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PARTE GENERALE Nozioni preliminari La giurisdizione La giurisdizione in generale L’attività dello Stato si suole riassumere in tre funzioni fondamentali: legislazione, giurisdizione, amministrazione. La funzione giurisdizionale rappresenta il necessario complemento della funzione legislativa, allo stesso modo che la sanzione è il necessario complemento del precetto.
Principi costituzionali in tema di giurisdizione* La prima fondamentale norma che si interessa di giurisdizione è l’art. 24 della Costituzione. Questo articolo si struttura in quattro diverse proposizioni: 1. Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi: quindi dove vi sia una situazione sostanziale vi deve essere una tutela giurisdizionale; 2. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento: il diritto di difesa assicura alle parti la possibilità di influire con la propria attività sul contenuto della decisione; 3. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione; 4. La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari. Altri principi costituzionali di interesse sono: 101. - La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge. 102. - La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario. Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali. Possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura. La legge regola i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo all'amministrazione della giustizia. 103. - Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della Pubblica Amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi. 111. - Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra. Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione. 112. - Il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale. 113. - Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti. La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa.
La giurisdizione civile Le norme giuridiche pongono comandi e divieti, ma attribuiscono anche diritti e facoltà. La giurisdizione civile tende ad assicurare la tutela dei diritti soggettivi garantiti dalla norma giuridica. La giurisdizione civile tende a riparare le conseguenze della trasgressione operando in modo da raggiungere l’effetto pratico previsto dalla norma stessa, a malgrado della contraria volontà o dell’inerzia dell’obbligato.
Cognizione ed esecuzione L’attività del giudice diretta all’applicazione delle norme giuridiche al caso particolare, rappresenta la fase di “cognizione”. Tuttavia per assicurare la tutela giurisdizionale del diritto spesso non è sufficiente la sola applicazione della legge al caso particolare, ma può essere necessaria una fase ulteriore per eseguire il comando contenuto nella sentenza. Questa fase si chiama “esecuzione”.
Forme della tutela giurisdizionale in sede di cognizione Si distinguono diverse forme tipiche di tutela giurisdizionale in base alla sentenza che viene pronunciata: 1
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a)
dichiarativa o di accertamento, se il giudice si limita ad accertare una determinata situazione e a dichiarare l’esistenza del diritto soggettivo; b) costitutiva, se il giudice modifica la situazione giuridica preesistente; c) di condanna, se il giudice oltre ad accertare l’esistenza di un obbligo ne accerta anche l’inadempimento e autorizza quindi il compimento di quelle attività esecutive che sono necessarie per dare coattivamente soddisfazione al diritto.
Il giudizio di equità Il compito del giudice consiste nell’applicare ai casi singoli le norme generali della legge. Questo principio trova comunque nella stessa legge un’eccezione. Talora la norma attribuisce al giudice il potere di dettare o integrare la regola particolare per il caso singolo, secondo un criterio di opportunità. Si dice allora che il giudice “decida secondo equità”.
La tutela giurisdizionale nella fase di esecuzione Nella fase di esecuzione si deve svolgere un’attività meramente pratica, tesa al soddisfacimento coattivo del diritto del creditore. La giurisdizione deve quindi garantire che tale procedura avvenga nel rispetto della legge e offrire al debitore la possibilità di contestare la stessa esecuzione.
La giurisdizione volontaria Talvolta l’intervento del giudice è richiesto dall’ordinamento per costituire rapporti giuridici e non per accertare l’esistenza di un diritto. Ciò al fine di garantire particolari situazioni dove vari interessi pubblici possono essere in gioco (es. autorizzare i contratti degli incapaci, iscrizione delle S.p.A. nell’apposito registro ecc.)
L’azione L’azione civile L’azione costituisce un diritto civico a fruire di una pubblica funzione. In altre parole è la facoltà di un soggetto di richiedere l’intervento dell’organo giurisdizionale per la tutela di un proprio diritto.
I requisiti dell’azione Il titolo e l’interesse ad agire costituiscono gli elementi dell’azione. Occorre inoltre che il soggetto che propone la domanda sia a ciò legittimato.
L’eccezione L’eccezione è il potere del convenuto di dedurre circostanze che escludono l’efficacia del titolo sul quale è fondata l’azione.
Il processo Il processo Affinché dalla proposizione della domanda si possa giungere alla sentenza o al provvedimento, deve normalmente intervenire una serie ordinata di atti, appunto il processo. La proposizione della domanda apre il processo e fa sorgere nel giudice il dovere di pronunciare, ma non è sempre sufficiente a provocare una pronuncia che decida la controversia, mediante l’accoglimento o la reiezione della domanda stessa. Perché tale risultato sia raggiungibile occorrono altre condizioni (presupposti processuali): la domanda deve essere rivolta al giudice competente da un soggetto capace, dev’essere seguita dalla necessaria attività processuale e questa deve essere valida.
Il processo come rapporto giuridico. Il giudice e le parti operano nel processo al fine di giungere a un determinato risultato giuridico, che è rappresentato dal risultato conclusivo. L’attività dei vari soggetti del processo è coordinata dalla legge per il raggiungimento di questo risultato finale. In tal modo è posta una relazione giuridica fra i soggetti del processo; e questo si configura, nel suo complesso, come un rapporto giuridico. Il potere dovere del giudice di decidere la causa, di dare il provvedimento, deve essere concepito come un dovere inerente all’ufficio suo e non come un obbligo verso le parti. E così il potere delle parti di promuovere il processo e di agire per il suo svolgimento si deve concepire come il diritto a fruire di una pubblica funzione. Il rapporto giuridico processuale ha quindi carattere essenzialmente pubblico, come la funzione giurisdizionale di cui è esplicazione, e pubblici sono i diritti e i poteri che si esercitano nel processo.
Caratteri del processo civile. L’iniziativa della parte. Il principio dispositivo. Il contraddittorio Il potere della farsi di promuovere il processo, mediante la proposizione della domanda, costituisce uno degli aspetti differenziali più marcati fra il processo civile quello penale e la differenza deriva dalla diversa finalità delle due giurisdizioni. 2
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L’interesse pubblico alla repressione dei reati esige che ogni qualvolta viene commesso un reato sia provveduto, affinché sia applicata la sanzione e a tal fine un organo apposito dello Stato, il pubblico ministero, deve promuovere l’azione penale, anche se la persona offesa dal reato non si duole. Nel processo civile, per contro, vige il principio della domanda di parte che è sancito dall’articolo 2907 del codice civile e ribadito dall’articolo 99 del codice procedura civile. Il giudice può provvedere solo su domanda della parte interessata salvo nelle rare ipotesi tassativamente previste dalla legge, nelle quali l’azione civile può essere promossa dal pubblico ministero. Al potere di porre la domanda è complementare, come si è accennato, il potere di fornire la prova dei fatti che stanno a fondamento della domanda e per il convenuto il potere di provare i fatti che stanno a fondamento dell’eccezione. La legge vieta al Giudice di ritenere i fatti non provati e, salvo rare eccezioni, anche di esperire indagini d’ufficio, e riserva alla parte il potere di iniziativa nella raccolta del materiale probatorio. Questo uno dei principi fondamentali più caratteristici del processo civile: il principio dispositivo. Un altro principio fondamentale del processo civile è il principio del contraddittorio: il giudice non può di regola statuire sulla domanda dell’attore se non sia stata data dal convenuto la possibilità d’interloquire. In tal modo il convenuto può sempre opporre alle ragioni dell’attore le proprie difese e normalmente anche le eccezioni di cui dispone, salvo che qualche norma particolare non gli imponga di differire talune eccezioni o di proporle in altra sede.
Il diritto processuale civile Il complesso delle norme, che regolano il processo e che sono contenute in massima parte nel codice di procedura civile, costituisce il diritto processuale civile. La legge processuale regola la forma e il tempo degli atti del processo e l’ordine in cui quegli atti si debbono compiere; vincola le parti nel loro agire e anche il Giudice nell’esercizio del suo potere dovere, nella formazione dei provvedimenti.
Disposizioni generali La regolare costituzione del giudice* L’organo giudiziario La giurisdizione del giudice ordinario I limiti della giurisdizione I limiti della giurisdizione sono di tre specie. Anzitutto il potere giurisdizionale non può oltrepassare i confini della sovranità statale della quale è un’esplicazione. Un secondo limite è di carattere costituzionale e deriva dal principio della divisione dei poteri. Il terzo limite distingue la giurisdizione dei giudici ordinari da quella dei giudici speciali.
Il limite internazionale La giurisdizione italiana sussiste per le cause nelle quali sono convenuti cittadini italiani. La cittadinanza dell’attore non ha rilevanza: anche lo straniero può sempre adire la giurisdizione italiana. Per contro, l’art. 4 esclude di regola la giurisdizione italiana nelle cause in cui sia convenuto uno straniero. Ma lo stesso articolo stabilisce che anche lo straniero può essere convenuto davanti al giudice italiano, ove concorrono le seguenti situazioni particolari: A) quando lo straniero abbia eletto nel nostro stato residenza o domicilio; ovvero vi abbia nominato un rappresentante autorizzato stare in giudizio; o infine abbia accettato la giurisdizione italiana; B) Nelle controversie relative a beni situati nel territorio dello Stato; C) Nelle controversie relative a obbligazioni sorte o da eseguirsi nello Stato; D) nelle controversie connesse con altre pendenti davanti al giudice italiano oppure relative a provvedimenti cautelari da eseguirsi nello Stato o a rapporti dei quali il giudice italiano può conoscere; E) infine tutte le volte che nel caso analogo e reciproco il Giudice dello Stato, al quale lo straniero appartiene, può conoscere delle domande proposte contro il cittadino italiano. La giurisdizione italiana non può essere derogata per volontà delle parti favore di una giurisdizione straniera o di arbitri che pronuncino all’estero.
Il limite costituzionale nei confronti del potere legislativo Il comando del giudice deve sempre avere la sua premessa in quello del legislatore e questo collegamento logico deve essere espresso nella motivazione; onde la costituzione stabilisce che tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati. Tuttavia il Giudice, prima di applicare la legge, deve accertarsi della sua validità e a tal fine deve esercitare un certo sindacato sulla legge. La questione di legittimità costituzionale sorge nel corso di un giudizio, quando il giudice ritiene che la legge di cui dovrebbe fare applicazione sia incostituzionale, ovvero quando una delle parti eccepisce la incostituzionalità della legge. La semplice eccezione di incostituzionalità della legge sollevata da una parte non spoglia senz’altro il Giudice del potere di conoscere la 3
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causa, perché il giudice deve rimettere il giudizio sulla questione alla corte, soltanto ove ritenga l’eccezione non manifestamente infondata.
Il limite costituzionale nei confronti del potere esecutivo Il giudice civile può conoscere le controversie che abbiano per oggetto atti amministrativi: ma il suo potere subisce in queste controversie alcune restrizioni. Il giudice, al quale sia chiesta l’applicazione di un atto amministrativo ha, deve preliminarmente accertare la legittimità di esso; e se riconosce che l’atto amministrativo è illegittimo deve non applicarlo.
La giurisdizione ordinaria e le giurisdizioni speciali Il nostro ordinamento distingue fra giurisdizione ordinaria e giurisdizione speciale: fanno parte della prima la giurisdizioni civile e quella penale; sono invece giurisdizioni speciali quella amministrativa e quelle con il potere di giudicare in particolari materie (TAR, Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Tribunali Militari).
La competenza I criteri per determinare la competenza La competenza costituisce la sfera di potere giurisdizionale attribuita a ciascun organo giudiziario in particolare. Il codice stabilisce diversi criteri che portano all’individuazione del giudice competente. In primo luogo si deve stabilire quale dei tre tipi di organi giudiziari, istituiti dal nostro ordinamento - il giudice di pace, il pretore e il tribunale - debba essere assegnata la causa: e questa prima determinazione deve essere fatta secondo i criteri della competenza per materia e per valore. Una volta individuato il tipo di giudice competente, deve essere stabilita la sede dell’organo giudiziario; e questa seconda determinazione deve essere fatta in base al criterio della competenza per territorio. La competenza territoriale a sua volta si suddistingue secondo che possa essere derogata dalla volontà delle parti oppure no. Si deve poi aggiungere la competenza per grado, che regola la ripartizione delle cause fra i diversi giudici nelle successive fasi del giudizio. La determinazione della competenza, stabilita in base ai destini criteri, può essere modificata per effetto della connessione. Ciò avviene quando più cause, che isolatamente considerate sarebbero di competenza di giudici diversi, vengono riunite davanti a un solo Giudice, in considerazione della relazione fra esse esistente, cioè della parziale identità dei loro elementi. Si parla anche, in questo caso, di competenza per connessione.
Competenza per materia e valore in generale Il codice fissa congiuntamente le regole sulla competenza per materia e valore, perché le dette regole sono complementari e concorrono a determinare la distribuzione delle cause fra i tre tipi di giudici di primo grado. Il criterio più generale è quello del valore, cioè della rilevanza economica dell’oggetto della causa. Il criterio della competenza per materia si pone come un motivo di esclusione del criterio del valore o come un correttivo di esso. Per i procedimenti esecutivi il criterio della competenza per materia è esclusivo.
Determinazione del valore Principio fondamentale è che il valore della causa, ai fini della competenza, si determina dalla domanda. La domanda risulta dalla combinazione di due elementi: petitum e causa petendi. Il petitum è il bene, che è oggetto finale della domanda, in relazione alla tutela giurisdizionale richiesta rispetto a quel bene; la causa petendi è la ragione di fatto e di diritto su cui la domanda è fondata, il rapporto giuridico o il fatto costitutivo dalla quale trae origine la domanda. Il principio che la competenza si determina dalla domanda va integrato, avvertendo che la domanda si determina non soltanto in base al petitum, bensì anche in base al titolo controverso e che nella determinazione di questo secondo elemento influisce anche l’eccezione del convenuto. Non influiscono invece sulla determinazione del valore della causa le riduzioni della domanda fatte dall’attore nel corso del giudizio, né tanto meno la riconosciuta infondatezza parziale della domanda, dato che ogni valutazione di merito è successiva alla determinazione della competenza. Più domande proposte contro la stessa persona si sommano e così pure gli interessi scaduti, le spese o i danni anteriori alla proposizione della domanda si sommano col capitale. Si sommano anche le domande fondate sullo stesso titolo giuridico, che siano proposte da più persone o contro più persone. Il codice stabilisce poi una serie di regole particolari per la determinazione del valore. Se la domanda ha per oggetto somme di denaro o cose mobili il valore si determina in base alla domanda dell’attore: e può risultare da essa anche implicitamente, nel senso che si presume, senza bisogno di espressa dichiarazione, che la causa rientri nella competenza del giudice adito. In questo caso, se il convenuto non contesta il valore attribuito dall’attore, la determinazione vale eccezionalmente anche ai fini della decisione di merito. Se invece sorge controversia in proposito, il giudice determina il valore della causa in base alle risultanze degli atti ai soli fini della competenza. Per le cause relative a diritti reali immobiliari il codice stabiliva che la determinazione del valore venisse fatta moltiplicando il tributo diretto per un coefficiente variante secondo la natura del diritto controverso; questo criterio peraltro non è più applicabile dopo che le nuove leggi tributarie hanno abolito le imposte reali sui terreni sui fabbricati e quindi si deve fare riferimento al reddito dominicale del terreno o alla rendita catastale del fabbricato alla data di proposizione della domanda. Il valore del reddito o della rendita deve essere moltiplicato per 200 per le cause relative alla proprietà, per 100 per le cause relative 4
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all’usufrutto, all’uso, all’abitazione o al diritto dell’enfiteuta, per 50 con riferimento al fondo servente per le cause relative alle servitù. Per le cause di regolamenti di confini si fa riferimento al valore della parte di proprietà controversa. Nelle cause di divisione dei beni immobili e mobili, il valore si determina da quello della massa attiva da dividersi. Le cause relative all’esecuzione forzata sono distinte dall’articolo 17 nelle seguenti tre categorie: A) controversie fra debitore e creditore: il valore è determinato dal credito per cui si procede; B) Controversie fra terzi e creditore precedente: il valore si desume dai beni controversi; C) Controversie fra creditori in sede di distribuzione del ricavato: il valore è determinato dal maggiore dei crediti contestati.
Competenza per materia e valore dei diversi giudici I giudici di primo grado sono il giudice di pace, il pretore e il tribunale. I primi due sono giudici singoli, monocratici; il tribunale invece è costituito da un collegio composto di tre magistrati. Il giudice di pace è competente per le cause relative a beni mobili di valore non superiore a cinque milioni, che non siano attribuite per materia ad altri giudici. Il giudice di pace è inoltre competente fino a 30 milioni per le cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e di natanti. Il giudice di pace è competente per materia, senza limite di valore: - per le cause relative ad apposizione di termini e osservanza delle distanze stabilite dalla legge, dai regolamenti o dagli usi riguardo al piantamento degli alberi e delle siepi; - per le cause relative alla misura e alle modalità d’uso dei servizi di condominio di case; - per le cause relative a rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile abitazione in materia di immissioni di fumo o di calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e simili propagazioni che superino la normale tollerabilità. Il pretore è competente per le cause, anche se relative beni immobili, di valore non superiore a 50 milioni che non siano di competenza del giudice di pace. Le controversie individuali di lavoro e le controversie in materia di previdenza di assistenza obbligatorie rientrano ora nella competenza per materia del pretore in funzione di giudice del lavoro. Per ragioni di materia il pretore è ancora competente: - per le azioni possessori, per le denunce di nuova opera e di danno temuto; - Per le cause relative a rapporti di locazione e di comodato di immobili urbani e per quelle di affitto di azienda, in quanto non siano di competenza delle sezioni specializzate agrarie. - il tribunale è competente per tutte le cause che superano la competenza per valore del pretore e che non sono attribuite al pretore o al giudice di pace per ragione di materia. Il tribunale è sempre competente per le cause in materia di imposte e tasse, per quelle relative allo stato e alla capacità delle persone e ai diritti di onorificenza, per la querela di falso e in generale per le cause il cui valore non sia determinabile. La competenza per i procedimenti esecutivi è stabilita dall’articolo 16 col solo criterio della materia. Il pretore è competente per il procedimento di consegna e rilascio, per l’espropriazione forzata di cose mobili e per l’esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare. Il tribunale è competente per la espropriazione forzata di cose immobili.
Competenza per territorio Con denominazione tradizionale il giudice competente per territorio si dice foro. Il codice attribuisce carattere generale al foro del convenuto. Ciò significa che tutte le cause che non siano espressamente attribuite ad un altro foro speciale, sono di competenza del luogo dove il convenuto ha la residenza o il domicilio o, se residenza e domicilio sono sconosciuti, del luogo dove il convenuto dimora. Solo personalmente subentra il foro dell’attore. Il foro generale della persona giuridica è stabilito nel luogo dove l’ente ha la sede o uno stabilimento e un rappresentante autorizzato a stare in giudizio. Le società non aventi personalità giuridica, le associazioni e i comitati hanno sede nel luogo dove svolgono la loro attività in modo continuativo. Il codice stabilisce poi una serie di fori speciali. Questi si dicono esclusivi, quando il convenuto ha facoltà di eccepire l’incompetenza se l’attore non adisce il giudice indicato, e facoltative invece quando l’attore ha facoltà di scegliere fra il giudice indicato e altri fori concorrenti generali o speciali.
Competenze territoriali inderogabili Il codice regola poi alcuni fori speciali inderogabili. Nelle cause, nelle quali è parte un’amministrazione dello stato, è competente il giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’avvocatura dello stato, nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie della competenza per territorio. La competenza territoriale stabilita a favore dello stato è inderogabile e prevale anche sulle altre competenze inderogabili. La competenza per l’esecuzione forzata è stabilita mediante l’applicazione di diversi criteri. Se si tratta di esecuzione forzata su cose mobili o immobili è competente il giudice del luogo in cui le cose si trovano. Se si tratta di espropriazione forzata su crediti è competente il giudice del luogo dove risiede il terzo debitore. Se infine si tratta di obblighi di fare e di non fare è competente il giudice del luogo dove l’obbligo deve essere adempiuto. Per le cause di opposizione all’esecuzione forzata è competente normalmente il giudice del luogo dell’esecuzione e per le cause di opposizione agli atti esecutivi il giudice davanti al quale si svolge l’esecuzione.
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Per i procedimenti cautelari è competente il giudice competente per la causa di merito e se è pendente la causa per il merito è competente il giudice davanti al quale pende questa. Per i procedimenti possessori e per denuncia di nuova opera è inderogabile la competenza indicata nel paragrafo precedente, come si è detto. È inoltre inderogabile la competenza nelle cause in cui deve intervenire il pubblico ministero e nei casi in cui la legge espressamente lo dichiara.
Deroga della competenza territoriale Con esclusione dei casi di competenza inderogabile appena visti, è consentito alle parti di modificare le regole stabilite dalla legge per la competenza territoriale non essendo queste ispirate a una ragione d’interesse pubblico.
Modificazioni della competenza derivanti da litispendenza, continenza e connessione La litispendenza La litispendenza si ha quando due cause identiche nei loro elementi soggettivi e oggettivi sono state proposte davanti a giudici diversi. Si tratta in realtà di una causa sola, che ha dato origine due processi. Per eliminare questa sconveniente duplicità è necessario far cessare uno dei due processi e precisamente quello iniziato dopo, che non aveva ragione di sorgere. Per sapere quale dei due processi è iniziato dopo occorre guardare alla data della notificazione della citazione.
La continenza La continenza è il rapporto che intercede fra due cause, delle quali una ha un petitum più ampio, ma contiene in sé tutti gli elementi dell’altra. Es. c’è continenza fra un processo in cui è chiesto il mero accertamento della proprietà di un bene e in un altro in cui si agisce in rivendicazione per lo stesso bene; c’è continenza fra un processo in cui è chiesta la risoluzione del contratto e quello in cui è chiesta anche la condanna al risarcimento del danno. Anche in questo caso uno dei due processi va chiuso: prosegue il giudice adito per primo a condizione che sia competente anche per la causa pendente di fronte all’altro giudice; in caso contrario prosegue l’altro giudice. Naturalmente la causa del processo che si estingue deve essere trasferita nell’altro processo.
La connessione La connessione si ha quando più cause hanno in comune alcuni elementi. La connessione meramente soggettiva non produce spostamento di competenza; le cause possono essere riunite soltanto quando appartengono alla competenza dello stesso Giudice. Invece la connessione oggettiva, cioè la parziale comunanza delle domande, produce lo spostamento della competenza territoriale inderogabile prevista dagli articoli 18 e 19, cioè del foro personale del convenuto. Il legislatore favorisce la riunione delle cause connesse per garantire l’uniformità delle decisioni, e anzi la riunione può divenire una esigenza assoluta, come nel caso di interdipendenza logica dei giudizi.
L’accessorietà L’accessorietà è il rapporto logico giuridico che intercede fra due cause connesse soggettivamente e oggettivamente, una delle quali (accessoria) è subordinata all’altra (principale), nel senso che la decisione della domanda accessoria presuppone necessariamente la decisione della principale. L’accessorietà è molto simile alla continenza, dalla quale si distingue perché la causa accessoria include anche elementi autonomi e non è quindi interamente contenuta nella causa principale.
La garanzia Sotto l’aspetto processuale la causa di garanzia è connessa oggettivamente e subordinata alla causa in cui si innesta; ma sotto l’aspetto soggettivo la connessione è soltanto parziale, perché le due cause hanno un solo soggetto comune (il convenuto della causa principale è attore nella causa di garanzia). Quando sussista la detta specifica connessione oggettiva il giudice adito rimane competente a giudicare la causa di garanzia, che il convenuto proponga nello stesso processo, anche se eccede il limite della sua competenza per valore.
La pregiudizialità La pregiudizialità consiste nel rapporto logico che intercorre tra la causa ed alcune questioni che debbono essere preventivamente risolte dal giudice per giungere alla decisione finale.
La compensazione Alla pretesa di credito dell’attore il convenuto può opporre la compensazione, dando origine a una causa per l’accertamento incidentale del credito opposto in compensazione. Vale in questo caso la regola del caso precedente: se il giudice adito è competente per materia e valore a giudicare anche sulla seconda causa (relativa alla compensazione) giudica su entrambe; in caso contrario la causa sulla compensazione attrae la causa principale nel foro per essa competente. 6
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La riconvenzione Il convenuto può trarre occasione dal processo instaurato nei suoi confronti, per proporre una domanda riconvenzionale nei confronti dell’attore. In questo caso il convenuto amplia il tema della lite non al solo fine di paralizzare la pretesa dell’attore, ma alla fine di far valere una propria pretesa, esercita cioè una propria azione in contrasto con quella del convenuto. La domanda riconvenzionale è ammessa solo quando dipende dallo stesso titolo dedotto in giudizio dall’attore ovvero dal titolo che il convenuto medesimo abbia dedotto a fondamento dell’eccezione.
Difetto di giurisdizione e incompetenza Il difetto di giurisdizione L’articolo 37 stabilisce il principio generale secondo il quale le parti possono eccepire in ogni fase del giudizio, fino in cassazione, e in ogni stato del procedimento, fino al dibattimento finale, il difetto di giurisdizione; qualora le parti non eccepiscano quel difetto, il giudice ha il dovere di rilevarlo d’ufficio e di dichiarare lo con sentenza.
L’incompetenza L’incompetenza per materia, quella per valore e il difetto di competenza territoriale inderogabile debbono essere dichiarati d’ufficio e possono quindi essere recepiti non oltre la prima udienza di trattazione.
Regolamento di giurisdizione e regolamento di competenza Il regolamento di giurisdizione Il regolamento di giurisdizione può essere chiesto in via preventiva da ciascuna delle parti prima che il giudice adito abbia deciso nel merito la causa in primo grado: e quindi prima che sia stata pronunciata una sentenza ovvero dopo che sia stata pronunciata una sentenza sulla sola giurisdizione o sulla competenza o comunque su una questione meramente processuale. L’istanza viene proposta con ricorso alle sezioni unite della Cassazione e apre un procedimento incidentale per la risoluzione della sola questione di giurisdizione. Quando sia proposto il regolamento preventivo, il giudice deve normalmente disporre con ordinanza la sospensione del processo in attesa della sentenza delle sezioni unite. Tuttavia la sospensione non è necessaria allorché il giudice ritiene l’istanza manifestamente inammissibile. Una facoltà del tutto speciale di chiedere il regolamento di giurisdizione spetta al prefetto qualora ritenga che l’autorità giudiziaria abbia invaso la competenza della pubblica amministrazione. In tal modo l’amministrazione solleva il conflitto di attribuzione.
Il regolamento di competenza Il regolamento di competenza, a differenza del regolamento di giurisdizione, presuppone che sia stata pronunciata una sentenza sulla competenza e ha la forma di un mezzo di impugnazione. Il regolamento di competenza si dice necessario quando è l’unico rimedio che si può sperimentare contro la sentenza con esclusione degli altri mezzi di impugnazione. Invece il regolamento è facoltativo quando la sentenza abbia deciso, oltre la questione di competenza, il merito della causa; in questo caso la sentenza può essere impugnato con il regolamento, limitatamente alla sola questione di competenza, ovvero può essere impugnato integralmente con il gravare ordinario. Infine il regolamento deve essere chiesto dal giudice, anche se le parti non ne fanno domanda, nel caso di conflitto di competenza. L’istanza di regolamento di competenza si propone con speciale ricorso alla corte di cassazione nel termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione della sentenza e viene trattata con un procedimento di forme più semplici dell’ordinario procedimento in cassazione. La proposizione del regolamento sospende il procedimento e i termini per le impugnazioni. Il regolamento di competenza non si può proporre avverso le sentenze del giudice di pace.
Guarentigie e doveri del giudice. Astensione, ricusazione, responsabilità Le guarentigie La costituzione e le leggi sull’ordinamento giudiziario pongono una serie di guarentigie, per salvaguardare la magistratura da influenze o ingerenze degli altri poteri dello stato e in particolare del potere esecutivo. La costituzione afferma che la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere. Suprema espressione di questa indipendenza organica è il consiglio superiore della magistratura. Il consiglio, che per la sua composizione offre le maggiori garanzie di autonomia rispetto agli organi del potere esecutivo, è competente a provvedere sulle assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati. Inoltre i giudici sono sottratti al vincolo di subordinazione gerarchica nell’esercizio della loro funzione. Il superiore gerarchico deve naturalmente vigilare sul diligente adempimento da parte del giudice dei compiti a lui affidati, ma non può interferire nelle decisioni, né dare ordini circa il contenuto dei provvedimenti che il giudice deve adottare. Le sentenze ed i provvedimenti del giudice non possono essere ripetute dai superiori, se non in sede di giudizio sulle impugnazioni che vengano proposte. 7
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Astensione e ricusazione Il giudice deve essere imparziale, vale a dire indifferente di fronte alle parti in lite. Da questa esigenza d’imparzialità discende il dovere del giudice di astenersi dal giudicare quando abbia un interesse personale anche indiretto nella causa, ovvero si trovi in una di quelle situazioni particolari, tassativamente prevedute dalla legge, nelle quali si presume che egli non possa essere imparziale e sereno. Queste situazioni si identificano in relazioni speciali del Giudice con le parti in causa o con l’oggetto della causa. Se il giudice non osserva il dovere di astenersi, nei casi in cui l’astensione è obbligatoria, ciascuna delle parti può proporre istanza di ricusazione. L’istanza è proposta dalla parte o dal difensore nella forma del ricorso, contenente la specifica indicazione dei motivi e dei mezzi di prova. Il ricorso deve essere presentato prima della trattazione della causa; la sua presentazione sospende il processo. La pronuncia sulla ricusazione viene data nella forma dell’ordinanza non impugnabile. Quando viene accolta l’istanza di ricusazione, l’ordinanza deve contenere la designazione del giudice che dovrà sostituire il ricusato.
La responsabilità Il giudice è responsabile per danni cagionati nell’esercizio delle sue funzioni per colpa grave e il danneggiato può rivolgersi allo stato per ottenere il risarcimento. Lo stato, che abbia risarcito il danneggiato, può agire con giudizio di rivalsa nei confronti del magistrato responsabile.
Cancelliere, ufficiale giudiziario e ausiliari del giudice Il cancelliere Al cancelliere competono attribuzioni accessorie alla funzione del giudice e principalmente spetta a lui provvedere alla documentazione dell’attività giurisdizionale. Il cancelliere redige i processi verbali degli atti del giudice, ai quali deve assistere, certifica l’autenticità delle sentenze e dei provvedimenti, apponendo la sua sottoscrizione dopo quella del giudice, che compie varie altre attività particolari nello svolgimento del processo.
L’ufficiale giudiziario L’ufficiale giudiziario ha importanti funzioni esecutive, inerenti al processo, che adempie con autonomia di poteri e di responsabilità. Basti ricordare che egli provvede alle notificazione degli atti processuali e al compimento di vari atti del processo esecutivo.
Gli ausiliari occasionali Il giudice si trova talora nella necessità si utilizzare l’opera di soggetti estranei all’organo giudiziario. In questi casi il giudice può affidare, con formale provvedimento, a un soggetto idoneo, l’incarico di provvedere a determinati compiti. Le figure più importanti di ausiliari del giudice sono il consulente tecnico e il custode.
Il pubblico ministero Il pubblico ministero nel processo civile Presso le corti e i tribunali è costituito l’ufficio del pubblico ministero. Il pubblico ministero veglia alla osservanza delle leggi, alla pronta regolare amministrazione della giustizia. Il pubblico ministero ha il dovere di astenersi negli stessi casi in cui si deve astenere il giudice, ma non è soggetto alle norme sulla ricusazione; sono inoltre a lui applicabili le norme sulla responsabilità del giudice.
Diverse posizioni processuali del p.m. Il pubblico ministero può promuovere l’azione in veste d’attore nei casi stabiliti dalla legge. Esempi di potere d’iniziativa sono la dichiarazione d’assenza, la dichiarazione di morte presunta, l’impugnazione di matrimonio. L’indicazione dei casi in cui il pubblico ministero può promuovere l’azione è tassativa. Il pubblico ministero ha l’obbligo d’intervenire nel giudizio, oltre che nelle cause che potrebbe egli stesso proporre, nelle cause matrimoniali, comprese quelle di separazione coniugale e di scioglimento del matrimonio, nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone e negli altri casi previsti dalla legge. Il pubblico ministero ha facoltà di intervenire in ogni altra causa, ove lo ravvisi opportuno per la tutela di un interesse pubblico. Per rendere possibile l’intervento del pubblico ministero, nei casi in cui questo intervento è obbligatorio, il giudice deve ordinare che siano a lui comunicati gli atti. In questi casi gli atti processuali compiuti in assenza del pubblico ministero sono nulli; e inoltre il pubblico ministero può impugnare per revocazione la sentenza pronunciata senza che egli sia stato sentito. Il pubblico ministero può dunque assumere nel processo una delle seguenti quattro posizioni: attore, interveniente obbligatorio, interveniente facoltativo, concludente nelle cause in cassazione.
Figura giuridica del p.m. nel processo civile 8
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I poteri del pubblico ministero non si ricollegano ad uno specifico interesse. Si è voluto invero riconoscere nel pubblico ministero il tutore di particolari interessi pubblici amministrativi o morali dello stato. In alcuni casi peraltro l’azione del pubblico ministero è indirizzata a un fine più specifico, vale a dire alla tutela dell’interesse di un soggetto incapace. Il pubblico ministero assume allora la figura del sostituto processuale.
Le parti e i difensori Le parti La parte in senso processuale Sono parti nel processo colui che propone la domanda e colui nei cui confronti la domanda viene proposta. La qualità di parte del processo si acquista col semplice fatto di proporre la domanda o di essere convenuto che però è ben distinta dalle qualità di soggetto dell’azione e di soggetto del rapporto giuridico controverso, le quali derivano da una situazione di diritto sostanziale, che deve essere accertata nel giudizio. La qualità di parte del processo è rilevante, perché la parte risente gli effetti del giudizio ed ha la responsabilità delle spese.
Capacità processuale La capacità di essere parte nel processo spetta a chi abbia la capacità giuridica. Oltre le persone fisiche e giuridiche, possono assumere qualità di parte le associazioni, i comitati, le società commerciali e alcuni patrimoni, ai quali il nostro ordinamento riconosce particolare autonomia, come il fallimento e l’eredità giacente. Ma, come non coloro che hanno capacità giuridica hanno anche la capacità di agire, così non tutti coloro che hanno capacità di essere parte hanno anche la capacità di stare in giudizio, vale a dire di promuovere il processo o di difendersi in esso, di compiere validamente atti processuali: Gli incapaci, ad esempio, debbono stare in giudizio per mezzo del rappresentante; gli emarginati gli inabilitati stanno in giudizio con l’assistenza del curatore. Talora la legge subordina la facoltà di stare in giudizio alla autorizzazione, che viene data in base a una valutazione preventiva e oggettiva della causa da parte di un organo pubblico (es. debbono essere normalmente muniti di autorizzazione i rappresentanti delle persone fisiche incapaci per promuovere cause). La legittimazione processuale delle parti è condizione della validità del contraddittorio e del processo; quindi il difetto di legittimazione processuale può essere sempre rilevato in ogni stato e grado del processo.
Sostituzione processuale La sostituzione costituisce la legittimazione straordinaria attribuita ad un soggetto diverso dal titolare del diritto soggettivo oggetto della causa. Esempio tipico di sostituzione processuale è la surrogazione.
La parti tipiche Il processo presuppone la presenza di almeno due parti, delle quali una, l’attore, assume l’iniziativa col proporre la domanda, l’altra, il convenuto, nei cui confronti la domanda viene proposta, ha la posizione antitetica.
Il litisconsorzio Le due parti contrapposte costituiscono un elemento necessario nella struttura del processo; ma vi possono essere anche altre parti oltre alle due tipiche e necessarie. Si ha allora il litisconsorzio o processo con pluralità di parti. Il litisconsorzio è necessario quando la decisione non può essere pronunciata che in confronto di più parti. Il litisconsorzio facoltativo comprende una pluralità di rapporti sostanziali, una pluralità quindi di cause connesse, che sono riunite in un solo processo per una ragione di economia, anche con spostamento di competenza. Ma appunto perché la riunione non è qui imposta dall’unità del rapporto controverso, ma è determinata da un semplice motivo di convenienza pratica, le cause conservano la loro autonomia e possono essere separate, se tutte le parti lo richiedono o se il giudice ritiene che la riunione importi ritardo o comunque non risponda al fine di economia. Il codice ammette che possano essere riunite più cause anche quando non sono connesse, ma soltanto dipendono da uguali questioni. Il litisconsorzio in questo caso si dice improprio e non può dare luogo a spostamento di competenza.
L’intervento L’intervento si verifica quando in un processo già iniziato accede un soggetto estraneo, diverso dalle parti originarie e cioè un terzo. L’intervento può avvenire per iniziativa dell’interveniente (intervento volontario) ovvero per iniziativa di una delle parti o del giudice (intervento coatto).
L’intervento volontario L’art. 105 regola l’intervento volontario e prevede tre diverse figure: l’intervento principale, quello adesivo autonomo (litisconsortile) e quello adesivo dipendente. L’intervento principale si verifica quando l’interveniente contrasta sia con la l’attore sia con il convenuto rivendicando un diritto proprio. L’intervento litisconsortile si ha quando il terzo entra nel processo affiancandosi ad una delle parti. 9
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Infine l’intervento adesivo si distingue da quello litisconsortile poiché l’interveniente non ha una legittimazione propria ad agire o contraddire ma si giova comunque indirettamente delle sorti favorevoli alla parte cui si affianca.
L’intervento coatto su istanza di parte L’intervento può essere provocato da una delle parti o dal giudice. In entrambi i casi il terzo diviene parte del processo, ma non per sua iniziativa. L’intervento su istanza di parte presuppone che la causa sia comune al terzo o che si faccia valere nei suoi confronti un’azione di garanzia.
L’intervento per ordine del giudice Il giudice può disporre l’intervento quando ritiene che il processo si debba svolgere nei confronti di un terzo, al quale la causa sia comune. Il presupposto è dunque lo stesso di quello dell’intervento coatto a iniziativa di parte: deve sussistere un connessione fra il rapporto controverso e il rapporto di cui il terzo titolare.
Successione nel diritto controverso e successione nel processo La successione nel processo luogo quando la parte viene meno per morte o per altra causa. La legge considera il caso della morte (anche presunta) della persona fisica; della estinzione della persona giuridica; degli altri eventi che producono la trasmissione universale di diritti. La successione a titolo universale produce sempre il trasferimento nel successore della legittimazione attiva o passiva, anche quando il diritto controverso, per il suo carattere personale, si sia estinto con la morte. Nel caso, invece, di trasmissione per atto tra vivi o successione a titolo particolare, il codice stabilisce che la qualità di parte rimane nell’alienante e nel successore universale i quali rimangono in giudizio in qualità di sostituti processuali dell’acquirente e del successore a titolo particolare.
I difensori Figura giuridica del difensore Il processo si svolge attraverso una serie complicata di attività, le quali non possono essere adeguatamente compiute da chi non abbia una coltura tecnica giuridica. Tuttavia l’opera del difensore è imposta essenzialmente per una ragione di interesse pubblico e cioè per assicurare lo svolgimento ordinato e sereno del processo. Per poter adempiere la sua funzione, il difensore deve avere una qualifica adeguata. Davanti al pretore, al tribunale e alla corte d’appello il difensore deve essere una procuratore legalmente esercente; davanti alla corte di cassazione deve essere un avvocato inserito nell’apposito albo. Soltanto dinanzi al giudice di pace non è richiesto un difensore con particolare qualifica. Non è necessario il ministero del difensore, per una ragione di economia, davanti al Giudice di pace nelle cause di valore non superiore a un milione e inoltre quando il giudice autorizza la parte a stare in giudizio di persona, in considerazione della natura ed entità della causa, nelle cause di lavoro e nelle cause di previdenza ed assistenza obbligatorie non eccedenti le lire 250 mila.
La procura alle liti La procura alle liti è l’atto con il quale la parte designa il difensore attribuendogli un potere di rappresentanza. Può essere generale o speciale. È generale quando riguarda tutte le cause del cliente, ovvero le cause relative una determinata gestione o comprese entro una determinata circoscrizione; è invece speciale se riguarda una causa determinata. È necessaria la procura speciale per i giudizi in cassazione e in revocazione. La procura si estingue per revoca della parte o rinuncia del difensore.
I Doveri Dovere di lealtà e probità Le parti e i difensori hanno il dovere di comportarsi in giudizio con probità e lealtà. Il precetto legislativo comporta il divieto di comportamenti sleali nei confronti dell’avversario e altresì del mendacio concordato e del comportamento fraudolento di entrambe le parti per violare la legge.
Responsabilità per le spese e per i danni Le spese. Onere di anticipazione. Obbligo del rimborso L’onere di anticipare la spesa, cioè di pagare nel momento in cui la spesa si rende necessaria, incombe sulla parte che abbia compiuto o richiesto l’atto che ha dato luogo alla spesa. L’obbligo di sopportare in definitiva le spese del giudizio incombe sulla parte soccombente, la quale viene condannata dal giudice a rimborsare al vincitore le spese anticipate. Nel processo esecutivo le spese stanno a carico del debitore.
Responsabilità aggravata e attenuata 10
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La normale responsabilità della parte soccombente può essere aggravata o attenuata dal giudice in considerazione della eventuale mala fede o buona fede.
La condanna alle spese La condanna alle spese deve essere pronunciata dal giudice nella sentenza ovvero nel provvedimento che chiude il processo davanti a lui.
Le cauzioni L’articolo 98 del codice accordava al convenuto la facoltà di chiedere che fosse ordinata all’attore la prestazione di una cauzione per il rimborso delle spese, quando vi fosse fondato timore che l’eventuale condanna potesse rimanere ineseguita. Quando l’istanza veniva accolta, l’attore doveva prestare la cauzione per ottenere la prosecuzione del processo. Peraltro questo istituto è stato dichiarato incostituzionale, perché contrastante con gli articoli 3 e 24 della Costituzione.
Gli atti processuali Caratteri degli atti processuali Gli atti che compongono il processo e si formano nell’ambito di esso costituiscono gli atti processuali. Sono posti in essere dalle parti, dal giudice, dai componenti minori dell’organo giudiziario, dai soggetti occasionali del processo. Gli atti delle parti possono avere contenuto molto vario: istanze rivolte all’organo giudiziario, comunicazioni rivolte alle altre parti, attestazioni di verità. Gli atti del Giudice sono i provvedimenti, dei quali la legge regola particolarmente le figure tipiche più importanti. Più limitate e specifiche sono le categorie degli atti compiuti dagli uffici minori dell’organo giudiziario e dai soggetti occasionali del processo; le certificazioni e le comunicazioni del cancelliere, le modificazioni dell’ufficiale giudiziario ecc.
Principi sulla forma Gli atti, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea allo scopo. Il legislatore ha inteso così esprimere la tendenza alla maggior scioltezza delle forme, che ha ispirato la riforma, ma ha poi lasciato al principio un margine di applicazione ristretto, avendo determinato la forma di tutti gli atti più importanti.
Forma degli atti di parte. La sottoscrizione La sottoscrizione è elemento essenziale, perché da essa si desume la paternità del documento e quindi l’autenticità dell’atto. Tutti gli atti del processo debbono essere sottoscritti dalla parte, se questa sta in giudizio di persona, o dal procuratore, se è costituita per ministero del procuratore.
L’udienza e il verbale Sotto la direzione del giudice, che tiene udienza in giorni ed ore stabiliti e nel luogo a ciò destinato, si svolgono un complesso di attività processuali, essenzialmente orali, che debbono essere documentate nell’apposito verbale. La legge distingue due tipi di udienze: le udienze istruttorie, nelle quali si compiono le attività preparatorie e istruttorie, e l’udienza di discussione della causa. Il verbale documenta gli atti che si compiono oralmente nel processo e particolarmente in udienza, e altresì le attività e i fatti materiali che abbiano rilevanza giuridica. Il verbale è formato e sottoscritto dal cancelliere; il verbale d’udienza è sottoscritto anche dal giudice che presiede l’udienza.
I provvedimenti Il codice determina i caratteri formali di tre provvedimenti fondamentali del giudice. La sentenza il provvedimento più solenne, che contiene la decisione del merito della causa o di una questione pregiudiziale o di rito. Il carattere essenziale della sentenza è costituito dal suo fine decisorio. La sentenza è irrevocabile e suscettibile di passare in giudicato; promana dal collegio, quando il giudice è collegiale. La sentenza è pronunciata in nome del popolo e contiene una parte enunciativa, i cui elementi sono specificati nei primi tre numeri dell’articolo 132, la motivazione, il dispositivo, che esprime l’essenza della decisione, e una parte autenticativa, vale a dire la data e la sottoscrizione del Giudice e del cancelliere. La sentenza viene resa pubblica mediante il deposito in cancelleria, del quale il cancelliere deve dare comunicazione. L’ordinanza ha per normale contenuto provvedimenti ordinatori o istruttori ovvero provvedimenti di esecuzione; può anche contenere la risoluzione di questioni della causa, ma queste risoluzioni non sono mai fine a se stesse, bensì soltanto premesse per l’adozione di provvedimenti. L’ordinanza è il provvedimento tipico dell’istruttore e delle giudice dell’esecuzione. Carattere peculiare dell’ordinanza è la revocabilità. Infatti l’ordinanza, non solo non può mai formare giudicato, ma è normalmente revocabile dal giudice che l’ha emanata. Il decreto è provvedimento per lo più scritto, che viene adottato dal giudice d’ufficio o su istanza della parte. A differenza dell’ordinanza è pronunciato non in contraddittorio e per lo più fuori dell’udienza. Costituiscono figure tipiche di decreto i provvedimenti ordinatori del processo, i provvedimenti cautelari e quelli di volontaria giurisdizione. 11
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Comunicazioni e notificazioni Le comunicazioni sono compiute dal cancelliere di sua iniziativa per dovere d’ufficio, al fine di informare le parti o altri soggetti che si sono verificati determinati fatti rilevanti per il processo e principalmente che sono stati emanati determinati provvedimenti dal giudice; si eseguono mediante biglietto di cancelleria, che deve essere consegnato al destinatario o a lui trasmesso mediante raccomandata o a mezzo dell’ufficiale giudiziario. Le notificazioni invece sono compiute dall’ufficiale giudiziario su istanza di parte o del pubblico ministero o del cancelliere e si eseguono mediante consegna al destinatario di una copia integrale e conforme all’originale. La notificazione, caratterizzata dalla intermediazione dell’ufficiale giudiziario non si esaurisce pertanto in un singolo atto, ma costituisce propriamente un procedimento, che si inizia con l’istanza del soggetto richiedente e si conclude con la consegna dell’atto al destinatario o ad altro consegnatario. La consegna viene giustificata dall’ufficiale giudiziario mediante la relazione di notifica apposta in calce all’originale e alla copia dell’atto notificato; tale certificazione fa fede fino a querela di falso. La notificazione fa sorgere la presunzione legale di conoscenza del provvedimento da parte di chi la riceve. Non sono ammessi equipollenti della notificazione; la conoscenza dell’atto o del provvedimento che l’interessato ricevesse con altro mezzo non potrebbe produrre lo stesso effetto.
I termini La fissazione dei termini rientra nella disciplina del processo e costituisce per le parti, che sono tenute a osservarli, un onere, che può avere diversa intensità. Sotto questo diverso profilo i termini finali si distinguono in perentori o fatali e ordinatori o comminatori. L’inosservanza dei termini perentori produce la decadenza, il che significa che l’attività processuale, per il cui compimento è stabilito il termine, non può più essere compiuta dopo la scadenza e se viene compiuta è priva di efficacia. L’inosservanza dei termini ordinatori non produce la decadenza, o quanto meno non la produce immediatamente, ope legis. Questi termini riguardano varie attività processuali delle parti e anche dell’ufficio, ma in quest’ultimo caso costituiscono soltanto una specificazione del dovere del giudice o del funzionario e la loro inosservanza non ha conseguenze sullo svolgimento del processo. I termini ordinatori possono essere abbreviati o prorogati dal giudice, ma la proroga non può di regola superare la durata del termine originario e non può essere ripetuta se non per motivi particolarmente gravi. I termini perentori non possono essere abbreviati o e neppure prorogati; tuttavia in alcuni casi la legge prevede che la parte possa essere liberata dagli effetti perentori della scadenza, mediante l’istituto della remissione in termini.
Le nullità L’inosservanza delle forme prescritte per il compimento di un atto processuale può avere per conseguenza la nullità dell’atto difettoso. Il codice contiene alcune regole generali sulla nullità derivante dal difetto di forma. Non sono qui presi in considerazione i vizi che potessero derivare da motivi sostanziali, come il difetto di legittimazione o di capacità delle parti; a queste ipotesi dunque non si possono riferire, almeno direttamente, le norme degli articoli 156 e seguenti. In tema di novità, l’articolo 156 pone tre regole: A) la nullità non può essere pronunciata se la legge non la commina espressamente; B) L’atto è nullo se manca dei requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo; C) la nullità in ogni caso si sana se lo scopo è raggiunto. In altre parole l’atto processuale è nullo, per difetto di requisiti formali, quando sia idoneo a conseguire l’effetto, che era per sua natura destinato a produrre, inoltre nei casi in cui la legge commina espressamente la nullità; peraltro la nullità è sanata se l’atto produce egualmente l’effetto suo proprio.
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La cosa giudicata*
IL PROCESSO DI COGNIZIONE1 Il processo di cognizione di primo grado Il processo di cognizione è il mezzo con il quale si impartisce una delle tre forme di tutela giurisdizionale conosciute sia nel nostro ordinamento che negli altri ordinamenti, a noi vicini. Le altre due forme sono quella esecutiva e quella cautelare, che rispondono a esigenze di tutela ovviamente diverse da quelle la cui cerca di rispondere il processo di cognizione. Il processo di primo grado si può suddividere in tre fasi diverse e ben distinte tra di loro e cioè: l’introduzione della causa, la trattazione della causa e la decisione della causa. Fanno parte dell’introduzione della causa quegli atti che servono ad individuare l’oggetto del processo, cioè la situazione sostanziale che dovrà essere autoritativamente dichiarata e il tipo di effetti che si chiedono al Giudice, ossia quale tutela si chiede al Giudice, sempre sul piano del diritto sostanziale cui la attività giurisdizionale è asservita. La fase di trattazione ha la funzione di preparare tutti quegli elementi che servono poi per la decisione: elementi di fatto, elementi di diritto e soprattutto, anche se non è una fase che si presenta in tutti processi, una eventuale attività di istruzione probatoria, che si rende necessaria quando tra le parti vi è controversia circa il modo di essere dei fatti storici. La fase decisoria è quella in cui l’organo giurisdizionale, sulla scorta di tutta l’attività fino ad allora svolta, emette il provvedimento.
La citazione La citazione costituisce l’atto introduttivo del processo di cognizione ordinario. La funzione della domanda è duplice: da un lato, individua l’oggetto del processo, e cioè la situazione sostanziale e la tutela che si richiede al Giudice; dall’altro lato, porta questa richiesta di tutela giurisdizionale a conoscenza quanto meno di altri due soggetti ovvero la controparte, per il rispetto dell’articolo 24 della costituzione (diritto di difesa), e il giudice. Questa fase introduttiva della causa assume una forma diversa a seconda che riguardi il rito ordinario o il processo del lavoro nel quale prende il nome di ricorso. Le differenze intercorrenti tra questi due atti non sono tanto differenze di contenuto quanto il fatto che la citazione viene prima notificata alla controparte e successivamente depositata presso la cancelleria del giudice; il ricorso viene invece prima depositato presso la cancelleria del Giudice e successivamente portato a conoscenza della controparte. Secondo gli articoli 163 e 163 bis gli elementi della citazione sono i seguenti: 1. l’indicazione del giudice alla quale la domanda è rivolta; 2. l’indicazione delle parti; 3. l’indicazione della cosa oggetto della domanda: occorre distinguere il cosiddetto petitum immediato, che è il provvedimento che si chiede al Giudice, dal petitum mediato che è la situazione sostanziale dedotta in giudizio; 4. l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda: vale a dire la causa petendi, la fattispecie costitutiva del diritto (es. rivendicando la proprietà di un bene la causa petendi sarà costituita dal contratto di acquisto, il petitum immediato dal provvedimento di accertamento del diritto, il petitum mediato dal diritto di proprietà sul bene stesso). 1 IL PROCESSO DI COGNIZIONE IN BREVE Il Codice di Procedura Civile regola vari tipi di processo civile, tra i quali il più importante è il processo di cognizione, che ha lo scopo di accertare un diritto controverso. La domanda dell'attore può chiedere al giudice una sentenza che abbia un contenuto di mero accertamento di una situazione, di condanna o di costituzione di una nuova situazione giuridica. Il processo di cognizione inizia con la citazione che l'attore notifica al convenuto, invitandolo a presentarsi davanti al giudice competente per valore (giudice di pace fino a cinque milioni di lire, pretore fino a venti milioni, tribunale oltre venti milioni) o per materia, entro un termine stabilito dalla legge. Tra il giorno della notificazione e quello della prima udienza di comparizione debbono intercorrere almeno 60 giorni e 120 se il luogo della notificazione è all'estero. Costituitesi le parti o almeno una di esse (in tal caso si procede in contumacia nei confronti della parte non presente in giudizio) viene formato il fascicolo di ufficio. Successivamente, la causa viene iscritta a ruolo e assegnata al giudice per la sua istruzione: giudice istruttore scelto dal presidente del tribunale se la competenza spetta al tribunale; lo stesso giudice di pace o pretore se loro è la competenza. La trattazione della causa durante la fase istruttoria è orale, tuttavia il giudice può autorizzare comunicazioni scritte. Nella prima udienza il giudice interroga le parti e se possibile tenta la loro conciliazione; fissa le udienze successive e i termini entro i quali le parti devono compiere gli atti processuali; se ammissibili e rilevanti ammette i mezzi di prova e le prove. Questi sono proposti dalle parti o disposti di ufficio e sono: la consulenza tecnica, la verifica della scrittura privata, la querela di falso, la confessione giudiziale, l'interrogatorio, il giuramento, la testimonianza, l'ispezione, il rendimento dei conti. Esaurita l'istruzione, il giudice invita le parti a formulare interamente le proprie conclusioni e, con sentenza, decide la causa egli stesso salvo nei casi in cui la competenza spetti al tribunale. In tal caso il giudice istruttore decide la causa in funzione di giudice unico o rimette la causa avanti al collegio (costituito da tre giudici: giudice istruttore più altri due giudici) nelle ipotesi previste dalla legge. La sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva ma il giudice di appello (il tribunale per le sentenze del giudice di pace e del pretore e la Corte d'Appello per quelle del tribunale) può sospendere l'efficacia esecutiva quando ricorrono gravi motivi. Nel giudizio d'appello, adito dalla parte soccombente nei termini di legge, sono inammissibili le domande nuove e, salvo eccezioni, i nuovi mezzi di prova. Possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa. Le sentenze pronunciate in grado di appello (che abbiano o meno confermato la sentenza di primo grado) o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione esclusivamente per motivi relativi a una cattiva applicazione delle norme di diritto e nei termini di legge. La sentenza di cassazione può essere pronunciata con o senza rinvio. Nel primo caso la sentenza oggetto del ricorso è cassata e la causa viene attribuita a un giudice di pari grado a quello che ha pronunciato la sentenza stessa affinché la decida. Nel secondo caso può trattarsi di una mera conferma della sentenza impugnata o di una decisione relativa alla giurisdizione o alla competenza. Altri mezzi di impugnazione sono la revocazione e l'opposizione di terzo. La decorrenza dei termini stabiliti dalla legge per proporre impugnazioni definisce l'iter del processo statuendo il cosiddetto passaggio in giudicato della sentenza e quindi la costituzione del titolo per ottenere, nel caso di decisione di condanna o costitutiva, l'adempimento della parte soccombente.
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La causa petendi riveste, all’interno del processo, un ruolo diversificato a seconda che si tratti di diritti autoindividuati o diritti eteroindividuati. I primi sono quelli che non hanno bisogno della causa petendi per essere individuati (i diritti assoluti in genere, i diritti reali, della personalità e anche i diritti personali di godimento, qualora abbiano ad oggetto un bene determinato); i secondi sono quelli che per essere individuati hanno bisogno della fattispecie costituiva poiché al moltiplicarsi delle fattispecie costitutive, si moltiplicano i diritti. La mancanza di causa petendi nei diritti eteroindividuati determina il rigetto della domanda poiché il giudice è impossibilitato a individuare l’oggetto del processo. Nei diritti autoindividuati il giudice benché riesca ad individuare l’oggetto del processo non sarà comunque in grado di accogliere la domanda poiché non può essere dimostrato che il diritto è venuto ad esistenza. Le conclusioni sono la richiesta che le parti fanno al Giudice di emanare un provvedimento con un certo contenuto, sono cioè la richiesta del contenuto da dare al provvedimento del giudice. Tali conclusioni sono importanti perché su di esse si misura la soccombenza della parte, che è la chiave dei mezzi di impugnazione. Per quanto concerne la situazione sostanziale dedotta nel processo non si potrà sostituire al diritto fatto valere, un diritto diverso. Si potrà modificare la domanda proposta, senza però che ciò apporti una alterazione del diritto dedotto nel processo. Anche le conclusioni possono essere modificate, ma con il solito limite che non si modifichi l’oggetto del processo.
Gli effetti sostanziali e processuali della domanda La notificazione della citazione produce degli effetti che sono distinti in tre grandi categorie: 1. Gli effetti meramente procedimentali: ovvero il potere di compiere l’atto immediatamente successivo, cioè il deposito della citazione di fronte al Giudice. Seguono la iscrizione a ruolo, la formazione del fascicolo di ufficio e la nomina del giudice incaricato della trattazione della causa. 2. Gli effetti processuali intesi in senso proprio: la litispendenza, la irretrattabilità della domanda, la perpetuatio iurisdictionis, la possibilità di successione processuale. 3. Gli effetti sostanziali. Questi ultimi si distinguono in due gruppi: in un caso sono il frutto della semplice proposizione della domanda (che si comporta come un qualsiasi atto di diritto sostanziale) – per esempio interrompendo la prescrizione – nell’altro caso presuppongono l’accoglimento della domanda (es. la sospensione della prescrizione o il diverso regime sostanziale riguardante la percezione dei frutti in pendenza di un giudizio di rivendicazione).
Nullità e sanatoria della citazione La citazione ha una doppia funzione: instaurare il contraddittorio (vocatio in ius) e individuare la situazione sostanziale di cui si chiede la tutela (editio actionis). La nullità della citazione ha una disciplina diversa a seconda che i vizi attengono alla vocatio in ius oppure alla editio actionis. Per quanto riguarda la revocazione in ius la nullità della citazione consegue alla omissione o assoluta incertezza relative: A) al giudice adito; B) alle parti del processo (sia in senso processuale che sostanziale); C) alla mancata indicazione della data di udienza; D) all’assegnazione di un termine comparire inferiore al legale; E) al mancato avvertimento di cui al numero 7 dell’articolo 163. Se il convenuto non si costituisce, il giudice deve esaminare la citazione per accertare se essa non sia per caso affetta da alcune delle nullità sopra esaminate. In caso di esito positivo di questa indagine, il giudice deve disporre di ufficio la rinnovazione della citazione in un termine perentorio, indicando ovviamente all’attore l’elemento della vocatio in ius da integrare. Il giudice deve anche fissare la successiva udienza di comparizione. Se l’attore rinnova la citazione nel termine, il vizio si sana con efficacia retroattiva. Se, viceversa, la rinnovazione non viene eseguita, il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo con estinzione immediata del processo, senza l’anno di quiescenza. Se la rinnovazione viene eseguita oltre il termine perentorio oppure non viene eseguita affatto, ma il convenuto si costituisce spontaneamente, si matura ugualmente una fattispecie estintiva, ma l’estinzione dovrà essere eccepita dal convenuto e non sarà rilevabile d’ufficio. Con la costituzione del convenuto si acquisisce la regolare instaurazione del contraddittorio, indispensabile per la pronuncia di merito. Tuttavia la sanatoria del vizio di tale presupposto processuale non significa che l’originaria nullità della citazione divenga del tutto irrilevante. Infatti, la omissione o la incertezza circa uno degli elementi visti sopra, oltre a non consentire una pronuncia di merito, produce altresì la conseguenza di non permettere al convenuto un’adeguata difesa. Conseguentemente il giudice dovrà fissare una nuova udienza di prima comparizione nel rispetto dei termini per consentire al convenuto, che lo richieda, di depositare una comparsa di costituzione ai sensi dell’articolo 167 venti giorni prima dell’udienza fissata. La seconda parte dell’articolo 164 si occupa dei vizi attinenti alla edizione nazioni. Dispone infatti il quarto comma che l’omissione o l’assoluta incertezza del requisito di cui al numero 3 o la mancata esposizione dei fatti di cui al numero 4 dell'articolo 163 determina la nullità della citazione. Al che vi sia nullità della citazione con riferimento alla editio actionis, la sola costituzione del convenuto non è sufficiente a sanare tale nullità. La sanatoria può provenire soltanto da un’attività dell’attore, il quale faccia acquisire al processo l’elemento carente, e cioè integra la propria domanda individuando la situazione sostanziale controversa. La sanatoria conseguente ai vizi della editio actionis non ha efficacia retroattiva: gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono dal momento della rinnovazione della citazione e cioè dal momento della notificazione di tale atto, oppure dal momento della integrazione della domanda, e cioè del deposito, notificazione o scambio della stessa, a seconda dei casi. 14
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Le difese del convenuto Il convenuto si difende attraverso una comparsa di risposta, che è l’atto speculare della citazione, quantunque della citazione non abbia necessariamente contenuti. Se con la comparsa di risposta non si propongono nuove domande, essa costituisce un atto che fa parte della fase di trattazione. Alcune attività (nelle difese, eccezioni in senso lato e prove) possono essere compiute anche nel corso del processo. Invece, il convenuto deve, a pena di decadenza, nell’atto introduttivo, proporre le sue domande, cioè, introdurre in giudizio un diritto diverso di cui egli chiede la tutela. Gli strumenti che sono a disposizione del convenuto sono la domanda riconvenzionale e la chiamata in causa del terzo.
La costituzione in giudizio e la trattazione della causa Successivamente alla notifica della citazione le parti debbono costituirsi in giudizio. I termini sono di 10 giorni per l’attore dalla notificazione dell’atto introduttivo e venti giorni per il convenuto prima dell’udienza di comparizione. Se una delle parti si costituisce nei termini suddetti, l’altra parte può costituirsi all’udienza stessa. Se invece nessuna delle parti si costituisce, il processo entra in uno stato di quiescenza per la durata di un anno. La parte che non si è costituita in giudizio è qualificata come contumace; si applicano quindi le speciali norme del procedimento in contumacia, degli articoli 290 e segg.. Se invece la parte si costituisce, però poi non si fa vedere alle udienze, si ha un fenomeno chiamato assenza che non comporta l’applicazione delle citate norme sulla contumacia. Altra conseguenza della costituzione in giudizio consiste nel fatto che le notificazioni e comunicazioni si fanno al procuratore costituito, per alcune ragioni di più agevole reperibilità. A questo punto segue l’iscrizione a ruolo e la designazione da parte del presidente del tribunale del giudice istruttore. Il giudice istruttore può dilazionare l’udienza di comparizione fissata dall’attore, al fine di poter dedicare a ciascun udienza di prima comparizione il tempo necessario. Qualora all’udienza di prima comparizione non si presentino regolarmente le parti potremo avere due ipotesi: A) nessuno compare di fronte al Giudice: il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo. Tuttavia, tramite un atto di riassunzione, la causa può essere riaperta entro un anno dalla data di cancellazione. B) Compare solo il convenuto: questi può chiedere che si proceda in assenza dell’attore; in tal caso il processo va avanti. Se il convenuto tace, il giudice fissa un’altra udienza che viene comunicata al procuratore dell’attore. Se l’attore è assente anche alla nuova udienza, il giudice cancella la causa dal ruolo, ma qui senza l’anno di quiescenza come nel caso precedente. Il processo si estingue immediatamente. Entriamo adesso nella fase di trattazione della causa. La normativa vigente ha reintrodotto nel nostro ordinamento il principio di eventualità: tale principio consiste nella divisione della fase di trattazione in un primo momento, dedicato all’allegazione dei fatti, ed in un secondo momento, dedicato alla prova di quelli, fra i fatti allegati, che siano controversi. Tuttavia è stata abbandonata la versione rigida del principio di eventualità, propria del diritto del lavoro, separando la fase in cui si acquisiscono al processo i fatti controversi da quella dedicata all’acquisizione delle istanze istruttorie e dei documenti. In secondo luogo, e principalmente, nella prima udienza di trattazione sono possibili acquisizioni ulteriori, rispetto al contenuto degli atti introduttivi. Tali acquisizioni si ricollegano a due diversi fenomeni: A) da un lato abbiamo le nuove acquisizioni che discendono dall’attuazione del contraddittorio, e cioè costituiscono la replica all’esercizio di poteri processuali altrui. B) dall’altro lato abbiamo le nuove acquisizioni che non si ricollegano alla dialettica processuale, e cioè che non dipendono dall’esercizio di poteri processuali altrui, ma che configurano uno “ius poenitendi” della parte. In particolare, per quanto attiene al primo gruppo, avremo: 1. L’attore potrà proporre una domanda di accertamento incidentale o una “reconventio reconventionis” allorché il convenuto abbia contestato l’esistenza del diritto pregiudiziale, o, rispettivamente, abbia introdotto in giudizio, in via di domanda o di eccezione, una situazione sostanziale ulteriore rispetto a quella individuata con la citazione. 2. L’attore potrà chiamare in causa il terzo, indicato dal convenuto come il vero titolare del diritto o dell’obbligo dedotto in giudizio; potrà anche chiamare in garanzia il terzo, quando il convenuto, in via riconvenzionale, chieda l’accertamento di un proprio diritto incompatibile con quello dedotto in giudizio dall’attore e tale quindi che, se fatto valere in via principale, avrebbe consentito la chiamata in garanzia. 3. L’attore potrà poi, di fronte ad una domanda riconvenzionale o di accertamento incidentale, allegare fatti integrativi, modificativi o estintivi del diritto introdotto in tal modo in giudizio. Inoltre, non essendo costituzionalmente lecito precludere i poteri la cui splendida trova la sua ragion d’essere nelle difese della controparte, occorre integrare le lacunose previsioni della norma in esame nella misura che segue: 1. Per quanto riguarda la posizione dell’attore, egli potrà - oltre a proporre domande ed eccezioni - anche più in generale compiere ulteriori allegazione di fatti, quando tali allegazioni costituiscono la replica alle difese del convenuto. 2. Quanto visto finora vale non soltanto per l’attore, ma anche specularmente per il convenuto in ottemperanza del principio del contraddittorio. Il principio del contraddittorio riguarda non soltanto le parti ma anche il giudice il quale deve indicare a queste le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione. L’attiva partecipazione del Giudice al dialettico svolgimento del processo gli impone quindi di indicare alle parti, fin dalla prima udienza, quale sia, a suo avviso, la corretta impostazione in diritto della controversia; e le parti potranno, sulla base di questa indicazione, operare le opportune modifiche alle loro difese, e soprattutto introdurre in giudizio quei fatti, la cui allegazione era stata omessa nell’erroneo convincimento della loro irrilevanza. 15
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Una volta chiusa la fase processuale esaminata, ulteriori allegazioni non sono ammissibili, se non eccezionalmente, nell’ulteriore corso del processo di primo grado. Quando ciò è possibile si deve a due diversi gruppi di ipotesi: da un lato vi sono le sopravvenienze, in fatto o in diritto; dall’altro vi è il mancato funzionamento dei meccanismi di attuazione del contraddittorio. Per quanto riguarda il primo gruppo di casi, si può precisare: 1. Ove, dopo la prima udienza di trattazione, sopravvenga un fatto rilevante per la decisione della causa, non pare dubbio che esso possa essere allegato in causa o fatto oggetto di istruzione probatoria. 2. Lo stesso accade allorché acquisti efficacia, in corso di giudizio, una diversa disciplina normativa, per la quale siano rilevabili fatti ulteriori rispetto a quelli rilevanti per la disciplina previgente. Per quanto riguarda il secondo gruppo di casi, essi si realizzano: 1. Allorché il convenuto solo in corso di causa adempia a quanto prescrive l’articolo 167, che gli impone di prendere posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda; e, inversamente, quando l’attore non ottenga tempestivamente al simmetrico dovere di prendere posizione sui fatti allegati dal convenuto. 2. Analoga è la situazione che si verifica allorché il giudice ometta, in prima udienza, di indicare alle parti questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritenga opportuna la trattazione. Oltre ai casi appena visti non sembra possibile una ulteriore allegazione di fatti nel processo. Nell’ulteriore corso del giudizio resta possibile modificare le conclusioni sono in ordine a quei punti che non presuppongono un’alterazione né del diritto fatto valere né dei fatti allegati. Una volta terminata la fase delle allegazioni il giudice assegna un termine perentorio per le richieste istruttorie e per il deposito di documenti. Dopodiché procede alla valutazione di ammissibilità e rilevanza delle prove richieste, e dispone sulla loro assunzione. Occorre tenere presente che non necessariamente il giudice deve procedere a questa valutazione in un unico momento, ma può benissimo provvedere intanto ad ammettere alcune prove, riservandosi di decidere sulle altre richieste una volta assunte le prove ammesse. Infatti la parte che voglia spendere più mezzi di attacco di difesa deve farli valere, in via alternativa o cumulata, tutti insieme nella fase introduttiva del giudizio.
Attività del giudice istruttore I provvedimenti del giudice istruttore, salvo che la legge disponga diversamente, hanno la forma dell’ordinanza. L’ordinanza è uno dei provvedimenti che può prendere un Giudice assieme al decreto e alla sentenza. Le ordinanze del giudice istruttore se pronunciate in udienza si ritengono conosciute dalle parti presenti e da quelle che dovevano essere presenti. Se invece un’ordinanza è pronunciata fuori udienza essa deve essere portata a conoscenza dei procuratori delle parti costituite. Le ordinanze non possono mai pregiudicare la decisione della causa. Questa è una delle norme chiave dei rapporti di trattazione e decisione, cioè tutte le decisioni del giudice istruttore in sede di trattazione ed istruzione sono rivedibili al momento della fase decisoria. Dato che le ordinanze hanno la funzione di far svolgere il più correttamente possibile la trattazione della causa e sono quindi i provvedimenti con cui il giudice istruttore disciplina l’acquisizione al processo di tutti elementi utili e necessari per la fase decisoria, di per sé come regola generale le ordinanze del giudice istruttore sono modificabili e revocabili, salvo tre eccezioni (art. 177): 1. Le ordinanze pronunciate sull’accordo delle parti, in materia di diritti disponibili. 2. Le ordinanze dichiarate espressamente non impugnabili dalla legge. 3. Le ordinanze per cui la legge disponga uno speciale mezzo di reclamo. Basta quindi che sia previsto in astratto uno speciale mezzo di reclamo perché l’ordinanza non sia più revocabile o modificabile dal giudice istruttore. Le pronunce del giudice istruttore non possono mai pregiudicare la decisione della causa; a loro volta le parti possono riproporre al collegio tutte le questioni su cui il giudice istruttore si è pronunciato con ordinanza revocabile. Mentre tutte le questioni che devono essere decise con sentenza sono riesaminabili nella fase decisoria a prescindere dal fatto che le parti le abbiano riproposte, le questioni che invece non sono da decidere con sentenza potranno essere riaffrontate in sede decisoria solo se saranno riproposte dalle parti. Ciò vale soprattutto per le ordinanze del Giudice sui mezzi di prova. Vediamo ora quali sono gli argomenti che il giudice istruttore deve affrontare nella trattazione, cosa deve fare per preparare il materiale per la decisione. Il primo pregiudiziale controllo che il giudice istruttore deve fare è il controllo sul rito, cioè sulla validità del processo instaurato. Innanzitutto occorre accertarsi che il processo possa giungere ad una sentenza di merito verificando l’eventuale mancanza o vizi di un presupposto processuale. Qualora il giudice rilevi che il vizio è sanabile allora darà disposizione alle parti per la sanatoria del presupposto processuale; se tale attività idonea a sanare il vizio viene compiuta, si può giungere ad una pronuncia di merito. Se il vizio è insanabile oppure, benché sanabile, non è stata posta in essere alcuna attività sanatoria, il processo va chiuso in rito. Effettuato il controllo sul rito, cioè sulla regolarità del processo, il giudice passa all’esame del merito: comincia vedere quali elementi è necessario raccogliere per poter giungere ad una decisione di merito. Se la causa è matura per la decisione di merito senza bisogno di assunzione di mezzi di prova, il giudice istruttore rimette le parti davanti al collegio, chiude cioè la fase di trattazione e passa alla fase di decisione. La causa è matura per la decisione senza bisogno di assunzione di mezzi di prova essenzialmente in tre ipotesi: 1. La più frequente si ha quando la controversia fra le parti è una controversia solo in punto di diritto. 2. Quando vi sono punti controversi tra le parti, però questi fatti non pacifici sono costruiti attraverso una prova documentale. 16
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Quando vi sono fatti controversi che non sono istituiti documentalmente e però nessuna delle parti fa istanza per l’assunzione di mezzi prova e non vi sono mezzi di prova ammissibili d’ufficio che siano in concreto utilizzabili in quel certo procedimento.
Le questioni preliminari e pregiudiziali Perché la domanda dell’attore sia accolta occorre che la fattispecie costitutiva sia integrata e che non vi siano fatti impeditivi, modificativi, estintivi. In caso contrario il diritto non esiste, l’effetto giuridico non si produce, o se si è prodotto si estingue. In questo ultimo caso non è necessario che la causa sia completamente istruita. Infatti, qualora nel corso del processo il giudice rilevi l’esistenza di un fatto impeditivo, modificativo o estintivo, rimetterà la causa in decisione su una questione preliminare. Le questioni pregiudiziali, astrattamente idonee alla definizione del giudizio, sono quelle che attengono ai presupposti processuali, cioè alle condizioni per la decisione del merito. Il giudice che rileva il vizio di un presupposto processuale, se si tratta di un presupposto processuale sanabile, deve dare dapprima le disposizioni per sanarlo, non può procedere ai sensi dell’articolo 187-3 rimettendo immediatamente la causa in decisione, cosa che invece farà: o quando il vizio del presupposto processuale è insanabile, o quando, pur essendo sanabile pur avendo dato disposizioni per sanarlo, le parti non si sono attivate.
I provvedimenti sull’attività istruttoria e le ordinanze provvisionali Quando la causa bisogno dell’istruzione probatoria il giudice istruttore decide sull’ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova e all’esito di questo giudizio assume mezzi di prova. Se sono fatte al Giudice istanze relative all’istruzione probatoria il potere primario di decidere su queste istanze è del giudice istruttore. Sarà il giudice istruttore in prima persona ad esporsi in questo giudizio che verrà dato con un’ordinanza. Dobbiamo ora vedere come il giudice istruttore esercita i poteri che l’ordinamento gli attribuisce. Abbiamo visto che il giudice istruttore chiede alle parti i chiarimenti necessari e soprattutto indica alle parti le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione. Questa norma garantisce il principio del contraddittorio anche nei confronti dei poteri del giudice. In sostanza il giudice non può esercitare i poteri d’ufficio solitariamente, cioè senza prima invitare le parti ad esporre il loro punto di vista, ma deve fare in modo che della questione si possa decidere nel contraddittorio delle parti.
L’istruzione probatoria Tutte le volte in cui le parti non danno una comune versione dei fatti storici allegati sarà necessaria un’attività istruttoria. Innanzitutto occorre operare una prima distinzione tra prove precostituite, come quelle documentali che non hanno bisogno di essere acquisite al processo attraverso uno speciale procedimento, e prove costituende ovvero quelle che devono essere formate all’interno del processo. I mezzi di prova si possono distinguere in tre categorie, a seconda del modo in cui si giunge a dimostrare nel processo l’esistenza del fatto allegato: 1. prove dirette: quelle nelle quali il giudice percepisce direttamente il fatto allegato con i propri sensi (es. l’ispezione); 2. prove indirette o rappresentative: quelle in cui tra il fatto storico e la percezione del giudice c’è uno strumento rappresentativo (es. la testimonianza); 3. prove critiche o presuntive o indiziarie: quelle risultanti dalla prova diretta o indiretta di un fatto secondario da cui il giudice deduce con un ragionamento critico, la prova del fatto primario. Per quanto riguarda le prove indirette, il problema che si pone consiste nel valutare l’attendibilità dello strumento rappresentativo. L’art. 116 dispone che il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento ovvero valutare secondo regole tratte dall’esperienza di tutti i giorni, le c.d. massime d’esperienza. Accanto alla prova liberamente valutabile sta la prova legale, ossia, la prova di cui il legislatore individua e da al Giudice la regola di valutazione, dicendo quindi che, in presenza di un determinato presupposto, il suo giudizio deve essere di attendibilità della prova. Ovviamente, quando si tratta di prova legale, è esclusa la libera valutazione del giudice. Il nostro ordinamento conosce anche delle prove minori, i cosiddetti argomenti di prova: possono essere desunti dalle risposte delle parti all’interrogatorio libero, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire alle ispezioni ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo. L’argomento di prova, da solo, non è idoneo a far ritenere esistente un certo fatto, ma può essere usato solo come strumento per valutare, e, se del caso, integrare i mezzi di prova veri. Per quanto riguarda le presunzioni (prove indiziarie o critiche), si dividono in tre categorie: 1. presunzioni assolute (art. 2728): contro di esse non si ammette prova contraria, salvo che questa sia consentita dalla legge (es. “culpa in eligendo” e art. 599 c.c.); 2. presunzioni legali semplici: dispensano da qualunque tipo di prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite e operano come inversione dell’onere della prova (es. art. 2054 c.c. sulla responsabilità del conducente); 3. presunzioni non stabilite dalla legge: l’art. 2729 c.c. dice che tali presunzioni sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti. Trattiamo ora dei poteri istruttori d’ufficio che sono: - ispezione di cose e di persone; - richiesta di informazioni alla Pubblica Amministrazione; - testimonianza “de relato”; 17
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- giuramento suppletorio; L’esercizio di tali poteri deve avvenire con riferimento ai fatti allegati dalle parti. Quando il giudice ha dei poteri istruttori significa che può utilizzare questi poteri istruttori per provare l'esistenza di fatti allegati dalle parti; non ha, dunque, poteri di allegazione d’ufficio. Vediamo ora il giudizio di ammissibilità e di rilevanza dei mezzi prova. Il giudizio di ammissibilità è un giudizio di diritto e riguarda limiti che l’ordinamento pone alla utilizzazione di determinati mezzi di prova. Il giudizio di rilevanza si fonda invece su esigenze di economia processuale e cioè sull’opportunità di acquisire al processo prove che poi servano al momento della decisione. I giudizi di ammissibilità e rilevanza sono effettuati in due momenti diversi, a seconda che si tratti di prove precostituite o costituende: le prime al momento della decisione, le seconde anticipatamente alla decisione.
Interrogatorio libero e consulenza tecnica L’interrogatorio libero è disciplinato dall’art. 117 c.p.c. Le risposte che danno le parti al giudice in sede di interrogatorio libero, non formano prova ma al massimo possono essere argomenti di prova. Le funzioni dell’interrogatorio libero sono essenzialmente due: a) tentare un conciliazione tra le parti: la conciliazione è un modo di cessazione del processo possibile per i diritti disponibili, che si ha tutte le volte in cui le parti raggiungono un accordo, accordo che può essere transattivo ma non necessariamente. b) precisare meglio le posizioni delle parti. La consulenza tecnica ha due funzioni: la principale è quella di integrare le cognizioni del giudice, attraverso quelle nozioni di tecnica che il giudice non è in grado di conoscere. Per garantire il rispetto del principio del contraddittorio, alla figura del consulente tecnico d’ufficio le parti possono affiancare un consulente tecnico di parte. La seconda funzione consiste nello “snellire” l’attività istruttoria affidando la stessa al C.T.U. su fatti di difficile e pesante acquisizione. Dal punto di vista strettamente procedimentale, la nomina del consulente tecnico avviene con ordinanza del G.I.
La prova documentale: profili generali La prova documentale ha la caratteristica di essere acquisita al processo non con un’ordinanza del giudice, il quale ne valuti preventivamente l’ammissibilità e rilevanza, ma attraverso la sua pura e semplice produzione agli atti di causa. La nozione di documento è lata: documento è ogni oggetto da cui si possa ricavare la rappresentazione di un fatto storico. Quindi il documento è il “supporto” che può contenere: • la rappresentazione immediata del fatto (es. la scrittura da cui si evince la stipulazione di un contratto). • la rappresentazione mediata del fatto (prova della prova: es. dichiarazione di aver ricevuto un pagamento).
Segue: l’atto pubblico L’art. 2699 c.c. da la definizione di atto pubblico e stabilisce le condizioni che devono ricorrere affinché un certo documento possa definirsi atto pubblico. In mancanza delle prescritte formalità, l’atto può comunque avere valenza di scrittura privata qualora sia sottoscritto dalle parti (2701 c.c.). L’atto pubblico deve essere formato da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede (es. il segretario comunale in certe materie, il cancelliere che forma il verbale della causa). L’efficacia dell’atto pubblico è disciplinata dall’art. 2700 c.c. L’atto pubblico fa piena prova, ha cioè efficacia di prova legale. L’attendibilità di quanto risulta dall’atto pubblico è prevalutata dal legislatore in senso positivo in modo che il giudice non potrà, sotto nessun profilo, ritenere non attendibile quello che ha attestato il pubblico ufficiale. L’atto pubblico fa piena prova circa: a) la provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato; b) di tutto ciò che è avvenuto davanti al pubblico ufficiale. Per contrastare l’estrinseco si ricorre alla querela di falso. Al documento si possono imputare due tipi di falsità: 1) falso ideologico, quando si afferma che il pubblico ufficiale ha attestato cose diverse da quelle che sono avvenute in sua presenza; 2) falso materiale, quando l’atto nasce ab origine genuino ma viene successivamente alterato. Del falso ideologico è responsabile necessariamente il pubblico ufficiale, nel falso materiale può esserlo anche qualcun’altro. La querela di falso si propone: a) in via principale: quando si inizia un processo che ha ad oggetto diretto e immediato la falsità di un atto; b) in via incidentale quando l’atto è usato come prova in sede processuale e colui contro il quale è usato come prova ne sostiene la falsità. In quest’ultimo caso, il giudice deve interpellare la parte che ha prodotto il documento e chiederle se vuole ritirarlo. In caso affermativo il documento verrà ritirato e non sarà più utilizzabile. Naturalmente la controparte può sempre proporre la querela in via principale. Nel caso invece che la parte non intenda ritirare il documento, il giudice dovrà compiere una valutazione sulla rilevanza dello stesso nel giudizio in corso. Qualora lo ritenga rilevante sospende il giudizio in corso in attesa della decisione sulla querela di falso.
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Segue: la scrittura privata La scrittura privata è quel documento che contiene dei segni grafici enuncianti manifestazioni di volontà o di scienza e si distingue dall’atto pubblico perché non è formata da un pubblico ufficiale e conseguentemente si presenta come un testo scritto di cui bisogna pregiudizialmente stabilire l’imputabilità. L’imputabilità del contenuto della scrittura privata è risolto dall’ordinamento attraverso la sottoscrizione. A questa regola della “necessità della sottoscrizione” si fa eccezione soltanto in casi particolari (es. le annotazioni fatte dal creditore su un documento rimasto in suo possesso che tendono ad accertare la liberazione del debitore). Resta il problema di accertare la genuinità della sottoscrizione. I meccanismi sono tre: 1) il riconoscimento: può essere espresso o tacito. E’ espresso quando la parte dichiara espressamente di riconoscere la propria sottoscrizione. E’ tacito quando la parte non si attiva (e l’ordinamento glielo impone) per disconoscere una sottoscrizione non propria. L’art. 215 c.p.c. stabilisce che il disconoscimento deve essere effettuato nella prima difesa successiva all’udienza in cui è prodotta la scrittura. 2) l’autenticazione: si ha quando la sottoscrizione è apposta in presenza di un pubblico ufficiale previa identificazione, da parte di questi, del sottoscrivente. 3) la verificazione: si ha quando si intende utilizzare una scrittura tempestivamente disconosciuta dalla controparte. Se chiesta in via incidentale la verificazione non sospende il procedimento in corso dal momento che si configura come una fase endoprocessuale. Può essere chiesta anche in via principale (quando ad esempio serva per la trascrizione); in questo caso è possibile trascrivere la domanda di verificazione con l’effetto di far retroagire alla data di tale trascrizione quella successiva ottenibile con la scrittura privata e la sentenza che ne accerta la sottoscrizione. Da un punto di vista tecnico, la verificazione si svolge attraverso la consulenza di un perito calligrafo e attraverso le c.d. “scritture di comparazione”. L’art. 2702 c.c. afferma che “la scrittura privata fa piena prova”, sottolineando così che la scrittura privata è una prova legale. Perché la scrittura privata sia opponibile, quanto alla data, rispetto ai terzi, cioè sia certo che quella scrittura è effettivamente venuta ad esistenza in una certa data e non è stata creata successivamente dalla parti con una retrodatazione, bisogna che accada una delle ipotesi previste dall’art. 2704 c.c.: a) che la scrittura sia autenticata (in tal caso il pubblico ufficiale indica anche la data); b) che venga registrata; c) quando sopraggiunge un evento che da certezza che la scrittura non possa essere stata formata successivamente, come ad esempio nel caso della morte di una parte; d) quando la scrittura è stata riprodotta in un certo atto pubblico; e) dal giorno in cui si verifica un altro fatto che stabilisca, in modo egualmente certo, l’anteriorità della formazione del documento.
Segue: le altre prove documentali Vediamo velocemente alcuni documenti particolari: • Telegramma: gli artt. 2705 e 2706 prevedono che il telegramma abbia l’efficacia di una scrittura privata se il testo originale è sottoscritto dal mittente oppure se è stato consegnato o fatto consegnare dal mittente medesimo anche senza sottoscriverlo. • Telex e Fax: si pone il problema del luogo da cui è partito e in cui è arrivato. Per il fax esiste un’intestazione con indicato il numero di telefono del mittente e del destinatario oltre alla data e ora di invio (anche se tali dati, a onor del vero, sono facilmente alterabili). Per il telex la stessa cosa. • Scritture contabili dell’imprenditore: secondo l’art. 2709 le scritture contabili sono utilizzabili contro l’imprenditore. Lo sono anche a favore, nei rapporti che riguardano l’impresa, quando siano fatte valere contro un altro imprenditore che ugualmente abbia l’obbligo di tenere quelle certe scritture contabili. • Rappresentazioni meccaniche (filmati, registrazioni, floppy disk ecc.): naturalmente possono rappresentare o direttamente il fatto rilevante oppure la narrazione di un fatto rilevante. Hanno efficacia di prova legale a condizione che colui contro il quale sono prodotte non ne disconosca la conformità ai fatti e alle cose medesime. In tal caso occorrerà procedere ad un’indagine circa l’attendibilità di queste prove. • Copie di atti: gli artt. 2714 e 2715 stabiliscono che le copie di atti pubblici o scritture private, depositate presso pubblici depositari, hanno la stessa efficacia dell’originale. • Fotocopie: l’art. 2719 stabilisce che hanno la stessa efficacia delle autentiche se la loro conformità con l’originale è attestata da pubblico ufficiale competente ovvero non è espressamente disconosciuta. • Atti di ricognizione e rinnovazione: sono quegli atti che si compiono all’interno di quei rapporti con durata molto lunga nel tempo e in pratica hanno lo scopo di rinnovare il titolo originario. L’art. 2720 afferma che l’atto di ricognizione o rinnovazione fa piena prova delle dichiarazioni contenute nel documento originale, prova che può essere combattuta solo producendo l’originale per accertare che vi è stato un errore nella ricognizione o rinnovazione. Passiamo adesso ai profili dinamici della prova documentale cioè a come tali prove vengono ad inserirsi nel processo. Il meccanismo più semplice è naturalmente la produzione del documento che si ha inserendo quest’ultimo nel proprio fascicolo e dandone atto: o a verbale dell’udienza, o negli atti introduttivi ecc. La produzione di un documento è naturalmente possibile qualora sia nella materiale disponibilità della parte che vuole produrlo. In caso contrario, quando occorre acquisire al processo un documento in possesso di altro soggetto, si ricorre al meccani19
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smo dell’esibizione. L’art. 210 c.p.c. prevede che il giudice possa ordinare, su istanza di parte, ad altra parte o a un terzo, di esibire in giudizio un documento o altra cosa di cui ritenga necessaria l’acquisizione al processo. Naturalmente se la parte cui viene rivolto l’ordine di esibizione nega di possedere il documento, l’altra deve dimostrare che invece la possiede. Prima di passare all’esame delle prove costituende occorre soffermarsi un attimo su un istituto a metà strada fra la prova documentale e la prova costituenda: la richiesta di informazioni alla Pubblica Amministrazione. L’art. 213 comincia dicendoci che, fuori dai casi degli artt. 210 e 211 (cioè l’esibizione), il giudice può richiedere d’ufficio informazioni scritte alla P.A. relative ad atti e documenti dell’amministrazione stessa che è necessario acquisire al processo. Una prima problematica interpretativa della norma è legata al significato di “fuori dai casi”. Il pensiero più diffuso è ancora quello di attribuire alla locuzione un significato avversativo: in tal caso l’utilizzabilità dell’istituto è ristretta all’ipotesi in cui il documento non è reperibile direttamente dalla parte perché la P.A. si rifiuterebbe legittimamente di dare quell’informazione. L’altra lettura, invece, può trasformare la stessa locuzione in “oltre che nei casi”. In tal caso, la richiesta di informazioni non è più un istituto che si contrappone all’esibizione ma che vi si aggiunge, nel senso che ove il documento sia nelle mani della P.A. esso può essere acquisito al processo vuoi su istanza di parte ai sensi dell’art. 210 c.p.c., vuoi su iniziativa d’ufficio ai sensi dell’art. 213 c.p.c.
La prova testimoniale La prove testimoniale è la dichiarazione di scienza effettuata da un soggetto che è terzo rispetto alle parti in causa. Viene resa in modo orale e nel contraddittorio delle parti. Rendere testimonianza e testimoniare il vero è dovere pubblico generale, garantito dalla sanzione penale, che colpisce i testi che rifiutano di testimoniare o testimoniano il falso. L’importanza dell’oralità della testimonianza è legata al fatto che il giudice deve trarre, dalle dichiarazioni del terzo, gli elementi per poterne valutare l’attendibilità ed è evidente che questo può accadere solo quando la dichiarazione sia resa nella maniera orale e nel contraddittorio in modo che ciascuna delle parti possa contribuire alla completezza di questa dichiarazione. Questa considerazione risolve in senso negativo il problema del valore probatorio della dichiarazione scritta di un terzo. L’unica ipotesi in cui un tale documento può risultare rilevante si ha nel caso in cui non sia possibile ottenere una testimonianza (es. morte del teste). Una situazione del genere richiede però una accurata valutazione di attendibilità da parte del giudice. Per quanto riguarda l’ammissibilità della prova testimoniale, occorre analizzare ora alcuni limiti che l’ordinamento impone in relazione a taluni fatti, per esempio i contratti. E’ chiaro che la prova scritta sia più attendibile di quella orale: per questo motivo l’ordinamento invita le parti a predisporre uno scritto nel manifestare la propria volontà contrattuale. La stessa ratio si trova anche per il pagamento e la remissione del debito. Il primo limite è legato al valore del contratto. Secondo il dettato dell’art. 2721 c.c. “la prova per testimoni nei contratti non è ammessa quando il valore dell’oggetto eccede le L. 5.000. L’art. 2721/2 dà al giudice la possibilità di superare questo divieto tenendo conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza. Nell’ottica di quest’ultima considerazione, il limite delle L. 5.000 mai aggiornato dal legislatore non pare infelice. In tal modo il giudice può valutare in modo più elastico se ammettere o no la prova testimoniale (es. acquisto di bestiame -> spesso orale -> prova testimoniale ammessa; contratto bancario -> scritto anche per cifre di modico valore -> prova testimoniale non ammessa). Accanto a questo però l’ordinamento prevede casi particolari circa la possibilità di provare i patti aggiunti e contrari antecedenti, contemporanei o successivi alla formazione del documento. Per i patti antecedenti o contemporanei l’ordinamento non ammette la prova per testimoni per ragioni di carattere sostanziale: è logico pensare che il contratto, in quanto successivo e manifestazione congiunta delle volontà delle parti sostituisca eventuali patti difformi antecedenti. Al contrario, per i patti aggiunti successivi, è ammessa prova per testimoni con gli stessi criteri espressi nell’art. 2721/2. Ci sono comunque tre ipotesi, ai sensi dell’art. 2724, in cui la prova testimoniale è sempre ammessa: 1. quando vi è un principio di prova per iscritto; 2. quando il contraente era nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta; 3. quando il contraente ha, senza sua colpa, perduto il documento che gli forniva la prova; L’art. 2725 c.c. disciplina la prova testimoniale dei contratti che hanno forma scritta ad substantiam o ad probationem. In tal caso la testimonianza è ammessa solo nel caso in cui il contraente abbia perduto, senza colpa, il documento stesso del contratto. In altre parole il legislatore onera le parti non solo di procurarsi la prova scritta del contratto ma anche di custodirla. Passiamo ora ad analizzare le modalità di assunzione della prova testimoniale. La prova testimoniale deve essere dedotta mediante l’indicazione delle persone da interrogare e dei fatti formulati in articoli separati, deve cioè essere fatta per capitoli di prova. Altro problema attiene ai soggetti che “possono” deporre come testimoni. Anzitutto l’art. 246 c.p.c. esclude coloro che hanno un interesse in causa che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio. Importante anche ricordare che la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’art. 247 c.p.c. nella parte in cui non riteneva ammissibile la testimonianza del coniuge, dei parenti e affini in linea retta ecc.: ciò sul presupposto che spetta comunque al giudice valutare l’attendibilità della deposizione. Stessa sorte ha subito l’art. 248 per quanto riguarda i testi sotto i quattordici anni. La presenza del testimone all’udienza si acquisisce in due modi diversi: il testimone si presenta spontaneamente; il testimone viene invitato a presenziare a quella certa udienza. Se la parte non fa intimare i testimoni e questi non compaiono, la controparte può chiedere la decadenza della prova testimoniale.
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L’assunzione dei testimoni avviene previo loro giuramento, dopodiché il testimone dichiara le proprie generalità, i propri rapporti con le parti, quindi viene interrogato sui capitoli di prova.
La confessione L’art. 2730 c.c. definisce la confessione come una dichiarazione che una parte fa della verità di fatti a sé sfavorevoli e favorevoli ad altra parte. Il fatto storico, che di per sé non dice niente, può essere qualificato come favorevole o sfavorevole e quindi può avere o meno l’efficacia della confessione a seconda della fattispecie in cui questo fatto si va ad inserire. La confessione è una prova rispetto alla quale si rendono necessari dei requisiti di disponibilità soggettiva ed oggettiva. Per confessare è necessaria la capacità soggettiva di disposizione del diritto a cui i fatti confessati si riferiscono e la disponibilità oggettiva del diritto stesso. L’efficacia della confessione trova la sua radice nella regola di comune esperienza per cui chi dichiara fatti a sé sfavorevoli dichiara la verità ed ha efficacia di piena prova, il che significa che il giudice non potrà mettere in dubbio quanto confessato. Vi sono però casi in cui la confessione non ha efficacia di prova legale bensì di prova liberamente valutabile. Ai sensi dell’art. 2733 ultimo comma, ad esempio, la confessione resa soltanto da alcuni dei litisconsorti “è liberamente apprezzabile dal giudice” (questo vale oltre che per il litisconsorzio necessario anche per quello unitario o quasi necessario). Nel litisconsorzio facoltativo semplice, invece, la confessione fa piena prova nell’ambito del rapporto che fa capo al soggetto che ha reso la confessione; non ha invece efficacia probatoria sui diritti paralleli che non fanno capo al soggetto che ha reso la confessione. Altro caso in cui la confessione si configura come prova liberamente apprezzabile è quella della “dichiarazione complessa”: in tal caso colui che dichiara fatti a sé sfavorevoli ne dichiara anche altri a sé favorevoli (es. dichiaro di aver preso una somma a mutuo ma anche di averla restituita). In tal caso il valore della prova testimoniale dipende dalla controparte: se questa contesta i fatti aggiunti favorevoli il giudice valuterà liberamente la testimonianza, in caso contrario saremo di fronte ad una prova legale (tenuta ferma l’inscindibilità delle dichiarazioni oggetto della confessione). Altra ipotesi di confessione liberamente valutabile è quella prevista nell’art. 2735 c.c. secondo il quale “se la confessione è fatta da un terzo o se è contenuta in un testamento, è liberamente apprezzata dal giudice”. Detto questo possiamo passare alla natura giuridica della confessione: si tratta di una dichiarazione rivolta ad una persona determinata - non quindi di una dichiarazione al pubblico - in quanto o è resa nel processo o (se stragiudiziale) è resa o alla controparte o a un terzo. E’ quindi rilevante il soggetto a cui la dichiarazione è resa, dipendendo da ciò la diversa efficacia della confessione. La revoca della confessione può aver luogo soltanto per errore di fatto o violenza. Non basta dimostrare l’errore oggettivo nella dichiarazione confessoria, bisogna dimostrare l’errore soggettivo di chi l’ha resa nel momento in cui l’ha resa. La confessione può essere stragiudiziale o giudiziale. Quest’ultima può essere spontanea o provocata mediante interrogatorio formale (che è lo strumento con cui si cerca di acquisire al processo la confessione della parte). L’ammissione dell’interrogatorio formale avviene con ordinanza istruttoria del G.I. Una volta ammesso l’interrogatorio viene fissata la data di espletamento dello stesso. A questa udienza deve comparire personalmente la parte. Se la parte compare gli vengono letti gli articoli che sono formulati in senso sfavorevole alla parte che risponde, quindi sono già formulati come una confessione. In sostanza, se la parte risponde “si” alle domande, rende una confessione, perché le domande sono prospettate in modo da contenere fatti sfavorevoli alla parte che è interrogata. Se la parte non si presenta o presentandosi rifiuta di rispondere, senza che questo sia giustificato, l’art. 232 c.p.c. ci dice che il giudice al momento della decisione, valutato ogni altro elemento di prova, può ritenere come ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio.
Il giuramento Il nostro ordinamento conosce tre forme di giuramento: il giuramento decisorio, il giuramento suppletorio e il giuramento estimatorio. Il giuramento decisorio è quello che una parte deferisce all’altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa. La dichiarazione che effettua la parte in tanto ha valore probatorio in quanto questa dichiarazione sia stata preceduta da un atto della controparte che invita a farla. Possiamo addirittura dire che il giuramento sia in realtà un mezzo di decisione della lite che il giudice poi recepisce formalmente nella sentenza. Proprio per questo motivo, però, l’ordinamento impone ancor più che per la confessione dei limiti di ammissibilità. Anzitutto è da notare che la capacità di disporre del diritto deve risultare in capo a colui che deferisce il giuramento e non a chi lo presta. Altri limiti sono sanciti dall’art. 2739 c.c. come l’impossibilità di deferire il giuramento sopra un fatto illecito o per provare l’esistenza di un contratto per la validità del quale sia richiesta la forma scritta. L’art. 2739 ultimo comma ci dice che il giuramento può essere deferito su un fatto proprio (giuramento “de veritate”) o su un fatto altrui (giuramento “de scentia”); ciò è rilevante riguardo alla dichiarazione di ignorare (“non so, non ricordo”). In tal caso infatti, qualora si tratti di un giuramento “de veritate”, la giurisprudenza parifica l’ignorare al non voler giurare e quindi la parte soccombe. Invece, nel giuramento “de scentia”, la parte che non ricorda vince la causa. Vediamo ora il procedimento di deferimento e prestazione del giuramento. Il deferimento del giuramento è regolato dall’art. 233 c.p.c. E’ uno di quegli atti che non rientrano nei poteri del difensore legale. Deve essere proposto dalla parte o da un procuratore speciale. Il giuramento deve essere deferito “in articoli separati in modo chiaro e specifico.
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Colui che si vede deferito il giuramento, oltre che a giurare e non giurare, può anche “riferire” il giuramento ovvero “rimandare la palla”, con la semplice inversione del verbo della formula, a colui che lo aveva deferito. Ciò è sempre possibile quando l’oggetto del giuramento è comune alle parti. Il giuramento, come tutte le prove costituende, è soggetto a provvedimento di ammissione da parte del giudice, che deve valutarne la ammissibilità e la rilevanza. Il fatto oggetto del giuramento deve essere tale per cui, una volta avuto il giuramento, non c’è da vedere assolutamente altro. Nel nostro ordinamento esiste anche il giuramento suppletorio che è deferito dal giudice nei casi di “semiplena probatio” e il giuramento estimatorio deferito anch’esso dal giudice quando occorre la valutazione di una cosa che ad esempio è andata distrutta.
L’ispezione, l’esperimento giudiziale, il rendiconto L’ispezione può essere di cose o di persone ed è tipicamente una prova diretta, perché attraverso essa il giudice entra in contatto immediato con il fatto storico rilevante in causa. L’ispezione incontra dei limiti: si deve distinguere tra ispezione di luoghi e ispezione di persone anche se l’art. 118 c.p.c. non distingue espressamente. Secondo l’art. 118 c.p.c. l’ispezione deve apparire indispensabile per conoscere i fatti di causa (deve cioè essere l’unico mezzo per conoscere questi fatti); inoltre non può essere disposta se comporta gravi danni per la parte o per il terzo o la violazione di un segreto d’ufficio. L’ispezione è un mezzo di prova disponibile d’ufficio, per cui il giudice vi può ricorrere anche senza l’istanza di parte. Nella stessa ottica troviamo gli esperimenti giudiziali che però non costituiscono ugualmente una prova diretta ma una prova presuntiva: il giudice, per verificare se un fatto si sia verificato in un dato modo, può ordinare la riproduzione del fatto medesimo. Il rendimento dei conti ha in parte caratteristiche istruttorie e in parte può essere oggetto di una autonoma e separata domanda. La funzione del rendiconto, da un punto di vista sostanziale, è quella di rendere possibile all’interessato di far valere i diritti che nascono da questi fatti storici, o di adempiere agli obblighi che nascono da questi fatti storici. Il rendiconto può essere richiesto in via incidentale o principale: può essere disposto con sentenza, se c’è contestazione tra le parti, o con ordinanza se non c’è controversia. La parte che è obbligata deve depositare in cancelleria il conto con i documenti giustificativi del conto almeno cinque giorni prima dell’udienza fissata per la discussione del conto. Se la controparte manifesta la volontà di accettare il conto, il giudice emette un’ordinanza con la quale ordina il pagamento delle eventuali somme dovute. Se invece non accetta il conto deve indicare le partite che intende contestare. Su questa impugnazione si apre la discussione tra le parti.
La fase decisoria Terminata l’istruzione, il G.I. rimette la causa per la decisione che può spettare allo stesso G.I. o al collegio. La “cerniera” che comporta il passaggio dalla fase istruttoria a quella decisoria è la precisazione delle conclusioni. Quando il G.I. rimette la causa al collegio a norma dei primi 3 commi dell’art. 187 o 188 c.p.c., invita le parti a precisare davanti a lui le conclusioni. Le conclusioni sono le richieste che le parti intendono fare al collegio, richieste che possono avere ad oggetto le questioni più varie: di rito, istruttorie, di merito. L’udienza di precisazione delle conclusioni è rilevante in più direzioni: 1. è importante per ciò che attiene ai limiti temporali di efficacia della sentenza. 2. è rilevante per determinare la soccombenza delle parti. 3. le parti non possono effettuare nuove allegazioni, produrre nuovi documenti e chiedere l’assunzione di nuovi mezzi di prova, perché queste attività debbono essere compiute, a pena di preclusione, nella udienza regolata dagli artt. 183 e 184 c.p.c. Con l’udienza di precisazione delle conclusioni, la causa passa alla fase di decisione. Il G.I. si spoglia sul potere della causa, che viene a questo punto acquisito esclusivamente al collegio. A questo punto le parti possono, nel termine perentorio di 60 giorni, scambiarsi le “comparse conclusionali” e relative eventuali “memorie di replica”. Segue infine la discussione orale della causa composta anzitutto da una relazione del G.I. in veste di relatore e dalla discussione orale fatta dai rappresentanti delle parti. La fase di deliberazione della sentenza non avviene in pubblico, si svolge in pratica fra i soli tre giudici del collegio. La decisione viene presa a maggioranza dei voti e una volta raggiunta viene steso il “dispositivo” della sentenza che è in sostanza la statuizione che il giudice emette. Occorre adesso stendere la motivazione della sentenza, operazione che solitamente spetta al G.I. e che successivamente viene depositata in cancelleria, viene dattiloscritta (se ce n’è bisogno) dopodiché l’originale viene firmato dal presidente e dall’estensore; il terzo giudice non firma. Viene depositato l’originale così firmato in cancelleria e questa è la “pubblicazione della sentenza”. Da questo momento la sentenza è nota, cioè produce i suoi effetti. La decisione davanti al G.I. è analoga, solo che ovviamente non vi sarà la camera di consiglio e la sentenza sarà sottoscritta dal solo giudice che l’ha pronunziata.
Le ordinanza emesse in sede di decisione Ci sono alcune ipotesi in cui il giudice, in sede di decisione, emette un’ordinanza anziché una sentenza. Sono quelle previste dall’art. 279 c.p.c. ovvero quando provvede sull’istruzione della causa (es. perché il G.I. aveva negato la tempestività, l’ammissibilità o la rilevanza di una richiesta istruttoria di una parte).
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La sentenza definitiva e non definitiva La differenza sostanziale fra decisione in forma di sentenza e decisione in forma di ordinanza consiste nella possibilità per il giudice, in questa seconda ipotesi, di ritornare sopra quanto deciso. L’ordinanza infatti è sempre modificabile o revocabile. Naturalmente è l’ordinamento a dire al giudice che tipo di provvedimento può adottare: l’art. 279 II° comma c.p.c. indica i casi in cui il giudice deve emettere sentenza e, residualmente, quelli per cui deve emettere ordinanza. Anzitutto il giudice deve provvedere con sentenza riguardo a tutte le questioni attinenti alla possibilità di pronunciare nel merito e cioè tutte quelle che riguardano la sussistenza di presupposti processuali. Altra ipotesi si ha quando il collegio definisce il giudizio decidendo questioni preliminari di merito (è chiaro che se ad esempio risulta provata l’inesistenza di un fatto costitutivo è inutile andare avanti nel procedimento). Riassumendo: si ha decisione di rito definitiva quando si dichiara mancante un presupposto per la pronuncia di merito; si ha decisione di merito definitiva quando viene accolta o rigettata la domanda. L’art. 279 n. 4 prevede anche l’ipotesi in cui il giudice non definisce il giudizio e impartisce distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa. Ciò avviene quando il G.I. ha erroneamente ritenuto definibile un giudizio per una questione pregiudiziale o preliminare. In tal caso non ha proceduto all’istruzione completa della causa e quindi, in fase di decisione, viene emessa una sentenza non definitiva di merito con cui viene stabilita la non rilevanza della questione preliminare o pregiudiziale e si ordina il proseguimento dell’istruttoria. Si capisce che in tale situazione può accadere che una parte risulti soccombente rispetto alla sentenza non definitiva ma che successivamente si veda vittoriosa dopo la sentenza definitiva (es. il convenuto che si vede rigettare un’eccezione di prescrizione con la non definitiva e poi il giudice dirà che il diritto non esisteva, togliendo ogni valore alla prima pronuncia). Per questo motivo l’ordinamento offre al soccombente della non definitiva la possibilità: a) di non fare niente, e la sentenza non definitiva passa in giudicato; b) di impugnare subito per far ridecidere al giudice d’appello la questione pregiudiziale o preliminare; c) di riservarsi l’impugnazione, riserva che sarà sciolta nel momento in cui sarà emessa la sentenza definitiva. Quest’ultima ipotesi è regolata dall’art. 340 c.p.c. il quale prevede che contro una sentenza non definitiva è possibile riservarsi l’appello purché tale riserva sia comunque fatta entro il termine per appellare e comunque non oltre la prima udienza davanti al giudice istruttore. Qualora non si arrivi mai ad una sentenza definitiva (perché magari il processo si estingue) l’art. 129 delle disp. att. c.p.c. prevede che la sentenza contro cui fu fatta la riserva acquista efficacia di sentenza definitiva dal giorno in cui il provvedimento che pronuncia l’estinzione del processo diventa definitivo. Da questo momento iniziano a decorrere i termini per l’impugnazione (30 giorni se la non definitiva è stata notificata o un anno se non è stata notificata).
La sentenza di condanna generica Recita l’art. 278 c.p.c.: “quando è già accertata la sussistenza di un diritto, ma è ancora controversa la quantità della prestazione dovuta, il collegio, su istanza di parte, può limitarsi a pronunciare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione. In tal caso il collegio, con la stessa sentenza e sempre su istanza di parte, può altresì condannare il debitore al pagamento di una provvisionale, nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova.” Presupposti per la pronuncia di condanna generica sono quindi: a) nel processo si deve essere acquisita sufficiente certezza sull’esistenza del diritto e si deve ancora effettuare attività istruttoria per la quantificazione; b) la parte che ha fatto valere il diritto ne deve fare richiesta; c) la controparte non deve opporsi alla richiesta. La condanna generica non è sufficiente per instaurare un’esecuzione forzata poiché manca la quantificazione. Abbiamo poi due casi particolari: a) art. 2818 c.c. (ipoteca giudiziale): la sentenza di condanna generica è titolo sufficiente per l’iscrizione di una ipoteca giudiziale; b) art. 2953 c.c. (prescrizione): le prescrizioni più brevi di quelle decennali si trasformano in prescrizioni decennali quando i diritti, che si prescrivono in termini più brevi, sono oggetto di sentenze di condanna.
La sentenza in caso di processo con cumulo oggettivo Ai sensi dell’art. 277 c.p.c. “il collegio, nel deliberare sul merito, deve decidere tutte le domande proposte e le relative eccezioni definendo il giudizio. Tuttavia il collegio, anche quando il G.I. gli ha rimesso la causa a norma dell’art. 187 primo comma, può limitare la decisione ad alcune domande, se riconosce che per esse soltanto non sia necessaria una ulteriore istruzione (...)”. Quest’ultima ipotesi può attuarsi in due diversi modi: 1) art. 279 n. 5: il collegio dispone la separazione delle cause prima di deciderle; 2) art. 277/2: “(...) se la loro sollecita definizione è di interesse apprezzabile per la parte che ne ha fatto istanza”. Occorre cioè che la parte faccia istanza e che la definizione delle cause “definibili” si di interesse apprezzabile. Il primo caso non pone particolari problemi: in pratica abbiamo la creazione di una pluralità di processi, ognuno indipendente dall’altro. 23
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Il secondo caso è invece più delicato: le sentenze previste dall’art. 277 non sono “non definitive” ma “parzialmente definitive”. In altre parole le eventuali conseguenze non possono essere annullate dalle successive sentenze definitive, ma soltanto mitigate. Tutto ciò rileva riguardo alla questione dell’ammissibilità, anche per le sentenze parzialmente definitive, della riserva di impugnazione. A dire il vero fra le due situazione non vi è la stessa ratio: per le sentenze parzialmente definitive non ha senso stare ad aspettare una successiva pronuncia definitiva se questa non può influire di diritto sulla prima. Tuttavia, analizzando il problema sotto altra ottica, si prospetta una diversa soluzione: è vero infatti che nell’economia della controversia, la parte che deve valutare l’opportunità di impugnare, valuta la decisione della causa nella sua globalità. In altre parole ci sono casi in cui ad una parte può andar bene rimanere soccombente su una certa domanda e vittoriosa su un’altra. Per 30 anni giurisprudenza e dottrina non sono stati d’accordo sull’ammissibilità delle impugnazioni incidentali tardive, l’una per non ammetterle, l’altra si. Oggi la Cassazione, con alcune pronunce, sembra abbracciare la tesi della dottrina.
Gli effetti della sentenza e la provvisoria esecuzione Vediamo ora gli effetti della sentenza. Anzitutto occorre distinguere due diversi piani: il problema dell’efficacia e quello dell’esecutività della sentenza. Per efficacia si intende la produzione degli effetti della sentenza, quali che essi siano. La esecutività della sentenza è invece una specie del genus della efficacia, e si riferisce a quell’effetto della pronuncia giurisdizionale che è la possibilità di fondare un’esecuzione forzata, quindi di acquistare efficacia di titolo esecutivo.
La correzione della sentenza Ci sono casi in cui una sentenza può essere “corretta” senza bisogno di impugnarla. Gli artt. 287 e segg. disciplinano appunto la “correzione della sentenza” qualora si rilevi, inequivocabilmente, che c’è stato un errore da parte del giudice nel manifestare la propria volontà. I provvedimenti suscettibili di correzione sono: • le sentenze contro le quali non è proposto appello; • le ordinanze non revocabili. Gli elementi di cui si può avere la correzione riguardano ad esempio l’indicazione delle parti (nome, cognome ecc.), l’individuazione dei beni (es. se l’attore aveva agito in relazione a certi beni individuati catastalmente con i numeri 210 e 212 e il giudice si dimentica e statuisce solo in relazione al 212), l’indicazione della data di rilascio del bene. Il procedimento di correzione si svolge in modo semplice: se le parti sono d’accordo, possono chiederla con ricorso congiunto e il giudice provvede con decreto. Se invece la correzione è chiesta non da tutte le parti, allora bisogna istaurare il contraddittorio con le altre parti.
La contumacia La contumacia si può definire come la mancata costituzione di una parte (la qualità di parte si acquisisce con la notificazione dell’atto introduttivo, per quanto riguarda l’attore, e con la ricezione di tale notificazione, per quanto riguarda il convenuto). Dalla contumacia va distinta l’assenza. La parte assente è colui che, essendosi costituito, non partecipa ad una certa attività processuale. Vediamo ora le varie alternative possibili in ordine all’assenza e alla contumacia. 1. Entrambe le parti non si costituiscono: il giudice non viene a conoscenza del processo poiché manca la costituzione a ruolo. In tal caso la causa rimane quiescente per un anno. 2. Le parti sono entrambe costituite ma nessuna si presenta davanti al giudice alla prima udienza: il giudice dispone la cancellazione della causa dal ruolo che entra, anche in questo caso, in uno stato di quiescenza per un anno. 3. Tutte e due le parti sono costituite ma l’attore, in prima udienza, è assente mentre è presente il convenuto. Quest’ultimo può a) non fare niente, b) chiedere che il giudice proceda in assenza dell’attore (e quindi il procedimento va avanti come se l’attore fosse presente). Se il convenuto non fa niente, il giudice fissa una seconda udienza. Qualora l’attore risulti ancora assente il convenuto può di nuovo chiedere che si continui in assenza dell’attore (e il processo continua normalmente) oppure non fare nulla. In quest’ultima ipotesi il giudice dispone la cancellazione immediata della causa dal ruolo e il processo si estingue senza l’anno di quiescenza. 4. Contumacia dell’attore (art. 290 c.p.c.): l’attore non è costituito, il che significa che è stato il convenuto a iscrivere la causa a ruolo. In questo caso il convenuto deve scegliere in prima udienza se chiedere di procedere in contumacia dell’attore o non fare niente cosicché la causa viene cancellata dal ruolo e il processo estinto. Naturalmente l’ipotesi in esame di contumacia dell’attore non è possibile in quei processi che iniziano con un ricorso invece che con una citazione. 5. Contumacia del convenuto (art. 291 c.p.c.): occorre anzitutto stabilire se si tratta di una contumacia c.d. volontaria o involontaria. E’ volontaria la contumacia che si realizza allorché il convenuto decide di sua spontanea volontà di non difendersi non prendendo attivamente parte al processo. E’ involontaria la contumacia determinata dal fatto che il convenuto non è venuto a conoscenza della domanda che è stata proposta nei suoi confronti (ad es. perché nullo l’atto di notificazione). Possiamo avere quindi le seguenti possibilità: a) il convenuto è costituito (il processo continua normalmente); b) il convenuto non si è costituito e la notificazione è perfettamente valida (contumacia volontaria); c) il convenuto non si è costituito e la notificazione è nulla (contumacia involontaria).
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Fatte queste premesse, il procedimento in contumacia è essenzialmente lo stesso sia che si tratti di contumacia dell’attore, sia che si tratti di contumacia del convenuto. La parte che non si costituisce è dichiarata contumace dal G.I. ai sensi dell’art. 171/ult. c.p.c. L’art. 292 c.p.c. prevede che alcuni atti del processo debbano essere notificati personalmente al contumace, mentre non sono invece notificati personalmente alla parte che si è costituita. I gruppi di atti che devono essere notificati personalmente al contumace sono tre: 1. atti che contengono la proposizione di domande nuove; 2. atti che hanno ad oggetto alcuni provvedimenti istruttori: ammissione dell’interrogatorio formale e del giuramento, verbale in cui si da atto della produzione di scritture private non indicate in atti precedenti; 3. le sentenze (art. 292/ult.). Il contumace può costituirsi in ogni momento della causa: può costituirsi tardivamente fino all’udienza di precisazione delle conclusioni e di cessazione della fase istruttoria e di inizio della fase decisoria.
La sospensione La sospensione costituisce un arresto nella sequenza degli atti processuali a cui consegue una stasi del processo che entra in uno stato di quiescenza con la prospettiva di poter essere ripreso. Le ipotesi di sospensione sono raggruppabili in tre gruppi: a) sospensione propria: in presenza di “connessione per pregiudizialità” (cioè quando l’esistenza di una situazione sostanziale è fatto costitutivo o comunque elemento della fattispecie di un’altra situazione sostanziale); naturalmente ciò è possibile solo qualora la questione pregiudiziale sia già oggetto di un separato processo davanti ad un altro giudice. In caso contrario lo stesso giudice avrebbe il potere di conoscere incidentalmente la situazione pregiudiziale (simultaneus processus). b) sospensione concordata: su istanza delle parti. Istituto desueto perché prevede la possibilità di ottenere una sospensione massima di quattro mesi quando sappiamo che in pratica fra un udienza e l’altra ne passano ormai sei, sette! c) sospensione impropria: quando nel corso di un giudizio ne sorge un altro collegato al primo che non può essere affrontato da solo per carenza di dimensione oggettiva. Ipotesi di sospensione impropria sono: 1. art. 48 I° comma: quando è proposto regolamento di competenza, i processi relativamente ai quali il regolamento è chiesto debbono essere sospesi; 2. art 367 I° comma: quando è proposto regolamento di giurisdizione; 3. art. 52 ultimo comma: ricusazione del giudice; 4. artt. 313 e 355: quando viene proposta querela di falso di fronte al giudice di pace, pretore o corte d’appello; 5. questioni di costituzionalità; 6. questioni sull’interpretazione di una norma comunitaria; 7. impugnazione immediata della sentenza non definitiva; 8. art. 398 ultimo comma: se contro la stessa sentenza è proposto sia ricorso in Cassazione sia revocazione, il ricorso in Cassazione può essere sospeso fino alla definizione della revocazione. Vediamo ora cosa succede quando le parti di due processi non sono le stesse. In tale ipotesi occorre stabilire caso per caso se il processo ad es. fra A e B è rilevante anche per C che è in causa con B. In caso affermativo il processo pregiudiziale si sospende altrimenti no. Ad esempio, la sentenza emessa fra conduttore e locatore fa stato nei confronti del subconduttore. Altra problematica riguarda la pregiudizialità penale. Il legislatore del 1930 aveva fatto una doppia scelta: a) nel senso dell’efficacia del giudicato penale nel processo civile; b) nel senso che il processo civile si fermava nell’attesa della sentenza penale, tutte le volte in cui era pendente un processo penale che avrebbe potuto avere effetti all’interno del giudizio civile. Il legislatore del 1989, recepita la prima scelta, ha invece optato per una via totalmente diversa per quanto riguarda la seconda: ogni processo va avanti per conto proprio. Se poi il giudicato penale arriva in tempo utile per essere recepito nel processo civile, si recepisce; altrimenti non esplicherà alcun effetto nel processo civile, essendosi questo concluso. C’è però un’eccezione inerente alle azioni restitutorie e risarcitorie, quei diritti soggettivi cioè che trovano la loro origine nel reato e che portano, come conseguenza, alla restituzione o al risarcimento. Questo in due ipotesi: a) se si è avuta costituzione di parte civile e successivamente tale costituzione è stata volontariamente revocata, si ha la sospensione del processo civile in attesa della sentenza penale passata in giudicato; b) quando la domanda in sede civile è stata proposta dopo l’emanazione della sentenza penale di I° grado. Vediamo ora come è disciplinata la sospensione. Innanzitutto occorre distinguere fra le ipotesi in cui il processo si arresta automaticamente al solo verificarsi della fattispecie prevista dal legislatore e fra le ipotesi in cui spetta al giudice, con un suo provvedimento e dopo una sua valutazione di opportunità, disporre la sospensione. A sua volta, fra le prime ipotesi dobbiamo distinguere fra i casi in cui la sospensione opera automaticamente e quando invece deve essere comunque dichiarata dal giudice. Fanno parte della prima categoria per esempio le sospensioni per regolamento di competenza, rimessione degli atti alla Corte Costituzionale o alla Corte di Giustizia Europea; della seconda categoria fanno parte le ipotesi previste dall’art. 295 c.p.c. Nelle ipotesi di sospensione “legale” il provvedimento del giudice non è elemento costitutivo della fattispecie dell’effetto sospensione; la conseguenza è che se il giudice non sospende il processo gli atti successivi saranno comunque nulli ex art. 298 c.p.c.
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La stessa cosa non succede per quanto previsto dall’art. 295 c.p.c. dato che in questo caso il provvedimento del giudice è costitutivo della sospensione stessa. Vediamo ora gli effetti della sospensione. La sospensione interrompe i termini in corso i quali ricominciano a decorrere ex novo dalla ripresa del processo. Durante la sospensione non possono essere compiuti gli atti del procedimento (ad eccezione dei provvedimenti cautelari e di certi provvedimenti ritenuti “urgenti” nei casi di sospensione per regolamento di competenza).
L’interruzione L’istituto dell’interruzione serve a garantire l’effettività del contraddittorio allorché una parte si trova nell’impossibilità di continuare ad avvalersi dei propri poteri processuali. Per quanto riguarda la fattispecie a cui si applica l’istituto della interruzione dobbiamo distinguere: 1. eventi che attengono alla parte; 2. eventi che attengono al suo rappresentante legale; Le ipotesi che il legislatore prende in considerazione sono: 1. morte della parte (cui equiparare l’estinzione della persona giuridica); 2. morte del rappresentante legale (es. il padre che sta in giudizio per il figlio minore); 3. perdita della capacità della parte; 4. perdita della capacità del rappresentante legale; 5. cessazione della rappresentanza legale (es. quando il minore diventa maggiorenne). Iniziamo a distinguere a seconda di quando si verificano questi eventi rispetto al processo. 1. si verificano prima della proposizione della domanda giudiziale: se l’estinzione del soggetto si verifica rispetto alla parte, intesa come colui cui si imputano gli effetti processuali, il processo è inesistente. In tutti gli altri casi (es. morte del rappresentante legale) siamo in presenza di una nullità sanabile ai sensi dell’art. 182 c.p.c.; 2. si verificano dopo la notificazione della domanda ma prima della costituzione in giudizio: si ha l’interruzione del processo ai sensi dell’art. 299 salvo che coloro ai quali spetta di proseguirlo si costituiscano volontariamente, oppure l’altra parte provveda a citarli in riassunzione; 3. si verificano tra la costituzione delle parti e l’udienza di discussione della causa: abbiamo allora tre sotto-ipotesi: • il fenomeno interruttivo ha riguardato un soggetto che si è costituito in giudizio attraverso un rappresentante tecnico. In tal caso l’interruzione non si verifica automaticamente ma solo allorché il procuratore della parte lo dichiara in udienza o lo notifica alle altre parti; • la parte è costituita in giudizio personalmente: l’interruzione avviene automaticamente al verificarsi dell’evento; • se l’evento interruttivo colpisce il contumace il processo è interrotto dal momento in cui tale evento è notificato oppure è attestato dall’ufficiale giudiziario nella notificazione degli atti che devono essere notificati al contumace. 4. si verificano dopo il compimento dell’ultimo atto della parte nella sequenza processuale: se l’evento interruttivo si verifica dopo la discussione e non c’è una rimessione della causa in istruttoria, l’evento interruttivo non produce alcun effetto. Vediamo ora le ipotesi di interruzione che attengono al rappresentante tecnico della parte e sono: morte, radiazione o sospensione dall’Albo. All’interruzione può seguire la prosecuzione volontaria del processo con la nomina di un altro procuratore che si costituisce in causa. E’ chiaro che l’interruzione ha lo scopo di dare la possibilità di fare subentrare nel processo i soggetti che possono proseguire il giudizio stesso, cioè di attuare il contraddittorio tra i soggetti che debbono proseguire il processo. A questo proposito il nostro ordinamento prevede due ipotesi: • prosecuzione del processo: quando l’iniziativa, per rimettere in moto il giudizio, è presa da colui che è colpito dall’evento. • riassunzione del processo: quando l’iniziativa è presa dalla controparte. I soggetti che debbono costituirsi per proseguire il processo sono: a) se l’evento interruttivo consiste nella morte della persona fisica o nell’estinzione della persona giuridica il processo sarà proseguito o riassunto nei confronti del successore universale; b) nel caso di perdita di capacità della parte vi dovrà essere la prosecuzione o riassunzione rispettivamente da parte del o nei confronti del rappresentante legale.
L’estinzione L’estinzione nel nostro ordinamento trova due radici: la rinuncia agli atti e l’inattività delle parti. L’estinzione non estingue l’azione il che significa che il processo resta riproponibile. La rinuncia agli atti può essere proposta solo dall’attore e deve essere accettata dalle parti costituite che potrebbero essere interessate al proseguimento del processo. Si effettua o con dichiarazione in udienza o con atto notificato alle altre parti. La rinuncia non rientra nei poteri del rappresentante tecnico se non gliene è espressamente conferito il potere. Il provvedimento dichiarativo dell’estinzione è un’ordinanza se fra le parti non sorgono contestazioni in ordine all’estinzione del processo, una sentenza in caso contrario. Le spese del processo sono a carico del rinunciante salvo che le parti abbiano pattuito diversamente. 26
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L’estinzione per inattività nel nostro ordinamento è distinta in due grossi gruppi: • la prima ipotesi è quella della c.d. “inattività semplice” disciplinata dall’art. 307 I° e II° comma c.p.c. e consiste nel prevedere l’estinzione come conseguenza del mancato compimento di certi atti processuali (detti “di impulso”); • la seconda ipotesi è quella della inattività qualificata disciplinata dall’art. 307 III° comma e consiste nel prevedere l’estinzione come conseguenza del mancato compimento di certi atti processuali volti a rimuovere un vizio del processo. In altre parole, mancando certi atti il processo rimane viziato e il giudice è impossibilitato a giungere ad una decisione di merito. In tal caso il processo si estingue. L’art. 307 prevede che l’estinzione debba essere eccepita dalla parte interessata prima di ogni altra sua difesa: quindi l’estinzione non è rilevabile d’ufficio. Tuttavia, qualora non venga proposta l’eccezione di estinzione in certi casi di inattività qualificata, il giudice non potrà arrivare al merito e emetterà una sentenza di rito con cui chiude il processo. L’estinzione può essere eccepita davanti al G.I. (nella fase istruttoria) o davanti al collegio (nella fase decisoria). Se viene eccepita davanti al G.I., questo provvede con ordinanza e occorre distinguere fra accoglimento e rigetto: • se rigetta la domanda l’ordinanza non è reclamabile immediatamente al collegio ma solo in fase di precisazione delle conclusioni al momento di remissione al collegio. • se invece accoglie la domanda e dichiara l’estinzione, tale ordinanza è immediatamente reclamabile al collegio ai sensi dell’art. 178. Il collegio in tal caso può decidere con ordinanza non impugnabile l’accoglimento del reclamo (ma la questione può essere riproposta al momento della precisazione delle conclusioni) oppure respingerlo. In quest’ultimo caso emetterà sentenza dato che deve essere possibile la proposizione degli ordinari mezzi di impugnazione. Se viene eccepita davanti al collegio il provvedimento sarà: • una sentenza, se si ritiene che l’estinzione c’è stata; • un’ordinanza, se si ritiene che non ci sia stata e si debba ritornare in istruttoria; • ancora una sentenza, qualora si ritenga l’eccezione di estinzione infondata e la causa matura per la decisione. Per finire, oltre a non estinguere l’azione, l’estinzione rende inefficaci gli atti compiuti ad eccezione delle sentenze di merito (naturalmente non definitive o parzialmente definitive) e delle sentenze della Corte di Cassazione sulla competenza. Inoltre le prove raccolte valgono come argomenti di prova.
Il procedimento innanzi al pretore ed al giudice di pace Il titolo secondo del secondo libro del codice di procedura civile analizza le norme particolari che riguardano il procedimento innanzi al pretore ed al giudice di pace lasciando applicabili, in via residuale, le norme del procedimento davanti al Tribunale. L’art. 312 amplia i poteri istruttori dei due giudici consentendo il ricorso alla prova testimoniale al di là dei limiti previsti dall’art. 257 I° comma. L’art. 313 prevede che, ove sia proposta querela di falso, il pretore o il giudice di pace sospendono il processo e lo rimettono di fronte al Tribunale. Il procedimento davanti al pretore è oggi completamente assimilato, tranne quello che vedremo, al procedimento dinanzi al G.I. del Tribunale nelle cause a decisione monocratica. Le uniche differenze che ormai residuano fra pretore e tribunale riguardano la fase decisoria, ed in particolare la possibilità, che ha solo il pretore, di svolgere tale fase in forma integralmente orale. Diverso è invece il procedimento davanti al giudice di pace. Anche per questo procedimento vale il principio di preclusione ma la distinzione fra la fase di allegazione dei fatti e la fase delle richieste istruttorie è meno netta. La discussione della causa avviene normalmente in forma orale ma nulla vieta che le parti depositino anche difese scritte. La sentenza invece non può essere pronunziata in forma orale, come prevede l’art. 315 per il procedimento pretorile, ma è depositata nella cancelleria entro 15 giorni dalla discussione.
Profili generali delle impugnazioni I mezzi di impugnazione sono rivolti alla rimozione o alla modificazione della sentenza emessa. Ci sono tre diversi profili in cui ciò può avvenire: a) la parte chiede la rimozione della sentenza perché afferma che il giudice ha sbagliato; b) può chiedere altresì la rimozione della sentenza perché non conforme al diritto; c) i mezzi di impugnazione possono addirittura essere utilizzati quando non vi è la necessità di proporli (perché ad esempio lo stesso effetto è raggiungibile con la proposizione di un nuovo giudizio). La necessità di usare i mezzi di impugnazione cessa di fronte a certe vicende: a) inesistenza della sentenza: se ad esempio una sentenza manca della sottoscrizione, non sarà solo viziata ma addirittura inesistente. In tal caso la parte interessata può o appellare (se è nei termini) o riproporre un nuovo giudizio sulla stessa situazione sostanziale o sull’inesistenza specifica della prima sentenza. b) sopravvenienza di nuovi elementi di fatto o di diritto che il primo giudice non poteva considerare. Anche in tal caso oltre all’appello è possibile instaurare un nuovo giudizio. Con questo abbiamo terminato l’inquadramento generale dei mezzi di impugnazione e abbiamo visto quindi come questi mezzi di impugnazione si graduano a seconda che siano spesi per far valere errori del giudice, per fa valere “l’ingiustizia” della pronuncia o addirittura come i mezzi di impugnazione possono porsi come strumenti alternativi alla riproposizione della domanda.
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Oggetto di impugnazione sono le sentenze, quindi sono escluse ordinanze e decreti. Naturalmente è rilevante la forma che la legge impone al provvedimento del giudice e non quella che viene data in concreto. In altre parole se il giudice emette un’ordinanza che “in realtà” è una sentenza, sarà possibile appellare. Per quanto riguarda il ricorso per Cassazione la giurisprudenza è concorde nel ritenere che qualunque forma il legislatore abbia dato al provvedimento, se esso è decisorio e se contro di esso non sono previsti ulteriori mezzi di controllo, allora scatta la disposizione dell’art. 111 Costituzione. Ultimo profilo da esaminare: l’utilizzazione di certi mezzi di impugnazione dipende dalla qualificazione che il giudice abbia dato della situazione sostanziale dedotta in giudizio. Cioè a seconda che la decisione investa una certa situazione sostanziale o un’altra talvolta sono ammessi o non sono ammessi certi mezzi di impugnazione. A tal fine vale la qualificazione che ha fatto il giudice della situazione sostanziale e non quella effettiva.
Giudicato formale e impugnazioni straordinarie I mezzi di impugnazione previsti nel nostro ordinamento sono elencati nell’art. 323 c.p.c. e sono: l’appello, il ricorso per Cassazione, la revocazione, l’opposizione di terzo e il regolamento di competenza. Non è viceversa un mezzo di impugnazione il regolamento di giurisdizione (che è invece un mezzo preventivo). La possibilità di esperire i mezzi di impugnazione fa sì che il legislatore ci dia la nozione di giudicato formale: l’art. 324 dice che si intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta ad alcun mezzo di impugnazione (ordinario). L’enunciazione dell’art. 324 ci consente di dividere i mezzi di impugnazione in due grosse categorie: ordinari (per le sentenze non ancora passate in giudicato) e straordinari (per quelle passate in giudicato). Le impugnazioni straordinarie sono “azioni sotto veste di impugnazioni” e si caratterizzano rispetto alla riproposizione della domanda solo per la competenza, per il procedimento e per il regime di impugnazione della sentenza con cui viene decisa l’impugnazione straordinaria.
Legittimazione e interesse a proporre impugnazione Dal punto di vista della legittimazione, l’art. 323 distingue fra: • mezzi di impugnazione proponibili dalle parti; • mezzi di impugnazione proponibili dai terzi; Per parte si deve intendere colui che ha assunto la qualità di parte processuale. Quindi, in caso di rappresentanza, si farà riferimento al rappresentato e non al rappresentante. Il mezzo di impugnazione utilizzabile da colui che non ha assunto la qualità di parte processuale è l’opposizione di terzo. In certi casi, tuttavia, i mezzi di impugnazione della parte sono utilizzabili anche da colui che non è stato parte nel precedente processo: 1. caso della successione nel processo ex art. 110 c.p.c.; 2. successione nel diritto controverso; 3. sostituzione processuale; 4. legittimato in via surrogatoria (ipotesi comunque controversa); Per poter ricorrere all’impugnazione occorre avere “l’interesse ad impugnare”. In altre parole l’eventuale accoglimento dell’impugnazione deve risultare utile. Ancora, per poter impugnare occorre essere rimasti soccombenti o parzialmente soccombenti.
I termini per impugnare e l’acquiescenza Vediamo ora le possibili vicende che attengono al potere di impugnazione. Tanto per cominciare il potere di impugnazione si esercita o si perde: la perdita avviene per due fattispecie distinte che sono “il decorso dei termini” oppure “l’acquiescenza”. I termini per proporre le impugnazioni sono essenzialmente di due tipi: • un termine lungo (art. 327): un anno dalla pubblicazione della sentenza per proporre appello, ricorso per Cassazione e revocazione; • un termine breve (artt. 325 e 326): 30 giorni per proporre regolamento di competenza, appello, revocazione di terzo; 60 giorni per proporre il ricorso per Cassazione; Il punto più delicato è la decorrenza di questi ultimi termini: 1. notificazione della sentenza: il procuratore è il soggetto destinatario della notificazione ai fini della decorrenza del termine breve ad eccezione dei casi di contumacia della parte, di difesa senza rappresentante tecnico; 2. comunicazione della sentenza: in caso di regolamento di competenza; 3. conoscenza di un certo fatto: riguarda i mezzi di impugnazione straordinaria; Vediamo ora il secondo gruppo di ipotesi in cui si perde il potere di impugnare che sono i casi di acquiescenza (art. 329 c.p.c.): 1. l’accettazione espressa o tacita della sentenza esclude la proponibilità dei mezzi di impugnazione; 2. l’impugnazione parziale della sentenza comporta “acquiescenza tacita qualificata” delle parti non impugnate.
La pluralità di parti nei giudizi di impugnazione Analizziamo adesso cosa prevede l’ordinamento nei casi in cui le situazioni oggettive e soggettive di un giudizio siano molteplici. 28
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Le impugnazioni incidentali Le impugnazioni incidentali hanno il fine di mantenere l’unitarietà del processo di impugnazione. Il mezzo, utilizzato dal legislatore, è quello di rendere obbligatoria la forma dell’impugnazione incidentale per tutti coloro che impugnano successivamente all’impugnazione principale. Da ciò si capisce anche che il presupposto dell’impugnazione incidentale è che ci sia più di un soccombente. L’impugnazione incidentale non è, di per sé, un’impugnazione secondaria ma solo quella che viene dopo nel tempo: in particolare non risente delle vicende relative all’impugnazione principale. Questo, però, vale solo per le c.d. impugnazioni incidentali tempestive e non per quelle tardive. L’impugnazione incidentale va inserita nell’atto che volta per volta e in relazione al singolo procedimento è previsto per la difesa di colui contro il quale è proposta l’impugnazione, nei modi e nei termini con cui questo atto deve essere effettuato all’interno di ogni singolo procedimento. Scaduto il termine per proporre l’atto di difesa del giudizio di impugnazione, l’impugnazione non è più ammissibile, né in forma incidentale né in forma principale. Corrispondentemente il termine per impugnare si può abbreviare nei confronti della parte che deve usare l’impugnazione incidentale. E’ da notare che ci sono due ipotesi in cui lo scopo del legislatore di garantire l’unitarietà del giudizio di impugnazione non è assicurato: 1. nel caso in cui le due impugnazioni principali si incrocino (quando cioè sono proposte quasi contemporaneamente). 2. previsione dell’art. 332 c.p.c. Per questo motivo esiste il meccanismo della riunione delle impugnazioni separate di cui all’art. 335: tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza devono essere riunite, anche d’ufficio, in uno stesso processo. Infine occorre precisare che per la giurisprudenza l’impugnazione principale può sostituire l’impugnazione incidentale ma deve essere effettuata nel termine per proporre l’impugnazione incidentale. Questo perché in certi casi è stato ritenuto troppo oneroso per la parte dover magari rifare un atto quando aveva già preparato un’impugnazione principale. Veniamo ora alle impugnazioni incidentali tardive (art. 334). Le parti possono impugnare in via incidentale tardiva anche se nei loro confronti la sentenza è divenuta definitiva. Il fondamento dell’istituto è quello di consentire a chi ha accettato la sentenza di accettarla così com’è e quindi di poter essere restituito nel potere di impugnare nell’ipotesi in cui questa pronuncia venga messa in discussione da parte di altri soggetti.
Inammissibilità, improcedibilità, estinzione dei giudizi di impugnazione L’inammissibilità e l’improcedibilità sono istituti peculiari dei mezzi di impugnazione, mentre l’estinzione è prevista anche per il processo di I° grado e non è un istituto che troviamo in tutti i mezzi di impugnazione ma soltanto in alcuni. Mentre in primo grado abbiamo a che fare con questioni di rito, che condizionano la decidibilità nel merito, e questioni di merito, per le impugnazioni abbiamo prima di tutto anche la valutazione della decidibilità dell’impugnazione. Quindi il giudice dell’impugnazione viene investito di poteri che si collocano in questo triplice ordine di pregiudizialità l’uno rispetto all’altro: 1. presupposti di decidibilità dell’impugnazione; 2. questioni di rito che coinvolgono l’intero giudizio; 3. questioni di merito. Iniziamo ad analizzare l’inammissibilità. Il nostro legislatore ne parla in quattro norme: 1. art. 331, cause inscindibili o tra loro dipendenti: se l’impugnazione non è proposta nei confronti di tutti i soggetti e nessuno provvede all’integrazione del contraddittorio nel termine fissato dal giudice, l’impugnazione è dichiarata inammissibile; 2. art. 365, in tema di ricorso per Cassazione: la sottoscrizione del ricorso deve essere fatta da un avvocato iscritto nell’apposito albo e munito di procura speciale a pena di inammissibilità; 3. art. 366: il ricorso deve contenere a pena di inammissibilità cinque elementi (indicazione delle parti, indicazione della sentenza o decisione impugnata, esposizione sommaria dei fatti della causa, i motivi per i quali si chiede la cassazione, l’indicazione della procura e dell’eventuale decreto di gratuito patrocinio). 4. art. 398, in tema di revocazione: la citazione deve indicare a pena di inammissibilità il motivo della revocazione e le prove relative alla dimostrazione dei fatti di cui ai numeri 1,2,3,6 del giorno della scoperta o dell’accertamento del dolo e della falsità o del recupero dei documenti. 29
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Dall’esame di tali precetti normativi possiamo ricavare che l’inammissibilità riguarda un vizio dell’atto introduttivo, insanabile o sanabile all’origine ma in concreto non sanato. Questa considerazione ci permette di estendere l’inammissibilità ad altre ipotesi: • impugnazione proposta fuori termine; • impugnazione proposta con il mezzo sbagliato; • impugnazione proposta dalla parte che non è soccombente; • impugnazione proposta al giudice territorialmente incompetente; • nullità dell’atto introduttivo dell’impugnazione o della sua notificazione. Passiamo ora all’improcedibilità. Il legislatore ne parla in tre norme: 1. art. 348, in tema di appello: si ha improcedibilità quando a) l’appellante non si è costituito nei termini; b) se l’appellante costituito non si presenta alla prima udienza e neanche alla successiva appositamente fissata; 2. art. 369, in tema di ricorso per Cassazione: il ricorso e altri documenti devono essere depositati, a pena di improcedibilità, presso la cancelleria della Corte entro venti giorni dalla sua notificazione; 3. art. 399, in tema di revocazione: l’atto introduttivo deve essere depositato entro venti giorni dalla notificazione, a pena di improcedibilità, insieme a copia autentica della sentenza impugnata. Da queste norme ricaviamo che l’improcedibilità riguarda l’inattività dell’impugnante. Tuttavia, a differenza dell’inammissibilità, le ipotesi di improcedibilità sono tassative e non estensibili analogicamente onde evitare confusione con le ipotesi di estinzione. L’effetto dell’inammissibilità e dell’improcedibilità è lo stesso e consiste nell’impossibilità di riproporre lo stesso appello anche se non è decorso il termine fissato dalla legge. Naturalmente la sentenza impugnata non necessariamente passa in giudicato. Questo per varie ipotesi: 1. concorso di più mezzi di impugnazione; 2. errore nella scelta del mezzo di impugnazione; 3. impugnazione di cause inscindibili o dipendenti; 4. quando la dichiarazione di inammissibilità è avvenuta perché non era ancora venuto ad esistenza nel provvedimento da impugnare un presupposto per esercitare il potere di impugnazione. L’ultimo istituto da esaminare è l’estinzione (art. 338). Come per il processo di primo grado possiamo avere estinzione per rinuncia agli atti o per inattività. L’estinzione per rinuncia agli atti determina il passaggio in giudicato della sentenza ma solo formalmente (dato che deriverà senz’altro da un accordo delle parti).
Effetto espansivo della pronuncia d’impugnazione L’effetto espansivo della pronuncia d’impugnazione può essere interno (336/1) o esterno (336/2). Quello interno comporta che la riforma o la cassazione parziali producono effetti anche sulle parti della sentenza che non sono state impugnate ma che sono dipendenti dalla parte riformata o cassata. Qualche esempio: 1. quando sia stata emessa una pronuncia di condanna che abbia statuito sia sull’an che sul quantum e la sentenza è impugnata solo sull’an; 2. rapporto tra decisione nel merito e condanna alle spese; 3. regolamento di competenza. L’effetto espansivo esterno è molto simile a quello interno solo che interessa non parti della stessa sentenza ma più sentenze fra loro interdipendenti. L’ipotesi principale a cui si applica l’efficacia espansiva esterna è quella delle sentenze non definitive
Mezzi di impugnazione e mezzi di gravame La grande distinzione che possiamo fare a proposito dei mezzi di impugnazione è fra: a) mezzi di gravame o impugnazioni sostitutive (la parte soccombente ha il potere di provocare direttamente il riesame della pronuncia impugnata semplicemente lamentandone l’ingiustizia, e, correlativamente, il giudice del mezzo di gravame viene investito del potere di riesaminare le questioni già esaminate dal giudice della sentenza impugnata sulla base di questa pura e semplice richiesta); b) mezzi di impugnazione in senso stretto o impugnazioni rescindenti (la parte deve invece affermare e provare che nel provvedimento impugnato è presente uno dei vizi tassativamente previsti dal legislatore per quel mezzo di impugnazione); Le conseguenze finali sono diverse: a) nei mezzi di gravame la pronuncia ha sempre effetti sostitutivi, anche se è identica come contenuto a quella impugnata; b) nei mezzi di impugnazione in senso stretto occorre distinguere: • il rigetto dell’impugnazione lascia intoccata la pronuncia impugnata; • l’accoglimento dell’impugnazione annulla la sentenza impugnata dopodiché segue se possibile un’ulteriore fase (rescissoria) con cui o lo stesso o altro giudice emana un’altra sentenza da sostituire a quella annullata. Sono mezzi di gravame: l’appello, l’opposizione ordinaria e il regolamento di competenza; sono invece mezzi di impugnazione in senso stretto: la cassazione, la revocazione e l’opposizione di terzo revocatoria.
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L’appello Innanzitutto, l’art. 359 ci dice che per quanto non direttamente disciplinato, per il procedimento di appello si seguono le norme del processo di I° grado. Ai sensi dell’art. 339 sono appellabili le sentenze pronunciate in I° grado ad eccezione di alcune sentenze che per scelte legislative sono dette “di unico grado” e sono: • le sentenze che pronunciano sulla sola competenza; • le sentenze in tema di opposizione agli atti esecutivi; • le sentenza in materia di lavoro del pretore per controversie di valore non superiore a L. 50.000; • le sentenze del giudice di pace per controversie di valore non superiore a L. 2.000.000; • le sentenze in materia di sanzioni amministrative pecuniarie. Vi sono poi due ipotesi in cui l’inappellabilità scatta per volontà delle parti: • quando le parti concordano di omettere l’appello e di adire direttamente la Corte di Cassazione; • quando le parti hanno consensualmente incaricato il giudice di I° grado di dirimere la controversia secondo equità. L’art. 341 ci dice che l’appello si propone all’ufficio giudiziario, nel cui ambito territoriale si trova il giudice che ha pronunciato la sentenza che si vuole appellare. Quindi se la sentenza è del giudice di pace o del pretore, l’appello si proporrà al Tribunale nel cui circondario si trova l’ufficio del giudice di pace o la pretura; se la sentenza è emessa dal Tribunale, l’appello si propone alla Corte d’Appello nel cui distretto si trova il Tribunale. L’unica eccezione a questa regola è costituita dal foro erariale. L’appello proposto al giudice territorialmente incompetente non comporta inammissibilità dello stesso, ma comporta la dichiarazione di incompetenza del giudice adito e la possibilità di riassunzione del giudizio di appello davanti al giudice indicato come competente. L’atto di appello si propone con citazione, con i termini di comparizione dell’art. 163 bis. La citazione in appello deve contenere l’esposizione sommaria dei fatti (cioè “cosa è successo in I° grado”) e i motivi dell’impugnazione (gli argomenti che valgono a convincere il giudice dell’appello della fondatezza dell’impugnazione e l’individuazione di ciò che viene devoluto al giudice dell’impugnazione). L’appellante deve reinvestire il giudice d’appello di tutte le questioni rispetto alle quali il giudice di I° grado gli ha dato torto. L’appellato deve reinvestire il giudice d’appello anche delle questioni non esaminate perché assorbite. Per quanto riguarda le istanze istruttorie, la questione relativa all’ammissibilità e rilevanza di questo mezzo di prova, quando è stata respinta l’istanza istruttoria del giudice di primo grado, deve essere espressamente riproposta al giudice d’appello. Se invece sulla richiesta il giudice non ha pronunciato, allora non c’è bisogno di riproposizione perché il giudice d’appello viene automaticamente reinvestito del potere di ammettere la prova attraverso la riproposizione, con l’appello, dell’allegazione a cui quella prova si riferisce. L’art. 346 secondo il quale “le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate” non si applica al contumace. L’appello incidentale. Si è detto, riguarda le domande esaminate e rigettate. Per domanda dobbiamo intendere la questione circa l’esistenza o l’inesistenza di un diritto sostanziale diverso da quello che è stato impugnato dall’appellante. Da ciò si capisce che non c’è bisogno di appello incidentale per le questioni pregiudiziali di rito e preliminari di merito poiché queste questioni non sono oggetto di domanda. Riepilogando: non è mai necessario l’appello incidentale per le questioni pregiudiziali di rito; non è necessario l’appello incidentale per le preliminari di merito se ed in quanto queste siano rimaste effettivamente questioni preliminari di merito e non si siano sviluppate in domande. Inoltre, secondo giurisprudenza costante, c’è un altro gruppo di ipotesi in cui è necessaria l’impugnazione incidentale e non è sufficiente la riproposizione della questione ex art. 346. Si tratta delle sentenze non definitive avverso le quali è stata proposta riserva di appello. L’appello incidentale va proposto con la comparsa di risposta, che deve essere depositata davanti al giudice d’appello almeno venti giorni prima dell’udienza di trattazione. Potremmo quindi avere: 1. un appello incidentale tempestivo: se nel momento in cui l’appellato deposita la comparsa di risposta contenente l’appello incidentale egli è ancora nei termini per proporre l’appello principale; 2. un appello incidentale tardivo: se al contrario, nel momento in cui l’appellato deposita la comparsa di risposta con l’appello incidentale, non ha più il potere di impugnare in via principale; 3. un appello incidentale inammissibile: se il convenuto deposita la sua comparsa di risposta contenente la impugnazione incidentale meno di venti giorni prima della udienza di trattazione di fronte al giudice d’appello. Analizziamo ora i limiti in cui davanti al giudice d’appello ci si possa trovare a discutere di questioni che non sono state dedotte nel giudizio di I° grado. Dobbiamo distinguere: 1. domande nuove: nel giudizio di appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio; possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa; 2. eccezioni nuove: non sono proponibili nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d’ufficio; 3. prove nuove: non sono ammessi nuovi mezzi di prova, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non
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imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio. La giurisprudenza, nei giudizi di lavoro, ha limitato la portata del divieto di inammissibilità di nuovi mezzi di prova alle sole prove costituende (salve quindi le prove documentali). 4. intervento di terzi: ai sensi dell’art. 344 nel giudizio di appello è ammesso soltanto l’intervento dei terzi che potrebbero proporre opposizione a norma dell’art. 404. Questa norma ha il fine di risparmiare attività processuale dando la possibilità a quei soggetti che potrebbero proporre opposizione di terzo di intervenire subito. Il giudizio di appello è trattato dal collegio. Questo, alla prima udienza di trattazione, verifica la regolare costituzione del giudizio e, quando occorre, ne ordina l’integrazione o la notificazione oppure dispone che si rinnovi la notificazione dell’atto di appello. Il collegio dichiara la contumacia dell’appellato o dell’appellante, provvede alla riunione degli appelli proposti contro la stessa sentenza, procede al tentativo di conciliazione. Tutti i provvedimenti sono dati con ordinanza e sono soggetti al riesame al momento della decisione. Un particolare potere del giudice di appello è quello di sospendere la provvisoria esecutività della sentenza di primo grado. L’art. 283 stabilisce che la parte interessata può chiedere la sospensione dell’esecutività della sentenza al giudice d’appello con l’impugnazione principale o incidentale. In altre parole l’istanza non può essere semplicemente proposta ma deve essere fatta oggetto di impugnazione. La sospensione può essere richiesta quando ricorrano gravi motivi e ha l’effetto di sospendere l’efficacia esecutiva (se l’esecuzione non è ancora iniziata) o l’esecuzione (fatti salvi però gli effetti dell’esecuzione avutisi fino a tal punto). A questo punto il collegio o provvede con ordinanza ad ammettere le eventuali prove o fa precisare le conclusioni e rimette la causa in decisione. L’art. 356 ci dice che il giudice d’appello può: ammettere una prova nuova; ammettere una prova illegittimamente non ammessa dal giudice di primo grado; disporre la rinnovazione totale o parziale di una assunzione già avvenuta in primo grado. Le prime questione che il collegio deve affrontare sono quelle relative alla decidibilità dell’impugnazione. Seguono le questioni di rito non rilevate ed ancora rilevabili d’ufficio, quelle non rilevabili d’ufficio e le questioni rilevabili d’ufficio già decise in primo grado soltanto però se espressamente riproposte davanti a lui. Infine esamina il merito. La sentenza d’appello, come già detto, è sostitutiva della sentenza di primo grado. Con l’appello sarà inoltre possibile porre rimedio ad eventuali vizi del giudizio di primo grado tranne alcune eccezioni in cui il giudice d’appello, rilevato un certo vizio, annullerà la sentenza di primo grado e rimetterà la causa davanti al giudice di primo grado. Queste eccezioni sono: 1. il giudice di primo grado ha dichiarato la carenza di giurisdizione; il giudice d’appello dichiara invece la sussistenza della stessa (se la norma non esistesse il giudice d’appello dovrebbe pronunciare nel merito); 2. il giudice d’appello rileva la nullità della notificazione della citazione introduttiva di primo grado (rito); 3. il giudice d’appello rileva la non integrazione di un litisconsorzio necessario (rito); 4. il giudice d’appello dichiara l’erronea estromissione di una parte (rito); 5. il giudice d’appello dichiara l’inesistenza della sentenza (rito); 6. il giudice d’appello dichiara che l’estinzione, pronunciata dal giudice di primo grado, in realtà non c’era (merito).
Il ricorso per cassazione Ai sensi dell’art. 360 sono impugnabili per Cassazione le sentenze di appello e quelle in unico grado. Occorre aggiungere che secondo consolidata giurisprudenza sono ricorribili per Cassazione anche provvedimenti “formalmente” diversi dalla sentenza qualora abbiano però le prerogative di decisorietà e definitività di una sentenza. L’ultimo comma dell’art. 360 prevede che possano essere ricorse per Cassazione anche le sentenze appellabili qualora le parti siano d’accordo. Si viene a creare in tal modo un vero e proprio negozio processuale. Il ricorso per Cassazione è un mezzo di impugnazione in senso stretto; prevede come censure sottoponibili alla Corte cinque motivi elencati dall’art. 360: 1. per motivi attinenti alla giurisdizione; 2. per violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza (salva l’ipotesi che si sia formato un giudicato interno sulla competenza); 3. per violazione o falsa applicazione di norme di diritto (l’errore è nell’interpretazione normativa; la falsa applicazione è quell’errore in cui incorre l’interprete allorché, individuata esattamente la portata precettiva della norma, la applica ad una fattispecie che non è quella della norma descritta); 4. per nullità della sentenza o del procedimento; 5. per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio (motivazione omessa significa che il fatto controverso è puramente e semplicemente affermato dal giudice che non spiega perché arriva a quella conclusione; insufficiente motivazione significa che, con gli argomenti addotti in punto di fatto, sarebbe ben possibile una motivazione diversa; contraddittoria motivazione si ha infine quando il giudice fa affermazioni che si contraddicono l’una con l’altra). L’art. 362 prevede altre due ipotesi di ricorso per Cassazione: 1. “possono essere impugnate con ricorso per cassazione le decisioni in grado di appello e in unico grado di un giudice speciale, per motivi attinenti alla giurisdizione del giudice stesso”. In realtà però l’art. 111 dice che le sentenze dei giudici speciali sono impugnabili per Cassazione non solo per motivi attinenti alla giurisdizione ma per tutti i motivi dell’art. 360.
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2. “possono essere denunciati in ogni tempo con ricorso per cassazione a) i conflitti positivi o negativi di giurisdizione tra giudici speciali, o tra questi e i giudici ordinari; b) i conflitti negativi di attribuzione tra la pubblica amministrazione e il giudice ordinario”. L’art. 363 prevede come ulteriore motivo di ricorso per Cassazione quello nell’interesse della legge. La norma dispone che, se per le parti la sentenza ricorribile per Cassazione è passata in giudicato, essa può tuttavia essere impugnata dal procuratore generale presso la Corte di Cassazione perché quest’ultima la cassi nell’interesse della legge. Vediamo ora come si effettua il ricorso per Cassazione. Anzitutto il ricorso deve essere proposto da un avvocato cassazionista in seguito ad una procura speciale conferita dopo il deposito della sentenza da impugnare e prima della proposizione del ricorso. Il ricorso viene prima notificato e poi depositato dopodiché il giudizio di Cassazione si è messo in moto e arriva al suo termine senza bisogno di atti di impulso ad opera della parte. Chi si vede notificato il ricorso può, se crede, partecipare al giudizio di cassazione compiendo un atto che si chiama controricorso e che è disciplinato dall’art. 370. Se manca il controricorso il resistente non potrà depositare delle memorie scritte, ma potrà unicamente partecipare alla discussione orale. Nel controricorso deve essere contenuta l’eventuale impugnazione incidentale. Oggetto di cognizione e decisione è la presenza del vizio denunciato con il ricorso. Il giudice accerta se esiste o non esiste il vizio denunciato salvo le questioni rilevabili d’ufficio che però non siano state oggetto di decisione nelle fasi precedenti del processo. Questo comporta che le questioni assorbite non siano deducibili davanti alla Corte di Cassazione (poiché una questione assorbita è una questione non esaminata e quindi non ci possono essere vizi da eccepire). Per quanto riguarda le possibili novità di fronte alla Corte di Cassazione occorre distinguere: 1. profili di merito: a) non è mai possibile l’allegazione di nuovi fatti rilevanti ai fini della decisione di merito; b) al contrario le nuove norme di diritto che intervengono durante lo svolgimento del giudizio in Cassazione devono essere poste da quest’ultima a fondamento della propria decisione. 2. profili di rito: la Cassazione si comporta come il giudice di primo grado e d’appello con l’unica differenza che non è possibile, da parte di essa, alcuna attività istruttoria. E’ tuttavia possibile la produzione di documenti ma solo quelli che riguardano la nullità della sentenza impugnata e l’ammissibilità del ricorso e del controricorso a meno che si tratti di documenti che portino alla cessazione della materia del contendere. Esaminiamo ora il procedimento del ricorso per Cassazione. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, il procedimento davanti la Corte ha la prerogativa di svolgersi d’ufficio. L’unico atto d’impulso processuale è il deposito del ricorso. Pertanto non avremo l’ipotesi di estinzione per inattività ma solo per rinuncia (che naturalmente deve essere accettata anche dalla controparte qualora questa abbia proposto a sua volta ricorso incidentale anche tardivo). La Corte di Cassazione decide secondo tre schemi diversi: ordinario, semplificato e complesso: 1. schema semplificato: è la pronuncia in camera di consiglio prevista per quando si debba decidere un regolamento di competenza; nelle ipotesi di inammissibilità; nelle ipotesi in cui si deve ordinare l’integrazione del contraddittorio; ordinare le notificazioni; pronunciare sulla rinuncia al ricorso per Cassazione. Non c’è la discussione in udienza pubblica e le parti possono soltanto depositare delle memorie. 2. schema ordinario: è la pronuncia a sezioni semplici. Il procedimento inizia con l’avviso agli avvocati delle parti della fissazione dell’udienza. Nei cinque giorni precedenti possono essere depositate le memorie che non possono contenere questioni nuove ma limitarsi a illustrare le questioni già avanzate con il ricorso e con il controricorso (tranne per le questioni rilevabili d’ufficio). Poi il giorno fissato per la discussione il relatore della causa espone lo svolgimento del giudizio, e termina con l’esposizione della sentenza impugnata e coi motivi del ricorso. Poi illustrano oralmente le loro ragioni gli avvocati del ricorrente e poi del resistente . Infine il P.M. da il suo parere sulla questione. 3. schema complesso: è la pronuncia a sezioni unite che si differenza dallo schema ordinario solo per la presenza di otto consiglieri più un presidente invece che quattro. L’art. 374 indica i casi in cui si pronuncia a sezioni unite: a) quando si decidono questioni di giurisdizione, comunque pervenute alla Corte; b) quando si tratti di decidere di ricorsi che pongono questioni che sono state decise in modo difforme dalle sezioni semplici, oppure quando si tratti di una questione di diritto di massima importanza; c) quando il ricorso riguarda più questioni, alcune da decidere a sezioni semplici e altre a sezioni unite (anche se la norma prevederebbe che si trattino prima quelle a sezioni unite e poi quelle a sezioni semplici, nella prassi le sezioni unite si occupano di tutte le questioni). Secondo l’art. 337, le sentenze soggette a ricorso per cassazione sono esecutive. Tuttavia è possibile ottenere la sospensione dell’esecutività di tali sentenze qualora “dalla esecuzione possa derivare grave e irreparabile danno”. Il danno è grave quando il beneficio di chi ottiene l’esecuzione è grandemente sproporzionato rispetto al pregiudizio di chi subisce l’esecuzione o adempie. Passiamo ora ai provvedimenti che la Corte di Cassazione può emanare, ordinanze e sentenze, premettendo che: a) innanzitutto la Corte dovrà per prima cosa valutare i presupposti di decidibilità nel merito del ricorso e quindi esaminarne l’ammissibilità e la procedibilità; b) a questo punto la Corte dovrà affrontare i profili relativi alla corretta instaurazione dell’intero giudizio; c) andranno infine esaminati i profili di merito. L’ordinanza è emessa nei casi previsti dall’art. 375, in ogni altro caso avremo una sentenza. Vediamone il contenuto:
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a) la più semplice delle sentenze di Cassazione è il rigetto del ricorso che si ha quando la Corte ritiene infondate le censure alla sentenza impugnata avanzate con l’atto di ricorso. Ciò determina la definitività della sentenza impugnata. b) può accadere che la Corte, pur ritenendo valide le lamentele del ricorrente, giunga ugualmente a respingere il ricorso: è il caso del rigetto con correzione dei motivi. Prima di cassare la sentenza la Corte deve valutare la causalità dell’errore commesso dal giudice della sentenza di appello e riconosciuto come tale dalle Corte. Siamo quindi in presenza di un errore esistente, ma che non ha inciso sul dispositivo, di un errore cioè che non è causale. La Corte, quindi, procederà alla sola correzione della motivazione in diritto. La correzione della motivazione non si può effettuare laddove il motivo di accoglimento o di rigetto cambi e tale cambiamento comporti una diversa portata precettiva. In questi casi è tuttavia possibile, se ve ne sono i presupposti, una cassazione sostitutiva, con pronuncia di merito. c) la Cassazione statuisce sulla giurisdizione e quindi emette una pronuncia che è definitiva in ordine alla questione di giurisdizione, con efficacia vincolante anche nei confronti dei giudici speciali. La stessa cosa vale anche in tema di competenza. d) abbiamo poi il caso di “cassazione senza rinvio” quando si giunge all’accertamento dell’impossibilità di arrivare ad una sentenza di merito. I casi sono: 1) difetto assoluto di giurisdizione (nei confronti di un giudice straniero o di un potere non giurisdizionale dello Stato); 2) causa che non poteva essere proposta (sia in senso oggettivo che soggettivo); 3) processo che non poteva essere proseguito (quando si verifica un ostacolo alla prosecuzione del processo stesso); Una volta che la Cassazione abbia riscontrato fondato il ricorso le situazioni che si possono dare sono alternativamente due: o sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, oppure la Corte ha già tutti gli elementi per poter emettere una pronuncia definitiva. Nel primo caso si avrà la cassazione della sentenza impugnata con rinvio ad altro giudice che avrà il compito di effettuare questi ulteriori accertamenti di fatto. Nel secondo caso, oltre all’annullamento, avremo anche la sostituzione della sentenza impugnata. La pronuncia della Corte di Cassazione nasce già come formalmente passata in giudicato, tuttavia esistono due strumenti attraverso i quali è possibile in qualche maniera incidere su di essa e sono la “correzione della sentenza” (con cui si potranno far valere omissioni o errori materiali o di calcolo) e la “revocazione per errore di fatto”. Ambedue gli strumenti debbono essere utilizzati mediante ricorso da proporre entro sessanta giorni dalla notificazione della sentenza di Cassazione, o entro un anno dal deposito della stessa.
Il giudizio di rinvio Il processo di rinvio è un procedimento chiuso a nuove allegazioni e a nuove istanze istruttorie. Nel giudizio di rinvio non viene riaperto un nuovo giudizio di appello, ma si rifà il processo dal punto in cui è caduta la censura della Cassazione in poi; vengono sostituite l’attività viziata e quelle successive a quella viziata. 1. Se la Cassazione cassa per motivi di giurisdizione o competenza: il vizio del processo sussiste fin dall’atto introduttivo cosicché tutto il processo viene ad essere viziato; andrà quindi rifatto tutto il processo. 2. nullità della sentenza o del procedimento (art. 360 n. 4): quando la Cassazione coglie nell’iter processuale un vizio di un atto che “contagia” di nullità tutti gli atti successivi collegati. Occorre andare a vedere dove si colloca il vizio genetico del processo: a) se si colloca nell’atto introduttivo del processo di primo grado occorrerà rifare tutto il processo; b) se si colloca nell’atto introduttivo del giudizio di appello allora andrà rifatto il giudizio di appello; c) se il vizio è nato all’interno della sentenza impugnata come atto: allora tutto quello che è da rifare è la sentenza come atto. 3. vizio di motivazione (art. 360 n. 5): è tutto l’iter della decisione che deve essere rifatto. 4. Cassazione per art. 360 n. 3: la violazione o falsa applicazione di norme di diritto sostanziale si colloca nel secondo e terzo momento dell’iter che porta alla decisione (ricordiamo i tre momenti: 1) ricostruzione dei fatti storici; 2) interpretazione e applicazione delle norme sostanziali a quei fatti storici ricostruiti; 3) effetti giuridici che promanano dall’applicazione delle norme a quella certa fattispecie). A questo schema ci sono però tre eccezioni: 1. la prima deriva dall’art. 394/3 secondo il quale nel giudizio di rinvio può deferirsi il giuramento decisorio; 2. le nuove conclusioni, allegazioni o richieste istruttorie possono discendere da una nuova impostazione in diritto della controversia da parte della Corte di Cassazione, che ha reso rilevanti fatti diversi da quelli dedotti in causa e quindi ha reso rilevanti le prove di quei fatti; 3. può darsi che fra il momento in cui si preclude l’acquisizione in giudizio di novità al momento in cui il giudice del rinvio deve pronunciare si siano verificati fatti nuovi, o si siano avute modifiche legislative; 4. potranno essere riproposte, in sede di rinvio, tutte le questioni assorbite dal giudice d’appello, ivi comprese le relative istanze istruttorie. Il giudizio di rinvio si riassume nel termine perentorio di un anno dalla pubblicazione della sentenza di Cassazione, termine che non può essere abbreviato dalla notificazione della sentenza.
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La revocazione La revocazione è un mezzo di impugnazione in senso stretto con cui si può impugnare le sentenze di appello e quelle in unico grado. Inoltre, l’art. 391 bis ammette l’impugnabilità, per il vizio di cui all’art. 395 n. 4, anche delle sentenze della Corte di Cassazione. E’ infine ammissibile anche la revocazione per provvedimenti che non hanno la forma di sentenza (decreto ingiuntivo, lodo arbitrale, convalida di sfratto per morosità). Esaminiamo ora i motivi di revocazione previsti dall’art. 395: 1. se sono l’effetto del dolo di una delle parti in danno dell’altra. Per dolo si intende comunemente il raggiro idoneo a paralizzare la difesa della controparte. 2. se si è giudicato in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la sentenza oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza. Il riconoscimento della falsità della prova deve provenire non da chi ha formato la prova o da chi l’ha richiesta ma dalla parte vittoriosa. Vi deve essere anche la incolpevole ignoranza della dichiarazione o del riconoscimento avvenuti prima della sentenza. 3. se dopo la sentenza sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario. 4. se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare. 5. se la sentenza è contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione. 6. se la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato. Fra appello e revocazione non c’è mai concorrenza: la stessa sentenza, cioè, non è mai sottoponibile contemporaneamente a questi due mezzi di impugnazione, perché, finché c’è la possibilità di appellare, l’appello assorbe la revocazione; quando è possibile la revocazione significa che l’appello non è più proponibile perché sono decorsi i termini. Invece c’è concorrenza fra revocazione e ricorso per Cassazione perché la stessa sentenza può essere contemporaneamente sottoponibile a revocazione e a ricorso per Cassazione. E’ pertanto possibile la pendenza di entrambi i mezzi di impugnazione. Oltre alla revocazione che può essere proposta dalle parti si ha un’altra forma di revocazione che è quella proponibile dal P.M. L’intervento del P.M. è obbligatorio nelle causa che hanno ad oggetto diritti indisponibili perché la partecipazione del P.M. vuole garantire che al giudice non sia sottoposta una realtà falsa, ma che siano completi i fatti e la relativa istruzione probatoria. Il P.M. deve quindi essere avvertito della pendenza del processo perché partecipi allo stesso con poteri di allegazione e istruttori. Il P.M. può usare la revocazione in due casi: 1. quando egli non è stato chiamato a partecipare al giudizio; 2. quando la sentenza sia frutto della collusione delle parti per frodare la legge. Vediamo ora il procedimento di revocazione. La revocazione si propone con citazione davanti allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. La citazione deve contenere, a pena di inammissibilità, il motivo di revocazione e, se si tratta di uno dei motivi di revocazione c.d. straordinaria, le prove relative al dies a quo da cui sono cominciati a decorrere i trenta giorni per proporre la revocazione: cioè le prove relative alla scoperta del dolo, al recupero del documento, alla conoscenza della falsità della prova ecc. La citazione deve essere depositata nella cancelleria dell’ufficio giudiziario e le parti debbono costituirsi entro venti giorni dalla notificazione. Per il procedimento di revocazione valgono le norme generali del procedimento di fronte a quel giudice. E’ possibile ottenere la sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza impugnata se l’esecuzione non ha ancora avuto luogo. Si svolge poi una normale istruttoria con tutti gli accertamenti del caso. Occorre tenere presente che, nonostante la revocazione non sia sottoposta ad alcun termine finale di decadenza, nel periodo di tempo tra il passaggio in giudicato e la proposizione della revocazione le norme di diritto comune corrono: avremo quindi prescrizioni, decadenze, acquisti di terzi ecc. Vediamo ora le pronunci del giudice della revocazione: • pronunce di rito: inammissibilità o improcedibilità; • pronunce di merito: rigetto o accoglimento con relativo annullamento della sentenza impugnata. La sostituzione è possibile qualora l’istruttoria svolta sia sufficiente per una nuova pronuncia. In caso contrario il giudice pronuncia la revocazione con sentenza e rimette le parti in istruttoria. La revocazione della sentenza di revocazione non è possibile.
L’opposizione di terzo Il mezzo di impugnazione disciplinato dall’art. 404, I° comma c.p.c., viene comunemente indicato come “opposizione di terzo ordinaria” e si caratterizza - insieme a quello previsto dal secondo comma dello stesso articolo, comunemente indicato come “opposizione di terzo revocatoria” - per essere utilizzabile esclusivamente dai terzi e cioè da chi non è stato parte del processo che ha portato alla emanazione della pronuncia che si vuole impugnare. La nozione di parte che ci interessa è quella di “parte processuale”. Il diritto che il terzo fa valere deve sussistere nei confronti di ambedue le parti originarie: questo non significa comunque che l’opponente debba poter reclamare la soddisfazione di esso da ciascuna delle due. La sentenza che si oppone non deve inoltre avere effetti vincolanti diretti o riflessi nei confronti dell’opponente. 35
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Il pregiudizio del terzo che ne giustifica l’opposizione presuppone: • una pronuncia, anche non formalmente di condanna, che riconosca dovuto da parte del soccombente o di un terzo un certo comportamento; • una incompatibilità fra il comportamento imposto dalla pronuncia e quello che il soccombente o il terzo devono tenere nei confronti dell’opponente; • incompatibilità nel senso che, per regola di diritto sostanziale, chi deve tenere quel comportamento verso uno dei soggetti non deve tenerlo nei confronti dell’altro. A ciò consegue che, ove l’obbligato abbia tenuto per intero il comportamento impostogli, il pregiudizio ormai si è attuato e l’opposizione non ha più senso. Al terzo resta eventualmente la possibilità di agire in via ordinaria nei confronti della parte vittoriosa o in risarcimento dei danni nei confronti della parte soccombente. L’opposizione di terzo è comunemente ritenuta un rimedio facoltativo poiché il terzo può raggiungere lo stesso risultato anche con un’autonoma azione in via ordinaria. Oltre al terzo come titolare di un diritto autonomo, incompatibile e prevalente, la dottrina ha ammesso come legittimati all’opposizione di terzo anche il litisconsorte pretermesso e il falsamente rappresentato. Per quanto riguarda gli effetti dell’accoglimento dell’opposizione di terzo, si deve anzitutto constatare che, ove l’opposizione sia proposta dal litisconsorte necessario pretermesso, la soluzione è che il giudice, una volta riscontrato il vizio del contraddittorio, deve per ciò solo annullare la sentenza impugnata e, se questa è una sentenza di appello, rimettere la causa al giudice di I° grado in applicazione dell’art. 354 c.p.c. Se invece l’opposizione è proposta ad un giudice di primo grado, questi può o previamente annullare la decisione e successivamente emettere la pronuncia sostitutiva. Nel caso di opposizione proposta dal titolare del diritto autonomo, incompatibile e prevalente, l’eliminazione degli effetti della sentenza impugnata non risolve tutti i problemi in quanto, in certi casi, l’accoglimento dell’opposizione inciderà sul rapporto originario (es. doppia alienazione con susseguente obbligo al risarcimento del danno). Vediamo ora l’opposizione di terzo revocatoria. Mentre l’opposizione di terzo ordinaria è data ai soggetti non vincolati dal giudicato altrui, l’opposizione di terzo revocatoria è strumento a difesa dei terzi cui è invece opponibile il giudicato altrui. In questa direzione l’opposizione di terzo revocatoria è lo strumento necessario per chi vuole sottrarsi all’efficacia della sentenza altrui, allegando la sussistenza del dolo o della collusione. Per quanto riguarda gli aspetti più strettamente processuali, l’art. 404 ci dice che sono sottoponibili ad opposizione di terzo le “sentenze”. A questa previsione dobbiamo aggiungere la possibilità di impugnare il decreto ingiuntivo divenuto esecutivo (opposizione di terzo revocatoria), sentenze emesse da alcuni giudici speciali (es. Tribunale regionale delle acque) e infine ogni altro provvedimento che presenti i caratteri della definitività e decisorietà anche se non formalmente sentenze. L’opposizione di terzo ordinaria non trova nessun termine per la proposizione. Al contrario, l’opposizione di terzo revocatoria deve essere proposta nel termine di trenta giorni dal momento in cui è stato scoperto il dolo o la collusione. Competente per l’opposizione è lo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza che si impugna. Il procedimento si svolge secondo le regole previste per il giudizio innanzi al giudice competente.
IL PROCESSO DI ESECUZIONE2 L’esecuzione forzata nel quadro dell’ordinamento Il nostro ordinamento prevede due grosse categorie di interessi protetti: • alcune situazioni sostanziali si attuano fornendo al loro titolare dei poteri di comportamento in relazione ad un determinato bene e facendo obbligo agli altri di non frapporsi fra il titolare della situazione sostanziale e il bene stesso. • altre invece presuppongono una “attività” di un altro soggetto come nel caso del credito. L’esecuzione forzata è quello strumento che l’ordinamento prevede per porre rimedio all’inadempimento dell’obbligato quando il titolare della situazione sostanziale protetta non può in altro modo godere della stessa.
Esecuzione diretta ed esecuzione indiretta In via generale, l’esecuzione può essere indiretta o diretta: • è indiretta quando si cerca di indurre all’adempimento un soggetto dietro la “minaccia” di misure coercitive quali sanzioni civili o penali tali che l’adempimento risulti meno gravoso dell’adempimento. Per questo motivo però l’esecuzione indiretta non è una soluzione certa al 100%. Il nostro ordinamento non la prevede in via generale ma solo per certi casi determinati. • è diretta quando, nei casi in cui risulta possibile, l’attività dell’organo esecutivo si sostituisce all’inattività dell’obbligato. Nel nostro sistema abbiamo tre diverse procedure esecutive: 2 IL PROCESSO DI ESECUZIONE IN BREVE. Se la parte soccombente non ottempera spontaneamente alla sentenza notificatale, il vincitore può instaurare un processo di esecuzione che può essere iniziato da parte del creditore anche con il semplice possesso di una cambiale, di un atto notarile, ecc. Il processo di esecuzione di solito assume la forma del processo di espropriazione forzata dei beni mobili (o immobili) del debitore, anche se detenuti da terzi; i beni sono prima pignorati dall'ufficiale giudiziario e poi venduti all'asta o assegnati in proprietà al creditore a soddisfazione del credito. Il processo di esecuzione può anche assumere la forma dell'esecuzione forzata per consegna o rilascio dove si tratti di consegnare al creditore una determinata cosa mobile o immobile, e quella dell'esecuzione forzata degli obblighi di fare o non fare, a spese del debitore che non li abbia volontariamente adempiuti.
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1. l’espropriazione forzata per i crediti di denaro; 2. l’esecuzione per consegna o rilascio per il trasferimento del possesso di beni mobili o immobili determinati; 3. l’esecuzione per obblighi di fare in via residuale per tutti i comportamenti di fare: a) che siano diversi dal pagamento e dalla consegna; b) che siano fungibili.
I presupposti ed il contenuto delle misure giurisdizionali esecutive Esiste una differenza fondamentale fra la tutela in via dichiarativa e la tutela in via di esecuzione. Per ciò che attiene al processo di cognizione, i suoi presupposti sono la semplice affermazione da parte di chi richiede la tutela giurisdizionale che esiste una situazione sostanziale che ha bisogno della tutela dichiarativa. Il contenuto della pronuncia giurisdizionale potrà essere a) di natura rituale, quando ad esempio il giudice non possa decidere nel merito per problemi di giurisdizione o competenza; b) di accoglimento; c) di rigetto. Nel processo esecutivo, invece, il presupposto è un titolo esecutivo. In altre parole si da per scontato che il diritto vantato da colui che chiede la tutela esecutiva esista. In questo caso l’organo esecutivo può a) non concedere l’esecuzione per problemi di rito; b) concedere la tutela esecutiva. Manca insomma la possibilità che l’organo dell’esecuzione neghi la tutela giurisdizionale richiesta.
Il titolo esecutivo L’art. 474 dice che l’esecuzione forzata non può aver luogo se non in virtù di un titolo esecutivo che deve sorreggere tutta quanta la durata dell’esecuzione forzata ed avere ad oggetto un diritto: • certo: la certezza consiste nell’individuazione del bene oggetto di questi interventi esecutivi e del fare che deve essere compiuto. Riguarda l’esecuzione per consegna o rilascio o l’esecuzione per obblighi di fare; • liquido: è l’equivalente della “certezza” riferita alle somme di denaro; • esigibile: non sottoposto, cioè, a termine o condizione. La seconda parte dell’art. 474 elenca i titoli esecutivi suddividendoli in tre categorie: 1. titoli esecutivi giudiziali: tutte le sentenze di condanna e certe ordinanze (es. ordinanza di convalida di licenza o sfratto) o decreti; 2. titoli di credito (cambiali, assegni e altri titoli cui la legge attribuisce la stessa efficacia); 3. atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in essi contenuti. Oltre a queste ipotesi ne esistono moltissime altre previste da leggi speciali.
Titolo esecutivo in senso sostanziale e titolo esecutivo in senso documentale Per titolo esecutivo in senso sostanziale si intende la fattispecie da cui sorge l’effetto giuridico di rendere tutelabile in via esecutiva una certa situazione protetta. Il titolare di questa situazione ha diritto all’intervento degli organi giurisdizionali che hanno l’obbligo di attivarsi. Il titolo esecutivo in senso sostanziale tiene conto inoltre degli eventuali elementi modificativi ed estintivi del diritto tutelato. Al contrario, il titolo esecutivo in senso documentale, tiene conto dei soli elementi costitutivi dato che, solitamente, eventi modificativi od estintivi interverranno successivamente alla stesura materiale del documento rappresentativo del titolo esecutivo. Titoli esecutivi in senso documentale sono gli originali dei titoli di credito o le copie autenticate dei provvedimenti giudiziali o degli atti pubblici. Queste ultime devono avere apposta una formula esecutiva onde evitare che possano essere usate per l’esecuzione copie diverse.
L’efficacia del titolo esecutivo verso terzi Il problema che andiamo ora ad analizzare riguarda la possibilità, per un titolo esecutivo, di far valere i sui effetti a favore di un soggetto diverso dal titolare originario o nei confronti di un diverso obbligato: in altre parole l’efficacia verso i terzi. L’art. 475 secondo comma prevede che la spedizione del titolo in forma esecutiva sia possibile anche in favore di soggetti, non individuati nel titolo stesso come creditori, che siano “successori” dell’avente diritto. Allo stesso modo, ma con una situazione “rovesciata”, l’art. 477 prevede che il titolo esecutivo contro il deceduto abbia efficacia contro gli eredi. Questa ratio è riscontrabile in tutti i casi in cui si abbia la nascita di obblighi dipendenti da quello consacrato nel titolo esecutivo e l’atto, in cui il titolo esecutivo consiste, è vincolante anche per il titolare dell’obbligo dipendente. L’esistenza dell’obbligo dipendente sarà oggetto di accertamento solo quando l’esecutato contesti la sussistenza del fatto successorio. Ricapitolando il titolo esecutivo è utilizzabile da o contro un terzo quando: • il terzo è titolare di una situazione sostanziale di diritto o obbligo, sostanzialmente dipendente da quella accertata nel titolo esecutivo; • l’atto che funge da titolo esecutivo ha, verso il titolare della situazione dipendente ma con riferimento alla situazione pregiudiziale, gli stessi effetti che ha nei confronti del dante causa.
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La notificazione del titolo esecutivo e del precetto Secondo l’art. 479 il titolo esecutivo in senso documentale deve essere notificato all’esecutato prima dell’inizio dell’esecuzione forzata. Contestualmente o successivamente deve essergli notificato anche il precetto, atto disciplinato dall’art. 480, con cui si intima all’obbligato di adempiere entro un termine non inferiore a dieci giorni pena l’inizio dell’azione esecutiva. Il precetto perde efficacia se entro 90 giorni dalla sua notifica non è iniziata l’esecuzione forzata. L’opposizione al precetto non sospende l’esecuzione; la sospensione può essere disposta solo dal giudice.
Struttura generale del processo esecutivo Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, la differenza fondamentale fra processo dichiarativo (di cognizione) e processo esecutivo, consta nelle possibili soluzioni del processo stesso. La domanda dell’attore nel processo di cognizione può essere accolta o rigettata; nel processo di esecuzione, accertata la procedibilità, può solo essere accolta. L’eventuale opposizione all’esecuzione sarà oggetto di un apposito processo di cognizione incidentale ma non potrà mai essere discussa nell’esecuzione. Quindi l’unica ipotesi in cui l’esecuzione viene “rifiutata” attiene a questioni di rito. In altre parole l’unico provvedimento del giudice dell’esecuzione è l’accoglimento dal momento che il “rifiuto” per motivi di rito è appunto un “rifiuto” a provvedere. Le condizioni minime indispensabili per emettere una misura esecutiva sono le stesse richieste per arrivare alla pronuncia sul merito in un processo dichiarativo (giurisdizione, competenza, capacità e legittimazione delle parti, rappresentanza tecnica). A chi obietta che nel processo esecutivo viene meno il principio del contraddittorio poiché la pronuncia è a senso unico si può semplicemente far notare che il problema è inquadrato nell’ottica sbagliata. L’esistenza del diritto va data per scontata. A questo punto però le parti possono intervenire alla pari sul “come” svolgere l’esecuzione. Passiamo ora ad analizzare la composizione dell’ufficio esecutivo. I giudici competenti per l’esecuzione forzata sono indicati negli art. 16 e 26 c.p.c.: • art. 16: per l’esecuzione forzata è sempre competente la Pretura, tranne che per l’espropriazione immobiliare per la quale è competente il Tribunale. • art. 26: territorialmente competente per l’espropriazione immobiliare e mobiliare è il giudice del luogo dove si trova il bene; per l’espropriazione dei crediti è competente il giudice del luogo dove risiede il terzo debitore; per l’esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare è competente il giudice del luogo dove l’obbligo deve essere adempiuto; per l’esecuzione forzata per consegna e rilascio ritorna competente il giudice dove si trovano i beni. La competenza territoriale è inderogabile dalle parti.
L’espropriazione forzata L’espropriazione forzata è il procedimento esecutivo mediante il quale si tutelano i crediti di somme di denaro. Trova il suo fondamento in due norme del codice civile e precisamente gli artt. 2740 (responsabilità patrimoniale del debitore) e 2910 (oggetto dell’espropriazione). Si svolge in tre momenti: 1. individuazione e conservazione dell’elemento attivo del patrimonio del debitore mediante il pignoramento; 2. liquidazione dell’elemento attivo; 3. soddisfazione del creditore con la distribuzione del ricavato.
Il pignoramento Ai sensi dell’art. 491 il pignoramento è l’atto iniziale dell’espropriazione forzata con il quale si individuano e conservano i diritti del debitore da espropriare. Esistono tre forme principali di pignoramento: 1. mobiliare: la richiesta è fatta dal creditore procedente all’ufficiale giudiziario in forma libera. Onde evitare indagini incerte e difficoltose circa la proprietà dei beni da sottoporre a pignoramento, l’ordinamento prevede il principio dell’appartenenza che tiene conto della dislocazione spaziale dei mobili. La scelta dei mobili da pignorare segue le regole degli artt. 513,514,515,516,517. L’ufficiale giudiziario, man mano che individua i beni li descrive nel verbale indicandone il valore approssimativo. Raggiunto un valore sufficiente alla soddisfazione del creditore, l’ufficiale giudiziario affida i beni in custodia o li porta via per collocarli in deposito. 2. immobiliare: l’individuazione dei beni da pignorare è in questo caso più semplice grazie all’esistenza di pubblici registri. E’ sufficiente che il creditore individui i beni con gli estremi richiesti dal c.c.: natura del bene; comune in cui si trova; estremi catastali. Il creditore chiede all’ufficiale giudiziario di procedere al pignoramento del bene immobile, individuato e descritto dal creditore stesso in un atto che assume forma scritta, ed è da lui sottoscritto. L’ufficiale giudiziario aggiunge a tale atto la sua ingiunzione e notifica il tutto al debitore esecutato. Dopodiché si trascrive l’atto di pignoramento nel registro immobiliare. 3. di crediti: qui l’ordinamento non si accontenta della semplice affermazione del creditore ma esige un pieno accertamento dell’effettiva esistenza, in capo al debitore, o del credito o della proprietà del bene mobile. Il pignoramento si effettua notificando al debitore esecutato e al terzo debitore un atto che deve contenere: a) l’indicazione del credito per il quale si procede, del titolo esecutivo e del precetto; b) l’indicazione, almeno generica, delle somme o cose dovute dal terzo debitore al debitore esecutato; 38
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c) la citazione del terzo debitore a comparire davanti al pretore del luogo di sua residenza per rendere una certa dichiarazione. La posizione del terzo debitore, dal momento in cui gli viene notificato il pignoramento, è quella del custode e non può più adempiere nei confronti del debitore esecutato. All’udienza fissata con l’atto introduttivo, il terzo debitore deve confermare l’affermazione che il creditore ha fatto e cioè se è veramente debitore di quella somma. In caso negativo (se non si presenta o ne nega l’esistenza) occorre accertare l’esistenza del credito pignorato. Il pretore non procede d’ufficio all’accertamento ma lo fa su istanza di parte.
Gli effetti conservativi del pignoramento* Fra il pignoramento e la vendita forzata intercorre necessariamente un certo periodo di tempo durante il quale il creditore corre essenzialmente due rischi: 1) la modificazione della realtà materiale del bene oggetto del diritto pignorato; 2) la modificazione attinente alla titolarità del diritto pignorato. L’ordinamento fa fronte a queste problematiche con alcune modifiche alla disciplina di diritto comune. Ai sensi dell’art. 2912 il pignoramento comprende le pertinenze, gli accessori e i frutti del bene pignorato. L’art. successivo ci dice che gli atti di alienazione dei beni pignorati non hanno effetto in pregiudizio del creditore procedente e degli eventuali creditori che intervengono nell’esecuzione (l’eccezione prevista riguarda i beni mobili posseduti in buona fede). L’art. 2914 prevede quattro ipotesi che sostanzialmente risolvono il conflitto fra creditore procedente e il terzo attraverso gli stessi criteri con i quali l’ordinamento risolve il conflitto fra due aventi causa dello stesso dante causa, cioè fra due atti di alienazione, posti in essere dallo stesso alienante, equiparando il creditore procedente, nel conflitto con gli aventi causa del debitore esecutato, ad un avente causa del debitore stesso. Pertanto non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell’esecuzione, sebbene anteriori al pignoramento: 1. le alienazioni di beni immobili o di beni mobili iscritti in pubblici registri, che siano state trascritte successivamente al pignoramento; 2. le cessioni di crediti che siano state notificate al debitore ceduto o accettate dal medesimo successivamente al pignoramento; 3. le alienazioni di universalità di mobili che non abbiano data certa; 4. le alienazioni de beni mobili di cui non sia stato trasmesso il possesso anteriormente al pignoramento, salvo che risultino da atte avente data certa.
Le vicende anomale relative al pignoramento Gli artt. che vanno dal 493 al 497 analizzano alcuni istituti che si collocano fra il pignoramento e la vendita forzata. • art. 493 (pignoramenti su istanza di più creditori): più creditori possono con unico pignoramento colpire il medesimo bene. • art. 494 (pagamento nelle mani dell’ufficiale giudiziario): il debitore può evitare il pignoramento versando nelle mani dell’ufficiale giudiziario la somma per cui si procede e l’importo delle spese, con l’incarico di consegnarli al creditore. • art. 495 (conversione del pignoramento): il debitore può chiedere di sostituire alle cose pignorate una somma di denaro pari all’importo delle spese e dei crediti del creditore pignorante e dei creditori intervenuti. • art 496 (riduzione del pignoramento): il giudice può disporre la riduzione del pignoramento quando il valore dei beni pignorati è superiore all’importo delle spese e dei crediti. • art. 497 (cessazione dell’efficacia del pignoramento): il pignoramento perde efficacia quando dal suo compimento sono trascorsi novanta giorni senza che sia stata richiesta l’assegnazione o la vendita.
L’intervento dei creditori Ai sensi dell’art. 499 l’intervento è aperto a tutti i creditori a condizione che pongano in essere un atto di intervento che contenga l’indicazione del credito e quella del titolo di esso. Il creditore quindi non ha bisogno di un titolo esecutivo né di provare l’esistenza del suo credito. Quest’ultima eventualità sorge solo qualora ci siano contestazioni al momento della distribuzione del ricavato. Qualora il creditore non abbia nessun titolo esecutivo, si limiterà a partecipare passivamente alla distribuzione de ricavato. Se invece è provvisto di titolo esecutivo potrà compiere certi atti di impulso o addirittura provvedere ad un altro pignoramento per salvaguardarsi da un eventuale caducazione del procedimento già in corso. Vediamo ora i diversi tipi di intervento previsti dal nostro ordinamento per: 1. espropriazione mobiliare e di crediti, che comprende l’espropriazione diretta verso il debitore, e l’espropriazione verso i terzi; 2. espropriazione immobiliare; Nella prima ipotesi è richiesto un credito certo ed esigibile; nella seconda non occorre l’esigibilità. Una particolare disciplina riguarda i creditori privilegiati. Alcuni di essi infatti devono essere avvertiti della pendenza del processo esecutivo poiché la vendita forzata ha l’effetto di estinguere i diritti di prelazione che gravano sul bene. Tali creditori devono quindi avere la possibilità di intervenire nell’esecuzione per partecipare alla distribuzione del ricavato secondo l’originale diritto di prelazione.
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La vendita e l’assegnazione in generale Analizziamo adesso il secondo momento del processo d’espropriazione, il momento in cui il diritto pignorato viene liquidato. Naturalmente questa attività non è necessaria se il bene pignorato consiste in una somma di denaro. L’art. 501 prevede un termine minimo per la domanda di assegnazione o vendita di dieci giorni dalla data del pignoramento (tranne il caso in cui i beni pignorati siano deteriorabili). Tale termine dilatorio ha due funzioni: 1. consentire al debitore di reagire al pignoramento, per esempio con una istanza di conversione, di riduzione, con le opposizioni; 2. dare agli altri creditori un minimo di tempo per poter intervenire nell’esecuzione. Trascorso questo termine, l’art. 529 ci dice che il creditore procedente e i creditori intervenuti muniti di titolo esecutivo possono chiedere la distribuzione del denaro e la vendita di tutti gli altri beni. I modi per procedere alla liquidazione sono la vendita e l’assegnazione: • nella vendita il soggetto che diventa titolare del diritto pignorato al posto dell’esecutato può essere qualunque soggetto, tranne il debitore esecutato; • nell’assegnazione il diritto viene trasferito ad uno dei creditori. L’assegnazione può assumere due diverse configurazioni: 1. il creditore si rende assegnatario soddisfacendosi in tutto o in parte del proprio credito attraverso l’attribuzione del diritto pignorato (assegnazione satisfattiva). Ha il duplice effetto di trasferimento del diritto pignorato dal debitore al creditore e di estinzione del credito verso il debitore). 2. il creditore per rendersi assegnatario paga una somma di denaro (assegnazione vendita). La somma versata sarà oggetto di distribuzione come se il bene pignorato fosse stato venduto. I rapporti tra la vendita e l’assegnazione sono i seguenti: 1. vi sono beni che debbono essere assegnati senza un previo tentativo di vendita: i crediti pignorati che siano scaduti o che scadano entro 90 giorni. 2. vi sono beni che possono essere assegnati senza un previo tentativo di vendita: i titoli di credito e le cose il cui valore risulta dal listino di borsa o di mercato. 3. vi sono beni che debbono essere assegnati dopo un tentativo di vendita fallito: gli oggetti d’oro e d’argento non possono essere in nessun caso venduti per un prezzo inferiore al valore intrinseco. 4. tutti gli altri beni possono essere assegnati dopo un primo tentativo di vendita fallito. Per garantire che il prezzo di assegnazione non sia un prezzo di favore effettuato dai creditori in accordo tra loro all’interno del procedimento di espropriazione, viene stabilito un valore minimo di assegnazione che non sia inferiore alle spese di esecuzione e ai crediti aventi diritto a prelazione anteriore a quello dell’offerente. Quindi il valore dell’assegnazione è il maggiore tra questi due valori: 1. il valore di stima del bene; 2. la somma delle spese di esecuzione e dei crediti che hanno prelazione e che sono collocati anteriormente al creditore offerente. Quando, decorsi i dieci giorni dal pignoramento (ed entro gli ottanta successivi) viene fatta un’istanza di vendita o di assegnazione, il giudice deve fissare un’udienza per sentire le parti circa l’assegnazione, il tempo e le modalità della vendita. Inoltre le parti devono proporre a pena di decadenza le opposizioni agli atti esecutivi se non sono già decadute dal diritto di proporle. Qualora non ci siano opposizioni, si sia raggiunto un accordo o ci sia una sentenza che le rigetti, si arriva alla fase della vendita. Viene quindi nominato uno stimatore che provvede alla valutazione dei beni.
Le singole forme di vendita forzata Iniziamo dall’espropriazione mobiliare. I modi di liquidazione del bene mobile sono essenzialmente due: 1. la vendita a mezzo commissionario: consiste nell’affidare la vendita del bene mobile previamente stimato ad un soggetto privato che lo vende con trattativa privata. 2. la vendita all’incanto: normalmente la vendita è affidata agli istituti vendite giudiziarie. Viene stabilito un prezzo minimo per l’incanto, viene fissata la data dell’incanto e nei giorni precedenti all’incanto l’incaricato si reca a ritirare i beni mobili dal custode. Se la vendita fallisce abbiamo due possibilità: a) che si abbia l’assegnazione su richiesta di uno o più creditori; b) se nessuno chiede l’assegnazione, il giudice dispone una seconda vendita a prezzo libero. Vediamo ora come si liquidano i crediti. Per la perfezione del pignoramento, sono necessarie o una dichiarazione conforme del terzo o una sentenza che accerta l'esistenza del diritto di credito. Dopo di che il rinnovamento si perfeziona e si può procedere alla liquidazione del credito. Tale liquidazione si ha necessariamente attraverso il trasferimento del credito ad un soggetto diverso da colui che ne era titolare, ossia il debitore esecutato. Il trasferimento del credito avviene secondo due modalità diverse a seconda che il credito sia già scaduto o scada entro 90 giorni, oppure che scada in un periodo successivo. Nel primo caso si ha una ipotesi di assegnazione coattiva che determina, dal punto di vista del diritto sostanziale, gli stessi effetti di una cessione credito. Naturalmente le eccezioni ottenibili dal terzo debitore non devono contrastare con il contenuto vincolante della dichiarazione della sentenza. Nel secondo caso i crediti possono essere assegnati, se i creditori ne fanno domanda, o venduti nel caso contrario. Se il credito è venduto significa che si troverà un soggetto il quale si rende cessionario di quel credito pagando una certa somma, che ovviamente sarà inferiore al valore nominale del credito. 40
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L’udienza con cui si stabiliscono le modalità per la vendita dell’immobile si svolge in modo analogo a tutte le altre forme di espropriazione. Di diverso ci sono solo le modalità con cui si arriva alla liquidazione del bene e che sono: a) la vendita senza incanto: consiste in un invito a fare la propria offerta in cancelleria in busta chiusa, offerta che rimane sconosciuta fino a che non vengono aperte le buste. Possono partecipare tutti gli interessati tranne il debitore esecutato. Se l’offerta maggiore non supera di ¼ il valore del bene stabilito è sufficiente il dissenso di un creditore per far respingere l’offerta e procedere con la vendita all’incanto. Negli altri casi è il giudice a stabilire se accettare il prezzo o tentare l’incanto. b) la vendita con incanto; Il decreto con cui il giudice pronuncia il trasferimento del diritto sul bene ha l’effetto di estinguere trascrizioni di pignoramenti e iscrizioni ipotecarie. Questo costringe il creditore ipotecario a partecipare all’espropriazione del bene ed a riprendersi la somma che gli spetta anche prima del termine che egli aveva pattuito. Il decreto di trasferimento costituisce titolo esecutivo per il rilascio, cioè per ottenere la consegna del bene acquistato, nei confronti del custode ma non nei confronti dei terzi possessori (verso i quali andranno spesi gli ordinari mezzi di tutela di diritto comune come la rivendicazione o la restituzione). Qualora l’incanto fallisca e non ci siano richieste di assegnazione il giudice può, o disporre un secondo incanto con prezzo base ribassato di 1/5, oppure procedere con l’amministrazione giudiziaria del bene.
Gli effetti sostanziali della vendita e dell’assegnazione* Ai sensi dell’art. 2919 c.c. “la vendita forzata trasferisce all’acquirente i diritti che sulla cosa spettavano a colui che ha subito l’espropriazione, salvi gli effetti del possesso di buona fede”. La vendita forzata da luogo ad un acquisto a titolo derivativo (ricordando che si ha acquisto a titolo derivativo quando sussiste in capo al dante causa una situazione sostanziale uguale o maggiore rispetto a quella acquistata; si ha invece acquisto a titolo originario quando in capo al dante causa non esiste un diritto uguale o maggiore di quello acquistato). Per questo motivo se colui che ha subito l’espropriazione non era effettivamente titolare del diritto pignorato, l’acquirente in vendita forzata non acquista niente in pregiudizio del terzo estraneo. Vediamo ora il caso previsto dall’art. 2812 c.c. sui “diritti costituiti sulla cosa ipotecata”. Abbiamo due categorie di terzi acquirenti (e relative discipline): 1. terzi che hanno acquistato servitù, usufrutto, uso o abitazione: il creditore ipotecario deve notificare il titolo esecutivo e il precetto al solo debitore e non al terzo; 2. superficie, enfiteusi, proprietà nuda o piena: il creditore ipotecario dovrà notificare il titolo esecutivo e il precetto anche al terzo acquirente che assumerà il ruolo di esecutato. Benché esista un perfetto parallelismo fra vendita di diritto comune e vendita forzata, ci sono tuttavia alcune differenze: 1. nella vendita forzata non ha luogo la garanzia per i vizi della cosa; 2. la vendita forzata non può essere impugnata per causa di lesione; 3. nella vendita forzata abbiamo l’estinzione dei diritti reali di garanzia sui beni oggetto della vendita.
La distribuzione del ricavato L’art. 509 ci dice che la somma oggetto della distribuzione è composta da quanto proviene a titolo di prezzo o conguaglio, rendiconto o provento di cose pignorate, multa e risarcimento danni da parte dell’aggiudicatario. La graduazione dei crediti è la seguente: 1. spese di procedura; 2. creditori con diritto di prelazione; 3. creditori chirografari tempestivi; 4. creditori chirografari tardivi; 5. debitore esecutato per l’eventuale residuo. Vediamo ora come si forma il piano di riparto. Per quanto riguarda l’espropriazione mobiliare esiste una duplice possibilità: 1. i creditori presentano al pretore un piano di riparto concordato tra loro, già predisposto e sottoscritto da tutti i creditori; 2. qualunque creditore chiede che si proceda alla distribuzione della somma ricavata: il giudice predispone un piano di riparto e qualora non ci siano contestazioni si procede con la distribuzione. Per l’espropriazione immobiliare le modalità di formazione del riparto sono diverse, perché qui il giudice procede d’ufficio, senza bisogno dell’istanza di parte, o di un piano concordato. Il giudice prepara un piano di distribuzione, lo deposita in cancelleria e fissa un’udienza; il cancelliere avvisa i creditori e il debitore; le parti hanno dieci giorni per consultare il piano di riparto. Approvato il piano di riparto o risolte le contestazioni, il processo esecutivo si chiude con l’emissione dei mandati di pagamento da parte del cancelliere. A questo punto viene da chiederci quali margini esistano per discutere la conformità al diritto di ciò che è stato distribuito ai vari creditori. La distribuzione del ricavato non può avere una efficacia stabilizzante della distribuzione stessa perché questa efficacia costituirebbe un effetto eccedente rispetto alla sua funzione; non può essere vista nella inattività del debitore una forma di accettazione tacita del piano di riparto perché l’adempimento spontaneo non ha nessun effetto preclusivo in ordine all’esistenza del diritto, nessun effetto di stabilizzazione dell’esistenza del diritto adempiuto; e se questo effetto non consegue 41
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ad un comportamento attivo quale quello dell’adempimento spontaneo, tanto meno può conseguire ad un comportamento omissivo quale quello della mancata contestazione del risultato del piano di riparto. La distribuzione del ricavato può essere l’occasione perché nascano delle controversie che riguardano il piano di riparto. A tal proposito è da notare che per quanto riguarda la contestazione della sussistenza del diritto del creditore procedente abbiamo una sovrapposizione tra due strumenti difensivi che sono la contestazione ai sensi dell’art. 512 o l’opposizione ai sensi dell’art. 615. La dottrina risolve questa concorrenza considerando oggetto delle contestazioni ex art. 512 la sussistenza, l’ammontare e le ragioni di prelazioni dei crediti degli intervenuti; l’ammontare e le ragioni di prelazioni del credito del creditore procedente. La sussistenza del credito del creditore procedente rientra invece nell’opposizione all’esecuzione ex art. 615. Secondo un principio generale, perché il giudice possa giungere a decidere nel merito, occorre che sussista l’interesse ad agire. Da questo deriva che: • il debitore potrà contestare la sussistenza dei crediti di tutti i creditori (tranne il procedente) e l’ammontare di tutti i crediti poiché ha interesse ad estinguere i debiti realmente esistenti; • il debitore non può contestare l’esistenza delle ragioni di prelazione; • i creditori possono contestare le ragioni di prelazione e l’ammontare dei crediti di altri creditori, se da ciò possono trarre un vantaggio;
L’espropriazione di beni indivisi L’art. 599 prevede la possibilità di pignorare beni indivisi. In altre parole sarà possibile pignorare la contitolarità di un diritto reale. Il giudice, qualora il bene non sia fungibile e quindi divisibile in natura, dovrà valutare se sia più conveniente la vendita della quota o procedere alla divisione giudiziale del bene.
L’espropriazione contro il terzo proprietario* Si ha espropriazione contro il terzo proprietario nelle due ipotesi previste dall’art. 602: 1. espropriazione di un bene gravato da pegno o ipoteca per un debito altrui; 2. bene la cui alienazione da parte del debitore sia stata revocata per frode. Il processo esecutivo contro il terzo proprietario si apre con il precetto al debitore sul piano sostanziale e la notificazione di tale precetto e del titolo esecutivo al terzo proprietario. Quest’ultimo ha i seguenti strumenti per impedire l’espropriazione: 1. il terzo proprietario può pagare ponendo in essere l’adempimento di un debito altrui; 2. l’acquirente del bene ipotecato chiede la liberazione dei beni dalle ipoteche; 3. l’acquirente del bene ipotecato rilascia il bene ai creditori. Il debitore non esecutato e l’esecutato non debitore sono parti necessarie. Possono intervenire i creditori del terzo esecutato e non quelli del debitore non esecutato. Lo strumento con il quale l’esecutato si difende nei confronti delle pretese del creditore procedente è l’opposizione all’esecuzione, con la quale si contesta il diritto del creditore istante di procedere all’esecuzione forzata
L’esecuzione in forma specifica* Sappiamo che la tutela in via di esecuzione forzata ha luogo quando siamo di fronte alla violazione di un obbligo di comportamento da parte di un certo soggetto. Quando tale violazione consiste nel mancato pagamento di una somma di denaro, la tutela esecutiva si attua nelle forme dell’espropriazione forzata; quando riguarda un comportamento diverso l’ordinamento prevede due possibilità: 1. gli obblighi di consegna di una cosa determinata danno luogo all’esecuzione per consegna o rilascio; 2. ogni altro tipo di attività che l’obbligato omette di tenere dà luogo all’esecuzione per obblighi di fare.
L’esecuzione per consegna e rilascio A differenza dell’espropriazione, l’esecuzione per consegna o rilascio consente al creditore procedente di perseguire il bene nei confronti del soggetto che è effettivamente in quel tempo detentore. Da un punto di vista procedurale l’esecuzione per consegna o rilascio inizia con un precetto che deve contenere la descrizione dei beni. L’ufficiale giudiziario procede con la ricerca del bene ovunque si trovi e lo consegna all’istante o a persona da lui designata. Il modo di trasferimento del possesso dell’immobile dipende dal modo in cui si esplica il possesso su quel bene, ed a quale diritto il titolo esecutivo si riferisce. L’immissione nel possesso può anche essere simbolica per i luoghi aperti.
L’esecuzione per obblighi di fare A norma dell’art. 612, “chi intende ottenere l’esecuzione forzata di una sentenza di condanna per violazione di un obbligo di fare o di non fare, dopo la notificazione del precetto, deve chiedere con ricorso al pretore che siano determinate le modalità dell’esecuzione”.
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Le spese di esecuzione sono a carico dell’esecutato e il giudice deve scegliere le modalità di esecuzione che garantiscano il risultato ma che non siano onerose più del necessario per l’esecutato.
L’opposizione all’esecuzione L’oggetto dell’opposizione all’esecuzione è la contestazione del diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata. Manca il diritto a procedere ad esecuzione forzata sia quando la situazione sostanziale esiste ma non ha diritto alla tutela esecutiva sia quando c’è il diritto alla tutela esecutiva ma la situazione sostanziale è inesistente: • mancanza di titolo esecutivo in senso sostanziale: l’opponente può negare il diritto a procedere a esecuzione sostenendo che la parte istante non ha tale diritto perché esso non è mai esistito o è venuto meno (inefficacia originaria o sopravvenuta del titolo esecutivo).
L’opposizione agli atti esecutivi Sappiamo che nel processo esecutivo non c’è un ambiente idoneo a decidere e quindi a risolvere le questioni di rito. Per questo motivo, mentre nel processo di cognizione il giudice può decidere sul rito e sul merito, in quello esecutivo serve uno strumento che permetta di aprire un processo di cognizione per decidere sul rito. Tale è appunto l’opposizione agli atti esecutivi. Ex art. 617 l’opposizione agli atti esecutivi deve essere proposta entro cinque giorni: termine perentorio decorrente dal momento in cui la parte è venuta a conoscenza dell’atto viziato. Vi sono differenze fra le due categorie di nullità degli atti del processo: • nullità formali: danno luogo ad un vizio dell’atto che è rilevabile, di regola, dalla sola parte interessata o dal giudice nei casi previsti dalla legge. La mancata proposizione dell’opposizione determina la sanatoria del vizio dell’atto processuale. • nullità extraformali: sono tutte rilevabili d’ufficio. Tutti gli atti del processo sono viziati per un loro vizio originario in quanto posti in essere in carenza di un presupposto processuale. L’opposizione agli atti esecutivi è uno strumento che può essere utilizzato da tutti coloro che sono parti del processo. Vediamone ora la procedura. Se l’esecuzione è proposta prima dell’inizio dell’esecuzione, essa va proposta con citazione. Se è proposta dopo l’inizio dell’esecuzione, si deve depositare il ricorso presso il giudice dell’esecuzione il quale fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti davanti a sé e da un termine perentorio per la notifica del ricorso e del decreto alle altre parti. La sentenza che decide l’opposizione agli atti esecutivi è dichiarata non impugnabile dall’art. 618 (a parte il ricorso per Cassazione). Per stabilire se una sentenza va qualificata come opposizione all’esecuzione (ricorribile in appello) o opposizione agli atti esecutivi (ricorribile solo per Cassazione) fa fede la qualificazione che ha dato il giudice all’opposizione e non la reale natura della stessa. Le nullità del processo esecutivo perdono rilevanza con la sua chiusura e non possono essere fatte valere al di fuori del processo esecutivo.
L’opposizione di terzo Ai sensi dell’art. 619, il terzo che pretende avere la proprietà o altro diritto reale sui beni pignorati può proporre opposizione con ricorso al giudice dell’esecuzione, prima che sia disposta la vendita o l’assegnazione. Il giudice fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti al fine di raggiungere un accordo. Se tale accordo non è raggiunto provvede all’istruzione della causa (se competente) o fissa all’opponente un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti al giudice competente. Se i beni del terzo sono già stati venduti (perché il giudice non ha sospeso la vendita o perché l’opposizione è tardiva), i diritti del terzo si fanno valere sul ricavato.
La sospensione del processo esecutivo* A norma dell’art. 623 la sospensione può essere: 1. prevista dalla legge: quando il processo di cognizione incidentale riguarda l’oggetto del processo esecutivo e non l’oggetto dell’esecuzione forzata (artt. 548 e 601). 2. disposta con un provvedimento del giudice davanti a cui è impugnato il titolo esecutivo: quando il processo di cognizione ha per oggetto l’esistenza del credito. 3. disposta con provvedimento del giudice dell’esecuzione: quando il processo di cognizione ha per oggetto il diritto a procedere ad esecuzione forzata oppure l’oggetto dell’esecuzione e non del processo esecutivo (in caso di opposizione di terzo).
La estinzione del processo esecutivo* Le ipotesi che portano all’estinzione del processo esecutivo sono analoghe a quelle previste dagli artt. 306 e ss. per il processo di esecuzione. 1. rinuncia agli atti del processo esecutivo: la rinuncia proviene sempre e necessariamente dal creditore procedente ed è soggetta ad un regime di accettazione che è diversificato. Il debitore non deve accettare tale rinuncia e non può pretendere la prosecuzione del processo esecutivo. Il regime dell’accettazione della rinuncia da parte dei creditori intervenuti è differente a seconda che la rinuncia avvenga prima o dopo la vendita. Fino a quando non viene emesso il decreto di trasferimento, la 43
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rinuncia agli atti deve essere accettata dagli altri creditori intervenuti con titolo esecutivo, che potrebbero sostituirsi al creditore procedente inattivo nel compiere gli atti necessari per il processo di espropriazione. Dopo la vendita è invece necessaria l’accettazione di tutti i creditori concorrenti intervenuti, anche senza titolo esecutivo. 2. inattività delle parti: l’eccezione di estinzione deve essere proposta dalla parte prima di ogni altra sua difesa e opera di diritto. Una volta che il giudice l’abbia dichiarata, la dichiarazione di estinzione retroagisce al momento in cui è maturata la fattispecie estintiva. Quindi la pronuncia con cui il giudice dichiara l’estinzione del processo è retroattiva al momento in cui l’estinzione si è verificata. Nel processo di esecuzione, a differenza di quello di cognizione, viene emessa sempre sentenza, sia che la questione sia accolta o respinta.
I PROCEDIMENTI SPECIALI Il procedimento di ingiunzione Questo procedimento ha lo scopo di agevolare la formazione del titolo esecutivo. Chi agisce per un credito di denaro o di cose fungibili o per ottenere la consegna di una cosa determinata o anche una prestazione di servizi, può ottenere dal giudice un ordine di pagamento o di consegna, senza chiamare in giudizio l’obbligato, Solo dopo l’emanazione del provvedimento, questo viene notificato all’altra parte, la quale può fare opposizione e provocare così, assumendo il ruolo di attore, il giudizio in contraddittorio. Se la parte intimata non insorge, il provvedimento acquista efficacia esecutiva. Il procedimento di ingiunzione può quindi essere sperimentato vantaggiosamente, allorquando si prevede che la parte intimata non sia per opporre contestazione. Requisito necessario per l’ammissibilità del procedimento di ingiunzione è la prova scritta del credito o del diritto del ricorrente. Non è richiesta la prova scritta per i crediti riguardanti onorari o rimborsi di spese spettanti ad avvocati, procuratori, ufficiali giudiziari o di chiunque altro abbia prestato la sua opera in occasione di un processo, ovvero a notai o ad altri esercenti una libera professione o arte per la quale esista una tariffa legalmente approvata. La competenza a emanare il provvedimento ingiuntivo spetta al giudice di pace, al pretore o al presidente del tribunale che sarebbe competente per la domanda in via ordinaria. Per i crediti riguardanti onorari per prestazioni giudiziali, la competenza spetta al capo dell’ufficio giudiziario che ha deciso la causa alla quale il credito si riferisce. La domanda si propone con ricorso sottoscritto dal procuratore, indicando tutti gli elementi della domanda, le prove che si producono. Il giudice può invitare il ricorrente ad integrare la prova; quindi decide con decreto. Se il giudice ravvisa fondata la domanda emette l’ordine di pagamento o di consegna ingiungendo alla parte di adempiere entro quaranta giorni. In mancanza di opposizione alla scadenza del termine si procede ad esecuzione forzata. Il decreto ingiuntivo non ha efficacia esecutiva neppure ai fini della iscrizione dell’ipoteca giudiziale; ma il giudice può dichiararlo provvisoriamente esecutivo se vi sia grave pericolo di ritardo. Il decreto ingiuntivo deve essere notificato entro sessanta giorni altrimenti perde efficacia. La notificazione del decreto determina la pendenza della lite e apre il termine per proporre opposizione. L’opposizione ha lo scopo e l’effetto di provocare il normale procedimento di cognizione in contraddittorio. Si propone mediante citazione nelle forme ordinarie davanti all’ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il decreto. L’opposizione può anche essere proposta dopo la scadenza del termine fissato nel decreto, non oltre dieci giorni dal primo atto di esecuzione, se l’opponente prova di non aver avuto conoscenza del decreto per irregolarità della notificazione o di non aver potuto presentare l’opposizione nel termine per caso fortuito o forza maggiore. Il decreto ingiuntivo che sia stato dichiarato esecutivo per difetto di tempestiva opposizione ai sensi dell’art. 647, può essere ancora impugnato con i rimedi straordinari della revocazione, per i motivi indicati dall’art. 395 numeri 1,2,5,6 e dell’opposizione di terzo revocatoria. Non è ammessa l’opposizione di terzo semplice.
Il procedimento per convalida di sfratto Il procedimento per convalida di sfratto ha il fine, come il decreto ingiuntivo, di raggiungere una rapida formazione del titolo esecutivo. A differenza del procedimento di ingiunzione, tuttavia, la convalida di sfratto presuppone l’immediata instaurazione del contraddittorio. La citazione si propone davanti al pretore del luogo dove si trova la cosa locata (competenza territoriale inderogabile); è costituita dalla intimazione di rilasciare l’immobile locato e dalla contestuale citazione per la convalida. Tra il giorno di notificazione e quello dell’udienza di comparizione debbono intercorrere non meno di venti giorni liberi. L’intimato dopo la semplice comparizione è legittimato a proporre l’opposizione e a svolgere le altre attività difensive che gli competono. L’ordinanza di convalida di sfratto per morosità non costituisce titolo per ottenere il pagamento dei canoni dovuti. Il locatore può proporre domanda di ingiunzione per il pagamento di questi canoni insieme con l’intimazione di sfratto, ma su questa domanda il giudice deve pronunciare separatamente, con decreto ingiuntivo, steso in calce a una copia dell’intimazione. Se l’intimato compare e contesta il fondamento dell’intimazione o solleva eccezioni, il giudizio deve proseguire per la risoluzione della controversia. L’opposizione all’intimazione ha luogo così nello svolgimento del giudizio instaurato con la citazione per convalida e non assume la forma di un’impugnazione, come l’opposizione al decreto ingiuntivo.
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I procedimenti cautelari e possessori I provvedimenti cautelari sono preordinati a fornire una tutela provvisoria del diritto, sul presupposto di un pericolo nel ritardo; tutela che consiste nella anticipazione provvisoria dei provvedimenti che dovrebbero essere dati a conclusione del giudizio sul merito. La competenza a provvedere sulla domanda di provvedimento cautelare, se non è stata ancora iniziata la causa di merito, spetta al giudice competente per la causa di merito; se questo è il giudice di pace allora la domanda va proposta al pretore del luogo dove si dovrebbe svolgere la causa. La domanda di provvedimento cautelare si propone con ricorso, che deve essere depositato nella cancelleria del giudice competente. Il giudice provvede sulla domanda con ordinanza, dopo aver sentito le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, e assunta cognizione dei fatti, compiendo gli atti di istruzione necessari a questo scopo. Il ricorso e il decreto devono essere notificati all’istante nel termine perentorio di otto giorni. Se la domanda di provvedimento cautelare viene accolta, il procedimento prosegue e deve essere collegato al processo sul merito; se questo non è ancora iniziato, deve essere promosso a cura della parte che ha ottenuto il provvedimento, nel termine perentorio fissato dal giudice di non oltre trenta giorni. L’efficacia del provvedimento cautelare è condizionata dalla pendenza e dall’esito del processo di merito, dato che il provvedimento ha la funzione di garantire il risultato di quel processo. Avverso l’ordinanza che provvede sulla istanza di provvedimento cautelare è previsto anche uno speciale reclamo, che può essere proposto nel breve termine di dieci giorni e nelle forme stabilite per i procedimenti in camera di consiglio.
I sequestri Il sequestro, provvedimento cautelare tipico, tende a garantire l’indisponibilità di determinati beni o cose, necessari al fine che il processo raggiunga il suo pratico risultato. Presupposti del sequestro sono: una pretesa di diritto, di cui si sia riconosciuto il probabile fondamento, e il pericolo che i beni, che formano oggetto di quella pretesa, siano sottratti o dispersi. Si distinguono due specie di sequestro: 1. giudiziario: tende a garantire un preteso diritto su una cosa specifica e costituisce quindi il mezzo di garantire la successiva esecuzione per consegna o rilascio; 2. conservativo: tende a garantire un preteso diritto di credito e può avere ad oggetto qualunque bene che, trovandosi nel patrimonio del debitore, costituisca la garanzia del diritto del creditore. Presupposto del sequestro conservativo è il fondato timore del creditore di perdere le garanzie del credito: timore che deve essere giustificato da circostanze oggettive, quali le diminuite o precarie condizioni economiche del debitore o anche solo l’imprudente o malizioso comportamento di lui. La domanda di sequestro si richiede con ricorso; il giudice provvede con ordinanza o, in caso di particolare urgenza, con decreto. In ogni caso il giudice emana il provvedimento che dispone il sequestro quando possa ritenere, in base ad una cognizione sommaria, il fumus boni iuris della pretesa vantata dal richiedente e l’esistenza di grave pericolo di pregiudizio nel ritardo; e dell’accertamento di questi presupposti deve dare ragione nella concisa motivazione del provvedimento. Il sequestro giudiziario e il sequestro conservativo si eseguono rispettivamente nelle forme dell’esecuzione per consegna o rilascio e dell’espropriazione. Gli effetti del sequestro sono analoghi a quelli del pignoramento e affine è la natura giuridica dei due istituti. Il sequestro crea un vincolo sui beni, ne assicura la destinazione ai fini del processo; quindi rende inefficaci gli atti di alienazione e in genere di disposizione del proprietario nei confronti del creditore sequestrante. Il debitore sequestrato può ottenere la revoca del sequestro prestando idonea cauzione: in questo caso si ha una sostituzione, oltre che dell’oggetto, della forma della cautela.
La denuncia di nuova opera e di danno temuto Il proprietario, il titolare di altro diritto reale di godimento o il possessore, il quale abbia ragione di temere danno da una nuova opera da altri intrapresa, ovvero da un edificio, albero o altra cosa altrui già esistenti, può denunciare all’autorità giudiziaria la nuova opera o la situazione delle cose pericolose per il suo diritto, al fine di ottenere un provvedimento idoneo a evitare il danno. La domanda si propone con ricorso al pretore salvo che non sia già pendente il giudizio di merito. Il provvedimento adottato dal giudice può avere vario contenuto: ordine di sospensione dei lavori, di demolizione e riduzione in pristino, imposizione di idonee cautele nella continuazione dell’opera, ordine di versamento di una cauzione ecc.
L’istruzione preventiva L’esperimento preventivo della prova per testimoni, dell’accertamento tecnico e dell’ispezione giudiziale è ammesso, quando vi sia fondato motivo di temere che l’assunzione della prova o l’accertamento dei fatti possa divenire impossibile in seguito. Normalmente l’assunzione preventiva della prova viene richiesta per l’eventualità di un processo futuro; la competenza a provvedere spetta in questo caso al giudice che sarebbe competente per la causa di merito. L’istanza viene proposta con ricorso, indicando i motivi dell’urgenza, l’oggetto della prova, i testimoni da interrogare e l’esposizione sommaria delle domande o eccezioni alle quali la prova è preordinata. Il giudice ordina con decreto la comparizione delle parti, quindi da il provvedimento nella forma dell’ordinanza non impugnabile, previa assunzione, ove occorra, di sommarie informazioni. In taluni casi peraltro l’eccezionale urgenza di assumere la 45
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prova può rendere praticamente impossibile l’adozione del provvedimento in contraddittorio. Il giudice allora può disporre l’assunzione della prova con decreto, nominando un procuratore che assista alla prova, per la tutela degli interessi delle parti assenti; e a queste parti il decreto deve essere immediatamente notificato a cura del cancelliere. La prova assunta preventivamente non è ancora una prova ammessa. Sull’ammissione deve provvedere nei modi normali il giudice al momento della trattazione della causa di merito; e in questa occasione può anche essere disposta la rinnovazione della prova. Il provvedimento di rigetto di una istanza di istruzione preventiva, come ogni altro provvedimento negativo in materia cautelare, non ha effetto preclusivo.
I provvedimenti d’urgenza Il provvedimento d’urgenza può essere chiesto da chi, fuori dalle ipotesi in cui possono essere emessi i provvedimenti cautelari tipici fin qui esaminati, abbia fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio grave e irreparabile (art. 700). Il provvedimento d’urgenza ha trovato applicazione in situazioni moto diverse: con provvedimento d’urgenza è stato interdetto l’uso del nome di una persona celebre a fini di pubblicità; è stata proibita la proiezione di un film; ordinata l’eliminazione di disturbi a trasmissioni televisive ecc. La domanda si propone con ricorso al giudice competente per materia; se pende la causa di merito, va proposta al giudice che tratta quella causa.
I procedimenti possessori I procedimenti possessori hanno presupposto affine e struttura analoga ai procedimenti cautelari. La turbativa nel possesso è spesso cagione di urgente pericolo, oltre che di danno; e l’invocazione della tutela possessoria prelude o si accompagna non di rado alla controversia sulla proprietà. Quindi al giudizio possessorio, nel quale ha luogo l’emanazione di provvedimenti urgenti, spesso segue il giudizio petitorio. La competenza a giudicare sulle controversie possessorie spetta al pretore del luogo dove è avvenuta la turbativa del possesso. La domanda si propone con ricorso al pretore che provvede con ordinanza dopo aver sentito le parti interessate.
Procedimenti di volontaria giurisdizione La separazione personale fra i coniugi e lo scioglimento del matrimonio Il procedimento di separazione coniugale può assumere sia la forma contenziosa (separazione giudiziale) sia quella volontaria (separazione consensuale). Quest’ultima inizia con un tentativo di conciliazione da parte del presidente. Se la conciliazione non si raggiunge, il presidente deve dare atto in verbale del consenso dei coniugi alla separazione e del regolamento concordato dei rapporti fra coniugi. L’accordo così documentato nel verbale deve essere poi omologato dal tribunale per acquistare efficacia. L’omologazione ha la forma del decreto.
Interdizione e inabilitazione. La domanda si propone con ricorso al tribunale del luogo dove ha residenza o domicilio l'interdicendo o l'inabilitando: essa deve contenere l'esposizione dei fatti e l'indicazione di tutte le persone, che sono legittimati ai sensi dell'articolo 417 del codice civile a proporre l'istanza d'interdizione, e della loro residenza. Il presidente ordina la comunicazione del ricorso al pubblico ministero; quindi, su richiesta del pubblico ministero può rigettare senz'altro l'istanza, se la ritiene infondata. In caso contrario deve provvedere con decreto alla nomina del giudice istruttore e fissare l'udienza. Il giudice istruttore deve procedere all'esame della l'interdicendo o inabilitando, sentire il parere delle altre persone citate e può assumere ulteriori informazioni.
L'assenza e la dichiarazione di morte presunta. Alla nomina del curatore dello scomparso, prevista dall'articolo 48 del codice civile, provvede il tribunale dell'ultimo domicilio dell'ultima residenza, su istanza degli interessati, nelle forme della camera di consiglio. La domanda per dichiarazione d'assenza deve essere notificata ai presunti successori e all'eventuale procuratore o rappresentante dello scomparso, insieme con il decreto di fissazione udienza. Dopo che il giudice ha interrogato queste persone ed ha assunto le opportune informazioni, il tribunale provvede in camera di consiglio, con sentenza. Le sentenze in materia di assenza e di morte presunta sono impugnabili in appello e quindi in cassazione. Le sentenze che dichiarano l'assenza la morte presunta non possono essere eseguite finché non siano passate in giudicato.
Disposizioni relative ai minori, agli interdetti, agli inabilitati ai rapporti patrimoniali fra coniugi. L'autorità giudiziaria ha il compito di emanare numerosi provvedimenti, previsti dal codice civile, per la protezione degli interessi personali e patrimoniali dei minori, degli interdetti e degli inabilitati. Questi provvedimenti, nei quali si esplica una speciale funzione tutoria attribuita ai giudici, possono avere contenuto molto diverso ma rientrano tutti nella giurisdizione volontaria. 46
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La legge 19 maggio 1975, numero 151, di riforma del diritto di famiglia, ha abolito l'istituto del patrimonio familiare, al quale si riferiscono gli articoli 735 e 736, ma ha attribuito all'autorità giudiziaria una competenza in varie questioni relative ai rapporti patrimoniali fra coniugi, con riferimento alla gestione della comunione dei beni, che costituisce ora il regime normale. Il tribunale deve provvedere col rito della camera di consiglio, sentito il pubblico ministero. La forma del provvedimento è la sentenza, nel caso di separazione giudiziale dei beni; negli altri casi debbono essere seguite le forme del rito camerale previste dagli articoli 737, 742. Peraltro, quando il procedimento riguarda materia contenziosa, deve essere osservato il principio del contraddittorio e il decreto, per il suo contenuto decisorio, è impugnabile, oltre che in secondo grado, a norma dell'articolo 739, anche in cassazione, a norma dell'articolo 111 della costituzione.
Disposizioni relative all'apertura delle successioni. L'autorizzazione alla vendita dei beni ereditari, prevista in diverse ipotesi dal codice civile, deve essere chiesta nella forma del ricorso al pretore, se i beni sono mobili, o al tribunale, se i beni sono immobili, del luogo dell'aperta successione; deve essere sentito il giudice tutelare se i beni appartengono a incapaci. Il procedimento si svolge nelle forme normali della camera di consiglio; la vendita si esegue nelle forme della vendita dei beni dei minori. L'istanza per ottenere la fissazione di un termine entro il quale una persona deve emettere una dichiarazione o compiere un determinato atto, si propone con ricorso al pretore del luogo dell'aperta successione; il pretore provvede con ordinanza. L'istanza per l'imposizione di una cauzione all'erede, al legatario o all'esecutore testamentario si propone con ricorso al presidente del tribunale del luogo dell'aperta successione; il presidente provvede con decreto dopo aver sentito gli interessati. La scelta del beneficiario può essere chiesta con ricorso al presidente del tribunale del luogo dell'aperta successione il quale provvede con decreto, dopo aver sentito gli interessati. L'apposizione dei sigilli ha lo scopo di assicurare la conservazione dei beni mobili pertinenti ha un patrimonio ereditario e dei documenti relativi, nell'interesse dell'erede o di chi altro possa avervi diritto. Competente a provvedere è il pretore, ma nei casi d'urgenza, nei comuni in cui non ha sede il pretore, può provvedere anche il giudice di pace. La rimozione dei sigilli è coordinata dal pretore con decreto su istanza dell'esecutore testamentario o di coloro che possono avere diritto alla successione o dei creditori. Chiunque abbia interesse può fare opposizione alla rimozione dei sigilli con dichiarazione inserita nel processo verbale di apposizione o con ricorso al pretore. L'inventario consiste essenzialmente nella formazione ad opera di un pubblico ufficiale di un verbale definitivo dei beni compresi in un determinato patrimonio e dei relativi documenti, al fine di accertare la consistenza l'identità dei beni stessi. L'istanza per ottenere l'inventario può essere proposta con ricorso dalle persone che hanno diritto a chiedere la rimozione dei sigilli. Il provvedimento è dato con decreto; l'esecuzione è affidata al cancelliere della pretura o ad un notaio designato dal defunto con testamento o nominato dal pretore.
La copia e la colazione degli atti pubblici. Anche questo procedimento sembra sia da ascrivere alla volontaria giurisdizione, sebbene ciò sia per lo più negato. I pubblici depositari di atti autorizzati a spedirne copia, hanno il dovere di rilasciarne copia autentica a chiunque ne faccia istanza, salve le disposizioni speciali delle leggi sulle tasse di registro e di bollo. Egualmente, cancelliere e depositari di pubblici registri hanno il dovere di rilasciare le copie e gli estratti degli atti giudiziari da essi detenuti. L'intemperanza di questo dovere fa incorrere il pubblico depositario o il cancelliere in responsabilità per i danni cagionati. Ma il codice stabilisce anche uno speciale procedimento per ottenere l'ordine di spedizione della copia nel caso di rifiuto o di ritardo del depositario o del cancelliere. L'istanza si propone con ricorso al presidente del tribunale del luogo dove il pubblico depositario degli atti esercita le sue funzioni, o al capo dell'ufficio giudiziario presso il quale il cancelliere o il pubblico depositario dei registri esercita le sue funzioni. il presidente provvede con decreto, dopo aver sentito il pubblico ufficiale. Chi ha ottenuto copia di un atto pubblico ha poi diritto di collazionarla con l'originale in presenza del pubblico ufficiale; e, se questi si rifiuta, può ricorrere al pretore del mandamento nel quale il depositario esercita le sue funzioni. Il pretore, sentito il depositario, da con decreto le disposizioni opportune per la collazione e può darvi egli stesso esecuzione, recandosi nell'ufficio del depositario. Avverso questi decreti si deve ritenere ammissibile il reclamo nelle forme della camera di consiglio.
Il procedimento di divisione Il codice civile riconosce a chi sia partecipe di una comunione il diritto di domandarne lo scioglimento. Quando la divisione non possa essere ottenuta sull’accordo dei comunisti, ciascuno di essi può sperimentare l’azione di divisione e promuovere il relativo giudizio. Il procedimento di divisione inizia con la citazione di tutti i coeredi e degli eventuali creditori opponenti (litisconsorzio necessario). Mediante le operazioni di divisione si perviene alla redazione di un progetto di riparto della massa in diverse porzioni da attribuire o da assegnare mediante sorteggio ai vari partecipanti alla divisione (art. 729 c.c.). Se si raggiunge l’accordo sul progetto predisposto dal giudice, questi dichiara il processo esecutivo con ordinanza non impugnabile. Se le parti non sono d’accordo è necessario procedere nelle forme del giudizio contenzioso alla risoluzione della controversia.
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Il procedimento di purgazione delle ipoteche Il terzo acquirente dei beni ipotecati che ha trascritto il suo titolo e non è personalmente obbligato a pagare i creditori ipotecari, ha facoltà di liberare i beni da ogni ipoteca trascritta anteriormente alla trascrizione del suo titolo di acquisto. Per esercitare questo suo diritto, il terzo deve offrire ai creditori il prezzo stipulato o il valore dell’immobile da lui stesso dichiarato, se il bene gli è pervenuto a titolo gratuito, e il prezzo del bene non deve essere inferiore a quello stabilito per la vendita all’incanto. Il terzo, dopo aver notificato la dichiarazione di voler liberare l’immobile, deve chiedere con ricorso al presidente del tribunale competente per l’espropriazione la determinazione dei modi per il deposito del prezzo offerto: il presidente dà il relativo provvedimento con decreto. Se entro quaranta giorni dalla notificazione della dichiarazione non viene fatta richiesta di espropriazione, il terzo deve provvedere al deposito del prezzo e deve poi presentare in cancelleria il relativo certificato e gli altri documenti indicati dall’art. 792/2 (tutto ciò nel termine di sessanta giorni). Quindi il presidente nomina con decreto un giudice e fissa l’udienza per la comparizione dei soggetti interessati. Il giudice, se non sono state proposte istanze di espropriazione, dispone con ordinanza la cancellazione delle ipoteche anteriori alla trascrizione del titolo del terzo istante e provvede alla distribuzione della somma depositata ai creditori.
Il procedimento di delibazione Il procedimento di delibazione ha il fine di attribuire efficacia alle sentenze straniere, alle sentenze arbitrali formate all’estero, ai provvedimenti stranieri di volontaria giurisdizione e agli atti pubblici ricevuti all’estero. La competenza per il procedimento di delibazione è attribuita in unico grado alla corte d’appello del luogo in cui la sentenza deve avere attuazione. Questa competenza ha carattere funzionale e inderogabile. La domanda deve essere proposta mediante citazione di coloro nei cui confronti si vuol far valere la sentenza e altresì di coloro che furono parti nel processo straniero. Al fine di attribuire efficacia alla sentenza straniera, la corte deve anzitutto riconoscere in essa gli elementi essenziali, che secondo il nostro ordinamento caratterizzano la sentenza. Può essere delibata soltanto la sentenza passata in giudicato; non quindi la sentenza esecutiva non ancora passata in giudicato, la quale non può avere esecuzione in Italia. Sulla controversia decisa dalla sentenza straniera non deve avere pronunciato sentenza il giudice italiano e non deve essere neppure pendente un processo nello Stato.
L’arbitrato L'arbitrato rituale e l'arbitrato libero. La legge consente alle parti di differire la risoluzione delle controversie, insorte o che siano per insorgere tra loro, a soggetti privati, gli arbitri, in luogo di farle decidere dagli organi giurisdizionali competenti. Gli arbitri formano il giudizio, ma non agiscono come organi dello stato, non subiscono dei poteri d'autorità, che sono inerenti all'esercizio della funzione giurisdizionale, e la decisione che suggella il loro giudizio, il lodo, non ha l'efficacia della sentenza; ma una efficacia analoga può essere conferita dall'autorità giudiziaria con un apposito provvedimento, il decreto del pretore. Con la legge nove febbraio 1983 numero 28, emanata per adeguare la disciplina dell'arbitrato alle convenzioni internazionali alle quali l'Italia aderito, è stata attribuita al lodo una immediata efficacia vincolante, obbligatoria, che deriva dalla volontà contrattuale delle parti espressa nel compromesso. Il successivo deposito del lodo, per fargli assumere efficacia esecutiva, è divenuto facoltà e compito delle parti. L'accordo delle parti di differire agli arbitri determinate controversie fra loro insorte, costituisce uno speciale negozio giuridico, il compromesso. Con questo accordo le parti regolano l'esercizio del loro diritto di azione, disponendo nell'ambito della loro autonomia, senza deroga al principio costituzionale che riserva la funzione giurisdizionale a giudici precostituiti, dato che il differimento della lite agli arbitri non implica conferimento di poteri giurisdizionali. L'arbitrato libero si ha quando le parti mirano non già al perfezionamento di un contratto, ma propriamente alla risoluzione di una controversia che peraltro stabiliscono dare alla controversia risoluzione convenzionale, a mezzo di un terzo (come nell'arbitraggio). Il fondamento dell'arbitrato rituale va riconosciuto nella facoltà, compresa nell'autonomia convenzionale delle parti, di risolvere le controversie mediante transazione.
Il compromesso e la clausola compromissoria. Il compromesso deve avere forma scritta. Per la conclusione del compromesso sono richiesti la stessa capacità gli stessi requisiti stabiliti per la formazione dei contratti eccedenti l'ordinaria amministrazione. Il codice prescrive che sia specificato nel compromesso l'oggetto della controversia e siano designati gli arbitri ovvero sia indicato il loro numero, che deve essere sempre dispari. Le parti possono compromettere controversia non ancora sorte, che possono derivare dall'interpretazione o dall'esecuzione di un determinato contratto, mediante un'espressa pattuizione, la clausola compromissoria, inserita nel contratto medesimo o in atto successivo.
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Non possono essere definite agli arbitri le controversie relative a rapporti indisponibili. Le parti possono autorizzare gli arbitri a giudicare secondo equità. Ma, anche se autorizzati a giudicare secondo equità, gli arbitri non possono derogare dalle norme di ordine pubblico. L'accordo di differire agli arbitri il giudizio ha l'effetto di rendere improponibile la domanda davanti al Giudice, effetto praticamente analogo quello dell'incompetenza.
Gli arbitri. Le parti possono designare gli arbitri nel compromesso o nella clausola compromissoria, ovvero possono riservare si di nominarli in seguito o riservarne la nomina all'autorità giudiziaria o a un terzo. La designazione degli arbitri comunque avvenuta non investe gli stessi dell'incarico, né produce nei loro confronti obbligazioni. Perché questo avvenga è necessaria l'accettazione degli arbitri, la quale deve essere data per iscritto o anche con semplice sottoscrizione del compromesso.
Il procedimento e il giudizio. La disciplina del procedimento davanti agli arbitri può essere stabilita dalle parti nel compromesso o nella clausola compromissoria o con atto successivo, purché anteriore al processo, se le parti non hanno dato disposizioni in proposito, gli arbitri stessi possono regolare lo svolgimento del giudizio nel modo che credono opportuno. La parte che da' inizio all'arbitrato notifica alle altre parti un atto nel quale dichiara la propria intenzione di promuovere il giudizio arbitrale, propone la domanda e provvede alla nomina dell'arbitro o degli arbitri che fosse di sua spettanza.
Il lodo e il decreto di esecutorietà. Il procedimento arbitrale si conclude con una pronuncia decisoria, il lodo. Il codice stabilisce alcune regole temporali e formali per l'emanazione del lodo. Il potere attribuito agli arbitri è contenuto entro un limite di tempo, che può essere stabilito dalle parti e, in difetto, viene stabilito dalla legge in 180 giorni. Questo termine decorre dall'accettazione della nomina da parte degli arbitri ed entro il termine il lodo deve essere non soltanto deliberato, ma anche sottoscritto. La decorrenza del termine importa la decadenza degli arbitri rende nulla la decisione. Ciascuna delle parti ha la facoltà di provvedere al deposito del lodo per fargli acquistare, con decreto del pretore, l'efficacia esecutiva. Il pretore deve compiere un esame estrinseco di legittimità sul lodo, analogo al giudizio di delibazione sul giudicato straniero.
Le impugnazioni. il lodo che conclude il procedimento arbitrale, è una pronuncia vincolante per le parti; e come tale può formare oggetto di impugnazione indipendentemente dal decreto di esecutorietà. Oltre al mezzo di impugnazione caratteristico costituito dalla impugnazione per nullità, sono previsti la revocazione e l'opposizione di terzo. Il termine per la proposizione dell'impugnazione nullità è di 90 giorni e decorre dalla notificazione del lodo. Il termine annuale per l'impugnazione del lodo non modificato decorre invece dall'ultima sottoscrizione del lodo.
Processo del lavoro Le controversie relative ai rapporti di lavoro subordinato privato, di affitto a coltivatore diretto, di agenzia, di rappresentanza commerciale, ecc. sono in primo grado di competenza del pretore in funzione di giudice del lavoro. Competente per territorio è il giudice nella cui circoscrizione è sorto il rapporto ovvero si trova l'azienda alla quale è addetto il lavoratore; per i rapporti di agenzia e simili è competente il giudice nella cui circoscrizione si trova il domicilio del lavoratore. La domanda si propone con ricorso, che viene depositato presso la cancelleria del pretore competente il quale fissa l'udienza di discussione con decreto. Questo è notificato con il ricorso al convenuto. Nell'udienza di discussione il giudice interroga liberamente le parti e tenta la conciliazione della lite. Se questa non riesce, egli procede all'istruzione probatoria, alla quale seguono la discussione orale, le conclusioni delle parti e la pronuncia della sentenza il cui dispositivo viene immediatamente letto in aula. La sentenza è provvisoriamente esecutiva: se pronunciata a favore del lavoratore può essere sospesa dal tribunale (giudice d'appello per il p. del lavoro) se all'altra parte può derivare un gravissimo danno e ciò per le cifre superiori a 500.000 lire; se pronunciata a favore del datore di lavoro può essere sospesa quando ricorrono gravi motivi.
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