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CRESCENZO PALIOTTA
Ladispoli immagini e racconti tra Caravaggio e Vanvitelli, D’Annunzio e Rossellini
CRESCENZO PALIOTTA vive a Ladispoli dove svolge l’attività di medico di base. Pratica attività politica da molti anni e ha ricoperto vari incarichi nell’ambito dell’Amministrazione comunale. Ha collaborato con organi di informazione locale. Nel 2007 è stato eletto Sindaco di Ladispoli.
CRESCENZO PALIOTTA
In fondo le città sono come le persone: hanno un corpo fatto dalle case, dalle strade, dalle piazze. E hanno un’anima fatta dagli abitanti, dalle loro abitudini, le loro tradizioni. Queste cose, tutte insieme, fanno l’identità di un luogo. Ed allora, se questo è vero, qual’è l’identità di Ladispoli? Quella della sua storia millenaria o quella del suo essere un nuovo quartiere metropolitano? quella del traffico e delle mille voci di Viale Italia o quella del silenzio quasi irreale del Parco di Palo? Probabilmente di “identità” in questa città ce ne sono cento...
Ladispoli immagini e racconti tra Caravaggio e Vanvitelli, D’Annunzio e Rossellini Nuova edizione riveduta ed ampliata
€ 25,00
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Crescenzo Paliotta
Ladispoli immagini e racconti
tra Caravaggio e Vanvitelli, D’Annunzio e Rossellini
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in collaborazione con
Proprietà letteraria riservata © AltrEdizioni Casa Editrice ISBN:978-88-905990-4-0 CRESCENZIO PALIOTTA, Ladispoli immagini e racconti tra Caravaggio e Vanvitelli, D’Annunzio e Rossellini Nuova edizione riveduta ed ampliata, Collana Spazi e Scenari, 2011 Progetto grafico: Giuliano Pacini, Linea Grafica di Elisa Jacovacci (Ladispoli) con la collaborazione di Francesco Melone In copertina: Veliero alla fonda, particolare dalla Veduta del Castello di Palo, autore anonimo, 1700 ca. Per gentile concessione di Maria Pace Odescalchi AltrEdizioni Casa Editrice Via Vivaldi 138 00052 Cerveteri (RM) www.altredizioni.it info@altredizioni.it skype: altredizioni2011 Tutti i diritti di traduzione, di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo sono riservati. Ogni permesso deve essere dato per iscritto dall’editore. Le immagini e opere presenti nel libro sono state date in gentile concessione all’autore.
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Ai miei genitori
Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio... e questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi. Italo Calvino
Il legame ideale di una comunità è costituito dalla memoria storica e dalla capacità che si ha di accrescerla e conservarla. Ludovico Magrini Fondatore dei Gruppi Archeologici d’Italia
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Giglio di mare, a.b., spiaggia di San Nicola, Ladispoli, estate 2011
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PREFAZIONE ALLA NUOVA EDIZIONE
A cinque anni dalla prima edizione mi è sembrato potesse essere utile ristampare il libro che, alla sua uscita, suscitò un interesse per me inaspettato. Evidentemente c’era, e penso ci sia tuttora, una grande voglia da parte di chi vive e di chi frequenta questa città di conoscerne la storia e l’evoluzione nel tempo. Lo dimostra il successo di tutte le pubblicazioni editate a Ladispoli in questi anni e l’accoglienza alla ristampa del libro di Corrado Melone “Storia e Storie”, uscito nel 1990 e ripubblicato nel 2010 in occasione della celebrazione dei 40 anni di autonomia comunale. In questi anni la nostra ricerca sulla storia del nostro territorio, fatta insieme a bravi collaboratori che ringrazio, ha portato alla scoperta di altri preziosi tasselli: un bellissimo dipinto della fortezza di Palo vista dal mare, tela di autore ignoto risalente al 1700 ca. e facente parte della collezione del Castello Odescalchi di Bracciano; notiziari d’epoca su fatti accaduti nel 1600 e 1700 a Palo, quando il Castello, con il Borgo e le campagne intorno, contava più di cinquecento persone ed era quindi il centro più importante tra Roma e Civitavecchia. La scoperta più sorprendente è però un articolo dell’allora giovane D’Annunzio, che nel 1888 annunciò sulle pagine del quotidiano di Roma “La Tribuna” la nascita di una nuova città, “la novella Alsio”. Ladispoli in costruzione tra i due fiumi suscitava l’entusiasmo di Gabriele D’Annunzio che, negli anni nei quali la tecnica stava aprendo nuovi orizzonti all’umanità,
raccontava “lo spettacolo di questa città nuova che sorge in riva al nostro mare, sotto il cielo della gloria, al sole della civiltà”. Ne sarebbero passati di anni prima che Ladispoli diventasse “città”, anni di alti e bassi, di problemi superati e di problemi ancora da superare. Eppure la piccola “Stazione balneare” creata solo per lo svago estivo dei nobili e dei ricchi borghesi romani, “...fondata dandole modestamente il suo nome da un Principe per poi abbandonarla come una signorina sedotta...” come scriveva di Ladispoli Trilissa già nel 1897, la sua strada l’ha percorsa con coraggio. La carovana si è ingrandita sempre di più con compagni di viaggio da tutte le parti d’Italia e dal mondo e nel 2010 Ladispoli ha superato i 40 mila abitanti. Il 28/2/2011 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha firmato il decreto con il quale è stato concesso a Ladispoli il titolo onorifico di “Città”. Un principe l’aveva fondata tra due fiumi ed il mare dandole il proprio nome, un grande poeta ne aveva dato l’annuncio. Renzo Rossellini scriverà poi una sinfonia, suggestionato dalla bellezza della natura incontaminata che la circondava. È bastato poco più di un secolo perché, tra leggenda e realtà, questo luogo avesse i suoi miti fondanti e le sue storie affascinanti da raccontare. Crescenzo Paliotta
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“Tensione Tellurica”, Andrea Cerqua, 2010, Ladispoli
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...Alsium è stata una delle più antiche città d’Italia, fondata o occupata dai Pelasgi su queste coste, in un epoca anteriore a quella degli Etruschi... George Dennis
I NTRODUZIONE
dal passato anche lontanissimo. Ci si accorge che solo la conoscenza di ciò che prima di noi è stato fatto ci può aiutare a comprendere il nostro tempo e metterlo in discussione per poter sperare ancora in un futuro più giusto e libero. Riconoscere e prendere coscienza del filo rosso che unisce da sempre le generazioni nel corso dei secoli significa conservare la memoria e quindi assicurarci un contatto con coloro che saranno dopo di noi. Ho letto con grande emozione la frase di Ludovico Magrini con cui si apre il libro. Per chi come me è stato al fianco di Ludovico fin da ragazzo nella straordinaria esperienza dei Gruppi Archeologici, impegnandosi poi a trasferire i suoi insegnamenti per la prima volta a Ladispoli, è stato veramente molto bello accorgersi che il messaggio è stato recepito e che il duro lavoro non è stato fatto invano.
Già soltanto sfogliando le pagine di questo libro ci si rende conto a colpo d’occhio della grande passione con cui Enzo Paliotta ha scavato nelle memorie del nostro territorio spinto dall’innata tipica curiosità del ricercatore che è la caratteristica, insita nel DNA di certe persone, dalla quale nascono sempre le scoperte più belle ed importanti. Le pagine parlano subito del tempo, il solo vero bene prezioso che abbiamo, il tempo, tanto, che Enzo ha dedicato a questa sua creatura con grande amore e coraggio nell’affrontare campi così diversi rispetto alla sua normale professione di medico. La passione per la storia e l’archeologia è una sorta di virus buono al quale è difficile sfuggire quando ci si rende conto che tutto quello che ci circonda, e spesso condiziona la nostra vita, è il risultato di scelte provenienti
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cessità, ognuna con la propria storia e con la propria cultura. Caro Enzo, credo proprio che tu abbia ragione: la diversità delle origini è forse l’unico vero elemento che accomuna oggi, come nei secoli più lontani, coloro che vivono lungo questo litorale: genti etrusche, fenicie, puniche, greche, romane, ostrogote, bizantine, saracene, campane, sarde, marchigiane, russe, polacche, senegalesi, indiane – e chi più ne ha più ne metta! – in questo fluire ininterrotto della storia. Ti auguro di proseguire sempre con lo stesso entusiasmo nella ricerca e per chiudere ti dedico una frase di Arthur Schopenhauer che fu molto cara al nostro comune amico Ludovico Magrini: “…La verità è che per il dilettante la ricerca diventa uno scopo, mentre per il professionista rappresenta solo un mezzo, ma solo chi si occupa di qualcosa con amore e con dedizione può condurla al termine in piena serietà. Da tali individui, e non da mercenari, sono sempre nate le grandi cose”.
Enzo, da buon medico, con questo intervento ha curato tante ferite che il tempo, l’incuria e la memoria corta degli uomini avevano inferto a Ladispoli e a questo comprensorio. Tra le righe, dietro le foto, le pitture e i disegni riaffiorano storie, volti e paesaggi dimenticati; vicende che erano state già consegnate al buio dei secoli e rimosse dalla memoria collettiva sono tornate in luce nitide all’improvviso, sono state salvate dall’oblio. Questo lavoro di ricerca restituisce alla città tanti importanti tasselli della sua storia, fotogrammi di un film straordinario che è da sempre in proiezione continua ma del quale il passaggio del tempo cancella via via quasi tutte le immagini impresse nella pellicola per lasciare il posto alle nuove. È soltanto grazie alla passione di persone come Enzo che è possibile salvare molti dei fotogrammi destinati ad essere perduti. La pazienza e l’amore per la sua Ladispoli gli hanno consentito di bloccare questi fotogrammi, di fissarli nel tempo affinché potessimo ancora assaporare le emozioni di un attimo di storia vissuta. Concludendo queste brevi riflessioni voglio ringraziare Enzo Paliotta per il suo forte contributo alla politica culturale della città, un impegno civile che ci fa sentire tutti un po’ più forti in questo comprensorio così difficile per chi si propone di operare nel “settore cultura”. Leggere il suo lavoro è un piacere per tutti coloro che hanno coscienza di essere parte della storia di questi luoghi: una terra aperta da sempre sul Mediterraneo, punto d’incontro e di confronto tra genti di ogni dove, persone giunte su queste spiagge quasi sempre per lavoro e ne-
Flavio Enei
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“Ciò che ci attrae a tornare indietro è altrettanto umano e necessario di ciò che ci spinge ad andare avanti” Pier Paolo Pasolini
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STORIA E ARTE : LE SUGGESTIONI DI UN LUOGO
minio di Caere, una tra le più potenti città di tutta la storia etrusca, che proprio ai due estremi del triangolo, ad Alsium e a Pyrgi, aveva i suoi porti da dove partivano le navi che, per commercio o per pirateria, solcavano il mare senza paura. Fino all’arrivo dei Romani che, tracciando il loro cammino a nord del Tevere, trovarono con l’Aurelia proprio ad Alsium il primo punto nel quale uno sperone di roccia interrompeva la lunga e piatta spiaggia al confine tra la palude e il mare, distesa da Ostia fino a Maccarese: nel 247 a.C. Alsium diventa colonia maritima romana. Furono secoli di splendori per la piccola comunità sul mare, con ville lussuose ed ospiti illustri. Da Pompeo a Cesare, da Cicerone a Virgilio Rufo: si veniva per trascorrere qui, tra i marmi pregiati delle ville sul mare, ...ozii in un luogo di voluttà...
La storia di un territorio è scritta nei suoi luoghi, nelle modificazioni che su di esso ha fatto l’opera dell’uomo. È scritta nelle parole di chi l’ha raccontata, sta nelle immagini di quelli che hanno voluto fissare i loro ricordi. E le immagini e i racconti del territorio che, come una grande vela triangolare, va da San Nicola a Cerveteri fino al castello di Santa Severa, ci dicono che questa è una terra di confine, una terra di mezzo: terra di confine quando, sulla linea ideale che univa il grande tumulo dei Monteroni al porto di Alsium, si confrontavano due grandi civiltà come quella etrusca e quella romana. Era confine tra la campagna romana e le ultime propaggini della Maremma, è confine oggi tra l’area metropolitana e la provincia. Forse furono gli antichi e mitici Pelasgi ad abitarla per primi, tremila anni fa. Sicuramente fu territorio del do-
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lo, intorno al quale risorgerà un piccolo paese e un approdo per le imbarcazioni. Il territorio stava a metà cammino per chi da Roma andava al grande porto di Civitavecchia: il Castellaccio dei Monteroni, sul tracciato dell’antica Aurelia, era il luogo ideale per la sosta notturna o per il cambio dei cavalli. Era la prima grande pianura per chi percorreva le colline e i rilievi della campagna romana, ed era il primo punto ove chi veniva da Roma vedeva il mare da vicino. Bastava risalire ancora pochi chilometri a nord per scoprire che qui, in questo triangolo di terra, finivano gli ultimi echi della Maremma, tra zanzare padrone delle paludi e cinghiali scesi dai primi contrafforti dei monti della Tolfa. Di questa terra e delle vicende umane che l’hanno attraversata il libro cerca di ricostruire, con racconti ed immagini, alcuni dei momenti più significativi. Dall’inquietante enigma che ancora avvolge la fine di Michelangelo Merisi da Caravaggio, il pictor praestantissimus, sbarcato a Palo con tre delle sue ultime tele e poi sparito nel nulla, alla storia degli Odescalchi, i principi venuti dalla Lombardia, che faranno del Castello e del Borgo di Palo il centro del loro potere. Sarà un Odescalchi, Innocenzo XI, il Papa che organizzò la riscossa dei Cristiani nella battaglia di Vienna. Il castello e la villa della Posta sorgeranno sui resti delle grandi ville romane ed il colpo d’occhio per chi veniva da Roma lungo l’antico tracciato dell’Aurelia doveva essere proprio mirabile: si fermeranno a ritrarre la grande pianura e la fortezza sul mare prima Claude Lorrain, poi Gaspare
Nell’ottobre del 417 d.C. il poeta Rutilio Numaziano, partito da Ostia e andando per mare verso nord, così descriverà la costa: ...si scorre davanti alla terra di Alsio, e Pyrgi retrocede, un tempo piccoli villaggi ed ora grandi ville, già il marinaio addita i confini di Caere... Stava per tramontare un epoca e con la fine dell’Impero non ci sarà più la potenza romana a dominare e rendere sicure le terre. La piccola Alsium scomparirà e tutto sarà sepolto: torneranno a crescere gli acquitrini e per più di cinquecento anni non ci sarà nessuno a contrastare il passaggio degli invasori e lo sbarco dei predoni. Ci passeranno i Longobardi mentre vi stazioneranno a lungo gli Ostrogoti, lasciando importanti testimonianze della loro presenza. Quello che rimaneva di Alsium fu occupato nel 530 d.C. da Narsete, il generale inviato dall’Imperatore Giustiniano a difendere Roma. Saranno poi i Saraceni a distruggerla completamente nel decimo secolo. Sono del medioevo le prime tracce di una nuova edificazione: è la Turris de Pulvereio, che compare nelle carte della Marina genovese chiamata a Roma nel 1132 da Papa Innocenzo II, mentre in un atto notarile del 28 febbraio del 1254 si parlerà di nuovo dei luoghi ove sorgeva l’antica Alsium: tutto intorno era paludoso e nel documento del nobile romano Giovanni Normanni si parla di Castrum Pali, la “Fortezza della palude”. Il nome Alsium è scomparso, non ne troveremo più traccia. Ed è infatti Pali che compare in una delle mappe più antiche del Lazio, quella disegnata all’inizio del cinquecento da Leonardo da Vinci e contenuta nel Codice Atlantico. Il Castrum diventerà un vero e proprio castel-
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Dispoli, qualcuno diceva che andava al mare al Dispari, confondendosi con il nome dello stabilimento balneare più grande. In fondo erano i primi problemi di “identità”. Negli anni venti si svilupperanno Ostia e poi Fregene e Ladispoli tornò in quella “terra di mezzo e di confine” tra Roma e Civitavecchia che in fondo era sempre stata una sua caratteristica. La racconta, parlandone malissimo, David Lawrence nel suo viaggio del 1927 alla scoperta degli antichi etruschi. Eppure, negli stessi anni, era proprio quella “terra di confine” a far sognare Roberto e Renzo Rossellini che tra il mare, la palude e le prime alture di Cerveteri avevano vissuto all’inizio del novecento le loro avventure d’infanzia. Renzo scriverà una piccola sinfonia, ispirandosi ai suoni dell’ultima propaggine della Maremma mentre Roberto, quando era ancora uno sconosciuto, pochi anni prima di diventare uno dei più grandi narratori di “realismo”, inventerà favole immaginarie con “animali parlanti”, tra il mare e i corsi d’acqua del piccolo paese ove aveva scelto di abitare. Federico Fellini, che lo conosceva bene, proprio pensando a lui dirà che solo un visionario può essere un vero realista. Poi, nel 1943, arriverà la guerra, la città sarà abbandonata e al ritorno i suoi abitanti la troveranno saccheggiata e piena di mine. Quelle stesse mine che dovevano fermare lo sbarco degli alleati e che invece colpiranno tragicamente qualche bambino che, finita la guerra, credeva di aver ritrovato la libertà e la gioia di correre sulla sabbia nera.
Vanvitelli e poi ancora Philippe Hackert, mentre il domenicano francese Labat la descriverà in maniera minuziosa e colorita nel suo diario di viaggio scritto all’inizio del settecento. Nel mezzo della terra che dal mare arrivava alla rocca di Cerveteri passerà, nel 1859, la ferrovia, cambiando per sempre la fisionomia ed il destino dei luoghi: l’Aurelia sarà deviata e, sul mare, vicino al castello, sorgeranno i primi Bagni di Palo, frequentati dall’aristocrazia e dalla ricca borghesia romana. Si fermerà qui anche Gabriele D’Annunzio, mentre Roesler Franz dedicherà ai Bagni alcuni dei suoi acquarelli. Dopo quasi trenta anni lo stabilimento di Palo non sarà più sufficiente e Ladislao Odescalchi fonderà un poco più a nord una nuova città. Ladispoli nascerà come le città di una volta, secondo i riti più antichi: due fiumi ed il mare ne faranno da confine, il fondatore le darà il suo nome ed un giornalista diventato poi famoso, Gabriele D’Annunzio appunto, ne annuncerà con epiche parole la costruzione. Sarà una delle ultime città della storia recente ad essere fondata con la solennità dei grandi momenti, anche se l’amore per una lady inglese trattenne a Londra Ladislao Odescalchi proprio il giorno del battesimo della sua nuova creatura. Sarà rappresentato dal fratello Baldassarre, diventato da poco deputato del Regno d’Italia. Qualcuno provò a far diventare Ladispoli la Marina di Roma, ma la speranza di agganciare il suo sviluppo alla capitale durò poco. E forse si capì subito che la storia della nuova città non sarebbe stata così solenne quanto la sua nascita: qualcuno la chiamava Adispoli, altri La
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lì c’erano i “principi”, c’erano le battute di caccia ai daini dalle grandi corna, c’era il castello illuminato di notte con tutte le luci che riflettevano sul mare. E, come se non fosse già tutto tanto fantastico, arrivarono anche “quelli del cinema” a mescolare finzione con realtà. Costruirono davanti al Borgo un grande galeone in legno: era la nave del Corsaro Nero che abbordava i suoi nemici mentre soldati spagnoli a cavallo scorrazzavano nel parco e dalla spiaggia arrivavano le voci e i canti dei pirati della “Taverna dei Bucanieri”. Il tempo appena di cambiare le scene e nel parco-giardino il regista John Huston ricostruì per il suo film La Bibbia il luogo più bello del mondo, il Paradiso Terrestre. E poi ancora, come in un set in continuo cambiamento, nasceranno uno dopo l’altro nei luoghi di Ladispoli alcune scene dei film che saranno una parte importante della storia del cinema italiano: Umberto D alla stazione di Palo, La grande guerra al Castellaccio dei Monteroni, L’uomo di paglia sulla spiaggia di Torre Flavia, Il sorpasso sull’Aurelia tra San Nicola ed Osteria Nova. La città intanto continuava ad allargarsi e ad andare sempre più in alto: per chi arrivava da lontano non c’erano più all’orizzonte la fortezza e il Borgo, erano gli altissimi palazzi sul mare a dare il primo saluto. Oggi Ladispoli, superato il suo primo secolo di vita, è diventata una delle più grandi città del Lazio. Quasi per caso, trasformandosi in qualcosa di diverso da quella che all’inizio doveva essere, la Città dei Bagni. Le poche famiglie che sono a Ladispoli da più di tre generazioni si trovano sparse in un grande agglomerato
E non saranno solo questi drammi ad inchiodare al dolore chi a Ladispoli cercava di dimenticare la follia della guerra. Arrivarono gli ebrei polacchi reduci dai campi di sterminio, sopravvissuti ad una storia così feroce che avevano persino paura di raccontare, perché chi non l’aveva vissuta non poteva credere che fosse successa davvero. Ma loro, i bambini polacchi, Israel, Lisa, Zila, sembreranno dimenticare presto: dopo il buio e il gelo della paura, come un film a lieto fine, arriveranno il caldo, il sole ed il mare, quel grande mare blu che non avevano mai visto prima. La piccola città, intanto, ricominciava a crescere. Superò i fiumi che fino allora l’avevano abbracciata e la ferrovia, che pure all’inizio sembrava così lontana. E Palo con il suo Borgo? Era scomparso piano piano dietro gli alberi del parco che Baldassarre e Ladislao Odescalchi avevano portato da terre lontane. Era scomparso dietro le querce e i lecci della macchia mediterranea scampati all’abbattimento durante i rigidi inverni di guerra, quando la legna era una delle poche risorse disponibili. Piano piano, dietro gli eucaliptus e i cipressi della California, sparivano anche le torri e i merli del castello. Ladispoli si staccava dalle sue origini e dalla storia del territorio sopra il quale era nata. Ma era troppo distratta, la città: stavano tornando di nuovo i turisti, crescevano i palazzi, si tornava tutti a lavorare e sembravano così lontani i problemi economici del dopoguerra. Il Castello, il Borgo con il bosco diventarono un luogo dell’immaginario collettivo: ai bambini si raccontava che
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nessuno si sente padrone. Qualche tempo fa uno di quei venditori di collanine che d’estate percorrono avanti e indietro sulla spiaggia si fermò per proporre la sua merce e forse anche per riposare un po’, dopo il lungo e faticoso camminare sotto il sole: aveva voglia di parlare, si chiamava Francis e veniva dal Senegal. Gli chiesi come si trovava a Ladispoli. Sto bene, Ladispoli è un po’ come New York, rispose Che cosa?, reagì qualcuno di noi, meravigliato e incuriosito. Certo, qui c’è tanta gente di tutte le parti, si parlano tante lingue. Si sta tutti insieme, come a New York. Non ho ancora capito se ci stesse prendendo in giro, ma ogni tanto mi torna megli occhi quel sorriso leggero che aveva mentre andava via. Forse quello che aveva detto lo pensava davvero.
dove vivono più di quarantamila abitanti, venuti da ogni parte di Italia e, negli ultimi anni, da tutte le parti del mondo. Ce lo ricordano le mille voci dei bambini festosi all’uscita dalle scuole, le colonne di pendolari che la sera ogni mezz’ora fuoriescono dai cancelli della stazione come le acque di un fiume quando si aprono le dighe. E ce lo ricorda lo spaesamento che prende i più anziani, quando camminano nella “loro” città ma faticano a trovare qualche volto conosciuto. In fondo le città sono come le persone: hanno un corpo fatto dalle case, dalle strade, dalle piazze. E hanno un’anima fatta dagli abitanti, dalle loro abitudini, le loro tradizioni. Queste cose, tutte insieme, fanno l’identità di un luogo. Ed allora, se questo è vero, qual’è l’identità di Ladispoli? Quella della sua storia millenaria o quella del suo essere un nuovo quartiere metropolitano? Quella del traffico e delle mille voci di Viale Italia o quella del silenzio quasi irreale del parco di Palo? Probabilmente di “identità” in questa città ce ne sono cento e non ce ne è nessuna, forse l’identità più forte è la mancanza di una identità definita, è il continuo mutare che in tremila anni ha visto passare e svilupparsi tante storie e vicende diverse e che nell’ultimo secolo ha visto un accelerarsi improvviso dei mutamenti. E l’identità collettiva a questo punto è fatta dall’insieme delle tante diverse minute identità che ognuno si è portato con sé dai luoghi di provenienza, contribuendo a costruire quella “città di tutti” dove nessuno si sente estraneo e
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“Il Sarcofago degli Sposi”, Paolo Frattari, 2005, Cerveteri
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Benvenuto Cellini (Firenze 1500-ivi 1571). Orafo, scultore e scrittore
1524
B ENVENUTO C ELLINI
IN FUGA DAI
Formatosi come orafo giovanissimo a Firenze nelle gran-
“M ORI ”
rimane comunque la Vita, autobiografia iniziata a 58 anni e considerata una delle prose più vive di tutto il ’500 italiano. Nella Vita, che ebbe grande diffusione anche all'estero e che fu tradotta da Goethe, c'è una grande capacità descrittiva, gusto per la finitezza formale in una narrazione che si fa spesso avvincente e piena di colpi di scena. È comunque un libro “autocelebrativo”, nel quale l'autore mette se stesso al centro di tutte le vicende, in un continuo conflitto tra le sue “virtù rinascimentali” e la “malvagità degli uomini e del destino”. Tema che emerge con accenti quasi eroici nella narrazione della fusione della statua del Perseo. Dalla Vita abbiamo tratto alcuni brani del primo libro (parag. 29): siamo a Roma nel 1524, si sta diffondendo la peste e Cellini stesso si ammala. La sua forte fibra e la giovane età (ha 24 anni) lo aiutano a guarire e, quando è più in forze, lo scultore decide di allontanarsi da Roma per andare, ospite del Conte di Anguillara, a
di botteghe artigianali di quegli anni, Benvenuto Cellini fuggì a Roma nel 1523 dopo essere stato coinvolto in una rissa e vi rimase fino al 1540 sotto la protezione di Clemente VII che, nel 1529, lo nominò “maestro della zecca pontificia”. Tra il 1540 e il 1545 soggiornò in Francia al servizio di Francesco I e realizzò, tra l'altro, la grande statua di Giove ora al Louvre. Tornò a Firenze nel 1545 ben accolto dal Duca Cosimo I e realizzò in questo periodo le sue opere più famose: il Perseo bronzeo (Loggia dei Lanzi) e le statue in marmo dell’Apollo e Giacinto e del Narciso (Museo del Bargello). Insieme all’Ammannati è tra le figure più alte e significative del “manierismo” fiorentino della metà del ’500. Cellini fu anche scrittore e, oltre a rime e sonetti, scrisse opere importanti come i Trattati, di cui uno “dell'oreficeria” e uno “della scultura”. La sua opera più importante
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Cerveteri. Lì si trova già il suo amico pittore Giovanbattista di Jacopo, detto il Rosso Fiorentino. Con lui passa un periodo felice, tra buon vino e ottime vivande, ma vive anche una brutta avventura quando, passeggiando sul litorale, rischia di essere catturato da molti uomini travestiti scesi da una fusta di mori. Il Conte di Anguillara che ospita Cellini è da individuare, secondo Falciani (Il Rosso Fiorentino, ed. Olski) in Renzo di Ceri, il celebre condottiero imparentato con Gentil Virginio Orsini, della famiglia che allora era proprietaria di tutte le terre che andavano appunto da Anguillara fino a Bracciano, Cerveteri, Ceri e Palo con le relative rocche. Il Rosso Fiorentino era stato chiamato proprio da Gentil Virginio per realizzare alcuni affreschi, probabilmente nel palazzo Baronale di Anguillara e in altri edifici degli Orsini a Cerveteri. Il lito del mare dove Cellini visse la sua disavventura non è identificato con precisione ma, alla fine del suo racconto, l'artista dice di aver avvisato il Conte e che si vide le fuste in mare. Su quel tratto di costa all'inizio del ’500 c'erano solo due luoghi ove ripararsi ed erano Torre Flavia ed il castello di Palo. È probabilmente nel litorale tra queste due strutture che Cellini se ne andava soletto sul mare caricandosi di sassolini e chiocciolette. Le incursioni dei Saraceni sulle spiagge del Tirreno erano iniziate nell'ottavo secolo: nell’846 i Saraceni riuscirono addirittura a saccheggiare le basiliche di San Pietro e di San Paolo e non aveva indebolito il potere dei “Mori” in Italia nemmeno la battaglia del Garigliano, che nel 916 aveva portato alla distruzione del più importante insediamento saraceno nella penisola. Le incursioni erano diventate particolarmente frequenti dopo la conquista da parte dei Turchi di Costantinopoli nel 1453 e di Otranto e Cipro nel 1480. Non bastò ad interrom-
Affresco dell’abside della Chiesa di S. Antonio Abate, Cerveteri. L’opera non è stata ancora attribuita
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Madonna con Bambino, Lorenzo da Viterbo, XIV secolo, Chiesa di S. Antonio Abate, Cerveteri. Lorenzo da Viterbo, considerato l’allievo piÚ importante di Piero della Francesca, fu tra i molti artisti chiamati a Cerveteri, tra il XIV e il XV secolo, per abbellire le chiese e il Palazzo Baronale: tra questi vi fu anche il Rosso Fiorentino ricordato da Benvenuto Cellini
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perle neanche la vittoria della “Lega Santa” nella battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571, nella quale si scontrarono 160.000 uomini a bordo di cinquecento tra galere e vascelli. Gli attacchi dei Saraceni determinarono addirittura l'allontanamento della popolazione di vari centri del litorale: nell’813 Civitavecchia (allora denominata Centocelle) fu conquistata e semidistrutta. Gli abitanti si rifugiarono nell'interno fondando un altro centro chiamato Leopoli in onore di Papa Leone IV e solo nell’889 poterono tornare nella loro vecchia città, che da allora si chiama, appunto, Civitavecchia. Sorte analoga sarà toccata qualche secolo dopo a Caere abbandonata tra il 1200 e il 1250 dagli abitanti che, in fuga dai pirati e dalla malaria, costruirono più all’interno quello che è l'attuale abitato di Ceri. Quando riuscirono a tornare nella loro vecchia città gli abitanti la chiamarono Cerveteri. Episodi simili a quello raccontato da Benvenuto Cellini si trovano in molte cronache del passato: clamorosa fu l'avventura vissuta da Papa Leone X solo pochi anni prima, il 27 maggio del 1516, proprio a Palo dove si era recato a caccia con i suoi cardinali: Il Papa hessendo andato con li soi cardinali a la caza a piazer a Pallo, milia venti lontano di Civita Vecchia, vene aviso che 27 fuste di turchi erano li veduti... il Papa si levò con pressa... La nova venne a Roma il Papa era sta quasi preso, che molti questo desiderava. Si può ben capire la situazione della costa anche da alcuni resoconti dell’epoca e dagli scritti di Carlo Calisse in Storia di Civitavecchia: La guardia del mare era affidata al capitano Paolo Vettori, e Leone X le aggiunse rinforzo in Civitavecchia colla squadra, a ciò particolarmente destinata, del
La Chimera Etrusca ritrovata ad Arezzo nel 1553: Benvenuto Cellini ne curò il restauro
capitano Giovanni da Biassa, e cogli aiuti che alle città vicine egli impose, e che anche dalle lontane riceveva per comune beneficio. Ma la forza e l'audacia dei pirati superavano ogni cautela e difesa. Ne erano capitani il Curtogoli, il Gaddalì ed altri di non men temuto nome, e crudele era la guerra che facevano alle maremme. Intorno a Civitavecchia ronzavano, or sbucando dal ridosso dell'Argentaro, or dal capo Dinaro, or apparendo dal mare aperto col vento della Sicilia e dell'Africa. Le incursioni dei “pirati barbareschi” ebbero fine di fatto solo nel 1830, con la conquista di Algeri da parte dei Francesi.
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1500: IL LATIUM DI LEONARDO DA VINCI
Il territorio dell’alto Lazio agli inizi del 500 in una cartina di Leonardo da Vinci contenuta nel Codice Atlantico, al foglio 336. È una delle pochissime mappe dell’epoca conservate: introduce particolari originali, probabilmente controllati direttamente da Leonardo. Si evidenzia la Cassia da Roma fino ad Acquapendente mentre in basso sulla linea della costa Leonardo segnala Pali (Palo) e più all’interno Cervete (Cerveteri), Tolfa, Lumera (Allumiere). Da rilevare che la denominazione “Pali” deriva probabilmente da “Castrum Pali” (da palus, palude), nome che compare per la prima volta nel 1254 in un documento notarile del nobile romano Giovanni Normanni Alberteschi, per indicare il luogo prima denominato Alsium (da als, sale) dai Romani e dagli Etruschi
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Dio: e con i maravigliosi rimedi cominciato a pigliare grandissimo miglioramento, presto e bene di quella grandissima infirmitate campai. Ancora tenendo la piaga aperta, dentrovi la tasta e un piastrello sopra, me ne andai in sun un mio cavallino salvatico, il quale io avevo. Questo aveva i peli lunghi più di quattro dita; era appunto grande come un grande orsacchio, e veramente un orso pareva. In sun esso me ne andai a trovare il Rosso pittore, il quali era fuor di Roma in verso Civitavec-chia, a un luogo del conte dell’Anguillara detto Cervetera, e trovato il mio Rosso, il quali oltra modo si rallegrò, onde io gli dissi: “I’vengo a fare a voi quel che voi facesti a me tanti mesi sono”. Cacciatosi subito a ridere, e abbracciatomi e baciatomi, appresso mi disse che per amor del conte io stessi cheto. Così felicemente e lieti con buon vini e ottime vivande, accarezzato dal ditto conte, in circa a un mese ivi mi stetti, e ogni giorno soletto me ne andavo in sul lito del mare, e quivi smontavo caricandomi di più diversi sassolini, chiocciolette e nicchi rari e bellissimi. L'ultimo giorno, che poi più non vi andai, fui assaltato da molti uomini, li quali, travestiti, era scesi d'una fusta di mori; e pensandosi d'avermi in modo ristretto a un certo passo, il quali non pareva possibile a scampar loro delle mani, montato subito in sul mio cavalletto, resolutomi al periglioso passo quivi d'essere o arrosto o lesso, perché poca speranza vedevo di scappare di uno delli duoi modi, come volse Iddio il cavalletto, che era qual di sopra io dissi, saltò quello che è impossibile a credere: onde io salvatomi ringraziai Iddio. Lo dissi al conte: lui dette allarme: si vide le fuste in mare. L'altro giorno appresso sano e lieto me ne ritornai in Roma.
Soletto me ne andavo in sul lito del mare... Seguitando appresso la peste molti mesi, io mi ero scaramucciato, perché mi era morti di molti compagni ed ero restato sano e libero. Appressandosi all’ora del desinare, onde io stanco, ché molte miglia avevo camminato, volendo pigliare il cibo, mi prese un gran dolore di testa, con molte anguinaie nel braccio manco, scoprendomisi un carbonchio nella nocella della mano manca, dalla banda di fuora. In questo, passando per la strada il padre di questo mio fattorino, il quale era medico del cardinale Iacovacci e a sua provvisione stava, disse il detto fattore al padre: “Venite, mio padre, a veder Benvenuto il quali è con un poco di indisposizione a letto”. Non considerando quel che la indisposizione potessi essere, subito venne a me e, toccandomi il polso, vide e sentì quel che lui volsuto non arebbe. Subito volto al figliuolo gli disse: “O figliuolo traditore, tu m'hai rovinato: come poss'io più andare innanzi al cardinale?”. A cui il figliuol disse: “Molto più vale, mio padre, questo mio maestro che quanti cardinali ha Roma”. Allora il medico a me si volse, e disse: “Da poi che io son qui, medicare ti vo-glio, e per essere a buona ora il rimedio, non avere tanta paura, che io spero per ogni modo guarirti”. Medicatomi e partitosi, subito comparse un mio carissimo amico, chiamato Giovanni Rigogli, il quale increscendogli del mio gran male e dell’essere io così solo, mi disse: “Non ti dubitare, Benvenuto mio, che io mai non mi spiccherò da te per infin che guarito io non ti vegga”. Io dissi a questo amico che non si appressassi a me, perché spacciato ero. Il mio caro amico quello che da poi occorressi in nell'uno o in nell'altro modo sapeva benissimo quel che si conveniva fare per me. E così passammo innanzi con lo aiuto di
Benvenuto Cellini (settembre 1524) da la Vita 22
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Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610)
1610
CARAVAGGIO AL CASTELLO DI PALO L’ ULTIMO APPRODO E L’ ENIGMA DELLA FINE
È una giornata di luglio del 1610. Il mare è calmo e il
La terra si sta avvicinando, si vedono le sagome delle persone sulla spiaggia di fianco al Castello. Caravaggio prende con sé poche cose, lascia nella stiva le tele arrotolate che sta portando per ringraziare, oltre al Gonzaga, anche l'altro cardinale che lo ha protetto nella sua latitanza, Scipione Borghese, nipote del Papa e grande collezionista di opere d'arte. La feluca è ormai a riva, sulla spiaggia ci sono pochi uomini. Alcuni sono pescatori che stanno tirando a riva le loro imbarcazioni nella piccola insenatura a levante del Castello, riparata da uno sperone di terra sul quale c'è un cantiere per costruire barche. Caravaggio, in piedi sulla prua, è il primo a scendere. Si avvia verso le persone in divisa ferme sulla spiaggia stringendo in mano il foglio che gli hanno dato a Napoli, il lasciapassare che dovrebbe farlo arrivare fino a Roma senza problemi. Ma a quegli uomini non interessano le
sole sta quasi per tramontare davanti al Castello di Palo quando le vele di una feluca appaiono all'orizzonte. Sulla barca l'equipaggio sta già pensando al riposo, dopo il lungo e faticoso viaggio cominciato a Napoli. C'è un uomo dalla pelle scura e dai capelli neri e ricci sulla prua della feluca. Guarda verso il Castello, cercando di capire come sia fatto quell'approdo che non conosce. Quell'uomo è Michelangelo Merisi da Caravaggio, il dipintore di tele in fuga da Napoli, dove è scampato ad un feroce agguato: è un condannato a morte, al bando capitale, per un brutto fatto di sangue accaduto a Roma quattro anni prima. Dopo tante fughe Caravaggio sente finalmente avvicinarsi il momento nel quale forse potrà tornare a Roma: il Cardinal Gonzaga attraverso i suoi emissari gli ha assicurato che il Papa PaoloV sta per firmare la grazia.
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Arcangeli, da cui il nome Michelangelo), forse nel piccolo paese da cui prese il nome o forse, come è più probabile, a Milano ove il padre, Fermo Merisi, era sovrintendente alla manutenzione degli edifici del Marchese di Caravaggio Francesco Sforza. È infatti a Milano, nella chiesa di Santa Maria della Passerella, che risultano registrati i battesimi dei due fratelli più piccoli di Michelangelo. Ma il nome del pittore qui non c’è, mentre nella Parrocchia di Caravaggio è scomparso il registro delle nascite: il primo dei tanti misteri che, come vedremo, accompagnerà Michelangelo Merisi fino alla sua morte. Comunque è sempre a Milano che si hanno le prime notizie di Michelangelo adolescente che, a tredici anni, nell’aprile 1584, entra nella bottega del pittore Simone Petersano, allievo di Tiziano. I quattro anni di apprendistato milanese saranno importanti per la formazione artistica di Caravaggio: a Santa Maria delle Grazie può ammirare il Cenacolo di Leonardo, mentre da Petersano viene intro- Le inferriate di quello che era prodotto al “realismo” babilmente il locale adibito a prilombardo. È inoltre gione nella Fortezza di Palo
Feluca di fronte al Castello di Palo, sec. XVII Riproduzione di Rita Consolini, da dipinto di autore anonimo
carte. Loro sono lì per arrestare il condannato al bando capitale. Il pittore allora capisce, si gira verso la feluca cercando aiuto, ma il grande barcone si sta allontanando di nuovo.Va via con le sue tele, lo lascia lì perché quello è l'ordine che a Napoli qualcuno aveva dato ai marinai. È un agguato, la fuga senza fine di Caravaggio stavolta è arrivata davvero al termine: quello di Palo è l’ultimo fotogramma certo di una storia che, da quel momento in poi, si perde nelle nebbie dei dubbi, delle contraddizioni e delle bugie delle versioni ufficiali. Inizia quella sera di luglio l'ultima sfida del “pittore maledetto”, quella che lo porterà a morte. Era nato nel 1571 (ma qualcuno sposta due anni in avanti questa data), il 29 settembre (giorno dedicato agli
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Maddalena in estasi, Caravaggio, 1606, collezione privata. Questa tela, quelle del S. Giovannino disteso e del S. Giovanni Battista della Galleria Borghese, erano i dipinti che Caravaggio portava con sÊ quando sbarcò a Palo nel luglio del 1610
S. Giovanni Battista, Caravaggio, 1608, Galleria Borghese
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certo che, nello stesso periodo, Caravaggio riesce più volte a soggiornare a Venezia, allora considerata dai pittori la “fonte” del colore e soprattutto patria di Giorgione, che sarà l’artista che più influenzerà Caravaggio nel suo primo periodo di attività. Dopo la morte dei genitori Caravaggio Il Cardinale Scipione Borghese divide con i fratelli Ritratto di Ottavio Leoni, Biblioteca Apostolica Vaticana il ricavato della vendita dei terreni della famiglia e l'11 maggio 1592 si mette in viaggio per Roma: rompe tutti i rapporti familiari e non tornerà più nella sua terra di origine. Quando parte ha poco più di venti anni, 400 lire imperiali in tasca, una grande voglia di gettarsi nella vita di quella che allora era, per ogni artista, la meta più desiderata. Alla fine del Cinquecento Roma è infatti una città internazionale: vi arrivano da ogni parte d'Europa artisti, artigiani, commercianti. È piena naturalmente anche di pellegrini, di religiosi, di viaggiatori colti, come pure di militari di ritorno dalle continue campagne d'armi, di prostitute e di ladri. In città spagnoli e francesi, e i loro relativi sostenitori, passano spesso a vie di fatto nel tentativo di
prendere il sopravvento e di influenzare così la vita economica e politica della città dei Papi. Passata la grande paura del “sacco” di Roma del 1527 la città si sta riprendendo, la Chiesa è al contrattacco per respingere gli influssi della riforma protestante che dilaga nel nord Europa. Sisto V, eletto nel 1585, aveva già iniziato un energico rilancio dell'economia della città, erano sorti nuovi palazzi, si era cercato di riportare l'ordine nelle strade con una dura politica repressiva. I suoi successori, Gregorio XVI e Clemente VIII, avevano cercato di continuarne la politica, soprattutto sul versante della repressione gestita con durezza dai tribunali dell’Inquisizione.
Gli spalti della fortezza di Palo
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Veduta del Castello di Palo, disegno di Claude Lorrain, 1638, Museo del Louvre, Parigi (elaborazione di Guido Venanzoni) Nel piccolo approdo sotto il forte era sbarcato nel 1610 Caravaggio in fuga da Napoli: a Palo tutto era racchiuso entro le mura del Castello, allora di proprietà degli Orsini. Non erano state ancora realizzate né le case del borgo né la Posta Vecchia: al suo posto c’era un piccolo cantiere navale
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Le condanne a morte erano ormai all'ordine del giorno e due esecuzioni, legate a vicende completamente diverse tra di loro, susciteranno un clamore destinato a durare fino ai nostri giorni. L'11 settembre del 1599 viene portata sul patibolo la giovane Beatrice Cenci, accusata insieme ad altre tre persone di avere ucciso il padre per ribellarsi ai suoi soprusi e alle sue violenze. Il 17 febbraio del 1600, Anno Santo e quindi in una Roma piena di pellegrini provenienti da tutta Europa, a Campo de’ Fiori il filosofo Giordano Bruno, condannato dall'Inquisizione per eresia, viene arso sul rogo: tra la folla che assiste all'esecuzione c'è anche Caravaggio, attento a cogliere ogni particolare di quei momenti così terribili, l'eco dei
quali spesso si avvertirà nelle sue tele. È questa la Roma che si trova a vivere il giovane Caravaggio: una città violenta e contraddittoria, ma anche piena di stimoli e di opportunità, soprattutto per un artista. Michelangelo inizia a dipingere nella bottega del Cavalier d’Arpino, un pittore poco più grande di lui ma già molto noto a Roma: disegnare fiori e “grottesche” non è però quello che Caravaggio cerca. Trova subito una sua strada personale che lo porta ad essere in pochi anni, dopo il clamoroso successo delle tele della Cappella Contarelli nella chiesa di San Luigi dei Francesi, il più noto e richiesto dei pittori in quel momento a Roma. Ma, parallelamente all’accrescersi della fama di artista innovatore e capace più di ogni altro di raffigurare la realtà, il suo nome comincia a comparire nei verbali delle guardie e nei registri delle carceri. Caravaggio è ribelle, irascibile, spesso in compagnia di avventurieri pronti a menare le mani e a sfoderare la spada. Viene fermato spesso per piccole risse e per porto non autorizzato di armi, mentre una volta viene denunciato dal garzone di una taverna che accusa il pittore di avergli lanciato addosso il piatto di carciofi che aveva appena servito: il ragazzo non aveva saputo dire se erano stati cotti “nell’olio o nel buturo (burro)”.
S. Giovannino disteso, Caravaggio, 1610, Monaco di Baviera. Era una delle tre tele che Caravaggio aveva quando sbarcò a Palo
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L’anno dopo, nel 1603, Caravaggio viene rinchiuso per tre giorni nel carcere di Tor di Nona, accusato insieme ai suoi amici artisti di aver diffamato con un canto in versi satirici un altro pittore, Giovanni Baglione. Ma sono tutte piccole cose rispetto a quello che sta per accadere nel maggio del 1606, in una città percorsa dalle tensioni dopo il pesante intervento della Spagna che in quei giorni di fatto cercava di mettere sotto controllo militare la città. È domenica 28 maggio quando, dopo grandi festeggiamenti per il primo anno del regime dei Borghese, durante scontri e risse tra le varie fazioni, Caravaggio affronta con la spada e uccide Ranuccio Tommasoni. I racconti diranno poi che lo scontro era accaduto durante una partita di pallacorda al Campo Marzio: ma Caravaggio, più vicino ai francesi nella collocazione geopolitica del momento, aveva già avuto qualche diverbio con il giovane ucciso, appartenente ad una famiglia da sempre al servizio dei nobili filospagnoli. Il pittore, ferito gravemente, fugge da Roma e si rifugia nei feudi laziali della famiglia Colonna, imparentata con Francesco Sforza di Milano che aveva fatto da testimone al matrimonio di Fermo Merisi a Caravaggio. A Roma Michelangelo viene così condannato a morte in contumacia secondo le procedure del bando capitale: chiunque ed in qualsiasi luogo avrebbe potuto legittimamente ucciderlo e portare la sua testa alle autorità per avere la taglia. Non appena si è rimesso in salute il pittore raggiunge Napoli e poi da lì, dopo un breve soggiorno, va a Malta dove inizialmente riesce ad entrare nei favori del Gran Maestro dell'Ordine dei Cavalieri di Malta, il francese Alof de Wignacourt, per il quale realizza il ritratto che
Nave nel mare in tempesta al largo di Palo, disegno di Claude Lorrain, 1638, British Museum, Londra
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In una stampa del 1700, raffigurazione di una partita di pallacorda: fu per una discussione durante la gara che Caravaggio uccide Ranuccio Tomassoni il 28 maggio del 1606 a Roma in via delle Pallacorda. Condannato per questo a morte, inizia da quel giorno per il pittore la continua fuga che avrĂ fine solo con la sua morte nel luglio del 1610
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ora è al Louvre. L’opera, insieme ad un anno di buona condotta e alla protezione del cardinale romano Scipione Borghese, gli consente l'ingresso nell'Ordine e così, il 14 luglio 1608, Caravaggio diventa Cavaliere di Malta per meriti artistici. Per fare questo vengono forzate, con una apposita dispensa papale, le regole che naturalmente proibirebbero la nomina di un condannato per omicidio: quello che allora sembrò essere al pittore un passo verso la grazia papale, si rivelò invece una aggravante per i suoi comportamenti successivi. Tutto allora comunque sembrava andare per il meglio e subito dopo Caravaggio realizza per la cattedrale di Malta La decollazione di San Giovanni Battista. È il quadro più grande mai dipinto dal pittore e l'unico con la sua firma, realizzata con lo stesso rosso sangue del Battista giustiziato: un voluto presagio di morte che accompagnerà molte delle sue tele. Anche questa volta il periodo felice finisce presto e poche settimane dopo Caravaggio viene arrestato “in flagranza di reato” e rinchiuso nel carcere di Forte Sant'Angelo, sempre a Malta. Il motivo dell'arresto non verrà mai registrato e, poco prima del processo, il pittore viene fatto fuggire: tutte queste anomalie hanno sempre fatto pensare che il reato di cui si era macchiato coinvolgesse, in attività in qualche modo “scandalose”, un altro Cavaliere di Malta. Alla fine del 1608 Caravaggio è a Siracusa e poi da lì passa a Messina e poi ancora a Palermo, continuando a dipingere grandi capolavori ma sempre in fuga, come un latitante insicuro di tutto. Era un uomo col cervello stravolto, che si addormentava vestito e armato, racconta Susino nelle “Vite dei pittori messinesi” del 1724. Nell’ottobre del 1609 torna a Napoli dove trova ospita-
La conversione di Paolo, Caravaggio, 1600. Collezione Principessa Nicoletta Odescalchi
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lità e protezione nella dimora della marchesa Colonna Sforza. Non si sente tranquillo e continua ad inviare richieste di grazia a Roma dove a suo favore si è schierato, oltre a Scipione Borghese, anche l'altro giovane ed emergente cardinale Ferdinando Gonzaga. Le preoccupazioni e le paure del pittore si rivelano fondate: nell’ottobre del 1609, sulla soglia della locanda napoletana del Cerriglio, dietro la chiesa di Santa Maria La Nova, alcuni sicari lo aggrediscono a coltellate lasciandolo a terra sanguinante, sicuri di averlo ucciso. A Roma dopo pochi giorni arriva la notizia che Caravaggio è morto: il pittore, sopravvissuto ma gravemente ferito, si rende conto che ormai la sua unica salvezza è ottenere la grazia papale e lasciare Napoli. Nei primi giorni di luglio del 1610 avviene l'epilogo dell'esistenza di Caravaggio. Si imbarca su una feluca diretta a Civitavecchia, anche allora approdo principale per Roma, portando con sé tre tele: sono Una Maddalena e due San Giovanni, come dirà in una delle sue lettere il Nunzio Apostolico di Napoli Deodato Gentile. Ma prima dell’arrivo a Civitavecchia, Caravaggio, per motivi ancora oggi non chiariti, approda al porticciolo di Palo, allora piccolo avamposto di proprietà degli Orsini difeso da una guarnigione di soldati papali. Non si è mai saputo se il pittore avesse deciso di sua iniziativa di evitare Civitavecchia e di cambiare rotta nella speranza di passare inosservato nel piccolo porto o se ci fosse stato portato a sua insaputa: inizia comunque proprio a Palo l’ultimo tragico atto della vita del Caravaggio. Il primo documento tuttora esistente che parla della fine dell'artista è un “avviso” inviato da Roma alla corte di Urbino il 28 luglio: si è havuto avviso della morte di
Papa Paolo V Borghese in un dipinto del Caravaggio del 1605 La notizia che il Papa aveva firmato la grazia convinse il pittore, condannato a morte nel 1606, a lasciare Napoli per raggiungere Roma nel luglio del 1610
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La Fortezza di Palo ed i ruderi in mare del porto romano, disegno di S. Graf, 1830
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Michel Angelo Caravaggio pittore famoso et eccellentissimo nel colorire et ritrarre dal naturale. Esso fu seguito, tre giorni dopo, da un altro “avviso” della stessa fonte, con un paio di dettagli in più: è morto Michel Angelo da Caravaggio pittore celebre a Port'Hercole mentre da Napoli veniva a Roma per la gratia da Sua Santità fattali del bando capitale che haveva. Gli “avvisi” non firmati spediti da Roma ad Urbino alla corte dei Della Rovere, erano particolarmente numerosi in quel periodo ed il loro contenuto dimostrava che l'autore era a conoscenza anche di avvenimenti molto più riservati, tanto che si può ipotizzare che l'autore degli stessi avvisi fosse il potente Cardinale Del Monte. Il giorno dopo dell'avviso inviato ad Urbino qualcuno ancora più potente del Cardinale Del Monte, il Cardinale Scipione Borghese, nipote del Papa e di fatto vero e proprio Ministro degli Interni del Vaticano, chiede chiarimenti a Deodato Gentile, Nunzio Apostolico di Napoli, su quello che stava avvenendo. La cosa è abbastanza singolare perché Roma era naturalmente più vicina a Palo rispetto a Napoli e perché Scipione Borghese poteva contare su una notevole rete di informatori a sua disposizione. Scrive Deodato Gentile nella lettera di risposta del 29 luglio 1610: Il povero Caravaggio è morto a Porto Hercole, poiché essendo capitato con la feluca, con la quale andava a Palo, ivi da quel capitano fu carcerato, e la feluca a quel rumore tiratasi in alto mare se ne andò. Il Caravaggio restato in prigione, si liberò con uno sborso grosso di denari, e per terra e forse a piedi si ridusse fino a Porto Hercole, ove ammalatosi ha lasciato la vita: la feluca ritornata riportò le robbe restategli in casa della signora Marchesa Sforza
Colonna, che habita a Chiaia, e di dove si era partito il Caravaggio: ho fatto subito vedere se vi sono li quadri, e ritrovo che non ne sono più in essere, eccetto tre, li doi San Giovanni e la Maddalena. Questa lettera, insieme ad altre due di Deodato Gentile, è rimasta custodita per più di tre secoli nell'Archivio Segreto Vaticano fino a che lo studioso Vincenzo Pacelli non l’ha scoperta e fatta conoscere. Ma a parte le tre lettere, rimaste peraltro segrete, negli anni successivi alla morte del Caravaggio per molto tempo nessuno parlò più dell'accaduto. Tornerà sull'argomento solo nel 1625 Giovanni Baglione, che troverà anche il modo di vendicarsi delle offese ricevute a Roma dal Caravaggio: Ultimamente arrivato in un luogo della spiaggia misesi a letto con febbre maligna, e senza aiuto umano morì malamente in pochi giorni, così come appunto male havea vissuto. Una versione analoga sarà riportata ne “La vita di pittori, scultori ed architetti moderni” di Giovan Pietro Bellori del 1672: Ond'egli quanto prima gli fu possibile montato sopra una feluca, pieno d'acerbissimo dolore, s'inviò a Roma, avendo già con intercessione del Cardinal Gonzaga, ottenuto dal Papa la sua liberazione, pervenuto alla spiaggia di Palo la guardia spagnola che attendeva un altro Cavaliere l'arrestò in cambio e lo ritenne prigioniero. E sebbene fu egli tosto rilasciato in libertà, non però rividde più la sua feluca che con le robbe lo conduceva. Per più di tre secoli ci fu quindi solo un'unica versione accreditata della morte di Caravaggio: il pittore sarebbe stato incarcerato in cambio di altro cavaliere, dice Bellori e poi liberato dopo due giorni. Pensando che la feluca avesse proseguito per Civitavecchia e successiva-
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Il castello Odescalchi ed il borgo di Palo in una immagine del 1970. In alto, ai limiti della macchia mediterranea, è visibile l’abitato di Ladispoli mentre dietro il Castello si estende il parco-giardino messo a dimora da Ladislao e Baldassarre Odescalchi alla fine dell’800. Sul profilo della costa a sinistra sono visibili i resti del porto e delle vasche di epoca romana mentre le prime case del borgo appaiono in parte danneggiate dall’erosione: saranno restaurate nel 1976 35
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mente per Porto Ercole, disperato e già in cattive condizioni, Caravaggio sarebbe partito l’8 luglio da Palo e, a piedi, avrebbe percorso tutta la costa fino ad arrivare alla Maremma toscana, in un territorio ancora pieno di malaria. Sarebbe stata proprio questa malattia che lo avrebbe portato alla morte il 19 luglio. Ma nel 1988, dopo la scoperta delle lettere negli Archivi Vaticani, Vincenzo Pacelli ha rilanciato con L’ultimo Caravaggio - Il giallo della morte: un omicidio di Stato, un’ipotesi del tutto diversa sulla morte del pittore. Pacelli pone innanzi tutto una serie di interrogativi: perché Caravaggio non sbarca a Civitavecchia ma a Palo, senza avere nessuna garanzia sulla protezione al suo arrivo? E perché il Comandante della feluca lo abbandona immediatamente dopo l’arresto, ripartendo per Napoli con le sue “robbe” e soprattutto con le sue tele? Con quali denari il Caravaggio avrebbe potuto inoltre corrompere il Capitano della fortezza, lui che era ormai un prigioniero in balia dei soldati? Ed è francamente inverosimile che un uomo esperto di viaggi e di continui spostamenti per mare, si sia incamminato a piedi, sotto il sole di luglio, attraversando quelle che allora erano plaghe paludose e malariche, a cominciare dalla palude di Torre Flavia e continuando con quelle della Maremma, per andare a Porto Ercole, considerando inoltre che non c’era motivo per un viaggiatore che cercava in tutti i modi di tornare a Roma, di recarsi a nord. A tutti questi motivi, già sufficienti per mettere in crisi la versione ufficiale, vorremmo aggiungere un altro interrogativo: dalla morte del Caravaggio (19 luglio) alla lettera di Deodato Gentile (29 luglio) passano solo dieci giorni. Come poteva Deodato Gentile, che stava a Napoli, essere venuto a conoscenza di tutti i fatti acca-
Il profilo del castello di Palo al tramonto (foto di Giandomenico Faviere) 36
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Veduta del Castello Odescalchi a Palo, 1638, disegno preparatorio di Claude Lorrain*, Museo del Louvre, Parigi Da questo disegno il pittore sviluppò il quadro di pagina 27 A sinistra sul profilo lontano, dopo il primo piano di una nave in costruzione, si intravede la Torre di Palidoro che faceva parte come Torre Flavia del sistema di avvistamento che si svillupava dalla Toscana al Regno di Napoli
*Claude Lorrain (1600-1682) Nato in Lorena, arrivò giovane a Roma dove divenne aiuto del pittore paesaggista Agostino Tassi. Dopo un breve soggiorno a Napoli tornò a Roma nel 1627 per trascorrervi tutto il resto della sua vita. L’opera di Claude Lorrain era improntata a una visione universale del paesaggio, tesa a trasfigurare ogni episodica veduta della campagna romana in orizzonti aperti inondati di effetti di luce. Fu anche grande disegnatore e ne restano documento i fogli del Louvre, del museo di Oxford e degli Uffizi a Firenze, con scorci ampi di orizzonte a puro tratto di penna.
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duti, fino ai piccoli dettagli, in soli dieci giorni? Riferisce quello che era avvenuto a Palo, il lungo cammino fino a Porto Ercole, la malattia che aveva portato a morte il pittore: tutti fatti avvenuti in momenti e luoghi diversi. Chi poteva aver riferito tutto questo a lui in così poco tempo, con i mezzi di comunicazione di allora? Ci sono solo due possibili spiegazioni: o Caravaggio nel suo ultimo viaggio non era solo e quindi c'era un testimone che poteva raccontare tutto, ma questo non risulta da nessuna versione finora nota. Oppure la versione contenuta nella lettera di Deodato fu inventata per coprire, con la storia della fuga quasi “eroica” e la fine per “fatto naturale”, la pesante responsabilità di avere ucciso il più grande pittore del Seicento. Per far luce su questa oscura vicenda, dice ancora Pacelli, occorre ricorrere ad un flash-back e tornare a Malta. La feroce aggressione subita a Napoli presso l'osteria del Cerriglio era sicuramente in relazione con i contrasti avuti dal Merisi con un misterioso Cavaliere di Malta, contrasti che condussero ad una sua espulsione dall’Ordine i cui motivi sono tuttora ignoti: negli atti della privatio habitus, infatti, non compare il capo di imputazione. Il sospetto rimane quello di un'omertà tesa a velare un reato di natura sessuale o comunque commesso sullo sfondo di pratiche illecite. Inoltre le volute omissioni sulle modalità della fuga dalle prigioni di Malta rafforzano la tesi e la convinzione che, da questo momento in poi, Caravaggio fosse diventato vittima di un silenzioso complotto ordito nell'ombra dai Cavalieri Maltesi, di concerto con le gerarchie ecclesiastiche, ansiose di liberarsi di uno scomodo contestatore che, con le sue immagini, piene di verità e realismo, era con-
tinuamente in rotta di collisione con l'ortodossia ormai imperante. Caravaggio sembrava dare poco spazio ai dettati della Controriforma e molto più alle idee di Erasmo da Rotterdam che si andavano diffondendo nella Lombardia cinquecentesca: la verità ha sempre una sua bellezza che nessun trucco può imitare… - scriveva Erasmo - Da parte mia penso che nulla sia più giusto che descrivere i santi come veramente sono stati, e se anche nella loro vita si scopre qualche errore, perfino questo si risolve per noi in un esempio di pietà... E Caravaggio dipingeva i santi e le madonne come secondo lui erano “veramente” stati, con una attenzione al reale che ignorava le meticolose geometrie dell'arte rinascimentale con la stessa sicurezza sfrontata con la quale ignorava i dogmi religiosi. Dava il volto di cortigiane e di popolane alle sue Madonne, spaventando gli stessi committenti che spesso, come nel caso della Morte della Vergine, rifiutavano l'opera ritenendola “immorale”. Lo faceva in un'epoca nella quale i dipinti erano le uniche immagini esistenti e avevano quindi una forte influenza sul modo di pensare e di credere della grande moltitudine dei fedeli. Per le gerarchie, ossessionate dal rispetto assoluto dei dogmi, gli “errori” non potevano essere “esempi di pietà”: meglio dunque evitare un pubblico processo, che avrebbe coinvolto l'Ordine in modo imbarazzante svelandone la corruzione. La vendetta doveva essere dura, ma coperta dal racconto di un viaggio rocambolesco quanto inverosimile. Dal momento della fuga da Malta i Cavalieri Gerosolimitani cominceranno a congegnare un piano di rivalsa nei confronti del Merisi: la privatio habitus tam
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Cattura di Caravaggio al Castello di Palo, Guido Venanzoni, 2011 Nel quadro l’autore ricostruisce l’episodio dell’arresto del pittore come raccontato da Giovan Pietro Bellori nel 1672 ...pervenuto alla spiaggia di Palo la guardia spagnola che attendeva un altro Cavaliere l’arrestò in cambio e lo ritenne prigioniero. E se bene fu egli tosto rilasciato in libertà, non però rividde più la sua feluca che con le robbe lo conduceva... 39
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Merisi e ha protetto più volte Caravaggio, ma il figlio Fabrizio è il comandante della flotta maltese ed è quindi agli ordini dei nemici più acerrimi del pittore. La marchesa certo sa quello che sta per accadere, ma non può rivelarlo al pittore e provocare il fallimento del piano. Il Cardinale Scipione Borghese si è fatto dare dal Papa tutti i poteri riguardo i condannati e la giustizia dello Stato Pontificio. Ha già ordinato di arrestare un “bandito famosissimo” rifugiato nel Regno di Napoli: non può non impegnarsi affinché l’“ordine” sia ristabilito e la legge rispettata, ma è anche un avido collezionista d'arte e farebbe di tutto per avere sotto controllo Caravaggio e farlo continuare a dipingere per la sua collezione. Lo vuole solo prigioniero, però vivo. Ma nel copione della storia appare, sinistramente e all'improvviso, un altro protagonista che risulterà essere il più informato di tutti. È Vincenzo Carafa, capo in quel momento dell’Ordine di San Giovanni di Malta: lui sa dove è diretta la feluca e lo dimostra il fatto che fa requisire le tre tele non appena l'imbarcazione le riporta a Napoli. E gli altri attori sulla scena sono solo comprimari: il Vicerè spagnolo, il conte di Lemos, arrivato a Napoli pochi giorni prima della partenza del Caravaggio, si attiverà anche lui reclamando il sequestro dei quadri come proprietà del regno visto che il pittore era nato a
Caravaggio raffigura se stesso mentre regge la lampada in uno dei personaggi de “La presa di Cristo nell’orto”, quadro del 1602 attualmente alla National Gallery di Dublino
quam membrum putridum et foetidum del 1° dicembre 1608 era stata infatti solo una formalità burocratica, insufficiente a dare soddisfazione all'offesa. Fallito l'attentato del Cerriglio dell'ottobre del 1609 occorreva un nuovo progetto di vendetta, un piano da delitto perfetto per la cui attuazione l'Ordine necessitava di una rete di connivenze tra Napoli e Roma. È da quel momento che le vicende seguono un oscuro copione a più voci nel quale ognuno recita una parte ambigua: Costanza Sforza Colonna è stata amica della famiglia
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Milano quando la città era sotto il dominio spagnolo. Invia l'ordine di sequestro alla guarnigione spagnola di Porto Ercole, dimostrando di avere notizie sbagliate sul reale tragitto della feluca con le tele. Questi sono i misteri che portano anche Peter Robb, autore de “L'enigma Caravaggio”, a concludere così il suo libro: Perché nel viaggio di ritorno a Roma Caravaggio fu portato nella remota Palo? È questo il fatto più palesemente sinistro, dato che egli dopo quell'approdo non venne più visto. Chi sapeva che stava andando lì? È presto detto. Né Scipione Borghese né il Vicerè spagnolo, le due personalità che si presumeva sapessero e decidessero tutto e che in realtà nelle loro lettere fanno capire di essere all'oscuro dei fatti. Ma Carafa sapeva: l'Ordine di San Giovanni seppe cosa era successo prima di chiunque altro. Il nemico che Michelangelo Merisi s'era fatto a Malta l'aveva infine raggiunto. Scenario dell’epilogo, dunque, aggiunge Vincenzo Pacelli, è Palo, porto piccolo e defilato ove approda una feluca forse già alleggerita del suo ingombrante passeggero gettato nel mare. Oppure uno dei più grandi pittori di tutti i tempi viene ghermito dalla mano della morte in un’oscura cella della prigione laziale, cadendo sotto la lama di aguzzini prezzolati, prima di essere ingoiato dal buio: in fondo, un prigioniero scomparso non fa notizia, ora come allora. Il resto (il racconto della fuga, la controversia circa i dipinti della feluca, i fitti scambi epistolari) sarebbe servito solo ad ingarbugliare la verità, tutto a beneficio della credibilità di un piano ormai andato a buon fine. Così come servirà a confondere il reale quadro della vicenda la diffusione delle notizie, mai confermate in
realtà, che al pittore fosse stata concessa la grazia. A pochi anni dalla morte il poeta Giovan Battista Marino così pianse l'amico Caravaggio scomparso: Fecer crudel congiura Michele, a danni tuoi Morte e Natura. Quella “crudel congiura” fu una espressione casuale? Oscure per i posteri, le misteriose circostanze della morte non dovettero essere del tutto sconosciute ai contemporanei se in un documento del 1630, pubblicato da Delfino, ovvero la Notizia della Casa dei Santi Apostoli per D. Francesco Belvito, si afferma: il famoso pittore Michel'Angelo Caravaggio hebbe cento scudi per farci la pittura che havea promesso; ma perché fu ammazzato si perdè la pittura con i denari. Erano passati venti anni ma evidentemente a Napoli la voce popolare era quella di una morte ben diversa da quanto raccontato dalle fonti ufficiali. Alla fine di una storia così piena di punti oscuri, a rendere tutto ancora più misterioso rimane anche l'incertezza più grande e cioè quella sulla sepoltura del pittore: a Porte Ercole il suo corpo non è stato mai trovato né c'è alcuna tomba che si può a lui riferire. Dopo la sua morte tutti si erano preoccupati delle sue tele. Nessuno ebbe il coraggio di chiedere notizie sul suo corpo e sulla sua sepoltura, forse perché si capì subito che sarebbe stato pericoloso andare a fondo e mettere in dubbio la versione ufficiale. Per quanto riguarda le tre tele che Caravaggio si era portato dietro nel suo viaggio verso Roma, il loro destino fu segnato dalla contesa tra i vari poteri che avevano cercato di influire sull’epilogo della vita del pittore. Scipione Borghese mise le mani sul San Giovanni con l'ariete (oggi in mostra alla Galleria che ha preso il suo nome), mentre la Maddalena in estasi e il San Giovanni
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disteso, scomparsi per secoli, sono recentemente tornati alla luce. Il primo presso gli eredi del Carafa allora capo dell’Ordine di Malta, mentre il San Giovanni disteso è stato trovato in Argentina dove era arrivato portato dai discendenti dei Borboni di Spagna. Non si sa con certezza dove e quando Caravaggio nacque, né si sa dove è finito il suo corpo: di certo resta la solida grandezza di una pittura che sfida il tempo e che più moderna non si potrebbe immaginare, così come ha scritto recentemente Armando Audoli: Sensibile fino all'estenuazione e brutale fino alla pennellata dissonante, viscerale e spiritualizzato, il dipingere caravaggesco inclinò da una sensuosa eleganza omoerotica a una dimensione finale livida e sinistra, fremente e quasi isterica; il genio folgorante di Caravaggio, per mezzo di un magistero tecnico superbo quanto personale, ha psicanalizzato se stesso e, in un colpo, tutta la storia del linguaggio artistico, con tre secoli d'anticipo su Freud. Un colpo di spugna e una rivoluzione copernicana. Sfuggente come un sogno, disturbante come un incubo, la pittura di Caravaggio entusiasma e confonde: quando si mostra realistica, ci parla di massimi sistemi; e quando sembra elevarsi, scattando in toni sublimi, allora sotto nasconde bava, sangue e sudore. Michelangelo Merisi, “dipintore di tele”, il più grande di tutta un'epoca: aveva avuto il privilegio e la sfortuna (per lui) di vivere in quello splendido periodo nel quale il Cinquecento finiva ed iniziava il Seicento, nel momento in cui nasceva la mente moderna e cominciava a diffondersi un modo del tutto nuovo di vedere i rapporti tra l'uomo, l'universo, la religione. Caravaggio era nato pochi anni dopo la morte di Michelangelo, l'ultimo e il più grande artista del Rinascimento. Era contemporaneo di
In un altro autoritratto Caravaggio si rappresenta ne “Il martirio di San Matteo” del 1600. Il quadro è nella chiesa romana di S. Luigi dei Francesi
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Shakespeare, il creatore del dramma europeo moderno, e di Galilei, grazie al quale le verità sul sistema solare tornarono dopo duemila anni ad essere innegabili. Caravaggio diceva che “dipingere le piccole cose della natura era importante quanto dipingere quelle grandi”, perché le leggi e i meccanismi della natura sono gli stessi, in una goccia d’acqua come nell’universo. Lo diceva negli stessi anni nei quali Giordano Bruno, prima di essere messo a tacere per sempre, sosteneva che “ogni punto dell’universo può essere il centro di tutto” e che “lo Spirito Santo è lo spirito che si trova in tutte le cose del mondo”; negli stessi anni nei quali Galileo scriveva che “in natura tutte le operazioni, piccole o grandi che siano, sono tutte in pari grado meravigliose”. Erano affermazioni elementari e permeate di un profondo senso religioso. Avevano però la forza di sconvolgere equilibri e gerarchie consolidate nei secoli. Galilei, Bruno, Caravaggio: tutti, in un modo o in un altro, avrebbero pagato per quello che dicevano e che andavano facendo.
Davide con la testa di Golia, Caravaggio, 1610, Roma, Galleria Borghese. Nella testa mozzata di Golia il pittore, nell’ultimo periodo del suo soggiorno a Napoli, raffigurò se stesso: l’ennesimo, disperato presagio di morte per l’artista condannato al bando capitale, procedura per la quale chi portava alle autorità la testa mozzata del “bandito” riceveva un premio in denaro
A sinistra la firma di Michelangelo Merisi fatta con il sangue del San Giovanni Battista decollato. È l’unico quadro, dei circa 80 a lui attribuiti in cui compare la firma dell’autore
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Lo stemma degli Odescalchi in una stampa dell’archivio Nicoletta Odescalchi. Lo stemma deriva da un connubio tra storia cristiana e iconografia orientale. Nella fascia superiore c’è l’aquila coronata, dominatrice dei cieli e da sempre sinbolo di tenacia. Era l’emblema che Caio Mario per primo adottò per le legioni romane. Nella fascia mediana c’è un leone rampante, simbolo fin dal mondo egizio di forza e di valore: se l’aquila domina il cielo il leone è il dominatore della terra. Nell’ultima ripartizione ci sono tre fascie con sei piccole “navicelle” porta incenso: questa scelta per lo stemma è un vero e proprio “unicum” nella storia dell’araldica nobiliare. Va ricordato come, a partire dall’arte Paleocristiana, l’immagine della nave riporti simbolicamente alla Chiesa: la nave è appunto la Chiesa che conduce al porto della salvezza coloro che si affidano a lei (Notizie e ricerche di Valentina Di Domenico, storica dell’arte)
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