Stagione Lirica 2013: RIGOLETTO di G. Verdi

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Comune di Padova Assessorato alla Cultura

Rigoletto

VERSIONE POSITI VA - Q UA D R I C R O MI A amaranto: c20%; m100%; y100%; k26% nero: c0%; m0%; y0%; k85%

di Giuseppe Verdi

Foto in copertina di Michelo Giotto

con il sostegno di

Teatro Comunale

1751

Giuseppe Verdi

2013

Teatro Comunale

1751

Giuseppe Verdi

2013


Teatro Comunale “Giuseppe Verdi” venerdì 18 ottobre, ore 20.45 domenica 20 ottobre, ore 16.00

Rigoletto Musica di Giuseppe Verdi

Melodramma Libretto di Francesco Maria Piave Prima rappresentazione 11 marzo 1851, Venezia

Coproduzione 2013 Comuni di Padova e Bassano del Grappa

Comune di Padova Assessorato alla Cultura

Teatro Comunale

1751

Giuseppe Verdi

2013


Comune di Padova Assessorato alla Cultura

VICE SINDACO DI PADOVA Ivo Rossi ASSESSORE ALLA CULTURA Andrea Colasio DIRETTORE ARTISTICO Federico Faggion PRODUZIONE DEL COMUNE DI PADOVA a cura del Settore Attività Culturali Direzione generale - Mirella Cisotto Nalon Direzione amministrativa - Marina Bozzini Coordinamento generale - Cristina Meneghini Collaborazione organizzativa - M. Gabriella Granieri Direttore di produzione - Loris Parise Direttore di scena - Federico Bertolani Segreteria - Marzia Lonardi, Giancarla Perego Promozione - Cristina Meneghini, Monica Bertin, Emanuela Taglietti Comunicazione e promozione web - Patrizia Cavinato, Rocco Roselli, Sofia Simonato Progetto grafico - Tony Michelon Fotografia - Giuliano Ghiraldini Ufficio stampa - Studio P.R.P. Padova

Con Rigoletto di Giuseppe Verdi prosegue la Stagione lirica 2013, iniziata con l’opera estiva “L’Elisir d’Amore” di Gaetano Donizetti, rappresentata al Castello Carrarese con grandissimo successo di pubblico e notevole risonanza, proseguita con Lucrezia Borgia, di Gaetano Donizetti, una prima per Padova, una operazione coraggiosa apprezzata da tutta la critica nazionale. L’opera verdiana, nel bicentenario della nascita del grande compositore, continua ad essere una delle più rappresentate, capace com’è di attrarre l’attenzione del pubblico, e prestandosi alle più varie interpretazioni, dato il carattere universale dei personaggi e la profonda umanità delle passioni che vi sono rappresentate. L’allestimento, in co-produzione con il Comune di Bassano del Grappa, è una ripresa del 2010, in considerazione del notevole successo e del lusinghiero accoglimento di pubblico e critica avuti a suo tempo. Tornano perciò le moderne ma allo stesso tempo classiche atmosfere create dal regista Stefano Poda, che del Rigoletto è anche scenografo, coreografo e costumista. Un cast di indubbio valore, composto prevalentemente da cantanti giovani, ma già affermati, garantisce allo spettacolo la sua piena riuscita, sotto la prestigiosa direzione musicale dell’Orchestra di Padova e del Veneto e del Coro Città di Padova ad opera del maestro Giampaolo Bisanti. Certo della specialità dell’evento, e della sua capacità di coinvolgere, auguro a tutti un buon ascolto e una buona visione. Andrea Colasio Assessore alla Cultura

Ivo Rossi Vice Sindaco di Padova


Rigoletto personaggi ed interpreti Rigoletto Il Duca di Mantova Gilda Sparafucile Maddalena Giovanna Il Conte di Monterone Marullo Matteo Borsa Il conte di Ceprano La contessa di Ceprano Un paggio della Duchessa Un usciere di corte

IONUT PASCU PAOLO FANALE JESSICA PRATT MIRCO PALAZZI DANIELA INNAMORATI MILENA JOSIPOVIC ABRAMO ROSALEN WILLIAM CORRÒ ORFEO ZANETTI FRANCESCO MILANESE ALESSANDRA CARUCCIO CATERINA SARTORI LUIGI VAROTTO

Coro cittÀ di padova diretto da Dino Zambello

Orchestra di padova e del veneto Maestro concertatore e direttore d’orchestra GIAMPAOLO BISANTI Regia, scene, costumi, luci STEFANO PODA Assistente alla regia Paolo Giani Direttori di scena Federico Bertolani e Irmici Yamala-Das Maestro sostituto Bruno Volpato Maestro alle luci Andrea Albertin


Rigoletto, opera morale di Carlo Vitali

“Sua Eccellenza il Signor Governatore Militare Cavalier de Gorzkowski […] deplora che il poeta Piave ed il celebre maestro Verdi non abbiano saputo scegliere altro campo per far emergere i loro talenti che quello di una ributtante immoralità ed oscena trivialità qual è l’argomento del libretto intitolato La Maledizione.” (28.11.1850) “Dal putrido dramma di Vittore Hugo Le Roi s’amuse, nel quale vengono in sozza gara di colpe il re di Francia Francesco I e il di lui buffone Triboulet, non potea generarsi che una fetida contraffattura quale è questa sconcezza […]. ” (Giuseppe Gioachino Belli, 31.8.1853)

Un’opera immorale e oscena; una sconcezza. Questo il punto di vista espresso dai responsabili della censura, rispettivamente austriaca e papalina, al momento in cui il Rigoletto si affacciava alle scene nell’Italia oppressa da una dura cappa di reazione dopo il fallimento dei moti del Quarantotto. Gli autori erano comprensibilmente di parere opposto. Scrivendo a Piave in tempi non sospetti, cioè il 3.6.1850, ben prima che si aprisse la defatigante battaglia coi censori, Verdi affermava: “Tutto il sog[g]etto è in quella maledizione che diventa anche morale. Un infelice padre che piange l’onore tolto alla sua figlia, deriso da un buffone di corte che il padre maledice, e questa maledizione coglie in una maniera spaventosa il buffone, mi sembra morale e grande al sommo grado”. Piaccia o no, il criterio della moralità non è più usato dalle nostre società come metro di giudizio sui pubblici spettacoli. Semmai in nome dell’antimoralismo si finanziano e si applaudono prodotti ai quali sarebbe arduo applicare l’etichetta di arte. Intorno alla metà del XIX secolo si pretendeva tutt’altro: non solo la moralità di uno scioglimento che vedesse la distribuzione di premi alla virtù e castighi al vizio, ma anche una caratterizzazione dei personaggi in base alla loro fedeltà ad un codice etico prestabilito; in parole semplici: “distinguere i buoni dai cattivi”. Se una deroga al primo criterio era ammessa nel genere tragico, per il secondo gli spazi di negoziato erano assai più ristretti. Nel caso di Rigoletto, la sospettosità poliziesca e una critica estetica ancora permeata di mentalità classicista (antiromantica, anzi antirealistica tout-court) potevano trovare una base comune per motivare i loro moralistici rifiuti. Fra i personaggi dell’opera quasi tutti hanno un codice morale proclamato, ma nessuno - neppure i “cattivi” - si dimostra capace di attuarlo con coerenza. In questo sono simili a noi uomini comuni in carne, ossa e contraddizioni; non figurine da libro di lettura.

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La morale dei personaggi Il Duca C’è qualcosa di peggio di un immoralista dichiarato? Forse solo un moralista senza morale. Almeno il primo non ha bisogno di essere ipocrita. Per questo fra i personaggi del Rigoletto non riusciamo a odiare veramente il Duca, che la sua mancanza di morale sessuale la spiattella fin dalla ballata d’apertura: “Questa o quella per me pari sono”. Una donna vale l’altra perché nessuna vale niente, come direbbe una Despina capovolta. O Don Giovanni: “Purché porti la gonnella”. O Mustafà nell’Italiana in Algeri: “Altra legge non ho che il mio capriccio”. Il suo problema è di non trovare una donna che riesca a resistergli, essendo lui quale lo descrive il suo buffone, cioè irresistibile: “Giovin, giocondo, sì possente, bello”. Una possanza/potenza che s’intuisce subito politica, economica e fallica quando egli la gargarizza a tempo di minuetto nell’orecchio della contessa di Ceprano. “Per voi già possente/ la fiamma d’amore”, e detto fatto la trascina via dalla sala da ballo sotto gli occhi del marito e dell’intera corte. Quando invece, fingendosi un povero studente, riesce ad innamorare di sé una ragazza ignara della vita ma crede di non riuscire ad averla (“Ella mi fu rapita”, a.II, sc.1), allora si autoconvince di esserne innamorato. Tanto può sul bambino viziato la ferita narcisistica; ma appena la soddisfazione è raggiunta, tutto è dimenticato. Ci sono due notazioni rivelatrici. La prima nell’arioso soave che s’impenna sull’agitazione del recitativo accompagnato: “Colei sì pura, al cui modesto sguardo/ quasi spinto a virtù talor mi credo”; e qui una volatina di otto biscrome prima della cadenza, proprio una fioritura in stile rinascimentale con inchino e sventolare di berretto piumato, una risatina sotto i baffi... Il candore di quel “quasi” e di quel “talor” fa cascare le braccia, perché l’uomo ben si conosce e si fa conoscere nella sua tensione così piena di riserve verso la virtù della monogamia. L’altra: “Apprenda ch’anco in trono/ ha degli schiavi Amor” nella cabaletta svergognata e convenzionale subito prima dello stupro. Guai ai direttori e ai registi che la tagliano o l’amputano della ripetizione in nome di un malinteso purismo drammaturgico, invocando la tensione che non può allentarsi e cosiffatte bubbole! Non hanno capito nulla del personaggio. L’altra sua cifra musicale, la sua letterale prova di esistenza in vita, è la canzonetta dal triviale fascino melodico “La donna è mobile”, di cui fa uso tre volte: una a corte e altre due nella taverna-bordello in riva al Mincio. Rigoletto Come tutti sappiamo dal dizionario, persona è insieme maschera (dall’etimologia latina) e interfaccia sociale dell’Io. Nella seconda accezione Rigoletto è una non-persona, o meglio: la sua persona-due è altrettanto povera e sterile della persona-uno. Nel mondo la sua funzione è quella del buffone al servizio di un despota, ma in casa è lui a detenere un potere altrettanto assoluto, insindacabile e autoreferenziale. Lo proclama alla figlia che cercava di umanizzarlo domandandogli una biografia e un nome: “Patria, parenti, amici/ voi dunque non avete?”. La risposta, morbosa, è quella di tutti gli amanti che uccidono l’amato col ricatto del doppio legame di dipendenza: “il mio universo è in te”. Di lui sappiamo solo che è nato, è stato amato e ha generato; nel resto la sua non-personalità è difesa dal mistero di un anonimato senza compromessi, anche e soprattutto con Gilda: “A te nomarmi è inutile;/ padre ti sono e basti”. Il suo nome d’arte, che è la sintesi della sua funzione sociale (dal francese rigoler, un riso triviale connesso al sogghigno e alla gozzoviglia) fa il paio con quello del sicario Sparafucile: “Pari siamo […] l’uomo son io che ride, ei quel che spegne”. Figura sommamente tragica perché la sua incolpevole deformità fisica lo condanna ad essere 8

reciso dall’umanità comune. Essere costretto a ridere controvoglia, mentre vorrebbe piangere com’è concesso a chiunque, lo porta ad autodefinirsi un “vil scellerato”, e della sua deformità morale egli incolpa in corretto ordine prima gli uomini e poi la Natura. Il riscatto, la promozione sociale della figlia è la sua unica ragione positiva di vita, ma il modo di perseguirla porterà entrambi alla catastrofe. A lui è concesso un unico momento di grandezza, nella scena quinta del secondo atto. Dopo le umiliazioni e le vane preghiere, la sua dignità di padre offeso trova la forza di un’inaudita rivolta contro le gerarchie sociali: “Ite di qua voi tutti.../ Se il Duca vostro d’appressarsi osasse,/ Che non entri, gli dite, e ch’io ci sono”, inflessibile volontà ribattuta su un unico Do alto che poi affonda all’ottava inferiore. Ma è solo un attimo. Dopo un accenno di consolazione alla figlia, il suo odio erompe nel finale con la cabaletta “Sì vendetta”: pura adrenalina, espressione di un sentimento italico fin troppo diffuso che esalta la giustizia privata come strumento della volontà divina. Sparafucile Nella sua prima apparizione notturna a Rigoletto si presenta offrendo i propri servigi di sicario con cavernosa dignità e l’accompagnamento sornione intessuto circolarmente dagli archi bassi. “Un serio professionista”, verrebbe da pensare. Nel terzo atto riconferma questa impressione scattando inviperito contro la sorella che gli propone di pugnalare Rigoletto per tenersi i suoi scudi: “Un ladro son forse? Son forse un bandito?/ Qual altro cliente da me fu tradito?/ Mi paga quest’uomo, fedele m’avrà”. Vuote parole, come poi si vede. In affari la sua unica etica è il denaro, ed in questo è personaggio modernissimo. Gilda e Maddalena “L’uomo è per natura inclinato all’infedeltà in amore, la donna alla costanza”, teorizzava in quegli anni il professor Schopenhauer (“Metafisica dell’amor sessuale”, in Ergänzungen, 1844, cap. XLIV). Cos’hanno in comune Gilda, vergine violata, e la prostituta Maddalena? Nulla, a parte l’amore che le lega al Duca fino al sacrificio del proprio interesse purché la sua vita sia salva. Ognuna secondo la propria scala morale, naturalmente. Sul piatto della fedeltà allo sconosciuto che ha saputo accendere i suoi sensi Maddalena mette la vita di un altro sconosciuto che il caso dovrà designare. Gilda accetta la sfida quasi con un senso di vergogna (“Che! Piange tal donna!... Né a lui darò aita?...”), e rilancia la posta. Assumendo liberamente la parte della vittima sacrificale disobbedisce al padre cui infligge lo scacco supremo, poi muore fra le sue braccia invocandone il perdono e la benedizione. Muore letteralmente da martire, fra arpeggi di flauti e violini in un etereo registro acuto che prelude alla visione in cielo della madre morta. Le sue quattro battute finali, commenta Julian Budden, “contengono uno scarto armonico semitonale degno del Requiem”. I cortigiani “Vil razza dannata”; l’invettiva del secondo atto è passata in proverbio. Dal coro emergono piccoli cammei, microvariazioni sul tema antropologico delle “inique corti” già cantate da Ariosto e Tasso. L’arrogante Borsa, il gentile poeta Marullo: tutti uguali, tutti venduti come Sparafucile e come la serva Giovanna; cambia solo il prezzo. “A voi nulla per l’oro sconviene”. Per loro la rivolta di Rigoletto è indice dell’immaturità di un poveraccio che non sa stare allo scherzo. Lo trattano da pazzo (“Co’ fanciulli e coi dementi/ spesso giova il simular”). Potente ritratto di un ambiente moralmente degradato e degradante. La lezione è ancora attuale per la nostra età: senza la connivenza dei cortigiani, anche nel campo dell’informazione, quanto potrebbe sussistere il despota? 9


La morale di Verdi Più che per la maledizione di Monterone o l’imperscrutabile giustizia di un “Dio tremendo” che riserva a se stesso la punizione dei colpevoli e condanna la vendetta, Rigoletto si trasforma da vittima in carnefice e poi di nuovo in vittima mediante le sue stesse azioni, secondo una catena causale sottolineata da Verdi e Piave mediante tecniche di dramma metafisico, se non addirittura di tragedia classica. Il Do puntato e ribattuto ogniqualvolta torna in campo il ricordo della maledizione funzionerà pure come potente tema unificatore sul piano musicale e certo produce un effetto drammatico indimenticabile, ma è anzitutto una metafora della cattiva coscienza del protagonista, un po’ come le streghe del Macbeth. Possiamo allora chiederci se Verdi credesse al Fato o al potere delle maledizioni più che alle fattucchiere scozzesi; il che ci riporta ad un tema tante volte dibattuto. L’altissima morale verdiana, sia umana sia artistica, era autonoma o eteronoma? Puramente razionale come quella di Kant o fondata su un qualche credo, per quanto vago? Nel 1872, due anni prima del Requiem, la moglie Giuseppina Strepponi così cercava di spiegarla agli amici di famiglia, quasi senza capacitarsene lei stessa: “Vi sono delle nature virtuosissime che hanno bisogno di credere in Dio: altre, ugualmente perfette, che sono felici, non credendo a niente ed osservando solo rigorosamente ogni precetto di severa moralità. Manzoni e Verdi!... Questi due uomini mi fanno pensare, sono per me un vero soggetto di meditazione.” (Al dottor Cesare Vigna). “È una perla d’onest’uomo, capisce e sente ogni delicato, ed elevato sentimento, con tutto ciò questo brigante si permette d’essere, non dirò ateo, ma certo poco credente, e ciò con una ostinazione ed una calma da bastonarlo.” (Alla contessa Clara Maffei).

La morale dei censori 1) Karl Gorzkowski von Gorzków (Babice, Slesia, 1778 - Venezia, 1858). Generale della cavalleria austriaca, veterano delle guerre contro i rivoluzionari francesi e Napoleone, si distinse in Italia nelle repressioni del 1848-49 (battaglie di Governolo e di Custoza, stragi di Mantova, fucilazioni di Bologna) meritando così decorazioni e alti incarichi politici. Dal 1849 al 1858 fu governatore militare e civile di Venezia, ed in questa veste, con sicuro fiuto poliziesco, fece del suo meglio per vietare la messa in scena del Rigoletto alla Fenice. Grazie alla diplomazia degli amministratori del teatro, guidati dall’abile segretario Guglielmo Brenna, si giunse infine a un compromesso controfirmato da Verdi e Piave. Forse i signori veneziani avranno prospettato al generale terribili deficit di bilancio e malumori nella buona società locale se la Fenice avesse perso una prima tanto attesa. Questi i due punti principali dell’accordo: Francesco I di Francia, protagonista del dramma di Victor Hugo Le roi s’amuse, sarebbe diventato il sovrano minore di uno staterello italiano estinto, un Gonzaga di Mantova o un Farnese di Parma (non sta bene che un re, anche se francese, vada a donne perdute; per un duca italiano può passare). La scena in cui il libertino entra nella camera di Gilda aprendola con la propria chiave - e il resto s’immagina - doveva sparire per ragioni di decenza. Gli autori riuscirono comunque a salvare tre punti per loro non negoziabili: il cattivo doveva essere un sovrano assoluto e non un privato qualsiasi, Rigoletto un gobbo, il corpo di Gilda morente doveva restare chiuso in un antiestetico sacco fino alla straziante rivelazione finale. L’opera debuttò il 15 marzo 1851 con gran successo 10

di pubblico, un po’ meno di critica. In altre piazze teatrali italiane dove fu ripresa negli anni successivi, i censori locali si dimostrarono meno tolleranti del governatore militare asburgico: nei rifacimenti da loro imposti con l’intento di raddrizzare la gobba al buffone (Viscardello, Clara di Perth, Lionello) il Duca fu degradato a “giovane cavaliere estremamente licenzioso”, con esplicito riferimento al Don Giovanni mozartiano, e restò punito dalla giustizia terrena; furono sostituite alcune parole chiave che destavano sospetti sotto il profilo politico e/o religioso. 2) Giuseppe Gioachino Belli (Roma, 1791 - Roma, 1863) Tra le voci poetiche più forti e originali del nostro Ottocento, nei suoi 2.200 sonetti in vernacolo raccolse la voce non idealizzata né censurata della plebe romana, mentre nel segreto del cassetto nascondeva certi ghiribizzi in lingua italiana su soggetti francamente pornografici. Presidente dal 1850 della semiufficiale Accademia Tiberina, esercitò l’ufficio di censore teatrale nella Roma del Papa-re con tanto zelo da vietare perfino la rappresentazione di Shakespeare. Abbiamo visto il suo rapporto ufficiale del 1853 sul “putrido dramma” di Hugo e sulla sua “fetida contraffattura” operistica in Rigoletto, anzi Viscardello. Il bello è che nel 1838 dichiarava in una lettera privata di aver già letto tempo prima il dramma originale francese, e di volerlo ora rileggere “onde vedere quale impressione mi lasci nell’animo alla seconda lettura, in un’epoca assai amara della mia vita, lo spettacolo di un misero padre subissato sotto i minuti piaceri del trono”. Ne avrà parlato così anche con Verdi quando, nel 1844, entrambi frequentavano il salotto romano del librettista Jacopo Ferretti, tra conversazioni che un quarto di secolo dopo il Maestro ricordava come “piacevoli, pungenti e dotte”? Romantico, umanitario e un po’ libertino il Belli nel privato, ma ipocrita nell’esercizio delle sue funzioni ufficiali al punto di sostituire “Sì vendetta, tremenda vendetta” con un ridicolo “Sì, reo fato, alma iniqua, t’aspetta”. Motivazione non tanto cristiana, quanto freddamente politica e classista: “per almeno toglier di mezzo quel brutto vocabolo di vendetta, che suona malissimo e spezialmente oggidì e in bocca di popolani”.

Morale conclusiva Sarebbe meglio che la censura non esistesse affatto, ma in via subordinata conviene affidarla ai generali e ai poliziotti piuttosto che ai letterati, perché coi primi si può ragionare, mentre i secondi, tendenzialmente più vigliacchi, fanno presto a trasformarsi in moralisti senza morale.

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SULLA MESSA IN SCENA DI RIGOLETTO

di Stefano Poda

In teatro, in opera soprattutto, non somiglianza esteriore è la meta, ma verità. E la verità artistica è diversa da quella della vita. Già lo aveva detto Schiller: «Tragedia è imitazione poetica di un’azione compassionevole e con ciò si contrappone all’azione storica. Sarebbe storica se inseguisse uno scopo storico e non avesse una finalità poetica». L’opera, intesa come sommatoria di arti – e non come dissociazione egoistica di ognuna di esse – permette di accogliere in un’unica, inesauribile dimensione molteplici pensieri (sia liberi che necessari, sia volontari sia inconsci) che la musica comprende e sostiene tutti insieme, culminando a volte alla completa esperienza dell’opera d’arte. Nell’opera non si parla, ma si canta. I suoi personaggi non hanno corpo, ma gesti, pensieri. L’opera è una forma procedente per simboli ed i tempi musicali non coincideranno mai con quelli della drammaturgia applicata. La messa in scena – ossia la meta di dar corpo alla musica, che di per sé non lo possiede – dovrebbe trovare un ideale parallelismo all’effetto spirituale, nella finalità ultima di cogliere la ragione in cui risiede l’universalità dell’opera d’arte. La via dovrebbe essere quella della purificazione dello sguardo dello spettatore, offrendogli la forza motivazionale ed anche la spinta creativa su cui egli stesso possa lavorare con libertà, riscattandosi dal condizionamento di un’interpretazione imposta. L’interpretazione dovrebbe non costruire un “carcere”: non solo per l’interprete, ma innanzitutto per lo spettatore. Se in tutto il suo passato, l’arte è stata un modo d’esperienza individuale, in una società a cultura di massa computerizzata, sembrerebbe un vizio antiquato e “romantico” aggiudicare a qualcuno la rivelazione di qualche verità interpretativa. Considerando che non può, né deve esistere un’interpretazione assoluta di un’opera d’arte, non esistono poi messe in scena definitive. La partitura è eterna, mentre la sua rappresentazione è peritura: a caducità limitata ha valore nel contesto storico/sociale/culturale in cui si pone. Lo spettatore deve essere dunque spettatore di se stesso. Se la realtà da esprimere risiede non nell’apparenza del soggetto ma ad una profondità cui tale apparenza conta ben poco, il riconoscimento entro di sé, da parte dello spettatore, è prova di verità e viceversa. L’essenzialità, l’unica opera vera, non c’è da inventarla, in quanto esiste già in ognuno di noi, ma c’è da scoprirla. Se la messa in scena è innanzitutto “messa in pratica” e consiste nel rendere visibile la musica che è spirito senza corpo, la delusione è pure inevitabile, come quando incontriamo una persona di cui ci ha affascinato prima la voce o come quando vediamo un film tratto da un libro amato. Sempre ci si aspetta qualcosa di diverso. Quel che noi sentiamo della vita non lo sentiamo sotto forma di idee e quindi la sua traduzione letteraria o figurativa, cioè intellettuale, rendendocene conto, lo spiega, lo analizza, ma non lo ricrea, come fa invece la musica, in cui sembra che i suoni prendano l’inflessione delle sensazioni. Nonostante l’arte figurativa dal Novecento in avanti si sia proclamata astratta, la pittura del secolo XIX prima e poi il cinema (sintesi dei linguaggi codificati del secolo XX) ci hanno riempito lo sguardo con immagini formali, a volte banali, che hanno abituato il pubblico ad una imitazione-interpretazione convenzionale del mondo, impoverendone la fantasia creatrice e lo spirito di pura percezione. Questa contaminazione “narrativa”, per cui tutto viene detto, mostrato, descritto, spiegato, o al limite simbolizzato, ha soffocato lo sviluppo della conoscenza “interna” che è scoperta di sé. Così lo spettatore si aspetta anche sul palcoscenico una cronologia 13


conchiusa di eventi, di habitat, magari un rimando sentimentale vero e tangibile, verificabile o riconducibile al conforto dei riferimenti convenzionali. Quel che noi chiamiamo “realtà” è un certo rapporto tra quelle sensazioni e i ricordi che ci circondano simultaneamente – rapporto che sopprime una qualsiasi visione cinematografica, la quale appunto per questo tanto più si allontana dal vero quanto più pretende di aderirvi. Ovviamente lo spettatore non chiede tutto questo al compositore: è cosciente del fatto che è compito dell’autore impostare i destini umani e gli eventi secondo norme che valgono in ambiti poetici universali ed extratemporali, convertendo gli stessi in metafora anziché farne delle riproduzioni. Lo spettatore sa che la meta dell’autore è la rappresentazione della verità interiore e non della realtà esteriore. È veramente strano come oggi, in epoca post-moderna (termine usato non in contrapposizione al moderno ma designando la posizione di una cultura che, attraverso la memoria computerizzata, può muoversi su un territorio dilatato, senza frontiere spaziali e temporali), un secolo dopo il discorso indiretto libero ed il flusso di coscienza di Joyce e Proust, che avrebbero dovuto segnare un punto di non ritorno, ci si dimostri invece ancora così ancorati a leggi aristoteliche e griglie cartesiane che costituiscono un “hic sunt leones” da non varcare se non per gioco o per surrealismo, che è comunque una forma dissimulata di iperrealismo. La problematica della messa in scena d’opera e la sua evoluzione sono d’esempio. Il pubblico d’opera assume, molto presto in gioventù, con patto tacito, un codice che poi non discuterà mai più per il resto della vita: assurdamente accetta a priori di non lasciarsi disturbare dall’apparente attentato alla logica comune rappresentato da un genere in cui non si parla, ma si canta ed in cui i tempi musicali non coincidono con quelli reali, arrivando a situazioni estreme come quelle topiche dell’agonia esageratamente dilatata di un protagonista; o come altre più complesse quando nei concertati più personaggi e coro contrappongono contemporaneamente concetti differenti o formule reiterate, tutto in maniera assolutamente inintelligibile, per di più rese con modalità non necessariamente astratte ma realistiche. Reagiscono, forse, solo i bambini con spudorata innocenza. Eppure per il genere operistico non era mai stata elaborata seriamente e compiutamente una formula di rappresentazione pura e specifica: gli è stata applicata prima la convenzione del teatro di prosa, poi quella del cinema, più recentemente quella della drammaturgia forzosa che astutamente rende spiegabile e “attuale” un contenuto che non ha bisogno d’essere né compreso né modernizzato e che per genesi è già “altro”, al di là di qualsiasi moda e tempo. Persino le trasposizioni d’epoca e gli adattamenti – “moderni” in apparenza ma antiquati nella sostanza –, ostinandosi in giustificazioni narrative, ricercando a tutti i costi i corrispettivi semantici nell’attualità, non considerando che il mistero della vita e dell’arte consistente proprio nella non-comprensione, riaffermano ancora lo stesso malinteso di fondo. Eppure sono tollerati perché i cambi restano alla superficie senza sfondamento interdisciplinare. Il pubblico, educato fin dal liceo a studiare le materie come discipline avulse tra loro, mai intercomunicabili, finge di scandalizzarsi ma si sente a salvo e non si accorge che quello che non funziona è ben altro. Nella messa in scena il primo problema da risolvere resta quello della discrepanza tra i tempi psicologici e quelli esterni. Il tempo della musica (che è quello dell’anima) non coinciderà mai con quello esterno. Come rendere allora comprensibile sul palcoscenico la stesura del patto tra cultura attiva e cultura ferma, tra fede e obiettività? Soprattutto oggi, in un’epoca stravolta da una rivoluzione informatica che fa sembrare tutto così facile da renderlo inutile e che è stata così veloce da non aver ancora permesso l’elaborazione di una struttura morale capace di comprenderla e contenerla; in un’epoca in cui la clonazione o la chirurgia estetica rende tanto più accessibili quanto più irrisolte le grandi tematiche eterne dell’umanità…

Dice Pessoa: «pensare è non comprendere». Così il simbolo viene offerto come una sorta di strumento ottico affinché chi vede ed ascolta, veda ed ascolti la storia della sua propria anima, nel miserere della civiltà delle parole e delle immagini sprecate, dove Eros si crede libero e Thanatos rimosso.

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LA VICENDA Atto I

Il giovane duca di Mantova, gaudente e superficiale, si vanta con i suoi convitati durante una festa in casa sua dei suoi numerosi amori. Rigoletto, il deforme e pungente buffone di corte, si burla della gelosia del Conte di Ceprano, la cui moglie si è allontanata dalla festa assieme al Duca. Il cavaliere Marullo intanto, sarcasticamente racconta agli altri dell’amante del deforme buffone, suscitando l’incredulità di tutti. Sopraggiunto il conte di Ceprano, Rigoletto lo deride dinanzi a tutti, compreso il duca. La festa è al culmine quando, d’un tratto irrompe il conte di Monterone che redarguisce aspramente il duca per aver sedotto la sua giovane figlia e, mentre viene trascinato via, rivolto al duca e a Rigoletto, che si era fatto beffe di lui, li maledice. Ancora scosso dalle parole del conte, a tarda ora Rigoletto è ormai giunto nei pressi della sua casa. Viene avvicinato da un uomo: è il borgognone Sparafucile, sicario di professione con la complicità della sorella Maddalena. Dopo avergli decantato la sua destrezza ed infallibilità gli offre i suoi servigi. Rigoletto declina l’offerta, ma alla bisogna, saprà come rintracciarlo. Gilda sua bella e giovane figlia segreta, gli si fa incontro. Ella ignora il vero nome del padre e della sua defunta madre che tanto amò il deforme buffone. Non avendo egli né amici né parenti, è in Gilda che si racchiude il mondo intero per quel tenero padre e raccomanda alla cameriera Giovanna di vegliare sulla figlia. Il duca, nascosto dietro un albero, scopre così la parentela segreta fra i due. Giovanna confida il suo pentimento di non aver riferito al padre che un giovane di bell’aspetto seguiva la figlia in chiesa ma Gilda la tranquillizza: ella sente di essersi invaghita di quel ragazzo. Il duca esce improvvisamente dal nascondiglio, e rivelandole di essere il suo ammiratore segreto le dichiara il suo amore e, mentendo, le confida di essere lo studente Gualtier Maldé. Interrotto da un rumore sospetto, si allontana accompagnato da Giovanna. Gilda, rimasta sola, ripensa all’incontro e giura in cuor suo amore eterno a Gualtier; si ritira sul suo terrazzo. Frattanto Marullo, Ceprano, Borsa ed i cortigiani, tutti coperti in volto, si avvicinano alla casa di Rigoletto con l’intenzione di rapirgli la giovane che credono essere la sua amante, ma si imbattono proprio in lui. Gli fanno credere di voler rapire la contessa di Ceprano. Il buffone chiede anch’egli una maschera. Marullo gli fa indossare una benda che gli impedisce la vista. Salgono sul terrazzo, rapiscono Gilda che, nel tragitto, riesce a divincolarsi ed a togliersi il bavaglio e chiedere aiuto a suo padre. Rigoletto si rende conto del crudele raggiro e grida: “Ah la maledizione!”.

Atto II

In una sala del palazzo il duca pensa a Gilda: sa che è stata rapita ed è attratto da lei da un sentimento a lui sconosciuto: “Colei sì pura , al cui modesto sguardo quasi spinto a virtù talor mi credo!”. Dal racconto del rapimento della presunta amante di Rigoletto, fornitogli dai cortigiani, il duca comprende che la giovane rapita è Gilda e sa anche che è stata nascosta proprio nel suo palazzo e, volendo che ella: “sappia alfin chi l’ama, conosca appien chi sono, apprenda ch’anco in trono ha degli schiavi Amor”, si precipita ad incontrarla. Marullo, Ceprano, Borsa ed i cortigiani, al sopraggiungere tra loro di Rigoletto, scherzano con lui sulle vicende della notte precedente. Un paggio entra nella sala per cercare il duca da parte della duchessa e, dalle risposte evasive degli astanti, Rigoletto comprende che il giovane è insieme a Gilda e vuole raggiungere la figlia, ma i cortigiani lo ostacolano. Irrompe in scena Gilda frastornata dal rapimento e dall’incontro con 16

colui che credeva essere un giovane studente, poi rivelatosi il duca di Mantova. Piange confessando al padre di aver avuto con lui un incontro amoroso. Rimangono soli e Rigoletto riesce a consolare la figlia. Improvvisamente il conte di Monterone, scortato dagli alabardieri, percorre la sala e lancia occhiate sprezzanti al ritratto del duca: il buffone gli promette vendetta. Gilda tenta di placare il padre, ma inutilmente.

Atto III

Il sicario Sparafucile è stato assoldato da Rigoletto per uccidere il duca che si trova già nella locanda. Gilda è condotta dal padre fuori dalla locanda e la invita a guardare dalle fessure del muro esterno lesionato ciò che succede all’interno. Al giovane viene porto il vino e Sparafucile, con un segnale convenuto, avverte Maddalena che comincia subito a scherzare con l’ospite. Sparafucile, dopo averli lasciati soli, esce e chiede a Rigoletto conferma se deve procedere con l’omicidio. L’uomo gli dice di attendere frattanto rimane con Gilda ad osservare ciò che succede nella locanda tra il duca, ebbro di vino, e Maddalena; la ragazza, così, assiste alle loro schermaglie amorose. Il padre obbliga la figlia ad andarsene e la giovane acconsente non prima di averlo implorato di abbandonare i suoi intenti e di seguirla, ma l’uomo è inamovibile. Rigoletto chiama Sparafucile e decide di pagarlo metà subito e metà ad omicidio compiuto, alla mezzanotte. Frattanto Maddalena, intenerita dal giovane, vorrebbe che sfuggisse alla morte e lo invita ad andarsene, ma si avvicina un temporale ed è invogliato a rimanere e, stanco, si ritira nel granaio. Sparafucile e la sorella ragionano sul da farsi: la donna, favorevolmente colpita dall’aspetto e dai modi del ragazzo vorrebbe risparmiarlo. I due sono spiati da Gilda, in abiti maschili. D’un tratto Sparafucile, stanco per le richieste di Maddalena, le promette che se qualcuno busserà all’uscio della locanda morirà in luogo del giovane duca. Gilda, a questo punto, consapevole che nessuno a quella tarda ora e con quelle condizioni atmosferiche sarebbe passato di lì per un ricovero notturno, decide di sacrificarsi per salvare il suo grande amore. Picchia all’uscio e si finge un povero mendico in cerca di asilo. Fra sé chiede perdono al Cielo per i due assassini, protezione per il padre ed augura una vita felice al duca. E’ mezzanotte, Rigoletto si trova presso la casa del sicario. Avviene lo scambio: l’altra metà del prezzo pattuito per la consegna del cadavere. Il buffone, soddisfatto, sta per gettare il corpo avvolto in un sacco quando, dalla locanda, sente la voce del duca che canta “La donna è mobile”. Incollerito ed incuriosito cerca di scoprire di chi è quel corpo. Con raccapriccio vede il volto di sua figlia che, gravemente ferita, lo riconosce, gli confessa il suo sacrificio e, spirando, gli chiede perdono. Rigoletto l’abbraccia sconvolto e disperato per quella morte acerba e non ha che un grido: “Ah, la maledizione!”.

17


Atto 1°

ATTO PRIMO

BORSA Non v’oda il Conte, o Duca...

SCENA PRIMA Mantova. Sala magnifica nel palazzo ducale con porte nel fondo che mettono ad altre sale, pure splendidamente illuminate; folla di cavalieri e dame in gran costume nel fondo delle sale; paggi che vanno e vengono. La festa è nel suo pieno. Musica interna da lontano. Il Duca e Borsa vengono da una porta del fondo.

DUCA A me che importa? BORSA Dirlo ad altra ei potria. DUCA Né sventura per me certo saria. Questa o quella per me pari sono A quant’altre d’intorno mi vedo; Del mio core l’impero non cedo Meglio ad una che ad altra beltà. La costoro avvenenza è qual dono Di che il fato ne infiora la vita; S’oggi questa mi torna gradita Forse un’altra doman lo sarà.

DUCA Della mia bella incognita borghese Toccare il fin dell’avventura voglio. BORSA Di quella giovin che vedete al tempio? DUCA Da tre mesi ogni festa.

DUCA In un remoto calle; Misterioso un uom v’entra ogni notte.

La costanza, tiranna del core, Detestiamo qual morbo crudele. Sol chi vuole si serbi fedele; Non v’è amor se non v’è libertà. De’ mariti il geloso furore, Degli amanti le smanie derido; Anco d’Argo i cent’occhi disfido Se mi punge una qualche beltà.

BORSA E sa colei chi sia L’amante suo?

Entra il Conte di Ceprano, che segue da lungi la sua sposa servita da altro cavaliere; dame e signori che entrano da varie parti.

DUCA Lo ignora.

DUCA alla signora di Ceprano movendo ad incontrarla con molta galanteria Partite? … Crudele!

BORSA La sua dimora?

Un gruppo di dame e cavalieri attraversano la sala. BORSA Quante beltà!… Mirate.

CONTESSA DI CEPRANO Seguire lo sposo M’è forza a Ceprano.

DUCA Le vince tutte di Cepran la sposa.

DUCA Ma dee luminoso 18

In corte tal astro qual sole brillare. Per voi qui ciascuno dovrà palpitare. Per voi già possente la fiamma d’amore Inebria, conquide, distrugge il mio core.

BORSA, CORO Narrate, narrate... MARULLO Ah! ah! Rigoletto...

CONTESSA Calmatevi …

BORSA, CORO Ebben?

Il Duca le dà il braccio ed esce con lei. Entra Rigoletto che s’incontra nel signor di Ceprano, poi cortigiani.

MARULLO Caso enorme!

RIGOLETTO In testa che avete, Signor di Ceprano? Ceprano fa un gesto d’impazienza e segue il Duca. Rigoletto dice ai cortigiani. Ei sbuffa, vedete?

BORSA, CORO Perduto ha la gobba? Non è più difforme?

BORSA, CORO Che festa!

BORSA, CORO Infine?

RIGOLETTO Oh sì...

MARULLO Un’amante.

BORSA, CORO Il Duca qui pur si diverte!

BORSA, CORO Un’amante! Chi il crede?

RIGOLETTO Così non è sempre? che nuove scoperte! Il giuoco ed il vino, le feste, la danza, Battaglie, conviti, ben tutto gli sta. Or della Contessa l’assedio egli avanza, E intanto il marito fremendo ne va.

MARULLO Il gobbo in Cupido or s’è trasformato.

Esce. Entra Marullo premuroso.

MARULLO Cupido beato!

MARULLO Più strana è la cosa... Il pazzo possiede …

BORSA, CORO Quel mostro? Cupido!... Cupido beato!

MARULLO Gran nuova! Gran nuova!

Ritorna il Duca seguito da Rigoletto, poi da Ceprano.

CORO Che avvenne? Parlate!

DUCA a Rigoletto Ah, più di Ceprano importuno non v’è! La cara sua sposa è un angiol per me!

MARULLO Stupir ne dovrete... 19


Atto 1°

Atto 1°

RIGOLETTO Rapitela.

Fermate! RIGOLETTO Da rider mi fa.

DUCA È detto; ma il farlo?

BORSA, MARULLO, CORO (In furia è montato!)

RlGOLETTO Stasera.

DUCA a Rigoletto Buffone, vien qua. Ah, sempre tu spingi lo scherzo all’estremo. Quell’ira che sfidi colpirti potrà.

DUCA Non pensi tu al Conte? RIGOLETTO Non c’è la prigione?

CEPRANO ai cortigiani a parte Vendetta del pazzo! Contr’esso un rancore Di noi chi non ha? Vendetta!

DUCA Ah, no. RIGOLETTO Ebben... s’esilia. DUCA Nemmeno, buffone. RIGOLETTO Allora la testa... indicando difarla tagliare CEPRANO (Quell’anima nera!) DUCA battendo colla mano una spalla al Conte Che di’, questa testa?

DUCA a Ceprano 20

RIGOLETTO È matto.

MONTERONE Ch’io gli parli.

BORSA, MARULLO, CEPRANO Quai detti!

DUCA No.

BORSA, RIGOLETTO, MARULLO, CEPRANO, CORO Monterone!

CEPRANO In armi chi ha core Doman sia da me. A notte.

MONTERONE fissando il Duca, con nobile orgoglio Sì, Monteron... La voce mia qual tuono Vi scuoterà dovunque...

BORSA, CEPRANO, MARULLO, CORO Vendetta del pazzo! Contr’esso un rancore Pei tristi suoi modi di noi chi non ha? Sì, vendetta! ecc.

DUCA Non più, arrestatelo.

Entra il Conte di Monterone.

BORSA, MARULLO, CORO a Ceprano Ma come?

DUCA Ah, sempre tu spingi lo scherzo, ecc.

CEPRANO infuriato, brandendo la spada Marrano!

TUTTI Tutto è gioia, tutto è festa! Tutto invitaci a goder! Oh, guardate, non par questa Or la reggia del piacer?

MONTERONE avanzando Il voglio.

RIGOLETTO Che coglier mi puote? ecc.

Ah sì, a turbare Sarò vostr’orgie... verrò a gridare Fino a che vegga restarsi inulto Di mia famiglia l’atroce insulto; E se al carnefice pur mi darete, Spettro terribile mi rivedrete, Portante in mano il teschio mio, Vendetta chiedere al mondo e a Dio.

La folla de’ danzatori invade la scena.

RIGOLETTO Che coglier mi puote? Di loro non temo; Del Duca un protetto nessun toccherà.

BORSA, MARULLO, CORO Sì. Sarà.

RIGOLETTO È ben naturale … Che far di tal testa? … A cosa ella vale?

DUCA, RIGOLETTO Tutto è gioia, tutto è festa!

MONTERONE al Duca e Rigoletto Oh, siate entrambi voi maledetti! BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO Ah! MONTERONE Sianciare il cane a leon morente È vile, o Duca... a Rigoletto E tu, serpente, Tu che d’un padre ridi al dolore, Sii maledetto!

RIGOLETTO al Duca, contraffacendo la voce di Monterone Ch’io gli parli. Si avanza con ridicola gravità. Voi congiuraste contro noi, signore, E noi, clementi invero, perdonammo... Qual vi piglia or delirio a tutte l’ore Di vostra figlia a reclamar l’onore?

RIGOLETTO colpito (Che sento! orrore!) DUCA, BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO a Monterone O tu che la festa audace hai turbato Da un genio d’inferno qui fosti guidato; E vano ogni detto, di qua t’allontana, Va’, trema, o vegliardo, dell’ira sovrana, ecc. Tu l’hai provocata, più speme non v’è,

MONTERONE guardando Rigoletto con ira sprezzante Novello insulto! al Duca 21


Atto 1°

Atto 1°

un’ora fatale fu questa per te.

RIGOLETTO Un ladro?

RIGOLETTO (Orrore!) Che orrore! ecc.

SPARAFUCILE Un uom che libera Per poco da un rivale, E voi ne avete.

MONTERONE Sii maledetto! e tu serpente, ecc. Monterone parte fra due alabardieri; tutti gli altri seguono il Duca in altra stanza. SCENA SECONDA L’estremità d’una via cieca. A sinistra, una casa di discreta apparenza con una piccola corte circondata da mura. Nella corte un grosso ed alto albero ed un sedile di marmo; nel muro, una porta che mette alla strada; sopra il muro, un terrazzo sostenuto da arcate. La porta del primo piano dà sul detto terrazzo, a cui si ascende per una scala di fronte. A destra della via è il muro altissimo del giardino e un fianco del palazzo di Ceprano. È notte.

RIGOLETTO Quale? SPARFUCILE La vostra donna è là.

RIGOLETTO No al momento.

RIGOLETTO (Che sento!) E quanto spendere Per un signor dovrei?

SPARAFUCILE Peggio per voi...

RIGOLETTO Com’usasi pagar? SPARAFUCILE Una metà s’anticipa, Il resto si dà poi. RIGOLETTO (Demonio!) E come puoi tanto securo oprar?

RIGOLETTO (Quel vecchio maledivami!)

SPARAFUCILE Soglio in cittade uccidere, Oppure nel mio tetto. L’uomo di sera aspetto; Una stoccata e muor.

SPARAFUCILE Signor?... RIGOLETTO Va’, non ho niente.

RIGOLETTO (Demonio!) E come in casa?

SPARAFUCILE Né il chiesi... a voi presente Un uom di spada sta.

SPARAFUCILE È facile... M’aiuta mia sorella … Per le vie danza ... è bella... 22

Pari siamo!… Io la lingua, egli ha il pugnale. Uomo son io che ride, ci quel che spegne! Quel vecchio maledivami… O uomini! o natura! Vil scellerato mi faceste voi!… O rabbia! esser difforme, esser buffone! Non dover, non poter altro che ridere! Il retaggio d’ogni uom m’è tolto … il pianto Questo padrone mio, Giovin, giocondo, sì possente, bello, Sonnecchiando mi dice: Fa’ ch’io rida, buffone! Forzarmi deggio e farlo! Oh dannazione!... Odio a voi, cortigiani schernitori! Quanta in mordervi ho gioia! Se iniquo son, per cagion vostra è solo… Ma in altr’uomo qui mi cangio... Quel vecchio maledivami!…Tal pensiero Perché conturba ognor la mente mia? Mi coglierà sventura?... Ah no, è follia! Apre con chiave ed entra nel cortile. Gilda esce dalla casa e si getta nelle sue braccia. Figlia!

RIGOLETTO Comprendo. SPARAFUCILE Senza strepito... È questo il mio strumento. mostra la spada Vi serve?

SPARAFUCILE Prezzo maggior vorrei.

Entra Rigoletto chiuso nel suo mantello; Sparafucile lo segue, portando sotto il mantello una lunga spada.

Chi voglio attira ... e allor…

RIGOLETTO Chi sa? SPARAFUCILE Sparafucil mi nomino. RIGOLETTO Straniero?

GILDA Mio padre!

SPARAFUCILE per andarsene Borgognone.

RIGOLETTO A te d’appresso Trova sol gioia il core oppresso.

RIGOLETTO E dove all’occasione?

GILDA Oh, quanto amore, padre mio!

SPARAFUCILE Qui sempre a sera.

RIGOLETTO Mia vita sei! Senza te in terra qual bene avrei? Oh, figlia mia!

RIGOLETTO Va’. SPARAFUCILE Sparafucil. Sparafucile parte

GILDA Voi sospirate!... che v’ange tanto? Lo dite a questa povera figlia … Se v’ha mistero, per lei sia franto: Ch’ella conosca la sua famiglia.

RIGOLETTO guardando dietro a Sparafucile 23


Atto 1°

Atto 1°

RIGOLETTO Tu non ne hai.

Il nome vostro ditemi, Il duol che sì v’attrista.

GILDA Qual nome avete?

RIGOLETTO A che nomarmi? è inutile! Padre ti sono, e basti... Me forse al mondo temono, D’alcuni ho forse gli asti... Altri mi maledicono...

RIGOLETTO A te che importa? GILDA Se non volete Di voi parlarmi...

GILDA Patria, parenti, amici Voi dunque non avete?

RIGOLETTO interrompendola Non uscir mai.

RIGOLETTO Patria!... parenti! amici! Culto, famiglia, la patria, Il mio universo è in te!

GILDA Non vo che al tempio.

GILDA Ah, se può lieto rendervi, Gioia è la vita a me! Già da tre lune son qui venuta Né la cittade ho ancor veduta; Se il concedete, farlo or potrei...

RIGOLETTO Oh, ben tu fai. GILDA Se non di voi, almen chi sia Fate ch’io sappia la madre mia.

RIGOLETTO Mai! mai! Uscita, dimmi, unqua sei?

RIGOLETTO Deh, non parlare al misero Del suo perduto bene. Ella sentia, quell’angelo, Pietà delle mie pene. Solo, difforme, povero, Per compassion mi amò. Moria... le zolle coprano Lievi quel capo amato. Sola or tu resti al misero... O Dio, sii ringraziato!

GILDA No. RlGOLETTO Guai! GILDA (Ah! Che dissi!) RIGOLETTO Ben te ne guarda! (Potrien seguirla, rapirla ancora! Qui d’un buffone si disonora La figlia, e se ne ride... Orror!) verso la casa Olà?

GILDA singhiozzando Oh quanto dolor! che spremere Sì amaro pianto può? Padre, non più, calmatevi... Mi lacera tal vista. 24

Giovanna esce dalla casa.

Alcun v’è fuori!

GIOVANNA Signor?

Apre la porta della corte e, mentre esce a guardar sulla strada, il Duca guizza furtivo nella corte e si nasconde dietro l’albero; gettando a Giovanna una borsa la fa tacere.

RIGOLETTO Venendo mi vede alcuno? Bada, di’ il vero.

GILDA Cielo! Sempre novel sospetto!

GIOVANNA Ah, no, nessuno.

RIGOLETTO a Giovanna, tornando Alla chiesa vi seguiva mai nessuno?

RIGOLETTO Sta ben... La porta che dà al bastione È sempre chiusa?

GIOVANNA Mai.

GIOVANNA Ognor si sta.

DUCA (Rigoletto!)

RIGOLETTO Bada, di’ il ver. Ah, veglia, o donna, questo fiore Che a te puro confidai; Veglia, attenta, e non sia mai Che s’offuschi il suo candor. Tu dei venti dal furore Ch’altri fiori hanno piegato, Lo difendi, e immacolato Lo ridona al genitor.

RIGOLETTO Se talor qui picchian, Guardatevi d’aprire... GIOVANNA Nemmeno al Duca? RIGOLETTO Men che ad altri a lui. Mia figlia, addio.

GILDA Quanto affetto! quali cure! Che temete, padre mio? Lassù in cielo presso Dio Veglia un angiol protettor. Da noi stoglie le sventure Di mia madre il priego santo; Non fia mai disvelto o franto Questo a voi diletto fior.

DUCA (Sua figlia!) GILDA Addio, mio padre.

Il Duca in costume borghese viene dalla strada.

RIGOLETTO Ah! veglia, o donna, ecc. Mia figlia, addio!

RIGOLETTO Ah, veglia, o donna, questo fiore Che a te puro confi...

GILDA Oh, quanto affetto! ecc. Mio padre, addio! 25


Atto 1°

Atto 1°

S’abbracciano e Rigoletto parte chiudendosi dietro la porta. Gilda, Giovanna e il Duca restano nella corte.

GILDA Chi mai, chi giungere vi fece a me?

GILDA Giovanna, ho dei rimorsi...

DUCA Se angelo o demone, che importa a te? Io t’amo.

GIOVANNA E perché mai?

GILDA Uscitene.

GILDA Tacqui che un giovin ne seguiva al tempio.

DUCA Uscire! … adesso!... Ora che accendene un fuoco istesso! Ah, inseparabile d’amore il Dio Stringeva, o vergine, tuo fato al mio!

GIOVANNA Perché ciò dirgli? Odiate dunque Cotesto giovin, voi?

È il sol dell’anima, la vita è amore, Sua voce è il palpito del nostro core. E fama e gloria, potenza e trono, Umane, fragili qui cose sono, Una pur avvene sola, divina: È amor che agl’angeli più ne avvicina! Adunque amiamoci, donna celeste; D’invidia agli uomini sarò per te.

GILDA No, no, ché troppo è bello e spira amore … GIOVANNA E magnanimo sembra e gran signore. GILDA Signor né principe io lo vorrei; Sento che povero più l’amerei. Sognando o vigile sempre lo chiamo, E l’alma in estasi gli dice: t’a...

GILDA (Ah, de’ miei vergini sogni son queste Le voci tenere sì care a me!)

DUCA Esce improvviso, fa cenno a Giovanna d’andarsene, e inginocchiandosi ai piedi di Gilda termina la frase T’amo! T’amo; ripetilo sì caro accento: Un puro schiudimi ciel di contento!

DUCA Che m’ami, deh, ripetimi.

GILDA Giovanna?… Alti, misera! non v’è più alcuno Che qui rispondami!… Oh Dio! nessuno? DUCA Son io coll’anima che ti rispondo... Ah, due che s’amano son tutto un mondo!

GILDA Non più, non più... partite. TUTT’E DUE Addio... speranza ed anima Sol tu sarai per me. Addio... vivrà immutabile L’affetto mio per te.

DUCA pensando Mi nomino... BORSA a Ceprano Sta ben.

Il Duca esce scortato da Giovanna. Gilda resta fissando la porta ondè partito.

Ceprano e Borsa partono.

GILDA Gualtier Maldè... nome di lui sì amato, Ti scolpisci nel core innamorato!

DUCA Gualtier Maldè. Studente sono... e povero...

Caro nome che il mio cor Festi primo palpitar, Le delizie dell’amor Mi dei sempre rammentar! Col pensier il mio desir A te sempre volerà, E fin l’ultimo mio sospir, Caro nome, tuo sarà. Sale al terrazzo con una lanterna. Gualtier Maldè! Marullo, Ceprano, Borsa, cortigiani, armati e mascherati, vengono dalla via. Gilda entra tosto in casa. Caro nome, ecc.

GIOVANNA tornando spaventata Rumor di passi è fuori! GILDA Forse mio padre... DUCA (Ah, cogliere Potessi il traditore Che sì mi sturba!)

GILDA L’udiste.

GILDA a Giovanna Adducilo Di qua al bastione... or ite...

DUCA Oh, me felice!

DUCA Di’, m’amerai tu?

GILDA Il nome vostro ditemi... Saperlo non mi lice?

GILDA E voi?

Ceprano e Borsa compariscono sulla strada

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CEPRANO a Borsa Il loco è qui.

BORSA È là. CEPRANO Miratela. CORO Oh quanto è bella! MARULLO Par fata od angiol.

DUCA L’intera vita... poi...

CORO L’amante è quella 27


Atto 1°

Atto 1°

di Rigoletto? BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO Oh, quanto è bella! Rigoletto, concentrato, entra

MARULLO Marullo.

MARULLO La benda cieco e sordo il fa.

RIGOLETTO In tanto buio lo sguardo è nullo.

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO Zitti, zitti, moviamo a vendetta; Ne sia colto or che meno l’aspetta. Derisore sì audace, costante A sua volta schernito sarà! Cheti, cheti, rubiamgli l’amante E la Corte doman riderà.

RIGOLETTO (Riedo! perché?)

MARULLO Qui ne condusse ridevol cosa... Torre a Ceprano vogliam la sposa.

BORSA Silenzio... All’opra… badate a me.

RIGOLETTO (Ahimè! respiro!) Ma come entrare?

RIGOLETTO (Ah, da quel vecchio fui maledetto!) urta in Borsa Chi va là?

MARULLO a Ceprano La vostra chiave! a Rigoletto Non dubitare. Non dee mancarci lo stratagemma... Gli dà la chiave avuta da Ceprano. Ecco la chiave.

BORSA ai compagni Tacete … c’è Rigoletto. CEPRANO Vittoria doppia! l’uccideremo. BORSA No, che domani più rideremo.

RIGOLETTO palpando Sento il suo stemma. (Ah, terror vano fu dunque il mio!) N’è là il palazzo... con voi son io.

MARULLO Or tutto aggiusto...

MARULLO Siam mascherati...

RIGOLETTO Chi parla qua?

RIGOLETTO Ch’io pur mi mascheri; A me una larva.

MARULLO Ehi, Rigoletto?... Di’?

MARULLO Sì, pronta è già. Gli mette una maschera e nello stesso tempo lo benda con un fazzoletto, e lo pone a reggere una scala, che hanno appostata al terrazzo. Terrai la scala.

RIGOLETTO Chi va là? MARULLO Eh, non mangiarci!... Son…

RIGOLETTO Fitta è la tenebra.

RIGOLETTO Chi? 28

Cheti, cheti, ecc. Derisore sì audace, ecc. Zitti... cheti... attenti all’opra. Alcuni salgono al terrazzo, rompono la porta del primo piano, scendono, aprono ad altri che entrano dalla strada e riescono trascinando Gilda, la quale ha la bocca chiusa da un fazzoletto; nel traversare la scena ella perde una sciarpa. GILDA da lontano Soccorso, padre mio! BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO da lontano Vittoria! GILDA più lontano Aita! RIGOLETTO Non han finito ancor! …qual derisione! Si tocca gli occhi. Sono bendato! … Gilda! Si strappa impetuosamente la benda e la maschera, ed al chiarore d’una lanterna scordata riconosce la sciarpa, vede la porta aperta: entra, ne trae Giovanna spaventata; la fissa con istupore, si strappa i capelli senza poter gridare; finalmente, dopo molti sforzi, esclama: Ah! la maledizione! Sviene 29


Atto 2°

ATTO SECONDO

DUCA Ebben?

Salotto nel palazzo ducale. Vi sono due porte laterali, una maggiore nel fondo che si schiude. Ai suoi lati pendono i ritratti, in tutta figura, a sinistra del Duca, a destra della sua sposa. V’ha un seggiolone presso una tavola coperta di velluto e altri mobili.

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO L’amante Fu rapita a Rigoletto. DUCA Come? E d’onde? BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO Dal suo tetto.

DUCA entrando, agitato Ella mi fu rapita! E quando, o ciel?... ne’ brevi Istanti, prima che il mio presagio interno Sull’orma corsa ancora mi spingesse! Schiuso era l’uscio! e la magion deserta! E dove ora sarà quell’angiol caro? Colei che prima poté in questo core Destar la fiamma di costanti affetti? Colei sì pura, al cui modesto sguardo Quasi spinto a virtù talor mi credo! Ella mi fu rapita! E chi l’ardiva?... ma ne avrò vendetta. Lo chiede il pianto della mia diletta.

DUCA Ah! Ah! dite, come fu? Siede BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO Scorrendo uniti remota via, Brev’ora dopo caduto il dì, Come previsto ben s’era in pria, Rara beltà ci si scopri. Era l’amante di Rigoletto, Che vista appena si dileguò. Già di rapirla s’avea il progetto, Quando il buffone ver noi spuntò; Che di Ceprano noi la contessa Rapir volessimo, stolto, credé; La scala, quindi, all’uopo messa, Bendato ei stesso ferma tené. Salimmo, e rapidi la giovinetta A noi riusciva quindi asportar. Quand’ei s’accorse della vendetta Restò scornato ad imprecar.

Parmi veder le lagrime Scorrenti da quel ciglio, Quando fra il dubbio e l’ansia Del subito periglio, Dell’amor nostro memore Il suo Gualtier chiamò. Ned ci potea soccorrerti, Cara fanciulla amata; Ei che vorria coll’anima Farti quaggiù beata; Ei che le sfere agli angeli Per te non invidiò.

DUCA (Cielo!… È dessa, la mia diletta!) ai cortigiani Ma dove or trovasi la poveretta?

Marullo, Ceprano, Borsa ed altri cortigian, entrano dal mezzo.

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO Fu da noi stessi addotta or qui.

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO Duca, Duca! 30

DUCA (Ah, tutto il ciel non mi rapì!) alzandosi con gioia (Possente amor mi chiama, Volar io deggio a lei: Il serto mio darei Per consolar quel cor. Ah! sappia alfin chi l’ama Conosca alfin chi sono, Apprenda ch’anco in trono Ha degli schiavi Amor.)

RIGOLETTO La ra, la ra, la la... spiando inquieto dovunque (Ove l’avran nascosta? ... ) BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO (Guardate com’è inquieto!) RIGOLETTO La ra, la ra, la la... BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO (Sì! Guardate com’è inquieto!)

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO Oh qual pensier or l’agita? Come cangiò d’umor!

RIGOLETTO a Marullo Son felice Che nulla a voi nuocesse L’aria di questa notte...

Il Duca esce frettoloso dal mezzo. Rigoletto entra canterellando con represso dolore. MARULLO Povero Rigoletto!

MARULLO Questa notte!

RIGOLETTO La ra, la ra, la la...

RIGOLETTO Sì… Ah, fu il bel colpo!

CORO Ei vien… silenzio!

MARULLO S’ho dormito sempre!

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO Oh, buon giorno, Rigoletto.

RIGOLETTO Ah, voi dormiste!... Avrò dunque sognato! La ra, la ra, la la...

RIGOLETTO (Han tutti fatto il colpo!)

S’allontana e vedendo un fazzoletto sopra una tavola ne osserva inquieto la cifra.

CEPRANO Ch’hai di nuovo, buffon?

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO (Ve’, ve’ come tutto osserva!)

RIGOLETTO Ch’hai di nuovo, buffon? Che dell’usato Più noioso voi siete.

RIGOLETTO gettandolo (Non è il suo.) Dorme il Duca tuttor?

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO Ah! ah! ah! 31


Atto 2°

Atto 2°

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO Si, dorme ancora.

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO La sua figlia!

Comparisce un paggio della Duchessa.

RIGOLETTO Sì, la mia figlia! d’una tal vittoria... Che? adesso non ridete? Ella è là... la vogl’io... la renderete. Corre verso la porta di mezzo, ma i cortigiani gli attraversano il passaggio. Cortigiani, vil razza dannata, Per qual prezzo vendeste il mio bene? A voi nulla per l’oro sconviene, Ma mia figlia è impagabil tesor. La rendete! o, se pur disarmata, Questa man per voi fora cruenta; Nulla in terra più l’uomo paventa, Se dei figli difende l’onor. Quella porta, assassini, m’aprite! Si getta ancor sulla porta che gli è nuovamente contesa dai gentiluomini; lotta alquanto, poi ritorna spossato. Ah! voi tutti a me contro venite... piange Tutti contro me!... Ah! Ebben, piango Marullo... Signore, Tu ch’hai l’alma gentil come il core, Dimmi tu ove l’hanno nascosta? È là... non è vero?... Tu taci... ahimè!... Miei signori... perdono, pietate... Al vegliardo la figlia ridate... Ridonarla a voi nulla ora costa, Tutto al mondo tal figlia è per me. Signori, perdono, pietà … Ridate a me la figlia, Tutto al mondo tal figlia è per me. Pietà, pietà, Signori, pietà.

PAGGIO Al suo sposo parlar vuol la Duchessa. CEPRANO Dorme. PAGGIO Qui or or con voi non era? BORSA È a caccia. PAGGIO Senza paggi!... senz’armi! BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO E non capisci Che per ora vedere non può alcuno? RIGOLETTO che a parte è stato attentissimo al dialogo, balzando improvviso tra loro prorompe: Ah! Ella è qui dunque! Ella è col Duca! BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO Chi? RIGOLETTO La giovin che stanotte Al mio tetto rapiste. Ma la saprò riprender!… Ella è là… BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO Se l’amante perdesti, la ricerca Altrove. RIGOLETTO Io vo’ mia figlia!

Dagli occhi il cor parlò. Furtivo fra le tenebre Sol ieri a me giungeva... Sono studente e povero, Commosso mi diceva, E con ardente palpito Amor mi protestò. Partì… il mio core aprivasi A speme più gradita, Quando improvvisi apparvero Color che m’han rapita, E a forza qui m’addussero Nell’ansia più crudel.

GILDA Ah, l’onta, padre mio! RIGOLETTO Cielo! che dici?

RIGOLETTO (Ah! Solo per me l’infamia A te chiedeva, o Dio … Ch’ella potesse ascendere Quanto caduto er’io. Ah, presso del patibolo Bisogna ben l’altare! Ma tutto ora scompare, L’altare si rovesciò!) Ah! piangi, fanciulla, scorrer Fa il pianto sul mio cor.

GILDA Arrossir voglio innanzi a voi soltanto... RIGOLETTO ai cortigiani Ite di qua voi tutti! Se il Duca vostro d’appressarsi osasse, Ch’ei non entri, gli dite, e ch’io ci sono! Si abbandona sul seggiolone. BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO (Coi fanciulli e co’ dementi Spesso giova il simular; Partiam pur, ma quel ch’ei tenti Non lasciamo d’osservar.)

GILDA Padre, in voi parla un angiol Per me consolator.

Escono dal mezzo e chiudono la porta.

RIGOLETTO Compiuto pur quanto a fare mi resta, Lasciare potremo quest’aura funesta.

RIGOLETTO Parla... siam soli.

GILDA Sì.

Gilda esce dalla stanza a sinistra e si getta nelle paterne braccia.

GILDA (Ciel! dammi coraggio!)

RIGOLETTO (E tutto un sol giorno cangiare poté!)

GILDA Mio padre!

Tutte le feste al tempio Mentre pregava Iddio, Bello e fatale un giovine Offriasi al guardo mio... Se i labbri nostri tacquero,

Entra un usciere seguito dal Conte di Monterone, che attraversa il fondo della sala fra gli alabardieri.

RIGOLETTO Dio! mia Gilda! 32

Signori, in essa è tutta La mia famiglia... Non temer più nulla, Angelo mio... ai cortigiani Fu scherzo, non è vero? Io, che pur piansi, or rido … a Gilda E tu a che piangi?

33


Atto 2°

ATTO TERZO

USCIERE Schiudete! ire al carcere Monteron dee.

RIGOLETTO Egli?

La sponda destra del Mincio. A sinistra è una casa a due piani, mezzo diroccata, la cui fronte lascia vedere per una grande arcata l’interno d’una rustica osteria al pian terreno, ed una rozza scala che mette al granaio, entro cui, da un balcone senza imposte, si vede un lettuccio. Nella facciata che guarda la strada è una porta che s’apre per di dentro; il muro poi è sì pieno di fessure, che dal di fuori si può facilmente scorgere quanto avviene nell’interno. In fondo, la deserta parte del Mincio, che scorre dietro un parapetto in mezza ruina; di là dal fiume è Mantova. È notte. Gilda e Rigoletto inquieti sono sulla strada, Sparafucile nell’interno dell’osteria.

MONTERONE fermandosi verso il ritratto Poiché fosti invano da me maledetto, Né un fulmine o un ferro colpiva il tuo petto, Felice pur anco, o Duca, vivrai. Esce fra le guardie dal mezzo. RIGOLETTO No, vecchio, t’inganni … un vindice avrai. Si volge con impeto al ritratto. Sì, vendetta, tremenda vendetta Di quest’anima è solo desio... Di punirti già l’ora s’affretta, Che fatale per te tuonerà. Come fulmin scagliato da Dio, Te colpire il buffone saprà.

GILDA Sì. RIGOLETTO Ebben, Osserva dunque. La conduce presso una delle fessure del muro, ed ella vi guarda. GILDA Un uomo Vedo. RIGOLETTO Per poco attendi.

RIGOLETTO E l’ami?

GILDA O mio padre, qual gioia feroce Balenarvi negli occhi vegg’io! Perdonate: a noi pure una voce Di perdono dal cielo verrà. Perdonate, perdonate!

GILDA Sempre.

Il Duca, in assisa di semplice ufficiale di cavalleria, entra nella sala terrena per una porta a sinistra.

RIGOLETTO Pure Tempo a guarirne t’ho lasciato.

GILDA trasalendo Ah, padre mio!

RIGOLETTO Vendetta! Vendetta! No! No!

GILDA Io l’amo.

GILDA (Mi tradiva, pur l’amo; gran Dio, Per l’ingrato ti chiedo pietà!)

RIGOLETTO Povero cor di donna! Ah, il vile infame! … Ma ne avrai vendetta, o Gilda.

DUCA a Sparafucile Due cose E tosto...

RIGOLETTO Come fulmin scagliato, ecc.

GILDA Pietà, mio padre...

GILDA Perdonate, ecc.

RIGOLETTO E se tu certa fossi Ch’ei ti tradisse, l’ameresti ancora?

RIGOLETTO (Son questi i suoi costumi!)

GILDA Nol so, ma pur m’adora.

SPARAFUCILE (Oh, il bel zerbino!) Entra nella stanza vicina.

Escono dal mezzo.

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SPARAFUCILE Quali? DUCA Una stanza e del vino!

35


Atto 3°

Atto 3°

DUCA La donna è mobile Qual piuma al vento, Muta d’accento E di pensiero. Sempre un amabile Leggiadro viso, In pianto o in riso È menzognero.

Sol te quest’alma adora. GILDA (Iniquo!) MADDALENA Ah! Ah!... e vent’altre appresso Le scorda forse adesso? Ha un’aria il signorino Da vero libertino...

È sempre misero Chi a lei s’affida, Chi le confida Mal cauto il core! Pur mai non sentesi Felice appieno Chi su quel seno Non liba amore!

DUCA Sì... un mostro son … per abbracciarla GILDA Ah, padre mio! MADDALENA Lasciatemi, Stordito.

La donna è mobile, ecc. Sparafucile rientra con una bottiglia di vino e due bicchieri che depone sulla tavola: quindi batte col pomo della sua lunga spada due colpi al soffitto. A quel segnale una ridente giovane, in costume di zingara, scende a salti la scala. Il Duca corre per abbracciarla, ma ella gli sfugge. Frattanto Sparafucile, uscito sulla via, dice a parte a Rigoletto:

DUCA Ih, che fracasso! MADDALENA Stia saggio! DUCA E tu sii docile, Non farmi tanto chiasso. Ogni saggezza chiudesi Nel gaudio e nell’amore. Le prende la mano. La bella mano candida!

SPARAFUCILE È là il vostr’uomo …viver dee o morire? RIGOLETTO Più tardi tornerò l’opra a compire. Sparafucile s’allontana dietro la casa verso il fiume.

MADDALENA Scherzate voi, signore. DUCA No, no.

DUCA Un dì, se ben rammentomi, O bella, t’incontrai… Mi piacque di te chiedere E intesi che qui stai. Or sappi che d’allora

MADDALENA Son brutta.

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DUCA Abbracciami.

Mel credete, so apprezzar. Son avvezza, bel signore, Ad un simile scherzar.

GILDA (Iniquo!)

GILDA Ah, così parlar d’amore A me pur intame ho udito! Infelice cor tradito, Per angoscia non scoppiar.

MADDALENA Ebbro! DUCA D’amore ardente,

RIGOLETTO a Gilda Taci, il piangere non vale... Ch’ei mentiva sei sicura. Taci, e mia sarà la cura La vendetta d’affrettar. Sì, pronta fia, sarà fatale, Io saprollo fulminar.

MADDALENA Signor, l’indifferente Vi piace canzonar? DUCA No, no, ti vo’ sposar… MADDALENA Ne voglio la parola…

M’odi! ritorna a casa. Oro prendi, un destriero Una veste viril che t’apprestai, E per Verona parti. Sarovvi io pur doman.

DUCA ironico Amabile figliuola!

GILDA Or venite...

RIGOLETTO a Gilda che avrà tutto osservato ed inteso E non ti basta ancor?

RIGOLETTO Impossibil.

GILDA Iniquo traditor!

GILDA Tremo.

DUCA Bella figlia dell’amore, Schiavo son dei vezzi tuoi; Con un detto sol tu puoi Le mie pene consolar. Vieni e senti del mio core Il frequente palpitar.

RIGOLETTO Va’. Il Duca e Maddalena stanno sempre fra loro parlando, ridendo, bevendo. Partita Gilda, Rigoletto va dietro la casa, e ritorna parlando con Sparafucile e contandogli delle monete.

MADDALENA Ah! ah! rido ben di core, Che tai baie costan poco Quanto valga il vostro gioco,

RIGOLETTO Venti scudi hai tu detto? Eccone dieci, E dopo l’opra il resto. Ei qui rimane? 37


Atto 3°

Atto 3°

SPARAFUCILE Sì.

E pioverà tra poco. DUCA Tanto meglio! Tu dormirai in scuderia... All’ínferno … ove vorrai.

RIGOLETTO Alla mezzanotte Ritornerò. SPARAFUCILE Non cale; A gettarlo nel fiume basto io solo.

SPARAFUCILE Oh, grazie. MADDALENA piano al Duca Ah no! Partite.

RIGOLETTO No, no; il vo’ far io stesso. SPARAFUCILE Sia... il suo nome?

DUCA a Maddalena Con tal tempo?

RIGOLETTO Vuoi sapere anche il mio? Egli è Delitto, Punizion son io.

SPARAFUCILE piano a Maddalena Son venti scudi d’oro. al Duca Ben felice D’offrirvi la mia stanza. Se a voi piace Tosto a vederla andiamo.

Parte; il cielo si oscura e tuona. SPARAFUCILE La tempesta è vicina!... Più scura fia la notte.

Prende un lume e s’avvia per la scala.

DUCA Maddalena?

DUCA Ebben, sono con te … presto, vediamo.

per prenderla

Dice una parola all’orecchio di Maddalena e segue Sparafucile.

MADDALENA sfuggendogli Aspettate... mio fratello Viene.

MADDALENA (Povero giovin!... grazioso tanto! Dio! qual notte è questa!)

DUCA Che importa?

DUCA giunto al granaio, vedendone il balcone senza imposte Si dorme all’aria aperta? bene, bene. Buona notte.

MADDALENA Tuona! SPARAFUCILE entrando 38

SPARAFUCILE Signor, vi guardi Iddio!

GILDA osservando per la fessura Chi parla?

DUCA Breve sonno dormiam; stanco son io. Depone il cappello, la spada e si stende sul letto. Maddalena frattanto siede presso la tavola. Sparafucile beve dalla bottiglia lasciata dal Duca. Rimangono ambedue taciturni per qualche istante, e preoccupati da gravi pensieri. La donna è mobile, ecc.

SPARAFUCILE frugando in un credenzone Al diavol ten vai MADDALENA Somiglia un Apollo, quel giovine… io l’amo ... Ei m’ama … riposi... né più l’uccidiamo.

S’addormenta.

GILDA ascoltando Oh cielo!

MADDALENA È amabile invero cotal giovinotto. SPARAFUCILE Oh sì … venti scudi ne dà di prodotto.

SPARAFUCILE gettandole un sacco Rattoppa quel sacco!

MADDALENA Sol venti!… son pochi! …valeva di più.

MADDALENA Perché?

SPARAFUCILE La spada, s’ci dorme, va’, portami giù.

SPARAFUCILE Entr’esso il tuo Apollo, sgozzato da me, Gettar dovrò al fiume.

Maddalena sale al granaio e contempla il dormente, poi ripara alla meglio il balcone e scende portando con sé la spada. Nel frattempo Gilda comparisce dal fondo della via in costume virile, con stivali e speroni, e lentamente si avanza verso l’osteria, mentre Sparafucile continua a bere. Spessi lampi e tuoni.

GILDA L’inferno qui vedo! MADDALENA Eppure il danaro salvarti scommetto Serbandolo in vita.

GILDA Ah, più non ragiono! Amor mi trascina … mio padre, perdono! tuono Qual notte d’orrore! Gran Dio, che accadrà?

SPARAFUCILE Difficile il credo. MADDALENA M’ascolta... anzi facil ti svelo un progetto. De’ scudi già dieci dal gobbo ne avesti; Venire cogli altri più tardi il vedrai... Uccidilo, e venti allor ne avrai: Così tutto il prezzo goder si potrà.

MADDALENA posata la spada del Duca sulla tavola Fratello?

39


Atto 3°

Atto 3°

GILDA Che sento!... Mio Padre! SPARAFUCILE Uccider quel gobbo!... che diavol dicesti! Un ladro son forse? Son forse un bandito? Qual altro cliente da me fu tradito? Mi paga quest’uomo... fedele m’avrà.

GILDA Oh, qual tentazione!… morir per l’ingrato? Morire!… e mio padre! … Oh cielo, pietà!

MADDALENA Su, spicciati, presto, fa’ l’opra compita: Anelo una vita con altra salvar.

Battono le undici e mezzo.

SPARAFUCILE Ebbene, son pronto; quell’uscio dischiudi, Più ch’altro gli scudi mi preme salvar.

SPARAFUCILE Ancor c’è mezz’ora.

MADDALENA Ah, grazia per esso!

MADDALENA piangendo Attendi, fratello...

SPARAFUCILE È d’uopo ch’ei muoia.

GILDA Che! piange tal donna! … Né a lui darò aita! … Ah, s’egli al mio amore divenne rubello, Io vo’ per la sua gettar la mia vita.

MADDALENA Fuggire il fo adesso. Va per salire.

Picchia alla porta.

GILDA Oh, buona figliuola!

MADDALENA Si picchia?

SPARAFUCILE trattenendola Gli scudi perdiamo.

SPARAFUCILE Fu il vento.

MADDALENA È ver!

Gilda torna a bussare. MADDALENA Si picchia, ti dico.

SPARAFUCILE Lascia fare... MADDALENA Salvarlo dobbiamo. SPARAFUCILE Se pria ch’abbia il mezzo la notte toccato Alcuno qui giunga, per esso morrà. MADDALENA È buia la notte, il ciel troppo irato, Nessuno a quest’ora da qui passerà.

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GILDA (Ah! presso alla morte, sì giovine sono! Oh ciel, per quegl’empi ti chieggo perdono! Perdona tu, o padre, a quest’infelice! Sia l’uomo felice ch’or vado a salvar.)

Picchia alla porta.

MADDALENA Spicciati!

RIGOLETTO per entrare Son io.

SPARAFUCILE uscendo di casa Chi è là?

SPARAFUCILE Apri! MADDALENA Entrate!

SPARAFUCILE Sostate. Rientra e torna trascinando un sacco. È qua spento il vostro uomo.

GILDA (Dio! Loro perdonate!)

RIGOLETTO Oh gioia! … un lume!

MADDALENA, SPARAFUCILE Entrate!

SPARAFUCILE Un lume?... No, il danaro. Rigoletto gli dà una borsa. Lesti all’onda il gettiam...

SPARAFUCILE È strano!... Chi è?

Sparafucile va a postarsi con un pugnale dietro alla porta; Maddalena apre e poi corre a chiudere la grande arcata di fronte, mentre entra Gilda, dietro a cui Sparafucile chiude la porta, e tutto resta sepolto nel silenzio e nel buio.

GILDA Pietà d’un mendico; Asil per la notte a lui concedete.

Rigoletto solo si avanza chiuso nel suo mantello. La violenza del temporale è diminuita, né più si vede e sente che qualche lampo e tuono.

MADDALENA Fia lunga tal notte!

RIGOLETTO Della vendetta alfin giunge l’istante! Da trenta dì l’aspetto Di vivo sangue a lagrime piangendo, Sotto la larva del buffon... Quest’uscio... esaminando la casa

SPARAFUCILE Alquanto attendete. Va a cercare nel credenzone.

È chiuso!... Ah, non è tempo ancor! S’attenda. Qual notte di mistero! Una tempesta in cielo!… In terra un omicidio! Oh, come invero qui grande mi sento! Suona mezzanotte. Mezzanotte!

RIGOLETTO No, basto io solo. SPARAFUCILE Come vi piace... Qui men atto è il sito. Più avanti è più profondo il gorgo. Presto, Che alcun non vi sorprenda. Buona notte. Rientra in casa. RIGOLETTO Egli è là! … morto! ... Oh sì! vorrei vederlo! … Ma che importa? ... è ben desso!… Ecco i suoi sproni! 41


Atto 3°

Ora mi guarda, o mondo! Questi è un buffone, ed un potente è questo! Ei sta sotto ai miei piedi!... È desso! O gioia! È giunta alfine! la tua vendetta, o duolo! … Sia l’onda a lui sepolcro, Un sacco il suo lenzuolo! All’onda! All’onda!

GILDA Ah, padre mio! RIGOLETTO Qual mistero!... Che fu?... Sei tu ferita? … Dimmi!... GILDA indicando al core L’acciar qui mi piagò...

Fa per trascinare il sacco verso la sponda, quando è sorpreso dalla lontana voce del Duca, che nel fondo attraversa la scena.

RIGOLETTO Chi t’ha colpita?

DUCA La donna è mobile, ecc.

GILDA V’ho ingannato... colpevole fui... L’amai troppo... ora muoio per lui!

RIGOLETTO Qual voce!... Illusion notturna è questa! trasalendo No!… No! egli è desso... verso la casa Maledizione! Olà … dimon bandito! Chi è mai, chi è qui in sua vece? Taglia il sacco. Io tremo … È umano corpo! Lampeggia Mia figlia!... Dio! mia figlia!... Ah no... è impossibil!... per Verona è in via! Fu vision... inginocchiandosi È dessa! O mia Gilda: fanciulla, a me rispondi! L’assassino mi svela …Olà?... Picchia disperatamente alla porta. Nessuno? Nessun!... tornando presso Gilda Mia figlia?... Mia Gilda?... Oh, mia figlia!

RIGOLETTO (Dio tremendo! Ella stessa fu colta Dallo stral di mia giusta vendetta!) Angiol caro, mi guarda, m’ascolta... Parla … parlami, figlia diletta. GILDA Ah, ch’io taccia... a me... a lui perdonate! Benedite alla figlia, o mio padre ... Lassù in cielo, vicino alla madre ... In eterno per voi pregherò. Non più... Addio! RIGOLETTO Non morir, mio tesoro, pietate... Mia colomba, lasciarmi non dei! Se t’involi, qui sol rimarrei. Non morire, o ch’io teco morrò! Oh, mia figlia! Oh, mia Gilda! Gilda muore. Gilda! mia Gilda!... è morta! Ah, la maledizione! Strappandosi i capelli, cade sul cadavere della figlia.

GILDA Chi mi chiama? RIGOLETTO Ella parla! … si muove! … È viva! … oh Dio! Ah, mio ben solo in terra... Mi guarda... mi conosci...

FINE 42


Ionut Pascu Rigoletto

Paolo Fanale Il Duca di Mantova

Jessica Pratt Gilda

Mirco Palazzi Maddalena

Daniela Innamorati Giovanna

Milena Josipovic Marullo

Abramo Rosalen Matteo Borsa

William Corrò Il conte di Ceprano

Orfeo Zanetti Un paggio della Duchessa

Francesco Milanese Un usciere di corte

Giampaolo Bisanti

Alessandra Caruccio La contessa di Ceprano Un paggio della Duchessa

Stefano Poda

Luigi Varotto Un usciere di corte


O P V - ORCHESTRA DI PADOVA E DEL VENETO

CORO CITTÀ DI PADOVA

Violino Principale Fabio Paggioro

Tenori Bolzonella Alberto Bovo Enrico Capovilla Andrea Cavazzana Giovanni Cervato Antonio Fortin Giuseppe Galdiolo Remigio Lionello Nicola Maracani Marcello Pasello Nicolò Trevisan Giov.Battista Santos David A. Alexandre Scalzini Mauro Zoccatelli Gianluca

Flauti Mario Folena Riccardo Pozzato

Violini Primi Enrico Rebellato Stefano Bencivenga Sonia Domoustchieva Ivan Malaspina Chiaki Kanda Gilda Urli Alessandra Bano Davide Dal Paos Aureliana Baruffa

Oboi Paolo Brunello Victor Vecchioni Clarinetti Luca Lucchetta Rodolfo La Banca Fagotti Aligi Voltan Benedetta Targa

Violini Secondi Gianluca Baruffa Vicenzino Bonato Serena Bicego Erica Zerbetto Pavel Cardas Matteo Valerio Roberto Zampieri Kalman Tabanyi

Corni Marco Bertona Michele Fait Danilo Marchello Giovanni Catania

Baritoni-Bassi Bortolami Antonio Bugno Alessandro Castellan Eduard Cazzuffi Marco Di Padua Gianni Gepoli Alessasndro Lucenti Antonio Rinaldi Fabrizio Righi Marco Russu Jurii Tonello Antonio Turatello Nicolò Varotto Luigi Zorzan Armando

Mimo Stefano Botti

Trombe Simone Lonardi Roberto Caterini

Viole Luca Volpato Silvina Sapere Floriano Bolzonella Giada Broz Silvia Maria Macri’ Matteo Canella

Tromboni Alessio Savio Alessio Brontesi Fabio Rovere Roberto Ronchetti

Violoncelli Mario Finotti Giancarlo Trimboli Caterina Libero Fernando Sartor

Timpani E Percussioni Alberto Macchini Francesco Corso Alessandro Perissinotto

Comparse Mario Bargi Elisa Lucca Gaia Samanta Guastamacchia Elena Rosetti Arianna Ilardi Sophie Babetto

Contrabbassi Ubaldo Fioravanti Giorgia Pellarin Riccardo Valdettaro 46

47


Allestimento scenico Luca Gaetani - Gaetani Allestimenti (PD) Scenografie Tecnoscena srl di Guidonia (RM), Sculture e Maschere Piero Lorenzini - Aiuto scultore Michelangelo Tomaro (PG) Costumi Tirelli (RM) Calzature Pompei 2000 (RM)

Si ringraziano per la collaborazione e il supporto La squadra tecnica del Teatro Stabile del Veneto Teatro Verdi

Š 2013 Comune di Padova Finito di stampare nel mese di ottobre 2013 presso Grafiche Turato - Rubano (PD)


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