Diario di un attraversamento

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Diario di un attraversamento [TUSCANIA LAB]



UN RACCONTO CORALE. TREDICI PERSONE IN CAMPO PER COSTRUIRE UN DOCUMENTARIO E UN REPORTAGE COLLETTIVO SU TUSCANIA. UN LAB DI GIORNALISTI GIOVANI E MENO GIOVANI, STUDENTI E DOCENTI, CHE HA VIAGGIATO PER LE STRADINE DEL BORGO MEDIOEVALE E NEI RIONI FUORI LE MURA.



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[Attraversando Tuscania con un Lab] @ TuscaniaLab [Con sguardo di barbaro] @Antonio Cipriani [Memoria, identità e terremoto] @Angela Pesci [Il terremoto che cambiò la città] @Maddalena Papacchioli [Affresco di un centro storico] @Frine Beba Favaloro / Irene Raggi [Fantasmi del ‘71] @Anna Rita Severini [Dalla strada al pensiero] @Irene Raggi [Giornalismo, immaginario e realtà] @Lorenzo De Angelis [Il Rivellino 40 anni dopo] @Giulia Cipriani /Angela Pesci [Il presente aggrappato al passato] @Fabiola Caldarella / Lorenzo De Angelis [Una città nella città] @Andrea Nobili [Ce filtra l’acqua a fiumi] @Andrea Nobili / Anna Rita Severini [A Tuscania il tempo si è fermato] @Fabiola Caldarella [Questa notte attende il giorno] @Frine Beba Favaloro [Lo spirito dei Magazzini della Lupa ] @Vincenza Fava [San Pietro, fermare i vandali] @Lucrezia Putzu [I vandali a volte ritornano] @Lucrezia Putzu





[ATTRAVERSANDO TUSCANIA CON UN LAB]

#TUSCANIA -Il viaggio è cominciato sul palcoscenico di legno chiaro dei Magazzini della Lupa. Fondale nero, poche poltroncine, tanto spazio e un tavolo al centro della scena. Un luogo di cultura, un luogo di rappresentazione. Perfetto per un Lab che parte dal giornlismo per sviscerare i temi del racconto, della conversazione civile, del camminare, delle conoscenze connettive. Oltre lo spazio scenico, una finestra si spalanca sulla campagna autunnale che guarda da Tuscania verso la Basilica di San Pietro. Linee morbide, colori intensi. Lo sguardo che costeggia mura di tufo e profili che si innalzano contro il cielo nuvoloso. Si parla seduti intorno al tavolo, poco perché il giornalismo ad altezza uomo prevede l’azione di alzarsi, di tirar su la schiena e camminare. Da soli, con gli altri. Con il guardare e l’ascoltare in piena libertà. Così i tredici del Lab si sono dispersi nel centro medievale, spingendo attenzione e curiosità, ponendo/ponendosi domande. Bello osservare la nascita del documentario, i pezzi della narrazione civile che si compongono in un disegno che nessuno di noi immaginava. Per esempio il Teatro Rivellino. Proprio nei giorni del Lab debuttava lo spettacolo diretto da Stefano Ciccioli sulle memorie tuscanesi del terremoto. Non l’episodio più importante della storia recente: il senso di appartenenza, memoria e identità di Tuscania. Il nucleo centrale intorno al quale ruota il racconto di questo comune di 8mila abitanti e, nel contempo, lo spartiacque della storia. Fino al 6 febbraio 1971 quella antica. Dopo quella moderna. Fatta di ricordi, rimozione, ricostruzione, perdita di un luogo dell’abitare e recupero di tanti luoghi dell’abitare. Non sempre pieni di quel senso di appartenenza che narrava Tuscania. In questo spazio vuoto in cui si avverte lo spostamento dell’asse culturale e identitario, si muove con la sua delicatezza e curiosità il Lab. Si muovono occhi giovani che cercano di capire, di collegare e connettere luoghi distanti, tradizioni, ricordi.

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[CON SGUARDO DI BARBARO]

@Antonio Cipriani #TUSCANIA -Il fascino del palcoscenico, luce di taglio, uno spazio di creatività e memoria: arte e bellezza, cittadinanza poetica. A questo pensavo, passi rimbombo soffuso sul legno, mentre ci sedevamo intorno a un tavolo, sul palcoscenico del Teatro Magazzini della Lupa, in via della Lupa 10 per il Tuscania Lab. Lo sguardo sulle facce belle dei ragazzi e delle ragazze del Lab, il fondale nero e dietro una finestra spalancata sulla campagna che disegna i suoi profili. Un luogo-simbolo, dal quale stava per partire la nostra azione di conoscenza civile; dico azione di conoscenza civile e poi connettiva, ma va bene anche se diciamo di giornalismo, di informazione ad altezza uomo. Perché di questo si tratta: di un qualche cosa che prende le mosse dalla libertà e dalla coscienza (di sé e del mondo). Dalla vita e dall’umanità. Un progetto (poi in coda al testo ho messo una citazione) che dalla conversazione intorno al tavolo si è mosso sulle strade di Tuscania; primi passi per realizzare un documentario, un ebook, un sito web. E da questa piattaforma di PadPad Revolution, cominciamo... Ci siamo messi in cammino. Andando a creare una relazione, costruendo un luogo, con lo sguardo puro di un barbaro che sbarca sulle rive di un paese sconosciuto, con la curiosità di chi sa esercitare senso critico, ponendo e ponendosi domande. Ascoltando risposte, pensando, mettendo in questione l’ascolto, gli incontri, ciò che lo sguardo coglie del mondo attraversato. Esercizi di libertà e conoscenza difficili. Perché non si tratta di mettere virgolette a un’intervista o di ascoltare una conferenza stampa: qui si gioca sul serio alla conoscenza del mondo che abitiamo, attraverso un rapporto costruttivo oggettivo e soggettivo con la realtà. Perché così, solo così si diventa giornalisti. E se di questi tempi il termine sembra limitativo o un po’ usurato, diciamo: operatori delle conoscenze condivise, cittadini attivi che partecipano attraverso l’informazione alla vita della comunità. Senza pregiudizi e conformismo (male grave del tempo).

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Passo dopo passo, divisi in due gruppi, siamo partiti sulle tracce di ipotesi e sull’apertura a tutto ciò che potevamo incontrare per strada. E così è stato. Chi verso il 6 febbraio 1971, chi verso il cuore segreto del centro storico. Basta leggere i primi pezzi di Tuscania Lab per capire che strada ha preso l’esperienza. Un confronto ricco e stimolante all’interno del gruppo e singolarmente con il mondo-Tuscania. Per costruire una mappa, affettiva, visiva, ipotetica, che niente ha a che fare con la cartografia ufficiale, ma che si elabora nel rapporto con le diverse cartografie soggettive dei partecipanti. Dice Walter Benjamin che il modo migliore di conoscere una città è quello di perdersi in essa, quindi andandoci da straniero. Lo straniero che perdendosi cerca i suoi riferimenti, quindi costruisce una propria mappa della città, con i punti di riferimento creati dal proprio perdersi e ritrovarsi in essa. Di questo stiamo parlando. È stato esaltante perché è solo l’inizio: di un progetto che ci porterà a un documentario, di una forma di giornalismo legato alle conoscenze connettive, quindi della forma che sarà di questa professione che (straniera in terra di libertà sempre di più negate) sta cercando di ritrovare la sua strada. Citazione annunciata. “Fare parte di un progetto, di un percorso, di una ricerca, significa per me aderire a una domanda che si fa alla vita. Aderire a quella domanda in maniera ‘definitiva’ significa - per me - non più cercare o interrogare l’oggetto, ma cercare e ‘interrogare me stessa’ sul mio essere lì, nel meccanismo di quella domanda”. Isabella Bordoni, artista, con la quale collaboro in Refugee. Pezzo dedicato alla passione e alla freschezza di Anna Rita Severini, Fabiola Caldarella, Lorenzo De Angelis, Angela Pesci, Irene Raggi, Andrea Nobili, Giulia Cipriani, Frine Beba Favaloro, Maddalena Papacchioli, Valentina Montisci, Ilaria Drago, Carmine Guaragna e Marco Guidi. [CON SGUARDO DI BARBARO]

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[MEMORIA, IDENTITÀ E TERREMOTO] @Angela Pesci #TUSCANIA - Ricordare. Raccontare. Trasmettere. In un’ epoca di veloci cambiamenti, di comunicazioni frettolose e istantanee, di relazioni sociali limitate al “necessario” forse è difficile trovare il tempo per fermarsi e ascoltare, superare le barriere che dividono le generazioni. “Del terremoto ormai non si parla più...”, come se bastasse non parlarne per cancellarne la memoria, per non vedere gli effetti profondi che ha impresso nella vita di quanti lo hanno subìto. Pochi secondi per cambiare tutto. Gli animi, le abitudini, l’aspetto del paesaggio. Pochi secondi per ritrovarsi, improvvisamente, scaraventati fuori dalle proprie case, fuori dalla propria vita. Pochi secondi che hanno distrutto ogni cosa. Il passare degli anni non può che attenuare l’impatto degli eventi, ma non può eliminarli dalla storia, farli cadere in uno spazio vuoto al di fuori del tempo. Ricordare. Non per restare imprigionati nell’attimo, nell’istante; non per vivere e rivivere il dramma. Ricordare per imparare. Per capire. Per conoscere le dinamiche che hanno inscenato cambiamenti epocali. Per le nuove generazioni è quasi impossibile riuscire a cogliere gli effetti del terremoto. Nate e cresciute nella realtà generata dai suoi effetti, per loro sarà sempre più difficile interpretare e discernere qualcosa con cui non hanno dovuto confrontarsi, con cui non hanno legami diretti. E i legami si possono creare attraverso il racconto, attraverso il dovere che ognuno ha di sforzarsi di ricordare, di chiedere, di indagare. Di scoprire un pezzo della propria storia, recente e dolorosa, che ha stravolto le coscienze e l’assetto sociale. Ricordare. Raccontare. Tramandare. Per non perdere di vista la propria identità e il senso di appartenenza, che troppo spesso passa in secondo piano a favore di un “globalismo” che annulla le individualità e appiattisce le coscienze. [MEMORIA, IDENTITÀ E TERREMOTO]

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[IL TERREMOTO CHE CAMBIÒ LA CITTÀ]

@Maddalena Papacchioli #TUSCANIA - Va in scena il terremoto a Tuscania. Il 6 febbraio 1971 è la data che segna il ground zero per questa cittadina - “presepe” medievale della Tuscia viterbese. Quel giorno la tragedia reale della terra che trema ha battuto sul tempo, con due ore di anticipo, lo spettacolo programmato di un teatro che doveva inaugurarsi. In tutt’altro modo, naturalmente. E invece accadde che il paese, ancora impolverato nel sussulto del violento sisma, colpito a fondo nelle viscere del suo centro storico, in lacrime per la conta in crescita di morti e feriti, ha assistito, attonito e sconvolto, alla prima teatrale sull’alzata di un sipario funebre. Alle nove di sera di quel 6 febbraio di quarant’anni fa, al nuovissimo teatro comunale di Tuscania, le salme schierate orizzontali sul palco erano attori muti a lasciarsi piangere dal proscenio addolorato del paese intorno, crollato da due ore. Nessun applauso festante a salutare l’evento, come da copione. Perché all’improvviso, quando la terra trema, non lascia spazio ad altro, in scena e fuori scena: solo lutto e sconcerto triste. Per uno strano caso del destino, a Tuscania, teatro e terremoto sembrano essere due concetti legati a doppio filo in modo così stretto che oggi la storia si ripete. E proprio il teatro torna a raccontare il terremoto dopo quarant’anni, stavolta non dal vero, per fortuna. Con pudore, lo rievoca di fianco, senza mostrarlo in faccia, ché è ancora forte per chi c’era il dolore mai rimosso da rivivere, anche rappresentato. E dunque, in un gioco di metateatro,

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[TUSCANIA LAB]

il regista Stefano Ciccioli e gli autori Daniele Nardi e Fiorenzo De Stefanis, scavano nella memoria comunitaria di una popolazione che ha visto il suo senso di appartenenza territoriale scalfirsi bruscamente dopo quel sussulto sismico così brutale da tagliare in un due, come una mannaia affilata, il percorso identitario di Tuscania e dei suoi abitanti. Così irrompe il trauma della storia, a volte, senza lasciare il tempo di assuefazione collettiva a quel normale processo di distacco culturale dal piccolo borgo antico, che riguarda l’abitare contemporaneo. E con tutta probabilità, avrebbe toccato anche Tuscania più lentamente, come tutti i piccoli e medi centri d’Italia, senza inghiottirla da un minuto all’altro. Qui, piuttosto, successe tutto in pochi attimi: il crollo, il buio e un paesaggio antico e consueto da dimenticare e ricordare, abbandonare e ricostruire, nell’immersione schizofrenica e spaesata del triste day-after. Per Tuscania, il terremoto del ‘71 è stato un crocevia culturale che ha tracciato un “prima” e un “dopo”, percepibili ad occhio nudo, nella forma della città. La ricostruzione dopo il crollo è sempre “altrove”, nelle immediate vicinanze rispetto al luogo del disastro, in alloggi temporanei o definitivi ma in ogni caso “estranei” al paesaggio intorno. Per un vizio d’origine dell’architettura dell’emergenza post-sismica,Tuscania si è ritrovata catapultata in una dimensione spaziale che somiglia a un non-luogo. Il quartiere Gescal si dirama dalla centrale via Tarquinia verso una serie di viali interni, tutti più o meno uguali: è un complesso di palazzoni grigi in cemento, strade asfaltate e larghe, distanze eccessive tra vicinati, dove l’identità storica e geografica si disperde inevi-


tabilmente. Troppo schematico il progetto architettonico per incorniciare una socialità a dimensione umana. Troppo veloci i ritmi del percorrere, dettati dalle auto che sfrecciano e se ne vanno su strisce larghe di asfalto. Troppo innaturali le luci dei negozi, accenti cromatici stonati rispetto a quelle calde e soffuse del centro storico. Solo qui, come in un nido materno, si rilassa lo sguardo ed il pensiero mentre cammini sui sampietrini e ti avvolge il tufo delle case antiche ai lati. Nell’aria il gorgoglio armonico dell’acqua di bellissime fontane fa da sottofondo musicale alla visione della skyline del borgo, che è un dipinto: punteggiata dalle torri etrusche e più in fondo, oltre le mura, la campagna autunnale cullata dal fiume Marta, che sfuma sulle nuvole. E capisci perché solo il borgo è un rifugio della memoria, che torna a disegnare la mappa antica e bella di Tuscania, di un tempo seppellito sotto le macerie di quella sera di febbraio di quarant’anni fa. [IL TERREMOTO CHE CAMBIÓ LA CITTÀ]

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[AFFRESCO DI UN CENTRO STORICO]

@Frine Beba Favaloro @Irene Raggi #TUSCANIA - Un tempo luogo importante di socializzazione, il centro storico di Tuscania oggi si presenta come uno spazio dall’identità non ben definita, in cui coesistono realtà e storie spesso lontane tra di loro e che sembrano convivere senza incontrarsi mai. Ci sono gli anziani, nostalgici di un passato in cui si lasciava la chiave sulla porta. Ci sono i negozianti, che ravvivano di luce e fermento questa via e la mantengono in un ordine ormai dimenticato dall’amministrazione pubblica. Ci sono i ragazzi e le ragazze, fermi sulla soglia dei bar attenti alle oziose ciarle. E poi ci sono gli altri, gli assenti. Quelli che si sa che ci sono ma non si vedono. Gli altri sono un po’ i “forestieri”, in genere romani, che vengono qui a cercare un rifugio dal caos della capitale e acquistano quelle stesse, antiche case che prima del terremoto erano abitate dai tuscanesi. Vengono in estate o il fine settimana, i forestieri, residenti sui generis, un po’ dentro un po’ fuori dall’identità del paese. Come un po’ dentro e un po’ fuori sono i “rumeni”, categoria di migranti non ben definita che accoglie probabilmente almeno due o tre origini culturali, che si insinuano a vivere in questo centro che nasconde, stipati in otto o dieci in piccole case, spesso ristrutturate senza troppa attenzione. Invisibili dalla mattina presto alla sera tardi, se non in qualche raro momento di svago al bar nel giardino comunale o di passaggio, come anche i tunisini quando tornano a casa la sera, una volta chiusa la frutteria fuori dalle mura.

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E accanto a queste impalpabili presenze, qualche rara giovane famiglia che, nonostante le mille difficoltà burocratiche sollevate dall’amministrazione comunale, ha deciso che la sua casa e il suo futuro doveva essere qui, nel centro, nel luogo dove sempre è stata la vita di Tuscania. Vivere nel centro storico è tantissime cose. È saper osservare, guardare, chiedere e comprendere. Passeggiando, cercando di capire, quello che ci colpisce è un’inaspettata trascuratezza: pochi esercizi commerciali, gente che passa ma non si ferma, è un po’ giocare col pieno e il vuoto, potenzialità e immobilismo. Perché quell’insieme di viuzze, fontane, mura antiche può dare tanto ma non decolla. Siamo andati a capirne di più. Intervistando per strada l’anziano, l’adolescente, il negoziante, la giovane coppia, emergono malumori e inquietudini, ma soprattutto un senso di solitudine che ha portato il cittadino ad uscire dal centro storico, prima fulcro e collante sociale, ora belletto di contorno ad attività che la comunità svolge fuori. Il centro storico è così diventato un crocevia di strade percorse come scorciatoie, scorciatoie per gli extracomunitari che si accontentano di condizioni precarie pur di avere una possibilità di lavoro, per i giovani che si nascondono nei vicoli per sfuggire agli occhi curiosi dei grandi, scorciatoia per gli anziani alla ricerca di ricordi passati. Naturalmente, parlando con le persone è scattata la caccia al colpevole. Perché una località di tale bellezza viene gestita con tanta incuria? Parola d’ ordine: cattiva amministrazione. La politica sembra un’entità lontana che impone ma non propone. Che stabilisce vincoli paesaggistici al privato cittadino ma non incentiva le attività commerciali o la partecipazione della collettività alla cosa pubblica. Un’ amministrazione dall’indole sorniona, preoccupata a dirigere ma sorda di fronte alle necessità o alle proposte della gente. Indifferente ai cambiamenti come l’attivazione della raccolta differenziata, o l’incentivazione del turismo, chiave di sviluppo di un’economia mobile, al di là della compravendita immobiliare che arricchisce il singolo cittadino. Qui e là, qualche sprazzo di insolita vitalità di pensiero e di azione, come la libreria Odradek, laboratorio di idee e progetti che accanto ai libri espone dipinti di artisti locali e forestieri e sostiene eventi e spettacoli. Emerge un’ altra Tuscania, fervente e convinta a dare voce alla sensibilità dell’arte che qui nasce o qui giunge da fuori. È un paese complesso, Tuscania, che ad un primo sguardo colpisce per la sua bellezza senza tempo e che poi ti trascina in una realtà traboccante di ambivalenze tra passato e futuro e ti lascia così, senza certezze. [AFFRESCO DI UN CENTRO STORICO]




[FANTASMI DEL ‘71]

@Anna Rita Severini #TUSCANIA -Apro il pc vado su Google digito una data: 6 febbraio 1971, vicino scrivo terremoto a Tuscania. Scopro i volti in bianco e nero, ascolto le parole immagino di essere nel 1971 come in un sogno in bianco e nero, io tra le macerie ad intervistare la gente a raccogliere le loro storie. Ma ora sono nel 5 novembre 2011, sono qui a Tuscania, sto partecipando ad un laboratorio di giornalismo, sto davvero intervistando la gente del quartiere Ater ricostruito dopo il terremoto, la sera partecipo anche alla presentazione del libro “Volti/Parole” di Antonio Cipriani, giornalista, una raccolta di storie di vita ed è ancora una coincidenza a colpirmi, le foto del libro ritraggono volti in bianco e nero di giornalisti e di intervistati. È solo per una fantasia onirica che viaggio tra passato e presente? Oppure esiste un filo conduttore tra ciò che è stato e ciò che ora è. Nella testa risuona un pensiero nuovo d’ informazione. È come scoprire di essere svegli. Attraversando a piedi il paese di Tuscania, parlando con la gente, fotografando con l’occhio palazzi e quartieri di oggi, ho viaggiato in parallelo con un tempo della storia lontano 40 anni, un tempo sconosciuto, forse dimenticato. Qualcosa però si è depositato nelle fondamenta della storia di questa terra. La polvere del cemento sgretolato delle macerie del ‘71 si alza in un eco flebile del popolo di oggi che, come un fantasma nascosto tra il cemento armato, chiede di non essere dimenticato, perché unico filo che ci conduce alla storia di ieri. [FANTASMI DEL ‘71]

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[DALLA STRADA AL PENSIERO]

@Irene Raggi #TUSCANIA -È da un po’ di tempo che mi devo guardare intorno. Sì, intorno. Sempre dritta per la mia strada, inciampo ma non mi soffermo a guardare cosa mi ha fatto inciampare. Solo sguardi furtivi e rari. In questi tre giorni ho fermato la mia “macchina da guerra”, basta lottare e cercare di sgomitare. È stato tremendamente bello. Oserei dire quasi faticoso. Condividere con altri un progetto, confrontarsi e mediare, mettersi in gioco e calarsi in un contesto per capirne le dinamiche..bella sfida..e soprattutto abbandonare il proprio ego per metterlo a servizio di un gruppo. Abbiamo passeggiato per Tuscania, avvicinato le persone per intervistarle ed io, convinta che si stizzissero all’idea di aprirsi con degli sconosciuti, sono rimasta sbalordita nel rendermi conto che quelle stesse persone avevano una grande voglia, forse esigenza, di esprimersi. Sfoghi personali interminabili di vecchietti, giovani, lavoratori di mezza età. Caratteristica comune e trasversale. Allora mi chiedo: perché tanta necessità di parlare con delle persone incontrate per strada? Forse manca oggi la capacità di ascoltare l’altro, la voglia e la fatica di entrarci in empatia per condividerne un’emozione? Condivisione. Confronto. Contatto. Ho capito che tutti abbiamo l’impellente bisogno di raccontarci, sotto diverse forme, ma sempre parlare di noi, di quella cosa che non va né su e giù, che implode in noi aspettando solo il momento di uscire con tutta la sua forza. Questo mi ha veramente colpito. E le testimonianze raccolte in questi giorni ne sono l’esempio. Forse basterebbe recuperare una dimensione più ad “altezza uomo” che abbandona per un attimo Facebook e guarda negli occhi il vicino per coglierne l’umore? Sembrerebbe già un bell’inizio, ma si sa, le cose più banali sono sempre le più sfuggenti. Davvero una bella lezione di vita... condita, certo, anche da un po’ di giornalismo. [DALLA STRADA AL PENSIERO]

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[GIORNALISMO, IMMAGINARIO E REALTÀ]

@Lorenzo De Angelis #TUSCANIA -Nell’ immaginario di molte persone che si accostano alla lettura di un giornale o alla visione di un documentario, sfugge spesso la valorizzazione del lavoro “umano”, ovvero del percorso che il realizzatore ha compiuto e che ha portato al risultato. Il fruitore vede solo il prodotto finito, ma costruire una notizia, un articolo, comporta osservare le cose non per conservarne una memoria individuale, ma per raccontarle e condividerle, uscendo quindi dall’egoismo inconsapevole di chi non ha per fine ultimo la comunicazione. Un giornalista lo si dipinge spesso seduto davanti a un pc o ad un foglio di carta, più che come una persona che cerca nella realtà che lo circonda la notizia, che osserva dal vivo le situazioni, che scambia opinioni, che va a caccia di interlocutori. Il giornalismo non è, quindi, un’attività che si riduce alla sola scrittura. Questa è la punta dell’ iceberg che nasconde un lavoro molto più ampio e attivo di ricerca sul campo. Ciò che lo contraddistingue sostanzialmente dalla gran parte delle altre attività, è che mentre in queste una persona lavora individualmente o in equipe, per creare un prodotto finito da offrire agli altri, nel giornalismo invece l’interazione con la società non smette mai: è necessaria nella costruzione del lavoro, ed è il fine del lavoro stesso. [GIORNALISMO, IMMAGINARIO E REALTÀ ]

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[IL RIVELLINO 40 ANNI DOPO]

@Angela Pesci @Giulia Cipriani #TUSCANIA -Terremotati dentro. Così si intitola lo spettacolo che va in scena in questi giorni al teatro "Il Rivellino", nel centro storico di Tuscania, realizzato a quarant'anni dal terribile terremoto che colpì il paese il 6 febbraio 1971. La rappresentazione, divisa in due atti, ripercorre la vita quotidiana dei terremotati all'interno delle baracche, alloggi di fortuna costruiti per ospitare gli sfollati. Le vicende si svolgono ad un anno dal sisma, nell'aprile '72, e mettono in mostra le difficoltà con le quali i protagonisti si scontrano giorno per giorno; tali problematiche si concentrano però molto di più sui cambiamenti che stavano avvenendo in quegli anni sul piano sociale, piuttosto che sull'evento in sè. In realtà il terremoto in questo spettacolo non c'è. Ci sono i terremotati, che però sembrano aver già rimosso, tentando di guardare più al presente e buttare alle spalle il dramma. Ciò è possibile tramite un approccio più leggero, fatto di battute, aneddoti popolari e ilarità, come racconta Fiorenzo De Stefanis, co-autore del testo teatrale assieme a Daniele Nardi. L'intento è quello di presentare ai più giovani e ai meno giovani la situazione da un punto di vista diverso, più libero dalla dimensione tragica dell'evento, facilitato dal distacco che solo il trascorrere del tempo può dare. Il terremoto per gli abitanti di Tuscania ha rappresentato e rappresenta ancora un'importante "cesura storica". Un ipotetico Anno Zero dal quale è partito un nuovo corso storico, accelerando tutti quei processi di modernità che stavano arrivando lentamente nel piccolo borgo. In pochi secondi è cambiato totalmente il modo di vivere, di relazionarsi al paese. I terremotati si sono ritrovati improvvisamente a dover abitare dapprima in appoggi momentanei, poi in tende, successivamente in baracche e in ultimo, dopo qualche anno, nel nuovo quartiere popolare che avrebbe dovuto ricreare una situazione sociale simile a quella del centro storico ormai distrutto. Era come se si volesse far rinascere una nuova

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Tuscania, dimenticandosi di quella vecchia. Il centro storico era ridotto ad un ammasso di macerie, ma la fortuna nella tragedia ha voluto che la maggior parte degli abitanti del paese si trovasse nel teatro, una delle poche strutture rimaste in piedi, per partecipare ad una festa di carnevale nel giorno della sua inaugurazione. In pochi attimi l'atmosfera allegra, gioiosa, carnevalesca propria della festa si è tramutata in dolore e morte. In molti quella sera, senza ben sapere cosa fosse successo, si allontanarono frettolosamente dalle proprie case, per mettersi in salvo fuori dalle mura. Solo il giorno dopo, tornando indietro, si sarebbero accorti dell'entità dei danni. Il teatro, ancora protagonista, stavolta accoglieva i morti. Dopo quarant'anni teatro e terremoto si incontrano di nuovo in questa commedia, che sembra portare a compimento la festa tragicamente interrotta. In maniera catartica la rappresentazione dello spettacolo "Terremotati dentro e fuori scena", attraverso l'espediente del metateatro, sembra voler fare incontrare attraverso la realtà storica e la finzione teatrale, chi il terremoto l'ha vissuto sulla propria pelle o nei ricordi di bambino, per tramandare la memoria alle nuove generazioni, e cercare di ricostruire, anche attraverso l'uso del dialetto, un'identità sociale che lentamente è venuta meno dopo il terremoto. [IL TEATRO DELLA MEMORIA, IL RIVELLINO 40 ANNI DOPO]

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[IL PRESENTE AGGRAPPATO AL PASSATO]

@Lorenzo De Angelis @Fabiola Caldarella #TUSCANIA -Alle 19.10 del 6 Febbraio 1971 la terra di Tuscania cominciò a tremare. Una scossa lunga poco più di 5 secondi bastò a radere al suolo gran parte del centro storico, all’epoca fulcro abitativo della cittadina medievale in provincia di Viterbo. Dopo le operazioni di soccorso, tra conferme e smentite, cominciò a delinearsi la tragica realtà: più di 30 i morti e più di 4mila i senza tetto. Mentre la popolazione viveva nelle tende e nelle baracche, le autorità locali e nazionali cominciarono repentinamente il progetto di ricostruzione del centro storico e la costruzione ex novo di un quartiere al di fuori delle mura, denominato Gescal, che, nelle loro intenzioni, doveva essere la soluzione al problema abitativo. A partire dal 1975, a distanza di soli 4 anni, cominciò l’assegnazione delle prime case. Entro il 1980 la Gescal risultava totalmente popolata. Popolata lo è ancora oggi, ma in maniera differente. Se all’inizio il quartiere era visto come l’inizio di una “nuova vita”, il punto di riferimento da cui ricominciare, oggi la realtà risulta essere diversa. Abbandono, desolazione e trascuratezza, questo trasmette il primo impatto visivo a chi si inoltra nelle vie della ex Gescal, oggi quartiere Ater. Le mura esterne dei palazzi risultano usurate dal tempo, senza traccia di alcun tipo di lavoro di manutenzione, le ringhiere arrugginite, la strada piena di buche, alcune costruzioni incomplete tanto che non se ne intuisce lo scopo. Insomma, utilizzando le parole della

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popolazione stessa del quartiere, queste case fatiscenti, sono un vero “pugno nell’occhio”. Neanche i timidi tentativi di migliorarne l’estetica con vasi, alberelli e varie decorazioni floreali, riescono nel loro intento di alleggerire la sensazione predominante di abbandono; quel che ne deriva è solo una grande tristezza. Il quartiere Ater oggi risulta abitato in prevalenza da anziani e stranieri. Come dice il signor Antonio, titolare di un esercizio commerciale di frutta e verdura, “delle tante famiglie presenti inizialmente adesso ne sono rimaste molto meno, composte soprattutto da anziani, anche perché chi ha la possibilità se ne va. E le case rimaste vuote sono state occupate dagli stranieri”. Intervistando la gente sulle cause dell’attuale degrado, le risposte sono sostanzialmente unanimi: “Le case non c’entrano niente con le villette nuove qui intorno”, “Case antisismiche, però tutto il resto cade a pezzi”, “Siamo isolati per colpa dell’ amministrazione, che ci esclude da ogni progetto riguardante l’intero paese, come il centro commerciale naturale”, “Dopo i pochi lavori di manutenzione, piove dove prima non pioveva”. Quel che affiora è un senso di abbandono sia da parte delle amministrazioni comunali che si sono succedute negli anni, sia da parte dell’Ater stesso. C’è chi come il signor Giancarlo, proprietario di una tabaccheria, si lamenta dello scarso controllo, “le guardie non si vedono mai”. Le cose non sono state sempre così. All’inizio il quartiere era pieno di attività commerciali, ora sono presenti pochi negozi, per lo più riguardanti generi di prima necessità. A volte sembra che le cose stiano cambiando; locali vengono ristrutturati, ma poi non si sa il perché, non se ne fa più niente. Sono “locali morti”. Molti di questi, non sono però stati veramente abbandonati, perché dopo la chiusura dell’attività, c’è chi si è tenuto le chiavi, continuando a usufruire dello spazio a fini personali. Uno di questi luoghi, ci è stato riferito che è addirittura diventato deposito di carrozzine per disabili, probabilmente


della Asl. Ad animare un po’ l’atmosfera dell’Ater, ha contribuito la recente riapertura della scuola media, precedentemente chiusa per ristrutturazione. Pare che questi lavori non siano stati eseguiti nel migliore dei modi, visto che appena riprese le lezioni, le aule si sono allagate dopo qualche ora di pioggia. Anche in questo caso emerge la poco accuratezza che ha contraddistinto il progetto del nuovo quartiere sin dal principio, dato che la scuola risulta essere collocata a un livello più basso rispetto a quello della strada. La causa principale, viene individuata da Enio Staccini, responsabile della biblioteca comunale, nella fretta che la popolazione e il comune di Tuscania di allora hanno avuto nell’ assegnazione delle abitazioni, che risultano quindi frutto di lavori inappropriati e peraltro non collaudati. Lo stesso Staccini ci fa intuire la presenza di strane storie di speculazione che non hanno contribuito ad un trasparente e migliore svolgimento dei lavori. Ad oggi chiaramente opere di ristrutturazione significative non trovano l’appoggio, soprattutto economico, da parte di nessuno, né dal comune, ne tantomeno dall’ Ater, che chiede un aumento notevole dell’ affitto delle case per rispondere a questa esigenza dei cittadini. Nulla lascia intravedere prospettive di miglioramento, ma traspare evidente la necessità di intervenire per fare del quartiere Ater (ex Gescal) un posto più vivibile, vivo ed esteticamente accettabile, anche perché la gente di Tuscania ha bisogno ancora oggi di pensare al terremoto in maniera diversa, di relegarlo al passato e alla memoria. Tutto ciò rimane veramente difficile per chi vive in quello che, ancora oggi, appare come un cantiere aperto e incompleto. [GESCAL, IL PRESENTE AGGRAPPATO AL PASSATO]

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[UNA CITTÀ NELLA CITTÀ]

@Andrea Nobili #TUSCANIA -Ricostruzione è una parola importante per gli abitanti di Tuscania, grazioso borgo nell’entroterra laziale. È importante perché il 6 febbraio 1971 una violenta scossa di terremoto ha distrutto completamente la piccola città che nonostante i primi segni di sviluppo negli anni Sessanta manteneva ancora il suo aspetto degli inizi del Novecento. Prima del terremoto il centro storico conservava un carattere ancora antico sembrando quasi microcosmo lontano dalla civiltà, le case infatti erano costruite sopra le stalle ed avevano i bagni sul balcone perché secondo la mentalità dell’ epoca il vento doveva portare via i cattivi odori. Alcune foto testimoniano come dalla fine dell’ottocento fino ai primi anni trenta del Novecento Tuscania non ha subito modifiche urbanistiche sostanziali, paradossalmente però il terremoto ha accelerato i timidi segni del progresso evolutivo iniziati nei primi anni Sessanta. Proprio da questo tragico evento parte la ricostruzione che da vita a due realtà che hanno vissuto la modernità in modi nettamente distinti e separati. Una la Tuscania fuori dalle mura urbiche nata intorno al quartiere Gescal, un complesso di prefabbricati in cemento armato e qualche negozio isolato, nato troppo velocemente dopo

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il sisma e altrettanto velocemente ha mostrato i primi problemi: edilizi e di vivibilità che ancora oggi non sono stati risolti completamente e gli abitanti soffrono uno stato di abbandono e di degrado percepibile dai fatiscenti edifici che formano il quartiere. Qui il tempo sembra essersi fermato alla metà degli anni settanta a quando è stato costruito. L’altra è la Tuscania del centro storico dove il restauro ha richiesto molto più tempo e gli edifici ricostruiti completamente nuovi sono stati riportati all’antico splendore medievale. Qui il moderno e l’antico si fondono in maniera perfetta il borgo mantiene ancora quell’ aria che riconduce la mente dei turisti al medioevo fatto di dame e cavalieri ma offre anche una panoramica nuova fatta di negozi di abbigliamento e di bar.


[TUSCANIA LAB]

La ricostruzione post terremoto ha dato vita a due città che hanno vissuto questo tragico evento in maniera completamente diversa il centro con la sua fusione tra vecchio e nuovo sembra guardare avanti mentre il nel quartiere Gescal, lasciato a se stesso, sembra difficile dimenticare, il terremoto è ancora una ferita aperta e difficile da risanare. [UNA CITTÀ NELLA CITTÀ]

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[CE FILTRA L’ACQUA A FIUMI]

@Andrea Nobili @Anna Rita Severini #TUSCANIA -Girato l’angolo, davanti a noi l’Ater, ex Gescal. Qualche minuto per far abituare l’occhio alla geometria degli edifici, il quartiere sembra abbandonato. Si avverte la sensazione di discriminazione di dimenticanza. La struttura delle case popolari è quella di container in cemento armato troppo rudi per sembrare abitazioni dove vivono famiglie con bambini in realtà difficili da incontrare. Dopo aver camminato tra centri commerciali, negozi fatiscenti e scuole semi abbandonate che in realtà accolgono studenti e locali perennemente chiusi, entriamo nell’unico bar aperto per parlare con il gestore Riccardo un giovane ragazzo tuscanese con l’aria di chi ha un nodo alla gola. Chiedendogli come si vive nel quartiere Ater si apre un vero sfogo, Riccardo porta alla luce le dure problematiche che i cittadini si trovano ad affrontare da soli senza alcun aiuto istituzionale, ci racconta delle case e del quartiere costruito in tempi record dopo il terremoto del 1971 che sempre in tempi record ha manifestato l’inadeguatezza di vivere in strutture dove dai tetti, come dice Riccardo “ce filtra l’acqua a fiumi”, ci spiega che essendo costruiti con guaina di catrame e non avendo altro che funzioni da isolante sono esposti continuamente all’usura provocata dalle piogge e dagli agenti atmosferici, sottoponendo l’abitazione a continue infiltrazioni d’ acqua.

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Anche Riccardo si è trovato ad affrontare un problema del genere a cui ha fatto fronte da solo perché, come ci spiega, l’Ater sottostima i danni e gli interventi non sono mai definitivi ma sono “giusto a rattoppà”. Qualche anno fa ha dovuto ristrutturare il locale perché un corto circuito ha provocato un incendio, lui e la sua famiglia hanno fatto richiesta all’Ater che sottovalutando la gravità del danno ha costretto la famiglia a provvedere da sola alla ristrutturazione, ciò che Riccardo ha ottenuto dall’assicurazione equivale ad un terzo della somma che ha dovuto affrontare per i lavori ad un locale che ci sembra l’unica realtà sociale nel quartiere. Anche a questo riguardo il giovane sembra condurre la nostra attenzione, il quartiere dal punto di vista sociale non offre nulla se nasce una minima iniziativa da parte di un gestore di locali nascono problemi interni tra i cittadini di invidia mossa dal denaro e dal guadagno. Riccardo da quando ha preso in gestione l’attività, nata nel 1984, dal padre e dallo zio non solo ha dovuto fronteggiare i problemi edilizi ma anche il rapporto umano con gli altri gestori che invidiosi dell’inventiva e dell’iniziativa che nascevano nel bar quali karaoke, musica dal vivo e serate con dj inviavano regolarmente pattuglie di carabinieri creando un clima di tensione e non di divertimento. Attraverso le parole di questo giovane che definisce “la mentalità del tuscanese depressa e scoraggiata” ci rendiamo conto che la voglia di portare vita e novità è fortemente osteggiata ma nonostante tutto ci colpisce la sua volontà di creare una piccola oasi in un deserto di cemento armato. [CE FILTRA L’ACQUA A FIUMI]

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[A TUSCANIA IL TEMPO SI È FERMATO]

@Fabiola Caldarella #TUSCANIA -E sì, è questa l'impressione. Girando tra le strade, tra i vicoli del centro storico sembra che l'orologio si blocchi, che i minuti non passino. Allo stesso tempo guardare il paesaggio da piazza Basile, dal parchetto situato dentro le mura, da via Poggio Barone, da San Pietro o da ovunque ti trovi, trasmette un senso di infinito. Si rimane a fissare l'orizzonte senza accorgersene, quasi come se il paese stia lì a rubare lo sguardo del passante. E intanto tu pensi, pensi e ripensi. A volte si torna al passato, più precisamente alla storia, al vissuto del paese. Ti chiedi: chissà come era la città nel medioevo, come viveva la gente... questa fontana, oggi in parte distrutta, doveva avere un suo fascino. A volte si torna al presente, alla condizione attuale del paese. Ma l'entusiasmo del passato si trasforma in desolazione del presente. Si prova un senso di rammarico. Pensi: questo centro storico, così bello e così vuoto. Ed è il vuoto la sensazione che ti assale maggiormente, oltre alla paura. Sembra che il paese chieda aiuto, quasi impotente, consapevole che solo con la sua bellezza non possa cambiare le cose. Forse non vuole cambiarle, vuole solo continuare a vivere.

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Quel che si avverte parlando con la gente è l'incapacità, derivante soprattutto dalle amministrazioni che si sono succedute nel corso del tempo. Giusto. È vero, ma forse c'è qualcosa di più. C'è l'insufficienza della popolazione stessa di trasmettere l'amore per il proprio paese. Le tradizioni sembrano perdersi per strada; ma la cosa che più rattrista è avvertire la mancanza di voglia della maggior parte dei giovani di rimboccarsi le maniche per migliorare la situazione. L'identità del paese si riflette negli anziani, ma sembra non riesca a rispecchiarsi in quella dei giovani. Eppure Tuscania è tanto bella dal punto di vista culturale. È un fervore di associazioni, di volontariato, di


laboratori di pittura, di ricerche e di storia. Il paese in sé mi ha fatto innamorare di lui, ma riusciranno gli abitanti a farlo rivivere? E intanto il tempo si è fermato. [A TUSCANIA IL TEMPO SI È FERMATO]

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[QUESTA NOTTE ATTENDE IL GIORNO]

@Frine Beba Favaloro #TUSCANIA - Giuseppe era uno testardo, uno convinto. Uno che vedeva cose che ancora non esistevano. Un dipinto sul fondo sporco di una cassetta di aringhe, un paesaggio possibile lungo una strada in cui nessuno era mai passato. Ha cominciato così, Giuseppe Cesetti, da autodidatta, lasciandosi rapire dalla potenza del suo sguardo che catturava immagini per poi tracciarle sulle tavolacce maleodoranti recuperate dalle casse di aringhe che gli giravano per casa. Suo padre l’avrebbe voluto contadino ma lui no, lui aveva occhi che scorgevano realtà ancora da venire e voleva guardare. Non era e non sarebbe stato certo il solo artista di questo paese. Località d’arte storica, Tuscania ha generato artisti e intellettuali in ogni epoca. E ne ha accolti ancora di più, ieri come oggi, offrendosi con tutta la sua bellezza e le contraddizioni che nascono quando l’effimero, divino fuoco dell’arte si scontra con una quotidianità dura, fatta di fatica, terra sulle mani e sudore dentro agli occhi. Nei primi decenni del Novecento c’è stato il poeta Guido Guidasci e poi, più avanti, i pittori Gianni Asdrubali e Ennio De Santis, solo per citare i più significativi. Ma pochi hanno costituito per Tuscania un esempio qual è stato Cesetti: abbandonando le sue radici, scrollandosi di dosso lo scetticismo atavico di una terra che nutre ma incatena, questo pittore ha sfidato Tuscania e i confini della sua realtà. Nato nel 1902, Giuseppe Cesetti lascia il paese a soli sedici anni, raggiungendo prima

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Roma e quindi spostandosi in diverse città d’Italia, per arrivare infine a Parigi dove conoscerà e stringerà amicizia con Giorgio De Chirico e Filippo De Pisis. Tornato in Italia, dopo vari incarichi a Venezia, nei primi anni Quaranta è titolare della cattedra di pittura all’accademia di Belle Arti di Roma. Nel 1962, di nuovo a Parigi, verrà nominato addetto culturale per le Arti Plastiche e Figurative presso l’ambasciata d’Italia. Dopo quasi quaranta anni di viaggi, esperienze e ricerca pittorica, raggiunta infine quella fama e quella ricchezza che sembrava impossibile all’occhio severo del padre, Cesetti torna nella sua terra natale, tra quei paesaggi che non aveva mai dimenticato nei suoi quadri ma da cui si era dovuto separare per trovare quell’unico, imprescindibile se stesso. Riprendendo una tradizione di famiglia, a Tuscania torna ad allevare cavalli, gli amati cavalli tanto spesso dipinti, provando con la sua vita e il suo lavoro che l’impensabile è soltanto un non ancora pensato. Neanche il terremoto lo dissuade: dopo il sisma del 1971 si adopererà come pochi per la rinascita del centro storico e delle antiche tradizioni del luogo, promuovendo manifestazioni e movimenti. Per un borgo ricco di storia e di arte, ma ancorato ad una terra che non concede troppo spazio all’immaginazione, con la sua storia di successo e riconoscimento, Cesetti ha esteso di un passo infinito i confini di questo paese. Un folle, testardo mago inventore di realtà ancora a venire. A dieci chilometri da Tuscania c’è un paese chiamato Piansano. Mio nonno è nato qui qualche anno dopo Cesetti. Da ragazzino faceva il pecoraio: come tanti, non ebbe la possibilità di andare a scuola ma non si fece scoraggiare dalle sue origini e imparò a leggere da


solo, così, pascolando le pecore e guardando il cielo. Quando noi nipoti eravamo piccoline, invece delle favole gli piaceva declamarci la Divina Commedia. La conosceva tutta a memoria. Ho sempre pensato che la sua fosse stata un’impresa unica e memorabile, ma ascoltando le storie di Tuscania ho scoperto che nella Tuscia l’autodidattismo non è stata cosa rara per la generazione dei nostri nonni: questa terra, così avara per certi versi, ha partorito uomini che hanno trasformato le proprie radici sporche di fango in una grande impresa di arte e cultura. Che fossero piccoli o grandi i loro occhi, essi hanno saputo guardare nel buio, scovando quelle luci che anticipano il giorno. [QUESTA NOTTE ATTENDE IL GIORNO ]

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[LO SPIRITO DEI MAGAZZINI DELLA LUPA]

@Vincenza Fava #TUSCANIA - Si respira un’atmosfera particolare ai Magazzini della Lupa di Tuscania, uno spazio suggestivo, abitato da un fare artistico che si rinnova ogni giorno, proiettato al presente e al futuro del nostro vivere contemporaneo. Nessuna fretta per il visitatore, la pace e l’interesse sconvolgono le fondamenta di illusioni quotidiane dedite ad un vissuto mascherato e pieno di false speranze. Basta poco per fare di un luogo uno spazio celebrativo e sacro; non è vero che ci sia bisogno di grandi eventi, di sfolgoranti e prodigiosi spettacoli, di mostre visive narcotiche e anestetici incontri snob della classe medio-culturale di un paese come il nostro, l’Italia, fucina di laboratori e di onnipotenti ricerche sperimentali artistiche. Tuscania è una perla della Tuscia, è un piccolo paese incastonato tra mura medievali che trasuda passato, arte e calma serenità della riflessione esistenziale. Ed è proprio in questa singolare cittadina etrusca che anni fa il poeta, attore e regista Marcello Sambati decise di creare uno spazio da cui emergesse lo spirito della poesia e del gesto teatrale in una continua metamorfosi di parola e silenzio, presenza e assenza, sviscerando l’amore per l’anima, per il diverso e per l’uguale a se stesso. I suoi laboratori e gli spettacoli con ragazzi diversamente abili sono una testimonianza concreta dell’impegno umano ed artistico rivolto a

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scandagliare le profondità dell’essenza umana e divina di ogni uomo. Oggi questo spazio oltre al suo fondatore, accoglie altre due realtà artistiche. Dal mese di ottobre 2010 Ivonne Banco, Mirna Manni e io, con la nostra associazione culturale Magazzini della Lupa abbiamo condiviso questa realtà, apportando altre sinergie artistiche legate al mondo dell’arte visiva contemporanea, alla poesia, alla musica, alla danza e allo psicodramma con stage, concerti musicali e presentazione di libri. Perché di solito è lo spazio in cui ci troviamo a dare un senso alla distanza, a quel sottile confine che ci allontana e ci avvicina ad un tempo agli altri. Lo spazio dell’arte annulla questo intervallo, ci immerge nella totalità magica di un altro mondo in cui le emozioni prendono il sopravvento e ci rimandano ad un’altra immagine della nostra vita quotidiana. È uno specchio che si frantuma ed offre ventagli polisemici, altri orizzonti in cui affacciarci. Ivonne, Mirna e io: un incontro al femminile in cui diverse esperienze individuali si trovano e si ritrovano a convivere, con lo scopo di diffondere ampiamente sul territorio un sentire culturale pro-


fondamente vissuto da vicino e soprattutto con la passione di chi mette in gioco le proprie conoscenze e le proprie sensibilità. Dal mese di agosto 2011, altro valore aggiunto allo spazio: l’ingresso della Compagnia Ilaria Drago di Ilaria Drago e Marco Guidi anche lei trascinata da un sentimento indomito e magico per l’esistenza di una verità artistica ed umana che trascende ogni tipo di qualunquismo estetico: stage teatrali, laboratori, festival, spettacoli teatrali e presentazioni di libri. Insomma, avvicinarsi alla realtà dei Magazzini della Lupa di Tuscania è come togliersi una maschera ed affrontare, con lungimirante impegno personale ed individuale, un percorso interiore incisivo ed aperto ad ogni libera possibilità del proprio divenire umano. Quando la cultura non è acqua, ma uno spazio ed un tempo scanditi da attimi, gesti e luoghi interiori di vera vita da condividere. [LO SPIRITO DEI MAGAZZINI DELLA LUPA ]



[SAN PIETRO, FERMARE I VANDALI]

@Lucrezia Putzu Servono braccia, tante braccia, braccia forti e cattive per spostare quei sassi. Quelle grosse pietre posate sulle mura della chiesa di San Pietro sono state staccate, distrutte, spezzate e ammassate qua e là nel prato della basilica. Un vandalismo senza spiegazioni. Quelle pietre neanche la storia le sa collocare nel tempo. La basilica medievale che sorge sul colle di San Pietro, da cui prende il nome, è infatti, al centro di un dibattito iniziato molto tempo fa. Secondo alcuni la costruzione di San Pietro, ad opera di maestri comacini, risalirebbe all’VIII secolo, quando Tuscania fu donata da Carlo Magno a papa Adriano I. Studi più recenti, invece, collocano la costruzione all’XI secolo. Un patrimonio architettonico e artistico per tutti. Indifeso, in cima a quel colle. In balìa dei vandali e del disinteresse. A prendersene cura c’è solo Paola; da tanti anni fa la custode volontaria della chiesa. Sua mamma e sua zia lo facevano prima di lei. Con un contrattino di pulizie di 300 euro, pensa a tutto: ogni mattina arriva puntuale, apre le porte per i turisti che scelgono Tuscania, cambia le lampade che non funzionano, taglia l’erba, pensa ai lucchetti, ai vetri che si

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rompono e perfino ai cestini per i rifiuti. Ma Paola è sola, e tutto non può fare, non può fermare i vandali che hanno preso di mira la chiesa: sradicano le pietre, spaccano le tegole, devastano le fontane. Servirebbero illuminazione adeguata e telecamere. Ma non ci sono soldi, dicono. Quindi niente sicurezza e niente difesa per la basilica. E niente bagni per i turisti; quelli che c’erano un tempo sono stati distrutti e i soldi per rimetterli a posto non ci sono mai stati… Quei pochi che sono stati stanziati sono serviti per sistemare il rosone e proprio in questi giorni per restaurare gli affreschi in fondo alla navata. Vista la situazione è già qualcosa… All’interno della Chiesa, nella navata principale, oggi, ci sono due restauratrici che con abili mani e tanta pazienza rimettono a posto quello che gli anni hanno distrutto. Avran-


no bisogno di sei mesi per completare i lavori. Ma contro i vandali sembra non ci sia rimedio. Come se quel patrimonio dell’umanità non fosse di nessuno. Il tessuto sociale e l’identità di un luogo si massacrano in questo modo; senza un tessuto culturale e sociale connettivo di controllo, i violenti hanno mano libera. Per questo occorre uno sforzo in più da parte della sovrintendenza. E anche da parte della comunità tuscanese e dalle istituzioni rappresentative che non possono accettare passivamente un oltraggio simile. San Pietro è un simbolo. I vandali vanno fermati. [SAN PIETRO, FERMARE I VANDALI ]



[I VANDALI A VOLTE RITORNANO]

@Lucrezia Putzu A volte ritornano. E a Tuscania i vandali non si sono fatti aspettare anzi sono tornati più distruttivi di prima. Gli ultimi due lastroni di pietra sulla salita a ridosso della basilica si San Pietro sono stati minuziosamente spezzettati. Un’azione che non sembra improvvisata, visto che da tempo ormai c’è qualcuno che sta demolendo con cura, verrebbe da dire, la via d’accesso al monumento. All’interno di San Pietro c’è Paola, davanti a un banchetto con i libri a Tuscania, è una custode volontaria. Dá indicazioni ai turisti, si prende cura della basilica. È stata lei ad accorgersi dell’ennesimo gesto di violenza. I lastroni spaccati erano in mezzo alla strada. È seguita una denuncia di routine, e poca pochissima speranza che dopo la denuncia possa partire una inchiesta. Ci vorrebbero le telecamere e le luci, dice ancora Paola. Per individuare gli autori, aggiunge. Non dovrebbe essere difficile, anche senza telecamere... Comunque, fino a

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questo momento soltanto dubbi sugli autori. C’’è chi sostiene siano soltanto delle bravate di alcuni ragazzi, ma c’è anche chi è convinto che questa distruzione non possa essere frutto di ragazzi e che dietro ci siano dei motivi ben più seri. Ma quali? Si tratta di minacce? Di ricatti? E ancora: possibile che nessuno sappia niente? Ma le barbarie all’esterno della basilica fanno sì che le bellezze custodite all’interno vengano esaltate ancora di più, perché se da una parte la mano dell’uomo distrugge dall’altra migliora: mentre all’esterno continuano gli atti vandalici, all’interno un gruppo di restauratrici rimette a posto quello che l’uomo e il tempo hanno rovinato. Quattro ragazze con sapienti mani cercano pazientemente di riportare gli affreschi agli antichi colori, di pulire le scorie del tempo e degli interventi maldestri del passato.

[I VANDALI A VOLTE RITORNANO]




@Lorenzo De Angelis

@Anna Rita Severini

@Andrea Nobili

@Irene Raggi

@Antonio Cipriani

@Maddalena Papacchioli


@Marco Guidi

@Angela Pesci

@Frine Beba Favaloro

@Fabiola Caldarella

@Carmine Guaragna

@Giulia Cipriani



PROGETTO GRAFICO E IMPAGINAZIONE @VALENTINA MONTISCI / PADPAD REVOLUTION FOTO @ANTONIO CIPRIANI, @CARMINE GUARAGNA @GIULIA CIPRIANI @DANIELE VITA RIPRESE VIDEO @MARCO GUIDI AUTORI @ANTONIO CIPRIANI @ANGELA PESCI @MADDALENA PAPACCHIOLI @FRINE BEBA FAVALORO @ANNA RITA SEVERINI @IRENE RAGGI @LORENZO DE ANGELIS @FABIOLA CALDARELLA @GIULIA CIPRIANI @ANDREA NOBILI @VINCENZA FAVA @LUCREZIA PUTZU Il progetto editoriale di Tuscania Lab, all’interno dei Magazzini della Lupa, è nato su iniziativa della Compagnia Ilaria Drago e di Padpad Revolution. Si ringraziano tutti i partecipanti e tutti coloro che con le loro testimonianze e storie hanno dato una mano per la riuscita di questo attraversamento.



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