Perché giudichiamo un libro dalla copertina?

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Perchè giudichiamo un libro dalla copertina? L’estetica del prodotto nella comunicazione d’impresa.

Paola D’Ugo



Sapienza

Università di Roma

Facoltà Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione Corso di Laurea Organizzazione e Marketing per la Comunicazione d’Impresa Tesi di Laurea in Pubblicità e Strategie di Comunicazione Integrata

L’estetica del prodotto nella comunicazione d’impresa. Perchè giudichiamo un libro dalla copertina?

Relatrice Laura Minestroni Laureanda Paola D’Ugo

Anno Accademico

2015/2016


Un caro ringraziamento agli intervistati che hanno collaborato con pazienza ed entusiasmo a questo progetto, fornendo preziosi spunti di riflessione e di ispirazione.


Indice Introduzione 6 1. Estetica 1. Tra teoria del bello e sensibilità

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2. Linguaggi 1. L’espressione del pensiero: parole e immagini

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3. Desiderare e acquistare 1. Dimmi cosa compri e ti dirò chi sei: l’espressione del sé

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Conclusione Bibliografia

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2. Solo il bello è estetico? 18 3.1 Polisensorialità e sinestesie 24 4. Il marketing dell’ingaggio e dell’esperienza 26 5. Contenuto e forma: un’etica del marketing 30 6. Come l’estetica del prodotto può rivoluzionare il mercato: il caso Mulino Bianco 34 6.1 La comunicazione 34 6.2 I prodotti 38 6.3 Il design 38 44

2. Arte e design nella comunicazione di marca 52 3. Il prodotto come opera d’arte: atmosfere e aure 58 4. L’uso strategico dell’immagine 62 5. Quando il business icontra l’arte: il caso Alcantara e MAXXI 66 74

2. Desiderare è come acquistare 80 3. La dimensione culturale dell’estetica 84 4. Perchè giudichiamo un libro dalla copertina? 88

Sitografia Immagini

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Introduzione

Come osservare la copertina di un libro non basta a conoscerne il contenuto, così l’aspetto esteriore di una persona non lascia trapelare tutto ciò che c’è da sapere su di essa. Sarebbe superficiale e miope pretendere di giudicare una persona, un oggetto, una situazione, solo da come si presenta esteriormente. Eppure, nella vita di tutti i giorni facciamo esattamente il contrario, tanto da aver reso necessaria la formulazione di uno specifico ammonimento. “Non giudicare un libro dalla copertina” è un invito a resistere alla tentazione di dare un giudizio affrettato, a guardare alla sostanza delle cose e andare oltre le loro sembianze. In realtà, come non possiamo fare a meno di leggere i segni esteriori, filtrandoli attraverso i sensi, interpretandoli e dando loro significato, così l’oggetto della nostra osservazione, qualunque esso sia, non può fare a meno di comunicarci qualcosa sin dai primi istanti di contatto visivo, uditivo, persino olfattivo o tattile con esso. Se non si giudicasse un libro dalla sua copertina, i libri non avrebbero copertine, le persone non avrebbero il desiderio di migliorare il proprio look, il marketing non si preoccuperebbe del packaging, del design o dell’identità visiva del brand. Allora, perché l’aspetto estetico delle cose è così importante e attraente per l’uomo? Dal momento dell’ideazione di un prodotto a quello della sua vendita, si susseguono una serie di momenti progettuali, nel corso dei quali si devono risolvere questioni di vario genere, con l’obiettivo di offrire al cliente un prodotto quanto più possibile conforme alle sue necessità. È 6

compito del marketing gestire alcune di queste fasi, dalla produzione alla distribuzione, dal prezzo alla promozione del prodotto. Tra tutti questi livelli progettuali sembra, talvolta sfuggire, almeno a chi si occupa di marketing in senso stretto, tutto ciò che riguarda la progettazione dell’immagine del prodotto. Raramente, nei testi di marketing classici proposti agli studenti universitari ci si sofferma sull’importanza del design di un prodotto o della sua comunicazione. Eppure la differenza tra un logo ben studiato e uno dozzinale è evidente.. Un progetto ben impaginato e presentato farà senz’altro più colpo dando l’idea di essere stato maggiormente studiato ed elaborato. Ma se è vero questo e che “l’abito fa il monaco”, perché il marketing trascura così spesso gli aspetti relativi all’estetica? Probabilmente un po’ perché considerati fattori impliciti o intrinseci al prodotto stesso, un po’ perché volutamente snobbati, essendo considerati superflui, riguardando in effetti gli aspetti superficiali del prodotto. Eppure, in un’epoca in cui le aziende si avvalgono di un marketing sempre più polisensoriale, l’estetica della marca, il suo design, tutto ciò che si dà ai sensi sembra giocare un ruolo sempre più cruciale nella scelta di acquisto da parte dei consumatori. Questo vale non solo per il prodotto in sé, ma anche per tutto quanto concerne la sua comunicazione visiva. La pubblicità, il sito web dell’azienda, l’attività sui social, il packaging, la promozione nel punto vendita parlano per il prodotto stesso; hanno il compito di comunicarne la qualità e il valore e lo fanno negli


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istanti immediatamente precedenti all’acquisto, in un lasso di tempo molto breve. La scelta dei colori, delle linee, del concept, delle texture, dei materiali, della consistenza, degli odori sono tutt’altro che casuali e indifferenti all’occhio del consumatore. Noti brand fanno di questi aspetti la propria leva principale sul mercato, proprio perché per l’individuo della società dei consumi tutti questi elementi sembrano avere una certa rilevanza. Tramite le sembianze estetiche possiamo avere un’anticipazione sulle caratteristiche del prodotto e possiamo cominciare a prendere in considerazione l’opportunità di acquistarlo. Ma perché questi aspetti contano così tanto per il consumatore? Secondo la “Teoria dell’Integrazione delle Caratteristiche” di Treisman e Gelade1, la percezione di un oggetto sarebbe il prodotto di due stadi di elaborazione, uno di individuazione delle qualità primarie e uno successivo definito integrazione delle qualità primarie. Nella prima fase verrebbero registrate alcune caratteristiche dello stimolo, relative ad allineamento, colore, movimento, curvatura delle linee. Nel secondo stadio della percezione le qualità precedentemente rilevate vengono integrate dando forma al “prodotto cognitivo”. Gli aspetti estetici intervengono nel primissimo approccio con il prodotto. Già dal primo sguardo siamo in grado di farci un’idea, di crearci un’aspettativa.

«Viviamo in una società in cui si da sempre più importanza ai sensi, alle percezioni e alla valutazione del mondo che ci circonda»2. I consumatori sono più critici e più consapevoli, non più disposti a lasciarsi “abbindolare” da spot pubblicitari elogiativi e illusori, sentono una necessità maggiore di conoscere il prodotto e a permettere che questo concorra a costruire 8

la propria identità e a comunicare il proprio sé. Si instaura quindi una relazione più stretta tra consumatore e prodotto il quale deve essere visto, osservato, toccato, persino annusato e assaggiato. Questo ri-conoscimento dei sensi, un tempo demonizzati perché ritenuti ingannevoli, porta a una nuova concezione del marketing. Esso diventa sempre più incentrato su un’esperienza a tutto tondo che il consumatore deve fare della marca e del prodotto per conoscerne e comprenderne i valori e l’identità, un marketing che è, in misura sempre maggiore, esperienziale ed estetico. Le dimensioni estetica e sensoriale vanno ad intrecciarsi vedendo nel corpo, recettore di sensazioni, il centro di questa dialettica.

«L’atto sensibile è il luogo di emergenza di forme significanti al punto che l’estesia viene elevata a forma di vita e la qualità delle sensazioni procurate dall’oggetto conta di più delle qualità dell’oggetto stesso»3. È così che l’occhio si poggia sull’oggetto che sarà in grado per primo di attirare la nostra attenzione, la mano afferrerà il prodotto che in pochi secondi sarà riuscito a prometterci qualità e successo, affideremo il compito di parlare per noi e per la nostra personalità a tutto ciò che sarà riuscito a fare una buona impressione su di noi, emergendo dal mare dell’offerta di mercato, sempre più vasta e caotica. A questo si associa un’imprescindibile influenza del gusto, delle mode e dell’evoluzione della concezione di estetica, che decidono come noi percepiamo un oggetto e come lo desideriamo. Così la marca non può che avvalersi di una progettazione grafica e di design che sia all’altezza dei valori e dell’immaginario che vuole comunicare. Infatti l’informazione che si intende trasmettere non può prescindere da un supporto


A. Treisman, G. Gelade, A feature-integration theory of attention, Cognitive Psychology, Vol. 12, No. 1, pp. 97– 136, 1980. 1

A. Fabris, Etica della Comunicazione, Carocci, Roma, 2006. 2

M. Franchi, Il senso del consumo, Mondadori, Milano, 2007 3

visivo, perciò fisico, che veicoli il messaggio, rendendolo visibile4. La comunicazione visiva diventa quindi un mezzo insostituibile per passare delle informazioni da un emittente a un ricevente, ma la condizione prima del suo funzionamento è l’esattezza delle informazioni, l’oggettività dei segnali, la condivisione di un codice, l’assenza di false interpretazioni. Tutte queste condizioni sono raggiungibili solamente se dalle due parti fra le quali avviene la comunicazione vi è una conoscenza del fenomeno e una condivisione dei significati. I codici e linguaggi variano di paese in paese, di continente in continente, di epoca in epoca, rendendo impossibile comunicare a tutti nello stesso modo. Lo sforzo del design è sempre più quello di generare codici che siano universalmente (o quasi) condivisi e in grado di veicolare messaggi in maniera univoca, senza il bisogno di usare parole. Il fattore design diventa un linguaggio, una promessa, uno status, un valore aggiunto al prodotto e alla persona che se ne appropria. Siamo sempre più esposti a stimoli, messaggi, informazioni provenienti dalle fonti più svariate e il ruolo dell’uomo contemporaneo sembra essere quello di scegliere. A chi dare ascolto, a chi credere, da quale parte stare. Sei un tipo Windows o Mac? Nikon-ista o Canon-ista? Mangi McDonald’s o segui una dieta vegana? Sei da Yoga o da Crossfit? Nell’infinità di prodotti di consumo che il mercato ci offre noi dobbiamo scegliere. Non solo ciò che le nostre tasche si possono permettere, ma anche ciò che, con il suo bagaglio estetico e narrativo, lasciamo che quel prodotto dica di noi.

B. Munari, Design e Comunicazione Visiva, Laterza; Roma, Bari; 1968. 4

R. Falcinelli, Critica Portatile al Visual Design, Einaudi, Torino, 2014. 5

«In una società complessa, il significato di un’immagine è soprattutto l’uso che se ne fa»5. Allora perché giudichiamo un libro dalla copertina? Quanto è importante la prima impressione? Perché al consumatore contemporaneo interessano gli aspetti estetici del prodotto? E, se si, quanto? La questione è molto complessa e va a toccare i più svariati campi del sapere dalla filosofia alla semiotica, dall’architettura al design, dalla pubblicità alla storia dell’arte. Le trattazioni teoriche in merito non mancano. Il marketing, seppur in lento cambiamento, rimane l’unica disciplina a rinnegare la valenza dell’estetica, o comunque a trattare la questione con una certa sufficienza. D’altra parte il design talvolta dimentica di aver bisogno del marketing, trascurando aspetti cruciali per il successo di mercato di un dato prodotto. Nell’intento di riconciliare il marketing con il design, abbiamo chiesto a otto professionisti ed esperti in diversi campi di rispondere ad alcune domande. Di seguito riportiamo brevi profili biografici dei soggetti intervistati.

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Gli intervistati Pio Baldi Dirigente presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, ha ricoperto numerosi importanti incarichi. Già Direttore vicario dell'Istituto Centrale per il Restauro, poi Soprintendente del Lazio e di Siena, Direttore generale per i Beni ambientali e paesaggistici, è stato Direttore generale per l’architettura e l’arte contemporanee (DARC) e Presidente della Fondazione MAXXI. Ha curato numerosi interventi di restauro di monumenti in Italia e all'estero. È stato membro del Consiglio nazionale dei Beni culturali. Autore di saggi, volumi e pubblicazioni specialistiche sui beni culturali e sull’arte e l’architettura contemporanee, è Accademico Amministratore dell'Accademia Nazionale di San Luca.

Pierluigi Cervelli Ricercatore presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione dell’Università La Sapienza di Roma dal 2009. Laureato in Scienze della comunicazione a Bologna nel 2002, ha conseguito nel 2007 un Dottorato di ricerca in Semiotica e psicologia della comunicazione simbolica all’Università di Siena. Nello stesso periodo ha lavorato come etnografo nel campo delle ricerche applicate sui consumi e ha svolto alcuni anni di ricerca etnografica nelle periferie di Roma, partecipando sul campo a quella corrente di ricerca semiotica comunemente chiamata etnosemiotica. È stato visiting professor presso la PUC di Sao Paulo.

Nicola Di Stefano Si laurea in Filosofia all’Università Statale di Milano. Negli stessi anni frequenta il conservatorio “G. Verdi”, dove si diploma in Contrabbasso. Durante la formazione musicale, ha l’opportunità di incontrare maestri e direttori di livello internazionale (D. Gatti, E. Dindo, T. Martin, G. Ettorre, B. Casoni). Dottore di ricerca presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma, oggi si occupa di estetica musicale, in particolare delle nozioni di consonanza e dissonanza e della percezione musicale nei bambini. Ha all’attivo diverse pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali e contributi in volumi collettanei.

Riccardo Falcinelli Nato a Roma nel 1973. si occupa di grafica editoriale e insegna psicologia della percezione all’Isia di Roma. Ha studiato alla “Central Saint Martins school of art and design” di Londra e letteratura italiana all’università “La Sapienza”. insieme a Marta Poggi è autore dei graphic novel Grafogrifo (edito da Einaudi), Cardiaferrania e L’Allegra Fattoria (Minimum Fax). Nel 2011 ha pubblicato Guardare, Pensare, Progettare (Stampa Alternativa) sui problemi del design in ottica scientifica. Dirige la rivista Progetto Grafico insieme a Silvia Sfligiotti. Il suo ultimo libro è Critica Portatile al Visual Design (Einaudi) che ha ottenuto un notevole successo di pubblico. 10


Cristiano Gatto Personal image creator, fashion stylist e art director, genovese di nascita, ha inventato un metodo per migliorare l’immagine delle donne e quindi per esaltarne l’eleganza. Si occupa di total look, dalla punta dei capelli alla punta dei piedi. Perché l’immagine che si da di sé al mondo è una cosa molto profonda, che ha a che fare con l’essenza della persona. Ha una formazione artistica; a Milano ha scoperto il minimalismo grafico del ‘900 con il maestro Fronzoni. Con lui ha studiato un metodo legato al progetto, partendo dal foglio bianco per creare. Gatto ha declinato questo metodo sulla persona. Dal foglio bianco tira fuori l’essenza di chi ha di fronte, al fine di valorizzarla.

Maria Vittoria Marini Clarelli Storica dell’arte, è stata dal 2004 al 2014 soprintendente alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma e dal 2002 al 2006 ha insegnato museologia presso la Facoltà di Architettura Ludovico Quaroni di Roma. E’ stata membro di numerose commissioni internazionali e fa parte del Gruppo dei musei organizzatori di grandi mostre, che raccoglie le maggiori istituzioni museali a livello internazionale. E’ stata vice presidente dell’ International Council Of Museums per l’ Italia. Fra le sue pubblicazioni di museologia si segnala Il museo nel modo contemporaneo, Carocci, Roma 2011. Attualmente dirige l’Ufficio Studi del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.

Bruno Mazzara Bruno Maria Mazzara è professore ordinario di Psicologia sociale presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell'Università Sapienza di Roma. I suoi interessi di ricerca empirica e teorico-critica riguardano principalmente la psicologia culturale e i processi di costruzione sociale della conoscenza; si è occupato in particolare di pregiudizio, identità sociale e relazioni intergruppi. Sul versante metodologico ha approfondito la riflessione sui recenti sviluppi dei metodi qualitativi e sulla loro relazione con quelli quantitativi.

Erminio Perocco Pubblicitario, regista e sceneggiatore, ha vinto circa duecento premi in Italia e nel mondo, tra cui il Leone d'oro a Cannes, il New York Film Festival, il Chicago Film Festival, l'ADCI, il Telegatto e il Mezzominuto d'oro. Dal 1994 al 2002 è direttore creativo esecutivo dell'Armando Testa. Dal 2002 al 2013 segue direttamente il cliente Crodino. Ha lavorato per tv-miniserie internazionali per la LuxVide e per lunghe serie italiane. Ha realizzato la prima sitcom italiana per Facebook. Consulente per aziende internazionali, è assistente personale di Ettore Bernabei e docente all'Università Cattolica di Milano. Da gennaio 2013 è Direttore creativo di HI! Comunicazione - Roma. Parallelamente prosegue l'attività di regista e produttore cinematografico. 11



1 Estetica


1. Tra teoria del bello e sensibilità Se si parla di estetica, occorre prima di tutto scegliere una sua definizione e a questo fine la filosofia ci viene in aiuto. In genere ci si riferisce all’estetica come a quella branca della filosofia che, come la definisce Baumgarten, è considerata la “scienza del Bello, delle arti liberali e gnoseologia inferiore, sorella della Logica”1. L’accezione si riferisce ad una parte a sé stante della filosofia, che si occupa del concetto di Bello come categoria di giudizio e portatore di valori. A partire da Kant, che nella Critica della Ragion Pura aveva attuato la sua cosiddetta “rivoluzione copernicana”, l’uomo con le sue facoltà viene messo al centro del suo processo conoscitivo del mondo, quindi non è più l’uomo a doversi adattare alla natura che lo circonda, ma la natura all’uomo, diventando oggetto della sua osservazione sensibile. Tutte le speculazioni successive in ordine cronologico sul tema, saranno sostanzialmente un’evoluzione della riflessione estetica kantiana della Critica del Giudizio. Ma se andiamo alle sue origini, la parola “estetica” deriva dal greco αισθησις (aisthesis), che a sua volta viene dal verbo αισθάνομαι (aisthanomai) che significa “percepire”, in particolare attraverso la mediazione dei sensi. Appare dunque chiaro che la percezione del bello non può svincolarsi dall’aspetto materiale e sensoriale, in quanto l’uomo conosce il mondo attraverso i sensi. A questo proposito non si può non citare il lavoro del filosofo ed estetologo Emilio Garroni sul 14

tema, che ha dato un contributo fondamentale all’estetica del ventesimo secolo, riflettendo sul suo significato, come anche sul concetto di immagine, di linguaggio e di figura. Egli chiama l’estetica il “guardare-attraverso” e specifica che:

si riferisce innanzitutto al tipo di pensiero, o di “sguardo”, messo in atto dalla filosofia e dalla stessa estetica. […] “Guardare-attraverso” non significa senz’altro “dare una scorsa”, e non significa affatto “guardare, scrutare attraverso un filtro” — una lastra di vetro colorato, poniamo — per vedere ciò che sta dall’altra parte del vetro. Vuole significare invece — ma solo in prima approssimazione — qualcosa come “guardare dentro un filtro dall’interno del filtro”2. Guardare-attraverso vuol dire conoscere la realtà in modo mediato, non possiamo svincolarci dal nostro fisico, ma anche dal nostro condizionamento dovuto alla cultura. Questi non sono altro che filtri che mediano la nostra conoscenza della realtà. Non solo si frappongono tra noi e il mondo sensibile, ma ci caratterizzano, noi non abbiamo solo dei filtri di fronte, ma siamo immersi in essi. Sembra impossibile prescindere dall’estetica, che è fondamentale per spiegare i principi


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filosofici secondo i quali l’uomo sarebbe attratto dal bello e dall’aspetto delle cose. Tuttavia, ai fini di questa tesi, ci interessa dare una definizione di estetica che sia relativa al prodotto, alla sua comunicazione, a tutti i suoi aspetti materiali e intangibili, per capire in che modo essi possono rimandare a valori e immaginarî della marca e diventare strumenti utili per i marketing. Parlando con Pierluigi Cervelli, professore di Scienze semiotiche del testo e dei linguaggi, questo è il primo punto ad emergere.

Dobbiamo scegliere una definizione di estetica perché oscilliamo tra due poli estremamente connessi ma opposti, che sintetizzerei con due definizioni: una tradizionale e una attribuibile al filosofo estetologo Emilio Garroni. Tradizionalmente quella che chiamiamo estetica, intesa come disciplina di tipo filosofico, a partire dalla Critica del Giudizio di Kant è considerata una “teoria del bello”, “teoria del sublime”, etc. Garrone invece sosteneva un’altra cosa, secondo me più interessante, e cioè: “io vorrei che questa disciplina fosse una teoria critica del nostro rapporto con la sensibilità”. Tra queste due oscillazioni, cioè tra idea di bello e rapporto con la sensibilità c’è il suo lavoro di tesi, perché la comunicazione di marca oscilla tra queste due cose.3 16

Appare subito evidente che, se parliamo di marketing, non possiamo riferirci all’estetica in quanto teoria del bello, o almeno non soltanto. Ci sarà comunque più utile intendere l’estetica come “il nostro rapporto con la sensibilità” e quindi il modo in cui conosciamo il mondo che ci circonda. Stiamo parlando di oggetti, referenti materiali, oggetti cognitivi fisici o meno, che in qualche modo entrano in contatto con noi e con i nostri cinque sensi. Il prodotto con la sua forma, i suoi materiali, i suoi colori, il suo packaging vede nelle sue caratteristiche fisiche i principali mezzi per comunicare ai suoi potenziali acquirenti i propri valori e contenuti intangibili in pochi istanti di contatto. Ed è ovvio ed evidente che per entrare in relazione con gli oggetti e il mondo non possiamo fare a meno di avvalerci dei nostri sensi. Viviamo immersi in un mondo che è materiale, ricco di stimoli e sollecitazioni, nel quale dobbiamo orientarci utilizzando ogni mezzo a nostra disposizione, primi tra tutti i cinque sensi. Il marketing non può ignorare questo fattore fondamentale e, oltre a rilevare bisogni e desideri dei consumatori, propone modi per soddisfarli e suggerisce nuove chiavi di lettura del prodotto e della realtà in cui siamo immersi. Basti vedere come l’industria tessile ha rivoluzionato il modo in cui noi scegliamo un capo di vestiario. Il tatto è divenuto uno degli aspetti principali nel momento di scelta e di acquisto di un qualsiasi indumento. Nel momento in cui ci relazioniamo ad esso


A. G. Baumgarten, Estetica, Vita e Pensiero, Milano, 1750, c1992. 1

E. Garroni, Estetica: uno sguardo attraverso, Garzanti, Milano, 1992. 2

Pierluigi Cervelli nella nostra intervista del 29 ottobre 2015. 3

M. Franchi, Il senso del consumo, Mondadori, Milano, 2007. 4

tenderemo, ad esempio, prima di tutto a toccarlo, a verificare la sua morbidezza, la sua texture, il suo peso, il suo comfort sulla pelle. Negli anni ‘50 la morbidezza di un capo di vestiario probabilmente non era un valore, ma ne esistevano di altri. La svolta fondamentale dell’estetica negli ultimi anni risiede nell’intreccio sempre più fitto tra dimensione sensoriale e dimensione estetica, ponendo il corpo al centro in quanto recettore di sensazioni. Il mondo viene esaltato nella sua dimensione estetica e di godimento, poiché la tecnologia ha progressivamente smaterializzato il nostro rapporto con il mondo stesso. L’atto sensibile diventa il mezzo per far emergere significati e

l’estesia viene elevata a forma di vita e la qualità delle sensazioni procurate dall’oggetto conta di più delle qualità dell’oggetto stesso. L’estetica che si esprime nelle forme che gli oggetti e la moda propongono esprime i valori e gli orientamenti di un’epoca che come si è già sottolineato, fa del mutamento il valore dominante.4

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2. Solo il bello è estetico? Ora, avendo scelto la definizione di estetica che più risulta coerente con gli intenti del presente lavoro, è necessario chiarire che i tratti che sono estetici, in quanto si danno ai nostri sensi, e che entrano in relazione con il consumatore non rispondono necessariamente alla categoria del “bello” che utilizziamo per classificare il mondo che ci circonda e per definire se qualcosa “ci piace”, oppure ci emoziona o ci coinvolge. L’estetica non può essere riferita esclusivamente all’arte, e anche l’arte stessa si è evoluta nei secoli, cambiando il modo in cui la gente vedeva il mondo5. In questa analisi non si possono ignorare le categorie mentali in base alle quali classifichiamo gli oggetti della nostra percezione sensibile. Esse non sono semplicemente giudizi di merito, ma nella storia il giudizio estetico è sempre stato concepito come un vero e proprio valore, soggetto come tutto il pensiero filosofico ad un’evoluzione dettata dal succedersi delle epoche storiche. Partiamo dalle categorie più comunemente utilizzate per classificare un giudizio estetico e parliamo di “bello” e “brutto”. Secondo una banalizzazione piuttosto semplicistica il “bello” è un valore e il “brutto”, il suo contrario, un disvalore, da evitare a tutti i costi. Tuttavia, se è vero che l’estetica è tutto ciò che si da ai nostri sensi, non è solo “il bello” ad essere estetico, anche “il brutto” lo è. Il filosofo estetico Nicola Di Stefano, nella nostra intervista rifletteva sulle origini dell’inclusione del brutto nell’espressione artistica, nelle arti figurative come nella letteratura. 18

Dall’estetica il brutto è sempre stato escluso, fino all’800, all’opera di Verdi, fino agli scritti di Hugo. Fino ad allora c’era naturalmente il brutto, perché la gente si confrontava col brutto nella vita reale, non esistevano solo principesse e cavalieri. Però nella rappresentazione estetica il brutto veniva escluso, proprio perché non era degno di entrare in quella che era un’espressione di bellezza. Nelle opere di Verdi ci sono ampi esempi di brutto messi in arte, quindi il brutto viene sdoganato come elemento che può entrare a pieno titolo nella rappresentazione estetico-artistica. Oggi il brutto forse c’è, anche se non è mai un brutto concettualmente intenso, ricco, stimolante. È un brutto che diventa quasi trash, è un brutto sterile, mentre allora era un brutto psicologico, umano, dell’odio e del rancore, era un brutto che invitava a riflettere sulla condizione umana. Oggi direi che è più piatto, e questo vale anche per il bello, perché non penso che ci sia un ideale di bellezza oggi in generale6. Nella storia i concetti di “bello” e “brutto” hanno subito radicali modificazioni, si sono arricchiti e impoveriti di significato, tutt’ora la concezione di


essi è diversa ad epoche precedenti, ed in base alla posizione geografica. Nella nostra epoca sentiamo molto spesso l’affermazione piuttosto relativistica che “non è bello quel che è bello, ma è bello quel che piace” e quindi il giudizio di bello o brutto, mi piace o non mi piace sarebbe completamente soggettivo, appannaggio di ognuno e assolutamente indefinibile a priori. È così che affiorano alla superficie nuove categorie di giudizio, “bello” e “brutto” non bastano più, sarebbe arrogante darne una definizione, delimitarne i confini. “Il bello è diventato un complesso di attributi che costituiscono la qualità di un prodotto, in quanto è in grado di aggiungere pathos, emozione, polisensualismo al mondo delle merci”7. Oggi abbiamo il simpatico, l’intelligente, il cosiddetto baby-effect8, l’arguto, il tenero e un’infinità di altri aggettivi, che oggi sono diventati veri e propri valori. Questo è il parere di Riccardo Falcinelli, graphic designer, che sottolinea:

Di tutta l’arte e di tutto il design degli ultimi 50 anni, difficilmente bello o brutto è la categoria pregnante, i parametri sono altri. Ci sono senz’altro anche quelli, bisogna stare attenti a non rinnegarli. Ma, per fare un esempio, viviamo in un momento storico in cui conta molto il “simpatico”. Il “simpatico” conta più del “bello”. La gente è molto sedotta da ciò che è simpatico, i giapponesi hanno un termine apposito (kawaii), che fondamentalmente è come il “cute” degli inglesi, come i gattini su Facebook. Questa non è l’epoca del bello, è l’epoca del tenerello, del carino, del grazioso, del simpatico, dell’arguto. La gente ci tiene di più a passare per simpatica che per bella, anche se non sembra. Non possiamo confrontarci con altre epoche storiche in cui anche nel design e nella pubblicità la bellezza era un valore.9

E. H. Gombrich, Arte e Illusione: studio sulla psicologia della rappresentazione pittorica, Giulio Einaudi editore, Torino, 1962. 5

Nicola Di Stefano nella nostra intervista del 21 ottobre 2015. 6

A. Fabris, Il nuovo consumatore: verso il postmoderno, Franco Angeli, Milano, 2003. 7

Gli americani utilizzano questo termine per riferirsi alle emozioni scatenate dalla vista di un bambino piccolo, la sensazione di intenerimento è irresistibile. Sui social media questo si tradurrà magari nella condivisione di un dato contenuto, oppure nel voler mostrare il proprio apprezzamento concedendogli un like. 8

Riccardo Falcinelli nella nostra intervista del 19 ottobre 2015. 9

Quindi, parlando di estetica non stiamo parlando esclusivamente di ciò che è più o meno universalmente riconosciuto come bello, nel senso classico del termine. I parametri di giudizio cambiano, evolvono e diventano valori, 19


principii o idee di validità universale, aspetti che per l’uomo contano e hanno un peso. “Bello” e “brutto” non bastano più, non sono più sufficienti a classificare il nostro apprezzamento del mondo. Non si poteva non toccare questo argomento intervistando Cristiano Gatto, personal stylist, il quale ironicamente sottolinea:

Quello che conta oggi è la personalizzazione. La parola “bello” oggi fa quasi ridere. Primo fra tutti lo smartphone, lo puoi impostare come vuoi, scaricare le applicazioni che vuoi, in rete puoi trovare ciò che ti interessa, si basa tutto sui centri d’interesse. La tua vita più è personalizzata più sembra che sia una vita che valga la pena vivere. Lo stesso per il concetto di bellezza. I canoni estetici sono molto cambiati. Basti pensare a Kate Moss, che negli anni ’90 ci sembrava un’aliena ed oggi ci sembra una bellezza quasi classica, riconosciuta come bellezza in senso universale. I canoni della bellezza cambiano continuamente, e se cambiano rispetto a dove ci si trova geograficamente nel mondo figuriamoci rispetto alle epoche storiche. Ciò che oggi funziona 20

in termini di bellezza è il particolare. L’uso di particolari che siano unici e irripetibili. Io dico sempre che oggi non ha senso dire se una cosa è bella o brutta. Ha senso dire se una cosa funziona o non funziona. Perché riferito agli oggetti una cosa può funzionare su di te e non funzionare su un’altra persona. Quindi come consideriamo l’oggetto? Bello o brutto? La cosa bella è che oggi tutto quello che riguarda la moda l’estetica il look in generale è assolutamente democratico. Questo è si un cambiamento dei tempi, ma è molto legato alla globalizzazione, possiamo dire che sia il suo effetto positivo. La globalizzazione fa si che ogni posto possa essere considerato in termini valoriali. Puoi dire la tua e questo è un valore. La scelta si fa sempre più ampia, ma nel momento in cui tutto vale, devi scegliere di più.10 «Il giudizio estetico non è imposizione, ma lasciar essere, liberazione del senso». Gianni Carchia11


10 Cristiano Gatto nella nostra intervista del 17 ottobre 2015.

G. Carchia, La legittimazione dell'arte: studi sull'intelligibile estetico, Guida editori, Napoli, 1982. 11

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3. Il coinvolgimento dei sensi Kant nella Critica della Ragion Pura da una definizione di sensibilità e scrive:

«la capacità di ricevere (recettività) rappresentazioni, mediante il modo in cui siamo affetti dagli oggetti, si chiama sensibilità. Quindi gli oggetti ci sono dati per mezzo della sensibilità ed essa soltanto ci fornisce intuizioni; ma è attraverso l’intelletto che essi sono pensati, e da esso provengono i concetti. Tuttavia, ogni pensiero deve, direttamente o indirettamente, riferirsi, infine, a intuizioni, e quindi, in noi, alla sensibilità perché, diversamente, non ci può esser dato oggetto alcuno»12. Come è stato precedentemente sottolineato, l’uomo in quanto essere fisico è costituito da una parte di materia ed è immerso in un contesto che è altrettanto materico. Il momento di contatto tra gli oggetti e l’uomo è mediato dal corpo che attraverso specifici organi di senso trasmetto gli stimoli ricevuti, tramite impulsi nervosi, al cervello dando luogo alla percezione. In particolare, il mondo in cui viviamo, quello occidentale, globalizzato e dinamico, è pienissimo di stimoli, di messaggi, ispirazioni, avvenimenti, opinioni. Ci viene chiesto rispondere a questi stimoli, selezionandoli nel mare di sollecitazioni a cui siamo sottoposti e il consumatore di oggi si trova nel proverbiale occhio del ciclone. Il mercato è pieno di possibilità e l’offerta di prodotti e servizi è sconfinata, ma anche, in una certa misura, illusoria. Quindi se è vero, come dice Cristiano Gatto, che è sempre più 22

importante scegliere è pure vero che la scelta sembra una chimera, dato che possiamo scegliere solo tra quello che il mercato ci propone, come sostiene il professor Cervelli. Nel corso di una sola giornata veniamo sottoposti a milioni di stimoli sensoriali a cui ci viene chiesto di reagire, molti dei quali sono finalizzati al consumo di qualche bene o servizio e il marketing ne è responsabile. Più che altro il risultato è un circolo vizioso, in cui siamo sottoposti a talmente tanti stimoli che il marketing deve lavorare molto più sodo per far spiccare il suo prodotto, ma d’altra parte tenderà anche a diversificare gli stimoli stessi, cercando di essere sempre più imprevedibile, inedito, sconvolgente. L’attenzione del consumatore è preziosa e i marchi sono disposti a tutto pur di ottenerla. Ben consapevoli del rumore di fondo che non fa che deviare le informazioni e dirottarle. L’obiettivo è sempre più quello di cogliere alla sprovvista il consumatore, con trovate di marketing cosiddetto “non convenzionale” o di “guerrilla marketing”, rendendo la presenza del marketing e della pubblicità sempre più totale nella vita quotidiana di ogni cittadino di qualsiasi paese occidentale. L’alternativa è quella di coinvolgere il consumatore sempre più totalmente, stimolando tutti i suoi sensi in modo che il marchio non possa passare inosservato. I brand utilizzano stimoli che fino a dieci o quindici anni fa erano del tutto nuovi. L’idea di fare leva sui profumi, o sui suoni, giocare sulla tattilità o sui sapori, sulle sinestesie. L’esperienza della marca deve essere unica, irripetibile ma, soprattutto, indimenticabile. Deve portare il consumatore a fare un voto di fedeltà al marchio da quale non si potrà più separare.


«Parlare di estetica dei media significa necessariamente confrontarsi con l’intrinseca complessità, stratificazione e indeterminatezza dei media stessi, isolando tra le molteplici prospettive da cui si può elaborare una teoria dei media quella di una riflessione estetologica che mette al centro dell’attenzione la loro capacità di interagire con la nostra capacità sensibile.» Antonio Somaini

I. Kant, Critica della Ragion Pura, Laterza; Roma, Bari; 1781; ristampa 1971. 12

Pierluigi Cervelli nella nostra intervista del 29 ottobre 2015. 13

Questa ansia del marketing di inondare sempre di più la vita quotidiana delle persone può avere degli effetti collaterali e, secondo il professor Cervelli, inevitabili, portando ad uno stato generalizzato di anestesia, mancanza di sensazioni.

Bisognerebbe lavorare su una disciplina che non è l’anti-estetica che già esiste, ma l’anestetica, sulla mancanza di percezione. Mi sembra che quello che caratterizza molto la nostra quotidianità sia una gran quantità di oggetti e di elementi che non hanno nessuna capacità di stimolare la nostra sensibilità, che ci anestetizzano. Tutta la produzione di massa sotto costo, senza alcuna qualità che viene per esempio dall’estremo oriente, oggetti che sono copie di oggetti ben fatti di design, magari anche solo di un design anonimo e funzionale che durava una vita, oggetti come il fiasco di vino, il lucchetto per la catena, le forbici. Oggetti che non hanno autore ma sono straordinari, non hanno bisogno di istruzioni per l’uso, contengono al loro interno delle istruzioni per l’uso visuali e manuali senza bisogno di avere un testo scritto. Tutti questi oggetti sono stati inondati, da una marea di design trash, che è pura copia senza qualità né progettuale, né realizzativa, né di materiali, e tutti questi oggetti sono altamente anestetizzanti, sono proprio la negazione di qualunque qualità. Innanzitutto visiva, ma anche sensibile, estetica. Potremmo allargare il discorso sull’anestesia al traffico automobilistico, al rumore televisivo, questi dibattiti in cui la gente si parla sopra e alla fine non si capisce niente, il rumore del traffico nelle nostre città. Questo eccesso di informazione discordante che produce rumore alla fine ci anestetizza, per schermarci diveniamo incapaci di prestare attenzione, diveniamo saturi e il risultato e un’anestesia generalizzata che ci impoverisce molto.13

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3.1 Polisensorialità e sinestesie «Nel giro di lunghi periodi storici, insieme ai modi complessivi di esistenza delle collettività umane, si modificano anche i modi e i generi della loro percezione sensoriale. Il modo secondo cui si organizza la percezione sensoriale umana - il medium in cui essa ha luogo - non è condizionato soltanto in senso naturale, ma anche storico»14. Walter Benjamin sottolinea come la modalità di percezione estetica, in particolare dell’opera d’arte, cambi al cambiare delle epoche. Oggi, si può dire, siamo nell’epoca della sinestesia. Il contatto con il mondo è, ormai, sempre più polisensoriale. Gli stimoli che riceviamo non sono solo di tipo visivo, ma vanno a risvegliare più di un senso contemporaneamente. Questa modalità viene adottata dal marketing per cogliere alla sprovvista il consumatore, sorprenderlo e regalargli un’esperienza a tutto tondo, che colga completamente la sua attenzione nel momento di contatto. Acquistando il prodotto il consumatore deve fare esperienza del mondo della marca, in un modo che vada al di là di quello che le parole possono comunicare. Questo lavoro di comunicazione di valori della marca parte dal punto vendita stesso, che non può più permettersi di essere anonimo e asettico, ma deve essere in linea con l’immagine della marca. Possiamo fare il classico esempio dei punti vendita Abercrombie&Fitch e Hollister, ma anche Stradivarius, Mango, Zara. L’odore del punto vendita deve ricordarmi dove mi trovo e deve 24

rassicurarmi sul fatto che è uguale in tutti gli altri punti vendita della stessa catena e quindi troverò lo stesso prodotto, la stessa qualità, lo stesso servizio. Anche i prodotti acquistati che porto a casa saranno ammantati della stessa fragranza, perché siano riconoscibili. L’esperienza della marca me la porto fino a dentro l’armadio. Dopo aver passato del tempo nel negozio di Hollister, probabilmente anche io ho lo stesso profumo dei vestiti e dei camerini, sono entrato a far parte del mondo e dell’immaginario della marca. Sono un cliente Abercrombie&Fitch, sono un giovane dinamico, sportivo, bello e me lo ricordo ogni volta che apro l’armadio, ogni volta che passo davanti al negozio. Le luci e i colori vengono utilizzate in modo strategico, risvegliano emozioni, provocano sentimenti, evocano valori. Il bianco etereo dei punti vendita Apple ricordo di eleganza, purezza delle forme e trasparenza di valori; il legno e le luci calde dei negozi Timberland, richiamo avvolgente alla natura; il nero dei punti vendita delle macchine fotografiche Leica, simbolo di elitarietà, eleganza, le luci illuminano i prodotti mettendoli in risalto come quadri in un museo. La tattilità viene sempre più valorizzata, le texture, le consistenze dei materiali e dei prodotti sono studiate per evocare sensazioni specifiche. L’udito non viene trascurato. La musica che viene riprodotta nei punti vendita non è lasciata al caso. Ci si chiede “che musica ascolta il nostro cliente?”. Da un lato per prolungare la permanenza del cliente nel negozio e per renderla allo stesso modo piacevole. Inoltre la musica scelta non fa che arricchire l’immaginario collegato a quel determinato brand, facendo si che il consumatore si riconosca proprio in quella


W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966. 14

Pierluigi Cervelli nella nostra intervista del 29 ottobre 2015. 15

marca lì e non in un’altra. Basti pensare ai negozi Urban Outfitters che suonano musica rock, progressive, come anche Mango o Tiger. È frequente vedere clienti che mentre danno un’occhiata ai prodotti venduti magari canticchiano tra sé e sé la canzone che in quel momento suona negli altoparlanti. È evidente che questo modo di parlare al mondo, al consumatore, rientra in un linguaggio più ampio che non è più soltanto relativo al prodotto, ma all’intera marca e contribuisce a costruirne un immaginario sempre più ricco e sfaccettato, tanto quanto la personalità di un essere umano pensante. Così Pierluigi Cervelli ritiene che sarebbe più opportuno interrogarsi su quale tipo di sensibilità la comunicazione vada a stimolare, piuttosto che interrogarsi sul peso che i fattori estetici hanno nell’ambito del marketing:

Il packaging, il punto vendita, tutto l’apparato visuale e testuale che ha a che fare con la pubblicità. Ora trovo che il discorso sia chiedersi, più quanto tutto questo conta nella comunicazione di marca, che tipo di sensibilità sollecitano alcuni tipi di comunicazione. Nelle forme più banali, immediate lo stimolo può limitarsi alla vista, pubblicità che attirano l’attenzione per un secondo e poi basta, oppure stimoli che mischiano diversi sensi e creano delle sinestesie, convocando una sensibilità molto complessa. Quindi trovo che la comunicazione di marca oscilli tra questi due poli molto schematici: cioè una percezione tendenzialmente mono-sensoriale e stimolata in modo banale, contro una percezione pluri-sensoriale in cui i confini tra i vari sensi si mescolano, producendo esperienze possibilmente inedite.15

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4. Il marketing dell’ingaggio e dell’esperienza Come cambia il mercato, così cambia il consumatore. Se prima la marca si imponeva sul mercato, con un approccio “public be damned”16, ritenendo sufficiente la propria mera esistenza in vita e un presidio dei media pubblicitari, preoccupandosi ben poco del consumatore; oggi i ruoli si sono invertiti ed è il consumatore a dettare legge. Le aziende devono adoperarsi per carpire il clima di opinione, i bisogni dei pubblici, anche quelli che essi non sanno di avere. Pertanto, in un’epoca in cui la pubblicità è sempre più pervasiva, sfacciata, volgare e ridondante, il consumatore impiegherà molte energie nel cercare di sfuggire al bombardamento mediatico costante. Non ci si può più aspettare un atteggiamento di arrendevole e passivo ascolto, come poteva essere negli anni ‘60, dove negli spot pubblicitari era sufficiente enumerare le meravigliose qualità del prodotto per scatenare nel pubblico sognante un sentimento di desiderio. Oggi serve molto di più per aggirare le strategie di evitamento messe in atto quotidianamente dal consumatore. Spesso siamo disposti a pagare pur di non vedere la pubblicità, come nel caso delle pay TV, oppure di servizi di streaming musicale come Spotify, dove pagando un ammontare mensile ci si può sbarazzare dei tediosi annunci pubblicitari. Abbiamo sviluppato un’attenzione selettiva e siamo sempre più in grado di selezionare, nel mare di proposte offerteci dal mercato, ciò che ci può interessare o gratificare. Quello che le aziende devono fare sempre di più è adoperare strategie e tattiche di ingaggio del consumatore (engagement). La relazione 26

con esso non può più essere di carattere unidirezionale, ma si rende necessario un suo coinvolgimento diretto e attivo. Nella nostra economia le chiavi di volta del successo di un’azienda sono il rapporto di fiducia e la conversazione a due direzioni instaurati con il cliente. Non solo bisogna comunicare con esso, ma occorre mettere in atto sistemi di ascolto. La cura del cliente non può più limitarsi ad essere profusa nel momento pre-acquisto, per lusingarlo e attrarlo in una sorta di trappola, ma deve persistere anche post-acquisto, far sentire il consumatore ascoltato, coccolato o semplicemente non sfruttato. Ingaggiare il consumatore significa, pertanto, conoscerlo, fidelizzarlo, rendersi reperibili ed esso, offrigli dei vantaggi, che siano anche emozionali ed esperienziali. La marca deve creare una relazione con il pubblico, offrirgli un’esperienza, imprimere ricordi ed emozioni indimenticabili, il tutto in uno scenario perfettamente coerente con il brand e con i suoi valori. In questo modo ci si auspica che il consumatore abbassi le difese che ha faticosamente costruito, per aprirsi con fiducia all’esperienza di marca. Ad oggi, però, le aziende si pongono problemi di budget quanto mai cogenti. La necessità è sempre quella di raggiungere la massima economicità possibile e, quindi, il massimo risultato con il minore sacrificio e dispendio di risorse possibili. Perciò le scelte strategiche di comunicazione saranno improntate a questo stile di gestione e si tenderà a mettere in essere azioni singole, mirate, ben studiate, poco costose ma che si prestino a divenire virali, in modo da


Sembra che William Henry Vanderbilt, imprenditore americano presidente della New York Central Railroad, nell’ottobre del 1882 giunse a Chicago a bordo di uno dei treni della compagnia. Al suo arrivo fu tempestato di domande dai giornalisti, tra cui gli veniva chiesto di replicare alla scelta della Pennsylvania Railroad di istituire un nuovo servizio. Vanderbilt rispose che il servizio non era profittevole per l’azienda e alla domanda se non ritenesse importante il beneficio del consumatore egli rispose: “The public be damned!”. 16

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amplificare la portata del messaggio. È così che viene sfruttato sempre più il guerrilla marketing, o l’ambient marketing, dove si cerca di prendere alla sprovvista il pubblico, in luoghi e modi che non ci si aspetterebbe. In questo modo una sola azione, ben realizzata, può trovare risonanza sui social, moltiplicando la reach dell’evento e abbassando notevolmente i costi di comunicazione. Assistiamo pertanto ad una disseminazione sociale del brand: l’advertising è pervasivo, è presente nella vita di tutti i giorni e in tutto ciò che facciamo, tanto che si comincia a dubitare della sua effettiva efficacia. Proprio per questi motivi, per la ridondanza degli annunci pubblicitari e la loro onnipresenza, per la capacità sempre più fine dei consumatori di chiudere le porte alla pubblicità e al bombardamento di informazioni, instaurare un rapporto fondato su basi emozionali sembra essere la soluzione che porti ad un sodalizio tra brand e consumatore di più lunga durata. È così che le aziende creano dei brand touchpoint, cioè punti di contatto fisico ed emozionale con il cliente, costruendo un pop-up store17 oppure facendosi trovare nelle piazze e nei punti di passaggio più comuni, o ancora rendendo unica l’esperienza nel punto vendita avvalendosi di dettagli inediti, che vadano a catturare non solo l’attenzione del cliente, ma a coinvolgerlo emotivamente. I touchpoint sono un’interfaccia tra marca e pubblici, creano un momento d’interazione al fine di veicolare un messaggio e, possibilmente, stabilire un dialogo attraverso il prodotto o servizio. Il consumatore deve essere intrattenuto, deve fare esperienza della marca e dell’immaginario ad essa relativo. Se il brand sarà in grado di suscitare un’emozione nel pubblico, sarà così che l’esperienza verrà marchiata nella mente del consumatore legando il suo destino a quello della marca. Laura Minestroni parla di “emotional touchpoint”18, 28

il che rende chiaro come questa dinamica sia strettamente legata al mondo delle emozioni. Nel rapporto tra cliente e marca non si può più parlare di semplice transazione — che implicherebbe uno scambio di denaro in cambio di beni o servizi — ma di vera e propria interazione. La marca deve corrispondere al suo cliente di più del semplice bene d’acquisto e deve instaurare con lui una relazione duratura, deve valorizzarlo affinché l’esperienza di marca faccia sentire il cliente la miglior versione di sé stesso. Pio Baldi è molto fermo su questo punto:

il ruolo dell’estetica è importante, ma secondo me non è fondamentale. Nel momento dell’acquisto, della persuasione di marketing quello che conta è la mozione interna, quali emozioni quel prodotto o quella marca è in grado di suscitare. Deve riuscire a colpire al cuore, suscitare una mozione affettiva, perché la dimensione affettiva è la più rapida e veloce, il ragionamento sulla convenienza dell’acquisto si costruisce in effetti in un secondo momento e a prescindere da quello che veramente voglio. Oggi si parla molto di storytelling anche in politica, si raccontano storie per convincere a comprare. L’estetica ha si un ruolo, ma nella misura in cui scatena una mozione affettiva.19 Abbiamo superato del tutto l’ottica di mercato alla Vanderbilt. Non è più il fatturato aziendale a comunicare il valore dell’azienda, ma la sua immagine e la sua reputazione. Quanto migliori saranno la trasparenza comunicativa e la reputazione, tanto migliore sarà la qualità delle relazioni. Tutto ciò è divenuto un indice del valore dell’impresa.


Il negozio a tempo è appunto un esercizio temporaneo, la cui durata può variare da pochi giorni a poco più di un mese. Benché piccoli e transitori, questi negozi sono spesso in grado di attirare l'attenzione dei consumatori. Essi compaiono in zone particolarmente in vista della città, proponendo le ultime novità e chiudendo improvvisamente, senza preavviso: l'obiettivo è quello di creare un evento effimero che si leghi a un messaggio temporaneo duraturo, specialmente nelle politiche di marketing delle grandi marche. 17

L. Minestroni, La pubblicità nonostante i mass media, Mondadori Università, Milano, 2011. 18

Pio Baldi nella nostra intervista del 16 ottobre 2015. 19

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5. Contenuto e forma: un’etica del marketing Ora, la marca deve assolutamente premurarsi che ogni propria azione sia imbevuta dei valori di cui è portatrice e ha a sua disposizione diversi strumenti, alcuni dei quali riguardano l’estetica del prodotto e della sua comunicazione. Tuttavia viene da chiedersi se queste stimolazioni visive, tattili e sensoriali in genere, che la marca può usare a suo vantaggio possano effettivamente essere portatrici di valori. Questa riflessione non può che chiamare in causa le classiche questioni della filosofia tradizionale: la forma è in grado di veicolare la sostanza? Possono i fattori estetici, fisici, sensoriali della marca comunicare i suoi contenuti? Esistono questi contenuti?

Si può dire che dietro questa domanda ci sono le domande abbastanza classiche della filosofia per esempio quella del rapporto tra forma e sostanza, oppure del rapporto tra forma e accidenti. Sono due formulazioni analoghe di un problema forse analogo. C’è un modo di porre la questione che è: la forma può cambiare senza intaccare la sostanza, il che vuol dire che al cambiare degli accidenti non cambia la sostanza. Il che vuol dire che la copertina è un contenitore che non influisce sul contenuto del libro ed è una posizione che potremmo definire tradizionale, diciamo metafisica forte, per cui la forma che un concetto assume non modifica il contenuto del concetto stesso. Dall’altra parte c’è invece la possibilità, che forse è più in linea con 30

il marketing e dalla filosofia prende aspetti più concreti, di spostare questa alternativa tra sostanza e accidente, a copertina-contenuto, e, volendo, superficie delle cose-profondità. Secondo questa posizione non sarebbe vero che la superficie delle cose non ha a che fare con la profondità, ma c’è una profondità della superficie. Questo particolarmente nell’estetica del ‘900, ma già da prima, è diventato abbastanza chiaro: nella misura in cui tu accedi a una dimensione profonda delle cose ci accedi solo attraverso la superficie.20 Citando Garroni21 possiamo anche dire che se da un lato non si può presupporre una corrispondenza totale e puntuale tra la forma dell’oggetto e il suo contenuto, è pure vero che l’espressione del contenuto non può prescindere da un qualche supporto fisico, per cui la forma prima o poi prenderà il sopravvento. In altre parole, io posso veicolare un certo significato in diverse forme, ma è pure vero che non tutte le forme possono veicolare gli stessi contenuti. E proprio per il fatto che l’impatto visivo risulta fondamentale, in alcune forme di comunicazione, si rischia di cadere nel formalismo di ritenere che tutte le forme dicano tutto sul contenuto. Un segno iconico è costruito da tratti che traducono in modo visivo la struttura e i rapporti interni dell’oggetto di cui è immagine22, ma questo non vuol dire che sia la copia del suo oggetto. Si limita a “restituire di esso qualcosa che gli appartiene, ma secondo un filtro che è del percipiente, non della cosa”23.


20 Nicola Di Stefano nella nostra intervista del 21 ottobre 2015.

E. Garroni, Immagine linguaggio figura, Laterza; Roma, Bari; 2005. Garroni parla di referenziassimo e lo definisce come segue: “concepire il percepito come il doppio complessivo e puntuale dell’oggetto. Anche chi pensa che la percezione abbia una portata esclusivamente oggettiva concepisce tale portata come un rapporto semiotico, tale che l’immagine è il segno iconico dell’oggetto. E un segno di tipo iconico ha tratti che traducono visivamente la struttura e i rapporti interni dell’oggetto di cui è immagine, ma non è senz’altro il doppio complessivo e puntuale del suo oggetto. Restituisce di esso qualcosa che gli appartiene, ma secondo un filtro che è del percipiente, non della cosa.” Sul tema dell’immagine prosegue: “La filosofia critica ha sostenuto che noi abbiamo coscienza sensibile degli oggetti tra i quali siamo immersi, sia attraverso le affezioni dei sensi, sia attraverso un’organizzazione di esse mediante forme, spazio e tempo, concepite come forme a priori. In realtà la facoltà dell’immagine è qualcosa di non definitivamente chiarissime, di non propriamente descrivibile, di non completamente afferrabile nella sua determinatezza.” 21

L’immagine è intesa da Garroni come “figura esteriorizzata”, ad esempio mediante un disegno, contrapposta all’immagine “interna”, che sarebbe composta da sensazione (cioè il precedente di un’immagine), percezione (cioè l’immagine effettivamente prodotta) e immaginazione (cioè l’immagine riprodotta o ricordata, rielaborata). 22

E. Garroni, Immagine linguaggio figura, Laterza; Roma, Bari; 2005. 23

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I filtri attraverso cui vediamo la realtà sono quindi insiti in noi stessi e siamo noi a dare un certo significato ai segni, alle forme che leggiamo. Questo non esime chi si occupa di marketing a tenere da conto questo aspetto, traducendo la lettura della realtà del consumatore in un’offerta valoriale coerente. Nicola Di Stefano, nell’intervista, riflette sulla necessità di sensibilizzare il mercato su un’etica del marketing.

È un periodo significativo per occuparsi di questi temi. Un tempo una campagna pubblicitaria richiedeva un lavoro molto lungo e durava magari due anni, oggi una campagna ci si può mettere due giorni a idearla e dura al massimo qualche mese. È diventato un mercato che va molto velocemente, che fagocita ciò che produce, produce ciò che è già vecchio, già visto. Come tutte le cose vorticose che non hanno una spinta energetica reale, mi sembra che sia opportuno fermarsi capire un attimo da che parte va questo meccanismo, perché paradossalmente contagia ambiti che non dovrebbe toccare, come per esempio la ricerca medica. Chiaramente non si può parlare di marketing nella ricerca accademica, però i parametri attraverso cui si valuta la ricerca non sono lontanissimi da quelli del marketing. Saranno in molti a leggere un articolo se esce su una 32

rivista che è molto pubblicizzata, molto distribuita e molto presente, quindi sarai meglio pubblicizzato, quindi costerà di più pubblicare. Sembra che la logica del marketing vada a toccare sempre più ambiti che dovrebbero esserne liberi: la ricerca medica, i farmaci, la finanza. Forse bisognerebbe introdurre un’etica del marketing. Etica non nel senso di cosa è giusto o sbagliato, ma nel senso di fare le cose con criterio. Cioè chi fa marketing non dovrebbe avere solo in testa che non deve vendere oggi e poi può crollare tutto, ma bisogna fare quel passettino in più per sé e per l’azienda, con lungimiranza. Non credo che sia sensato anche per chi fa marketing, staccarsi da quello che sta promuovendo, e farlo in modo intelligente, deve esserci qualcosa di reale. Dietro il bello slogan deve esserci l’attenzione alle ragioni per cui, coerentemente con la sensibilità e l’interesse comuni. Ci si può avvalere dei migliori venditori, ma bisogna stare al passo con la sensibilità che cambia. Chi fa marketing deve saper guardare a un metro e a un chilometro, passando da un’ottica all’altra in modo coordinato, tenendo un occhio su come va il mondo. Il fine non deve essere quello di vendere, ma di valorizzare, quello che c’è da valorizzare. Se a


Nicola Di Stefano nella nostra intervista del 21 ottobre 2015. 24

questo segue la vendita allora vuol dire che il prodotto è forte e tu non gli hai fatto altro che bene, se il prodotto è debole e tu l’hai fatto vendere non credo che tu gli abbia fatto un bene, ti ritornerà a boomerang in un modo o nell’altro.24 Etica significa creare corrispondenza tra forma e contenuto, tra accidenti e sostanza. Tra la componente fisica, visiva, materiale, sensibile del prodotto e il suo universo di valori d’uso, affettivi, intrinseci. Il prodotto è davvero quello che mostra di essere? La marca corrisponde a quei valori che professa attraverso la propria immagine coordinata? Il marketing mette a valore le qualità del marchio o sta vendendo la proverbiale “aria fritta”? Fare attenzione a questi aspetti non significa voler aderire ciecamente ad un moralismo a tutti i costi, ma significa fare un bene per l’economia, come puntualizza Di Stefano. Un modello di business virtuoso, fondato su qualcosa di reale, che non genera sprechi, che promuove qualità materiale e umana sarà conseguentemente solido e farà bene non solo al consumatore che vi si affida, ma all’economia in generale.

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6. Come l’estetica del prodotto può rivoluzionare il mercato: il caso Mulino Bianco 6.1 La comunicazione Barilla, storico marchio italiano nel campo dell’alimentazione, negli anni ‘70 apportò una rivoluzione nell’industria dolciaria e del marketing. Da sempre il brand era associato esclusivamente alla pasta, venne allora deciso di studiare per i biscotti un nuovo marchio capace di proporre i valori della tradizione e delle buone cose di una volta. Mulino Bianco nasce con una ragione, in un periodo storico molto particolare per l’Italia. I primi degli anni ’70 furono segnati da un clima molto teso, dovuto alla crisi petrolifera e all’austerity che venne imposta di conseguenza. In Italia iniziarono i primi atti terroristici e si diffuse un clima di paura, insicurezza, violenza: i cosiddetti “anni di piombo”. In risposta alla situazione generale, si decise dunque di costruire il sistema di comunicazione di Mulino Bianco partendo dai bisogni latenti degli italiani negli anni Settanta: il marchio si ispirava infatti al periodo pre-industriale, epoca in cui i valori erano più saldi e puliti, in cui la gente viveva in campagna e mangiava ciò che produceva. L’atmosfera che si volle creare si poneva in opposizione a quella dominante sulla scena sociale e politica. Le gente stessa manifestava un crescente interesse per il ritorno al verde, alla campagna, agli ingredienti naturali e genuini, a forme famigliari, la sfiducia nei confronti di prodotti industriali, la ricerca di un mondo 34

vero, rassicurante, sano e onesto. Le pubblicità della pasta Barilla presentavano famiglie riunite attorno al desco, allegre, in un clima di condivisione. I primi studi per le confezioni Mulino Bianco erano in tipico stile inglese, con l’intento di richiamare la tradizione del tè, perciò si lavorava su una linea di biscotti che avessero una confezione di ispirazione anglosassone, in stile Biscuit House e Mary Ann, che però furono scartati perché non ricordavano le origini italiane del marchio. Seguirono gli studi sulle confezioni a marchio Mulino Bianco ma in stile Barilla, con la riconoscibile livrea blu e la grafica coordinata ai prodotti del gruppo. Infine, si delineò una grafica completamente nuova, con una forte personalità, caratterizzata da un fondo caldo giallo e dall’immagine di un antico mulino. Riguardo la figura del mulino si discusse a lungo sul territorio ove dovesse essere collocato. Si giunse alla conclusione che doveva essere un luogo della memoria, una vecchia marca di fabbrica, ripresa per dare prestigio, per certificare l’anzianità della Casa. L’ispirazione per il marchio veniva da vecchi cataloghi anteguerra del 1915, del ‘23, della Esposizione Universale di Parigi del ‘25. Si cercò di ottenere uno stile rustico, ma di in un paese influenzato da una cultura cittadina. Così il mulino venne disegnato come se fosse


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una vecchia xilografia o un’antica incisione. Le spighe e i fiori contenuti nel logo esprimevano la naturalità del prodotto, l’immagine del mulino era l’emblema della tradizione, evocazione di un mondo fantastico, quasi irreale. Infine il nome “Mulino Bianco” sintetizzava i valori di naturalità e tradizione: il “mulino” richiama l’artigianalità e il modo di fare prodotti “di una volta”, “bianco” è un colore collegato alla purezza, luminosità, salute. Questo condensato di simboli, generò un immaginario del tutto nuovo, destinato a divenire emblema della nuova marca. In questo modo il marchio Barilla compiva un compito per così dire istituzionale e razionale, con i suoi colori e forme sobri, mentre Mulino Bianco traduceva i valori simbolici ed emozionali. Nel 1975 si introdusse la confezione ‘a sacchetto’ che oggi tutti conosciamo. La forma richiamava gli involucri di carta utilizzati dai fornai e si discostava molto dalle classiche confezioni utilizzate per i biscotti, generalmente tubolari oppure in rigide scatole, ponendo i prodotti a marchio Mulino Bianco in modo distintivo sul mercato. Il sacchetto, malgrado non proteggesse il proprio contenuto, prevedeva che il prodotto venisse disposto in modo sfuso, ricordando modalità artigianali e tutt’altro che industriali. Inoltre induceva gestualità familiari, come quella di frugare nel fondo della confezione, che si adotterebbero solo nella propria casa. Il colore giallo tenue del sacchetto, invece, fu suggerito al grafico dal ricordo del 36

cioccolato bianco, e sembrava che si intonasse armoniosamente al messaggio d’insieme di semplicità e genuinità. Così Giò Rossi ricorda quelle scelte:

Il colore del display: volevo che ricordasse la tenerezza. La tenerezza la vai a cercare nell’infanzia: il colore della farina lattea, della pasta dei biscotti rubata alla mamma prima che vadano in forno, o dello zabajone. Doveva essere il colore di una sostanza ricca, generosa e affettiva. Mi rifeci dunque a due ricordi cromatici della mia infanzia: uno era il cioccolato bianco, l’altro era uno sciroppo ricostituente che aveva questo colore ed era per me buonissimo: speravo sempre di non stare bene perché così il medico me lo avrebbe fatto prendere[…] Dovevo tracciare sulla carta elementi in grado di richiamare alla memoria profumi e fragranze di momenti felici mitizzati. Dalla nostalgia della mietitura nacque il mazzo di spighe contornato dai fiori di campo. I colori, tenui e acquerellati, dovevano ricordare quei rosa e quegli azzurri utilizzati nelle vecchie cromolitografie per rinforzare gli incarnati e i lineamenti del volto.


Mi feci così aiutare da Cesare Trolli, da una vita disegnatore e cromolitografo di confezioni di biscotti, a ricreare quei toni e quelle sfumature che cercavo. Fu lui a eseguire materialmente, sulla base delle mie indicazioni e dei miei schizzi, il primo marchio del Mulino Bianco.25

A. Ivardi Ganapini, G. Gonizzi, Barilla: cento anni di pubblicità e comunicazione, Silvana Editoriale, Archivio Storico Barilla, Parma; p. 294; 1994. 25

Il marchio Mulino Bianco nasce nel 1975 e, con le sue caratteristiche simboliche, parla da sé ed è già da solo una vera e propria campagna pubblicitaria, sintesi di valori e di significati immediatamente trasmessi agli occhi del consumatore. Nel lancio della linea il gruppo creativo scelse di proporre solo l’immagine del marchio, considerata già di per sé stessa evocativa, e il prodotto. Così il primo annuncio dei biscotti, elaborato da Dario Landò e Sergio Mambelli, mostrava sul fondo giallo solamente i nuovi biscotti e il nuovo marchio. Si veniva così a creare quella sinergia totale fra campagna pubblicitaria, prodotto, confezione e marchio che avrebbero portato Mulino Bianco a quel successo che oggi è a tutti noto e a dominare l’immaginario collettivo.

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6.2 I prodotti

6.3 Il design

Il sapore dei primi biscotti Mulino Bianco si deve all’esperienza dell’abile biscottiere inglese George Maxwell, vero mastro pasticcere impegnato per mesi sulla linea sperimentale, segretamente approntata in una zona del pastificio, ad elaborare decine di ricette con ingredienti rigorosamente naturali e senza alcun tipo di additivo o conservante, ispirate alla tradizione inglese. In un’epoca in cui i biscotti industriali somigliano tutti a bottoni, l’idea di inserire l’iconografia simbolica nella progettazione del prodotto costituì una vera rivoluzione e la decisione di approntare forme particolari e irregolari con disegni personalizzati, risultò vincente. Vennero avanzate centinaia di ipotesi, dal rustico, al country, al naif, e alla fine furono registrati ben 73 diversi formati e nel 1975, dopo mesi di ricerche e sperimentazioni, vengono messi a punto i primi cinque biscotti della nuova linea a marchio Mulino Bianco: i Galletti, i Tarallucci, i Molinetti, Le Campagnole e Le Pale. I nomi dei prodotti vengono da un lessico contadino e antico ed evocano atmosfere rurali, legate alla tradizione e all’artigianalità. Per sottolineare ancora maggiormente la naturalezza dei biscotti, Mulino Bianco regala ai suoi consumatori le ricette dei biscotti. In questo modo si vuole dimostrare la riproducibilità tra le mura domestiche di un prodotto che potrebbe dare l’idea di essere industriale. Così sui sacchetti dei biscotti vengono riportate le ricette, compiendo quasi una call to action e rendendosi disponibili ai clienti, invitandoli ad entrare nel mondo del Mulino Bianco. La gente sa che, se vuole, può riprodurre in casa le stesse bontà che acquista nei negozi e questo aumenta il grado di fiducia nella marca.

L’idea madre del marchio Mulino Bianco era quella di creare un’immagine globale, dove ogni elemento concorre a costituire un’unica narrazione. A questo fine è stata fatta un’ampia ricerca di elementi grafici originali: vecchie stampe ottocentesche, per lo più di area anglosassone, con immagini di mulini e fregi decorati da spighe di grano e fiori di campo, acquerellati con grazia e stampati in cromolitografia, forniscono l’ispirazione per la elaborazione definitiva del logo. Combinando opportunamente al nome individuato dall’Azienda i vari elementi storici, psicologici e grafici raccolti in mesi di ricerche, lo studio Gio’ Rossi abbozza i primi lay-out del marchio Mulino Bianco. La versione definitiva nasce dalla mano di Cesare Trolli, da una vita disegnatore e cromolitografo di confezioni di biscotti, che riprese con maestria lo stile grafico Art Nouveau. Mulino Bianco è il punto di incontro di una lunga serie di intuizioni affinate da diversi gruppi di lavoro attraverso test e verifiche sul campo: dall’idea di genuinità e rusticità, alle ricette dagli ingredienti naturali, alle forme e ai nomi dei biscotti, alla scelta del sacchetto, al marchio e al colore dominante, caratteristiche che tuttora contraddistinguono tutti i prodotti della linea. L’armonia di tutti questi elementi, espressi in modo efficace dalla pubblicità, rappresenta l’arma vincente per il lancio di un nuovo marchio che ha cambiato tutte le regole del gioco. Il caso Mulino Bianco è l’ennesima dimostrazione che sebbene l’estetica non sia tutto, è sicuramente qualcosa. Sebbene la qualità e la genuinità del prodotto siano elementi fondamentali della marca, soprattutto perché tangibili, l’aspetto esteriore del prodotto e gli

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immaginari che comunicano hanno la facoltà di cambiare in modo radicale il mercato e il modo in cui i consumatori percepiscono un’intera categoria merceologica. Oggi tutti i prodotti dolciari, per la colazione, la panificazione, i biscotti sono improntati allo stile Mulino Bianco. I biscotti vengono venduti per lo più in sacchetti di carta, a dispetto della praticità della confezione che non protegge il prodotto e che una volta aperta tende a rompersi irrimediabilmente. Eppure Mulino Bianco, dagli anni ’70, domina il nostro immaginario facendo da battipista a tutti gli altri brand affini. I prodotti Mulino Bianco non venivano solamente descritti e mostrati, ma raccontati attraverso la costruzione di un mondo ideale al quale in consumatore desidera appartenere. Questo mondo, composto di atmosfere, valori, qualità, si materializza in una serie di immagini e attributi, di raffigurazioni e manifestazioni, messi in forma grazie alla comunicazione visiva. Barilla ha studiato il mercato, ne ha recepito i desideri più forti e reconditi e, con l’uso dei colori, delle forme e delle immagini, è stata in grado di assecondare i bisogni percepiti dalle persone in quel particolare periodo storico, pur offrendo un prodotto assolutamente classico e per niente innovativo.

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La storia di Mulino Bianco

1973-2015

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1973-74

1975

1976

1977

Inizio del progetto strategico per lo studio della nuova linea Barilla.

Lancio in Italia dei primi sei tipi di biscotti Mulino Bianco.

Nel mese di marzo prende il via la prima campagna pubblicitaria TV Mulino Bianco. L'era di "Carosello" stava tramontando e alcune filastrocche identificano, nei biscotti del Mulino, il ritorno alle buone cose di una volta.

Lo storico spot del bambino che sale sul cavallo, sulle note di Franco Godi che introduce un arcaico mondo contadino le cui storie, semplici e romantiche, aprono un ciclo di spot bucolici destinati a durare un intero decennio.


1983-1993

1994-2004

2005-2015

Nascono diversi nuovi prodotti che vanno ad ampliare le linee dei Pani morbidi e non, dei biscotti e delle merendine. In piĂš nascono nuove linee di prodotto come le Torte Fresche.

Nascono nuove merende, vengono modificate le ricette di alcuni prodotti. La linea delle torte fresche si amplia e va a competere con quelle di pasticceria, ricordando quelle fatte in casa. Nel 2000 Mulino Bianco vince il Grand Prix Design e Packaging per la confezione protettiva delle torte.

Mulino Bianco continua ad innovarsi, ascoltando il mercato e i bisogni dei consumatori, per rispondervi in modo soddisfacente. Il lancio di ogni nuovo prodotto Mulino Bianco è preceduto da una fase di meticolosa ricerca, per collocare il prodotto sul mercato.

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2 Linguaggi


1. L’espressione del pensiero: parole e immagini Come abbiamo precedentemente puntualizzato, l’uomo viene a contatto con l’ambiente circostante tramite i sensi. Il risultato della percezione sensibile è il pensiero, che può essere espresso in diverse modalità, ricorrendo a linguaggi di diversi tipi. Quelli che conosciamo meglio e che tutti utilizziamo sono le parole e le immagini. Ma allora in quali occasioni e perché scegliamo le une rispetto alle altre? Una delle risposte che si può dare a questa domanda è che se con le parole ci riferiamo al linguaggio scritto, ci stiamo riferendo comunque a segni grafici, che hanno pertanto un impatto visivo. Arnheim distingue tra rappresentazioni, simboli e segni puri. Chiaramente dietro ai segni devono esserci dei significati condivisi, mentre sembra che l’immagine sia più universale e non necessiti traduzione, malgrado le interpretazioni possano variare di paese in paese, di cultura in cultura. A questo proposito è fondamentale il contributo della psicologia sociale che ci riporta il professor Bruno Mazzara.

A monte di questo c’è, sulla direzione di un approccio costruzionista, l’idea che non si possa avere un contatto con la realtà se non mediato da strutture mentali che sono di natura culturale, sociale. Il linguaggio è sicuramente il mediatore principale del nostro 44

rapporto conoscitivo con la realtà, le immagini e le rappresentazioni sono altrettanto forti veicoli di mediazione della nostra conoscenza del mondo. Quindi il pensiero visuale, narrativo lavora attraverso immagini, metafore. Le metafore sono degli strumenti linguistici di natura visiva, iconica, non sono solo degli abbellimenti, ma dei potentissimi strumenti di conoscenza della realtà: si conosce la realtà narrandola, inserendola in coerenti contesti di immagini. Il segno grafico e la capacità di costruire immagini, di veicolare il pensiero attraverso questo mix di immagini e di linguaggio è assolutamente cruciale. Noi pensiamo così, non esistono le narrazioni e poi le immagini, o il linguaggio. Io penso tramite narrazioni e immagini.1 Dunque pensiamo attraverso immagini, il che significa che il pensiero umano è di tipo simbolico. Conoscendo il mondo attraverso impressioni retiniche e pertanto visive, l’immagine è il primo linguaggio che conosciamo. Probabilmente i nostri pensieri sono condensati in metafore, immagini più o meno concrete, la scrittura stessa non è che un insieme di simboli, che evocano parole e concetti. Nicola Di Stefano precisa:


“I pensieri vogliono forma e la forma va derivata da qualche medium.� Rudolf Arnheim2

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Il linguaggio è un’immagine, è un diverso modo di immaginare e quindi di rappresentare le cose. In origine la scrittura è scrittura iconica, quindi immagine. I simboli che noi abbiamo oggi dell’alfabeto sono evoluzioni di rappresentazioni arcaiche, ancestrali, di situazioni molto comuni tipo la M il toro, la B, la A una donna o un uomo. Molti simboli evolvono proprio da una rappresentazione di questo tipo (Walter Ong). Quindi che nella scrittura ci sia molto dell’immagine, questo è sicuro. L’uomo ha una capacità cognitiva che è simbolica, la scrittura è un simbolo e quindi l’immagine è un mezzo per concepire la realtà. questo però è un senso trascendentale della parola “immagine”, che ha a che vedere con il termine “immagine” che utilizziamo ad esempio per la pubblicità, ma in modo lontano. Che l’origine del linguaggio e dell’intelligenza sia simbolica e che quindi abbiano a che fare con una rappresentazione della realtà terza, che è l’immagine è una cosa molto seria e molto profonda che non sempre si può trovare nella promozione di un marchio o di un’immagine pubblicitaria.3 L’immagine reca significati, così come l’immagine dipinta sulla caverna in cui degli uomini primitivi ammazzavano la fiera. L’uomo non pensava per questo di averla veramente uccisa e di trovarla morta uscendo dalla caverna, 46

ma si trattava di una sorta di rito conoscitivo per entrare in quella forma di contatto con l’animale che avrebbe poi reso propizia la caccia. Un po’ la stessa cosa facciamo noi con i loghi, entriamo in una dimensione quasi religiosa. La contemplazione dell’animale che viene raffigurato in maniera senz’altro diversa da com’è nella realtà, non è altro che appendersi il poster della modella con i capelli perfetti sapendo che non la troverai fuori e che non esiste nemmeno fuori, come non esisteva l’animale blu. Se immaginiamo un membro della famiglia homo 5 o 10 milioni di anni fa, sappiamo che non aveva un linguaggio e quindi non aveva dato un nome alle cose. Il suo comportamento era regolato in base alla variazione delle sue immagini retiniche, veniva quindi modulato in base al profilo, alla forma, al colore e al movimento degli oggetti. Egli non avrebbe confuso una zebra con una tigre, perché, come potremmo supporre, sapeva che doveva inseguire una e fuggire l’altra. Le differenze dello stimolo visivo corrispondevano a differenze nel suo comportamento e possiamo quindi essere certi che fosse in grado di distinguere le cose. Gli animali che avrebbe potuto mangiare e quelli che avrebbero potuto mangiare lui, potevano non avere un nome, ma egli sapeva reagire adeguatamente a questi oggetti foto-riflettenti, i quali innescavano una forma, per quanto primitiva, di significazione. Era, infatti, in base al loro significato che lui poteva distinguerli. Il colore, la forma, il movimento e la distanza delle cose non gli interessavano di per sé. Queste astrazioni erano puramente tratti identificativi, spesso


Bruno Mazzara nella nostra intervista del 28 ottobre 2015. 1

R. Arnheim, Il Pensiero Visivo, Einaudi, Torino, 1974. 2

Nicola Di Stefano nella nostra intervista del 21 ottobre 2015. 3

J. J. Gibson, The perception of the Visual World, The Riverside Press; Cambridge, Massachusetts; pp. 197-198; 1950. 4

leggeri e sottili, di oggetti che invitavano o costringevano all’azione. «Il mondo visivo, in breve, è tanto eloquente quanto concreto: è tanto significativo quanto letterale»4. L’immagine è alla base del pensiero umano, la capacità cognitiva dell’uomo è di tipo simbolico, probabilmente perché, come ci ricorda Cristiano Gatto, la velocità massima a cui può viaggiare tutta l’informazione nell’universo (energia e materia) è la velocità della luce. Perciò la vista è il primo dei cinque sensi che viene coinvolto nella percezione sensibile, l’immagine visiva è il primo elemento con cui entriamo in relazione e che valutiamo di ciò che ci si pone davanti. Non possiamo evitarlo, noi leggiamo il mondo attraverso le immagini ed è così che, spesso lo raccontiamo. Tuttavia si può dire, come aggiunge il professor Cervelli, non sempre un linguaggio è alternativo ad un altro:

Pierluigi Cervelli nella nostra intervista del 29 ottobre 2015. 5

Direi che l’uomo e la donna hanno sempre scelto tutto, nel senso che non esiste una comunicazione che non sia fatta di linguaggi sincretici. Noi non comunichiamo mai solo con le immagini o solo con le parole. Lavoriamo sempre su più linguaggi, quindi chiaramente il visivo funziona come il verbale, sono equivalenti, è un processo di traduzione. Per cui il senso non è qualcosa che appartiene alla parola o all’immagine, ma sono la parola e l’immagine che tradotte insieme producono un arricchimento di senso rispetto a quello posseduto in sé dai due linguaggi presi singolarmente, che in realtà è ben poco.5 Basti pensare all’apprendimento del linguaggio da parte di un bambino, è costituzionalmente sincretico. Per un bambino, da 0 a 3 anni, è molto più importante il tono della voce, nella fase iniziale di comprensione del senso. I linguisti hanno sempre sottolineato come ci sia una fase della vita del bambino, in cui il bambino dice una parola per intendere una frase: “acqua”, “mamma”. Quindi i segni non vanno mai da soli, ma neanche i linguaggi. Per un bambino è di vitale importanza l’uso del deittico, del dito puntato, l’indirizzamento dello sguardo, il tono della voce, tutto ciò che non è necessariamente la parola stampata o scritta, trasformata in codice, ma tutta la variazione del linguaggio parlato. Anche in linguaggi che conosciamo bene come il cinema, l’opera ci troviamo 47


davanti a grandi insiemi sincretici di cose che non possono essere scisse, di cui abbiamo bisogno per comprenderne il significato. Qual è il significato di un film? Non è certo la somma delle immagini, delle parole, della musica e del tono di voce. È semmai un significato globale espresso da tutti questi elementi linguistici messi insieme, cioè il punto di partenza è l’insieme, non è mai il singolo linguaggio. Il singolo linguaggio viene utilizzato per esercitare un’astrazione analitica o per semplificazione. Ma anche la lingua non si usa mai isolatamente, si gesticola, i muove la testa, si orienta lo sguardo, con tutto il corpo siamo in grado di comunicare.

Quindi noi abbiamo una pluralità di linguaggi che si traducono reciprocamente sempre e il significato è dato proprio dall’interazione di questi linguaggi. L’idea che propone la semiotica che mi sembra interessante e qualcosa su cui valga la pena riflettere, è che noi abbiamo una pluralità costitutiva di linguaggi o meglio, prima delle lingue, dei linguaggi viene il dialogo tra i linguaggi stessi. E questo girotondo di linguaggi che si traducono l’uno con l’altro c’è un arricchimento di significato che fa l’efficacia della nostra comunicazione, anche di marca. Sebbene le marche a volte pensino che sia meglio semplificare e quindi vanno a ridurre, impoverire i linguaggi, forse dovrebbero arricchirli.6 48

Se è vero che immagini e linguaggio parlato o scritto sono reciproche traduzioni di significato, che è prerogativa di qualsiasi linguaggio e che non può che arricchirsi nel dialogo tra linguaggi, questa dinamica appare particolarmente evidente parlando di arte. Le immagini non vengono mai da sole, hanno sempre bisogno di un titolo, e, anche quando non ce l’hanno, al loro lato c’è un cartellino con il nome dell’autore e altre specifiche dell’opera come la tecnica utilizzata o l’anno di produzione. Il cartellino deve assistere lo spettatore nella comprensione dell’opera e nella sua interpretazione. Le copertine dei libri vengono utilizzate sfruttando la capacità dell’immagine di catalizzare l’attenzione del potenziale lettore in pochi istanti, unita alla valenza comunicativa del testo scritto, che può descrivere più dettagliatamente il contenuto del libro e soddisfare la curiosità del consumatore. Il primo tema toccato con Maria Vittoria Marini Clarelli è proprio questo e cioè l’associazione titolo-immagine:

Soprattutto per l’arte contemporanea, o anche in quei casi nei quali senza titolo il soggetto sarebbe equivoco o difficile da decifrare, questo tipo di associazione produce un contenuto poetico aggiuntivo. Quindi l’opera ha un suo contenuto, il titolo ha un suo contenuto, l’associazione tra i due genera un contenuto poetico aggiuntivo. Chiaramente nell’opera d’arte questa associazione è di tipo


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strutturale, ma sto pensando ad opere d’arte contemporanea come “Ricordo di New York” di Turcato, in deposito alla GNAM, e li è un’opra astratta però nel momento in cui associ questo titolo al quadro, esso si illumina di significati diversi quindi tu vedi anche degli elementi evocativi di un paesaggio urbano, per esempio.7 Nel caso dei libri invece è tutto in mano alla casa editrice a volte ci sono autori che impongono certe immagini. Ad esempio nei libri Sellerio, Camilleri ha imposto sui suoi primi Montalbano che si usassero dei dipinti di Donghi, pittore degli anni ’20 e ‘30, che ha una scelta di immagine straniante. Certamente non ha nulla a che fare con il libro perché la vicenda di Montalbano si svolge negli anni ’90, però questo tipo di associazione tra un titolo molto astratto come “La Forma dell’Acqua” e l’immagine molto astratta del “prestigiatore” di Donghi, esercita un fascino molto forte. Quindi immagine e testo possono cooperare, arricchendosi vicendevolmente, aggiungendo significato una all’altro, ma anche generando un significato che è più ampio rispetto a quello che avrebbero singolarmente. La stesa scelta di non intitolare un’opera d’arte sarebbe volta ad evitare di suggerire un orientamento verso la scoperta del significato, in modo tale che rimanga libero per il fruitore. A questo proposito risulta interessante la scelta di Gino De Dominicis, provocatorio e controverso artista contemporaneo, che chiamò due opere molto simili tra loro “Senza Titolo” e “Con Titolo”, 50

suggerendo il medesimo effetto di senso, ovvero l’assenza di un’associazione che condizioni la pista di lettura. Abbiamo visto la forza espressiva che deriva dall’associare il linguaggio verbale all’immagine. Ma qual è la forza specifica e particolare dell’immagine? Perché ci comunica così tanto ad un solo colpo d’occhio? La prima risposta a questa domanda viene da Riccardo Falcinelli.

L’immagine permette di orientarsi. La prima forza dell’immagine è quella di distinguere una cosa da un’altra, poi in alcuni casi le immagini hanno una tale forza persuasiva, una loro bellezza, una loro autonomia estetica che fanno si che quella cosa non solo si differenzi dalle altre ma spicchi e tu la noti molto di più. Però non bisogna mai dimenticare che le immagini parlano a pubblici specifici, non si parla mai a tutti, è molto difficile trovare un’immagine che piaccia a tutti.8 Un altro approccio al tema viene dalla psicologia e dalle scienze sociali e da tutto il filone di studi sull’opinione pubblica, il pregiudizio e gli stereotipi. Come ci riferisce il professor Mazzara:

L’immagine è una lente attraverso cui io guardo la realtà. Cioè se io guardo la realtà attraverso una lente colorata, vedo quel tipo di realtà. Allora se io guardo una realtà sociale attraverso una lente che è l’immagine che io ho


Pierluigi Cervelli nella nostra intervista del 29 ottobre 2015. 6

Maria Vittoria Marini Clarelli nella nostra intervista del 20 ottobre 2015. 7

Riccardo Falcinelli nella nostra intervista del 19 ottobre 2015. 8

Bruno Mazzara nella nostra intervista del 28 ottobre 2015. 9

di quell’oggetto. Poniamo gli stereotipi, a partire dalla classica definizione di Lippmann, sono delle immagini della mente. Se io guardo la realtà attraverso queste immagini, e quindi guardo un uomo o una donna attraverso la lente delle aspettative che hanno costruito in me a seguito di una costruzione sociale, l’immagine di quello che deve o può essere una donna o un uomo io tenderò a vedere questa persona colorata. Tenderò a vedere di più certi tratti piuttosto che altri, tenderò a memorizzare certi comportamenti piuttosto che altri. Questa operazione non è eliminabile, questo è il punto. Io non posso pensare di vedere la realtà senza lenti. Posso solo sapere di che colore sono queste lenti che ho sugli occhi. Quest’immagine che fa da filtro è un’immagine che io ho ereditato ma che contribuisco a creare, perché quando la pubblicità, per restare sul nostro tema, contribuisce a rilanciare delle immagini che sono sia immagini fisiche — il corpo maschile e femminile, come viene rappresentato nelle sue tipologie, nelle sue funzioni, nella sua forma — questa immagine diventerà sempre di più la lente attraverso la quale io guardo il mio corpo o il corpo del mio compagno/a, dei miei figli. Questa immagine non è qualcosa di diverso, di posteriore, o di staccato dal mio pensiero. Io vedo, penso, giudico attraverso questa immagine. La funzione dell’immagine, come del linguaggio, come della metafora, come della narrazione, è quella di mediare il nostro rapporto con la realtà. Quello che bisogna sottolineare è che non è possibile avere un rapporto non mediato, perché posso sapere di che colore è la lente che ho davanti, ma non posso guardare senza lenti, perché non vedrei nulla.Sarebbe come una macchina fotografica senza obiettivo. Posso sapere quale obiettivo sto usando, ma senza non vedo nulla.9

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2. Arte e design nella comunicazione di marca fruizione in cui non sempre quello che Come abbiamo visto, quindi l’organo della vista è il primo coinvolto nella conoscenza del mondo si ricerca è il bello in senso classico. e l’immagine assume un ruolo fondamentale. L’arte ha la capacità di ri-insegnarti Deve comunicare il più possibile in un intervallo a vedere, quindi attraverso l’arte vedi di tempo molto breve. cose che prima non vedevi, e poi ti Il marketing da sempre si è avvalso di discipline insegna a relazionarti con il mondo. come l’arte e il design per portare alle estreme Heidegger10 dice che l’opera d’arte è conseguenze questo discorso, questo: apre un mondo, facendo leva il più possibile «Pensare richiede molto quindi mentre dietro a un sull’immagine, sui valori della marca, ma soprattutto su tempo; sentire è immedi- oggetto normale c’è poco, quelli del consumatore, che ato. Puntare all’immedi- dietro un oggetto d’arte c’è un altro universo che ricerca, oltre a un certo valore atezza che non richiede d’uso anche valori estetici. Il l’intervento del pensiero si apre. L’artista davanti design consegna nelle mani del alla sua opera d’arte, è l’essenza del design». consumatore proprio questo: come dice Merleau-Ponty, Naoto Fukasawa un oggetto che ricerchi il è l’uomo che esprime massimo rapporto tra bellezza per la prima volta la e funzionalità, oggetti che non solo svolgano parola, lancia questo grido e non sa la loro funzione, ma che riempiano lo spazio, se significherà, che cosa sarà. Quindi soddisfino il loro possessore alla sola vista. Gli per noi se l’opera è straordinariamente oggetti di design sono diventati simili a oggetti riuscita c’è questo aspetto di meraviglia d’arte, oggetti da museo, tanto che i confini tra e di ricominciare a pensare con un arte e design, a partire dagli anni ‘50 e ‘60, hanno tassello di conoscenza, di percezione cominciato a confondersi. che prima non c’era. Poi c’è anche Ma allora qual è la differenza tra arte e design? questa linea di pensiero di alcuni Se il design serve a tutto, l’arte non serve a niente? studiosi, come Kubler11, per cui l’arte L’arte è supremamente inutile. L’arte non serve, è in un campo che attiene proprio alla sfera “estetica” e quindi è il momento in cui ci si pone davanti ad un oggetto in una dimensione che non è di possesso. È una dimensione completamente gratuita, di una 52

è sempre la soluzione di un problema. L’invenzione artistica ha anche questa capacità, cioè di mettere in forma qualcosa in un modo che non era stato pensato. E anche se le forme sono in continuità e lo scarto è abbastanza breve, l’evoluzione della forma dimostra


10 M. Heidegger, L'origine dell'opera d’arte, C. Marinotti, Milano, 1935-36, ristampa 2000.

G. A. Kubler, La forma del tempo, G.Einaudi, Torino, 1962, ristampa 1981. 11

Maria Vittoria Marini Clarelli nella nostra intervista del 20 ottobre 2015. 12

J. Dewey, L’arte come esperienza, La Nuova Italia, Firenze, 1951. 13

sempre che c’è stata una soluzione imprevista, un salto, in quel momento la creatività ti ha permesso magari con uno spostamento molto semplice dal punto di vista dell’effetto visivo, di cambiare completamente la relazione con gli oggetti.12 Ci troviamo davanti alla grande discussione tra le arti maggiori e le arti minori, che ha attraversato tutto il periodo dell’arte moderna dal ‘500, cioè da quando si è cominciato a teorizzare l’arte e quindi si consideravano arti maggiori la pittura, la scultura e l’architettura e arti minori l’oreficeria, la lavorazione del vetro, la creazione quindi di suppellettili che fossero anche utili e che quindi avessero una funzione applicata. Dalle arti applicate si è arrivati al design man mano che la produzione industriale soppiantava l’artigianato. Nel design entra in gioco il disegno dell’architetto, viene progettata come una piccola «Una vera opera di architettura e per mezzo del disegno tecnico si può spiegare la design deve far muovere funzione dell’oggetto. Per cui il design è l’arte che entra nella vita e le persone, trasmettere man mano questa distinzione tra le arti pure e le arti applicate si è andata sfumando. Però il design fa parte della vita quotidiana come emozioni, riportare alla scelta di insistere sulla qualità del progetto: non tutti gli oggetti mente ricordi, sorprensono oggetti “di design”, anche se il design si applica alle cose più dere, andare controcorbanale, dalla confezione del latte ai moduli da compilare alle Poste. rente». Alberto Alessi Secondo Maria Vittoria Marini Clarelli, perciò, l’arte può essere presa in considerazione, non tanto per la sua utilità intrinseca, che sembra essere comunque limitata in termini materiali, ma piuttosto come effetto. Come scrive Dewey: «l’opera d’arte è esperienza estetica compiuta e viceversa. Ciò comporta pensare l’opera d’arte non soltanto e primariamente come oggetto, ma come un evento»13. Questa capacità dell’arte di scatenare emozioni, apprezzamento, ma anche fastidio, disgusto, reazioni non poteva passare inosservata agli occhi di chi fa marketing. Quando tutto sembra fallire nel catturare l’attenzione del consumatore ma soprattutto nel suscitare una sua risposta, l’arte sembra riuscire a sopravvivere nei secoli, con la sua forza espressiva e ricchezza di contenuti. Non solo essa stessa viene venduta in copie, riprodotta su poster e cartoline di diverse dimensioni, stampata su borse e magliette, ma viene affiancata a prodotti commerciali, come sulle copertine dei libri. Marini Clarelli prosegue:

alla GNAM abbiamo fatto una mostra l’anno di Roma e Torino 53


come capitali del Libro14, “Il libro come tema e il libro come opera”, dove una parte della mostra era dedicato alla rappresentazione del libro nell’arte, in cui trionfava il quadro che è il più utilizzato per le copertine di libri in Italia che è “Sogni” di Corcos, di fine 800, con questa donna che contempla lontano e ha vicino un libro con la copertina gialla. È un quadro che viene ancora utilizzato perché ha un’immediato effetto magnetico, quindi chi lo vede in una vetrina o in un espositore di una libreria rimane attratto e ti fa dimenticare che è stato già utilizzato. E poi il libro come opera dedicato ai libri d’artista. Per quanto riguarda il marketing è tutto più sottile. Analizzando il potere attrattivo di “Sogni” di Corcos ti fa capire che nella gran parte dei casi se il libro è sentimentale c’è sempre un’immagine di donna, non c’è mai una figura maschile o un paesaggio, che invece ricorre nei libri di poesie.15 Quindi sebbene l’utilità pratica degli oggetti d’arte sia pressoché nulla, non si può ridurre l’espressione artistica ad un puro atto estetico. Anna Arendt dice che le opere d’arte sono gli oggetti più durevoli e che la loro funzionalità è inversamente proporzionale alla loro durevolezza. Cioè un oggetto d’arte deve essere in qualche modo astratto dal flusso della vita, dell’utilizzazione, del consumo e diventare 54

qualcosa che invece dura più della propria funzione e decide l’arredamento del mondo. Il nostro gusto è qualcosa che dice come vogliamo che sia il mondo, quindi il mondo è una casa nella quale ci sono degli arredi permanenti e questi arredi sono le opere d’arte che siano delle opere visive, come anche delle opere letterarie, che fissiamo nel tempo. Pertanto l’arte deve avere questa funzione di farci sentire a casa nel mondo, il design, invece, ha il ruolo di confezionare prodotti che coniughino la massima espressione possibile di valore estetico, con la maggiore funzionalità possibile, si pone questioni teoriche per risolvere problemi pratici. Per questi motivi i confini tra design e arte si fanno sempre più labili. Da un lato gli oggetti comuni sono stati progressivamente inclusi nell’espressione artistica: nell’arte contemporanea i materiali utilizzati nelle opere passano dall’essere i classici “olio su tela”, a “ruota di bicicletta su sgabello di legno”16, come nel ready-made di Duchamp, o addirittura a “scatoletta di latta, carta stampata e feci”17. Dall’altro lato la vita di tutti i giorni è pervasa da oggetti che sono stati studiati, progettati, realizzati per piacere, coinvolgere, servire, come delle piccole opere d’arte tascabili. E, sulla linea del pensiero di Anna Arendt, se poi il pregio estetico di questi oggetti viene riconosciuto nei decenni a seguire, meno verranno utilizzati, più dureranno nel tempo, tanto da trovare posto in teche di museo ed essere venerati come opere d’arte. I tempi però sono cambiati e, come sostiene Domitilla Dardi, art director del museo MAXXI di Roma, il successo di un oggetto di design ha un tempo di gestazione, prima di


L'UNESCO ha proclamato Torino Capitale Mondiale del Libro per il periodo 2006-2007, in collaborazione con Roma. Per la prima volta questo riconoscimento è andato all'Italia; le precedenti capitali erano state nell'ordine Madrid, Alessandria d'Egitto, Nuova Delhi, Anversa e Montréal. Questo riconoscimento è stato celebrato dal 23 aprile 2006 al 22 aprile 2007 con una serie di 848 eventi dedicati al libro, tra i quali nuove manifestazioni ad hoc oltre a edizioni speciali di eventi annuali come la Fiera Internazionale del Libro, il Torino Film Festival, il Festival internazionale letterature e il Premio Strega. Lo slogan ufficiale della manifestazione era “Torino Capitale Mondiale del Libro con Roma: due città da sfogliare”. 14

Maria Vittoria Marini Clarelli nella nostra intervista del 20 ottobre 2015. 15

Ci si riferisce all’opera “Ruota di Bicicletta”, Marcel Duchamp, 1913. 16

Ci si riferisce a “Merda d’artista”, Piero Manzoni, 1961. 17

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diventare icona. Questo dipende interamente dal mercato. Se prima i tempi di attesa erano molto più dilatati, oggi il marketing impone dei ritmi forzati e se un prodotto non funziona viene eliminato nel giro di un anno. Aziende italiane di fama mondiale si avvalgono ormai da anni di collaborazioni con artisti e designer. Il marchio Illy Caffè ha istituito quella che ormai è una tradizione, periodicamente fa decorare la classica tazzina da caffè da artisti e designer famosi. Inoltre si rende sponsor di mostre d’arte ed eventi culturali. Questo sodalizio, ormai molto duraturo, tra la casa produttrice di caffè e il mondo dell’arte e del design ha avuto un impatto molto forte sull’immagine percepita dell’azienda che è ritenuta tra le migliori distributrici di caffè. L’azienda Alessi si avvale dei più grandi artisti, designer e architetti viventi per offrire oggetti che siano perfetti, emozionanti, ironici e utili nella vita di tutti i giorni. Quindi non solo il marketing si avvale di arte e design per la loro capacità di smuovere ed emozionare, ma arte e design in un mercato dinamico hanno bisogno del marketing.

Oggi il design è dappertutto quindi a cosa serve? Serve a infinite cose. “Design” è un termine “cappello” dentro cui ci sono molte cose. Diciamo che design è tutto ciò che viene progettato per i grandi numeri. Quindi è design qualunque cosa ci circonda: dalla sedia su cui sono seduto, al discorso che fa Hilary Clinton dove quello che dice è stato studiato a 56

tavolino da progettisti. Quindi anche questo è design, perché è pensato e progettato al millimetro per funzionare sui grandi numeri. A che serve? Diciamo che il design è il sistema con cui comunica una società fatta di numeri così grandi. Finché vivevamo in società ridotte, in un mondo fatto di comunicazioni fatte di piccoli centri e di poche persone, non c’era bisogno di design. Nel momento in cui i numeri esplodono e diventano enormi c’è bisogno di design. E questa è un’esigenza di cui si rende conto chiunque abbia a che fare con i numeri enormi. La pagina Facebook di una persona che ha 50-100 contatti dice tutto quello che passa per la testa al suo titolare, più aumentano i contatti più invece ci si accorge che i contenuti vengono pensati, perché ci si rende conto che non si può dire a 4 o 5000 persone quello che si direbbe a 100. Bisogna pensarci di più. Ecco qua che quelle persone sono diventate designer o si sono poste dei problemi di design.18 Questo è il punto di vista radicale di Riccardo Falcinelli: il design è dappertutto e serve a tutto, seppur in modi non sempre evidenti e sfacciati.


Riccardo Falcinelli nella nostra intervista del 19 ottobre 2015. 18

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3. Il prodotto come opera d’arte: atmosfere e aure Il design e la progettazione grafica vanno, quindi, a risolvere delle problematiche pratiche e ad agire sul potenziale visivo dell’oggetto e della sua comunicazione. Tuttavia, se è vero che non si può fare a meno di apparire e quindi è importante curare l’aspetto esteriore delle cose, è pure vero che ci sono aspetti meno controllabili e forse non pianificabili relativi alla sfera immateriale ed emozionale dell’oggetto. Così come le persone, anche gli oggetti possono avere un potere, probabilmente che noi stessi gli attribuiamo, di muoverci ed emozionarci, toccare corde profonde della nostra sensibilità. Molto dell’efficacia della comunicazione di marca viaggia proprio su questi canali. Così come una persona può essere dotata di più o meno charme, così le opere d’arte possiedono un’aura19. Il filosofo Tonino Griffero ha scritto un’intera trattazione sul tema dell’atmosfera dove propone un’originale descrizione fenomenologica ed estetologica delle ‘atmosfere’, cercando di fare luce su un concetto ambiguo definendone un’ontologia. L’atmosfera è qualcosa che emana da una situazione e ci infonde un’impressione che può essere positiva, negativa, di gioia, di paura. Esse sono qualità emotive irradiate dagli ambienti e dalle cose, la cui azione ha degli effetti sulla nostra affettività e sulla dinamica corporea, sul nostro stato d’animo e, di conseguenza, sui nostri comportamenti e giudizi. Griffero conferisce dunque nuova importanza alle atmosfere, la cui efficacia viene raramente riconosciuta, soprattutto nell’estetica tradizionale, unilateralmente orientata all’arte. 58

«Si sa che l’atmosfera del pranzo è diversa da quella della cena, che i vecchi mobili hanno più atmosfera di quelli moderni, che perfino l’appetito può essere stimolato da un’atmosfera di calore e di fiducia, che a volte basta un motto di spirito per volgere in positivo l’iniziale atmosfera di diffidenza. Eppure, nonostante quest’indubbia familiarità con essa, la domanda ‘che cos’è un’atmosfera?’ è ancora priva di una risposta soddisfacente»20. L’atmosfera, nella definizione di Griffero, è «un sentimento spazializzato, un “di più” e un “non so che” sentiti dal corpo-proprio in un certo spazio, ma mai del tutto riducibili al corredo oggettuale di quello spazio». L’atmosfera dell’oggetto percepito è, in ogni caso, tutto ciò che non è materiale e strettamente riconducibile all’oggetto, ma il suo significato. Tramite essa definiamo il modo in cui esperiamo qualsiasi relazione con il mondo, che non può mai essere definita in maniera oggettiva ma “atmosfericamente”21. Per cui l’atmosfera è qualcosa di immateriale che si instaura nella relazione con un dato oggetto o situazione, ma è pur vero che all’eliminazione dell’oggetto svanisce il sentimento atmosferico stesso. La percezione atmosferica non è una proprietà attribuibile in assoluto ad oggetti coesi, solidi, continui, mobili che emana per contatto, forme e movimenti discreti. Griffero le chiama “situazioni caotico-molteplici”, che aumentano la complessità fenomenologica e percettiva di ciò


W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966. In questo saggio Benjamin definisce l’aura di un’opera d’arte come “apparizioni uniche di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina.” 19

20 T. Griffero, Atmosferologia, Laterza; Roma, Bari; 2010.

C. Hauskeller, Atmosphären erleben. Philosophische Untersuchungen zur Sinneswahrnehmung, Akademie Verlag, Berlin, 1995. 21

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di cui facciamo esperienza. L’atmosfera non è tanto nell’occhio dell’osservatore, quanto un sentimento oggettivo o interrogativo incontrato nello spazio esterno. Questo sentimento può essere costruito in vari modi, sostanzialmente manipolando situazioni fisiche e psicologiche e ipotizzandone l’effetto atmosferico. Ne sa molto Maria Vittoria Marini Clarelli, che per anni ha curato l’allestimento delle esposizioni alla Galleria d’Arte Moderna di Roma.

Un tema è come si applica l’atmosfera all’oggetto. L’atmosfera di un oggetto viene chiamata “aura” normalmente e viene applicata alle opere d’arte ma non solo. Secondo Walter Benjamin, filosofo del XX secolo, l’aura è la sensazione di una distanza per quanto un oggetto possa essere vicino, per cui si concretizza come un involucro che si frappone tra te e l’oggetto. L’idea di aura ha un grande valore all’interno dei musei, dove il rapporto con l’oggetto diventa molto più complesso perché l’atmosfera, come dice Tonino Griffero, è un sentimento spazializzato. Oggi nei negozi si lavora molto sull’atmosfera, viene sfruttata per trasformare dei semplici spazi in luoghi, da eventuali non luoghi che sono. Adesso ci sono dei negozi di lusso dove la proposta è quasi tutta atmosfera e niente prodotto, dove ci sono pochissimi oggetti esposti e il resto è atmosfera.22 Più che una teoria del giudizio sull'arte, per Tonino Griffero la nuova estetica sarà una 60

indagine sulla “prima impressione” che si ha del mondo esterno. Secondo il filosofo, l’estetica dovrebbe tornare al suo significato originario di teoria della conoscenza sensibile, che riguarda la qualità della nostra percezione e, quindi, la nostra vita quotidiana. L’aura di Benjamin, teorizzata per le opere d’arte, e l’atmosfera degli oggetti e delle situazioni della vita quotidiana sono sensazioni immateriali, aeree che si instaurano tra noi e il mondo, caricando emotivamente ogni azione che compiamo. Lo stesso vale per le persone, nella dimensione relazionale tra due individui il risultato è sempre maggiore della somma delle parti, per dirla in modo “gestaltico”23. Su questa ineffabile immaterialità si instaura il lavoro di Cristiano Gatto, che fa dell’atmosfera la sua professione.

Nel momento in cui noi ci guardiamo allo specchio, guardiamo le persone, si instaura un rapporto, cioè l’andare fuori da sé e tornare. Nel momento in cui noi “andiamo fuori” è il momento in cui guardiamo, il momento in cui invece noi rientriamo è il momento in cui facciamo un pensiero che può essere il commento positivo o negativo, o comunque un giudizio. Quindi noi siamo sempre lo specchio degli altri. Ma l’aspetto davvero interessante, secondo me, è quello che sta in mezzo tra noi e l’oggetto che abbiamo davanti, che può essere specchio o persona. La parte che sta nel mezzo è la parte di relazione. E io vado a lavorare su questo inesistente, invisibile che è il rapporto.24


Maria Vittoria Marini Clarelli nella nostra intervista del 20 ottobre 2015. 22

La psicologia della Gestalt (dal tedesco Gestaltpsychologie, psicologia della forma o rappresentazione) è una corrente psicologica incentrata sui temi della percezione e dell'esperienza che nacque e si sviluppò in Germania nel periodo tra gli anni dieci e gli anni trenta.I loro studi psicologici si focalizzarono soprattutto sugli aspetti percettivi e del ragionamento e del problem-solving. La Gestalt contribuì a sviluppare le indagini sull'apprendimento, sulla memoria, sul pensiero, sulla psicologia sociale e indagò le basi del comportamento nel modo in cui viene percepita la realtà. 23

Ogni cosa che ci mettiamo addosso, intesa come capi di vestiario o accessori o oggetti che ci accompagnano nella vita quotidiana parlano di noi e riflettono verso l’esterno una scelta ben precisa, definendo il modo in cui ci proponiamo al mondo. Gli oggetti con i quali ci abbigliamo rappresentano un pensiero costruito e arricchiscono di significati la nostra immagine, tanto che non possiamo pensare che gli altri non si facciano un’idea di noi, in base al modo in cui ci poniamo al mondo. Ma gli oggetti, gli accessori, gli indumenti, ancora una volta, non sono tutto, continua Gatto.

Poi c’è il carisma o la capacità di essere attrattivi per le persone che viaggiano su altri canali, che non sono quelli dell’estetica intesa in senso fisico. La stessa forza di un brand non si gioca solo sull’estetica. Il carisma è giocato su un mix di fattori che vanno fuori di te e coinvolgono i sensi (voce, profumo, tatto). È una questione di energia.25

Cristiano Gatto nella nostra intervista del 17 ottobre 2015. 24

Cristiano Gatto nella nostra intervista del 17 ottobre 2015. 25

Lo stesso si può dire per un marchio: l’estetica, gli orpelli decorativi non sono tutto. Infatti il carisma del marchio, la sua aura giocano un ruolo fondamentale nella percezione del brand.

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4. L’uso strategico dell’immagine Non dimentichiamo che l’obiettivo del marketing è vendere un prodotto o un servizio, ciò è possibile sfruttando diverse leve. Assai conosciuta è la teoria delle 4P, quattro leve decisionali che costituiscono il marketing mix: prodotto, prezzo, punto vendita (distribuzione), promozione, a cui qualcuno aggiunge ulteriori fattori (people, placement, profit). Ad ogni modo tutte le P che risultano essere oggetti concreti e materiali hanno una loro immagine, che deve essere curata, affinché sia attraente, interessante, utile per i motivi che abbiamo precedentemente ribadito. In un progetto globale di immagine del prodotto rientrano molti aspetti: il nome, il logo, il design del prodotto, il packaging, la pubblicità e la comunicazione, i punti vendita. Tutti questi tasselli vanno a costituire un messaggio visivo che, se ricco di significati e valori, produrrà un’allusione narrativa sul conto della marca. Nella comunicazione tramite immagini il messaggio che si vuole comunicare è un testo visivo, perciò è necessario che tutti gli elementi che compongono il messaggio siano organizzati in modo coerente, coeso e organico tra loro. Infatti il marchio diventa una sorta di motore semiotico in grado di veicolare significati che non sono relativi al contesto puramente fisico, ma che rientrano nella sfera emotiva della collettività, collegando caratteristiche specifiche della produzione bisogni, desideri, sentimenti dell’oggetto scatenati nell’individuo.

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A. Appiano, Manuale di immagine: intelligenza percettiva, creatività, progetto, Meltemi, Roma, 2002, p. 156. 26

Il nome

dice moltissimo del prodotto, ma non solo: ne forma la personalità e permette che si distingua dagli altri prodotti sul mercato. Ave Appiano nella sua analisi26 ricorda come gli antichi legassero al nome un destino, nomina sunt omina, i nomi sono presagi e sancirebbero il successo o l’insuccesso del prodotto sul mercato. È, dunque, fondamentale che il progetto di immagine di un prodotto parta dal suo nome e non solo per la parte che concerne il naming in senso stretto, che deve essere, come puntualizzavamo precedentemente, coerente con i contenuti e i valori del prodotto stesso, ma anche con tutto ciò che è la forma grafica del nome, quindi il lettering all’interno del logotipo.

Il logotipo (o marchio)

rappresenta la condensazione grafica di tutte le potenzialità espressive, evocative e comunicative del marchio. Esso unisce al suo interno il nome del prodotto con il logo della marca, producendo un significato più ampio tramite un’associazione paragonabile a quella tra titolo e immagine nell’opera d’arte, che descrivevamo più sopra. La sua funzione primaria è quella di identificare l’azienda e quindi il suo prodotto o servizio. Il logo sarà tanto più efficace, quanto più risulterà riconoscibile, percepibile e memorizzatile. Il logo verrà utilizzato quindi nella comunicazione sia interna all’azienda che esterna, presentandosi con tratti ben distinguibili concorrerà alla creazione di un’immagine coordinata, che ha la fondamentale funzione di rendere uniforme e coerente l’immagine del prodotto, della marca e del gruppo aziendale. In questo modo rimarrà impresso nella mente del consumatore e verrà posizionato in modo distintivo nella sua mente. In altre parole, il marchio è un elemento comunicativo che deve evocare il carattere dell’impresa, trasmettendone in pochi tratti grafici le caratteristiche, i valori e la filosofia aziendale, l’immagine interna e l’immagine esterna. Lo stile grafico, il codice cromatico, la scelta dell’immagine e il lettering sono tutti elementi costitutivi del marchio.

Il packaging

è il vestito del prodotto e ne rappresenta la prima parte visibile. Esso deve rispondere a diverse funzioni di carattere pratico, estetico ma anche etico. Innanzitutto il packaging deve essere studiato in modo da consentire uno stoccaggio senza sprechi di spazio, un trasporto agevole, una protezione del prodotto al suo interno e una disposizione nel punto vendita ottimale. Poi la confezione deve essere caratterizzata da una notevole visibilità, per poter essere distinta rispetto agli altri prodotti. Sarà necessario che risulti coerente con il progetto di immagine coordinata, includendo il logo della marca, il codice cromatico scelto dal brand e rispondere ai requisiti di qualità che ci si aspetta dal prodotto. In sostanza il packaging deve sedurre il consumatore e conquistarlo in pochi istanti, indurlo a preferire quel prodotto piuttosto che quello posizionato accanto ad esso nello scaffale del supermercato. Apple, che viene spesso utilizzata come esempio di design del prodotto e dell’esperienza, offre ai suoi fedeli clienti un packaging che è perfettamente all’altezza del prodotto, tanto che molti fan conservano gelosamente scatole e involucri delle apparecchiature acquistate. Per quanto riguarda la funzione etica del packaging esso deve fornire informazioni chiare, univoche e veritiere sulle qualità del prodotto. Dunque, come dicevamo nel primo capitolo, deve esserci corrispondenza tra forma, cioè quello che dichiara di essere, e contenuto, quello che effettivamente c’è sotto la superficie. C’è da aggiungere che non tutti i prodotti sono dotati packaging, ovvero di un involucro protettivo. Alcuni vengono dotati di personalità tramite l’uso di un’etichetta, basti pensare al vino in bottiglia, o a capi di vestiario. Altri sono contenuti in una confezione senza alcun pregio estetico, come i prodotti ortofrutticoli, o alimentari in generale, contenuti in vaschette di polistirolo avvolte da una pellicola in cellophane. L’etichetta in tutti questi casi conferisce identità al prodotto svolgendo una funzione esplicativa, talvolta descrittiva. 63


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A. Appiano, Manuale di immagine: intelligenza percettiva, creatività, progetto, Meltemi, Roma, 2002, p. 177. 27

Il punto vendita Infine una buona immagine coordinata non può trascurare il proprio punto vendita. Esso deve presentare il prodotto, ma anche rispecchiarne tutte le caratteristiche visive, estetiche e valoriali. Chi entra nel negozio entra in un mondo, nel mondo della marca. Entrando in un negozio Camper si ha la sensazione di camminare dentro una loro scarpa. Il colore degli espositori è il rosso distintivo del marchio, le forme morbide e sinuose degli arredi richiamano i tratti caratteristici del design Camper, le luci sono morbide e puntate sul prodotto mettendolo in risalto, come in un museo. I famosi Apple Store sono esempio di architettura e design in tutto il mondo.

Il design

ovviamente di fondamentale importanza è il design del prodotto stesso che, come precedentemente puntualizzato, deve rispondere ad esigenze di ordine pratico ed estetico.

La comunicazione

Il prodotto inoltre deve essere comunicato e la pubblicità stessa rientra nel progetto di immagine. Essa, secondo una definizione classica, è una forma di comunicazione persuasiva, di massa, funzionale a un progetto più ampio e quindi al raggiungimento di obiettivi di marketing. Un tempo la pubblicità tradizionale prevedeva una comunicazione visiva, costituita da una componente verbale e una iconica. Oggi i suoi confini sono sempre meno chiari e definiti, nel senso che pervade sempre di più la vita di tutti i giorni e non si limita ad essere un’immagine stampata con una scritta, o uno spot televisivo, ma sfrutta meccanismi di engagement, sorprende il consumatore e lo coinvolge in un’esperienza a tutto tondo della marca. Essa deve ottenere non solo l’attenzione del consumatore, ma la sua complicità e partecipazione, canalizzando lo sforzo dell’azienda al raggiungimento di nuovi clienti e alla fidelizzazione di quelli già esistenti.

Tutti questi elementi devono costruire un’atmosfera unica e coerente con la marca, che travolga il consumatore e lo conquisti, generando una “allusione narrativa”27 — come la definisce Ave Appiano — facendo sì che la marca si racconti al consumatore, si metta in luce ai suoi occhi scatenando il lui il desiderio di appartenere a quell’universo. La pubblicità è cambiata, il mondo è diverso ma anche i consumatori sono cambiati. Non basta più un bel poster, o un bello spot televisivo, ma serve una sinergia di forze che adoperi questi strumenti in maniera integrata. E tanto più forti sono i valori a monte del prodotto, tanto più efficace sarà l’attività di comunicazione. 65


5. Quando il business icontra l’arte: il caso Alcantara e MAXXI Alcantara è un’azienda italiana, produttrice di un materiale di avanguardia assoluta, capace di garantire prestazioni estetiche, tecniche e sensoriali inedite, appartenendo ad una categoria a sé stante di materiali. L’azienda fa da sempre dell’alta tecnologia e dell’artigianalità i suoi valori fondanti, a cui associa un’attenzione alla sostenibilità ambientale, l’azienda infatti vanta bassissimi livelli di emissione di CO2. Tutte queste qualità rendono Alcantara un’azienda di punta per l’Italia, essendo all’avanguardia come tecnologie, innovazione, prodotti e attenzione al mercato. Nel 2011 l’azienda italiana Alcantara ha iniziato un percorso di co-produzione con il museo di MAXXI di Roma nel corso del quale, per diversi anni, è stato chiesto a artisti e designer internazionali di realizzare opere utilizzando il materiale Alcantara, attenendosi al tema dell’esposizione finale. Nel corso di questa collaborazione il museo ha dimostrato di non essere una istituzione nel senso più tradizionale del termine, bensì un centro propulsore, una cassa di risonanza per le idee, una palestra per gli autori. Questa iniziativa ha rappresentato la messa in atto di una strategia sia culturale che operativa, collaborando con una realtà, come è Alcantara, che in Italia e all’estero investe nella ricerca, sostenendo e realizzando le idee di giovani talenti. Secondo Andrea Boragno, presidente e CEO di Alcantara, il senso di una relazione tra azienda e museo sarebbe da cercare nell’intenzione di sondare nuovi territori interpretativi allontanandosi da un’ottica di mero mecenatismo, per scegliere la via di una collaborazione reale che provenga innanzitutto dallo scambio di conoscenze. Quello svolto tra 66

MAXXI e Alcantara è stato dunque un progetto sfidante, che ha esplorato l’innata sensorialità del materiale, mettendo anche alla prova la capacità di innovazione di un’istituzione museale. Il patrimonio artistico nato dalle quattro mostre che sono state svolte nel corso degli anni di collaborazione ha rappresentato un valore immenso non solo per il numero di opere realizzate, ma per il mondo di relazioni cui ha dato vita. Le sale del MAXXI hanno svelato al grande pubblico internazionale le potenzialità e la duttilità espressiva di Alcantara, moltiplicandone i linguaggi e aprendo l’orizzonte del pubblico, ma anche delle aziende, a nuove possibilità di comunicazione. Alcantara si è dimostrata un’azienda illuminata, capace di dialogare con le istanze del MAXXI, con un percorso di crescita comune, lontana dalla logica della sponsorship fine a se stessa. Le reciproche competenze sono state messe a disposizione per immaginare qualcosa che prima non esisteva: un nuovo modello di collaborazione tra azienda e museo in cui entrambe le parti vedono, nella costruzione di un processo condiviso, un’occasione di dialogo reale per dare forma ad una ricerca comune, per sperimentare in modo concreto come nuova visione del design contemporaneo. Un ruolo chiave è stato rivestito dagli artisti e designer selezionati per la realizzazione dei lavori. La loro interpretazione è stato ciò che ha conferito ampiezza al ventaglio di possibilità percettive e interpretative della materia, mettendola alla prova e sperimentandone nuove frontiere espressive. Il compito degli organizzatori è stato quindi quello di mediare e favorire questo processo di scambio, per spingersi oltre ciò che esiste, prendendo alla


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lettera il concetto di “progettare” (gettare in avanti). Per MAXXI e Alcantara l’esperienza di collaborazione è stata un’occasione per instaurare un percorso comune di sperimentazione e ricerca, creando una dimensione del tutto nuova e facendosi pioniere di un processo di ricerca a tutto tondo. Dato determinante nella riuscita di questo nuovo modello sinergico è stato quello della durata: sin dall’inizio non si è pensato a un eventospot, a una singola manifestazione finalizzata a un’esposizione, ma a un iter di ricerca che avesse il giusto tempo di crescita, l’ampio respiro di uno sviluppo fisiologico di maturazione. Ecco, quindi, che quattro anni hanno portato sì ad altrettante diverse mostre ma queste sono state immaginate come tappe di svolgimento di un percorso completo. Nella prima mostra nel 2011 — Can You Imagine? — lo spunto fornito ai progettisti è stato quello di immaginare una dimensione diversa della materia, superandone quanto più possibile l’uso bidimensionale di rivestimento per approdare a una visione più volumetrica, quasi architettonica e strutturale. Le undici grandi installazioni che sono state prodotte sono ognuna un modo unico e inedito di interpretare altrettante qualità del materiale: il suo comportamento in attrito, la sua flessibilità, la possibilità di essere forato, cucito, incollato, inciso e via dicendo. Gli autori hanno così avuto modo di raccontare la storia di questo percorso di conoscenza in un progetto fortemente autoriale. La magia finale 68

è stata constatare che, a parità di condizioni, la versatilità della materia prima facesse da reagente ai linguaggi personali dei singoli designer. Ogni singola poetica è stata quindi messa in evidenza, pur mantenendo il carattere di un esperimento collettivo.

Can You Imagine? 07.10/13.11-2011

L’idea è stata quella di guardare al futuro del materiale, pensando cosa sarebbe potuto e potrà diventare, quali fossero le sue potenzialità ancora inespresse e tutte da scoprire. Non fermarsi a ciò che esiste, ma di sperimentare e progettare nel senso letterale del termine: andare oltre, proiettarsi in avanti con l’immaginazione e la creatività. Non limitarsi ad un utilizzo canonico del materiale, come rivestimento, ma stravolgerlo. Partendo dallo stesso materiale, gli artisti hanno messo in evidenza le proprie singole personalità in maniera multiforme e variopinta, svelando nuove frontiere fino a quel momento sconosciute. Il merito del risultato è ugualmente da dividersi tra le capacità creative dei singoli autori e le qualità di Alcantara. Prima fra tutte la sua duttilità alle più diverse interpretazioni, dimostrandosi un vero materiale da progettazione.


Shape Your Life! 31.10/18.11-2012

Può allora il design intervenire per farci sentire “a casa fuori casa”? Questa è la sfida che è stata lanciata agli otto giovani designer, selezionati in questa seconda fase della collaborazione tra Maxxi e Alcantara. Gli autori hanno pensato, ideato, immaginato degli habitat accessoriati per migliorare la qualità del tempo passato in questi scenari dell’abitare “nomade” dove viviamo in condivisione dalla realtà presente, sono partiti per trasformarla attraverso le tinte forti di un design attento, sensibile sia ai bisogni funzionali sia a quelli emozionali. L’invito era dunque a vivere, provare e toccare con mano una nuova dimensione degli spazi condivisi nella vita di tutti i giorni: Shape Your Life!

L’anno successivo la sfida consisteva nell’ipotizzare un utilizzo di Alcantara nella vita di tutti i giorni e di rendere accoglienti i luoghi, o non luoghi, in cui ogni giorno passiamo diverse ore, pur non sentendoci a casa. Il terzo anno è stato dedicato all’indagine sulla sensorialità di Alcantara. Il materiale è conosciuto principalmente perché bello da vedere e morbido da toccare. Ma la tattilità è proprio una sua vocazione, un invito irresistibile al quale è praticamente impossibile sottrarsi; il più naturale degli istinti è quello di far scorrere la mano per comprovarne l’essenza fisica. L’ipotesi da valutare è stata: cosa accade quando coinvolgiamo altri sensi quali udito e olfatto? La strada praticabile è divenuta così quella della sinestesia multisensoriale; non più singole esperienze sensoriali, quindi, ma una complessa interazione che mette in gioco più sensi contemporaneamente. E proprio sul “mettere in gioco i sensi” è stato trovato un “nuovo senso”, entrando in un campo sinora inesplorato, anche tecnicamente, per il materiale Alcantara. Luci, suoni, colori, movimento nello spazio e ritmo sono tutti ingredienti che creano coralmente una diversa consapevolezza del materiale, attivata dal tatto per poi proseguire su altri territori esperienziali. 69


pLaYfuL Inter-aCtIon 31.11-2013/05.01-2014

La naturale vocazione tattile, oltre che la sua bellezza visiva, è la principale prerogativa di Alcantara. Ma cosa accade quando sono altri sensi a essere stimolati nell’incontro con questo straordinario materiale? A due gruppi di designer è stato chiesto di lavorare sull’attivazione di un’esperienza multisensoriale, che partisse da tatto e vista per poi esplorare altre possibilità. Il risultato è in una sorta di sinestesia, un fenomeno che si verifica quando più sensi sono coinvolti contemporaneamente e la somma delle esperienze genera un effetto unico, completamente diverso dalle percezioni prese singolarmente. Per ottenerlo, fondamentale è stato l’apporto del visitatore: la sua interazione con l’opera è parte dell’opera stessa, l’una vive dell’intervento dell’altro. Il nuovo senso che risultava da tutte queste azioni era quello di una giocosa leggerezza. Perché l’emozione dell’esperienza è la più spontanea occasione di nuove conoscenze, a qualunque età.

L’ultima delle iniziative nell’ambito di questo progetto è stata nel 2015, che ha visto la creazione di simboli e icone della città eterna realizzati in Alcantara. Dalla Vespa di “Vacanze Romane” alla fetta di cocomero fresco, al classico tombino romano con la scritta “SPQR”. 70

Local Icons. Greetings from Rome 27.03/07.06-2015

Dal talento e dalla sensibilità degli autori selezionati è nata una piccola collezione ispirata a Roma e alla ricchezza del suo immaginario culturale, storico e popolare: oggetti che fanno parte del nostro patrimonio di ricordi, che rievocano personalissime emozioni e che la versatilità di un materiale unico come Alcantara ha interpretato cogliendo il significato più profondo di ogni progetto. I risultati positivi di questa sinergia sono stati diversi, primo fra tutti dimostrare la notevole versatilità e il grande pregio del materiale, che si è prestato per la realizzazione di opere assolutamente uniche. La seconda riflessione riguarda la condivisione tra azienda e museo che ha dato prova tangibile che, quando gli obiettivi sono comuni, come nel caso specifico della spiccata attitudine alla sperimentazione delle due parti in causa, è difficile se non superfluo valutare quale delle due ne abbia tratto maggiore beneficio. Perseguire il bene dell’uno o dell’altro non ha più senso, perché tutto diviene valore comune. Elemento non trascurabile è stato infine la libertà concessa da ambo le parti. dall’azienda e dal museo, nel proporre strade non ancora battute e indagare territori che fino a quel momento erano inesplorati. La collaborazione è stata, sinora, un esempio lampante del coraggio di cui il mondo imprenditoriale e culturale avrebbero oggi bisogno.


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3 Desiderare e acquistare


1. Dimmi cosa compri e ti dirò chi sei: l’espressione del sé Abbiamo descritto il modo in cui l’essere umano si relaziona con la realtà materiale e, di conseguenza, con i prodotti presenti sul mercato, perché “l’occhio vuole la sua parte” e quindi qual è la forza dell’immagine. Abbiamo visto come l’estetica può essere sfruttata in progetti globali di immagine relativi all’intero mondo di una marca. Ma perché dovremmo scegliere un prodotto piuttosto che un altro? Oppure, perché dovremmo scegliere affatto? Chiaramente ci stiamo riferendo a un paradigma che può risultare vero solo nella nostra economia, nella società occidentale votata al consumo. Bauman scrive:

Nella maggior parte delle descrizioni il mondo formato e sostenuto dalla società dei consumi rimane nettamente diviso tra le cose da scegliere e coloro che le scelgono; tra le merci e i loro consumatori; tra cose da consumare e persone che le consumano. In realtà, la società dei consumi è ciò che è proprio perché non è fatta in quel modo: ciò che la distingue da altri tipi di società è proprio il fatto che le divisioni sopra indicate si confondono e, in ultima analisi, si annullano.1 74

Il consumatore è quindi allo stesso tempo merce, marchio e “brand di sé stesso” per usare un’espressione oggi molto popolare. La soggettività della persona si afferma in uno sforzo continuo a rimanere merce e quindi essere vendibile ma, come sottolinea Bauman, questo vuol dire mescolarsi al mare delle merci esistenti e confondersi con esse. Quello che spinge i consumatori a consumare incessantemente è proprio questo desiderio di emergere da quel mare di cose che, per usare Simmel, «galleggiano con lo stesso peso specifico dell’inarrestabile corrente del denaro»2. Di questi aspetti si occupa la psicologia e ce ne riferisce Bruno Mazzara.

Il nucleo della psicologia dei consumi, come anche della sociologia dei consumi, sta nell’idea che il bene di consumo è sempre molto di più che un bene strumentale rispetto alla funzione che deve svolgere, ma è molto di più un bene simbolico, ha quindi un carattere simbolico che sostanzialmente lo trasforma in un oggetto di comunicazione. L’oggetto sta comunicando a me qualcosa della sua identità sua come oggetto, che come


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brand, che come tipologia di uso e io attraverso quell’oggetto comunico ad altri elementi della mia appartenenza del mio modo di essere, del mio modo di agire. Essendo questo il mondo delle apparenze bisogna riformulare questo concetto, perché non è che ci sono delle apparenze finte dietro cui sta una sostanza reale. Nel nostro mondo, il rapporto con tutti gli oggetti è esattamente quello che noi valorizziamo di quegli oggetti e quindi un oggetto è esattamente quello che mi appare, lo scopo che raggiunge nel mio spazio di vita. Quindi la mia realtà oggettiva non è quella materiale, ma quella simbolica, che è quella in cui vivo. Per cui nel momento in cui l’oggetto riesce a vendersi a me come oggetto simbolico che corrisponde alle mie esigenze simboliche, ha raggiunto il suo scopo.3 Il consumatore, l’homo consumens4, termini con cui indichiamo ormai l’uomo della nostra epoca, vive questo dramma e cioè quello dell’affermazione della propria individualità. Come posso essere sicuro di essere io se quello che compro me lo sta proponendo qualcun altro? Non solo, ma posso solo scegliere tra quello che mi viene proposto? Per proseguire con Bauman, «la soggettività dei consumatori è costituita da scelte di acquisto — scelte compiute dal soggetto e dai suoi acquirenti potenziali — e la sua descrizione assume la forma della lista della spesa»5. Viviamo cercando di barrare quante 76

più voci possibili sulla nostra lista della spesa, lista che nel frattempo continua ad allungarsi e a modificarsi a seconda delle nostre necessità e dei nostri obiettivi. Avere degli obiettivi sociali, relazionali, professionali ci rende talvolta assimilabili a piccole imprese che devono vendere il proprio prodotto, laddove il prodotto siamo noi con lo nostre capacità, abilità e conoscenze. Nell’era della comunicazione digitale e dei social media ognuno è invitato a curare il proprio “personal branding” e a vendersi letteralmente, ad esempio quando si parla della ricerca di lavoro. Cristiano Gatto si occupa di consulenza di immagine “dalla punta dei capelli alla punta dei piedi”, e si trova spesso ad affrontare questo tema con chi si avvale della sua professionalità. Tuttavia si distacca dalla visione della persona come brand.

Dire che ognuno è il brand di se stesso è come dire che ognuno di noi è un prodotto e che deve vendersi. Per me non esiste la persona come prodotto, esiste la persona come persona, che poi può avere degli obiettivi, come avere un upgrade lavorativo. In quel caso potresti essere considerato un brand, ma non lo sei: hai degli obiettivi. È una questione di contesti, è ovvio che se vai ad una serata di gala e ti vesti in modo molto casual hai deciso di farti notare negativamente. Però l’hai deciso. L’importante è pensare che ci sia sempre dietro una scelta. La cosa stupida, oggi, è pensare che quando


Z. Bauman, Consumo, dunque sono, Laterza, Bari, 2007, p. 17. 1

G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma, 1903, ristampa 1995. 2

Bruno Mazzara nella nostra intervista del 28 ottobre 2015. 3

Z. Bauman, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, Edizioni Erickson, Trento, 2007. 4

Z. Bauman, Consumo, dunque sono, Laterza, Bari, 2007. 5

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ti mostri a qualcuno le persone non debbano considerarti, o avere un pensiero su come ti proponi. Perché è impossibile, è troppo insito in noi. Fa parte di come siamo costruiti geneticamente.6 In effetti siamo così immersi nella società dei consumi che si rischia di aderire ciecamente ad una visione del mondo che ci vede succubi degli oggetti, delle cose e dei soldi che li possono comprare. Chiaramente queste imposizioni ci vengono anche dalla società in cui viviamo. Infatti, se è vero che l’uomo è un organismo vivente che ha bisogno di consumare beni materiali per vivere — è ciò che accade con il cibo così come con i capi di vestiario o la casa, che gli servono per proteggersi dall’ambiente esterno — è vero anche che le mode cambiano molto il modo e l’urgenza con cui percepiamo questi bisogni. In altre parole, se negli anni ‘80 si era affermata la supremazia della griffe a tutti i costi e la sua ostentazione come valore, questo oggi non è più vero. Un maglione lavorato a mano dalla propria nonna può essere “cool” proprio perché, come ci ricorda Cristiano Gatto, la moda oggi è molto più democratica. Anche l’attenzione al biologico (noto in America come organic), al vegetale sta sancendo un ritorno all’artigianalità, a recuperare un rapporto con la natura. In Italia solo nel 2015 i giovani lavoratori nel settore agricolo sono aumentati del 12%7. Ad ogni estremo corrisponde una reazione e quella del momento è una lotta per affermarsi nella propria unicità: 78

Il segno dei tempi è comunicare all’esterno ciò che si è all’interno. Il valore assoluto, più alto è l’autenticità. Più una cosa è autentica, più arriva e più è diretta, più può essere capita.8 Questa affermazione di Cristiano Gatto appare tanto più vera se andiamo a vedere quante marche stanno utilizzando la personalizzazione del prodotto. L’idea si basa sul fatto che ognuno voglia esprimere la propria personalità, ma allo stesso tempo si concretizza in una sorta di ossimoro, perché il prodotto di base è frutto di un processo industriale standardizzato che non può che avere come output un prodotto uguale per tutti. Un classico esempio è l’orologio Swatch. Se da un lato c’è chi sostiene pessimisticamente che con l’affermazione dell’individualismo si sono andate perdendo le società collettive, dove esisteva l’attenzione per l’altro, e vede nel consumismo la massima espressione della perdita di qualsiasi valore etico fondato sulla collettività, c’è da dire che, come scrive Maura Franchi, “attraverso le pratiche di consumo ciascuno porta avanti un continuo processo di negoziazione di senso, che è innanzitutto — né potrebbe essere altrimenti — un senso individuale”9. Ogni oggetto che introduciamo nella nostra vita e nella nostra quotidianità parla per noi, almeno a prima vista, permettendoci di controllare quantomeno le prime impressioni che diamo di noi stessi.


Cristiano Gatto nella nostra intervista del 17 ottobre 2015. 6

Dato Coldiretti: Giovani Impresa (luglio 2015), Lavoro: +12% giovani under 35 in agricoltura nel 2015. 7

Cristiano Gatto nella nostra intervista del 17 ottobre 2015. 8

M. Franchi, Il senso del consumo, Mondadori, Milano, 2007. 9

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2. Desiderare è come acquistare Ad ogni modo quest’ansia di esprimere la propria autenticità e la propria soggettività, di emergere dal mare delle merci, comporta sostanzialmente — per l’individuo nella società dei consumi occidentale — la messa in atto di comportamenti di consumo. Dobbiamo dare luogo ad una costruzione che rispecchi il nostro pensiero e la nostra idea di noi stessi e lo facciamo coprendo i nostri corpi, circondando i nostri spazi di azione con oggetti che vogliamo ci rappresentino. Tuttavia prima di effettuare un acquisto il consumatore mette in essere tutta una serie di valutazioni che non si limitano al gradimento estetico di un dato prodotto. Non basterà che la grafica della confezione sia accattivante, o che il prodotto abbia un design all’avanguardia, o il che negozio abbia un buon profumo. Non bastano tutti questi fattori, perché il prezzo del prodotto ha un’influenza, o anche la valutazione da parte del consumatore sulla necessità di procedere con quell’acquisto, piuttosto che fattori situazioni non controllabili come l’umore della persona e la sua disposizione d’animo in quel preciso momento. Qui entriamo in un ambito complesso che appartiene alla psicologia cognitiva, quello delle euristiche10, relativo alla nostra capacità di valutare in maniera efficace, vantaggi e svantaggi delle nostre scelte, il rapporto tra la dimensione razionale (vantaggi e svantaggi) e quella emotiva (tensione, desiderio, felicità). Tuttavia possiamo considerare il fatto che il consumatore arrivi a desiderare un oggetto — malgrado questo desiderio non si traduca necessariamente in un comportamento di acquisto — di per sé un successo per il marketing? 80

Di tutto ciò il marketing si serve per dare al mercato ciò che i consumatori vogliono. Quindi quello che il marketing fa è ascoltare i bisogni profondi della gente, le voci della strada, ma anche quelle più profonde, per assimilarle e tradurle in proposte di prodotti e servizi. Questi bisogni però non sono necessariamente estetici, sono dei bisogni intimi, dei desideri.11 Un esempio molto calzante di ciò può essere fatto guardando alle copertine dei libri. Ad esempio i libri Adelphi, con la loro copertina di cartoncino grezzo, oppure le Einaudi senza immagini e solo testo, o le copertine di Chiarelettere, che sono matte con colori sgargianti. Sono sicuramente diverse da quelle dei romanzi, con carta lucida, colori forti e immagini molto descrittive. Ogni copertina risponde a dei bisogni del lettore che non sono solo estetici, ma intimi, non necessariamente espressi. La copertina di un romanzo risponde ad una volontà di spettacolo, ha il compito di far sognare l’acquirente, fa accendere qualcosa in lui. Le copertine invece più minimalistiche sono dedicate ad un lettore che è più interessato al contenuto del libro, di cui sulla copertina non compare alcuna traccia, per non rivelare nulla di più sul libro, ma al massimo suggerire.

Quindi l’estetica risponde a dei bisogni molto intimi dell’uomo, che trovano la loro prima soddisfazione nell’aspetto visivo. Rivela una promessa. Chi


10 Nella psicologia cognitiva le euristiche sono semplici ed efficienti regole che sono state proposte per spiegare come le persone risolvono, danno giudizi, prendono decisioni di fronte a problemi complessi o informazioni incomplete. Il principio che giustifica l'esistenza di euristiche è quello secondo cui il sistema cognitivo umano è un sistema a risorse limitate che, non potendo risolvere problemi tramite processi algoritmici, fa uso di euristiche come efficienti strategie per semplificare decisioni e problemi.

Erminio Perocco nella nostra intervista del 5 novembre 2015. 11

compra qualcosa, compra un’attesa di nuove soddisfazioni. Come la foto di una bella donna, non è la donna stessa, rimanda ad essa ma rimane in sé stessa in quanto immagine di qualcos’altro.12 A questo proposito, un tema poco trattato è quello delle copertine dei dischi. I dischi sono un prodotto generalmente per i giovani e lo sono sempre stati a partire dagli anni ’60, con le grandi rock band. Essendo la musica sostanzialmente immateriale, i dischi in vinile si compravano soprattutto per la loro copertina, essa infatti rimanda a punti focali, atmosfere del disco, e rappresenta quindi un appagamento in sé stessa, una promessa di soddisfazione, uno stimolo che in sé è un valore. Per usare Leopardi13, l’attesa di soddisfazione è in sé soddisfazione, in quanto è il preambolo del piacere stesso. È così che nella nostra società dei consumi, l’acquisto non è tanto teso alla soddisfazione di bisogni, ma si può dire che sia teso alla creazione di desideri, all’attesa di soddisfazione. Questo lo vediamo nel marketing di molti brand, la Coca-Cola, i telefoni Huawei o i computer Apple. Tutto è basato sulla tattilità, sulla stimolazione sensoriale da parte dei materiali utilizzati. Il piacere sta nell’estetica, nel guardare l’oggetto per trarne soddisfazione visiva. Basti pensare quanto è importante per una motocicletta la sua forma, la finitura del materiale, il design: sono tutti tratti evocativi che vanno a toccare particolari corde nel consumatore, il cui valore percettivo è molto forte. Lo stesso ricorre nel packaging. Esso va oltre il prodotto, fa leva sulla percezione, su sentimenti intimi che vengono dalla pancia e attrae istintivamente. La pasta contenuta nella scatola in stile anni ’50, a differenza di quella confezionata in buste di plastica, condensa in se tutta una serie di valori legati al ricordo, alla nostalgia, alla narrazione, al viaggio e alla storia del prodotto, che lo arricchiscono e entrano a far parte dell’esperienza di consumo.

Erminio Perocco nella nostra intervista del 5 novembre 2015. 12

La “Teoria del Piacere” è una riflessione sul piacere e sulle passioni umane. È contenuta nello Zibaldone, la raccolta di appunti scritta da Giacomo Leopardi tra il 1817 e il 1832. G. Leopardi, Zibaldone, edizione commentata e revisione del testo critico a cura di Rolando Damiani, A. Mondadori, Milano 1997. 13

Certo che in una società che vende tutto, dove tutti i bisogni essenziali sono stati esauditi, per continuare a vendere bisogna continuare a suscitare nuovi bisogni. Per questo si usano molto i giovani, anche nella pubblicità, perché loro hanno nuovi 81


desideri, una carica vitale. I grandi, invece, gli anziani, sono più concentrati sul valore d’uso, sono già andati oltre il desiderio puro, che invece è fortissimo nel bambino. Per la stessa ragione è importante considerare chi fa la grafica, se se ne occupano i giovani saranno in grado di trovare sempre qualcosa di nuovo, per cui stupirsi, loro stessi hanno desideri sempre nuovi, e la società dei consumi batte proprio su questo. Anche nella musica, i movimenti musicali sono sempre nati a partire dai giovani, perché loro hanno voglia di sperimentare, una certa carica che un cantante famoso ormai grande, non ha più. Non potrà che ripetersi perché avrà, in un certo senso, esaurito la sua carica espressiva. La società dei consumi fa leva su questo, sui desideri da esaudire. Un desiderio non produce nulla, ma può produrre guadagno, se si traduce in un comportamento di acquisto. Io non vendo solo oggetti, ma vendo usi, valori. Quindi gli oggetti si caricano di desiderio, attraverso un’ipotesi di esperienza, questo è. È la percezione a far vendere, non il vantaggio in sé 82

legato a quel particolare oggetto.14 Il tema del desiderio è quindi molto interessante e calzante. Oggi si sono affermati social media come Pinterest o Instagram, dove ciascuno può creare un suo feed di attività basato sulla condivisione di immagini. Le immagini condivise non sono altro che questo: espressione di desideri, un tentativo di costruzione identitaria basato non solo sul mostrare ciò che si ha, ma sulla pubblica ostentazione di ciò che si vorrebbe avere. A questo proposito è interessante la riflessione di Maura Franchi che parla di un passaggio epocale dalla cultura del possesso a quella dell’accesso. Quello che oggi mostriamo con fierezza non è necessariamente la proprietà del bene in questione, ma il semplice accesso ad esso ed è così la cultura dell’accesso temporaneo comincia a prevalere su quella della proprietà15. Tant’è vero che si va sempre più diffondendo la possibilità di affittare o prendere in leasing prodotti che prima erano considerati beni di lusso: smartphone, vestiti firmati, automobili, computer, barche, opere d’arte. Tutto ciò, oltre ad avere evidenti vantaggi pratici come la velocità della transazione, la diminuzione del senso di responsabilità nei confronti dell’oggetto stesso, i costi minori, la possibilità di cambiare spesso, permette di conseguire una mobilità che oggi


è considerato un valore, considerato un tratto sociale assolutamente desiderabile. Max Weber16 sosteneva che il principio di una società di produzione doveva essere il rinvio della gratificazione, se l’obiettivo era quello della produzione. Bauman17 applica il pensiero weberiano alla società dei consumi e scrive che la linea guida etica della vita di consumo deve essere il rimanere insoddisfatti. Infatti essendo la soddisfazione del cliente l’unica motivazione e scopo di vita della nostra società, il consumatore già soddisfatto è la peggiore delle minacce.

Erminio Perocco nella nostra intervista del 5 novembre 2015. 14

M. Franchi, Il senso del consumo, Mondadori, Milano, 2007, pp. 29-30. 15

M. Weber, Economia e Società, vol. II, Einaudi, Torino, 1922, ristampa 1999. 16

Z. Bauman, Consumo, dunque sono, Laterza, Bari, 2007, p. 123. 17

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3. La dimensione culturale dell’estetica Parlando di questi argomenti, come abbiamo già sul nostro conto e mostrare di noi quanto più più volte puntualizzato, non si può prescindere possibile: da quello che mangiamo al libro che dal precisare che tutte queste considerazioni leggiamo, o eventi a cui partecipiamo, marche sono vere e possibili solo nel mondo occidentale che acquistiamo. e globalizzato. Se i valori, i gusti e le mode Thorstein Veblen chiama questa dinamica il cambiano nelle epoche storiche, cambiano “consumo vistoso”19, definendola una strategia radicalmente anche in base alla loro collocazione impiegata dalla classe agiata per dimostrare geografica. la propria superiore ricchezza e il proprio Non in tutte le culture l’ostentazione è un status sociale prestigioso. Il consumo vistoso valore. Ricordiamo dopo il disastro nucleare consisterebbe in uno spreco di beni di lusso, di Fukushima, in Giappone, la sconcertante praticato attraverso l’acquisto e l’ostentazione di compostezza dei giapponesi affetti da questa nuovi abiti e, in generale, nuovi beni di consumo tragedia. Questo non voleva di lusso. Non solo avendo dire che i loro animi non fossero sé stessi come beneficiari, «L’arte non prescinde scossi ma, non essendo la ma anche facendo godere dal tempo per esprimere della propria ricchezza altre loro una cultura della parola, parlare dell’accaduto era ritenuto semplicemente lo spirito persone a ad essi vicine: la inopportuno e superfluo. A una della Storia universale, moglie, la servitù, gli ospiti di un popolazione del genere si può bensì è connessa al ruolo ricevimento. comunicare in modo diverso Ora, Veblen scriveva La teoria delle mode e a tutti gli rispetto a come si farebbe a della classe agiata nel 1899 e ambiti del gusto.» quella americana, o a quella si riferiva in particolare ad una Gillo Dorfles europea. classe dotata di una ricchezza Vanni Codeluppi parla di notevole, che desiderava “vetrinizzazione sociale”18 intendendo per vetrina ostentarla più che mai per sancire la propria un linguaggio istantaneo, che deve sedurre supremazia sul resto del popolo e che oggi si in pochi istanti ed è per questo uno spazio “di è senz’altro ridotta, anche nei suoi eccessi e sogno”, si artificiale, ma anche perfetto e senza sprechi. Tuttavia la teoria di Veblen, mutatis complicazioni. Il risultato è che gli individui mutandis, risulta vera ed applicabile a tutti finiscono per creare una cornice virtuale entro gli individui della società moderna. L’“effetto cui iscrivere la propria vita, un palcoscenico dal Veblen”20 proposto in microeconomia da quale verrà mostrata la faccia pubblica della Leibenstein, prevede che tanto maggiore è il persona e dove verrà spettacolarizzata la propria prezzo di un bene, tanto più desiderabile sarà sfera privata. Per stare a passo con i tempi quel bene da parte dei consumatori. Sarà proprio e con i carichi flussi comunicativi dobbiamo per questa aumentata desiderabilità del bene produrre altrettanto “materiale informativo” che esso sarà ritenuto di tale prestigio. Basti 84


V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale, Bollati Beringheri, Torino, 2007. 18

T. Veblen, La teoria della classe agiata: studio economico sulle istituzioni, Einaudi, Torino, 1899, ristampa 1949. 19

20 H. Leibenstein, Bandwagon, Snob and Veblen effects in the theory of consumer’s demand, Quarterly Journal of Economics, 64, pp.183207, 1950.

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vedere quanti costosi fuoristrada circolano per le strade delle nostre città, a scapito della viabilità, della possibilità di trovare parcheggio e della praticità in generale. Malgrado essi siano concepiti per un uso cosiddetto outdoor, nella natura, per il proprio aspetto e, probabilmente, per il loro prezzo elevato sono diventati uno status symbol, sancendo la differenza tra chi può e non può permetterselo. A questo proposito è quanto mai calzante la riflessione di Bourdieu sul tema della distinzione e del gusto. Il gusto è uno strumento di classificazione sociale, attraverso cui gli agenti classificano gli altri e sé stessi, ma anche vengono a loro volta classificati. La cultura si configura in pratica come un sistema di pratiche culturali di consumo dove tutti i bisogni culturali — in particolare pratiche come la lettura, l’ascolto di musica, la frequentazione di musei o luoghi di cultura — sono strettamente connessi all’istruzione e all’origine sociale. Bourdieu parla di “habitus di classe”21 e lo definisce come “forma incorporata della condizione di classe e dei condizionamenti da essa imposti”. L’habitus è contemporaneamente il principio generatore di pratiche oggettivamente classificabili e sistema di classificazione di queste pratiche. Così l’immagine del mondo sociale, lo spazio degli stili di vita, si riceve proprio nel rapporto tra la capacità di produrre pratiche ed opere classificabili, e la capacità di distinguere e di valutare queste pratiche e questi prodotti — che chiamiamo gusto — caratteristiche dell’habitus. Non solo, ma l’habitus classificando le pratiche è in grado di cogliere le differenze di condizione in base a criteri di differenziazione che sono a loro 86

volta prodotto di queste differenze, e per questo oggettivamente conformi e atti a percepire tali differenze come naturali. Ne risulta che gli stili di vita sono prodotti degli habitus e divengono sistemi di segni qualificati socialmente, in quanto classificati. Per cui è evidente che i nostri gusti sono i caratteri in base ai quali decidiamo di distinguerci rispetto agli altri. Infatti secondo la corrente del costruzionismo sociale, a partire da Berger e Luckman, le persone interpretano il significato della propria esperienza sulla base della lettura dei segnali interni e la “grammatica” di questa dinamica, non è decisa dal soggetto ma dal suo contesto socioculturale di riferimento, o meglio dai corsi di socializzazione e dai gruppi di riferimento. Per questi motivi in un mercato globalizzato le differenze culturali vanno tenute in considerazione, i modelli di analisi sociologica devono essere sempre più in grado di cogliere la relatività delle esperienze. Esistono diverse metodologie di studio come l’etnografia22, l’approccio drammaturgico23, la psicologia sociale discorsiva24, che sono particolarmente utili per analizzare i comportamenti di consumo delle persone alla luce del loro contesto sociale di provenienza. È necessario conoscere i valori di riferimento di ciascuna cultura e le segmentazioni della società per poter parlare ai propri pubblici e per essere ascoltati e capiti. Non tutte le immagini parlano allo stesso modo, esse sono meccanismi che entrano in relazione con chi guarda e il significato dell’immagine è dato dalla relazione tra questo meccanismo e il pubblico a cui ci si riferisce, a condizione che si ottenga la sua attenzione25.


P. Bourdieu, La distinzione: critica social del gusto, Il Mulino, Bologna, 1983. 21

L’etnografia studia come le persone danno senso a ciò che fanno nella vita quotidiana soffermandosi sui vissuti quotidiani, sulle azioni compiute sul campo e sull’analisi delle differenziazioni culturali e sociali. 22

L’approccio drammaturgico ricerca nell’interazione, considerata simile alla rappresentazione teatrale, il significato di eventi e azioni agiti nei contesti sociali e di vita. 23

La psicologia sociale discorsiva rintraccia nell’analisi della conversazione e narrazione le costruzione culturale del mondo in cui le persone effettivamente pensano e agiscono. 24

Riccardo Falcinelli nel suo intervento al TEDxArezzo nel 2014. 25

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4. Perchè giudichiamo un libro dalla copertina? Nel corso delle interviste svolte ai fini del presente lavoro di tesi a questa domanda sono state date risposte talora diverse, talvolta concordi. Giudichiamo un libro dalla sua copertina? L’abito fa il monaco? E se si, perché? Perché per l’uomo contano i dettagli estetici di ciò che osserva? Come sostiene Alain De Botton26 il design ha importanza per noi perché ci sentiamo diversi a seconda di ciò che abbiamo davanti agli occhi. Le nostre identità e i nostri umori sono fluidi e cangianti, perciò la qualità del design, dell’architettura degli spazi e degli oggetti che ci circondano definiscono come ci sentiremo. Basti vedere l’esempio delle chiese cattoliche, che sono state costruite nei secoli per tramandare la parola a chi non sapeva leggere, per stupire e persuadere della grandezza di Dio i suoi fedeli. Secondo De Botton la bellezza è una promessa di bontà, mentre il brutto non fa che promettere insicurezza e male. Il buon design incoraggia i nostri lati positivi, così come una buona architettura espone di noi il nostro lato migliore. Pertanto siamo persone diverse in luoghi diversi e di conseguenza potremmo dire che siamo persone diverse, o così ci consideriamo, a seconda di cosa possediamo e del suo aspetto esteriore. Di seguito vengono riportate le risposte di alcuni degli intervistati alla domanda “perchè si giudica un libro dalla copertina?”.

Nicola Di Stefano

Nella misura in cui tu accedi a una dimensione profonda delle cose ci accedi solo attraverso la superficie. 88

Riccardo Falcinelli

Io sono piuttosto radicale in questo: non possiamo fare altrimenti, perché non siamo in grado di entrare in contatto con le essenze, ma abbiamo solo rapporti con i fenomeni. Se noi interpretiamo alla lettera la parola “estetica” è ciò che appare, ciò che si da ai sensi, e non abbiamo altro. Conoscere una persona per la prima volta non significa entrare in contatto con la sua essenza, con la sua ontologia, né tanto meno accade con le cose. Tutti i rapporti che abbiamo con il mondo sono di tipo estetico. Il punto è che noi, attraverso questi rapporti fenomenologici, ci costruiamo un’idea di come stanno le cose, ma lo facciamo comunque attraverso l’aspetto sensoriale. Quindi a maggior ragione, se parliamo di cose, oggetti, che acquistano un determinato valore, morale, culturale, o economico, perché vengono vendute o scambiate, la loro apparenza — come si presentano agli occhi — è l’aspetto cruciale, perché è tramite questo aspetto che ci entriamo in relazione. Tanto più se abbiamo poco tempo per valutarle. Però io non credo che esistano i contenuti, esistono solo le forme che li veicolano. I contenuti sono una costruzione psicologica, ovvero noi attraverso le forme ci facciamo un’idea, anche morale, di come stanno le cose. Ma noi abbiamo a che fare solo ed esclusivamente con le forme. Non abbiamo un altro tipo di rapporto col mondo. Per essere radicali, se si entra da Feltrinelli e tutti i libri sono uguali, tutti bianchi, e tutti i titoli e gli autori sono tutti in corpo 22 su interlinea 22 in Times New Roman, come si fa a scegliere? C’è un pregiudizio morale e moraleggiante, nella nostra società, dove si pensa che quello che si giudica attraverso i sensi, o attraverso le forme, sia una conoscenza di secondo livello e questo è dovuto a tutta una serie di pregiudizi, innanzitutto


The Book of Life, Why Design Matters, http:// www.thebookoflife.org/ why-design-matters 26

religiosi. Perché sia il cattolicesimo, in misura minore, che il protestantesimo, moltissimo, hanno costruito quest’idea che ciò che si conosce attraverso i sensi vale meno. Di fatto l’estetica delle cose, e qua lo intendo veramente in senso etimologico, cioè ciò che appare delle cose, il modo con cui esse si danno ai nostri sensi, è uno strumento di orientamento. Non mi riferisco soltanto al dire “questo è bello, questo è brutto”, ma a un vero e proprio orientamento. Se si entra in libreria e si vedono 1000 copertine diverse, già solo dal colore si può capire se un libro è di saggistica oppure horror. Senza quello come ci si può orientare? Nella società di massa è uno strumento fondamentale. È anche uno strumento di seduzione, ma non solo. Oggi quando parliamo di estetica parliamo sempre solo della seduzione, si pensa solo agli aspetti superficiali, ma si tratta di strumenti di comunicazione che riescono a dire in maniera succinta determinate cose che stando all’interno di un codice si è in grado di decifrare. È come la questione del vestiario, che comunica in maniera molto breve tutta una serie di cose: chi sei, perché ragioni in un certo modo, ma soprattutto se hai il senso dell’appropriatezza, secondo me. Se tu vai alla prima all’opera e ti presenti in tuta da ginnastica, stai dicendo una cosa precisa.

Cristiano Gatto

L’unità di misura più veloce è la velocità della luce e questo da sé dice già un po’ tutto. Questo significa che come vedo una persona entrare dalla porta, mi ha già comunicato delle cose. In un’epoca in cui tutto è veloce, più una cosa arriva diretta, meglio è. Basti vedere come l’immaginario visivo è cambiato negli ultimi 2 o 3 anni e come, di conseguenza, le persone

usano la rete. Ad esempio, oggi Instagram ha superato Facebook e funziona con l’immagine. In quest’ottica le persone si sono abituate sempre di più a guardare le cose, a vedere. Quindi l’immagine ha assunto un ruolo sempre più forte, che comunque nella storia ha sempre avuto. Al tempo degli egizi gli ornamenti, ciò che si indossava, i materiali preziosi, determinavano il grado di potere di una persona e l’hanno sempre fatto nella storia. In sostanza, nasciamo nudi e tutto ciò che ci mettiamo addosso è un pensiero costruito. Più è “pensiero”, meglio è. Anche “vestirsi con la prima cosa che mi è capitata” è una scelta, magari di iconoclastia dell’immagine, ma è una scelta. Perché giudichiamo un libro dalla copertina? Secondo me questa cosa nasce dall’idea di specularità. Ovvero, quando noi ci troviamo davanti ad uno specchio, scatta immediatamente un giudizio. Lo specchio rappresenta il giudizio: noi ci guardiamo e iniziamo a pensare a qualcosa “mi piaccio, non mi piaccio, sono alto, sono magro, sono brutto, basso ecc”. Quando noi ci troviamo di fronte ad una persona si innesca in noi lo stesso meccanismo: una comparazione tra noi e gli altri. Quindi nel momento in cui noi ci guardiamo allo specchio, o allo stesso modo guardiamo le persone, si instaura un rapporto, una dialettica: andare fuori da sé e tornare. Nel momento in cui noi “andiamo fuori” è il momento in cui guardiamo, il momento in cui invece noi “rientriamo” è il momento in cui esprimiamo un pensiero che può essere un commento positivo o negativo, o un qualsiasi giudizio. Quindi noi siamo sempre lo specchio degli altri. Ma l’aspetto davvero interessante, secondo me, è quello che sta in mezzo tra noi e l’oggetto che abbiamo davanti, che può essere specchio o 89


persona. La parte in mezzo è la parte di rapporto. E io vado a lavorare su questo inesistente, invisibile che è il rapporto. Cioè lavorare sul percepito. Quando si dice la classica frase “l’abito non fa il monaco” ci si riferisce al percepito e a tutto ciò che noi abbiamo in testa come preconcetto o stereotipo. Quindi noi pensiamo che la tale persona debba essere vestita in un certo modo e in quel certo modo rappresenti l’essere a posto o chic o adeguata. Ma tutto ciò che riguarda l’immagine oggi in termini di total look è sempre una questione di testa. Non è mai una questione di oggetti o di moda, ma di ragionamento. Quando hai davanti una persona decidi come porti o come mostrarti. Chiunque vada ad un appuntamento decide come vestirsi. Quindi scegliamo un libro dalla copertina perché oggi la copertina dice quasi più cose del contenuto stesso del libro, fondamentalmente. Gli spazi di rapporto e di comunicazione sono cambiati. A me è capitato di preferire la copertina al contenuto di un libro, ma quasi la gioia è acquistare quel libro perché ha quella copertina lì, perché effettivamente l’estetica oggi è molto importante ed è in grado di comunicaremolto. Ti dice anche tante cose di te stesso, di come vorresti essere e non sei, di come vorresti vedere gli altri. Secondo me questo interesse non è rivolto all’esterno, ma sempre verso l’interno, cioè sul conoscere sempre di più se stessi.

Bruno Mazzara

Tutto il nostro rapporto con la realtà, qualunque essa sia, deve fare i conti con quelli che sono da un lato i limiti del sistema cognitivo, che ci richiede di acquisire conoscenze in maniera rapida ed efficace su tutti gli oggetti quando quasi mai abbiamo il tempo, le capacità e 90

le energie psicologiche per approfondire le caratteristiche degli oggetti. Quindi noi siamo attrezzati per individuare determinate caratteristiche, tramite le quali costruiamo un’immagine dell’oggetto. C’è un settore della psicologia che si chiama “prima impressione”, cioè cosa succede quando io mi faccio una prima impressione di un oggetto cognitivo, qualunque esso sia: una persona, un oggetto, ma anche un’idea, un concetto. Quando entro in contatto con un oggetto nuovo di conoscenza devo crearmi una cornice interpretativa entro cui inserire, man mano, le altre informazioni che poi ricevo. Quindi l’oggetto di consumo, anche nel suo aspetto esteriore, dal packaging, dal colore, da una serie di indizi che tecnicamente si chiamano periferici, che non hanno a che fare con l’essenza ultima del prodotto, con la sua funzionalità, ma che hanno a che fare con le modalità di presentazione del prodotto stesso o comunque marginali rispetto alla funzione specifica, questi possono avere o spesso hanno la funzione di creare questa cornice di riferimento e quindi l’aspetto esterno è quello. La funzione di un grafico nel marketing, nella pubblicità ha un ruolo importantissimo, perché deve catturare l’attenzione, deve veicolare un messaggio, perché attraverso i segni deve riuscire ad evocare le caratteristiche del brand, le potenziali utilità per il target di riferimento, evocare gli aspetti simbolici. Il nucleo della psicologia dei consumi, come anche della sociologia dei consumi, sta nell’idea che il bene di consumo è sempre molto di più che un bene strumentale rispetto alla funzione che deve svolgere, ma è molto di più un bene simbolico, ha quindi un carattere simbolico che sostanzialmente lo trasforma in un oggetto di comunicazione. L’oggetto sta comunicando a me


qualcosa della sua identità sua come oggetto, che come brand, che come tipologia di uso e io attraverso quell’oggetto comunico ad altri elementi della mia appartenenza del mio modo di essere, del mio modo di agire. Essendo questo il mondo delle apparenze bisogna riformulare questo concetto, perché non esistono delle apparenze finte dietro cui sta una sostanza reale. Nel nostro mondo, il rapporto con tutti gli oggetti è esattamente quello che noi valorizziamo di quegli oggetti e quindi un oggetto è esattamente quello che mi appare, lo scopo che raggiunge nel mio spazio di vita. Quindi la mia realtà oggettiva non è quella materiale, ma quella simbolica, che è quella in cui vivo. Per cui nel momento in cui l’oggetto riesce a vendersi a me come oggetto simbolico che corrisponde alle mie esigenze simboliche, ha raggiunto il suo scopo. Quindi la copertina del libro è esattamente questo messaggio, sia dal punto di vista estetico sia da quello dei contenuti. Nella copertina c’è la quarta di copertina, che è il succo, la sintesi di quello che c’è nel libro, dove con pochi tratti, con poche battute occorre motivare il lettore all’acquisto e comunicargli come quell’oggetto entrerà nel suo spazio intellettuale emotivo. Tutto questo è estremamente difficile. Chi fa quel lavoro lo fa con accuratezza, è tutt’altro che superficiale, è in qualche modo la sostanza stessa. Questo vale per tutti i beni di consumi, alcuni più alcuni meno, ma tutti i beni materiali come anche il cibo, che sono carichi di significato simbolico, che è spesso veicolato da segni che sono di superficie e che potrebbero essere erroneamente classificati come apparenza come cose non di sostanza, quando invece la sostanza per noi esseri umani è di tipo simbolico.

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Conclusione

Nel corso della trattazione abbiamo più volte ribadito come sia importante che un brand instauri la sua presenza, presidiando diversi canali comunicativi, nell’immaginario visivo del suo pubblico.

«Un’azienda non può permettersi di omettere il visual, se non governa l’immaginario qualcun altro lo farà al posto suo. Se è vero che l’apparenza non è tutto, è altrettanto vero che non si può non apparire, quindi è fondamentale riconciliare l’apparenza con l’essenza»1. Il consumatore non può fare a meno di farsi un’idea del prodotto e della marca utilizzando

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ogni mezzo a sua disposizione. Infatti la posizione del consumatore è tendenzialmente di di svantaggio e di potenziale asimmetria informativa. Egli investe il suo tempo, il suo denaro, frutto di mesi, magari anni di lavoro, per acquistare un prodotto, cercherà di reperire quante più informazioni possibili sul bene qualora si tratti di un acquisto ragionato, oppure comprerà qualcosa senza pensarci due volte nel caso dell’acquisto d’impulso. In ogni caso offrirà il proprio denaro in cambio di un prodotto, che non è altro che una promessa di soddisfazione del suo bisogno o del suo desiderio. Oggigiorno, se i rapporti umani sono soggetti ad una sempre maggiore smaterializzazione, quelli tra acquirente ed azienda sono vittime dello stesso destino. Con essi si va perdendo la fiducia


nell’altro che è più facile instaurare nel rapporto interpersonale laddove i soggetti coinvolti sono presenti nello stesso luogo e possono scrutinarsi a vicenda. Ad ogni modo, a seconda di quale sia il motore che spinge il consumatore ad effettuare un acquisto piuttosto che un altro, interviene una serie infinita di fattori che si frappongono tra il consumatore e il bene in questione. Il fatto che la persona trovi utile o bello un prodotto non significa che lo acquisterà necessariamente, allo stesso modo il fatto che il consumatore non abbia bisogno di un dato oggetto non significa che egli non lo acquisterà comunque. Da questi indizi ci si può già fare un’idea di quanto sia complessa la psicologia sottostante al comportamento d’acquisto, tanto che è stata

piuttosto naturale la nascita di una disciplina apposita ancora relativamente giovane, che è quella della psicologia dei consumi. Essa si propone di delineare una vera e propria psicologia del consumatore nelle situazioni di consumo che si susseguono nel corso della nostra giornata, come della nostra vita. Gli americani chiamano questa nostra condizione “cradle to grave”, il fatto di essere esposti per tutta la vita — dal momento della nascita a quello della nostra sepoltura, per l’appunto — a una situazione ricorrente che, in questo caso, è di consumo. La nostra sembra essere una vocazione o forse una condanna. Ciò, però, non vuole significare che l’uomo si dedichi indiscriminatamente all’attività di consumo.

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Il momento dell’acquisto convoglia una serie di meccanismi cognitivi, di fattori interni ed esterni alla persona che determinano il verificarsi o meno della transazione. Il prezzo gioca una parte fondamentale, ma anche l’umore del consumatore in quel particolare momento, chi può sapere se ha appena rotto con la fidanzata oppure ha avuto un dispiacere a lavoro; magari il tempo metereologico può far si che la disposizione di un individuo cambi bruscamente, la scortesia di un commesso può allontanare un cliente o farne perdere un altro all’azienda in maniera permanente. Alla luce di ciò non si può affermare che l’estetica del prodotto sia tutto il prodotto. Sarebbe miope e si rischierebbe di cadere in un’eccessiva semplificazione. Il discorso cade molto nella questione precedentemente trattata delle atmosfere, del carisma e della componente emozionale del prodotto. Esse sono immateriali, eppure non sussisterebbero senza il prodotto e le sue componenti fisiche, materiche. Oltretutto la vista, come abbiamo più volte precisato, è il primo senso che interviene nella percezione sensibile. La luce viaggia alla velocità più alta nell’universo ed è il primo elemento a toccarci e stimolare i nostri sensi, primo fra tutti quello della vista. Il marketing non può ignorare questo elemento fondamentale. La vista è alla base nel nostro processo cognitivo, tanto che tutti gli esseri umani hanno una capacità cognitiva di tipo simbolico. Vediamo immagini, pensiamo per immagini e ci esprimiamo utilizzando immagini. Il primo uomo disegnava sulle pareti della propria grotta per lasciare un segno, oppure un segnale ai suoi simili. Per questo motivo era necessario che il codice visivo adottato fosse univoco e condiviso, affinché fosse compreso. Da qui la necessità 94

di utilizzare una convenzione semantica, affinché i significati trasmessi siano univoci e inequivocabili. Questo si riflette sui linguaggi che il marketing può utilizzare, per capire il mercato e per farsi comprendere da esso. I linguaggi sono per lo più convenzioni, metafore, condensazioni di senso che sono strettamente legati alla nostra cultura di riferimento. Grande parte della questione risiede proprio nella riflessione sulla valenza culturale dell’estetica, sui canoni abbracciati dalle singole culture e dalle comunità all’interno di una stessa cultura. Il modo in cui siamo cresciuti, il mondo di segni in cui siamo stati immersi per tutta la vita, le lenti dal cui interno osserviamo la realtà2 determinano il modo in cui la percepiamo e la leggiamo. A questa lettura dei segni, che è un’attività sensoriale limitata alla superficie dell’oggetto, ci risulta naturale affiancare un’interpretazione più ampia e profonda dell’oggetto, un desiderio di andare oltre a quello che vediamo. Ci accostiamo, così, alle grandi questioni della filosofia tradizionale, dove si cerca di stabilire se alla forma esteriore corrisponda un contenuto, se agli accidenti materiali sottostia una sostanza. E ancora se questo contenuto, questa sostanza siano di carattere valoriale oppure siano effimeri e illusori. Questa dualità dell’oggetto si può ironicamente accostare a quella dell’uomo che è fatto di cervello e mente, oppure di corpo e anima. L’estetica non è tutto perché non ci basta la materia, non è sufficiente ad arricchirci. Però l’estetica è qualcosa, nel momento in cui si fa portatrice di valori e significati. Questi valori e significati, se parliamo di prodotti di consumo, sono una responsabilità esclusiva del marketing. L’idea di un’etica del marketing di cui parlavamo nel primo capitolo si riferisce proprio a questo: a che sussista una


Daniele Orzati, esperto di modelli narrativi per l’organizzazione e docente della Ninja Accademy, in un’intevista per Ninja Marketing. 1

E. Garroni, Estetica: uno sguardo attraverso, Garzanti, Milano, 1992. 2

Gombrich Ernst H., Arte e Illusione: studio sulla psicologia della rappresentazione pittorica, Giulio Einaudi editore, Torino, 1962. 3

corrispondenza tra forma e contenuto, affinché il marketing non sia vuoto ma abbia un’attenzione al cliente, perché valorizza i suoi bisogni e i suoi desideri. Tutto ciò non deve essere visto come un eccesso di moralismo e buonismo, ma come una vera e propria responsabilità sentita dalle persone operanti nel marketing a non introdurre nel mercato prodotti e servizi inutili, che generano solo sprechi di risorse ed energie. Se l’idea di marketing funziona il prodotto si venderà con facilità, ma l’azienda che vi sta dietro, costituita a sua volta da persone, avrà anche la possibilità di crescere generando esternalità positive per l’intera società. L’invito sarebbe a non cadere in un materialismo a tutti i costi, tipico dell’epoca in cui viviamo. Il prodotto è un feticcio, il mercato un’entità a sé stante, il brand è dotato di vita propria. Dimentichiamo che dietro al prodotto, al brand, al mercato ci sono le persone che li tengono in vita. In un mercato saturo di feticci e chimere, la necessità per i brand di creare dei veri e propri mondi si fa sempre più impellente, per affermarsi in modo credibile. Questa promessa di soddisfazione deve essere fatta al potenziale cliente il prima possibile e la progettazione dell’identità estetica di un marchio ha questo obiettivo. L’identità visiva non basta più, l’estetica del prodotto si estende su tutto ciò che è visibile, ma «Non possiamo separare nettamente ciò che vediamo anche tattile, olfattivo, uditivo, gustativo. Il marketing diventa da ciò che sappiamo.» esperienziale, lavora sempre di più per creare immaginari di Ernst H. Gombrich3 marca totali, operando su più canali contemporaneamente, comunicando una narrazione. Tuttavia non bisogna dimenticare che uno dei principi dello storytelling è quello di veridicità: se la narrazione proposta dal marchio non si basa su elementi di verità esso non potrà mantenere il prestigio nel tempo. Sembra quasi che l’obiettivo della vendita del prodotto sia passato in secondo piano. Prima ancora viene la necessità che il consumatore desideri quel bene e lo voglia includere nella sua sfera personale identitaria. Questo gioco di apparenze avviene infatti prima dell’acquisto stesso: la vittoria sta nell’ottenere l’attenzione del consumatore o, meglio ancora, il suo engagement e quindi la sua partecipazione attiva. Ma l’obiettivo di questo lavoro di tesi era rispondere ad alcune domande, che aprono mondi di risposte, con il rischio talvolta di perdere di vista l’essenza. Nel corso delle interviste che sono state svolte, malgrado la discordanza di alcuni pareri raccolti alcune risposte sembravano essere del tutto all’unisono, forse perché profondamente insite nella natura umana. L’abito fa il monaco? Assolutamente si. Perché giudichiamo un libro dalla copertina? Perché non possiamo farne a meno.

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2. Linguaggi p. 45, Graffiti, Mara Celani per Quid Divinum, 2010. p. 49, Ricordo di New York, Giulio Turcato, 1965. p. 55, macchina per il caffè, Richard Sapper per Alessi, 1980. p. 59, contenitori disegnati da Aldo Bakker. p. 62, logo Nike, logo Starbucks, packaging di un iPhone Apple. p. 64, negozio Camper a Granada, Spagna. p. 64, l’evoluzione del design delle bottiglie di Coca-Cola. p. 64, immagine da una pubblicità dei prodotti Giovanni Rana. La casa mette da sempre al centro della sua comunicazione il fondatore del marchio. p. 67, immagine macro di Fujico, un pattern di Alcantara. p. 68-69, alcuni degli oggetti esposti alla mostra Playful Inter-action, presente al Maxxi di Roma tra il 31 novembre 2013 e il 05 gennaio 2014. p. 71, Cupolone, Lanzavecchia + Wai, Alcantara/ MAXXI, 2015. p. 71, Fiasco, Laudani e Romanelli, Alcantara/ Maxxi, 2015. p. 71, Pool Table, Marcel Wanders, Alcantara/ Maxxi, 2010. 3. Desiderare e acquistare p. 74-75, Vetrina Parigina, Paola D’Ugo, 2012. p. 77, sfilata ready-to-wear di Chanel per la collezione autunno-inverno 2014/15. p. 79, collezione ready-to-wear Moschino autunno-inverno 2014/15, ispirata al fast food McDonald’s. p. 82-83, homepage di Pinterest. p. 85, Photographie 2000 ? 20.., Jean Faucheur. p. 87, donna Masai. Conclusione p. 92, Rosa, Mara Celani per Quid Divinum, 2012. p. 96-97, Ragnatela, nella serie Rottami, Mara Celani per Quid Divinum, 2010. Copertina Sfascio, Mara Celani per Quid Divinum, 2010.


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“Non si giudica un libro dalla copertina”. Come osservare la copertina di un libro non basta a conoscerne il contenuto, così l’aspetto esteriore di una persona non lascia trapelare tutto ciò che c’è da sapere su di essa. Sarebbe superficiale e miope pretendere di giudicare una persona, un oggetto, una situazione, solo da come si presenta esteriormente. Eppure, nella vita di tutti i giorni facciamo esattamente il contrario, tanto da aver reso necessaria la formulazione di uno specifico ammonimento. “Non giudicare un libro dalla copertina” è un invito a resistere alla tentazione di dare un giudizio affrettato, a guardare alla sostanza delle cose e andare oltre le loro sembianze. In realtà, come non possiamo fare a meno di leggere i segni esteriori, filtrandoli attraverso i sensi, interpretandoli e dando loro significato, così l’oggetto della nostra osservazione, qualunque esso sia, non può fare a meno di comunicarci qualcosa sin dai primi istanti di contatto visivo, uditivo, persino olfattivo o tattile con esso. Se non si giudicasse un libro dalla sua copertina, i libri non avrebbero copertine, le persone non avrebbero il desiderio di migliorare il proprio look, il marketing non si preoccuperebbe della pubblicità, del design o dell’identità visiva del brand. Allora, perché l’aspetto estetico delle cose è così importante e attraente per l’uomo?

In copertina Volto, Mara Celani per Quid Divinum, 2015.


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