Il codice barbaricino

Page 1

sirigu copertina.jpg (Immagine JPEG, 1000x1429 pixel) - Risca...

1 di 1

file:///Users/paolasirigu/Desktop/cartella%20senza%20titolo/sir...

21/11/09 10:09


Paola Sirigu

IL CODICE BARBARICINO

La Riflessione 3


Paola Sirgu IL CODICE BARBARICINO PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA L’OPERA È FRUTTO DELL’INGEGNO DELL’AUTORE © 2007 La Riflessione Davide Zedda Editore Via F.Alziator, 24 09126 – Cagliari www.lariflessione.com redazione@lariflessione.com ordini@lariflessione.com Prima Edizione finito di stampare nel mese di ottobre 2007

4


5


6


8


Il codice della vendetta non è statico. È dinamico: si adegua. Bisogna dire, a differenza dellʹinterpretazione romantica, che esso non è senza crudeltà. Anzi nel suo processo di adeguamento alla società storica, è lʹaggravarsi stesso delle contraddizioni che maggiormente lo incrudelisce. Il fatto è che la Barbagia non è così perché cʹè il codice della vendetta, ma cʹè il codice della vendetta perché la Barbagia è così. A. Pigliaru

7


Introduzione La Sardegna contemporanea ebbe inizio il 17 marzo 1861 quando venne proclamato il Regno d’Italia. Già costretta fin dal 1847 alla fu‐ sione con il Piemonte, con la proclamazione del Regno vide il governo assumere nei suoi confronti un atteggiamento di rinnovata indifferen‐ za per trasformarsi, alla fine del secolo, in un atteggiamento di sfrut‐ tamento. Dopo l’unità d’Italia il primo problema affrontato dal nuovo gover‐ no fu quello della destinazione da dare ai terreni degli ex demani feu‐ dali, sui quali la popolazione esercitava alcuni usi civici consistenti nel diritto di pascolo, di legnatico e di coltivazione. Infatti i demani feuda‐ li, fossero terre delimitate per il bestiame manso o per il bestiame rude1, erano in godimento comunitario. I pastori avevano diritto di pascolo in funzione delle loro esigenze su tutti i terreni incolti presenti nel territo‐ rio del villaggio, come anche su quelli dei villaggi limitrofi, purché ap‐ partenenti allo stesso signore, il quale aveva facoltà di affittare a pastori forestieri la parte eccedente le necessità comunitarie2. Fin dai tempi più re‐ moti i terreni destinati alle semine, detti paberili, venivano divisi fra tutti gli abitanti del paese che ne godevano l’usufrutto fino alla morte, dopodiché il lotto di terreno veniva destinato a un altro assegnatario. Le grandi estensioni territoriali, dette saltus, erano invece destinate alla pastorizia e gli abitanti del paese esercitavano l’uso collettivo sia del pascolo che della legna. Ogni pastore pagava all’organo amministrati‐

1 Il bestiame manso, ovvero addomesticato, comprendeva buoi per l’agricoltura e cavalli, mentre il bestiame rude era costituito da pecore, capre e mucche. 2 F. Floris, Feudi e Feudatari in Sardegna, Voll. 2, p. 736. Edizioni Della Torre, Cagliari, 1996.

9


vo una quota pro capite di bestiame e in compenso poteva provvedere, per proprio conto, alla utilizzazione dei prodotti del pascolo. Questi diritti vennero aboliti da una legge emanata il 23 aprile 1865 in base alla quale l’uso collettivo dei terreni venne considerato reato contro il patrimonio demaniale. Con l’abolizione dei diritti ademprivi3 la povera gente perdeva una delle più importanti fonti di sostentamen‐ to e il malcontento fra contadini e pastori fu enorme. Particolarmente gravosa era anche l’imposta sulla casa in quanto il contadino sardo non poteva godere delle agevolazioni previste per le case rurali dell’Italia settentrionale. Per usufruire di tali agevolazioni, infatti, con‐ dizione essenziale era che le case fossero isolate nelle campagne! Quel‐ le dei contadini sardi, a causa del frazionamento delle proprietà e dei cicli produttivi imposti dal clima torrido e secco, erano invece sempre accentrate in agglomerati o villaggi. Le povere catapecchie costruite in ladiri, mattoni fatti di fango e paglia, in pochi anni vennero abbandona‐ te in massa dai proprietari che non erano in grado di pagare le esorbi‐ tanti tasse. In Sardegna si arrivò ad avere un esproprio ogni 14 abitan‐ ti, a fronte di uno ogni 27.000 effettuato nelle regioni del nord Italia. Profondi malumori andarono così ad aggiungersi a quelli scatenati qualche anno prima dallʹeditto delle chiudende, legge voluta da Carlo Felice4 nel 1820 con la quale il Re intendeva introdurre in Sardegna il modello piemontese della proprietà perfetta e autorizzava qualunque pro‐ prietario a liberamente chiudere di siepe, o di muro, vallar di fossa, qualunque

Termine introdotto dagli Aragonesi per indicare l’uso collettivo delle terre.

3

Carlo Felice (1765‐1831), figlio di Vittorio Amedeo III e di Maria Antonietta Ferdinanda di Borbone‐Spagna. Nel 1807 prese in moglie Maria Cristina di Borbone, Infanta delle Due Sicilie. Viceré di Sardegna dal 1799 al 1821, sovrano assolutista e sostenitore della monarchia per diritto divino, si oppose a qual‐ siasi forma di liberalismo e, dopo aver severamente colpito gli autori del moto rivoluzionario del 1821, dedicò interamente la sua attività al campo economi‐ co, giudiziario e militare. 4

10


suo terreno non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio, di fontana o dʹab‐ beveratoio5. Recintare le terre coltivate mirava a un duplice risultato: da un lato le coltivazioni sarebbero state sottratte alle invasioni e alle distruzioni operate dal bestiame e dallʹaltro, ottenendone la completa proprietà, i contadini avrebbero avuto la possibilità di coltivarle con maggiore re‐ golarità e razionalità. LʹEditto, nato con buone intenzioni, si proponeva di proteggere lʹagricoltura senza danneggiare la pastorizia e sostituiva la proprietà collettiva con la proprietà privata. Questo provvedimento, tuttavia, favorì il consolidarsi della grande proprietà terriera da parte dei benestanti a danno dei piccoli contadini che non erano economi‐ camente in grado di provvedere diversamente al loro sostentamento e che non possedevano mezzi per effettuare le recinzioni con siepi, mu‐ retti o fossi. LʹEditto delle Chiudende e la lottizzazione dei terreni adibiti a libe‐ ro pascolo furono due provvedimenti con i quali si tentò di rilanciare lʹagricoltura, purtroppo senza tener conto delle aree che avevano unʹe‐ conomia prevalentemente pastorale (Fig. 1) e in cui il libero pascolo delle greggi era unʹistituzione. Ogni tentativo più moderno di associa‐ zionismo e di cooperazione fallì quasi dovunque per svariati motivi, non da ultimo quello della lotta massiccia condotta da gruppi indu‐ striali continentali che tentarono di monopolizzare il mercato caseario sardo6. Soprattutto nella provincia di Nuoro si mantennero a lungo particolari forme arcaiche di associazioni o soccide di bestiame ovino e caprino, forme di organizzazione che prevedevano la suddivisione del‐

C. Sole, La Sardegna di Carlo Felice e il problema della terra, Editto delle chiuden‐ de (1820), Ed. Fossataro, Cagliari 1967, p. 353. 6 Tradizionalmente i pastori producevano, con il latte di pecora, il formaggio Fiore sardo che veniva venduto a commercianti della Campania e della Tosca‐ na. Trasportato a dorso di cavallo fino alle coste orientali, i Sardi non riusciva‐ no a soddisfare la crescente richiesta, tanto che industrie romane, nel 1897, ini‐ ziarono la produzione in Sardegna del pecorino tipo romano destinato al mer‐ cato americano sfruttando i pastori locali e pagando il latte a prezzi da fame. 5

11


le spese fra più allevatori, ma anche la suddivisione finale dei prodotti caseari e del bestiame7.

Fig. 1: Pastori barbaricini di fine ‘800 (Cartolina proveniente da collezione privata) In una economia così strutturata e profondamente legata a usanze e leggi comunitarie le ordinanze del nuovo Regno sfociarono in rivolte e vere proprie lotte tra pastori e detentori dell’ordine pubblico. Quasi ovunque si registrarono devastazioni, incendi e omicidi. Numerose e violente furono le sommosse, represse spesso nel sangue. Del resto i nuovi regolamenti erano perentori e da essi non veniva esclusa nessu‐ na categoria di terreni e nemmeno i beni della Corona, dei Comuni e della Chiesa ne erano esenti. Segno del malumore popolare furono soprattutto i moti di su connot‐ tu, scoppiati a Nuoro nel 1868. Pastori e contadini occuparono gli uffici del Comune e diedero fuoco ai registri catastali contenenti le mappe dei terreni demaniali. Su Connottu è ciò che gridavano pastori e conta‐ Raccolta delle consuetudini e degli usi agrari della provincia di Nuoro, a cura della Camera di Commercio, Industria e Artigianato di Nuoro, p. 60. 7

12


dini in piazza e significava “vogliamo il ritorno al conosciuto”, alle vecchie regole, ossia “vogliamo il ripristino dei diritti per l’uso comune delle terre”. Episodi come questi se ne contarono a centinaia. Su connottu e altre rivolte dovute alle iniziative impopolari del Regno d’Italia furono re‐ presse duramente e ciò provocò un ulteriore isolamento sociale e cul‐ turale dei Sardi dal resto del paese, in particolare Nuoro fu penalizzata dal ritardo con cui le opere pubbliche furono avviate nell’isola, come la linea ferroviaria che qui giunse solo nel 1889 con il breve tratto per Macomer. Il paese di Orgosolo, invece, non venne coinvolto nelle sollevazioni popolari perché gli Orgolesi, ignorati da tutti, mantennero le millena‐ rie consuetudini di sfruttamento collettivo delle terre, con la raccolta della legna, delle ghiande e del pascolamento delle greggi nei boschi e nei prati comunali. Infatti, fino al 1867, a Orgosolo non esisterà la pro‐ prietà privata. E’ in questo contesto che si venne a consolidare la diffidenza della comunità pastorale sarda verso la giustizia dello Stato. Anche il nuovo Regno d’Italia, come del resto era già accaduto con Fenici, Cartaginesi, Romani, Arabi, Vandali, Catalani, Pisani e Aragonesi, presentava ai Sardi la giustizia come strumento e organo di un potere che non na‐ sceva dalla struttura della comunità, ma che le si sovrapponeva dall’esterno e che appariva come un abuso da parte di un popolo di invasori8. Il codice barbaricino9 visse qui il suo periodo di massima recrude‐ scenza esercitando un’azione surrogatoria laddove la giustizia dello Stato appariva iniqua. La lotta millenaria condotta dal popolo sardo contro i colonizzatori è stata una lotta intessuta di abbandono, di mise‐

G. Pinna, Il pastore sardo e la giustizia, Ilisso, Nuoro 2003, p. 19. Il codice barbaricino, pur essendo diffuso in tutta l’isola, trova maggiore dif‐ fusione nella Barbagia in quanto, a causa della sua posizione geografica corri‐ spondente alla zona centrale della Sardegna, ha fornito maggiore resistenza alle invasioni e maggiore salvaguardia delle tradizioni.

8 9

13


ria e di tristezza10, una lotta che ha reso necessaria la creazione di nor‐ me che dessero stabilità esistenziale a persone costrette a una vita du‐ rissima. Il codice barbaricino fornì norme di controllo giuridico come espressione della necessità di un popolo di darsi delle regole che ri‐ spondessero alle esigenze della loro comunità pastorale e che non cambiassero con il cambiare del popolo invasore. Questo è il senso più profondo che legittima l’esistenza del codice barbaricino. Chie no hurat pro bissonzu est unu cane berdulaju11.

10 11

Ibid., p. 29. Chi non ruba per bisogno è un cane randagio.

14


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.