INTRODUZIONE 1.DIRITTO DEL LAVORO E DIRITTO SINDACALE Il diritto del lavoro, in senso ampio, si caratterizza e presenta una propria autonomia, come disciplina giuridica del lavoro subordinato.Tradizionalmente si distinguono al suo interno la disciplina del rapporto individuale di lavoro (diritto del lavoro in senso stretto), che regola diritti e obblighi del singolo lavoratore contrapposto al singolo datore; il diritto sindacale, che riflette vicende ed interessi collettivi o di gruppo; il diritto della previdenza sociale (o della sicurezza),che disciplina l’erogazione di beni e servizi in favore di coloro che ne hanno bisogno.Tutte queste discipline hanno una comune origine,quella della diffusione del lavoro subordinato in conseguenza della Rivoluzione Industriale.Il processo espansivo del diritto sindacale è però più lento e incompleto rispetto a quello del diritto del lavoro,e della previdenza sociale. L’elemento fondamentale che distingue il diritto sindacale dal resto della disciplina del lavoro,è il riferimento ad aspetti e momenti collettivi dei rapporti di lavoro,infatti gli oggetti della disciplina sono l’organizzazione collettiva dei lavoratori e dei datori di lavoro,il contratto collettivo di lavoro,il conflitto collettivo (sciopero,serrata).Anche i protagonisti sono collettivi: le organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori nelle loro varie forme,e lo Stato con le istituzioni pubbliche,la cui presenza è diventata sempre più rilevante. 2.ORDINAMENTO STATALE E AUTONOMIA COLLETTIVA Il diritto sindacale si presenta come un sistema di norme di diversa matrice: a quelle di origine statale
si
intrecciano
imprenditori,soprattutto
regole attraverso
prodotte la
dalle
stesse
contrattazione
ma
parti
collettive,
anche
su
sindacati
base
ed
unilaterale
(statuti,regolamenti,ecc.).Di queste regole collettive alcune disciplinano situazioni finali (diritti e doveri tra le parti),altre regolano l’attività di produzione di altre norme,hanno quindi carattere strumentale. I processi di osmosi tra ordinamento sindacale e statale sono intesi in entrambe le direzioni: il primo ha esercitato una funzione di stimolo e innovazione rispetto al diritto statale che a sua volta ha svolto compiti di sostegno dell’autonomia collettiva e talora di correzione o integrazione delle norme prodotte da questa. 4.LE FONTI DEL DIRITTO SINDACALE Le fonti del diritto sindacale sono quelle proprie del diritto generale. 4.1.LE FONTI INTERNAZIONALI
Fanno capo all’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL),la cui più nota attività consiste nell’adozione dei testi di convenzioni internazionali e di raccomandazioni in materia di lavoro. Le convenzioni sono trattati destinati ad essere ratificati dagli stati membri,così da diventare vincolanti nel diritto interno. L’interpretazione è affidata alla Corte Internazionale di giustizia che ha sede all’Aja. Le raccomandazioni non sono destinate alla ratifica ed hanno valore non normativo,ma di modello o indirizzo rispetto alle politiche nazionali del lavoro. 4.2.LE FONTI COMUNITARIE L’attività degli organi comunitari appare più incisiva.Infatti l’attività normativa dell’Unione Europea si attua in due forme prevalenti,ad opera del Consiglio e della Commissione. I regolamenti sono atti generali obbligatori,di applicazione diretta nel diritto dei paesi membri;le direttive sono fonti giuridiche che vincolano gli stati membri ad adeguarsi nei risultati,queste godono di un’efficacia normativa indiretta,cioè condizionata all’emanazione di un apposito atto di recepimento interno.Le direttive hanno efficacia direttamente nei confronti dello Stato quando hanno un contenuto chiaro,preciso ed incondizionato;su questo si pronuncia la Corte di giustizia. 4.3.LE FONTI INTERNE Il primo richiamo va alla Costituzione,i cui articoli direttamente rilevanti in tema di diritto sindacale sono il 39, sull’organizzazione sindacale e la contrattazione collettiva, il 40, sullo sciopero, il 46 sulla partecipazione dei lavoratori nell’impresa. All’insegna del principio della libertà di organizzazione sindacale si è affermata l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale sul sindacato come associazione non riconosciuta e sul contratto collettivo c.d. di diritto comune. Il ruolo della legislazione nel diritto sindacale del secondo dopo-guerra è stato a lungo marginale.La prima tappa legislativa di rilievo è costituita dalla legge 20 Maggio 1970, numero 300,lo Statuto dei lavoratori,si tratta di una disciplina di sostegno dell’attività sindacale in azienda. Una seconda tappa significativa l’ha segnata la legge n.146 del 1990 (vd,l.83/2000),intervenuta a disciplinare lo sciopero nei servizi pubblici essenziali. Una terza tappa è rappresentata dal D.Lgs. n.29 del 1993 (ora D.Lgs. n.165 del 2001,Testo Unico del pubblico impiego). La contrattazione collettiva riveste un ruolo centrale in ambito lavoristico,in quanto come fonte sindacale rileva per la parte obbligatoria dei contratti collettivi. La giurisprudenza riveste in ogni paese occidentale un’importanza decisiva nella fomazione ed applicazione del diritto sindacale. CAPITOLO PRIMO
IL DIRITTO SINDACALE: ATTORI ED EVOLUZIONE STORICA A)L’EVOLUZIONE STORICA DEI RAPPORTI TRA GLI ATTORI 1.GLI ATTORI DELL’ORDINAMENTO SINDACALE E I LORO RAPPORTI In ogni ordinamento sindacale operano tre attori: le organizzazioni sindacali dei lavoratori,le organizzazioni sindacali imprenditoriali (e gli stessi singoli imprenditori), lo Stato (e più in generale le istituzioni pubbliche).I rapporti tra questi tre attori variano nel tempo e a seconda degli ordinamenti. 2.LE ORIGINI: LA REPRESSIONE DEL FENOMENO SINDACALE In Italia,come in gran parte dei paesi occidentali, i rapporti collettivi sono stati caratterizzati all’origine da forti tensioni conflittuali e da interventi repressivi da parte dello Stato nei confronti dell’organizzazione sindacale e a maggior ragione dello sciopero. Quasi tutti i paesi occidentali hanno attraversato una prima fase storica in cui l’ordinamento giuridico,generalmente il legislatore,negava ai lavoratori e agli imprenditori la possibilità di organizzarsi collettivamente per motivi di autotutela. 3.IL PERIODO DELLA TOLLERANZA PENALE Nella fase successiva lo Stato provvide a rimuovere i divieti penali al conflitto e all’organizzazione sindacale,sancendo la libertà di coalizione. Il codice Zanardelli del 1889 inaugurò un periodo di tregua che durò fino al fascismo,non puniva lo sciopero e la serrata ma i comportamenti in contrasto con la libertà di lavoro. All’inizio del ventesimo secolo in Europa nacquero una serie di istituzioni pubbliche competenti per le materie di rapporti di lavoro e relazioni industriali.Al consiglio dei probiviri spettava la competenza sia sulle controversie individuali,sia in seguito su quelle collettive;fu il primo esempio in Italia di intervento in materia di contrattazione collettiva. 4.IL PERIODO CORPORATIVO In Italia l’avvento del fascismo interruppe lo sviluppo delle relazioni industriali.Si creò un sistema sindacale e contrattuale pubblicistico,completamente controllato dallo Stato.La legge 3 Aprile 1926 n.563 ammetteva formalmente la libertà sindacale,ma solo un sindacato di lavoratori e datori per ogni categoria poteva ottenere il riconoscimento legale dal Governo con attribuzione della personalità giurdica;era quindi tutto controllato dallo Stato.
Una volta riconosciuti i sindacati avevano ex lege la rappresentanza di tutti i componenti della categoria,quindi i contratti collettivi da questi conclusi avevano efficacia erga omnes.Il conflitto era represso penalmente come reato contro l’economia nazionale. 5.LA FASE TRANSITORIA (1943-1947) E LA COSTITUZIONE Dopo la caduta del fascismo (25 Luglio 1943) uno dei primi atti del Governo Badoglio fu quello di abrogare le corporazioni e le istituzioni tipiche della fase corporativa. Il modello costituzionale si fonda sulla valorizzazione del lavoro come criterio ordinatore generale dei rapporti tra Stato e società,e come fondamento di una partecipazione dei lavoratori alla vita produttiva e sociale;questo spiega la serie di diritti riservati esclusivamente ai lavoratori subordinati. L’articolo 39 sancisce tre principi fondamentali: a) la libertà sindacale come fondamento delle relazioni industriali (comma 1); b) la registrazione del sindacato come presupposto per acquisire la capacità di stipulare contratti collettivi efficaci per tutti gli appartenenti alla categoria cui si riferiscono; c) l’attribuzione di tale capacità contrattuale a rappresentanze unitarie dei sindacati registrati,in proporzione dei loro iscritti. La valorizzazione del sindacato è rafforzata dal riconoscimento dello sciopero (art.40),privilegiato rispetto alla serrata. 6.LA CRISI DEL MODELLO COSTITUZIONALE La crisi del modello dell’art. 39 si ha già con la rottura dell’unità sindacale (1948).Comune a tutti i sindacati è la paura di un controllo pubblico sulla propria organizzazione e sullo sciopero,la disciplina dell’ordinamento sindacale si sposta così nel diritto privato;il sindacato è quindi un’associazione non riconosciuta,sottratta a disciplina legislativa. 7.LO STATUTO DEI LAVORATORI L’impulso decisivo al superamento della prospettiva costituzionale del riconoscimento giuridico avviene nel 1970 con lo Statuto dei lavoratori.Il campo di intervento stavolta è l’azienda,all’interno della quale il sindacato è il centro di contropotere.La legge è limitata alla realtà industriale della fabbrica,e non si riferisce alle piccole realtà produttive. 8.CONCERTAZIONE
SOCIALE
E
INTERVENTO
PUBBLICO.A)LO
SCAMBIO
POLITICO NELL’EMERGENZA DEGLI ANNI ‘70 Nel corso degli anni ’70 matura un profondo cambiamento nel ruolo dello stato rispetto alle relazioni industriali,che diventa infatti elemento fondamentale delle dinamiche delle relazioni industriali.
9.B)LE AMBIVALENZE DEGLI ANNI ‘80 La rottura del 1984 (Protocollo di San Valentino) è solo un segnale delle difficoltà di praticare in Italia lo scambio politico.Si sviluppano tendenze liberiste,superati gli anni delle grosse crisi. 10.C)CONCERTAZIONE SOCIALE E STABILIZZAZIONE ECONOMICA NEGLI ANNI ‘90 Gli anni ’90 sono dominati,anche per i rapporti sindacali, dai problemi del risanamento e della stabilizzazione economica,aggravati dal peso del debito pubblico ereditato dal passato,e dall’inflazione. Con l’accordo del 31 Luglio 1992 i sindacati accettano l’abolizione di un istituto storico come la scala mobile,che aveva retto per tutto il dopoguerra;ma la tappa più significativa è segnata dall’accordo del 23 LUGLIO 1993,considerato la prima costituzione delle relazioni industriali italiane,che sancisce la partecipazione dei sindacati confederali alle decisioni macroeconomiche dell’esecutivo,e sostituisce il meccanismo automatico della scala mobile con quello della politica dei redditi. B) FUNZIONI E ISTITUZIONI PUBBLICHE NEL DIRITTO SINDACALE 1.L’INTERVENTO PUBBLICO NELLE RELAZIONI INDUSTRIALI L’intervento dello Stato e dei pubblici poteri nelle relazioni industriali ha avuto storicamente un’importanza sempre rilevante.Attualmente vi sono varie funzioni dello Stato rilevanti per le relazioni industriali: la funzione programmatoria e di governo; la funzione legislativa; la funzione decisoria, che si esplica attraverso la giurisprudenza ordinaria; la funzione conciliativa e mediatoria; le funzioni assistenziali o di welfare; le funzioni di gestione diretta dei rapporti di lavoro.Analogamente sono molteplici gli organi di intervento: oltre a governo, parlamento, magistratura ed enti locali, operano altri organi di rilevanza costituzionale (il CNEL),e organi del ministero del lavoro 2.LE FUNZIONI DELLO STATO NELLE RELAZIONI INDUSTRIALI: LA FUNZIONE MEDIATORIA E CONCILIATIVA L’esercizio di tale funzione può limitarsi a mettere in contatto le parti,a favorire il chiarimento delle posizioni reciproche, a esplorare punti di convergenza.Rientra nelle competenze del Ministero del lavoro e degli organi periferici 3.LA FUNZIONE ASSISTENZIALE (O DI “WELFARE”) Si esprime in una vasta serie di interventi legislativi,amministrativi e finanziari,relativi all’intera gamma dei rapporti sociali e impegna una consistente fetta delle risorse nazionali.Sono da segnalare
tre tipi di intervento: quelli di previdenza, di sicurezza e assistenza sociale in senso stretto: gli aiuti alle imprese; gli interventi di politica fiscale. 4.LA FUNZIONE DI DATORE DI LAVORO Tale funzione è svolta direttamente nel pubblico impiego,che a causa dei risultati insoddisfacenti del settore pubblico ha portato alla privatizzazione,sia nelle aziende pubbliche,sia nel rapporto di impiego. 5.LA FUNZIONE PROGRAMMATORIA La programmazione è considerata lo strumento per eccellenza di guida pubblica delle politiche economiche e sociali: un rilievo particolare lo ha assunto l’intervento dello stato nella dinamica dei redditi, diretto cioè a predeterminare gli aumenti dei redditi da lavoro e anche dei prezzi,soprattutto a fini di contenimento dell’inflazione. 6.GLI ORGANI E LE ISTITUZIONI NAZIONALI a) Il CNEL (Consiglio nazionale dell’ economia e del lavoro),previsto dall’art.99 Cost. e tutelato da diverse leggi,ha compito di consulenza nei confronti delle camere e del governo,di iniziativa legislativa e di contributo all’elaborazione della legislazione economica e sociale. b) Il Ministero del lavoro ha avuto tradizionalmente competenza amministrativa generale in materia di lavoro e di sicurezza sociale.Operano diverse commissioni,composte di rappresentanti dei lavoratori e dei datori.Al ministero restano compiti di indirizzo,di controllo e vigilanza,esercitati attraverso l’Ispettorato del lavoro. c) Organismi a composizione tripartita. d) Il governo,coinvolto nelle relazioni industriali con forme diverse. 8.L’INTERNAZIONALIZZAZIONE
DELL’ECONOMIA
E
GLI
ORGANISMI
INTERNAZIONALI L’internazionalizzazione dell’economia riduca progressivamente il ruolo dello Stato nelle relazioni industriali;sono state fondate quindi forme di autorità sopranazionale per regolare questi rapporti: a) L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL),del 1919 con sede a Ginevra, è l’organismo con competenze generali,soprattutto normative e di assistenza in materia di lavoro,svolte per migliorare le condizioni sociali e del lavoro. b) Il Consiglio d’Europa,del 1949, che ha elaborato la Convenzione europea dei diritti dell’ uomo e delle libertà fondamentali.Ha elaborato anche la Carta sociale europea che sancisce diversi principi fondamentali in materia di lavoro: diritto al lavoro,alla retribuzione,ecc.
9.IL DIRITTO DEL LAVORO E LE ISTITUZIONI EUROPEE L’Europa è la prima area del mondo sviluppato che si è data organismi e progressivamente un vero ordinamento sopranazionale,competente anche per i rapporti di lavoro.La Commissione ha il compito di promuovere la consultazione delle parti sociali a livello comunitario.
CAPITOLO II: L’ORGANIZZAZIONE DEI LAVORATORI E DEGLI IMPRENDITORI 1. Linee generali: le caratteristiche organizzative dei sindacati dei lavoratori e degli imprenditori risultano strettamente influenzate dalle vicende storiche e dal contesto generale dei rapporti di lavoro che si realizza in ciascun sistema. Un dato tipico della situazione italiana è lo sviluppo tardivo dell’organizzazione sindacale, a causa del ritardo del processo di industrializzazione nel nostro paese, oltre che per la generale fragilità del nostro sistema economico e la debolezza del mercato del lavoro; un altro carattere è la forte politicizzazione, intesa sia come connotazione ideologica sia come connessione con gli stessi partiti politici. Da notare che, nel caso italiano, la struttura delle organizzazioni imprenditoriali si è modellata su quella dei sindacati dei lavoratori. 2. I modelli organizzativi: esiste una duplice linea organizzativa in ogni centrale sindacale: verticale e orizzontale. La prima ha quale elemento di aggregazione l’appartenenza dei lavoratori, e delle imprese da cui dipendono, allo stesso settore o categoria produttiva (es. sindacato dei tessili, dei metalmeccanici, ecc…); la seconda, invece, comprende tutti i lavoratori e le imprese (nonché gli organismi verticali) dei vari settori merceologici presenti in un determinato ambito geografico. Entrambe le linee organizzative non solo coesistono e s’intersecano entro ogni sindacato, ma consistono ciascuna di varie strutture o istanze, di diversa dimensione, dal luogo di lavoro, alla zona territoriale circoscritta fino all’ambito nazionale. Le confederazioni rappresentano il vertice sia delle strutture orizzontali (s.o.) che di quelle verticali (s.v.); le tre maggiori sono: la CGIL, la CISL, la UIL. Eguale importanza le strutture orizzontali hanno nell’organizzazione degli imprenditori. 3. L’organizzazione sindacale: evoluzione storica: l’evoluzione sindacale nel secondo dopoguerra segue fasi significative per l’intero assetto delle nostre relazioni industriali: 1)Periodo ’48-58: per oltre un decennio le condizioni socio-politiche (tensioni sociali, politiche pubbliche di controllo e repressione sindacale) ed economiche (forte disoccupazione) contribuiscono a mantenere il sindacato in situazione di debolezza organizzativa e di divisione politica. 2) Anni della crescita: con il boom economico, la crescita comporta un rafforzamento della posizione dei lavoratori sul mercato del lavoro, in particolar modo nei settori dell’industria di massa; a ciò contribuisce il mutato quadro politico, l’atteggiamento dei pubblici
poteri, più favorevole all’organizzazione sindacale, e la modernizzazione sociale. La CGIL, la CISL e la UIL si avvicinano; vi è più interesse ai temi dell’impresa e della contrattazione aziendale. 3) Decennio ’80: a causa di una diffusa crisi economica a livello internazionale, che determina fenomeni di ristrutturazione e innovazione produttiva, questa fase presenta tendenze contrastanti. 4) Decennio ’90: il decennio ’90 eredita dal passato i fattori di crisi di rappresentatività del sindacato specie confederale, e questo rende più urgente la modifica delle regole del gioco prevedendo criteri di rappresentatività effettivi dell’organizzazione sindacale; il tutto è reso ancor più complesso dalla concorrenzialità tra sigle sindacali, sviluppatasi sia all’esterno delle grandi centrali confederali, sia all’interno delle stesse. 4. L’attuale struttura organizzativa del sindacato: l’attuale struttura organizzativa risulta basata su quattro livelli: 1)Alla base stanno le strutture presenti nei luoghi di lavoro (delegati nel settore privato, sezioni sindacali o simili nel settore pubblico). 2) Il secondo livello è quello provinciale o comprensoriale. Qui sono presenti le s.v., i sindacati provinciali delle varie categorie e le strutture orizzontali, variamente denominate: Camere del Lavoro per la CGIL, Camera sindacale per la UIL, Unioni sindacali per la CISL. 3) Il livello regionale, sia orizzontale, sia di categoria, di più recente costituzione, è provvisto di poteri crescenti anche in corrispondenza del decentramento amministrativo e regionale. 4) In ambito nazionale operano le strutture di vertice dell’intera organizzazione, le federazioni nazionali di categoria e la confederazione. La distinzione tra s.o. e s.v. si basa su una fondamentale divisione di compiti nel sindacato: alle s.o. spetta di fissare gli indirizzi essenziali di politica sindacale, economica, contrattuale per tutta l’organizzazione, di cui rappresentano tendenzialmente l’istanza di direzione politica e di rappresentanza nei confronti dei poteri pubblici. Le s.v. sono competenti per la conduzione dell’attività contrattuale e delle iniziative di rilievo settoriale. Per quanto riguarda la tipologia degli organi delle varie strutture, essa riproduce quella usuale delle associazioni. Le principali fonti di finanziamento dei sindacati sono: la quota tessera, principale introito delle centrali confederali, i contributi associativi, e la quota di servizio. L’elemento distintivo del sindacalismo italiano è la sua organizzazione su basi pluralistiche, vale a dire in organizzazioni distinte a seconda di concezioni culturali, ideologiche e ascendenze politiche. CGIL = componenti/ispirazioni legate ai partiti della sinistra italiana (socialista e comunista) CISL = ispirazione cattolica e a lungo collaterale alla DC, anche lavoratori di aree diverse UIL = componenti socialiste, repubblicane e socialdemocratiche Il luglio 1972 vede la nascita della federazione CGIL-CISL-UIL attraverso un Patto federativo, momento culminante di avvio all’unità organica, da sempre un traguardo di difficile raggiungimento a causa delle divisioni sul ruolo del sindacato e sui rapporti con i partiti politici; nonostante questo, i contrasti degli anni
’80, culminanti nella rottura dell’84 fra CGIL, CISL e UIL sull’accordo antinflazione, hanno portato allo scioglimento della federazione. 5. L’organizzazione dei lavoratori nei luoghi di lavoro: sviluppo storico: l’espressione degli interessi collettivi dei lavoratori in azienda è stata, dalle origini fino agli anni ’60, affidata ad una rappresentanza, la commissione interna (CI), strutturalmente diversa dal sindacato, in quanto costituita non su base associativa come questo, ma elettivamente da tutti i lavoratori dell’azienda; la CI è una forma rappresentativa unitaria e necessaria: compito generale di questo organismo era di “mantenere normali rapporti tra i lavoratori e la direzione dell’azienda per il regolare svolgimento dell’attività produttiva, in uno spirito di collaborazione”. In risposta all’esigenza di avere una diretta presenza organizzata in azienda, senza il tramite delle CI, arrivano le sezioni sindacali aziendali; tuttavia queste non riuscirono a diffondersi al di fuori di poche aziende industriali, anche perché non erano riconosciute come strutture con pieni poteri sindacali. Vi sono poi i delegati di fabbrica, i cui caratteri principali sono di essere eletti in modo unitario da un gruppo ristretto di lavoratori collocato nella stessa condizione produttiva; l’insieme dei delegati forma il Consiglio di fabbrica (CdF). 6. L’attuale organizzazione dei lavoratori nei luoghi di lavoro: il Protocollo del luglio 1993 definisce i compiti e le modalità costitutive delle nuove strutture di base, le c.d. Rappresentanze sindacali unitarie (RSU). Le RSU hanno competenze generali di tutela collettiva dei lavoratori in azienda, compresa la titolarità contrattuale, nei limiti delle competenze attribuite dal contratto collettivo nazionale a quello decentrato. Le RSU sono composte da delegati in numero proporzionale ai voti ricevuti da ciascuna lista; tuttavia, le organizzazioni stipulanti il contratto nazionale si assicurano la designazione di un terzo dei delegati, in modo da garantirsi il controllo della struttura. La RSU è organo dell’insieme dei lavoratori e funge al tempo stesso da struttura comune di rappresentanza dei sindacati in azienda; resta tuttavia confermata la tradizione del c.d. “canale unico” sindacale di rappresentanza, per cui gli organismi rappresentativi sono controllati dal sindacato ed hanno la totalità delle competenze di autotutela collettiva in azienda, a differenza della maggioranza dei paesi europei che predilige il canale “doppio” o “plurimo” di rappresentanza, ove si distingue fra rappresentanze sindacali in senso stretto e organismi eletti da tutti i lavoratori. 7. L’organizzazione degli imprenditori in generale: l’organizzazione degli imprenditori è un fenomeno storicamente indotto, o di risposta, rispetto al sindacato dei lavoratori e ne riproduce i tratti organizzativi generali: doppia linea organizzativa, prevalenza delle strutture orizzontali, tradizionale accentramento. CONFINDUSTRIA = organizzazione imprenditori industriali CONFCOMMERCIO = organizzazione imprenditori del commercio CONFAGRICOLTURA = organizzazione imprenditori dell’agricoltura
Organizzazioni delle imprese a partecipazione statale = Intersind (imprese del gruppo IRI) – Asap (imprese del gruppo ENI). L’Aran (Agenzia per la rappresentanza negoziale) ha due scopi: a) sostituire le varie delegazioni di parte pubblica, politicizzate e precarie, con un’unica controparte, tecnica e stabile; b) contribuire a dare piena efficacia alla contrattazione collettiva ormai di diritto comune. 8. La Confindustria: la Confindustria è l’organizzazione imprenditoriale più consistente: le imprese associate operano nell’industria e nel c.d. terziario avanzato (trasporti, comunicazioni, turismo). Più della metà delle imprese rappresentate impiegano meno di 10 dipendenti. Le strutture portanti (orizzontali) sono le associazioni territoriali (più o meno una provincia); a queste fanno capo tutte le imprese della provincia, che spesso non aderiscono alla loro organizzazione (verticale) di categoria. La principale attività svolta dalle associazioni territoriali è l’assistenza fornita alle aziende in materia di contrattazione, applicazione dei contratti e delle leggi sul lavoro e composizione delle controversie relative. Le federazioni di categoria (di cui la Federmeccanica è la più importante) svolgono un ruolo significativo nella preparazione e conduzione delle tornate contrattuali nazionali, nonché nell’indirizzo della contrattazione decentrata. La struttura organizzativa della Confindustria (assemblea, giunta, consiglio direttivo e presidente) la rende simile ad una associazione; sono previsti tre comitati particolari, con funzioni consultive (comitato per le piccole imprese; comitato per il mezzogiorno; comitato dei giovani industriali). Decisivo è il ruolo della presidenza. 9. Organizzazioni sindacali a livello internazionale e comunitario: la CISL (Confederazione Internazionale dei Sindacati Liberi) è l’organizzazione sindacale internazionale più rappresentativa dei lavoratori. A livello verticale si sono sviluppate federazioni internazionali di categoria, con compiti di coordinamento dell’azione sindacale. La CES (Confederazione Europea dei Sindacati) rappresenta oltre trenta organizzazioni. Non esistono centrali internazionale degli imprenditori paragonabili a quelle dei lavoratori: gli imprenditori sono rappresentati all’OIL. L’UNICE (Unione delle Industrie della Comunità europea) raggruppa le organizzazioni padronali dei paesi membri per settori di attività.
CAPITOLO III: LA LIBERTÀ SINDACALE 1. Norme nazionali ed internazionali: nel nostro ordinamento il riconoscimento della libertà sindacale si incentra sul sintetico disposto dell’art. 39 Cost, 1° comma (“l’organizzazione sindacale è libera”); a questo si aggiungono diverse fonti internazionali, tra cui le Convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, n° 87 (libertà sindacale e protezione dei fenomeni sindacali in genere) e n° 98 (principio del diritto di organizzazione e di negoziazione collettiva nei rapporti interprivati e nei confronti dei datori di lavoro); inoltre la libertà di associazione e di attività sindacale trova spazio nella Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 e nella Carta sociale europea del 1961. Di fondamentale importanza sono pure le disposizioni dettate dallo Statuto dei lavoratori in materia sindacale; in modo particolare il titolo II della legge 300 costituisce una concreta articolazione del principio costituzionale con riguardo all’ambito endoaziendale [diritto di associazione e di attività sindacale nei luoghi di lavoro (art. 14), divieto di trattamenti discriminatori in ragione di affiliazione o attività sindacale (artt. 15 e 16), ecc…]. La libertà garantita a livello costituzionale all’organizzazione sindacale va oltre quella sancita in linea generale per il fenomeno associativo di cui all’art. 18 Cost. (infatti l’art 39 non considera il sindacato quale “associazione”, bensì quale “organizzazione”, allargando quindi la sfera d’azione anche a forme organizzatorie non necessariamente a carattere associativo, come ad esempio le CI e i CdF). 2. I contenuti dell’art. 39, 1° comma, Cost.: il profilo individuale e quello collettivo: l’art. 39, 1° comma , Cost. garantisce la libertà sindacale tanto ai singoli individui che ai gruppi organizzati. Profilo individuale: distinzione tra libertà sindacale positiva e libertà sindacale negativa; la prima consiste nella libertà per il singolo di costituire un sindacato, di aderirvi, di fare opera di proselitismo, di raccogliere contributi sindacali, di riunirsi in assemblea (Convenzione OIL n° 87 e art. 14 legge 300 1970 per garantirne l’attuazione nei luoghi di lavoro; a questo si lega l’art. 15 che decreta la nullità dei (p)atti discriminatori rivolti a colpire un lavoratore in ragione della sua adesione ad un’associazione sindacale). Alla lettera a dell’art. 15 è rinvenibile l’unico riferimento presente nella legislazione italiana alla libertà sindacale negativa, ossia la libertà del lavoratore di non aderire o di recedere dal sindacato; questo tipo di libertà non trova invece spazio nelle fonti internazionali, a causa dell’esistenza, specie su suolo anglosassone, di pratiche restrittive di tale libertà negativa (v. closed shop). Profilo collettivo: A) libertà di organizzazione del sindacato garantita sia a livello nazionale che internazionale, con conseguente libertà di scelta delle forme organizzative e delle regole che disciplinano l’assetto interno, oltre alla libertà di definire gli obiettivi e gli strumenti dell’attività sindacale, senza alcuna interferenza esterna; allo stesso modo è garantita la facoltà del sindacato di aderire ad organizzazioni complesse, sia a livello nazionale che internazionale; B) Libertà di privilegiare, all’interno dell’organizzazione sindacale, il ruolo e i poteri del vertice o della base, secondo le contingenti valutazioni di strategia e di opportunità; C) possibilità di valorizzare il ruolo di rappresentanza degli associati o piuttosto di rappresentanza dell’intera classe dei lavoratori; D) possibilità di privilegiare il confronto o con la controparte datoriale o con le pubbliche istituzioni, valorizzando all’interno del confronto un modello conflittuale o invece un modello cooperativo; E) libertà di azione sindacale e, in particolare, dell’azione contrattuale, come affermato nelle fonti internazionali (Convenzione OIL n° 98). La libertà sindacale, oltre che come libertà di organizzazione e di azione specie contrattuale, va intesa anche come libertà di lotta.
3. Il carattere “sindacale” dell’organizzazione protetta: è opportuno ora considerare quali organizzazioni e attività rientrino nella fattispecie “sindacale” prevista dal 1° comma dell’art. 39, e possano quindi godere di tutte le garanzie connesse a tale norma, dalla quale può solo desumersi un rinvio alla realtà sociale; un’attenta analisi del fenomeno sindacale mette in luce, innanzitutto, il c.d. profilo teleologico (o oggettivo), vale a dire il fine perseguito dalla fattispecie sindacale, che può essere individuato nella funzione di “autotutela di interessi connessi a relazioni giuridiche in cui sia dedotta l’attività di lavoro”: sotto questo aspetto la convergenza tra fenomeno sindacale e momento politico-partitico è più che netta, visto e considerato che entrambe le realtà insistono sugli stessi temi (gli interessi dei lavoratori); ed è qui che interviene un valido criterio discriminante, ossia le attività e gli strumenti impiegati dal fenomeno sindacale per il raggiungimento dell’obbiettivo preposto (profilo strumentale = organizzazione, contrattazione, sciopero). Per quanto riguarda il profilo soggettivo, basta dire che il concetto di “autotutela” implica pur sempre una gestione degli interessi collettivi posta in essere dagli stessi lavoratori o da espressioni immediate di loro rappresentanza. 4. La titolarità della libertà sindacale: questione della titolarità della libertà sindacale da parte degli imprenditori, in merito al fatto se tale attività debba ritenersi riconducibile, come quella dei lavoratori, alla tutela costituzionale dell’art. 39, 1° comma, o piuttosto se rimanga nell’ambito della libertà di associazione e di iniziativa economica (artt. 18 e 41 Cost.), con i limiti del caso. È opportuno considerare anzitutto le diversità tra l’attività sindacale dei lavoratori e degli imprenditori: 1) Sul versante dei lavoratori, l’attività sindacale è un fenomeno “collettivo”, mentre il datore di lavoro è soggetto sindacale anche come singolo. 2) Il contratto collettivo è inderogabile in peius dai singoli lavoratori, a conferma di una peculiare solidarietà di classe; è invece derogabile dal singolo datore di lavoro, a conferma di una maggiore autonomia del singolo rispetto al collettivo. Libertà sindacale dei lavoratori parasubordinati e autonomi: i primi trovano spiegazione nel processo espansivo del diritto del lavoro proteso ad estendere le proprie garanzie in direzione di ogni ipotesi di dipendenza sociale ed economica; per i secondi (i lavoratori autonomi), le istanze di tutela “sindacale” dei gruppi professionali, prima confluite all’interno degli organismi professionali, hanno successivamente indotto lo sviluppo collaterale di forme associative di natura privatistici con struttura e finalità peculiarmente sindacali. Libertà sindacale dei pubblici dipendenti: il riconoscimento della libertà sindacale ai pubblici dipendenti non è mai stato messo in discussione, visto che alla incondizionata portata precettiva della norma costituzionale ha subito fatto riscontro nella pratica il diffuso ingresso del sindacalismo nelle amministrazioni pubbliche; a completare l’opera è intervenuto il D. Lgs. n° 29/1993 che, nel privatizzare il rapporto di pubblico impiego, ha sancito la piena tutela della libertà e dell’attività sindacale nel settore pubblico.
5. La multidirezionalità della tutela dell’art. 39, 1° comma, Cost.: il riconoscimento costituzionale della libertà sindacale esplica i suoi effetti sia sul piano del diritto pubblico – garantendo l’immunità dell’organizzazione sindacale nei confronti dello Stato e dei pubblici poteri – sia su quello dei rapporti privati e soprattutto nei confronti del datore di lavoro. Per quanto riguarda i pubblici poteri, ad essi è quindi preclusa ogni possibilità di controllo o ingerenza nella sfera organizzativa e nella identità politico-ideologica dei sindacati; è altresì vietato ogni condizionamento autoritativo, che possa irreggimentare il sindacato e la sua azione secondo le linee della politica governativa. Il problema della garanzia nei confronti di interventi dei pubblici poteri si presenta riguardo alla libertà di contrattazione collettiva, ossia riguardo alla possibilità che iniziative di carattere legislativo o amministrativo modifichino o pongano limiti inderogabili agli accordi intervenuti tra le parti collettive. Oltre che nei confronti dei pubblici poteri, la libertà sindacale viene riconosciuta nei confronti dei datori di lavoro, i quali, in quanto detentori del potere economico e alcune prerogative in tema di organizzazione e controllo del lavoro, sono in grado di condizionare la presenza e le iniziative del sindacato, specie nel luogo di lavoro; sotto questo profilo, le manifestazioni della libertà sindacale incontrano un limite nelle esigenze organizzative dell’impresa: dunque, le istanze dell’imprenditore, antagonistiche rispetto a quelle sindacali, vengono salvaguardate, nel senso che queste non sono subordinate di diritto all’esercizio delle libertà sindacali. Non è quindi possibile parlare di lesione dei diritti sindacali da parte dell’imprenditore quando questi abbia agito nel rispetto di obiettive e razionali esigenze organizzative.
CAPITOLO IV: I SINDACATI E LE ORGANIZZAZIONI IMPRENDITORIALI COME ASSOCIAZIONI NON RICONOSCIUTE 1. Fattispecie sindacale e associazione: la mancata attuazione dell’art. 39, 2ª parte, Cost. ha avuto due conseguenze sulla disciplina delle organizzazioni sindacali sia dei lavoratori che dei datori di lavoro: a) una accentuazione del loro carattere privatistici; b) la loro appartenenza al genere “associazioni non riconosciute”. Pur essendo proprio del sindacato, il carattere associativo non è necessario della fattispecie sindacale, il cui unico elemento qualificante è l’esercizio in forma organizzata di autotutela collettiva, attività questa che può essere svolta da coalizioni o gruppi occasionali, privi dei caratteri di stabilità e della strumentazione propri dell’associazione, oppure da organismi elettivi. 2. La disciplina codicistica delle associazioni: in quanto associazioni non riconosciute, sindacati e organizzazioni imprenditoriali sono assoggettati alla disciplina degli artt. 36, 37 e 38 del codice civile. Il principio base è sancito dal 1° comma dell’art. 36, secondo cui l’ordinamento interno e l’amministrazione
delle associazioni non riconosciute sono regolati dagli accordi tra gli associati, ossia dalle regole interne dell’associazione, statuti e regolamenti che si ritengono riconducibili al consenso dei soci; le altre norme, invece, riguardano gli aspetti patrimoniali. Per quanto riguarda la questione del carattere di associazione non riconosciuta, si è giunti alla conclusione che, anche in assenza di questa, è possibile godere di soggettività giuridica, come capacità sia pur limitata e relativa di essere centro di imputazione di rapporti giuridici (l’unica differenza di spicco tra un’associazione riconosciuta ed una non riconosciuta è ravvisabile nella c.d. autonomia patrimoniale perfetta, propria solo della prima). L’art. 28 dello Statuto dei lavoratori riconosce al sindacato la legittimità ad agire in giudizio per la difesa dei propri interessi. 3. Rapporti interni e democrazia sindacale: l’assenza di una disciplina tipica dell’associazione sindacale ha un rilievo particolare in ordine ai rapporti interni del sindacato. Scarso rilievo giuridico dei problemi della tutela dei soci verso l’organizzazione. Il principio della democraticità interna del sindacato richiesto dall’art. 39 Cost., come condizione per la registrazione, deve ritenersi vigente anche per i sindacati di fatto, come condizione di qualificazione in quanto tali; in assenza di questo requisito, l’organizzazione non beneficerebbe della disciplina (in termini di diritti e poteri) riservata dall’ordinamento al sindacato. Tra le regole democratiche accettate dal sindacalismo, di fondamentale importanza sono: il carattere elettivo delle cariche sociali, il principio di maggioranza, la necessità che le decisioni generali per la vita dell’associazione siano di competenza di un organo assembleare, comprendente tutti i soci. 4. La giustizia interna dei sindacati: debole effettività e scarsa affidabilità degli organi giudicanti, la cui autonomia rispetto agli organi giudicanti, e agli organi c.d. politici del sindacato non è assicurata dalle scarne norme statutarie sull’incompatibilità. L’orientamento della giurisprudenza è rigorosamente astensionistico. Altrettanto incerta è pure l’operatività all’interno delle associazioni di alcuni diritti e garanzie costituzionali. 5. Controversie interne, ammissione al sindacato, rapporti tra associazioni di diverso livello: i rapporti tra organismi sindacali di diverso livello rilevano sia per la qualificazione della struttura associativa come tale, sia rispetto all’attività esterna del sindacato, per risolvere il delicato problema dei rapporti tra contratti collettivi di diversa ampiezza. Sotto il primo profilo si sono avanzate due tesi: una che configura il sindacato come associazione complessa in senso proprio, ossia come associazione di associazioni (inferiori), l’altra che ritiene preferibile la configurazione come insieme di associazioni parallele, a cui il singolo socio appartiene contemporaneamente. CAPITOLO QUINTO LA RAPPRESENTATIVITA’ SINDACALE
1.IL
SOSTEGNO
POLITICO,
GLI
DEL
SINDACATO
AMBITI
RAPPRESENTAVIVO:
OGGETTIVI,
LA
NOZIONE
IL DI
SIGNIFICATO SINDACATO
RAPPRESENTATIVO La politica di promozione del sindacato contiene in sé la necessità di una delimitazione selettiva dei soggetti collettivi protetti,necessità questa che è stata a lungo soddisfatta dal richiamo alla figura del “sindacato maggiormente rappresentativo”,quale unico destinatario del sostegno legislativo e politico,in quanto capace di influenzare e governare vasti strati di lavoratori.”Maggiormente rappresentativo” è quel sindacato che presenta in modo sicuro la capacità di esprimere adeguatamente l’interesse del sottostante gruppo professionale,rispetto ad un ampia massa di lavoratori. Nel momento di massima ascesa del versante politico-legislativo,il s.m.r. comincia un lento ma irreversibile declino,per la sua incapacità di esprimere adeguatamente l’universo sempre più ampio e complesso degli interessi di lavoro. Già il Protocollo del 1993 supera il criterio dell’art.19 st.lav. ,che vede però un notevole cambiamento con il referendum del giugno 1995,con l’abrogazione parziale relativa al settore privato,e con quella completa nel settore pubblico.Solo per la Corte Costituzionale non scompare del tutto dal nostro ordinamento la maggiore rappresentatività,che conserva infatti rilevanza a fini extra-aziendali. 2.IL
SINDACATO
RAPPRESENTATIVO
NEL
VECCHIO
ART.19,LETT.a):
LA
MAGGIORE RAPPRESENTATIVITA’ PRESUNTA E I SUOI INDICI DI RILEVAZIONE L’ elevato numero di iscritti non poteva bastare per conferire una patente di “maggiore rappresentatività”,senza la chiamata in causa di altri requisiti,che dottrina e giurisprudenza hanno osì individuato: 1) l’equilibrata presenza in un ampio arco di categorie professionali,non potendosi considerare m.r. una confederazione concentrata solo in alcuni settori o in una sola categoria; 2) la diffusione su tutto il territorio nazionale; 3) l’esercizio continuativo dell’azione di autotutela con riguardo a diversi livelli e a diversi interlocutori; 4) la reale capacità di influenza sull’assetto economico e sociale del Paese. In concreto,la giurisprudenza ha ritenuto maggiormente rappresentative le tre confederazioni CGIL,CISL e UIL. La lettera a) dell’art.19 St. lav. è stata quindi abrogata.
3.IL
SINDACATO
RAPPRESENTATIVO
NELL’ART.19
ST.LAV.
DOPO
IL
REFERENDUM: LA RAPPRESENTATIVITA’ “EFFETTIVA” E I DIRITTI SINDACALI Dopo l’abrogazione della lettera a) la norma predilige il collegamento esclusivo delle r.s.a. con associazioni sindacali firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva,ne emerge quindi una rappresentatività originaria,empiricamente verificabile;ne usciranno favorite le confederazioni storiche,poiché sono essenzialmente i grandi sindacati a stipulare contratti collettivi applicati nelle unità produttive. 4.PROFILI DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE DELL’ART. 19 ST.LAV. La Corte Costituzionale ha superato tutti i dubbi sull’incostituzionalità dell’art.19 con tre sentenze: una del ’74,una del ’88 e una del ’90. Nella sentenza n.54 del 1974,la Corte ha rilevato che l’art.19 e il titolo III St.lav. non interferiscono con la libertà sindacale,ma aggiungono alle prerogative di libertà ulteriori privilegi e benefici. Nella sentenza n.334 del 1988 i giudici hanno risolto i dubbi sulla rappresentatività a livello confederale,confermando la legittimità della disposizione statutaria,e la non lesione del principio di libertà sindacale. In seguito alla formulazione da parte della Corte di altre sentenze in materia,nasce l’esigenza di un’interpretazione rigorosa dell’art.19,tale da farlo coincidere con la capacità del sindacato di imporsi al datore di lavoro,direttamente o attraverso la sua associazione,come controparte contrattuale. Occorrerà quindi accertare la partecipazione attiva del sindacato al processo di formazione del contratto collettivo che regoli in modo organico i rapporti di lavoro,almeno per un settore o un istituto importante. 5.IL SINDACATO RAPPRESENTATIVO NELLA PIU’ RECENTE LEGISLAZIONE c.d. DI RINVIO: LA RAPPRESENTATIVITA’ “COMPARATA” Nella legislazione recente,la nozione di s.m.r. lascia il posto sovente ad una diversa formula,quella di sindacato comparativamente più rappresentativo.La rappresentatività comparata tenta di sopperire alla scarsa selettività della maggiore rappresentatività sindacale,ereditandone però le stesse finalità. 6.LA RAPPRESENTATIVITA’ DEL SETTORE PUBBLICO Il legislatore adotta una nozione di rappresentatività la cui unità di misura è la media tra dato associativo e dato elettorale,che rappresentano gli indici quantitativi per eccellenza: testimonianza della capacità di aggregare iscritti l’uno,e dell’idoneità a raccogliere consensi oltre alla cerchia degli associati l’altro.
La rappresentatività appare quindi declinata sotto tre accezioni: sufficiente,comparata e complessiva. 7.IL SINDACATO RAPPRESENTATIVO E LE PUBBLICHE ISTITUZIONI Il sindacato magg. o comp. più rappresentativo appare presente anche in una serie di istituzioni o sedi pubbliche,dove non interviene in rappresentanza del personale occupato.Bisogna distinguere a riguardo: a) la presenza di organi di carattere prevalentemente consultivo o di collaborazione rispetto all’esercizio dei poteri tipici dello Stato; b) la partecipazione di tipo cogestivo in organi direttivi di enti pubblici destinati a svolgere attività in favore dei lavoratori; c) la partecipazione alle politiche di formazione professionale,mediante la costituzione di organismi paritetici bilaterali; d) la partecipazione informale del sindacato all’indirizzo politico generale nei due aspetti dell’attività legislativ e della politica economica e programmatoria. 8.IL SINDACATO RAPPRESENTATIVO E LA CONTRATTAZIONE Il nostro ordinamento non riconosce al sindacato rappresentativo una posizione privilegiata in sede di contrattazione collettiva nel settore privato.Va però chiarito che: a) le tre maggiori confederazioni CGIL,CISL,UIL, si trovano investite di un monopolio di fatto,delle trattive con le forze governative sui grandi temi che investono l’economia del paese,come gli Accordi Interconfederali; b) alcune leggi conferiscono al sindacato rappresentativo il potere di derogare, in via contrattuale,ad alcune norme di legge,rimettendo alla valutazione di quest’ultimo l’opportunità o meno di mantenere certi vincoli garantistici di tutela del singolo dipendente; c) nel settore pubblico il legislatore ha riconfermato il sindacato rappresentativo nel ruolo di interlocutore contrattuale esclusivo della p.a. 9.LA CRISI DELLA RAPPRESENTATIVITA’ SINDACALE E LE PROPOSTE DI RIFORMA Dalla metà degli anni ’80 il sindacalismo confederale registra una grave crisi di rappresentatività.Tra le prime cause,che sono molteplici,vanno annoverate la rivoluzione tecnologica,la terziarizzazione crescente dell’economia,l’accesa competitività nazionale. CAPITOLO VI: I DIRITTI SINDACALI
1. Ratio storico-politica dei diritti sindacali nell’impresa: il titolo II dello Statuto dei lavoratori ribadisce la poliedrica operatività del principio di libertà sindacale nei luoghi di lavoro, in polemica con concezioni volte a negare cittadinanza alle libertà costituzionalmente garantite nei rapporti interprivati e segnatamente nelle unità produttive; ovviamente la libertà di organizzazione sindacale non si esaurisce nel riconoscimento del momento associativo, ma si espande fino a consentire l’attivazione di ulteriori situazioni strumentali in grado di dinamicizzare l’azione sindacale. 2. Associazione e attività sindacale in azienda (art. 14): l’art. 14, che apre il titolo II della L. n° 300/1970, sancisce il diritto per tutti il lavoratori di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale nei luoghi di lavoro; questo articolo, insieme alla disciplina relativa agli atti e ai trattamenti economici collettivi discriminatori (artt. 15 e 16) e alla norma che pone il divieto di costituzione di sindacati di comodo (art. 17), costituisce la concretizzazione a livello aziendale del principio di libertà di organizzazione sindacale (art 39, 1° comma, Cost.). Comunque i diritti sindacali del tit. III rappresentano un’aggiunta alla libertà sindacale in azienda: infatti l’art. 14 garantisce pure il diritto di costituire e far operare in azienda, sia pur senza le garanzie previste dal titolo III, organizzazioni sindacali al di fuori dell’art. 19, con esclusione, naturalmente, dei sindacati di comodo (v. § 4); inoltre l’art. 14 tutela lo stesso pluralismo sindacale, garantisce protezione legislativa a forme di dissenso anche in momenti di organizzazione collettiva spontanea di carattere transitorio (comitati di sciopero, di lotta), nel rispetto però dei limiti posti dall’art. 18 (liceità dei fini, non segretezza). 3. Il principio di non discriminazione (artt. 15 e 16): l’art. 15 Stat. lav. costituisce la prima ampia consacrazione legislativa del principio di non discriminazione nel rapporto di lavoro: esso si riferisce alle discriminazioni per motivi sindacali, insieme a quelle per motivi politici e religiosi, e per ragioni di sesso, razza e lingua; è opportuno comunque sottolineare la distinzione tra il principio di eguaglianza e il principio di non discriminazione, poiché mentre il primo mira a realizzare una parificazione generale dei trattamenti tra i soggetti appartenenti ad un gruppo, il secondo mira a reprimere ipotesi di disparità legate a specifici motivi vietati. La fattispecie oggetto del divieto di discriminazione nell’art. 15 comprende atti diretti a: a) subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte; b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nell’assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari per le ragioni indicate, nonché ogni altro atto o patto in grado di recare altrimenti pregiudizio al lavoratore per gli stessi motivi; sono esclusi solo i meri comportamenti materiali e le semplici manifestazioni di intenzioni, oltretutto per lo più non idonee a ledere gli interessi protetti. L’art. 16 vieta la concessione da parte del datore di trattamenti economici collettivi a carattere discriminatorio, ossia quei trattamenti più favorevoli corrisposti a gruppi di lavoratori in ragione del loro
comportamento sindacale (sono dunque vietati i “premi” corrisposti a lavoratori che non abbiano scioperato o la maggiore retribuzione a coloro che non abbiano partecipato ad un’assemblea). Nel divieto degli artt. 15 e 16 vanno ricompresi anche gli atti c.d. omissivi del datore di lavoro (es. rifiuto di assumere, di promuovere, di concedere trattamenti economici). 4. Sindacati di comodo (art. 17): l’art 17 vieta a tutti i datori di lavoro, imprenditori e non (anche gli enti pubblici) nonché alle loro associazioni (sindacali e di altro genere) “di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori”. Sono sindacati di comodo quelle organizzazioni, promosse o sostenute dai datori di lavoro, per avere un interlocutore all’apparenza antagonistico, ma in realtà addomesticato, con conseguente alterazione della dinamica sindacale. Per quanto riguarda la sanzionabilità del comportamento antisindacale, è scontato il ricorso all’art. 28, ma è altresì dubbio se il giudice possa spingersi sino ad una radicale eliminazione del gruppo costituitosi in violazione dell’art. 17; la tesi contraria si fonda sul riconoscimento che il gruppo sindacalmente non genuino gode pur sempre della tutela dell’art. 18 Cost., in quanto manifestazione di una più generale libertà di associazione. 5. Rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro (art. 19 St. lav; Protocollo 23 luglio 1993; Accordo Interconfederale 20 dicembre 1993; D.Lgs. n° 626/1994). 5.1 Le RSA: il tit. III dello Statuto dei lavoratori presenta il riconoscimento alle organizzazioni con taluni requisiti di rappresentatività di una serie di “diritti sindacali” ulteriori rispetto a quelli spettanti in via generale ad individui e organizzazioni sindacali. L’art. 19 disciplina il soggetto sindacale beneficiario di tali diritti – la RSA – che viene dotato di una legittimazione rafforzata ad operare nei luoghi di lavoro e cui viene conferita una serie di poteri e diritti regolati prevalentemente nel tit. III dello Statuto. Art. 19 pre-referendum abrogativo: diritto di costituire RSA “nell’ambito”: a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva. Art. 19 post-referendum abrogativo (1995): “Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati all’unità produttiva”. Questione dell’ iniziativa dei lavoratori e della costituzione “nell’ambito di”: per quanto riguarda la prima, è importante notare che l’iniziativa costitutiva spetta ai lavoratori in quanto tali e non ai soli iscritti; in merito alla seconda condizione, invece, essa delinea l’esigenza di un minimum di istituzionalizzazione delle nuove realtà organizzative aziendali, esigenza connessa a due ordini di considerazioni: innanzitutto, l’opportunità di evitare abusi da parte di organismi in ipotesi costituiti allo scopo esclusivo o prevalente di
usufruire di tutti i vantaggi statutari. In secondo luogo, l’esigenza di promuovere interlocutori stabili con i quali il datore di lavoro possa proficuamente, e sia pur conflittualmente, dialogare: Per poter godere dei benefici dello Statuto, la RSA deve venire innanzitutto: A)“Costituita nell’ambito di una associazione sindacale”: esigenza di vincolare l’organismo aziendale ad entità sindacali esterne all’azienda dalla struttura rigorosamente associativa. B) Tale associazione sindacale deve essere “firmataria di contratti collettivi”; criterio di rappresentatività tecnica ed effettiva; secondo la Corte Cost. deve trattarsi di un contratto normativo che “regoli in modo organico i rapporti di lavoro, anche in via integrativa, a livello aziendale, di un contratto nazionale o provinciale già applicato nell’unità produttiva”. C) Questi contratti collettivi devono essere “applicati nell’unità produttiva” di riferimento. 5.2 Le RSU: diversamente dalle RSA dell’art. 19 St. lav., le RSU si configurano quali strutture organizzate su base unitaria, elette dalla collettività aziendale. La loro costituzione è demandata infatti ad elezioni cui partecipano tutti i lavoratori (iscritti e non iscritti), con ammissione alla competizione anche di liste presentate da associazioni non rappresentative ex art. 19 St. lav., purché formalmente costituite con proprio statuto, nonché aderenti all’AI (Accordo Interconfederale) e forti della firma di almeno il 5% dei lavoratori dell’unità produttiva aventi diritto al voto. Le RSU sono costituite solo per 2/3 dei seggi da membri eletti a suffragio universale ed a scrutinio segreto tra liste concorrenti. Il restante terzo viene assegnato alle liste presentate dalle associazioni sindacali stipulanti il contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell’unità produttiva, in proporzione ai voti ottenuti. Il carattere unitario e almeno in parte elettivo della RSU rafforza il legame della medesima con la base dei lavoratori: essa è organo dell’insieme dei lavoratori, e funge al tempo stesso da struttura comune di rappresentanza e di sindacati nell’azienda, sostitutiva della RSA. La RSU è legittimata a negoziare per la stipula del contratto collettivo aziendale di lavoro; essa subentra a tutte le funzioni ed i poteri conferiti alle RSA per effetto delle disposizioni di legge, incluse quelle in tema di informazione e consultazione sindacale. 5.3 Le rappresentanze dei lavoratori per la sicurezza: l’art. 9 St. lav. aveva per la prima volta attribuito a tutti i dipendenti, in quanto parte della comunità di rischio, un generale diritto di promozione e controllo in tema di salute e sicurezza. La svolta si è avuta con l’istituzione, obbligatoria e generalizzata, nei settori privato e pubblico, del rappresentante dei lavoratori: si è stabilito che nelle aziende o unità produttive con più di 15 dipendenti, esso (il rappresentante) venga eletto o designato dai lavoratori tra i componenti le rappresentanze sindacali. Tra le prerogative e tutele di cui gode il rappresentante per la sicurezza vanno annoverate il diritto di informazione e consultazione preventiva sui temi dell’insicurezza, nonché la facoltà di ricorso alle autorità competenti in caso di inidoneità delle misure di sicurezza apprestate dal datore.
6. Il diritto di assemblea (art. 20): funzione dell’assemblea – come del referendum – è di permettere ai lavoratori, anche non appartenenti al sindacato, di partecipare alla elaborazione e decisione delle politiche contrattuali e sindacali. Ai sensi del 1° comma dell’art. 20 “i lavoratori hanno diritto di riunirsi nell’unità produttiva”: il potere di convocare l’assemblea è riservato a ciascuna RSA, che così può filtrare le domande provenienti dalla base, valutando quali di queste appaiano meritevoli di considerazione; anche le RSU hanno pieno diritto di convocare l’assemblea, una volta però subentrate alle RSA dei sindacati partecipanti all’elezione. L’assemblea deve riguardare “materie di interesse sindacale e del lavoro” (può dunque concernere anche tematiche di carattere non strettamente rivendicativo-aziendale, bensì politico in senso ampio, non invece aspetti che afferiscono esclusivamente al campo della politica. L’assemblea può svolgersi durante l’orario di lavoro nei limiti di 10 ore annue per ciascun lavoratore. 7. Il referendum (art. 21): il diritto di referendum serve a far emergere l’opinione dei lavoratori (iscritti e non) su determinate tematiche, con precise limitazioni: la facoltà di convocazione è riservata alle RSA (come per l’assemblea), che possono però esercitarla soltanto congiuntamente. I limiti posti alla disciplina di indizione dei referendum trovano giustificazione: a) nel garantire una qualche stabilità alle strategie ed opzioni del sindacato, evitando una continua esposizione al rischio di contestazioni da parte di lavoratori dissenzienti o di sindacati minoritari; b) nell’impedire una eccessiva proliferazione di consultazioni nei luoghi di lavoro, nell’interesse della parte datoriale. Oggetto: il referendum deve riguardare materie inerenti all’attività sindacale. Modalità: l’art. 21 dispone che il referendum debba tenersi in ambito aziendale e fuori dall’orario di lavoro. Efficacia: il rilievo del referendum è circoscritto al rapporto associativo tra lavoratore e sindacato. 8. Diritto di affissione (art. 25): il diritto di affissione compete alle RSA e si esercita “all’interno dell’unità produttiva” dove il datore di lavoro ha l’obbligo di predisporre appositi spazi che rendano esercitabile il diritto. La norma dispone che l’attività di affissione abbia ad oggetto pubblicazioni, testi e comunicati “inerenti a materie di interesse sindacale e del lavoro”. Resta discussa l’inesistenza di qualsiasi forma di autotutela da parte del datore di lavoro, soprattutto ove il documento ecceda i limiti stabiliti dalla legge, ovvero risulti offensivo, diffamatorio per il datore o in generale integri gli estremi di un reato. 9. Proselitismo e collette sindacali nei luoghi di lavoro (art. 26): l’art. 26 riconosce ai singoli lavoratori il diritto “di raccogliere contributi e di svolgere opera di proselitismo per le loro organizzazioni sindacali all’interno dei luoghi di lavoro, senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività aziendale”. L’attività di proselitismo non corrisponde ad una forma qualificata di propaganda, poiché comprende momenti ed aspetti operativi, volti a concretamente promuovere l’ingresso di nuovi elementi nell’organizzazione sindacale. Beneficiarie dell’attività di raccolta dei contributi e dell’opera di proselitismo
sono, infatti, tutte le associazioni sindacali dei lavoratori, con la differenza, rispetto ai diritti di assemblea e di referendum, che la situazione attiva conferita al singolo non è subordinata all’esercizio di un potere da parte dell’organizzazione sindacale. Il proselitismo, nonché la raccolta di contributi aziendali, incontrano il limite “espresso” del rispetto del “normale svolgimento dell’attività aziendale”. 10. Locali per le RSA (art. 27): le rappresentanze sindacali hanno diritto ad utilizzare appositi locali per l’esercizio dell’attività sindacale, messi a disposizione dall’azienda. Da notare tuttavia il fatto che la disposizione di cui all’art. 27 distingue due ipotesi, la prima delle quali concernente le unità produttive con almeno 200 dipendenti: in esse è fatto obbligo al datore di lavoro di mettere a disposizione delle RSA permanentemente un idoneo locale comune all’interno dell’unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa. La seconda ipotesi riguarda le unità produttive con meno di 200 dipendenti, nel cui caso viene meno il requisito della permanente disponibilità, prevedendo invece la concessione di un idoneo locale per le riunioni che di volta in volta le RSA decideranno di tenere. 11. Permessi per i dirigenti sindacali aziendali (artt. 23 e 24): gli artt. 23 e 24 sono norme che beneficiano i dirigenti sindacali interni: in base a queste norme, la carica di dirigente sindacale aziendale dà diritto a permessi retribuiti (art. 23) e a permessi non retribuiti (art. 24). I primi sono concessi ai dirigenti delle RSA ovvero ai componenti della RSU, ove esistente, “per l’espletamento del loro mandato” (mandato = complesso delle attività e delle funzioni inerenti alla sfera di competenza delle strutture sindacali aziendali, quali organismi interni all’unità produttiva). I permessi non retribuiti dell’art. 24 sono, invece, concessi ai dirigenti di RSA o ai componenti di RSU che vi subentrino, oltre che alle oo.ss. aderenti alle associazioni stipulanti il CCNL “per la partecipazione a trattative sindacali o congressi e convegni di natura sindacale”. Le norme prevedono limiti circa i soggetti beneficiari e il numero delle ore di permesso usufruibili, che variano a seconda delle dimensioni dell’unità produttiva. 12. Permessi e aspettativa per i dirigenti sindacali esterni (artt. 30 e 31): a norma dell’art. 30 St. lav., i componenti degli organi direttivi nazionali e provinciali dei sindacati di cui all’art 19 St. lav. hanno diritto a permessi retribuiti, secondo le norme dei contratti di lavoro, per la partecipazione alle riunioni degli organi suddetti. I lavoratori che ricoprono cariche sindacali provinciali e nazionali, a norma dell’art. 31 1° e 2° comma, possono essere collocati, a richiesta, in aspettativa non retribuita, per tutta la durata del loro mandato. 13. Guarentigie per i dirigenti sindacali aziendali: l’art. 22 e l’art.18 commi 7°, 8°, 9° e 10° prevedono una tutela speciale a favore dei dirigenti sindacali in materia di licenziamenti e trasferimenti. In ordine al licenziamento, il lavoratore che riveste qualifica di dirigente sindacale riceve una tutela privilegiata di tipo processuale (venendo provvisoriamente reintegrato); inoltre, se il datore non ottempera all’ordinanza di
reintegrazione viene condannato, oltre che a versare la normale retribuzione a favore del lavoratore, “anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del fondo adeguamento pensioni di una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore (art. 18, 10° comma). Il trasferimento, invece, dell’unità produttiva dei dirigenti delle RSA, dei candidati e dei membri di commissioni interne, ai sensi del 1° comma dell’art. 22, può essere disposto solo previo nulla-osta delle associazioni sindacali di appartenenza; la mancanza del nulla-osta rende inefficace (o meglio nullo) il provvedimento. 14. Campo d’applicazione del titolo III dello Statuto (art. 35): per l’art. 35, comma 1°, le disposizioni del titolo III, rispetto alle imprese industriali e commerciali, “si applicano a ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo che occupa più di 15 dipendenti”; dette disposizioni si applicano anche alle imprese agricole che occupano più di 15 dipendenti. Il 2° comma dell’art. 35 precisa che al fine del raggiungimento della consistenza occupazionale indicata è sufficiente che l’impresa occupi più di 15 dipendenti nello stesso comune “anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti”. 15. Rappresentanza, diritti sindacali e partecipazione nel lavoro pubblico: sul versante del lavoro pubblico, il problema della rappresentanza e delle prerogative sindacali nei luoghi di lavoro ha avuto un’evoluzione storica tormentata e differente rispetto alla disciplina del settore privato; l’art. 42 D.Lgs. n° 165/2001 instaura un inedito sistema di verifica effettiva e democratica del consenso nei luoghi di lavoro. Il modello poggia su una duplicazione delle strutture base: le rappresentanze sindacali aziendali, da una parte, e gli organismi di rappresentanza unitaria personale, dall’altra. Per quanto riguarda le RSA del settore pubblico, esse non nascono ad iniziativa dei lavoratori, ma sono immediata e diretta espressione dei sindacati in possesso della rappresentatività minima del 5%; in merito ai nuovi organismi di rappresentanza unitaria del personale, l’art. 42, 3° comma consente la loro istituzione ad iniziativa anche disgiunta dei sindacati nel medesimo ambito costitutivo delle RSA, mediante elezioni aperte a tutti i lavoratori. Le RSU sono elette a suffragio universale e voto segreto con apertura del meccanismo elettorale anche ad organizzazioni sindacali non rappresentative; la ripartizione dei seggi deve avvenire secondo il “metodo proporzionale”; sul piano delle tutele statutarie, i componenti della RSU sono pienamente equiparati ai dirigenti di RSA, mentre su quello dei diritti e delle prerogative collettive, tutto è rinviato agli accordi sulla costituzione ed il funzionamento delle RSU, chiamati altresì a trasferire ai componenti eletti della rappresentanza unitaria le garanzie spettanti alle rappresentanze aziendali delle organizzazioni stipulanti o aderenti ai succitati accordi. 16. Diritti di informazione e controllo: al di fuori dello Statuto, uno degli sviluppi più significativi in tema di diritti sindacali riguarda i c.d. diritti di informazione, di consultazione e di controllo rispetto a scelte organizzative o a politiche economiche e industriali dell’impresa. Essi possono avere origine diversa e si
legano alla tematica generale della partecipazione del sindacato alle scelte imprenditoriali. Lo sviluppo maggiore dei diritti in questione si ha nella contrattazione collettiva. Il diritto sindacale di informazione, consistente nella semplice comunicazione di conoscenze al sindacato; in taluni contratti collettivi, detto diritto sfocia poi nell’obbligo dell’imprenditore di sottoporre la materia ad esame congiunto con la controparte, soprattutto in relazione alle conseguenze delle scelte aziendali sulle condizioni di lavoro e sull’occupazione. L’informazione si articola a diversi livelli – nazionale, regionale, provinciale, d’impresa o di gruppo di impresa – e coinvolge diversi soggetti: i sindacati nazionali di categoria che hanno sottoscritto il contratto, le loro articolazioni regionali o provinciali, le RSA o RSU; oggetto delle informazioni sono, generalmente, le questioni riguardanti l’organizzazione produttiva, il decentramento, le strategie aziendali.
CAPITOLO SETTIMO 1.L’IMPORTANZA DELL’ART. 28 La protezione legislativa della libertà,dell’attività sindacale in azienda e del diritto di sciopero si realizza nel modo più ampio,e con la massima effettività,nell’art.28 St.lav.,vera norma di chiusura della legge,che prevede uno speciale procedimento giurisdizionale repressivo della condotta antisindacale del datore di lavoro. 2.LA FATTISPECIE E IL SOGGETTO ATTIVO La condotta antisindacale è identificata dall’art.28 nei “comportamenti del datore di lavoro diretti a impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale nonché del diritto di sciopero”.Soggetto attivo della condotta vietata è quindi il datore di lavoro,a prescindere che sia o non sia imprenditore,privato o pubblico e indipendentemente dal numero di lavoratori alle sue dipendenze.La condotta antisindacale è rilevante ex art.28 anche se posta in essere non personalmente dal datore,ma dai soggetti che secondo l’organizzazione dell’azienda svolgono attività ad esso imputabile. L’illecito è imputabile solo e direttamente al datore. 3.IL COMPORTAMENTO Il comportamento illegittimo è individuato nell’art.28 solo per l’idoneità a ledere i beni protetti: libertà,attività sindacale,diritto di sciopero,è quindi strutturalmente aperto;infatti i beni protetti possono essere lesi nella pratica da comportamenti diversi,non tipizzabili a priori.Il termine comportamento esclude ogni qualificazione giuridica dell’atto,e comprende quindi anche i meri comportamenti materiali del datore (intimidazioni,minacce,ecc.),a conferma della maggior
ampiezza
dell’art.28
rispetto
all’art.15.Nel
divieto
rientrano
anche
comportamenti
antisindacali,come la serrata,riduzioni o sospensioni di orario,presi nei confronti della generalità dei dipendenti. 4.I BENI PROTETTI L’elemento centrale della fattispecie è la lesione della “libertà,attività sindacale e diritto di sciopero”. La dottrina e la giurisprudenza hanno rifiutato le prime teorie restrittive secondo cui la norma tutelerebbe solo i diritti collettivi esplicitamente riconosciuti dalla Legge 300,a causa proprio dell’ampiezza della formula normativa che si riferisce ai diritti sindacali elementari nella loro forma più estesa. Quindi si ha condotta antisindacale non solo quando sono violati diritti sindacali formalmente riconosciuti dallo Statuto,ma anche quando si colpiscono uno o più lavoratori singoli per l’esercizio dei diritti della libertà sindacale,e diritto di sciopero di cui sono titolari. 5.I LIMITI DELL’ANTISINDACALITA’. ANTISINDACALITA’ GIURIDICA E DI FATTO Non tutti i comportamenti antagonistici del sindacato sono antisindacali dal punto di vista giuridico. In genere,sono illeciti i comportamenti del datore ostativi di attività sindacale e di scioperi svolti con modalità riconosciute dall’ordinamento,o di comportamenti che si muovono nella sfera generica della libertà sindacale,e come tali protetti. Sono invece esenti da censura i comportamenti motivati da reazioni a comportamenti illeciti o non protetti dei lavoratori a) Antisindacalità ed interesse dell’impresa Nascono delle controversie sui comportamenti del datore attinenti alla gestione dell’impresa,ma bisogna escludere che basti qualsiasi interesse aziendale a giustificare il comportamento del datore e ad escludere l’applicabilità dell’art.28.Perché sia così,il comportamento oltre a dover essere giustificato i n modo conclusivo,si deve escludere che sia diretto a contrastare l’esercizio dei diritti protetti dalla norma. b) Reazioni allo sciopero L’art.28 protegge il diritto di sciopero da ogni comportamento ostativo,ma senza entrare nel merito dei limiti del suo esercizio.Limiti che sono quelli posti dalla giurisprudenza,sia quanto alle modalità,sia quanto agli obiettivi. c) Comportamenti nelle trattative Si ritiene che il rifiuto di trattare o il comportamento ostruzionistico non costituisce in sé condotta antisindacale,perché non esiste nel nostro ordinamento un obbligo legale di trattare in capo
all’imprenditore.La condotta del datore è reprimibile ex art.28,solo quando un obbligo a trattare si desume da specifiche disposizioni di legge,o anche di contratto collettivo. d) Violazione dei diritti sindacali contrattuali Una serie di problemi si verifica quando il datore viola diritti riconosciuti al sindacato dalla stessa contrattazione collettiva,non dalla legge.La norma protegge l’esercizio dei diritti sindacali quali si configurano e sono riconosciuti dall’ordinamento,in questi rientrano quelli che fanno parte dell’area protetta di attività sindacale attraverso il tramite di autonomia collettiva,che è riconosciuta dal nostro sistema costituzionale come fonte di disciplina dei rapporti di lavoro. La violazione della parte normativa del contratto riguardante la disciplina dei rapporti individuali non è reprimibile ex art.28. 6.LA IRRILEVANZA DI ELEMENTI SOGGETTIVI L’art.28 dispone che i comportamenti antisindacali del datore di lavoro devono essere “diretti a impedire o limitare” l’esercizio dei diritti sindacali protetti;si deve quindi ritenere che sia sufficiente accertare la obiettiva portata lesiva del comportamento,cioè la sua idoneità a ostacolare l’esercizio dei diritti,a prescindere dall’esistenza di dolo o colpa. 7.LEGITTIMAZIONE AD AGIRE E INTERESSI PROTETTI DALL’ART.28 a) I soggetti legittimati Innovazione fondamentale dell’art.28 è il riconoscimento della legittimazione a un soggetto collettivo,precisamente agli “organismi locali delle associazioni sindacali nazionali,che vi abbiano interesse”.La specificazione di quali siano gli organismi locali delle associazioni nazionali sembra doversi desumere dagli statuti interni di queste.In principio si tratterà degli organi territoriali di categoria e non di quelli orizzontali;inoltre si dovrà decidere quale sia il livello sindacale legittimato. b) Questioni di costituzionalità Il limite della legittimazione attiva agli organismi locali dei sindacati nazionali ha sollevato problemi di costituzionalità;le obiezioni si sono fondate in vario modo sugli articoli 24; 2; 3 e 39 della Cost.Il nucleo argomentativi comune è che la scelta del legislatore non limita in alcun modo i diritti individuali e collettivi di libertà sindacale,ma attribuisce a soggetti qualificati uno strumento di azione giudiziaria di particolare efficacia. 8.IL PROCEDIMENTO Il procedimento previsto dall’art.28 ha carattere d’urgenza,fondato su un’istruttoria minima (audizione delle parti) da concludersi in tempi brevi,anche se il termine dei due giorni è ordinatorio e di fatto è largamente superato.L’ azione si propone con ricorso al Tribunale del
luogo ove è posto in essere il comportamento denunciato;l’ordine del giudice (decreto motivato) che sanziona l’eventuale condotta antisindacale,è immediatamente esecutivo,e comporta la “cessazione del comportamento illegittimo” lesivo dei beni protetti e “rimozione degli effetti” lesivi già realizzati,ripristinando il libero godimento degli stessi beni.Il giudice però non ha per il nostro ordinamento il potere di creare norme astratte. 9.LE SANZIONI La sanzione penale posta a carico del datore di lavoro,per l’inosservanza dell’ordine del giudice,ai sensi dell’art.650 (arresto fino a 3 mesi o ammenda fino a L.400000) è un altro fattore decisivo di effettività della norma. La sanzione si può infliggere solo se il giudice penale,riesaminando se il comportamento sia davvero antisindacale,lo condanna sulla base del provvedimento del giudice civile. 10.L’ART.28 E IL PUBBLICO IMPIEGO E’ stato a lungo controverso se ed in quali limiti l’art.28 St.lav. sia applicabile nel pubblico impiego. Alle soglie del decennio ’90 è intervenuto in materia il legislatore con l’intento di fornire un sistema certo e razionale in tema di tutela giurisdizionale dei diritti sindacali.
CAPITOLO VIII: LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
1. La contrattazione collettiva in
generale: la contrattazione collettiva consiste nel processo di
regolamentazione congiunta (sindacati-padronato) dei rapporti d lavoro; la struttura e i contenuti della contrattazione collettiva sono strettamente correlati e dipendono largamente da altri aspetti del sistema di relazioni industriali, quali la struttura del sistema produttivo, la struttura del mercato del lavoro, il ritmo dello sviluppo economico, i caratteri dell’intervento statale. Si è diffusa nel tempo la tendenza ad adottare una nozione lata di contrattazione collettiva, fino a ricomprendervi tutto l’insieme dei rapporti, anche non strettamente negoziali, e più o meno formali, che intercorrono fra i diversi agenti del sistema di relazioni industriali, in ordine alla regolamentazione dei rapporti di lavoro. Modalità e procedure della contrattazione sono in Italia scarsamente formalizzate; gli attori sono, per parte dei lavoratori, le organizzazioni maggiormente (o comparativamente più) rappresentative ai vari livelli; le trattative vedono frequentemente l’intervento mediatore di organi pubblici. L’accordo raggiunto è condizionato alla ratifica dei lavoratori nelle aziende. È inoltre diffusa la pratica del referendum per l’approvazione sia delle piattaforme sia degli accordi.
2. Evoluzione della struttura e dei contenuti della contrattazione: la ricostruzione e gli anni ’50: la prima fase è caratterizzata da un sistema di relazioni industriali “centralizzato e a predominanza politica”, cui corrisponde un modello di contrattazione analogamente centralizzata, debole e statica. In seguito all’accordo interconfederale cosiddetto sul conglobamento dei vari elementi retributivi, viene riconosciuto alle federazioni di categoria il potere di negoziare autonomamente i livelli retributivi. 3. (Segue): Gli anni ’60: la prima modernizzazione del sistema contrattuale: la fine degli anni ’50 dà avvio ad un processo di modernizzazione delle relazioni industriali italiane, di cui è parte significativa la modifica del sistema contrattuale. La dinamica generale della contrattazione cresce ai due livelli di categoria e aziendale; si realizza di conseguenza un primo decentramento della struttura contrattuale. Il decentramento è completo rispetto ai contratti nazionali di categoria, che diventano l’asse portante della struttura, fonte della disciplina di base del rapporto di lavoro. Sul finire del decennio ’50 la contrattazione aziendale viene riconosciuta ed istituzionalizzata nel sistema di contrattazione articolata; in base a tale sistema, alla contrattazione aziendale è riservata la competenza a trattare le materie determinate dallo stesso contratto nazionale. Il decentramento è parziale sia per le materie che sono delegate, sia per gli agenti contrattuali competenti a trattare, che sono i sindacati provinciali di categoria di entrambe le parti; al contratto nazionale spetta dunque di predeterminare, attraverso clausole di rinvio, sia le materie e gli agenti della contrattazione aziendale, sia le procedure di svolgimento, i tempi e, in qualche caso, i margini contrattuali, e fornire garanzia di tregua sindacale nelle pause temporali intercorrenti tra un accordo e l’altro, tramite clausole di tregua. 4. (Segue): Il ciclo 1968-1975: sviluppo e decentramento della contrattazione: la contrattazione raggiunge il massimo del decentramento, poiché l’elemento trainante nel settore industriale è questa volta la contrattazione aziendale, che rompe il limiti quantitativi e qualitativi definiti nel ’62, e il minimo di istituzionalizzazione, in quanto, cadute le norme di coordinamento giuridico tra i livelli contrattuali, ognuno di questi è formalmente autonomo, non vincolato per oggetti, per procedure né per agenti di contrattazione. 5. (Segue): La centralizzazione e gli accordi triangolari: la seconda metà degli anni ’70 è caratterizzata dal peso crescente della crisi economica sull’azione sindacale; questa situazione sfavorevole non comporta un crollo del potere sindacale, ma altera gli equilibri contrattuali. Prevalgono tendenze all’assestamento di istituti già regolati, nell’area dei diritti sindacali, mentre si ricercano contenuti contrattuali nuovi di controllo sulle scelte economiche e di impresa, diretti a risolvere i problemi dell’occupazione e della produttività. Sempre più marcata la pressione da parte degli imprenditori e poi anche del governo per il contenimento del costo del lavoro e la riduzione della dinamica della scala mobile.
Vi è una tendenza alla ricentralizzazione della struttura contrattuale, tendenza alla quale se ne ricollega un’altra, quella dell’intervento diretto del potere pubblico nella contrattazione centralizzata, che arriva ad assumere carattere triangolare e che si collega a tematiche di diretto rilievo politico-economico. 6. (Segue): Gli anni ’80: nuovo decentramento o riequilibrio?: dall’inizio degli anni ’80 anche la struttura e i contenuti della contrattazione collettiva hanno subito forti sollecitazioni al cambiamento per le seguenti ragioni: la rinnovata, ancorché fragile, ripresa economica, dopo la ristrutturazione, e soprattutto la rapidissima innovazione tecnologica. La spinta più netta in tutti i paesi industrializzati è verso il decentramento della contrattazione, che trova le proprie motivazioni nelle: 1) crescenti difficoltà della contrattazione interconfederale; 2) perdita di rilievo e di contenuti innovativi della contrattazione di categoria, con blocchi o gravi ostacoli nei rinnovi contrattuali; 3) (ri)emersione di una contrattazione aziendale o infra-aziendale non coordinata dal centro. Variazioni nelle altre dimensioni della struttura contrattuale: estensione (= grado di copertura della contrattazione) – incisività – grado di innovazione dei contenuti contrattuali. 7. Gli anni ’90: riaccentramento e razionalizzazione del sistema contrattuale: negli anni ’90 (periodo della c.d. “riregolazione del rapporto di lavoro”) il sistema contrattuale è investito dall’urgenza del risanamento e della stabilizzazione economica: le pressanti esigenze del risanamento convivono peraltro con le richieste di competitività e flessibilità emerse e tutt’altro che esaurite nel periodo precedente: da qui le persistenti spinte al decentramento. Lo Stato interviene sul conflitto in modo sempre più massiccio, anche se ben attento a non espropriare il sindacato delle funzioni protette ai sensi dell’art. 39 Cost., 1° comma. Si afferma un nuovo ruolo della contrattazione interconfederale: quello di strumento politico di soluzione di problemi, a cominciare dalla lotta all’inflazione e al controllo del costo del lavoro, che riguardano l’intero mondo del lavoro ed i suoi rapporti con il mondo dell’economia e della finanza. Il nuovo processo di riaccentramento, abbandonate le finalità difensive promosse dall’art. 19 St. lav., trova la propria ragion d’essere nel Protocollo del 23 luglio 1993, ispirato dalla consapevolezza che solo un controllo centrale sulla contrattazione collettiva congiunto ad un analogo controllo sulla politica salariale è in grado di rendere un sistema di relazioni industriali responsabile e al tempo stesso efficiente. Soprattutto, questo accordo è il primo serio tentativo di razionalizzazione del sistema di contrattazione collettiva; nel dettaglio: A) Sono previsti 2 livelli di contrattazione, quello nazionale di categoria e quello aziendale, tra loro collegarti in modo tale che gli ambiti, i tempi, le modalità di articolazione, le materie e gli istituti del secondo sono predeterminati dal primo. B) Durata dei contratti predeterminata: 4 anni per la parte normativa del CCNL e per il contratto aziendale; 2 anni per la parte retributiva del CCNL. C) Introduzione di scansioni temporali per l’apertura delle trattative ai fini dei rinnovi dei contratti.
D) Le RSU sono
riconosciute come “rappresentanza sindacale aziendale unitaria nelle singole unità
produttive”, e investite della “legittimazione a negoziare al secondo livello le materie oggetto di rinvio da parte del contratto nazionale di categoria”. CAPITOLO NONO IL CONTRATTO COLLETTIVO NEL LAVORO PRIVATO 1.LA PROBLEMATICA GIURIDICA DEL CONTRATTO COLLETTIVO DI DIRITTO COMUNE Il capitolo si concentra sul prodotto della contrattazione collettiva,cioè sul contratto collettivo,inteso come il contratto con cui i soggetti collettivi (organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori) predeterminano la disciplina dei rapporti individuali di lavoro (parte normativa) e regolano anche taluni tratti dei loro rapporti reciproci (parte obbligatoria). Sono rinvenibili almeno quattro tipi di contratto collettivo: quello corporativo, quello c.d. di diritto comune, quello prefigurato dal legislatore costituente e quello recepito in decreto legislativo ai sensi della legge 741/1959.L’unico che continua ad essere prodotto è il contratto collettivo di diritto comune,a questo quindi va dedicata maggiore attenzione,anche se i suoi problemi giuridici si colgono in contrapposizione con il contratto corporativo.Il contratto corporativo è un contratto tipico,elevato a fonte del diritto in senso proprio,anche se subordinata a leggi e regolamenti.La soppressione dell’ordinamento corporativo e delle organizzazioni sindacali fasciste hanno coinvolto i contratti corporativi e la loro disciplina legale. La giurisprudenza si assume il compito di ricostruire man mano le linee fondamentali della sua disciplina,in parte ricavandola da quella codicistica dei contratti in generale (ed è per questo che si parla di contratto collettivo di diritto comune) in parte recuperando tratti della disciplina codicistica del contratto corporativo.Il contratto collettivo di diritto comune finisce così per apparire un istituto di origine largamente giurisprudenziale. Le problematiche del contratto collettivo di diritto comune si incentrano sulla efficacia della parte normativa nei confronti dei rapporti individuali di lavoro,e possono essere accorpate attorno a due temi di fondo: ambito e tipo dell’efficacia stessa. 2.L’AMBITO DI EFFICACIA DEL CONTRATTO COLLETTIVO Con la caduta del sistema corporativo le associazioni sindacali divengono libere di individuare l’ambito delle categorie di cui intendono farsi espressione e, correlativamente, l’ambito di efficacia del contratto collettivo. Solo il datore di lavoro iscritto all’organizzazione sindacale dei datori di lavoro è tenuto all’applicazione del contratto collettivo nei confronti dei soli lavoratori sindacalmente associati.
3.OPERAZIONI GIURISPRUDENZIALI SULL’AMBITO DI EFFICACIA La giurisprudenza si è sforzata di dilatare l’ambito di applicazione del contratto collettivo. a) Il contratto collettivo è così ritenuto applicabile quando le parti individuale vi abbiano preso esplicita o implicita adesione.Il primo caso si verifica normalmente quando il contratto individuale rinvia alla disciplina collettiva;avendo accetto il contratto collettivo come fonte regolatrice,il datore non si può più liberare unilateralmente dal vincolo.Il secondo caso si verifica quando il contratto collettivo è spontaneamente applicato,e avviene quando vengono applicate numerose e significative clausole:il datore di lavoro è allora tenuto ad applicare il contratto nella sua integralità. b) La giurisprudenza ritiene inoltre che il datore di lavoro iscritto è tenuto ad applicare il contratto collettivo anche ai lavoratori non iscritti,non potendo impedire che essi manifestino la volontà di conformare ad esso il contratto di lavoro individuale. L’imprenditore che si associa infatti
è consapevole del fatto che i contratti collettivi
rivelano la chiara intenzione delle parti contraenti di considerarli come norma generale di disciplina dei rapporti di lavoro,e in quanto tali aperti alla generalità dei dipendenti. c) Nell’operazione di recupero dell’art.2070 cod.civ. il datore di lavoro deve applicare il contratto corrispondente alla propria attività,e se svolge più attività distinti contratti qualora queste siano autonome tra loro,o il contratto corrispondente all’attività principale se le altre sono accessorie.L’art.2070 non è vincolato all’ordinamento corporativo,ma risponde a esigenze dell’azione sindacale e della disciplina di categoria.Agli inizi degli anni ’90 però la Cassazione dichiarò l’incompatibilità tra il principio di libertà sindacale di cui all’art.39 1°comma Cost. ed il criterio di appartenenza alla categoria imprenditoriale fissato dall’art.2070 cod.civ. d) A partire dalla metà degli anni ’50,la giurisprudenza è andata applicando,sia pure indirettamente i minimi tariffari del contratto collettivo anche ai rapporti di lavoro con imprenditori non iscritti alle organizzazioni stipulanti. L’orientamento è stato fondato sull’art.36 Cost. che garantisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. 4.INTERVENTI LEGISLATIVI SULL’AMBITO DI EFFICACIA Dalla fine degli anni ’40 si sono succeduti vari interventi legislativi,ad operare una dilatazione dell’ambito di applicazione dei contratti collettivi di diritto comune. a) La consacrazione dell’efficacia generalizzata dei contratti collettivi è stata in un primo momento ravvisata in quelle disposizioni che sanciscono l’obbligo del datore di lavoro di
osservare le norme dei contratti collettivi e di retribuire il prestatore in conformità alle tariffe in essi contenute. b) L’intervento più importante è verso la fine degli anni ’50,quando il legislatore,acquisita l’impraticabilità di una norma attuativa dell’art.39 Cost., tentò di condurre diversamente a soluzione definitiva il problema dell’efficacia generale dei contratti collettivi. c) Il legislatore tornò così a sperimentare nuove soluzioni,per pervenire in via diretta alla dilatazione dell’ambito di efficacia dei contratti collettivi (per es. l’art.36 St.lav.). d) Tra gli interventi volti a favorire l’estensione dell’ambito di applicazione dei contratti collettivi,vanno annoverati quelli in materia di fiscalizzazione degli oneri sociali,che condizionano la fruizione del relativo beneficio alla circostanza che l’impresa assicuri ai propri dipendenti trattamenti non inferiori ai minimi previsti dai contratti collettivi nazionali di categoria,stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative.
5.L’AMBITO DI EFFICACIA DEL CONTRATTO COLLETTIVO DI LIVELLO AZIENDALE. IL CONTRATTO COLLETTIVO GESTIONALE E LA TEORIA DELLA PROCEDIMENTALIZZAZIONE E’ sul piano della contrattazione aziendale che negli ultimi anni si è registrata una serie di interventi legislativi,diretti ad attribuire efficacia generale agli atti di autonomia collettiva.Non sembra comunque fino ad oggi possibile registrare interventi legislativi che abbiano attribuito in modo diretto efficacia normativa generale ai contrati aziendali,anche se più di una volta ne hanno favorito l’espansione a tutti i lavoratori dell’azienda. Vi sono inoltre i contratti di solidarietà,stipulati al fine di evitare,in tutto o in parte,la riduzione o la dichiarazione di esuberanza del personale anche attraverso un suo più razionale impiego (del primo tipo);o diretti a incrementare gli organici (del secondo tipo). Il contratto aziendale non ha sempre una funzione normativa,anzi spesso assume una funzione gestionale,nel senso che si occupa di gestire situazioni di crisi in occasione delle quali può farsi veicolo di distribuzione di sacrifici. L’effetto erga omnes,quindi, discende pur sempre dall’atto del datore di lavoro che esercita i suoi poteri imprenditoriali,e non dall’accordo sindacale gestionale che è solo un tramite per l’esercizio di quei poteri. La pretesa del datore di lavoro di applicare il contratto collettivo stipulato con alcuni sindacati a lavoratori iscritti ai sindacati dissenzienti costituisce secondo la giurisprudenza,condotta antisindacale ai sensi dell’art.28 St.lav.
6.IL TIPO DI EFFICACIA DEL CONTRATTO COLLETTIVO:LA PROBLEMATICA DELL’INDEROGABILITA’ Posto che il contratto collettivo sia applicabile,resta da stabilire quale efficacia esplichi nei confronti del contratto individuale.Resta da stabilire se il singolo datore di lavoro e il singolo lavoratore possano o meno pattuire una disciplina del rapporto individuale difforme da quella predeterminata nel contratto collettivo. Per diritto comune i rappresentanti,in quanto titolari degli interessi in giuoco,possono sempre di comune accordo modificare la regolamentazione di quegli interessi disposta in loro nome e per loro conto dai rappresentanti. L’art.2077 cod.civ. stabilisce che i contratti individuali devono uniformasi alle disposizioni del contratto collettivo e le clausole eventualmente difformi sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo,salvo che contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro. 7.L’EFFICACIA
NORMATIVA
DEL
CONTRATTO
COLLETTIVO
E
LA
DEROGABILITA’ IN MELIUS La consacrazione nell’ordinamento dell’autonomo potere sindacale di regolazione dei rapporti di lavoro ha favorito l’assimilazione,quanto al tipo di efficacia,del contratto collettivo alla legge e il riconoscimento che,al pari della legge,esso opera nei confronti del contratto individuale dall’esterno quale fonte eteronoma. Bisogna fermare l’attenzione sui caratteri dell’inderogabilità,cioè sulle modalità del raffronto tra disciplina collettiva ed individuale.Anzitutto va precisato che l’inderogabilità non è assoluta giacchè opera a solo vantaggio,e non a danno,del lavoratore. Le norme della legislazione in materia di lavoro sono considerate dagli interpreti inderogabili in peius,perché rivolte a porre una disciplina minimale di protezione del lavoratore,ma per ciò stesso derogabili in melius. La medesima funzione di tutela minimale,viene riconosciuta anche al contratto collettivo.La giurisprudenza del resto ha potuto vedere la regola della derogabilità in melius codificata nell’art.2077. Il raffronto tra legge ed autonomia privata è correntemente operato con riferimento a singole clausole. Le clausole del contratto individuale di contenuto peggiorativo sono sostituite dalla disciplina legale,e non trovano compensazione con il contenuto eventualmente migliorativo di altre clausole dello stesso contratto. Non hanno avuto fortuna i tentativi di operare il raffronto tra l’intera disciplina del contratto collettivo e l’intera disciplina del contratto individuale;tuttavia la giurisprudenza si è orientata nel senso di ricondurre ad un unico istituto l’intero trattamento economico.
8.LEGGE E AUTONOMIA COLLETTIVA Il contratto collettivo,al pari di quello individuale,deve ritenersi gerarchicamente subordinato alla legge. L’opinione prevalente è però nel senso che il legislatore costituzionale,pur valorizzando l’autonomia sindacale, ha affidato anzitutto al legislatore ordinario il compito di provvedere alla tutela (minima) del lavoratore.La legge costituisce per l’autonomia collettiva un limite invalicabile a sfavore del lavoratore,e valicabile invece a suo vantaggio. Di regola la norma di legge è inderogabile in peius e derogabile in melius dal contratto collettivo (come da quello individuale).Questo modello di rapporto tra legge e contrattazione collettiva ha però subito un’alterazione.Sono oggi numerose le ipotesi in cui il legislatore utilizza la contrattazione collettiva come veicolo di attenuazione della propria stessa rigidità,attribuendole il poter di derogare in peius o, forse più propriamente,affidandole il compito di individuare o modificare il precetto legale. Con la legislazione sul costo del lavoro è stata sancita l’inderogabilità in melius ad opera dell’autonomia collettiva di una normativa legale.Il legislatore ha cioè qualificato il proprio intervento come diretto non già a fissare un minimo ma un massimo di disciplina del rapporto di lavoro. Tra interventi deregolativi e interventi limitativi,l’intreccio legge-contratto collettivo si presenta ora assai complesso ed articolato rispetto al classico schema,che però continua ad essere l’archetipo del diritto del lavoro,e che vede la legge dettare una disciplina minimale,sempre derogabile in meglio ma non in peggio dell’autonomia collettiva. La Corte Costituzionale ha stabilito che al legislatore deve essere riconosciuta la potestà di porre limiti inderogabili alla contrattazione collettiva nel perseguimento di finalità di carattere pubblico,trascendenti l’ambito nel quale si colloca per la Costituzione la libertà di organizzazione sindacale e la corrispondente autonomia negoziale,tutelate dall’art.39 Cost. Questo potere deve essere riconosciuto al legislatore nel caso di accordi a tre,che vedono il Governo assumere una serie di impegni politici,spesso rilevanti,e che pur non contrastando la Costituzione non rientrano nel quadro tipizzato dall’art.39,dal momento che le organizzazioni sindacali non sono staccate dagli organi del governo ma cooperanti con esso. 9.L’EFFICACIA NEL TEMPO DEL CONTRATTO COLLETTIVO: ULTRATTIVITA’, RETROATTIVITA’, DIRITTI QUESITI Le procedure dei contratti collettivi sono state formalizzate solo dal Protocollo del 23 luglio 1993,che prevede relativamente al contratto nazionale di categoria,una durata di quattro anni per la parte normativa,e di due anni per la parte economica.Tre mesi prima della scadenza,le organizzazioni dei datori e dei lavoratori si incontrano per avviare le trattative per il rinnovo.
Quando scade il termine apposto dalle parti stipulanti,il contratto perde la sua efficacia e da quel momento cessa di conformare il contenuto dei rapporti individuali.Questo perché in ragione della sua natura privatistica la giurisprudenza nega l’applicabilità della teoria dell’ultrattività del contratto corporativo,dell’art.2074 cod.civ. Sono allora per lo più gli stessi contratti collettivi a correre ai ripari mediante l’espressa previsione della propria ultrattività. Altra questione riguarda la possibile retroattività del regolamento collettivo.Così come l’art.2074 cod.civ. la giurisprudenza ritiene inapplicabile al contratto di diritto comune anche il 2°comma dell’art.11 disp.prel.cod.civ.,secondo cui i “contratti collettivi di lavoro possono stabilire per la loro efficacia una data anteriore alla pubblicazione,purchè non preceda quella della stipulazione”.Ammette quindi che il contratto collettivo può darsi efficacia retroattiva,e giunge a ritenere che di tali benefici possono giovarsi anche lavoratori il cui rapporto sia cessato anteriormente alla stipulazione del contratto collettivo. Per la giurisprudenza inoltre il contratto collettivo può disporre retroattivamente anche in “malam partem” cioè a danno del lavoratore.Il contratto collettivo successivo nel tempo,nel sostituirsi integralmente a quello anteriore (dello stesso tipo e livello),può modificare la precedente disciplina collettiva anche peggiorativamente per il lavoratore,senza incontrare limite alcuno nei “diritti quesiti” sulla base del contratto sostituito.Di “diritto quesito” si può propriamente parlare in caso di successione di leggi,e non in caso di successione di diverse regolamentazioni contrattuali di uno stesso rapporto.Diritto quesito in sostanza è solo ciò che è già entrato nel patrimonio del lavoratore per effetto della precedente disciplina. 10.I RAPPORTI TRA CONTRATTI COLLETTIVI PRIVATISTICI DI DIVERSO LIVELLO Per un certo tempo,all’inizio degli anni ’60,la giurisprudenza è parsa ancora propensa a ritenere l’inderogabilità “in peius” del contratto di categoria in forza di motivazioni diverse;sul finire degli anni settanta il panorama giurisprudenziale è però divenuto assai meno univoco e decifrabile. Agli inizi degli anni ottanta è andato prendendo piede un orientamento,tutt’affatto diverso,incline ad attribuire comunque prevalenza alla disciplina (anche meno favorevole) posteriore nel tempo.La giurisprudenza ha ritenuto di poter trasferire sul piano del rapporto tra contratto di categoria e contratto aziendale il principio,costantemente utilizzato sul piano del rapporto tra contratti corporativi e contratti collettivi di diritto comune nonché tra contratti collettivi di diritto comune dello stesso livello,secondo cui quando ad una regolamentazione di carattere generale ne segue un’altra di carattere parimenti generale,la seconda si sostituisce alla prima integralmente.E’ divenuta così ricorrente la tesi per cui: un contratto aziendale di lavoro può derogare anche in peius al trattamento previsto per i lavoratori da un precedente contratto collettivo,e che reciprocamente,le
clausole di un contratto aziendale possono essere derogate da clausole meno favorevoli per i lavoratori,contenute in contratti collettivi successivi,sia aziendali che di categoria.La prevalenza del contratto posteriore nel tempo esprime l’assenza,nell’ordinamento,di un criterio affidabile per la soluzione dei conflitti di disciplina tra contratti collettivi di diverso livello.
11.PROFILI ULTERIORI DI DISCIPLINA DEL CONTRATTO COLLETTIVO DI DIRITTO COMUNE Il contratto collettivo di diritto comune,quand’è applicabile,opera nei confronti del contratto individuale con la stessa efficacia della legge.Esso però resta un atto di autonomia privata. Dalla sua natura privatistica vengono così fatte discendere una serie di conseguenze: a) il contratto collettivo deve essere interpretato secondo i criteri ermeneutica previsti per l’interpretazione dei contratti e non di quelli per l’interpretazione della legge.E’ allora compito primario dell’interprete ricostruire la comune volontà delle parti contraenti.Se il dato testuale rimane equivoco,l’interprete deve aiutarsi con la storia del contratto,desumendo la comune intenzione delle parti sia dai temi dibattuti nella trattativa,sia dal modo di redazione delle norme,sia dalla effettiva concreta attuazione,sia dal succedersi dei testi in rispondenza delle esigenze perseguite. b) Non è ammissibile il ricorso in Cassazione per violazione o falsa applicazione del contratto collettivo.Alla Suprema Corte non si può chiedere di fornire l’esatta interpretazione del contratto collettivo,bensì di controllare il procedimento ermeneutica seguito dal giudice di merito. c) Il contratto collettivo deve essere portato in giudizio dalla parte che lo invoca,non potendo trovare applicazione il principio secondo cui il giudice ha diretta conoscenza dei testi di legge.Il giudice però può svolgere una funzione di supplenza,e richiedere alle associazioni sindacali il testo del contratto,di categoria o aziendale,applicabile al rapporto controverso. d) Le clausole del contratto collettivo non sono applicabili in via analogica,né al di fuori dell’ambito di efficacia del contratto stesso,per colmare eventuali lacune del testo contrattuale che regola il rapporto controverso;né all’interno di ciascun contratto per estenderne le clausole al di là dei casi previsti espressamente. e) Secondo la giurisprudenza,il principio di eguaglianza sancito dall’art.3 Cost.,in quanto inapplicabile ai rapporti tra privati,è inoperante nei confronti dell’autonomia collettiva.Quindi il contratto collettivo può in linea di massima disciplinare diversamente posizioni di lavoro uguali o analoghe,salvi naturalmente i limiti derivanti da divieti espressamente posti dal legislatore.
f) La giurisprudenza ha a lungo negato la possibilità di recedere unilateralmente dal contratto collettivo,giungendo solo di recente a mutare avviso.Ora la Cassazione prevede,per il contratto collettivo a tempo indeterminato,che la mancata applicazione del termine non implica che gli effetti del contratto perdurino nel tempo senza limiti,dovendosi pur sempre consentire il recesso anche in assenza di esplicita disposizione in tal senso. g) Per quanto riguarda la forma del contratto collettivo,data l’assenza di qualsiasi disposizione in proposito,deve ritenersi vigente il principio generale della libertà della forma,come ribadito dalla Cassazione.
12.L’EFFICACIA “OBBLIGATORIA” DEL CONTRATTO COLLETTIVO Prima di analizzare gli altri tipi di contratto collettivo,bisogna fermare l’attenzione sulla problematica dell’efficacia obbligatoria del contratto collettivo nei confronti degli stessi soggetti che lo stipulano,sindacati,organizzazioni imprenditoriali e imprenditori singoli. La nostra dottrina,come quella tedesca,fa discendere dalla stipulazione del contratto collettivo il c.d. dovere di influenza,il dovere cioè di influire sugli associati affinché osservino la parte normativa del contratto stesso. Questione diversa è se il sindacato dei lavoratori debba ritenersi vincolato al contratto collettivo per tutta la sua durata,in dipendenza della stipulazione stessa,con conseguente configurabilità a proprio carico del c.d. obbligo implicito di pace sindacale;l’obbligo cioè di astenersi dal promuovere scioperi finalizzati a conseguire una revisione della disciplina concordata.Secondo una tesi diffusa in dottrina,deve escludersi che stipulando il contratto collettivo il sindacato dei lavoratori intenda assumere e di fatto assuma impegni per il futuro,anche se parte della dottrina ritiene inaccettabile la concezione del contratto collettivo come unilateralmente vincolante (cioè impegnativo solo per il sindacato dei datori di lavoro). Il dovere di non rimettere in discussione,prima della scadenza del contratto, la disciplina concordata sarebbe configurabile solo in capo alle organizzazioni sindacali stipulanti.Il problema si pone con riguardo al c.d. obbligo esplicito di pace sindacale,cioè all’eventuale impegno di tregua pattuito esplicitamente.In dottrina si è fatta distinzione tra obbligo relativo di tregua,concernente solo le materie compiutamente regolate dal contratto,e obbligo assoluto di tregua,esteso alle materie rimaste estranee al contratto.Le clausole comunemente inserite nei contratti di categoria dal ’62-’63 non possono essere lette negli stessi termini.In esse innegabilmente l’impegno di tregua appare riferito solo al sindacato.Le costanti disapplicazioni delle clausole di pace e le vicende dell’”autunno caldo” hanno fatto ben presto dubitare che le clausole di pace sindacale siano dotate di efficacia di tipo obbligatorio.
Rilevante è l’accordo stipulato tra governo e parti sociali con il Protocollo del 23 luglio 1993,che introduce un obbligo esplicito di tregua per il periodo di rinnovo del contratto (periodo di 4 mesi) durante il quale le parti non assumeranno iniziative unilaterali né procederanno ad azioni dirette. L’introduzione di una sanzione economica a presidio di una clausola di tregua rappresenta una novità per il nostro sistema sindacale. Accanto all’obbligo di pace ce ne sono altri due:quello correlato alle clausole istitutive dei raccordi tra il livello contrattuale nazionale e quello aziendale;e quello correlato alla predeterminazione della durata dei contratti. 13.GLI ALTRI TIPI DI CONTRATTO COLLETTIVO. I CONTRATTI CORPORATIVI RIMASTI IN VIGORE. Il D.Lgs. Lgt. 23 novembre 1944,n.369,nell’abrogare il sistema corporativo,dispose la permanenza “in vigore,salvo le successive modifiche,delle norme contenute nei contratti collettivi” all’epoca vigenti. La giurisprudenza ha poi comunemente invocato il principio secondo cui,quando ad una regolamentazione di carattere generale ne segue un’altra di carattere parimenti generale,questa si sostituisce alla precedente,ed ha quindi ritenuto che la disciplina del contratto corporativo deve intendersi completamente sostituita da quella del successivo contratto collettivo di diritto comune,ogni qualvolta esso è applicabile allo specifico rapporto di lavoro. 14.I CONTRATTI COLLETTIVI “RECEPITI” IN DECRETO. La legge 14 luglio 1959 n.741 delegò il Governo “ad emanare norme giuridiche,aventi forza di legge,al fine di assicurare minimi inderogabili di trattamento economico e normativo nei confronti di tutti gli appartenenti ad una medesima categoria” e stabilì che nella emanazione delle norme il Governo dovrà uniformarsi alle clausole dei singoli accordi economici e contratti collettivi. La Corte riconobbe che il legislatore con la legge n.741 aveva conferito efficacia generale ai contratti collettivi con forme e procedimento diverse da quelli previsti dall’art.39.La Corte ritenne che la legge si sottraesse al contrasto con l’art.39 in ragione del suo significato e funzione di legge transitoria,provvisoria ed eccezionale,rivolta a regolare una situazione passata e a tutelare l’interesse pubblico della parità di trattamento dei lavoratori e dei datori di lavoro. La legge del ’59 e i decreti emanati in sua attuazione hanno sollevato numerose questioni interpretative. a) La Corte Costituzionale ha chiarito che rientra nei compiti del giudice ordinario individuare i concreti fini della categoria,cui la legge delegata si riferisce,desumendoli dalla contrattazione collettiva e con riferimento alle associazioni stipulanti.Obiettivo della legge
delega è quello di rendere applicabili i contratti collettivi al di là della cerchia degli associati,e non quello di allargare l’ambito della categoria di riferimento;e poi perché risulterebbe violata la regola costituzionale che garantisce la libertà di organizzazione sindacale. b) La giurisprudenza,dando prevalenza al dato “sostanziale” del contenuto (un contratto) rispetto al dato “formale” (un decreto),ha affermato che “l’estensione erga omnes dell’obbligatorietà del contratto collettivo lascia immutata la natura propria dei patti contrattuali estesi e non vale come diretta legiferazione”. c) In seguito si è andata invece manifestando la tendenza a negare,anche sotto questo profilo,che l’estensione erga omnes abbia mutato la natura precettiva de contratti.
15.CONTRATTO COLLETTIVO E USI AZIENDALI. Bisogna infine analizzare le correlazioni tra il contratto collettivo e i c.d. usi aziendali,cioè i comportamenti tenuti di fatto dal datore di lavoro con apprezzabile continuità o reiterazione nei riguardi dell’intero personale o di settori dello stesso.La giurisprudenza ha dovuto prendere atto che ben difficilmente una prassi aziendale può rispondere ai requisiti,assai rigorosi,dell’uso normativo,per il quale si richiede tradizionalmente una pratica uniforme e costante,tenuta per lungo tempo dalla generalità degli interessati nella convinzione che essa sia obbligatoria in quanto conforme ad una regola giuridica.La giurisprudenza ha così cominciato ad attribuire i comportamenti tenuti dal datore di lavoro nei confronti di tutti i propri dipendenti o d’una cerchia di essi ai c.d. “usi contrattuali” ed a spiegare la loro efficacia sui rapporti di lavoro riguardandoli come proposte contrattuali ai singoli lavoratori da questi tacitamente accettate.E’ così divenuta ricorrente la tesi che gli usi si iscrivono nei contratti di lavoro alla stregua dei patti individuali,e quindi per un verso possono derogare solo in melius ai contratti collettivi.
CAPITOLO DECIMO IL CONTRATTO COLLETTIVO NEL PUBBLICO IMPIEGO 1.DALL’AFFERMAZIONE
DEL
METODO
CONTRATTUALE
ALLA
C.D.
PRIVATIZZAZIONE DEL PUBBLICO IMPIEGO Fino agli inizi degli anni sessanta il trattamento economico e normativo del pubblico impiego era fissato per legge o per regolamento,in via esclusiva.Il panorama sindacale era contraddistinto dalla diffusa ed influente presenza dei sindacati “autonomi”,mentre i sindacati aderenti alle grandi confederazioni apparivano da esse scollati e tra sé divisi.
Al processo di sindacalizzazione il sindacato andrò affidando,con maggior consapevolezza,un duplice obiettivo:rinnovamento dell’organizzazione pubblica mediante l’intervento sulle condizioni di lavoro all’interno di essa,e superamento delle sperequazioni. Alla fine degli anni sessanta prese avvio anche il processo di istituzionalizzazione sul piano legislativo della contrattazione nei diversi settori del pubblico impiego (Stato,sanità,enti locali,ecc.),questo processo trovò la sua sistemazione nella legge quadro del 29 marzo 1983,che forniva un ampio quadro per l’intera disciplina dei rapporti di lavoro pubblico. L’innovazione più significativa consisteva nell’introduzione di una disciplina della contrattazione collettiva secondo un modello unitario valido per tutto l’impiego pubblico,al posto delle diversificate discipline del decennio pecedente. Diversamente dallo Statuto dei lavoratori,che per il settore privato si limita a promuovere l’attività sindacale nei luoghi di lavoro senza regolarla e senza disciplinare la contrattazione collettiva,la legge n.93 riconosceva e insieme regolava i principali assetti sia dell’azione sindacale sia della contrattazione.Di questa disciplinava gli ambiti (i settori),gli attori,i contenuti,i livelli e l’efficacia. Sul finire degli anni ’80 però si verifica una progressiva e strisciante ingestibilità della legge stessa,il fallimento precoce della legge quadro. Dalla presa d’atto dell’impossibilità di rivitalizzare in qualche modo il precedente sistema,comincia la storia della c.d. “privatizzazione”, scartata l’ipotesi di una semplice rivisitazione della legge quadro. Il decreto legislativo 3 febbraio 1993 n.29,si presenta anzitutto come intervento sulle fonti. Da un lato viene modificato l’atto posto alla base del rapporto di impiego,che è ora il contratto;dall’altro,al contratto collettivo viene restituito il ruolo di fonte immediata di disciplina del rapporto,con pieno superamento della prospettiva per cui l’accordo sindacale non poteva considerarsi niente di più che una tappa del procedimento di formazione dell’atto amministrativo di recezione. Il contratto,individuale e collettivo di diritto comune,cosituisce il perno attorno al quale ruota la trasformazione dal pubblico al privato (per questo si parla anche di contratualizzazione).La trasformazione dell’assetto delle fonti viene poi realizzata tramite altri due passaggi:il passaggio di disciplina,che è ora quella contenuta nel codice civil;ed il passaggio di giurisdizione dal giudice amministrativo a quello ordinario. 2.LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NELLA RIFORMA DEL D.Lgs. n.29 del 1993 (ora D.Lgs. n.165/2001). AMBITI E LIVELLI. L’estensione dell’area assoggettata alla privatizzazione,sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo, corrisponde a quella in precedenza ricoperta dalla legge quadro n.93 del 1983.
Sotto il profilo oggettivo,rientrano nell’area di applicazione del decreto legislativo “tutte le amministrazioni dello Stato,ivi compresi gli istituti e le scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative,le aziende e le amministrazioni dello stato ad ordinamento autonomo,le regioni,le province,i comuni,le comunità montane e loro consorzi e associazioni,le istituzioni universitarie,gli istituti autonomi case popolari,le camere di commercio,industria,artigianato e agricoltura e loro associazioni,tutti gli enti pubblici non economici nazionali,regionali e locali,le amministrazioni e le aziende e gli enti del Servizio Sanitario Nazionale”. Sotto il profilo soggettivo,vengono escluse dall’area della privatizzazione alcune categorie particolari,che mantengono una disciplina speciale:i magistrati ordinari,amministrativi e contabili,gli avvocati e procuratori dello Stato,il personale militare e delle forze di polizia,il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia. Bisogna sottolineare come il D.Lgs. n.29 continui la linea accentratrice già fatta propria dalla legge quadro;la spinta alla centralizzazione del sistema contrattuale rappresenta il prodotto di un compromesso tra forze che sul piano storico si trovano attualmente a condividere interessi comuni,tra cui l’interesse al processo rivendicativo:il Governo e le Confederazioni. 3.SOGGETTI La persistente frammentazione e la scarsa trasparenza dei soggetti negoziali hanno sempre costituito la causa più evidente di distorsioni del processo di contrattazione collettiva nel pubblico impiego. L’elemento di maggior rilievo è l’entrata in scena di un protagonista completamente nuovo,l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) “dotata di personalità giuridica di diritto pubblico”.Con essa il legislatore ha sostituito alle varie delegazioni di parte pubblica,un’unica controparte,tecnica e stabile. E ad essa è attribuita la rappresentanza sindacale di tutte le amministrazioni pubbliche, a livello di contrattazione collettiva nazionale. L’Agenzia non è sottoposta alla vigilanza della Previdenza del Consiglio e gli unici controlli sulla sua attività sono effettuati dalla Corte dei Conti,sulla gestione finanziaria. Oggi l’Agenzia si colloca al centro di un sistema più articolato,nel quale il potere di impartire direttive per l’azione contrattuale è stato mutato in potere di indirizzo e trasferito dal Governo ai c.d. Comitati di settore,organi espressi dalle forme associative delle singole amministrazioni e degli enti rispettivamente interessati. Sono ora ammesse alla contrattazione di comparto le Confederazioni sindacali,non più in quanto in sé rappresentative ma solo se affiliano un sindacato rappresentativo nel comparto o nell’area. 4.OGGETTI
La contrattazione collettiva ha oggi una competenza generale,potendosi svolgere su “tutte le materie relative al rapporto di lavoro e alle relazioni sindacali”. Il trattamento economico continua ad essere la materia tipica affidata alla contrattazione,fin dalla legislazione degli anni ’70. 5.PROCEDURA ED EFFICACIA Gli accordi collettivi nel pubblico impiego hanno sempre acquistato efficacia sui rapporti di lavoro non direttamente,ma solo per il tramite di un atto di autorità. Anche nel pubblico impiego il contratto collettivo è destinato ad acquistare efficacia immediata quanto alla disciplina dei rapporti di lavoro compresi nella sua sfera applicativa.L’iter procedurale si alleggerisce,ma non viene meno: a) Quanto al livello nazionale vi è una fase preventiva a quella propriamente contrattuale,costituita dalla deliberazione degli atti di indirizzo da parte dei comitati di settore delle pubbliche amministrazioni,che vengono trasmessi all’Aran; b) L’Agenzia entra nella fase della trattativa in ordine alla quale il legislatore serba il più assoluto silenzio; c) Il raggiungimento di un’intesa conduce poi direttamente alla terza fase,quella finale,la fase del perfezionamento del contratto.Oggi non è più richiesta l’autorizzazione del Governo,ma solo il parere favorevole del Comitato di settore,che deve pervenire entro cinque giorni dalla ricezione del testo.Il parere è chiaramente vincolante per l’Aran. Il giorno successivo a quello dell’acquisizione del parere favorevole da parte del comitato di settore (o del Presidente del Consiglio),l’Aran trasmette la quantificazione dei costi contrattuali,contenuta in un prospetto allegato,alla Corte dei Conti,la quale ne verifica la compatibilità con gli strumenti di programmazione e di bilancio. La Corte dei Conti non controlla dunque più la legittimità dell’atto governativo di autorizzazione,ma solo l’esistenza della copertura finanziaria delle spese previste dal contratto. Se la delibera della Corte è positiva oppure se decorre il termine di cinque giorni dalla ricezione senza che essa si sia pronunciata,il presidente dell’Aran sottoscrive il contratto collettivo. Se invece la Corte dei Conti si pronuncia negativamente,l’Aran dovrà tentare l’adeguamento della quantificazione dei costi. L’intera procedura di certificazione deve concludersi entro quaranta giorni dall’ipotesi di accordo. 6.EFFICACIA: AMBITO E TIPO. Il contratto pubblico privatizzato,pur se tipico o speciale,non sfugge ai problemi del contratto collettivo di diritto comune,la cui efficacia è formalmente limitata ai datori e lavoratori rappresentanti al tavolo delle trattative.
L’erga omnes del contratto collettivo risulta assicurato in forza: a) della previsione che assegna all’Agenzia la rappresentanza legale di tutte le pubbliche amministrazioni; b) della previsione che vincola le pubbliche amministrazioni a garantire ai propri dipendenti “parità di trattamento contrattuali e comunque trattamenti non inferiori a quelli prescritti dai contratti collettivi” c) della previsione che le pubbliche amministrazioni adempiono agli obblighi assunti con i contratti collettivi nazionali o integrative. Il contratto collettivo diventa positivamente applicabile a tutti per il tramite della clausola di rinvio necessariamente contenuta nel contratto individuale che viene sottoscritto al momento della costituzione del rapporto. Altro versante problematico è quello che riguarda il rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale. Nel privato tale questione trova soluzione nel senso che il contratto collettivo è inderogabile in peius dal contratto individuale e le eventuali disposizioni difformi vengono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo.Per contro il contratto individuale può derogare in melius il contratto collettivo. Nel settore del lavoro pubblico si assiste ad un capovolgimento:il profilo della inderogabilità in peius non risulta affatto posto in discussione,è tuttora oggetto di dibattito la questione della derogabilità in melius. Due orientamenti si fronteggiano:l’uno sostiene l’inderogabilità assoluta o bilaterale del contratto collettivo nei confronti dell’individuale;l’altro riconosce l’esistenza di spazi d’azione per la contrattazione individuale. CAPITOLO XI: SCIOPERO E SERRATA A. LO SCIOPERO: I PROTAGONISTI DELLA SUA REGOLAMENTAZIONE 1. Il caso italiano: dal codice penale sardo al testo costituzionale: lo sciopero rappresenta il punto di avvio del lungo e travagliato processo formativo del sindacato: è stato prima represso come “reato”, poi tollerato come “libertà”, infine protetto, fino ad essere riconosciuto, come “diritto”. Come “reato” lo sciopero fu previsto dal codice penale sardo del 1859, esteso al regno d’Italia, poi sostituito dal codice Zanardelli, che punisce non più lo sciopero ma solo l’eventuale comportamento violento o minaccioso diretto verso un lavoratore, per costringerlo ad astenersi dal lavoro; col nuovo codice penale del 1930, la repressione della libertà di lotta sindacale troverà una più compiuta ed articolata previsione (significativo il fatto che sia il grande sciopero torinese del 1943 ad anticipare il crollo del fascismo). Il dato di fatto della non punibilità del fenomeno trova consacrazione nell’art. 40 della Costituzione, con l’espresso e solenne riconoscimento del diritto di sciopero.
Per quanto riguarda fonti internazionali e comunitarie, la disciplina dello sciopero è tradizionalmente esclusa dal campo di intervento sia delle convenzioni OIL sia delle direttive comunitarie, anche se l’art. 28 della c.d. Costituzione europea riconosce, in capo ai lavoratori, ai datori e alle rispettive organizzazioni “il diritto di ricorrere, in caso di conflitti di interessi, ad azioni collettive per la difesa dei propri interessi, compreso lo sciopero”. 2. I protagonisti nell’evoluzione della disciplina dello sciopero. Il Parlamento: l’art. 40 Cost. contiene un rinvio al Parlamento per il varo di un testo legislativo largamente discrezionale circa il tempo d’esercizio; il fatto che nell’arco di una quarantennio tale testo non abbia visto la luce non può essere considerato un vero e proprio caso di “inadempimento costituzionale”, ma deve essere spiegato storicamente. Lo sciopero riceve una forma di tutela indiretta dallo Statuto dei lavoratori, che parla sì dello sciopero, ma non per darne una regolamentazione, bensì per offrirne una tutela rafforzata. La legge 146/1990, in materia di sciopero nei servizi pubblici essenziali, attribuisce un rilievo prioritario agli accordi (nel settore pubblico) e ai contratti collettivi (nel settore privato) come fonte regolativa del conflitto. La legge 83/2000 corregge i principali punti deboli della disciplina base, conservandone le caratteristiche di fondo: ritocca la strumentazione negoziale e gli obblighi delle parti, ricalca i poteri della Commissione di garanzia, perfeziona il sistema sanzionatorio, estende le regole da rispettare in caso di sciopero anche alle astensioni collettive di lavoratori non subordinati. 3. La dottrina e la giurisprudenza: I distinzione: il diritto di sciopero sarebbe soggetto a limiti circa il titolare, il comportamento attuativo, il fine perseguito: limiti c.d. coessenziali, perché connaturati al concetto di sciopero assunto a referente del riconoscimento medesimo all’interno del testo costituzionale e dell’intero ordinamento; limiti c.d. d’esercizio, perché appunto relativi all’esercizio. II distinzione (radicata nella I): limiti interni, desumibili dal concetto di sciopero recepito nell’art. 40; limiti esterni, desumibili dal contemperamento fra diritto di sciopero e altro diritto costituzionalmente tutelato a livello identico o superiore. Evoluzione del diritto di sciopero in Italia: a) Sciopero prima inteso come fatto straordinario, poi come strumento di garanzia sociale per l’ordinamento intersindacale,
infine strumento di influenza e partecipazione nella determinazione
della politica nazionale ed aziendale. b) Diversa attitudine verso l’attività interpretativa svolta. c) Nuova definizione della fattispecie “sciopero-fatto” (sciopero visto come fenomeno sociale) e “sciopero-diritto” (lo sciopero visto come diritto). d) Nuova ricostruzione dogmatica del diritto di sciopero. e) Nuova disciplina della titolarità e dell’esercizio del diritto di sciopero.
4. La Corte Costituzionale: nella seconda metà degli anni ’50 la Corte Costituzionale entra in attività, e la situazione che le si presenta non è delle più rosee, a causa soprattutto della perdurante assenza del Parlamento nel varare una legge attuativa dell’art. 39, comma 2°, e del rinvio di cui all’art. 40. La Corte Costituzionale, presa in mano la situazione, assume diversi ruoli: di guida rispetto alla magistratura, di sollecitazione rispetto alla classe politica, di chiarificazione rispetto all’organizzazione sindacale, di influenza rispetto all’opinione pubblica. Si riapre la questione dei limiti, distinguendo tra quelli desumibili dallo stesso interprete, ossia dal “concetto stesso di sciopero” (“interni”), oppure “dalla necessità di contemperare le esigenze dell’autotutela di categoria con altre discendenti da interessi generali i quali trovano protezione in principi consacrati nella Costituzione (“esterni”). Sentenza di rigetto pura, che conserva la norma impugnata; sentenza di rigetto interpretativa, che salva la norma in ragione di una certa interpretazione, peraltro non vincolante; sentenza di accoglimento, totale o parziale, “pura”, che cancella tutta o parte della disposizione contestata; s. di accoglimento parziale manipolativa, che estrapola da tale disposizione un’altra meno estesa, destinata a sopravvivere. Con l’avvento della legge 146/1990, la Corte si vede privata di una grossa porzione della vecchia disciplina penale. 5. Il Governo e la pubblica amministrazione: altro protagonista assai importate è stato lo stesso potere esecutivo, nell’influire sul regolamento e soprattutto sull’esercizio effettivo del diritto di sciopero, assumendo le fattezze di promotore dell’iniziativa legislativa, condizionatore dell’attività giurisprudenziale, responsabile della politica dell’ordine pubblico, datore di lavoro pubblico; soprattutto l’atteggiamento del Governo è venuto progressivamente mutando, da apertamente repressivo, a neutrale, a promozionale. Nel corso del decennio ’90, la legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali e la normativa sulla c.d. privatizzazione del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni sanciscono il riconoscimento pieno del diritto di sciopero nel pubblico impiego. 6. Le organizzazioni sindacali: significativa anche la stessa autoregolamentazione: unilaterale, o autoregolamentazione in senso stretto, posta dalla sola organizzazione sindacale; bilaterale o regolamentazione patrizia, convenuta con la contro-parte datoriale; quest’ultima acquista rilevanza in seguito alla l. 146/1990 e alla privatizzazione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego, poiché maggiormente indicata per l’individuazione delle prestazioni indispensabili in caso di sciopero effettuato nei servizi pubblici essenziali. 7. La Commissione di garanzia: organo istituito dalla l. 146/1990, è l’ultimo protagonista della regolamentazione dello sciopero nei servizi pubblici essenziali. B. IL DIRITTO DI SCIOPERO E LE ALTRE FORME DI LOTTA
1. Fondamento e natura del diritto di sciopero: non esiste una risposta univoca e definitiva circa nozione e disciplina del diritto di sciopero: è una constatazione di fatto, dato che non è esistita ieri e non esiste oggi una dottrina ed una giurisprudenza unanime. Salvo qualche isolato dissenso, l’art. 40 Cost. venne subito considerato immediatamente precettivo: il che volle dire riformulare e scomporre quel testo, come se contenesse un duplice disposto: il diritto di sciopero è riconosciuto; il diritto di sciopero deve essere esercitato nell’ambito delle leggi che lo regolano. Il principale problema interpretativo era rappresentato dal primo disposto, ossia il riconoscimento del diritto di sciopero, e risolverlo avrebbe comportato trovarne il fondamento, ossia la ratio: vale a dire il significato “oggettivo”, storicamente aperto, assunto all’interno del testo costituzionale. Vi sono, a questo proposito, due filoni interpretativi: il primo vede il diritto di sciopero come mero strumento di autotutela contrattuale ed organizzativa; il secondo come canale di partecipazione politica. In merito alla natura del diritto di sciopero, sono state avanzate varie interpretazioni, da quella che lo vede come un diritto soggettivo in ogni sua sfaccettatura, fino alla tesi della potestà. Si assume, a punto di partenza, il quadro che vede nel diritto di sciopero riconosciuto dall’art. 40 un vero e proprio diritto soggettivo, ossia un potere attribuito ad un soggetto per il soddisfacimento di un interesse, solo suo od anche suo; il diritto di sciopero è anche configurabile come un diritto soggettivo potestativo, nel senso del potere accordato ad un soggetto di modificare il rapporto di cui è parte. Per quanto riguarda invece il diritto di sciopero come diritto della personalità, in questo caso viene messo in risalto il coinvolgimento stesso della persona del lavoratore, e così pure per lo sciopero in quanto libertà fondamentale, e allo stesso sciopero come diritto politico, dove viene sottolineato il ruolo di partecipazione politica. 2. Titolarità del diritto: il diritto di sciopero viene riconosciuto come un diritto individuale quanto al titolare, ma collettivo quanto all’esercizio, vale a dire che un abbandono del lavoro assurge ad esercizio del diritto di sciopero, solo se ed in quanto attuato da un numero più o meno consistente di prestatori per un fine comune. 3. Ambito del diritto: il significato legale di sciopero, fatto proprio nell’art. 40, coincide con il significato comune, accreditato nel sociale: sicché è sciopero solo quello consolidato come tale nel sentire e nella prassi sindacale, cioè un abbandono del lavoro, collettivo nello svolgimento e nel fine. Secondo un giudicato della Cassazione, il significato attribuibile allo sciopero è “quello che la parola ed il concetto da esso sotteso hanno nel comune linguaggio adottato nell’ambiente sociale”, vale a dire “nulla più che un’astensione collettiva dal lavoro, disposta da una pluralità di lavoratori, per il raggiungimento di un fine comune”. Sorge a questo proposito la questione dei limiti esterni, determinati dall’impatto potenziale dell’abbandono del lavoro su qualche altro diritto costituzionale, pari-ordinato o preminente; in proposito si è espressa la Corte Costituzionale, la quale, mentre liberalizza lo sciopero dei pubblici dipendenti, limita la titolarità e
l’esercizio dello sciopero degli addetti a funzioni o servizi pubblici essenziali e dei marittimi, in vista della protezione delle persone e delle cose coinvolte. 4. (Segue) I soggetti titolari: titolari del diritto di sciopero sono: il prestatore subordinato – l’apprendista – il lavoratore in prova – il lavoratore a tempo determinato – il lavoratore a tempo parziale – il lavoratore a domicilio – il lavoratore parasubordinato; inoltre, con la legge n° 83/2000 viene estesa l’applicabilità di alcune regole dello sciopero anche a lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori. Non sono titolari del diritto di sciopero militari e poliziotti. 5. (Segue): I modi attuativi: innanzitutto c’è una FASE PRELIMINARE, costituita dalla presentazione e definizione della piattaforma, dalla richiesta e dall’eventuale apertura di una trattativa, dalla deliberazione e proclamazione delle lotte; non è dunque necessario rispettare sempre e comunque l’obbligo di preavviso (vale solo se previsto). Segue quello che, in lingua povera, è lo sciopero vero e proprio, ossia “l’abbandono del lavoro” o “l’astensione dal lavoro”; si tratta di un fenomeno multiforme, variante a seconda della durata, dell’estensione, dell’articolazione della lotta. DURATA: distinzione fra sciopero ad oltranza (progettato e proseguito fino al successo o al fallimento finale) e lo sciopero a tempo (programmato e condotto per un certo tempo). Sciopero breve (tempo inferiore all’orario giornaliero), sciopero dimostrativo o simbolico (tempo molto breve, in segno di solidarietà). ESTENSIONE: sciopero generale (potenzialmente estesa all’esteso all’intero universo del lavoro subordinato). Sciopero categoriale (nazionale, di gruppo, locale), sciopero aziendale (d’azienda, di stabilimento, di reparto, e che può essere “totale” o “parziale”). ARTICOLAZIONE: è la caratteristica più attuale e significativa, per cui l’astensione collettiva viene programmata, sì da non risolversi in una contemporanea e continua interruzione della prestazione, ma articolarsi secondo una data combinazione spaziale e/o temporale. Si distingue tra sciopero a singhiozzo, costituito da un susseguirsi di brevi interruzioni e riprese del lavoro, da parte di tutti i lavoratori interessati, e sciopero a scacchiera, dato da un alternarsi di interruzioni del lavoro, volta a volta da parte dei soli lavoratori di determinati reparti, gruppi, profili professionali. Evoluzione della valutazione dello sciopero c.d. articolato nella Giurisprudenza della Cassazione: A) Nel periodo iniziale, che giunge fin quasi a mezzo decennio ’70, lo sciopero c.d. articolato è tenuto al bando, con un discorso piuttosto vario, ma tutto segnato da un netto apriorismo ideologico e definitorio. Secondo un primo approccio, si parla dello stesso concetto di sciopero di cui all’art.40,
distinguendo tra uno sciopero semplice, visto come un abbandono del lavoro contestuale e continuo; uno più complesso, come un abbandono del lavoro causativo di un “danno ingiusto”. Secondo un ulteriore approccio, si parte dal rinvio “alle leggi che lo regolano” di cui sempre all’art. 40: in questo caso, lo sciopero deve essere esercitato nel rispetto dei principi generali di correttezza e di buona fede in fase di esecuzione del contratto, nonché dei doveri specifici di collaborazione subordinata e di diligenza nello svolgimento del rapporto di lavoro. B) Nel periodo successivo, lo sciopero c.d. articolato appare ormai largamente diffuso e relativamente accettato. Di fronte ad uno sciopero articolato l’accento è posto non più sul modo attuativo, ma sul rendimento del lavoro offerto dal personale attualmente non scioperante; ugualmente, di fronte ad uno sciopero in lavorazioni a ciclo continuo od integrato, l’accento è posto sul rendimento del lavoro reso disponibile dal personale al termine dello stesso, lavoro che deve essere non solo utilizzabile, ma anche proficuo, secondo lo standard normale (ossia idoneo a conseguire l’intero risultato produttivo dedotto ed atteso, e, perdippiù, a conseguirlo senza costo od onere aggiuntivo per lo stesso lavoratore). Altrimenti il datore può ben rifiutarlo e non retribuirlo, come non corrispondente a quanto contrattualmente dovuto, facendo ricorso all’eccezione di inadempimento (art. 1460 cod. civ.), oppure al rifiuto giustificato delle collaborazione all’adempimento. C) L’ultimo periodo, che inizia nel decennio ’80, è caratterizzato dall’incontro, grazie all’intervento della Corte di Cassazione, di concetti: quello legale di sciopero, di cui all’art. 40 Cost., e quello comune di sciopero, comprensivo dello stesso sciopero articolato. Il significato attribuibile allo sciopero deve essere quello corrente nel contesto sociale, ossia “nulla più di un’astensione dal lavoro, disposta da una pluralità di lavoratori, per il raggiungimento di un fine comune”. Lo stacco, rispetto al periodo precedente, appare assai più netto, anche per via del duplice aspetto alla base del nuovo indirizzo giurisprudenziale: innanzitutto viene ridisegnato l’ambito dei limiti esterni, con l’introduzione della necessità di tutelare l’impresa come “organizzazione istituzionale”; in secondo luogo, sopravvive il preesistente indirizzo circa il potere del datore di non accettare e retribuire il lavoro offerto negli intervalli di uno sciopero a singhiozzo, nei reparti volta a volta non coinvolti da uno sciopero a scacchiera, nei tempi di riavvio dell’impianto di lavorazioni a ciclo continuo od integrale interessate da uno sciopero. Il punto di arrivo del cammino intrapreso dalla Corte di Cassazione ripropone il problema dell’ambito del diritto di sciopero; tale ambito appare circoscritto secondo il duplice criterio dei limiti interni e dei limiti esterni; per quanto riguarda i primi, essi possono essere individuati nel significato comune di sciopero, inteso come “astensione dal lavoro”: di conseguenza è esclusa ogni altra forma di lotta, comunque etichettata, che non si esprima con questa astensione, semplice o articolata. In merito ai limiti esterni, invece, bisogna procedere secondo un duplice passaggio: in primo luogo c’è da accertare quale altro diritto costituzionalmente garantito sia sovra-ordinato o pari-ordinato al diritto di
sciopero, sì da giustificarne un qualche limite; in secondo luogo c’è da verificare quale limite sia ammissibile, assoluto o relativo, escludente la stessa titolarità od incidente sul solo esercizio, rigido o flessibile; ma quali diritti costituzionalmente garantiti possono essere considerati sovra-ordinati od almeno pari-ordinati, tali da imporre sacrifici od almeno contemperamenti con riguardo agli scioperi? Sulla questione si dipanano numerose opinioni: A)OPINIONE UNANIME: i diritti inerenti alla vita e all’integrità psico-fisica dell’individuo, che non possono essere esposti a
rischi o a danni da eventuali abbandoni del lavoro.
B)OPINIONE MAGGIORITARIA: i diritti relativi alla libertà del singolo dipendente – non aderente ad uno sciopero – di raggiungere il posto di lavoro o comunque di svolgere il lavoro, nonché alla libertà del singolo imprenditore di disporre degli impianti e dei beni aziendali. C)CORTE COSTITUZIONALE: “i diritti ed i poteri nei quali si esprime direttamente o indirettamente la sovranità popolare”. D)CORTE DI CASSAZIONE: l’impresa come “organizzazione istituzionale e non gestionale”, cioè la “produttività e non la produzione aziendale”. Nel caso della verifica del sacrificio conseguentemente necessario, è evidente anche qui un certo processo evolutivo, sia per quanto attiene l’accertamento del rischio o del danno relativo all’altro diritto, sia per quanto concerne la determinazione del sacrificio richiesto al diritto di sciopero. 6. (Segue) Gli scopi: la Corte Costituzionale ha rivestito un ruolo di fondamentale importanza nell’individuazione delle finalità perseguite dallo sciopero; sull’argomento, è intervenuta una normativa secondo una duplice direttiva, struttura, dislocazione: quella principale di cui agli artt. 502 e ss., dettata per la realtà privata, e quella secondaria, di cui all’art. 303, dettata per la realtà pubblica. ART. 502 E SS.: la normativa principale ruota intorno ad una distinzione di base: fra divieto dello sciopero contrattuale, e divieto dello sciopero non contrattuale. La Corte percorrerà una linea evolutiva, rilegittimando, in una prima fase, solo lo sciopero contrattuale, poi restituendo, in una seconda fase, sempre maggior vigore anche allo sciopero a scopo non contrattuale. Lo sciopero a fine contrattuale sarebbe stato quello attuato allo scopo di premere sul datore di lavoro per ottenere un trattamento migliore od evitarne uno peggiore rispetto a quello pattuito o comunque applicato nel luogo di lavoro; lo sciopero a fine non contrattuale è quello delineato nel codice penale come “sciopero politico”, di “coazione alla pubblica autorità”, di “solidarietà” o di “protesta”. Si delinea un’apertura verso una doppia figura di sciopero, caratterizzata dall’avere il datore quale soggetto passivo dell’astensione, ma non quale destinatario della pretesa così fatta valere: cioè lo sciopero di imposizione economico-politica e lo sciopero di solidarietà, il primo sconosciuto al codice penale, inventato dalla dottrina per indicare un abbandono del lavoro diretto verso il governo e o il parlamento, o per impedire o ottenere un intervento del governo nel mondo del lavoro
subordinato. La seconda figura è quella dello sciopero di solidarietà, che il codice penale reprime come nel caso della figura dello sciopero di protesta; si tratta di uno sciopero secondario attuato da alcuni lavoratori a sostegno di uno sciopero primario eseguito da lavoratori dipendenti da altri datori. In seguito alla sentenza n° 290/1974, la Corte Costituzionale, per la prima volta, considera lo sciopero come “un mezzo che necessariamente valutato nel quadro di tutti gli strumenti di pressione usati dai vari gruppi sociali, è idoneo a favorire il perseguimento dei fini di cui, al comma 2° dell’art.3 Cost..”; riconosce l’esistenza, oltre ad uno spazio coperto dal diritto di sciopero (come tale lecito penalmente e civilmente, protetto contro lo stato ed il datore di lavoro), anche uno spazio coperto dalla libertà di sciopero (come tale lecito penalmente ma non civilmente, garantito rispetto allo stato ma non al datore di lavoro). 7. Sciopero ed effetti legali: in tema di effetti legali dello sciopero, il principale problema è costituito dalle ricadute sul rapporto di lavoro in essere tra datore e suoi dipendenti. Gli effetti essenziali sui rapporti dei dipendenti attualmente scioperanti possono essere così riassunti: A) L’esercizio del diritto di sciopero produce la sospensione dell’obbligazione lavorativa, con correlativa perdita della retribuzione. B) L’esercizio del diritto di ciopero produce, però, una sospensione relativa, non assoluta, del rapporto ristretta al sinallagma obbligazione lavorativa/retribuzione, non estesa oltre anche all’anzianità di servizio. C) L’esercizio del diritto di sciopero riesce protetto rispetto a qualsiasi atto o comportamento del datore di lavoro, precedente, contemporaneo, successivo allo sciopero medesimo, che sia tale da apparire soggettivamente o anche solo oggettivamente discriminatorio. Un punto richiede un cenno speciale: IL CRUMIRAGGIO. Il crumiraggio consiste nel non scioperare, ma è necessaria qualche distinzione: prima fra crumiraggio diretto e indiretto; poi, relativamente a quest’ultimo, fra crumiraggio interno ed esterno. Il crumiraggio diretto è quello praticato dai dipendenti di un dato complesso (tipo i Misfits: ahahahah!), che non intendono scendere in sciopero, bensì svolgere il loro normale lavoro; il crumiraggio indiretto è quello attuato sostituendo gli scioperanti con altri dipendenti spostati provvisoriamente dal loro normale lavoro (crumiraggio interno) e/o con altri lavoratori assunti transitoriamente (crumiraggio esterno). 8. Sciopero e altre forme di lotta sindacale: lo sciopero è solo una delle tante espressioni del concetto di lotta sindacale; esistono, però, tipologie di lotta che costituiscono vero e proprio sciopero, anche se discusse per questo o quell’aspetto: è il caso del c.d. sciopero bianco, ossia attuato senza un contestuale abbandono del posto o comunque del luogo di lavoro; esiste poi lo sciopero c.d. dello straordinario, cioè eseguito come rifiuto collettivo di prestare lo straordinario richiesto dal datore di lavoro ai sensi di contratto collettivo. È opportuno, ora, considerare una varia tipologia costituita non da un’astensione dal lavoro, semplice o articolata, ma da una prestazione quantitativamente o qualitativamente diversa da quella pretesa dal datore
di lavoro etichettata come non collaborazione o ostruzionismo, vale a dire un’attività lavorativa rallentata, con riduzione dei ritmi od introduzione di pause maggiori o nuove, oppure modificata, con inosservanza dei criteri direttivi prefissati, o ancora ristretta, con esecuzione di alcune mansioni primarie, ma non di altre sussidiarie. L’ostruzionismo ha attraversato la fase di maggior sviluppo sul finire del decennio ’70, nel corso della grande stagione rivendicativa, con il ricorso al c.d. blocco o sciopero delle mansioni (rifiuto collettivo di eseguire certe mansioni considerate inferiori o superiori alle qualifiche e classificazioni attribuite) e al c.d. sciopero del rendimento o del cottimo (rifiuto collettivo di osservare determinate cadenze ritenute eccessive). Ancora: sciopero pignolo, ossia adempimento del compito prestabilito con un rispetto rigoroso o pedante del regolamento lavorativo; sciopero alla rovescia, dato dallo svolgimento di un lavoro non richiesto o addirittura vietato dal proprietario o imprenditore; sciopero virtuale, con destinazione della retribuzione a scopi solidaristici. 9. (Segue): Picchettaggio, occupazione d’azienda, boicottaggio, sabotaggio: sono forme di lotta sindacale connesse o alternative allo sciopero. PICCHETTAGGIO: il p. consiste nel raggruppamento più o meno folto di lavoratori, dipendenti dell’azienda in sciopero o provenienti da altra azienda, che stazionano vicino o di fronte ai cancelli od agli ingressi per dissuadere, disturbare, bloccare gli eventuali crumiri; ovviamente i problemi non emergono in caso di p. pacifico, che può essere considerato alla luce dell’art. 21, c. 1° Cost. (libertà di manifestazione del pensiero), ma nello sfortunato caso di p. violento, variante da una resistenza passiva ad una vera e propria attività violenta. Una variante del picchettaggio è costituita dal “blocco delle merci”, in base al quale un gruppo di lavoratori, stazionante di fronte ai cancelli od agli ingressi, tende ad evitare specie l’uscita delle merci già prodotte; e tende a far questo perché un’azienda che ne avesse immagazzinate parecchie, in vista dell’astensione dal lavoro o solo in ragione della congiuntura negativa del mercato, potrebbe continuare a soddisfare la domanda della clientela. OCCUPAZIONE AZIENDALE: forma di lotta costituita dall’entrata e/o permanenza nell’azienda di tutta o parte della forza lavoro ivi occupata, con astensione dall’attività lavorativa, allo scopo di togliere l’iniziativa alla direzione, allorché voglia procedere ad una serrata o ad una riduzione/liquidazione dell’attività produttiva; può anche servire a sensibilizzare l’opinione e l’autorità pubblica. BOICOTTAGGIO: il b. è un mezzo di lotta di carattere generale. L’art. 507 cod. pen. dichiara punibile chiunque “per uno degli scopi indicati negli articoli 502, 503, 504, 505, mediante propaganda o valendosi della forza e autorità di partiti, leghe o associazioni, induce una o più persone a non stipulare patti di lavoro o a non somministrare materie o strumenti necessari al lavoro, ovvero a non acquistare gli altri prodotti agricoli o industriali. Secondo la Corte, l’incriminazione del boicottaggio è legittima, salvo il caso in cui venga attuato come una mera attività di propaganda.
SABOTAGGIO: art. 508, c. 2°: danneggiamento “qualificato”, sia per il requisito soggettivo del dolo specifico (d’impedire e turbare il normale svolgimento del lavoro), sia per il requisito oggettivo del peculiare carattere dei beni. Per la Corte l’art. 508 è legittimo.
D. LA SERRATA 1. Importanza, tipologia, evoluzione della serrata: secondo la nozione corrente, la serrata è costituita da una chiusura o interruzione temporanea dell’attività aziendale, totale o parziale, nonché dal rifiuto di accettare e retribuire le prestazioni di lavoro, attuata da una sola o da più imprese, con finalità di pressione e di lotta. Si distingue tra: serrata individuale o collettiva, eseguita da una sola oppure da più aziende, concordemente e/o contestualmente fra loro; la serrata sospensiva o risolutiva, realizzata tramite la mera sospensione oppure, addirittura, la cessazione dei rapporti di lavoro in essere; la serrata offensiva o difensiva, secondo che costituisca una manovra per anticipare e bruciare l’iniziativa avversaria oppure una misura per rispondere ad una lotta già intrapresa. Una classica serrata offensiva è quella di solidarietà, mentre tipicamente difensiva è considerata quella di ritorsione. Il codice penale menziona, all’art. 502, c. 1° e all’art. 503 rispettivamente la serrata per fini contrattuali e non contrattuali; l’art. 504 è dedicato alla serrata di coazione alla pubblica autorità, mentre l’art. 505 si occupa della serrata a scopo di solidarietà e di protesta. Infine l’art. 506 chiude l’elenco con la serrata di esercenti di piccole industrie e commerci. Nella Costituzione la serrata, a differenza dello sciopero, non trova spazio, e questo ci fa dedurre che essa non costituisce un diritto, ma rappresenta bensì una semplice “libertà”, in quanto sottratta al pericolo di incriminabilità penale. 2. La giurisprudenza costituzionale: la rilevanza penale della serrata: ai sensi della sentenza n° 29 1960, lo sciopero è considerato un “diritto”, un comportamento penalmente e civilmente legittimo, mentre la serrata rimane una “libertà”, un comportamento quindi solo penalmente lecito. Da questa linea intrapresa dalla Corte Costituzionale deriva l’incostituzionalità dell’art. 502, cc. 1° e 2°, ossia del divieto penale della serrata e rispettivamente dello sciopero a fini contrattuali, per contrasto con gli artt. 39 e 40 Cost.; ogni altro divieto, riconducibile agli artt. 503, 504 e 505 cod. pen., rimarrebbe al suo posto. 3. (Segue): La rilevanza civile della serrata. La c.d. serrata di ritorsione: la serrata, quand’anche essa non sia un illecito penale, resta pur sempre un illecito civile, un comportamento in violazione del contratto di lavoro; non pare dunque possibile distinguere fra serrata risolutiva e sospensiva: se il datore di lavoro pensasse di far precedere, accompagnare, seguire la chiusura o interruzione temporanea dell’attività aziendale dal licenziamento collettivo del personale opererebbe in maniera illecita. Se poi il datore ritenesse di procedere alla chiusura o interruzione dell’attività aziendale, senza alcun previo, contestuale o successivo
licenziamento collettivo del personale, allora provocherebbe una sospensione di fatto delle prestazioni lavorative, ma non una sospensione di diritto dei rapporti di lavoro in essere. La violazione consiste dunque nel rifiuto esplicito od implicito di ricevere le prestazioni lavorative dei propri dipendenti, a prescindere da quel che pur normalmente consegue, cioè il mancato pagamento dei relativi stipendi e salari. Serrata di ritorsione: reazione a forme di lotta particolarmente incisive per le modalità attuative o per le realtà produttive investite, quali gli scioperi articolati e gli scioperi negli impianti a ciclo continuo, ma anche come rifiuto del datore di lavoro di accogliere e retribuire il lavoro offerto da personale attualmente non scioperante, in occasione di uno sciopero pur pienamente legittimo, qualora il lavoro reso disponibile risultasse non proficuo secondo lo standard normale.
CAPITOLO XII: LO SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI 1. Lo sciopero degli addetti a funzioni o servizi pubblici essenziali e dei marittimi nella giurisprudenza costituzionale: l’astensione dal lavoro attuata da dipendenti incaricati di funzioni o di servizi pubblici essenziali è una tematica divenuta via via più rilevante con la progressiva estensione della sindacalizzazione fra i lavoratori espletanti funzioni rispondenti a compiti dello Stato, considerati classicamente prioritari (es. la sicurezza pubblica), ovvero espletanti servizi soddisfacenti a bisogni dell’individuo e della collettività ritenuti largamente primari o comunque indifferibili senza gravi disagi e costi (es. l’assistenza sanitaria, l’erogazione dell’energia elettrica, dei gas, dell’acqua, i trasporti), tematica questa affrontata dalla giurisprudenza costituzionale (v. il manuale per maggiori dettagli). 2. Lo sciopero nei servizi pubblici fra leggi specifiche ed autoregolamentazione: fino al giugno 1990 la legge non è mai intervenuta, ad eccezione di qualche norma episodica ed isolata, a disciplinare direttamente e puntualmente l’intera materia dello sciopero nei servizi pubblici, od anche solo nei servizi pubblici c.d. essenziali. Dall’altra parte, la debole efficacia giuridica dei codici di autoregolamentazione, richiamati dalla versione originaria della l. 146/1990, ha operato a vantaggio della contrattazione collettiva. 3. La legge 12 giugno 1990, n° 146 (come modificata dalla legge 11 aprile 2000, n° 83): la peculiarità propria della legge 146/1990 è quella di essere costruita e gestita con piena collaborazione delle confederazioni sindacali. Quel che si voleva, poi, era una regolamentazione coerente rispetto alla tradizione costituzionale e sindacale quale tradotta nella giurisprudenza della Corte e nella vicenda della autoregolamentazione. La legge 11 aprile 2000, n° 83, che ha modificato in più punti il testo della l. n° 146/1990, è intervenuta per ovviare a lacune e difficoltà interpretative emerse nei dieci anni di applicazione della disciplina; in particolare, rispetto all’impianto originario, risultano rafforzati i poteri della Commissione di garanzia,
potenziato ed articolato in modo più compiuto il sistema sanzionatorio ed estesa esplicitamente la regolamentazione in tema di sciopero nei servizi pubblici essenziali alle astensioni dal lavoro poste in essere da lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori. Il criterio cardine su cui si basa la legge 146/1990 è quello del contemperamento fra l’esercizio del diritto di sciopero ed il godimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati; secondo alcuni, questo principio rappresenterebbe anche il fine ultimo perseguito dal legislatore; secondo un’altra opinione il contemperamento non costituirebbe il fine della legge, bensì uno strumento attraverso il quale essa raggiunge il suo reale obbiettivo, che è quello di garantire l’effettivo esercizio dei diritti della persona nel loro contenuto essenziale. Art. 1 comma 1° l. 146/1990 (nozione di servizio pubblico essenziale): “….quelli volti a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà, ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione ed alla libertà di comunicazione”. Al comma 2°, vengono poi elencati quelli che, in relazione ai vari diritti, debbono essere ritenuti servizi pubblici essenziali, previa definizione basata sulla lista tassativa dei diritti soddisfatti, e da una successiva elencazione esemplificativa dei servizi medesimi; di conseguenza, non vi possono essere servizi essenziali volti al godimento dei diritti che non siano menzionati nella lista (dei diritti); ma ce ne possono essere che non siano ricompresi nell’elencazione (dei servizi). Vi è solo un dato oggettivo che qualifica un servizio come essenziale: l’imprescindibilità del servizio per l’effettività dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. 4. Le regole da rispettare in caso di sciopero. L’individuazione delle prestazioni indispensabili: obblighi da rispettare qualora lo sciopero investa un servizio pubblico essenziale: A) Preavviso non inferiore a 10 giorni (art. 2, cc. 1° e 5°). B) Indicazione, con atto scritto, della durata, delle modalità di attuazione e delle motivazioni dello sciopero (art. 2, c. 1°). C) Misure dirette a consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili per garantire le finalità di cui al c. 2° dell’art. 1. La l. 146/1990 individua nei “soggetti che proclamano lo sciopero” chi è obbligato ai suddetti adempimenti. Né il preavviso né l’indicazione della durata sono richiesti “nei casi di astensione dal lavoro in difesa dell’ordine costituzionale, o di protesta per gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori”. Per quanto riguarda la revoca dello sciopero, in linea con un orientamento della Commissione di Garanzia, è previsto che essa, qualora sorga spontaneamente dopo che sia stata data informazione all’utenza circa lo sciopero proclamato, costituisce forma sleale di azione sindacale, e che di conseguenza venga valutata dalla Commissione di garanzia ai fini dell’applicazione delle sanzioni collettive. Non
costituisce peraltro revoca spontanea, quindi ingiustificata, quella effettuata per intervenuto accordo fra le parti o a seguito di richiesta della Commissione di garanzia e dell’autorità competente ad emanare l’ordinanza di precettazione. Non sono leciti scioperi ad oltranza, in virtù dell’obbligo di indicazione della durata: anzi, le amministrazioni e le imprese devono informare gli utenti delle “misure per la riattivazione dei servizi”, con l’ulteriore obbligo di “garantire la pronta riattivazione del servizio quando l’astensione dal lavoro sia terminata”. Intervalli soggettivi: divieti di reiterazione dello sciopero da parte delle associazioni che già vi abbiano fatto ricorso. Intervalli oggettivi: tesi ad impedire il ripetersi di scioperi in un certo ambito o settore, a prescindere dal soggetto proclamante. Inoltre, ai sensi dell’art. 2, c. 2°, i contratti e gli accordi collettivi ed i regolamenti di servizio devono indicare “intervalli minimi da osservare tra l’effettuazione di uno sciopero e la proclamazione di un altro”; procedure di raffreddamento e di conciliazione, previste dai contratti o dai regolamenti di servizio, sono obbligatorie per entrambe le parti e vanno esperite prima della proclamazione dello sciopero. L’obbligo di assicurare le prestazioni indispensabili grava sia sulle imprese e amministrazioni che erogano il servizio, sia sulle organizzazioni sindacali, sia sui lavoratori. L’art. 2, c. 2° l. 146/1990 si limita a prevedere che (le parti) possono disporre l’astensione dallo sciopero di quote strettamente necessarie di lavoratori tenuti alle prestazioni ed indicare, in tal caso, le modalità per l’individuazione dei lavoratori interessati, ovvero possono disporre forme di erogazione periodica; in questo senso l’art. 2, c. 2° fa luce sulla distinzione fra due grandi famiglie di servizi pubblici essenziali: i servizi che esigono che certe prestazioni siano comunque continuate rispettando certi standard di funzionamento, ed i servizi che richiedono che certe prestazioni siano erogate con intervalli periodici. 5. La Commissione di garanzia: l’art. 12 l. n° 146/1990 assegna ai Presidenti delle due Camere il compito di designare i nove membri che andranno a costituire la Commissione di garanzia, scegliendoli fra “esperti in materia di diritto costituzionale, di diritto del lavoro e di relazioni industriali”. La Commissione di garanzia è investita di una pluralità di compiti – potenziati con le modifiche introdotte dalla l. n° 83/2000 – che attengono così alla fase di fissazione delle regole generali che le parti devono rispettare in caso di sciopero, della loro interpretazione o consultazione (poteri consultivi). Accanto a questi poteri consultivi le sono attribuiti poteri compositivi e poteri conformativi, riferiti al singolo conflitto, spesso accompagnati da poteri di accertamento, poteri sanzionatori e poteri di impulso della procedura di precettazione. 1) La Commissione è investita della competenza a valutare i contratti e gli accordi raggiunti dalle parti per verificarne l’idoneità rispetto agli obbiettivi perseguiti dal legislatore.
2) Qualora non valuti idonei i contratti o gli accordi, sulla base di specifica motivazione, la Commissione sottopone alle parti una proposta sull’insieme delle prestazioni, procedure e misure da considerare indispensabili; le parti devono pronunciarsi entro 15 giorni dalla notifica. Se non si pronunciano, verificata nei 20 giorni successivi l’indisponibilità delle parti a raggiungere un accordo, la Commissione formula una provvisoria regolamentazione delle prestazioni indispensabili, delle procedure di raffreddamento e di conciliazione e delle altre misure, fino al raggiungimento di un accordo valutato idoneo, per le parti, per il giudice ed anche, salvi gli adattamenti richiesti dalla situazione specifica, per l’autorità precettante. 3) Altra attività della commissione è quella di promozione degli accordi. 4) Alla Commissione sono riconosciuti poteri consultivi (pareri su questioni interpretative o applicative degli accordi). 5) Lodo sul merito della controversia, che può essere emanato solo su richiesta congiunta delle parti. 6) In caso di dissenso tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori su clausole specifiche concernenti l’individuazione o le modalità di effettuazione delle prestazioni indispensabili, che comunque valuti idonee, può indire una consultazione (referendum), di propria iniziativa o su richiesta delle organizzazioni che hanno preso parte alla trattativa o di un numero rilevante di lavoratori interessati. 7) Alla C. spettano pure poteri conformativi, spesso accompagnati da poteri istruttori o di accertamento. 8) La C. è titolare di poteri sanzionatori, cui si accompagnano specifici poteri di accertamento. 9) Ha poteri di impulso in materia di precettazione. 6. Le sanzioni: la l. n° 146/1990 opera una radicale depenalizzazione, coll’abrogare quegli artt. 330 e 333 cod. pen., che avevano costituito la materia prima per l’elaborazione di tutta la giurisprudenza costituzionale in tema di sciopero nei servizi pubblici essenziali (art. 11). Ai sensi della nuova legge, i lavoratori che si astengono dal lavoro senza rispettare gli obblighi direttamente sanciti dalla legge o, richiesti della effettuazione delle prestazioni indispensabili, non prestino la loro consueta attività sono esposti a sanzioni disciplinari: sanzioni “proporzionate alla gravità dell’inflazione, con esclusione delle misure estintive del rapporto e di quelle che comportino mutamenti definitivi dello stesso” (art. 4 c. 1°). La loro applicazione spetta al datore di lavoro. A questo proposito, esistono due interpretazione degli artt. 4 e 13: A) Secondo la prima interpr., è compito esclusivo della Commissione di garanzia valutare i comportamenti anche dei singoli lavoratori (oltre che dei soggetti collettivi e dei responsabili delle amministrazioni e imprese) e di decidere la comminazione delle sanzioni, senza margini di autonomia per il datore, che dovrebbe limitarsi ad applicarle pena l’irrogazione a suo carico di sanzioni amministrative. B) Una seconda corrente di pensiero ritiene che la Commissione, valutati negativamente i comportamenti dei soggetti collettivi e delle amministrazioni o imprese, si limiti a prescrivere al
datore di lavoro di aprire a sua volta il procedimento disciplinare nei confronti dei lavoratori che abbiano eventualmente realizzato comportamenti devianti; ma il datore rimane libero in concreto, e nel rispetto del principio del contraddittorio posto dall’art. 7 St. lav., di sanzionare o meno i propri lavoratori. Inoltre la Commissione riveste un ruolo di primo piano con riguardo alle sanzioni a carico dei responsabili degli enti gestori e delle organizzazioni sindacali; per quanto riguarda i primi, sono previste sanzioni amministrative pecuniarie, tenuto conto della gravità della violazione, dell’eventuale recidiva, del pregiudizio arrecato agli utenti. Per quanto riguarda invece le organizzazioni sindacali che violino le prescrizioni dell’art. 2 (preavviso, indicazione durata, ecc….), è prevista la sanzione della sospensione dei permessi sindacali retribuiti, e in alternativa quella dei contributi sindacali; inoltre le stesse organizzazioni possono essere escluse dalle trattative alle quali eventualmente partecipino per un periodo di due mesi dalla cessazione del comportamento. In seguito alle modifiche introdotte dalla l. 83/2000, è stata considerata l’ipotesi in cui la violazione sia perpetrata da un soggetto collettivo che non sia titolare dei diritti su cui incidono le sanzioni in parola, oppure non partecipi al tavolo contrattuale; in questo caso ricorre la sanzione amministrativa pecuniaria sostitutiva. 7. La precettazione speciale: la c.d. “precettazione speciale” può intervenire quando sussista “il fondato pericolo di un pregiudizio grave ed imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati, che potrebbe essere cagionato dall’interruzione o dalla alterazione del funzionamento dei servizi pubblici di cui all’art. 1. E’ necessario, dunque, un fondato pericolo di un pregiudizio grave ed imminente ai diritti della persona indicati nell’art. 1; è comunque sufficiente che il pregiudizio sia potenziale: tocca all’autorità competente effettuare una valutazione di probabilità e potenzialità dell’evento dannoso. Legittimato a precettare è il Presidente del Consiglio dei Ministri o un Ministro da lui delegato, se il conflitto ha rilevanza nazionale o interregionale, e negli altri casi il Prefetto. Oltre al potere d’impulso, alla Commissione è riconosciuto anche un potere propositivo. Il procedimento vede i Presidenti delle regioni invitare le parti a desistere dal comportamento, nell’esperimento di un tentativo di conciliazione da esaurire nel più breve tempo possibile, quindi, in caso di esito negativo, si conclude con l’ordinanza di precettazione, che deve essere adottata di norma 48 ore prima dell’inizio dello sciopero e deve specificare il periodo di tempo durante il quale le misure in essa contenute devono essere rispettate. L’ordinanza ha natura bidirezionale, poiché vincola sia gli enti gestori, sia i lavoratori. Il mancato rispetto dell’ordinanza di precettazione importa l’applicazione di sanzioni amministrative, di carattere pecuniario per i lavoratori e le organizzazioni sindacali, alla sospensione dell’incarico per i preposti al settore nell’ambito delle amministrazioni, degli enti e delle imprese erogatrici del servizio; i soggetti interessati possono promuovere ricorso contro l’ordinanza.
8. Le astensioni collettive dei lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori: la l. n° 83/2000 ha introdotto numerose novità nella disciplina dello sciopero, e tra queste l’estensione dei principi che regolano l’esercizio del diritto di sciopero alle astensioni collettive dal lavoro di lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori, che incidano sulla funzionalità dei servizi pubblici; si tratta di una grossa novità perché la l. n° 146/1990, nella sua originaria formulazione, era pensata e strutturata con riferimento unicamente allo sciopero dei lavoratori subordinati ed era difficilmente adattabile in via interpretativa ad astensioni dal lavoro di diversa natura. Non si tratta però di sciopero, bensì dell’esercizio di un diritto di libertà, riconducibile ad altre norme costituzionali, in particolare al diritto di associazione di cui all’art. 18 Cost. . Anche in questo caso vanno rispettate le regole poste dall’art. 2 l. 146/1990 (obbligo di preavviso, indicazione durata, ecc….); diversa è la fonte deputata all’individuazione di queste ultime: non un contratto collettivo, un codice di autoregolamentazione, che devono in ogni caso prevedere un termine di preavviso non inferiore a 10 giorni, l’indicazione della durata e delle motivazioni dell’astensione collettiva ed assicurare un livello di prestazioni compatibile con le finalità di garanzia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati di cui all’art. 1.