cinema
LUX settembre dicembre 2013
lunedì ore 21.00
circolo the Last Tycoon
Mildred Pierce Carlos
Nagisa Ōshima: un “imperatore” del cinema
La deriva seriale dell’architettura cinematografica investe anche il cinema invisibile. Dopo la riscoperta dell’esperienza italiana di Gianluca Maria Tavarelli (Le cose che restano – proposto in cinema invisibile ottobre/dicembre 2012) ecco la folgorante messa in scena di Todd Haynes che con il suo Mildred Pierce rilegge Il romanzo di Mildred (Michael Curtiz, 1945). Se quest’ultimo è un classico del noir le 5 puntate affidate all’interpretazione di Kate Winslet hanno meritato l’imprinting del Festival di Venezia (che le ha presentate nella 68a edizione - 2011) e, di recente, di un poco valorizzato passaggio in tarda serata su LaEffe. Il “patchwork” che li affianca nel programma di settembre-dicembre (tutte versioni originali sottotitolate) permette un confronto critico tra due diversi approcci al testo di James M. Cain e tra le straordinarie interpretazioni di due attrici icone di un’epoca: Joan Crowford (che con Mildred si aggiudicò l’oscar) e la Winslet premiata con l’Emmy per questa serie televisiva. Un altro esempio di serialità d’alto livello è quella di Carlos il tredicesimo lavoro di Olivier Assayas, presentato a Cannes nel 2010 e uscito in una versione ridotta a meno di tre ore solo in alcune piazze europee. Qui, nella originaria durata di 330 minuti (3 puntate), riesce ad esprimersi al meglio la tensione narrativa di una documentata ricostruzione storica (la vita del terrorista venezuelano Ilich Ramírez Sánchez) sapientemente mediata nella rivitalizzazione della fiction. Infine non poteva mancare, anche in questa serie del cinema invisibile, una retrospettiva d’autore. La scomparsa a gennaio di Nagisa Ōshima “imponeva” la riproposta di cultmovie quali La cerimonia (1971), L’impero dei sensi (1976), Furyo (1983). Ad essi, per una più approfondita visione d’insieme, si aggiungono L’impiccagione (1968), l’altro “impero” (L’impero della passione, 1978) e Tabù–Gohatto, ultima opera (1999) di una densissima filmografia (53 titoli dal 1959). Come da calendario le proiezioni si effettueranno al lunedì al Lux con l’eccezione dei due “imperi” programmati al giovedì nella sede del circolo in via C. Battisti 88 e per i quali è richiesta la prenotazione. L’inizio degli spettacoli è alle ore 21.00. La serata d’apertura (prima puntata di Mildred Pierce) è ad ingresso gratuito. ezio leoni
LUX
30
sett lunedì
1a puntata
ingresso gratuito
7
ott lunedì
2a e 3a puntata
14
ott lunedì
4a puntata
21
ott lunedì
5a puntata
Mildred Pierce
Todd Haynes - USA 2011 - 5h 32’ serie tv in 5 puntate - versione originale sottotitolata Mildred Pierce è mamma, moglie e casalinga nell’America della Grande Depressione. Tradita e abbandonata dal marito, tra una torta e l’altra cerca lavoro a Los Angeles per garantire futuro e privilegi alle sue bambine, Ray e Veda. Assunta come cameriera in una tavola calda, Mildred rivela presto il suo talento di cuoca e pasticcera, che mette in pratica aprendo un ristorante. Rialzata la testa ma segnata da un lutto profondo, Mildred prende letteralmente in mano il suo futuro e quello di Veda, musicalmente dotata e in evidente conflitto con lei. Tra una mamma indefessa e una figlia insidiosa si insinua Monty Beragorn, giocatore di polo ricco e viziato che pratica il dolce far niente. Ambientato negli anni Trenta e nell’America in crisi del repubblicano Herbert Hoover, Mildred Pierce è un (melo)dramma in cinque atti prodotto dalla HBO e magnificamente diretto. Haynes, come in Lontano dal paradiso nove anni prima, mostra un’ossessiva fedeltà formale nei confronti di un genere che viene nondimeno attualizzato e modificato. Qui di fatto trasforma l’infiammabilità inesplosa e trattenuta dei mélo americani in un film (a puntate) che divampa sotto i nostri occhi. Un violento e viscerale congegno narrativo che non si limita a riesumare spoglie di un genere che fu per giocare col cuore e la memoria colta dei cinefili ma che affronta, sotto la compostezza della messa in scena, il sogno americano declinato al femminile. Al centro del dramma e alla periferia di Los Angeles abita una donna che sceglie di affermare la propria fermezza e il conseguente bagaglio di sofferenza. Adattamento fedele e puntuale dell’omonimo romanzo di Cain, Mildred Pierce riprende un discorso cinematografico che non sembra soltanto citato e rivisitato nelle musiche, nelle scene, nei costumi e nella grafica dei titoli di testa ma pure splendidamente proseguito e aggiornato. Scegliendo il mélo come territorio della sua autopsia dell’America di quegli (e questi) anni, la mini-serie diventa una messa in discussione del presente compiuta attraverso uno sguardo predatato. Il vero dramma è che quella società è quasi uguale a questa, soltanto un po’ meno consapevole della propria stritolante violenza. Meno ‘nero’ e più ‘osservante’ della trasposizione del ‘45 di Curtiz, la versione di Haynes è un’esperienza emotiva purificatrice che mette in schermo
il bene e il male, la luce e il buio, schierando davanti allo ‘specchio della vita’ una madre intraprendente che lotta e ‘impone’ la sua gentilezza e una figlia inappagata la cui cruda concupiscenza per la celebrità ignora tutti tranne se stessa... Marzia Gandolfi – Mymovies.it
28
ott lunedì
lux
Mildred Pierce - Il romanzo di Mildred Michael Curtiz – b/n USA 1945 – 1h 50’ versione originale sottotitolata
Le difficoltà economiche e sentimentali di una donna (Joan Crawford) che, piantata dal marito, lavora duro per rifarsi una vita ma deve poi sottostare ai capricci di una figlia ambiziosa e perfida (Ann Blyth). Eccezionale commistione fra melodramma e film noir, pieno di tutti i tormenti, le paure e l’aggressività attribuite alle donne americane durante e subito dopo la guerra («certo Mildred non è una detective hard-boiled, ma ne è l’equivalente nell’unico modo possibile per un’eroina degli anni Quaranta»). Una scena iniziale di esemplare maestria registica, una serie di intense interpretazioni (nella parte della protagonista, la Crawford vinse l’Oscar) e, all’origine, un solido e intelligente romanzo di James M. Cain (in un cui però manca la figura dell’assassinio di Zachary Scott da parte di Ann Blyth, che invece è diventato il fulcro del film). Sceneggiato da Ranald MacDougall e Catherine Turney. Dizionario dei film – a cura di Paolo Mereghetti
Lo scandalo di L’impero dei sensi (1976), che portò prepotentemente alla ribalta la figura di Nagisa Ōshima (1932-2013), costituisce il giro di boa del suo iter artistico. Il rigurgito trasgressivo degli anni ‘70 trovò in quel crudo racconto di aberranti dinamiche erotiche un provocatorio punto di riferimento; la sua “gloria occidentale” sarebbe stata consacrata due anni dopo dal premio per la miglior regia al Festival di Cannes a L’impero della passione. L’essenza del cinema di Ōshima va però ricercata nella complessità della sua filmografia che vede i suoi contrastati esordi alla fine degli anni ‘50: Il quartiere dell’amore e della speranza, Racconto crudele della giovinezza e Notte e nebbia sul Giappone fotografano un Giappone spersonalizzato, con le nuove generazioni turbate da un passato segnato dalla sconfitta ed un presente in crisi d’identità (l’ingerenza USA!). Per Ōshima «il senso della storia vacilla tra il marxismo e l’utopia di una nuova identità nazionale... e la dimensione poetica di tutto il suo cinema nasce dalla visione di una umanità umiliata dalla guerra, affamata di sesso, disperata e ferita, sempre più povera, per la quale qualsiasi atto di ribellione diventa atto rivoluzionario contro il potere e gli uomini che lo detengono». Su queste premesse L’impiccagione (1968) estremizza il suo furore ideologico-espressivo affidando al “meccanicismo” dell’esecuzione capitale lo scarto simbolico tra una rivalsa soggettiva (generazionale) e il fatalismo che soggioga la società e le istituzioni. Ma bisogna arrivare a La cerimonia (1971) perché l’arte cinematografica di Ōshima si esprima nella sua compiuta grandezza. La storia del clan Sakurada, la tormentata vita del giovane Masuo, sono lo specchio impietoso di un Giappone dilaniato, oppresso dai fantasmi della guerra e della morte, imbrigliato nei lacci della famiglia e dei suoi canoni rituali. L’obiettivo di Ōshima è quello di sovvertire lo status social-cinematografico che lo circonda, destrutturando l’architettura tradizionalistica dei rapporti familiari e personali, dei riti e della sessualità. In questo contesto simbolico ed autobiografico (del regista e di una nazione) il cerimoniale della tradizione si configura come una gabbia esistenziale che solo la ricomposizione “teatrale” del processo creativo può scardinare e a cui solo l’iperbole di un cinema vibrante e visionario può dare il respiro di una tragedia universale. Se sono questi gli atteggiamenti autoriali, ancor più estremizzati, che ritornano negli amori funesti dei due imperi, con Furyo (1983) Ōshima allarga lo sguardo oltre le contraddizioni dell’ostilità e delle passioni familiari, “processando” l’ottica istituzionale che incornicia, giustifica ed esalta la crudeltà dell’essere umano. Il tema dell’omosessualità, presente in Furyo, fa poi da ponte con Tabù-Goatto (1999), ultima tappa del cammino dissacratore di Oshima: è solo una calma apparente quella della contemplazione estatica della bellezza; ancora una volta la forza delle pulsioni è inarrestabile, lo spettro della morte incombe e il rigore della ragione nulla può contro l’impero dei sensi... (e.l.)
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nov lunedì
lux
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nov lunedì
lux
Koshikeil - L’impiccagione b/n Giappone 1968 – 1h 58’ versione originale sottotitolata
L’impiccagione di uno studente, condannato per avere stuprato e ucciso due ragazze giapponesi, non riesce: l’uomo non muore e perde la memoria. Per ridargli un’identità, i burocrati della giustizia tentano una psicoterapia, improvvisandosi attori che mimano le fasi salienti della sua vita e i delitti da lui commessi. Per rievocare l’ultimo crimine si ricorre a una ragazza (non attrice) coreana come lui. L’imputato ritrova sé stesso e può essere impiccato. La botola si riapre, lui precipita nel vuoto, ma il cappio non stringe nulla. Uno dei più potenti film di Oshima: “un grido di rivolta (contro il potere), un insulto ai sacri principi (l’ordine, la legge e le sue ipocrisie), un divertimento macabro, una fiaba allucinata” (F. Di Giammatteo). Scritta dal regista con Tsumotu Tamura, Mamoru Sasaki e Michinori Faukao, anche se che nella 2ª parte s’ingorga e ridonda per un eccesso di simbolismi e di indignazione, resta un’acre parabola satirica (alla Brecht). Il Morandini - Dizionario dei Film
Gishiki - La cerimonia Giappone 1971 – 2h 3’ versione originale sottotitolata
La storia del Giappone dal 1947 al 1971, rivista attraverso le cerimonie che hanno segnato la vita del giovane Masuo: tre funerali e due matrimoni che mettono in evidenza lo scontro, spesso crudele, tra i formalismi di un’organizzazione tradizionale come la famiglia Sakurada (sempre pronta anteporre la volontà del gruppo agli interessi paticolari) con la realtà in via di trasformazione che la circonda. Forse l’opera più ambiziosa del regista, tutta costruita dentro una ritualità esasperata dove «ogni cerimonia è una tragedia in un solo atto, destinata da sempre a lasciar tutto come prima». Disperato grido di ribellione di un giapponese che cerca di fare i conti col proprio passato macchiato da una «infamia» come la guerra che non potrà mai razionalizzare né esorcizzare. Interrogandosi sui propri fantasmi, Masuo (ma evidentemente anche Ōshima stesso) ricompone così, in un’opera personalissima calata nelle radici dell’anima giapponese, i temi eterni della cultura di un Paese: l’ossessione della morte e del suicidio, la forza dei legami familiari e di clan, l’oppressione di un’autorità che continua a far sentire il peso delle tradizioni, lo scontro tra irrazionalismo e razionalismo. Bello e angoscioso. Dizionario dei film – a cura di Paolo Mereghetti Rivelazione a Pesaro nel ‘71, è il film che più ha contribuito, forse per la simmetrica limpidezza della sua struttura a flashback, a far conoscere il nome di Ōshima e dare un’idea del suo difficile cinema. Di questo cinema, tutto imperniato sul tema autobiografico della tragedia della giovinezza mancata, Gishiki (due ore densissime di atti, di tensioni, di splendore figurativo) può dirsi la summa. Il tema autobiografico si dilata e, se c’è autobiografia, è l’autobiografia di un’intera nazione che rivisita gli ultimi venticinque anni della sua storia attraverso alcune date cruciali: ‘47, ‘52, ‘56, ‘61, e si ritrova senza un’identità, come l’io narrante Masuo. Il monologo interiore del protagonista porta alla luce della coscienza il teatro della famiglia Sakurada come perversa messinscena, luogo d’incubo, labirinto di demoni, magnificato come tale dallo sguardo visionario di Oshima, per il quale la famiglia Sakurada non è altro che la famiglia-Giappone, aggrappata ai suoi riti millenari, incapace di riconoscersi e di accettarsi. Sergio Arecco - Dizionario Universale del Cinema (a cura di Fernaldo di Giammatteo)
nov
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giovedì
sede Circolo - via Battisti 88
L’impero dei sensi (Ai no Korida) Giappone/Francia 1976 – 1h 38’
Il morboso rapporto che lega Kichizo alla giovane cameriera Abe Sada spinge i due amanti alla ricerca di un rapporto sessuale sempre più estremo: chiusi in camere d’albergo o in mezzo a un gruppo di geishe, mettendo in scena un impossibile matrimonio (lui è sposato) oppure coinvolgendo una vecchia cadaverica, inventano giochi erotici con un uovo sodo o con un laccio strangolatore, con cui Sada regalerà a Kichizo e a se stessa l’ultimo irripetibile amplesso. Poi, morto l’uomo durante l’orgasmo, la donna gli taglierà i genitali e fuggirà portandoli con sé... Tratto da un fatto di cronaca del 1936 (a cui si è ispirato anche Noburo Tanaka per il suo Abesada, l’abisso dei sensi), il film ha provocato scandali e censure, subendo il marchio pornografico dell’hardcore per le molte scene girate in maniera realistica (ma comunque mai volgare). Influenzato da un Bataille riletto attraverso le componenti più sadomasochistiche della cultura giapponese, il film rifiuta polemicamente la realtà storica per rinchiudersi in una «minuziosa, insostenibile, affascinante descrizione dei suoi rituali di possesso sessuale», nuova e ulteriore rappresentazione dell’alienazione sociale da parte del più immoralista e visionario dei registi nipponici. Dizionario dei film – a cura di Paolo Mereghetti
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nov lunedì
lux
Merry Christmas Mr. Lawrence - Furyo Giappone/Gran Bretagna/Nuova Zelanda 1983 – 2h 2’ versione originale sottotitolata
In un campo di concentramento giapponese a Giava, nel 1942, il comandante Yonoi (Rvuichi Sakamoto), frustrato per non essere al fronte a morire per l’imperatore, non riesce a combattere il fascino che esercita su di lui l’ufficiale inglese Jack Celliers (David Bowie). Tratto da un romanzo di sir Laurens Van Derr Post, il film «narra e illumina i meandri di ogni conflitto che dilania gli uomini» superando immediatamente i limiti di una lettura solo in chiave omosessuale: il desiderio non vive attraverso due uomini, ma investe due
culture e due tradizioni, acutissima espressione di quel movimento oscillante di attrazione/ repulsione che caratterizza la cultura giapponese dell’intero Novecento. Raccontato in maniera corale, attraverso i drammi e le angosce dei prigionieri e dei soldati giapponesi, scandito nel dialogo dall’ossessiva citazione dei paragrafi del regolamento militare, il film diventa così un’intensa ed emozionante riflessione sull’irrazionalità della guerra e delle passioni, sulle contraddizioni della storia e dell’educazione (le sevizie subite fanno ricordare a Celliers una sua antica colpa e i crudeli riti di iniziazione dei novellini in un college inglese), sulla ferocia e l’insensatezza della giustizia. Il film si chiude, infatti, dopo la fine della guerra, con l’inutile condanna a morte da parte del tribunale militare del sergente Hara - interpretato da un indimenticabile Takeshi Kitano - che saluta uno dei suoi ex prigionieri, il dottor Lawrence (Tom Conti), con un commovente «Buon Natale, mister Lawrence». Da antologia la scena del bacio di Bowie a Sakamoto (la più famosa rock star giapponese, autore della straordinaria colonna sonora). Dizionario dei film – a cura di Paolo Mereghetti
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nov giovedì
sede Circolo - via Battisti 88
L’impero della passione (Ai no borei) Giappone/Francia 1978 – 1h 41’ PREMIO ALLA REGIA AL FESTIVAL DI CANNES
1896: l’ancora piacente Seki diventa l’amante del giovane ex soldato Tokoji, e insieme strangolano il marito Gisaburo. Ossessionati dal fantasma dell’ucciso, i due finiranno per confessare, anche se resteranno fedeli uno all’altro, fino alla morte. Dopo L’impero dei sensi, Ōshima racconta la storia di un’altra coppia maledetta, che neanche la paura della giustizia e dell’Aldilà riesce a separare. Anche se manca la passione che ci si aspetterebbe: dopo le polemiche e i processi per il film precedente, rinuncia all’hardcore (e ci perde) per rifugiarsi in un formalismo abbagliante quanto freddo. Anche sul versante fantastico, pochi lampi (gli amanti che rovistano nel fango alla ricerca del cadavere di Gisaburo) si alternano alla maniera. Dizionario dei film – a cura di Paolo Mereghetti
25
nov lunedì
Tabù - Gohatto Giappone 1999 – 1h 39’
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Primavera 1865. Presso il tempio NishiHonganji, i samurai del clan Shinsengumi stanno selezionando nuovi soldati. Tra tutti gli aspiranti solo due vengono scelti: Hyozo Tashiro, un samurai di bassa origine del clan Kurume e l’attraente Sozaburo Kano. Costui diventa subito oggetto delle attenzioni di Tashiro. Sono le regole rigide a tenere unito il gruppo, ma la bellezza di Kano sconvolge l’ordine provocando rivalità e gelosie. Non solo di ordine militare. “Ho passato la mia vita a infrangere tabù” afferma il sessantanovenne Nagisa Ōshima. Ed è vero. Basti pensare a L’impero dei sensi o al più fruibile ma altrettanto fuori dagli stereotipi Furyo. Quale tabù è più radicato per i giapponesi della virilità dei samurai? Ōshima la mette in dubbio con la raffinatezza di sguardo che gli è abituale, ma anche con decisione. Il Morandini - Dizionario dei Film
Non è nuova la storia del magnifico Tabù - Gohatto, il film che segna il ritorno del giapponese Nagisa Ōshima dopo anni di inattività e malattia. Dal Billy Bud di Melville al pasoliniano Teorema, passando per Furyo, il capolavoro dello stesso Ōshima, molti sono i titoli che si potrebbero citare (...) Fra Eros e Thanatos, la fine di una casta e di un’epoca. Implacabile, glaciale, percorso da una sottilissima ironia ma anche da fulminee impennate liriche. Un film perfetto, da cima a fondo. Fabio Ferzetti - Il Messaggero
LUX
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dic lunedì
1a puntata
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dic lunedì
2a puntata
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3a puntata
Carlos Olivier Assayas - Francia 2010 - - 5h 30’ serie tv in 3 puntate - GOLDEN GLOBE 2011 COME MIGLIOR MINISERIE/FILM TV Carlos è il nome in codice di Ilich Ramírez Sánchez, terrorista mercenario filopalestinese di origini venezuelane (ma attivo più che altro in Europa), autore di alcune tra le più violente stragi degli anni ‘70 e al centro di una gigantesca caccia all’uomo della polizia. Carlos è bello, prestante e furbo. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina lo prende con sé e lui fa carriera velocemente grazie al carattere, almeno fino al clamoroso assalto al quartier generale dell’OPEC nel 1975, quando riuscì a sequestrare sessanta ostaggi e scappare con loro in un DC-9 fornito dalla polizia. Quell’operazione però è anche l’inizio della fine dei rapporti con il FPLP e l’inizio della peregrinazione che nel giro di vent’anni lo porterà in carcere. Ultimo innesto di una fortunata serie di film europei, per il cinema e per la tv, che affrontano con epica, gusto e forte senso dell’intrattenimento gli anni di piombo (non in senso temporale stretto ma in senso lato), leggendo le vite e le opere dei più noti villain della cronaca, Carlos non si distacca per stile, toni e approccio dai suoi predecessori. Come già fece Marco Tullio Giordana trattando le Brigate Rosse in La meglio gioventù, i criminali riconosciuti e condannati sono raccontati con i tempi e le modalità del cinema d’azione (sempre all’europea, s’intenda) ma cercando in ogni momento di far sì che l’epica che si accompagna al genere non scada nell’apologia. (…) Il Carlos di Assayas è bello e desiderabile e il regista non esista a dilungarsi molto nelle scene che mostrano il corpo nudo di Ramirez, nel suo fare avanti e indietro tra forma smagliante e pesante ingrassamento. Carlos è un guerriero e come tale ha un corpo che è in sé un’arma (...). L’opera nel suo complesso disegna un affresco molto attento alla ricostruzione storica. Un cartello prima dell’inizio spiega per bene cosa è vero e cosa no, cosa è immaginato e inventato e cosa è invece stato riconosciuto legalmente come colpa del criminale. Non c’é nostalgia, adesione o repellenza per l’ideologia alla base delle azioni del protagonista. La politica, per quanto molto presente, non è elemento del discorso filmico... Gabriele Niola – mymovies.it
circolo the Last Tycoon via C. Battisti, 88 - 049 751894
iniziative di cultura cinematografica tycoon.pd@gmail.com
www.tycoon.pd.it
www.cinemainvisibile.info Comune di Padova Assessorato alla Cultura Settore AttivitĂ Culturali
SNCCI
triveneto
ogni mercoledĂŹ ore 18.30 - 21.00
prime visioni - cult-movie in originale sottotitolati presentazioni e dibattiti - incontri con registi e attori
cinema
ingresso singolo ore 18,30: 3 euro ingresso singolo ore 21.00: 4 euro (studenti e over 65 sempre 3 euro) abbonamento 25 film: 60 euro
tel 049 715596 (cinema) / 049 751894 (circolo)
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