anche l'omissione sia condizione necessaria o agevolatrice del reato, premesso che anche l'altrui non facere può assurgere a conditio sine qua non o soltanto favorire la realizzazione del reato; • che tale omissione costituisca violazione dell'obbligo giuridico di garanzia, cioè di impedimento dei reati altrui del tipo di quello commesso, per cui il soggetto, tenendo il comportamento doveroso, avrebbe impedito o reso più ardua la realizzazione del medesimo. L'esistenza di detto obbligo impeditivo contraddistingue il concorso per omissione dalla mera connivenza, che si ha quando il soggetto assiste passivamente alla perpetrazione di un reato, che ha la possibilità materiale ma non l'obbligo giuridico di impedire. Specifici obblighi impeditivi di determinati reati sono previsti dalla legge o contratto a carico di particolari categorie di soggetti, quali il titolare di un potere di educazione, istruzione, cura, custodia, agli amministratori di società, le guardie giurate. Circa gli appartenenti alla polizia giudiziaria, alla forza pubblica, alle forze armate sussiste nei loro confronti l'obbligo di impedire i singoli reati, che vengono commessi alla loro presenza, dovendo essi rispondere di concorso se hanno assistito passivamente alla loro perpetrazione.


1. L’elemento soggettivo: il concorso doloso Dottrina e giurisprudenza hanno sempre concordemente ritenuto che nel concorso debba esistere anche un elemento soggettivo, sulla determinazione del quale permangono però incertezze e divergenze. Innanzitutto, per il principio costituzionale della responsabilità personale occorre che al concorrente sia attribuibile psicologicamente non solo la condotta da lui materialmente posta in essere, ma anche l’intero reato realizzato in concorso con gli altri soggetti. Secondo il nostro codice è configurabile: 1. pacificamente, sia il concorso doloso nel reato doloso, sia il concorso colposo nel reato colposo; 2. meno pacificamente, sia il concorso doloso nel reato colposo, sia il concorso colposo nel reato doloso. Quanto alla struttura del dolo di concorso è pacifico che non occorre il “previo concerto” non essendo necessario che i soggetti si siano preventivamente accordati per commettere il reato. Altrettanto pacifico è che non vi può essere concorso nell’ipotesi opposta in cui più soggetti compiono una analoga azione criminosa ai danni di un terzo, l’uno all’insaputa dell’altro. Si discute, invece, se sia necessaria la c.d. volontà comune, se cioè occorra che tutti i concorrenti abbiano la reciproca coscienza e volontà di cooperare con gli altri o se basti che anche uno solo abbia la coscienza e volontà della realizzazione comune del fatto. Così, ad esempio, nel caso di chi fa trovare ad una persona, di cui conosce il proposito omicida, un’arma senza che questi sappia dell’ausilio che gli viene dato. Per la dottrina prevalente e ancor prima per il nostro codice non occorre, per aversi concorso, la reciproca consapevolezza dell’altrui contributo, essendo sufficiente che tale consapevolezza esista in uno solo dei concorrenti. La coscienza e volontà di cooperare è, invece, necessaria in ogni singolo agente perché risponda a titolo di concorso. Il concorso unilaterale rende punibili condotte altrimenti non perseguibili; in secondo luogo rende possibile configurare il c.d. concorso doloso nel reato colposo, che si ha quando con una condotta atipica il soggetto concorre dolosamente nell’altrui fatto colposo: strumentalizza cioè l’altrui condotta colposa. Quanto all’oggetto, il dolo di concorso è coscienza e volontà del fatto previsto dalla fattispecie plurisoggettiva del concorso: cioè di concorrere con altri alla realizzazione del reato. Esso implica perciò: 1. la coscienza e volontà di realizzare un fatto di reato; 2. la consapevolezza delle condotte che gli altri concorrenti hanno esplicato, esplicano o esplicheranno; 3. la coscienza e volontà di contribuire con la propria condotta, assieme alle altre, al verificarsi del reato stesso. Dibattuta è la questione della eventuale responsabilità dell’agente provocatore, cioè di colui che, istigando od offrendo l’occasione, “provoca” la commissione di reati al fine di coglierne gli autori in flagranza o, comunque, di farli scoprire e punire.

1. Il concorso colposo Primo problema, ampiamente discusso, fu quello della stessa configurabilità ontologica del concorso colposo nei reati colposi. Il problema è stato risolto - per i delitti - dall’art. 113 del codice del ’30 che statuisce: “nel delitto colposo, quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso”. Per le contravvenzioni dall’art. 110, di cui lo stesso art. 113 giustifica una interpretazione estensiva. Il secondo problema riguarda, invece, la struttura del concorso colposo, cioè gli elementi che lo caratterizzano e differenziano non solo dal concorso doloso, ma soprattutto dal concorso di azioni colpose indipendenti. Nonostante qualche contraria opinione, anche il concorso colposo richiede, per la sua stessa natura plurisoggettiva, anzitutto un legame psicologico con l’agire altrui, rappresentato dalla coscienza e volontà di concorrere: non ovviamente, nell’intero fatto criminoso, ma soltanto nella condotta violatrici delle regole cautelari di comportamento, dirette a prevenire danni a terzi. In conclusione, per aversi concorso colposo occorrono: a) la non volontà di concorrere alla realizzazione del fatto criminoso; b) la volontà di concorrere - materialmente o psicologicamente - alla realizzazione della condotta contraria a regole cautelari e causa dell’evento; c) la previsione o la prevedibilità ed evitabilità dell’evento criminoso. Circa il trattamento, anche nel concorso colposo il codice segue il principio della pari responsabilità dei concorrenti, quale che sia la forma di partecipazione, ma ne ammette la


possibilità di graduazione in concreto, sia attraverso specifiche aggravanti ed attenuanti, sia in virtù dell’art. 133.

1. La responsabilità del concorrente per il reato diverso Può accadere che taluno dei concorrenti, nell’eseguire il piano criminoso, commetta di propria iniziativa altro reato al posto di quello (o oltre a quello) voluto dagli altri concorrenti. Mancando nel concorrente il dolo di concorrere nel reato diverso, si pone il problema di stabilire se questo possa essergli penalmente attribuito e a quale titolo. Tre sono le soluzioni astrattamente ipotizzabili ed anche concretamente seguite dai vari codici: a) quella soggettivistica di imputare a ciascuno dei concorrenti l’evento effettivamente voluto; b) quella oggettivistica di imputare l’evento per lo stesso titolo, a tutti i concorrenti sulla base del solo contributo causale materiale; c) quella, più corretta, di imputare l’evento causato a titolo di dolo soltanto a chi lo volle e a titolo di colpa, se ne esistono gli estremi, a chi collaborò volendo un evento diverso. La soluzione più drastica sub b) fu accolta dall’art. 116 del codice del ’30, assai contrastato perché deviante dai principi generali sulla responsabilità e dalla nostra tradizione giuridica. Lo sforzo della dottrina e giurisprudenza è stato costantemente volto a ricercare interpretazioni correttive, che mitigassero il rigore di tale norma. Siamo così pervenuti, nelle posizioni più avanzate, ad una forma di responsabilità non più oggettiva, ma soltanto anomala, nel senso che il concorrente risponde di un reato doloso sulla base di un reale atteggiamento colposo. Dell'agire colposo sono riscontrabili tutti e tre i requisiti: a) della non volontà del fatto sotto il profilo del dolo sia diretto che eventuale; b) della inosservanza di regole di prudenza, consistente nell'affidarsi, per realizzare il proposito criminoso, anche alla condotta altrui, che come tale sfugge completamente al dominio finalistico del soggetto e sulla quale non si può esercitare quel controllo che invece è possibile esercitare sulla propria condotta, per evitare, almeno entro certi limiti, la causazione di fatti offensivi non voluti; c) della previsione o prevedibilità come verosimile ed evitabilità dell'evento, accettabili in concreto (cioè tenendo conto di tutte le circostanze che accompagnano l'azione dei concorrenti) e col parametro dell'uomo giudizioso ejusdem professionis et condicionis.

1. Il concorso nel reato proprio e il mutamento del titolo di reato Dottrina e giurisprudenza ammettono la possibilità del concorso dell’estraneo nel reato proprio e l’art. 117 ne dà espressa conferma. In base ai principi generali sul concorso, devono esistere tutti gli elementi oggettivi e soggettivi del concorso stesso, quali atteggiano alla particolare figura del reato proprio. Circa l’elemento oggettivo è essenziale: a) che tra la pluralità di soggetti vi sia la partecipazione del soggetto avente la qualifica richiesta dalla legge; b) la commissione del reato proprio; Quanto all’elemento soggettivo la conoscenza della qualifica occorre per i reati esclusivi e per i reati propri ma non esclusivi, che senza la qualifica costituirebbero reato comune. Non invece per i reati propri ma non esclusivi, che senza la qualifica costituirebbero illeciti extrapenali o resterebbero, comunque, offensivi di altrui interessi. Sicché nell’ipotesi in cui l’estraneo ignori che il concorrente rivesta la qualità richiesta dal reato proprio, secondo i suddetti principi generali egli dovrebbe rispondere: a) di alcun reato se si tratta di reati esclusivi; b) del reato comune nel caso che la qualifica comporti soltanto un mutamento del titolo di reato, cioè trasformi in proprio un reato altrimenti comune; c) del reato proprio nel caso che senza la qualifica il fatto costituirebbe illecito extrapenale o sarebbe comunque offensivo di altrui interessi. Diversa è la soluzione del vigente diritto positivo. Derogando, parzialmente, ai principi generali, l’art. 117 sancisce infatti: “Se, per le condizioni o le qualità personali del colpevole, o per i rapporti tra il colpevole e l’offeso, muta il titolo di reato per taluno di coloro che vi sono concorsi, anche gli altri rispondono dello stesso reato”. Operando un ulteriore effetto estensivo del concorso nel reato proprio, questa disposizione statuisce che in caso di mutamento del titolo di reato l’estraneo risponde del reato proprio, anche se non ha conoscenza della qualifica dell’intraneo. Per mitigare tale forma di responsabilità oggettiva, l’art. 117 aggiunge che, se il reato “è più grave, il giudice può, rispetto a coloro per i quali non sussistono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti, diminuire la pena”.


1. Le circostanze del concorso Circostanze aggravanti. Nel concorso doloso la pena deve essere aumentata, come stabilisce l’art. 112: a) per chi ha promosso od organizzato la cooperazione nel reato ovvero diretto l’attività delle persone che sono concorse nel reato medesimo; b) per chi nell’esercizio della sua autorità, direzione o vigilanza, ha determinato a commettere il reato persone ad esso soggette; c) per chi, fuori dal caso previsto nell’art. 111, ha determinato a commettere il reato un minore degli anni 18 o una persona in stato di infermità o di deficienza psichica; d) se il numero delle persone che sono concorse nel reato è di cinque o più, salvo che la legge disponga altrimenti. Nel concorso colposo la pena è aumentata per chi ha determinato a cooperare nel delitto: a) una persona non imputabile o non punibile; b) un minore degli anni 18 o una persona in stato di infermità o di deficienza psichica; c) persone soggette alla propria autorità, direzione o vigilanza; Circostanze attenuanti. Nel concorso sia doloso che colposo, la pena può essere diminuita, come stabilisce l’art. 114: a) nel caso che l’opera prestata da taluna delle persone che sono concorse nel reato abbia avuto minima importanza nella preparazione o nella esecuzione del reato; b) per chi è stato determinato a commettere il reato da persona che esercita sul soggetto un’autorità, direzione o vigilanza, o quando il soggetto determinato sia un minore degli anni 18 o persona in stato di infermità o deficienza psichica. A differenza delle aggravanti dell’art. 112, applicabili obbligatoriamente, le suddette attenuanti vengono considerate facoltative.

1. La comunicabilità delle circostanze e delle cause di esclusione della pena Quanto alle circostanze, l’originaria disciplina dell’art. 118 è stata così modificata dalla L. n. 19/1990: 1. le circostanze, obiettive e soggettive, sono imputate ai concorrenti nei termini dell’art. 59/1 e 2: • le attenuanti, oggettivamente (a tutti); • le aggravanti, soggettivamente: se conosciute o conoscibili dal singolo concorrente; 2. le sole circostanze, aggravanti o attenuanti, strettamente personali, cioè “concernenti i motivi a delinquere, l’intensità del dolo, il grado della colpa” oppure “inerenti alla persona del colpevole” sono valutate soltanto riguardo alla persona cui si riferiscono, anche se conosciute o conoscibili dagli altri concorrenti. Quanto alle cause di esclusione della pena, l’art. 119 stabilisce che: 1. hanno effetto rispetto a tutti i concorrenti le circostanze oggettive di esclusione della pena (scriminanti); 2. hanno effetto soltanto nei confronti della persona cui si riferiscono le circostanze soggettive che escludono la pena per taluno dei concorrenti, dovendosi intendere con questa espressione le c.d. cause di esclusione della colpevolezza e le cause di esclusione della sola punibilità e non anche del reato.

1. Il reato (necessariamente) plurisoggettivo Si ha un reato necessariamente plurisoggettivo quando è la stessa norma di parte speciale che richiede, per la esistenza del reato, una pluralità di soggetti attivi. Fondamentale è la distinzione fra: 1. reati plurisoggettivi propri, in cui tutti i coagenti sono assoggettati a pena in quanto l’obbligo giuridico, la cui violazione integra il reato, incombe su ciascuno di essi. Così nel duello, nell’associazione per delinquere, nella rissa, in cui tutti i soggetti sono tenuti alla osservanza del dovere imposto dalla norma penale; 2. reati plurisoggettivi impropri in cui uno o taluni soltanto dei coagenti sono punibili in quanto su di essi soltanto incombe l’obbligo giuridico di non tenere il comportamento. Il primo problema che si pone è se, nel reato plurisoggettivo improprio, il concorrente necessario, non espressamente dichiarato punibile dalla legge, possa essere ritenuto responsabile a titolo di concorso unicamente per avere tenuto la condotta tipica, cioè prevista dalla norma sul reato plurisoggettivo. E’ comune opinione che punire, in tali casi, il concorrente necessario sarebbe violare il principio di legalità. Il secondo problema è se il concorrente necessario, non dichiarato punibile come tale dalla legge, possa essere punito a titolo di concorso per una condotta atipica, diversa ed ulteriore rispetto a quella di concorrente necessario e volta a far realizzare all’altro concorrente la condotta punibile.


Il terzo problema è se ai concorrenti necessari, dichiarati punibili dalla legge, siano applicabili le norme sul concorso di persone e, particolarmente, le circostanze degli artt. 112 e 114 e le disposizioni sulla comunicabilità delle circostanze e delle cause di esclusione della punibilità. Va da ultimo notato che è possibile il concorso eventuale nel concorso necessario da parte di persone diverse dai concorrenti necessari, che non realizzano le azioni tipiche della fattispecie plurisoggettiva.

LA PERSONALITA’ DELL’AUTORE CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE 1. Il fatto e l’autore Accanto al fatto penalmente illecito, il secondo pilastro del diritto penale moderno è la personalità dell’autore dell’illecito penale. Circa i rapporti tra reato ed autore, la storia del diritto penale oscilla tra: 1. un diritto penale del puro fatto, che si limita ad una esclusiva e fredda considerazione del fatto nella sua immobile tipicità; 2. un diritto penale dell’autore, che sposta il proprio centro dal fatto al soggetto e costituisce l’aspirazione massima di personalizzazione dell’illecito penale. Esso da luogo: a) alla concezione positivistico-naturalistica del tipo criminologico d’autore a fini preventivi, che considera il delinquente nella sua globale personalità bio-psichica, causa del delitto, e per la quale il reato non è che un sintomo della pericolosità sociale del soggetto; b) alla concezione etico-sociale del tipo normativo d’autore a fini repressivoretributivi, volta a cogliere, sullo sfondo della tipologia legale dei reati, la tipologia etico-politica degli autori, come è sentita dalla coscienza sociale. 3. un diritto penale misto del fatto e della personalità dell’autore, che pur restando ancorato al principio garantista del fatto come base imprescindibile di ogni conseguenza penale, tiene conto dell’altrettanto imprescindibile esigenza di valutare la personalità del reo, però esclusivamente al fine di determinare il tipo, la quantità e la durata delle conseguenze penali applicabili. Quanto al modo di intendere l’autore del reato, la storia della scienza penale ha oscillato fra: 1. il dogma del reo come essere morale assolutamente libero nella scelta delle proprie azioni, che come tale venne elevato a Uomo astratto ed irreale; 2. il dogma del delinquente come essere assolutamente determinato che come tale viene degradato ad entità naturalistica, bio-psico-sociologica, rimbalzato tra costituzione ed ambiente e privo di ogni spontaneità ed autodeterminazione; 3. l’acquisizione critica dell’autore del reato come concreta individualità umana, né tutta libertà né tutta necessità ma con una libertà condizionata, motivata, la cui sfera di spontaneità e di autodeterminazione varia, ampliandosi o riducendosi fino ad annullarsi, nella concretezza dei fattori condizionanti.

1. La scuola classica e il diritto penale della responsabilità Maturata nell’ambiente politico-culturale determinato dall’illuminismo, la Scuola Classica ferma la propria attenzione su presupposti razionali della punibilità contro l’arbitrio e la crudeltà dell’epoca. Più precisamente essa incentra il diritto penale sui tre principi fondamentali: 1. della volontà colpevole: il reato è violazione cosciente e volontaria della norma penale; perché la volontà sia colpevole occorre che sia libera; il libero arbitrio è il fulcro del diritto penale; 2. dell’imputabilità: perché si abbia volontà colpevole occorre che l’agente abbia la concreta capacità di intendere il valore etico-sociale delle proprie azioni e di determinarsi liberamente alle medesime, sottraendosi all’influsso dei fattori interni ed esterni; 3. della pena come necessaria retribuzione del male compiuto e, come tale, afflittiva, personale, proporzionata, determinata, inderogabile. Merito della scuola classica è la razionalizzazione di taluni principi di civiltà che sono alla base di ogni diritto penale garantista e progredito. Tre sono però i grandi limiti: 1. con l’escludere ogni valutazione della personalità dell’agente, essa relega il diritto


penale ed il reo nella sfera astratta di un diritto naturale razionalistico lontano dalla realtà naturalistica, individuale e sociale, in cui essi invece sono immersi. Il postulato egualitario dell’uomo “assolutamente libero” ha portato ad ignorare gli innegabili condizionamenti dell’agire umano ad opera di fattori extravolontari, endogeni e esogeni, ai fini della graduazione della responsabilità e della individualizzazione della pena; 2. i classici limitano la difesa sociale contro il delitto alla sola pena quale unico strumento di prevenzione generale e speciale. Sicché al sistema classico resta estranea ogni idea non solo di prevenzione generale e speciale “sociale”, ma anche di prevenzione speciale “penale” attraverso misure neutralizzatrici e risocializzatrici, adeguate alla personalità dell’agente; 3. nessuna attenzione fu rivolta alla esecuzione della pena ai fini del ricupero sociale del delinquente, in quanto per i classici il problema penale si chiude con il passaggio in giudicato della sentenza.

1. La scuola positiva e il diritto penale della pericolosità Per la scuola positiva il delitto appare, nel determinismo universale dei fenomeni, manifestazione necessitata di determinate cause e non già estrinsecazione di una scelta libera e responsabile del soggetto. Il diritto penale va, perciò, disancorato da ogni premessa metafisica e da ogni contenuto etico di riprovevolezza e, innanzitutto, dal postulato del libero arbitrio, che non ha senso. Muovendo dal postulato del determinismo causale, i positivisti pongono a base del diritto penale non più la responsabilità etica ma la pericolosità sociale del soggetto e la concezione difensiva della sanzione penale. Con un radicale capovolgimento dei tre capisaldi della scuola classica. Infatti: 1. si sposta il centro del diritto penale dal reato in astratto al delinquente in concreto, in quanto ciò che interessa non è più il reato come ente giuridico staccato dall'agente, ma il reato come fatto umano individuale, che trova la sua causa nella struttura biopsicologica del delinquente e che, perciò, altro non è che l'indice esteriore della pericolosità del soggetto (concezione sintomatologica del reato); 2. alla volontà colpevole, all'imputabilità, alla responsabilità morale, viene sostituito il concetto di pericolosità sociale, intesa come probabilità che il soggetto, per certe cause, sia spinto a commettere fatti criminosi; 3. la pena retributiva è sostituita dal sistema di misure di sicurezza, moralmente neutrale (profilassi criminale). Tre sono i meriti della scuola positiva: 1. di avere messo a fuoco il problema della personalità del delinquente nei suoi condizionamenti bio-psico-sociologici; 2. di avere calato il reato ed il reo dentro la realtà individuale e sociale, dando vita gli indirizzi criminologici, antropologici e sociologici, che si contendono il campo della criminologia; 3. di aver aperto le frontiere alla difesa sociale. Tre sono pure i grandi limiti: 1. con le sue generalizzazioni e schematizzazioni deterministico meccanicistiche, che sono apparse ben presto ingenue ed inaccettabili, ha deresponsabilizzato l'individuo, peccando dell'eccesso opposto della scuola classica che deresponsabilizzava la società; 2. agganciando il reato al suo autore e, soprattutto, incentrando il diritto penale sulla pericolosità del delinquente, sulle tipologie criminologiche di autori e su momenti tipicamente personali, essa rimise pure in discussione quelle garanzie di legalità e certezza, faticosamente conquistate ed il cui recupero diventerà il punto politicamente e giuridicamente più indagato dei moderni indirizzi penalistici; 3. più in radice pose in discussione l'abbandono del fondamentale principio del nullum crimen sine delicto, in quanto, una volta sostituita la colpevolezza per il fatto con la pericolosità sociale dell'autore, avrebbero dovuto essere sottoposti, coerentemente, a misure di sicurezza anche i predelinquenti, cioè i soggetti che, pur non avendo ancora commesso reati, risultano socialmente pericolosi.

1. La terza scuola e il sistema dualistico della responsabilità-pericolosità Fu innanzitutto la terza scuola o scuola eclettica, che cercò la mediazione tra gli elementi di utilità pratica, emersi dalle opposte posizioni classica e positivista. Ne nacque il cosiddetto sistema del doppio binario, fondato sul dualismo della responsabilità individuale-pena retributiva e della pericolosità sociale-misura di sicurezza. Questo indirizzo, da un lato, tiene fermi i canoni fondamentali classici, continuando a incentrare il diritto penale sulla responsabilità del fatto commesso con volontà colpevole, sull'imputabilità e sulla pena, destinata agli imputabili. Dall'altro, accoglie vari postulati pratici positivisti, in quanto ammette la pericolosità sociale di certi soggetti


e, per la esigenza della difesa contro soggetti pericolosi, le misure di sicurezza.

1. La nuova difesa sociale e la responsabilità come espressione della personalità Il maggiore sforzo di sintesi è quello tentato da quel movimento di pensiero, tra i più fecondi del dopoguerra, della nuova difesa sociale, che ricevette la sua prima consacrazione internazionale con l'istituzione nel 1948 della sezione di difesa sociale delle nazioni unite che si sviluppò soprattutto per iniziativa della società internazionale di difesa sociale, fondata nello stesso anno. Sua essenza sono la difesa della società contro il crimine e la risocializzazione del delinquente. Il programma minimo, accettato da tutti membri della S.I.D.S., può riassumersi nei seguenti punti: • la lotta contro la criminalità come uno dei compiti sociali più importanti, da attuarsi attraverso mezzi di azione diversi sia predelittuali sia postdelittuali; • l'umanizzazione del diritto penale, in quanto il perseguimento di tale scopo deve avvenire attraverso il rispetto dei valori umani; • la scientificizzazione del diritto penale, poiché lo scopo pratico della difesa della società e dei suoi membri contro il crimine, se da un lato deve prescindere da premesse di ordine metafisico, dall'altra deve fondarsi su uno studio scientifico della realtà; • l'introduzione di un sistema di misure di difesa sociale, unitario e sufficientemente differenziato, idoneo al recupero sociale del delinquente. La procedura giudiziaria e il trattamento penitenziario che debbono essere considerati come un processo continuativo, di cui le successive fasi vanno concepite secondo lo spirito e gli scopi della difesa sociale.

1. Il sistema dualistico del diritto penale italiano Come tutti diritti penali evoluti, anche diritto penale italiano è di tipo misto: del fatto e dell'autore. Resta fermamente ancorato al fatto come base imprescindibile di ogni conseguenza penale, bandendo dalla fattispecie incriminatrice ogni elemento personalistico. Ma considera, tuttavia, la personalità dell'autore al fine di determinare il tipo e la qualità delle conseguenze penali applicabili. Nel considerare il delinquente anche nella prospettiva personalistica, il nostro diritto penale, respinti i postulati estremi delle correnti criminalistiche radicali e aderendo alle posizioni compromissorie della terza scuola, ha recepito il sistema dualistico del doppio binario.

IL PROBLEMA DELLE CAUSE DELLA CRIMINALITA’ 1. L’indirizzo individualistico biologico Lo studio della criminalità con metodo scientifico iniziò soltanto con la Criminologia, nata come scienza autonoma a metà del secolo XIX. Già dal suo sorgere si manifestarono in essa i due indirizzi unifattoriali, o prevalentemente individualistici o prevalentemente sociologici, che contrassegnarono per decenni lo sviluppo della disciplina. Essi si differenziarono in scuole che si posero frequentemente in posizione antagonistica, prendendo come fondamento, le une, la costituzione biopsichica dell’individuo e, le altre, la realtà socioambientale. L’indirizzo individualistico, per cui le cause primarie od esclusive della criminalità sono da ricercare in fattori endogeni, incentra lo studio della criminalità principalmente sulla “personalità” del singolo individuo delinquente. E sostiene la predisposizione individuale alla delinquenza, cioè la probabilità dei soggetti, segnati da certe caratteristiche, di pervenire al delitto. Esso è andato sviluppandosi: 1. negli orientamenti fisico-biologici, come per le correnti che hanno studiato i rapporti tra determinate tipologie fisiche e criminalità e per i quali i delinquenti presentano particolari caratteristiche fisiche che li fanno apparire diversi e distinguibili dagli altri esseri umani; 2. negli orientamenti psicologici, dove la moderna antropologia criminale ha posto l’attenzione sui rapporti tra costituzione e condotta criminosa, passando dall’antropometria lombrosiana alla tipologia costituzionalistica. Ad esempio, per l’indirizzo costituzionalistico bio-psichico si cerca di porre in evidenza che la predisposizione al crimine ha le sue radici nel “profondo dell’essere biologico” totale, composto indivisibile di materia e spirito, di tessuti, di umori e di coscienza. La nota formula “delinquenti si nasce, non si diventa” ne esprime le posizioni deterministiche estremistiche.


1. L’indirizzo individualistico psichiatrico Nell’ambito dell’orientamento individualistico, che accentra l’attenzione sui fattori psichici della criminalità, si sono sviluppati gli indirizzi psichiatrici e gli indirizzi psicoanalitici. Gli indirizzi psichiatrici raggruppano quelle teorie che videro nei disturbi mentali il fattore di maggior significato rispetto alle condotte criminali, specialmente più gravi e recidive. Muovendo dalla prospettiva medica e secondo un criterio classificatorio nosografico, che riflette quello classico, i disturbi psichici possono distinguersi in anomalie psichiche e malattie mentali (o psicosi). Nell’ambito delle anomalie psichiche, riscontrabili in ampio numero di soggetti, si possono distinguere: • le deficienze mentali, caratterizzate da uno sviluppo dell’intelligenza inferiore alla media; • le reazioni psicogene abnormi, caratterizzate da una risposta psichica inadeguata ad eventi esterni emotigeni o psicotraumatizzanti; • le personalità nevrotiche, diverse dalle nevrosi vere e proprie, caratterizzate da un andamento processuale, un inizio e un decorso simili a quello di una malattia. Nell’ambito delle malattie mentali si distinguono: • psicosi organiche, ovvero malattie psichiche provocate da un noto agente patogeno e accompagnate da ben conosciute alterazioni anatomo-patologiche; • psicosi endogene, ovvero alterazioni mentali prive di cause organiche note ma considerate ugualmente malattie per il loro andamento processuale (schizofrenia, paranoia, psicosi maniaco-depressiva).

1. L’indirizzo individualistico psicogenetico Con lo sviluppo della psicologia dinamica sorsero molteplici indirizzi criminologici che individuarono in fattori psicologici la causa prevalente od unica della condotta criminale (teorie psicoanalitiche e teoria analitica di Jung).

1. L’indirizzo individualistico psicosociale Le teorie psicosociali ritengono che l’individuo sia, innanzitutto, mosso da istanze sociali più che individuali e, secondariamente, influenzato e motivato dai tipi di rapporti interpersonali che nel contesto sociale si realizzano. Per la teoria dell’identità negativa il processo di formazione, in gran parte inconscio, della propria “identità personale” ha una sua fase determinante alla fine dell’adolescenza, poiché successivamente ad essa l’individuo ha di sé un’immagine relativamente stabile e duratura. Per le teorie riflesslologiche, dello stimolo-risposta, l'uomo va studiato non introspettivamente, a prescindere dai concetti di volontà, di coscienza, di libero arbitrio, e dai processi psicologici e motivazioni consce ed inconsce del suo agire, ma più semplicemente nei modi in cui reagisce, con la propria condotta, agli stimoli ambientali, poiché‚ solo così è possibile la osservazione obiettiva e lo studio scientifico delle leggi che regolano il comportamento umano.

1. L’indirizzo sociologico L'indirizzo sociologico, che muove dal postulato che il reato non è un fatto individuale isolato, ma il prodotto dell'ambiente, e che le cause della criminalità vanno pertanto cercate in fattori esogeni polarizza lo studio della criminalità principalmente sulla realtà socio-ambientale. Le note formule “l'ambiente sociale è il terreno di cultura della criminalità”, “delinquente non si nasce, si diventa”, “la società ha la criminalità che si merita” ne esprimono le posizioni estremistiche. La sociologia fenomenologica. Con finalità prevalentemente descrittive, essa si sofferma, mediante l'indispensabile aiuto della statistica criminale, alla osservazione empirica dei modi di manifestazione dei fatti criminosi, delle correlazioni con le circostanze ambientali, dei fattori macrosociali largamente influenzanti la condotta individuale e consente di constatare non solo la consistenza numerica, la distribuzione e la relativa costanza negli anni dei vari tipi di delitti, ma anche la loro distribuzione quantitativa e qualitativa secondo i più vari e rilevanti parametri socio-ambientali ed il loro relativo mutare nel tempo e nello spazio. La sociologia causale. Essenzialmente teoretica, essa abbraccia quelle teorie sociocriminologiche, quelle costruzioni teoriche organizzate in sistema, attraverso le quali si tende a rendere ragione dei fatti criminosi sulla base di determinate cause onnicomprensive con validità generale. Tali teorie, talune delle quali hanno sensibilmente arricchito le nostre conoscenze sui fattori sociologici e sociopsicologici del delitto,


possono fondamentalmente distinguersi in: • teorie classiste, per le quali la criminalità è una proprietà di un particolare sistema economico-sociale e comprendono quelle spiegazioni teoretiche della criminalità basate su taluni tratti caratteristici delle diverse classi sociali, sui conflitti esistenti fra queste e tra le sottoculture da esse create; • teorie culturalistiche (non classiste) che individuano le cause preponderanti della criminalità nei fattori culturali inerenti cioè alla “cultura” intesa come “quel complesso insieme che include conoscenze, credenze, arte, morale, legge, usanze e le altre capacità acquisite dall'uomo come membro della società” o, più brevemente, come “il modo di vita creato dall'uomo”. Nell'indirizzo culturalistico si annoverano alcune delle più note teorie sociocriminologiche, quali quelle: a) dei conflitti culturali che individua nel conflitto insorgente tra sistemi culturali contigui una delle principali cause dell’instabilità sociale; b) dell'anomia, per la quale la stessa instabilità si ravvisa nella situazione anomica; c) della disorganizzazione sociale, che ravvisa una stretta dipendenza tra destabilizzazione dei valori culturali di una società e la irregolarità della condotta dei suoi membri, in quanto i fattori disorganizzativi sociali tolgono agli individui i parametri di riferimento normativo e di guida nella loro condotta; d) delle aree criminali, che identifica le cause della condotta criminale nell’esposizione a particolari influenze ambientali, connesse al vivere in zone urbane ad alta concentrazione delinquenziale; e) delle associazioni differenziali, secondo la quale il comportamento criminale è inteso non come mera imitazione, ma come apprendimento attraverso l’associazione interpersonale con altri individui che sono già criminali; f) dell'identificazione differenziale, secondo la quale l’apprendimento del comportamento criminale dipende non tanto dalla priorità, frequenza, intensità, dei contatti interpersonali, quanto dall’identificazione del soggetto con modelli criminali.

1. L’indirizzo multifattoriale Le teorie multifattoriali pongono l’integrazione tra antropologia e sociologia come l’obiettivo più attuale della moderna criminologia. • la teoria non direzionale si protende in tutte le direzioni al fine di enucleare le caratteristiche individuali e situazionali ricorrenti nei delinquenti e pertanto utilizzabili anche per fini prognostici; • la teoria dei contenitori considera in modo specifico l’azione dei controlli interni ed esterni, capaci congiuntamente e vicendevolmente di regolare la condotta umana. In generale, da un lato l’ambiente sociale può favorire il comportamento criminale dei soggetti potenzialmente predisposti; dall’altro, con l’accentuarsi del carattere criminogeno dell’ambiente, possono pervenire al delitto categorie sempre più ampie di soggetti meno od anche solo marginalmente predisposti.

1. La classificazione dei delinquenti Il problema della classificazione dei delinquenti è stato posto, nell’ambito delle scienze criminali, sotto il triplice profilo del tipo criminologico, del tipo legale, del tipo d’autore. Da tempo si è però contestata la validità ed utilità di tali classificazioni giungendo così alle seguenti: 1. motivazionale, che raccoglie non solo i delinquenti per appropriazione, aggressività, passionalità, sessualità, ideologia, ludismo; ma anche i delinquenti professionali, occasionali, per situazioni critiche, per indisciplina sociale; 2. clinica, fatta in funzione della presenza o meno negli autori di anomalie dal punto di vista medico-psichiatrico; 3. socio-ambientale, che distingue gli autori dei delitti a seconda dell’ambiente e del contesto sociale in cui la condotta criminosa si sviluppa e realizza, esistendo tipi di criminalità specifici dei diversi ambienti sociali (sottoculture criminali, non criminali, delinquenti dei colletti bianchi, del potere politico, dell’ambiente familiare).

IL DELINQUENTE RESPONSABILE 1. La libertà morale condizionata Le scienze criminali permanentemente oscillano tra gli opposti poli della responsabilità e


della irresponsabilità umana. Ciò come naturale riflesso del perenne problema di fondo tra indeterminismo e determinismo, che da sempre occupa l’antropologia filosofica, non ammette verifica empirica definitiva ed è insolubile poiché radicato nella perenne antinomia tra le due categorie, la libertà e la necessità, del pensiero umano, il quale, non potendo mai uscire da se stesso e giudicare, con i suoi stessi strumenti, della sua validità e pervenire ad una totale introspezione, riprodurrà sempre, attraverso siffatta conoscenza, tale intima e irresolubile antinomia. Sta di fatto però che l’idea della libertà morale e della responsabilità individuale, pur con tutti i ridimensionamenti, ha sempre retto a tutti gli attacchi.

1. L’imputabilità Data l’impossibilità di accertare la capacità individuale di agire altrimenti nella situazione concreta, tale libertà è presunta come presente nel soggetto agente in assenza delle cause che valgono ad escluderla. Contro le variabili estremistiche dei delinquenti tutti responsabili o tutti irresponsabili resta la costante realistica che, accanto ai molti responsabili, residua pur sempre un nucleo di pochi irresponsabili. L’imputabilità è appunto il presupposto della responsabilità per la pena e varie sono state in passato le teorie tese a definirne la natura: • per la teoria della normalità l’imputabilità è concepita come normale facoltà di determinarsi, per cui imputabile è solo chi reagisce normalmente ai motivi, e quindi, l’uomo psichicamente sano e maturo; • per la teoria dell’identità personale l’imputabilità consiste nella appartenenza dell’atto all’autore e sussiste quando il fatto è espressione della personalità dell’agente, mentre manca quando viene meno nel soggetto il potere di manifestarsi secondo il proprio Io; • per la teoria dell’intimidibilità l’imputabilità è la capacità di sentire l’efficacia intimidatrice della pena, onde non sono imputabili gli immaturi, gli infermi di mente ed assimilati perché incapaci di subire la coazione psicologica della pena. Manifesti sono i vizi e i limiti di tali teorie. Si è perciò cercato di fondare l’imputabilità sulla concezione comune della responsabilità umana, essendo opinione radicata nella coscienza collettiva che un uomo, per poter essere chiamato a rispondere dei propri atti di fronte alla legge penale, deve avere raggiunto un certo sviluppo intellettuale e non essere infermo di mente. L’imputabilità non è soltanto capacità alla pena ma è anche e ancor prima capacità alla colpevolezza, costituendo essa il presupposto di essa: senza imputabilità non vi è colpevolezza e senza colpevolezza non vi è pena.

1. La capacità di intendere e di volere In base all’art. 85, un soggetto perché sia imputabile deve possedere: • la capacità di intendere, cioè l’attitudine del soggetto non solo a conoscere la realtà esterna, ciò che si svolge al di fuori di lui, ma a rendersi conto del valore sociale, positivo o negativo, di tali accadimenti e degli atti che egli compie; • la capacità di volere, cioè l’attitudine del soggetto ad autodeterminarsi, a determinarsi cioè in modo autonomo tra i motivi coscienti in vista di uno scopo, volendo ciò che l’intelletto ha giudicato di doversi fare e, quindi, adeguando il proprio comportamento alle scelte fatte. La richiesta esistenza dell’imputabilità al momento del fatto sta a significare che essa deve esistere: a) con riferimento al singolo fatto concreto, posto in essere dal soggetto, essendo possibile, stante la c.d. divisibilità della capacità di intendere e di volere, una imputabilità settoriale rispetto ad un tipo di fatto e non rispetto ad un altro tipo; b) al tempo della condotta, essendo questo il momento in cui il soggetto si pone contro il diritto e deve essere, perciò, in grado di comprendere il disvalore del proprio comportamento e di autodeterminarsi. Dal combinato disposto dagli artt. 85 e 88 ss. si desume: a) che l’imputabilità è considerata normalmente esistente; b) che essa è esclusa o diminuita soltanto in presenza di determinate cause; c) che, pertanto, il giudice deve accertare non, positivamente, la esistenza della capacità di intendere e di volere, ma, negativamente, la assenza o il dubbio sulla esistenza per effetto di dette cause.

1. La incapacità procurata Oltre che dovuta a cause naturali, la incapacità di intendere e di volere può essere


procurata dallo stesso soggetto o da terzi. Nel primo caso può trattarsi di una incapacità: a) incolpevole, perché dovuta a caso fortuito o forza maggiore: trova applicazione il disposto dell’art. 85; b) volontaria o colposa, perché voluta dal soggetto o da lui prevedibile o evitabile: la regola dell’art. 85 è derogata seppur non esplicitamente (come invece nell’ipotesi successiva sub c). Se l’incapacità è piena, il soggetto risponderà del reato commesso a titolo di dolo eventuale, se si è posto in stato di incapacità prevedendo ed accettando il rischio del reato; oppure a titolo di colpa se il reato, nel momento in cui egli si rese incapace, fu da lui previsto ma non accettato o, comunque, era prevedibile come conseguenza, sempre che si tratti di reato previsto dalla legge come colposo; c) preordinata, perché predisposta al fine di commettere un reato o prepararsi un scusa: l’art. 87 dispone la non applicabilità dell’art. 85. Occorre tuttavia notare che la permanenza dell’imputabilità nelle ultime due ipotesi non implica la automatica colpevolezza per ogni fatto commesso in stato di incapacità. Nel caso di incapacità procurata da terzi, l’art. 613 punisce “chiunque, mediante suggestione ipnotica o in veglia, o mediante somministrazione di sostanze alcoliche o stupefacenti, o con qualsiasi altro mezzo, pone una persona, senza il consenso di lei, in stato di incapacità di intendere o di volere”. Il soggetto reso incapace senza il suo consenso sottostà alla comune disciplina degli artt. 88-89, 91, 93, se la incapacità è procurata rispettivamente con mezzi che producono una infermità di mente, con sostanze alcoliche o stupefacenti. Sarà perciò non imputabile o semi-imputabile a seconda che la incapacità sia totale o parziale. Il soggetto reso incapace con il suo consenso e condividente il fine criminoso è corresponsabile del reato. Quanto al soggetto che ha determinato in altri la incapacità occorre distinguere. Se ha agito al fine di far commettere un reato, risponde del reato commesso dalla persona resa incapace; se ha agito senza fini criminosi, risponderà di eventuali reati commessi dall’incapace secondo le regole generali sulla colpevolezza: cioè a titolo di dolo eventuale se ne ha previsto e accettato il rischio oppure a titolo di colpa se il fatto fu da lui previsto ma non accettato oppure prevedibile e evitabile, sempre che tale fatto sia previsto dalla legge come reato colposo.

1. La responsabilità e la capacità a delinquere Mentre la imputabilità è il presupposto della responsabilità, la capacità a delinquere serve a graduare, a individualizzare la responsabilità. Così, per il nostro ordinamento garantista, l’agente risponde pur sempre di un fatto determinato, ma nei limiti in cui la commissione di esso è moralmente opera sua, nella misura in cui il reato e la sua concreta gravità gli appartengono, e pertanto, gli possono essere moralmente rimproverati. A tal proposito l’art. 133, dopo aver disposto che nella commisurazione della pena il giudice deve tenere conto della gravità del reato, aggiunge che occorre altresì considerare la capacità a delinquere del colpevole desunta: a) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; b) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo; c) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato d) dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.

1. La duplice funzione della capacità a delinquere La capacità a delinquere ha una funzione bidimensionale che consente di valutare la personalità nella sua complessità morale e naturalistica, di compromettere il dissidio tra libertà e necessità, di gettare un ponte tra diritto penale e scienze dell’uomo: 1. una funzione retrospettivo-retributiva, ove va intesa come capacità morale di compiere il reato commesso; 2. una funzione prognostico-preventiva, in quanto serva ad accertare l’attitudine del soggetto a commettere nuovi reati. Quanto agli elementi da cui va desunta la capacità a delinquere, essi sono tutti bivalenti potendo contribuire a precisare meglio la personalità del soggetto sotto il profilo sia morale che naturalistico. Per tale ragione debbono essere oggetto di doppia valutazione. Essi possono così elencarsi: a) il carattere del reo; b) i motivi a delinquere, ovvero la causa psichica, conscia o inconscia, della condotta umana; c) la vita anteatta, dove rilevano, oltre ai precedenti penali e giudiziari, tutti gli altri aspetti della condotta di vita del soggetto; d) il comportamento generale, anteriore, contemporaneo, susseguente al reato; e) l’ambiente.


1. La recidiva La recidiva è la condizione personale di chi, dopo essere stato condannato per un reato con sentenza passata in giudicato, ne commette un altro: essa costituisce uno dei c.d. effetti penali della condanna e va inquadrata tra le circostanze inerenti alla persona del colpevole. La recidiva comporta la possibilità di una aumento di pena. Si distinguono tre tipi di recidive: a) semplice: consiste nel semplice fatto di commettere un reato dopo aver subito una condanna irrevocabile per un altro reato, e può comportare un aumento fino ad un sesto della pena da infliggere per il nuovo reato; b) aggravata: si ha quando viene commesso un nuovo reato: • della stessa indole del precedente (recidiva specifica); • oppure nei cinque anni dalla condanna precedente (infraquinquennale); • oppure durante o dopo l’esecuzione della pena, o durante il tempo in cui il condannato si è sottratto volontariamente all’esecuzione della pena; comporta un aumento di pena fino ad un terzo se concorre una sola delle tre circostanze che la determinano e fino alla metà se ne concorre più di una; c) reiterata: si ha allorché il reato è commesso da chi è già recidivo; comporta un aumento di pena fino alla metà se la preesistente recidiva è semplice, fino a due terzi se aggravata specifica o infraquinquennale e da un terzo a due terzi se è aggravata ex art. 99, n. 3. Con la riforma del D.L. 99/’74 sono stati introdotti due principi: 1. l’aumento di pena non può mai superare il cumulo delle pene risultanti dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo reato; 2. l’aumento di pena è facoltativo e non più obbligatorio. Per quanto riguarda la natura giuridica della recidiva, il problema consiste nell’inquadrare la stessa come circostanza in senso tecnico o elemento di commisurazione della pena del tipo di quelli di cui all’art. 133. Sulla tesi della circostanza resta ferma la giurisprudenza, per la quale è obbligatoria la contestazione processuale della recidiva e possibile il bilanciamento con altre circostanze. Per altra più corretta opinione, la riforma ha ulteriormente rafforzato la tesi per cui la recidiva non può costituire circostanza, nonostante la classificazione in questo senso del codice, che d’altronde non è vincolante. Sotto il profilo processuale sono pacifiche: a) la obbligatorietà della contestazione; b) la non incidenza della stessa sul regime della procedibilità.

IL DELINQUENTE IRRESPONSABILE 1. Le cause di esclusione o diminuzione della imputabilità La cause che escludono o diminusicono la imputabilità, previste dal codice negli artt. 8896, appartengono alle due species: 1. delle alterazione patologiche, dovute ad infermità di mente o all’azione dell’alcool o di sostanze stupefacenti; 2. della immaturità fisiologica o parafisiologica, dipendenti rispettivamente dalla minore età e dal sordomutismo.

1. La minore età Come l’esperienza comune e la scienza insegnano, la capacità di intendere e di volere presuppone un certo sviluppo fisico-psichico del soggetto. Il codice italiano pone una triplice distinzione sancendo: 1. per il minore di anni 14 una presunzione assoluta di incapacità, per presunta immaturità, cioè senza prova contraria; 2. per i maggiori degli anni 18 una presunzione di capacità per presunta maturità, salvo che si dimostri che tale capacità è esclusa o diminuita da altre cause, patologiche o parafisiologiche; 3. per il minore fra i 14 e i 18 anni nessuna presunzione, dovendo il giudice (anche d’ufficio) accertare caso per caso la imputabilità o inimputabilità; Circa il trattamento, il minore non imputabile viene prosciolto. Per non lasciare la società indifesa, si applica, al minore che abbia commesso un delitto e sia ritenuto pericoloso, la misura di sicurezza del riformatorio giudiziario o della libertà vigilata. Se il minore fra i 14 e i 18 anni è ritenuto imputabile fruisce allora di una diminuzione di pena e di talune agevolazioni in tema di pene accessorie. Qualora il giudice lo ritenga pericoloso può ordinare che dopo l’esecuzione della pena, sia sottoposto alle suddette misure di sicurezza.


Quando il minore sia incapace di intendere e di volere anche per ragioni diverse dalla minore età, si fa luogo al trattamento curativo.

1. Il sordomutismo Il sordomutismo è previsto tra le cause che escludono o diminuiscono l’imputabilità, in quanto l’udito e il linguaggio sono essenziali per lo sviluppo del patrimonio psichico dell’uomo. Nel vigente codice il sordomutismo non comporta alcuna presunzione di imputabilità, ma deve caso per caso accertarsi se esso incida o meno sulla capacità del soggetto. Per questo motivo: • quando si riconosce che la capacità di intendere e di volere era piena, il sordomuto viene penalmente considerato come una persona normale e ritenuto imputabile; • se, invece, si accerta che la capacità non sussisteva, egli è parificato alla persona affetta da vizio totale di mente e ritenuto non imputabile; • se si accerta, infine, che la capacità era grandemente scemata, è parificato alla persona affetta da vizio parziale di mente, e quindi, è ritenuto imputabile, ma la pena è diminuita.

1. Il vizio di mente Per vizio di mente deve intendersi uno stato mentale patologico, che esclude o diminuisce la capacità di intendere e di volere. Al fine del giudizio di imputabilità, l’alterazione dello stato mentale deve esistere al momento del fatto e riguardare lo specifico fatto. Il nostro codice distingue tra: a) vizio di mente totale (art. 88), per cui non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere. L’imputato dichiarato non imputabile è prosciolto ma se pericoloso è sottoposto alla misura di sicurezza dell’ospedale psichiatrico giudiziario (art. 222); b) vizio di mente parziale (art. 89 ) che si ha quando la capacità di intendere e di volere, senza essere esclusa, è grandemente scemata (seminfermità): in tal caso si opera una diminuzione della pena cui si cumula, di regola, una misura di sicurezza. Gli stati emotivi e passionali, invece, non escludono né diminuiscono l’imputabilità (art. 90) sempre che non siano manifestazione di uno stato patologico.

1. L’azione dell’alcool e degli stupefacenti Alcolismo ed uso di stupefacenti sono fenomeni che hanno sempre interessato le scienze criminali per la loro plurima potenzialità offensiva e criminogena. Nella lotta contro tali fenomeni la nostra legge segue la duplice via: 1. della prevenzione, sia colpendo le attività che favoriscono le autointossicazioni voluttuarie, sia attraverso interventi informativi ed educativi; 2. della repressione, incriminando ad esempio l’ubriachezza manifesta in luogo pubblico e la guida in stato di ebbrezza. Se da un punto di vista medico-legale si dovrebbe concludere che un soggetto privo di capacità di intendere e di volere a causa dell’uso di dette sostanze sia inimputabile o semi-imputabile, non è così dal punto di vista giuridico. Per quanto riguarda l’alcolismo, il nostro codice distingue fra ubriachezza e cronica intossicazione. Nell’ambito della prima distingue fra: • ubriachezza accidentale, derivata da caso fortuito o forza maggiore; • ubriachezza volontaria o colposa a seconda che il soggetto si sia ubriacato intenzionalmente o abbia comunque accettato il rischio di ubriacarsi, oppure, si sia ubriacato per negligenza o imprudenza non volendo il fatto ma senza evitare - pur potendola evitare - tale eventualità; • ubriachezza preordinata qualora abbia il fine di commettere un reato o prepararsi una scusa; • ubriachezza abituale quando il soggetto è dedito all’uso di alcolici e viene spesso a trovarsi, per tale motivo, in stato di ebbrezza. Oltre a non escludere l’imputabilità, la ubriachezza abituale comporta un aumento di pena e l’applicazione di una misura di sicurezza; Per quanto riguarda la cronica intossicazione da alcool, poiché in tale ipotesi i fenomeni sono stabili e persistenti anche dopo l’eliminazione dell’alcool, l’art. 95 richiama lo stesso regime del vizio di mente totale o parziale, per cui l’intossicato è non punibile o punibile con pena ridotta a seconda che la capacità sia esclusa o grandemente scemata. Passando all’azione degli stupefacenti, si ravvisa un’identità fra la disciplina dettata per gli effetti della loro azione e quella dettata per gli effetti dell’alcool. Avremo pertanto - anche in questo caso - una intossicazione accidentale, volontaria o colposa, preordinata,


abituale e cronica.

IL DELINQUENTE PERICOLOSO 1. La pericolosità criminale Agli effetti della legge penale, viene definita socialmente pericolosa la persona - anche se non imputabile o non punibile - che abbia commesso un reato o un “quasi reato”, quando è probabile che commetta nuovi fatti previsti dalla legge come reati. Nel nostro diritto la pericolosità rileva a fini diversi: non solo è il presupposto per l’applicazione e la determinazione della durata delle misure di sicurezza, ma influisce anche sulla misura della pena ai sensi dell’art. 133. Nei tempi più recenti la pericolosità è divenuta oggetto di ampio dibattito nell’ambito della dottrina penalistica fino a proporsi, da parte delle posizioni più radicali, la eliminazione della stessa dal codice penale. Oggi non pare che il problema della pericolosità possa essere in tal modo superato in quanto si tratterebbe di un passo indietro per i vuoti di difesa sociale che ne conseguirebbero rispetto, anzitutto, ai delinquenti pericolosi non imputabili. Occorre semmai un ridimensionamento del suo tradizionale ruolo nel senso: 1. che la pericolosità deve essere considerata non una caratteristica indefettibile, ma soltanto una qualità eventuale dell’autore di un reato; 2. che necessario presupposto minimo del giudizio di pericolosità deve essere la commissione quanto meno di un illecito penale: nessuno può, pertanto, essere dichiarato socialmente pericoloso prima della commissione di un illecito penale e, inoltre, senza tenere conto di esso; 3. che occorre passare dall’attuale pericolosità generica, quale mera probabilità di commettere nuovi reati da parte dell’autore di un illecito penale, alla pericolosità specifica, consistente nella probabilità di commettere reati specifici e di particolare rilevanza; 4. che si pone il problema se restare ancorati al “doppio binario spurio”, rettificandone le incongruenze, o passare al “doppio binario puro”, limitando la pericolosità sociale e le misure di sicurezza ai soli soggetti totalmente non imputabili;

1. L’accertamento della pericolosità Il problema della pericolosità, più che un problema di ammissibilità della categoria dei soggetti pericolosi, è essenzialmente un problema di accertabilità scientifica. Il codice del ’30 prevedeva sia ipotesi di pericolosità accertata dal giudice, sia ipotesi di pericolosità presunta dalla legge. L’art. 31 della L. 663/86, abrogando l’art. 204, ha disposto invece che “tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa”. In altre parole la pericolosità deve essere accertata di volta in volta dal giudice. Il giudizio sulla pericolosità si articola in due momenti: 1. l’accertamento delle qualità indizianti, che consente di desumere la probabile commissione di nuovi reati; 2. la c.d. prognosi criminale, cioè il giudizio sul futuro criminale del soggetto, effettuato sulla base delle qualità indizianti. Il giudizio di pericolosità si fonda sulla personalità del soggetto nel suo complesso, sicché il reato commesso viene in rilievo non come tale, ma insieme a tutti gli elementi dell’art. 133/2.

1. Il delinquente abituale, professionale, per tendenza Il delinquente abituale. La abitualità criminosa indica la qualità personale dell’individuo che, con la sua persistente attività criminosa, dimostra una notevole attitudine a commettere reati. L’abitualità presunta ricorre quando trattasi di persona: a) che è stata condannata alla reclusione in misura superiore complessivamente a cinque anni per almeno tre delitti non colposi, della stessa indole e commessi non contestualmente, entro dieci anni; b) che riporta altra condanna per un delitto non colposo, della stessa indole e commesso entro dieci anni successivi all’ultimo dei delitti precedenti. L’abitualità ritenuta dal giudice si ha quando: a) il reo sia stato condannato per due delitti non colposi; b) riporti un’altra condanna per delitto non colposo;


c) il giudice, tenuto conto della specie e gravità dei reati, del tempo entro il quale sono stati commessi, della condotta e del genere di vita del colpevole e delle altre circostanze indicate nel capoverso dell’art. 133, ritenga che il colpevole “è dedito al delitto”. Il codice prevede anche l’abitualità nelle contravvenzioni che, non mai presunta, deve essere sempre accertata dal giudice. Essa ricorre quando: a) il reo sia stato condannato alla pena dell’arresto per tre contravvenzioni della stessa indole; b) riporti condanna per un’altra contravvenzione della stessa indole; c) il giudice, tenuto conto della specie e gravità dei reati, del tempo entro il quale sono stati commessi, della condotta e del genere di vita del colpevole e delle altre circostanze indicate nel capoverso dell’art. 133/2, ritenga che il colpevole sia dedito al reato. Il delinquente professionale. La professionalità nel reato si ha quando: a) il reo riporti una condanna definitiva per altro reato - consumato o tentato - trovandosi già nelle condizioni richieste per la dichiarazione di abitualità; b) si debba ritenere che egli viva abitualmente, anche in parte soltanto, dei proventi del reato, avuto riguardo alla natura dei reati, alla condotta e al genere di vita del colpevole e alle altre circostanze di cui all’art. 133/2. Il delinquente per tendenza. La tendenza a delinquere si ha quando il reo: a) sebbene non recidivo o delinquente abituale o professionale, commetta un delitto non colposo (doloso o preterintenzionale), contro la vita o la incolumità personale; b) riveli, per sé e unitamente alle circostanze indicate nell’art. 133/2, una speciale inclinazione al delitto, che trovi la sua causa nell’indole particolarmente malvagia del colpevole, e quindi non sia originata da infermità totale o parziale di mente. Gli effetti. Quanto agli effetti, la dichiarazione di abitualità, professionalità o tendenza a delinquere importa, oltre agli aumenti di pena, dipendenti dalla recidiva o, comunque, dalla intensa capacità a delinquere, l’applicazione di una misura di sicurezza: a) della assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro oppure ad una casa di cura o custodia, se trattasi di semimputabili; b) del ricovero in un riformatorio giudiziario, se trattasi di minori di anni 18; c) della libertà vigilata, se trattasi di contravventore abituale o professionale. La dichiarazione anzidetta produce inoltre i seguenti effetti: a) l’interdizione perpetua dai pubblici uffici; b) l’inapplicabilità dell’amnistia o dell’indulto, se il decreto non dispone diversamente; c) il divieto della sospensione condizionale della pena e del perdono giudiziale; d) l’esclusione della prescrizione della pena per i delitti e il raddoppio del termine di prescrizione delle pene per le contravvenzioni; e) il raddoppio del termine corrente per ottenere la riabilitazione; f) l’inapplicabilità dell’attenuante dell’art. 62 n.3; g) il divieto di ricovero in un ospedale civile in caso di infermità psichica sopravvenuta al condannato. I contravventori abituali o professionali sottostanno oltre alle misure di sicurezza, soltanto al divieto della sospensione condizionale della pena e alla inapplicabilità di detta attenuante. La dichiarazione di abitualità e di professionalità può essere pronunciata dal giudice in ogni tempo, anche dopo l’esecuzione della pena.

1. Il riesame della pericolosità Il riesame della pericolosità consiste nel riprendere in esame le condizioni dell’individuo, che è stato dichiarato pericoloso, per accertare se egli permane tale mentre è sottoposto alla misura di sicurezza. Esso comporta sempre un accertamento concreto della persistenza o meno della pericolosità. Oltre alla presunzione di esistenza e persistenza, fu prevista dal codice del ’30 anche la presunzione di durata della pericolosità, che si identificava, con il periodo minimo di durata della misura di sicurezza. Essa è stata mutata in presunzione relativa, in seguito alla sentenza n. 110 del 1974 della Corte Costituzionale: pertanto oggi è possibile procedere al riesame della pericolosità anche prima della scadenza del periodo minimo di durata della misura di sicurezza, qualora sussistano fondati motivi per ritenere che la pericolosità sia cessata.

LE CONSEGUENZE DEL REATO IL PROBLEMA DELLA DIFESA CONTRO IL DELITTO


1. Le posizioni ottimistiche, pessimistiche e realistiche Accanto al fatto e alla personalità, il terzo pilastro su cui si fonda il diritto penale, sono le conseguenze penali previste per l’autore del fatto criminoso. Queste non sono altro che un aspetto del più generale problema della difesa contro il crimine, problema che si incentra sul quesito di fondo: è il delitto ineliminabile? Oppure può essere eliminato? O è soltanto contenibile? E con quali mezzi? Dieci sono le “costanti” criminalistiche che in qualche modo prescindono dall’inquadramento del suddetto problema da ambiti ottimistici, pessimistici o realistici: 1. la criminalità è una costante della storia umana; 2. il numero di coloro che pervengono al crimine cresce con il decrescere di validi sistemi di controllo sociale; 3. il problema della politica criminale è quello non dell’eliminazione, ma di un costante impegno di contenimento della criminalità entro limiti ragionevoli di sopportabilità sociale; 4. tra il sistema extrapenale e il sistema penale di controllo sociale esiste un rapporto di proporzione inversa; 5. la politica sociale preventiva è la migliore politica criminale e la pena è la extrema ratio della politica sociale; 6. la pena è strumento irrinunciabile di controllo sociale; 7. nella politica criminale non si può distruggere senza sostituire; 8. tra garantismo e difesa sociale esiste una potenziale tensione e, oltre certi limiti, conflitto; 9. tra andamento della criminalità e garantismo esiste un rapporto di proporzione inversa; 10. con l’affievolirsi della difesa statuale contro il crimine, aumentano i fenomeni dell’autodifesa e dell’autogiustizia.

1. La prevenzione generale Per i seguaci della teoria della prevenzione generale, scopo della pena è impedire che vengano commessi in futuro reati: nata nell'ambito dell'ideologia illuministica, questa teoria attribuisce alla pena un andamento utilitaristico, in quanto essa costituirebbe un mezzo per distogliere i consociati dal commettere atti criminosi. In particolare, la pena viene intesa come una controspinta rispetto al desiderio di procurarsi quel piacere che costituisce la spinta criminosa. Tale funzione preventiva è assolta sia nel momento in cui la pena viene minacciata dalla legge, come conseguenza della violazione di un determinato precetto, sia nel momento in cui essa viene concretamente applicata: se alla minaccia non seguisse anche l’applicazione contro i trasgressori, la pena perderebbe per il futuro qualsiasi efficacia intimidatrice.

1. La prevenzione speciale Secondo la teoria della prevenzione speciale, la pena tende ad impedire che colui che si è reso responsabile di un reato torni a delinquere anche in futuro. Questo effetto positivo può essere conseguito in tre modi diversi, attraverso l'emenda del reo, la sua rieducazione o risocializzazione; l'intimidazione e cioè l'efficacia dissuasiva della condanna e dalla sua esecuzione; la neutralizzazione qualora si tratti di pena detentiva consistente nella segregazione del reo che gli impedisce di commettere altri reati. Nelle ricostruzioni della dottrina più recente, la prevenzione speciale assume come criterio-guida la rieducazione, concepita come risocializzazione, ossia come processo inteso a favorire la riacquisizione dei valori basilari della convivenza. In quest'ottica deve essere interpretato l’art. 27/3 Cost., secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La prospettiva della risocializzazione concerne soprattutto la fase esecutiva della pena, ma svolge un ruolo importante anche nella fase precedente della inflizione giudiziale: infatti, nella scelta del tipo e dell'entità della sanzione, il giudice deve farsi guidare soprattutto dalla preoccupazione di incidere sulla personalità del reo, in modo da favorirne il recupero.

1. Il problema del trattamento Nella sua molteplicità differenziata di misure, il trattamento a braccia: • la pena; • i trattamenti medici; • i trattamenti psicologici; • i trattamenti sociali. Quanto all'esame scientifico della personalità, esso abbraccia sia la diagnosi criminologica


sia la prognosi criminologica. La diagnosi criminologica consiste in una serie di accertamenti mirante a definire le caratteristiche della personalità del reo. La prognosi criminologica della personalità è il complesso di indagine volta a consentire un giudizio di previsione sul comportamento futuro del reo ed è la premessa essenziale per l'adozione o meno di determinate misure o per la concessione di determinati benefici nei confronti del soggetto.

1. La realtà e i miti del trattamento Gli ultimi lustri hanno segnato anche la caduta dell’ideologia del trattamento. E non solo perché attaccata da indirizzi contestatori di tipo politico-sociologico. Ma anche e soprattutto perché si è dovuto constatare che il trattamento umanizzato e risocializzante ha fallito lo scopo, rivelandosi persino controproducente. Cause determinanti della perdita di fiducia nel trattamento sono state le statistiche sulla recidiva, l’aumento della criminalità di pari passo con il miglioramento delle condizioni carcerarie, ecc.

1. Il nostro sistema dualistico La difesa contro il crimine è affidata dal diritto penale italiano, al pari della maggior parte delle legislazioni straniere, al sistema dualistico della pena e della misura di sicurezza. Entrambe perseguono lo scopo di prevenire la commissione di reati. La pena ha innanzitutto una funzione di prevenzione generale, attraverso la intimidazione connessa alla sua minaccia e all’esempio della sua applicazione, e di prevenzione speciale, attraverso la sua concreta applicazione al reo. La misura di sicurezza ha, viceversa, una funzione di prevenzione speciale, attraverso, oltre che la neutralizzazione, il processo di risocializzazione che dovrebbe, almeno in teoria, esserle proprio. Il sistema del doppio binario, pur costituendo un indiscutibile progresso, è tutt’altro che scevro di inconvenienti. Il dualismo ha una sua coerenza nei casi in cui le pene e le misure di sicurezza hanno come destinatari soggetti diversi: le prime gli imputabili non pericolosi e le seconde i non imputabili pericolosi. Si rivela invece gravemente difettoso nei casi in cui porta ad applicare, pur se in tempi successivi, tanto la pena quanto la misura di sicurezza al medesimo soggetto, come appunto è previsto rispetto all’imputabile e al semimputabile socialmente pericolosi. Benché la Costituzione consideri la pena come elemento non eliminabile del nostro sistema, si ritiene nondimeno che essa recepisca ma non imponga il sistema del doppio binario. Più che cristallizzate costituzionalmente il doppio binario, l'art. 25/2 ha la funzione garantista di sancire la legalità anche in materia di misure di sicurezza qualora esistano. Ciò significa che, se l'attuale sistema dualistico non è di per se incostituzionale, non per questo sarebbe tale un sistema che configurasse misure unitarie per i soggetti imputabili o semimputabili pericolosi, purché esse mantengano ferme, nei termini suddetti, il loro carattere primario punitivo-intimidativo.

LA PENA ARGOMENTO IN SINTESI. Elemento costitutivo della norma incriminatrice che si affianca al precetto. E’ la sanzione prevista dall’ordinamento per la violazione del precetto, e consiste, in prima analisi, in una limitazione dei diritti del soggetto colpevole. La pena è una sanzione di carattere afflittivo. La pena è stata interpretata come castigo divino, come ricompensa del male compiuto, come esigenza della coscienza umana, riaffermazione dello Stato (teorie retributive); ovvero come mezzo per distogliere i consociati dal compiere atti criminosi, o per evitare che il reo commetta nuovamente un reato (teorie preventive). La pena è infatti retribuzione, in quanto il carattere afflittivo comporta il rendere male per male; è prevenzione in quanto è volta a riadattare il soggetto colpevole alla vita sociale.

1. La nozione di pena Concettualmente la pena è la limitazione dei diritti del soggetto quale conseguenza della violazione di un obbligo, che è comminata per impedire tale violazione e ha carattere eterogeneo rispetto al contenuto dell’obbligo stesso. La pena pubblica abbraccia non solo la pena criminale, ma anche la pena amministrativa. La pena criminale è la sanzione afflittiva prevista dall’ordinamento giuridico per chi viola un comando di natura penale.

1. Il fondamento della pena Le opinioni in materia sono riconducibili alle seguenti quattro teorie fondamentali, che rappresentano i momenti di una dialettica mai superata. a) Teoria della retribuzione. Per questa teoria, compendiabile nell’assunto che il bene va ricompensato con il bene e il male con il male, la pena è un valore positivo che trova in se stessa la sua ragione e giustificazione. Essa è il corrispettivo del male commesso e viene applicata a cagione del reato commesso. Si possono distinguere però, due diversi


aspetti: • la retribuzione morale, secondo la quale la pena è una esigenza etica profonda e insopprimibile della coscienza umana. Chi bene opera ha diritto di ottenere dall’ordinamento giuridico un riconoscimento sotto forma di un accrescimento delle sue possibilità giuridiche (diritto premiale). Chi viola gli imperativi della legge deve sottostare ad una diminuzione di beni giuridici (diritto penale). • la retribuzione giuridica, secondo la quale la pena trova il proprio fondamento non al di fuori, ma all’interno dell’ordinamento giuridico. Poiché il delitto è ribellione del singolo alla volontà della legge, come tale esige una riparazione, che valga a riaffermare la autorità della legge e che è data dalla pena. Caratteri coessenziali della pena retributiva sono: 1. la personalità, in quanto il corrispettivo del male non può che essere applicato all’autore del male; 2. la proporzionalità, in quanto il male subito costituisce il corrispettivo del male inflitto se ed in quanto sia a questo proporzionato; 3. la determinatezza, in quanto la pena, dovendo essere proporzionata ad un male determinato, non può non essere anch’essa determinata; 4. la inderogabilità, nel senso che la pena, in quanto corrispettivo, deve essere sempre e necessariamente scontata dal reo; b) Teoria della emenda. Per questa dottrina la pena è protesa verso la redenzione morale del reo. Per l’analoga teoria della espiazione, la pena ha funzione di purificazione dello spirito, operando come antidoto contro la immoralità per la forza purificatrice del dolore. c) Teoria della prevenzione generale (o della intimidazione). Secondo questa teoria la pena ha invece un fondamento utilitaristico, costituendo un mezzo per distogliere i consociati dal compiere atti criminosi. d) Teoria della prevenzione sociale. Per questa teoria la pena ha la funzione di eliminare o ridurre il pericolo che il soggetto, cui viene applicata, ricada in futuro nel reato. Le varie teorie peccano, tutte, di assolutezza. La retribuzione e la prevenzione generale ignorano la realtà dei soggetti che cadono o ricadono nel delitto nonostante la minaccia del castigo e la sua concreta esecuzione. La prevenzione speciale dimentica, a sua volta, i soggetti che non abbisognano di una vera e propria opera rieducativa, nei confronti dei quali la pena non può che avere una funzione retributivo-dissuasiva. La teoria della retribuzione morale trova, poi, il proprio limite nel fatto che l’imperativo morale di punire l’autore del male non vale rispetto ai reati che non possono ritenersi in contrasto con i postulati dell’etica. La teoria della prevenzione generale trova il proprio limite nell’effettività della pena, per cui di fronte all’aumento della criminalità o della cifra oscura si dovrebbe pervenire o al terrorismo penale o alla rinuncia della pena. Negli ordinamenti moderni la pena ha subito continue trasformazioni in cui l’idea centrale retributiva e intimidativa si combina e si contempera con le istanze preventivo-rieducative, per cercare di conciliare le varie e complesse esigenze della lotta contro il crimine, secondo le mutevoli necessità sociali.

1. La pena secondo la Costituzione Anche per la pena, la Costituzione fissa dei precisi caratteri, che delineano un nuovo sistema punitivo e rendono incostituzionali le pene che da esso si discostano. • principio di necessità: per la Costituzione la pena è considerata elemento garantista non eliminabile del nostro sistema giuridico e, perciò, non sostituibile con “misure di difesa sociale”; • principio di legalità: anche per la pena il principio di legalità si articola nei sottostanti principi della riserva di legge, della tassatività e della irretroattività; • principio di proporzionalità: rappresenta il limite logico del potere punitivo nello stato di diritto; • principio di personalità: con il sancire che “la responsabilità penale è personale”, l’art. 27 Cost. ha statuito non solo la “personalità dell’illecito penale”, ma anche la “personalità della sanzione penale”; • principio dell’umanizzazione: sono banditi tutti i trattamenti disumani e crudeli, ogni afflizione che non sia inscindibilmente connessa alla restrizione della libertà personale; • principio del finalismo rieducativo: in quanto per l’art. 27, “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”.

1. I tipi di pena nei sistemi differenziati


Nei sistemi sanzionatori differenziati, la strategia contro il crimine si fonda, oltre che sulla pena detentiva, su pene alternative o sostitutive ad essa. La genesi storica di tali sistemi è il punto di convergenza di due crisi: della pena detentiva tradizionale e delle misure clemenziali. La crisi della pena detentiva scaturisce dalla constatazione che tale sanzione: a) non è sempre necessaria, poiché lo Stato moderno ha ampie possibilità di creare altri strumenti sanzionatorio-dissuasivi; b) può essere controindicata ai fini specialpreventivi ed è, talora, troppo disturbante per il soggetto (oltre che troppo costosa per la collettività); Alla crisi della pena detentiva si è accompagnata la crisi delle misure clemenziali che hanno indebolito la prevenzione generale senza potenziare quella speciale, rivelandosi di scarsissimo valore emendativo quando non anche degli autentici fattori criminogeni. A questa duplice crisi si tende a rispondere attraverso il passaggio dal dualismo del diritto punitivo-diritto clemenziale al dualismo del diritto punitivo-diritto premiale, da attuarsi nella duplice direttrice: 1. del rinvigorimento del sistema sanzionatorio-dissuasivo nel senso di recuperare quella concreta punitività della sanzione penale che è andata disperdendosi; 2. del potenziamento del sistema premiale-promozionale, nel senso che la concessione e la conservazione di ogni beneficio, di ogni misura specialpreventiva, devono fondarsi non su pseudoscientifici o pseudoumanitari clemenzialismi legislativi ma su ben accertati presupposti di merito: la fattispecie meritoria sanzionata dal premio. Le misure alternative, che almeno in astratto cumulano il vantaggio di ridurre l’ambito applicativo della pena detentiva tradizionale e delle misure clemenziali e di rafforzare la funzione generalpreventiva del sistema, possono così classificarsi: 1. misure sostitutive della pena detentiva, che comprendono: • le misure patrimoniali (pene pecuniarie, misure impeditive, cauzioni di buona condotta); • pene paradetentive (arresto saltuario, semidetenzione, arresto domiciliare); • pena del lavoro libero di pubblica utilità; • misure interdittive; • sanzioni morali (ammonizione, reprensione giudiziale); 2. misure sospensive in prova, che consistono nella rinuncia totale o parziale alla punizione detentiva, condizionata al buon esito di un periodo di prova, controllata e assistita; 3. misure preparatorie alla liberazione, che presuppongono una condanna a pena detentiva e intervengono nella fase esecutiva (comprendono l’ammissione al lavoro esterno al carcere, il regime di semilibertà, licenze preliberatorie).

1. I tipi di pena nel nostro diritto Le 1. 2. Le a)

pene previste dal nostro ordinamento si distinguono in: pene principali, inflitte dal giudice con sentenza di condanna; pene accessorie, che conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa. pene principali stabilite per i delitti sono: la pena di morte, oggi completamente abolita e assorbita nell’ergastolo sia per i reati previsti dal codice penale e leggi speciali diverse da quelle militari (L. 224/44, D.Lgs. 21/48) sia per i reati previsti dal codice penale militare di guerra (L. 589/94); b) l’ergastolo, ovvero la privazione perpetua della libertà personale. Perpetuità, tuttavia, non assoluta in quanto l’ergastolano può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno 26 anni di pena; c) la reclusione, ovvero la privazione temporanea della libertà personale, per un tempo che va da 15 giorni a 24 anni (massimo che può essere elevato fino a 30 anni in caso di concorso di aggravanti o di reati); d) la multa, consistente nel pagamento allo Stato di una somma non inferiore a L. 10.000 né superiore a L. 10.000.000; per le contravvenzioni: a) l’arresto, che si estende da 5 giorni a 3 anni (massimo elevabile a 5 anni nel concorso di aggravanti e fino a 6 anni nel concorso di reati); b) l’ammenda, consistente nel pagamento di una somma non inferiore a L. 4.000 né superiore a L. 2.000.000. La commisurazione della pena in concreto avviene secondo il sistema della somma complessiva, in cui si tiene conto della gravità del reato e della capacità a delinquere, ma altresì delle condizioni economiche del reo. L’ordinamento prevede anche la possibilità di convertire in pena detentiva le pene pecuniarie per insolvibilità del condannato. A tal proposito la L. 689/81 prevede:


a) la conversione della multa e dell’ammenda, non eseguite per insolvibilità, colpevole o incolpevole, del condannato, nella pena della libertà controllata per un periodo massimo rispettivamente di un anno e di sei mesi; o la convertibilità, a richiesta del condannato, nella pena del lavoro sostitutivo qualora non superino 1.000.000 di lire; b) il ragguaglio tra le suddette pene, calcolando 25.000 lire (o frazione) per ogni giorno di lavoro sostitutivo, data la maggiore gravosità e capacità stimolante di questa sanzione; c) la facoltà di fare cessare la pena sostitutiva pagando la pena pecuniaria, dedotte le somme corrispondenti alla durata della pena sostitutiva scontata; d) il limite massimo, in caso di concorso di pene pecuniarie da convertire, della durata complessiva della libertà controllata, che non può superare i 18 e i 9 mesi a seconda che la pena convertita sia la multa o l’ammenda, e del lavoro sotitutivo, che non può superare i 60 giorni; e) la conversione ulteriore della restante parte della libertà controllata e del lavoro sostitutivo in egual periodo di reclusione o di arresto, quando il condannato violi anche una sola delle prescrizioni inerenti alla pena sostitutiva. Una svolta verso un sistema sanzionatorio differenziato ha avuto inizio con le L. 354/75 (sull’ordinamento penitenziario - misure alternative) e 689/81 (modifiche al sistema penale - misure sostitutive). Le misure alternative introdotte, incidenti solo sulla fase esecutiva della pena detentiva, sono: a) l’affidamento in prova al servizio sociale, fuori dell’istituto, per un periodo uguale a quello della pena da scontare; b) il regime di semilibertà, corrispondente nella concessione di trascorrere parte del giorno fuori del carcere per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale; c) la detenzione domiciliare, consistente nell’espiazione della pena nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo pubblico di cura o di assistenza. Ma la più originale innovazione del nostro sistema sanzionatorio si ha con la L. 689/81 che ha introdotto, mediante la clausola dell’ultima ratio delle pene detentive brevi e con frammentarietà sistematica, le seguenti pene sostitutive: a) la semidetenzione, che comporta l’obbligo di trascorrere almeno 10 ore al giorno in un istituto situato nel comune di residenza del condannato o in un comune vicino e la limitazione di taluni diritti. E’ sostitutiva delle pene detentive determinabili dal giudice entro i limiti dei sei mesi; b) la libertà controllata, che comporta il divieto di allontanarsi dal comune di residenza, l’obbligo di presentarsi almeno una volta al giorno presso il locale ufficio di pubblica sicurezza, nonché la limitazione di alcuni diritti e la eventuale sottoposizione del condannato ad interventi dei centri di servizio sociale, idonei al suo reinserimento. E’ sostitutiva delle pene detentive determinabili dal giudice entro i limiti di tre mesi; c) la pena pecuniaria della multa o dell’ammenda, sostitutiva della pena detentiva rispettivamente della reclusione o dell’arresto, determinabile dal giudice entro i limiti di un mese. Presupposti oggettivi della sostituzione sono altresì: • l’appartenenza dei reati alla competenza del pretore, anche se giudicati da altro giudice; • la non inclusione dei reati tra quelli tassativamente esclusi. Presupposti soggettivi sono: • la non commissione del reato nei cinque anni successivi a condanne a pena detentiva complessivamente superiore a due anni di reclusione, o mentre si è sottoposti a libertà vigilata o sorveglianza speciale; la non condanna più di due volte per reati della stessa indole; la non intervenuta revoca di una precedente pena sostitutiva o della semilibertà; • la non presunzione da parte del giudice che le prescrizioni non saranno adempiute da parte del condannato. La legge del 1981 ha introdotto, altresì, la pena del lavoro sostitutivo consistente nella prestazione di una attività non retribuita, a favore della collettività, da svolgere presso lo Stato o un ente minore per una giornata lavorativa alla settimana. Infine, sull’esempio del plea bargaining anglosassone è stata prevista anche l’applicazione della pena su richiesta della parte (patteggiamento).

1. Le pene accessorie Le pene accessorie sono misure afflittive, che comportano una limitazione di capacità, attività o funzioni, ovvero accrescono l’afflittività della stessa pena principale, e presuppongono sempre la condanna ad una pena che sia l’ergastolo, la reclusione, l’arresto,


la multa o l’ammenda. Possono essere perpetue o temporanee. Ne sono caratteri normali: a) l’automaticità, poiché di regola conseguono di diritto alla condanna principale; b) l’indefettibilità, nel senso che una volta irrogate sono sempre scontate non estendendosi ad esse la sospensione condizionale della pena principale. Vediamole da vicino: • l’interdizione dai pubblici uffici: priva il condannato di ogni diritto politico; di ogni pubblico ufficio o incarico, non obbligatorio, di pubblico servizio; dei gradi e dignità accademiche, titoli e decorazioni ecc; • l’interdizione da una professione o arte: consiste nella perdita, durante l’interdizione, della capacità di esercitare una professione, arte, industria, commercio o mestiere, per cui è concesso uno speciale permesso, licenza ecc; • la sospensione dall’esercizio di una professione o arte: a differenza dell’interdizione comporta solo il divieto di esercitare una certa attività; • la interdizione legale: comporta la perdita della capacità di agire, applicandosi al condannato interdetto le norme della legge civile per l’interdizione giudiziale in ordine alla disponibilità e amministrazione dei beni e alla rappresentanza negli atti relativi; • la interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e imprese: priva temporaneamente il condannato della capacità di esercitare, durante l’interdizione, l’ufficio di amministratore, sindaco, liquidatore e direttore generale, nonché ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della persona giuridica o dell’imprenditore; • la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese; • la incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione, importa il divieto di concludere contratti con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; • la decadenza o la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori: la decadenza consegue all’ergastolo e agli altri casi determinati dalla legge; la sospensione, per un tempo pari al doppio della pena inflitta, consegue alla condanna per delitti commessi con abuso della potestà dei genitori; • la pubblicazione della sentenza penale di condanna.

1. Il problema della commisurazione della pena La teoria della commisurazione giudiziale della pena riguarda sia la determinazione della misura concreta della pena entro i limiti fissati dalla legge, sia la scelta tra pene di specie diversa. Nel quadro della razionalizzazione di tale commisurazione, il problema dibattuto dalla dottrina è quello di: • determinare, innanzitutto, i criteri finalistici di valutazione, cioè i fini che l’ordinamento assegna alla pena nella fase della sua irrogazione; • individuare, conseguentemente, gli elementi di fatto da valutare alla stregua dei criteri finalistici adottati; • tradurre in ammontare di pena le valutazioni effettuate.

1. La soluzione dell’art. 133 c.p. Nell’esercizio del potere discrezionale il giudice deve tenere conto dei dati fattuali della gravità del reato e, altresì, della capacità a delinquere del reo. La gravità del reato va desunta: a) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione.; b) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; c) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa. La capacità a delinquere va desunta: a) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; b) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato; c) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato; d) dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo. La Corte Costituzionale ha più volte ribadito che l’art. 133 c.p. svolge la funzione di garantire, ai fini di una più efficiente ed equilibrata giustizia, il processo di individualizzazione della pena. La pena deve pertanto risultare a misura dell’individuo così come il reato, in tutto il suo complesso atteggiarsi, ne è stata l’espressione.

1. Gli aumenti e le diminuzioni di pena


In caso di circostanze, la legge può: • determinare l’aumento o la diminuzione di pena in rapporto alla pena del reato semplice; • determinare la misura della pena in modo indipendente da quella del reato semplice; • stabilire una pena di specie diversa. Circa l’applicazione degli aumenti e delle diminuzioni di pena, ai sensi dell’art. 132/2 essi innanzitutto non possono oltrepassare i limiti stabiliti per ciascuna specie di pena, salvo i casi espressamente determinati dalla legge. Gli art. 63-65 dispongono: a) quando la legge non determina l’aumento o la diminuzione della pena derivanti dalle circostanze: • se si tratta di aggravanti, la pena è aumentata fino ad un terzo; • se si tratta di attenuanti, la pena è diminuita fino ad un terzo; in ogni caso la pena della reclusione non può superare i trenta anni, mentre, se si tratta di attenuanti, all’ergastolo è sostituita la reclusione da 20 a 24 anni; b) quando la pena è aumentata o diminuita entro limiti determinati, l’aumento o la diminuzione operano sulla pena base; c) concorrendo più aggravanti o più attenuanti, ogni aumento o ogni diminuzione opera sulla quantità di pena risultante dall’aumento o diminuzione precedente. Se si tratta di reati commessi per finalità di terrorismo o eversione dell’ordinamento costituzionale, si applica per primo l’aumento di pena previsto dall’art. 1 L. 15/80; d) quando per una circostanza la legge prevede una pena di specie diversa o si tratta di circostanza ad effetto speciale, l’aumento o la diminuzione per le altre circostanze non opera sulla pena ordinaria del reato, ma su quella stabilita per la circostanza anzidetta. Se concorrono più circostanze aggravanti o attenuanti di tal genere, si applica soltanto, rispettivamente, la pena stabilita per la circostanza aggravante più grave o la pena meno grave stabilita tra quelle previste per le circostanze attenuanti, ma il giudice può, rispettivamente, aumentarla o diminuirla fino ad un terzo.

1. Il concorso di pene Si ha concorso di pene quando al medesimo soggetto vengono applicate più pene. Esso si verifica in caso di concorso materiale di reati, per il quale vige il sistema del cumulo materiale temperato. Ai sensi dell’art. 78: a) trattandosi di reati per i quali sono previste pene detentive o pecuniarie della stessa specie, la pena da applicare cumulando le condanne non può mai essere superiore al quintuplo della più grave fra le pene concorrenti, né comunque eccedere: 1. i 30 anni per la reclusione; 2. i 6 anni per l’arresto; 3. i 30 milioni per la multa; 4. i 6 milioni per l’ammenda. b) trattandosi di reati per i quali sono previste pene detentive diverse, la durata della pena da applicare non può comunque superare gli anni 30; la parte di pena eccedente tale limite è detratta in ogni caso dall’arresto. La legge prevede poi delle sostituzioni quando è impossibile cumulare le varie pene da infliggere.

1. Gli effetti penali Per effetti penali della condanna si intendono la conseguenze negative che derivano de jure dalla condanna stessa, diverse dalla pene principali, dalle pene accessorie e dalle misure di sicurezza. Si distinguono, in senso tecnico, dalle pene, perché sono una conseguenza della condanna a una pena, ma non coincidono con la stessa. Tra gli effetti penali rientrano: • l’impossibilità di godere della sospensione condizionale da parte di chi ha già usufruito, al massimo per due volte, del beneficio; • l’acquisto della qualifica di recidivo o di delinquente abituale o professionale; • l’impossibilità di partecipare a pubblici concorsi, o di esercitare determinate attività; • l’iscrizione al casellario giudiziale. Gli effetti penali della condanna non vengono meno in presenza di cause di estinzione del reato o della pena, ma soltanto per effetto della riabilitazione.

1. L’esecuzione della pena L’esecuzione della pena costituisce un momento fondamentale, poiché è nella fase esecutiva che vengono o meno attuate le finalità astrattamente assegnate alla pena.


1. La disciplina dell’esecuzione La disciplina dell’esecuzione è stata profondamente rinnovata con il nuovo ordinamento penitenziario seguendo i principi: a) della finalità rieducativa del trattamento penitenziario; b) della individualizzazione del trattamento; c) della separazione dei detenuti d) della istruzione e del lavoro; e) delle misure alternative alla detenzione (affidamento in prova al servizio sociale, semilibertà, liberazione anticipata); f) delle premiali della licenza e del permesso; g) del regime di sorveglianza particolare; h) del rinvio e della sospensione dell’esecuzione; i) della sorveglianza del giudice; j) dell’istituzione dei Centri di servizio sociale e dei Consigli di aiuto sociale.

LA PUNIBILITA’ E LE CAUSE DI ESCLUSIONE E DI ESTINZIONE 1. Le condizioni oggettive di punibilità Attorno alla categoria della punibilità, quale possibilità giuridica di applicare la pena minacciata, possono raggrupparsi tre istituti diversi, di non facile e controverso inquadramento dogmatico: 1. le condizioni obiettive di punibilità; 2. le cause di esclusione della pena; 3. le cause di estinzione del reato o della pena. Sotto la rubrica “condizioni obiettive di punibilità” l’art. 44 statuisce: “Quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l’evento, da cui dipende il verificarsi della condizione, non è da lui voluto”. Circa la natura, sostanziale o processuale, si esclude, oggi concordemente, che le condizioni dell’art. 44 siano condizioni di procedibilità, riferendosi queste all’esercizio dell’azione penale ed impedendo il loro difetto non già la punibilità del reato, ma la cognizione di esso da parte del giudice. Circa i rapporti con il fatto criminoso, la condizione obiettiva di punibilità va intesa come un avvenimento esterno, successivo o concomitante, al fatto di reato, perciò distinto sia dalla condotta criminosa che dall’evento tipico e che può essere causato da azione, volontaria o involontaria del colpevole, oppure di terzi. Pertanto il reato è già perfetto ma per motivi di opportunità il legislatore ne subordina la punibilità al verificarsi di una determinata condizione. Circa i criteri di distinzione tra elementi e condizioni, mentre i primi rendono il fatto meritevole di pena (perché sufficientemente offensivo), i secondi lo rendono anche bisognoso di pena. Debbono essere considerati elementi costitutivi gli accadimenti che attengono alla offesa del bene protetto e accentrano in sé l’offensività del fatto e, quindi, la ragione stessa dell’incriminazione. Debbono, viceversa, considerarsi condizioni di punibilità gli accadimenti estranei alla sfera dell’offesa del reato ma che rendono opportuna la punibilità e gli accadimenti che arricchiscono la sfera dell’offesa del reato.

1. Le cause di esclusione della pena. Le immunità Sono cause di esclusione della pena quelle particolari situazioni esterne al fatto tipico, che non escludono il reato ma in presenza delle quali il legislatore ritiene, per ragioni di mera opportunità, che non si debba applicare la pena e ogni altra conseguenza penale. La loro presenza esclude non la illiceità, ma soltanto la punibilità del fatto. Tipiche ipotesi sono quelle dei rapporti di parentela di cui all’art. 649 e delle immunità derivanti dal diritto pubblico interno: 1. le immunità del Capo dello Stato, che non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione; 2. le immunità dei membri del Parlamento nazionale e dei consiglieri regionali, dei membri del CSM e dei giudici della Corte Costituzionale, i quali non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e per i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni; e internazionale: 1. la persona del Sommo Pontefice; 2. i Capi di Stato esteri e i Reggenti; 3. gli organi di Stati esteri;


4. gli agenti diplomatici accreditati presso il nostro Stato, che godono di immunità assoluta, sostanziale e processuale; 5. gli agenti diplomatici e gli invitati presso la Santa Sede; 6. i Consoli, Viceconsoli e gli Agenti Consolari, nei limiti dei trattati internazionali; 7. i giudici della Corte dell’Aja; 8. i membri del Parlamento Europeo; 9. gli appartenenti a corpi e a reparti di truppe straniere, che si trovano nel territorio dello Stato con autorizzazione di questo; 10. i membri delle istituzioni specializzate dell’ONU e dei rappresentanti delle Nazioni Unite; 11. i membri e le persone al seguito delle forze armate degli Stati della NATO di stanza nel territorio italiano.

1. Le cause di estinzione della punibilità Le cause estintive sopravvengono dopo che il reato è già perfetto ed incidono sulla sola punibilità per ragioni estranee o contrastanti con la tutela del bene protetto dalla norma. Sono applicabili senza il previo accertamento dell’esistenza e punibilità del reato, ma sulla mera supposizione della sua esistenza; impediscono l’applicazione delle misure di sicurezza. Dalle cause estintive parte della dottrina distingue le cause sopravvenute di non punibilità, che escludono la punibilità per ragioni di tutela del bene protetto, costituendo esse l’estremo mezzo di tutela predisposto per il caso in cui la norma incriminatrice non abbia in concreto funzionato. Tra le cause estintive il codice distingue tra cause di estinzione del reato e cause di estinzione della pena, a seconda che sopravvengano prima che intervenga o dopo che sia intervenuta la sentenza definitiva di condanna. Il codice vigente ha proceduto alla suddetta distinzione con una terminologia però non felice. Come tutti riconoscono, è quanto meno inesatto parlare di causa estintiva del reato: questo, una volta commesso è un dato storicamente acquisito. Il reato c.d. estinto continua, infatti, a produrre alcuni suoi effetti giuridici, perché se ne tiene conto ai fini della recidiva e della abitualità e professionalità nel reato, come pure della aggravante della connessione. Una causa vera e propria di estinzione del reato si ha soltanto con l'abrogazione della legge incriminatrice, che cancella il fatto dal novero dei reati con tutti i possibili effetti penali. Secondo la opinione corrente le cause estintive del reato sono quelle che estinguono la potestà statale di applicare la pena minacciata, la c.d. punibilità in astratto, cioè la possibilità giuridica di applicare le conseguenze penali del reato o talune di esse. Le cause estintive della pena estinguono, invece, la c.d. punibilità in concreto, cioè concretizzatasi nella pena irrogata con la sentenza di condanna esecutiva. Nel primo caso lo Stato rinuncia ad applicare la sanzione penale minacciata dalla norma, nel secondo alla esecuzione della pena inflitta dal giudice. Le cause estintive, come pure le cause sopravvenute di non punibilità possono essere: a) generali, che sono previste nella parte generale del codice e sono applicabili a tutti o a un numero indeterminato di reati; b) speciali, che sono previste nella parte speciale o nelle leggi speciali e sono applicabili a uno o più reati determinati. Gli effetti estintivi sono più o meno radicali a seconda che si tratti di cause di estinzione del reato o della pena. Regole comuni delle cause estintive del reato e delle cause estintive della pena, fissate dagli artt. 182 e 183 sono: a) l’efficacia personale; b) la prevalenza della causa estintiva del reato; c) il cumulo degli effetti estintivi, nel senso che, in caso di concorso in tempi diversi di cause estintive del reato o della pena, la causa antecedente estingue il reato o la pena e quelle successive agiscono sugli eventuali effetti residui; d) la estinzione, ad opera della causa più favorevole, del reato o della pena, in caso di concorso contemporaneo di più cause estintive, valendo per gli effetti residui la regola precedente; e) la non estinzione delle obbligazioni civili; f) l’immediatezza della dichiarazione della causa estintiva, in qualsiasi stato e grado del procedimento, anche il caso di dubbio sulla loro esistenza. Regole esclusive sono previste per le sole cause di estinzione del reato e per le sole cause di estinzione della pena, cioè per quelle cause previste, rispettivamente, negli artt. 150160 e negli artt. 171-181 e in tutti gli altri casi in cui la legge parli di «estinzione del reato» o di «estinzione della pena». L'estinzione del reato: a) ha come effetto minimo comune, a tutte le cause, di impedire l'applicazione della pena principale e delle misure di sicurezza e di farne cessare l'esecuzione (art. 210/1); b) non si estende né al reato principale (es.: ricettazione), qualora il reato estinto ne


sia presupposto (es.: il delitto, da cui proviene la cosa ricettata); né al reato complesso (es.: rapina), qualora il reato estinto ne sia elemento costitutivo o circostanza aggravante (es.: furto); c) non esclude l'aggravamento della pena derivante dalla connessione per i reati non estinti, qualora si estingua taluno tra più reati connessi (es.: per l'omicidio, commesso per compiere un furto, se questo è poi amnistiato). Le cause di estinzione della pena operano sulla pena di volta in volta considerata (principale o accessoria) ed impediscono, altresì, l'applicazione delle misure di sicurezza, eccetto però quelle per le quali la legge stabilisce che possono essere ordinate in ogni tempo, ma non impediscono l'esecuzione delle misure di sicurezza già ordinate dal giudice come misure accessorie di una condanna alla pena della reclusione superiore a dieci anni. Nondimeno alla colonia agricola e alla casa di lavoro è sostituita la libertà vigilata. Fra le cause generali di estinzione del reato il codice comprende: a) la morte dell'imputato prima della condanna definitiva; b) l'amnistia propria; c) la remissione della querela; d) la prescrizione; e) la oblazione nelle contravvenzioni; f) la sospensione condizionale della pena; g) il perdono giudiziale. Sono invece considerate cause generali di estinzione della pena: a) la morte del reo dopo la condanna definitiva; b) l'amnistia impropria; c) l'estinzione della pena per decorso del tempo; d) l'indulto; e) la grazia; f) la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale; g) la liberazione condizionale; h) la riabilitazione.

1. La morte del reo e la prescrizione La morte del reo, avvenuta prima della condanna definitiva, estingue il reato, mentre estingue la pena, se avvenuta dopo la condanna. La morte estingue tutti gli effetti penali del reato, incluse le pene principali e accessorie; ad essa, sopravvivono solamente le conseguenze civili, il pagamento delle spese processuali e di mantenimento in carcere, e l’esecuzione della confisca: tutte obbligazioni inerenti al patrimonio del defunto. La prescrizione è una causa estintiva legata al decorso del tempo. Consiste nella rinuncia dello Stato a far valere la propria pretesa punitiva, in considerazione del lasso di tempo trascorso dalla commissione di un reato. Può estinguere il reato o soltanto la pena. Nel caso che estingua il reato, la prescrizione presuppone che non sia intervenuta una sentenza definitiva di condanna. Il tempo necessario per la prescrizione è di: a) 20 anni per la reclusione non inferiore a 24 anni; b) 15 anni per la reclusione non inferiore a 10 anni; c) 10 anni per la reclusione non inferiore a 5 anni; d) 5 anni per la reclusione inferiore a 5 anni o la multa; e) 3 anni per l’arresto; f) 2 anni per l’ammenda; Per il computo della pena ai fini della prescrizione si considera la pena edittale e, precisamente, il massimo della pena stabilita dalla legge per il reato, consumato o tentato, tenuto conto degli aumenti e delle diminuzioni dipendenti dalle circostanze aggravanti e attenuanti. Il termine della prescrizione decorre: a) per il reato consumato, dal giorno della consumazione; b) per il reato tentato, dal giorno in cui è cessata l’attività criminosa; c) per il reato permanente o continuato, dal giorno in cui è cessata la permanenza o continuazione; d) per il reato condizionato, dal giorno in cui la condizione si è verificata; e) per i reati punibili a querela, richiesta od istanza, dal giorno del commesso reato. Il corso della prescrizione rimane sospeso nei casi di autorizzazione a procedere, di questione deferita ad altro giudizio e in ogni caso in cui la sospensione del procedimento penale o dei termini di custodia cautelare è imposta dalla legge. La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione: il tempo decorso anteriormente al verificarsi della causa sospensiva si somma con il tempo decorso dopo che tale causa è venuta meno. Si ha interruzione della prescrizione quando intervengono le cause previste dall’art. 160, e cioè la sentenza di condanna, il decreto di condanna, l’ordinanza applicativa di misure cautelari personali, quella di convalida del fermo o dell’arresto in


flagranza, l’interrogatorio reso dinanzi al P.M. od al giudice, la richiesta di rinvio a giudizio, il decreto di fissazione dell’udienza preliminare, il decreto che dispone il giudizio. Con l’interruzione, il periodo di tempo in precedenza trascorso viene annullato, e la prescrizione ricomincia a decorrere da capo dal giorno dell’interruzione. La prescrizione è rinunciabile, avendo la Corte Costituzionale con sent. 275/90 dichiarato illegittimo l’art. 157 nella parte in cui non prevedeva la rinunciabilità della prescrizione. Rinunciando l’imputato può essere assolto ma anche condannato. Nel caso che estingua invece la pena, la prescrizione presuppone che sia intervenuta una sentenza definitiva di condanna. Ha per oggetto soltanto le pene principali. Non si estinguono le pene accessorie e gli altri effetti penali della condanna. E’ sempre esclusa per l’ergastolo. La pena della reclusione si estingue in un tempo pari al doppio della pena inflitta e in ogni caso non superiore a 30 anni né inferiore a 10. La pena della multa si estingue dopo il decorso di 10 anni; la pena dell’arresto o dell’ammenda dopo 5 anni. La prescrizione della pena decorre dal giorno del giudicato di condanna. Sono esclusi dal beneficio i recidivi aggravati, i delinquenti abituali, professionali, per tendenza.

1. L’amnistia L’amnistia è un atto con cui lo Stato rinuncia all’applicazione della pena. La titolarità del potere di clemenza è assegnata dalla Costituzione al Presidente della Repubblica, che lo esercita su legge di delegazione delle Camere. Si distingue tra: a) amnistia propria: riguarda i reati il cui accertamento giurisdizionale è ancora in corso ed estingue del tutto il reato; b) amnistia impropria: interviene dopo una sentenza irrevocabile di condanna. Fa cessare l’esecuzione della condanna e le pene accessorie, ma lascia sussistere quegli effetti penali che non rientrano tra le pene accessorie (recidiva, abitualità, professionalità). Ai fini dell’amnistia si deve considerare la pena astrattamente comminata per i reati contemplati nel provvedimento (c.d. pena edittale). L’amnistia può essere sottoposta a condizioni ed obblighi. Non si applica a delinquenti abituali, professionali e per tendenza ai recidivi aggravati e reiterati, salvo che il decreto disponga diversamente. E’ possibile rinunciare all’amnistia in quanto la legge deve consentire all’imputato che lo chiede di dimostrare la propria innocenza.

1. L’indulto Al pari dell’amnistia, è un provvedimento di carattere generale, ma ne differisce perché opera esclusivamente sulla pena principale, la quale viene in tutto o in parte condonata oppure commutata in altra specie di pena, fra quelle consentite dalla legge. Non estingue, pertanto, le pene accessorie, salvo che il decreto disponga in modo diverso (il che è avvenuto nei più recenti provvedimenti di clemenza), e a maggior ragione lascia sussistere gli altri effetti penali della condanna. L’indulto non presuppone una condanna irrevocabile, potendo essere applicato in previsione del passaggio in giudicato della sentenza. Come per l’amnistia, la sua efficacia è di regola circoscritta ai reati commessi a tutto il giorno precedente alla data del decreto; può essere sottoposto a condizioni od obblighi e, salvo particolari disposizioni, non si applica nei casi di recidiva aggravata o reiterata, di abitualità e professionalità nel reato, nonché di tendenza a delinquere. Nel concorso di più reati l’indulto si applica una sola volta, dopo cumulate le pene.

1. La grazia E’ un provvedimento rimesso dalla Costituzione alla competenza esclusiva del Presidente della Repubblica con il quale viene condonata in tutto o in parte la pena principale inflitta per uno o più reati nei confronti di una persona. Il provvedimento è adottato con decreto su proposta del Ministro di grazia e giustizia. Trattasi pertanto di un provvedimento a carattere singolare, avente cioè per destinatario un singolo individuo, e, in ciò differisce dall’amnistia e dall’indulto che sono contenuti in un provvedimento legislativo avente carattere generale e cioè indirizzato alla generalità dei cittadini. Quanto alla forma la domanda di grazia, non soggetta a particolari vincoli di forma o di bollo deve essere diretta al Presidente della Repubblica e deve essere sottoscritta dal condannato da un suo prossimo congiunto, o dalla persona che esercita sul condannato la tutela o la cura, ovvero da un avvocato o da un procuratore legale. La grazia, al pari dell’indulto intervenendo solo sulla pena principale lascia sussistere le pene accessorie e gli altri effetti penali della condanna. In tema di grazia sottoposta a condizioni si è rilevato che non è incostituzionale la sottoposizione della grazia alla condizione di pagare una determinata somma alla cassa delle ammende.


1. La sospensione condizionale della pena L’istituto della sospensione condizionale della pena venne introdotto in Italia nel lontano 1904 con l’esigenza di sottrarre all’ambiente deleterio e pericoloso del carcere chi mai ne abbia varcato le soglie e di curare in siffatta guisa l’emenda del colpevole. Quindi l’istituto trae la sua ragione iniziale dalla necessità di evitare al condannato a pene detentive di breve durata il contagio con l’ambiente carcerario che, per esperienza acquisita, tende a desocializzarlo. L’istituto tende, inoltre, attraverso la prospettata minaccia di esecuzione della pena inflitta, a distogliere il reo dalla commissione di ulteriori reati. La sospensione condizionale è disciplinata dagli artt. 163-168 del c.p., che varie modifiche hanno subito nel corso degli anni, dapprima con la l. n. 191 del 1962 e dopo soprattutto con la l. n. 220 del 1974. Nella concessione della sospensione condizionale l’elemento essenziale è dato dalla c.d. prognosi di ravvedimento, consistente in quella presunzione che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati, ma prima di procedere a tanto occorre verificare la sussistenza di determinati presupposti o condizioni precostituiti ex lege. Il giudice solo dopo aver proceduto a tale accertamento può porsi il problema del se la prognosi sia o meno favorevole. Tali presupposti sono: a) entità della pena. La sospensione condizionale può essere concessa quando vi è una sentenza di condanna a pena detentiva non superiore ai due anni, ovvero a pena pecuniaria che, sola o congiunta a quella detentiva e ragguagliata a norma dell’art. 135, sia equivalente ad una pena privativa della libertà personale per un tempo non superiore, nel complesso, a due anni. Il suddetto limite è elevato ai tre anni se si tratta di minori degli anni diciotto e ai due anni e sei mesi se si tratta di giovani di età compresa tra i diciotto ed i ventuno anni o di ultrasettantenni; b) precedenti condanne. La sospensione condizionale non può essere concessa a chi ha riportato una precedente condanna a pena detentiva per delitto, anche se è intervenuta riabilitazione, ne sia delinquente o contravventore abituale o professionale. In questo caso è lo stesso legislatore ad operare una prognosi negativa per colui che, avendo una precedente condanna alla reclusione, riporti un’altra condanna; c) non ripetibilità del beneficio. Occorre che il colpevole non abbia già usufruito della sospensione condizionale per un altro reato, non potendo essere concessa più di una volta. Tuttavia il giudice può concedere nuovamente la sospensione condizionale quando la pena da infliggere con la nuova condanna, cumulata con quella precedentemente irrogata, non sia comunque superiore al limite dei due anni; d) che alla pena inflitta non debba essere aggiunta una misura di sicurezza personale. La concessione del beneficio comporta la sospensione della pena principale e delle pene accessorie per un periodo di cinque anni, nel caso di delitti, e di due anni nel caso di contravvenzioni. Se durante questo periodo il condannato non commette un altro delitto o un’altra contravvenzione della stessa indole ed adempie agli obblighi imposti, il reato è estinto. Restano, invece in vita gli altri effetti penali e le obbligazioni civili. La sospensione condizionale è revocata di diritto nei seguenti casi: a) se nei termini anzidetti il condannato commetta un nuovo delitto o una nuova contravvenzione della stessa indole, per cui venga inflitta una pena detentiva; b) se non adempie agli obblighi impostigli; c) se riporta un’altra condanna per un delitto anteriormente commesso a pena che, cumulata con quella precedentemente sospesa, superi i limiti stabiliti dall’art. 163 c.p.. Se tali limiti non sono superati, il giudice, tenuto conto dell’indole e della gravità del reato, può revocare la sospensione.

1. Il perdono giudiziale Il perdono giudiziale è una causa di estinzione del reato, applicabile al solo diritto minorile, che ricorre nel caso in cui il colpevole: a) al tempo della commissione del reato non avesse compiuto i diciotto anni; b) che questi non sia stato condannato in precedenza a pene detentive per delitto, in chi sia delinquente abituale o professionale; c) che il minore non abbia già goduto del perdono giudiziale; d) che il giudice ritenga di potere applicare una pena, pecuniaria o detentiva contenuta entro certi limiti; e) che il giudice in base a determinate circostanze, presuma che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati. Il perdono giudiziale consente di evitare il rinvio a giudizio, ovvero la condanna del minore, e quindi può essere concesso sia all’udienza preliminare sia al dibattimento. L’applicazione del perdono giudiziale presuppone un accertamento della responsabilità penale del minore; per tale motivo la sentenza che applica il perdono giudiziale può essere


soggetta ad impugnazione.

1. La liberazione condizionale La liberazione condizionale è prevista dall’art. 176 c.p.. I presupposti di applicazione di questo istituto sono così riassumibili: • il condannato deve aver scontato un certo periodo di pena (per i minori questo requisito non è necessario) consistente in trenta mesi o almeno la metà della pena inflitta, se si tratta di delinquente primario o recidivo semplice, di quattro anni o almeno tre quarti della pena inflitta se si tratta di recidivo qualificato; • la pena residua non deve superare i cinque anni; • il condannato deve aver tenuto, durante il periodo in cui è stato in carcere, un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento; • è necessario, inoltre, che il condannato non abbia già usufruito del beneficio per la medesima pena e che abbia adempiuto le obbligazioni civili (tranne che dimostri di esserne impossibilitato). Per quanto riguarda l’ergastolano, l’art. 28 della l. 10 ottobre 1986, n. 663, ha previsto l’estensione della misura anche nei suoi confronti, purché abbia scontato almeno 26 anni di pena (previo sempre l’adempimento delle obbligazioni civili nascenti dal reato). La concessione della libertà condizionale fa cessare lo stato di detenzione e comporta l’applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata assistita dal servizio sociale. La pena si considera estinta e cessa la misura di sicurezza non il decorso della pena inflitta; per gli ergastolani, invece, tale effetto si verifica col decorso di cinque anni dalla data del provvedimento.

1. L’oblazione E’ una delle cause di estinzione del reato più frequentemente applicate riguardante le sole contravvenzioni; il c.p. contempla due tipi di oblazione, una ex art. 162 c.p. (c.d. oblazione comune), e l’altra, introdotta dalla l. n. 689 del 1981 con l’art. 162 bis (c.d. oblazione speciale). • Oblazione comune: bisogna innanzitutto precisare che questo tipo di oblazione non va confusa né con l’oblazione in via amministrativa (che si esegue presso l’Autorità amministrativa), né con l’oblazione in via breve contemplata dal codice della strada e da alcune leggi finanziarie. L’oblazione comune (detta anche giudiziale) può applicarsi, in base all’art. 162 c.p. a condizione che: a) si tratti di una contravvenzione per la quale sia prevista la sola pena dell’ammenda (di qualunque importo); b) che il contravventore presenti domanda di ammissione all’oblazione prima dell’apertura del dibattimento o del decreto penale di condanna; c) che il contravventore adempia all’obbligo. In presenza di queste condizioni, l’oblazione si applica automaticamente, ed il reato si considera estinto. • Oblazione speciale: condizione generale richiesta perché il soggetto sia ammesso, su domanda, al beneficio, è che si tratti di contravvenzione punita con la pena alternativa all’arresto o dell’ammenda; inoltre l’applicazione è rimessa alla discrezionalità del giudice. I termini per la presentazione della domanda sono gli stessi dell’oblazione comune, con la possibilità però di riproposizione prima della discussione finale del dibattimento di primo grado. D’altro canto, sono previste vere e proprie ipotesi di esclusione del beneficio per la recidiva reiterata, per l’imputato dichiarato contravventore abituale oppure delinquente o contravventore professionale, ed inoltre nell’ipotesi che permangono conseguenze dannose o pericolose del reato che siano eliminabili da parte del contravventore. La somma che il contravventore è eventualmente ammesso a pagare corrisponde alla metà del massimo dell’ammenda prevista ex lege, oltre alle spese del procedimento. Le critiche all’oblazione speciale sono state numerose e soprattutto rivolte alla discrezionalità del sistema previsto, che in pratica affida al giudice il compito di depenalizzare a piacere reati spesso anche di una certa gravità.

1. La riabilitazione La funzione di tale istituto consiste nella reintegrazione del condannato, che abbia già scontato la pena principale, in tutte le facoltà e diritti, preclusi per effetto dalla condanna (art. 178 c.p.). Importa l’estinzione della pena accessoria e di ogni altro effetto penale della condanna. Ha lo scopo, specialpreventivo, di sottrarre il condannato, che si sia ravveduto, a quegli effetti penali che possono pregiudicare il reinserimento sociale. Condizione per la sua concessione sono:


a) che siano decorsi cinque anni dal giorno in cui la pena principale è stata eseguita o si è in altro modo estinta; b) che il condannato abbia dato “prove effettive e costanti di buona condotta” per i suddetti periodi; c) che egli non sia stato sottoposto a misura di sicurezza o, se sottoposto, il provvedimento sia stato revocato; d) che abbia adempiuto le obbligazioni civili derivanti dal reato, salvo che dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempierle. Verificatesi le suddette condizioni, la riabilitazione costituisce un vero e proprio diritto del condannato e non un semplice interesse. Ed il giudice ha il dovere di concederla non potendo escluderla a propria discrezione.

1. La non menzione della condanna La non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale è specificamente contemplata all’art. 175 c.p. e prevede diverse condizioni per la concessione del beneficio: a) che si tratti della prima condanna; b) che la pena inflitta sia: • se detentiva, non superiore a due anni; • se pecuniaria, non superiore al massimo di pena detentiva conteggiata ex art. 135 c.p. (secondo quanto stabilito con sentenza della Corte Costituzionale n. 304 del 17 dicembre 1988); • se congiunta, la pena detentiva non deve essere superiore a due anni e quella pecuniaria deve essere tale che, conteggiata a norma dell’art. 135 c.p. e sommata con quella detentiva, non porti il condannato ad essere privato della libertà personale per più di trenta mesi. Sotto l’aspetto dell’applicazione concreta, la non menzione della condanna è rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice, che la concede basandosi sulle circostanze indicate nell’art. 133 c.p.; il beneficio non può concedersi se la condanna derivi da reati elettorali, ed è revocato nel caso in cui il condannato commetta un delitto. Nel 1984 la Corte Costituzionale, con sent. n. 155 ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 175 c.p. nella parte in cui prevede che il beneficio in oggetto possa essere concesso anche più di una volta, fino a quando il cumulo delle pene detentive non risulti superiore ai due anni.

1. La cause sospensive ed estintive della pena nell’ordinamento penitenziario L’introduzione degli istituti dell’affidamento in prova e della liberazione anticipata da parte della L. 345/75 sull’ordinamento penitenziario, pongono delicati problemi di coordinamento con le cause sospensive ed estintive, previste dal codice penale. • L’affidamento in prova al servizio sociale per un periodo uguale a quello della pena da scontare costituisce una probation c.d. penitenziaria, che viene concessa ricorrendo le condizioni di legge già viste. L’affidamento è revocato qualora il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione della prova. L’esito positivo del periodo di prova estingue la pena e ogni altro effetto penale, non le pene accessorie e le obbligazioni civili. • La liberazione anticipata consiste nella remissione di una parte della pena quale momento del trattamento progressivo. Essa concede una detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata, al condannato che abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione. Questa misura, in realtà, piuttosto che da una funzione rieducativa, è connotata da un aspetto premiale, dato che consiste nell’incentivare il detenuto a partecipare al trattamento rieducativo con lo stimolo di una liberazione anticipata.

LE MISURE DI SICUREZZA ARGOMENTO IN SINTESI. L’introduzione delle misure di sicurezza rappresenta sicuramente una delle innovazioni più importanti del codice Rocco del 1930. Con la creazione di tali misure è nato quello che viene definito il sistema del doppio binario che pone, accanto ad una pena detentiva che ricomprende in sé funzioni di carattere retributivo e general-preventivo, una misura di carattere special-preventivo volta alla rieducazione e alla cura del soggetto socialmente pericoloso. Inizialmente alle misure di sicurezza veniva attribuita natura amministrativa ma, nell’attuale momento storico, quasi tutta la dottrina respinge tale tesi e le considera sanzioni criminali di competenza del diritto penale, tanto più che esse vengono applicate mediante un procedimento giurisdizionale. Destinatari delle misure di sicurezza sono sia i soggetti imputabili che i soggetti semi-imputabili e non imputabili; alle prime due categorie di individui le misure di sicurezza si applicano cumulativamente alla pena, dando così vita al sistema del doppio binario, alla terza si applicano in modo esclusivo. Presupposti di applicazione sono la pericolosità sociale del soggetto, desunta dai parametri previsti dall’art. 133 c.p. e la commissione di un reato. Tuttavia, quest’ultimo requisito subisce due eccezioni tassativamente previste dalla legge: il giudice infatti può, nelle ipotesi di quasi-reato ex art. 115 c.p. (accordo criminoso non eseguito o istigazione a commettere un delitto non accolta, o accolta, ma non seguita dalla commissione del delitto) e di delitto impossibile ex art. 49


c.p., comminare l’applicazione di una misura di sicurezza a prescindere dalla commissione di un vero e proprio reato. Ai sensi dell’art. 203 c.p. deve ritenersi socialmente pericolosa la persona che è probabile che commetta nuovi fatti previsti dalla legge come reato. A tal proposito, la l. n. 663 del 1986 (legge Gozzini) ha provveduto ad abolire ogni forma di presunzione legale di pericolosità, abrogando l’art. 204 c.p. e statuendo che tutte le misure di sicurezza personali possono essere applicate solo previo accertamento che colui che ha commesso il reato sia una persona socialmente pericolosa. Le misure di sicurezza vengono applicate dopo l’esecuzione della pena e sono indeterminate nel massimo essendo la loro durata collegata al protrarsi o alla cessazione della pericolosità sociale; ne è però fissata dalla legge un durata minima, ma il Tribunale di sorveglianza può, ricorrendone i presupposti, revocare la misura anche prima che sia decorso il tempo corrispondente a tale durata. Il c.p. distingue le misure di sicurezza in due categorie: personali e patrimoniali. Le misure di sicurezza personali si distinguono, poi, in detentive e non detentive. Sono misure di sicurezza detentive: 1) l’assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro. Le misure di sicurezza in questione si applicano ai soggetti imputabili e pericolosi, generalmente a coloro che sono stati dichiarati delinquenti abituali professionali o per tendenza, oltre a chi si trova nelle situazioni descritte dall’art. 216 c.p.. La distinzione tra queste due misure di sicurezza dovrebbe essere colta in relazione al tipo di attività che vi si svolge: agricolo nella prima, artigianale o industriale nella seconda, ma tale differenziazione non ha trovato riscontro pratico. 2) Il ricovero in una casa di cura e di custodia. Questa misura ricomprende in sé sia istanze curative che custodialistiche ed è prevista principalmente per i condannati ad una pena diminuita per infermità psichica, per cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, ovvero per sordomutismo. 3) Il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario. Il manicomio giudiziario si applica: a) ai prosciolti per infermità psichica o per intossicazione cronica da alcool o da stupefacenti ovvero per sordomutismo, salve le eccezioni previste dalla legge; b) ai minori degli anni quattordici e ai minori tra gli anni quattordici e diciotto prosciolti per incapacità di intendere e di volere che abbiano commesso un reato negli stati di cui sopra; c) ai sottoposti ad altra misura di sicurezza detentiva colpiti da una infermità psichica tale da richiedere il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario. 4) Il ricovero in un riformatorio giudiziario. Il ricovero nell’istituto in esame è riservato ai minori di età. Esso si prescrive: a) ai minor degli anni quattordici e ai minori degli anni diciotto riconosciuti non imputabili ex art. 98 c.p., che abbiano commesso un delitto doloso, preterintenzionale o colposo e siano considerati socialmente pericolosi; b) ai minori tra gli anni quattordici e diciotto riconosciuti imputabili condannati a pena diminuita; c) ai minori degli anni diciotto dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza; d) ai minori tra gli anni quattordici e diciotto condannati per delitto durante l’esecuzione di una misura di sicurezza precedentemente applicata per difetto di imputabilità; e) ai minori degli anni diciotto nell’ipotesi contemplata dall’art. 212 c.p. terzo comma. Sono misure di sicurezza non detentive: 1) la libertà vigilata: consiste in una serie di limitazioni della libertà personale del reo mediante prescrizioni di carattere sia positivo che negativo, aventi come scopo il reinserimento sociale dell’individuo e l’impedimento della commissione di nuovi reati. La sorveglianza della persona in stato di libertà vigilata è affidata all’autorità di pubblica sicurezza; 2) il divieto di soggiorno in uno o di più comuni o in una o più province: questa misura si applica facoltativamente a coloro che abbiano commesso un delitto contro la personalità dello Stato o contro l’ordine pubblico, oppure, nel caso di delitti politici o occasionati da particolari condizioni morali o sociali esistenti in un determinato luogo; 3) il divieto di frequentare osterie o pubblici spacci di bevande alcooliche: destinatari sono i condannati per ubriachezza abituale o per reati commessi in stato di ubriachezza, sempre che questa sia abituale; 4) l’espulsione dello straniero dallo Stato: si applica agli stranieri condannati alla reclusione per un periodo non inferiore a dieci anni ed alla reclusione, quale che sia la pena inflitta, per un delitto contro la personalità dello Stato. Sono misure di sicurezza patrimoniali: 1) la cauzione di buona condotta: ai sensi della l. n. 689 del 1981, la cauzione di buona condotta è data mediante deposito, nella Cassa delle ammende, di una somma non inferiore al lire duecentomila, né superiore a quattro milioni ovvero nella prestazione di una garanzia mediante ipoteca o fideiussione solidale; 2) la confisca: questa misura di sicurezza patrimoniale consiste nella espropriazione da parte dello Stato delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto. La confisca, generalmente facoltativa, è invece obbligatoria qualora si tratti di cose che costituiscono il prezzo del reato; di cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione, o alienazione costituisce reato, anche se non è stata pronunciata condanna.

1. La nozione A seconda che la prevenzione sia rivolta ad impedire che il soggetto pericoloso commetta o ricommetta reati, occorre distinguere rispettivamente fra misure di prevenzione e misure di sicurezza. Quest’ultime hanno una finalità terapeutica, rieducativo-risocializzatrice , e sono applicabili ai soggetti pericolosi che hanno già commesso un fatto penalmente rilevante. Le misure di sicurezza si differenziano dalle pene, poiché sono la conseguenza di un giudizio non di riprovazione per la violazione di un comando, ma di pericolosità, non di responsabilità, ma di probabilità di futura recidiva. Non hanno perciò carattere punitivo, ma tendono a modificare i fattori predisposti all’atto criminale.

1. Le misure di sicurezza secondo la Costituzione La Costituzione fissa i caratteri delineanti il nostro sistema preventivo. Il primo principio è quello della legalità delle misure di sicurezza: nello Stato di diritto le garanzie della libertà contro l'arbitrium judicis non possono non estendersi al temibile campo della prevenzione. Con l’affermare che «Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge», l'art. 25/3 consacra il principio già sancito dagli artt. 199 e 236 c.p., per i quali «Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti». Due sono i presupposti soggettivi e oggettivi previsti dal codice per l’applicazione delle misure di sicurezza e che debbono ritenersi accolti anche dalla Costituzione, pur se da essa non espressamente contemplati. E cioè: a) la pericolosità sociale del soggetto, consistente nella probabilità di commettere nuovi


reati b) la commissione di un fatto penalmente rilevante, cioè un reato oppure un c.d. quasireato, indicandosi con questa espressione le ipotesi contemplate negli artt. 49 (reato impossibile) e 115 (istigazione a commettere un delitto non accolta, istigazione accolta o accordo per commettere un delitto, quando il delitto non sia commesso). Benché la ragione delle misure di sicurezza stia nella pericolosità, tuttavia per esigenze garantiste si richiede che la pericolosità non sia soltanto temuta, ma si sia manifestata in comportamento indizianti, consista cioè in una situazione soggettiva di cui è componente sintomatica anche la commissione di reato o quasi-reato. E questi fatti debbono essere accertati giudizialmente. Anche nei confronti dei soggetti prosciolti per incapacità di intendere e di volere deve essere, ovviamente, acquisita la certezza giurisdizionale che il fatto sussiste e che è attribuibile materialmente e psicologicamente all’incapace. Nei loro confronti è escluso, per assenza di imputabilità, ogni giudizio di colpevolezza, ma l'atteggiamento psichico dell'incapace ben potrà essere considerato ai fini dell'accertamento della pericolosità. Rispetto alla durata della misura di sicurezza si manifesta una ulteriore attenuazione della tassatività. Come in genere le legislazioni che prevedono le misure di sicurezza, anche il nostro codice stabilisce una durata determinata nel minimo e indeterminata nel massimo. Gli artt. 207 e 208 dispongono infatti che: a) per ciascuna misura è stabilita una durata minima, rispondente ad una presunzione di durata della pericolosità; b) la misura non può essere revocata se la persona ad essa sottoposta non ha cessato di essere socialmente pericolosa (art. 207); c) la misura è revocata se è decorso un tempo corrispondente alla durata minima o anche prima, se risulti che la pericolosità è cessata; d) il giudice fissa un nuovo termine per un ulteriore esame della pericolosità, qualora la persona risulti ancora pericolosa, e può procedere ad un riesame in ogni tempo se vi è ragione di ritenere che la pericolosità sia cessata. Circa la irretroattività, non espressamente sancita dalla Costituzione, va condivisa la dominante tesi secondo la quale non potrà mai applicarsi una misura di sicurezza per un fatto che al momento della sua commissione non costituiva reato (o quasi-reato). Il secondo principio è quello della giurisdizionalità del processo di sicurezza, del procedimento cioè attraverso il quale vengono applicate, modificate, sostituite o revocate le misure di sicurezza. Anche a seguito di alcune sentenze della Corte cost. il processo di sicurezza, pur mantenendo alcune sue caratteristiche particolari, va assimilandosi sempre più al processo giurisdizionale con le correlative garanzie. Il terzo principio è quello della funzione specialpreventiva delle misure di sicurezza, conformemente alla loro genesi storica, alla loro ratio e alla tradizione, non essendo esse dirette a punire l'autore di una riprovevole violazione di' un comando, ma a prevenire la probabile recidiva. Il quarto principio è quello della tutela della dignità dell'uomo, a proposito del quale vale sostanzialmente quanto già detto in merito al trattamento e alla pena, specie per quanto riguarda i trattamenti pericolosi per la vita e l'integrità psico-fisica del soggetto (interventi di psicochirurgia, misura della evirazione anche coattiva). Per evitare utilizzazioni aberranti le misure di sicurezza vanno concepite ed applicate alla luce del principio personalistico, concependo l'uomo non come «entità naturalistica» ma come «valore». Le garanzie sopraelencate valgono quale che sia la risposta che si intenda dare al problema della natura, penale o amministrativa, delle misure di sicurezza.

1. Le misure di sicurezza personali detentive Nel nostro codice le misure di sicurezza si distinguono in misure personali (detentive e non detentive) e misure patrimoniali. Le misure personali detentive sono: a) l’assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro, adottata per i delinquenti imputabili e pericolosi. La durata minima è di un anno; per i delinquenti abituali di due anni, per i professionali di tre e per delinquenti per tendenza di quattro; b) il ricovero in una casa di cura e di custodia, prevista per i condannati ad una pena diminuita per ragione di infermità psichica, cronica intossicazione o sordomutismo; in questi casi la durata minima è di tre anni o di un anno a seconda che per il delitto commesso sia prevista una pena di durata minima superiore a 10 anni o inferiore a 10 ma superiore a 5; c) il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, prevista per gli imputati prosciolti per infermità psichica, cronica intossicazione o sordomutismo; d) il ricovero in un riformatorio giudiziario, prevista per i minori;


1. Le misure di sicurezza personali non detentive Le misure di sicurezza personali non detentive sono le seguenti: a) la libertà vigilata, consiste in una limitazione della libertà, diretta ad evitare le occasioni di nuovi reati, e in interventi di sostegno e di assistenza, svolti dal servizio sociale. La durata minima e solitamente di un anno. b) il divieto di soggiorno, consiste nel divieto di soggiornare in uno o più comuni o province, designati dal giudice. Si applica facoltativamente al colpevole di un delitto contro la personalità dello Stato o contro l’ordine pubblico, ovvero di un delitto commesso per motivi politici; c) il divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcoliche, sempre aggiunto alla pena quando si tratti di condannati per ubriachezza abituale; d) l’espulsione dello straniero dallo Stato, ordinata quando lo straniero sia condannato alla reclusione per un tempo non inferiore a 10 anni;

1. Le misure di sicurezza patrimoniali Le misure di sicurezza patrimoniali sono le seguenti: a) la cauzione di buona condotta, consiste nel deposito, presso la Cassa delle Ammende, si una somma che non può essere inferiore a L. 200.000, né superiore a L. 4.000.000, oppure nella prestazione di una garanzia mediante ipoteca o fideiussione solidale. Essa intende operare come remora a commettere nuovi reati per il timore della perdita della somma o della escussione della garanzia; b) la confisca, consiste nella espropriazione delle cose attinenti al reato. Solitamente è facoltativa e può essere applicata solo con la sentenza di condanna;

1. L’applicazione e l’esecuzione Come le pene, le misure di sicurezza si applicano a tutti coloro che abbiano commesso il fatto nel territorio dello Stato, e quindi anche agli stranieri. Per questi è prevista anche la misura di sicurezza della espulsione dallo Stato, a pena espiata o estinta e nei casi indicati dalla legge. L'applicazione di misure di sicurezza allo straniero non impedisce l'espulsione di lui dal territorio dello Stato, a norma delle leggi di pubblica sicurezza. Le misure di sicurezza si applicano anche, secondo la legge italiana, per i fatti commessi all'estero, quando si procede o si rinnova il giudizio nello Stato. L'applicazione di esse è sempre subordinata all'accertamento della pericolosità quando, secondo la legge italiana, si dovrebbe sottoporre il condannato o il prosciolto dalla sentenza straniera, che si trova nel territorio dello Stato, a misure di sicurezza personali. Le misure di sicurezza sono ordinate, di regola, dal giudice nella stessa sentenza di condanna o di proscioglimento. O anche con provvedimento successivo dal magistrato di sorveglianza: 1. nel caso di condanna, durante l'esecuzione della pena o il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all'esecuzione della pena; 2. nel caso di proscioglimento, qualora si tratti delle ipotesi di pericolosità ritenuta presunta prima della riforma del 1986 (ed ora da accertarsi in concreto), e non sia decorso un tempo corrispondente alla durata minima della relativa misura di sicurezza; 3. in ogni tempo, nei casi stabiliti dalla legge. Per la confisca, non disposta dalla sentenza di condanna o di proscioglimento, provvede il giudice dell'esecuzione, con le forme non del processo di sicurezza ma degli incidenti di esecuzione (art. 655 c.p.p.). Durante l'istruzione o il giudizio è ammessa l'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza (riformatorio, ospedale psichiatrico giudiziario, casa di cura e custodia) per i minori, per gli infermi di mente, per gli ubriachi abituati e per le persone dedite all'uso di sostanze stupefacenti o in stato di cronica intossicazione prodotta da alcool o da stupefacenti. Il giudice revoca l'ordine di ricovero, quando ritenga che tali persone non siano più socialmente pericolose. Il tempo dell'esecuzione provvisoria è computato nella durata minima di essa (art. 206). In caso di concorso di più misure di sicurezza della stessa specie, ne è disposta una sola (unificazione). Nel caso siano di specie diverse, il giudice valuta il caso concreto e dispone l’applicazione di una o più misure contemporaneamente. Circa il momento dell’esecuzione, le misure di sicurezza sono eseguite: 1. immediatamente, se applicate con sentenza di proscioglimento; 2. dopo che la sentenza è divenuta irrevocabile, se aggiunte a pena non detentiva; 3. dopo che la pena è stata scontata o estinta, se aggiunte a pena detentiva. Qualora per effetto di grazia o indulto non debba essere eseguita in tutto o in parte la pena dell’ergastolo, il condannato è sottoposto a libertà vigilata per un tempo non inferiore a tre anni.


LE MISURE DI PREVENZIONE ARGOMENTO IN SINTESI. Le misure di prevenzione, alle quali viene generalmente attribuita natura amministrativa, sono dirette ad evitare la commissione di reati da parte di determinate categorie di soggetti considerati socialmente pericolosi. La loro peculiarità è che esse vengono applicate a prescindere dalla commissione di un fatto previsto dalla legge come reato: per questo motivo vengono anche definite misure “ante delictum”. Per questa caratteristica esse si distinguono dalle misure di sicurezza le quali, invece, sono applicabili ai soggetti pericolosi che abbiano già commesso un reato. Tuttavia, proprio a causa del fatto che le misure di prevenzione possono essere applicate a prescindere dalla commissione di un reato, sussistono notevoli dubbi e contrasti sulla loro legittimità nell’ambito di uno Stato di diritto; si ritiene infatti da più parti che tali misure, poiché comminate solo sulla base di indizi o sospetti di pericolosità, come la compagnia di pregiudicati, la mancanza di lavoro stabile ed il tenore di vita superiore alle proprie possibilità economiche, siano connotate da elementi di arbitrarietà e si risolvano, in ultima analisi, in pene del sospetto. Le misure di prevenzione furono introdotte con la l. n. 1453 del 1956 ma, in materia, gli interventi legislativi sono stati molteplici. La l. n. 575 del 1965 ha esteso le misure di prevenzione personali della sorveglianza speciale e dell’obbligo e divieto di soggiorno agli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose. La l. n. 152 del 1975 (c.d. legge Reale) ha esteso le predette misure ai soggetti ritenuti politicamente pericolosi. La L. n. 646 del 1982 (c.d. Rognoni-La Torre) ha introdotto, potenziando il sistema antimafia, le misure patrimoniali della confisca e del sequestro. Infine, la l. n. 327 del 1988 ha eliminato gli aspetti più discutibili e intollerabili delle tradizionali misure di sicurezza personali. Ai sensi dell’art. 1 l. n. 1423 del 1956, così come modificato dalla l. n. 327 del 1988, le misure di prevenzione si applicano a tre categorie di individui: 1. a coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano abitualmente dediti a traffici delittuosi; 2. a coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente anche in parte, con i proventi di attività delittuose; 3. a coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la società, la sicurezza o la tranquillità pubblica. Le misure di prevenzione personali sono: 1. l’avviso orale: sostituisce la diffida, eliminata dal legislatore dell’88, e consiste in un invito orale a cambiare vita. Ha, in pratica, la sola funzione di costituire il presupposto per l’applicazione della sorveglianza speciale nei confronti di coloro che non si siano attenuti all’ingiunzione di modificare il loro stile di vita. L’avviso orale ha un’efficacia temporanea di tre anni; 2. il rimpatrio con foglio di via obbligatorio: è una misura che viene adottata nei confronti degli individui che siano socialmente pericolosi per la sicurezza pubblica e si trovino fuori dai luoghi di residenza. Il questore può rinviarveli con foglio di via obbligatorio inibendo loro di tornare senza preventiva autorizzazione ovvero per un periodo non superiore a tre anni; 3. la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza: questa misura è prevista per le persone, ritenute pericolose per la sicurezza pubblica, che non abbiano cambiato condotta nonostante l’avviso orale. Essa può essere applicata solo mediante un procedimento giurisdizionale ed è accompagnata da una serie di prescrizioni. Alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza può essere aggiunto il divieto di soggiorno in una o più province o in uno o più comuni, ove le circostanze lo richiedano, e l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale, nei casi in cui le altre misure di prevenzione non garantiscano adeguatamente la sicurezza pubblica; 4. il sequestro: questa misura di prevenzione di carattere patrimoniale è disposta dal tribunale qualora, sulla base di sufficienti indizi, si sospetti che i beni di cui dispone l’indiziato siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego; 5. la confisca: costituisce un provvedimento ablativo da parte dello Stato e riguarda quei beni dei quali il possessore non sia in grado di dimostrare la legittima provenienza. Tale misura suscita perplessità in ordine alla sua legittimità costituzionale in quanto finisce per introdurre una inversione dell’onere della prova e, di conseguenza, una violazione dei principi della difesa e della presunzione di non colpevolezza.

LE CONSEGUENZE CIVILI ARGOMENTO IN SINTESI. Oltre che alla pena e alla misura di sicurezza, dal reato derivano anche conseguenze di ordine civile: tra queste, il c.p. prevede: 1. obbligazioni verso lo Stato; 2. obbligazioni verso le vittime del reato. Rientra nel primo gruppo l’obbligo del condannato a rimborsare all’Erario le spese per il suo mantenimento in carcere, obbligo del quale risponde con tutti i suoi beni, in base alle leggi civili (art. 188 c.p.). Del secondo gruppo fanno parte: 1. l’obbligo delle restituzioni ex art. 185 c.p., consistente nel ripristino della situazione di fatto preesistente rispetto alla commissione del reato: è chiaro che tale ripristino deve essere possibile sia sotto l’aspetto giuridico che sotto l’aspetto naturalistico; 2. l’obbligo del risarcimento del danno, che grava sul colpevole e sulle persone che, in base alle leggi civili, devono rispondere per il fatto di lui (art. 185 c.p.). Il danno patrimoniale è costituito dai tradizionali elementi del danno emergente e del lucro cessante; il danno non patrimoniale è il turbamento morale derivato dalla commissione del reato (offesa, angoscia ecc.). In base all’art. 1223 c.c., il danno (patrimoniale e non) per essere risarcibile deve porsi in rapporto di immediatezza col reato; inoltre nelle posizione di debitore si trova non solo il colpevole, ma anche il responsabile civile, nel caso che ci sia; d’altro canto nella posizione di creditore si trova il danneggiato, che può essere persona diversa dal soggetto passivo del reato. Gli artt. 186 e 187 c.p. contemplano inoltre la possibilità che il colpevole sia tenuto alla pubblicazione a sue spese della sentenza di condanna, qualora la pubblicazione costituisca mezzo ritenuto adeguato a riparare il danno non patrimoniale determinato dal reato (tale pubblicazione va distinta da quella prevista dall’art. 19 c.p., che costituisce una pena accessoria). Nel caso che il condannato alla pena pecuniaria sia insolvibile, l’art. 196 c.p. prevede l’obbligazione sussidiaria al pagamento, a carico della persona rivestita dell’autorità o incaricato della direzione o della vigilanza sul soggetto condannato. Infine, si ricordi che in base all’art. 198 c.p., l’estinzione del reato o della pena non estingue le obbligazioni civili derivanti dal reato, ad eccezione delle obbligazioni civili per le ammende ex artt. 196 e 197 c.p..


1. Le obbligazioni verso la vittima del reato Le obbligazioni civili a favore della vittima sono le restituzioni ed il risarcimento del danno. Per quanto riguarda la restituzione, l’art. 185/1 stabilisce che “Ogni reato obbliga alle restituzioni, a norma delle leggi civili”. Quanto al risarcimento del danno, l’art. 185/2 stabilisce che “Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale, o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”. Nel nostro paese l’effettività del risarcimento dei danni da reato è rinforzata dagli istituti complementari: 1. dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile per danni derivanti dalla circolazione stradale; 2. della Cassa per il soccorso e l’assistenza alle vittime del delitto.

1. I rapporti tra reato e danno risarcibile Il danno risarcibile, detto anche danno civile, si differenzia dal c.d. danno criminale, cioè dalla offesa necessaria per l’esistenza del reato. Nelle lesioni personali, ad es., mentre l’offesa tipica è la lesione della integrità fisica, il danno risarcibile è rappresentato dalle perdite patrimoniali, dal pregiudizio alla salute e dalle sofferenze, patite dalla vittima. Da quanto sopra precisato deriva altresì che la figura del danneggiato civilmente non coincide necessariamente con quella del soggetto passivo del reato.

1. Le obbligazioni verso lo Stato Verso lo Stato il condannato è obbligato al rimborso delle spese per il mantenimento negli istituti di pena, durante l’esecuzione della pena e durante la custodia preventiva. L’obbligazione non si estende alla persona civilmente responsabile e non si trasmette agli eredi del condannato. Accanto a questa obbligazione è prevista anche quella del rimborso allo Stato delle spese processuali penali, stabilita dall’art. 535 e disciplinata dagli artt. 691-695 c.p.p. I condannati per lo stesso reato o per reati connessi sono obbligati in solido. L’art. 56 del nuovo Ordinamento penitenziario prevede la possibilità di remissione del debito per le spese del procedimento e del mantenimento “nei confronti dei condannati e degli internati che versino in disagiate condizioni economiche e si siano distinti per regolare condotta”.

1. Le garanzie per le obbligazioni civili Il codice ha previsto particolari garanzie per le obbligazioni civili da reato: • l’ipoteca legale dello Stato sui beni immobili dell’imputato garantisce il pagamento: a) delle pene pecuniarie; b) delle spese del procedimento; c) delle spese di mantenimento; d) delle spese sostenute dal pubblico istituto sanitario; e) delle somme dovute a titolo di risarcimento del danno; f) delle spese anticipate dal difensore e delle somme a lui dovute a titolo di onorario; • il sequestro conservativo penali dei beni mobili dell’imputato può essere ordinato se vi è ragione di temere che manchino o si disperdano le garanzie delle obbligazioni per le quali è ammessa l’ipoteca legale; • l’azione revocatoria costituisce una ulteriore garanzia stabilendo l’inefficacia rispetto ai creditori indicati nell’art. 189: a) degli atti a titolo gratuito compiuti dal colpevole dopo il reato; b) degli atti a titolo oneroso compiuti dopo il reato, che eccedano la semplice amministrazione ovvero la gestione dell’ordinario commercio, i quali pure si presumono fatti in frode rispetto ai creditori, sempre che sia fornita la prova della malafede dell’altro contraente; c) degli atti a titolo gratuito compiuti nell’anno anteriore al reato, qualora si provi che furono compiuti dal colpevole in frode; d) degli atti a titolo oneroso compiuti nell’anno anteriore al reato, che eccedono la semplice amministrazione ovvero la gestione dell’ordinario commercio, sempre che vi sia la prova della malafede dell’altro contraente; • il prelievo sulla remunerazione per il lavoro prestato dai condannati viene effettuato sui due quinti della medesima e salvo che l’adempimento delle obbligazioni sia altrimenti


eseguito.

1. Le obbligazioni civili per le pene pecuniarie Il codice vigente ha disposto particolari ipotesi di obbligazioni civili per le multe e le ammende: • l’obbligazione civile per le pene pecuniarie inflitte a persona dipendente: è prevista dall’art. 196 nei confronti della persona rivestita della autorità o incaricata della direzione o vigilanza su altro soggetto; • l’obbligazione civile delle persone giuridiche per il pagamento delle pene pecuniarie: è prevista dall’art. 197 per gli enti forniti di personalità giuridica (eccettuati lo Stato, le Province, i Comuni); • l’obbligazione civile per il pagamento delle multe inflitte per i delitti di contrabbando: prevede l’obbligazione civile di determinate persone ed enti per il pagamento delle multe inflitte per delitti di contrabbando, se il condannato è insolvibile.

I PROBLEMI INTERNAZIONALI DEL DIRITTO PENALE IL DIRITTO PENALE INTERNAZIONALE 1. La nozione Il diritto penale internazionale sta ad indicare il complesso di norme di diritto interno con cui ogni Stato risolve i problemi che ad esso si pongono per il fatto di coesistere con altri Stati sovrani nella superiore comunità internazionale. Esso abbraccia fondamentalmente le norme che regolano il campo di applicazione della legge penale nazionale nello spazio e le norme che regolano l’attività di collaborazione dello Stato con gli altri Stati in materia penale.

I LIMITI DI APPLICAZIONE DELLA LEGGE PENALE NAZIONALE 1. I principi di universalità, di territorialità, di personalità, di difesa Quattro sono i criteri astrattamente ipotizzabili per determinare il campo di applicazione della legge penale nazionale, e precisamente: 1. il principio di universalità, secondo il quale la legge penale nazionale dovrebbe applicarsi a tutti gli uomini e che riconosce al giudice del luogo d’arresto il potere di giudicare tutti i reati, ovunque commessi; 2. il principio di territorialità, per il quale la legge nazionale obbliga tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato; 3. il principio della personalità attiva del reo, per il quale ad ogni autore di reato dovrebbe applicarsi la legge dello Stato a cui appartiene; 4. il principio della difesa che comporta l’applicazione della legge dello Stato, cui appartengono gli interessi offesi oppure il soggetto passivo del reato. La maggior parte degli Stati adotta solitamente un principio base (normalmente quello territoriale) temperato dalla adozione parziale di altri principi.

1. Il principio di territorialità quale principio base del nostro codice Il codice penale italiano accoglie, dichiaratamente (art. 6/1: “chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana”), il principio della territorialità temperato dal principio della universalità.

1. Le deroghe: i reati commessi all’estero punibili incondizionatamente L’art. 7 prevede alcune ipotesi di reati punibili incondizionatamente la maggior parte delle quali ispirate al principio di difesa dello Stato.

1. I delitti politici commessi all’estero Il c.p. prevede due tipi di delitto politico. Esso può essere inteso in senso oggettivo ed è


tale in base alla stessa natura del bene o interesse leso. Si tratta di un delitto che offende un interesse politico dello Stato, che attiene alla vita dello Stato nella sua essenza unitaria (integrità del popolo e del territorio, indipendenza, pace esterna, forma di governo). Rientrano in questa nozione i delitti contro la personalità dello Stato e quelli previsti dalla legislazione speciale, che aggrediscono lo Stato in una delle predette componenti. Delitto oggettivamente politico è anche, secondo il codice, quello che offende un diritto politico del cittadino: cioè il diritto che il cittadino ha di partecipare alla vita dello Stato e di contribuire alla formazione della sua volontà (es. diritto di elettorato attivo e passivo). In senso soggettivo, il delitto politico è inteso come delitto comune determinato da motivi politici, che vanno opportunamente differenziati dai meri motivi sociali: per motivo politico si intende ogni motivo del reato che determina la condotta in funzione di una concezione ideologica attinente alla struttura dei poteri dello Stato e ai rapporti tra Stato e cittadino; mentre di considera motivo sociale quello che determina la condotta dell’agente in funzione di una visione dei rapporti umani, che non si riflette necessariamente sulla struttura dello Stato.

1. I delitti comuni commessi all’estero La legge italiana si applica anche ai reati comuni commessi all’estero, sia da cittadini che da stranieri. Condizione comune è che l’autore sia presente nel territorio italiano, almeno nel momento in cui viene esercitata l’azione penale. In particolare: a) delitti comuni commessi dal cittadino all’estero: per l’art. 9 è punito secondo la legge italiana il cittadino che commette in territorio estero un delitto, a danno dello Stato o di un cittadino italiano, per il quale la legge preveda l’ergastolo o la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni - oppure - un delitto a danno di uno Stato estero o di uno straniero per il quale siano previste le pene suddette e sempre che, ci sia la richiesta del Ministro e non sia stata concessa l’estradizione; b) delitti comuni commessi dallo straniero all’estero. Per l’art. 10 è punito secondo la legge italiana lo straniero che commette in territorio estero un delitto a danno dello Stato o di un cittadino italiano per il quale sia prevista la pena dell’ergastolo o la reclusione non inferiore nel minimo ad un anno, sempre che vi sia richiesta del Ministro ovvero istanza o querela della persona offesa - oppure - un delitto a danno di uno Stato o un cittadino estero, per il quale sia prevista la pena dell’ergastolo o la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni sempre che ci sia la richiesta del Ministro e non sia stata concessa l’estradizione.

1. Il rinnovamento del giudizio L’art. 11 dispone che il cittadino o lo straniero, che sia stato giudicato all’estero, deve essere nuovamente giudicato in Italia. Le sentenze straniere non hanno alcuna efficacia preclusiva di un nuovo giudizio in Italia e, a fortiori, non hanno alcuna efficacia esecutiva. Tuttavia, al fine di adeguare il diritto penale italiano alla personalità eticocriminologica del delinquente, l’art. 12 ammette il riconoscimento della sentenza straniera per fini secondari e precisamente: 1. per stabilire la recidiva o un altro effetto penale della condanna; 2. quando la condanna comporterebbe per la legge italiana una pena accessoria; 3. quando secondo la legge italiana si dovrebbe sottoporre la persona interessata a misure di sicurezza personali; 4. quando la sentenza straniera comporta effetti civili. Il riconoscimento presuppone le seguenti condizioni: 1. che si tratti di un delitto; 2. che esista con lo Stato interessato un trattato di estradizione; 3. che se tale trattato non esiste vi sia richiesta del ministro della Giustizia.

LA COLLABORAZIONE INTERNAZIONALE CONTRO IL CRIMINE 1. L’estradizione E’ la consegna di un individuo da parte di uno Stato ad altro Stato, al fine della sottoposizione di esso alla giurisdizione penale dello Stato richiedente. E’ prevista esclusivamente da norme convenzionali, quali la Convenzione europea di Parigi del 13 dicembre 1957 e disciplinata nell’ambito dei singoli ordinamenti interni. Lo Stato italiano la distingue in attiva (quando esso è il richiedente) e passiva (quando il richiedente è uno Stato estero), ponendo la condizione per quest’ultima che il fatto che forma oggetto della domanda sia previsto come reato sia dalla legge straniera che da quella italiana. Per quanto concerne la disciplina codicistica dell’estradizione verso l’estero (passiva) si può affermare che essa contempla le ipotesi della condanna irrevocabile o del provvedimento


cautelare comportanti limitazioni o privazioni della libertà personale: in base a ciò appare evidente la non applicabilità delle garanzie per procedimenti o provvedimenti non incidenti sulla libertà personale, adottati da autorità estere nei riguardi di persone, cittadini o stranieri che siano, presenti in Italia. In dottrina si registra comunemente l’affermazione secondo cui la procedura di estradizione passiva avrebbe carattere misto: amministrativo e giurisdizionale. La fase di carattere più strettamente amministrativo è di competenza del Ministro di grazia e giustizia: è a questo soggetto, infatti, che spetta l’iniziale potere di impulso, costituito dalla presentazione della domanda estera di estradizione al procuratore generale presso la Corte di appello, individuato in base alla residenza, dimora o domicilio del condannato da sottoporre a estradizione. Il procuratore generale, compiuti i necessari accertamenti preliminari sulla base del fascicolo pervenuto dall’estero, presenta la sua requisitoria alla corte (art. 703 c.p.p.). Da questo momento in avanti ha inizio la fase giurisdizionale nella quale saranno pienamente tutelati i diritti della difesa (art. 701 c.p.p.). Infatti, compito della corte è in primo luogo verificare se all’attività di estradizione sono di ostacolo principi fondamentali in materia di reati politici o lesioni di diritti fondamentali della persona. A questo scopo si procederà ad un’apposita udienza, in camera di consiglio, con la presenza necessaria di un difensore (eventualmente d’ufficio) e del p.m., dello stesso estradando e del rappresentante dello Stato richiedente (la presenza di questi ultimi due soggetti non è però obbligatoria). La corte emetterà sentenza favorevole o contraria all’estradizione e contro di essa potrà presentarsi ricorso per Cassazione (art. 706 c.p.p.). C’è da rilevare come la decisione favorevole possa comportare anche l’immediata riduzione in vinculis dell’estradando. Per quanto concerne il procedimento di estradizione passiva è necessario sottolineare che la sentenza favorevole del giudice ha valore di condizione necessaria ma non sufficiente per l’estradizione, costituendo in pratica una semplice autorizzazione per il Ministro: infatti spetterà poi a costui adottare la decisione finale entro un limite temporale prefissato, ed eventualmente curare la consegna dell’interessato allo Stato estero. C’è da notare infine che la estradizione concessa risulta vincolata al c.d. principio di specialità: essa infatti vale solo per il fatto per cui è stata concessa ed è ostativa a restrizioni di libertà (cautelari o definitive) per altra causa. Passando ora ad analizzare la c.d. estradizione attiva o dall’estero, si può ribadire che essa mira a conseguire la disponibilità fisica dell’estradato su richiesta del nostro Stato, tramite un procedimento di tipo amministrativo: in Italia non è infatti previsto un procedimento preventivo di garanzia giurisdizionale a favore dell’estradando, dal momento che questi potrà eventualmente valersi di un simile beneficio tramite le apposite garanzie estere. Trattandosi di scelte che possono basarsi su valutazioni politiche attinenti a rapporti internazionali spetterà al Ministro per la giustizia formulare la richiesta di estradizione o differirne la presentazione, anche se richiesto dall’autorità giudiziaria, e accettare o meno le condizioni eventualmente apposte dallo Stato estero. Anche per l’estradizione in Italia dall’estero vige il limite dell’esperibilità in correlazione all’espiazione di pena detentiva in forza di sentenza irrevocabile o all’esecuzione di una misura di custodia cautelare detentiva. Infine c’è da rilevare che anche per l’estradizione attiva vige il c.d. principio di specialità con il conseguente divieto di riduzione in vinculis per ipotesi di reato differenti da quelle previste nella estradizione conseguita.

1. I limiti dell’estradizione L’estradizione sottostà a particolari limiti, attinenti al soggetto, al reato, alla pena e al trattamento. In particolare: a) l’estradizione del cittadino può essere consentita soltanto ove sia espressamente prevista dalle convenzioni internazionali; b) non può essere concessa l’estradizione per i delitti politici; c) molte convenzioni escludono la estradizione per i reati militari e fiscali; d) non può essere concessa l’estradizione per un paese in cui vige la pena di morte se lo stesso paese non dà sufficienti assicurazioni sul fatto che la pena capitale non sarà applicata; e) può non concedersi l’estradizione se esiste il fondato timore che il soggetto possa essere sottoposto a trattamenti disumani.

IL DIRITTO INTERNAZIONALE PENALE 1. La nozione e l’evoluzione Si parla di diritto internazionale penale per designare quel complesso di norme del diritto internazionale generale, che sanciscono la responsabilità penale degli individui per quei fatti che turbano l’ordine pubblico internazionale e costituiscono crimini contro il diritto delle genti. Tali crimini internazionali sono:


a) i crimini contro la pace; b) i crimini di guerra (sia per quanto riguarda le regole da seguirsi in combattimento, sia per la protezione delle popolazioni civili); c) i crimini contro l’umanità.

IL DIRITTO PENALE AMMINISTRATIVO 1. La nozione Il sistema del diritto punitivo si sta sempre più articolando sul doppio binario dei due sottosistemi del diritto penale in senso stretto e del diritto penale amministrativo. Fonte di questa nuova branca del diritto è costituita dalla L. 689/81 che prevede appunto gli illeciti perseguiti con la “sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro”, siano essi o meno illeciti amministrativi da decriminalizzazione.

1. Il principio di legalità Anche in materia di diritto penale amministrativo tale principio si articola nei sottostanti principi: 1. della riserva di legge, non solo statale ma anche regionale e delle province di Trento e Bolzano; 2. della irretroattività; 3. della tassatività-determinatezza.

1. Il fatto illecito Rispetto all’illecito amministrativo si è avvertita la duplice esigenza di individuare i criteri distintivi tra illecito penale e illecito amministrativo e di determinare la struttura dell’illecito amministrativo. Quanto all’elemento oggettivo, ci si può tendenzialmente richiamare alla teoria generale dell’illecito penale per ciò che riguarda sia gli elementi positivi, sia gli elementi negativi. Quanto all’elemento soggettivo, la legge del 1981, eliminando il dubbio che l’illecito penale amministrativo fosse imputabile obiettivamente secondo un principio tradizionalmente affermato per l’illecito amministrativo in genere, ha anche per esso espressamente previsto come essenziale l’elemento psicologico. Circa le forme di manifestazione dell’illecito amministrativo, si può rilevare: 1. che la legge del 1981 non ha provveduto né ad una tipizzazione di circostanze comuni, né ad una disciplina delle circostanze, per cui circostanze del tipo di quelle degli artt. 61 e 62 potranno rilevare solo ai fini della commisurazione in concreto della pena pecuniaria amministrativa; 2. che tale legge non prevede la punibilità del tentativo; 3. che, per quanto riguarda il problema della univocità o pluralità di illeciti amministrativi, occorre anche qui distinguere tra il problema della violazione una sola volta o più volte della stessa norma e il problema della violazione di una sola norma o più norme diverse che vanno risolte alla stregua della disciplina penalistica; 4. che tale legge ha previsto la punibilità del concorso di persone nell’illecito amministrativo, adottando anche qui opportunamente il principio della pari responsabilità.

1. L’autore Il diritto penale amministrativo si incentra non sul sistema del doppio binario, ma sul solo principio della responsabilità personale. Rinviando a quanto già esposto per la imputabilità penale, va qui precisato: 1. che la minore età prevista come causa di esclusione della imputabilità è elevata a 18 anni; 2. che la assoggettabilità alla pena amministrativa non è esclusa dalla incapacità preordinata o dovuta a colpa; 3. che per l’illecito amministrativo commesso dal non imputabile risponde chi era tenuto alla sorveglianza del medesimo, salvo che provi di non avere potuto impedire il fatto.

1. La sanzione Nel disciplinare l’aspetto sanzionatorio dell’illecito amministrativo, la legge del 1981 ha previsto due tipi di sanzioni: 1. la pena amministrativa pecuniaria quale sanzione principale, consistente nel pagamento di


una somma di denaro che deve essere contenuta entro limiti edittali minimi e massimi, non potendo essere inferiore a L. 4.000 né superiore a L. 20.000.000. 2. le sanzioni amministrative accessorie, costituite: a) dalle originarie sanzioni penali accessorie; b) dalla confisca amministrativa; c) dalle sanzioni amministrative accessorie previste per specifici illeciti, consistenti nella confisca del veicolo o natante e nella sospensione della licenza. Quanto ai criteri per la commisurazione della pena amministrativa pecuniaria e per l’applicazione delle pene accessorie facoltative, la legge del 1981 ha disposto che bisogna avere riguardo: a) alla gravità dell’illecito; b) all’opera svolta dall’agente per la eliminazione o attenuazione delle conseguenze dell’illecito; c) alla personalità dello stesso; d) alle sue condizioni economiche. La morte del trasgressore comporta l’estinzione della sanzione amministrativa con la relativa intrasmissibilità agli eredi di pagare la pena pecuniaria. Circa la prescrizione del diritto a riscuotere la somma dovuta per le violazioni commesse, il termine è di 5 anni dal giorno della commissione delle medesime.

1. I rapporti tra illecito penale e illecito amministrativo Il problema dei rapporti tra illecito penale e illecito amministrativo va correttamente impostato e risolto distinguendo tra: 1. il concorso di norme sull’illecito penale e sull’illecito amministrativo di natura eterogenea dove entrambe le norme devono trovare applicazione perché nessuna delle due esaurisce integralmente l’intero disvalore del fatto e le diverse finalità da esse perseguite; 2. il concorso di norme sull’illecito penale e sull’illecito amministrativo di natura omogenea, stante la primaria finalità punitiva delle rispettive sanzioni, il quale sottostà al generale principio del ne bis in idem sostanziale. La legge del 1981 ha quindi espressamente sancito: a) la prevalenza, come regola, della norma speciale, sia essa penale o amministrativa; b) la prevalenza, come eccezione, della norma penale, anche se generale, sulle concorrenti norme amministrative regionali o delle province autonome: ciò per evitare che il legislatore regionale incida direttamente sulla legislazione penale, con violazione della riserva di legge statuale in campo penale; c) la prevalenza altresì delle norme penali generali degli artt. 5, 6, 9, 13 L. 283/62 sulla disciplina igienica degli alimenti anche quando i fatti stessi siano puniti da disposizioni amministrative sostituenti disposizioni penali speciali.


APPENDICE Caratteri specifici delle contravvenzioni Il carattere contravvenzionale di un reato rileva sotto diversi profili: • come detto, le contravvenzioni sono punite con le pene dell’arresto o dell’ammenda (congiunte o disgiunte); • la procedibilità è d’ufficio; • la competenza è del Pretore (salve alcune ipotesi previste da leggi speciali); • non è consentito l’arresto in flagranza, né il fermo, né l’applicazione di misure cautelari personali; • ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo, sono di norma sufficienti, indifferentemente sia il dolo che la colpa; • il tentativo non è configurabile; • per il concorso di persone nelle contravvenzioni, mentre da un lato si ritiene pacifica l’ammissibilità del concorso nelle contravvenzioni dolose, da un altro nascono problemi per le contravvenzioni colpose; • sono applicabili l’oblazione e la sospensione condizionale della pena; • è possibile la dichiarazione di abitualità nelle contravvenzioni; • non si applicano alcune circostanze riferite espressamente dal legislatore ai soli delitti; • i termini di prescrizione sono fissati dall’art. 157 cp in tre o due anni, salvo l’aumento previsto dall’art. 160, a seconda che la pena sia l’arresto o l’ammenda; • la pena dell’arresto può essere scontata interamente in regime di semilibertà; • per tutte le contravvenzioni punibili con l’arresto sono, in generale, applicabili le sanzioni sostitutive previste dalla L. 689/81; • il riconoscimento della sentenza straniera è possibile solo per i delitti e non per le contravvenzioni.


INDICE GENERALE INTRODUZIONE 1. 2. 3. 4.

I tre aspetti del diritto penale moderno Il fatto criminoso La personalità dell’autore Le conseguenze penali

I DIVERSI TIPI DI DIRITTO PENALE 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.

Il diritto penale dell’oppressione Il diritto penale del privilegio Il diritto penale della libertà. Il principio di frammentarietà La costituzione e il nuovo diritto penale Gli aspetti autoritari del codice penale Gli aspetti anacronistici del codice penale Le riforme effettuate e preannunciate

IL PRINCIPIO DI LEGALITA’ 12. 13. 14. 15. 16. 17.

La legalità formale La legalità sostanziale I vantaggi e gli inconvenienti La concezione formale del reato La concezione sostanziale del reato La concezione sostanziale-formale adottata dalla Costituzione

IL PROBLEMA DELLA SCIENZA PENALE 18. 19. 20.

Cenni storici Gli indirizzi formalistici e sostanzialistici La situazione attuale della scienza penale

IL PRINCIPIO DELLA RISERVA DI LEGGE 21. 22. 23. 24. 25. 26.

Il problema delle fonti, formali e sostanziali La funzione della riserva di legge La consuetudine La riserva relativa e assoluta Le fonti del diritto penale italiano I principali testi legislativi

IL PRINCIPIO DI TASSATIVITA’ 27. 28. 29. 30. 31.

La funzione della tassatività La determinatezza della fattispecie L’analogia L’analogia a sfavore del reo L’analogia a favore del reo

IL PRINCIPIO DI IRRETROATTIVITA’ 32. 33. 34. 35. 36. 37.

Il problema della validità nel tempo della legge penale L’irretroattività ex art. 25 Cost. La disciplina dell’art. 2 c.p. Le leggi temporanee, eccezionali e finanziarie I decreti-legge non convertiti e le leggi dichiarate incostituzionali Il tempo del commesso reato

IL REATO 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44.

1 1 2 3

3 3 3 3 4 4 4 5

5IL PROBLEMA DELLA LEGALITA’6 6 6 6 6 7 7

7 7 7 8

8 9 9 9 9 11 11

12 12 12 13 13 13

13 13 14 14 15 15 16

16L’ANALISI DEL REATO18 Sistemi penali oggettivi, soggettivi, misti La concezione analitica e la concezione unitaria del reato La tripartizione e la bipartizione del reato L’antigiuridicità formale e l’antigiuridicità sostanziale Il soggetto attivo del reato Il problema delle persone giuridiche I responsabili negli enti e imprese

IL PRINCIPIO DI MATERIALITA’ LA CONDOTTA 45. 46. 47.

1IL DIRITTO PENALE1

Il principio di materialità e il principio di soggettività La condotta in generale L’azione

18 19 19 19 20 20 20

21 21 21 22 22


48. 49.

L’omissione I presupposti e l’oggetto materiale della condotta

L’EVENTO 50. 51.

La concezione naturalistica La concezione giuridica

IL RAPPORTO DI CAUSALITA’ 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59.

Il problema della causalità Le teorie della causalità naturale, adeguata, umana La causalità scientifica La causalità nel codice Il caso fortuito e la forza maggiore La causalità dell’omissione L’obbligo di impedire l’evento Gli obblighi di protezione e di controllo

IL PRINCIPIO DI OFFENSIVITA’ L’OGGETTO GIURIDICO E L’OFFESA 60. 61. 62. 63. 64. 65. 66. 67. 68. 69. 70. 71.

Il reato come offesa o come disubbidienza Il reato come “fatto offensivo tipico” secondo la Costituzione La necessaria offensività del reato secondo l’art. 49/2 c.p. L’oggetto giuridico del reato La funzione politico-garantista dell’oggetto giuridico I valori costituzionali come oggettività giuridica primaria La funzione dogmatico-interpretativa dell’oggetto giuridico L’offesa del bene giuridico La funzione politico-garantista dell’offesa I reati senza bene giuridico I reati senza offesa Il momento consumativo del reato

IL SOGGETTO PASSIVO DEL REATO 72. 73. 74. 75.

La nozione La rilevanza del soggetto passivo nella politica criminale La rilevanza criminologica del soggetto passivo. La vittimologia La rilevanza giuridico-penale del soggetto passivo

LE SCRIMINANTI 76. 77. 78. 79. 80. 81. 82. 83. 84.

La definizione e il fondamento L’adempimento del dovere L’esercizio del diritto Il consenso dell’avente diritto La legittima difesa Lo stato di necessità L’uso legittimo delle armi Il problema delle scriminanti tacite La disciplina delle scriminanti

IL PRINCIPIO DI SOGGETTIVITA’ LA COLPEVOLEZZA 85. 86. 87. 88. 89. 90. 91.

L’evoluzione della responsabilità penale La colpevolezza in senso psicologico e in senso normativo La colpevolezza in senso personale Il principio costituzionale della responsabilità personale Colpevolezza e imputabilità Colpevolezza e conoscenza del disvalore del fatto L’inesigibilità

LA “SUITAS” DELLA CONDOTTA 92. 93. 94.

23 24 24

25 27 27 27 28 28 29 29 29

30 30 30 30 30 31 31 31 32 32 34 34 35 36

36 36 36 37 37

38 38 38 39 39 40 40 41 42 42

43 43 43 43 43 44 44 44 45

45

La coscienza e volontà della condotta L’impedibilità della condotta La esclusione della “suitas” della condotta

45 46 46

La nozione La struttura del dolo L’oggetto del dolo L’accertamento del dolo Le forme del dolo L’intensità del dolo

46 46 47 47 48 48

IL DOLO 95. 96. 97. 98. 99. 100.

23 23

46

LA COLPA

48


101. 102. 103. 104. 105.

La nozione La mancanza di volontà del fatto L’inosservanza delle regole di condotta L’attribuibilità dell’inosservanza all’agente Le forme e il grado della colpa

LA PRETERINTENZIONE 106.

La definizione e la struttura

L’ELEMENTO SOGGETTIVO NELLE CONTRAVVENZIONI 107.

La particolare disciplina dell’art. 42/4 c.p.

LE CAUSE DI ESCLUSIONE DELLA COLPEVOLEZZA 108. 109. 110. 111. 112. 113. 114.

L’errore in generale Il problema dell’errore L’errore sul precetto dovuto ad errore su legge penale o extrapenale L’errore sul fatto dovuto ad errore di fatto L’errore sul fatto dovuto ad errore su legge extrapenale Il reato putativo L’aberratio

LA RESPONSABILITA' OGGETTIVA 115. 116. 117.

La nozione I reati qualificati dall’evento I reati di stampa

LE FORME DI MANIFESTAZIONE DEL REATO IL REATO CIRCOSTANZIATO 118. 119. 120. 121. 122. 123. 124. 125.

Le circostanze L’individuazione delle circostanze La classificazione delle circostanze Le aggravanti comuni Le attenuanti comuni Le c.d. attenuanti generiche L’imputazione delle circostanze Il concorso di circostanze

IL DELITTO TENTATO 126. 127. 128. 129. 130. 131. 132. 133. 134. 135. 136. 137. 138.

L’iter criminis Il problema della punibilità del tentativo Il problema dell’inizio del tentativo punibile La soluzione del nostro codice L’elemento soggettivo L’elemento oggettivo La necessaria pericolosità del tentativo La idoneità degli atti La univocità degli atti Il tentativo nei singoli delitti Il delitto tentato circostanziato e circostanziato tentato La desistenza e il recesso volontari Il reato impossibile

L’UNITA' E LA PLURALITA' DI REATI 139. 140. 141. 142. 143. 144. 145. 146. 147. 148. 149. 150.

Il concorso di reati Il concorso materiale e il concorso formale Il problema della unità e pluralità di reati Il concorso apparente di norme Le teorie monistiche e pluralistiche Il principio del ne bis in idem La norma prevalente I reati a struttura complessa Il reato complesso L’antefatto e il postfatto non punibili e la progressione criminosa Il reato continuato Il reato abituale

IL CONCORSO DI PERSONE NEL REATO 151. 152. 153. 154. 155.

Il fondamento della punibilità del concorso Il problema della responsabilità dei concorrenti L’elemento oggettivo: la pluralità di agenti La realizzazione di un reato Il contributo dei concorrenti

48 49 50 50 51

52 52

52 52

53 53 53 53 54 54 55 55

56 56 56 57

58 58 58 58 59 59 60 61 61 61

61 61 62 62 63 63 63 64 64 65 65 66 66 67

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75 75 76 77 77 77


156. 157. 158. 159. 160. 161. 162.

L’elemento soggettivo: il concorso doloso Il concorso colposo La responsabilità del concorrente per il reato diverso Il concorso nel reato proprio e il mutamento del titolo di reato Le circostanze del concorso La comunicabilità delle circostanze e delle cause di esclusione della pena Il reato (necessariamente) plurisoggettivo

LA PERSONALITA’ DELL’AUTORE 163. 164. 165. 166. 167. 168.

Il fatto e l’autore La scuola classica e il diritto penale della responsabilità La scuola positiva e il diritto penale della pericolosità La terza scuola e il sistema dualistico della responsabilità-pericolosità La nuova difesa sociale e la responsabilità come espressione della personalità Il sistema dualistico del diritto penale italiano

IL PROBLEMA DELLE CAUSE DELLA CRIMINALITA’ 169. 170. 171. 172. 173. 174. 175.

L’indirizzo individualistico biologico L’indirizzo individualistico psichiatrico L’indirizzo individualistico psicogenetico L’indirizzo individualistico psicosociale L’indirizzo sociologico L’indirizzo multifattoriale La classificazione dei delinquenti

IL DELINQUENTE RESPONSABILE 176. 177. 178. 179. 180. 181. 182.

La libertà morale condizionata L’imputabilità La capacità di intendere e di volere La incapacità procurata La responsabilità e la capacità a delinquere La duplice funzione della capacità a delinquere La recidiva

IL DELINQUENTE IRRESPONSABILE 183. 184. 185. 186. 187.

Le cause di esclusione o diminuzione della imputabilità La minore età Il sordomutismo Il vizio di mente L’azione dell’alcool e degli stupefacenti

IL DELINQUENTE PERICOLOSO 189. 190. 191.

L’accertamento della pericolosità Il delinquente abituale, professionale, per tendenza Il riesame della pericolosità

LE CONSEGUENZE DEL REATO 192. 193. 194. 195. 196. 197.

Le posizioni ottimistiche, pessimistiche e realistiche La prevenzione generale La prevenzione speciale Il problema del trattamento La realtà e i miti del trattamento Il nostro sistema dualistico

LA PENA 198. 199. 200. 201. 202. 203. 204. 205. 206. 207. 208. 209. 210.

78 79 80 81 81 82 83

83CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE8 83 84 85 85 86 86

86 86 87 87 88 88 89 89

90 90 90 90 91 92 92 92

93 93 93 94 94 94

95188. 96 96 97

98IL PROBLEMA DELLA DIFESA CON 98 98 99 99 99 99

100 La nozione di pena Il fondamento della pena La pena secondo la Costituzione I tipi di pena nei sistemi differenziati I tipi di pena nel nostro diritto Le pene accessorie Il problema della commisurazione della pena La soluzione dell’art. 133 c.p. Gli aumenti e le diminuzioni di pena Il concorso di pene Gli effetti penali L’esecuzione della pena La disciplina dell’esecuzione

La pericolosità criminale95

100 100 101 102 102 104 105 105 105 106 107 107 107


LA PUNIBILITA’ E LE CAUSE DI ESCLUSIONE E DI ESTINZIONE 211. 212. 213. 214. 215. 216. 217. 218. 219. 220. 221. 222. 223. 224.

Le condizioni oggettive di punibilità Le cause di esclusione della pena. Le immunità Le cause di estinzione della punibilità La morte del reo e la prescrizione L’amnistia L’indulto La grazia La sospensione condizionale della pena Il perdono giudiziale La liberazione condizionale L’oblazione La riabilitazione La non menzione della condanna La cause sospensive ed estintive della pena nell’ordinamento penitenziario

LE MISURE DI SICUREZZA 225. 226. 227. 228. 229. 230.

La nozione Le misure di sicurezza secondo la Costituzione Le misure di sicurezza personali detentive Le misure di sicurezza personali non detentive Le misure di sicurezza patrimoniali L’applicazione e l’esecuzione

LE MISURE DI PREVENZIONE LE CONSEGUENZE CIVILI 231. 232. 233. 234. 235.

Le obbligazioni verso la vittima del reato I rapporti tra reato e danno risarcibile Le obbligazioni verso lo Stato Le garanzie per le obbligazioni civili Le obbligazioni civili per le pene pecuniarie

107 107 108 109 110 111 112 112 112 113 114 114 115 115 116

116 117 118 119 120 120 120

121 122 123 123 123 123 124

I PROBLEMI INTERNAZIONALI DEL DIRITTO PENALE 124IL DIRITTO PENALE INTERNAZIONALE 124 236.

La nozione

I LIMITI DI APPLICAZIONE DELLA LEGGE PENALE NAZIONALE 237. 238. 239. 240. 241. 242.

I principi di universalità, di territorialità, di personalità, di difesa Il principio di territorialità quale principio base del nostro codice Le deroghe: i reati commessi all’estero punibili incondizionatamente I delitti politici commessi all’estero I delitti comuni commessi all’estero Il rinnovamento del giudizio

LA COLLABORAZIONE INTERNAZIONALE CONTRO IL CRIMINE 243. 245.

L’estradizione I limiti dell’estradizione

IL DIRITTO INTERNAZIONALE PENALE 247.

La nozione e l’evoluzione

IL DIRITTO PENALE AMMINISTRATIVO 252. 253. 254. 255. 256.

Il principio di legalità Il fatto illecito L’autore La sanzione I rapporti tra illecito penale e illecito amministrativo

124

125 125 125 125 125 126 126

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128 128

128251. 128 128 129 129 130

La nozione128


DIRITTO PENALE Parte speciale



DELITTI CONTRO LA PERSONALITA’ DELLO STATO NOZIONI GENERALI Al primo posto, nella gerarchia dei beni protetti nella parte speciale del codice penale, il legislatore del ’30 ha collocato i delitti politici, intitolandoli “delitti contro la personalità dello Stato”. Più in particolare, il titolo primo del libro secondo ricomprende a sua volta, nella predetta intitolazione, cinque capi così distinti: 1) Delitti contro la personalità internazionale dello Stato (art. 241 a 275); 2) Delitti contro la personalità interna dello Stato (art. 276 a 293); 3) Delitti contro i diritti politici del cittadino (art. 294); 4) Delitti contro gli Stati esteri, i loro Capi e i loro rappresentanti (art. 295 a 300); 5) Disposizioni generali e comuni ai capi precedenti (301 a 313). Una tale scelta sistematica sottintende una corrispondente opzione di valore. Collocando al primo posto la tutela della personalità dello Stato, il codice Rocco ha voluto anche simbolicamente evidenziare l’importanza prioritaria che la tutela penale dello Stato rivestiva specie nell’ambito della concezione fascista allora dominante. Le maggiori innovazioni legislative sono frutto della legislazione dell’emergenza emanata per fronteggiare la criminalità terroristica dilagante nel nostro paese sul finire degli anni settanta. Vengono introdotte nel codice le seguenti nuove fattispecie di reato: • Sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione dell’ordine (art. 289 bis); • Associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico (art. 270 bis); • Attentato per finalità terroristiche o di eversione (art. 280). Lo Stato ha inteso innanzitutto rassicurare la collettività circa la volontà politica di combattere efficacemente il terrorismo ; nello stesso tempo, lo Stato democratico ha voluto munirsi di strumenti repressivi diversi dalle fattispecie del codice Rocco. Le novità sono risultate più di forma che di sostanza.

I DELITTI DI ATTENTATO Il delitto di attentato prende anche il nome di delitto a consumazione anticipata: il reato è cioè perfetto già in presenza del fatto diretto a realizzare l’obbiettivo preso di mira, senza che ne sia necessario l’effettivo conseguimento. Il codice penale non contiene una disciplina generale della figura in esame, limitandosi a prevedere singole ipotesi di attentato soprattutto nell’ambito dei delitti contro la personalità dello Stato. Le fattispecie di attentato sono tornate al centro del dibattito penalistico a seguito della loro riscoperta applicativa sul finire degli anni cinquanta e, più di recente, nel contesto dell’emergenza terroristica. Tale riscoperta ha finito con il riproporre le obiezioni che da sempre il delitto in esame aveva suscitato. Tali obiezioni si riferiscono soprattutto all’originario modello storico di attentato, quale fattispecie criminosa diretta a reprimere remoti atti preparatori lontani dalla soglia di punibilità del tentativo: l’illiberalità insita in questa fattispecie deriverebbe, appunto, dalla sua attitudine a incriminare proposito delittuosi non ancora tradotti in fatti oggettivamente idonei a minacciare gli obbiettivi presi di mira. La riscoperta del principio di idoneità ex art. 49 comma 2 ed il riconoscimento del suo carattere di generalissimo principio informatore della struttura di tutte le fattispecie incriminatrici, non potevano non avere come conseguenza il rifiuto delle incriminazioni poggiate su una mera direzione soggettiva della volontà. Di qui la ritenuta esigenza di ricostruire le stesse fattispecie di attentato, arricchendole del requisito non scritto della idoneità: l’espressione “fatto diretto a” diventa “fatto idoneo diretto a”. è però da escludere che attraverso l’introduzione di un simile correttivo sia raggiungibile un livello ottimale di garanzia. E ciò perché la gran parte delle fattispecie di attentato contenute nell’ordinamento positivo sono incentrate su eventi di così grandi proporzioni, da rendere problematico il giudizio circa l’idoneità delle singole condotte incriminabili a provocarne la verificazione.

DELITTI DI ASSOCIAZIONE POLITICA Un’importante modello delittuoso tipico del diritto penale politico è quello del reato associativo. Nel nostro ordinamento, la legittimità costituzionale del reato associativo è subordinata ad alcune irrinunciabili condizioni. Posto innanzitutto che la Costituzione tutela la libertà di associazione, il legislatore penale non può mai criminalizzare fatti che costituiscono libero esercizio del diritto di associarsi. I criteri di una legittima criminalizzazione di fatti associativi non possono, perciò, che essere dedotti dai limiti che lo stesso art. 18 Cost. pone alla libertà associativa: detta disposizione invero subordina il diritto di associazione al perseguimento di “fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale” e, inoltre, proibisce “le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare”. Ne consegue che sono legittimamente incriminabili: • Le associazioni che perseguono un programma criminoso; • Le associazioni che perseguono scopi leciti mediante mezzi vietati. Alla stregua del principio della personalità della responsabilità penale, il legislatore è tenuto a costruire la fattispecie in modo tale che ciascun associato sia chiamato a rispondere nei limiti del contributo personalmente arrecato all’associazione. Nell’ambito della normativa penale vigente, il modello del reato associativo si articola in maniera diversificata, in funzione della tecnica di tipizzazione utilizzata dal legislatore. Alcune ipotesi di reato presentano una struttura essenziale e scarna, perché ruotano fondamentalmente attorno al mero fatto associativo. Altre fattispecie specificano meglio le caratteristiche dell’apparato strumentale di cui l’associazione deve dotarsi per raggiungere gli obbiettivi perseguiti: ad es. la nuova fattispecie dell’associazione segreta introdotta con la legge n. 17 dell’82 tipicizza le modalità di svolgimento delle attività sociali; analogamente l’art. 416 bis tipicizza il metodo mafioso. Proprio queste fattispecie incriminatrici caratterizzate dalla tipizzazione più dettagliata degli elementi strutturali del reato associativo, sono quelle che meglio si conformano ai principi costituzionali in materia penale. Essendo irrealistica la prospettiva di una completa abolizione dei reati associativi in sede di riforma dell’attuale sistema penale, è auspicabile che il futuro legislatore ne perfezioni la


struttura arricchendola il più possibile di elementi che ne incrementino il livello di determinatezza e l’attitudine offensiva. Nel tipizzare le condotte associative, il legislatore è solito utilizzare una tecnica incriminatrice imperniata sulla distinzione tra attività di rango superiore e attività di semplice partecipazione. I ruoli di rango superiore ricomprendono, a loro volta, le seguenti attività: promozione, costituzione, organizzazione, direzione. Tali attività, punite con sanzione equivalente e comunque più grave rispetto alla semplice partecipazione, configurano di regola rispetto a quest’ultima un titolo autonomo. È promotore colui il quale prende l’iniziativa per la creazione dell’associazione, portando a conoscenza dei terzi il programma sociale. È costitutore chi crea l’associazione, facendola venire a esistenza nel mondo esterno mediante il reclutamento del personale e il reperimento dei mezzi. Si definisce ancora organizzatore colui il quale fornisce una struttura operativa al sodalizio criminoso, agendo con autonomo potere decisionale. È infine direttore chi svolge funzioni di guida e di gestione. Controversa è la figura di partecipazione. Tale nozione ha un indubbio contenuto minimo e carattere psicologico, consistente nella coscienza e volontà di essere membro dell’associazione criminosa e di farne proprie le finalità e gli obbiettivi. Di solito la giurisprudenza definisce il contenuto della partecipazione in forma negativa, e cioè includendo in tale concetto tutti i comportamenti diversi dalla promozione, costituzione e organizzazione. Così ad es. si è sostenuto che è partecipe colui che svolge compiti meramente esecutivi e non rilevanti ai fini della vita e della sopravvivenza dell’associazione sovversiva o colui che svolge attività perfettamente fungibile, priva di rilevanza risolutiva nella struttura dell’organizzazione. Correttamente intesa, la condotta di partecipazione implica la realizzazione di attività materiali, di ordine esecutivo, finalizzate alla sopravvivenza della associazione e/o al perseguimento degli scopi sociali. Uno dei nodi cruciali dell’intera problematica dei reati associativi riguarda il rapporto tra il fatto dell’appartenenza all’associazione ed il concorso nei reati oggetto del programma dell’associazione criminosa. Si tratta di stabilire se la partecipazione alla deliberazione del programma sociale criminoso implichi per ciò solo la responsabilità per i singoli delitti programmati. Dottrina e giurisprudenza sono tendenzialmente orientate ad escluderlo, ritenendo insufficiente la semplice partecipazione alla associazione ai fini della responsabilità concorsuale. Una corretta impostazione del problema non può partire dalla semplice appartenenza all’associazione, ma dall’attività svolta all’interno dell’associazione. Leggere articoli 270, 270 bis, 271, 304, 305, 306 e 307.

DELITTI CONTRO I SEGRETI DI STATO Il legislatore del ’30, in conformità con l’ideologia fascista, volle tutelare sia la sicurezza dello Stato sia tutti gli altri interessi politici fondamentali, dalla saldezza economica al migliore assetto sociale della nazione. Il codice razionalizza e completa la tutela delle notizie riservate, già introdotta con la legislazione speciale in epoca prossima all’entrata dell’Italia nel primo conflitto mondiale, con l’obbiettivo di vietare la divulgazione di notizie attinenti alla forza, alla preparazione o alla difesa militare dello Stato. La distinzione tra le notizie segrete e le notizie riservate è il perno della originaria disciplina codicistica. Le notizie segrete costituiscono il segreto di Stato in senso stretto. Il segreto può essere sia politico che militare. Le notizie riservate sono invece quelle che, pur conosciute da un numero indeterminato di persone, non devono essere divulgate per decisione della competente autorità amministrativa, sia centrale che periferica. La disciplina del codice è stata riformata, ancorché non integralmente ed organicamente, con la legge n. 801 del 1977, che provvede a ridefinire la nozione di segreto di Stato. L’art. 12 comma 1 di questa legge statuisce che “sono coperti da segreto di Stato gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recare danno alla integrità dello Stato democratico anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, al libero esercizio delle funzioni degli organi Costituzionali, alla indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato. In nessun caso possono essere oggetto di segreto fatti eversivi dell’ordine costituzionale”. A questa definizione di segreto si deve far ora riferimento per interpretare le fattispecie del codice penale. Le singole ipotesi di reato poste a tutela del segreto si distinguono in due grandi categorie: quelle di procacciamento e quelle di divulgazione delle notizie segreti. I reati di procacciamento sono tre: il procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato, lo spionaggio politico o militare e l’agevolazione colposa. Leggere gli articoli 255, 256, 257, 258, 259, 260, 261, 262 e 263.

I DELITTI DI APOLOGIA E ISTIGAZIONE Nell’ambito dei delitti contro la personalità dello Stato, un ruolo non secondario è stato attribuito alla fattispecie di apologia e di istigazione dal legislatore del ’30. La rilevanza penale delle condotte apologetiche e istigatrici appare invece oggi assai problematica, giacché si tratta di forme di comportamento che in ogni caso interferiscono con l’esercizio del diritto alla libera manifestazione del pensiero: di qui il problema dei limiti di compatibilità tra le norme che incriminano le condotte predette e l’articolo 21 della Costituzione. La nozione di apologia è controversa già sul piano definitorio: nel linguaggio comune, il termine allude a un discorso tendente a difendere o esaltare una persona o una dottrina o un fatto. Il codice ha omesso di definire l’apologia. Di conseguenza, la determinazione della nozione giuridico-penale di apologia è rimasta affidata alla giurisprudenza, la quale ha tradizionalmente sostenuto che essa consiste in un discorso tendente a persuadere un gran numero di persone mediante l’uso di un linguaggio articolato e suggestivo: la Cassazione a Sezioni Unite, in una sentenza della fine degli anni cinquanta, è giunta addirittura a sostenere che per aversi apologia è sufficiente la formulazione di un giudizio favorevole che implichi l’approvazione convinta dell’episodio verificatosi e per conseguenza l’adesione spirituale ad esso da parte del dichiarante che lo considera come proprio. Quanto alla istigazione, essa viene solitamente definita, secondo una accezione abbastanza lata, come qualsiasi condotta diretta a eccitare, determinare, rafforzare o alimentare l’altrui risoluzione. Quanto ai rapporti tra istigazione e libera manifestazione del pensiero, vanno subito richiamate le prese di posizione della Corte Costituzionale. Nella sentenza 16/’73, la corte ha escluso che l’istigazione rappresenti una forma di manifestazione del pensiero rientrante nell’area di tutela dell’art. 21 Cost.; questa piuttosto costituirebbe “azione e diretto incitamento all’azione”, e questa sua caratteristica ne determinerebbe la illiceità. Un tale punto di vista non è però accettabile. È infatti arbitrario delimitare l’area della manifestazione del pensiero alla sola comunicazione di conoscenze astratte prive di conseguenze pratiche. Nella successiva sentenza n. 108/’74, la illiceità della istigazione è stata invece subordinata alla sua attitudine a rappresentare un “pericolo concreto”, in quanto suscettibile di provocare, attraverso l’azione sulla psiche dei destinatari, comportamenti lesivi di beni dotati di rilevanza costituzionale. Questa soluzione è più in linea con l’ispirazione di fondo dell’ordinamento democratico. Penalmente rilevante è la istigazione che, secondo un giudizio ex ante e in


concreto, si riveli idonea a commettere un determinato reato. Al fine di rendere compatibile l’incriminazione dei fatti di apologia o di istigazione con l’art. 21 Cost., la Corte Costituzionale con sentenza n. 65/’70 ha fissato il principio per cui l’apologia punibile “non è la manifestazione del pensiero pura e semplice, ma quella che per le sue modalità integri comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti”. Leggere gli articoli 266, 272, 302 e 303.

DELITTI DI VILIPENDIO POLITICO Sotto la denominazione di delitti di vilipendio politico vengono ricomprese le figure previste negli articoli 290 (vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate”, 291 (vilipendio alla nazione italiana) e 292 (vilipendio alla bandiera o ad altro emblema dello Stato) del codice penale. Si tratta di ipotesi di reato che si ispirano alla medesima ratio di tutela, quella cioè di evitare che determinate istituzioni possano essere scalfite nella loro considerazione generale e che possa essere conseguentemente pregiudicato il principio di autorità. Dal punto di vista definitorio, la nozione di vilipendio è ambigua e controversa: vilipendere equivale a “tenere a vile”, ad esprimere cioè disprezzo per una persona o per una cosa. La compatibilità dei reati di vilipendio politico con i principi fondamentali dello Stato democratico è stata contestata con una intensità e forza sempre crescenti, ed in ogni caso direttamente proporzionali alla maturazione politica che si andava conseguendo nel paese. Ma con pari energia parte della dottrina e la stessa Corte Costituzionale si sono sforzate di dimostrare che i vilipendi politici sono conformi a Costituzione, ma nessuno degli orientamenti è riuscito a dimostrarlo in modo convincente. I vilipendi non sono dunque compatibili con la libertà di manifestazione del pensiero. Questa conclusione non muta neppure se si interpreti additivamente il concetto di vilipendio con l’aggiunta dell’elemento del pericolo della disobbedienza quale effetto del disprezzo espresso (cosa che ha fatto la Corte Costituzionale con sentenza n. 20 del 1974). Negli ultimi anni si è tentato di eliminare dal nostro ordinamento penale i vilipendi politici mediante proposte di legge in senso abrogativo e richieste di referendum abrogativo. Tutte queste iniziative sono però rimaste senza esito. Leggere gli articoli 290, 291 e 292.

OFFESE AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Gli articoli da 276 a 279 incriminano alcuni comportamenti lesivi della persona del Capo dello Stato. Nella versione originaria del codice, queste fattispecie proteggevano la persona del Sovrano ma, a seguito del mutamento istituzionale, alla persona del Re è stata sostituita quella del Presidente della Repubblica. Ciò ha modificato in qualche modo il senso della tutela, la quale è oggi predisposta in considerazione della altissima funzione che svolge il Capo dello Stato quale rappresentante della suprema unità della Repubblica. L’entrata in vigore del nuovo Concordato tra l’Italia e la Santa Sede ha modificato la disciplina della tutela penale della persona del Sommo Pontefice. Ed invero, oggi la persona del Sommo Pontefice è tutelata nella sua qualità di Capo di uno Stato estero. Leggere gli articoli 276, 277, 278 e 279.

OFFESE CONTRO GLI STATI ESTERI I delitti contro gli Stati esteri, i loro Capi e rappresentanti pongono in pericolo, secondo il legislatore del ’30, la sicurezza politica e/o militare dello Stato e non già soltanto i beni personali del soggetto che riveste la carica. Partendo da questo presupposto, si è sostenuto che i fatti in essi contenuti devono essere prevenuti per impedire “le gravissime ripercussioni che possono produrre nei rapporti internazionali”. Le fattispecie di reato di cui agli articoli 295-299 tutelerebbero così un bene giuridico nazionale, mentre l’oggetto materiale sarebbe per così dire straniero. I fatti incriminati da tali articoli sono punibili solo in presenza di alcuni presupposti, e cioè: • Che siano commessi nel territorio dello Stato: si tratta di un elemento costitutivo della fattispecie; • Che vi sia la condizione di reciprocità: questa sussiste non solo quando nell’ordinamento straniero sia presente la corrispondente fattispecie, ma anche quando il fatto dia luogo ad un diverso titolo di reato ovvero integri una circostanza aggravante; • Che vi sia la richiesta del Ministro di Grazia e Giustizia (salvo che si tratti di un attentato alla vita, all’incolumità o alla libertà personale). Leggere gli articoli 297, 298 e 299.

DELITTI DI INFEDELTA’ In questa sezione sono raggruppate alcune fattispecie incriminatrici previste nei primi due capi del titolo relativo ai delitti contro la personalità dello Stato, le quali presentano una duplice comune caratteristica. Da un lato, si tratta di figure di reato genericamente ruotanti attorno al paradigma concettuale della infedeltà del cittadino nei confronti dello Stato. Dall’altro lato, le fattispecie in questione appaiono tra le più datate, appunto perché manifestamente influenzate dall’ideologia dominante in epoca fascista. Sicché, si tratta della parte più caduca dell’intera materia dei delitti politici, come è anche dimostrato dalla quasi totale mancanza di applicazioni giurisprudenziali. Leggere gli articoli da 242 a 254, da 264 a 269, 275, 287 e 288. Leggere inoltre gli articoli 289 bis e 294.

DISPOSIZIONI COMUNI Il titolo primo del libro secondo contiene norme di varia natura che possono essere considerate come disposizioni comuni a tutti i reati o ad almeno un gruppo dei reati contro la Personalità dello Stato. Una circostanza attenuante comune a tutte le fattispecie poste a tutela della Personalità dello Stato è prevista nell’art. 311, per il quale “le pene comminate per i delitti preveduti in questo titolo sono diminuite quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulta essere di lieve entità”. La misura di sicurezza personale dell’espulsione dallo Stato è prevista dall’art. 312 nei confronti dello straniero condannato a una pena restrittiva della libertà personale per taluno dei delitti contro la personalità dello Stato. La condizione di procedibilità dell’autorizzazione a procedere o della richiesta di procedimento prevista dall’art. 313 per alcuni reati che


investono gli organi Costituzionali. L’autorizzazione del Ministro per la giustizia è necessaria per procedere per i delitti di cui agli articoli 244, 245, 265, 267, 269, 277, 278, 279, 287 e 288 nonché per quelli preveduti dagli articoli 247, 248, 249, 250, 251 e 252 quando sono commessi a danno di uno Stato estero associato o alleato, a fine di guerra, allo Stato italiano. Una particolare disciplina del concorso di reati è introdotta dall’articolo 301, per il quale “quando l’offesa alla vita, alla incolumità, alla libertà o all’onore, indicata negli articoli da 276 a 278 e da 295 a 298, è considerata dalla legge come reato anche in base a disposizioni diverse da quelle contenute nei capi precedenti, si applicano le disposizioni che stabiliscono la pena più grave. Nondimeno, nei casi in cui debbono essere applicate disposizioni diverse da quelle contenute nei capi precedenti, le pene sono aumentate da un terzo alla metà. Quando l’offesa alla vita, alla incolumità, alla libertà o all’onere è considerata dalla legge come elemento costitutivo o circostanza aggravante di un altro reato, questo cessa dal costituire un reato complesso, e il colpevole soggiace a pene distinte, secondo le norme sul concorso dei reati, applicandosi, per le dette offese, le disposizioni contenute nei capi precedenti”. LA LEGISLAZIONE DELL’EMERGENZA La disciplina codicistica dei delitti contro la personalità dello Stato ha subito una serie di innesti, anche di durata determinata, ad opera della legislazione dell’emergenza agli inizi degli anni ottanta. Le circostanze attenuanti sono le tre seguenti: 1) La prima forma di dissociazione dal terrorismo è prevista dall’art. 4 della legge n. 15 del 1980, il quale così dispone: “per i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, salvo quanto disposto dall’art. 299 bis del codice penale, nei confronti del concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia e l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti, la pena dell’ergastolo è sostituita da quella della reclusione da dodici a venti anni e le altre pene sono diminuite da un terzo alla metà. Quando ricorre la circostanza di cui al comma precedente non si applica l’aggravante di cui all’art. 1 del presente decreto”. 2) La seconda forma di dissociazione dal terrorismo è disciplinata dall’art. 2 della legge n. 309 del 1982, per il quale, salvo quanto disposto dall’art. 289 bis, la pena dell’ergastolo è sostituita da quella della reclusione da quindici a ventuno anni e le altre sono diminuite di un terzo, ma non possono superare, in ogni caso, i quindici anni per gli imputati di uno o più reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale, i quali, tenendo, prima della sentenza definitiva di condanna, uno dei comportamenti previsti dall’art. 1, commi 1 e 2, rendano, in qualsiasi fase o grado del processo, piena confessione di tutti i reati commessi e si siano adoperati o si adoperino efficacemente durante il processo per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato o per impedire la commissione di reati connessi a norma del numero 2 dell’art. 61. Quando ricorrano le circostanze di cui al precedente comma non si applica l’aggravante di cui all’art. i D.L. 15 dicembre 1979, n. 625, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 6 febbraio 1980, n. 75”. 3) La terza circostanza attenuante è la c.d. fattiva collaborazione ed è prevista dall’art. 3 1. 29 maggio 1982, n. 304, per il quale, “salvo quanto disposto dall’art. 289 bis c.p., per i reati commessi per finalità di terrorismo o eversione dell’ordinamento costituzionale la pena dell’ergastolo è sostituita da quella della reclusione da dieci a dodici anni e le altre pene sono diminuite della metà, ma non possono superare, in ogni caso, i dieci anni, nei confronti dell’imputato che, prima della sentenza definitiva di condanna, tiene i comportamenti previsti dall’art. 1, primo e secondo comma, rende piena confessione di tutti i reati commessi e aiuta l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per la individuazione o la cattura di uno o più autori di reati commessi per la medesima finalità ovvero fornisce comunque elementi di prova rilevanti per l’esatta ricostruzione del fatto e la scoperta degli autori di esso. Quando i comportamenti previsti dal comma precedente sono di eccezionale rilevanza, le pene sopraindicate sono ridotte fino ad un terzo. Quando ricorrono le circostanze di cui ai precedenti commi non si applicano gli articoli 1 e 4 del D.L. 15 dicembre 1979 n. 625, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 6 febbraio 1980, n. 15”. La circostanza aggravante della finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico è stata introdotta dall’art. 1 della 1. 6 febbraio 1980, n. 15, secondo il quale “per i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, punibili con pena diversa dall’ergastolo, la pena è aumentata della metà, salvo che la circostanza sia elemento costitutivo del reato. Quando concorrono altre circostanze aggravanti, si applica per primo l’aumento di pena previsto per la circostanza aggravante di cui al comma precedente. Le circostanze attenuanti concorrenti con l’aggravante di cui al primo comma non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa ed alle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa o ne determina la misura in modo indipendente da quella ordinaria del reato”. CAUSE DI NON PUNIBILITA’ La prima causa di non punibilità prevista dalla legislazione dell’emergenza è costituita dal recesso attivo ex art. 5 della legge 1980 n. 15, per il quale, “fuori dei casi previsti dall’ultimo comma dell’art. 56 del codice penale, non è punibile il colpevole di un delitto commesso per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico che volontariamente impedisce l’evento e fornisce elementi di prova determinanti per l’esatta ricostruzione del fatto e per l’individuazione degli eventuali concorrenti”. L’art. 11. 29 maggio 1982, n. 304, prevede ben quattro cause di non punibilità per i reati associativi e per quelli ad essi connessi, costruite sul modello del ravvedimento-collaborazione processuale proprio delle figure di dissociazione. In forza dell’art. 1, “non sono punibili coloro che, dopo aver commesso, per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, uno o più fra i reati previsti dagli articoli 270, 270 bis, 304, 305 e 306 del codice penale e, salvo quanto previsto dal 30 comma del presente articolo e dal secondo comma dell’art. 5, non avendo concorso alla commissione di alcun reato connesso all’accordo, alla associazione o alla banda, prima della sentenza definitiva di condanna concernente i medesimi reati: a) disciolgono, o comunque determinano lo scioglimento dell’associazione o della banda; b) recedono dall’accordo, si ritirano dall’associazione o dalla banda, ovvero si consegnano senza opporre resistenza o abbandonando le armi e forniscono in tutti i casi ogni informazione sulla struttura e sulla organizzazione dell’associazione o della banda. Non sono parimenti punibili coloro i quali impediscono comunque che sia compiuta l’esecuzione dei reati per cui l’associazione o la


banda è stata formata. Non sono altresì punibili: a) sussistendo le condizioni di cui al primo comma, coloro che hanno commesso i reati connessi concernenti armi, munizioni od esplosivi, fatta eccezione per le ipotesi di importazione, esportazione, rapina e furto, i reati di cui ai capi secondo, terzo e quarto titolo settimo del Libro secondo del codice penale, i reati di cui agli articoli 303 e 414 del c.p., nonché il reato di cui all’art. 648 del codice penale avente per oggetto armi, munizioni, esplosivi, documenti; b) coloro che hanno commesso uno dei reati previsti dagli articoli 307, 378 e 379 del codice penale nei confronti di persona imputata di uno dei delitti indicati nel primo comma, se forniscono completa informazione sul favoreggiamento commesso. La non punibilità è dichiarata con sentenza del giudice del dibattimento, previo accertamento della non equivocità ed attualità della condotta di cui al primo ed al secondo comma. Non si applicano gli articoli 308 e 309 del codice penale”. L’art. 5 della legge 29 maggio 1982, n. 304, prevede una causa di non punibilità per il tentativo e i delitti di attentato. Dispone questa norma che “per i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale non è punibile colui che, avendo compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere il delitto, volontariamente impedisce l’evento e fornisce comunque elementi di prova rilevanti per la esatta ricostruzione del fatto e per la individuazione degli eventuali concorrenti. Se il colpevole di uno dei delitti previsti dagli articoli 241, 276, 280, 284, 285, 286, 289 e 295 del c.p. coopera efficacemente ad impedire l’evento cui gli atti da lui commessi sono diretti soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso. Non si applica l’art. 5 del D.L. 15 dicembre 1979 n. 625, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 6 febbraio 1980 n. 15”.

REATI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE CONTENUTO DELLA CLASSE Il titolo del secondo libro del codice contempla i delitti contro la pubblica Amministrazione. Il concetto di pubblica Amministrazione comprende tutta l’attività dello stato. Viene, quindi, tutelata l’attività legislativa e giudiziaria. Sono delitti contro la pubblica Amministrazione tutti quelli che colpiscono l’attività funzionale dello Stato. I delitti che ci accingiamo ad analizzare sono distinti dal codice in due classi: 1) Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica Amministrazione; 2) Delitti dei privati contro la pubblica Amministrazione. Nei reati della prima classe l’offesa implica sempre una violazione dei doveri funzionali delle persone che esercitano mansioni pubbliche; nei delitti della seconda classe, invece, il turbamento è recato da individui che sono estranei all’attività funzionale colpita dall’azione criminosa. Il capo primo e il capo terzo, ove compaiono le nozioni di pubbliche e incaricato di pubblico servizio, hanno subito notevoli modificazioni per effetto della legge 26 aprile 1990 n. 86. La riforma ha impegnato il parlamento per molto tempo. Sono state definite le nozioni di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio (art. 357 e 358); sono state estese agli incaricati di pubblico servizio le incriminazioni per concussione (art. 317) e per abuso di ufficio (art. 323) prevedendosi per quest’ultimo reato una nuova formula che si assume capace di ricomprendere elementi di disvalore delle ipotesi del peculato per distrazione ed interesse privato in atti d’ufficio. I primi commenti della dottrina hanno evidenziato più dissensi che consensi.

I SOGGETTI INVESTITI DI MANSIONI DI INTERESSE PUBBLICO Il codice Zanardelli delineava unicamente la figura del pubblico ufficiale, stabilendo all’art. 207 che per gli effetti della legge penale sono considerati pubblici ufficiali: • Coloro che sono rivestiti di pubbliche funzioni, anche temporanee, stipendiate o gratuite, a servizio dello Stato, delle provincie o dei comuni, o di un istituto sottoposto per la legge alla tutela dello stato, di una provincia o di un comune; • I notai; • Gli agenti della forza pubblica e gli uscieri addetti all’ordine giudiziario. Ai pubblici ufficiali erano equiparati per espressa previsione di legge, i giurati, gli arbitri, i periti, gli interpreti e i testimoni, durante il tempo in cui sono chiamati ad esercitare le loro funzioni. Il codice Rocco ha distinto tre figure giuridiche; quella del pubblico ufficiale, quella dell’incaricato di un pubblico servizio e quella dell’esercente un servizio pubblica necessità. L’art. 357 prima della citata riforma, recava: “Agli effetti della legge penale sono pubblici ufficiali: • Gli impiegati dello stato o di un altro ente pubblico che esercitano, permanentemente o temporaneamente, una pubblica funzione, legislativa, amministrativa o giudiziaria; • Ogni altra persona che esercita, permanentemente o temporaneamente, gratuitamente o con retribuzione, volontariamente o per obbligo, una pubblica funzione, legislativa, amministrativa o giudiziaria”. L’art. 358 stabiliva: “Agli effetti della legge penale, sono persone incaricate di un pubblico servizio: • Gli impiegati dello Stato o di un altro ente pubblico, i quali prestano, permanentemente o temporaneamente, un pubblico servizio; • Ogni altra persona che presta, permanentemente o temporaneamente, gratuitamente o con retribuzione, volontariamente o per obbligo, un pubblico servizio”. Infine, l’art. 359 tuttora dispone: “Agli effetti della legge penale, sono persone che esercitano un servizio di pubblica necessità: • I privati che esercitano professioni forensi o sanitarie, o altre professioni il cui esercizio sia per legge vietato senza una speciale abilitazione dello Stato, quando dell’opera di essi il pubblico sia per legge obbligato a valersi; • I privati che, non esercitando una pubblica funzione, né prestando un pubblico servizio, adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità mediante un atto della pubblica Amministrazione”. Così stando le cose la legge 26 aprile 1990 n. 86 si diede espressamente carico di mettere ordine nella materia con gli art. 17 e 18 con i


quali si fornivano nuove definizioni legislative, mantenendosi le qualifiche soggettive di pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio. All’art. 17, che sostituisce l’art. 357, si stabilisce che: “Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, amministrativa o giudiziaria. Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica Amministrazione e dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi”. L’art. 18, costituente il nuovo art. 358 del codice, precisa: “Agli effetti della legge penale, sono incaricati di pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio. Per pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale”.

PUBBLICI UFFICIALI E INCARICATI DI PUBBLICO SERVIZIO Le due categorie non esigono quel rapporto che sorge quando una persona mette volontariamente la propria attività a servizio di altri a fine professionale, e cioè in modo continuativo, contro una determinata retribuzione. In ogni caso è indifferente che l’esercizio della funzione o del servizio sia permanente o temporaneo, e per i privati è pure indifferente che l’esercizio stesso sia già gratuito o retribuito, volontario od obbligatorio. La distinzione tra le due categorie nel sistema del codice dipende dalla distinzione tra pubblica funzione e pubblico servizio. Le originarie formule del codice Rocco non rispondevano all’interrogativo sul modo in cui si distinguevano tale mansioni e nella Relazione Ministeriale sul progetto si afferma che ciò era stato fatto mediatamente, perché si riteneva che i concetti di pubblica funzione e di pubblico servizio non potessero essere diversi da quelli forniti dalla dottrina, e, quindi, la risoluzione dei problemi relativi esulasse dal compito della legiferazione penale, dovendo ritenersi riservata alla scienza del diritto penale. Senza dire che questa distinzione, di particolare importanza per il penalista risulta esserlo assai meno per i cultori del diritto amministrativo. A nostro modo di vedere, le difficoltà che si presentano per tracciare una linea netta di demarcazione tra la pubblica funzione e il servizio pubblico e, quindi, tra la categoria del pubblico ufficiale e quella dell’incaricato di pubblico servizio, non sono superabili. La ragione di ciò deve ravvisarsi nel fatto che si tratta sempre di mansioni pubbliche, le quali assumo le forme più diverse con gradazioni innumerevoli. Le difficoltà sono accresciute dal fatto che la distinzione delle mansioni, specie ai fini penali, è stata adottata in vista di due finalità diverse: da un lato per stabilire a carico dei pubblici ufficiali una maggiore responsabilità nel caso di violazione dei rispettivi doveri; dall’altro per assicurare ad essi una maggiore protezione di fronte alle possibili offese degli estranei. Accanto alla larga classe delle persone che formano o concorrono a formare la volontà dell’ente pubblico o in qualsiasi modo lo impersonano di fronte agli estranei, la qualifica di pubblico ufficiale, come già da noi sostenuto in passato, va riconosciuta a due altre categorie di individui: • Coloro che sono muniti di poteri autoritari, e particolarmente delle facoltà di procedere all’arresto o di contestare contravvenzioni (capitani di nave); • Coloro che sono muniti di poteri di certificazione, vale a dire le persone che hanno la facoltà di rilasciare documenti che nel nostro ordinamento giuridico hanno efficacia probatoria (notai). Il nuovo testo dell’art. 357 ha ciò riconosciuto quando ha accennato a quella caratteristica della funzione amministrativa che è il suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi. Tutte le altre persone investite di mansioni di interesse pubblico che non appartengano alla categoria degli esercenti un servizio di pubblica necessità, a nostro parere vanno considerate come incaricati di un pubblico servizio.

PERSONE ESERCENTI UN SERVIZIO DI PUBBLICA NECESSITA’ Come risulta dal testo dell’art. 359 che sopra abbiamo riferito, questa categoria comprende due gruppi di persone. Il primo è costituito dai privati che esercitano professioni il cui esercizio non è consentito senza una speciale abilitazione da parte dello Stato, sempre che dell’opera di essi il pubblico sia per legge obbligato a valersi. Le principali professioni per le quali la legge prescrive una speciale abilitazione sono quelle di avvocato e procuratore, notaio, medico, chirurgo, veterinario, chimico, farmacista, levatrice, ingegnere, architetto, agronomo, perito industriale o agrario. Il secondo gruppo di esercenti un servizio di pubblica necessità è costituito dai privati che, senza esercitare una pubblica funzione né prestare un pubblico servizio, adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità mediante un atto della Pubblica Amministrazione.

RAPPORTO TRA LA QUALIFICA E IL FATTO DELITTUOSO La speciale qualifica di regola non è sufficiente; occorre anche un particolare rapporto tra il fatto criminoso e le attività che giustificano la qualifica stessa. Talora si richiede la contestualità del fatto con l’esercizio delle funzioni o dei servizi, e cioè che il fatto sia commesso durante questo servizio. In altri casi l’esercizio delle mansioni figura come elemento determinate. Sono le ipotesi nelle quali il fatto deve verificarsi a causa delle funzioni o dei servizi. In altri si postula un nesso finalistico tra il fatto e le mansioni. Così nel reato di cui all’art. 318 si esige che il pubblico ufficiale si lasci corrompere per compiere un atto del suo ufficio. Importanti sono gli effetti della cessazione della speciale qualifica. Il codice nell’art. 360 stabilisce a proposito: “Quando la legge considera la qualità di pubblico ufficiale, o di incaricato di pubblico servizio, o di esercente un servizio di pubblica necessità, come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato, la cessazione di tale qualità, nel momento in cui il reato è commesso, non esclude l’esistenza di questo né la circostanze aggravante, se il fatto si riferisce all’ufficio o al servizio esercitato”.

DELITTI DEI PUBBLICI UFFICIALI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE PECULATO Il peculato, inteso in senso lato, in sostanza non è altro che un’appropriazione indebita commessa da un pubblico funzionario. Questo tipo di delitto, era spezzato nel nostro codice in tre distinte figure autonome: il peculato, la malversazione a danno dei privati e il peculato


mediante profitto dell’errore altrui. Dopo la riforma con la legge 26 aprile 1990 n. 86, abrogato il delitto di malversazione, residuano le due figure del peculato e del peculato mediante profitto dell’errore altrui. Ad esse il legislatore della riforma a ritenuto opportuno di introdurre la previsione espressa del peculato d’uso. PECULATO (art. 314). Consiste nel fatto del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, “avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria”. Presupposto del delitto è che il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio abbia, per ragione di ufficio, il possesso o comunque la disponibilità della cosa o del denaro. Il possesso, come inteso dalla norma, consiste nella possibilità di disporre, al di fuori della sfera altrui di vigilanza, della cosa sia in virtù di una situazione di fatto, sia in conseguenza della funzione giuridica esplicata dall’agente nell’ambito della Pubblica Amministrazione. Incertezze sorgono anche nel percepire quando si abbia la ragion d’ufficio come titolo di possesso. In senso stretto, questa espressione esige che tra la funzione pubblica ed il possesso della cosa o del denaro intercorra un rapporto di dipendenza immediata. Intesa invece in senso ampio, la ragione d’ufficio diventa equivalente di occasione, in modo da comprendere ogni possesso che comunque tragga origine dalla funzione pubblica esercitata dal soggetto. La cosa, o il denaro devono essere altrui cioè possono appartenere alla Pubblica Amministrazione, o a qualsiasi altro soggetto privato. La giurisprudenza è da tempo orientata nel senso di una maggiore estensione del concetto di appartenenza. In particolare, fin dalla sentenza 9 novembre del 1948 la Cassazione ha affermato che nell’ambito del diritto pubblico il concetto anzidetto comprende non solo i poteri che derivano da rapporti di natura patrimoniale, ma anche da rapporti di altre indole che, comunque, importino la facoltà di disporre della cosa per destinarla al conseguimento di particolari scopi. Il vincolo, quindi, può essere puramente personale. Il fatto materiale consiste nell’appropriarsi, il denaro o la cosa mobile altrui posseduti per ragione di ufficio o servizio. Appropriarsi di una cosa significa esercitare su di essa atti di dominio incompatibili con il titolo che ne giustifica il possesso. Il reato si consuma nel momento in cui si realizzano gli atti di appropriazione. Trattandosi però di c.d. “vuoto di cassa”, la consumazione non si verifica prima della messa in mora o della scadenza del termine prescritto per il versamento da parte del pubblico funzionario. In tali casi però, se non si perfeziona il delitto in esame, potrà sussistere il peculato d’uso. L’elemento soggettivo consiste nella coscienza e volontà di porre in essere un comportamento di appropriazione nel significato sopra descritto, al fine di ricavarne un profitto per sé o per altri. PECULATO D’USO (art. 314 comma 2). Ai sensi di tale articolo “Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito col solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita”. Trattasi per certo di reato autonomo non circostanza attenuante dell’ipotesi di cui al primo comma. La cosa usata deve essere di natura tale da non perdere consistenza economica per effetto dell’uso e il precetto esprime un principio già evidenziato dalla giurisprudenza. La durata maggiore o minore dell’uso può incidere soltanto sulla pena, non sull’esistenza del reato. Ma i limiti dell’uso momentaneo restano affidati di volta in volta all’equo apprezzamento del giudice. Pur se il tentativo sarà di difficilmente ipotizzabile, non vi sono ragioni per escluderne la possibilità. Il dolo consiste nella volontà di far uso della cosa, qualificato dallo scopo che tale uso è soltanto momentaneo. PECULATO MEDIANTE PROFITTO DELL’ERRORE ALTRUI (art. 316). Concrea questo reato il fatto del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, il quale “nell’esercizio delle funzioni o del servizio, giovandosi dell’errore altrui, riceve o ritiene indebitamente per sé o per un terzo, denaro o altra utilità”. È dovere del pubblico funzionario non accettare cose che gli siano consegnate per errore e restituirle subito dopo essersi accorto dell’errore stesso, se le ha ricevute in buona fede. La violazione di questo obbligo costituisce l’essenza del reato. L’ipotesi in esame costituisce una forma attenuata del peculato. In ordine all’elemento oggettivo si osserva che ricevere significa accettare una cosa, mentre ritenere importa la non restituzione della cosa ricevuta. La indebita ritenzione si ha anche nella mancata consegna di ciò che, per errore, non si sia richiesto nell’atto di una riscossione. Il dolo esige la consapevolezza dell’errore altrui e la volontà di ricevere o di ritenere indebitamente dopo la scoperta dell’errore. MALVERSAZIONE A DANNO DEI PRIVATI (art. 315 abrogato). L’art. 315 chiamava a rispondere di questo delitto “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che si appropria o, comunque, distrae, a profitto proprio o di un terzo, denaro o qualsiasi cosa mobile non appartenente alla Pubblica Amministrazione, di cui egli ha il possesso per ragione del suo ufficio o servizio”. Il delitto è stato espressamente abrogato dall’art. 20 della legge 26 aprile 1990 n. 86.

MALVERSAZIONE A DANNO DELLO STATO L’art. 316 bis, introdotto nel codice dall’art. 3 della legge 26 aprile 1990 n. 86, e modificato nel 1992, contempla il fatto di “chiunque, estraneo alla Pubblica Amministrazione, avendo ottenuto dallo Stato o da altro ente pubblico o dalle Comunità Europee contributi, sovvenzioni o finanziamenti destinati a favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere od allo svolgimento di attività di pubblico interesse, non li destina alle predette finalità”. Con questo reato si è inteso tutelare l’interesse dello Stato e degli enti pubblici minori a far sì che gli interventi economici di sostegno ad opere o attività di pubblico interesse non siano messi nel nulla o indeboliti dall’inerzia dei beneficiari. Con la formula contributi, sovvenzioni o finanziamenti si è voluta intendere ogni forma di intervento economico, così che devono ritenersi compresi nella sfera di azione della norma anche i mutui agevolati cui accenna l’articolo 640 bis. Si è scritto che il riferimento ad opere o attività di pubblico interesse è piuttosto vago e incerto. Ma a noi sembra che la formula normativa abbia riguardo non tanto alla natura dell’opera o dell’attività in sé e per sé considerate, quanto piuttosto allo scopo perseguito dall’ente erogante. La condotta si sostanzia nella mancata destinazione dei benefici economici ottenuti. Trattandosi di comportamenti omissivi e non risultando fissato un termine per la loro attuazione, sorgerà di frequente il problema del momento consumativo del reato. Se il provvedimento che autorizza l’erogazione e l’atto che la rende operante, specificano sia l’opera sia il termine massimo di adempimento, è a tale termine che bisognerà avere riguardo. In difetto e quando il termine, se pur inespresso, non possa essere desunto interpretando i provvedimenti o le normative di massima dell’ente pubblico erogante, il che dovrebbe avvenire assai di rado, dovrà il magistrato accertare se il contributo non sia stato in concreto destinato ad opera diversa, a nulla rilevando che l’opera diversa possa presentare profili di pubblico vantaggio. Quando, prima della scadenza del termine, risultino compiuti atti idonei diretti in modo non equivoco ad escludere la destinazione del finanziamento per scopi di pubblica utilità, sarà ravvisabile il tentativo. Se il finanziamento è stato ottenuto con artifizi o raggiri che hanno indotto in errore l’ente pubblico e successivamente l’opera o l’attività non siano state compiute è ravvisabile il concorse del delitto in esame con quello di cui all’art. 640 bis. L’art. 640 bis guarda al momento dell’acquisto delle erogazioni e il delitto in esame al mancato


adempimento del vincolo di destinazione. Il dolo è generico e consiste nella coscienza e volontà dell’omessa destinazione dei benefici ottenuto dall’ente pubblico alle opere o attività di pubblico interesse previste.

CONCUSSIONE Per l’art. 317 del codice, così come sostituito dall’art. 4 della legge del 1990 n. 86, si ha concussione allorché il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe o induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro od altruità. Lo scopo dell’incriminazione è duplice: da un lato tutelare l’interesse dell’Amministrazione alla imparzialità, correttezza e buona reputazione dei pubblici funzionari; dall’altro, impedire che gli estranei subiscano delle sopraffazioni e, in generale, danni per gli abusi di potere dei funzionari medesimi. Ci troviamo di fronte ad un reato plurioffensivo. Soggetto attivo del reato era in passato soltanto il pubblico ufficiale e non l’incaricato di pubblico servizio. La legge del ’90 ha provveduto a inserire questi tra i soggetti attivi del reato. Soggetto passivo, oltre alla Pubblica Amministrazione, è la persona che subisce il danno particolare derivante dall’azione criminosa. A costituire la fattispecie in oggettiva del delitto concorrono vari elementi che è necessario analizzare separatamente. Anzitutto si esige che l’agente abusi della sua qualità o dei suoi poteri. Si ha abuso dei poteri tutte le volte che questi sono esercitati fuori dei casi stabiliti dalla legge, dai regolamenti e dalle istruzioni di servizio o senza le forme prescritte. Occorre tenere presente che si ha vi è abuso di potere anche quando il funzionario fa uso di un potere che gli spetta e con le forme dovute, ma lo adopera per conseguire un fine illecito. L’abuso delle qualità ricorre quando gli atti compiuti dal soggetto non rientrano nella sfera della sua competenza funzionale o territoriale, ma egli fa valere la sua qualità di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio per conseguire il suo scopo illecito. L’abuso di cui si è parlato deve avere per effetto il costringimento o l’induzione della vittima alla dazione o promessa a cui tende il funzionario. A seconda che si verifichi l’uno o l’altra si parla in dottrina di concussione esplicita e di concussione implicita. Costringere vuol dire esercitare con violenza o minaccia una pressione su una persona. Il significato di induzione è assai ampio, comprendendo ogni comportamento che abbia per risultato di determinare il paziente ad una data condotta. La concussione può essere realizzata anche mediante omissione (inerzia) e persino col silenzio. Il costringimento o l’induzione deve avere per effetto una dazione o una promessa indebita. Nel concetto di dazione, per ovvie ragioni, rientra anche la ritenzione, come nel caso del pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità si faccia regalare da un privato un oggetto che gli era stato consegnato semplicemente in visione o in prova. La promessa è l’impegno di eseguire una prestazione futura. Oggetto della dazione o promessa può essere tanto il denaro quanto altra utilità. La prestazione è indebita quando, in tutto o in parte, non è dovuta, per legge o per consuetudine, né al pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, né alla Pubblica Amministrazione. La concussione sussiste anche nel caso in cui il pubblico ufficiale abusi dei suoi poteri per costringere o indurre taluno a corrispondergli una somma che gli è dovuta come privato, perché egli per soddisfare il suo credito doveva avvalersi della sua posizione. Per l’incontro il delitto de quo deve escludersi nel caso che la prestazione sia dovuta alla Pubblica Amministrazione. Il funzionario che la ottenga con abuso dei poteri, risponderà di peculato se la converte in proprio profitto, mentre se nessun vantaggio personale trae dalla sua azione, incorrerà in sanzioni disciplinari, non essendo possibile ravvisare nel fatto gli estremi del reato di cui all’art. 323 (abuso d’ufficio), specie quando esso è dovuto ad eccesso di zelo. Il reato si consuma nel momento in cui ha luogo la dazione o la promessa. In ordine all’elemento psicologico, il dolo deve investire tutti gli elementi del reato e, quindi, esige anche la conoscenza del carattere indebito della dazione o promessa.

LA CORRUZIONE IN GENERALE La corruzione consiste in un accordo tra un pubblico funzionario e un privato, in forza del quale il primo accetta dal secondo, per un atto relativo all’esercizio delle sue attribuzioni, un compenso che non gli è dovuto. Lo Stato lo vieta, assoggettando a pena ambedue le parti del reato. La dottrina prevalente ravvisa nel fatto due reati distinti: l’uno commesso dal funzionario e l’altro commesso dal privato. Il primo viene denominato corruzione passiva e il secondo corruzione attiva. Tale concezione non tiene però conto della compartecipazione che dicesi concorso necessario e che è caratterizzata dal fatto che una pluralità di agenti è richiesta come elemento essenziale della fattispecie criminosa. Riteniamo, pertanto, che la distinzione dottrinaria tra corruzione passiva e corruzione attiva non possa affermare l’esistenza di due distinti reati, ma semplicemente di due aspetti di un fatto criminoso unitario. Il codice configura due distinte figure di corruzione. La prima avente ad oggetto un atto d’ufficio, è generalmente denominata corruzione impropria; la seconda, che ha per oggetto un atto contrario ai doveri d’ufficio e che, perciò, è evidentemente più grave, viene detta corruzione propria. Nell’ambito di queste due forme di corruzione, il codice fa una ulteriore distinzione, la cui necessità è piuttosto discutibile, delineando le figure della corruzione antecedente e susseguente. La prima si ha quando il mercimonio si riferisce ad un atto futuro del funzionario; l’altra allorché il mercimonio riguarda un atto già compiuto. L’elemento differenziante tra la corruzione e la concussione è costituito dal fatto che nelle prima l’iniziativa è presa dal privato, mentre nella seconda dal pubblico funzionario. Questo criterio distintivo è stato giustamente criticato, perché la concussione può essere realizzata anche senza una vera e propria richiesta del funzionario, come nel caso che costui, con un comportamento volutamente ostruzionistico, spinga il privato a corrispondergli una somma. In base a questi rilievi, la dottrina e la giurisprudenza si sono orientate per un diverso criterio, individuando l’essenza della corruzione nel libero accordo tra il pubblico funzionario e il privato, i quali pongono in essere un vero e proprio pactum sceleris. Quindi la corruzione è caratterizzata da una posizione di parità tra le parti, mentre la concussione è contraddistinta dalla superiorità del funzionario, alla quale corrisponde di regola nel privato una situazione di metus. Con la legge 1990 n. 86, le fattispecie di corruzione sono state in parte riscritte, ma la riforma è stata assai meno incisiva del previsto, tanto la dottrina non vi ha ravvisato modificazioni di rilievo. In sintesi tali modifiche si concretano: • Nella previsione di una figura di istigazione commessa dal pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio con pene uguali a quelle comminate per l’istigazione commessa dal privato (art. 322); • Nella previsione della corruzione per atti giudiziari (art. 319 ter), con pena accresciuta; • Nell’equiparazione, dal punto di vista sanzionatorio, della corruzione propria antecedente a quella susseguente (art. 319); • Nell’inserimento in un distinto articolo (art. 319 bis) delle circostanze aggravanti per la corruzione propria;


• •

Nel richiedere un minimo di pena detentiva di sei mesi di reclusione per la corruzione impropria (art. 318); Nell’eliminare tutte le previsioni di pena pecuniaria.

LE VARIE FIGURE DI CORRUZIONE CORRUZIONE IMPROPRIA. Risulta dagli art. 318, 320 e 321. Il primo articolo prevede due ipotesi: 1) Il fatto del pubblico ufficiale che, per compiere un atto del suo ufficio, riceve, per sé o per un terzo, in denaro o altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta, o ne accetta la promessa (corruzione impropria antecedente); 2) Il fatto del pubblico ufficiale che riceve la retribuzione per un atto d’ufficio da lui già compiuto (corruzione impropria susseguente). L’art. 320, d’altro canto, stabilisce al primo comma che le disposizioni dell’art. 318 si applicano anche se il fatto è commesso da persona incaricata di un pubblico servizio, qualora rivesta la qualità di pubblico impiegato. L’art. 321, infine, dispone che le pene stabilite nel primo comma del predetto art. 318 si applicano anche a chi dà o promette al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio il denaro o altre utilità. Il privato non è punibile nella corruzione susseguente, e cioè allorché dà o promette al funzionario denaro o altra utilità per un atto d’ufficio che è già stato compiuto. L’atto d’ufficio, che deve essere oggetto dell’accordo criminoso, è l’atto legittimo compiuto nell’esercizio della pubblica mansione è che perciò rientra nella sfera di competenza del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio. L’accordo dei soggetti deve riguardare, direttamente o indirettamente, uno o più atti determinati. Il compenso che il privato dà al funzionario è indicato dalla legge come retribuzione. Questa consiste in ogni prestazione in denaro od altra utilità che abbia il carattere di corrispettivo per l’atto compiuto dal funzionario. Si richiede che la retribuzione non sia dovuta, il che si verifica non solo quando è espressamente vietata dall’ordinamento giuridico, ma anche quando non è espressamente consentita dal medesimo. Si domanda se sia lecita la retribuzione per servizi straordinari. La legittimazione di una tale retribuzione può ammettersi a due condizioni: • Che il funzionario non sia obbligato a prestare la prestazione a titolo gratuito o a tariffa fissa; • Che la prestazione non cagioni l’omissione o il ritardo di altri atti d’ufficio. Anche verificandosi tali condizioni, però, la retribuzione deve ritenersi illecita se l’accettazione di essa nuoce in modo sensibile al prestigio del funzionario. Il delitto si consuma nel momento in cui il funzionario accetta la retribuzione o la promessa di retribuzione. Il dolo del funzionario è costituito dalla coscienza e volontà di ricevere, per sé o per altri, una retribuzione non dovuta, con la consapevolezza che essa viene prestata per ottenere il compimento di un atto d’ufficio e con la consapevolezza che la retribuzione è data per un atto d’ufficio già compiuto. CORRUZIONE PROPRIA. Vi si riferiscono gli art. 319, 320 e 321. L’art. 319, analogamente all’articolo precedente, contempla il fatto del pubblico ufficiale “che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, riceve per sé o per il terzo, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa”. Ai sensi dell’articolo 320 le disposizioni ora riportate “si applicano anche all’incaricato di un pubblico servizio”. L’art. 321, da ultimo, sancisce l’estensione delle pene stabilite negli art. 319 e 320 al corruttore. Risulta da queste norme che del reato di corruzione propria possono rendersi responsabili tutti indistintamente gli incaricati di un pubblico servizio, anche se non rivestano la qualità di pubblici impiegati, e che il privato è punito non solo nel caso di corruzione antecedente, ma anche in quello di corruzione susseguente. Affinché ricorra il delitto di corruzione propria è necessario che il compenso sia dato o promesso per uno di questi due scopi: • Omettere o ritardare un atto d’ufficio; • Compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio. L’art. 319 bis comprende due aggravanti speciali in relazione al fatto di cui all’art. 319 e cioè alla corruzione propria. In antecedenza le aggravanti si applicavano soltanto al pubblico ufficiale e non all’incaricato di pubblico servizio e si riferivano anche all’ipotesi di corruzione in atti giudiziari. Ora, dopo la legge n.86 del ’90, quest’ultima ipotesi è stata prevista in autonomo articolo (319 ter) ed è sorto il problema se le aggravanti residue dell’art. 319 bis siano oggi estese all’incaricato di pubblico servizio. A favore della soluzione positiva si osserva che il nuovo articolo contempla un aumento di pena per il fatto di cui all’art. 319 e questo, come emerge dall’art. 320 è riferibile altresì all’incaricato di pubblico servizio. La soluzione è ragionevole anche se, almeno per quanto attiene al caso di corruzione per la stipulazione dei contratti, l’ultima parte dell’art. 319 bis accenna soltanto al pubblico ufficiale. CORRUZIONE IN ATTI GIUDIZIARI. L’art. 319 ter, inserito nel codice dall’art. 9 della legge n. 86 del ’90, reca: “Se i fatti indicati negli articoli 318 e 319 sono commessi per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo, si applica la pena della reclusione da tre a otto anni. Se dal fatto deriva l’ingiusta condanna di taluno alla reclusione non superiore a cinque anni, la pena è della reclusione da quattro a dodici anni; se deriva l’ingiusta condanna alla reclusione superiore a cinque anni o all’ergastolo, la pena è della reclusione da sei a venti anni. ISTIGAZIONE ALLA CORRUZIONE. L’art. 322, come sostituito dall’art. 7 n. 181 del ’92, prevede le seguenti ipotesi: • L’offerta o la promessa di denaro o altra utilità non dovuti, ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio che rivesta la qualità di pubblico impiegato, per indurlo a compiere un atto dell’ufficio o servizio, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata (istigazione alla corruzione impropria); • L’offerta o la promessa fatte per indurre un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio ad omettere o ritardare un atto dell’ufficio o servizio, ovvero a fare un atto contrario ai propri doveri, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata (istigazione alla corruzione propria); • La richiesta della promessa o dazione di denaro o altra utilità fatta da un privato per compiere un atto di ufficio, e posta in essere dal pubblico ufficiale o da incaricato di pubblico servizio che rivesta la qualità di impiegato; • La analoga richiesta, da parte di un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio per omettere o ritardare un atto di ufficio, ovvero per compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio.

ABUSI D’UFFICIO


1. L'EVOLUZIONE DELLA NORMA Il codice Rocco prevedeva originariamente, sotto la dizione di "abuso d'ufficio in casi non previsti dalla legge", la punibilità del pubblico ufficiale che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette, per recare ad altri un vantaggio o per procurargli un profitto, qualsiasi fatto non previsto come reato da una particolare disposizione di legge. La norma, rimasta in vigore fino al 1990, aveva dunque natura residuale, escludeva dalla condotta punibile le attività compiute dall'incaricato di pubblico servizio e non riguardava le ipotesi in cui il pubblico ufficiale avesse agito per un interesse personale: in tali casi infatti la condotta era sanzionata dall'art. 324 c.p. (interesse privato in atti d'ufficio). Il reato era connotato dal dolo specifico consistente nell'intenzione di arrecare ad altri un danno o un vantaggio, senza che si richiedesse che tale vantaggio o tale danno fossero ingiusti. Ciò comportava ad esempio che un Sindaco potesse essere ritenuto responsabile del reato per aver rilasciato una concessione edilizia in assenza dei prescritti pareri tecnici anche se quella concessione avrebbe potuto comunque essere rilasciata essendo il progetto conforme agli strumenti urbanistici, e si perseguì (fin quando la Cassazione non escluse la sussistenza del reato) un funzionario che aveva concesso dei sussidi a persone effettivamente bisognose di assistenza ma che non avevano presentato domanda come invece stabilito. La formulazione della norma era oggetto di aspre critiche per il suo contenuto estremamente indeterminato che in definitiva consentiva una forte ingerenza dell'autorità giudiziaria nelle scelte della P.A. Nel 1990 si arrivò, dopo un lungo e travagliato dibattito, alla organica modifica dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A. riformulando così anche l'art. 323 c.p. la cui rubrica divenne semplicemente "Abuso d'ufficio". La riforma del reato avrebbe dovuto mirare a dare concretezza alla condotta punita e a delineare più efficacemente le ipotesi rientranti nella previsione normativa, ma di fatto ciò non avvenne. Anzi, in definitiva, ci si ritrovò con una disposizione di portata per certi versi più ampia della precedente, tanto che da più parti si sottolineò come la riforma dell'abuso d'ufficio operata nel 1990 avesse fallito il suo scopo. La riformulazione del reato comprendeva tra i soggetti attivi del reato anche gli incaricati di pubblico servizio, e sostituiva all'espressione "abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni" quella, assolutamente tautologica, di "abusa del suo ufficio", concetto che innanzitutto "comprende una gamma di comportamenti molto più vasta di quella compresa nella precedente previsione normativa, giacché riferisce la condotta dell'agente a qualsiasi abuso della pubblica funzione, e dunque a qualsiasi strumentalizzazione dell'ufficio, senza necessità che l'abuso si concretizzi nel porre in essere atti legislativi, giurisdizionali e amministrativi" (Sez. I, sent. n. 5340 del 26 maggio 1993 ). Inoltre il reato ricomprendeva "tutti quei comportamenti che concretizzano un uso deviato o distorto dei poteri funzionali (o un cattivo esercizio dei compiti inerenti un pubblico servizio) e che di conseguenza mettono a repentaglio il buon funzionamento o l'imparzialità dell'azione amministrativa, nel senso che l'abuso deve sfociare in una strumentalizzazione oggettiva dell'ufficio tale da frustrare o alterare le finalità istituzionali perseguite." (Sez. 5, sent. n. 7764 del 18 agosto 1993). L'abuso insomma veniva a configurarsi come un esercizio illegittimo del potere pubblico: commetteva abuso d'ufficio il pubblico funzionario che non rispettasse le regole che disciplinano il suo ufficio - regole che sono improntate ai principi di legalità, di buon andamento e imparzialità della P.A. - e che, conseguentemente, esercitasse il potere connesso alla funzione per un fine improprio rispetto alla funzione medesima, in modo da far conseguire all'atto uno scopo estraneo rispetto a quello previsto dalla legge .Sulla base dell'elaborazione giurisprudenziale si affermava ancora che, allorquando l'abuso si concretizzava in un atto amministrativo, gli eventuali vizi di violazione di legge o di incompetenza rilevati erano da considerare soltanto sintomi della condotta di abuso, che era sempre rappresentata dall'eccesso di potere, ovvero dall'esercizio del potere per finalità diverse da quelle funzionali all'esercizio del potere. Infatti il bene giuridico protetto era da identificare nel buon andamento e nell'imparzialità dell'azione amministrativa, e l'attentato a tale interesse non poteva che realizzarsi con le modalità di un abuso funzionale (Cass. Sez. 6, sent. n. 13321 dell'11 ottobre 1990). Tale amplissima portata della norma doveva ricevere, nell'intenzione del legislatore dell'epoca, una significativa specificazione nell'elemento soggettivo del reato, costruito sempre come dolo specifico ma consistente nell'arrecare un danno o un vantaggio ingiusti. Si ritenne cioè di limitare interpretazioni estensive della norma introducendo il requisito dell'ingiustizia del danno o del vantaggio che avrebbe dovuto segnare il confine tra atto illegittimo e reato. Tale discrimine si rivelò però eccessivamente evanescente anche perché, come acutamente osservato (Catalano), "la prova dell'elemento psicologico del reato, proprio perché si tratta di elemento interno al soggetto agente, è necessariamente affidata ad un processo induttivo". Ed infatti benché in varie pronunce la Cassazione ebbe a precisare che il reato si configurava solo in presenza di una doppia ingiustizia, nel senso che l'ingiustizia del vantaggio o del danno doveva essere tale a prescindere dall'abuso perpetrato, nell'esperienza giurisprudenziale "il dolo veniva per lo più desunto dalla illegittimità dell'atto amministrativo, il vantaggio o il danno venivano considerati ingiusti semplicemente perché derivavano da un atto adottato per finalità diverse da quelle che avrebbero dovuto ispirarlo" (Catalano). Così da un lato la giustizia penale veniva ad avere un sindacato amplissimo sull'azione della P.A. che finiva per sovrapporsi al controllo amministrativo, dall'altro la denuncia alla Procura diveniva un modo più rapido per impugnare un provvedimento rispetto al ricorso alla giustizia amministrativa. A ciò si aggiunga che l'elevato numero di episodi denunciati e la conseguente iscrizione nel registro degli indagati degli amministratori pubblici, spesso ampiamente pubblicizzata sugli organi di stampa, aveva prodotto quello che è stato definito "il terrore della firma", paralizzando di fatto l'azione amministrativa o inducendo gli amministratori a richiedere - con grande dispendio di energie e grande dilazione dei tempi - pareri preventivi agli organi di controllo al solo fine di cautelarsi dalla temuta informazione di garanzia. Infine, alla considerazione che l'indeterminatezza della norma metteva gli amministratori in situazione di grande incertezza circa le condotte che potevano loro essere penalmente iscritte, faceva riscontro l'evidenza dell'altissimo numero di assoluzioni dispensate nei processi, derivanti soprattutto dalla difficoltà di dimostrare la sussistenza dell'elemento psicologico del reato. 2. LA NUOVA FORMULAZIONE La finalità che ha ispirato la nuova formulazione dell'abuso d'ufficio è stata indubbiamente quella di riportare la condotta punibile entro confini ben limitati, e di garantire ai pubblici amministratori che agissero nel rispetto delle norme la certezza di non incorrere in sanzioni penali. L'attuale formulazione sancisce la responsabilità penale per "il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto". È stato osservato che nella ridefinizione della norma si è puntato "ad abbandonare qualsiasi riferimento, espresso o tacito, all'eccesso di potere... limitando la condotta di abuso alla sola violazione di norme o alla omessa astensione nei casi prescritti" (Della Monica). Ed in effetti non vi è dubbio che gran parte del dibattito parlamentare è stato incentrato sulla scelta di escludere, dalle condotte che possono dar luogo all'ipotesi di reato, l'adozione di un atto viziato esclusivamente da eccesso


di potere, i cui confini sono molto più labili rispetto agli altri vizi amministrativi. Dunque - secondo i primi commenti al nuovo reato - se il funzionario non ha violato una espressa e specifica previsione normativa, ovvero l'obbligo di astensione, non può configurarsi il reato. Anche in presenza di tale violazione poi il reato sussisterà solo ed unicamente nel caso in cui al provvedimento illegittimo sia conseguito un risultato ingiusto, ed infatti il reato è ora costruito come un reato di evento che si consuma soltanto in presenza della realizzazione del risultato perseguito. Ma va subito osservato che se il fine perseguito dal legislatore era appunto quello di escludere dalle condotte punibili gli atti viziati esclusivamente da eccesso di potere, la formulazione della norma è, a dir poco, equivoca: l'eccesso di potere è comunque un vizio di legittimità e, come tale, comporta necessariamente l'inosservanza di leggi. Ed infatti è indubitabile che tra le leggi che devono regolare la condotta dei pubblici funzionari debba ricomprendersi il precetto costituzionale dell'art. 97 Cost., che rappresenta anzi la costante linea di comportamento degli amministratori pubblici. In tale ottica tornerebbe ad avere autonoma rilevanza, allora, il vizio di eccesso di potere e potrebbe configurarsi l'abuso tutte le volte in cui il funzionario facesse un uso deviato o distorto dei poteri funzionali e dunque pregiudicasse l'imparzialità dell'azione amministrativa. A questa tesi si potrebbe obiettare che tale argomentazione non terrebbe conto della ratio sottesa all'intervento legislativo, ma va pure precisato che in sede di dibattito parlamentare vennero scartate altre scelte che avrebbero più esplicitamente estromesso il vizio di eccesso di potere dalle modalità esecutive della condotta. E così venne ad esempio scartata la proposta dell'on. Marotta di mantenere il testo approvato dalla Commissione Giustizia del Senato, che menzionava accanto alla violazione di legge anche l'incompetenza, per significare che inclusio unius est exclusio alterius, unica dizione che avrebbe chiarito l'intento di non voler più attribuire una rilevanza autonoma all'eccesso di potere. È stato peraltro osservato (Della Monica) che "il riferimento alla violazione di norme di leggi o di regolamento lascia intendere chiaramente che il presupposto necessario dell'abuso è costituito dall'inosservanza di previsioni specifiche durante il processo di formazione del provvedimento" e non dal generico obbligo di perseguire il buon andamento e l'imparzialità dell'azione amministrativa, e che "il funzionario pubblico che agisce nel pieno rispetto delle regole deve avere la certezza di non incorrere in responsabilità penali". Occorrerà naturalmente attendere l'evoluzione giurisprudenziale sull'argomento per definire se la formulazione letterale della norma consenta di aderire alle finalità avute di mira dal legislatore; resta comunque da osservare che se si aderirà a tale interpretazione molte condotte oggettivamente gravi verranno a configurare al più un illecito disciplinare. E così soprattutto in presenza di atti assolutamente discrezionali, quali ad esempio l'assegnazione di un appalto a trattativa privata, una volta riscontrata l'inesistenza di violazioni specifiche (in quanto ad esempio sussisteva il requisito di urgenza che ne legittimava l'adozione) non si configurerebbe alcuna ipotesi di reato a carico del funzionario che effettui l'aggiudicazione ad una ditta palesemente inidonea e magari gestita da persona a lui legata da vincoli di amicizia. Se questa sarà l'interpretazione della norma sfuggiranno quindi alla sanzione penale tutti quei comportamenti formalmente legittimi, ma adottati unicamente per interessi di natura privata e sovente altamente dannosi per l'amministrazione pubblica È stato osservato (Chiavario, Padovani) che si è così creato un vuoto di tutela della collettività di fronte a comportamenti anche altamente scorretti e si è sottolineato (Catalano) che sarebbe stato auspicabile almeno accompagnare la modifica dell'abuso d'ufficio, ad una effettiva riforma dei criteri e dei sistemi di controllo dell'attività amministrativa. 3. LE MODALITÀ DELLA CONDOTTA Già sotto il vigore della precedente disposizione la Cassazione (Sez. VI, sent. n. 2733 del 4 marzo 1994 ) aveva più volte affermato che "la condotta di abuso d'ufficio... risulta compatibile con un comportamento meramente omissivo del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio.". Ed anche nella nuova formulazione non vi è dubbio che la condotta prevista dal reato può essere attuata anche mediante omissione, sempreché l'atto che avrebbe dovuto essere emanato o il comportamento che avrebbe dovuto essere tenuto siano dovuti, cosicché l'omissione o il ritardo abbiano comportato la violazione di una disposizione di legge. Del resto la violazione dell'obbligo di astensione, esplicitamente previsto dal nuovo testo, rappresenta una modalità della condotta mediante omissione. Tanto premesso, va evidenziato il rapporto tra l'abuso d'ufficio realizzatosi attraverso l'inerzia del pubblico funzionario in relazione ad un atto dovuto, e il delitto previsto dall'art. 328 c.p. Sembra potersi affermare che quando l'omissione o il rifiuto di comportamenti dovuti sono strumentalizzati dal funzionario per un fine privato e da essi deriva un danno o un vantaggio ingiusto, si configurerà il delitto di abuso in atti d'ufficio (sempreché si tratti di vantaggio patrimoniale). Se invece l'omissione è fine a se stessa, o se è finalizzata a procurare a terzi un vantaggio non patrimoniale, sarà configurabile il delitto di cui all'art. 328 c.p. Va ancora sottolineato che, come già enunciato sotto il vigore della precedente disciplina, anche le attività materiali possono essere forme di manifestazione della condotta di abuso. Ed infatti "la nozione di atti di ufficio è più ampia di quella di provvedimento amministrativo, poiché comprende in sé, a prescindere dalla forma, qualunque specie di atto posto in essere dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, sia esso interno o esterno, decisionale o anche meramente consultivo, preparatorio e non vincolante, fino alle semplici operazioni, alle condotte materiali, alle attività tecniche..." (Cass., Sez. 6, sent. n. 10896 del 12 novembre 1992). Anche nell'attuale formulazione normativa, poiché l'abuso non deve necessariamente estrinsecarsi in un tipico atto amministrativo, né avere contenuto necessariamente decisorio, esso può consistere in qualsiasi illegittima attività del pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni dalla quale derivi un ingiusto danno o vantaggio patrimoniale. La nuova formulazione ha innovato sul punto solo in quanto ha legato l'attività abusiva allo svolgimento delle funzioni o del servizio. Infine l'abuso è configurabile - ora come pure nella precedente formulazione anche in relazione ad attività soggette al diritto privato nel cui svolgimento il pubblico ufficiale persegue comunque finalità pubbliche che, secondo la legge, possono essere realizzate più agevolmente mediante l'impiego di strumenti propri del diritto privato (Cass., Sez. 6, sent. n. 5086 del 7 maggio1991). a) La violazione di norme di legge o di regolamento Si è già detto che la riforma è stata ispirata alla necessità di limitare il potere di ingerenza del giudice penale alle sole ipotesi di illiceità collegate a specifiche violazioni di legge e di regolamenti. La violazione di legge, che è dunque elemento della condotta del reato, è la violazione delle disposizioni che regolano l'esercizio dei pubblici poteri. Si richiamano le osservazioni sopra formulate circa la considerazione che anche l'eccesso di potere non rappresenta altro che una violazione di norme giuridiche. Comunque sia, va sottolineato che le prime interpretazioni della norma accolgono le finalità perseguite dal Parlamento ancorando la sussistenza del reato a precisi vizi di legittimità, e cioè: ? alla violazione di leggi o regolamenti; ? all'incompetenza che è un'ipotesi di violazione di legge; ? alla violazione dell'obbligo di astensione.


Rimane comunque la difficoltà, per l'interprete, di individuare tutte le disposizioni vincolanti per la Pubblica Amministrazione, mentre non sarà sempre agevole il reperimento della normativa che regola quel determinato provvedimento sospettato di illiceità. Resta poi da chiarire cosa debba intendersi per "norme di legge e di regolamento" ed in particolare se in esse debbano ricomprendersi anche le normative che regolano dall'interno l'azione degli apparati amministrativi, quali le circolari o le norme tecniche. Viene al riguardo rilevato che le norme interne non sono leggi in senso sostanziale, e quindi la loro trasgressione non comporta violazione di legge, cosicché non configura il reato in questione (Russo). Peraltro va considerato che quando l'Amministrazione Pubblica disciplina la sua attività con circolari o altre norme interne, individua le modalità più opportune per conseguire l'interesse pubblico (Landi e Potenza) e quelle norme sono per i pubblici funzionari vincolanti. Pertanto disattenderle senza motivazione comporterebbe comunque la violazione del dovere di perseguire in modo ottimale l'interesse pubblico, obbligo sancito dal precetto costituzionale. Anche in relazione a tale problematica dovranno attendersi le prime interpretazioni giurisprudenziali. b) La mancata astensione La violazione dell'obbligo di astenersi non è altro che una violazione di legge: ed infatti è stato osservato (Russo) come l'espressione "omettendo di astenersi" debba essere intesa come "omettendo di osservare l'obbligo di astenersi" non essendovi posto per alcuna valutazione discrezionale sul se astenersi o meno, in conformità del resto ai criteri che hanno ispirato questa riforma la cui finalità è stata quella di dare certezza al pubblico funzionario di non incorrere in responsabilità penali nel momento in cui presta osservanza alla legge. L'obbligo di astensione che può fondare la responsabilità per abuso d'ufficio deve essere ricercato dunque nella legge, e così possono richiamarsi, a titolo di esempio, l'art. 279 del R.D. 383/1934 per gli amministratori comunali e provinciali che devono astenersi dal prendere parte alle deliberazioni riguardanti liti o contabilità loro proprie verso i corpi cui appartengono; come pure liti o contabilità dei loro parenti o affini sino al quarto grado, o del coniuge, o di conferire impieghi ai medesimi. Il divieto di cui sopra importa anche l'obbligo di allontanarsi dalla sala delle adunanze durante la trattazione di detti affari. Non dovrebbe avere alcuna considerazione il possibile conflitto di interessi che potrà fondare al più una responsabilità disciplinare ma non certo penale. Nell'attuale impostazione legislativa la mancata astensione, costituirà abuso solo allorquando il soggetto abbia consapevolmente contravvenuto a tale obbligo ed abbia così intenzionalmente procurato, attraverso l'attività dalla quale avrebbe dovuto astenersi, un danno o un vantaggio patrimoniale ingiusto. Appare anche evidente che la sussistenza del reato può configurarsi anche in presenza dell'omessa astensione nell'ambito di un organismo collegiale giacché "anche la partecipazione ad un atto collegiale è esercizio dell'attività del pubblico ufficiale (Cass. Sez. 6, sent. n. 1467 dell'1 febbraio 1990) e anche se l'astensione era stata formalmente esercitata ma in unione ad concreta ingerenza nell'adozione del provvedimento, sempreché dallo stesso derivi un danno o un vantaggio patrimoniale ingiusto. Occorre infine rammentare che nel corso dei lavori preparatori è stato sottolineato come nei provvedimenti a carattere generale (si pensi all'adozione di un piano regolatore), poiché i soggetti interessati sono moltissimi, sussisterebbe spessissimo un dovere di astensione essendo ipotizzabile per quasi tutti i consiglieri un interesse proprio o di un prossimo congiunto alla formulazione in un modo o in un altro del provvedimento. Peraltro non occorre dimenticare che la mancata astensione deve essere connotata, per configurare il reato, dal dolo intenzionale (v. oltre), cosicché sussisterà abuso solo se l'amministratore omette intenzionalmente di astenersi per arrecare a se o ad un congiunto un vantaggio patrimoniale ingiusto. Del resto la giurisprudenza amministrativa ha da tempo sottolineato che: "Il dovere di astensione grava sul pubblico amministratore il quale debba prendere parte a deliberazioni concernenti propri parenti, riguarda i provvedimenti suscettibili di incidere in via immediata sulle sfere soggettive dei destinatari, non anche gli atti a contenuto generale o normativo che siano presupposti da quelli" (Consiglio di Stato, Sez. VI, sent. n. 385 del 23 maggio 1986). c) L'incompetenza È largamente riconosciuto che l'incompetenza non rappresenta altro che una violazione di legge, ed in particolare delle norme che disciplinano la ripartizione dei compiti e delle funzioni tra i vari organi dell'Amministrazione. In sostanza allorquando un funzionario pubblico adotta un provvedimento che, secondo i criteri di ripartizione della competenza, avrebbe dovuto essere adottato da un funzionario appartenente ad un ufficio diverso (ad es. in tema di contratti in quanto il valore eccede i limiti della sua delega), se lo sconfinamento è stato intenzionale ed è avvenuto al fine di arrecare un vantaggio o un danno ingiusto, si configura l'ipotesi di reato. La giurisprudenza ha costantemente affermato che solo l'incompetenza relativa può essere valutata penalmente, essendo il provvedimento emesso annullabile e dunque produttivo di effetti. Al contrario l'incompetenza assoluta (provvedimento adottato in una materia totalmente estranea alle attribuzioni del funzionario) comporta la nullità dell'atto che è dunque inidoneo a procurare un vantaggio o un danno (Cass., sent del 10 marzo 1989, Papale) cosicché il reato non può configurarsi per inidoneità della condotta. Tale argomentazione è tanto più valida in relazione alla nuova formulazione del reato, ormai costruito come reato di evento, cosicché perché il reato sia consumato deve effettivamente verificarsi il danno o il vantaggio patrimoniale ingiusto, mentre l'inidoneità della condotta impedisce anche la configurazione del tentativo. 4. L'ELEMENTO SOGGETTIVO Si è già detto che la riforma ha costruito il reato di abuso d'ufficio in reato di evento. Il raggiungimento di un danno o di un vantaggio ingiusto non è più una finalità che l'agente deve perseguire perché sussista il reato (dolo specifico) ma rappresenta l'evento della condotta, ovvero la conseguenza che deve derivare dall'atto o dal comportamento adottato perché il reato possa definirsi consumato. Da ciò deriva che il dolo del delitto in questione non è più specifico (nel quale, secondo la definizione di Antolisei "si esige che il soggetto abbia agito per un fine particolare la cui realizzazione non è necessaria per l'esistenza del reato e cioè per un fine che sta al di là e quindi fuori dal fatto che costituisce il reato") bensì generico in quanto è sufficiente che sia voluto il fatto descritto dalla norma incriminatrice. Occorrerà dunque "riscontrare la coscienza e volontà di arrecare un ingiusto vantaggio patrimoniale o un ingiusto danno attraverso lo svolgimento illegittimo delle proprie funzioni o del servizio" (Ciccia). Va però sottolineato come la nuova formulazione dell'abuso d'ufficio precisa che l'evento - ovvero il danno o il vantaggio ingiusto - deve essere procurato intenzionalmente all'agente. L'introduzione di tale locuzione risponde ad una precisa esigenza, cioè quella di escludere dalla fattispecie il cosiddetto dolo eventuale, ovvero sia di escludere i casi in cui "l'agente non ha intenzionalmente voluto l'evento ma lo ha accettato come conseguenza eventuale della propria condotta" (Mantovani). Conseguentemente l'adozione di un provvedimento in violazione di esplicite disposizioni di legge potrà configurare il delitto di cui all'art. 323 c.p. solo se il funzionario abbia, in tal modo voluto procurare un danno o un vantaggio ingiusto. Se invece il funzionario si è solo prospettato che dall'adozione di tale provvedimento possa derivare, come conseguenza eventuale della condotta, un risultato di danno o di vantaggio ingiusto, ma non ha comunque agito per realizzare tale scopo, il reato non sussiste. È stato osservato


(Macrillò) come l'introduzione del dolo intenzionale potrà esplicare effetti concreti in tema di responsabilità penale conseguente all'adozione di deliberazioni da parte di organi collegiali. In passato sono state infatti elevate incriminazioni, ad esempio, a tutti i componenti di un Consiglio Comunale sul presupposto che tutti avevano comunque votato ed adottato, con coscienza e volontà, la delibera concretizzante un uso strumentale del potere. Si è dunque osservato che "l'intenzionalità oggi richiesta dalla norma incriminatrice esprime la necessità che la punizione per il fatto di cui all'art. 323 c.p. derivi da un acclarato e provato grado di partecipazione dell'agente al reato, commisurabile sia al quantum di volontà del fatto, sia al quantum di coscienza dello stesso"(Macrillò). 5. L'INGIUSTIZIA DEL VANTAGGIO PATRIMONIALE E DEL DANNO Qualsiasi atto adottato dal funzionario contrario a norme giuridiche (violazione di legge o mancata astensione) produce un risultato illegittimo. Tuttavia all'illegittimità dell'atto consegue anche l'illiceità penale a carico del soggetto agente solo quando il risultato causato è anche ingiusto. Si afferma così la distinzione tra illegittimità e illiceità penale: "accertata la violazione di legge sarà proprio l'esatta considerazione del risultato raggiunto a sanzionare le modalità di intervento sanzionatorio, in sede penale, amministrativa o disciplinare" (Della Monica). Dunque "se il risultato della condotta, sia pure adottata in contrasto con disposizioni di legge, è oggettivamente lecito, la violazione di legge compiuta dal pubblico ufficiale non rileverà penalmente, pur potendo l'atto rivestire i caratteri dell'illegittimità ed essere annullato nelle sedi competenti" (Scarpetta). Nella precedente formulazione della norma, ove il danno e il vantaggio ingiusto rappresentavano le connotazioni del dolo specifico, il vantaggio poteva essere patrimoniale o non patrimoniale, configurandosi due autonome ipotesi di reato (cosiddetta condotta affaristica e cosiddetta condotta favoritrice) sanzionate con pene ben diverse. Nell'attuale formulazione non configura più reato la condotta illegittima che cagioni un ingiusto vantaggio non patrimoniale. Pertanto se dalla condotta o dall'atto illegittimi deriva un evento di danno, la sanzione penale scatta sia che si tratti di un danno economico sia che se si tratti di un danno non patrimoniale; se invece dall'attività illegittima deriva, per il funzionario o per altri, un vantaggio ingiusto, il reato si configurerà solo se tale vantaggio ha un contenuto patrimoniale. La scelta di escludere dalla sanzione penale "l'abuso non patrimoniale" discende, come specificato nel corso dell'acceso dibattito parlamentare sul punto, dalla volontà di separare nettamente, e disciplinare in modo difforme, gli abusi commessi per opprimere i cittadini (che cagionano cioè un danno ingiusto) e che configurano comunque reato, da quelli commessi al fine di favorirli (che cagionano cioè un vantaggio ingiusto), ritenuti meritevoli di una tutela attenuata. Tale conclusione non appare condivisibile se si pensa ad un magistrato che disponga arbitrariamente l'archiviazione di un procedimento a carico di un suo conoscente procurandogli così un vantaggio ingiusto: la condotta del magistrato non configura il delitto di cui all'art. 323 c.p. non essendo stato procurato al terzo un vantaggio patrimoniale; non configura il delitto di cui all'art.319-bis c.p. non essendosi il magistrato fatto dare alcun corrispettivo ma avendo agito per amicizia. L'unica forma di tutela riconosciuta dall'ordinamento, pur in presenza di un fatto così grave, è quella della responsabilità disciplinare. Dovendo ora definire il vantaggio patrimoniale - che può ricadere sia sul pubblico funzionario che su terzi - basta riportarsi alle precedenti indicazioni della Cassazione a proposito della condotta affaristica, e ribadire dunque che si ha vantaggio patrimoniale tutte le volte in cui lo stesso è valutabile in termini economici: deriverà perciò indubbiamente un ingiusto vantaggio patrimoniale da un concorso pubblico "truccato", da un'assunzione arbitraria, dal riconoscimento dell'indennità di accompagnamento a chi non presenta effettive invalidità, dall'assegnazione di un appartamento a canone calmierato a chi non ha i requisiti soggettivi richiesti e così via. Non cagionerà invece alcun vantaggio patrimoniale, e non commetterà perciò reato, il professore che favorisca un candidato all'esame di maturità o l'agente penitenziario che recapiti al detenuto lettere o pacchi al di fuori dei casi previsti dall'ordinamento penitenziario. Il danno ingiusto - che riguarda unicamente i terzi - consiste invece nel verificarsi di una situazione giuridica meno favorevole per il cittadino di quella che sarebbe scaturita da una condotta legittima del funzionario. Infine è stato osservato (Cutrupi) che l'aggravante prevista dall'ultimo comma - per il caso in cui il danno o il vantaggio procurato siano di rilevante gravità - debba comunque riferirsi all'aspetto patrimoniale e dunque, per quanto riguarda l'evento di danno, vada contestata solo in presenza di un danno patrimoniale di rilevante gravità. Ciò in quanto, in relazione al danno non patrimoniale, non si ravviserebbero parametri oggettivi di giudizio. 6. CONSUMAZIONE DEL REATO E TENTATIVO Si è già più volte ricordato che l'abuso d'ufficio è, nella nuova formulazione, un reato di evento e non più un reato di mera condotta. Evidentemente ne deriva che la consumazione del reato si verifica solo quando viene realizzato l'evento, e dunque quando il funzionario o altre persone ottengono l'ingiusto vantaggio patrimoniale o allorquando a qualcuno venga arrecato danno ingiusto. Peraltro è stato osservato (Della Monica) come la consumazione del reato non sia legata all'effettivo concretizzarsi del beneficio in termini economici ma semplicemente al prodursi di effetti favorevoli nella sfera dell'interessato. Pertanto nel caso in cui per giungere all'effettivo conseguimento del vantaggio sia necessaria un'attività da parte del beneficiario, e costui non la ponga in essere, il reato sarà ugualmente consumato. E così se ad un appalto truccato, concluso con l'aggiudicazione ad una determinata ditta, non segua poi l'esecuzione dei lavori, il reato sarà ugualmente consumato nel momento in cui si producono effetti favorevoli nella sfera giuridica dell'interessato (aggiudicazione dell'appalto) indipendentemente dalla effettiva concretizzazione in termini economici di tali effetti favorevoli, e dunque anche se poi la ditta rinunci ad eseguire i lavori e non percepisca perciò alcun compenso. In tale evenienza infatti il pubblico ufficiale ha comunque "procurato" un vantaggio all'interessato, anche se poi costui non lo ha effettivamente "conseguito" (Della Monica). Problema già posto sotto il vigore del precedente testo è quello della configurabilità del concorso nel reato per il terzo destinatario del vantaggio. Ove infatti il funzionario attui la sua illecita condotta non per trarne un utile personale, ma per favorire altri (ad es. un parente, un compagno di partito...), resta da stabilire se anche tale terzo debba essere incriminato nel reato proprio. La giurisprudenza, in conformità con i principi generali che regolano l'art. 110 c.p., ha ribadito che la semplice consapevolezza di ricevere un vantaggio ingiusto dall'attività illegittima non è sufficiente a configurare il concorso, che richiede - da parte dell'extraneus - almeno una condotta di istigazione o di agevolazione del pubblico ufficiale nella commissione del reato. Riguardo al concorso di persone nel reato deve anche osservarsi che, poiché l'abuso può essere integrato sia dall'adozione provvedimenti sia attraverso attività materiali che comunque costituiscono manifestazioni dell'attività dell'ufficio, il reato può essere commesso da più funzionari in concorso tra loro: l'uno che esercita ad esempio pressioni sui componenti dell'organo collegiale, l'altro che è così messo in condizioni di adottare il provvedimento formale (in questo senso Cass., Sez. 6, sent. n. 2797 del 16 marzo 1995). Dalla configurazione dell'abuso d'ufficio come reato di evento consegue la configurabilità del tentativo (prima negata in relazione ad un reato di mera condotta) allorquando la condotta abusiva non riesca a raggiungere lo scopo per circostanze indipendenti dalla volontà dell'agente. È stato osservato (Della Monica) come "il tentativo di abuso potrebbe rappresentare lo strumento giuridico per arretrare la soglia di punibilità ben oltre i limiti fissati dalla norma


previgente"..."essendo la responsabilità subordinata ad una valutazione prognostica sulla commissione del delitto". In realtà allorquando la condotta illecita è stata portata a compimento e solo l'evento non si realizza per cause indipendenti dalla volontà dell'agente, i confini del tentativo sono abbastanza nitidi : l'ipotesi è quella del provvedimento illegittimo tempestivamente annullato dal superiore gerarchico (tentativo compiuto). Quando invece la condotta illegittima sia stata realizzata solo in parte e sia stata poi interrotta per cause indipendenti dalla volontà del pubblico ufficiale (tentativo incompiuto) "il tentativo è configurabile solo se la condotta si configuri come un iter criminis frazionabile, così da potersi concepire l'interruzione dell'azione esecutiva, e solo se gli atti fino a quel momento compiuti integrino già una violazione di legge (non siano cioè meri atti preparatori) e siano univocamente diretti verso un fine illecito"(Della Monica). 7. CONSEGUENZE DELLA NUOVA FORMULAZIONE SUI PROCESSI IN CORSO Non vi è dubbio che tra la precedente e l'attuale formulazione vi è un nesso di continuità che non comporta una generalizzata abrogatio criminis bensì una successione di norme incriminatrici. Per quanto riguarda i processi in corso occorrerà dunque valutare, caso per caso, se nella condotta ascritta all'imputato siano presenti gli elementi del reato nella nuova formulazione e se siano stati enunciati chiaramente nell'imputazione. Da ciò consegue che se l'imputazione riguarda l'adozione di un atto illegittimo ma per arrecare un vantaggio non patrimoniale il reato non sarà più configurabile, come pure saremo fuori dalla previsione normativa (secondo le finalità della legge) se l'atto o il comportamento adottato non costituiscano inosservanza di una disposizione di legge, ma siano illegittimi in quanto adottati per una finalità diversa da quella prevista. Nel caso poi in cui l'atto illegittimo per violazione di legge non abbia in concreto procurato un vantaggio o un danno illecito, occorrerà verificare se sussistono almeno gli estremi per configurare il tentativo. Le sanzioni stabilite per il delitto sono state complessivamente ridimensionate: mentre infatti nella precedente formulazione era prevista la pena detentiva fino a due anni per l'abuso non patrimoniale (ora non più punibile se si tratta di una condotta "favoritrice"), e da due a cinque anni per l'abuso patrimoniale, ora la pena va indistintamente da 6 mesi a tre anni. Occorrerà quindi individuare, nel caso concreto, la norma più favorevole da applicare ai sensi dell'art. 2, terzo comma, c.p. Dalle nuove sanzioni consegue: l'impossibilità di applicare, anche in presenza dell'aggravante, la custodia cautelare (prima consentita per l'abuso patrimoniale); l'impossibilità di procedere all'arresto in flagranza di reato (prima consentito per l'abuso patrimoniale); ma soprattutto termini di prescrizione molto più rapidi (sette anni e mezzo a fronte dei quindici anni prima previsti per l'abuso patrimoniale) conseguenza quest'ultima che rischia di rappresentare - considerato che sovente la notitia criminis perviene già a distanza di un notevole lasso di tempo dal fatto, e considerata la complessità dell'indagine nonché i tempi di svolgimento di tale tipo di dibattimento - un limite insufficiente per la definizione del processo. RIVELAZIONE E UTILIZZAZIONE DI SEGRETI D’UFFICIO (art. 326). Commette il delitto di rivelazione il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio, che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie del proprio ufficio, le quali debbono rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza. Il terzo comma, inserito dall’art. 15 della legge n. 86 del ’90, afferma la responsabilità del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, per procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale si avvale illegittimamente di notizie di ufficio, le quali debbono rimanere segrete. Una pena minore è prevista nel caso che il fatto sia commesso al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o di cagionare ad altri un danno ingiusto. UTILIZZAZIONE D’INVENZIONI O SCOPERTE CONOSCIUTE PER RAGIONI DI UFFICIO (art. 325). È punito il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, il quale impiega a proprio o altrui profitto, invenzioni o scoperte scientifiche, o nuove applicazioni industriali, che egli conosca per ragioni d’ufficio o servizio, e che debbano rimanere segrete. VIOLAZIONE DI DOVERI INERENTI ALLA CUSTODIA DI COSE SEQUESTRATE (art. 334 e 335). È previsto quel particolare abuso che consiste nel sottrarre, sopprimere o distruggere cose sottoposte a sequestro. L’art. 334, quale modificato dall’art. 86 della legge n. 689 del ’91, formula tre ipotesi, secondo che il fatto sia commesso: • Dal custode, al solo fine di favorire il proprietario della cosa sequestrata; • Dal proprietario che abbia lo custodia della cosa stessa; • Dal proprietario della cosa sottoposta a sequestro che non ne sia custode. Solo nei primi due casi il soggetto attivo riveste la qualità di pubblico ufficiale; il terzo caso è contemplato insieme con gli altri per ragioni di affinità. Il sequestro a cui si riferiscono gli art. in esame è quello ammesso dalla legge penale e disposto nel corso di un procedimento penale ed anche quello ammesso dalle leggi amministrative. Nella sfera di efficacia della norma non rientra invece più, come avveniva in passato, il sequestro che si fonda sulle leggi civili. ECCITAMENTO AL DISPREGIO E VILIPENDIO DELLE ISTITUZIONI, DELLE LEGGI E DEGLI ATTI DELL’AUTORITA’ (art. 327). Possono rendersi responsabili di questo delitto tre categorie di soggetti: i pubblici ufficiali, i pubblici impiegati incaricati di un pubblico servizio e i ministri di un culto ammesso nello Stato. Il fatto incriminato consiste: • Nell’incitare al dispregio delle istituzioni o all’inosservanza delle leggi, delle disposizioni dell’Autorità o dei doveri inerenti ad un pubblico ufficio o servizio; • Nel fare apologia di fatti contrari alle leggi, alle disposizioni dell’Autorità o ai doveri predetti. Il fatto deve essere commesso dai soggetti indicati nell’esercizio delle loro mansioni.

OMISSIONI DOLOSE DI DOVERI FUNZIONALI Allo scopo di assicurare il regolare funzionamento delle pubbliche amministrazioni il codice punisce i pubblici ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio, i quali non per semplice trascuratezza o indolenza, ma intenzionalmente vengono meno ai loro doveri. Si prevedono due figure criminose, la seconda delle quali costituisce nulla più che una species della prima. OMISSIONE O RIFIUTO DI ATTI D’UFFICIO (art. 328). Il testo attuale dell’articolo incrimina “Il pubblico ufficiale, o l’incaricato di pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto de suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo”. Una pena minore è comminata nel capoverso dell’articolo per “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo”. Si precisa poi espressamente che tale richiesta deve essere redatta in forma


scritta e il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa. La nuova norma fissa un termine, ma la preoccupazione del legislatore per l’eccessiva ingerenza del giudice concede una facile fuga all’amministratore infedele. E l’impressione complessiva è che si sia voluto devitalizzare una norma, traendo occasione da pochi non felici interventi della magistratura per togliere operatività ad una figura di reato non grata agli operatori pubblici. Atti d’ufficio sono gli atti dovuti e appartenenti alla competenza funzionale del soggetto. Il rifiuto consiste nel diniego di compiere un atto doveroso. Il rifiuto deve verificarsi indebitamente, e cioè senza un motivo legittimo. Il delitto del primo comma si consuma nel momento e nel luogo in cui si verifica il rifiuto. La fattispecie del secondo comma è consumata allo scadere del termine di trenta giorni. Il dolo richiesto è generico. RIFIUTO O RITARDO DI OBBEDIENZA COMMESSO DA UN MILITARE O DA UN AGENTE DELLA FORZA PUBBLICA (art. 329). Si prevede il caso del militare o dell’agente della forza pubblica, il quale rifiuta o ritarda indebitamente di eseguire una richiesta fattagli dall’Autorità competente nelle forme stabilite dalla legge. Una differenza con la fattispecie precedente riguarda il soggetto attivo del reato che deve essere un militare, e cioè una persona appartenente con qualunque grado alle forze armate dello Stato, o un agente della forza pubblica.

SCIOPERO O OSTRUZIONISMO IN PUBBLICI UFFICI E IN SERVIZI PUBBLICI O DI PUBBLICA NECESSITA’ Gli articoli 330, 331, 332 e 333 prevedono lo sciopero o l’ostruzionismo, nonché alcuni fatti ad essi collegati che si verificano negli uffici pubblici e nei servizi pubblici. L’entrata in vigore della costituzione, la quale, nel dichiarare all’art. 40 che il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano, non fa eccezioni di sorta, ha creato nei dipendenti degli enti pubblici il convincimento che tale diritto spetti sempre anche ad essi. La legge regolatrice della materia, la legge 12 giugno 1990, n. 146, dopo aver elencato i servizi pubblici ritenuti essenziali, pone i limiti al diritto di sciopero con lo scopo di garantire un livello minimo di funzionalità di questi ultimi. L’inosservanza di tali limiti da luogo a sanzioni disciplinari e normative per i lavoratori, nonché di carattere patrimoniale per le organizzazioni sindacali e di categoria. L’inosservanza dell’ordinanza prefettizia che garantisce le prestazioni e i livelli di funzionamento indispensabili determina sanzioni pecuniarie e amministrative. Sono espressamente abrogati gli art. 330 e 333 del codice penale. ABBANDONO COLLETTIVO DI PUBBLICI UFFICI, IMPIEGHI, SERVIZI O LAVORI (art. 330, abrogato dalla legge n. 146 del ’90). INTERRUZIONE DI UN SERVIZIO PUBBLICO O DI UNA PUBBLICA NECESSITA’ (art. 331). Chi, esercitando imprese di servizi pubblici o di pubblica necessità, interrompe il servizio, ovvero sospende il lavoro nei suoi stabilimenti, uffici o aziende, in modo da turbare la regolarità del servizio, è punito con la reclusione da sei mesi ad un anno e con la multa non inferiore a lire un milione. I capi, promotori od organizzatori sono puniti con la reclusione da tre a sette anni e con la multa non inferiore a lire sei milioni. Si applica la disposizione dell’ultimo capoverso dell’articolo precedente. OMISSIONE DI DOVERI DI UFFICIO IN OCCASIONE DI ABBANDONO DI UN PUBBLICO UFFICIO O DI INTERRUZIONE DI UN PUBBLICO SERVIZI (art. 332). Il pubblico ufficiale o il dirigente di un servizio pubblico o di una pubblica necessità, che, in occasione di alcuno dei delitti preveduti dai due articoli precedenti, ai quali non abbia preso parte, rifiuta od omette di adoperarsi per la ripresa del servizio cui è addetto o preposto, ovvero di compiere ciò che è necessario per la regolare continuazione del servizio, è punito con la multa fino a lire un milione. ABBANDONO INDIVIDUALE DI UN PUBBLICO UFFICIO, SERVIZIO O LAVORO (art. 333 abrogato dall’art. 11 della legge n. 146 del ’90).

REATI CONTRO LA PERSONA Il titolo dodicesimo del libro secondo del codice penale comprende i delitti che offendono direttamente i beni essenziali dell’individuo, e cioè i beni della vita, dell’incolumità fisica, della libertà e dell’onore. Il codice in vigore non annovera tra i delitti contro la persona l’aborto (art. 545-551, ora abrogati), il quale era collocato prima della l. 22 maggio 1978, n. 194 fra i delitti contro la integrità e la sanità della stirpe. Non vi comprende neppure il reato di maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli (art. 552), che figura tra i delitti contro la famiglia. Quanto ai delitti contro la libertà è bene ricordare che il codice Zanardelli li contemplava in un titolo a parte, distinguendoli in delitti contro le libertà politiche, contro la libertà dei culti, contro la libertà individuale, contro l’inviolabilità dei segreti e contro la libertà del lavoro. Il codice attuale ha collocato il primo e l’ultimo gruppo di reati in altri titoli e gli altri tra i delitti contro la persona. In questa sede i residui delitti sono stati divisi in cinque sezioni: 1) contro la personalità individuale; 2) contro la libertà personale; 3) contro la libertà morale; 4) contro la inviolabilità del domicilio; 5) contro la inviolabilità dei segreti. Non si è trattato solamente di un cambio di collocazione ma di una completa rielaborazione di tutta la materia. È previsto il nuovo delitto di violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies) e non mancano varianti al regime della querela e delle pene accessorie ed altri effetti penali. È opportuno ricordare che ex art. 36 l. 5 febbraio 1992, n. 104, come modificato dall’art. 17 l. 15 febbraio 1996, n. 66, per i delitti non colposi del titolo in esame, qualora la persona offesa sia una persona handicappata la pena è aumentata da un terzo alla metà.

L’OMICIDIO IN GENERALE L’omicidio in generale è l’uccisione di un uomo cagionata da un altro uomo con un comportamento doloso o colposo e senza il concorso di cause di giustificazione. Scopo dell’incriminazione è la tutela della vita umana. Questa viene protetta dallo Stato non solo nell’interesse dell’individuo, ma anche nell’interesse della collettività. La punizione dell’omicidio del consenziente dimostra che l’ordinamento giuridico attribuisce alla vita del singolo anche un valore sociale, e ciò in considerazione dei doveri che all’individuo incombono verso la famiglia e verso lo Stato.


Oggetto materiale dell’azione criminosa è un uomo diverso dall’agente, perché la maggior parte delle legislazioni vigenti, compresa quella italiana, non punisce il suicidio, neppure nei casi in cui la sanzione potrebbe praticamente applicarsi all’individuo, e cioè nell’ipotesi di semplice tentativo. La qualità di uomo, ai fini del diritto penale, non inizia con la nascita vera e propria, vale a dire con la completa fuoriuscita del prodotto del concepimento dall’alvo materno, ma in un momento immediatamente anteriore, e precisamente nel momento in cui ha inizio il distacco del feto dall’utero della donna. Ciò si desume dal fatto che il nostro codice equipara all’uccisione del neonato l’uccisione del feto durante il parto. Senza dubbio si esige che la persona su cui cade l’azione sia viva. Il requisito della vita è sufficiente, non essendo richiesta la vitalità dell’individuo. L’opinione contraria, sostenuta in passato da qualche autore, non ha alcun punto di appoggio nel nostro diritto positivo. Il sesso, l’età, le condizioni di corpo o di mente, la nazionalità della vittima sono indifferenti ai fini dell’esistenza del reato. Si discute se anche gli esseri mostruosi nati da donna possano essere soggetti passivi del delitto in esame. La questione, dal punto di vita astratto, è interessante e delicata, perché a favore della soppressione dei monstra militano ragioni di umana pietà e di convenienza sociale. Di fronte al nostro diritto positivo non c’è dubbio che detta soppressione debba considerarsi vietata, a meno che l’essere sia così abnorme da non potersi qualificare uomo. La vita umana finisce e con la morte. Finché non si verifica questo evento la vita è tutelata. Risponde di delitto di omicidio colui che uccide un condannato alla pena capitale pochi istanti prima che abbia luogo l’esecuzione, oppure una persona affetta da malattia inguaribile che è prossima a morire. Il fatto materiale dell’omicidio implica tre elementi: 1) una condotta umana; 2) un evento; 3) il nesso di causalità tra l’una e l’altro. La condotta può estrinsecarsi nelle forme più diverse, perché la legge non indica le modalità che essa deve assumere, limitandosi a richiedere che abbia cagionato la morte di una persona. L’omicidio è esempio tipico della categoria dei reati a forma libera. Nessuno dubita che il comportamento possa consistere tanto in una azione che una omissione. I mezzi con cui viene cagionata la morte possono essere non soltanto fisici (arma, veleno, forza muscolare, gas asfissiante e così via), ma anche psichici, come il procurare uno spavento o un dolore atroce ad un cardiopatico, oppure il torturare un individuo moralmente. L’evento del delitto di omicidio consiste nella morte di una persona. Tra il comportamento dell’agente e la morte di un uomo deve esistere un rapporto di causalità. L’evento morte segna il momento consumativo del delitto di omicidio. Trattandosi di un risultato nettamente distinto, anzi, staccato dalla condotta umana, nessun dubbio è consentito sulla configurabilità del tentativo, il quale può verificarsi non solo nella forma del tentativo incompiuto, ma anche quella del tentativo compiuto. Dal punto di vista soggettivo si distinguono tre figure di omicidio: l’omicidio doloso; l’omicidio colposo; l’omicidio preterintenzionale. Anche in relazione alle cause di giustificazione il delitto in parola non dà luogo a speciali rilievi. Dai principi e dalle regole che sono stati esposti nella parte generale si desume che tutte le cause di giustificazione, tanto se previste espressamente dalla legge, quanto se desunta in via analogica - escluso il consenso dell’avente diritto - possono trovare applicazione nel delitto di omicidio, rendendo legittima l’uccisione di un uomo: adempimento di un dovere, esercizio di un diritto, legittima difesa, stato di necessità, trattamento medicochirurgico, attività sportiva.

OMICIDIO DOLOSO COMUNE È previsto all’art. 575, il quale reca: “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”. Il codice Zanardelli nella definizione dell’omicidio doloso conteneva l’inciso “a fine di uccidere” (art. 364), ma nel progetto definitivo del codice attuale questa formula, che figurava ancora nel progetto preliminare, venne soppressa perché ritenuta superflua, date le norme generali sull’elemento soggettivo del reato contenente nel libro primo (art. 42 e 43 comma 2). A nostro parere, la soppressione dell’inciso, merita approvazione non solo per il motivo indicato dal Ministro proponente, ma anche perché il fine di uccidere, per quanto di regola ricorra nell’omicidio doloso, non può ritenersi necessario, non riscontrandosi in quella fora di dolo che va sotto il nome di dolo indiretto o eventuale. In questa ipotesi non si ha propriamente l’intenzione di cagionare l’evento, bensì la previsione della possibilità del verificarsi dell’evento stesso, accompagnata dall’accettazione del rischio relativo. Da quanto appena detto deve dedursi che l’equazione: dolo = intenzione di uccidere, accolta dalla prevalente dottrina e giurisprudenza è inesatta. Per l’esistenza del dolo nell’omicidio basta che si verifichino le condizione indicate nella definizione generale che il codice fornisce all’art. 43, definizione che, secondo l’interpretazione più accreditata, comprende anche il dolo eventuale. Il nostro codice per graduare il delitto segue il sistema delle circostanze aggravanti. Negli art. 576 e 577 queste circostanze sono distinte secondo che importino la pena di morte, l’ergastolo o la reclusione da ventiquattro a trenta anni, ma l’abolizione della pena capitale, sancita dal d.l. 10 agosto 1944, n. 224, ha avuto per conseguenza la semplificazione della materia, rendendo anche priva di effetto la distinzione che figurava nel n. 2 dell’art. 576 e nel n. 1 dell’art. 577. Prendendo in considerazione la natura intrinseca delle aggravanti in questione, esse possono essere raggruppate, a seconda che si riferiscano all’elemento soggettivo del reato, alle modalità dell’azione criminosa o ai mezzi usati, alla connessione con altri reati, alla qualità del soggetto attivo e ai rapporti tra colpevole e offeso. AGGRAVANTI CONCERNENTI L’ELEMENTO SOGGETTIVO DEL REATO: 1) l’aver commesso il fatto con premeditazione (art. 577 n.3). Per l’esistenza della premeditazione occorre: un certo lasso di tempo tra la risoluzione criminosa e la sua attuazione; un’accurata preparazione del delitto, preparazione che spesso viene indicata col termine di macchinazione. Comunque la premeditazione si concepisca, generalmente si ammette che l’aggravante sussiste anche quando l’attuazione del proposito criminoso è condizionata, come nel caso abbastanza frequente della donna sedotta che decide di uccidere il seduttore se costui si rifiuterà di sposarla. Controverso è se la premeditazione sia compatibile col vizio parziale di mente: cioè, se essa possa ravvisarsi nel fatto di colui che è ritenuto seminfermo ai sensi dell’art. 89 del codice. L’opinione che prevale nella dottrina e per lungo tempo ha dominato nella giurisprudenza fondandosi su ragioni diverse, lo esclude. Nessuna incertezza dovrebbe invece sussistere sulla conciliabilità della premeditazione con l’attenuante generica della provocazione, perché lo stato d’ira richiesto per questa attenuante può senza dubbio permanere nel periodo di tempo che va dalla risoluzione all’esecuzione del delitto. 2) L’aver agito per motivi abietti o futili. AGGRAVANTI CONCERNENTI LE MODALITA’ DELL’AZIONE CRIMINOSA O I MEZZI USATI


1) l’aver adoperato sevizie o l’aver agito con crudeltà verso le persone (art. 577 n. 4). 2) L’aver commesso il fatto col mezzo di sostanze venefiche, ovvero con un altro mezzo insidioso (art. 577 n. 2). Si considerano venefiche le sostanze capaci di determinare la morte mediante azione tossica sull’organismo. Si discute se le sostanze corrosive vi siano comprese, ma a noi sembra che non sussistano valide motivazioni per escluderle. Tra gli altri mezzi insidiosi considerati dalla legge rientrano i trabocchetti, l’agguato o anche alcune forme di delinquenza, come il sabotaggio del motore di un’automobile o di un’aeroplano. AGGRAVANTI DIPENDENTI DALLA CONNESSIONE CON ALTRI REATI 1) l’aver commesso il fatto per eseguire od occultare un altro reato, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il profitto o il prodotto o il prezzo ovvero l’impunità di altro reato (art. 576 n. 1, in relazione all’art. 61 n. 2). 2) L’aver cagionato dolosamente la morte nell’atto di commettere taluno dei delitti preveduti dagli art. 519, 520 e 521. I delitti cui si riferisce questa aggravante, prima della legge 15 febbraio 1996 n. 66 erano la violenza carnale, la congiunzione carnale commessa con abuso della qualità di pubblico ufficiale e gli atti di libidine violenti. Oggi dovrebbero corrispondervisi gli art. 609-bis, quater e octies, ma il frettoloso legislatore non ha modificato in maniera espressa la norma in esame. AGGRAVANTI DIPENDENTI DALLA QUALITA’ DI SOGGETTO ATTIVO 1) Omicidio commesso dal latitante, per sottrarsi all’arresto, alla cattura o alla carcerazione, ovvero per procurarsi i mezzi di sussistenza durante la latitanza (art. 576 n. 3). Il codice fornisce una definizione di latitante all’ultimo comma dell’art. 576 considerando tale chi si trova in una delle condizioni indicate nel numero 6 dell’art. 61, e cioè colui che ha commesso il reato durante il tempo, in cui si è sottratto volontariamente all’esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione, spedito per un precedente reato. L’aggravante di cui si tratta non è applicabile all’evaso perché l’equiparazione tra latitante ed evaso sancita dall’art. 296 n. 5 del c.p.p. è da intendersi limitata ai fini processuali. 2) Omicidio commesso dall’associato per delinquere per sottrarsi all’arresto, alla cattura o alla carcerazione (art. 576 n. 4). Per la sussistenza dell’aggravante è necessario che la condizione di associato per delinquere sia accertata giudizialmente con sentenza di condanna divenuta irrevocabile. Non occorre che il passaggio in giudicato di tale sentenza si sia verificato prima dell’omicidio, essendo sufficiente che avvenga prima o contemporaneamente alla pronuncia definitiva per questo delitto. AGGRAVANTI DIPENDENTI DAI RAPPORTI TRA IL COLPEVOLE E L’OFFESO 1) l’aver commesso il fatto contro l’ascendente o il discendente (art. 576 n. 2 e art. 577 n. 1). Trattasi della figura di omicidio aggravato che va comunemente sotto il nome di parricidio. La disposizione si riferisce ai discendenti e agli ascendenti di qualsiasi grado. 2) L’aver commesso il fatto contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta (art. 577 comma 2). L’uccisione dei parenti e affini contemplati dal codice nella disposizione ora richiamata generalmente si designa col nome di quasi-parricidio o parricidio improprio. L’omicidio doloso è tra i reati per i quali, ai sensi dell’art. 16 l. 22 maggio 1975, n. 152, i termini di prescrizione sono sospesi durante la latitanza dell’imputato, per tutto il decorso dei rinvii chiesti da quest’ultimo o dal suo difensore e durante il tempo necessario per la notifica di ordini o mandati se il destinatario non ha provveduto a comunicare ogni mutazione relativa all’abitazione ovvero al domicilio dichiarato o eletto. Notizie storiche. Già prima della “Legge delle dodici Tavole”, a Roma, esistevano giudici speciali per reprimere il delitto di omicidio. Dopo Silla la legge fondamentale in materia fu la lex Cornelia de sicariis et veneficiis, la quale, però, comprendeva anche altri delitti. Con la lex Pompeia del 669 la parola parricidium assunse il significato di uccisione di prossimi congiunti. L’omicidio in origine era punito con la morte. In seguito, alle persone di condizione sociale superiore si applicò la deportazione e l’estremo supplizio rimase sancito per quelle di qualità inferiore. Nel Medioevo prevalse a lungo anche in Italia la tendenza a punire l’omicidio con la pena privata, mentre assai diffuse erano le vendette del sangue. Nell’ambito dell’omicidio doloso sorsero a poco a poco varie configurazioni. Tra queste, accanto al parricidium e al veneficium, primeggiava l’assassinium, il quale da principio indicava soltanto l’omicidio per mandato, mentre in seguito comprendeva anche l’uccisione premeditata.

FIGURE PARTICOLARI DI OMICIDIO DOLOSO Il nostro codice non contempla figure particolari di attenuanti speciali per il delitto in esame. prevede accanto ad ipotesi aggravanti, forme attenuate di omicidio doloso, che considera come figure autonome di reato. Per effetto della l. 5 agosto 1981, n. 442, sono scomparse dall’ordinamento le figure del feticidio o infanticidio per causa d’onore e l’omicidio per causa d’onore, essendo stata abrogata la seconda e interamente sostituita la prima con una nuova figura di reato che è qualificata come “infanticidio in condizioni di abbandono materiale”. Per ciò che concerne l’abrogata disciplina del feticidio, dell’infanticidio e dell’omicidio per causa d’onore, occorre rilevare che queste erano figure tipiche di reato. L’elemento che determinava la degradazione dell’omicidio doloso era la causa d’onore. L’azione doveva cioè essere commessa al fine di eliminare il disonore che si riteneva derivare dalla notorietà di una gravidanza illegittima o di una illegittima relazione carnale. Ratio della tutela era il perturbamento psichico dell’agente. Si richiedeva un rapporto di relativa immediatezza tra lo stato emotivo e la condotta delittuosa e la giurisprudenza sul punto aveva mostrato una notevole tendenza ad interpretazioni suggerite dal favor rei.

INFANTICIDIO O FETICIDIO IN CONDIZIONI DI ABBANDONO MATERIALE O MORALE Il nuovo testo dell’art. 578, abbandonato il criterio di mitigazione delle pene per l’omicidio comune rappresentato dalla causa d’onore, ha ritenuto di dovergli sostituire quello delle “condizioni di abbandono materiale o morale connesse al parto quando abbiano determinato il fatto. Questo è descritto come il comportamento della madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto. Soggetto attivo del reato è la madre soltanto. Dandosi poi carico dei compartecipi si chiarisce ora che, mentre a coloro che concorrono nel reato è di consueto applicabile la pena stessa dell’omicidio volontario, qualora gli stessi abbiano agito col solo fine di aiutare la madre tale pena può essere notevolmente diminuita. Si specifica inoltre che non si applicano le aggravanti stabilite all’art. 61 del codice penale. La formula in condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto richiede che per il fatto del futuro parto siano venuti a mancare alla donna quegli aiuti e quella solidarietà ambientale che sono consueti nella nostra società in tale


evenienza: quindi sia i mezzi, sia i soccorsi psichici. Il fatto materiale può consistere tanto nell’uccisione del feto durante il parto quanto nell’uccisione di un neonato immediatamente dopo il parto. Il feticidio presuppone che sia compiuto il processo fisiologico della gravidanza, perché in caso diverso la distruzione del prodotto del concepimento rientrerebbe nella figura dell’aborto. Secondo un’opinione corrente, il distacco del feto dall’alvo materno si desume dal verificarsi delle doglie, cioè dal travaglio del parto. Siccome il parto non è né fenomeno istantaneo né fenomeno rapidissimo, senza dubbio esiste una qualche incertezza nella determinazione del momento iniziale, ma essa è inevitabile. In caso di parto artificiale il principio dell’operazione equivale al travaglio. L’infanticidio ricorre quando l’uccisione avviene dopo il compimento del parto, e cioè dopo che il prodotto della gestazione è completamente uscito dal ventre materno. Come è naturale, si esige che l’essere sia nato vivo. La scienza medica ritiene che la prova della vita è fornita dall’avvenuta respirazione, e cioè dalla docimasia polmonare. Affinché possa parlarsi di infanticidio, è necessario che l’uccisione avvenga immediatamente dopo il parto. Essenziale è che il fatto si verifichi durante lo stato emozionale che segue il parto. Del reato proprio in esame risponde la madre. Tutte le altre persone che pongano in essere il fatto, incorreranno nelle pene dell’omicidio comune anche se compartecipi. È ammessa però l’ipotesi di un trattamento penale più favorevole per quei concorrenti che abbiano agito al solo scopo di favorire la madre. In ogni altro caso la sanzione resterà quella consueta dell’omicidio volontario. Al reato basta il dolo generico. Questo consiste nella coscienza e volontà di cagionare la morte del neonato o del feto, con la rappresentazione delle condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto. Qualora la morte del feto durante il parto o dell’infante subito dopo il parto sia dovuta non a dolo, ma a semplice colpa, l’autore risponderà di omicidio colposo. Per il disposto dell’ultimo comma dell’art. 578 al colpevole di questo reato non si applicano le aggravanti comuni stabilite all’art. 61.

OMICIDIO DEL CONSENZIENTE Il nostro ordinamento considera indisponibile il bene della vita. In base al principio generale sancito all’art. 50 del codice, perciò, il consenso del soggetto passivo non scrimina l’omicidio. Tuttavia il codice nell’art. 579 considera forma attenuata di omicidio il fatto di chi “cagiona la morte di un uomo, con il consenso di lui”. Per l’esplicito disposto del comma 3 dell’art. in parola, questo delictum sui generis non ricorre e, in conseguenza, debbono applicarsi le norme relative all’omicidio comune, quando il fatto sia commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con l’inganno. Il consenso della vittima non implica necessariamente quella richiesta che qualche codice esige per la speciale figura delittuosa. A costituirla basta il permesso, e cioè un atto di volontà del soggetto passivo che autorizzi l’azione. Il semplice desiderio e l’indifferenza non sono sufficienti. Il consenso deve essere manifestato. L’efficacia di un consenso tacito, desumibile senza equivoci dal comportamento del soggetto, non può essere esclusa, per quanto in proposito si imponga molta cautela, dato l’alto valore del bene della vita. Nessun dubbio che il consenso può essere sottoposto a condizioni (ad es. l’uso di un determinato mezzo) ed è revocabile. Va da sé che colui che uccida con un mezzo diverso o dopo che il consenso è stato revocato risponde di omicidio comune. L’elemento soggettivo importa, oltre a tutti i requisiti richiesti per l’omicidio doloso, la consapevolezza di agire col consenso della vittima. Se il consenso non sussiste, ma l’agente è ragionevolmente indotto dalle circostanze a credere che vi sia, l’art. 579 sarà applicabile, perché la supposizione erronea della presenza di un elemento che degrada un reato in un altro minore della stessa indole, non è né logico né equo fare un trattamento diverso da quello comunemente stabilito nell’ultimo comma dell’art. 59 del codice per le c.d. circostanze che escludono la pena. All’omicidio del consenziente non si applicano le aggravanti comuni previste dall’art. 61. In ordine alla figura di cui stiamo trattando, la questione più importante che si presenta è quella dell’eutanasia. Si tratta di un problema che da qualche decennio è divenuto di grande attualità. La parola eutanasia, la cui origine viene attribuita a Francesco Bacone, che con essa voleva indicare la morte dolce e calma, viene alcune volte usata in senso più ampio. Quella che a noi interessa è l’eutanasia in senso stretto e cioè l’uccisione per pietà: l’omicidio misericordioso, vale a dire, la morte provocata per troncare le sofferenze di un essere colpito da un morbo inguaribile. In Italia la Chiesa Cattolica è decisamente contraria, e contraria è anche la maggioranza dei medici. Nel nostro diritto positivo solo pochi casi di eutanasia rientrano nella disposizione che regola l’omicidio del consenziente, perché, come abbiamo visto, per l’applicabilità di tale norma si richiede un vero e proprio consenso prestato da persona che abbia superato gli anni diciotto e non sia in condizioni di deficienza psichica, condizione che normalmente si riscontrano nei malati incurabili e afflitti da atroci sofferenze. La maggior parte dei casi di eutanasia, pertanto cade sotto le sanzioni dell’omicidio doloso comune. Poiché la serie di aggravanti previste ( ad es. la premeditazione, i vincoli di parentela) porterebbe all’inflizione di pene molto severe, a nostro avviso, sarebbe opportuno introdurre nella nostra legislazione una norma speciale, fissando una pena non elevata, con un minimo basso per il caso che sia cagionata per pietà la morte di una persona amata, certamente inguaribile e al solo scopo di porre termine alle sue sofferenze.

ISTIGAZIONE O AIUTO AL SUICIDIO Il suicidio che per lungo tempo è stato punito, nel nostro ordinamento vigente è di per sé esente da pena. Questa tolleranza è dovuta a ragioni di politica criminale, e praticamente alla impossibilità di una repressione efficace. Siccome tale impossibilità non sussiste nei confronti dei terzi che cooperino al fatto, il codice vigente all’art. 580 punisce “chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione”. La punibilità di chi concorre all’altrui suicidio, tuttavia, nel nostro diritto è condizionata. Essa è subordinata a due condizioni che sono prevedute alternativamente: 1) che il suicidio avvenga, e cioè che si verifichi la morte della persona; 2) che la morte non si verifichi, purché dal tentativo di suicidio derivi una lesione grave o gravissima (art. 583). Non avverandosi per qualsiasi ragione né l’una né l’altra di dette condizioni, anche la partecipazione all’altrui suicidio rimane impunita. Dall’ultimo comma dell’art. 580 si desume che questo delitto speciale è escluso e si applicano le disposizioni relative all’omicidio, allorché la persona che si suicida è minore degli anni quattordici o comunque priva della capacità di intendere o di volere. Il fatto materiale consiste in un atto di partecipazione al suicidio altrui, partecipazione che può essere fisica o psichica. È psichica quando


l’agente fa sorgere nel soggetto il proposito che prima non esisteva, oppure rende più solido il proposito esistente. La partecipazione è fisica allorché l’agente concorre nell’esecuzione del suicidio rendendolo possibile fornendo, ad esempio, i mezzi necessari, o in qualsiasi altro modo agevolando l’esecuzione medesima. Contrariamente all’opinione di Manzini, si ritiene che debba esistere un nesso eziologico tra l’azione del colpevole e il risultato, perché in difetto di un contributo causale non è in genere consentito di parlare di concorso nel fatto altrui. L’agevolazione al suicidio può avere luogo anche mediante un’omissione. Occorre pertanto, ai sensi della regola generale stabilita all’art. 40, che il soggetto abbia violato un obbligo giuridico a contenuto positivo. Nel caso abbastanza frequente del suicidio doppio con la sopravvivenza di uno dei due, bisogna distinguere: se il sopravvivente è stato autore unico dell’uccisione dell’altro, egli risponde di omicidio del consenziente; se ha determinato o comunque agevolato il suicidio dell’altro, sarà responsabile del delitto ora in discussione, mentre andrà esente da pena se sarà ritenuto semplice succube di colui che è deceduto. Trattandosi di un caso di compartecipazione ad un fatto altrui, occorre nel soggetto la volontà di cooperare al fatto medesimo. Per il disposto del capoverso dell’art. 580 il delitto è aggravato se la persona istigata, eccitata o aiutata: • è maggiore degli anni quattordici, ma minore degli anni diciotto; • si trova in condizioni di deficienza psichica per una infermità di qualsiasi genere o per l’abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti. Se il suicida non ha superato gli anni quattordici o comunque è privo della capacità di intendere e di volere si deve parlare di omicidio comune. Le aggravanti comuni indicate all’art. 61 sono applicabili, perché nelle disposizione in esame non figura l’esclusione che è sancita per l’omicidio del consenziente.

OMICIDIO PRETERINTENZIONALE Per l’art. 584 risponde di tale reato “chiunque, con atti diretti a commettere uno dei delitti preveduti dagli art. 581 e 582, cagiona la morte di un uomo”. I delitti di cui si parla sono le percosse e le lesioni personali. Pertanto l’ipotesi configurata dal legislatore consiste nel fatto dell’individuo che, ponendo in essere atti diretti a percuotere una persona o a procurarle una lesione personale, ne determina, senza volerlo, la morte. Siccome la legge parla di atti diretti a commettere uno dei delitti di cui agli art. 581 e 582, non si richiede che questi reati abbiano raggiunto il momento consumativo, bastando che siano tentati. Così risponderà di omicidio preterintenzionale colui che in una località dirupata tenti di ferire una persona, la quale, per sfuggire alla minaccia, trovi la morte, cadendo in un precipizio. Il delitto si consuma nel luogo e nel momento in cui si verifica il decesso della vittima. Il tentativo di omicidio preterintenzionale è inconcepibile per l’ovvia ragione che in esso manca la volontà dell’evento che lo perfeziona. L’elemento soggettivo consiste nel dolo del reato base. È fin troppo evidente che, se nel fatto si riscontrasse il dolo dell’omicidio, sia pure nella forma del dolo indiretto, non si potrebbe parlare del delitto in esame. Per il disposto dall’art. 585 il delitto è aggravato se concorre alcuna delle circostanze previste per l’omicidio comune negli art. 576 e 577, oppure se il fatto è commesso con armi o con sostanze corrosive.

OMICIDIO COLPOSO È previsto nell’art. 589, il quale lo descrive con la semplice formula: “ Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”. Per colpa si intende il verificarsi dell’evento, anche se preveduto, ma non voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. L’aggravante contemplata nel n. 3 dell’art. 61 (previsione dell’evento) può ricorrere nel delitto in esame, al quale si applicano, in quanto compatibili col reato colposo, anche le altre circostanze previste nel detto articolo, nonché le attenuanti comuni di cui all’art. 62. Va posto in rilievo che la compatibilità con la provocazione viene in generale ammessa. Deve essere ricordata la disposizione contenuta all’art. 586 del codice, il quale, sotto la rubrica morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, reca: “Quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell’art. 83, ma le pene stabilite negli art. 589 e 590 sono aumentate”. Questa norma importa una aggiunta al disposto dell’art. 83 che riguarda l’aberratio delicti, in quanto sancisce un aumento di pena per il caso che il delitto diverso da quello voluto dall’agente sia la morte o la lesione personale.

LESIONI PERSONALI E PERCOSSE Tra le norme regolanti le offese all’incolumità individuale, non è più compresa, come in passato, la lesione personale a causa d’onore, essendo stato abrogato con la l. 5 agosto 1981, n. 442 l’art. 587 comma 3. 1) LESIONE PERSONALE (COMUNE). Per il primo comma dell’art. 582 questa figura delittuosa, che va ordinariamente sotto il nome di “lesione personale lieve”, consiste nel fatto di colui che “cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente”. Se la malattia ha una durata non superiore a venti giorni e non si verificano le conseguenze indicate nell’art. 585, il delitto è perseguibile a querela della persona offesa. La forma più tenue di lesione che si desume dalla norma ora richiamata viene comunemente detta lievissima. Poiché, come vedremo, quando la malattia derivante dalla lesione si protrae oltre i 40 giorni, il fatto trapassa nella lesione grave o gravissima di cui all’art. 583, è la lesione personale comune la lesione che provoca una malattia avente durata maggiore di giorni 20, ma non superiore ai giorni 40. Secondo il testo della legge, l’elemento oggettivo della figura criminosa in esame consiste nel cagionare una lesione da cui deriva una malattia. A nostro modo di vedere, poiché la legge non fornisce una definizione di malattia, bisogna attenersi a quella fornita dalla scienza medica. Pertanto si ritiene che la malattia consista in quel processo patologico, acuto o cronico, localizzato o diffuso, che determina una apprezzabile menomazione funzionale dell’organismo. Se il processo morboso investe l’organismo fisico, si quella che il codice definisce come malattia nel corpo; se investe l’organismo psichico, determinando un turbamento nelle funzioni dell’intelletto o della volontà, si ha malattia nella mente. Non vi rientrano, pertanto, le ecchimosi perché esse non determinano una menomazione funzionale dell’organismo degna di rilievo. Per l’esistenza del dolo, secondo le regole generali, occorre la volontà e previsione dell’evento e cioè della malattia nel significato


prima espresso. Se il fatto è stato commesso con il dolo che è proprio del delitto di omicidio, come nel caso frequentissimo della ferita inferta animo necandi, il soggetto risponderà di omicidio tentato. Il reato di lesione personale resterà in tal caso assorbito nel reato maggiore, essendo necessariamente contenuto in esso. Il verificarsi della malattia che è il vero evento naturalistico della lesione personale, segna il momento consumativo del reato. Nessun dubbio sulla configurabilità del tentativo. Come tutti i reati è necessario che il fatto descritto nella norma incriminatrice presenti il carattere dell’antigiuridicità, il quale resta escluso dalla presenza di cause di giustificazione. Per disposto dell’art. 585 il delitto di lesioni personali è aggravato se concorre una delle circostanze previste per l’omicidio negli art. 576 e 577, oppure se il fatto è commesso con armi o con sostanze corrosive. 2) LESIONE PERSONALE GRAVE E GRAVISSIMA. L’art. 583 recita: “La lesione personale è grave: • se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni; • se dal fatto si produce l’indebolimento permanente di un senso o di un organo. La lesione personale è gravissima se dal fatto deriva: • una malattia certamente o probabilmente insanabile; • la perdita di un senso; • la perdita di un arto, o una mutilazione che renda l’arto inservibile, ovvero la perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella; • la deformazione o lo sfregio permanente del viso. Dottrina e giurisprudenza, sulle orme della Relazione ministeriale al progetto, ritengono che l’art. 583 non delinea autonome figurae delicti, ma semplici circostanze, perché le ipotesi prese in considerazione non implicano una modificazione dell’essenza di reato di lesioni personali, ma costituiscono soltanto delle particolarità, e più precisamente dei risultati che si aggiungono ad esso, determinandone una maggiore gravità. Gli eventi indicati nell’articolo in esame, in quanto circostanze aggravanti, per il principio generale sancito nell’art. 59, prima della riforma di cui all’art. 1 l. 7 febbraio 1990, n. 19 dovevano essere valutati a carico dell’agente obbiettivamente, e cioè anche se da lui non fossero stati previsti e persino se fossero risultati imprevedibili. Su questo punto la relazione è quanto mai esplicita. In essa si legge: “Trattandosi di circostanze oggettive, consegue che saranno in ogni caso addebitate al colpevole o alle persone che abbiano concorso nel delitto, ancorché non conosciute né volute: esse, cioè, debbono essere valutate indipendentemente da qualsiasi indagine psicologica”. “Gli effetti del danno, più o meno gravi, costituiscono il rischio che corre il colpevole e che a lui è addebitato a titolo di responsabilità oggettiva”. Osserviamo subito che, se si fosse accolto questo ordine di idee, non c’era davvero da compiacersi del modo in cui il nostro legislatore aveva regolato uno dei più frequenti delitti, quale è la lesione personale. A nostro avviso questo è un caso tipico in cui è possibile dare alla legge un’interpretazione diversa da quella che era nell’intendimento di quelle che l’hanno redatta. Se si riconosce, come è necessario riconoscere, che fra le ipotesi previste nell’art. 583 ve ne è qualcuna in cui si riscontra quella che è la nota essenziale del delitto configurato nell’articolo precedente, e cioè la malattia, non è possibile considerare le ipotesi stesse come circostanze della c.d. lesione tipica. Per la regola generale, infatti, tra il reato circostanziato e il reato semplice deve esistere un rapporto di species ad genus, rapporto che presuppone che nella fattispecie speciale si riscontrino tutti indistintamente gli elementi propri della fattispecie generale, con l’aggiunta di uno o più elementi particolari. La tesi qui propugnata trova conferma nel fatto che il codice esplicitamente ha conferito speciali denominazioni alle ipotesi previste nell’art. 583, designando col termine di lesione grave quelle del primo comma e col termine di lesione gravissima quelle del secondo. Si tenga presente che il codice non attribuisce mai un particolare nomen iuris a ipotesi criminose che non siano reati autonomi, ma semplici forme circostanziate di altri reati. Contro il nostro assunto sarebbe vano opporre che la rubrica dell’art. 583 parla di circostanze aggravanti, perché le rubriche non hanno valore vincolante per l’interprete. La prima conseguenza di questo ordine di idee concerne l’elemento soggettivo del reato. Se si ammette che il nostro codice configura nell’art. 583 due autonomi tipi di reato, bisogna ritenere che per l’esistenza del dolo in ognuno di essi sia necessaria la volontà del relativo evento e, perciò, come nella lesione personale comune, il reo deve prevedere che dal suo operato derivi una malattia nel corpo o nella mente del soggetto passivo, così nella lesione personale grave deve prevedere il verificarsi di uno degli eventi indicati al comma 1 dell’art. 583. Questa conclusione contrasta nettamente con l’opinione comune, ma essa non si può evitare se si vogliono rettamente applicare i principi regolatori del nostro diritto, e particolarmente la norma fondamentale contenuta nell’art. 43 del codice, per la quale l’esistenza del dolo è in ogni reato indispensabile la volontà dell’evento. Accolta la nostra concezione, si domanda come dovrà essere regolato il caso in cui il soggetto, nell’intento di cagionare una data lesione, ne determini, senza volerlo, una di maggiore gravità. Si tratta di quella che comunemente viene denominata lesione preterintenzionale, la quale, oggetto di particolare disciplina nel codice abrogato, non è stata prevista nel codice in vigore, coerentemente al punto di vista adottato dai compilatori. Trova applicazione la norma di cui all’art. 586, la quale contempla l’ipotesi che da un fatto preveduto come delitto doloso derivi, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione personale di una persona. Nel caso in cui un soggetto voglia graffiare un altro, ma ne determina la perdita di un occhio, questi risponderà di lesione personale comune dolosa in concorso con la lesione colposa gravissima con l’aumento di pena stabilito dal citato art. 586. Notevoli sono anche le conseguenze che derivano dalla nostra concezione in ordine al momento consumativo e al tentativo. Per noi che ammettiamo l’esistenza di tre tipi autonomi di reato, la consumazione ha luogo in momenti diversi, e precisamente quando si avverano gli eventi che caratterizzano ciascun tipo. Quanto al tentativo, la nostra concezione porta ad ammettere che esso possa verificarsi anche nei confronti della lesione grave e della lesione gravissima. Di fronte al nostro diritto positivo, dottrina e giurisprudenza opinano che non è consentito parlare di tentativo di lesione grave o gravissima, e ritengono che in ogni caso il reo debba rispondere di tentativo di lesione comune. Tale conclusione, se pur in armonia con la premessa da cui viene dedotta, non può soddisfare, non soltanto perché trascura marcate differenze che esistono nella realtà, ma anche perché assicura al tentativo di lesioni gravi o gravissime un trattamento di estrema benignità. Ci domandiamo se queste conclusioni, formulate prima della citata riforma dell’art. 59, abbiano minore rilievo ora che le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui


conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute per errore determinato da colpa inesistenti. A noi sembra che al quesito debba darsi risposta negativa. In ordine alle varie ipotesi di lesione grave, dal punto di vista esegetico si osserva: • malattia che mette in pericolo la vita della persona, è malattia che in un dato momento mette in reale pericolo la vita del paziente; • per incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni si intende l’impossibilità di svolgere l’attività consueta. Nell’ipotesi è compresa qualsiasi attività dell’uomo, purché non in contrasto con l’ordinamento giuridico; • per quanto riguarda l’indebolimento permanente di un senso o di un organo, si premette che senso è il mezzo che è destinato a porre l’individuo in contatto con il mondo esteriore, facendogli percepire gli stimoli che ne provengono: vista, udito, olfatto, gusto ecc. Organo, ai fini del diritto, è l’insieme delle parti del corpo che servono ad una determinata funzione. A costituire la lesione grave basta l’indebolimento del senso o dell’organo, mentre se si verifica la perdita dell’uno o dell’altro si ha la lesione gravissima. In proposito deve tenersi presente che, quando le parti del corpo che provvedono alla stessa funzione sono più di una, la distruzione di una di esse in genere comporta l’indebolimento e non la perdita del senso o dell’uso dell’organo. Rispetto all’ipotesi di lesione gravissima va notato: • malattia certamente o probabilmente inguaribile è quello stato di alterazione funzionale che, a giudizio della scienza, non può cessare, o solo in rari casi si risolve in guarigione; • la perdita di un senso si verifica allorché il senso è completamente distrutto; • la perdita di un arto è la distruzione di una delle parti del corpo destinata o alla funzione della prensione o a quella della deambulazione. Alla perdita è assimilata la mutilazione che renda l’arto inservibile; • la perdita dell’uso di un organo implica che l’insieme delle parti del corpo, che lo costituiscono, siano così danneggiate da non poter più adempiere alla funzione a cui sono destinate; • la perdita della capacità di procreare comprende non solo l’impotentia coeundi e l’impotentia generandi, ma anche l’incapacità del parto nella donna; • non si può parlare di permanente e grave difficoltà nella favella se non si verifica un profondo disturbo funzionale che ponga il leso in spiccata inferiorità nelle sue relazioni con gli altri; • premesso che per viso si intende la parte del corpo che è visibile stando di fronte alla persona, compreso il collo, si ha sfregio permanente quando le regolarità e l’armonia dei lineamenti del viso è alterata in modo notevole. Come la lesione comune, la lesione grave e quella gravissima sono aggravate se concorre alcuna delle circostanze previste dagli art. 576 e 577 del codice, oppure se il fatto è compiuto con armi o con sostanze corrosive. 1) LESIONE PERSONALE COLPOSA. È prevista dall’art. 590 con formula analoga a quella adottata per l’omicidio colposo: “Chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a lire seicentomila”. L’applicazione di questa norma non dà luogo a questioni particolari. Occorre rilevare che è richiesta la querela della persona offesa, eccezion fatta per le lesioni gravi o gravissime relative ai fatti commessi con violazione delle norme in materia di prevenzione di infortuni sul lavoro o attinenti all’igiene del lavoro e che abbiano determinato una malattia professionale. In caso di dolo, invece, la perseguibilità a querela di parte è limitata alla lesione personale lievissima. 2) PERCOSSE. Ai sensi dell’art. 581, risponde di tale reato colui che “percuote taluno, se dal fatto non deriva una malattia nel corpo o nella mente”. Poiché percuotere significa urtare violentemente, nella previsione della norma rientrano quelle che una volta si dicevano “vie di fatto”, e cioè lo schiaffo, il calcio, il pugno e altre simili manifestazioni di violenza non produttive di malattia. La percossa di regola determina una sensazione dolorosa, ma questa non è richiesta ai fini del reato in esame. per la punibilità della percossa si richiede il dolo, non essendo prevista legislativamente la forma colposa. Per il disposto dell’art. 581, e in applicazione del principio generale sancito all’art. 84 del codice, il delitto di percosse rimane assorbito in tutti i reati nei quali la violenza è considerata elemento costitutivo o circostanza aggravante di altro reato. Il delitto è perseguibile a querela della persona offesa. Ipotesi abrogate di lesioni personali. Il codice negli art. 552 e 554 prevedeva due speciali ipotesi di lesione personale. La prima contemplava il fatto di chi avesse compiuto su altra persona, col consenso di questa, atti diretti a renderla impotente alla procreazione. La seconda perseguiva, in determinati casi, il contagio di sifilide o di blenorragia. Dopo l’abrogazione dell’intero titolo decimo del libro secondo, avvenuta con la l. n. 194 del 1978, la procurata impotenza alla procreazione è oggi colpita a titolo di lesione personale gravissima.

L’ABORTO IN GENERALE Per il diritto penale è aborto l’interruzione intenzionale del processo fisiologico della gravidanza con la conseguente morte del prodotto del concepimento. L’opportunità di incriminare l’aborto è stata negata in parecchi ordinamenti moderni soprattutto per quanto attiene alla interruzione della gravidanza voluta dalla gestante nei primi tre mesi. In Italia, dopo un iter laboriosissimo, la legge 22 maggio 1978, n. 194 ha adottato un criterio analogo, ma con formulazione e prescrizioni che fanno del testo legislativo una delle fonti più travagliate e discusse. È opportuno esporre alcune nozioni che sono comuni a tutte o alla maggior parte delle norme incriminatrici. Presupposto dell’aborto vero e proprio è la gravidanza della donna. Questo fenomeno ha inizio con l’annidamento dell’ovulo, fecondato mediante con l’incontro dello sperma maschile, nella mucosa uterina. Il termine della gravidanza si verifica con l’espulsione del feto. Se manca la gestazione, non può esservi aborto vero e proprio. Il processo fisiologico della gravidanza deve essere interrotto per opera dell’agente e non per cause naturali. Poiché la legge non indica il mezzo con cui deve essere provocato l’aborto è fuori dubbio che il fatto può commettersi con qualsiasi mezzo idoneo allo scopo. Vengono in considerazione i mezzi specifici, i quali possono essere chimici e fisici o meccanici. Ma l’aborto può procurarsi anche con mezzi generici come le ferite, le percosse inferte alla donna incinta e persino con mezzi morali. A priori non si può escludere la possibilità di aborto commesso mediante omissione. Si pensi al caso della levatrice che, incaricata di assistere una donna incinta, di proposito non pratichi le cure che sono necessarie affinché la gestazione si svolga in modo regolare. L’interruzione della gravidanza deve avere per effetto l’uccisione del prodotto del concepimento. Se il feto non muore, non si ha l’aborto,


ma il mero acceleramento del parto. La possibilità di una vita autonoma sorge con il settimo mese di gestazione. La morte del feto determina il momento consumativo dell’aborto. Se in seguito alle pratiche abortive, la morte del feto non si verifica, si avrà tentativo. Le norme incriminatrici abrogate. Prima della riforma la dottrina aveva mosso critiche alla collocazione del delitto di aborto nel capo, introdotto ex novo, “delitti contro la integrità e la sanità della stirpe”. Il codice penale distingueva tre specie di aborto: • L’aborto di donna non consenziente (art. 545); • L’aborto di donna consenziente (art. 546); • L’aborto procuratosi dalla donna (art. 547). Accanto a queste figure erano contemplate due incriminazioni ausiliari: l’istigazione all’aborto e gli atti abortivi su donna ritenuta incinta (art. 548 e 550). Erano previste: una aggravante se il colpevole avesse esercitato la professione sanitaria (art. 555) ed una diminuente se il delitto fosse stato commesso per salvare l’onore proprio o di un prossimo congiunto (art. 551). Notizie storiche. Nel diritto romano in origine il procurato aborto non era punito. Soltanto all’epoca di Settimio Severo l’aborto fu sottoposto a pena ed assimilato al veneficium, e ciò per reagire contro la tendenza alla vita lussuriosa e dissoluta. I giureconsulti del Medioevo ammettevano la punibilità dell’aborto solo quando il feto fosse animato, e cioè quaranta giorni dopo il concepimento per i maschi e ottanta o novanta giorni per le femmine. La pena era pari a quella dell’omicidio e talora anche più grave. Nella legislazione dei secoli diciottesimo e diciannovesimo la repressione di questo delitto si mitigò, in modo notevole, tenendosi conto dei motivi determinanti, ed in specie della causa d’onore.

LE ATTUALI NORME INCRIMINATRICI La disciplina prevista dalla l. 22 maggio 1978, n. 194 ha riguardo agli articoli da 17 a 21. Per quanto concerne l’aborto criminoso sono individuati tre gruppi di ipotesi: il primo ha per oggetto l’aborto di donna non consenziente ed è contemplato dall’art. 18; il secondo l’aborto di donna consenziente ed è inserito nell’art. 19; il terzo l’aborto e l’accelerazione del parto colposi ed è previsto nell’art. 17. Sta a sé l’art. 21 che introduce ex novo un’ipotesi di tutela penale del segreto sulle procedure ed interventi nella materia in oggetto, mentre l’art. 20 ha riguardo soltanto ad una circostanza aggravante. ABORTO DI DONNA NON CONSENZIENTE. Questa ipotesi ricorre, ex art. 18, quando taluno “cagiona l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna”. Come già avveniva per l’abrogato art. 546 comma 3, si considera non prestato il consenso estorto con la violenza o minaccia ovvero carpito con l’inganno. Costituiscono circostanze aggravanti la minore età della gestante e, nell’ambito della struttura dei c.d. delitti aggravati dall’evento, l’essere derivate dal fatto in esame, quali eventi non voluti, la morte o lesione gravissime o gravi. Costituisce del pari circostanza aggravante l’essere stato l’aborto provocato da chi avesse prima sollevato obiezione di coscienza ai sensi dell’art. 9. La circostanza ha riguardo solo agli addetti al personale sanitario ed esercente attività ausiliarie in quanto abbiano concorso a provocare l’interruzione della gravidanza. Poiché l’obiezione, per effetto dell’ultimo comma dell’art. 9 si intende immediatamente revocata se chi l’ha espressa prende parte a procedure o interventi abortivi, sembra evidente che, ritenuta la circostanza per un primo fatto criminoso, essa non potrebbe più operante per fatti successivi. ABORTO PRETERINTENZIONALE. Ai sensi dell’art. 18 della legge in esame è chiamato a rispondere, al modo stesso di chi cagioni l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna, chiunque tale interruzione determini con azioni dirette a provocare lesioni alla donna. Se oltre all’aborto derivino alla donna la morte o lesioni gravi o gravissime, sempre nell’ambito della richiamata categoria dei delitti aggravati dall’evento, sono previsti inasprimenti di pena. È evidente che le lesioni personali sopra indicate non debbono costituire una conseguenza normale dell’aborto. ACCELLERAZIONE DEL PARTO QUALE CONSEGUENZA DI LESIONI VOLONTARIE. Il terzo comma dell’art 18 della legge 22 maggio 1978, n. 194 contempla il fatto di chi, con azioni dirette a cagionare lesioni alla donna, provochi l’accelerazione del parto. Questa figura è stata inserita nel sistema dalla legge per supplire all’abrogazione dell’art. 583 comma 1 che considera appunto l’acceleramento del parto tra le lesioni personali gravi. La figura in esame contempla l’acceleramento preterintenzionale conseguente a lesioni volontarie sulla donna. E poiché l’art. 17 ha riguardo al parto prematuro colposo, resta scoperta la previsione specifica del parto prematuro doloso. ABORTO VOLONTARIO COMMESSO CON VIOLAZIONE DEGLI ARTICOLI 5 E 8 DELLALEGGE 22 MAGGIO 1978, N. 194. Ai sensi dell’art. 19 comma 1 è chiamato a rispondere chiunque cagiona l’interruzione volontaria della gravidanza senza l’osservanza delle modalità indicate agli art. 5 e 8. In questi articoli sono contemplate alcune modalità: • Obbligo degli appartenenti ai consultori ed alle strutture sociosanitarie di garantire i necessari accertamenti medici, di esaminare la donna e il padre del concepito col consenso della prima; • Obbligo del medico di fiducia della partoriente di compiere gli accertamenti sanitari necessari; • Obbligo di rilasciare, ove l’intervento si riveli urgente, una conforme attestazione; • Obbligo dei medici del servizio ostetrico di verificare l’inesistenza di controindicazioni sanitarie prima di praticare l’aborto; • Divieto di praticare l’aborto in case di cura non autorizzate dalla regione. L’elenco delle modalità da osservare è così significativo da documentare di per sé la censura di indeterminatezza sopra espressa da chiarire perché la dottrina abbia cercato di elaborare criteri restrittivi di interpretazione. L’indagine sulla volontà della donna deve tenere conto dei principi generali che presiedono all’accertamento della validità e rilevanza delle manifestazioni del volere. Costituiscono circostanze aggravanti l’essere derivate dai fatti sopra indicati la morte o una lesione gravissima o grave non volute dalla gestante, nonché, per chi procura l’interruzione della gravidanza, l’avere egli sollevato obiezione di coscienza. ABORTO VOLONTARIO COMMESSO CON VIOLAZIONE DEGLI ARTICOLI 6 E 7 DELLA LEGGE. Tale reato è previsto al terzo comma dell’art. 19. L’art. 6 chiarisce che dopo i primi novanta giorni l’aborto volontario può essere praticato: • Quando la gravidanza e il parto comportino un grave pericolo per la donna; • Quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. L’art. 7, sempre in relazione all’interruzione volontaria della gravidanza dopo i primi novanta giorni, prevede le seguenti modalità di intervento:


Accertamento dei processi patologici da parte di un medico del servizio ostetrico dell’ente ospedaliero in cui deve praticarsi l’intervento e relativa certificazione; • Obbligo di fornire la documentazione e di comunicare la certificazione al direttore sanitario dell’ospedale nel caso di intervento da praticarsi immediatamente; • Obbligo di salvaguardare la vita del fato quando sussista la possibilità di una esistenza autonoma di quest’ultimo; • Obbligo nel caso suddetto, di praticare l’aborto solo quando la gravidanza e il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna. Può sussistere l’aggravante dell’art. 20 (reato commesso da chi abbia sollevato obiezione di coscienza). Sono del pari contemplate le aggravanti dell’essere derivata la morte o una lesione gravissima o grave. ABORTO VOLONTARIO SU DONNA MINORE O INTERDETTA AL DI FUORI DEI CASI DEGLI ARTICOLI 12 E 13 O VIOLANDO LE MODALITA’ DA ESSI PREVISTE. L’art. 12 prescrive quali casi e modalità: • La richiesta personale della donna; • L’assenso di chi esercita la potestà o la tutela; • Se questo è impedito o sconsigliato per seri motivi, o rifiutato o segni il contrasto di opinioni tra più legittimati a darlo, gli appartenenti al consultorio o alla struttura medico-sanitaria o il medico di fiducia devono attuare gli adempimenti previsti dall’art. 5 e trasmettere, entro sette giorni, motivata richiesta al giudice tutelare; • Quest’ultimo deve sentire la donna e può, entro cinque giorni, autorizzarla a decidere l’interruzione della gravidanza; • Dopo i primi novanta giorni, indipendentemente dall’assenso di chi esercita la potestà o la tutela, si applicano le procedure dell’art. 7. L’art. 13 (relativo alle interdette) stabilisce i seguenti casi e modalità: • Obbligo di sentire il parere del tutore se la richiesta è presentata dall’interdetta o dal marito; • Obbligo di accertare la conferma della gestante nei casi richiesti dal tutore o dal marito; • Obbligo per il medico del consultorio o struttura sociosanitaria o di fiducia di trasmettere al giudice tutelare, entro sette giorni dalla richiesta, una relazione contenente ragguagli sulla domanda, su chi l’ha presentata, sull’atteggiamento della donna, sulla specie e gravità dell’infermità mentale, accompagnati dal parere del tutore se espresso. Soggetto attivo del reato è che cagiona l’aborto senza avere accertato l’esistenza dei suddetti presupposti e modalità. Per la donna, ancorché concorrente, è prevista una causa personale di esenzione dalla pena. È applicabile la citata aggravante dell’art. 20 per chi procura la interruzione della gravidanza avendo sollevato obiezione di coscienza e persistendo in essa. Se dal fatto conseguano la morte o lesioni gravi o gravissime della donna sono previsti aumenti di pena. ABORTO COLPOSO. Il primo comma dell’art. 17 afferma la responsabilità di “chiunque cagiona ad una donna per colpa l’interruzione della gravidanza”. Anche qui il termine interruzione della gravidanza è equivalente ad aborto, come emerge, tra l’altro, in modo inequivoco, dall’esame dell’ipotesi del secondo comma dell’articolo. Valgono naturalmente i principi che disciplinano i delitti colposi. Costituisce circostanza aggravante l’essere stato il fatto commesso con violazione delle norme poste a tutela del lavoro. PARTO PREMATURO COLPOSO. Ai sensi dell’art. 17 comma 2 è chiamato a rispondere “chiunque cagiona ad una donna per colpa un parto prematuro”. Il riferimento al parto prematuro è espressione equivalente, pertanto, a quella sopracitata di acceleramento del parto. Anche in questa fattispecie valgono i principi generali formulati in materia di reato colposo e costituisce circostanza aggravante la violazione di norme a tutela del lavoro. TUTELA DEL SEGRETO SU PROCEDURE E INTERVENTI ABORTIVI. L’art. 21 della legge in oggetto reca: “Chiunque, fuori dei casi previsti all’art. 326 del c.p., essendone a conoscenza per ragioni di professione o d’ufficio, rivela l’identità di chi ha fatto ricorso alle procedure o agli interventi previsti dalla presente legge, è punito a norma dell’art. 622 c.p.. Poiché la formulazione iniziale c.d. di riserva fa salve le ipotesi di rivelazione di segreti d’ufficio, con conseguente applicabilità dell’art. 326 c.p. nei confronti dei pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio che, violando i loro doveri o abusando delle loro qualità, abbiano divulgato notizie capaci di rivelare l’identità delle donne assoggettate a procedure o interventi abortivi, la figura criminosa in esame risulta assai affine a quella dell’art. 622 c.p.. Tuttavia se ne differenzia per il maggior rigore. Infatti: • Manca la nota di antigiuridicità speciale che nell’art. 622 toglie rilievo penale alla rivelazione per giusta causa; • Basta alla consumazione del reato la divulgazione di informazioni idonee a rivelare l’identità della donna o comunque di chi abbia fatto ricorso alle procedure o interventi di legge; • Non è espressamente prevista la possibilità di un nocumento; • L’interprete è di fronte a un delitto procedibile d’ufficio. Si è voluta negare quest’ultima caratteristica con rilievi desunti dai lavori preparatori, ma la formula che rinvia all’art. 622 ha per oggetto la punibilità, non la procedibilità e consente soltanto di ritenere applicabili la pene comminate dall’articolo suddetto.

RISSA L’art. 588 punisce “chiunque partecipa ad una rissa”. Il solo fatto di prendere parte ad una rissa basta per dar vita al reato, mentre il codice precedente esigeva per la punibilità la condizione che nella zuffa alcuno fosse rimasto ucciso o avesse riportato una lesione personale. Nel diritto attuale la rissa non è punita a causa della incertezza sulla responsabilità dei singoli partecipanti derivante dalle condizioni in cui di regola si verifica, ma perché il fatto espone a pericolo la vita e l’incolumità delle persone e nel tempo stesso importa la minaccia di un turbamento per l’ordine pubblico. Questa è la ratio dell’incriminazione. Per l’esistenza della rissa occorre che vi sia una mischia violenta con vie di fatto. Si discute sul numero minimo di persone indispensabile per l’esistenza di questo delitto, il quale senza alcun dubbio appartiene alla larga categoria dei reati plurisoggettivi. Alcuni autori ritengono che siano sufficienti due persone e in questo senso si è pronunciata varie volte la Cassazione. A nostro avviso è preferibile l’opinione di chi considera necessaria la presenza di almeno tre soggetti. La legittima difesa, anche in questo reato, esclude


l’antigiuridicità e, perciò, non c’è rissa se un gruppo di individui aggredisce ingiustamente un altro gruppo il quale si difenda, sia pure dando luogo ad una mischia violenta. Naturalmente la rissa sussiste se l’aggressione è reciproca. Per l’esistenza del dolo occorre la coscienza e la volontà di partecipare alla contesa violenta. Il codice considera come circostanza aggravante quell’evento che nel codice precedente era condizione di punibilità del reato. Dispone infatti l’art. 588: “Se nella rissa taluno rimane ucciso, o riporta lesione personale, la pena, per il solo fatto della partecipazione alla rissa, è della reclusione da tre mesi a cinque anni. La stessa pena si applica se l’uccisione, o la lesione personale, avviene immediatamente dopo la rissa e in conseguenza di essa”. Questa disposizione configura un caso di responsabilità oggettiva, giacché l’evento è posto a carico dei corrissanti a prescindere da ogni indagine di carattere psicologico, e cioè indipendentemente dal concorso del dolo o della colpa. È indifferente per l’applicabilità dell’aggravante che l’uccisione o la lesione personale, dolosa o colposa, incida su un corrissante o un estraneo. L’aggravante si applica anche al rissante che abbia subito una lesione personale e a colui che sia intervenuto dopo che si è verificata l’uccisione o la lesione personale; non ha chi è receduto prima. La lesione produce l’aggravamento della anche se è perseguibile a querela di parte. La rissa assorbe il reato di percosse, e ciò in base al disposto del comma 2 dell’art. 581. Tutti gli altri reati che siano commessi durante la rissa concorrono con questa, secondo le regole generali.

OMISSIONI DI ASSISTENZA E DI SOCCORSO Tali delitti consistono in violazioni di obblighi di custodia o di assistenza, imposti dalla legge al fine di tutelare l’incolumità di individui, che per le loro condizioni d’età o per altre circostanze, si trovano esposti a pericolo. ABBANDONO DI PERSONE MINORI O INCAPACI. Viene contemplato alternativamente il fatto di chi “abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di corpo o di mente, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia custodia o debba avere cura”, e il fatto di colui che “abbandona all’estero un cittadino italiano minore degli anni diciotto a lui affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro”. Presupposto della condotta, per ciò che concerne l’abbandono di un minore degli anni quattordici, è la preesistenza di una situazione, anche di mero fatto, a ragione della quale il minore si possa ritenere nella sfera di sorveglianza del soggetto agente. In relazione all’incapace o al minore abbandonato all’estero, il semplice fatto dell’abbandono non dà vita alla fattispecie in esame, se con esso non si viola uno specifico dovere di custodia o di cura che trovi il suo fondamento fuori dall’art. 591 o nell’affidamento per ragioni di lavoro. La custodia si riferisce al singolo e preciso dovere di sorveglianza, mentre la cura è espressione riassuntiva che comprende tutte le prestazioni e cautele protettive di cui abbia bisogno una persona incapace di provvedere a se stessa. Soggetto passivo può essere soltanto una delle persone espressamente indicate nella norma in esame. L’abbandono consiste nel lasciare la persona in balia di se stessa o di terzi che non siano in grado di provvedere adeguatamente alla custodia e cura, in modo che ne derivi un pericolo per la vita e l’incolumità della persona medesima. Se il pericolo non si verifica, il delitto deve escludersi per difetto di offesa dell’interesse tutelato. La condotta può essere così positiva o negativa. Il delitto si consuma con l’abbandono e, poiché, questo può protrarsi per un certo tempo, si tratta di un reato eventualmente permanente. Il dolo esige la coscienza del pericolo inerente all’abbandono. Il delitto è aggravato se: • Dal fatto derivi la morte o una lesione personale; • Il fatto sia commesso dal genitore, dal figlio, dal tutore, o dal coniuge, ovvero dall’adottato o dall’adottante. Naturalmente qualora la lesione o la morte siano volute il colpevole di abbandono risponderà pure del delitto di lesioni personali o di omicidio. OMISSIONE DI SOCCORSO. All’art. 593 sono contemplate due ipotesi. La prima si ha quando taluno, “trovando abbandonato o smarrito un fanciullo minore degli anni dieci, o un’altra persona incapace di provvedere a se stessa, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o per altra causa, omette di darne immediato avviso all’Autorità”. La seconda ipotesi consiste nel fatto di “chi, trovando un corpo umano che sia o sembri inanimato ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l’assistenza occorrente o di darne immediato avviso all’Autorità”. Perché possa applicarsi la norma in esame, è necessario che non sussista un dovere particolare di assistenza, penalmente sanzionato. Quando ciò si verifichi, infatti, si applica la norma speciale (ad es. l’art. 328: omissione di atti d’ufficio). Presupposto della condotta criminosa è il trovare abbandonato o smarrito un incapace, oppure un corpo umano che sembri inanimato o una persona ferita o altrimenti in pericolo. Trovare qui significa imbattersi. Soggetto attivo può essere anche chi con la propria azione ha posto in pericolo la persona, compreso colui che dolosamente o colposamente le abbia cagionato una lesione personale, nel quale caso egli risponderà di due reati. La condotta di cui alla prima ipotesi dell’art. 593 consiste nell’omettere di dare avviso all’Autorità del ritrovamento. Nell’ipotesi di cui al secondo comma la condotta incriminata è posta in essere con l’omettere di prestare l’assistenza occorrente o di dare immediato avviso all’Autorità. L’obbligo cessa senza dubbio nel caso in cui il soggetto per la sua età, per le sue condizioni particolari o per altre cause si trovi nell’assoluta impossibilità di adempierlo. Non cessa per il solo fatto che l’adempimento esporrebbe il soggetto ad un pericolo personale, perché la norma contenuta nell’art. 593, mirando a rafforzare il sentimento della solidarietà umana, eleva il coraggio a dovere giuridico. Il soggetto potrà sottrarsi alla responsabilità solo quando ricorrano gli estremi dello stato di necessità (art. 54), e cioè quando sia costretto all’omissione dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, non altrimenti evitabile. Il delitto si consuma nel momento dell’omissione ed ha carattere istantaneo. Il dolo consiste nella volontarietà dell’omissione, accompagnata dalla conoscenza di tutti gli elementi compresi nella fattispecie legale. Il delitto è aggravato se dalla condotta del colpevole deriva una lesione personale o la morte.

CONTRAVVENZIONI CONCERNENTI LA PREVENZIONE DI DELITTI CONTRO LA VITA E L’INCOLUMITA’ INDIVIDUALE La tutela dei beni della vita e dell’incolumità individuale è integrata nel nostro codice con alcune disposizioni che configurano dei reati contravvenzionali. Si tratta delle Trasgressioni alla disciplina delle armi che sono contemplate nel libro terzo negli articoli dal 695 al 702. La funzione sussidiaria di tali norme rispetto a quelle che prevedono i delitti esaminati è troppo evidente per richiedere spiegazioni.


La nozione delle armi è data dall’art. 585 del codice, il quale nel comma 2 reca: “Agli effetti della legge penale, per armi si intendono: 1) quelle da sparo e tutte le altre la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona; 2) tutti gli strumenti atti ad offendere, dei quali è dalla legge vietato il porto in modo assoluto, ovvero senza giustificato motivo”. Le armi di cui al primo comma sono dette proprie; quelle di cui al secondo comma si dicono improprie. La legge di Pubblica Sicurezza all’art. 42 vieta in modo assoluto di portare fuori della abitazione proprie e delle appartenenze di essa, le mazze ferrate o bastoni ferrati, gli sfollagente e le noccoliere, mentre vieta di portare senza giustificato motivo i bastoni muniti di puntali acuminati, nonché tubi, catene, fionde, bulloni, sfere metalliche e altri strumenti atti ad offendere. Il nostro legislatore ha ritenuto opportuno fornire una nozione più ristretta di armi, nozione che coincide con quella offerta dell’art. 30 della legge di Pubblica Sicurezza. L’art. 704 del codice, infatti, stabilisce che agli effetti delle disposizioni relative alle dette contravvenzioni per armi si intendono: • quelle indicate nel n. 1 del capoverso dell’art. 585; • le bombe, qualsiasi macchina o involucro contenente materie esplodenti, ovvero gas asfissianti o accecanti”. È opportuno sottolineare che la sfera di efficacia è sottoposta a notevoli limiti per effetto delle citate leggi speciali. Una volta per tutte ricordiamo che sfugge ad essa la disciplina delle armi da guerra o tipo-guerra, loro parti. Munizioni, esplosivi, aggressivi chimici e congegni micidiali, nonché quelle delle armi comuni da sparo atte all’impiego, o parti di esse, di cui all’art. 2 l. 18 aprile 1975, n. 110, eccezion fatta per il porto d’armi abusivo conseguente a mancanza di validità della licenza per omesso pagamento della tassa di concessione governativa. FABBRICAZIONE O COMMERCIO NON AUTORIZZATO DI ARMI (695 e 696). Il primo articolo contempla il fatto di chi, senza la licenza dell’Autorità, fabbrica o introduce nello Stato, o esporta, o pone comunque in vendita armi, ovvero ne fa raccolta per ragioni di commercio o d’industria”. Nel capoverso dell’art. 695 è sancita una pena minore per il caso che si tratti di collezioni di armi artistiche, rare o antiche. L’art. 696, d’altra parte, punisce chiunque esercita la vendita ambulante di armi, vendita che è vietata dall’art. 37 della legge di Pubblica Sicurezza. Per effetto delle leggi speciali l’applicazione di tali norme è oggi limitata alle armi bianche (cioè pugnali, spade). DETENZIONE ABUSIVA DI ARMI (697). Sono previste due ipotesi, che costituiscono tipi distinti di reato. La prima consiste nel fatto di chi detiene armi o munizioni senza averne fatto denuncia all’Autorità, quando la denuncia è richiesta. La seconda ipotesi si concreta nel comportamento di colui che, avendo notizia che in un luogo da lui abitato si trova armi o munizioni, omette di farne denuncia all’Autorità. L’efficacia della contravvenzione, per l’intervento delle numerose leggi speciali, è oggi limitata alle armi da punta e taglio ed alle munizioni per armi comuni da sparo. Scopo della norma è di rendere agevole all’Autorità di polizia di conoscere tempestivamente le persone che detengono le armi e le munizioni ai fini di poter esercitare gli opportuni controlli. L’obbligo di denuncia sta a carico dei detentori che tali siano a qualsiasi titolo, legittimo o illegittimo. Ogni modificazione nelle specie e nella quantità di armi o di munizioni e anche ogni cambiamento di luogo impone la denuncia. L’aver iniziato pratiche per conseguire la licenza e persino l’averla ottenuta non esime da tale obbligo. Il reato è senza dubbio di carattere permanente. OMESSA CONSEGNA DI ARMI (698). Viene punito chiunque trasgredisce all’ordine, legalmente dato dall’Autorità, di consegnare nei termini prescritti le armi o le munizioni da lui detenute. In questa contravvenzione incorre anche chi abbia già denunciato le armi detenute ed è superfluo dire che la consegna tardiva non esclude la sussistenza del reato. La proroga del termine di consegna da parte del Prefetto dopo il rinvenimento dell’arma, secondo l’opinione preferibile, elimina nel fatto il carattere dell’illiceità. PORTO ABUSIVO DI ARMI (699). Incorre in questa contravvenzione chiunque, senza la licenza dell’Autorità, quando la licenza è richiesta, porta un’arma fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa. Una forma più grave del reato è contemplata nel comma 2 dell’art. 699 e ricorre quando taluno, fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, porta un’arma per cui non è ammessa la licenza. Portare significa tenere indosso o comunque a portata di mano l’arma, in modo che il soggetto possa farne uso. In ambedue le forme la contravvenzione a aggravata , se il fatto è compiuto in cui sia concorso o adunanza di persone, o di notte in un luogo abitato. OMESSA CUSTODIA DI ARMI (702, REATO ABROGATO). La contravvenzione contemplava il fatto di colui che, anche se provveduto della licenza di porto d’armi: • consegna o lascia portare un’arma a persona di età minore dei quattordici anni o a qualsiasi persona incapace o inesperta nel maneggio di essa; • trascura di adoperare nella custodia di armi, le cautele necessarie a impedire che alcuna delle persone indicate nel numero precedente giunga ad impossessarsene agevolmente; • porta un fucile carico in un luogo ove sia adunanza o concorso di persone. DISPOSIZIONI COMUNI. Per tutte le contravvenzioni esaminate, esclusa l’ultima, è circostanza aggravante il fatto che l’autore sia una delle persone alle quali la legge vieta di concedere licenza, nonché il fatto che la licenza sia stata negata o revocata. Così dispone l’art. 700, facendo richiamo all’art. 680. Il condannato per alcuna delle contravvenzioni predette può essere sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata (art. 701).

REATI CONTRO LA LIBERTA’ PERSONALE LA VIOLENZA E LA MINACCIA IN GENERALE Prima di analizzare le varie figure criminose, occorre esaminare i concetti di violenza e minaccia che stanno alla base della maggior parte di esse. Violenza è l’impiego dell’energia fisica per vincere un ostacolo, reale o supposto. La violenza può esercitarsi sulle persone oppure sulle cose. Della violenza reale il codice fornisce una nozione nel capoverso dell’art. 392, statuendo: “Agli effetti della legge penale, si ha violenza sulle cose, allorché la cosa viene danneggiata o trasformata o ne è mutata la destinazione”. Minaccia, d’altra parte , consiste nel prospettare ad una persona un male futuro, il cui avverarsi dipende dalla volontà dell’agente. Bisogna che su tale male l’agente possa influire, e cioè che esso possa essere da lui determinato o non impedito. Se fa difetto questa condizione si ha semplice avvertimento. Il


male minacciato può riguardare non solo la vita e l’incolumità fisica, ma anche la libertà, il pudore, l’onore della persona. Non sono esclusi i beni patrimoniali (minaccia della distruzione di un bene). Deve però concernere un bene giuridicamente rilevante e, perciò, non può essere oggetto di minaccia, ad es., il togliere l’amicizia o l’invocare un castigo divino. La minaccia implica certamente la prospettazione di un male futuro, mentre la violenza implica un male attuale. Tanto la violenza quanto la minaccia sono spesso usate per recare direttamente al paziente un danno, vale a dire per ledere o porre in pericolo un suo interesse legittimo. Ma esse possono essere anche adoperate col fine specifico di coartarne la volontà.

LA VIOLENZA O MINACCIA COME MEZZI COERCITIVI DELLA VOLONTA’ ALTRUI Conviene distinguere la violenza propria dalla violenza impropria. La violenza propria comprende ogni energia fisica adoperata dal soggetto sul suo paziente per annullarne o limitarne la capacità di autodeterminazione. La violenza impropria comprende ogni altro mezzo che produca il medesimo risultato, esclusa la minaccia. Pertanto costituiscono violenza impropria tutte le attività insidiose con cui il soggetto viene posto, totalmente o parzialmente, nell’impossibilità di volere o di agire. L’impiego di tali mezzi è considerato dal diritto come violenza. Inoltre, la violenza impropria può consistere anche in una semplice omissione, come nel caso che sia fatto mancare il cibo ad un individuo incapace di procurarselo da sé per indurlo ad un dato comportamento. Per quanto concerne la minaccia non basta il preannunzio di un male futuro che dipende dall’agente cagionare o non impedire: occorre che tale male venga posto come alternativa. In ciò consiste la coercizione. Generalmente nella dottrina e nella giurisprudenza si distingue la vis physica dalla vis compulsiva, ravvisandosi la seconda esclusivamente nella minaccia. Mentre la prima annullerebbe completamente il potere di autodeterminazione, la seconda lo lascerebbe in parte sussistere. Così per la violenza, come per la minaccia, considerate quali mezzi coercitivi della volontà, valgono in generale le seguenti regole, salvo le precisazioni che saranno prospettate nell’esame delle singole figure delittuose: 1) l’idoneità del mezzo ai fini della coartazione della volontà va giudicata secondo la particolarità del caso concreto, e cioè tenendo del tempo, del luogo, delle modalità dell’azione e, soprattutto, delle condizioni personali della vittima; 2) alla violenza o minaccia esercitata sulla vittima equivale quella che sia diretta ad una terza persona legata alla prima da un vincolo particolare di affetto e di solidarietà. Forme speciali di coercizione della volontà sono quelle previste nell’art. 46 e nell’ultimo comma dell’art. 54. In queste ipotesi la violenza e la minaccia vengono in considerazione come cause di esclusione della punibilità della persona che, subentra l’una o l’altra, commetta un fatto che costituisce reato.

VIOLENZA PRIVATA Sotto tale denominazione possono essere ricomprese tre figure delittuose e pi precisamente: VIOLENZA PRIVATA TIPICA. È prevista nell’art. 610 e consiste nel fatto di colui che, “con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa”. Scopo della norma in parola è la necessità di tutelare quella possibilità di determinarsi spontaneamente, secondo motivi propri, che rappresenta uno degli aspetti essenziali della libertà personale e che generalmente è detta libertà morale. L’elemento oggettivo è costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano l’effetto di costringere taluno a fare, tollerare od omettere qualche cosa. La violenza o la minaccia debbono essere rivolte ad ottenere dal soggetto passivo una data azione od omissione. Per il codice in vigore l’avvenuto costringimento costituisce requisito essenziale del reato. Esso, quindi, ne segna la consumazione. Se il costringimento non si verifica, potrà aversi il tentativo, sempre che ne ricorrano gli estremi. Il fatto deve essere illegittimo. L’illegittimità è esclusa soltanto quando ricorra una specifica causa di giustificazione, in forza della quale l’agente abbia la facoltà giuridica imporre una determinata condotta al paziente. L’elemento psicologico consiste nella coscienza e volontà di usare violenza o minaccia, prevedendo che altri farà, tollererà od ometterà qualche cosa. Trattasi di dolo generico. Il delitto è aggravato se ricorrono le condizioni prevedute dall’art. 339 del codice, e, cioè se la violenza o la minaccia è commessa con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite o con scritto anonimo, o in modo simbolico, o valendosi della forza intimidatrice derivante da segrete associazioni, esistenti o supposte. VIOLENZA O MINACCIA PER COSTRINGERE A COMMETTERE UN REATO. Con l’art. 611 viene incriminata la violenza o la minaccia viene usata per costringere o determinare altri a commettere un fatto costituente il reato. L’azione tipica di questa figura di reato consiste nel semplice ricorso alla violenza o alla minaccia per conseguire il fine ora indicato. L’elemento psicologico si riassume nell’intenzione di usare violenza o minaccia per costringere o determinare taluno a commettere un reato. In questo caso è indubbio che il dolo richiesto è specifico. Se il soggetto passivo commette il reato, ne risponderà sempre chi lo ha costretto o determinato. Quanto alla responsabilità della persona coartata, essa sarà, a seconda delle circostanze, regolata dall’art. 46, dall’art. 54 o dalle norme sul concorso di più persone nel reato. Il delitto, come il precedente, è aggravato, se concorrono le condizioni indicate nell’art. 339 del codice. STATO DI INCAPACITA’ PROCURATO MEDIANTE VIOLENZA (art. 613). Risponde di tale reato “chiunque, mediante suggestione ipnotica o in veglia, o mediante somministrazione di sostanze alcoliche o stupefacenti, o con qualsiasi altro mezzo, pone una persona, senza il consenso di lei, in stato di incapacità di intendere o di volere”. Per l’esistenza del reato non è necessario che si verifichi un danno alla persona; basta che si realizzi uno stato di incapacità, nel quale la legge ravvisa una situazione di pericolo per lo stesso incapace o per i terzi. È necessario che tale stato si prodotto senza il consenso del paziente. Espressamente la legge dichiara che alla mancanza del consenso equivale il consenso dato dalle persone indicate all’art. 579 e cioè: • dalla persona minore degli anni diciotto; • dalla persona inferma di mente, o che si trova in condizione di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti; • dalla persona il cui consenso sia stato estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con l’inganno.


Il delitto si consuma nel momento in cui si verifica lo stato di incapacità. Il dolo consiste nella coscienza e volontà di determinare il risultato indicato nella norma incriminatrice. Il delitto è aggravato: • se il colpevole ha agito col fine di far commettere un reato; • se la persona resa incapace commette, in tale stato, un fatto preveduto dalla legge come delitto; • quanto alla responsabilità dell’incapace per il reato che egli commette, valgono le regole generali. Si tenga presente in particolare la norma contenuta nell’art. 86 del codice.

MINACCIA Ai sensi dell’art. 612, concreta tale delitto il fatto di colui che minaccia ad altri un danno ingiusto. La ratio dell’incriminazione è ravvisata di solito nella necessità di proteggere la libertà morale della persona contro influenze estranee che la limitino. La minaccia è un delitto generico e sussidiario, al quale spesso si sostituiscono le ipotesi specifiche prevedute dalla legge, come quando la minaccia è considerata elemento costitutivo o circostanza aggravante di un altro reato o la qualità del soggetto passivo importa un mutamento del titolo criminoso. Come si rileva dal testo dell’art. 612, l’elemento soggettivo postula soltanto la minaccia di un danno ingiusto. La minaccia può manifestarsi in svariate forme ed appunto in relazione alla varietà dei mezzi adoperabili la dottrina parla di minaccia esplicita o implicita, diretta o indiretta, reale o simbolica. A questa forma di minaccia si dava spesso il nome di “scopelismo”. La minaccia deve essere idonea a turbare la tranquillità di una persona: in altre parole a intimidirla. L’idoneità della minaccia non va determinata sulla base dell’effetto verificatosi in concreto, ma ex ante, tenendo conto di tutte le circostanze del singolo caso che potevano essere considerate nel momento della condotta. La presenza del soggetto passivo non è necessaria: basta che costui ne venga comunque a conoscenza. Oggetto della minaccia deve essere un danno ingiusto. Danno ai fini della presente norma, è ogni lesione, o messa in pericolo di un interesse facente capo al soggetto passivo. Il danno prospettato deve essere realizzabile e verosimile, poiché altrimenti l’azione non avrebbe quella capacità di intimidire che è nell’essenza della minaccia. Circa il requisito dell’ingiustizia del danno, si suole insegnare che è ingiusto il danno minacciato contra jus. Il delitto si consuma con la percezione da parte del soggetto passivo dell’espressione minacciosa, e, in particolare, nel momento in cui la parola è udita, lo scritto o il disegno è ricevuto o il gesto è visto dal soggetto stesso. Alla possibilità di concepire il tentativo punibile è di ostacolo il fatto che la minaccia, di regola è perseguibile a querela di parte, la quale ovviamente presuppone che il destinatario ne sia venuto a conoscenza. Il dolo è escluso dall’erronea supposizione della legittimità del danno minacciato. L’elemento psicologico ha particolare importanza altresì al fine di distinguere la minaccia della violenza privata. Sono previste due aggravanti speciali. La prima si verifica quando la minaccia è grave, la seconda allorché la minaccia è fatta in uno dei modi previsti dall’art. 399 del codice, e cioè con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite, o con scritto anonimo, o in modo simbolico, o valendosi della forza intimidatrice derivante da segrete associazioni, esistenti o supposte. La minaccia è grave quando è grave il male minacciato. La gravità del danno, però, non va valutata in modo assoluto, ma relativo, tenendo conto di tutte le circostanze del caso e specialmente delle condizioni soggettive del soggetto passivo. La minaccia è di regola perseguibile a querela della persona offesa. Si procede d’ufficio quando ricorrono le circostanze aggravanti di cui ora abbiamo parlato e nei confronti delle persone già sottoposte con provvedimento definitivo a misura di prevenzione.

SEQUESTRO DI PERSONA Per l’art. 605 si rende responsabile di questo delitto “chiunque priva il soggetto della libertà personale”. L’elemento oggettivo consiste nella privazione della libertà personale, la quale qui va intesa in senso restrittivo, e cioè come libertà spaziale o libertà di muoversi nello spazio. È indubitato che il sequestro di persona implica anche un’aggressione alla libertà psichica, tanto che nella dottrina straniera c’è chi considera il delitto in parola come una sottospecie della violenza privata. La privazione della libertà può essere effettuata nei modi più svariati: non solo con la violenza e la minaccia, ma anche con l’inganno. La dottrina suole distinguere i mezzi con cui il sequestro può effettuarsi in diretti e indiretti, a seconda che la perdita della libertà sia o meno una conseguenza immediata della condotta del colpevole. La condotta può essere sia attiva che omissiva. Per la realizzazione del delitto in parola è necessario che la perdita della libertà si protragga per un certo periodo di tempo di un certo rilievo. Il sequestro di persona è reato necessariamente permanente. Soggetto passivo del reato può essere anche chi si trovi già in stato di parziale privazione della libertà, qualora venga ulteriormente limitata la sfera di movimento a lui consentita. Il delitto si consuma nel tempo e nel luogo in cui si verifica la privazione della libertà personale nel senso sopra indicato. Non è discussa l’ammissibilità del tentativo. L’elemento soggettivo consiste nella coscienza e volontà di privare taluno della libertà personale, senza averne l’autorizzazione. Non occorre alcun fine speciale. La considerazione dello scopo in vista del quale il soggetto ha agito, assume importanza, potendo determinare il passaggio da questa ad altre figure delittuose. Particolare interesse, in relazione a questo delitto, presenta la questione della rilevanza o meno del consenso dell’offeso quale causa di giustificazione. Il consenso deve ritenersi efficace quando abbia per oggetto una limitazione soltanto circoscritta e secondaria del bene della libertà. Esso, pertanto, deve ritenersi invalido allorché si verifica la totale soppressione della libertà, ovvero una menomazione così grave da diminuire notevolmente la funzione sociale dell’individuo, come pure nei casi in cui gli atti di consenso siano, comunque, contrari alla legge, al buon costume o all’ordine pubblico. Il delitto è aggravato se il fatto è commesso: • in danno di un ascendente, di un discendente o del coniuge; • da un pubblico ufficiale, con abuso dei poteri inerenti alle sue funzioni; • da persona già sottoposta con provvedimento definitivo a misura di prevenzione.

DELITTI DEI PUBBLICI UFFICIALI CONTRO LA LIBERTA’ PERSONALE Gli art. 606, 607, 608 e 609 prevedono un gruppo di reati che sono caratterizzati dalla qualità di pubblico ufficiale nel soggetto attivo. Essi, con i loro comportamenti in violazione dei doveri inerenti a pubbliche funzioni ledono anche un interesse della Pubblica Amministrazione e ciò spiega come siano in ogni caso perseguibili d’ufficio.


ARRESTO ILLEGALE (art. 606). Risponde di questo delitto “il pubblico ufficiale che procede ad un arresto, abusando dei poteri inerenti alle loro funzioni”. Ciò che differenzia il reato in esame dal sequestro di persona è che nell’arresto illegale il pubblico ufficiale agisce con intenzione di mettere l’arrestato a disposizione dell’autorità competente, mentre ciò non si verifica in caso di sequestro aggravato. Nell’arresto anzidetto si ha, insomma, un’azione delittuosa sotto la parvenza della legalità, parvenza che non si riscontra nel sequestro di persona. La condotta importa un arresto effettuato con abuso di potere da parte del pubblico ufficiale. Il reato si consuma nel momento in cui si verifica la privazione della libertà. Quanto al dolo richiesto per questo delitto, va posto in rilievo che la consapevolezza di costituire un arresto illegale ne costituisce elemento essenziale. INDEBITA LIMITAZIONE DI LIBERTA’ PERSONALE (art. 607). Questa figura comprende tre ipotesi distinte: • il fatto del pubblico ufficiale che, essendo preposto o addetto a un carcere giudiziario o ad uno stabilimento destinato all’esecuzione di pena o di una misura di sicurezza, vi riceve taluno senza un ordine dell’Autorità competente; • il fatto del pubblico ufficiale che non obbedisce all’ordine di liberazione dato dall’Autorità competente; • il fatto del pubblico ufficiale che indebitamente protrae l’esecuzione della pena o della misura di sicurezza. La disposizione non è applicabile ai fatti commessi in stabilimenti diversi da quelli indicati. Sono da considerare pubblici ufficiali preposti ad un carcere giudiziario o ad uno stabilimento di cura, il direttore, il vicedirettore, ed il reggente; mentre sono addetti i funzionari di segreteria e ragioneria, i medici, i cappellani, gli insegnanti, i dirigenti e gli assistenti tecnici. L’azione, rispettivamente in ciascuna delle tre ipotesi contemplate nell’articolo in esame, consiste nell’ammettere taluno nelle carceri e negli stabilimenti anzidetti senza un ordine dell’Autorità, oppure nella disobbedienza all’ordine di liberazione, oppure, infine, nell’illegittimo ritardo frapposto alla liberazione. Nella prima ipotesi il delitto è di azione ed istantaneo; nelle altre due è omissivo e permanente. Secondo le regole generali, il dolo è escluso dall’errore circa i doveri del proprio ufficio. Poiché le singole fattispecie sono previste alternativamente come possibili forme di realizzazione di un’unica figura criminosa, se in un caso concreto esse vengano poste in essere congiuntamente, riteniamo che non vi sia concorso di reati. ABUSO DI AUTORITA’ CONTRO ARRESTATI O DETENUTI (art. 608). Viene incriminato il fatto del pubblico ufficiale che “sottopone a misura di rigore non consentite dalla legge una persona arrestata o detenuta, di cui egli abbia la custodia, anche temporanea, o che sia a lui affidata in esecuzione di un provvedimento dell’Autorità competente”. Soggetto attivo del delitto può essere anche il privato che procede all’arresto in flagranza di reato ai sensi dell’art. 383 c.p.c., poiché, in virtù del criterio funzionale adottato dal nostro diritto, egli assume la veste di pubblico ufficiale. La condotta, positiva o negativa, consiste nel sottoporre a misure di rigore non consentite dalla legge le persone arrestate o detenute, in modo da modificare in peggio lo stato di limitazione della libertà personale a cui dette persone sono già sottoposte. Il delitto, che è eventualmente permanente, si consuma nel momento in cui vengono inflitte le misure di rigore non consentite dalla legge. L’esistenza del dolo postula la consapevolezza dell’illiceità delle misure adottate nei confronti del soggetto passivo. PERQUISIZIONE ED ISPEZIONI PERSONALI ARBITRARIE (art. 609). Viene punito il pubblico ufficiale, che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, esegue una perquisizione o una ispezione personale. Essenziale all’esistenza del reato è che il pubblico ufficiale agisca abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, il che si verifica tanto nel caso di incompetenza assoluta, che in quello di inosservanza delle formalità prescritte dalla legge, come nel caso delle perquisizioni personali eseguite non a norma dell’art. 352 c.p.p. La perquisizione personale consiste nel sottoporre il paziente a investigazioni sul corpo e nella sfera di custodia del corpo stesso (vestiti) al fina di accertare se vi si nascondano determinati oggetti ed impossessarsene. L’ispezione personale è invece eseguita per compiere sulla persona dati rilievi (accertare la presenza di una cicatrice). Il delitto si consuma nel momento e nel luogo in cui il pubblico ufficiale inizia la perquisizione o l’ispezione, ovvero costringe o induce la persona ad obbedirgli. Come nelle tre figure incriminatrici precedenti, il dolo è escluso se l’agente non ha la consapevolezza di abusare dei poteri inerenti alle proprie funzioni.

ALTRI DELITTI CONTRO LA LIBERTA’ INDIVIDUALE: LA SHIAVITU’ RIDUZIONE IN SCHIAVITU’ E PLAGIO. Per l’art. 600 viene punito chiunque riduce una persona in schiavitù , o in una condizione analoga alla schiavitù. Con l’abrogato art. 603, d’altra parte, era punito a titolo di plagio colui che avesse sottoposto una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione. Per schiavitù, ai sensi della convenzione di Ginevra del 25 settembre 1926, si intende lo stato o la condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o alcuni di essi. Condizioni analoghe alla schiavitù sarebbero tutte quelle nelle quali una persona si trova in potestà di un’altra in conseguenza d’un rapporto di servizio. Si tratterebbe insomma del lavoro forzato o altrimenti obbligatorio. Il consenso dell’offeso non giustifica il fatto, essendo lo stato di libertà un diritto di cui il titolare non può disporre fino al punto di permetterne la completa soppressione. Per quanto disposto dall’art. 604 il fatto preveduto dall’art. 600 è punibile altresì quando sia commesso all’estero in danno di cittadini italiani. TRATTA, COMMERCIO, ALIENAZIONE E AQUISTO DI SCHIAVI. L’art. 601 incrimina il fatto di “chiunque commette tratta o comunque fa commercio di schiavi o di persone in condizione analoga alla schiavitù”, mentre l’art. 602 punisce “chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, aliena o cede una persona che si trova in stato di schiavitù, o nella condizione predetta”. A norma della convenzione di Ginevra del 1926 “la tratta degli schiavi comprende ogni atto di cattura, acquisto o cessione di un individuo per ridurlo in schiavitù; ogni atto di acquisto di uno schiavo per venderlo o scambiarlo; ogni atto di cessione per vendita o scambio d’uno schiavo acquistato per essere venduto o scambiato, come pure in genere, ogni atto di commercio o di trasporto di schiavi”. Questi due reati sono punibili anche quando siano commessi all’estero in danno di cittadini italiani.

DISPOSIZIONI PENALI CONTRO LA VIOLENZA SESSUALE Tutta la materia già appartenenti ai reati contro la libertà sessuale è stata rielaborata dalla legge 15 febbraio 1996, n. 66 e inserita nella sezione dei delitti contro la libertà personale in oggetto. VIOLENZA SESSUALE. L’art. 609 bis prende in considerazione il fatto di chi “con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali”. Il secondo comma dell’articolo pone sullo stesso piano “chi induce taluno a compiere o


subire atti sessuali: • abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; • traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona”. Per meglio intendere i contenuti delle ipotesi suddette occorre aver presente la disciplina degli abrogati articoli 519 e 521. In questi articoli venivano introdotte distinzioni come quella tra congiunzione carnale e atti di libidine, che avevano provocato non lievi divergenze in dottrina su una serie di concetti: significato di congiunzione carnale e suoi limiti; natura dell’atto; linea di confine con le condotte libidinose diverse dal coito e tra libidine e non libidine. Nell’intenzione del legislatore più recente tali difficoltà devono intendersi superate poiché la violenza o l’induzione hanno oggi per oggetto l’ampia nozione di atto sessuale, inteso come ogni manifestazione dell’istinto sessuale espressa in tutte le forme in cui può estrinsecarsi la libidine. La tipologia delle condotte rilevanti considera anzitutto gli atti sessuali imposti con violenza o minaccia. La costrizione può essere quindi tanto fisica quanto psichica. Non è richiesto che la minaccia o la violenza siano di particolare intensità; basta che siano idonee a vincere, nel caso concreto, la resistenza della vittima. La vis sopravvenuta dopo la dedizione spontanea di uno dei soggetti non basta a concretare il delitto, come nel caso di sevizie inflitte per sadica perversione, sevizie che tuttavia possono dar luogo a responsabilità per reati diversi. È ormai residuo storico l’assunto che non sarebbe illegittima la violenza tra coniugi per indurre all’adempimento del debito coniugale: anch’essa per certo è “contra legem” e può dar luogo al delitto in esame. Per l’integrazione del reato rileva altresì l’abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica dell’offeso. Tali condizioni non hanno più riguardo ai minori per i quali opera l’art. 609 quater. Come in passato analoga rilevanza viene attribuita alla induzione in errore mediante inganno. Così tra i soggetti per i quali si fa luogo a trattamento uguale a quello degli atti commessi con violenza o minaccia vanno annoverate le persone offese tratte in inganno per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. Nulla si oppone alla configurabilità del tentativo e il momento consumativo si colloca nel tempo e nel luogo dell’atto sessuale. Basta al dolo la coscienza e la volontà della violenza, minaccia e abuso con la coscienza della natura sessuale dell’atto e, nella ipotesi del capoverso, delle condizioni dei inferiorità fisica o psichica o dell’induzione in inganno della persona offesa. L’art. 609 ter contempla circostanze aggravanti se i fatti sono commessi: • nei confronti di persona che non abbia compiuto gli anni quattordici; • con l’uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa; • da persona travisata o che simuli la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio; • su persona comunque sottoposta a limitazione della libertà personale; • nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni sedici della quale il colpevole sia l’ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore. Infine, ma con un maggiore inasprimento della sanzione: nei confronti di persona che non abbia compiuto gli anni dieci. ATTI SESSUALI CON MINORENNE. L’art 609 quater incrimina chiunque, al di fuori delle ipotesi previste nell’art. 609 bis, compie atti sessuali con persona che, al momento del fatto: 1) non ha compiuto gli anni quattordici; 2) non ha compiuto gli anni sedici, quando il colpevole sia l’ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia il minore è affidato o che abbia, con quest’ultimo relazione di convivenza. Il secondo comma dell’art. dichiara non punibile “il minorenne che, al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 609 bis, compie atti sessuali con un minorenne che abbia compiuto gli anni tredici, se la differenza di età tra i due soggetti non è superiore a tre anni”. È necessario sottolineare che avendo l’art. 609 sexies escluso, come già avveniva con l’abrogato art. 539, la possibilità per il colpevole di invocare a propria scusa, per il fatto commesso nei confronti del minore degli anni quattordici, l’ignoranza dell’età dell’offeso, resta nell’ordinamento questa presunzione dettata, in deroga alla disciplina di cui all’art. 47 del codice, dalla necessità di impedire elusioni alla responsabilità di fatti così gravi. CORRUZIONE DI MINORENNE. L’art. 609 quinquies incrimina chiunque compie atti sessuali in presenza di persona minore degli anni quattordici, al fine di farla assistere. La sfera di azione di questo reato risulta assai limitata rispetto all’abrogato art. 530 del codice poiché larga parte dei contenuti di quest’ultimo appare trasferita negli art. 609 bis e 609 quater. L’agire in presenza, come in passato, ha riguardo a persona cosciente, poiché chi si trovi in condizioni di incoscienza, per qualsiasi motivo non può dirsi presente. In passato si erano prospettati dubbi in relazione al soggetto dormiente, in considerazione della possibilità che egli si destasse. VIOLENZA SESSUALE DI GRUPPO. l’art. 609 septies contempla una figura di reato del tutto nuova ed introdotta dalla legge 15 febbraio 1996 n. 66; esso reca: “La violenza sessuale di gruppo consiste nella partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di cui all’art. 609 bis”. Alla consumazione del reato basta anche un solo atto se commesso in presenza e in funzione del gruppo. Il dolo consiste nella coscienza e volontà di realizzare la violenza sessuale col concorso e la presenza di altri partecipanti. La circostanze aggravanti sono quelle stesse previste all’art. 609 ter. Sono circostanze attenuanti: • la minima partecipazione nella preparazione ed esecuzione del reato, rilevando per altro difficoltà di concepire una partecipazione nella sola preparazione del reato, postochè il partecipante deve comunque essere presente alla violenza; • l’essere stata determinata a commettere il delitto persona soggetta all’altrui autorità, direzione o vigilanza, o comunque che sia soggetta alla potestà dei genitori, quando l’istigatore sia chi esercita tali forme di potere sul partecipante.

DISPOSIZIONI COMUNI Esaminate le singole fattispecie criminose, è necessario illustrare alcune disposizioni che ad esse sono comuni e che nel codice figurano negli art. 609 sexies, septies, nonies e decies. 1) Per l’art. 609 sexies, quando i delitti previsti negli art. 609 ter, quater e octies sono commessi a danno di un minore degli anni quattordici e nel caso del delitto di cui all’art. 609 quinquies, il colpevole non può invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età


dell’offeso. 2) I delitti di cui agli art. 609 bis, ter, quater sono di regola perseguibili a querela di parte. La ratio di questa regolamentazione è evidente. L’esercizio dell’azione penale, mettendo in luce fatti che toccano la vita intima delle persone e che spesso sono rimasti poco noti o addirittura ignorati, può recare più danno che vantaggio alle vittime per la pubblicità che ne deriva: da qui la convenienza di lasciare alle persone stesse la facoltà di evitare il procedimento. 3) Il legislatore ha peraltro ravvisato la necessità di stabilire, in deroga alle regole generali, che la querela, una volta proposta, è irrevocabile (art. 609 septies comma 3). Quando la persona offesa muore prima che la querela sia stata proposta o se si tratta di offesa alla memoria di un defunto, il diritto di querela spetta ai prossimi congiunti, l’adottante e l’adottato. 4) Alla regola della perseguibilità a querela di parte la legge fa alcune importanti eccezioni, disponendo che si procede d’ufficio (art. 609 septies): se il fatto di cui all’art. 609 bis è commesso nei confronti di persona che al momento del fatto non ha compiuto gli anni quattordici; se il fatto è commesso dal genitore, anche adottivo, o dal di lui convivente, dal tutore, ovvero da altra persona cui il minore è affidato per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia; se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle proprie funzioni; se il fatto è commesso con altro delitto per il quale si debba procedere d’ufficio; infine si afferma che la procedibilità d’ufficio se il fatto è commesso nell’ipotesi di cui all’art. 609 quater, ultimo comma, cioè se la persona offesa non ha compiuto gli anni dieci. 5) L’art. 609 nonies del codice sancisce due norme speciali in ordine alle pene accessorie e agli altri effetti penali della condanna. Sono le seguenti: la condanna per alcun tipo dei delitti previsti dagli art. 609 bis, ter, quater, quinquies e octies importa la perdita della potestà dei genitori, quando la qualità di genitore, è elemento costitutivo del reato commesso, nonché l’interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela o curatela; importa altresì la perdita del diritto agli alimenti e dei diritti successori vero la persona offesa. 6) L’art. 609 decies stabilisce obblighi di comunicazione al Tribunale dei minorenni e detta norme per l’assistenza effettiva e psicologica a questi ultimi.

I REATI CONTRO L’ONORE REATI CONTRO L’ONORE IN GENERALE Onore è il complesso delle condizioni da cui dipende il valore sociale della persona: più precisamente è l’insieme delle doti morali (onestà, lealtà), intellettuali (intelligenza, educazione, istruzione) fisiche (sanità, prestanza) e delle altre qualità che concorrono a determinare il pregio dell’individuo nell’ambiente in cui vive. L’ordinamento penale, più che l’onore così concepito, ne considera i riflessi, i quali sono di due specie: soggettivo e oggettivo. Il riflesso soggettivo è costituito dall’apprezzamento che l’individuo fa delle sue doti e, in sostanza, del sentimento del proprio valore sociale. Il riflesso oggettivo è rappresentato dal giudizio degli altri, e precisamente dalla considerazione in cui l’individuo è tenuto dal pubblico: dalla reputazione di cui egli gode nella comunità. Il codice vigente configura due delitti contro l’onore: l’ingiuria e la diffamazione. Il codice, a differenza di quello abrogato, il quale distingueva le due figure delittuose a seconde che l’offesa non consistesse o non consistesse nell’attribuzione di un fatto determinato, considera come elemento caratteristico la presenza dell’offeso nell’ingiuria. Dalla disciplina codicistica discende che nell’ingiuria è offeso prevalentemente il sentimento del proprio onore, mentre nella diffamazione è offesa prevalentemente la reputazione.

CARATTERISTICHE COMUNI 1) Ambedue i delitti consistono in una manifestazione di pensiero. Come in tutti i reati del genere, per la consumazione di essi è necessario che l’espressione offensiva pervenga a conoscenza di un’altra persona: sia da altri percepita. Noi riteniamo che i due delitti abbiano a considerarsi di pericolo per la ragione che l’ingiuria non esige che il soggetto passivo si sia sentito offeso nel suo onore: abbia, cioè, provato un’umiliazione, mentre per la diffamazione non è necessario che il biasimo abbia trovato credito presso coloro che lo hanno appreso, e, quindi, non esige che la reputazione sia distrutta o diminuita. 2) La manifestazione offensiva ha un significato che, per quanto collegato con le parole pronunciate o scritte, oppure con i gesti effettuati, non è sempre identico per tutte le persone. Occorre mettere in rilievo che il valore offensivo di una espressione è assai relativo, variando notevolmente con i tempi, i luoghi e le circostanze. Occorre tenere presente che esiste un onore e decoro minimo che è comune ad ogni persona per il solo fatto di essere uomo. Tale onore e decoro deve essere rispettato in qualsiasi individuo. Questa è un’esigenza della civiltà moderna. Al di sopra del detto minimum, il carattere ingiurioso del fatto dipende dalla posizione sociale dell’offeso. 3) Chi può essere soggetto passivo dei delitti contro l’onore? Si discute se possano essere offesi gli individui privi della capacità d’intendere o di volere, e cioè gli immaturi e gli infermi di mente. Si afferma che queste persone per le loro condizioni non sono in grado di sentire l’offesa come tale, né di subire una diminuzione della reputazione. Poiché ciò non è sempre vero, e poiché è inammissibile svillaneggiare impunemente tali soggetti, riteniamo che si debba riconoscere anche ad esse la capacità di divenire soggetti passivi dei reati in esame. Si discute se un’offesa penalmente rilevante possa sussistere nei confronti delle persone giuridiche. Esatta pare la tesi positiva, perché, mentre in linea di fatto è ben possibile ingiuriare e diffamare enti collettivi, come una società, dicendo, ad es. che “è un’accolta di filibustieri”. I defunti devono invece escludersi dal novero dei possibili soggetti passivi dei delitti contro l’onore. L’offesa alla loro memoria. La quale è espressamente prevista nell’ultimo comma dell’art. 597, colpisce i viventi che hanno interesse a pretendere il rispetto, e cioè i prossimi congiunti, l’adottante e l’adottato, i quali sono i veri soggetti passivi del reato. 4) Entrambi i reati sono perseguibili a querela di parte. Qualora l’offeso decida prima della presentazione delle querela senza aver espressamente o tacitamente rinunziato al diritto relativo, la querela, per il disposto del terzo comma dell’articolo predetto (597), può essere proposta da un prossimo congiunto oppure dal suo adottante o adottato, sempre che non sia decorso il termine di tre mesi dal giorno in cui l’estinto aveva avuto notizia del fatto che costituisce il reato. Ai prossimi congiunti, all’adottante e all’adottato spetta


altresì il diritto di querela per le offese alla memoria dei defunti.

INGIURIA Ai sensi dell’art. 594 questo reato consiste nel fatto di colui che “offende l’onore o il decoro di una persona presente”. L’elemento oggettivo del reato consta di due componenti, il primo dei quali è costituito da una offesa all’onore o al decoro di una persona. L’onore è espressione qui usata in senso stretto, e cioè come indicativa delle sole qualità morali. Il decoro va riferito alle altre qualità e condizioni che concorrono a costituire il valore sociale dell’individuo. L’ingiuria, sia che riguardi l’onore nel senso indicato, sia che concerna il decoro, è sempre atto di disprezzo. Ma l’offesa all’onore o al decoro della persona non è sufficiente a costituire l’elemento oggettivo dell’ingiuria: occorre anche la presenza dell’offeso. Il delitto si consuma con la percezione, da parte del soggetto passivo, dell’espressione oltraggiosa: in altri termini, nel momento in cui la parola è udita, l’atto è visto, lo scritto o il disegno è ricevuto dal soggetto stesso. Data la struttura del delitto di ingiuria, il tentativo è certamente configurabile in astratto. In concreto, la possibilità di ravvisarne gli estremi è alquanto limitata dal fatto che il reato è perseguibile a querela di parte, e questa presuppone che il soggetto passivo sia venuto a conoscenza dell’offesa rivoltagli. L’essenza del dolo richiesto per l’ingiuria è controversa. Una notevole corrente dottrinaria considera necessario il c.d. animus iniurandi, vale a dire, l’intenzione di offendere la persona, di ledere il suo sentimento dell’onore. Se il legislatore avesse voluto esigere l’intenzione, e cioè il fine di ledere l’onore della persona, avrebbe configurato l’elemento soggettivo del reato come dolo specifico. In base a queste considerazioni si deve ritenere che per l’esistenza del dolo dell’ingiuria basti che l’agente, nel realizzare volontariamente, si sia reso conto della capacità offensiva delle parole pronunciate o scritte, oppure gli atti compiuti. Il codice contempla per l’ingiuria due circostanze aggravanti speciali. La prima consiste nell’attribuzione di un fatto offensivo determinato. Ma quando è che un fatto può dirsi determinato? Per aversi questo risultato, non è necessario che siano precisate tutte le particolarità del fatto addebitato; basta che la sua enunciazione presenti una certa concretezza, sia, cioè, accompagnata da qualche nota che la faccia apparire vera, rendendola credibile. La seconda aggravante ricorre allorché viene commessa in presenza di più persone. In proposito va rilevato che tra le persona presenti, le quali debbono essere naturalmente almeno due, non va compreso né l’offeso né gli eventuali compartecipi dell’agente. Affine al delitto in esame è la contravvenzione prevista nell’art. 660 del codice, contravvenzione della quale parleremo in sede più opportuna.

DIFFAMAZIONE Per l’art. 595 si ha la diffamazione allorché taluno, “fuori dai casi indicati nell’articolo precedente”, “comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione”. L’elemento oggettivo di questo reato implica tre requisiti: • assenza dell’offeso. Questo elemento negativo implica che l’offeso non sia presente nel momento dell’azione criminosa; • l’offesa all’altrui reputazione; la reputazione non è altro che il riflesso oggettivo dell’onore inteso in senso ampio, e cioè la valutazione che il pubblico fa del pregio dell’individuo e, quindi, la stima che questi gode tra i consociati; • l’offesa alla reputazione deve essere effettuata “comunicando con più persone”. Con tale modalità si realizza quella divulgazione che è una delle caratteristiche strutturali del reato. Il mezzo con cui si attua la comunicazione, come per l’ingiuria, è indifferente: parole, scritti, disegni e così via. Anche la fotografia, la cinematografia, la radio, la televisione, la videoscrittura possono essere utilizzati a tale scopo. La comunicazione deve essere fatta ad almeno due persone, ma non è necessario che avvenga contemporaneamente, potendo aver luogo in tempi diversi. Essa non perde il carattere criminoso se è fatta in via confidenziale o riservata. Il delitto si consuma nell’istante in cui si verifica la diffusione della manifestazione offensiva. Si intende che, nel caso di comunicazione fatta separatamente a varie persone, il momento consumativo coincide con la seconda comunicazione. Per il tentativo vale quanto detto per l’ingiuria. Anche per l’elemento soggettivo vale quanto detto per l’ingiuria. Quindi non si reputa indispensabile l’animus diffamandi, inteso come fine di ledere la reputazione di un’altra persona, perché l’art. 595, al pari del precedente, non esige un dolo specifico. Sono previste tre circostanze aggravanti speciali, le quali ricorrono: • allorché l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad un’Autorità costituita in collegio; • se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato; • quando l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico. La ratio di questa aggravante sta proprio nel fatto che il mezzo di comunicazione usato importa una maggiore divulgazione dell’addebito disonorante e, quindi, determina un maggior danno. Per quanto concerne in particolare la stampa, permesso che per l’art. 1 della legge 8 febbraio 1948 n. 47 sono considerate stampe o stampati tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione, va notato che è indifferente che si tratti di stampa periodica o episodica. È pure indifferente che la diffusione si sia verificata con l’osservanza delle prescrizioni di legge o senza.

LE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE Trovano larga applicazione le cause di giustificazione che il codice prevede per tutti i reati nella Parte generale. È necessario qui far cenno delle ipotesi principali che rientrano in quegli schemi, anche perché rispetto ad alcune di esse sorgono difficoltà interpretative. Le cause di giustificazione che più ricorrono nel campo dei reati contro l’onore sono l’adempimento di un dovere giuridico e l’esercizio di una facoltà legittima (art. 51). Fra i doveri giuridici che escludono la punibilità delle offese recate al sentimento dell’onore o alla reputazione di una persona ricordiamo in particolare: • l’obbligo di denuncia di reato che incombe ai pubblici ufficiali, agli incaricati di un pubblico servizio, agli esercenti di professioni sanitarie e in alcuni casi a tutti i cittadini; • l’obbligo di esporre determinati fatti imposti ai testimoni, ai periti, agli interpreti nel processo sia penale che civile;


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l’obbligo che spetta ai pubblici ufficiali, compresi i giudici di motivare i provvedimenti che adottano; l’obbligo di rendere note agli interessati le irregolarità riscontrate nella gestione delle imprese commerciali, prescritto dalle leggi civili ai sindacati delle società, ai liquidatori, ai curatori di fallimento ecc. Assai numerosi sono i casi in cui la punibilità è esclusa per l’esercizio di una facoltà legittima. Le ipotesi più notevoli possono così raggrupparsi: • facoltà di biasimo derivante da un potere disciplinare. Tale potere, che può avere il suo fondamento in rapporti di famiglia, di impiego, di lavoro, di associazione esclude che nel rimprovero rivolto dal superiore all’inferiore possano ravvisarsi gli estremi dell’ingiuria e della diffamazione; • facoltà di critica direttamente o indirettamente riconosciuta dall’ordinamento. Nella categoria rientra anzitutto la critica politica, la critica artistica e scientifica. La facoltà di critica non è senza limiti. Per giustificare il fatto essa deve corrispondere allo scopo per cui la facoltà è concessa e deve essere svolta con correttezza di modi; • facoltà di narrare al pubblico, per mezzo della stampa, i fatti che avvengono. La facoltà in esame, riconosciuta anche all’art. 21 della Costituzione, riguarda anzitutto i resoconti sia degli atti parlamentari che degli atti giudiziari. la Facoltà in parola concerne poi la cronaca vera e propria. Possono ritenersi lecite pubblicazioni che riguardino la vita privata delle persone, ledendone l’onorabilità, a meno che i fatti non siano già oggetto di inchiesta da parte dell’Autorità giudiziaria o non presentino un rilevante interesse pubblico. Da ultimo ricordiamo che le informazioni commerciali, in quanto fornite regolarmente nei modi consentiti dalla legge o dalla consuetudine, non possono dar luogo a responsabilità penale.

CAUSE SPECIALI DI NON PUNIBILITA’ Per i delitti contro l’onore sono previste quattro cause speciali di non punibilità. 1) OFFESE IN SCRITTI E DISCORSI PRONUNCIATI DAVANTI ALLE AUTORITA’ GIUDIZIARIE O AMMINISTRATIVE. L’art. 598 del codice stabilisce che “non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all’Autorità giudiziaria, ovvero dinanzi a un’Autorità amministrativa, quando le offese concernano l’oggetto della causa o del ricorso amministrativo”. Per quanto le offese poste in essere nelle circostanze e nei modi sopra indicati vadano esenti da pena, il giudice, pronunciando nella causa, non può solo richiedere provvedimenti disciplinari a carico dell’autore, ma anche ordinare la soppressione o la cancellazione, in tutto o in parte, delle scritture offensive, ad assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale. 2) LA PROVOCAZIONE. Per il disposto dell’art. 599 comma 2 non è punibile chi ha commesso uno dei fatti di cui agli art. 594 e 595 “nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso”. La provocazione assurge nei delitti contro l’onore a causa di giustificazione. Perché ciò avvenga, però, la legge esige che la reazione offensiva si verifichi subito dopo il fatto che ha determinato lo stato d’ira, il che, come è noto, non è richiesto nei casi normali di provocazione. 3) RITORSIONE. Un particolare potere è attribuito al giudice in materia di delitti contro l’onore, e più precisamente per il delitto di ingiuria. Il primo comma dell’art. 599, infatti, stabilisce che nei casi previsti dall’art. 594, “se le offese sono reciproche, il giudice può dichiarare non punibili uno o entrambi gli offensori. Nel terzo comma dell’articolo viene precisato che tale disposizione si applica anche all’offensore che non abbia proposto querela per le offese ricevute. Affinché le offese possano considerarsi reciproche è necessario che esista tra di esse un rapporto diretto, e cioè che l’una sia conseguenza dell’altra. Certamente entrambe le offese devono essere illegittime, ma non si esige che siano della stessa qualità. La legge rimette completamente al saggio giudizio del magistrato. PROVA LIBERATORIA. L’art. 596 del codice nel testo originale recava: “Il colpevole di delitti preveduti dai due articoli precedenti non è ammesso a provare, a sua discolpa, la verità o la notorietà del fatto attribuito alla persona offesa. Tuttavia, quando l’offesa e l’offensore possono, d’accordo, prima che sia pronunciata sentenza irrevocabile, deferire ad un giurì d’onore il giudizio sulla verità del fatto medesimo”. Nel 1944 nel riportato articolo sono state aggiunte le seguenti disposizioni: quando l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la prova della verità del fatto medesimo è però sempre ammessa nel procedimento penale: a) se la persona offesa è un pubblico ufficiale ed il fatto ad esso attribuito si riferisce all’esercizio delle sue funzioni; b) se per il fatto attribuito alla persona offesa è tuttora aperto o si inizia contro di essa un procedimento penale; c) se il querelante domanda formalmente che il giudizio si estenda ad accertare la verità o la falsità del fatto ad esso attribuito. Se la verità del fatto è provata o se per esso la persona, a cui il fatto è attribuito, è condannata dopo l’attribuzione del fatto medesimo, l’autore dell’imputazione non è punibile, salvo che i modi usati non rendano di per se stessi applicabili le disposizioni dell’art. 594 comma 1 o dell’art. 595 comma 1 (ingiuria o diffamazione). Una volta richiesta l’estensione ad accertare la veridicità delle affermazioni, la richiesta diviene irrevocabile. NOTIZIE STORICHE. Nel diritto romano l’onore era il pieno godimento dei diritti civili. L’onore nel rilievo attuale, ebbe netto rilievo nel diritto germanico, il quale lo considerò come bene giuridico a sé sotto il duplice aspetto del sentimento della propria dignità e della reputazione da parte di terzi. L’elaborazione di tali teorie da parte dei giuristi del Medioevo preparò le riforme del periodo dell’illuminismo, alle quali si riallacciano le legislazioni moderne.

REATI CONTRO IL PATRIMONIO REATI CONTRO IL PATRIMONIO I delitti contro il patrimonio sono riuniti nell’ultimo titolo del libro secondo del codice. Il codice del 1889 denominava questa classe di reati “delitti contro la proprietà”, ma lo stesso ministro proponente si era reso conto dell’inadeguatezza dell’intitolazione, dichiarando che l’espressione “proprietà” doveva essere intesa in senso ampio, sì da comprendere non solo il diritto di proprietà, ma anche il possesso ed ogni diritto reale e di obbligazione. Non si deve credere che le figure criminose contenute nel predetto titolo del codice esauriscano i delitti contro il patrimonio. L’esistenza di reati patrimoniali fuori del tredicesimo titolo del libro secondo del codice, non solo è incontestabile, ma trova un riconoscimento esplicito nella legge, la quale, nel prevedere l’aggravante comune del danno patrimoniale di


rilevante gravità e la correlativa attenuante del danno di speciale tenuità. D’altra parte, sarebbe erroneo ritenere che nei reati contemplati nel titolo in esame siano offesi soltanto interessi patrimoniali. Ve ne sono parecchi, come la rapina (art. 628), l’estorsione (art. 629), il ricatto (art. 630) e la turbativa violenta del possesso di cose immobili (art.634), i quali ledono altresì la sicurezza e la libertà della persona. Nello studio dei reati patrimoniali si è delineato nella dottrina un contrasto tra due pensiero. Una di esse, la c.d. corrente privatistica, sostiene che il significato da attribuirsi ai termini che traggono origine dal diritto privato va desunto esclusivamente da questo, non potendo il diritto penale modificare l’essenza di istituti che sono propri di altri rami del diritto e dovevano limitarsi ad aggiungere la sua speciale tutela e quella ordinaria del diritto privato. La seconda corrente, che viene denominata “autonomista”, afferma, invece, che il diritto penale, quando si riferisce ad istituti trovano la loro fondamentale regolamentazione nel diritto privato, li riplasma in modo indipendente, sicché essi vengono ad assumere un significato o, per lo meno, una colorazione autonoma. A nostro avviso, il quesito va risolto caso per caso, e cioè per ogni singolo concetto, trattandosi di un problema di interpretazione. Punto di partenza debbono essere le nozioni elaborate e accolte dal diritto privato, al quale appartengono i relativi istituti. È necessario, però, che tali nozioni vengano saggiate al lume delle varie norme del diritto penale per verificare le conseguenza che derivano dall’applicazione di esse. Nozione di patrimonio. È patrimonio il complesso delle attività e delle passività che si riferiscono ad una persona. Dal punto di vista strettamente giuridico il patrimonio viene generalmente definito come il complesso dei rapporti giuridicamente rilevanti che fanno capo ad una persona. I cultori del diritto privato spiegano che, più che insieme di oggetti o cose, si tratta di insieme di rapporti, e cioè di diritti e di obblighi, ma pongono in rilievo che tali rapporti debbono riferirsi a cose o altre entità aventi un valore economico e, quindi, debbono essere valutabili in denaro. Il criterio del valore economico e pecuniario non può essere accolto dai penalisti nel senso ristretto in cui lo intende la maggior parte della dottrina privatistica. Se un oggetto, pur essendo privo di un valore di scambio, ha per colui che lo possiede un valore di affezione, come ad es. una ciocca di capelli, l’oggetto stesso non può considerarsi esterno al patrimonio. Premessa questa precisazione, osserviamo che fanno parte del patrimonio non solo tutti i diritti reali ma anche i diritti di obbligazione. Anche i valori posseduti in contrasto con il diritto fanno parte del patrimonio dato che, entro certi limiti, il possesso di essi, come quasi concordemente si ammette, è tutelato dall’ordinamento giuridico. Per l’incontro, si ritiene generalmente che non faccia parte del patrimonio la capacità produttiva, e cioè la forza lavoro, perché troppo intimamente connessa con la persona umana. Da quanto abbiamo detto risulta che la dibattuta questione della natura giuridica o economica del patrimonio, considerato come oggetto della tutela penale, va risolta nel primo senso. È noto che l’ordinamento giuridico in taluni casi e per certi scopi considera il patrimonio come una unità organica e lo tratta come un sol tutto, indipendentemente dai diritti che lo compongono (defunto, il fallito). La dottrina italiana è concorde nel ritenere che nel campo penale il patrimonio non è mai tutelato come un’entità autonoma. Si dice generalmente che ai fini della tutela penale il patrimonio, di fronte all’attività del reo che lo aggredisce, si discioglie, risolvendosi nei singoli rapporti dai quali risulta, ed in sostanza nelle singole cose e diritti che lo compongono. Malgrado l’unanimità di consensi, questa opinione non può essere accolta, essendo inesatta la premessa da cui parte, e cioè l’affermazione che la legge penale non offra alcuna figura delittuosa che sia preordinata alla tutela dell’intero patrimonio. La distinzione delle cose. Per il diritto sono cose tutti gli oggetti che possono corporali e quelle altre entità naturali che hanno un valore economico e sono suscettibili di appropriazione. Nella nozione di cosa rientrano anche le energie, le quali per lungo tempo ne sono state escluse, in quanto si ravvisava il segno caratteristico della cosa nella corporeità. Gli animali sono cose. Le cose si distinguono in mobili e immobili. La distinzione, di grande importanza per il diritto penale, trova la sua fonte nel codice civile, all’art. 812, il quale dispone: “Sono beni immobili il suolo, le sorgenti e i corsi d’acqua, gli alberi, gli edifici e le altre costruzioni, anche se unite al suolo a scopo transitorio, e in genere tutto ciò che naturalmente o artificialmente è incorporato al suolo. Sono reputati immobili i mulini, i bagni e gli altri edifici galleggianti quando sono saldamente assicurati all’alveo o alla riva e sono destinati ad esserlo in modo permanente per la loro utilizzazione. Sono mobili tutti gli altri beni”. L’altruità della cosa. In tutte le disposizioni che delineano delitti aventi per oggetto materiale non l’intero patrimonio, ma una cosa determinata, figura l’aggettivo altrui; il che significa che la cosa rubata, usurpata, danneggiata deve appartenere a persona diversa dall’autore dell’azione criminosa. Sul concetto di altruità non esiste una teoria generale e in dottrina viene affrontato e risolto nella trattazione del delitto di furto. Su di un punto non vi sono dubbi: non è altrui la res nullius e cioè la cosa che non è di proprietà di alcuno. Le cose che erano già di proprietà di alcuno divengono nullius quando siano abbandonate. Il problema principale in ordine all’altruità della cosa e se sia altrui la cosa che è di proprietà di altri oppure la cosa su cui altri vantano un diritto di godimento o di garanzia. Bisogna ritenere che l’espressione cosa altrui vada intesa in senso stretto, e cioè nel senso di cosa di proprietà di altri, e che, in conseguenza, il proprietario non può essere soggetto attivo di reati che esigono l’altruità della cosa. Il danno. Nel quadro dei delitti contro il patrimonio presentano un interesse di primo piano le nozioni di danno e di profitto. Il danno non è solo requisito esplicito di alcune figure criminose, ma deve considerarsi requisito implicito di tutti i delitti patrimoniali. Il danno richiesto dai delitti in esame è di natura patrimoniale. È danno la deminutio patrimonii, vale a dire la diminuzione del complesso dei valori che compongono il patrimonio. Detto danno può consistere così nella riduzione dei crediti come nell’incremento dei debiti. In ogni caso si tratta di una alterazione sfavorevole del rapporto tra gli elementi attivi e gli elementi passivi del patrimonio. Il patrimonio comprende anche i beni che hanno un puro valore di affezione (ricordi di famiglia). Il profitto. Nella maggior parte delle relative norme incriminatrici si esige che l’azione sia compiuto a scopo di profitto. Orbene, il diritto italiano è da tempo orientato nel senso della più estesa concezione del profitto. Non è profitto soltanto il vantaggio economico e, più in generale, l’incremento del patrimonio, ma qualunque soddisfazione o piacere che l’agente si riprometta dalla sua azione criminosa. Qualche dubbio è stato sollevato in ordine al profitto che deriva immediatamente dalla cosa sottratta, ma ne è conseguenza indiretta. In quasi tutte le norme incriminatrici nelle quali si parla di profitto, figura l’aggettivo ingiusto, il che significa che in tali casi per l’esistenza del reato è necessario che il profitto avuto di mira o realizzato dall’agente abbia il carattere della ingiustizia. Non può considerarsi ingiusto, fra l’altro, il profitto di colui che mira di a realizzare un suo credito di giuoco o di scommessa (1993 c.c.), un suo credito prescritto (2940 c.c.) e in genere il profitto che corrisponde all’esecuzione di doveri morali o sociali (art. 2034 c.c.), come ad es. l’aiuto pecuniario preteso dalla donna sedotta o dal figlio naturale. Quanto al profitto non patrimoniale, a nostro parere, esso dovrà considerarsi ingiusto tutte le volte che sia in contrasto con l’ordinamento giuridico. Così va ritenuto ingiusto il profitto che si propone colui che ruba una rivoltella per togliersi la vita, dato che, come più volte abbiamo avuto occasione di notare, il suicidio, pur non essendo punito, costituisce un illecito giuridico. Il codice, quando parla di profitto, aggiunge sempre la formula per sé o per altri. Ne deriva che la


responsabilità penale sussiste anche se la lesione del patrimonio è stata effettuata dal soggetto per avvantaggiare una terza persona. Il possesso nel diritto penale. Per la chiarezza dell’esposizione è necessario avere davanti agli occhi le disposizioni che nel codice civile regolano il possesso ed ha attinenza col problema che noi dobbiamo affrontare e risolvere. L’art. 1140 del detto codice dispone: “Il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale. Si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa”. L’art. 1168, infine, nei primi due commi reca: “Chi è stato violentemente od occultamente spogliato del possesso può, entro l’anno del sofferto spoglio, chiedere contro l’autore di esso la reintegrazione del possesso medesimo. L’azione è concessa altresì a chi ha la detenzione della cosa, tranne il caso che l’abbia per ragioni di servizio o di ospitalità”. In relazione alla nozione di possesso si sono fronteggiate due correnti di pensiero: corrente privatistica e corrente autonomista. I seguaci del primo indirizzo affermano che il possesso ai fini del diritto penale coincide del tutto col possesso che è delineato e regolato dal codice civile; i fautori del secondo, sostengono che nel campo del diritto penale il concetto di possesso ha un significato e una portata particolare. Il Nuvolone, orientato nel senso dell’autonomia, ha negato la configurabilità di una fattispecie possessoria unitaria, penalmente rilevante: ha cioè contestato che il termine possesso nelle non poche disposizioni del codice che ad esso si riferiscono abbia sempre lo stesso significato e con minuta analisi ha cercato di precisare tale significato caso per caso. Ma il punto più caratteristico della concezione del Nuvolone consiste nella tesi secondo la quale al centro del fenomeno possessorio sarebbe il concetto di apparentia iuris. In tanto in un rapporto materiale con una cosa è possesso in senso giuridico, in quanto sia accompagnato dall’apparenza di diritto, la quale si determina alla stregua di un duplice ordine di fattori, positivi o negativi. Questa concezione non ha trovato seguito tra i cultori del diritto privato ed anche a noi non sembra convincente, perché il concetto dell’apparentia iuris manca i quella precisione che sarebbe necessaria per gettare luce sulla delicata materia. A nostro modo di vedere il possesso, nell’ambito del diritto penale, consiste nella relazione tra la persona e la cosa, che consente alla prima di disporre della cosa in modo autonomo, e che la disponibilità è autonoma quando si svolge all’infuori della diretta vigilanza di una persona che abbia sulla cosa un potere giuridico maggiore. Semplice detentore, d’altra parte, è colui che esplica il potere di fatto sulla cosa nella sfera di vigilanza del possessore. Determinata nel modo indicato l’estensione che il concetto del possesso assume nel diritto penale, osserviamo che per tutto il resto valgono nel nostro ramo giuridico le regole che disciplinano la materia del diritto civile, e particolarmente le regole che riflettono il momento normativo del fenomeno possessorio. In conseguenza: • Il possesso sulla cosa permane malgrado che il potere di fatto momentaneamente non si esplichi in modo effettivo; • In caso di morte il possesso continua nell’erede, senza bisogno che costui apprenda materialmente la cosa, giusta le disposizioni contenute negli articoli 1146 e 460 del codice civile. Questo principio spiega come possa ravvisarsi il delitto di furto nei casi, purtroppo frequenti, di sciacallismo, e cioè quando vengono sottratti dei valori ai cadaveri; • Per quanto il possesso esiga la conoscenza di ciò che forma oggetto della signoria di fatto, non è tuttavia necessario che tale conoscenza riguardi particolarmente ogni singola cosa.

LA CLASSIFICAZIONE DEI DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO Il codice attuale divide i delitti contro il patrimonio in due classi, secondo che siano commessi mediante violenza alle cose o alle persone, oppure mediante frode. Nella prima classe sono comprese le varie figure di furto, la rapina, l’estorsione, il ricatto, l’usurpazione e le altre violazioni dei diritti sui beni immobili nonché i delitti di danneggiamento; nella seconda la truffa con le frodi similari, le appropriazioni indebite, l’usura e la ricettazione. La classificazione dei delitti in parola incontra un ostacolo, probabilmente insuperabile, nel fatto che, mentre essi hanno il medesimo oggetto giuridico, in quanto tutti offendono il patrimonio, le diversità che intercorrono tra l’uno e l’altro dipendono da un notevole numero di elementi di varia indole, come le modalità dell’azione criminosa, la natura e la specie dell’oggetto materiale, l’intenzione dell’agente, elementi che, per giunta, spesso si intrecciano tra loro.

REATI CONTRO IL PATRIMONIO IN PARTICOLARE FURTO Il furto è uno dei delitti che in pratica ricorrono con maggiore frequenza, così come il suo autore è uno dei tipi più comuni di delinquente. Il nostro codice nell’art. 624 delinea la fattispecie del furto con la seguente formula: “Chiunque s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne il profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da lire sessantamila a un milione”. Scopo dell’incriminazione è senza dubbio la tutela del possesso delle cose mobili. Tale possesso è protetto anche dalle norme del diritto privato, specialmente con le azioni di reintegra e di manutenzione, ma questa tutela non può ritenersi sufficiente. L’oggetto specifico della tutela penale nel furto è costituito dal possesso, e ciò si desume sia dal fatto che l’essenza del delitto consiste nel passaggio del possesso ad un’altra persona, sia dalla considerazione che la norma sopra riferita dimostra che qualsiasi possessore è protetto dalla legge penale. Qualche autore ravvisa nel furto una violazione della proprietà, ma questa opinione non si può accogliere, perché l’interesse del proprietario che non sia contemporaneamente possessore non sempre è leso nel furto. Soggetto passivo del delitto deve ritenersi il possessore della cosa mobile. A costui spetta il diritto di querela nei casi in cui il furto non è perseguibile d’ufficio. Oggetto materiale dell’azione nel furto è una cosa mobile altrui (per il concetto di cosa mobile altrui, vedere il capitolo precedente). L’azione esecutiva del furto consiste nell’impossessamento della cosa ora descritta. Tale impossessamento deve presentare una nota negativa, e cioè non deve verificarsi mediante violenza o minaccia, perché altrimenti il fatto trapassa nel reato maggiore di rapina (art. 628). Ma quando è che si verifica l’impossessamento che caratterizza il furto? Sono stati delineati vari criteri: • Il primo è quello che ravvisa l’impossessamento nel semplice fatto di porre la mano sopra la cosa per impadronirsene; • Per un’altra teoria, l’impossessamento consiste nell’amotio della cosa, e cioè nello spostamento della medesima dal luogo in cui si trova; • Una terza concezione esige l’ablatio, vale a dire l’asportazione della cosa e il suo trasferimento fuori della sfera di custodia del possessore;


Un’ultima teoria (c.d. della illazione) considera avvenuto l’impossessamento quando la cosa sia stata trasportata dal ladro nel luogo prestabilito e sia stata così messa al sicuro. Poiché nel testo dell’articolo 624 si parla tanto di impossessamento, quando di sottrazione, è necessario esaminare separatamente i due concetti, cominciando dal secondo che senza dubbio, dal punto di vista logico, costituisce un prius rispetto all’altro. Sottrazione significa eliminazione, privazione all’altrui possesso, e cioè spossessamento. La mancanza del possesso da parte dell’agente, perciò, è un presupposto del furto, presuppone che, distingue questo reato all’appropriazione indebita. Le difficoltà sorgono quando si tratta di precisare i casi in cui manca il possesso, e ciò a causa delle incertezze che sussistono sulla nozione di questo istituto. Nell’ambito penale è possesso la relazione tra la persona e la cosa che consente alla prima di disporre della seconda in modo autonomo e che la disponibilità deve ritenersi autonoma quando si svolge al di fuori della diretta vigilanza di una persona che abbia sulla cosa medesima un potere giuridico maggiore. Non sono quindi possessori, ma semplici detentori coloro che dispongono della cosa entro la sfera di sorveglianza del possessore. In conseguenza, risponde di furto e non di appropriazione indebita, ad esempio: • La cameriera che si impossessa di un monile che la sua padrona ha lasciato nell’armadio; • L’ospite che si impadronisce di una posata d’argento che gli è stata consegnata per l’uso; • Il commesso o l’operaio che sottrae un oggetto che ha a sua disposizione nella bottega o nell’officina; • Il portabagagli che, dopo aver avuto in consegna una valigia, si dilegua tra la folla della stazione; • Il cliente che in un negozio, avuto in mano un oggetto per osservarlo, si dà alla fuga; • Il detenuto che, fuggendo, si impossessa di cose dategli in dotazione dall’amministrazione del carcere. Va tenuto presente che il concetto di sottrazione, se implica la mancanza di possesso da parte dell’autore, implica altresì il dissenso del possessore. Una volta verificatasi la detta sottrazione, il consenso successivo o la ratifica del possessore non escludono l’esistenza del reato. Quanto all’impossessamento è opinione assai diffusa che esso equivalga alla sottrazione. In quest’ordine di idee si è espressa e si esprime tuttora la giurisprudenza prevalente. Si è detto che i momenti della sottrazione e dell’impossessamento non esprimono che un duplice aspetto dello stesso fenomeno, considerato rispettivamente dal punto di vista del soggetto passivo e dell’agente: rappresentano, in altri termini, il diritto e il rovescio della medesima medaglia. L’impossessamento si verificherebbe appena il ladro toglie al derubato la materiale disponibilità della cosa. Tale opinione non può ritenersi fondata. Se, infatti, il possesso è la disponibilità autonoma della cosa, l’impossessamento non può significare che acquisto di tale disponibilità, e cioè di una disponibilità che si esplichi al di fuori della cerchia di sorveglianza del precedente possessore. Dovendo ritenersi erronea l’asserita coincidenza tra impossessamento e sottrazione. Il furto si perfeziona con l’impossessamento, e cioè quando l’agente acquista la disponibilità autonoma della cosa. Solo allorché la cosa esce dalla sfera di vigilanza del precedente possessore e si crea un nuovo possessore, il furto può dirsi consumato. I mezzi utilizzati per impossessarsi della cosa sono indifferenti. L’infondata opinione che sottrazione e impossessamento siano un tutt’uno e che in conseguenza l’impossessamento si verifichi nell’istante in cui al derubato viene tolta la disponibilità materiale della cosa, ha portato la dottrina e la giurisprudenza, in tema di tentativo, ad applicazioni che, a nostro parere, non possono in alcun modo approvarsi. Queste applicazioni sono infondate, perché nei casi in parola manca l’impossessamento, se impossessamento significa acquisto di una disponibilità autonoma. Insomma, la nozione di possesso, applicata coerentemente, porta a ritenere che solo quando il ladro riesce a sfuggire dalla cerchia di vigilanza del possessore, nel suo fatto è consentito ravvisare un furto consumato. Prima di tale momento, la semplice sottrazione della cosa non può essere punita che a titolo di tentativo. Il dolo nel furto richiede anzitutto la coscienza e la volontà i impossessarsi della cosa mobile altrui sottraendola al detentore. Esige inoltre una particolare intenzione, e precisamente il fine di trarre profitto dalla cosa per sé o per altri. Tale elemento dà all’elemento soggettivo del furto il carattere di vero e proprio dolo specifico. L’ingiustizia del profitto sia estranea alla nozione del furto, il quale, perciò, sussiste anche se il vantaggio a cui mirava l’agente non presentava quel carattere, e cioè era legittimo. Nulla di notevole da notare in ordine alle cause di giustificazione, per le quali valgono le regole generali. Anche per il concorso di reati valgono le norme comuni.

LE AGGRAVANTI SPECIALI L’art. 625 del codice prevede per il furto otto aggravanti speciali. Sono tutte circostanze oggettive ai sensi dell’art. 70 e, come tali, si estendono ad ogni compartecipe nel reato. Naturalmente, esse non escludono l’applicabilità delle aggravanti comuni contemplate negli art. 61 e 112 del codice, salvo i casi di assorbimento derivanti dalle regole generali sul concorso apparente di norme. Il furto è aggravato: • Se il colpevole, per commettere il fatto, si introduce o si trattiene in un edificio o in un altro luogo destinato ad abitazione. Con l’espressione “edificio destinato ad abitazione” non si intendono soltanto i locali adibiti ad abitazione, ma anche quelli che formano parte integrante: scale, atri, cucine, bagni, ripostigli, cantine, soffitte e porticati. • Se il colpevole usa violenza sulle cose o si vale di un qualsiasi mezzo fraudolento. Mentre il codice Zanardelli prevedeva in particolare il c.d. furto con scasso, il quale ricorreva allorché l’agente aveva distrutto o rotto “ripari di solida materia posti a tutela della persona o della proprietà”, il codice attuale ha esteso la portata dell’aggravante, parlando genericamente di violenza sulle cose. Si è però ritenuto che la violenza presupponga il superamento di un ostacolo di una qualche consistenza e, così, per esempio, la si è esclusa nel caso del semplice scioglimento del filo di ferro che teneva chiusa una porta priva di serratura. Più recentemente l’aggravante è stata ritenuta nel caso di strappo dell’etichetta magnetica per sottrarre capi di merce ai grandi magazzini. • Se il colpevole porta in dosso armi o narcotici, senza farne uso. Se ne facesse uso si avrebbero i delitti di rapina (628) e estorsione (629). • Se il fatto è commesso con destrezza, ovvero strappando la cosa di mano o di dosso alla persona. Il furto con destrezza, detto comunemente borseggio, è il furto che viene commesso con particolare abilità e sveltezza. Non si ha furto con destrezza nel caso, piuttosto frequente, del c.d. taccheggio, il quale su verifica allorché una persona, entrando in una bottega col pretesto di fare acquisti, tiene a bada l’incaricato delle vendite e riesce a sottrarre clandestinamente gli oggetti che gli capitano a portata di mano. L’altra ipotesi è lo scippo, che si verifica quando la borsa viene strappata di mano o di dosso alla persona.


Se il fatto è commesso da tre o più persone, ovvero anche da una sola, che si sia travisata o simuli la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio. • Se il fatto è commesso sul bagaglio dei viaggiatori in ogni specie di veicoli, nelle stazioni, negli scali o banchine, negli alberghi o in altri esercizi ove si somministrano cibi e bevande. Viaggiatore è colui che si fa trasportare per terra, per mare o per aria fuori dalla comune dimora. Bagaglio è tutto quanto il viaggiatore porta con sé per le proprie necessità o utilità, escluse le cose che porta sulla sua persona. • Se il fatto è commesso su cose esistenti in uffici o stabilimenti pubblici, o sottoposte a sequestro o a pignoramento, o esposte per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede, o destinate a pubblico servizio o a pubblica utilità, difesa o reverenza. • Se il fatto è commesso su tre o più capi di bestiame raccolti in gregge o mandria, ovvero su animali bovini o equini, anche non raccolti in mandria. Tale aggravante concreta il c.d. delitto di abigeato. Il termine gregge riguarda il bestiame minuto, mentre l’espressione mandria si riferisce al bestiame grosso. I volati sono esclusi dalla disposizione. L’art. 625, il quale per i casi di furto aggravato di cui ora abbiamo parlato, commina la reclusione da 1 a 6 anni e la multa da 200000 a 2000000, nell’ultimo comma stabilisce: “Se concorrono due o più circostanze previste dai numeri precedenti, ovvero se una di esse concorre con una di quelle indicate nell’art. 61, la pena è della reclusione da 3 a 10 anni e della multa da lire 400000 a 3000000”. Il sistema delle aggravanti è stato aspramente criticato per il fatto che comporta delle pene eccessive per la reale gravità del reato. L’asprezza delle pena ha favorito, nel giudizio di valenza con attenuanti, una prassi dei giudici volta di norma a considerare gracili attenuanti prevalenti o equivalenti su plurime e significative aggravanti. Sta a sé l’aggravante contemplata all’art. 4 della legge n. 533 del 1977, per effetto della quale “Se il fatto dell’art. 624 è compiuto su armi, munizioni od esplosivi nelle armerie ovvero in depositi o in altri locali adibiti alla custodia di essi, si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni e della multa da lire centomila a lire quattrocentomila. Se concorre, inoltre, taluna delle circostanze previste dall’art. 61 o dall’art. 625, n. 1, 2, 3, 4, 5 e 7 del codice penale, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni e della multa da lire duecentomila a lire seicentomila.

FURTI MINORI E SOTTRAZIONE DI COSE COMUNI Gli articoli 626 e 627 prevedono, come figure autonome di reato, quattro specie di furti che si distinguono da quello comune per la loro tenuità oggettiva o soggettiva oppure per la qualità personale del soggetto agente in relazione al particolare regime giuridico della cosa sottratta. FURTO D’USO (art. 626 n. 1). Tale figura criminosa si verifica allorché l’autore del furto ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa sottratta, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita. La legge non specifica in che cosa debba consistere l’uso. È possibile dedurre dalla norma stessa che si deve trattare di un uso che renda possibile la restituzione della cosa. L’uso deve inoltre essere momentaneo vale a dire non dilazionato. La restituzione del tolto deve presentare anzitutto il carattere dell’immediatezza. Deve inoltre essere restituita la stessa cosa che il colpevole aveva sottratto. Se la restituzione per qualsiasi causa e, quindi, anche per forza maggiore, non si verifica in passato si ritenne che non si potesse parlare del delitto in esame. con la sentenza n. 1085 del 1988 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima, in relazione all’art. 27 della Cost., la norma incriminatrice in esame nel caso di mancata restituzione della cosa sottratta dovuta a caso fortuito, forza maggiore o fatto comunque non addebitabile al soggetto attivo del reato. Il reato si consuma nel momento e nel luogo dell’impossessamento. Si ritiene che il tentativo non sia giuridicamente possibile. Il dolo del delitto in esame è identico a quello del furto, con in più l’elemento specifico consistente nel solo scopo di fare uso momentaneo del bene sottratto. FURTO LIEVE PER BISOGNO (art. 626 n. 2). È il furto commesso su cose di tenue valore, per provvedere ad un grave e urgente bisogno. La cosa sottratta può essere tanto denaro quanto un qualsiasi bene mobile. Esse deve essere però di tenue valore. Il bisogno deve essere grave ed urgente. Per l’esistenza del dolo, oltre ai requisiti che occorrono nel furto comune, è necessaria la consapevolezza di agire su cose di tenue valore al fine di provvedere ad un grave e urgente bisogno. SPIGOLAMENTO ABUSIVO (art. 626 n. 3). Il fatto consiste nello spigolare, rastrellare o raspollare nei fondi altrui, non ancora spogliati interamente del raccolto. Il dolo è escluso dall’errore di fatto: per es. l’agente crede a torto che il fondo sia interamente spogliato del raccolto. SOTTRAZIONE DI COSE COMUNI (art. 627). Si contempla il fatto del comproprietario, socio o coerede che, per procurare a sé o ad altri un profitto, s’impossessa della cosa comune, sottraendola a chi la detiene. Soggetto attivo del reato può essere soltanto chi abbia le qualità indicate tassativamente dalla disposizione di legge: si tratta quindi di un reato proprio. L’azione esecutiva consiste nell’impossessarsi della cosa comune, sottraendola a chi la detiene. Oggetto materiale dell’azione è la cosa mobile comune. Come è noto comune è la cosa che la cui proprietà spetta a più soggetti nello stesso tempo. Il capoverso dell’articolo 627 dispone che non è punibile chi commette il fatto su cose fungibili, se il valore di esse non eccede la propria quota. Il dolo è quello del furto, con in più la consapevolezza di impossessarsi di cose comuni.

APPROPRIAZIONE INDEBITA Con questa incriminazione l’ordine giuridico mira ad impedire gli attentati patrimoniali che possono essere commessi da chi è in possesso di cose mobili altrui. In particolare viene punito il possessore di cosa mobile non propria, il quale si comporti da padrone, e cioè compia sulla stessa atti di disposizione che sono riservati al proprietario. La fattispecie dell’appropriazione indebita è così descritta dall’articolo 646: “Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a tre anni o con la multa fino a lire due milioni”. Sull’essenza del delitto in esame la dottrina non è concorde. Alcuni autori sostengono che la caratteristica del reato consiste nella violazione della fiducia che è insita nel rapporto da cui trae origini il possesso. Questa concezione era sostenibile sotto l’impero del codice precedente, il quale all’art. 417 esigeva in modo esplicito che la cosa mobile altrui fosse stata affidata o consegnata al possessore


per n titolo che importasse, appunto, l’obbligo di restituirla o di farne un uso determinato. A nostro modo di vedere il delitto di appropriazione indebita costituisce una violazione del diritto di proprietà. La vera essenza del reato consiste nell’abuso del possessore, il quale dispone della cosa come se ne fosse proprietario. Il vero ed unico soggetto passivo del reato, in conseguenza, è il proprietario della cosa. Come risulta dal testo dell’art. 646, oggetto materiale dell’azione nel diritto di appropriazione indebita è “il denaro o la cosa mobile altrui”. L’oggetto materiale in esame viene a coincidere del tutto con quello del furto. È stato sollevato il dubbio se sia ammissibile l’appropriazione indebita di un’idea. Si consideri il caso dell’individuo che, avuto in consegna il modello di un ritrovato scientifico o industriale, si impadronisca non del modello ma dell’invenzione, brevettandola a proprio nome. Sarà egli responsabile di appropriazione indebita? A noi sembra che l’idea non possa essere di per sé oggetto del reato in esame, perché il suo carattere immateriale, non costituisce giuridicamente una cosa. Il delitto di appropriazione indebita presuppone che l’agente abbia il possesso della cosa mobile. Deve, però, trattarsi di mero possesso, e cioè di possesso disgiunto della proprietà, poiché oggetto dell’azione criminosa è un bene mobile altrui. Il reato in esame non può sorgere nei casi in cui si verifica, insieme col trasferimento del possesso, quello della proprietà. Il diritto penale considera altrui il denaro quando sia affidato per un uso determinato nell’interesse del proprietario. Tale estensione del concetto dell’altruità non implica la sussistenza dell’indebita appropriazione nel caso che il consegnatario si limiti a cambiare il denaro ricevuto con altro di valore equivalente. Per risolvere i dubbi che si presentano nelle ipotesi in cui il trasferimento del possesso importa il passaggio della proprietà, la dottrina si addentra in una particolareggiata disamina dei titoli da cui può trarre origine il possesso per stabilire quali di essi trasferiscano anche la proprietà. Crediamo opportuno ricordare che sono traslativi della proprietà, tra l’altro, il mutuo, la cessione di credito, il riporto, il conto corrente, il vitalizio, il deposito irregolare e, di regola, la commissione. Naturalmente trasferiscono la proprietà il contratto di vendita, anche con patto di riscatto: non così la vendita con riserva di dominio che si suole praticare nella vendita a rate. Occorre precisare che deve trattarsi di possesso vero e proprio, perché, qualora si trattasse di semplice detenzione l’autore del fatto dovrebbe rispondere non di appropriazione indebita, ma di furto. Non è possibile disconoscere che in alcuni casi marginali la risoluzione del quesito se ricorra il delitto di appropriazione indebita o quello di furto dà luogo ad incertezze. Noi, però, riteniamo che il criterio di disponibilità autonoma, intesa nel senso da noi patrocinato, e cioè nel senso di un potere sulla cosa che si esercita al di fuori della diretta vigilanza di una persona che abbia sulla cosa medesima un potere giuridico maggiore è idoneo ad evitare decisioni in contrasto con la logica e l’equità. Un caso che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro, dando luogo a sottili ed eleganti disquisizioni, è quello che concerne la manomissione degli oggetti affidati in involucro chiuso (possesso sprangato). In prevalenza si ritiene che il consegnatario, impadronendosi del contenente, commetta appropriazione indebita, mentre, se si impossessa del contenuto commette furto. Nel caso in cui si impadronisca di entrambi egli dovrebbe rispondere di concorso tra i due reati. Secondo la formula dell’art. 646 l’azione esecutiva del delitto in esame consiste nell’appropriarsi della cosa mobile altrui. L’espressione si appropria non può essere presa alla lettera, e cioè intesa nel senso di far propria la cosa e, quindi, diventarne proprietario. La proprietà è uno stato di diritto e, in quanto tale, non può trarre origine da un atto illecito. In conseguenza appropriarsi significa comportarsi verso la cosa come se fosse propria, vale a dire compiere sulla cosa stessa atti di disposizione a cui il possessore non è autorizzato. Qualora il possessore non adempia l’obbligo di restituire la cosa (ritenzione), il reato sussiste se egli oppone alla richiesta un rifiuto immotivato o pretestuoso. Come abbiamo accennato, si discute se il semplice uso illecito della cosa concreti il delitto in esame. In genere deve ritenersi che tutte le volte che il possessore sottopone la cosa ad un logorio che ne diminuisca in modo particolare il valore, ricorrono gli estremi del reato in esame. Quanto abbiamo detto vale per il caso assai discusso e frequente del possessore che dà in pegno la cosa altrui. Anche in questa ipotesi una responsabilità penale, a nostro avviso, non può escludersi, qualora nel caso concreto il fatto implichi un rilevante pericolo per il proprietario. Per quanto concerne la consumazione del reato, deve escludersi che sia necessario che l’agente abbia conseguito un profitto, perché dalla formula dell’art. 646 si desume in modo inequivocabile che il profitto è soltanto una nota dell’elemento psicologico. La dottrina in prevalenza nega che nell’appropriazione indebita sia configurabile il tentativo, e ciò per la ragione che si tratterebbe di un reato unisussistente. Noi siamo di diverso avviso, perché è del tutto arbitrario asserire che il delitto in parola è unisussistente. Specie nelle forme di consumo e di alienazione, esso può in concreto richiedere di essere realizzato per una molteplicità di atti e, perciò, è del tutto arbitrario negare la possibilità del tentativo, il quale, ad es., deve ravvisarsi nel caso dell’individuo che venga colto mentre sta per vendere una cosa avuta in deposito. Per la sussistenza del dolo occorre anzitutto la consapevolezza di ciò che la condotta presuppone, e precisamente del possesso e dell’altruità della cosa. È inoltre necessaria la volontà consapevole di compiere quell’atto di disposizione in cui nel caso particolare si concreta l’appropriazione. Il dolo richiede che il soggetto abbia agito col fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto. Ricordiamo che non è necessario che il profitto sia economico: può essere soltanto morale o sentimentale. Il codice al secondo comma dell’art. 646, prevede una circostanza aggravante speciale, la quale ricorre quando il fatto è commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario. Il deposito necessario a cui si riferisce la citata disposizione è quello che il codice civile abrogato contemplava nell’art. 1864, e precisamente quello a cui uno è costretto da qualche accidente, come in un incendio, una rovina o un saccheggio, vale a dire il deposito che si costituisce sotto l’impero della necessità, senza avere nessuna possibilità di scelta. Il nuovo codice civile non ha conservato l’ipotesi del deposito necessario, ma ciò non ha influenza ai fini penali, perché il nostro codice con l’espressione usata ha fatto richiamo alle situazioni di fatto che, secondo la legislazione civile del tempo, costituivano il detto deposito, nella cui fattispecie erano senza dubbio compresi anche gli avvenimenti imprevedibili di carattere individuale. Verificandosi l’aggravante in parola, l’appropriazione indebita è perseguibile d’ufficio. In conformità all’avviso espresso da vari autori, riteniamo che all’appropriazione indebita sia estendibile per analogia la causa di non punibilità prevista dal capoverso dell’art. 627 per la sottrazione di cose comuni e cioè l’esenzione di pena nel caso in cui il fatto sia commesso su cose fungibili, quando il valore di esse non supera la quota spettante all’autore del fatto medesimo.

APPROPRIAZIONI INDEBITE MINORI L’rt. 647 prevede tre distinte ipotesi caratterizzate dal particolare modo col quale il soggetto agente è pervenuto al possesso della cosa mobile altrui.


APPROPRIAZIONE INDEBITA DI COSE SMARRITE. Consiste nel fatto di chiunque avendo trovato denaro o cose da altri smarrite, se li appropria, senza osservare le prescrizioni della legge civile sull’acquisto della proprietà di cose trovate. Per potersi parlare di cosa smarrita occorrono due requisiti, l’uno oggettivo e l’altro soggettivo. Oggettivamente è necessario che la cosa si uscita dalla sfera di sorveglianza del possessore, in modo che, ad es., non si potrà qualificare smarrita la cosa che resti sempre nella mia casa, pur se io non riesco a trovarla. Dal punto di vista soggettivo, occorre che colui che la deteneva non sia in condizioni di ricostituire sulla cosa il primitivo potere di atto, perché ignora il luogo in cui essa si trova, né è in grado di ricordarlo. Il dolo è escluso dall’ignoranza delle prescrizioni delle leggi civili, ignoranza che si traduce in un errore sul fatto che concreta il delitto. Il reato è aggravato se il colpevole conosceva il proprietario della cosa di cui si è appropriato. APPROPRIAZIONE INDEBITA DI TESORO. La seconda ipotesi contemplata dall’art. 647 consiste nel fatto di colui che avendo trovato un tesoro, si appropria, in tutto o in parte, la quota dovuta al proprietario del fondo. Tesoro, ai sensi delle leggi civili, è qualunque cosa mobile di pregio, nascosta o sotterrata, di cui nessuno può provare di essere proprietario. Il dolo è escluso dall’ignoranza della legge civile. APPROPRIAZIONE INDEBITA DI COSE AVUTE PER ERRORE O PER CASO FORTUITO. La terza figura criminosa contemplata nella disposizione in esame si ha allorché taluno si appropria cose, delle quali sia venuto in possesso per errore altrui o per caso fortuito. Presupposto della condotta è che l’agente abbia conseguito il possesso esclusivamente per effetto di errore altrui o per effetto di caso fortuito. L’errore può riguardare tanto la cosa quanto la persona.

TRUFFA La truffa è il tipico delitto fraudolento contro il patrimonio: è la frode per eccellenza. Essa è definita dal codice nel seguente modo: “Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da lire centomila a due milioni”. Nucleo essenziale del delitto in esame è l’inganno. Il consenso della vittima, carpito fraudolentemente, caratterizza il delitto e lo distingue sia dal furto che dall’appropriazione indebita. Il delitto di truffa presenta grandi affinità con quello di estorsione, il quale, come vedremo, si ha allorché mediante violenza o minaccia, taluno viene costretto a fare o ad omettere qualcosa, procurando in tal modo a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. La differenza consiste solo in questo: nel primo la vittima è indotta fraudolentemente all’atto di disposizione patrimoniale, mentre nel secondo vi è coartata; nell’uno la volontà è viziata da errore, nell’altro è viziata da violenza o minaccia. Lo scopo dell’incriminazione della truffa non è soltanto la protezione del patrimonio, ma anche la tutela della libertà del consenso nei negozi patrimoniali. La truffa è una delle figure criminose più complesse e delicate. Dalla definizione legislativa sopra riportata si desume che la fattispecie oggettiva della truffa consta dei seguenti elementi: • Un particolare comportamento del reo, che il codice designa con l’espressione artifizi o raggiri; • La causazione di errore, il quale, come vedremo, deve a sua volta dare origine a una disposizione patrimoniale; • Un danno patrimoniale derivato dall’inganno con conseguente ingiusto profitto per l’agente o per altra persona. Da parecchi decenni la distinzione tra frode civile e frode penale ha perduto credito. Si è osservato che la concezione dei costumi sociali che sta alla sua base confonde la libertà dei traffici con la libertà di abusare dell’altrui buona fede e, in sostanza, con la facoltà di valersi dell’inganno nella trattazione degli affari. Di rincalzo si è detto che nessun cittadino può essere lasciato alla mercé dei frodatori e che anche la persona di limitata intelligenza deve essere protetta dalla legge. Anche la formula legislativa della truffa ne ha risentito, perché mentre il codice Zanardelli si esigevano “artifizi e raggiri atti ad ingannare o sorprendere l’altrui buona fede” il codice attuale, come risulta dalla disposizione sopra riportata, parla soltanto di artifizi o raggiri. Artifizio è ogni studiata trasfigurazione del vero, ogni camuffamento della realtà effettuato sia simulando ciò che non esiste, sia dissimulando, vale a dire, nascondendo ciò che esiste. Raggiro è un avvolgimento ingegnoso di parole destinate a convincere: più precisamente una menzogna corredata da ragionamenti idonei a farla sembrare verità. È controverso se l’artificio o raggiro, nella truffa contrattuale, debba cadere nel momento della formazione del contratto ed abbia o meno rilevanza anche quando incida soltanto sulla sua esecuzione. Dopo non poche oscillazioni la giurisprudenza più recente propende per la soluzione positiva. Il comportamento dell’agente deve determinare un errore: deve essere causa di un inganno. Basta che in concreto il mezzo usato abbia cagionato l’inganno. È, perciò irrilevante che l’ignoranza o la leggerezza dell’ingannato abbiano agevolato l’errore. La frode può essere commessa anche approfittando dell’errore in cui una persona già si trovi, come nel caso dell’individuo che riesca a farsi donare una somma da una persona che erroneamente crede di aver conseguito una grossa vincita al totocalcio. Il soggetto passivo dell’errore deve essere una persona determinata, il che esclude che gli artifizi o raggiri possano rivolgersi “in incertam personam”, come avviene nell’esposizione fraudolenta di distributori automatici, nei giuochi truffaldini ecc. Ma dalla formula legislativa si deduce principalmente che l’inganno può essere esercitato anche su persona diversa da quella che subisce il danno. Su ciò nessun dubbio è possibile. Qui si presenta la questione dell’ammissibilità della truffa processuale. Con questa espressione si fa riferimento all’ipotesi in cui una delle parti in giudizio civile, inducendo in inganno il giudice con artifizi o raggiri, ottenga o tenti di ottenere una decisione a lei favorevole e quindi un ingiusto profitto a danno della controparte. A nostro parere la questione va risolta in senso positivo, perché, come abbiamo visto, il nostro codice non esige che sia ingannato proprio il soggetto passivo del reato, potendo l’inganno cadere su un’altra persona che sia autorizzata a compiere l’atto di disposizione patrimoniale richiesto per l’esistenza del reato. Poiché il giudice possiede certamente questo potere, non si scorge la ragione per cui debba negarsi la sussistenza della truffa. La disposizione di cui all’art. 374 del codice (frode processuale) non esclude l’applicabilità della norma generale sulla truffa. La disposizione patrimoniale deve avere per conseguenza un danno e, correlativamente, un ingiusto profitto per l’agente o per altra persona. Il danno di cui parla l’art. 640 è senza dubbio quello patrimoniale, e cioè il danno che consiste in una deminutio patrimonii. Al nocumento deve corrispondere un profitto per l’ingannatore o per altri, profitto che nel nostro diritto può anche non essere economico. Il profitto, però, deve essere ingiusto, e, quindi, non sussiste il reato se il vantaggio ottenuto dall’ingannatore non presentava quel carattere. Va posto nel maggior rilievo che il nostro codice considera il conseguimento del profitto come essenziale alla truffa, il che non è andato esente da critiche tutt’altro che infondate. Ne deriva che la realizzazione del profitto segna il momento consumativo del reato. In questo reato esiste largo spazio per il tentativo.


Per quanto concerne l’elemento soggettivo, e cioè il dolo, valgono le regole generali. L’agente deve volere non soltanto la sua azione, ma anche l’inganno della vittima, come conseguenza dell’azione stessa, la disposizione patrimoniale, come conseguenza dell’inganno e, infine, la realizzazione di quel profitto che costituisce l’ultima fase del processo esecutivo del delitto. Data la molteplicità degli elementi necessari per l’esistenza del dolo in questo complesso reato, sussiste un ampio margine per l’errore di fatto. Sempre in applicazione dei principi generali, il dolo deve essere precedente o concomitante all’azione criminosa. Un dolo successivo, in conseguenza, non può dar luogo a responsabilità per truffa. Una questione particolare è quella che concerne la c.d. truffa in atti illeciti, vale a dire la questione se il delitto in parola sia configurabile allorché l’ingannato si proponeva un fine illecito ed è stato raggirato proprio mentre cercava di conseguire il fine stesso. Contro la punibilità si è detto che chi opera per conseguire uno scopo illecito deve imputare esclusivamente a sé stesso se rimane vittima di un inganno e subisce una perdita patrimoniale. Lo Stato non può prestare la sua tutela a chi agisce contro il diritto, perché ciò significherebbe prostituire la sanzione penale. Qualche autore ha aggiunto che, se si punisce l’ingannatore, si verrebbe a riconoscere che egli era tenuto alla prestazione vietata. Quest’ordine di idee da parecchio tempo è stato abbandonato dalla dottrina. Noi condividiamo l’opinione oggi dominante per la considerazione che l’incriminazione della truffa è dettata da ragioni di interesse sociale, le quali non cessano di sussistere allorché l’ingannato agisce per un fine illecito. Per disposto del capoverso dell’art. 640 il delitto di truffa è aggravato, e si procede d’ufficio, nei seguenti casi: • Se il fatto è commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico; • Se è commesso col pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare; • Se è commesso ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo convincimento di dover eseguire un ordine dell’Autorità. Notizie storiche. Nel diritto romano della prima epoca i casi di delitto di arricchimento con inganno di altri rientravano nella nozione di furtum e, più spesso, in quella del falsum. Con le costituzioni imperiali dell’epoca dei Severi, apparve il crimen extraordinarium, una nuova figura delittuosa, lo stellionatus, che può considerarsi il precedente più vicino alla truffa come oggi è concepita. La pena di tale reato, come per tutti i crimen extraordinarium veniva stabilita discrezionalmente dal giudice. Nel nostro diritto intermedio il crimen stellionatus fu conservato, ma i suoi rapporti col falsum non furono chiariti: anzi, si verificò una maggiore confusione, perché nel secondo si fecero rientrare varie frodi che il diritto romano comprendeva nel primo. Soltanto verso la fine del secolo diciottesimo la truffa acquistò una fisionomia autonoma. La prima nozione, sostanzialmente conforme a quella del diritto attuale, si ha nel codice penale francese del 1819.

ALTRE FRODI TRUFFA AGGRAVATA PER IL CONSEGUIMENTO DI EROGAZIONI PUBBLICHE (art. 640 bis). L’erogazione di denaro pubblico per il perseguimento di scopi di programmazione economica non poteva non essere sorretta da una efficace protezione giuridica da perseguire anche con lo strumento della sanzione penale. L’interprete si trova di fronte ad una figura criminosa a sé stante e non ad una circostanza aggravante. L’elemento distintivo rispetto alla truffa è offerto dalla specificazione dell’oggetto materiale e non ha riguardo alla mancata osservanza del vincolo di destinazione delle utilità ricevute, cui invece provvede l’art. 316 bis. Tale oggetto viene indicato coi termini contributi, finanziamenti e mutui agevolati e con una formula di chiusura che facendo riferimento ad altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, finisce col togliere in parte rilievo alle formule precedenti. Si tratta in ogni di caso di erogazioni a carattere pecuniario, che possono consistere tanto in prestazioni di denaro con vincolo alla restituzione, quanto in vere e proprie attribuzioni patrimoniali a fondo perduto, come alcune specie di contributi. Alla consumazione del delitto non è necessario che il beneficio sia erogato bastando il completamento dell’iter necessario per la sua attribuzione. Se ciò non avviene potrà essere ravvisato il tentativo. Il dolo ha lo stesso contenuto già esaminato per la truffa. Una situazione di concorso apparente di norme può essere ipotizzata con riferimento all’art. 2 della legge 1986 n. 898 che punisce con reclusione da sei mesi a tre anni, in tema di controlli agli aiuti comunitari per la produzione di olio di oliva, “chiunque, mediante esposizione di dati o notizie false, consegue indebitamente per sé o per altri, aiuti, premi, indennità, restituzioni, contributi o altre erogazioni a carico totale o parziale del fondo europeo di orientamento e garanzia”. FRODE INFORMATICA (art. 640 ter). Da questo reato è colpito “chiunque, alterando in qualsiasi modo il funzionamento di un sistema informatico o telematico o intervenendo senza diritto con qualsiasi modalità su dati, informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico o ad esso pertinenti, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. Anche questa forma di frode è punibile a querela della persona offesa, ma si procede d’ufficio se concorrono circostanze aggravanti. La condotta si sostanzia in due tipi di comportamenti: • Il primo che consiste nel creare anomalie di funzionamento nei sistemi considerati; • Il secondo prevede interventi non legittimi, attuati in qualsiasi modo sui programmi, riferimenti, dati, notizie, collegamenti di vario genere tipici dei sistemi in esame. Il delitto si consuma con la realizzazione del profitto e, come nell’ipotesi dell’art. 640 vi è largo campo per il tentativo. Il dolo non richiede necessariamente la volontà dell’induzione in errore e dell’inganno, bastando la volontà di alterare il funzionamento dei sistemi o di intervenire indebitamente sui programmi e notizie dei medesimi. Sono contemplate le aggravanti dell’art. 640, secondo comma n. 1 (fatto commesso a danno dello Stato o di altro ente pubblico), nonché quella dell’abuso della loro qualità da parte di operatori del sistema. INSOLVENZA FRAUDOLENTA (art. 641). Si punisce chiunque, dissimulando il proprio stato di insolvenza, contrae un’obbligazione col proposito di non adempierla qualora l’obbligazione non sia adempiuta. Il reato è perseguibile a querela della persona offesa. Scopo della norma è la tutela della buona fede contrattuale, contro un particolare tipo di frode diverso dalla truffa vera e propria. Da quest’ultima l’insolvenza fraudolenta si differenzia per la natura del mezzo usato, il quale non deve consistere in un vero e proprio artifizio o raggiro, bensì in quell’inganno meno grave che consiste nella dissimulazione del proprio stato di insolvenza. Trattasi evidentemente di una forme di truffa più tenue, la quale però subentra al delitto in esame quando l’agente non si limiti a nascondere il proprio stato dell’insolvenza,


ma faccia qualche cosa di più, simulando circostanze inesistenti o ricorrendo ad altri artifici per farsi credere solvibile. Per la sussistenza del reato occorre, anzitutto, che l’agente contragga un’obbligazione col proposito di non adempierla. La legge parla di contrarre un’obbligazione, il che significa che questa deve essere contrattuale e, quindi, volontaria. Si richiede, inoltre, che il reo abbia dissimulato il proprio stato di insolvenza. La dissimulazione può assumere le forme più diverse ed è indubbio che si può concretare tanto in un comportamento positivo che in uno negativo. Insolvenza è la impotenza a pagare, come si rivela da molte disposizioni del codice civile. Essa deve esistere nel momento in cui è contratta l’obbligazione. L’insolvenza sopravvenuta non integra il reato, neppure nel caso che sia procurata intenzionalmente, e cioè allo scopo di non adempiere l’obbligazione, il che è suscettibile di critica. Occorre, infine, che l’agente non adempia l’obbligazione. Il reato è consumato nel momento e nel luogo in cui l’agente contrae l’obbligazione, sempre che questa non sia poi adempiuta. Il tentativo è inconcepibile, perché fino a quando non si può parlare di inadempimento, non c’è reato, mentre, una volta che si verifichi l’adempimento, il delitto è consumato. Il dolo consiste nella volontà consapevole di contrarre l’obbligazione e di tenere una condotta idonea a dissimulare il proprio stato di insolvenza. Una causa speciale di estinzione della punibilità è contemplata nel capoverso dell’articolo in esame, il quale dispone che l’adempimento avvenuto prima della condanna estingue il reato. FRODI NELLE ASSICURAZIONI CONTRO INFORTUNI (art. 642). Questa disposizione comprende due distinte ipotesi. La prima consiste nel fatto di colui che, al fine di conseguire per sé o per altri il prezzo di una assicurazione contro infortuni, distrugge, disperde, deteriora od occulta cose di sua proprietà (fraudolenta distruzione della cosa propria). La seconda ipotesi si ha allorché taluno, al fine predetto, cagiona a sé stesso una lesione personale, o aggrava le conseguenze della lesione personale prodotta dall’infortunio (mutilazione fraudolenta della propria persona). Scopo della norma è di tutelare la funzione assicurativa contro comportamenti truffaldini. Si tratta di un reato a consumazione anticipata. La figura in esame presuppone la validità del contratto di assicurazione: se fosse inefficace, mancherebbe al fatto il suo indispensabile contenuto offensivo. CIRCONVENZIONE DI PERSONE INCAPACI (art. 643). Si contempla il fatto di colui che, per procurare a sé o ad altri un profitto, abusando dei bisogni, delle passioni o dell’inesperienza d’una persona minore, ovvero abusando dello stato di infermità o deficienza psichica di una persona, anche se non interdetta o inabilitata, la induce a compiere un atto, che importi qualsiasi effetto giuridico per lei o per altri dannoso. L’incriminazione mira a proteggere da ogni forma di sfruttamento subdolo le persone che sono in stato di infermità mentale. Il momento consumativo del reato coincide con quello del compimento dell’atto avente effetti giuridici dannosi. La nozione di atto comprende, oltre ai documenti, qualsiasi dichiarazione o fatto materiale suscettivo di produrre un effetto giuridico. L’atto può consistere anche in un contratto usurario, poiché in tal caso resta applicabile il delitto in esame. non si richiede la verificazione di un danno patrimoniale perché la legge parla soltanto di un atto che importi qualsiasi effetto giuridico dannoso. È evidente che, poi, deve ritenersi irrilevante, ai fini dell’esclusione del delitto in esame, l’annullabilità dell’atto per incapacità del soggetto. Il dolo è specifico, perché comprende lo scopo di trarre un profitto per sé o per altri. FRODE IN EMIGRAZIONE (art. 645). Risponde di questo reato chiunque, con mendaci asserzioni o con false notizie, eccitando taluno ad emigrare, o avviandolo a Paese diverso da quello nel quale voleva recarsi, si fa consegnare o promettere, per sé o per altri, denaro o altra utilità, come compenso per farla emigrare. Aver commesso il fatto in danno di due o più persone costituisce circostanza aggravante.

USURA Disciplinata all’articolo 644 del codice, si ha quando talun si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari. L’usura non è intesa come operazione meramente finanziaria destinata a soddisfare un temporaneo bisogno di denaro, ma ha acquistato un significato molto più ampio. Conseguentemente, oggi vi potrebbe rientrare la c.d. usura reale, e cioè quella che si attua mediante operazioni che assicurano all’agente vantaggi economici del tutto sproporzionati alla sua prestazione. La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari. Tale limite è fissato dall’art. 2 n. 4 legge n. 108 del ’96, nel tasso medio risultante dall’ultima rivelazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ai sensi del comma 1 relativamente alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso, aumentato della metà. Il contratto di mutuo è certamente quello che si presta di più ai patti usurari, ma l’usura può nascondersi anche in vendite, vere o fittizie, e specialmente nella vendita a rate, nel patto di riscatto, nella costituzione della rendita ecc. L’azione esecutiva non consiste più, come in passato, nell’approfittare dello stato di bisogno di una persona. Irrilevanti appaiono i motivi che hanno determinato il debitore a chiedere la sovvenzione e vengono poste sullo stesso piano difficoltà finanziarie di chi si impegna ed opera e cause moralmente riprovevoli, come il gioco, il desiderio di soddisfare i propri vizi. Basta il fare, dare o promettere sotto qualsiasi forma a vantaggio proprio o altrui, un interesse che superi il tasso legale e in quella del terzo comma, un interesse inferiore, ma sproporzionato rispetto alla controprestazione in presenza di difficoltà economiche o finanziarie del soggetto passivo. La consumazione si verifica nel momento in cui gli interessi o vantaggi usurari sono dati o semplicemente promessi. Il dolo è costituito dalla volontà di farsi dare o promettere determinati interessi o vantaggi che superano il limite legale. Si è discusso in passato se l’usura fosse reato istantaneo o permanente. Il Manzini, dopo aver risolto la questione nel secondo senso, ne dedusse, tra l’altro, che cadeva sotto la sanzione dell’articolo 644 vecchio testo anche colui che avesse acquistato un credito usurario con la conoscenza del suo carattere e poi lo avesse fatto valere o alienato. A noi sembra che l’usura, tanti nella formulazione abrogato quanto in quella attuale, non posso in alcun modo rientrare sotto lo schema del reato permanente, e, perciò, il caso in questione sfugge alla sanzione penale. In ciò deve ravvisarsi una lacuna legislativa. L’art. 644, comma quinto, contempla un aumento di pena da un terzo alla metà non soltanto quando il colpevole abbia agito nell’esercizio di una attività professionale, bancaria o di intermediazione finanziaria , mobiliare, ma anche nei casi seguenti: richiesta di garanzie su partecipazioni sociali o proprietà immobiliari, fatto commesso in danno da chi verta in stato di bisogno o svolga attività imprenditoriale, professionale o artigianale; reato compiuto da persona sottoposta a sorveglianza speciale con provvedimento definitivo, durante il periodo di applicazione della misura e fino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l’esecuzione. MEDIAZIONE USURARIA (art. 644 comma 2). Tale ipotesi ricorre nei confronti di chiunque fuori del caso di concorso nel delitto previsto dal primo comma, procura a taluno una somma di denaro o altra utilità facendo dare o promettere, a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso usurario. La norma incriminatrice tende a colpire l’avida condotta di quei loschi individui che, intromettendosi


tra chi presta e chi riceve denaro o altra utilità, riescono ad assicurarsi guadagni esorbitanti. IPOTESI DI DIRITTO TRANSITORIO. Poiché l’art. 3 della legge 7 marzo 1996, n. 108 fissa due termini massimi, ciascuno di centottanta giorni, per completare le operazioni necessarie a pubblicare la prima rivelazione trimestrale del tasso effettivo globale medio, il cui superamento oltre la metà darà luogo al tasso usurario legale, il legislatore ha ritenuto opportuno di inserire nell’ordinamento una singolare ipotesi di reato operativa nelle suddette more. In tale periodo è pertanto punito, a norma dell’art. 644 comma 1del codice penale chiunque, fuori dei casi previsti all’art. 643, si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, da soggetto in difficoltà economica o finanziaria, in corrispettivo di una prestazione in denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e ai tassi praticati per operazioni similari dal sistema bancario e finanziario, risultano sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o altra utilità. Alla stessa pena soggiace chi, fuori del caso di concorso nel delitto previsto all’art. 644 comma 1 procura a soggetto che si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria una somma di denaro o altra utilità facendo dare o promettere, a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto, risulta sproporzionato rispetto all’opera di mediazione.

RAPINA L’articolo 628 comprende due figure criminose che hanno in comune l’impossessamento di cose mobili altrui e l’uso della violenza alle persone o della minaccia. Nell’una (rapina propria) la violenza costituisce il mezzo con cui si ottiene l’impossessamento; nell’altra (violenza impropria) la violenza è usata per conservare il possesso della cosa sottratta o per conseguire l’impunità. RAPINA PROPRIA. La prima parte dell’art. 628 delinea questa fattispecie con la seguente formula: “Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, è punito con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa da lire un milione a quattro milioni”. Lo scopo della norma in parola è, quindi, duplice: la tutela del possesso delle cose mobili e quella della libertà personale, cosicché la rapina deve essere considerata come un tipico reato plurioffensivo. Oggetto materiale dell’azione è una cosa mobile altrui. L’azione costitutiva è identica a quella del furto, con in più l’elemento della violenza alla persona o alla minaccia. Secondo una parte della dottrina, per aversi impossessamento è necessario che l’agente sottragga direttamente la cosa, la tolga con le sue stesse mani all’aggredito; quando, invece, quest’ultimo è costretto a consegnare la cosa e manca, quindi, un’apprensione diretta da parte del soggetto attivo, si realizza il delitto, assai affine, di estorsione. Tale criterio è, in linea di massima vero, ma esige una importante precisazione. Qualora per consegna si intenda l’atto materiale del soggetto passivo, è innegabile che la realtà ci offre una serie di casi in cui è tutt’altro che agevole stabilire se ci sia stata o meno consegna. A nostro avviso, queste incertezze vengono superate una volta che si tenga presente che, per potersi parlare di consegna, occorre che la persona che la effettua, goda, malgrado la minaccia o la violenza, di una certa autonomia: abbia, in altre parole, una effettiva possibilità di scelta. La rapina presuppone la mancanza di possesso nell’agente. Poiché col possesso non va confusa la detenzione puramente materiale, realizza, ad es., il reato in esame il facchino che, trasportando delle valige, seguito dal viaggiatore, usi violenza o minaccia per sfuggire alla vigilanza del viaggiatore stesso e così impossessarsi degli oggetti. La violenza o la minaccia devono stare in rapporto di mezzo a scopo rispetto alla sottrazione. Non si esige una particolare intensità della violenza o della minaccia, purché, queste risultino idonee a determinare l’effetto dello spossessamento, e siano tali da porre il paziente in uno stato di coazione assoluta. La rapina si consuma, come il furto, con l’effettivo impossessamento. Il dolo consiste nella coscienza e volontà di impossessarsi della cosa mobile altrui, sottraendola al detentore, accompagnate dalla coscienza e volontà di adoperare a tale scopo violenza o minaccia. È necessario, inoltre, una particolare intenzione, vale a dire, il fine di trarre, per sé o per altri, ingiusto profitto dalla cosa. Per il principio generale sancito nel comma 2 dell’art. 581, il reato di percosse resta assorbito nella rapina. Concorrono con questa tutti i fatti criminosi che superino per entità il predetto reato, come le lesioni personali di qualsiasi specie e, a maggior ragione, l’omicidio. Se più persone sono rapinate in un unico contesto di azione, si hanno più rapine, a meno che nel fatto non possano ravvisarsi gli estremi del delitto continuato. Il reato è, invece, unico se ad una medesima persona si sottraggono contestualmente più cose appartenenti a persone diverse. La rapina è aggravata: • Se la violenza o la minaccia è commessa con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite; • Se la violenza consiste nel porre taluno in stato di incapacità di volere o di agire; • Se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte di associazioni di tipo mafioso; • Se l’agente si impossessa di armi, munizioni o esplosivi, commettendo il fatto in armerie, ovvero in depositi o altri locali adibiti alla custodia di essi. RAPINA IMPROPRIA. Per il secondo comma dell’art. 628 questa specie di rapina si verifica allorché viene adoperata violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri impunità. La violenza o minaccia è adoperata per garantire il possesso o evitare la punizione per sottrazione effettuata. L’azione esecutiva di questa figura delittuosa consiste nell’uso di violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione per uno dei due scopi indicati. Con immediatezza deve intendersi che la sottrazione e la violenza devono susseguirsi con una soluzione di continuità che non superi i termini della flagranza del reato. Nel caso in cui la violenza o la minaccia siano commesse contro un pubblico ufficiale, la giurisprudenza reputa sussistere il concorso tra il delitto in esame e quello di resistenza. Il delitto si consuma nel momento in cui si verifica la violenza o la minaccia. Il tentativo è perfettamente configurabile (il soggetto cerca, senza riuscirvi, di adoperare violenza o minaccia a chi vuole impedirgli di conservare il possesso della cosa sottratta). Il dolo della rapina impropria è specifico in quanto ne costituisce elemento essenziale lo scopo di assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o di procurare a sé o ad altri impunità. Anche la rapina impropria è aggravata se la violenza o la minaccia è commessa con armi o da persona travisata o da più persone riunite o facenti parte di associazioni mafiose, oppure se la violenza consiste nel porre taluno in uno stato di incapacità di agire e di volere.

ESTORSIONE E SEQUESTRO DI PERSONA A SCOPO DI ESTORSIONE


ESTORSIONE. Per l’art. 629 commette questo delitto “chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o commettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”. Per l’esistenza del reato occorre innanzi tutto una violenza o una minaccia. Poiché nella definizione legislativa si parla semplicemente di violenza, non è dubbio che questa può cadere così sul soggetto passivo in modo diretto, come su una terza persona e anche sulle cose. La violenza o la minaccia usata dall’agente deve avere per effetto il costringimento del soggetto passivo, a fare o ad omettere qualche cosa. Il costringimento che qui viene considerato è quello che lascia una certa libertà di scelta in chi lo subisce. La formula legislativa “fare od omettere qualche cosa”, deve essere interpretata nel senso di comportamento che implica una disposizione patrimoniale. Il paziente deve essere costretto a compiere un atto positivo o un atto negativo che incide sul suo patrimonio. L’atto di disposizione deve procurare all’agente o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. Un profitto non può mai considerarsi ingiusto quando abbia, come sua fondamento, una pretesa comunque riconosciuta e tutelata dall’ordinamento giuridico. Quando il profitto non corrisponde ad una pretesa fondata sul diritto, esso deve ritenersi ingiusto se è conseguito: • Con mezzi di per sé antigiuridici; • Con mezzi legali usati per uno scopo diverso da quelli per cui i medesimi sono concessi dalla legge; • Con mezzi il cui uso per realizzare quel determinato vantaggio sia comunque contrario ai buoni costumi. Il delitto di estorsione si consuma nel momento e nel luogo in cui si verificano, da una parte l’ingiusto profitto e, dall’altra, il danno patrimoniale. Il dolo richiesto è generico. Il delitto è aggravato se concorre taluna delle circostanze prevedute nell’ultimo capoverso dell’art. 628. È opportuno mettere in rilievo le differenze che intercorrono tra l’estorsione e alcune figure delittuose che sono ai confini di essa. L’estorsione presenta grande affinità con la truffa. La differenza consiste in questo che, mentre nell’estorsione la vittima è costretta a compiere un atto di disposizione patrimoniale dannoso per taluno e vantaggioso per altri, nella truffa vi è indotta con inganno. All’estorsione si avvicina anche il delitto di violenza privata di cui all’art. 610. Per questo secondo delitto basta la costrizione del paziente e non si richiede che l’agente abbia conseguito un ingiusto profitto con altrui danno. Infine occorre notare che tra i delitti contro la pubblica Amministrazione esiste una figura criminosa che non è altro che un’estorsione speciale. Si tratta della concussione. SEQUESTRO DI PERSONA A SCOPO DI ESTORSIONE (art. 630). Questo grave delitto (che nel codice precedente era denominato ricatto) è costituito dal fatto di colui che “sequestra allo scopo di conseguire, per sé o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione”. Sono previste circostanze aggravanti e attenuanti che, dopo un lungo travaglio normativo, sono state specificate dalla legge n. 894 del 1980, nei termini seguenti: • Vengono stabiliti inasprimenti di pena se dal fatto deriva la morte non voluta del sequestrato e se il reo ne cagiona la morte con dolo; • È contemplata la diminuzione della sanzione edittale nei limiti dell’art. 605, per il concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera in modo tale che il soggetto passivo recuperi la libertà senza che ciò sia conseguenza del pagamento del prezzo, ma la pena è maggiore se tale soggetto muore, dopo la liberazione, in conseguenza del sequestro; • Se il concorrente dissociato si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti, può vedere diminuita la sanzione sino a due terzi; • È stabilita una particolare disciplina delle attenuanti nel caso di ipotesi aggravata o quando ulteriori attenuanti si aggiungano a quelle come sopra specificamente contemplate. Con la legge n. 82 del 1991 viene considerato delittuoso il fatto di chi contragga una assicurazione per la copertura dei rischi del prezzo del riscatto; viene altresì incriminato il fatto di chi, avendo notizia di un sequestro di persona a scopo di estorsione anche soltanto tentato o di circostanze relative al pagamento del prezzo per la liberazione dell’ostaggio o comunque utili per la sua liberazione, ovvero per l’accertamento o la cattura dei colpevoli, omette o ritarda di riferirne all’autorità di cui all’art. 361. Allo scopo di evitare il pagamento del riscatto la legge dispone altresì il sequestro dei beni dei familiari della vittima.

VIOLAZIONI DI DIRITTI SU BENI IMMOBILI Si tratta di sei norme incriminatrici che riguardano esclusivamente beni immobili. Le figure delittuose hanno carattere episodico e frammentario e la protezione penale è limitata soltanto ad alcuni attentati, perché per gli altri il legislatore ha ritenuto sufficienti le sanzioni civili. RIMOZIONE O ALTERAZIONE DEI TERMINI (art. 631). Il delitto consiste nel fatto di colui che “per appropriarsi, in tutto o in parte, dell’altrui cosa immobile, ne rimuove o altera i termini”. La norma mira a tutelare in genere l’inviolabilità del patrimonio immobiliare e, in particolare, l’integrità delle terminazioni fondiarie. Per termini si intende ogni cosa, artificiale o naturale, destinata a rappresentare stabilmente la linea di delimitazione degli immobili. Affinché ricorra il reato occorre che i termini siano rimossi o alterati. Il delitto si consuma col compiere la soppressione o l’alterazione del termine. Il dolo, oltre alla coscienza e volontà del fatto, esige l’intenzione di appropriarsi, in tutto o in parte, l’altrui cosa immobile. Si procede a querela della dell’offeso salvo che si tratti di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. DEVIAZIONE DI ACQUE E MODIFICAZIONE DELLO STATO DEI LUOGHI (art. 632). Viene punito “chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, devia acque, ovvero immuta nell’altrui proprietà lo stato dei luoghi”. La formula è stata sostituita dall’art. 95 della legge n. 689 del 1981, con l’inserimento della procedibilità a querela. In ambedue le ipotesi il delitto richiede il dolo specifico, il quale consiste nel fine generico di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto. Anche questo reato è perseguibile a querela. INVASIONE DI TERRENI O EDIFICI (art. 633). Commette questo delitto “chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto”. Il reato è perseguibile a querela della persona offesa, salvo che si tratti di fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Scopo dell’incriminazione è la tutela del diritto di godere o di disporre dell’immobile. Il delitto si consuma nel momento e nel luogo in cui si verifica l’invasione, indipendentemente dal fatto che l’agente abbia o meno conseguito lo scopo indicato nella norma incriminatrice. Trattasi senza dubbio di reato permanente. Il dolo consiste nella coscienza e volontà di porre in essere il fatto dell’invasione, con la consapevolezza della sua illegittimità e con lo scopo di occupare


l’immobile o di trarne altrimenti profitto (dolo specifico). Il delitto è aggravato se il fatto è commesso da più di cinque persone di cui una almeno palesemente armata, ovvero da più di dieci persone, anche senza armi. TURBATIVA VIOLENTA DEL POSSESSO DI COSE IMMOBILI (art. 634). Il delitto consiste nel fatto di colui che “fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, turba, con violenza alla persona o con minaccia, l’altrui pacifico possesso di cose immobili”. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. Il delitto che è punito più gravemente del precedente, è perseguibile d’ufficio. La turbativa è costituita da ogni comportamento che lede il possesso altrui, sia con l’impedire l’esercizio, sia con l’ostacolarlo rendendolo più disagevole, comprende senza dubbio anche l’invasione. Il reato si consuma non appena sia stato posto in essere un fatto qualsiasi di turbativa del possesso accompagnato da violenza alle possesso accompagnato da violenza o da minaccia. Il dolo richiesto è generico e consiste nella coscienza e volontà di turbare, nei modi sopra indicati, il pacifico possesso di cose mobili altrui. INGRESSO ABUSIVO NEL FONDO ALTRUI (art. 637). Risponde di questo reato “chiunque senza necessità entra nel fondo altrui recinto da fosso, da siepe viva o da un altro stabile riparo”. Il delitto è perseguibile a querela della persona offesa, cioè da colui che ha il godimento del fondo, ne sia o no proprietario, perché, la norma è dettata per la tutela del suo diritto. Affinché sussista il delitto in esame, occorre che l’ingresso avvenga senza necessità. Per l’esistenza del dolo basta la volontà di penetrare nel fondo, sapendo che questo appartiene ad altri e che l’ingresso non è necessario. INTRODUZIONE O ABBANDONO DI ANIMALI NEL FONDO ALTRUI E PASCOLO ABUSIVO (art. 636). Sono contemplate due ipotesi distinte. La prima consiste nel fatto di colui che “introduce, abbandona animali in gregge o in mandria nel fondo altrui”. La seconda si verifica quando “l’introduzione o l’abbandono di animali, anche non raccolti in gregge o in mandria, avviene per farli pascolare nel fondo altrui”. In ambedue le ipotesi il delitto è aggravato qualora il pascolo avvenga, ovvero dall’introduzione o dall’abbandono degli animali il fondo sia stato danneggiato. Soggetto attivo del reato è colui che abbia la custodia degli animali. Affinché possa verificarsi l’aggravante del pascolo avvenuto, è necessario che gli animali abbiano privato il possessore del fondo di una quantità non irrilevante dei prodotti del suolo. Il reato è procedibile a querela.

DELITTI DI DANNEGGIAMENTO Sotto questa denominazione comprendiamo tutti quei delitti che si differenziano dai delitti patrimoniali, perché non implicano il trapasso di un valore patrimoniale dal soggetto passivo al soggetto attivo, ma soltanto il peggioramento della situazione patrimoniale del soggetto passivo. DANNEGGIAMENTO COMUNE. Tale reato si verifica quando taluno “distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui”. Il delitto è perseguibile a querela della persona offesa. Distruggere significa disfare la cosa, cioè determinarne l’annientamento nella sua essenza specifica. Dispersione si ha allorché la cosa viene fatta uscire dalla disponibilità dell’avente diritto. Inservibilità implica che la cosa sia resa inidonea, in tutto o in parte, ed anche solo temporaneamente, allo scopo a cui è destinata. Oggetto materiale del delitto possono essere tanto le cose mobili, quanto le immobili. Il danneggiamento di cosa propria goduta da altri importa solo responsabilità civile, pur essendo augurabile che in una riforma del codice anche questa ipotesi venga compresa nell’incriminazione. Soggetto passivo del reato, oltre il proprietario, è la persona che abbia il godimento della cosa. Il reato si consuma nel momento e nel luogo in cui si verifica il fatto descritto nella norma incriminatrice. La configurabilità del tentativo è incontestabile. Il danneggiamento dovuto a semplice colpa nel nostro ordinamento giuridico-penale non soggiace a pena. Per la punibilità, quindi, è necessario il dolo, a costituire il quale basta la volontà di porre in essere il fatto materiale sopra descritto con la consapevolezza che la cosa appartiene ad altri. La norma incriminatrice in esame ha carattere generico. Essa, per il principio di specialità (art. 15 c.p.) non si applica quando il danneggiamento della cosa è elemento costitutivo di un altro reato. Per il disposto del comma 2 dell’art. 635 il reato di danneggiamento è aggravato, e si procede d’ufficio, se il fatto è commesso: • Con violenza alla persona o con minaccia; • Su edifici pubblici o destinati a uso pubblico o all’esercizio di un culto, o su altre delle cose indicate nel n. 7 dell’art. 625; • Sopra piantate di viti, di alberi o arbusti fruttiferi, o su boschi, selve o foreste, ovvero su vivai forestali destinati al rimboschimento. DANNEGGIAMENTO DI SISTEMI INFORMATICI E TELEMATICI. L’art. 635 bis contempla il fatto di “chiunque distrugge, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili sistemi informatici o telematici altrui, ovvero programmi, informazioni o dati altrui”. La consumazione del reato si ha nel tempo e nel luogo in cui si realizza il fatto descritto dalla norma incriminatrice. Nessun dubbio sulla ipotizzabilità del tentativo. Basta al dolo la volontà del fatto materiale con la consapevolezza dell’altruità dei sistemi, programmi, informazioni o dati. Le circostanze aggravanti sono quelle stesse del danneggiamento comune, ma vi si aggiunge l’abuso della qualità di operatore del sistema, mentre alcune delle ipotesi previste non sono evidentemente compatibili con l’oggetto materiale specifico. Donde l’improprietà del semplice rinvio all’art. 635 secondo comma. UCCISIONE O DANNEGGIAMENTO DI ANIMALI ALTRUI. L’art. 638 del codice prevede in particolare il fatto di colui che “senza necessità uccide o rende inservibili o comunque deteriora animali che appartengono ad altri”. Il delitto, per cui si procede a querela di parte, è aggravato e perseguibile d’ufficio allorché il fatto viene commesso su tre o più capi di bestiame raccolti in gregge o in mandria, ovvero su animali bovini o equini, anche non raccolti in mandria. L’ultimo comma dell’articolo dispone che non è punibile chi commette il fatto sopra volatili sorpresi nei fondi da lui posseduti e nel momento in cui gli recano danno. L’incriminazione mira senza dubbio a proteggere non solo la proprietà privata degli animali, ma anche il patrimonio zootecnico nazionale. DETURPAMENTO O IMBRATTAMENTO DI COSE ALTRUI. Per l’art. 639 è punito, a querela della persona offesa, “chiunque, fuori dei casi preveduti dall’art. 635, deturpa o imbratta cose mobile altrui”.

RICETTAZIONE Per l’art. 648, quale modificato dalla legge n. 152 del 1975 e dalla legge n. 328 del 1993, risponde di questo reato chi, “fuori dei casi di


concorso nel reato, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farli acquistare, ricevere o occultare”. Il comma 2 dell’art. prevede una pena minore se il fatto è di particolare tenuità. Il terzo comma reca: “Le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando l’autore del delitto, da cui il denaro o le cose provengono, non è imputabile o non è punibile ovvero quando manchi una condizione di procedibilità riferita a tale delitto”. L’incriminazione mira ad impedire che, verificatosi un delitto, persone diverse da coloro che lo hanno commesso o sono concorsi a commetterlo si interessino delle cose provenienti dal delitto medesimo per trarre vantaggio. L’intervento di tali persone è dannoso socialmente, perché porta alla dispersione delle cose provenienti da delitto e ne rende più difficile il recupero, consolidando in tal modo il pregiudizio subito dalla vittima. Il collocamento del delitto in esame tra i delitti patrimoniali suscita delle perplessità, perché l’offesa al patrimonio può mancare, sia pur raramente, nella ricettazione, come nell’ipotesi dell’individuo che acquista da un funzionario che si è lasciato corrompere l’oggetto prezioso datogli dal corruttore. Il reato presuppone l’esistenza di un altro reato. Deve trattarsi di delitto e non di semplice contravvenzione. Per l’incontro non è richiesto che si tratti di reato contro il patrimonio, come si desume dall’aggettivo “qualsiasi” che figura dalla norma incriminatrice prima della parola “delitto”. Il delitto anteriore deve essere realmente avvenuto: se fosse inesistente o simulato, saremmo in presenza di una ricettazione putativa e, quindi, non punibile. Per iniziare il procedimento per ricettazione, non si richiede che il delitto anteriore sia stato accertato giudizialmente con sentenza passata in giudicato. Ove si tratti di delitto perseguibile a querela di parte, a nulla rileva la mancata presentazione della querela, perché questa è una semplice condizione di procedibilità. In applicazione dell’art. 170 del codice la ricettazione non viene meno neppure quando il delitto, che ne è il presupposto, sia estinto. Soggetto attivo della ricettazione può essere qualsiasi persona, escluso l’autore o il compartecipe del delitto precedente, come si rileva dalla riserva contenuta all’art. 648 “fuori dei casi di concorso nel reato”. Per costoro l’uso, il godimento, l’occultamento delle cose provenienti dal predetto delitto costituisce la naturale prosecuzione, il completamento della condotta criminosa. Soggetto attivo non può essere neppure il soggetto passivo del delitto precedente, per l’ovvia ragione che costui non esorbita dall’ambito dei propri diritti se riacquista la cosa che gli appartiene. Oggetto materiale della ricettazione sono il denaro e le cose provenienti da qualsiasi delitto. Il Nuvolone ha sostenuto che può parlarsi di ricettazione soltanto nel caso di provenienza immediata, e ciò per il riflesso che altrimenti non ci sarebbe possibilità di arrestarsi nella serie delle trasformazioni e si finirebbe col moltiplicare all’infinito i casi di ricettazione. A noi pare che la propagazione ad infinitum non sussista per il fatto che tanto le cose quanto il denaro, provenienti comunque dal delitto, perdono il carattere delittuoso quando vengono in possesso di un terzo di buona fede. La condotta dell’agente consiste nell’acquistare, ricevere o occultare taluna delle cose di cui ora abbiamo parlato, ovvero nell’intromettersi per farla acquistare, ricevere o occultare. Il reato si consuma quando uno dei fatti indicati nella norma incriminatrice può dirsi realizzato. Nell’ipotesi di intromissione il reato è perfetto col compimento degli atti di mediazione. In nessun caso si esige che l’agente abbia conseguito il profitto avuto di mira. La configurabilità del tentativo è fuori discussione. Per l’esistenza del dolo, si richiede anzitutto la volontà di acquistare, ricevere, occultare o intromettersi. Occorre inoltre la consapevolezza della provenienza delittuosa del denaro o delle altre cose acquistare. Inoltre è indispensabile il fine di procurare a sé o ad altri un profitto: il dolo del reato è quindi specifico. Dalla legge n. 152 del 1975 è prevista una circostanza attenuante se il fatto è di speciale tenuità. Generalmente si avrà riguardo ai casi in cui il danno patrimoniale è particolarmente lieve. Per altro l’interprete dovrà prendere in considerazione le circostanze di cui all’art. 133 c.p. Se la ricettazione ha per oggetto più cose provenienti dallo stesso delitto o da più delitti, il reato resta unico, qualora gli oggetti vengano acquistati contestualmente. Se l’autore della ricettazione trasmette le cose ricettate ad altro che le acquista a scopo di profitto, i due reati sono autonomi.

RICICLAGGIO Per effetto della legge n. 191 del 1978, è stato inserito nel codice l’art. 648 bis, successivamente modificato nel 1990 e nel 1993. Questo, sotto il titolo riciclaggio, incrimina chiunque “fuori dei casi di concorso nel reato, sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa. La pena è aumentata quando il fatto è commesso nell’esercizio di un’attività professionale”. Ed è diminuita “se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione inferiore nel massimo a cinque anni”. Segue, nel terzo comma dell’art. in esame, un richiamo all’ultimo comma dell’art. 648 che estende il principio per cui la disposizione è applicabile “anche quando l’autore del delitto, da cui il denaro o le cose provengono, non è imputabile o non è punibile ovvero quando manchi una condizione di procedibilità riferita a tale delitto”. Per realizzare gli scopi suddetti si era in un primo tempo chiarito che le utilità considerate dovevano provenire dai delitti di rapina aggravata, sequestro di persona a scopo di estorsione ovvero dai delitti concernenti la produzione o la distribuzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, e cioè si era attuata una limitazione dei reati presupposti; ma i principi generali che disciplinano il rapporto tra il delitto in esame e i precedenti restavano quelli ai quali si è accennato in tema di ricettazione. Quanto all’oggetto materiale si è sostituito all’inciso “denaro o cose”, tipico della ricettazione, quello “denaro, beni o altre utilità”. È evidente lo scopo di ampliare una formula che nella precedente redazione della legge 21 marzo n. 59 del 1978, aveva dato luogo a difficoltà di interpretazione. Nella originaria formula della legge n. 59 del ’78, la condotta si concretava nel compiere fatti o atti diretti alla suddetta sostituzioni e idonei a realizzarla. Il momento consumativo del delitto era quindi anticipato; e ciò segnava un elemento differenziale rispetto alla ricettazione ed estendeva la sfera della tutela penale a tipi di comportamento che non sarebbe stato possibile ricomprendere nella consumazione di quel reato. L’ultima e vigente versione di questa figura di reato, oltre ad una più concisa descrizione della condotta volta a trasferire il denaro, i beni o le altre utilità, ha ribadito la rilevanza del fatto di chi ponga ostacoli alla identificazione dei beni suddetti dopo che essi sono stati sostituiti o trasferiti. Per l’elemento soggettivo, questo nel testo della legge n. 59 del ’78, oltre alla coscienza e volontà dell’azione richiedeva, quanto al dolo, sul piano conoscitivo la rappresentazione della condotta diretta ad attuare la sostituzione in un con la consapevolezza che il denaro o i valori provenissero da gravi delitti specificamente citati e il fine di procurare a sé o ad altri un profitto. Nel nuovo testo è scomparso ogni


riferimento a scopi di profitto o di aiuto. Basta al momento volitivo del dolo la coscienza e volontà di sostituire le utilità o di ostacolare l’accertamento della loro provenienza con la sola scienza che essa si ricollega ad un delitto doloso. Il tentativo è configurabile secondo i principi generali. Al delitto si ricollega una aggravante e una attenuante. L’aggravante è ravvisata nei confronti di chi compie il reato esercitando un’attività professionale della quale abusa. L’attenuante attiene al reato presupposto e tiene conto dell’esigenza di ridurre una pena edittale molto pesante in casi in cui, in sostanza si riciclano utilità e si ostacola l’identificazione di proventi che conseguono a delitti non gravi.

IMPIEGO DI DENARO, BENI O UTILITA’ DI PROVENIENZA ILLECITA L’art. 24 della legge 19 marzo 1990, n. 55, ha inserito nel codice l’art. 648 ter, poi modificato dall’art. 5 della legge n. 328 del ’93 il quale incrimina “chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli art. 648 e 648 bis, impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto”. Anche per questo reato è contemplata la circostanza aggravante dell’esercizio di una attività professionale ed è esteso ai soggetti di cui all’ultimo comma dell’art. 648. Ma la pena è diminuita se il fatto è di particolare tenuità. L’inserimento nel codice del delitto in esame nasce dal rilievo che i profitti dalla criminalità organizzata devono essere contrastati tenendo conto di una duplice prospettiva: mentre in un primo momento occorre impedire che il c.d. denaro sporco, frutto dell’illecita accumulazione, venga trasformato in denaro pulito, in un secondo momento è necessario fare in modo che il capitale, pur così emendato dal vizio di origine, non possa trovare un legittimo impiego. Il delitto si consuma nel momento dell’impiego di denaro, beni o altre utilità nelle attività economiche o finanziarie interdette. Il tentativo è ipotizzabile. Il dolo è generico e si sostanzia nella coscienza e volontà della condotta da parte di chi sa che le utilità impiegate provengono da delitto. Poiché la norma si riferisce a beni o altre utilità con plurali indeterminativi, la molteplicità dei finanziamenti ed apporti non esclude l’unicità del reato e può essere soltanto valutata nel giudizio di quantificazione della pena in concreto ex art. 133 c.p.

CONTRAVVENZIONI CONCERNENTI LA PREVENZIONE DEI DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO Il codice nel libro terzo contiene alcune norme incriminatrici che sono destinate ad integrare la tutela penale del patrimonio. Per queste contravvenzioni, l’art. 713 stabilisce che il condannato può essere sottoposto alla libertà vigilata. ACQUISTO DI COSE DI SOSPETTA PROVENIENZA (art. 712). Della contravvenzione in esame, che va sotto il nome di incauto acquisto, risponde: • Chiunque acquista o riceve a qualsiasi titolo cose, che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, si abbia motivo di ritenere che provengano da reato; • Chi si adopera per far acquistare o ricevere a qualsiasi titolo alcuna delle cose suindicate, senza prima averne accertata la provenienza. Oggetto materiale dell’incauto acquisto debbono essere le cose di provenienza criminosa. Mentre nella ricettazione le cose debbono provenire da delitto, qui basta che provengano da un reato qualsiasi. Oltre alla provenienza da reato si esige che si abbia motivo di sospettare di detta provenienza. A tal fine il legislatore ha precisato le fonti da cui il sospetto può nascere, e precisamente: • La qualità della cosa; • La condizione di chi offre; • Il prezzo domandato o pattuito. L’apprezzamento dello stato di sospetto è rimesso all’apprezzamento discrezionale del magistrato, il quale dovrà tenere conto di tutte le circostanze del caso. Sussistendo i presupposti indicati, la fattispecie materiale della contravvenzione resta integrata se l’agente acquista o riceve tali cose, o si adopera per farle acquistare o ricevere senza averne prima accertata la legittima provenienza. Quanto all’elemento soggettivo, dalla norma incriminatrice risulta che per l’esistenza della contravvenzione occorre: la volontà di acquistare o di ricevere la cosa; l’inadempimento dell’obbligo di accertare la provenienza legittima della cosa medesima. Da ciò deriva il carattere essenzialmente colposo della contravvenzione di incauto acquisto. COMMERCIO ABUSIVO DI COSE PREZIOSE (E DI COSE ANTICHE O USATE) (art. 705 e 706). Per il primo articolo viene punito “chiunque, senza la licenza dell’Autorità o senza osservare le prescrizioni della legge, fabbrica o pone in commercio cose preziose, o compie su di esse operazioni di mediazione o esercita altre simili industrie, arti o attività”. Il secondo articolo, ora abrogato dall’art. 13 della legge n. 480 del ’94, contemplava il caso di colui che “esercita il commercio di cose antiche o usate, senza averne prima fatta dichiarazione all’Autorità, quando la legge lo richiede, o senza osservare le prescrizioni di legge”. POSSESSO INGIUSTIFICATO DI CHIAVI ALTERATE O DI GRIMALDELLI (art. 707) E POSSESSO INGIUSTIFICATO DI VALORI (art. 708). La prima contravvenzione consiste nel fatto dell’individuo che, “essendo stato condannato per delitti da fine lucro, o per contravvenzioni concernenti la prevenzione dei delitti contro il patrimonio, è colto in possesso di chiavi alterate o contraffatte, ovvero di chiavi genuine o di strumenti atti ad aprire o a forzare serrature, dei quali non giustifichi l’attuale destinazione”. Il secondo reato ricorre quando taluno “trovandosi nelle condizioni personali indicate nell’art. precedente è colto in possesso di denaro o di altri oggetti di valore, o di altre cose non confacenti al suo stato, e dei quali non giustifichi la provenienza”. Si tratta di due reati di mero sospetto. La giurisprudenza della Cassazione fu a lungo propensa ad escludere l’assorbimento della contravvenzione in parola nel delitto del furto. Tuttavia, le decisioni più recenti tendono ad asserire l’assorbimento nel delitto di furto ogni qual volta il possesso degli strumenti di scasso o delle chiavi alterate duri soltanto per il tempo necessario alla realizzazione di quello e a ravvisare invece una situazione di concorso quando tale possesso si protragga oltre alla consumazione del delitto e per un tempo apprezzabile. VENDITA O CONSEGNA DI CHIAVI O GRIMALDELLI A PERSONA SCONOSCIUTA (art. 710) E APERTURA ARBITRARIA DI LUOGHI OD OGGETTI (art. 711). Risponde della prima contravvenzione “chiunque fabbrica chiavi di qualsiasi specie, su richiesta di persona diversa dal proprietario o possessore del luogo o dell’oggetto a cui le chiavi sono destinate, o da un incaricato di essi, ovvero, esercitando il mestiere di fabbro, chiavaiuolo o un altro simile mestiere, consegna o vende a chicchessia grimaldelli o altri strumenti atti ad aprire o a forzare serrature”. L’altra contravvenzione consiste nel fatto di colui che, “esercitando il mestiere di fabbro o di chiavaiuolo, ovvero un altro simile mestiere, apre serrature o altri congegni analoghi apposti a difesa di un luogo o di un oggetto, su domanda di chi


non sia da lui conosciuto come proprietario o possessore del luogo o dell’oggetto, o come un loro incaricato”. OMESSA DENUNCIA DI COSE PROVENIENTI DA DELITTO (art. 709). Commette questa contravvenzione “chiunque, avendo ricevuto denaro o acquistato o comunque avuto cose provenienti da delitto, senza conoscerne la provenienza, omette, dopo averla conosciuta, di darne immediato avviso all’Autorità”.

DISPOSIZIONI COMUNI AI DELITTI PATRIMONIALI L’articolo 649 contiene alcune importanti disposizioni che riguardano in genere i delitti contro il patrimonio. Tale articolo, nella prima parte stabilisce che non è punibile chi ha commesso uno di tali delitti in danno: • Del coniuge non legalmente separato; • Di un ascendente o discendente o un affine in linea retta, ovvero dall’adottante o dall’adottato; • Di un fratello o di una sorella che con lui convivano. Il secondo comma dell’articolo dispone che i delitti in parola sono punibili a querela della persona offesa, quando siano commessi a danno: • Del coniuge legalmente separato; • Del fratello o della sorella che non convivano con l’autore del fatto; • Dello zio o del nipote o dell’affine in secondo grado convivente con l’autore stesso. L’ultimo comma contiene una limitazione alle esposte disposizioni, stabilendo che esse non si applicano ai delitti previsti dagli articoli 628, 629 e 630 e ad ogni altro delitto contro il patrimonio che sia stato commesso con violenza alle persone (sia fisica che morale). La ratio dello speciale trattamento stabilito dal codice per i reati patrimoniali che sono commessi nell’ambito della famiglia va ravvisata nel fatto che l’intimità delle relazioni parentali conferisce a quelle azioni un carattere diverso dall’ordinario, mentre la punibilità o la perseguibilità d’ufficio potrebbero recare grave turbamento alle relazioni anzidette o nuocere all'onore della famiglia.

I DELITTI DI OMICIDIO IN PARTICOLARE Occorre analizzare il testo dell’art. 575 dove viene tutelata la vita umana. Il problema si pone in relazione al termine uomo. Che cosa si deve intendere per uomo? La tutela garantita alla vita dall’art. 575 si estende ad ogni appartenente al genere umano, uomo o donna, quale che sia la sua morfologia fisica, perché ciò che interesse è la sua morfologia biologica. L’art. 575 non può essere applicato al caso dell’uccisione del mostro umanoide e neppure al caso dell’uccisione dell’evolutissimo essere alieno: l’uno e l’altro dei casi non è preveduto dalla legge penale italiana come reato di omicidio, perché è un caso che non è contemplato dalla legge penale italiana. Nel nostro ordinamento vige il principio delle riserva di legge assoluta in materia penale, e quindi, non è possibile l’estensione analogica del tipo legale. Per ciò che concerne il tentativo occorre chiedersi se esso sia un fatto o un fatto considerato nella dizione dell’art. 575. L’intenzione criminosa che non si manifesta in un’attività non è altro che pensiero pensato e dunque non è un fatto; la semplice intenzione di uccidere non è perciò sufficiente per configurare il tentativo di omicidio, perché manca il fatto nel quale possano essere ravvisati gli estremi del tentato omicidio e cioè gli atti idonei e diretti in modo non equivoco a cagionare la morte di un uomo (art. 56 e 575). L’articolo 3 del codice penale, sotto la rubrica “obbligatorietà della legge penale”, stabilisce che: “la legge penale italiana obbliga tutti coloro che, italiani o stranieri, si trovano nel territorio dello stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o internazionale. La legge penale italiana obbliga altresì tutti coloro che cittadini italiani o stranieri si trovano all’estero, ma limitatamente a casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto internazionale”. Tale articolo enuncia il principio della territorialità. L’articolo 4 precisa che: “agli effetti della legge penale è territorio dello Stato il territorio della Repubblica e ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato”. Inoltre, come specifica l’articolo 4 stesso, anche “le navi o gli aeromobili italiani sono considerati territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, a una legge territoriale straniera”. Quindi, attraverso gli articoli 3 e 4, si può affermare che soggetto attivo del reato di cui all’art. 575, può essere sia un italiano che uno straniero, quanto un apolide e che l’equiparazione dell'apolide ai cittadini non avviene in applicazione dell’art. 3 ma dell’art. 4 nella parte in cui dispone che, agli effetti della legge penale, l’apolide residente in Italia è considerato cittadino italiano. Può essere punito per l’omicidio dovunque commesso chiunque lo abbia commesso. L’articolo 575 descrive la condotta omicida e la descrive come causa della morte, tale descrizione implica l’acquisizione del concetto normativo di rapporto di causalità, che viene mediatamente a costituire parte integrante del tipo legale dell’omicidio. Per ritenere che il fatto concreto è conforme al tipo legale, è necessario quindi accertare la causalità nei modi delle regole di accertamento fissati dagli articoli 40 e 41 c.p. Occorre ora precisare il significato e la portata del termine morte. La morte deve essere accertata in modo uniforme e che essa deve consistere nella cessazione dell’attività cerebrale dell’individuo: pertanto, sarà ritenuta una condotta omicida quella di chiunque abbia cagionato “la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo” di un altro uomo. Sul piano oggettivo la diagnosi di morte si basa sui criteri indicati dalla legge e ciò che l’accertamento della morte produce è l’esclusione del fatto che l’organismo sul quale avviene l’accertamento sia ancora un uomo; la definizione di morte diviene perciò il limite naturale di applicabilità dell’art. 575. La vita umana è un bene giuridico in quanto è oggetto di tutela giuridica, ma è ovvio che in sé considerata essa non ha nulla di giuridico, anzi si può affermare che la tutela giuridica non le aggiunge nulla. Si può sicuramente affermare che è fuori discussione l’irrinunciabilità della tutela della vita, anche per il ruolo fondante che essa svolge nei confronti degli altri beni giuridici. Relativamente all’essere lasciati in vita si potrebbe ipotizzare un diritto-dovere, un diritto di vivere al quale però faccia riscontro anche un dovere di vivere: questa concezione risulta avvalorata dall’art. 32 Cost., il quale tutela la salute, e dunque per estensione la vita come “fondamentale diritto dell’individuo”, ma anche come interesse della collettività”. La stessa materialità di illecito è valutata dalla legge in modo diverso e tale diversità dipende dall’atteggiamento psicologico dell’autore rispetto al fatto. Affinché il fatto integri con la necessaria determinatezza la fattispecie legale dolosa oppure quella colposa, posto che entrambe descrivono la stessa materialità di fatto, è necessario corredare il fatto di un elemento descrittivo ulteriore e precisamente di


quello sintomatico dell’esistenza del dolo o della colpa (575, fattispecie dolosa; 589 fattispecie colposa). Per ciò che riguardo le norme legittimanti, queste potrebbero essere prese in considerazione come norme in antitesi, in conflitto con le norme incriminatrici, come sostiene un illustre penalista, Giorgio Marinucci, e cioè come conto-precetti, ovvero come precetti che negano, limitatamente a determinate situazioni di fatto descritte nelle singole norme legittimanti, la validità di altri precetti penali, escludendone l’applicabilità secondo la logica della soluzione di un conflitto apparente di norme. In questa concezione è da apprezzare il chiarimento della connessione esistente fra reato e conseguenze giuridiche. L’affermazione del principio di materialità in forza dell’art. 25 Cost. deve valere all’interno del principio di legalità: così, il fatto che deve essere punito è per definizione il fatto preveduto come reato che non è con-presente a uno dei fatti preveduti dalla legge come scriminanti. La garanzia costituita dalla materialità del fatto deve dunque valere tanto riguardo al fatto che costituisce il reato quanto riguardo al fatto che esclude il reato. Sulla base di questa constatazione l’individuazione dell’elemento soggettivo dell’illecito investe quindi non solo la ricognizione degli elementi che ci devono essere affinché il fatto sia conforme alla previsione incriminatrice, ma si estende anche agli elementi che non ci devono essere affinché il fatto non corrisponda a una previsione scriminante (elementi positivi ed elementi negativi). Si deve precisare, inoltre, che buona parte della dottrina è favorevole all’estensione per analogia (c.d. in bonam partem) delle fattispecie scriminanti, per la ragione che le norme che le prevedono sono norme in forza delle quali non si punisce e dunque non sono norme penali, ma sono espressione di principi generali dell’ordinamento.

L’OMICIDIO PRETERINTENZIONALE Nella fattispecie dell’omicidio preterintenzionale è indifferente che si verifichi l’evento voluto (lesioni personali o percosse) perché l’evento costitutivo dalla fattispecie è l’evento della morte, non voluto ma causato; ai fini della descrizione della fattispecie è dunque superflua la menzione della verificazione dell’evento voluto, poiché ciò che è determinante è la sussistenza del dolo del delitto di percosse o di lesioni, perché nell’omicidio preterintenzionale questo elemento psichico deve dirigere la condotta dalla quale deriva l’evento più grave non voluto. Si ricordi la definizione data dall’articolo 43 c.p., per la quale il delitto è preterintenzionale “quando dall’azione od omissione deriva un evento più grave di quello dovuto dall’agente”. Si deve concludere, dunque, che almeno il tentativo di percosse o di lesioni personali è necessario affinché possa sussistere il dolo relativo all’evento del reato di passaggio, quello attraverso il quale si cagiona la morte, evento che deve essere voluto perché la definizione normativa del delitto preterintenzionale data nell’articolo 43 postula l’esistenza del dolo rispetto all’evento meno grave. La limitazione modale riferita, che restringe l’ambito della condotta rilevante da quella genericamente causale dell’art. 575 a quella che si specifica per essere diretta a commettere il delitto di percosse o il delitto di lesioni, non esclude che la fattispecie descritta dall’art. 584 sia anch’essa una fattispecie causalmente orientata. Occorre però che sia ben chiaro che il dolo del reato di passaggio non ha nulla a che vedere con l’evento morte, che è un evento non voluto. Si è detto anche che l’evento morte può essere imputato a titolo di responsabilità oggettiva oppure a titolo di colpa. La prima era più coerente con la sistematica del codice Rocco e con la previsione in linea generale della responsabilità oggettiva enunciata all’articolo 42. La seconda ipotesi deve essere però attualmente essere preferita, anche se manca nell’art. 584 la previsione espressa della responsabilità a titolo di colpa per l’evento morte, che sarebbe richiesta dall’art. 42. Infatti, dopo la nota sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale, l’esigenza di adeguare la legge vigente al principio di personalità della responsabilità penale (art. 27 Cost.) rende necessaria la rilettura dell’art. 584 nel senso della responsabilità soggettiva: dolo, quindi, per l’antecedente causale, colpa per l’evento più grave di quello voluto. Un caso particolare di omicidio preterintenzionale è preveduto dall’art. 18, comma quattro della legge n. 194 del 1978. La struttura della fattispecie differisce da quella generale descritta nell’art. 584 c.p., perché in questo caso la morte che costituisce l’evento dell’omicidio preterintenzionale deve essere causata da un aborto e dunque la vittima può essere esclusivamente una donna in stato di gravidanza. La condotta tipica è alternativamente descritta come quella di chi “cagiona l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna”, oppure come quella di chi “provochi l’interruzione della gravidanza con azioni dirette a provocare lesioni alla donna”. Nell’uno e nell’altro caso il reato di passaggio, che ai sensi di questa particolare norma incriminatrice deve essere consumato, è quello di aver cagionato l’interruzione della gravidanza in assenza del consenso della donna. L’aborto causato è anch’esso preterintenzionale. Occorre aggiungere la precisazione che l’evento morte della donna, preveduto dall’art. 19 comma 5 e 6 della stessa legge n. 94 del 1978, costituisce una circostanza aggravante della procurata interruzione della gravidanza con inosservanza delle prescrizioni di legge; l’addebito di tale circostanza è dunque subordinato alla disciplina generale, disposta dall’art. 59 c.p.

LA MORTE COME DELITTO ABERRANTE: L’ARTICOLO 586 L’art. 586 stabilisce che “quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell’art. 83 ma le pene stabilite negli articoli 589 e 590 sono aumentate”. L’evento morte, che si realizza a causa di un errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del delitto doloso o per un’altra causa, deve essere causato per colpa dell’agente. Non deve dunque trattarsi di una causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento e neppure di una causa che rappresenti l’evenienza del caso fortuito o della forza maggiore. Quando si avvera l’ipotesi dell’errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato esso è usualmente qualificato come errore inabilità o errore imperizia. All’interno dell’art. 586, il rinvio alle disposizioni dell’art. 83 costituisce un supplemento descrittivo che specifica la disciplina applicabile nel senso che, sotto un primo profilo, l’iniziale condotta dolosa non determina responsabilità penale per l’evento aberrante, salvo che tale evento non si realizzi per colpa e tale fatto non sia autonomamente già previsto dalla legge come delitto colposo, e, sotto un secondo profilo, che trovano applicazione le regole del concorso formale di reati, quando si avveri l’ipotesi considerata sotto il primo profilo. L’articolo 83 rappresenta la norma generale che disciplina i casi in cui, a seguito del tentativo o della realizzazione di un reato se ne cagiona per colpa un altro preveduto come delitto colposo, qualunque sia. L’articolo 586 disciplina l’ipotesi particolare in cui a seguito di un delitto doloso si cagiona per colpa la morte o la lesione di una persona; l’articolo 586 è dunque norma doppiamente speciale rispetto all’articolo 83: in primo luogo perché l’art. 586 presuppone la commissione di un delitto doloso e non anche di una contravvenzione dolosa, a differenza dell’art. 83 che presuppone genericamente un reato; in secondo luogo perché l’evento non voluto, rilevante per l’art. 586, è limitato alla morte o alla lesione personale, mentre per l’art. 83 può essere qualunque evento costitutivo di un delitto colposo. Come l’art. 83 anche l’art. 586 non è una norma incriminatrice.


L’interpretazione letterale dell’art. 586, integrato dal rinvio all’art. 83, consente di ritenere che l’addebito della conseguenza non voluta è normativamente previsto a titolo di colpa. La medesima conclusione non è possibile senza una forzatura del testo dell’art. 584, nel quale non compare l’espressa menzione della colpa. L’articolo 586 disciplina come evento aberrante la morte che derivi come conseguenza non voluta dalla commissione di un delitto doloso, consumato o almeno tentato; in tale caso esso rinvia alla disciplina dell’art. 589, con l’aumento fino ad un terzo della pena prevista per l’omicidio colposo, in concorso formale con il delitto doloso presupposto. Ovviamente, l’aumento fino al triplo previsto per il concorso formale di reati, sarà disposto in relazione alla pena prevista per la violazione più grave. Occorre precisare che il delitto doloso presupposto non può consistere di percosse o lesioni personali perché se da tali delitti deriva la morte della medesima persona offesa deve trovare applicazione, per il principio di specialità, l’art. 584, per cui il fatto deve essere valutato come omicidio preterintenzionale. L’art. 586 può trovare applicazione quando dal delitto presupposto di percosse o lesioni personali derivi la morte della persona diversa dal percosso o dal leso. Deve ancora precisarsi che il medesimo principio di specialità impedisce che anche altri delitti possano costituire il delitto presupposto rilevante ai sensi dell’art. 586. Ciò avviene in tutti i casi in cui la legge penale prevede espressamente un aumento di pena da applicarsi sulla pena prevista dal delitto doloso dal quale deriva la morte come conseguenza non voluta dal reo (ad es. gli articoli 571, 572, 588, 591 ecc.).

OMICIDIO COLPOSO L’articolo 589 descrive l’omicidio colposo come il fatto di chi “cagiona per colpa la morte di una persona”. La descrizione della condotta è a forma libera e cioè c’è la possibilità di realizzare la morte della persona con una azione o con un’omissione. La specificità dell’art. 589 consiste nella previsione di una condotta colposa, come tale produttiva di un evento che si verifica contro l’intenzione dell’agente, ma pur sempre per una sua inosservanza volontaria di cautele doverose, inosservanza che rende la sua condotta imprudente, negligente o imperita ovvero inosservante delle regole specificamente mirate allo scopo di impedire danni per i terzi. L’evento colposo non è voluto, si verifica contro l’intenzione; ciò significa che anche quando l’agente si rappresenta la possibile verificazione dell’evento, la rappresentazione lo conduce ad escludere tale possibilità. Il grado delle colpa è direttamente proporzionale alla prevedibilità dell’evento. La previsione dell’evento è una circostanza aggravante dell’omicidio colposo perché alla colpevole indifferenza di chi espone gli altri ad un pericolo quando il danno era prevedibile, si aggiunge l’errore di valutazione del potenziale di pericolosità della condotta. Tale errore, che è poi una colpevole sottovalutazione del pericolo di un danno previsto, può consistere tanto nell’esclusione della verificazione di un accadimento, che invece poteva accadere e che in realtà si verifica, quanto nella ipervalutazione della abilità dell’agente, ritenuta tale da scongiurare l’evento e che tale invece non si dimostra, perché l’evento si verifica. È necessario rilevare che l’evento è preveduto anche in alcuni dei casi di colpa impropria, ad esempio quando un omicidio è commesso per eccesso colposo di una causa di liceità oppure nella supposizione erronea dell’esistenza di un tale causa. In tali casi non è possibile ravvisare l’esistenza della circostanza aggravante. La pena prevista per l’omicidio colposo è la reclusione da sei mesi a cinque anni. Tuttavia, l’articolo 589 prevede anche l’omicidio colposo plurimo e l’omicidio colposo in concorso con le lesione personali colpose; in tal caso si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni dodici. In relazione al regime sanzionatorio si deve rilevare che l’art. 589 stabilisce il minimo edittale di un anno di reclusione “se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quella per la prevenzione degli infortuni sul lavoro”; negli stessi casi la pena edittale massima, la reclusione di cinque anni, rimane inalterata. Se più fatti di omicidio colposo possono essere commessi con un’unica condotta, un solo fatto di omicidio colposo può essere commesso da più persone. Come è noto, l’ipotesi è prevista in astratto dall’art. 113, che descrive questa forma del concorso come una cooperazione di più persone nel cagionare l’evento di un delitto colposo. La cooperazione, però, non può essere identificata attraverso la convergenza causale delle condotte verso l’evento che determinano; infatti, ciò significherebbe ridurre la cooperazione colposa a responsabilità oggettiva. È necessario, invece, che la cooperazione colposa sia denotata non solo dalla cosciente volontà di unire la propria all’altrui condotta, ma anche dalla violazione di regole di cautela o di tutela che deve viziare le singole condotte: queste si palesano imprudenti o inosservanti perché era prevedibile che la cooperazione avrebbe determinato un evento di danno. Si rammenti, infine, che non è necessario che la condotta di ciascuno dei cooperatori sia viziata dalla stessa imprudenza, dalla stessa imperizia (l’uno si affida all’imprudenza dell’altro).

L’INFANTICIDIO IN CONDIZIONI DI ABBANDONO L’art. 578, nel testo introdotto dalla legge n. 442 del 1981, punisce con la reclusione da quattro a dodici anni “la madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale o morale connesso al parto”. La legge dell’81 ha abrogato la previsione del c.d. matrimonio riparatore, che costituiva una causa speciale di estinzione dei reati contro la libertà sessuale, e la fattispecie dell’omicidio per causa d’onore, che puniva con l’esigua pena della reclusione da tre a sette anni l'omicidio commesso contro il coniuge, la figlia o la sorella nell’atto della scoperta di una illegittima relazione carnale e nello stesso stato d’ira derivante appunto dall’offesa all’onore. Le condizioni di abbandono materiale e morale costituiscono l’antecedente causale del fatto, il quale è ovviamente costituito dall’infanticidio nell’immediatezza del parto o dal feticidio durante il parto. Le condizioni rilevanti ai dell’art. 578 si ravvisano nell’isolamento psicologico e nella solitudine reale della madre e nella mancanza della necessaria assistenza dipende dall’isolamento cui la madre è in qualche modo costretta. Può inoltre concorrere a determinare tale situazione la grave indigenza della donna. L’articolo 578 stabilisce che a coloro che concorrono nel fatto si applica la reclusione non inferiore ad anni ventuno. Tuttavia, se essi hanno agito al solo scopo di favorire la madre, la pena può essere diminuita da un terzo a due terzi. Le condizioni di abbandono che determinano l’atroce scelta della madre, non spiegano la condotta del concorrente che, invece di attivarsi positivamente per alleviare, istiga la madre o agevola l’uccisione del feto o del neonato. Il fatto costitutivo dell’infanticidio o del feticidio è costituito dalla condotta che cagiona la morte del neonato immediatamente dopo il parto o del feto durante il parto. Le ipotesi di uccisione di mano propria, di uccisione di mano propria in concorso di due persone e del concorso della madre nell’uccisione perpetrata da un’altra persona rientrano nella previsione dell’art. 578 che dunque, nel suo nucleo principale descrive un reato proprio della madre. L’immediata connessione con il parto e le condizioni di abbandono sono dunque gli


elementi che specificano il fatto preveduto dall’art. 578. L’elemento specializzante costituito dalle condizioni di abbandono materiale e morale connesse con il parto non rileva soltanto oggettivamente, ma anche soggettivamente, perché esso deve essere conosciuto dalla madre per determinarla all’infanticidio. Il tenore letterale dell’art. 578, secondo comma, sembra restringere l’ambito della previsione soltanto al primo caso perché si riferisce espressamente a coloro che concorrono; stranamente, però, ai concorrenti nel fatto della madre si applica la pena non inferiore ad anni ventuno, che è la stessa pena dell’omicidio comune. La previsione può apparire sorprendete per la sua incongruenza con la regola generale del concorso di persone stabilita all’art. 110, in forza della quale “quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita”. Nel caso di concorso di persone previsto dal secondo comma dell’art. 578, i concorrenti non sono puniti con la pena prevista per il reato proprio della madre, ma con una pena diversa e più precisamente con la stessa prevista per l’omicidio comune. Ciò induce a riflettere su una possibile alternativa: • L’art. 578 comma due, si limita a disciplinare un’ipotesi di concorso di persone introducendo una eccezione rispetto alla regola generale della medesima entità della pena; • L’art. 578 comma due, incrimina in via autonoma la condotta del concorrente in un delitto di feticidio o di infanticidio. Ci sembra che la seconda alternativa, quella ciò che ravvisa nell’art. 578, comma due, un’autonoma norma incriminatrice, debba essere preferita. La previsione incriminatrice dell’art. 578 secondo comma, riconosce efficacia attenuante all’aver agito “al solo scopo di favorire la madre”. Orbene, posto che lo scopo di favorire non può coincidere con l’aiuto ai fini dell’uccisione, la circostanza attenuante speciale ad effetto speciale, deve consistere in una estremistica manifestazione di solidarietà, sentimento di per sé apprezzabile anche se nel caso è dissennatamente orientato. La circostanza in parola è facoltativa: dunque, l’applicazione della circostanza, anche quando in punto di fatto la sua sussistenza sia certa, è dalla legge rilasciata all’apprezzamento discrezionale del giudice, che potrebbe negare la concessione anche quando il concorrente avesse agito al solo scopo di agevolare la madre.

L’OMICIDIO DEL CONSENZIENTE L’art. 579 punisce con la reclusione da sei a quindici anni “chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui”. Il nucleo concettuale di questa disposizione consiste nell’esclusione del bene della vita dalla disponibilità individuale. L’uso dell’espressione “aiuto a morire”, segnala un accostamento tra la fattispecie dell’articolo 579 e 580, poiché individua genericamente una condotta che in concreto realizza la volontà della vittima. L’enunciato aiuto a morire si attaglia con tragica precisione ai casi in cui una malattia irreversibile infligge una continua tortura psicofisica, che il malato rifiuta e quindi rifiuta di continuare a vivere. L’aiuto a morire presuppone dunque, almeno il consenso, ma richiede anche una capacità diagnostica e prognostica precisa. La rilevanza del consenso della vittima all’interno della fattispecie dell’art. 579 è una rilevanza di fatto ovvero, più precisamente, il consenso rileva come fatto aggiuntivo rispetto al fatto di cagionare la morte, che l’art. 579 ha in comune con l’art. 575. Questa constatazione propone come possibile l’ipotesi che l’art. 579 primo comma, preveda una circostanza attenuante dell’omicidio comune e non una fattispecie autonoma di reato. L’ipotesi, però, non è fondata. Infatti, si deve considerare che lo stesso art. 579 al secondo comma stabilisce che non si applicano le aggravanti stabilite all’art. 61, il che lascia intendere che la precedente statuizione del primo comma descrive un reato autonomo rispetto all’omicidio comune. Si applicano, all’omicidio dl consenziente, le disposizioni relative all’omicidio se l’omicidio del consenziente è commesso: • Contro una persona minore degli anni 18; • Contro una persona inferma di mente o che si trova in stato di deficienza psichica per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti; • Contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con l’inganno. In questi casi l’omicidio del consenziente deve essere considerato come un omicidio comune. L’elemento del consenso è un elemento specializzante, nel senso che questo fatto aggiuntivo specializza la previsione dell’art. 579 rispetto a quella generale dell’art. 575. Relativamente al consenso occorre analizzare: • Se il consenso è oggettivamente accertato, il fatto commesso è un omicidio del consenziente, tanto se il consenso sia conosciuto quanto se esso sia ignorato da chi uccide; • Se il consenso è oggettivamente inesistente, ma l’agente ritiene per errore che il consenso sussista, tale errore verte sul fatto costitutivo di reato che effettivamente commette, e cioè un omicidio comune, perché l’agente non si rappresenta il fatto di un omicidio comune, in quanto ciò che si rappresenta è il fatto di reato che contiene l’elemento specializzante del consenso e cioè l’omicidio del consenziente; l’errore di rappresentazione esclude il dolo del reato che effettivamente si commette, l’omicidio comune, ma non esclude che il fatto possa essere punito come reato diverso; non necessariamente come reato colposo, non proprio perché l’errore sul consenso potrebbe non essere un errore determinato da colpa, ma un errore scusabile, quanto piuttosto perché sarebbe illogico punire che ha comunque voluto un omicidio come se non lo avesse voluto: il ripiego sulla fattispecie dell’art. 579 sembra dunque essere, anche sulla base delle argomentazioni già svolte in sede di interpretazione dell’art. 578, un equo contemperamento tra le esigenze di tassatività e quelle di giustizia.

L’AIUTO AL SUICIDIO L’art. 580 primo comma punisce “chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione”. La pena prevista dalla riferita norma incriminatrice è la reclusione da cinque a dodici anni “se il suicidio avviene”; “se il suicidio non avviene”, la pena è la reclusione da uno a cinque anni, “sempre che dal tentativo derivi una lesione personale grave o gravissima”. Lo stesso articolo al secondo comma, stabilisce che le pene previste, sono aumentate “se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri uno e due dell’articolo precedente”. L’art. 580 non contiene altre disposizioni relative alle circostanze: dunque, a differenza di quanto stabilito nell’art. 579, all’aiuto al suicidio sono applicabili le


circostanze aggravanti comuni. La vigenza dell’art. 580 potrebbe essere insidiata dalla sanzione di illegittimità costituzionale, qualora fosse possibile dimostrare il riconoscimento del diritto al suicidio da parte di una norma sovraordinata di rango costituzionale. È noto però che la nostra Costituzione non stabilisce espressamente quale carattere, individuale o sociale, debba essere riconosciuto al diritto alla vita, anche se l’art. 2 Cost., richiedendo l’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà, e l’art. 32 Cost., tutelando la salute in quanto fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività sembrano rafforzare piuttosto la concezione sociale e solidaristica che quella individualistica. Per spiegare la norma dell’art. 578 non si può desumere la criminosità dell’aiuto dalla criminosità del suicidio, perché il suicidio non è preveduto dalla legge come reato. L’aiuto al suicidio è criminoso in se stesso, in quanto è causa dell’atto autolesionistico; non è invece criminoso l’atto autolesionistico per sé considerato, il quale per la legge penale rileva come un semplice dato di fatto coincidente con l’esito naturalistico cioè con la morte del suicida. Il concorso apparente di norme tra l’art. 580 e l’omissione di soccorso di una persona che stia tentando o abbia tentato di uccidersi (art. 583) deve essere risolto con l’assorbimento dell’omissione di soccorso nell’aiuto al suicidio, quando l’omissione di soccorso sia soltanto il mezzo attraverso il quale l’omittente intende aiutare l’altra persona a morire suicida, perché il fatto integra una delle forme di condotta previste dall’art. 580.

LA RESPONSABILITA’ CIVILE NEL CASO DEL TENTATO OMICIDIO DEL CONSENZIENTE E DI AIUTO AL TENTATO SUICIDIO La legge penale non prevede come reato l’aiuto al suicidio, quando dal tentato suicidio non derivino lesioni personali gravi o gravissime. Ciò comporta che non sussiste la responsabilità civile per il danno non patrimoniale, perché l’obbligo al risarcimento del danno non patrimoniale, oltre che di quello patrimoniale, sussiste quando il fatto dannoso costituisce anche reato. La medesima conclusione è valida anche nell’ipotesi di omicidio del consenziente. Non è infatti ammissibile che il consenso dato alla propria morte lasci presumere il consenso alla lesione dell’integrità fisica: si tratta di beni diversi e dunque di due diversi diritti, dei quali l’uno non può essere considerato soltanto come una parte dell’altro.

LE FATTISPECIE CHE COMPRENDONO FATTI DI OMICIDIO L’art. 276 nella formulazione modificata dalla legge n. 1317 del 1947, punisce con l’ergastolo “chiunque attenta alla vita del Presidente della Repubblica”. Poiché lo stesso articolo non prevede il fatto che dall’attentato derivi la morte e poiché non c’è un’altra previsione al riguardo, è giocoforza interpretarlo nel senso che la previsione sia comprensiva anche dell’ipotesi in cui l’attentato produca la morte voluta. All’art. 295 si afferma: “Chiunque nel territorio dello stato attenti alla vita, alla incolumità o alla libertà personale del capo di uno Stato estero è punito, nel caso nel caso di attentato alla vita, con la reclusione non inferiore a venti anni e, negli altri casi, con la reclusione non inferiore ad anni quindici. Se dal fatto è derivata la morte del capo dello Stato estero, il colpevole è punito con l’ergastolo”. La norma incriminatrice, a differenza di quella di cui all’art. 276, tutela un interesse esterno al nostro ordinamento, e cioè l’inviolabilità della persona del capo di Stato estero. Il fatto deve essere commesso nel territorio dello Stato italiano. Nella norma contenuta nell’art. 285 si afferma: “Chiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage nel territorio dello Stato o in una parte di esso è punito con l’ergastolo”. Come espressamente previsto all’art. 422 per aversi strage è necessario che, al fine di uccidere, vengano compiuti atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità. Il bene tutelato dalle norme è la sicurezza dello Stato; dunque l’attentato alla pubblica incolumità, e cioè la strage, costituiscono soltanto il modo dell’offesa.

LE CIRCOSTANZE AGGRAVANTI Le circostanze aggravanti relative all’omicidio doloso sono previste agli articoli 576 e 577. Queste sono circostanze speciali e, dal momento che determinano un aumento di pena in misura diversa da quello comune (che è fino ad un terzo), esse sono anche circostanze ad effetto speciale; come tali devono essere valutate prima delle circostanze ad effetto comune e ciò significa che qualora esse concorrano con altre circostanze aggravanti l’aumento di pena relativo alle circostanze comuni deve essere effettuato dopo l’applicazione delle circostanze ad effetto speciale e cioè sulla pena stabilita per la circostanza anzidetta. Poiché, però, tanto l’art. 576 quanto l’art. 577 stabiliscono che l’effetto speciale delle aggravanti in esse previste consista nell’inflizione dell’ergastolo, quando è applicata una circostanza autonoma ad effetto speciale, l’inflizione della pena massima non lascia spazio, in concreto, per l’applicazione delle altre aggravanti, ancora speciali o comuni, che pure siano state eventualmente imputate e accertate. Le aggravanti speciali contemplate all’articolo 576 sono: • Col concorso di taluna delle circostanze indicate nel n. dell’art. 61. Trattasi della c.d. connessione teleologica e si sostanzia nel reato che viene commesso per commetterne un altro e quindi è in rapporto di mezzo a scopo con un ulteriore reato, ovvero nel reato che viene commesso per assicurarsi il profitto di un altro reato, oppure per assicurarsi l’impunità in relazione ad un reato già commesso. • Contro l’ascendente o il discendente, quando concorre taluna delle circostanze indicate nei numeri 1 e 4 dell’art. 61 o quando è adoperato un mezzo venefico o un altro mezzo insidioso ovvero quando vi è premeditazione; • Dal latitante, per sottrarsi all’arresto, alla cattura o alla carcerazione ovvero per procurarsi i mezzi di sussistenza durante la latitanza. È latitante, agli effetti della legge penale, chi si trova nelle condizioni indicate nel numero 6 dell’art. 61. • Dall’associato per delinquere, per sottrarsi all’arresto, alla cattura o alla carcerazione; • Nell’atto di commettere taluno dei reati preveduti dagli articoli 519, 520 e 521. Essendo stati abrogati con la legge n. 66 del ’96, riteniamo che l’aggravante continui a sussistere con riferimento agli art. 609 bis e ter. All’articolo 577 si prevede che si applica la pena dell’ergastolo se il fatto di cui all’art. 575 è commesso: • Contro l’ascendente o il discendente;


• Col mezzo di sostanze venefiche, ovvero con un altro mezzo insidioso; • Con premeditazione; • Col concorso di talune delle circostanze indicate nei numeri 1 e 4 dell’articolo 61. La pena è della reclusione da ventiquattro a trenta anni, se il fatto è commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta. Le circostanze aggravanti prevedute dagli articoli 576 e 577 non si applicano al delitto di infanticidio e neppure all’istigazione o aiuto al suicidio, perché riguardo a queste fattispecie non esiste nessuna alcuna norma che a quelle circostanze faccia riferimento, ai fini dell’applicazione. Infatti l’art. 585 ne estende l’applicazione soltanto nei confronti della fattispecie dell’art. 584.


SOMMARIO

DELITTI CONTRO LA PERSONALITA’ DELLO STATO 3 3 NOZIONI GENERALI I DELITTI DI ATTENTATO 3 3 DELITTI DI ASSOCIAZIONE POLITICA 4 DELITTI CONTRO I SEGRETI DI STATO 5 I DELITTI DI APOLOGIA E ISTIGAZIONE 5 DELITTI DI VILIPENDIO POLITICO 6 OFFESE AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 6 OFFESE CONTRO GLI STATI ESTERI 6 DELITTI DI INFEDELTA’ 7 DISPOSIZIONI COMUNI REATI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE 9 CONTENUTO DELLA CLASSE 9 9 I SOGGETTI INVESTITI DI MANSIONI DI INTERESSE PUBBLICO 10 PUBBLICI UFFICIALI E INCARICATI DI PUBBLICO SERVIZIO 10 PERSONE ESERCENTI UN SERVIZIO DI PUBBLICA NECESSITA’ 10 RAPPORTO TRA LA QUALIFICA E IL FATTO DELITTUOSO 11 DELITTI DEI PUBBLICI UFFICIALI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE 11 PECULATO 12 MALVERSAZIONE A DANNO DELLO STATO 12 CONCUSSIONE 13 LA CORRUZIONE IN GENERALE 14 LE VARIE FIGURE DI CORRUZIONE ABUSI D’UFFICIO 15 22 OMISSIONI DOLOSE DI DOVERI FUNZIONALI SCIOPERO O OSTRUZIONISMO IN PUBBLICI UFFICI E IN SERVIZI PUBBLICI O DI PUBBLICA NECESSITA’ 22 REATI CONTRO LA PERSONA 23 L’OMICIDIO IN GENERALE 23 24 OMICIDIO DOLOSO COMUNE 26 FIGURE PARTICOLARI DI OMICIDIO DOLOSO 26 INFANTICIDIO O FETICIDIO IN CONDIZIONI DI ABBANDONO MATERIALE O MORALE OMICIDIO DEL CONSENZIENTE 27 27 ISTIGAZIONE O AIUTO AL SUICIDIO 28 OMICIDIO PRETERINTENZIONALE 28 OMICIDIO COLPOSO 29 LESIONI PERSONALI E PERCOSSE 32 L’ABORTO IN GENERALE 32 LE ATTUALI NORME INCRIMINATRICI 34 RISSA 35 OMISSIONI DI ASSISTENZA E DI SOCCORSO CONTRAVVENZIONI CONCERNENTI LA PREVENZIONE DI DELITTI CONTRO LA VITA E L’INCOLUMITA’ INDIVIDUALE 36 37 REATI CONTRO LA LIBERTA’ PERSONALE 37 LA VIOLENZA E LA MINACCIA IN GENERALE LA VIOLENZA O MINACCIA COME MEZZI COERCITIVI DELLA VOLONTA’ ALTRUI 38 38 VIOLENZA PRIVATA 39 MINACCIA 40 SEQUESTRO DI PERSONA 40 DELITTI DEI PUBBLICI UFFICIALI CONTRO LA LIBERTA’ PERSONALE 41 ALTRI DELITTI CONTRO LA LIBERTA’ INDIVIDUALE: LA SHIAVITU’ 42 DISPOSIZIONI PENALI CONTRO LA VIOLENZA SESSUALE 43 DISPOSIZIONI COMUNI 44 I REATI CONTRO L’ONORE 44 REATI CONTRO L’ONORE IN GENERALE 44 CARATTERISTICHE COMUNI 44 INGIURIA 45 DIFFAMAZIONE 46 LE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE 46 CAUSE SPECIALI DI NON PUNIBILITA’


REATI CONTRO IL PATRIMONIO 47 REATI CONTRO IL PATRIMONIO 47 LA CLASSIFICAZIONE DEI DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO 49 50 REATI CONTRO IL PATRIMONIO IN PARTICOLARE 50 FURTO 51 LE AGGRAVANTI SPECIALI 52 FURTI MINORI E SOTTRAZIONE DI COSE COMUNI APPROPRIAZIONE INDEBITA 53 54 APPROPRIAZIONI INDEBITE MINORI 55 TRUFFA 56 ALTRE FRODI 58 USURA 59 RAPINA 60 ESTORSIONE E SEQUESTRO DI PERSONA A SCOPO DI ESTORSIONE 61 VIOLAZIONI DI DIRITTI SU BENI IMMOBILI 62 DELITTI DI DANNEGGIAMENTO 63 RICETTAZIONE 63 RICICLAGGIO 64 IMPIEGO DI DENARO, BENI O UTILITA’ DI PROVENIENZA ILLECITA CONTRAVVENZIONI CONCERNENTI LA PREVENZIONE DEI DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO 66 DISPOSIZIONI COMUNI AI DELITTI PATRIMONIALI

64

I DELITTI DI OMICIDIO IN PARTICOLARE 67 L’OMICIDIO PRETERINTENZIONALE 68 LA MORTE COME DELITTO ABERRANTE: L’ARTICOLO 586 69 69 OMICIDIO COLPOSO L’INFANTICIDIO IN CONDIZIONI DI ABBANDONO 70 L’OMICIDIO DEL CONSENZIENTE 71 L’AIUTO AL SUICIDIO 72 LA RESPONSABILITA’ CIVILE NEL CASO DEL TENTATO OMICIDIO DEL CONSENZIENTE E DI AIUTO AL TENTATO SUICIDIO 72 LE FATTISPECIE CHE COMPRENDONO FATTI DI OMICIDIO 72 LE CIRCOSTANZE AGGRAVANTI 73


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