Grüne Linie

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Caro Luciano, mi è parsa giusta la decisione del comandante Bob di dividere la Brigata in quattro battaglioni d’assalto e di passare all’offensiva su Bologna e Imola. Penso, però, e la cosa mi addolora, che non tutti ci ritroveremo dopo la battaglia. È inutile illudersi: sarà dura, molto dura e i fatti ci metteranno ancora una volta alla prova. Al di là di queste montagne, si dice, c’è la libertà. Io personalmente ne dubito. Sarebbe meglio dire che vi sarà la libertà se noi sapremo esserne i portatori e se riusciremo a trasferire nelle città e in tutto il paese i principii di lealtà e di amicizia che qui abbiamo saputo istituire e difendere. E poi, te lo dico con tutta franchezza, io ho paura che questa nostra libertà si disperda nei compromessi e nelle lotte politiche non sempre pulite: le notizie che a tal proposito si hanno dal sud mi intristiscono; mi sembra che si rimettano i destini della libertà nelle mani di coloro che al fascismo non hanno opposto che una ben miserevole resistenza! So che tu sei fiducioso ed ottimista. Discutevo di queste cose con Bergami e anche lui, da bravo comunista, vedeva tutto un avvenire di civiltà e di pulizia: avremmo dovuto riparlarne ancora; ma poi, come tu sai, il mortaio gli ha squarciato la testa proprio alla fine della battaglia della Bastia. Non lo dimenticherò mai. Ma ora ci sono i problemi dell’immediato domani e converrà pensare a quelli. Ritorneremo all’attacco, questo è l’importante. E libereremo la nostra Bologna. In città faremo una festa che non finirà mai e cacceremo via di torno gli attesisti e i vili. Quelli che non hanno preso posizione sono i veri e permanenti nemici della libertà: basterà un niente per farli ridiventare fascisti. So che molti miei amici di ieri saranno fra questi e la cosa mi avvilisce. II tempo stringe. Anch’io avrò la mia arma: una fiammante rivoltella tedesca che Giorgio, il nostro mitragliere, ha recuperato dopo uno scontro nella strada. Mi aveva offerto anche un paio di scarpe tedesche quasi nuove, ma io le ho rifiutate. È una questione di gusto: non voglio pestare questa terra con le scarpe tedesche! Preferisco continuare con i miei vecchi, e una volta elegantissimi scarponi di Aosta, anche se ormai fanno acqua di sopra e di sotto. Ci rivedremo? Lo spero tanto. E ora, caro Luciano, ti abbraccio. I primi si sono già avviati e cantano ancora quell’inno anarchico che a me piace tanto e che so che ti irrita. Addio. Gianni


Dear Luciano, Commander Bob’s decision to divide the Brigade into four assault battalions and to go on the offensive towards Bologna and Imola seemed to me to be a good one. I do, however, think—and it pains me to say this—that we will not all see each other again after the battle. It is useless to harbour the delusion: it will be hard, very hard, and events will put us to the test once again. Beyond these mountains it is said that there is freedom, but personally I doubt it. It would be better to say that there will be freedom if we know how to be its bearers, and if we are able to transfer to the city and the entire country the principles of loyalty and friendship that we have managed to establish and defend. And furthermore, I tell you this in full frankness, I am afraid that our freedom will dissipate among compromises and political battles that are not always clean: the news in this regard that they bring from the south makes me sad; it seems to me that they are again putting the fate of freedom in the hands of those who did not put up more than very meagre resistance to Fascism! I know that you are confident and optimistic. I was discussing these things with Bergami, and he too—good Communist that he was—saw all an advent of civility and honesty; we should have spoken more of this, but as you know, the mortar tore his head off right at the end of the battle of Bastia. I will never forget it. But now there are the problems of the immediate future, and it would be best to think of those. We will return on the offensive—this is important. And we will liberate our Bologna. In the city we will have a party without end, and get rid of the fence-sitters and cowards. Those who haven’t taken a stand are the real and permanent enemies of liberty: it would take very little to turn them into Fascists again. I know that many of my friends from the past will be among these, and this upsets me. Time is running out. I too will have my weapon: a flaming German revolver that Giorgio, our machine gunner, recovered in a confrontation on the road. He also offered me a pair of nearly new German shoes, but I refused them. It is a question of taste: I don’t want to tread this land in German shoes! I prefer to go on with my old ones—once very stylish boots from Aosta—even though they are leaking both above and below. Will we see each other again? I do hope so. And now, dear Luciano, I embrace you. The first have already set off and they are again singing that anarchic hymn that I like so much and that I know irritates you. Farewell. Gianni




GIANCARLO BARZAGLI

Con un racconto di / Story by WU MING 2









































Basta chiederlo ai faggi

Wu Ming 2



Stanco e appagato, Sandro Davoli calpestò il sentiero in mezzo all’erba giovane, diretto al bivacco sullo sperone di roccia. Solo il comignolo e la porta lucidata distinguevano l’edificio dalle pietre della montagna. Le stesse pietre dei muri, del tetto. Più antiche della vita, sconosciute alla morte. Intere anche quando spezzate. Senz’altro assillo che assaporare la polvere, il vento, le tempeste, il tempo. Minuscolo cubo di sassi, dimora da gnomi, che chiamerò casa fino a domattina. Poco più grande di un essiccatoio, di quelli che s’incontrano nei castagneti. Eppure ha ospitato un’intera compagnia. Mi pare fosse l’ottava. Comandante, Sergio Bonarelli, detto Sergio. Nato a Ozzano nel 1920. Sottotenente carrista, poi disertore e renitente alla leva. Commissario politico, Renato. Di lui non so nient’altro. Circa sessanta partigiani, ai primi d’agosto del ’44. Caldo estivo, notti asciutte. Si vede che dormivano fuori, sulla paglia. Oppure il casolare è quello che resta di un fabbricato più grande. Fienile, stalla, magazzino. Macerie nascoste sotto le piante, coperte dai merletti dei fiori d’achillea. Qui abitava Domenico Tagliaferri, coltivatore diretto. Ancora non ho capito se avesse famiglia o stesse da solo. Il suo cognome ricorre, nelle case d’appoggio alla brigata. Stirpe di fabbri, oppure di cavalieri talmente forti, da tranciare con la spada l’armatura dei nemici. Tagliaferri a Pian dell’Aiara, Val Cavaliera, L’Altello, I Diacci, Serra, Molino dei Diacci. Tagliaferri sul campanile, sulle lapidi e sulle buche da lettere, nel borgo di Casetta di Tiara, l’unico ancora vivo di questa vallata. Cent’anni fa, durante l’altra guerra, nell’agosto del 1916, vi trascorsero un viaggio chiamato amore il poeta Dino Campana e la scrittrice Marta Felicina Faccio, in arte Sibilla Aleramo. Dino, Dino, Dino. Come fare, senza dirti che t’adoro, a mandarti qualche piccola parola che brilli e t’accarezzi più delle stelle? Le stelle intorno alla Casetta. Il sole della Bastia che m’ha fatto brune le mani. Adesso gli abitanti sono una dozzina. Si dicono discendenti di un pugno di bizantini, fuggiti nell’VIII secolo dall’Esarcato di Ravenna, di fronte all’orda dei guerrieri longobardi. A dimostrarlo, ci sarebbe il dialetto locale, che tra vocaboli romagnoli e accento toscano, conserva parole di origine greca, sconosciute nel resto dell’Appennino. Uno sciame di farfalle bianche sorvolò il prato e due sostarono in cima a un palo, dalla corteccia scura, che sembrava pure lui aver messo radici, in quel

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terreno di selci e piante clandestine. Sandro lesse il cartello inchiodato sul legno. Ca’ di Cicci. Nei loro libri, sia Galassi che Bergonzini scrivono sempre “Ca’ di Ciccio”. Credo per colpa di un’etimologia sbagliata. Ca’ di quello, Ca’ dell’altro. Indicano spesso la proprietà di un edificio. Toponimi prediali, si dice. Tu arrivi quassù, senti parlare della “Ca’ di Cicci” e pensi che Cicci dev’essere il soprannome di un inquilino d’altri tempi. Solo che Cicci è un nomignolo da tabac, da ragazzino di città. Va bene per uno come Paolo Betti, il meccanico di Lugo che sta nella prima compagnia. Un ventenne gentile, secco secco. I montanari invece sono gente rude, con due spalle così. Cicci? Non può essere. Sarà piuttosto Ciccio, quello sì che è uno scutmai adeguato. Invece non c’entrano padroni o fittavoli. “Di Cicci” è un fitonimo, vuol dire “dei ceci”. Vai a sapere dove li coltivavano. Qua attorno è tutto pietraie e burroni, ci cresce giusto la malerba, il nocciolo e qualche ciliegio. Sandro salì i gradini di terra e lastre d’arenaria, tra due balaustre di tronchi sottili, e dal terrazzo aperto alla valle, si sporse coi gomiti sulla ringhiera. Ecco dove accadde. Lui è arrivato qui. Questi faggi, ora cresciuti sugli orti d’un tempo, gli hanno dato rifugio. Questa fortezza di foglie e dirupi, che oggi pare così dolce, lo vide combattere e rischiare la vita. Un nemico mai dimenticato e la miseria, ancor più delle bombe, l’hanno infine svuotata. Resta uguale la luce, in questo pomeriggio di fine primavera, spalmata come resina su qualunque sporgenza. Perché si inseguono le ombre? Perché pedinare un uomo che non c’è più, imitare i suoi passi dopo tre quarti di secolo, vedere dove lo portò la fuga da casa? Mentre studiavo le mappe, mi dicevo che Mirco è morto, a novant’anni suonati, e siccome era il più giovane della brigata, sarà di certo uno degli ultimi ad andarsene. Tempo di passare il testimone, di chiudere un’epoca. Non ascolteremo più le avventure della Trentaseiesima dalla voce dei protagonisti, com’è capitato ai miei alunni, quando Mirco è venuto a scuola e abbiamo conosciuto la sua risata. Cristallina, ma a labbra strette, quasi avesse pudore di scovare ancora il lato buffo degli umani. D’ora in avanti, l’unico essere vivente che potrà raccontarci quelle storie sarà il paesaggio. I luoghi che ne sono intessuti.

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Sandro affondò lo sguardo fino ai monti che addentavano l’orizzonte. Solo alberi e cielo a dividersi il mondo. Tat tvam asi, tu sei quello. Come succede al mare, quando ti tuffi per toccare il fondale, a capofitto. Oppure per strada, se passeggi vicino a un cantiere e il martello pneumatico spacca l’asfalto. Allora per un attimo sparisce ogni cosa, compreso te stesso. Sei la frescura liquida che ti avvolge dalla testa ai piedi. Sei il frastuono che invade le orecchie e cancella le voci. Sei questo bosco che trabocca dall’orlo dei crinali e scivola come schiuma giù fino alla gola, dove i versanti si sfiorano e si ripiegano, nascondendo alla vista il corso del Rovigo. Sei lo zaino che pesa in vita e sulle spalle, dopo otto ore di cammino. Sandro slacciò la cinghia che gli fasciava il bacino. Con lo spallaccio stretto nella mano destra, liberò dalla tracolla il braccio sinistro, ruotò il busto di novanta gradi, e appoggiando il sacco sulla coscia destra, sfilò anche l’altro braccio, per sistemare il fardello da dodici chili sulla panca di fianco all’ingresso. Stamattina, sveglia prima delle sette, nella baracca di legno incontrata per caso, presso la rocca di Monte Battaglia. Una camera di lusso, rispetto al sarcofago in nylon e paleria d’alluminio che va sotto il nome di tenda monoposto. Alla chiesa scoperchiata di Valmaggiore, gli unici esseri umani della giornata. “Sapete se c’è dell’acqua, da qui a Ca’ di Cicci?” “Vai fin là? Che bello! Ci abbiamo fatto certe braciolate…”. Però niente sorgenti, fontane o cimiteri. I cimiteri sono una garanzia. Non esiste camposanto che non abbia un rubinetto per annaffiare le siepi e rabboccare i vasi dei crisantemi. Spalancato l’uscio, Sandro studiò le dotazioni dell’unica stanza. Due imponenti letti a castello, semplici assi su impalcature di ferro; un tavolo massiccio con quattro sgabelli; la stufa in ghisa, completa di fascine, sega, tavolette combustibili, carta da giornale e accendino. Ecco spiegato l’odore di affumicatura. Sulla parete di fondo, due mensole colme di barattoli, bombole di butano per fornelli da campeggio, candele scaldavivande e avanzi di cibo chiusi in buste di plastica. Per via dei ghiri, dice un foglietto. Il lavello, incassato nel vano dell’unica finestra, è ingombro di quaderni, mollette da bucato, altre candele, pentole, padelle, bottiglie di vetro e di plastica. Sandro le sollevò una per una. Vuote. Sotto la vasca in pietra, accanto alla pattumiera, scoprì una tanica

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da cinque litri. Vuota pure quella. Nemmeno l’ombra di condutture o sifoni. Liquidi rimasti nello zaino, meno di un bicchiere. E domani un altro giorno di cammino, lontano da abitazioni o paesi, di nuovo senza sapere dove riempire la borraccia. Avrei dovuto portarmene due. Perlustrò i muri esterni dell’edificio, tranne quello a strapiombo sulla forra. Difficile che proprio lì abbiano messo una fontana. Scese nella radura ai piedi del bivacco, a caccia di un tubo, una sorgente, una scia di fango rivelatrice. Con un bastone, frugò nel giallo delle ginestre, accanto ai due tavoli da picnic. Profumo di polline e petali assolati. Girò intorno al focolare per le grigliate e al pioppo nero maritato alla casa. Seguì le tracce dei muretti a secco, ormai sepolti dai rovi e dal muschio. Se erano recinti per il bestiame, potrebbero condurre a un abbeveratoio. Sconsolato, rientrò nel rifugio per l’ultima esplorazione. Esaminò i quaderni abbandonati nel lavabo, la mappa affissa sul retro della porta e i fogli inchiodati a una bacheca di compensato. Saluti, ricordi, schede per riconoscere le orme degli animali. “Portare a valle i rifiuti”, “Lasciamo in ordine questo luogo”, ma nessuna indicazione per l’acqua potabile. Strano che un bivacco così ben tenuto lasci all’asciutto un viandante assetato. Nazario Galassi scrive che i partigiani si sono trasferiti in questa valle, alla fine di aprile del ’44, perché sulla Faggiola, dove stavano prima, era troppo complicato rifocillare la brigata, che allora si chiamava ancora “Quarta Garibaldi della Romagna” e contava una settantina di uomini. In tre mesi sarebbero diventati più di milleduecento. Il monte Faggiola segna il confine tra le province di Bologna, Firenze e Ravenna. I partigiani stavano nella vecchia dogana del Granducato di Toscana. Escluso quell’edificio, la zona era isolata, e lo è tuttora. Poche case coloniche intorno alla cima, lontane fra loro. Sulle prime, i mezzadri hanno accettato i buoni di requisizione firmati dal Moro. Consegnavano la parte del padrone e a lui rifilavano quel foglietto di carta, con la promessa che alla fine della guerra, liberata l’Italia, il nuovo governo avrebbe risarcito ogni grammo di farina. Così il rischio era dei proprietari, non dei poveracci. Ai coltivatori diretti si chiedeva la percentuale che la legge fascista imponeva di dare all’ammasso. Quando veniva il momento, quelli andavano

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in paese e mostravano il buono invece del raccolto. Perché l’avete dato a quei banditi? Risposta pronta: e voi perché non ci difendete da loro? Gli altri paesani, in fila ordinata, si davano di gomito. Le camicie nere lassù non ci vanno. Hanno paura. Chissà quanti sono i ribelli! Almeno diecimila. Inoltre, sulle ricevute, i partigiani scrivevano sempre una quantità superiore rispetto a quella che si portavano via, di modo che la differenza se la teneva il contadino, e le confische tornavano buone anche per lui. Ma le fattorie della Faggiola vivevano con poco, tiravano a campare e dopo qualche settimana, con settanta stomaci in più da riempire, erano spremute fino alla buccia. Delle due l’una: o si cambiava zona o si portavano i rifornimenti dalla città. Mirco raccontava che all’Albergo di Cortecchio, quando stava in uno dei primissimi gruppi di resistenza armata, c’era una trafila di vecchi comunisti che faceva arrivare le provviste una volta alla settimana. Cinquanta chilometri di sentieri e mulattiere di montagna, per evitare controlli e non destare sospetti. Lo stesso percorso che ho seguito fin qui. Imola, Pediano, Isola, Rivola, Ca’ di Budrio, Passo del Prugno e il crinale, col segnavia CAI 701. Ma un conto sono le provviste per diciotto ragazzi, facili da nascondere e da trasportare. Un altro è organizzare un servizio simile per il triplo di bocche. E poi c’era la questione dell’acqua, che sulla Faggiola non bastava mai, mentre nella vallata di un torrente come il Rovigo, se ne doveva trovare per forza di più. Invece, l’ultima fonte che m’ha riempito la borraccia era proprio sotto la cima della Faggiola, prima di scendere al passo Paretaio, dove s’incontra la strada scavata dagli Alleati dopo lo sfondamento della Linea Gotica. Un bel fiotto fresco, abbondante. Poi solo massi riarsi e litri di sudore, sulla salita spaccagambe al Cimone della Bastia. “Quando la guerra sarà finita, piglieremo i fascisti e gli faremo buttar giù le montagne”. La battuta di Mirco, durante gli spostamenti più faticosi, al buio, sotto il peso delle armi. La sua voce acuta, in classe, durante l’intervista con i miei studenti. Per un ragazzino della Bassa, le terre ripide erano un’ingiustizia da appianare. Ma anche gli altri partigiani la pensavano più o meno allo stesso modo. Sandro sedette sulla panca, in faccia alla valle, aprì la tasca superiore dello zaino e tastò con le dita in cerca del taccuino, tra i mille piccoli oggetti stivati là dentro. Sfogliò le pagine e lesse l’appunto che lo interessava.

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Luciano Bergonzini, nome di battaglia “Stampa”, Quelli che non s’arresero, 1957: “Si tratta di una zona assolutamente primitiva, che sembra negare ogni più elementare forma di vita umana, totalmente abbandonata dalla civiltà che le è attorno, preoccupata solo di mantenere il suo isolamento. Il nuovo presidio della Brigata è tutta terra bruciata e sentieri segnati dalle bestie, che si distinguono a fatica nel terreno arso e che ogni tanto riappaiono, quando si entra nelle macchie, orribili e tenebrose, che sembrano dominio della morte, o ci si avvicina ad un casolare della cui presenza ci si accorge solo a distanza di pochi metri, tanto simile appare ad un cumulo informe di sassi e di fango. Unica eccezione è Le Spiagge, un grande edificio moderno e razionale, un’oasi nella macchia nera della miseria, che solo qui sembra addolcirsi in un panorama rotto a tratti da isole verdi, alcune delle quali si allungano fino alla vetta del Carzolano, col suo ciuffetto di faggi, che è l’unico elemento d’allegria nel deserto che si perde a vista d’occhio e s’inabissa giù, nel Rio Rovigo, in una lunga distesa boschiva da secoli abbandonata dall’uomo”. Subito sotto, a matita, una citazione di segno opposto. Dal libro di Nazario Galassi, nome di battaglia “Rullo”, Partigiani nella linea gotica, pubblicato nel 1998. Quarant’anni dopo quello di Bergonzini. “Si apriva loro innanzi la splendida valle del Rovigo. Il fondo della gola è unico nel nostro Appennino. Il torrente scorre su di un letto di massi, affondato nel verde, dove per un processo di erosione, l’acqua impetuosa e limpidissima ha scavato, si direbbe per gioco, figure geometriche di ogni forma e misura. Vasche, cascate, cascatelle, cavernicole, laghetti si alternano in continue varianti.” Il vecchio partigiano, diventato escursionista, ha maturato una nuova sensibilità. Sandro ripose il taccuino e staccò dalla cintura il navigatore GPS. Ancora acceso. Ingrandì la mappa e la percorse con il puntatore, fino a inquadrare il segno azzurro del torrente. Nella peggiore delle ipotesi: scendere fino al Rovigo, riempire la borraccia, tornare su, accendere il fuoco nella stufa e mettere l’acqua a bollire in una pentola. Stasera me la bevo calda. Di notte si raffredda e domani la verso di nuovo nella borraccia. Prima però controlliamo che non ci siano sorgenti nei dintorni. Sulla cartina, dietro la porta del bivacco,

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non ho notato simboli confortanti. Bicchieri, rubinetti, zampilli. La mappa del navigatore ha il problema che certi dettagli compaiono solo oltre un determinato ingrandimento. Per perlustrarla in cerca di una fonte, bisogna scorrere una superficie ampia, in scala ridotta, su uno schermo minuscolo. Ok, proviamo solo i punti più probabili. Gli altri casolari, le basi della brigata. L’Otro, la Faina. Niente gocce, secchi, S azzurre. Ca’ di Vestro, Rovighello. Nulla. Pian dell’Aiara era un vero e proprio paese, con tanto di oratorio. Vuoi che non ci sia una fonte? Zero spaccato. Campo Ripaldi, Fontanelle. Se non c’è acqua lì. Il quadratino della casa sfiora una linea celeste, un affluente del Rovigo. Rio Secco. Ci mancavano solo i toponimi in conflitto. Se è secco il rio, saranno secche anche le fontanelle, specie con ‘sto caldo. I Diacci è un rifugio del CAI. Mercoledì, metà giugno. Magari è chiuso, ma ha comunque un rubinetto, un bagno accessibile. Tra andare e tornare ci vorranno un paio d’ore. Meglio non fare tanta strada per niente. Vediamo in Rete se ci sono gli orari, i servizi, qualche foto dove s’intravedono spruzzi. Con le dita già sul cellulare, Sandro lo risvegliò, ma solo per scoprire di non avere campo, sia per la Rete che per le chiamate. Nessun servizio. Per il sentiero più breve, la discesa fino al Rovigo sarà una mezz’ora. Più tre quarti d’ora al ritorno, trecento metri di dislivello. Una di quelle scarpinate che facevano rimpiangere a Mirco le sue strade di campagna, dove le uniche salite finiscono in cima all’argine del fiume. Galassi ricorda che molti partigiani, nei tre mesi vissuti quassù, non sono scesi al torrente nemmeno una volta. Lo stesso vale per le donne montanare, che del Rovigo non conoscevano la grande cascata, e che si allontanavano dal cortile solo per attingere alle pochissime sorgenti, con due secchi appesi a una stanga, detta e’ bazell, e due fiaschi in una sporta di iuta. Mirco non ha dovuto rintuzzare a lungo la sua avversione per le montagne. Nel maggio ’44 è tornato in pianura ed è diventato gappista. La sua famiglia abitava a Bubano, dieci chilometri a nord di Imola. Mirco era scappato di casa a gennaio, in bicicletta. Aveva compiuto da poco sedici anni. Appeso al manubrio teneva uno zaino con un cambio d’abito, poche lire, una pagnotta. Indossava un paio di scarpe adatte giusto al fango dei campi, non per la neve dell’Appennino.

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Al Ponte della Fossa ha incontrato un amico, poco più grande di lui. Dante Cassani, che lavorava in sartoria. Hanno pedalato in silenzio, mentre il sole tramontava, fino alle prime case della città. L’hanno aggirata, lungo l’antico tracciato delle mura, perché attraversare il centro era troppo rischioso. Peccato. Mi sarebbe piaciuto immaginarli mentre passano sotto la casa natale di Andrea Costa, “apostolo del socialismo”. Due giorni fa, alla vista di quella lapide, ho alzato il pugno per salutare. Pochi passi più avanti, facce risentite dietro un banchetto della Lega. Domenica si vota per il sindaco. I giornali scrivono che il primo cittadino di Imola potrebbe cambiare colore, per la prima volta dal Dopoguerra, quando i partigiani riportarono in municipio Giulio Miceti, costretto a dimettersi nel ’21, per le aggressioni e le minacce dei fascisti. Cambiare colore. Come se dal rosso di Miceti a quello di Renzi, non ci fosse già in mezzo un arcobaleno. Sandro si armò di borraccia, costume da bagno e asciugamano. Già che scendo al torrente, tanto vale approfittarne. Uscito dalla corte di Ca’ di Cicci, imboccò in salita la strada forestale che lo aveva portato al bivacco. Nelle orecchie, l’esplosione lontana di una mina. Le cave di pietra serena, sulle balze che precipitano verso il letto del Santerno. Fino a qualche anno fa, c’erano solo quelle a scempiare la valle. Ora s’è aggiunta l’enorme ferita di San Pellegrino, dove il TAV esce dalle gallerie e sparge intorno la sua bava di ferro e cemento. Passò di nuovo sotto al grande affresco colorato, una valchiria, che qualcuno aveva dipinto sulla rupe. Una sentinella guerriera, nascosta tra gli arbusti e i gradoni di roccia. Chissà perché. Non tutte le tracce che si incontrano nel paesaggio sono comprensibili. La maggior parte sfugge alla vista. Non capiamo la lingua dei luoghi e spesso nemmeno ci accorgiamo che parlano. Gli uomini e le donne che hanno vissuto qui, nell’estate del ’44, hanno lasciato un’infinità di segni in più, rispetto alle poche decine che sappiamo riconoscere. Questo non è soltanto il palcoscenico sul quale si sono esibiti. Le scenografie, il sipario e le luci che videro esistere Graziano Zappi detto Mirco. Se fosse così, non sarei salito a piedi fin quassù. Che m’importa di recitare nello stesso teatro? Qualcuno sostiene che rimettere in scena è un modo per conoscere il passato. Se voglio capire cosa spinse Mirco a tornare a casa e diventare gappista, devo ricostruire la situazione nella quale

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decise e poi provare a pensare come lui. Ripetere quella scelta nel mio cervello. Qualcuno sostiene che gli storici è questo che fanno. Se così fosse, allora tra le fonti e i documenti che permettono di comprendere le azioni e i pensieri di un morto, si potrebbe considerare anche il paesaggio che aveva intorno. O quel che ne resta. Pensiamo e agiamo con il corpo, dunque non è indifferente dove quel corpo si trovava. Che mutande indossava. Se il cappello gli faceva prurito oppure no. Forse quei tizi che riproducono le antiche battaglie, vestiti come lanzichenecchi, mangiando zuppa medievale e dormendo su pagliericci la notte prima, forse quei tizi non sono pazzi scatenati, e nemmeno adulti che si ostinano a giocare ai soldatini. In realtà sono storici serissimi, devoti al metodo di Robert George Collingwood. History as re-enactment of past experience. Forse loro lo sono, ma io no. Mi sta bene il paesaggio come testimone vivo, che può ancora raccontare, quando i testimoni umani sono tutti morti. D’accordo. E mi sta bene il paesaggio come fonte storica e pure il paesaggio come scenario, nel quale rivivere gli atti del passato per capirli meglio. Tutto più o meno giusto. Ma non è per questo che sono salito quassù. Non è per questo che ho inseguito un’ombra, un passo dopo l’altro, in cammino per i posti che l’hanno ospitata. Un individuo in giacca e pantaloni mimetici comparve in cima al dosso, oltre il quale la carrareccia spariva, dietro pini piantati di recente. Pini che Mirco e gli altri non hanno visto di sicuro. Portava in mano un sacchetto di plastica, sul fondo del quale, in trasparenza, s’indovinava una macchia scura. Funghi? Uno che li raccoglie in quel modo, non m’ispira grande fiducia, ma chiediamo lo stesso. «Scusi, sa mica se qua vicino c’è una sorgente d’acqua?» «Non vicino.» rispose l’uomo «Però se prendi il sentiero che da Pian dell’Aiara scende giù, nel castagneto, a un certo punto sulla destra ti trovi un seccatoio, e lì dietro c’è un tubo. Ci ho bevuto stamattina.» Sandro ringraziò e impugnò il navigatore. Per Pian dell’Aiara ci saranno due chilometri. Venti minuti al massimo. Più altri venti per scendere giù fino al Rio Secco, ma se il tubo è “a un certo punto”, dev’essere prima… Al ritorno è tutta salita, diciamo tre quarti d’ora. In un’ora e un quarto me la cavo. Non sarà vicino, ma va benissimo così. Intanto il tizio è già dietro la curva, scende di buon passo, gli vado dietro. Ho lasciato lo zaino dentro il bivacco, non si sa mai.

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Fino a domattina lo chiamerò casa e come tale già m’ispira un senso di proprietà. Difesa del territorio. Fino a domattina, chi si avvicina è un potenziale intruso. Andiamo a controllare che fa. Quando Sandro aprì la porta, dell’intruso non c’era traccia. La stanza aveva lo stesso odore, le stesse disposizioni di dieci minuti prima. Tutto a posto. L’occhio gli cadde sulla tanica di plastica vuota, sotto la vasca del lavello. Svuotò il sacco dalle ultime provviste, i vestiti asciutti, la tenda monoposto, le scarpe di ricambio. Stese sul piano basso del letto a castello il materassino per la notte e lo gonfiò con la bocca. Fece lo stesso con un piccolo cuscino e srotolò il sacco a pelo. Già che ci sono, apparecchio anche la tavola. Sarà bello tornare e trovare la cena già pronta, il letto fatto. La cena era una busta di pane nero affettato, una scatoletta di farro e verdure bollite, una mela, una barretta ai cereali. Dispose il tutto in ordine, con le posate al posto giusto e una maglietta grigia a mo’ di tovaglia. Infilò la tanica nello zaino e ripartì. La strada forestale scendeva di quota, all’ombra di castagni, faggi e noccioli. Sandro inspirò l’odore del bosco, la sua apparente solitudine. In realtà, ogni singolo albero è dimora di uccelli, ghiri, cicale. Affollato quanto un condominio di venti piani a Kowloon, Hong Kong. Uno sterminato e fittissimo tappeto, intessuto di movimenti, andirivieni, pasti, gesti quotidiani, traiettorie. Compiti presenti e impronte di mansioni passate. Che lo si sappia o no, camminare è seguire i segni lasciati da qualcuno che è già stato lì. Rebecca Solnit dice che non è diverso da leggere un libro. Però un libro lo posso chiudere, un paesaggio no. Un libro contiene avventure e personaggi, un luogo è un nodo di tutte le avventure e le vicende che lo attraversano. Un nodo non contiene i fili. È fatto dal loro intreccio. Le case di Pian dell’Aiara affioravano come scogli tra gorghi di felci e rampicanti. Un’erba più bassa e sottile permetteva di riconoscere la piazzetta del paese, col grande fienile in comune. L’oratorio si distingueva per un’apertura insolita, rotonda, al centro della facciata, sotto il culmine del tetto. Un rosone in formato ridotto e senza pretese. Dalla porta sberciata, oltre una tenda di vitalba, tra le travi cadute e altri detriti, s’intuiva l’affresco dietro l’altare.

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Una Madonna azzurra, di lato, senza San Giovanni né crocifisso. Al suo posto un roveto, cresciuto nell’umido delle macerie. Anche le altre dimore del borgo alloggiano inquilini vegetali. Chi un acero, chi un nocciolo. Si direbbe che non hanno mai smesso di essere abitate, anche se alcune erano già vuote quando i partigiani le scelsero come ricovero. L’abbandono umano di queste montagne non è un fenomeno del Dopoguerra, gli anni Sessanta, il boom economico e l’attrazione irresistibile di un’esistenza più confortevole. Di qua la gente se ne voleva andare già negli anni Trenta. Il sogno di molti era un contratto da mezzadri giù in pianura. Sai che lusso! Ma già le spese per il trasloco mettevano paura. E poi col fascismo era diventato più difficile, per chi coltivava la terra, lasciare i luoghi di residenza. Chi ci riusciva, rischiava di essere rispedito a casa con foglio di via, se perdeva il lavoro. La battaglia del grano richiedeva braccia e spingeva a coltivarlo anche in terreni poco fecondi, al posto di frutta e ortaggi. La dieta peggiorava, i pascoli diminuivano. Le uniche entrate venivano dalla vendita del carbone di legna, della lana e delle castagne. Ecco perché in un borgo di soli sei casolari c’era un oratorio. L’unica utopia concessa ai montanari era quella ultraterrena. Ecco perché aprirono le porte a chi offriva loro un posto nella Storia, con un anticipo di giustizia sul Giudizio Universale. Poi la Storia se li tenne, quei montanari, ma si tenne anche la giustizia, in cambio dell’automobile e della lavatrice. A sinistra dell’edificio di culto, il sentiero per il Rio Secco si addentrava nel castagneto. Alberi giganti che hanno nutrito le famiglie con chili di polenta dolce e marroni abbrustoliti. Tronchi scolpiti dai secoli in divinità silvane e allegorie. Il terreno, un tempo curato come un prato all’inglese, per consentire la raccolta dei frutti, è disseminato di rami, scaglie di roccia e coriandoli di rosa selvatica. Si scende a tornanti. Uno, due, tre. Dove diavolo sta il seccatoio, il tubo per l’acqua? Vuoi vedere che quel tizio mi ha mandato fin qua, per svaligiare indisturbato i miei averi a Ca’ di Cicci? La preziosa tenda sarcofago monoposto. Il materassino che all’acquisto era grande come un pacchetto di sigarette, ma non si è mai più ripiegato allo stesso modo. Due scatole di fagioli al sugo pronto. Il saccapelo extralight. Pazienza. Adesso devo riempire tanica e borraccia. Mal che vada, anche per di qua si scende al Rovigo. In un modo o nell’altro all’acqua ci arrivo. Tubo, torrente o fiume che sia.

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Mirco e Dante sono arrivati in bici al ponte sul Santerno, di fronte al parco delle Acque Minerali. Ci sono passato anch’io, ma non è lo stesso ponte. Distrutto dai bombardamenti, ricostruito dopo la guerra. Adesso lo attraversi e sull’altra sponda trovi la pit lane dell’Autodromo Ferrari. Oltre le barriere, vedi spuntare i caschi dei motociclisti. Intuisci il passaggio di esseri veloci. Senti il rombo dei motori che s’inseguono. Che t’inseguirà fin sulle colline, per un’ora abbondante. I due ragazzi avevano appuntamento a una chiesina, dietro il Monte Castellaccio. La chiesina non so dove sia. Avrei dovuto chiedere a Mirco, l’ultima volta che ci siamo visti. Quand’è stato, più di un anno fa? Il Monte Castellaccio non è un monte, 60 metri sul livello del mare. Oggi è racchiuso dal circuito, dietro la curva del Tamburello. Per raggiungerlo si passa sotto la pista e poi di nuovo sotto, per proseguire il cammino. Muri di cemento ricolmi di graffiti. Mirco e Dante hanno lasciato le bici per continuare a piedi, insieme ad altri quattro, guidati da un uomo di nome Franco. Non so di preciso che strada abbiano preso. La tappa successiva era Pediano, per raccogliere armi. Fucili da caccia, vecchie munizioni della Grande Guerra, pistole sottratte dalle caserme, durante la confusione dell’8 settembre. Sotterrate dal contadino del prete, dentro vecchie botti, perché sopravvivessero alla ruggine, fino al momento di sparare di nuovo. Guardando la mappa, ci sono due alternative per raggiungere Pediano. Percorrere la valletta del Rio Rondinella e poi salire allo spartiacque tra Santerno e Senio, oppure camminare da subito sul filo del crinale. Ho scelto la seconda ipotesi, anche se la prima dev’essere più piacevole. Sterrata, lontana dal traffico, segreta. Probabile che Mirco sia passato di lì. Ma la traccia è indicata come “sentiero non segnato.” C’è il rischio di incappare in reti, cancelli, cani e privati proprietari con l’ossessione di godere in esclusiva dei loro terreni. La seconda ipotesi invece è asfaltata, pubblica via. La chiamano “Strada del vino e dei sapori” e in effetti domina un paesaggio di vigne, aziende agricole, dolci colline. Interrotto dalla voragine di una discarica. Ai margini della carreggiata, lenzuoli con scritte spray, tesi tra gli alberi, invocano la bonifica del sito. Stop all’allargamento. Difficile pensare a un posto più idiota per collocare una gigantesca pattumiera. Ma se puoi costruire una pista di Formula 1 sul contorno di un vecchio parco termale ottocentesco, polmone verde di un’intera città, allora non c’è da stupirsi se con

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le stesse mani apri una cava d’immondizia in mezzo a calanchi e filari di vite. Enormi camion di rifiuti lanciati ai settanta all’ora su una stradina panoramica. Guardrail fuori formato, asfalto che si spacca, incubi a quattro ruote. Non può essere solo idiozia. È chiaro, i rifiuti sono una copertura. Nei poderi intorno a Pediano hanno sepolto ben più che vecchi fucili arrugginiti. Armi non convenzionali. Prototipi sovietici. Macchine ammazza-fascisti. Conservati anche dopo la guerra, dietro il paravento della stazione ecologica. In caso di necessità, scavare qui. Ecco spiegato “l’allargamento” che i lenzuoli osteggiano. Altro che allargamento. L’ora è giunta. L’avvenire è già presente. Si scava di nuovo. Finito di scavare, Mirco e Dante hanno salutato Franco e si sono incamminati dietro al Vecchio Nardi, altrimenti noto come signor Battista. Un padre di famiglia che s’era messo ad aiutare i ribelli, insieme alla moglie Maria. Li guidava, li riforniva, badava alle armi e ai rifugi. Entrambi erano stati convinti dal figlio Giovanni, detto Caio. Ventun anni, studente all’istituto magistrale. Uno che a quanto dicono era capace di convincere anche le statue. Per combattere i fascisti, Caio era stato in Istria, nel settembre ’43. Esperienza negativa. Tutti i compagni morti, tranne uno. Di ritorno in Romagna, s’era messo d’impegno per organizzare la resistenza sull’Appennino e convincere il PCI che l’impresa era possibile anche sulle montagne dietro casa. Il Vecchio Nardi ha condotto il gruppetto a Isola, sulla riva del Senio. Una frazione di Riolo, ai piedi della Vena del Gesso, questa parete di selenite e specchietti minerali, piantata di traverso rispetto al corso dei fiumi, che tanto la bucano senza troppi sforzi. Loro sono arrivati in piena notte, io nel primo pomeriggio. Loro hanno dormito in una casa disabitata, io nel parco giochi, di fianco a una casetta di legno per feste e abbuffate collettive, dedicata “a Roberto”. Il vento scuoteva le foglie di un pioppo cipressino. Uno scuolabus bianco si è fermato e sono scese di corsa tre ragazze. Le campane hanno battuto due rintocchi. Lontano, dietro gli alberi e le villette, un rumore di crollo, che ho scoperto prodotto dalle auto di passaggio su un ponticello di assi. L’ho scavalcato anch’io, prima di affrontare la salita alle rupi dai mille barlumi, cosparse di querce e ginestre. Borgo Rivola, ultimo rifornimento d’acqua. La chiesetta del Sasso Letroso. Asciutta. Il rifugio speleologico di Ca’ Budrio.

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Nemmeno una goccia. Il chioschetto delle piadine al Passo del Pugno. Chiuso. I miei sensi di rabdomante mi hanno consigliato di spingermi fino a Monte Battaglia. La famosa torre, ruderi di un’antica rocca. Il memoriale del grande combattimento, sostenuto da partigiani e Alleati assieme. Ci fanno commemorazioni, visite ufficiali. Dev’esserci almeno una fontana. E infatti, nell’area di sosta. Grandi tavoli per mangiate collettive. La baracca di legno, aperta per la notte. I grilli nel buio. Le luci di Imola, Castel San Pietro e Bologna. Prima di partire da Isola, i nuovi arrivati hanno consegnato i soldi. Si potevano tenere al massimo 150 lire. Chi aveva di più, doveva versarlo nella cassa comune. Chi aveva di meno, riceveva la differenza, in modo che tutti partissero con la stessa cifra in tasca. Poi è venuto il momento dei nomi di battaglia. “Mirco” si è chiamato così per ricordare un compagno jugoslavo di Caio, morto in battaglia. Fino a quel momento era stato Graziano. Perfino sua moglie, almeno in mia presenza, lo chiamava Mirco. Dante invece fu soprannominato Gario, perché gli sarebbe piaciuto Garibaldi, e poi era biondiccio come l’eroe dei due mondi, ma per un ragazzino alle prime armi, quel nome per esteso era troppo impegnativo. E Gario si chiama il figlio di Mirco, nato una ventina d’anni più tardi. In memoria di un amico perduto troppo presto. Ecco il seccatoio, cresciuto insieme ai castagni, con l’aiuto di mani umane. Però di quello diciamo che è costruito, mentre gli altri ci sembrano Natura. Tendo l’orecchio per individuare la sorgente. Nessun piacevole sgocciolio, scroscio, fievole ruscellare. Ripenso alle parole del tizio in mimetica. “Lì dietro”. Sandro imitò il gesto con la mano, a disegnare una piccola svolta. Girò intorno all’edificio diruto. All’interno, un mosaico di lattine, bottiglie, tappi a corona e scatolame. Scavalcò rami, abbatté felci, si scapicollò su e giù per la guancia della montagna. Non c’è l’ombra di un tubo. Il tipo mi ha davvero ingannato. Falciò con un ramo i ciuffi d’artemisia, spostò arbusti con le braccia. Niente. Scorato e inviperito, Sandro Davoli riprese a scendere nel bosco, verso la piega profonda del Rio Secco. Verso l’acqua sicura del torrente Rovigo. Cinquanta metri più sotto, in uno slargo, il tubo promesso usciva dalla parete di un lavatoio, tappezzato di muschi e radici scoperte. Il getto abbondante riempì la tanica da cinque litri in appena un minuto. Sandro ne approfittò per lavarsi

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la faccia, i piedi e le ascelle. Quindi ripartì in salita, di nuovo a Pian dell’Aiara. Di nuovo sulle tracce dei montanari, dei partigiani, degli assetati della valle. Come un cacciatore che segue le peste di una preda, e non può limitarsi a leggerle, se vuole incontrare la bestia. Non può soltanto interpretare a chi appartengono, dov’è diretto, quanto pesa e tutte le altre informazioni che si possono ricavare da quegli indizi. Deve anche viverli. Comportarsi come l’animale che fugge, per prevederne la corsa. Usare l’empatia, più che la chiave di un codice. Il corpo intero, più che il solo cervello. Muoversi come la preda, più che star fermo a studiarne le orme. Farsi condurre a spasso da lei, come succede con un cane al guinzaglio. Credi di portarlo in giro a pisciare, e invece è il cane che guida il passeggio. Credi di camminare il sentiero e invece è il sentiero che ti cammina. Sono quelli che l’hanno seguito prima di te, che gli hanno dato forma con i piedi e le suole. E i tuoi piedi rispondono alle loro impronte, come la voce risponde a un’altra voce. Il corpo, mentre cammina, dialoga con chi ha plasmato l’ambiente. Piante, animali, esseri umani. Tocca gli avanzi del loro passaggio, le incisioni della loro vita, il loro andirivieni sulla terra. È come un liuto che viene pizzicato dalle dita del paesaggio, e viceversa è un dito che si appoggia sulle sue corde, che ne saggia la resistenza, l’intonatura e ad essa si adatta per suonare una musica di passi. Aggiungere le sue impronte. Camminare è un dialogo, non si è mai soli. Seguire un sentiero è ricordare, anche se non si sa che cosa. È aggiungere il proprio filo di vita all’intreccio di fili che compone un luogo. Le linee dei movimenti che l’attraversano e non quelle dei confini che dovrebbero racchiuderlo. Solo gli spazi si possono chiudere, non i luoghi. Ma gli spazi si occupano, al passo dell’oca, marciando, guidando un carro armato o una betoniera. Achtung, banditen! I luoghi si abitano, si vivono. E la vita è un continuo spostarsi, alzarsi, camminare. Fermarsi è come trattenere il fiato. Sandro arrivò a Cà di Cicci che l’aria s’era fatta più fresca. Nessuna catastrofe in mia assenza. Pensa se di ritorno l’avessi trovata in fiamme. Saccheggiata dai barbari. Invasa da un branco di lupi. Infestata dai topi. Sedette al tavolo apparecchiato e divorò la cena. Una volta mi portavo dietro il fornelletto, le pentole, la pasta da cuocere, la macchina del caffè. Altri tempi, altra schiena. Depositò la tanica sotto il lavello e scattò una foto

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con il cellulare alla stanza approntata per la notte. Provò a inviarla sulla chat familiare. Nessun servizio. Ieri notte, a Monte Battaglia, ho passato la sera scrivendo ai miei figli, mandando foto, cercando su Internet aneddoti e notizie sul circondario. La discarica di Tre Monti. Le battaglie della Trentaseiesima. Gli agriturismi in zona. L’autodromo sull’orlo del fallimento. E stasera? Sono le sette, mancano almeno un paio d’ore prima di riuscire a chiudere occhio. Come le impiego? Forse risalendo verso la Faina, più allo scoperto, prima o poi il segnale ritorna. Sandro si rimise in cammino, di nuovo sotto lo sguardo della Valchiria. Gli occhi non si vedono, ma li immagino azzurri. Ancora una salita, ogni spostamento è un dislivello. Comincio a capire l’allergia di Mirco per l’orografia. Ma non è stata quella a spingerlo in pianura. Lui e Dante sono arrivati all’Albergo di Cortecchio, sul versante orientale della Faggiola, guidati da un muratore di nome Cavina. Sono rimasti un mese in quel casolare abbandonato, tutto spifferi e finestre rotte, dormendo sul fieno sparso nella cucina e nell’ovile. Aspettavano di unirsi al distaccamento del Falterona, che contava già cinquecento ribelli e soltanto la metà dei fucili. Una nevicata di quattro giorni ha reso impossibili gli spostamenti. A mala pena si riusciva a trovar da mangiare, grazie alle scorte accumulate dal Vecchio Nardi, ai soldi del CLN di Riolo e alla generosità dei contadini. Nell’attesa Caio, l’aspirante maestro, animava le discussioni sul fascismo, sul futuro e sul Manifesto di Marx ed Engels. Si asciugavano le munizioni e le armi nel forno. Si imparava a sparare. Si affermava, anche solo stando assieme, che esisteva un’alternativa, tra l’esercito repubblichino e la soffitta di famiglia. Tra soldati e sbandati, tra il Re e Mussolini. Nella notte tra il 22 e il 23 febbraio, mentre Caio era sceso a Imola per discutere il da farsi, tre colonne di fascisti sono partite dai fondovalle del Senio e del Santerno per il primo rastrellamento nella zona. Erano più di 200 uomini contro un gruppo di venti ragazzi. Volevano fare la voce grossa, ma una bufera di neve li ha bloccati, e soltanto in pochi hanno raggiunto il crinale sopra l’Albergo. Hanno piazzato le mitragliatrici alle prime luci dell’alba. Mirco era già sveglio, diretto insieme ad altri al casolare di Valdonica, dov’era il magazzino delle provviste. Gli altri, svegliati di soprassalto, hanno tentato la difesa.

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Hanno ucciso il custode delle carceri di Imola, che guidava la pattuglia. Quindi i fascisti sono riusciti ad avvicinarsi abbastanza per dar fuoco al fienile e quando le fiamme hanno costretto i partigiani alla sortita, hanno catturato due prigionieri e colpito a morte due diciottenni. Dante Cassani e Libero Zauli. I fuggitivi hanno trovato rifugio sulle pendici della Faggiola, grazie all’accoglienza delle famiglie montanare. Dopo qualche giorno, si sono ritrovati a valle, nella borgata di Rivola, lungo il Senio, da dove il sentiero che ho seguito s’inerpica sulla Vena del Gesso. A questo punto Mirco era di nuovo nelle terre basse, poteva tornarsene a casa, ma non lo ha fatto. Non gli andava di affrontare la famiglia, che di sicuro non l’avrebbe fatto scappare un’altra volta, mentre nel giro di una decina di giorni, si voleva tentare finalmente la via del Falterona. Soprattutto, non se la sentiva di presentarsi dalla madre di Dante per dargli la notizia della morte del figlio. È rimasto a Rivola, poi nella canonica di Monte Mauro, sulla Vena del Gesso. È andato a combattere sul Falterona e di nuovo si è ritrovato a fuggire da un rastrellamento. È tornato sulla Faggiola, alla Dogana, e poi alle Spiagge, nella Valle del Rovigo. Ha fatto in tempo a partecipare alle prime azioni della brigata: un’imboscata contro le SS, sulla strada Faentina, che ha fruttato un prigioniero e parecchio denaro; un attacco ai cantieri della Linea Gotica, al passo del Giogo; l’irruzione nel cinema di Firenzuola, con l’assalto alla caserma dei Carabinieri; il tentativo fallito di festeggiare il Primo Maggio a Palazzuolo. La brigata s’è poi divisa in tre gruppi, per moltiplicare il numero dei suoi interventi. L’8 maggio ci si doveva ritrovare sotto il Cimone della Bastia. Il gruppo di Caio ha tardato un paio di giorni. Mentre ci si chiedeva che fine avesse fatto, un taglialegna ha portato la notizia che una colonna di cento fascisti risaliva da Casetta verso il crinale. I partigiani si sono schierati al riparo del bosco, pronti a dare battaglia, ma le camicie nere non sono arrivate. Mirco, che aveva l’aria innocente del ragazzino, è sceso a Casetta per capire cosa succedeva. Arrivato in paese, ha scoperto che i fascisti avevano assalito il gruppo che mancava all’appello, avevano ucciso sette uomini e ferito altri due. Uno era Caio. Lo avevano finito a pugnalate, contro il muro dell’Otro, poi avevano dato fuoco alla casa, con l’altro ferito dentro. I sassi neri di fumo ci sono ancora, nel cumulo delle rovine.

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Dopo la disgrazia, i partigiani sono tornati alla Dogana della Faggiola. Lì, alla metà di maggio, Mirco s’è visto venire incontro suo padre, accompagnato da un contadino della zona. Il signor Manlio aveva cercato il figlio su tutte le montagne dov’erano segnalati gruppi di ribelli. Prima sul Falterona, poi di nuovo tra Imola e Faenza. Di fronte agli altri partigiani, non ha confessato il vero motivo di tanto cercare. La madre voleva rivederlo, – ha detto – piangeva, lo credeva morto. Il comandante Bob gli ha concesso una licenza di quindici giorni. Mirco è tornato a casa. A Bubano, ha scoperto che il padre si era accordato con il maresciallo del paese. Il 25 maggio scadeva l’ultimatum ai ribelli, per presentarsi in tutte le caserme d’Italia e godere dell’amnistia accordata dal regime. Mirco avrebbe dovuto autodenunciarsi, senza confessare nulla e senza fare nomi. Solo un foglio da firmare, una dichiarazione spontanea. Alla fine si è lasciato convincere, ma pochi hanno fatto altrettanto, nonostante la grande propaganda. Nelle settimane successive, la brigata non ha smesso di ingrossarsi, e lo stesso Mirco, una volta riconquistata la fiducia dei compagni, è tornato a combattere con i ribelli. Questa volta in pianura. In cima alla salita, Sandro si aggirò in cerca del segnale. Vana speranza. Incappò invece in una capannina informativa del Complesso Forestale Giogo Casaglia. All’andata non me n’ero accorto. Lesse le varie sezioni sulla flora e la fauna, finché non arrivò a un paragrafetto, intitolato: “Pian dell’Aiara e la Valle del Rovigo”. “Durante l’ultima guerra, – diceva – Pian dell’Aiara e gli insediamenti vicini furono sedi di varie formazioni partigiane, e tante furono le esecuzioni da ambedue le parti.” Guarda tu se uno deve camminare due giorni, arrivare da Imola a mille metri d’altezza, per leggere anche quassù stronzate del genere. “Varie formazioni partigiane”. Era una soltanto, la Trentaseiesima, divisa in varie compagnie. “Tante esecuzioni da ambedue le parti”. Quali parti, se ne hai nominata una sola? Cos’è, non si può dire fascisti? E cosa s’intende per esecuzioni? Esecuzioni di ordini? In questo caso la frase sarebbe corretta, ma pure scontata. Esecuzioni capitali? Esclusi cioè i morti in battaglia? Allora no, non furono

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affatto “tante” per entrambe le parti, perché il tribunale della brigata ne eseguì ben poche – contro delatori o ladri che si spacciavano per partigiani – mentre i nazifascisti, com’è noto, non si risparmiarono rappresaglie, fucilazioni e omicidi dimostrativi. Sandro si frugò le tasche, pur sapendo che non ci avrebbe trovato il pennarello che sperava. Provò a proseguire la lettura, nonostante il disgusto. La frase successiva era un peana per il pievano di Casetta di Tiara, che “con strategia e coraggio riuscì a salvare tante persone”. Quindi ecco lo schema: i partigiani dediti a tante esecuzioni, al pari di quegli altri, innominabili. E l’uomo di chiesa, né rosso né nero, né ribelle né fascista, disarmato, che mette al sicuro i suoi parrocchiani. Tacendo che quel prete, don Rodolfo Cinelli, collaborava con la brigata, si riuniva con il suo comando, discuteva e amministrava con i partigiani tutte le questioni, dal ricovero degli sfollati alla trebbiatura del grano, dal problema delle rappresaglie a quello dei prigionieri. Arrabbiato e afflitto, Sandro Davoli tornò a Cà di Cicci. Il sole si era ormai ritratto dallo spiazzo affollato di piante. Non resta che andare a dormire, sperando che i ghiri non si dedichino a scorribande notturne. La stanza era in penombra, pronta a salutare l’arrivo delle stelle. Non c’è bisogno di accostare gli scuri. Domani sveglia presto, bisogna visitare le altre case, salire sul Carzolano, essere per le due a Crespino del Lamone, prendere il treno per Faenza, rientrare a casa. Addormentarsi è come perdersi, non ti accorgi mai del momento esatto in cui succede. La notte passò tranquilla, giusto una pisciata verso le quattro, per godere il fresco, le stelle, il silenzio del bosco. A Bologna non mi capita mai. E d’altra parte, che ci sarebbe da godere, con la scusa di svuotare la vescica? Al mattino, Sandro si alzò ben riposato, contento, senza dolori sospetti alle gambe o alle spalle. Unica sorpresa: lo zaino invaso da minuscole formiche. Altro che casolare disabitato! Impiegò una buona mezz’ora per scrollare gli insetti dagli ultimi abiti puliti, dalle cuciture delle tasche e degli spallacci, dai contenitori del poco cibo rimasto, dal fondo del sacco. Alla fine, dopo una colazione con pane e marmellata, si ritrovò a sedere sulla panca, di fianco all’ingresso, pronto a rimettersi in cammino. Ogni passo nel presente, in avanti,

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è anche un passo indietro, nel passato. Sandro si affacciò alla porta, per controllare di non aver lasciato nulla. Se lascio nei luoghi un segno della mia presenza, se allacciando il mio filo a tutti gli altri aiuto il nodo a mantenersi vitale, allora ogni passo che mi allontana è anche un ritorno. Ma cosa ho lasciato, a Ca’ di Cicci, per poter dire che ci sto già tornando? Chissà se c’è un foglio di carta pulito, bianco. Il mio taccuino è già tutto scritto, fin nel retro di copertina. Trovò una mezza pagina di quaderno ancora vuota, tra gli oggetti abbandonati nell’acquaio. La strappò, grande come una cartolina. Potrei scrivere che questa fu la sede dell’ottava compagnia. Comandante: Sergio Bonarelli, da Ozzano Emilia. Commissario, un certo Renato. Ancorare la memoria ai sassi di questa casa. Indifferenti alla morte. Trentaseiesima Brigata Garibaldi. Milleduecento effettivi, quattrocento collaboratori, centosettantadue caduti. Nata da quel primo gruppo di ragazzi, all’Albergo di Cortecchio, e poi da altri, di varie provenienze, anche russi, e di varie convinzioni politiche. Ancorare la memoria, per stimolarla. Per innescare curiosità che la rinnovino. Per offrirle una fonte. Una sorgente. Ma perché scegliere questo casolare e non le rupi che lo sovrastano, la strada forestale, il sentiero che scende a Ca’ di Vestro, i tetti sfondati di Pian dell’Aiara, il castagneto, i vecchi pascoli, la Valchiria? Perché staccare un brandello di luogo, come se fosse uno scoglio nel mare, per attaccarci le funi di una nave alla deriva? Sandrò guardò il foglio, se lo rigirò tra le dita. Non basterebbe nemmeno per scrivere un decimo della storia della Brigata. E se non la scrivi tutta quanta, nei dettagli, a che serve? A che serve sapere che qui dormirono i ragazzi dell’ottava compagnia? A che serve se poco sopra, al bivio del sentiero, si dice che ci furono “tante esecuzioni, da entrambe le parti”? Serve a dire che qui non c’è una sorgente d’acqua, ma sgorgano storia e bellezza. Il passato, in splendida posizione panoramica. Già mi vedo l’annuncio su Tripadvisor. Sulla Lonely Planet della Toscana. Su AirBnB. Un attimo dopo, bellezza e passato diventano petrolio, una ricchezza da estrarre fino a prosciugarla. Oggi, per una città, essere pittoresca, piena di storie, multietnica e dimora di artisti è quasi matematicamente una maledizione.

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Dobbiamo ammirare un’altra bellezza. La bellezza di un luogo che rimane vitale, perché chi attraversa la sua architessitura si preoccupa di nutrirla. Sandro prese in mano la penna, appoggiò il foglio sul tavolo. “Oggi, 16 giugno 2018, ho riempito la tanica dell’acqua. La sorgente si trova dopo Pian dell’Aiara, sul sentiero che scende nel castagneto, cinquanta metri più in basso di un essiccatoio. È circa un’ora di cammino, tra andare e tornare. Da quel che so, non ce n’è una più vicina (ma d’estate potrebbe essere asciutta). Chi finisce la tanica, o la trova vuota, è pregato di tornare a riempirla. Grazie. Firmato: Bonarelli Sergio, detto Sergio. Ottava compagnia. Trentaseiesima Brigata Garibaldi.” Staccò un chiodo dalle travi del tetto e lo usò per appendere il foglio alla bacheca di compensato, di fianco ai cartelli che raccomandavano di portare a valle i rifiuti e rispettare questo luogo. Poi si tirò in piedi, fece due passi e si chiuse alle spalle la porta di casa.

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Nel luglio del 1944 la 36ª Brigata Partigiana Garibaldi Bianconcini, composta da circa 400 combattenti, si sposta nella valle del fiume Rovigo, nell’Appennino tosco-romagnolo, insediandosi nelle case coloniche sparse tra le montagne. Il Comando ritenne che questa zona, nonostante si trovasse nel mezzo delle manovre dell’esercito tedesco per la fortificazione della Linea Gotica, per la sua natura impervia potesse costituire un rifugio sicuro per i suoi uomini e per l’organizzazione di azioni di sabotaggio.

In July 1944, the 36th Brigade, the Garibaldi Bianconcini partisans, comprised of roughly 400 fighters, moved into the Rovigo river valley in the Appenines between Tuscany and Emilia-Romagna, bunking down in the farmhouses scattered across the mountains. Although this area was at the centre of German manoeuvres fortifying the Gothic Line, the Command maintained that its impervious terrain would provide a safe place for its partisans and for organising sabotage operations.



Rifugio – 44.06539 N 11.48279 E



Rovighello – 44.08453 N 11.45754 E



L’Otro – 44.09886 N 11.46324 E



Le Colline – 44.11098 N 11.45573 E



Pian di Rovigo – 44.06407 N 11.46368 E



Altello – 44.06663 N 11.46716 E



Ca’ di Cicci – 44.08168 N 11.46292 E



Val Cavaliera – 44.07305 N 11.46159 E



Ca’ di Vestro – 44.08080 N 11.46998 E



Faina – 44.09559 N 11.47105 E



Campo Ripaldi – 44.09781 N 11.45541 E



La “Linea Gotica” (dai Tedeschi chiamata Grüne Linie, Linea Verde) era una linea difensiva che tagliava in due la penisola italiana e si estendeva per 320 km. Per la sua costruzione furono impiegati 17.000 genieri tedeschi e 50.000 lavoratori italiani. In un rapporto della 10ª Armata Tedesca si contavano, nel solo settore adriatico, 2.375 postazioni per mitragliatrice, 479 postazioni per armi controcarro e mortai, 27 grotte per i posti comando, 16.000 postazioni per fucilieri, circa 97.000 mine, 117.000 metri di filo spinato e 9.000 metri di fossati anticarro.

The Gothic Line (called the Grüne Linie, i.e. Green Line, by the Germans) was a defensive line that extended for 320 km, effectively cutting the Italian peninsula in two. 17,000 German sappers and 50,000 Italian workers were involved in its construction. A report by the 10th German Army noted, in the Adriatic sector alone, 2,375 machine gun posts, 479 posts for mortars and anti-tank weapons, 27 command post bunkers, 16,000 rifle positions, roughly 97,000 land mines, 117,000 metres of barbed wire, and 9,000 metres of anti-tank trenches.



44.03248 N 11.46340 E



44.02867 N 11.47352 E



44.03317 N 11.47141 E



44.04260 N 11.46127 E



44.04259 N 11.46179 E



44.03356 N 11.47228 E



L’assalto degli Alleati alla Linea Gotica, denominato “Operazione Olive”, iniziò il 26 agosto 1944. Il 17 settembre, in una giornata di scontri non particolarmente cruenti, l’artiglieria sparò 12.718 colpi (più di 800 tonnellate di munizioni). Gli artificieri dell’Esercito compiono ogni anno circa 3.000 interventi (una media di oltre 8 al giorno) per disinnescare i residuati esplosivi dei conflitti armati che hanno coinvolto il territorio italiano più di 70 anni fa.

“Operation Olive”, the Allied army assault on the Gothic Line, began on 26th August 1944. On the 17th September, a fairly routine day of combat, the artillery fired 12,718 times (more than 800 tons of munitions). Today the Italian army bomb disposal squads carry out roughly 3,000 interventions a year (an average of 8 a day) to defuse residual explosives from the armed conflict on Italian territory that occurred more than 70 years ago.


Bomba per mortaio da 60mm / 60-mm mortar bomb


Munizioni 30.06 Springfield / 30.06 Springfield cartridges


Bombe per mortaio da 2 pollici / 2-inch mortar bombs


Bombe per mortaio da 60mm / 60-mm mortar bombs


Bomba per mortaio da 2 pollici / 2-inch mortar bomb


Granata esplosiva per fucile K98 / Explosive grenade for K98 rifle


Granata MK2 / MK2 grenade


Granata per fucile M9A2 / Grenade for M9A2 rifle



Just Ask the Beeches

Wu Ming 2


Tired but satisfied, Sandro Davoli trod the path amidst the young grass, towards the cabin on the rocky spur. Only the chimney and the polished door distinguished the building from the mountain stone. The same stone as the walls, the roof. Older than life, a stranger to death. Whole even when split. With no other concern than savouring the dust, the wind, storms, time. Miniscule cube of stones—the abode of gnomes—which I will call home until tomorrow morning. Not much larger than a drying hut, like the ones you encounter in the chestnut woods. Yet it had housed an entire Company. I think it was the Eighth. Commander Sergio Bonarelli, known as Sergio. Born in Ozzano, in 1920. Second lieutenant and tank man, then deserter and draft dodger. Political commissar, Renato. About him I know nothing else. About sixty partisans, in early August ’44. Summer heat, dry nights. They must have slept outside, on straw. Either that or the cottage is what remains of a larger structure. Barn, stable, storeroom. Ruins hidden below the plants, covered by the lacy yarrow flowers. This was where Domenico Tagliaferri lived, independent farmer. I still haven’t worked out whether he had a family or lived on his own. His name repeats in the Brigade’s hideouts. Tagliaferri: “iron-cutters”. The stock of blacksmiths, or knights so strong that they could split the enemy’s armour with a sword stroke. There are Tagliaferris at Pian dell’Aiara, Val Cavaliera, L’Altello, I Diacci, Serra, Molino dei Diacci. Tagliaferris on the bell tower, the gravestones and letterboxes, in Casetta di Tiara, the only living village in this valley. A hundred years ago, during the other war, in August 1916, here the poet Dino Campana and the writer Marta Felicina Faccio, nom de plume Sibilla Aleramo, spent a journey called love. Dino, Dino, Dino. How, without telling you that I adore you, to send you a few small words that sparkle and caress you more than the stars? The stars around Casetta. The sun of Bastia that has browned my hands. Now there are a dozen inhabitants. They claim they are descendents of a handful of Byzantine people who fled from the Exarchate of Ravenna, ahead of a horde of Lombard warriors, in the eighth century. Proof of such would be the local dialect, which, among terms from Romagna and a Tuscan accent preserves words of Greek origin—unknown elsewhere in the Apennines.

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A swarm of white butterflies flutter over the meadow, and two come to rest on the top of a post, with blackish bark, which seemed to have put down roots in that flinty soil of clandestine plants. Sandro read the sign nailed to the wood. Ca’ di Cicci. In their books, both Galassi and Bergonzini always write “Ca’ di Ciccio”. I think due to erroneous etymology. Ca’ di quello, Ca’ dell’altro—this person’s house, that person’s house. They often indicate the ownership of a building. Predial toponyms they are called. You get up here, you hear them talking about “Ca’ di Cicci” and you think that Cicci must be the nickname of a tenant from the old days. Except that Cicci is a nickname for a “tabac”, a city boy. It would be fine for someone like Paolo Betti, the mechanic from Lugo who belongs to the First Company. A polite twenty-odd-year-old, thin as a rake. However, the mountain dwellers are tough, with shoulders this wide. Cicci? No way. Rather it would be Ciccio, “fatty”—that would be an adequate “scutmai”, or appellation. No, landowners or tenant farmers had nothing to do with it. “Di Cicci” is a phytonym; it means “dei ceci”, or “of the chickpeas”. Although who knows where they grew them. Hereabouts there is nothing but scree and ravines—weeds, hazelnut trees and the odd cherry tree are the only things that grow. Sandro ascended the earthen steps and sandstone slabs, between two slender trunk banisters, and, from the terrace that opened onto the valley, he leaned out with his elbows on the railing. That was where it happened. He arrived here. These beeches, now grown over the vegetable gardens that were, gave him shelter. This fort of leaves and crags, which now appears so peaceful, saw him fight and risk his life. An enemy never forgotten and poverty, even more so than the bombs, in the end emptied it out. The light is the same, in this late spring afternoon, spreading like resin over every protuberance. Why do we chase shadows? Why tail a man who is no more, following his footsteps after three quarters of a century, to see where his flight from home took him? While I was studying the maps, I told myself that Mirco was dead, at over ninety years old, and, as he had been the youngest of the Thirty-sixth Brigade, he would surely have been one of the last to go. Time to pass on the torch, the end of an era. We would no longer hear of the adventures of the Brigade

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from those who were there, as my students did when Mirco came to my school, and we got to know his laugh. Crystalline, but through clenched lips—almost as if he were embarrassed to once again discover the humorous side of humanity. From now on, the only living creature that could still tell us those stories will be the landscape, the places into which they are woven. Sandro lowered his gaze onto the mountains that bit into the horizon. Only trees and sky to divvy up the world. Tat tvam asi—that is what you are. Just like at the sea, when you dive in to touch the bottom, head first. Or when you are on the road, and you pass by some road-works and the pneumatic drill cracks open the asphalt. Then, for a moment, everything else disappears, including you. You are the liquid coolness that envelops you from head to toe. You are the sound that invades your ears and cancels out voices. You are this wood that spills over the top of the ridges and oozes like foam down to the river gorge, where the banks brush past against each other and fold, hiding the course of the Rovigo from view. You are the backpack that weighs around your waist and on your shoulders after eight hours of walking. Sandro unfastened the buckle of the straps around his hips. With one shoulder strap gripped in his right hand, he freed his left arm from the other. He rotated his torso ninety degrees and, resting the bag on his right thigh, liberated his right arm too, placing the twelve-kilogram burden on the bench next to the entrance. This morning an about-ten-to-seven wake-up in the wooden hut, found by chance near the Monte Battaglia fortress. A luxury room compared to the nylon sarcophagus with aluminium frame that is known as a single-man tent. At the roofless church at Valmaggiore, the only human beings of the day. “Do you know if there’s any water, from here to Ca’ di Cicci?” “You’re going way out there? How nice! We used to have such cook outs…” But no springs, water-fountains or cemeteries. Cemeteries are a guarantee. There exists no graveyard without a tap for watering the hedges and filling the vases of chrysanthemums. Having opened the door, Sandro studied the trappings of the only room. Two imposing bunk beds, simple planks on iron frameworks; a solid table with

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four stools; a cast-iron stove, complete with kindling, saw, firelighters, newspaper and lighter. That accounts for the smell of smoke. On the far wall, two shelves full of tins, butane canisters for travel stoves, tea-lights, and leftovers sealed in plastic bags. Because of the dormice, explains a slip of paper. The wash-basin, built into the space under the only window, is full of memo pads, clothes pegs, more candles, pots, pans and bottles, both glass and plastic. Sandro lifted them up one by one. Empty. Under the stone basin, next to the rubbish bin, he discovered a five-litre jerry-can. Empty as well. Not even a shadow of a tube or siphon. Liquids remaining in the backpack, less than a glass. And tomorrow another day of walking, away from villages or habitation, once again without knowing where to fill the flask. I should have brought two. He searched outside the walls of the building, except for that facing over the drop. Unlikely they would have installed a drinking fountain there. He descended to the clearing below the cottage, hunting for a pipe, a spring, a slick of revealing mud. With a stick, he poked about in the yellow gorse next to the two picnic tables. The smell of pollen and sun-warmed petals. He circled the barbecue pit and the black poplar wedded to the house. He followed the traces of the dry-stone walls, long since buried by briar and moss. If they had been built to keep in the animals, they may lead to a drinking trough. Disappointed, he went back into the refuge for a final exploration. He examined the memo pads abandoned in the sink, the map affixed to the back of the door, and the papers nailed to a plywood notice-board. Greetings, reminders, guides to recognising animal footprints. “Take your rubbish down the valley”, “Keep this place tidy”, but no information about drinking water. Strange that such a well-kept refuge would leave a thirsty traveller with a dry mouth. Nazario Galassi writes that the partisans moved to this valley, at the end of April ’44, because on the Faggiola where they had been it was too complicated to keep the Brigade—which at that time was still called “the Fourth Garibaldi of Romagna” and numbered about seventy men—supplied. In three months they would number more than 1200. Mount Faggiola marks the border between the provinces of Bologna, Florence and Ravenna. The partisans were staying in the Dogana—the old border station of the Grand Duchy of Tuscany.

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Except for that building, the area was isolated, and it still is today. A few farmhouses around the summit, distant from one another. From the start, the tenant farmers had accepted requisition vouchers signed by Moro. They handed over the landowner’s portion and saddled him with that slip of paper, with the promise that after the war, once Italy had been liberated, the new government would repay every gram of flour. That way it was the landowners taking the risk, not the poor. Independent farmers were asked for the percentage that the Fascist law required given over for storage. When the moment came, they went into the village and displayed the voucher rather than the yield. Why did you give it to those bandits? The ready response: “and you, why don’t you protect us from them?” The other village-folk, in an orderly queue, would elbow each other. “The Blackshirts don’t set foot up there. They’re scared.” “Who knows how many rebels there are! At least ten thousand.” Furthermore, on the receipts the partisans always wrote a greater amount than that which they took away, so that the farmer would be able to pocket the difference and the confiscation would work out well for him too. But the farms on the Faggiola subsisted with little, they barely got by, and after several weeks, with seventy more stomachs to feed, they had been squeezed completely dry. One of the two: either relocate or get supplies from the city. Mirco recounted that at the Albergo di Cortecchio, when he was in one of the very first armed resistance groups, there was a network of old communists who got the provisions brought in once a week. Fifty kilometres of mountain pathways and mule tracks to avoid checkpoints and avert suspicion. The same trail I followed here. Imola, Pediano, Isola, Rivola, Ca’ di Budrio, Passo del Prugno and the ridge, with the road marking CAI1 701. But provisions for eighteen young men are one thing—easy to hide and transport; organising something similar for three times the mouths would be quite another. And then there was the issue of the water supply, which was never enough on the Faggiola, while in the valley of a river like the Rovigo, obviously there would be more to find. However, the last spring that had filled my flask was just that under the summit of the Faggiola, before descending to the Paretaio pass, where you encounter the road dug out by the Allies after

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the Gothic Line was smashed. A nice fresh gush; abundant. Then only parched rock and litres of sweat, on the leg-breaking ascent to Cimone della Bastia. “When the war is over, we’ll get the Fascists and make them tear down the mountains”. The joke by Mirco during the most tiring manoeuvres, in the dark, loaded down with weapons. His high voice, in class, during the interview with my students. For a boy from the plains, the steep terrain was an injustice to be flattened. Not that the other partisans were not of the same mind. Sandro sat on the bench, facing the valley, opened the upper pouch of his backpack and probed with his fingers for his notebook, among the thousand small objects stowed away in there. He leafed through the pages and read the note that he was interested in. Luciano Bergonzini, whose combat name was “Stampa”, Quelli che non s’arresero2, 1957: “It is an utterly primitive area, which seems to deny every simplest form of human life, totally abandoned by the civilisation that surrounds it, concerned only with maintaining its isolation. The new garrison of the Brigade is all scorched earth and pathways marked by animals, which are difficult to make out in the burnt terrain, and which reappear every so often, when you enter the spots, gloomy and awful, that seem to be the dominion of death, or you get close to a cabin, whose presence you become aware of only a few metres away, so much does it resemble a pile of stones and mud. The only exception is Le Spiagge, a great modern and rational edifice, an oasis in the black stain of poverty, which only here seems to soften into a panorama broken by the occasional island of green, some of which stretch out towards the summit of the Carzolano, with its tuft of beech trees, which is the only cheerful element in the desert that is lost before your eyes and sinks down, at the Rovigo River, into a long woody expanse that has been abandoned for centuries by mankind”. Immediately underneath, in pencil, a quote to the contrary. From the book by Nazario Galassi, combat name “Rullo”, Partigiani nella Linea Gotica3, published in 1998. Forty years after that by Bergonzini. “Before them opened up the splendid Rovigo valley. The bottom of the gorge is unique in our Apennines. The stream runs over a rock bed, sunk into the green, where, through a process of erosion, the impetuous and crystal clear water

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has gouged out, as if for fun, geometric figures of every shape and size. Basins, waterfalls, rapids, caverns and pools alternate in continuous variants.” The old partisan, now a hiker, has developed a different type of sensibility. Sandro put down his notebook and unclipped his GPS navigator from his belt. Still on. He enlarged the map and explored it with the cursor until the blue shape of the stream came into frame. In the worst-case scenario: empty out the backpack, put in the 5-litre jerry-can, go down to the Rovigo, fill it up, come back up, light the stove and put the water on to boil in the largest pan. Tonight I’ll drink it warm. It’ll cool down overnight, and tomorrow I’ll fill us up the flask. First, however, let’s check that there are no springs around here. On the map on the back of the refuge door, I didn’t notice any comforting symbols. Drinking glasses, taps, jets of water. The problem with the GPS map is that certain details only appear beyond a certain level of magnification. To search it thoroughly for a source of water, it would be necessary to scroll through a large surface, in reduced scale, on a miniscule screen. Ok, let’s try only the most probable points. The other farmhouses, the brigade’s bases. The Otro, Faina. No drops, buckets or blue Ss. Ca’ di Vestro, Rovighello. Nothing. Pian dell’Aiara used to be a proper village, complete with oratory. Do you reckon there wouldn’t be a water source? Absolutely nothing. Campo Ripaldi, Fontanelle: “little fountains”. If there’s no water there... The grid square with the house in it borders on a light-blue line, an influent of the Rovigo. Rio Secco, “Dry River”. Conflicting toponyms are the last thing we need. If the river is dry, the water fountains will be dry too, especially in this heat. I Diacci is a CAI refuge. Wednesday, mid June. It may be closed, but it will have a tap, an accessible bathroom. Getting there and back will take a couple of hours. Best not to go all that way for nothing. Let’s have a look on the internet for any opening times, services, any photos where you can catch a glimpse of spray. With his fingers already on his cell phone, Sandro woke it up, but only to discover that there was no signal, either for internet or for calls. No signal. By the shortest path, the descent to the Rovigo would be half an hour. Plus three-quarters of an hour for the return; a three-hundred-metre drop. One of those climbs that made Mirco miss the roads in his home-town, where

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the only ascents end at the tops of the river-banks. Galassi remembered that many partisans, in the three months that they lived up here, never went down to the stream, not even once. The same could be said of the mountain women, who knew nothing about the great falls of the Rovigo, and only left their courtyards to dip into the very few springs, with two buckets hanging from a carrying pole, known as “e’ bazell”, and two flasks in a jute bag. Mirco did not have to swallow his aversion for the mountains for long. In May ’44 he went back down to the plains and joined a GAP4 resistance group. His family lived in Bubano, ten kilometres north of Imola. Mirco had run away from home in January, by bike. He had just turned sixteen years old. Hanging from his handlebars he had a backpack with a change of clothes, a few lire and a loaf of bread. He was wearing a pair of shoes that were perfect for muddy fields, but not for the Apennine snow. At Ponte della Fossa he met a friend, not much older than him. Dante Cassani, who worked at a tailor’s. They pedalled in silence as the sun went down, until the first houses of the city. They circled it, along the ancient traces of the walls, because it would have been too risky to cross the centre. A pity. I would have liked to imagine them while they passed below the house where Andrea Costa, “apostle of socialism” was born. Two days ago, at the sight of that commemorative plaque, I raised my fist in salute. A few paces further on, offended faces behind a stall for the Lega5. On Sunday there would be the mayoral election. The newspapers were saying that Imola’s first citizen could be of different political colour, for the first time since the War—when the partisans brought Giulio Miceti, forced to step down in ’21 due to threats and assaults by the fascists, back into the municipal building. Changing colour. As if there were not already an entire rainbow between the red of Miceti and that of Renzi6. Sandro armed himself with his drinking flask, swimming trunks and a towel. As I’m going down to the stream, I might as well make the most of it. He left the Ca’ di Cicci courtyard and hit the ascending forest trail that had led him to the cabin. In his ears echoed a distant explosion. The pietra serena7 mines on the cliffs that plummet towards the Santerno riverbed. Until a few years ago, there were only those splitting the valley. Now there has been added

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the enormous gash at San Pellegrino, where the high-speed train exits the tunnels and spreads its trail of iron and concrete. He once again passed underneath the great coloured mural, a valkyrie, that someone had painted on the rock face. A warlike sentinel, hidden among the shrubs and stone terracing. Who knows why. Not all the traces you come across in the landscape are easy to comprehend. The majority are beyond our ken. We don’t understand the language of places, and often we are not even aware that they are speaking to us. Men and women used to live here; in the summer of ’44 they left infinitely more signs than those few dozen that we are able to make out. This was not merely the set upon which they performed, the backdrops, the curtain and the lights that watched the existence of Graziano Zappi, known as Mirco. If it were like that, I wouldn’t have come all the way up here on foot. Why would I care to recite on the same stage? Some maintain that re-enacting an event is a way to get to know the past. If I want to understand what prompted Mirco to return home and join the GAP, I have to reconstruct the situations in which he made this decision, and then try to think as he did. To go over that scene in my mind. Some say that this is precisely what historians do. If that is the case, among the sources and documents that enable the actions and thoughts of a dead man to be understood, we could also consider the landscape that surrounded him. Or that which remains of it. We think and act with our bodies; therefore the place in which that body found itself is not irrelevant. What underwear he had on, if his cap itched or not. Maybe those guys who re-enact ancient battles, dressed as lansquenets, eating medieval soup and sleeping on straw mattresses the night before, are neither raving lunatics nor adults obstinately playing at soldiers. In reality they are the most serious historians, devotees of the Robert George Collingwood method. History as re-enactment of past experience. Maybe they are, but I’m not. I’m ok with the landscape as a living witness that still has a tale to tell after all the human witnesses are dead. Fine. And I’m ok with the landscape as a historical source, and even with the landscape as a set for the acts of the past to be relived in order to better understand them. All more or less correct. But that is not why I came up here. That is not why I am chasing a shadow, one step after another, walking among the places in which he stayed.

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A figure in camouflage trousers and jacket appeared at the top of the crest, over which the rutted path disappeared, behind pines that had recently been planted—pines that Mirco and the others certainly did not see. He carried in his hands a plastic bag, in the bottom of which, transparently, a dark form could be made out. Mushrooms. Someone who gathered them like that did not inspire great confidence in me, but let’s ask anyway. “Excuse me, but you wouldn’t happen to know if there’s a source of water nearby, would you?” “Not nearby,” responded the man, “but if you take the path that goes down from Pian dell’Aiara, through the chestnut woods, at a certain point on your right you’ll find a drying house, and behind it there there’s a pipe. I drank from it this morning.” Sandro thanked the man and got out the GPS. There were about two kilometres to Pian dell’Aiara. Twenty minutes max. Plus another twenty to get down to the Rio Secco, but if the pipe is at “a certain point”, it must be before that… On the way back it’s all uphill—let’s say three quarters of an hour. I’ll be done in an hour and a half. It might not be close by but it would do fine. Meanwhile the guy has already gone round the bend, descending at a good pace, I’ll follow him. I’ve left the backpack in the refuge, better safe than sorry... Until tomorrow I’ll call it home, and as such it inspires a sense of ownership in me. Defending my territory. Until tomorrow morning anyone who gets close is a potential intruder. Let’s go and see what he is up to. When Sandro opened the door, there was no sign of the intruder. The room had the same smell, the same arrangement as ten minutes ago. Everything in its place. His eye fell on the empty plastic jerry-can underneath the sink. He emptied his bag of the remaining provisions, his dry clothes, the single-man tent, the spare pair of shoes. He laid out his mattress for the night on the bottom bunk of the bed and blew it up by mouth. He did the same with a small inflatable pillow, and unfurled his sleeping bag. While I’m at it, I’ll set the table too. It will be nice to come back and find my dinner ready. Dinner was a bag of sliced rye bread, a tin of boiled spelt and vegetables, an apple and a cereal bar. He got everything in order, with the cutlery in its correct place and a grey t-shirt in lieu of a tablecloth.

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He slid the jerry-can into his rucksack and set off again. The forest trail descended steeply, shaded by chestnut, beech and hazel trees. Sandro breathed in the smell of the forest, his apparent solitude. In reality, every single tree is home to birds, dormice and cicadas. As crowded as a twenty-storey apartment block in Kowloon, Hong Kong—a huge dense mat, mingled with movements, comings and goings, meals, daily activities and trajectories. Present duties and the imprints of chores past. Whether you know it or not, to walk is to follow the signs left by people who have already been there. Rebecca Solnit says that it is no different from reading a book. However, you can put down a book, but a landscape no. A book contains adventures and characters; a place is a knot of all the adventures and affairs that pass through it. A knot does not contain threads—it is created by their entanglement. The houses at Pian dell’Aiara surfaced like rocks among eddies of ferns and climbing plants. A shorter, finer grass enabled the small village square—with large communal barn—to be discerned. The oratory could be distinguished by an unusual round opening in the centre of the facade, under the peak of the roof. A small, unpretentious rose window. From the doorway, through a curtain of vines, among fallen beams and other detritus, a glimpse of the fresco behind the altar. A blue Virgin, sideways on, accompanied by neither Saint John nor a crucifix. In its place a bush, sprung up from the damp rubble. The other houses in the village also had plants as tenants—here a maple, there a hazel. You could say that they had never ceased to be inhabited, even though some were already abandoned when the partisans chose them as shelters. The human desertion of these mountains was not a post-War phenomenon—the 1960s, the economic boom, and the irresistible attraction of a more comfortable existence. People were already wanting to leave this place in the 1930s. The dream of many was a sharecropping contract down on the plains. What luxury! But already the expense of the move was frightening. And with Fascism it had become more difficult for those who cultivated the soil to leave their places of residence. Those who managed to risked being sent back home with an expulsion order if they lost their jobs. The battle of the wheat required arms, and led people to grow it even in less fertile soils, instead of fruit

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and vegetables. The diet deteriorated, the pastures shrank. The only income came from the sale of charcoal, wool and chestnuts. That was why in a village with only six farmhouses there was an oratory. The only utopia conceded to the mountain-dwellers was beyond this realm. That was why they opened their doors to those who would offer them a place in History, in anticipation of justice at the Last Judgement. History held them, those mountain-folk, but also withheld justice, in exchange for a car and a washing machine. To the left of the place of worship, the path for Rio Secco went deep into the chestnut wood. Gigantic trees that had fed the families with kilos of sweet polenta and roasted chestnuts. Trunks sculpted by the centuries into sylvan divinities and allegories. The land, once tended like an English lawn to enable the nuts to be gathered, is now scattered with branches, flakes of rock and confetti of wild roses. The descent is all hairpin bends. One, two, three. Where the hell is the drying house, the water pipe? Want to bet that that guy sent me all the way here to go through my belongings at Ca’ di Cicci undisturbed? The precious one-man tent sarcophagus. The blow-up mattress that when it was purchased was as big as a packet of cigarettes but has never again folded up in the same way. Two tins of ready-to-eat beans in sauce. The extra-lightweight sleeping bag. Oh well. Now I have to fill the jerry-can and flask. In the worst-case scenario, you can get to the Rovigo this way. In one way or another I’ll reach water. Whether tube, stream or river. Mirco and Dante arrived by bike at the bridge over the Santerno, opposite the Mineral Water park. I went there too, but it is not the same bridge. Destroyed by the bombardments, it was rebuilt after the war. Now you cross it and on the other bank you find the pit lane of the Ferrari Autodrome. Across the barriers, you can see the helmets of motorcyclists pop up. You sense the presence of fast beings. You hear the roar of engines chasing each other. It will follow you until you are on the hills, for well over an hour. The two boys had an appointment at a small church, the other side of Monte Castellaccio. I’ve no idea where the church is. I should have asked Mirco the last time we saw each other. When was that, over a year ago? Monte Castellaccio is not a mountain, 60 metres above sea level. Today it is hemmed in by the racetrack, behind

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the Tamburello bend. To get to it you have to go under the circuit and then under again in order to continue the walk. Concrete walls brimming with graffiti. Mirco and Dante left their bikes to continue on foot, with four others, guided by a man named Franco. I don’t know exactly which road they took. The next stop was Pediano, to collect weapons. Hunting rifles, old munitions from the Great War, pistols taken from the barracks during the confusion of September 8th. Buried inside old barrels by the priest’s farm-worker, in the hope that they would survive the rust, until it was time for them to fire again. Looking at the map, there are two alternatives for reaching Pediano. Walk along the Rio Rondinella valley and then go up to the fork between the Santerno and Senio, or go straight away along the narrow ridge. I chose the second hypothesis, even though the first must be more pleasurable. A dirt road, away from traffic, more secret. It is likely that Mirco went that way. But the trail is indicated as an unsignposted path. There is a risk of getting caught up in nets, gates, dogs and private owners obsessed with exclusive enjoyment of their grounds. Instead, the second hypothesis is asphalted, a public highway. They call it the “Road of Wine and Flavours”, and indeed it dominates a landscape of vineyards, agricultural firms and rolling hills. Interrupted by a landfill pit. At the edges of the carriageway, sheets with spray-painted slogans, hung between trees, urge for the site to be cleaned up. It is difficult to think of a more idiotic place for a gigantic litter bin. But if you can construct a Formula 1 racetrack on the edges of a nineteenth-century spa park—the green lung of an entire city—then it shouldn’t be surprising that the same hands create a rubbish dump among the ravines and rows of grape-vines. Enormous rubbish lorries launched at sixty miles an hour onto a scenic little road. Deformed guardrails, cracking asphalt, nightmares on four wheels. It cannot be idiocy alone. It is clear the rubbish is just a cover. In the farmsteads around Pediano they’ve buried much more than rusty old rifles. Unconventional weapons. Soviet prototypes. Fascist-killing machines. Kept even after the war, behind the screen of a recycling point. In case of need, dig here. That explains the “encroachment” that the sheets are protesting against. Forget the encroachment. The time is now. The future is here. Digging has begun again.

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Having finished digging, Mirco and Dante said goodbye to Franco and started walking behind Old Nardi, otherwise known as Mr. Battista. A family man who had started helping the rebels, together with his wife, Maria. He acted as a guide, gave them supplies, and watched over the weapons and refugees. Both had been persuaded by their son Giovanni, known as Caio. Twenty-one years of age, a student at the teaching college. One of whom it is said was able to convince even the statues. To fight against the Fascists, Caio had been in Istria, in September ’43. Not a pleasant experience. All of his comrades dead, except for one. Having returned to Romagna, he got busy organising the resistance on the Apennines and convincing the Italian Communist Party that the fight was feasible even on the mountains behind his home-town. Old Nardi led the small band to Isola, on the banks of the Senio. A hamlet near Riolo, at the foot of the Vena del Gesso—that wall of selenite and winking mineral mirrors planted crossways to the course of the rivers, which in any case pierced it without much effort. They arrived in the dead of night, I in the early afternoon. They slept in an uninhabited house, I in an amusement park, next to a wooden hut for parties and collective feasting, dedicated “to Roberto”. The wind rustled the leaves of a Lombardy poplar. A white school bus stopped and three girls quickly got off. The bells rang twice. In the distance, behind the trees and houses, the sound of falling rocks, which I discovered was produced by the cars passing over a small beam bridge. I walked over it too, before facing the climb to the cliffs of the thousand twinkling lights, sprinkled with oaks and gorse. Borgo Rivola, the last water refuelling stop. The little church at Sasso Letroso. Dry. The Ca’ Budrio cavers’ refuge. Not even a drop. The sandwich kiosk at Passo del Pugno. Closed. My dowsing skills advised me to push on to Monte Battaglia. The famous towers, ruins of an ancient castle. The memorial to the great battle, withstood by partisans and Allies together. They hold commemorations, official visits. There must be a drinking fountain at the very least. And indeed, in the rest area. Great tables for eating together. The wooden hut, open at night. The crickets in the dark. The lights of Imola, Castel San Pietro and Bologna. Before departing Isola, the new arrivals handed over the money. They could keep a maximum of 150 lire. Those who had more had to deposit it in the

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communal kitty. Those who had less received the difference, so that all left with the same amount in their pockets. Then came the moment of their battle names. “Mirco” was called that in memory of a Yugoslav comrade of Caio, dead in battle. Until that moment he had been Graziano. Even his wife, at least in my presence, called him Mirco. Dante, on the other hand, was given the nickname Gario, because he would have liked Garibaldi, added to that he was blondish like the Hero of Two Worlds, but for a fledgling fighter the appellation in full would be too much. And Gario is the name of Mirco’s son, born twenty or so years later. In memory of a friend lost too soon. Here’s the drying house, sprouted like the chestnuts with the aid of human hands. But one we say is constructed, while the other we perceive as nature. I cock my ear to locate the spring. No pleasant rushing sound, weak trickle, spray or drip. I think of the words of the guy in camouflage. “Behind it there.” Sandro imitated the gesture with his hand, drawing a small turn in the air. He walked around the ruined building. Inside, a mosaic of can, bottles, bottle caps and bits of tin. He clambered over branches, beat back ferns, and scrambled up and down the cheek of the mountain. Not even the shadow of a pipe. That guy really pulled a fast one. He scythed the tufts of mugwort with a stick, pushed aside bushes with his arm. Nothing. Discouraged and vexed, Sandro Davoli started off again down into the woods, towards the deep fold of the Rio Secco. Towards the sure waters of the Rovigo. Fifty metres ahead, in a clearing, the promised pipe protruded from the wall of a wash-house, carpeted with mosses and uncovered roots. The plentiful jet filled the five-litre can in just over a minute. Sandro took the opportunity to wash his face, feet and armpits. He then headed upwards again, back to Pian dell’Aiara. Again in the footsteps of the mountain folk, the partisans, the thirsty people of the valley. Like a hunter following the tracks of his prey, who cannot just read them if he wants to encounter the beast. He cannot merely interpret what they belong to, where it is headed, how much it weighs, and all the other information that can be gleaned from such clues. He must live them. Behave like the escaping animal, in order to predict its path. Use empathy rather than the key to a code. The entire body rather than just the brain.

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Moving like the prey rather than staying still and studying its tracks. Allowing yourself to be led by it, just like a dog on a leash. You think you are taking it out for a piss, but instead it is the dog which leads the way. You think you are walking along a path, but instead it is the path that walks you. It is those who have walked it before you who have given it form with their feet and soles. And your feet respond to their footprints, like one voice responds to another. While it walks, the body converses with those who shaped the land. Plants, animals, human beings. It touches the leftovers of their passing, the incisions of their lives, their comings and goings on the earth. It’s like an instrument that is plucked by the fingers of the landscape, and, vice versa, it is a finger that rests on its strings, which probes their resistance, their intonation, which adapts itself to play their music of paces. Adding its own footprints. Walking is dialogue—you are never alone. To follow a pathway is to remember, even if you don’t know what. It is to add your own thread to the tapestry that makes up a place. The lines of the movements that cross it, not the confines that would wall it in. Only places can be closed off. Not spaces. But the spaces are occupied—at a goose-step, marching, driving a tank or a concrete mixer truck. Achtung, banditen! Places are inhabited, they are lived. And life is continuous movement, getting up and walking. Stopping is like holding your breath. Sandro arrived at Ca’ di Cicci with the air having cooled a little. No catastrophe in my absence. Imagine getting back and finding it in flames. Sacked by barbarians. Invaded by a pack of wolves. Infested with rats. He sat at the set table and devoured his dinner. Once I used to bring a camping stove, pans, dry pasta to cook, and the coffee maker. Different times, a different back. He deposited the jerry-can under the sink and took a photo with his cell-phone at the room readied for the night. He tried to upload it to his family’s group chat. No signal. Last night, at Monte Battaglia, I spent the evening writing to my kids, sending photos, and scouring the Internet for anecdotes and local news. The tip at Tre Monti. The battles of the Thirty-sixth. Rural accommodation in the area. The autodrome on the edge of bankruptcy. And this evening? It’s seven o’clock, at least a couple of hours before I will be able to close my eyes. How am I going to spend them?

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Maybe going back up towards Faina, a kind of discovery mission—sooner or later the signal will come back. Sandro started off walking again, once more beneath the gaze of the Valkyrie. You can’t see the eyes, but I imagine they are blue. Another upward slope— every step a change in altitude. I’m starting to understand Mirco’s aversion to this terrain. However, it wasn’t that which drove him to the plains. He and Dante arrived at Albergo di Cortecchio, on the eastern side of the Faggiola, led there by a builder named Cavina. They stayed for a month in that abandoned building—all draughts and broken windows—sleeping on hay spread across the kitchen and sheepfold. They were waiting to join the Falterona detachment, which already numbered five hundred rebels and only half as many rifles. A four-day snowstorm made manoeuvres impossible. They only just managed to scrape together enough to eat—thanks to the supplies accumulated by Old Nardi, money from the Riolo branch of the National Liberation Committee, and the generosity of the farmers. During the wait, Caio, an aspiring teacher, led animated discussions on Fascism, the future, and Marx and Engels’ Manifesto. They dried their weapons and munitions in the oven. They learned to shoot. They asserted, even by just simply staying together, the existence of an alternative between the Republican army and the four walls of the family home. Between soldiers and drifters, between the King and Mussolini. On the night between the 22nd and 23rd of February, while Caio had gone down to Imola to discuss what was to be done, three columns of Fascists left from the bottom of the Senio and Santerno valley for the first sweep of the area. They were more than 200 men against a group of twenty boys. They wanted to assert their authority, but were held back by a snowstorm, and only a few reached the crest above the Albergo. They planted their machine guns in the early light of dawn. Mirco was already awake, together with others on the way to the farmhouse at Valdonica, where there was the store of provisions. The others, woken with a start, attempted a defence. They killed the Imola prison guard who was leading the patrol. Then the Fascists managed to get close enough to set fire to the barn, and when the flames forced the partisans to mount a sortie, they captured two prisoners and shot to death two eighteen-year-olds. Dante Cassani and Libero Zauli.

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The fugitives found refuge on the slopes of the Faggiola, thanks to the hospitable mountain families. After a few days, they found themselves down below, in the village of Rivola, along the Senio, where the path that I took climbs up the Vena del Gesso cliffs. At this point Mirco was once again in the lowlands—he could have gone home, but he didn’t. He didn’t want to face his family, who certainly would not let him get away again, while in around ten or so days he wanted to finally reach the Falterona way. Above all, he did not want to stand before Dante’s mother and give her the news that her son was dead. He stayed the night in Rivola, the next in the rectory at Monte Mauro, on the chalk cliffs. He went to fight on the Falterona, but again he found himself fleeing before another sweep. He returned to the Faggiola, the Dogana, and then to Le Spiagge in the Rovigo valley. He was in time to participate in the first actions of the Brigade: an ambush against the SS on the road to Faenza, which won them a prisoner and a considerable amount of money; an attack on the Gothic Line construction site at the Giogo pass; an incursion into the cinema at Firenzuola, with an assault on the military police barracks; the failed attempt to celebrate the first of May at Palazzuolo. The Brigade would then split into three groups, in order to multiply the number of their interventions. On the 8th of May they were supposed to regroup under the Cimone della Bastia. Caio’s group was delayed for a couple of days. While they were wondering what had become of them, a woodcutter brought them the news that a column of one hundred Fascists was ascending from Casetta towards the crest. The partisans lined up under the shelter of the wood, ready to do battle, but the Blackshirts never arrived. Mirco, who had the innocent air of a young boy, went down to Casetta to find out what was going on. Once in the town, he discovered that the Fascists had attacked the missing group—they had killed seven men and wounded two others. One was Caio. They stabbed him to death against the wall of the Otro, and then they set fire to the building, with the other wounded man inside. The smoke-blackened stones are still there, amongst the pile of ruins. After this catastrophe, the partisans returned to the Dogana on the Faggiola. There, in mid May, Mirco saw his father coming towards him, accompanied by

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a local farmer. Mr. Manlio had been searching for his son on all the mountains where there were groups of rebels reported. First on Falterona, then again between Imola and Faenza. In front of the other partisans, he had not confessed to his son the real reason for all this searching. His mother wanted to see him again, she cried, she believed he was dead. Commander Bob granted him fifteen days’ leave. Mirco went home. At Bubano, he discovered that his father had come to an agreement with the village marshal. On the 25th May, the ultimatum for the rebels—to present themselves to any police station in Italy and enjoy the amnesty agreed to by the regime—would expire. Mirco was supposed to report himself, without confessing to anything or revealing any names. Only a piece of paper to sign, a spontaneous declaration. In the end he let himself be persuaded, but few did the same, despite the great propaganda. In the following weeks, the Brigade’s ranks would not stop swelling, and Mirco himself—once he had regained his comrades’ trust—went back to fighting with the rebels. This time on the plains. At the top of the climb, Sandro walked to and fro in search of a signal. Vain hope. Instead, he came across a roofed information board erected by the Giogo Casaglia Forestry Complex. On the way here I hadn’t noticed it. I read the various sections on the flora and fauna until I reached a paragraph entitled “Pian dell’Aiara and the Rovigo Valley”. “During the last war,” read the paragraph, “Pian dell’Aiara and the nearby settlements were the sites of various partisan formations, and there were many executions on both sides.” You’re telling me that someone has to walk for almost two days, to get from Imola to an altitude of one thousand metres, to read rubbish like that, even up here? “Various partisan formations.” There was only one, the Thirty-sixth, divided into various companies. “Many executions on both sides.” Which sides, if you only named one? What, can you not say Fascists? And what do you mean by executions? Executions of orders? In this case the sentence would be correct, but would go without saying. Capital executions? Excluding those, that is to say, who died in battle?

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No then, there were not “many” on both sides at all, because the Brigade tribunal performed very few—against informers or thieves masquerading as partisans— while the Nazi Fascists, as is well known, did not spare themselves reprisals, firing deaths and demonstrative murders. Sandro rifled through his pockets, despite knowing that he would not find the marker that he was looking for. He tried to continue reading, in spite of his disgust. The subsequent sentence was an ode to the parish priest at Casetta di Tiara, who “strategically and courageously managed to save many people”. This is the framework, therefore: the partisans dedicated to many executions, on the same plane as those others, who cannot be named. And the man of the church, neither red nor black, neither rebel nor Fascist, unarmed, who gets his parishioners to safety. Saying nothing of the fact that that priest, don Rodolfo Cinelli, collaborated with the Brigade, met with its Command, discussed and administrated every issue with the partisans, from sheltering the evacuees to harvesting the grain, from the question of the reprisals to that of the prisoners. Angry and afflicted, Sandro Davoli returned to Ca’ di Cicci. The sun had by now retreated from the yard crowded with plants. There was nothing left to do but go to sleep, hoping that the dormice would not devote themselves to nocturnal raids. The room was in shadow, ready to greet the arriving stars. There was no need to close the shutters—tomorrow early wake-up. Must visit other houses, go up onto the Carzolano, get to Crespino del Lamone by two to catch the train to Faenza, get home. Falling asleep is like getting lost—you never notice the precise moment at which it happens. The night passed peacefully, with just a piss around four, to enjoy the coolness, the stars, the silence of the woods. That never happens to me in Bologna. On the other hand, what would there be to enjoy with the excuse of emptying my bladder? In the morning, Sandro got up well-rested, content, with no suspicious pains in his legs or shoulders. The only surprise: the backpack invaded by miniscule ants. So the cottage was not uninhabited after all. He spent over half an hour brushing the insects off his last set of clean clothes, out of the seams of the

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pockets and shoulder straps, off the few containers of food that remained, and from the bottom of the bag. In the end, after a breakfast of bread and jam, he found himself once more sitting on the bench next to the entrance, ready to get walking again. Every step in the present—forwards—is also a step backwards, into the past. If I leave a sign of my presence in places, if, by tying my thread to all of the others, I help the knot remain alive, then every step that carries me away is also a return. But what did I leave at Ca’ di Cicci, in order to say that I am already returning? Sandro looked into the doorway. Who knows if there is a clean sheet of paper, blank. My notebook is already full of writing, even the back of the cover. He found half a page of the memo pad that was still empty, among the objects abandoned in the sink. He tore it off, the size of a postcard. I could write that this was the headquarters of the Eighth Company. Commander: Sergio Bonarelli, from Ozzano Emilia. Commissar, a certain Renato. To anchor their memory to the stones of this house. Indifferent to death. The Thirty-sixth Garibaldi Brigade. One thousand, two hundred active members; four hundred collaborators; one hundred and seventy-two fallen. Given life by that first group of boys, at Albergo di Cortecchio, and then by others, of various provenance—even Russians—and of various political convictions. Anchor the memory to stimulate it. To trigger curiosity for its renewal. To provide a source, a spring. But why choose this cottage and not the cliffs that loom over it, the forestry trail, the path that descends at Ca’ di Vestro, the fallen-in roofs of Pian dell’Aiara, the chestnut woods, the old pastures, the Valkyrie? Why set apart one place, as if it were an outcrop in the sea, to which to attach the ropes of a drifting ship? Sandro looked at the sheet of paper, turning it over in his hands. It would not be enough to write even a tenth of the history of the brigade. And if you don’t write everything, in detail, what would be the point? What would it serve to know that here slept the boys of the Eighth Company? What would it serve if just above, at the fork in the path, it says that there were “many executions on both sides”?

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It would serve to say that here there may not be a spring, but there are floods of history and beauty. The past, in a splendidly scenic position. Already I can see the advertisement on Tripadvisor. In the Lonely Planet on Tuscany. On AirBnB. A moment later, beauty and past become petrol—a treasure to extract until it has dried up. Today, for a city, being picturesque, full of history and home to artists is almost inevitably a curse. We must admire another type of beauty. The beauty of a place that remains alive, because those who thread through its weave make the effort to nourish it. Sandro took up the pen, and rested the piece of paper on the table. “Today, 16th June 2018, I filled the jerry-can with water. There is a source of water beyond Pian dell’Aiara, on the path going down into the chestnut woods, fifty metres below a drying house. It’s about an hour walk, there and back. As far as I know, there isn’t one nearer (but it could be dry in the summer). To whoever empties the jerry-can, or finds it empty, please return and fill it. Thank you. Signed: Sergio Bonarelli, known as Sergio. Eighth Company. Thirty-sixth Garibaldi Brigade.” He pulled out a nail from one of the roof beams and used it to pin the note to the plywood notice-board, next to the card reminders to take any rubbish down from the mountain and to show respect to this place. He then pulled himself up, took two steps, and closed the door of home behind him.

1. Club Alpino Italiano, the Italian Alpine Club, responsible for marking and maintaining mountain paths. 2. Those Who Refused to Surrender 3. Partisans at the Gothic Line 4. Gruppi Azione Patriottica, small groups of partisans who, modelled on the French resistance movement, operated primarily in the city. 5. Lega, a right-wing political party founded on a separatist philosophy. 6. Matteo Renzi, Italian Prime Minister from 22nd February 2014 to 12th December 2016, generally described as a centrist. 7. A grey sandstone from Tuscany.

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La 36ª Brigata passò due mesi di relativa calma nella valle del fiume Rovigo, in quella che venne poi chiamata “Repubblica del Carzolano”. Vivendo la quotidianità con gli abitanti della zona e gli sfollati dei paesi del fondovalle ebbe modo di riorganizzarsi, compiere azioni di disturbo contro l’esercito tedesco e accogliere nuovi combattenti che in quel periodo arrivavano in un flusso continuo. Si passò così dai 400 uomini iniziali a più di 1.200, venne creata un’infermeria e al comando fu redatta una rivista chiamata “La Volontà Partigiana”.

The Brigade spent two relatively calm months in the Rovigo river valley, in what would later be called the “Republic of Carzolano”. Living day-to-day alongside the local inhabitants and refugees from the lowlands, they were able to reorganise and carry out disruptive actions against the German army, as well as gathering new recruits, which in those days continued to arrive in a constant stream. From an initial 400 men, the Brigade’s ranks swelled to 1,200. A nursing station was set up and a magazine called La Volontà Partigiana (“The Partisan Will”) was published at the command post.


Partigiani della Compagnia di Amato (sono riconoscibili A. Rossi, N. Cicognani) Partisans of the Amato Company (A. Rossi and N. Cicognani are recognisable)



Partigiani in un momento di svago Partisans at leisure



I Partigiani in un momento di sosta rammendano i panni (sono riconoscibili: Lupo, Pasquale, Ricci, Tolmino e Diolaiuti) Partisans mending clothes while waiting (Lupo, Pasquale, Ricci, Tolmino and Diolaiuti are recognisable)



Partigiani in un momento di svago Partisans at leisure



Andrea Gualandi detto Bruno, ufficiale del Comando di Compagnia con due staffette Andrea Gualandi, aka “Bruno�, Company Command official, with two runners



Staffette Partigiane Partisan runners



La Compagnia di Cachi The Cachi Company



Il partigiano Livio Poletti Livio Poletti, partisan



Partigiani della Compagnia di Cachi fraternizzano con i montanari Partisans from the Cachi Company fraternising with the mountain folk



Partigiani a Ca’ Torre di Fontana Moneta Partisans at Ca’ Torre in Fontana Moneta



Partigiani della 36a Brigata disarmati e avviati nelle retrovie alleate, dopo il passaggio del Fronte Partisans from the 36th Brigade, disarmed and sent behind Allied lines after the front passed



Guido Gualandi detto il “Moro”, commissario politico della 36a Brigata Guido Gualandi, aka “il Moro”, Political Commissar for the 36th Brigade



Partigiani e contadini dopo la trebbiatura del grano Partisans and farmers after the grain harvest



Le Spiagge, sede della Compagnia di Guerrino Le Spiagge, headquarters of the Guerrino Company



Questo libro è stato stampato grazie al contributo di / This book has been produced with the support of Susanna Aiazzi, Mirko Alagna, Eleonora Albisani, Andrea Alessandrini, Alfredo Altieri, Viola Ambrosino, Giulio Ammendola, Andrea and Magda, Pietro Andreini, Erminio Angeloni, Adele Bacci, Leonardo Baggiani, Giacomo Bagni, Simona Baldanzi, Giovanni Baldini, Christian Balsamo, Irene Balzani, Arturo Bandinelli, Mario Bandini, Tommaso Barbugli, Lisa Baroncelli, Silvia Bartoloni, Gessica Barzagli, Vanni Bassetti, Marc Batistini, Claudio Belotti, Enrico Bencini, Fabrizio Bernardi, Silvano Bernardis, Elia Bertacco, Alessio Bertini, Boris Bertolini, Duccio Berzi, Giovanni Biagini, Daniela Bianchi, Daniele Bianchini, Tommaso Bianucci, Franco Billi, Lucia Biondi, Anna Maria Bocciolini, Simone Bolognesi, Giada Bonacchi, Valentina Bonalda, Andrea Bonzi, Gianluca Borgarelli, Alessandra Boscolo, Lorenzo Brambille, Antonio Branchi, Giovanna Braschi, Simone Bruni, Stefania Bulletti, Giovanna Burgos, Sole Buzzi, Silvia Cabriolu Puddu, Simone Caiazza, Lorenzo Camiciotti, Sebastiano Campani, Giulia Cantini, Roberto Capaccioli, Gianni Capezzuoli, Andrea Cappelli, Fabio Cappelli, Gabriele Caproni, Annalisa Cardelli, Pietro Cardelli, Paola Cargiolli, Roberto Carletti, Ilaria Ceccarello, Annalisa Ceccatelli, Claudio Cecchini, Matteo Cecchini, Licia Cevolani, Vilmo Checcaglini, Fabio Chini, Eleonora Chiossi, Giada Ciampi, Mario Ciavatta, Filippo Cimò, Marta Cimò, Paolo Cocchi, Francesco Colombelli, Flavia Coppa, Eugenia Corbino, Davide Corritore, Chiara Costa, Lorenzo Crescioli, Leonardo Croatto, Lucia Cumer, Daniele D’Asaro, Stefano Dalla Casa, Leonardo Davini, Lucia De Amicis, Laura De Benedetto, Ugo De Berti, Lucia De Conciliis, Marco De Giorgio, Alessandro De Lucia, Alessia De Ninno, Sara De Santis, Umberto Debernardi, Francesco Del Puglia, Sofia Del Vita, Antonio Desideri, Ilaria Di Biagio, Maura Di Francia, Gilberto Donati, Simone Donati, Donatella Donatini, Rinaldo Donatini, Federico Drago, Marco Enrico, Lorenzo Fabbiani, Enrica Fabbri, Federico Fabbri, Sara Fabbri, Simone Fabbri, Andrea Fabiani, Michele Fait, Emanuele Fambrini, Giulia Ferranti, Ivan Ferraro, Giancarlo Ferrini, Angelo Filipponi, Fortunata Filipponi, Luca Filipponi, Chiara Fiorilli, Robin Firth, Cecilia Fontanelli, Marcello Fossati, Filippo Franchetto, Elio Frescani, Marco Gabbrielli, Ilaria Gadenz, Andrea Gaetani, Romana Galeotti, Alessandro Gamberi, Barbara Gamberi, Francesco Gamberi, Oriana Gamberini, Sara Gamberini, Margherita Garbaccio, Giulia Garolla, Matteo Gazzarri, Marco Gentili, Sonia Gera, Samuele Ghilardi, Rossana Ghillino, Stefano Giacché, Tommaso Giachi, Antonella Gioli, Alessandro Giovannelli, Matteo Giovannini, Zeudi Giovannini, Giulia e Andrea, Giulio Gobbetti, Marta Goretti, Lorenzo Gori, Margherita Gori Nocentini, Bianca Anamaria Gradinariu, Ugo Gragnolati, Nino Gualdoni, Silva Guardigli, Sara Guerrini, Carola Haupt, Sara Iacopini, Nicola Iarocci, Eleonora Ignazzi, Giordano Innocenti, Lisa Innocenti, Fulvio Labardi, Hilena Lamioni, Dario Landi, Fulvio Landi, Marcello Landi, Marta Landi, Daniela Lanfranchi, Michele Lapini, Niccolò Lapi, Paolo Lavuri, Oscar Lelli, Alessandro Linetti, Maria Grazia Logi, Sara Lombardi, Giulia Lombardo, Riccardo Luciani, Maurizio Maccaferri, Nicola Mascotto, Anna Maggi, Grazia Maiani, Stefano Malevolti, Max Mallegni, Chiara Manfriani, Giuseppe Marano, Federico Marchini, Giulio Margheri, Marco Margheri, Martino Margheri, Stefano Mari, Renato & Rossana Marini, Dario Marmo, Laura Martelloni, Carla Martini, Giancarlo Martini, Lisa Masolini, Daniele Matteucci, Alessia Mazzara, Lorenzo Mazzarini, Donatella Mazzoni, Giovanna Mazzoni, Giovanni Mazzoni, Linda Mazzoni, Maurizio Mazzoni, Barbara Mazzoni, Andrea Menghetti, Bruno Mercatali, Michele Messina, Lorenzo Minatti, Renzo Minatti, Pietro Modi, Cosimo Molfetta, Gabriele Montanari, Massimo Montanari, Leonardo Mordini, Lara Mumenthaler, Luca Muscatello, Marco Muzi Falconi, Chiara Naldi, Roberto Naldi, Argia Naldoni, Paolo Naletto, Fabia Nardacchione, Dario Nardini, Marco Nardini, A. Nardoni, Andrea Niccolai, Luca Nonfarmale, Paolo Omoboni, Anna Pacchiani, Francesca Pagliai, Lapo Paladini, Luca Palamedi, Giancarlo Pampiani, Francesca Panzeri, Guido Paoli, Piero Papa, Rita Pareschi, Camilla Parmeggiani, Michele Paroli, Jasmine Pawa, Giacomo Pecchioli, Dolores Pedrana, Fabio Pedrini, Ludovico Pensato, Dario e Viola Pieri, Ivana Pieri e famiglia, Katia Pieri, Nadia Pieri, Riccardo Pieri, Roberto Pieri, Simona Pieri, Irene Pieroni, Giuseppe Pietracito, Stefano Pignatelli, Angela Pindilli, Andrea Pinzani, Claudia Pinzauti, Francesco Pirovano, Valerio Pirrottina, Marco Poggesi, Alessandro Poggiali, Andrea Poggiali, Marco Poisa, Francesca Poli, Giacomo Poli, Sonia Porcù, Patrizia Porreca, Marco Portone, Emilio Pucci, Alessandro Rassello, Alessandro Ratoci, Donella Ratoci, Emily Rayner, Marco Rendina, Valeria Ribaldi, Andrea Ricci, Massimiliano Ricciuti, Tommaso Rindi, Chiara Risti, Silvia Rizzi, Andrea Romagnoli, Alessandro Ronconi, Giulia Rosellini, Christian Rossi, rozac rozac, Francesco Sabatini, Paolo Salmaso, Matteo Salsedo, Enrico Salvadori, Alessandra Samorì, Francesco, Lorenzo e Mariateresa Sani, Fabio Santelli, Ornella Sartoni, Anna Savini, Giacinta Savorani, Francesco Scandaglini, Sergio Scipi, Renzo Scramoncin, Greta Semplici, Caterina Seneci, Elisa Sensi, Piero Serra, Silvia Siliani, Laura Squintani, Tommaso Stefanacci, Matteo Stelloni, Jan Stockel, Mara Stucchi, Vincenzo Susanna, Giovanni Tabanelli, Sandra Tagliaferri, Jackson Tang, Caterina Tanini, Lapo Tanzj, Matteo Tarchi, Matteo Telara, Francesco Terzini, William Thomas, Giulia Angela Ticozzi, Matteo Timori, Velia Marzia Tinnirello, Marcello Tissi, Giovanni Toccafondi, Alberto Tomassini, Mayumi Tomioka, Valentina Tosciri, Cosimo Tosi, Zanobi Tosi, Federico Tovaglieri, Nicolò Tronconi, Sara Tucci, Massimo Turchi, Andrea Turolla, Francesca Uguzzoni, Francesca Ulivari, Giorgio Vacchiano, Anna Valdevit, Maria Valdevit, Gherardo Varando, Valentina Vecci, Caterina Ventura, Marco Veri, Pietro Vertamy, Tommaso Vigna, Luca Vignoli, Andrea Villa, Jacopo Visani,

Eleonora

Visintin,

Lucia

Vitiello,

Linda

Viti,

Alessandra

Zagli,

Roberto

Zamagna,

Marta Zanieri, Fabio Zanini, Antonino Zappulla, Evangelos Zikos, Massimo Zincone, Marco Zorzanello.

Margherita

Zani,


Questo libro è dedicato a Bruno a cui devo l’inizio di questa splendida avventura. Un ringraziamento profondo va a Lino, Giovanni, Giacomo, Enes, Tristano, Giovanni, Romano, ai loro compagni di brigata e a tutti i Partigiani di ogni ordine e colore politico. Grazie alla mia famiglia per i valori che è riuscita a passarmi, a mia sorella Gessica per non aver accettato un fratello pauroso, a Leonardo per aver stimolato la mia curiosità fin da quando ero bambino, ai Figli di Pan con i quali sono cresciuto e ho condiviso gli orizzonti, a Alessandro, Giovanna, Sara e Serena che per 7 anni sono stati la mia seconda famiglia. Grazie agli amici e colleghi di LAMA che mi hanno insegnato cosa vuol dire lavorare con passione credendo nelle proprie capacità, in special modo ad Alessandra che più volte mi ha svegliato dal torpore e mi ha schiarito lo sguardo. Grazie a Marco per avermi dato libero accesso ai documenti custoditi presso il CIDRA di Imola, a Leonardo, Michael e Giacomo senza i quali questo libro sarebbe meno “esplosivo” e a Nicola per “quel” suggerimento. Grazie a mio fratello Andrea che suo malgrado è diventato fondamentale per questo lavoro, a Giovanni che mi ha dato il coraggio per compiere l’ultimo passo, a Stuart per la selezione musicale e i suoi preziosi consigli e a tutte le persone che negli anni hanno colto aspetti di questo lavoro a cui non avevo pensato. Grazie alla popolazione di Razzuolo che ha sostenuto questo progetto ben oltre le mie aspettative. Grazie a Claudia per la cura che ha messo in questo libro e per la pace che riesce a donarmi. Spero che ognuno di voi possa ritrovarsi fra queste pagine. This book is dedicated to Bruno, who started me on this wonderful adventure. Profound thanks to Lino, Giovanni, Giacomo, Enes, Tristano, Giovanni, Romano, their brigade companions and all the partisans of every political hue and order. Thanks to my family for the values that they instilled in me, to my sister Gessica for not accepting such a timorous brother, to Leonardo for having engaged my curiosity since I was a child, to the Figli di Pan with whom I grew up and shared horizons, and to Alessandro, Giovanna, Sara and Serena, who, for 7 years, have been like a family to me. Thanks to my friends and colleagues from LAMA, who taught me what it means to work with passion and to believe in my own abilities, especially Alessandra, who repeatedly woke me from my torpor and sharpened my focus. Thanks to Marco for giving me free access to documents kept at the Imola CIDRA, to Leonardo, Michael and Giacomo, without whom this book would be less “explosive” and to Nicola for “that” suggestion. Thanks to my brother Andrea, who, despite his best intentions, became fundamental for this book, to Giovanni, who gave me the courage to take the last step, to Stuart for his musical selection and valuable advice and to all of the people who over the years have perceived aspects of this work that I had not thought about. Thanks to the population of Razzuolo, whose support for this project far exceeded my expectations. Thanks to Claudia for the care she put into this book and for the peace that she is able to give me. I hope that each of you find yourself in these pages.


Fotografie / Photographs → Giancarlo Barzagli Il racconto “Basta chiederlo ai faggi” / Story “Just Ask the Beeches” → Wu Ming 2 A cura di / Curated by → Claudia Paladini Progetto grafico / Graphic design → Roberta Donatini Traduzioni dall’italiano/ English translations → Anna Forster Supervisione mappa e itinerari / Map supervision and paths → Andrea Barzagli Cartografia / Cartography → Massimo Cingotti Foto d’archivio / Archive images → Fototeca CIDRA Imola Aerofoto, autorizzazione n. 7012 del 07.02.2019 / Aerial view, licence n. 7012, 7th February 2019 → Istituto Geografico Militare Pagina 5 → Lettera scritta nel settembre 1944 dal medico della 36a Brigata Giovanni Palmieri all’amico Luciano Bergonzini pochi giorni prima di morire nell’assedio di Ca’ di Guzzo / Page 6 → Letter written in September 1944 by Giovanni Palmieri, the 36th Brigade’s physician, to his friend Luciano Bergonzini a few days before his death in the siege at Ca’ di Guzzo. Stampato nel Marzo 2019 presso / Printed in March 2019 by → Grafiche dell’Artiere Prima edizione di 1000 copie / First edition of 1000 copies ISBN 979-12-200-4327-4 Quest’opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non Commerciale - Non opere derivate This work is licensed under a Creative Commons Attribution - NonCommercial - NoDerivatives

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