Goffredo Parise reporter di viaggi | Goffredo Parise travel reporter

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Goffredo Parise reporter di viaggi

Laureando Paolo Padrevecchi

Relatore Laura Di Nicola


Goffredo Parise reporter di viaggi

FacoltĂ di Lettere e Filosofia Dipartimento di Lettere e Culture moderne Corso di laurea in Lettere Paolo Padrevecchi Matricola 960598 Relatore Laura Di Nicola

A.A. 2018-2019

Correlatore Monica Cristina Storini


INTRODUZIONE ................................................................................................................. 1 CAPITOLO I ....................................................................................................................... 7

UN VIAGGIO NELLE PROFONDITÀ .................................................................................... 7 I.1 Inquiete impressioni infantili di Goffredo ......................................................... 7 I.1.1 Goffredo bimbo ha “visioni” primordiali ...................................................... 9 I.1.2 Goffredo fanciullo solitario inventa giochi e amici immaginari .................. 13 I.1.3 Alla finestra e sul balcone: Goffredo scruta i giochi dei bambini liberi...... 15 I.1.4 Affacciato sul cortile: Goffredo percepisce sognante il sonoro del cinema 17 I.1.5 Goffredo ascolta e legge libri di racconti avventurosi ed esotici ................ 20 I.2 Al centro della sua costellazione Goffredo s’avvia verso l’età adulta ............ 23 I.2.1 Goffredo incontra la malinconia. ................................................................. 23 I.2.2 Goffredo ragazzo cede il passo a Parise adulto ........................................... 29 I.2.3 I reportage: Parise emerge visionario, militante, commosso ...................... 35 I.3 La visione sonnambula: Buster Keaton qui non diverte ma commuove ......... 41 I.4 Viaggi e reportage: Parise placa l’inquietudine .............................................. 47 I.5 Il desiderio del desiderio. Limite e tensione come dilazione perenne ............ 59 CAPITOLO II .................................................................................................................... 76

GLI INARRIVABILI REPORTAGE DI VIAGGIO E DI GUERRA ............................................ 76 II.1 II.2

In stato di grazia. Parise pescatore di incantevoli perle .................................. 76 La narrazione di reportage come centro propulsore e fil rouge ...................... 97

CAPITOLO III ................................................................................................................ 112

RICOGNIZIONE DEGLI SCRITTI DI REPORTAGE: UN VIAGGIO FRA I VIAGGI DI PARISE ...................................................................................................................................... 112 III.1 III.2 III.3 III.4 III.5 III.6 III.7 III.8 III.9 III.10 III.11 III.12 III.13

Una breve premessa all’indagine .................................................................. 112 1954 Venezia (Il ghetto di Venezia) ............................................................. 113 1955 Parigi .................................................................................................... 118 1959 Israele (L’ultimo sabato di Israele) ...................................................... 125 1960 Russia (Questa è la Russia di Krusciov) .............................................. 130 1961 Stati Uniti ............................................................................................. 138 1966 Cina (Cara Cina).................................................................................. 146 1967 Vietnam (Guerre politiche. Vietnam) .................................................. 154 1968 Biafra (Guerre politiche. Biafra) ......................................................... 167 1970 Laos (Guerre politiche. Laos) .............................................................. 203 1973 Cile (Guerre politiche. Cile) ................................................................ 209 1975 New York ............................................................................................. 215 1976 Roma (Suite romana) ........................................................................... 220


III.14 1982 Giappone (L’eleganza è frigida) .......................................................... 255 III.15 1984 Parigi .................................................................................................... 264 BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................... 269

AVVERTENZA ................................................................................................................ 269 BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO .................................................................................. 269 OPERE DI REPORTAGE DI GOFFREDO PARISE ............................................................... 270 BIBLIOGRAFIA DELLA CRITICA SULLE OPERE DI REPORTAGE

.................................... 274

OPERE NON DI REPORTAGE DI GOFFREDO PARISE ....................................................... 276


INTRODUZIONE

Ho deciso di articolare la presente tesi, che ha come suo fine l’indagine critica dei reportage di viaggio e di guerra scritti da Goffredo Parise, in tre parti strutturali: più precisamente, in tre capitoli, corrispondenti ad altrettante aree interpretative, differenziate ma complementari nelle loro specifiche metodologie d’analisi e nei loro obiettivi di approfondimento. Il primo capitolo, intitolato Un viaggio nelle profondità, esamina le profonde ragioni biografiche, esistenziali e psichiche dello scrittore, da cui hanno origine sia la necessità creativa sia la valenza estetica dei reportage. L’analisi prende avvio con il rintracciare nel primo evento - primo in senso temporale e per importanza - della nascita anagrafica “illegittima” di Parise, quel vulnus, quell’evento traumatico che impronta e orienta la sua intera costellazione psichica: e, conseguentemente, le sue urgenze esistenziali di risarcimento affettivo attive per un’intera vita, in simmetria con le emergenze della creatività narrativa, che anche in tale trauma antico hanno la loro forza propulsiva: nell’incessante tentativo, compiuto dallo scrittore, di assegnare loro il senso di attività riparatrice di un’illegittimità divenuta esistenziale oltre che biografica, e persino di sperimentarvi un rilancio esplorativo, vitale e creativo. Il capitolo prosegue evidenziando due tratti percettivi, creativi e psicologici di Parise narratore - lo sguardo straniato e deformante, che ho definito realismo visionario, e i repentini scarti fobici - dei quali si rintraccia una possibile origine biografica infantile.

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L’indagine mette quindi in luce le conseguenze, sulla personalità di Goffredo bambino, del comportamento iperprotettivo della famiglia, che nel tentativo di difenderlo il più possibile dall’atteggiamento discriminatorio che l’ambiente cittadino provinciale e bigotto gli riservava in quanto illegittimo, lo soffocò in una sorta di reclusione parziale entro le mura domestiche: una reclusione domestica che definisco il suo hortus clausus. Le suddette conseguenze furono ambivalenti: se da un lato questa precoce vita “claustrale” sviluppò per converso, nel bambino, il talento per l’invenzione ludica, per la propensione fantastica, per la creatività, e insieme la passione per il viaggio e uno spiccato senso di compassione umana: vissuti, tutti, come tratti esperienziali di evasione dalla reclusione coatta nel mondo dell’hortus clausus e di contemporaneo recupero della socialità impedita; dall’altro, il medesimo hortus clausus, e nella fattispecie l’inibizione di una fisiologica e sana relazionalità infantile, generò, quasi inevitabilmente, in Goffredo bimbo, un nodo depressivo che andò a sovrapporsi al nodo arcaico dell’illegittimità psichica, e che accompagnerà lo scrittore, in modo ricorrente e con diverse intensità e tonalità psichiche - passando dai tratti atrabiliari, disperati, a quelli della tristezza malinconica, a quelli della noia e dell’ozio insostenibile - nel corso dell’intera esistenza. L’analisi evidenzia poi come in Goffredo bambino, le lunghe ore trascorse ad osservare i giochi dei bimbi e ad ascoltare il sonoro di un cinema parrocchiale dalla finestra e dal balcone di casa, dunque in una visione da lontano, acuiscano le percezioni uditive e visive in modo tale da restituire una visione del reale che tende alla regia cinematografica, come specificherà lo stesso Parise: una visione che, in ambito narrativo, è già, in nuce, un lontano sguardo romanzesco, che ri-proietta nella realtà quanto prima percepito e poi rielaborato dall’interiorità dell’io infantile, secondo un 2


pendolarismo che definirò più avanti “visione di terzo grado”. La stessa modalità percettiva del sonoro del cinema, priva, però, della consueta associazione con le immagini, dà luogo a quella che Parise chiama «ineffabile emozione di mistero» e «dissociazione espressiva», quindi visione «a cannocchiale rovesciato»: è dunque un effetto di “straniamento” della visione, che approfondirò successivamente nel corso della tesi definendola “visione sonnambula”. L’indagine mette poi in luce un ulteriore nodo fondante dell’infanzia dello scrittore: l’esperienza dell’ascolto delle letture serali dei libri avventurosi ed eccitanti di Salgàri da parte del patrigno Osvaldo. Parise aspettava fremente questi momenti, che rappresentarono la scoperta della narrazione esotica, e insieme la fonte di un repertorio di temi e immagini antiche e fantastiche disseminate nel corso del tempo in tutta la sua scrittura. L’esplorazione dell’infanzia dello scrittore, si conclude con la descrizione del momento in cui nell’anima del ragazzo irrompe la “malinconia”. È un evento, in parte quasi atteso, che ne orienta i processi vitali, psicologici, e che da un punto di vista creativo è un’ulteriore forma di straniamento: Parise, nella scrittura, la esperisce come immersione in uno stato di cullamento, di piacere inappagato e inappagabile prodotto dalla tensione incessante, dallo scarto incolmabile fra la fantasia e la realtà. L’indagine prosegue con un tratteggio dello scrittore in evoluzione durante l’adolescenza; quindi, ne segue l’esordio come narratore e l’ingresso nel mondo del lavoro e della responsabilità adulta, in particolare con l’avvio della professione di giornalista, in qualità di pubblicista prima e di reporter di viaggio e di guerra poi. Saranno proprio gli incarichi da reporter ad introdurre Parise nella forma espressiva ancora inesplorata del reportage, richiamando le sue corde esistenziali più profonde a 3


profondervi il massimo della passione civile, della creatività narrativa e della commozione sentimentale. Prendendo lo spunto critico e linguistico, da me rielaborato, offerto da una recensione di Pasolini ai Sillabari di Parise, si dà poi conto di una particolare visione narrativa rintracciabile nella scrittura dei reportage che definisco visione sonnambula, o con gli occhi imbambolati, la cui icona personificatrice è la maschera comica di Buster Keaton: è una modalità di sguardo creativo che percorre i territori del realismo visionario, che adotta i meccanismi dello straniamento, della deformazione figurativa, dell’alterazione fantastica, dell’introiezione della visione “oggettiva”. L’esplorazione critica del capitolo raggiunge poi il cuore del suo itinerario, portando alla luce l’aspetto secondo cui Parise, nei reportage, riuscì finalmente a placare l’inquietudine, anzi, per meglio dire, il plesso delle sue inquietudini: anche se tale conquista, rappresentata nel suo vissuto psicologico dall’esperienza fisica dei viaggi e da quella narrativa dei reportage, non fu mai un placamento completo e definitivo, ma fu semmai contrassegnata dai caratteri della precarietà e dell’incompletezza. Il capitolo si chiude con una sorta di danza epistemologica intorno ai temi dell’elusività, dell’inquietudine, dell’ozio, della noia, della malinconia, della passione, della depressione, della consolazione, del desiderio: territori fondanti dell’esperienza esistenziale e creativa di Parise, che con inquietante parallelo con la poetica e il vissuto di Leopardi, ha riscattato l’antico vulnus esistenziale in un’incessante tensione desiderante, animata dal suo irrequieto frisson interiore. Questa rappresentazione metaforicamente coreutica, coinvolge nei suoi movimenti di pensiero le figure di Parise, Leopardi, Eugenio Borgna, Antonio Prete. Il secondo capitolo, dal titolo Gli inarrivabili reportage di viaggio e di guerra, 4


nella prima parte effettua una ricognizione delle vicende letterarie di Parise, per approfondire poi lo sguardo interpretativo sugli scritti di reportage: dei quali - attraverso l’esame di tre reportage pubblicati all’inizio, nella maturità, e alla fine della sua carriera artistica: Il ghetto di Venezia, Laos, L’eleganza è frigida - vengono messi in luce i meccanismi narrativi e le peculiarità stilistiche da cui trae origine la loro altissima valenza estetica. L’esame dei testi utilizza differenti prospettive critiche, fra le quali privilegia quello della critica stilistica e della scomposizione “registica” della visione narrante. La seconda parte del capitolo, focalizza l’indagine critica su quegli aspetti fondanti degli scritti di viaggio rappresentati dalla centralità poetica e propulsiva, e dallo status di leitmotiv di genere narrativo nell’arco dell’intera produzione letteraria. Una centralità, confermata dalla circostanza per la quale i reportage rappresentano l’unica forma narrativa di Parise sopravvissuta alle diverse tempeste esistenziali o storico-letterarie che lo hanno via via coinvolto, tanto da costituire quel «centro» che lo scrittore dichiarò di aver inseguito senza successo per tutta una vita. Il terzo e ultimo capitolo, Ricognizione degli scritti di reportage: un viaggio fra i viaggi di Parise, passa in rassegna in ordine di pubblicazione tutti i reportage scritti dall’autore: leggendone i passi significativi, fornendone i dettagli di vicenda editoriale e contesto storico; sottoponendoli alla luce dell’interpretazione critica, sia della saggistica sia dello scrivente. L’esame dei testi viene condotto da prospettive differenti, di volta in volta quelle ritenute più pertinenti ed efficaci, con una predilezione - già dichiarata in precedenza - per il criteri della stilistica e dell’attenzione alla visione dell’io narrante. Fra i vari testi, l’indagine ha assegnato particolare rilevanza agli scritti Biafra e Suite romana: al primo, per la sua vertiginosa bellezza congiunta all’altissimo valore di testimonianza umana; al secondo, per il suo carattere singolarmente anomalo con 5


riferimento a stile di scrittura ed espressione del vissuto di Parise.

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CAPITOLO I

Un viaggio nelle profondità

I.1

Inquiete impressioni infantili di Goffredo Do inizio alla presente tesi affondando la lama interpretativa nelle profondità

della vita di Parise: dove, per definizione, la luce è assente, o, se filtra, è tenue. Per fortuna si dispone, seppure scarsi, di alcuni preziosi dati biografici - spesso forniti dall’autore stesso - che possono avviare e orientare l’indagine critica verso le ragioni da cui originano la nascita e, al contempo, l’immensa bellezza dei futuri scritti di reportage: un’esplorazione (un viaggio conoscitivo) che richiede l’adozione di una prospettiva di analisi pertinente, focalizzata sui nodi biografici dello scrittore sottoposti alla luce di una sintetica e sfumata spiegazione a grandi linee di tipo psichico (o se si preferisce psicologico). Intraprendo il viaggio con le parole di Goffredo e dei suoi studiosi: «Sono nato a Vicenza il giorno otto dicembre dell’anno ’29, quello delle grandi nevicate. Sono quindi un freddoloso. Di famiglia inizialmente molto povera, a dieci anni ho conosciuto la tranquillità relativa, piccolo borghese» (G. Parise, «Il Caffè», 12 dicembre 1955). La madre è Ida Wanda Bertoli, mentre il padre è rimasto sconosciuto. Ida Bertoli è figlia adottiva di Antonio Marchetti; quando mette al mondo il figlio, la sua famiglia attraversa un momento difficile. Piccolo costruttore di biciclette, dopo aver raggiunto una posizione di relativo benessere all’inizio del secolo, proprio in coincidenza con la grande crisi economica Marchetti fallisce e ritorna all’originaria attività artigianale: apre un’officina meccanica con annessa custodia di biciclette nel sottoportico di un antico palazzo, in via Porta Castello1.

Il passo biografico testé letto ci segnala, dunque, che Goffredo nacque “illegittimo”: afferrato da un viscerale cordone ombelicale psichico che a differenza di

1 Cfr. la Cronologia in Goffredo Parise, Opere, a cura di Bruno Callegher e Mauro Portello, I, Milano, Mondadori, 1987; 4a ed., 2006; p. XLI. [D’ora in avanti il testo sarà abbreviato in OPERE I].

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quello organico non verrà mai reciso. A tale proposito, infatti, non va dimenticato che se l’irregolarità di nascita era una condizione anagrafica tutt’altro che rara persino in quell’epoca, tuttavia, la sua esistenza risultava assai meno frequente rispetto alla crescita del fenomeno che avrebbe avuto luogo nei decenni successivi, in considerazione dei pregiudizi moralistici e censorii della cultura sociale e religiosa coeva, che inibivano il suo proliferare. Insomma, Goffredo, come altri bimbi per condizioni analoghe o diverse, come gli ebrei per l’antisemitismo o come Pasolini per la sua “diversità” omosessuale, patì la sua alterità come una colpa e un marchio di non appartenenza durante l’intera esistenza. Non è poi da trascurare la circostanza aggravante - oltre questo già traumatico vulnus - rappresentata dall’atteggiamento fortemente discriminatorio da cui fu afflitto nell’ambiente pettegolo e beghino della realtà di nascita dello scrittore: la cattolica provincia vicentina. Senza trascurare, infine, che l’intensità della sua situazione illegittima fu accresciuta e complicata dallo status materno di orfana adottata dal nonno Antonio. Cito quanto scrive Marco Belpoliti riguardo alla condizione di alterità: Accanto alle questioni più propriamente letterarie, c’è un dato che sembra apparentare i due scrittori: il tema della «diversità», che per Parise si sostanzia nella sua identità di figlio illegittimo, mentre per Pasolini ha lo stigma ben più significativo dell’omosessualità. La figura di Narciso, evocata nell’ambito poetico e romanzesco, ha probabilmente questa medesima origine. Parise e Pasolini sono due scrittori fortemente individualisti […]. A salvare Parise dalle estreme seduzioni di Narciso è la carica grottesca dei suoi romanzi, insieme all’umorismo, un umorismo nero2.

Da quanto letto e scritto, il quadro delle origini biografiche e psichiche inizia a crescere in complessità, e la costellazione psicologica dello scrittore acquisisce il suo primo tratto fondante: il senso di illegittimità esistenziale esperita come vita che, appena nata, viene subito negata, respinta indietro in una voragine indefinibile: in certa misura,

2 Marco Belpoliti, Settanta, Torino, Einaudi, 2001, p. 72.

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di qui avranno origine i tratti ambivalenti e rabbiosi della personalità di Goffredo.

I.1.1

Goffredo bimbo ha “visioni” primordiali Proseguo il viaggio nelle profondità di Goffredo, leggendo un passo di

un’intervista rilasciata nel 1966 al periodico «Novella», nel quale il nostro autore raccontava di un inatteso antichissimo ricordo: «[…] i miei ricordi precisi cominciano solo all’età di due anni. Del periodo precedente» ho un ricordo assai vivo che risale a quando avevo sei mesi: una culla vista dall’alto, che mi faceva l’effetto di uno spaventoso precipizio aperto lì davanti a me e pronto a inghiottirmi» (Il Sillabario degli scrittori italiani: Goffredo Parise racconta la sua vita, «Novella», 13 febbraio 1966)3.

Secondo quanto appena letto, risulta abbastanza sorprendente che Parise riferisca una memoria così remota di un evento, per quanto emotivamente impressionante possa esso essere stato: la scienza psicologica, infatti, pur con grande difformità di teorie ed esiti di ricerca sull’argomento, di norma individua la fine dell’amnesia infantile nell’età intorno ai quattro anni: L’oblio che investe le esperienze vissute durante la prima infanzia (i primi ricordi infantili si situano intorno al quarto anno di vita) è anch’esso giustificato dal mutamento radicale nel modo di sperimentare l’esistenza che interviene negli anni immediatamente successivi (E. G. Schachtel, 1947); tale mutamento, se da un lato priva i precedenti contenuti mnesici della loro attualità, dall’altro li preserva dall’influenza delle inibizioni retroattive4.

D’altro canto, volendo porre in dubbio la reminiscenza dell’autore, è allo stesso tempo fragile e solo in parte convincente - o plausibile, se preferiamo - ricorrere alla spiegazione psicologica dei cosiddetti “falsi ricordi”: un meccanismo consistente nella falsificazione in buona fede di un ricordo - definito non autentico - realizzata con un’invenzione pura del materiale memoriale, o tramite aggregazione di tracce mnesiche

3 Cfr. la Cronologia in OPERE I, p. XLI. 4 Peter R. Hofstätter, Psicologia, Milano, Feltrinelli, 1964; 7a ed., gennaio 1984, p. 138.

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reali ma alterate, o per effetto della suggestione di influenze esterne che induce la reminiscenza di avvenimenti mai accaduti. Se teniamo infatti a mente quest’immagine così arcaica, è altamente probabile che durante i primi anni Parise sia stato sollevato in alto, al di sopra della culla, dalle affettuose braccia di un familiare (madre, nonna o nonno), e che lo stesso, o altri, gli abbia poi raccontato l’episodio: tuttavia, è altresì altrettanto impossibile che gli abbia inoculato l’impressione emozionale suscitata da quell’angosciante visione, che non può non essere un vissuto psichico individuale, un interiore trauma mnesico ed emotivo, originatosi nello scrittore. Un’ulteriore considerazione che potrebbe rafforzare la mia ipotesi, è l’estrema precisazione temporale dell’evento da parte dello scrittore: troppo determinata la sua attribuzione all’età corrispondente ai sei mesi, per non ipotizzare la presenza di un sicuro contesto biografico nello scrittore. Accettando quindi come plausibile il racconto autobiografico, bisogna fare i conti con un’immagine da incubo che lo scrittore ci descrive come la sua primordiale visione del mondo: Goffredo, secondo le inevitabili deformate proporzioni tipiche dei ricordi infantili, percepisce la culla sottostante come un «spaventoso precipizio», un pauroso inghiottitoio pronto a risucchiarlo. Pertanto, la memoria della prima percezione del mondo da parte dello scrittore ci racconta un’esperienza contrassegnata da un’immagine straniata - deformata e spaventevole - e insieme da un reazione fobica. Accolta questa aurorale visione infantile, avverto la necessità di proporre un’insolita e suggestiva ipotesi critica - senza la pretesa di attribuirle un’incrollabilità interpretativa: ovvero, considerare questa preistorica e straniante immagine come l’origine di due caratteristiche che ricorrono di 10


frequente nell’opera dello scrittore: lo sguardo che deforma il reale secondo un processo cosiddetto di realismo visionario; le impressioni a carattere fobico suscitate da determinate realtà esterne. Fornisco un esempio di entrambe, leggendo alcuni passi tratti dal romanzo La grande vacanza (1953) e dalla narrazione di luogo La bellezza di Capri (1957): Claudio aveva tentato di far presente al parroco che correndo in quel modo sarebbero precipitati nella gola ma il prete non aveva risposto […]. Il parroco palpava con le dita fra i tiranti: avviò il motore[…]. Un altro rombo seguito da scoppiettii; l’automobile partì all’improvviso e cominciò a correre (pazza!) con il portello aperto […]. L’automobile era arrivata alla curva: dove accadde ciò che doveva accadere… Il portello si conficcò per terra come un pernio, l’automobile si sollevò su tutte e quattro le ruote, Claudio la vide girare su se stessa e rovesciarsi in aria al di là della siepe […]. Claudio… a un certo punto non poté più andare avanti: un burrone, un gorgo non molto largo ma profondo, ed egli si trova ai bordi senza poter più scendere […]. L’automobile fracassata luccicava immersa nell’acqua limpida della sorgente5. Quattro anni fa, quando venni per la prima volta a Capri, dell’isola non immaginavo nulla, ma mi ero fatto da ungo tempo un’idea molto precisa della Grotta Azzurra. Mettendo insieme quanto avevo sentito dire nell’infanzia e certe cartoline di un color azzurro sbiadito, la immaginavo ampia e labirintica […]: insomma una grotta qualunque, a pelo sul mare, ma come le scene di un teatro o certe grotte di presepio […]. Di quasi tutti i paesi o città che non conoscevo e che poi conobbi, avevo una idea fantastica […]. Una stravaganza visionaria […]. Entrammo nella Grotta Azzurra e la ragazza si calò lentamente nell’acqua […]. La nuotatrice, che era americana, certamente si divertiva [..]. Io non mi divertii affatto, anzi quel genere di bellezza, nella sua stupefacente realtà, mi travolse in un turbine di panico. Temevo che la grotta si chiudesse all’improvviso sopra di noi e che quel mare stupendo e luminoso ci ingoiasse così come aveva risucchiato e fatto sparire nel nulla-azzurro quel corpo immerso. La paura che da quelle rupi incombenti sopra di noi[…] si staccassero massi enormi che avrebbero investito noi e la nostra barchetta; o ancora la paura che da quelle voragini sottomarine che intravedevo sotto di noi attraverso l’acqua chiara e limpida sorgessero animali o piovre mostruose che ci avrebbero tirati sotto in un baleno. Addio grotta di cartone, illuminata dai fari, addio bellezza fantastica e dolce, sempre amica, familiare e sicura. La bellezza vera, quella naturale di questi luoghi, di queste grotte e rupi, era la bellezza che non avevo mai conosciuto, essa non è mai serenamente, dolcemente bella, né confortante, perché non è mai

5 Goffredo Parise, La grande vacanza, Vicenza, Neri Pozza, 1953.

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disgiunta dal suo elemento primordiale, che è cupo, drammatico e anche lugubre. Tutto è gigantesco, abissale, talora stupendo, talora mostruoso e tutto sommato ancora una volta lugubre. Non è facile liberarsi dalla paura e dall’idea della morte. E credo che questa sia la vera bellezza di Capri6.

Appare fin troppo coincidente, nel romanzo La grande vacanza, la rappresentazione del burrone con la primordiale immagine infantile; come coincidenti ma perfino sorprendenti risultano descrizioni e aggettivazioni presenti nelle reazioni di Goffredo durante la visita alla Grotta Azzurra, laddove le entità qualificate inizialmente come positive (bellezza; stupefacente realtà; grotta; mare stupendo e luminoso; l’acqua chiara e limpida; bellezza fantastica e dolce, sempre amica, familiare e sicura ecc.), o che lo sarebbero nei consueti contesti fantastici dello scrittore (voragini sottomarine; animali o piovre mostruose; ecc.), vengono invece tutte e inesorabilmente declinate al negativo, lugubre e orrido (travolse in un turbine di panico; si chiudesse all’improvviso sopra di noi; ci ingoiasse così come aveva risucchiato; paura che da quelle rupi incombenti si staccassero massi enormi; la paura che da quelle voragini sottomarine sorgessero animali o piovre mostruose; cupo, drammatico e anche lugubre, gigantesco, abissale, talora stupendo, talora mostruoso; paura e idea della morte). Due esempi emblematici, fra molti altri, di come l’intera opera di Parise sia disseminata di tali spie psicologico-linguistiche: la straniante e la fobica. Tirando le conclusioni, risulta da subito evidente l’aumento di complessità del profilo biografico e psicologico di Goffredo, la cui costellazione psichica acquisisce due ulteriori tratti fondanti: lo sguardo straniato e deformante (realismo visionario) e i repentini scarti fobici.

6 Goffredo Parise, La bellezza di Capri, nella sezione Luoghi e reportages, in OPERE I, pp. 1432-36, passim.

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I.1.2

Goffredo fanciullo solitario inventa giochi e amici immaginari Lasciandomi inghiottire nelle voragini sottomarine di Goffredo, continuo

l’itinerario leggendo un altro passo tratto dalla medesima intervista rilasciata a «Novella» nel 1966: Lo scrittore ripercorre infanzia e giovinezza commentando una serie di istantanee: la famiglia gli si stringe intorno per dissimulare la sua condizione di illegittimo: «Ero un bambino sempre solo, senza amici, custoditissimo. Per sfuggire alla solitudine inventavo un muccio di giochi che prevedevano l’intervento di altri bambini, ma ero costretto a fingere la presenza di tanti compagni che in realtà non c’erano. Insomma giocavo da solo, in compagnia dei miei amici 7 immaginari» .

Ho già precisato quanto la condizione di illegittimità biografica rappresentasse, per Goffredo, un trauma iniziale insanabile e una continua fonte di sofferenza; e in quale misura l’ambiente vicentino di nascita - pettegolo, provinciale, cattolico oscurantista - costituisse un’aggravante discriminatoria ai danni del bambino: per fronteggiare la quale - fosse pure un tentativo parziale e insufficiente - la famiglia non trovò migliore soluzione che quella di “proteggere” Goffredo, chiudendolo nell’hortus clausus rappresentato dalle mura domestiche: un hortus clausus né letterario né claustrale bensì ludico e avventuroso. Anche se, certamente, il vissuto privo di ludus relazionale rappresentò insieme una fortuna e una sfortuna per Goffredo, un’occasione vitale e una sventura. Parliamo di sfortuna e sventura perché, osservato con la lente della patologia, tale vissuto, ad alto rischio depressogeno, avrebbe con buone probabilità - in un bambino con diversa struttura di personalità - introdotto nella sua esistenza episodi o fenomeni cronici di malinconia clinica e incenerimento della Lebenswelt: laddove, invece, la personalità dello scrittore bambino, già dotata, com’era, di un non scalfibile

7 Cfr. la Cronologia in OPERE I, p. XLI.

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senso della vita e di una vitalità magmatica e sotterranea, riuscì invece, fortunosamente, a limitare i danni psicologici. Perché sia ben chiaro: nulla è gratuito, e tantomeno lo fu la reclusione del bambino Goffredo, che vide soppresse le prime esperienze di relazionalità infantile: lo scrittore, sul nodo arcaico dell’illegittimità psichica, intrecciò un nodo altrettanto antico di depressività, certo non grave, non inabilitante, tuttavia presente, a periodi ricorrente; a volte dai tratti cupi, atrabiliari, disperati; altre volte, con i tratti della malinconia triste, della noia assillante, dell’ozio inguaribile. Parliamo al contrario di fortuna e occasione vitale, perché osservata con la lente di un atteggiamento sano e vitale, questa condizione di isolamento forzato fu una delle esperienze che, insieme ad altre che descriveremo di qui a poco, stimolarono in Goffredo l’attitudine all’invenzione ludica, alle fantasticherie, alla creatività: e che in modo analogo, svilupparono in lui sia la passione per il viaggio, come evasione dalla prigione dal mondo coatto della propria casa, sia la forte carica di compassione umana, come recupero di una socialità impedita. Gradatamente, dunque, cresce la complessità del profilo esistenziale di Goffredo, mentre la sua poliedrica costellazione psichica si arricchisce di nuovi nuclei originari: la propensione a un ludus immaginario; l’attitudine alle fantasticherie; la passione per il viaggio come esplorazione esistenziale; l’attrazione verso la compassione umana. Goffredo solitario bambino sarà Parise uomo che, per sue stesse dichiarazioni, vivrà spesso solo e fondamentalmente appartato, pur rimanendo comunque un amante scherzoso e appassionato della compagnia. Un ulteriore tratto ambivalente, connotato insieme di identità solitaria, di attrazione emozionale e sensibilità relazionale. L’attrazione per i viaggi, poi, diverrà attrazione verso l’ignoto che circonda l’ 14


abitazione familiare e il suo cortile: verso quell’ignoto che è il luogo altro delle fantastiche avventure e degli anelati incontri e relazioni umane. Dunque, il precoce talento fantastico e la propensione immaginifica fanno il loro esordio, nella vita introspettiva di Goffredo, come forma di compensazione di un’inesausta e non concretizzata passione per l’esplorazione. Cito di nuovo dalla biografia dello scrittore: La naturale inclinazione alle fantasticherie e ai sogni del piccolo Goffredo è descritta dalla madre: «nel cortile di casa a Santa Barbara c’era un buco, una specie di tunnel che sembra fosse stato costruito secoli addietro da alcuni frati per collegarsi, attraverso i sotterranei, con la basilica di Santa Corona. Dentro questo buco Goffredo declamava, solo». (promemoria autografo)8

Solitario, all’interno di un cunicolo, con poca luce, Goffredo si rappresentava in una scena in cui da protagonista, moltiplicato a voce alterna nei vari personaggi, dava espressione alle storie nate dalle sue letture: non i provini anticipati di un’ipotetica e mai intrapresa carriera d’attore, ma le prove generali per orchestrare cadenze, immagini e intrecci della futura creatività narrativa.

I.1.3

Alla finestra e sul balcone: Goffredo scruta i giochi dei bambini liberi Proseguo il viaggio esplorativo con la lettura di altri passi, tratti dalla biografia

dello scrittore e da un saggio critico di Paolo Petroni: Anche in altri successivi ricordi personali viene confermata quell’affettuosa protezione: «Mi tenevano molto in casa, al riparo dai pettegolezzi dei vicini […]. Io stavo alle finestre o su un terrazzino, che dava su una piazza interna: San Faustino. Ricordo nitidamente quella piazza, piccola ma deliziosa. Dietro, una chiesetta sconsacrata, trasformata in un cinematografo. Alla sera dal mio osservatorio, sentivo i dialoghi dei film e le grida dei coetanei che giocavano» (Io Parise, la mia Vicenza, le mie radici, intervista raccolta da A. Bellini, «Il Giornale di Vicenza», 15 settembre 1984)9. Non poteva mai uscire e passava il proprio tempo sul balcone (al terzo

8 Cfr. la Cronologia in OPERE I, p. XLII. 9 Ivi, p. XLI-II.

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piano di una casa popolare) a guardare per ore e giorni i giochi e le avventure dei ragazzi liberi e poi sognarvi sopra quelle storie che, messe infine sulla carta, daranno origine al Ragazzo morto e le comete e La grande vacanza. Di quell’epoca, dando interessanti indicazioni, Parise scrive: «L’ambiente molto scenografico della città (Vicenza) e il contatto coi nonni (che sono di origine contadina) formano uno strano melange di naturale (la campagna) e di artificiale (le scene del Palladio) che, insieme all’abitudine di osservare le cose dall’esterno (dal balcone), sviluppano l’attitudine fantastica del bambino che tende alla regia: cioè a ricostruire nella realtà ciò che gli viene suggerito dalla fantasia…». Il limite tra fantasia e realtà tende quindi a sparire per quel ragazzo che ha sofferto molto profondamente la propria situazione di «irregolare», dati i tempi e l’ambiente cattolico della provincia veneta10.

Goffredo viveva protetto e custodito sì, ma non muoveva i suoi passi solo in casa: passava molto tempo affacciato alle finestre e sopra il terrazzino, da dove percepiva il mondo esterno penetrare attraverso i sensi nella sua inquieta interiorità. Ce lo raccontano le parole dello scrittore e dello studioso. Vista e udito - i due sensi prevalenti in tale contesto di lontananza - seguivano i movimenti e ascoltavano le voci e le grida dei bambini suoi coetanei, ai cui giochi e alle cui vite era giocoforza estraneo. A sollecitare le percezioni non era solo la naturale curiosità infantile, che semmai appariva persino vorace nella sua forza attrattiva: occhi e orecchie inseguivano con avidità il mondo esterno, per penetrarne il mistero, assorbirlo nell’io bambino, e proiettarlo infine di nuovo nella realtà: secondo un movimento pendolare che potremmo definire una “visione di terzo grado”. Con parole molto precise, lo scrittore descriveva questo processo: una visione già precoce, che si strutturava nella forma di uno sguardo che osservava da lontano (parola ricorrente con allarmante frequenza nei suoi testi, e, non a caso, titolo Lontano11 - di una raccolta postuma di narrazioni in prevalenza di luoghi) e che assumeva le fattezze di regista cinematografico, di colui che manipola il reale attraverso

10 Paolo Petroni, Invito alla lettura di Parise, Milano, Mursia, 1975, p. 17. 11 Goffredo Parise, Lontano, a cura di S. Perrella, Cava de’ Tirreni, Avigliano Editore, 2002.

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una creativa disposizione delle prospettive narrative. Trasponendo l’asse metaforico presente nell’analisi dello scrittore, dalla modalità cinematografica (regia filmica) a quella letteraria, possiamo qualificare i suoi antichi sguardi verso il mondo come primi passi formativi di una visione creativa che «tende» verso la tecnica romanzesca. Senza dimenticare quanto lo scrittore ulteriormente precisava: la presenza nelle scene di un fondale «naturale», assorbito nel suo immaginario mutuandolo dall’ambiente contadino dei nonni; e di un fondale «artificiale», penetrato nell’immaginario con la ricezione dell’ambiente cittadino (scenografia vicentina). Sotto i nostri occhi, con gradualità, si arricchisce il profilo del vissuto di Goffredo e altrettanto la sua costellazione psichica, che acquisisce un ulteriore nodo fondante: una visione che attraverso la vista e, in minor misura, l’udito - sensi a quest’altezza prevalenti nel rapporto con l’altro - percepisce da lontano la realtà e la rielabora creativamente in finzione narrativa: uno lontano sguardo romanzesco. Se non fosse ancora chiaro ed evidente: sono nel laboratorio creativo infantile dello scrittore.

I.1.4

Affacciato sul cortile: Goffredo percepisce sognante il sonoro del cinema Da un ricordo appena letto di Goffredo, abbiamo appreso che di frequente si

affacciava dal terrazzino di casa, al di sotto del quale si estendeva, bella come una miniatura («deliziosa» scrive Goffredo), San Faustino: una raccolta piazzetta interna che risuonava della vita cittadina, filtrata dai suoi attenti sensi e restituita come il brulichio degli urlati giochi dei bimbi e come il sonoro dei film proiettati nella chiesetta sconsacrata adibita a sala cinematografica. Se Vicenza - e successivamente Venezia, luogo di rinascita culturale ed 17


esistenziale – è, e sarà per l’intera esistenza, il geografico cuore pulsante della passionalità dello scrittore - piazza San Faustino è e rimarrà sempre il nucleo caldo e arcaico di questo cuore: un ulteriore hortus clausus assurto a intimo locus amoenus. Prima di inoltrarmi nelle interpretazioni, proseguo il viaggio esplorativo leggendo i ricordi di Goffredo mediati da un passo critico di uno studioso, Silvio Perrella: Parise non ha ancora diciotto anni […]. Ascolta la colonna sonora de Il terzo uomo, il film di Carol Reed con Orson Wells, sul cui set si è trovato per caso durante un viaggio a Vienna. Ma ha ancora nelle orecchie i suoni senza immagini provenienti dal cinema di piazzetta San Faustino, il luogo «che è al centro quasi matematico di tutta la mia opera». «Questa piazzetta, nascosta nel centro della città di Vicenza, è chiusa dentro quattro lati formati da vecchie costruzioni: la più antica di queste è la facciata della chiesa di San Faustino, chiesa sconsacrata ai tempi di Napoleone e ora trasformata e adibita a cinematografo. Tuttavia, dalla parte della sua facciata la chiesa è pur sempre una chiesa cattolica del sei o settecento, ora non ricordo bene, con la porta costantemente sbarrata. All’interno di quel portale, anzi esattamente dietro quel portale, sta lo schermo del cinema cui si accede da una altra via. Questo schermo invisibile emana tuttavia suoni che sono i suoni e le parole dei film. Buona parte della mia infanzia io la passai su un terrazzino al terzo piano di una casa proprio di fronte a quella facciata, udendo i suoni e le parole che accompagnavano immagini che non vedevo. Questo mi procurò una intensa e ineffabile emozione di mistero e anche di dissociazione espressiva in quanto non riuscivo a capire come dall’interno di una chiesa non uscissero suoni di organo o inni sacri bensì spari, musiche da grande orchestra, sospiri e parole d’amore.» Ed è proprio la dissociazione espressiva ad agire. Il giovane Goffredo affida alla pagina immagini straniate e allo stesso tempo nitide. Si ha l’impressione di immagini viste attraverso un velo d’acqua, in parte emerse e in parte sommerse. Come emersi e sommersi sono i vivi e i morti. A volte, si vede la cesura tra le due parti e c’è come una distorsione e una moltiplicazione, dovuta all’effetto dell’acqua. Come si sa, immergendo parzialmente un oggetto in un bicchier d’acqua, lo si vede spezzato12.

Le parole di Goffredo, insieme alle chiose a corredo di Perrella, spiegano con lampante evidenza le ragioni dell’importanza e della centralità del locus amenus. Il locus amenus è la postazione dove il “senso dell’udito” acquista pari dignità

12 Silvio Perrella, Fino a Salgareda, Milano, Rizzoli, 2003, p. 11-2.

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e rilevanza rispetto alla vista, e che Goffredo esercita come privilegiato canale percettivo e gnoseologico insieme al visivo. E parimenti allo sguardo, per ovvie concrete ragioni di distanza, anche il sonoro degli esseri umani (parole e grida) è percepito da lontano. A rafforzamento di una visione a cannocchiale. Il medesimo locus amenus è il luogo dove lo scrittore sperimenta la precoce e meravigliata esperienza del cinematografo - seppur circoscritto al solo sonoro ascoltato dal terrazzino - che illumina ora con calibrato focus quanto Goffredo raccontava del suo sguardo che «tendeva alla regia»: occhi e orecchie dello scrittore bambino, rilevano ciascuno quanto è dato percepire tramite il senso deputato; tuttavia, per ovvie cause fisiche - lontananza, impedimenti - le informazioni risultano incomplete; a questo punto, si attiva immediata la creatività infantile che inizia a tessere la trama narrativa sia sovrapponendo le parziali informazioni dei due canali percettivi - come in un’ipotetica sala di doppiaggio - sia attingendo dall’immaginario personale i reperti fantastici richiesti dal processo di invenzione. E infine, locus amenus come area privilegiata, in cui Goffredo viene attratto dalla precoce adozione di una modalità percettiva e narrativa che, definita, con intuitività fulminea, di «ineffabile emozione di mistero» e di «dissociazione espressiva», diverrà in seguito inconsapevole ma precisa poetica. Tutta la sua produzione narrativa, quale ne sia il genere sperimentato, è pervasa sempre dal senso del mistero, sia esso più insistito o dichiarato, o sia esso più rarefatto o dissimulato: di continuo, insinua nelle più innocue descrizioni o considerazioni improvvisi scarti sul piano dell’atmosfera e dell’intreccio narrativo, tali da creare nella ricezione del lettore effetti di mistero. Allo stesso modo, nell’intera sua opera agisce una modalità di visione che lo scrittore stesso confermerà e definirà in vari modi: ora con 19


l’espressione «dissociazione espressiva» altrove con l’immagine «a cannocchiale rovesciato»: nel tentativo di affinare la descrizione di uno sguardo che rimane sempre e comunque distorto e deformato, come quello di un oggetto immerso nell’acqua, offuscato e dissociato come quello percepito in uno stato di coscienza alterata. Insomma, uno “straniamento” della visione, per scomodare Šklovskij e la sua teoria narratologica, che nel meccanismo dello straniamento intercettava una delle caratteristiche fondanti della finzione narrativa. O una “visione sonnambula”, come si preciserà più avanti nell’elaborato. A conforto saggistico della presente indagine, vorrei richiamare quanto acutamente scrive Franco Marcoaldi: Più ancora, in Parise, i sensi non soltanto mescolano le loro funzioni, ma mescolandosi fondano l’esperienza, secondo quella che lui definisce la propria «sensazione soggettiva»; o meglio ancora, «la sempre inesatta pressione del sangue». E questo accade a maggior ragione nelle situazioni estreme, quando «la mente è come dissolta. E la ragione perde di colpo la sua funzione di strumento conoscitivo e associativo», al punto che «soli strumenti di conoscenza rimangono i sensi che registrano indifferentemente i fenomeni» […]. L’olfatto, il tatto, l’udito, il gusto: i libri di Parise sono letteralmente crivellati di immagini sensoriali. Quasi che soltanto così si possa ambire a ricreare una qualche Erlebnis, una qualche esperienza. Certo, ben sapendo che questo doppio movimento (dalla sensazione all’espressione e viceversa) produce uno scarto, una ferita. Si trascina alle spalle una bava di malinconia13.

Dopo quanto esposto, il profilo esistenziale di Goffredo ci appare ulteriormente trasformato da una nuova disposizione, e parallelamente, la sua già poliedrica costellazione psichica acquisisce un nuovo nucleo originario: una visione del mondo esperita secondo la modalità della dissociazione espressiva, o dello straniamento, o della cosiddetta “visione sonnambula”.

I.1.5

Goffredo ascolta e legge libri di racconti avventurosi ed esotici

13 Franco Marcoaldi, Parise e il gioco degli occhi, in Goffredo Parise, a cura di Ilaria Crotti, atti del Convegno svoltosi tra il 24-25 maggio 1995 a Venezia, Firenze, Olschki, 1997, pp. 118-9.

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Il presente paragrafo si avvicina alle battute finali, prima delle quali desidero leggere un’importante informazione biografica, accompagnata dal passo di un’intervista che lo scrittore rilasciò al periodico «Oggi» nel 1983: Ida Bertoli sposa il giornalista Osvaldo Parise, collaboratore del «Gazzettino» e del «Giornale di Vicenza». La nuova famiglia abita in via del Quartiere, in una casa con un grande giardino. Solo con gli anni i rapporti con il patrigno acquisteranno un carattere di vera amicizia. Scarsa simpatia e distacco improntano gli inizi della loro convivenza, poi «mi conquistò, spronò il mio interesse letterario, senza assolutamente volerlo o pensarlo, quando avevo setteotto anni. Alla sera, dopo cena, mi raccontava i romanzi di Salgari. Li raccontava in modo così egregio che all’ora stabilita ero fremente: lo trascinavo in salotto e lui cominciava il racconto della Tigre di Mompracen, del Corsaro Nero» (Col silenzio ha riempito la mia vita di freddezza, intervista a Goffredo Parise a cura di Gianfranco Micali, in «Oggi», 14 settembre 1983)14.

Il patrigno, quindi, introduce Goffredo alla scoperta del racconto picaresco attraverso una narrazione, di secondo grado, dell’opera di Salgàri: le cui storie, eccitanti e fantastiche, giungono alle orecchie vigili del bambino attraverso la voce narrante dello stesso Osvaldo, “attore” involontario di una scena in cui Goffredo, da incantato e fremente spettatore di una rappresentazione teatrale, riceve l’autentica iniziazione al romanzo di viaggio e d’avventura. Dunque, il piacere, esistenziale prima e letterario poi, di avventurose peripezie, nasce in Goffredo come voluttà suscitata dalla narrazione - o recitazione, o declamazione - altrui, che viene percepita e fruita con l’udito prima ancora che, attraverso la lettura personale e diretta, con la vista: approccio e piacere sonori (“le grida dei bimbi”, “il sonoro del cinema”...), ancor prima che visivi. Se la precedente analisi, condotta sul vissuto biografico e insieme sul profilo psicologico del bambino, aveva intercettato le differenti modalità percettive, creative e conoscitive del futuro scrittore, a quest’altezza, acquisiamo e sveliamo la fonte e i temi

14 Cfr. la Cronologia in OPERE I, p. XLII.

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stessi di quel repertorio di immagini antiche che, disseminate e ricorrenti come un fil rouge che percorre la scrittura nella forma di costellazione immobile nel firmamento creativo di Goffredo, ritroveremo nella sua opera di un’intera vita. Di certo, poiché ne abbiamo sicura testimonianza biografica, Goffredo non limitò le sue conoscenze romanzesche alle sole narrazioni del patrigno, ma fu famelico lettore in proprio, come la maggior parte dei bambini avidi di storie; né circoscrisse i suoi interessi e le sue prime letture, al solo, pur fondamentale, Salgàri. Allargò, infatti, la sua curiosità, al genere d’avventura inteso in senso ampio: di cui facciamo il nome fra tanti autori, di Julius Verne; senza infine dimenticare le sue incursioni nel genere del fumetto, che in Italia nasceva proprio allora suscitando un crescente interesse infantile, con le intrepide storie dell’«Uomo Mascherato». Tale, dunque, la fonte letteraria e immaginifica da cui fluirà nel futuro scrittore una costellazione di parole topiche, un vero e proprio ricorrente e sistematico lemmario: avventure, barone di Münchausen, marinaio Ahmed, bazar, oriente ecc. Chiosando in breve sintesi, l’incontro con il genere, i temi e le modalità avventurose, orienta in Goffredo l’iniziazione all’esistenza e al contempo la creatività narrativa. Se l’hortus clausus e il locus amoenus, coincidenti con casa d’abitazione e piazzetta di San Faustino, rappresentano i luoghi dove Goffredo sperimenta le prime eccitanti fantasticherie solitarie insieme allo sconosciuto piacere dei sogni d’avventura, è anche vero che le medesime esperienze lo sollecitano ad andare oltre: offrendogli la possibilità di oltrepassare questi ristretti spazi dalla veduta lontana, per avviarsi in direzione di un’attraente ed inesausta esplorazione del mondo e della narrazione, che cesserà solamente con la morte dello scrittore. Concludo la presente indagine - voglio sperare attenta, di sicuro appassionata 22


delle esperienze infantili di Goffredo - cioè del suo arcaico mondo percettivo, relazionale, romanzesco da me definito inquiete impressioni infantili - ponendo in luce le seguenti circostanze: il profilo esistenziale si è ulteriormente trasformato, mentre la costellazione psichica del bambino in crescita si è arricchita di un altro nodo fondante: la modalità avventurosa, nella duplice semantica esistenziale e narrativa.

I.2

Al centro della sua costellazione Goffredo s’avvia verso l’età adulta

I.2.1

Goffredo incontra la malinconia. Il paragrafo Inquiete impressioni infantili di Goffredo ha delineato una figura

di scrittore alle prese con le esperienze dell’infanzia, ora traumatiche, ora sane, in ogni caso costantemente impegnative: a volte eccezionali, sempre irregolari e affascinanti, tutte comunque fondamentali per la sua vita futura. Goffredo si affaccia alle soglie di una nuova età portando sulle spalle il suo zainetto esistenziale, che racchiude quella poliedrica galassia psichica costellata di tanti nuclei originari: senso di illegittimità esistenziale; sguardo deformante (o realismo visionario); irruzioni fobiche; propensione al ludus immaginario; attitudine fantastica; passione per il viaggio come avventura esperienziale, esistenziale e narrativa; senso di compassione umana; sguardo romanzesco da lontano; dissociazione espressiva (straniamento o visione sonnambula): con tale problematico e sorprendente bagaglio, Goffredo va incontro a nuove decisive esperienze. Continuo, dunque, ad accompagnarlo, nel tragitto di vita che dalla pubertà, attraverso l’adolescenza, lo traghetta nell’età adulta. All’età di undici anni, Goffredo prepubere ha un crisi di crescita: o, forse, ha un incontro, peraltro annunciato dalla sua costellazione identitaria infantile, con una di 23


quelle “presenze” che orientano una vita: la “malinconia” irrompe nell’anima del ragazzo. È lui stesso a parlarcene con tenera lucidità: [1940] All’inizio della guerra la famiglia Parise si trasferisce in un appartamento di piazza Castello mentre Goffredo frequenta le scuole elementari Giuseppe Giusti con il maestro Mingotti. «Ciò che […] ricordo esattamente» scriverà molti anni dopo «è proprio che a quell’epoca comincia la mia malinconia, originata da una frattura insanabile tra la realtà e la mia fantasia, che mi creava intorno un popolo di sogni meravigliosi. Questa malinconia, allo stato più acuto, è durata quindici anni, non è scomparsa nemmeno adesso, anzi in fondo dura tuttora e costituisce il fondamento della mia tematica di scrittore» (Il Sillabario degli scrittori italiani: Goffredo Parise…, cit.)15.

Per un’esplorazione dell’esperienza malinconica non sarebbe sufficiente un’intera tesi, né diversi tomi di un’enciclopedia a grafi, e neppure un convegno dedicato al tema: tanto pervasiva e profonda è la sua presenza, che attraversa, come topos fondante, la civiltà occidentale: nella concretezza psicologica delle esistenze, nell’epistemologia umanistica, giù giù fino ad arrivare all’esperienza artistica. Lo stesso lemma “malinconia”, si offre alla comprensione umana come un regno arduo da varcare, poiché complessa è la polisemia che lo attraversa, dai tempi antichi sino all’epoca attuale: dal concetto di “melancolia” di Aristotele, così citato e caro a molti studiosi moderni e contemporanei anche per la sua stessa morfologia linguistica, che, viceversa, molto restrittiva e spesso fuorviante risulta essere per una sua valida esplorazione approfondita; alla malinconia (vissuta e teorizzata) di Leopardi, snodo imprescindibile e sublime per qualsiasi riflessioni profonda e penetrante su di essa; alla malinconia clinica della psichiatria; alla malinconia come Stimmung (stato d’animo) e come temperamento. Nei paragrafi finali del capitolo, avrò modo di addentrarmi nei meandri dell’esperienza malinconica: intesa nella sua valenza universale; nella sua specifica

15 Cfr. la Cronologia in OPERE I, p. XLIII.

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validità di componente del vissuto di Parise; nella suo valore peculiare di declinazione leopardiana, presente nella poetica creativa dello scrittore. Per il momento, la seguirò come un ulteriore tratto psicologico, nel suo primo emergere durante il percorso di crescita di Goffredo. Il passo autobiografico letto in precedenza, racconta di una malinconia che avvolge Goffredo come una coperta calda: sboccia nel suo temperamento e ne inclina e orienta i processi psichici e vitali. È la cronaca di un evento quasi atteso e finalmente giunto: se non è lecito affermare che lo straniamento (sua primordiale modalità esperienziale del mondo) è di per sé stesso malinconia, è però possibile sostenere che la malinconia è - fra le altre - una forma di straniamento. La malinconia esperita da Goffredo, quale affiora da numerose affermazioni dello scrittore insieme alla testimonianza di un’intera produzione letteraria - è immersione in uno stato di cullamento, in cui la psiche, nelle vesti della fantasia, sperimenta lo scarto mai colmabile con l’alterità - la realtà - come un’esperienza di piacere mai appagato, di godimento originato dalla tensione desiderante mai placata: nella cui tensione, la condizione di cullamento (o ripiegamento) non è mai “annullamento” ma incessante vitale instabilità; dove il piacere, per un processo di comprensibile ambivalenza, si colora delle sfumature di una dolce (malinconica) sofferenza, figlia legittima dello scarto incolmabile; e dove lo scarto, oltre a direzionarsi nel senso dello spazio, si dilata lungo l’asse temporale, assegnando alle tre dimensioni del tempo la medesima possibilità ontologica, senza perciò cadere né nella raggelante, patologica o infantile presentificazione, né tantomeno nella regressiva e mitografica nostalgia. A corredo del presente sorvolo critico sulle ali della malinconia, voglio leggere un nuovo ricordo autobiografico descritto dalla viva voce di Goffredo: 25


Frequenta la prima ginnasiale alla scuola media Leonardo da Vinci. Così ricorderà quegli anni: «A scuola mi sono sempre annoiato […]. Per sottrarmi a un’atmosfera così opprimente inventavo un mucchio di bugie per le quali venivo poi regolarmente punito. Ma ero un bugiardo nel senso comune della parole. Le mie bugie, infatti, non erano mai funzionali, cioè non servivano a mascherare una realtà che volevo nascondere. Al contrario, le mie “invenzioni” tendevano a creare con la fantasia una realtà diversa, nella quale non mi sentissi più solo. Ma era difficile spiegare queste cose a mia madre, figurarsi agli insegnanti» (ibidem)16.

Il primo aspetto che mi preme sottolineare, è che dal racconto emerge un bambino la cui attitudine fantastica non era circoscritta ai soli momenti ludici, solitari o amicali, o alle eventuali precoci esperienze creative, bensì si estendeva anche in quella zona che con terminologia freudiana definiremmo “principio di realtà”. Osservandolo sotto il profilo della creazione letteraria, che principalmente interessa alla presente indagine, possiamo considerare il suo comportamento come un costante processo di allenamento delle facoltà immaginative, di cui farà mirabile uso il futuro scrittore. Il secondo aspetto che vorrei porre all’attenzione, è l’individuazione della “noia” quale fattore scatenante dell’allontanamento del ragazzino dalla realtà: noia che, insieme all’angoscioso vulnus dell’illegittimità, fu il peggiore e più precoce fra i demoni psichici che infestarono la vita di Goffredo. Non a caso, così si esprimeva lo scrittore a riguardo: «Due veri drammi della mia vita: l’ozio e il fumo. L’uno mi perseguita dalla nascita, l’altro dall’età di 13 anni»17. Questa testé citata è soltanto una delle innumerevoli occasioni, nel corso di tutta la vita, in cui lo scrittore mise a nudo la valenza drammatica di quel suo orrido persecutore chiamato noia: lettere, testimonianze autobiografiche, interviste, ne sono disseminate con ricorrenza tanto eloquente quanto inquietante. Ecco cosa scrive a riguardo Marco Belpoliti, che cita a sua volta lo

16 Cfr. la Cronologia in OPERE I, p. XLIII. 17 Ludovica Del Castillo, Goffredo Parise: una città di papi e topi che insegna a vivere, in Roma, punto e a capo. La città eterna attraverso gli occhi di grandi narratori, a cura di S. Cirillo, Roma, Edizioni Ponte Sisto, 2017, p. 233.

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scrittore: In questo modo il Narratore [Filippo, protagonista del romanzo L’odore del sangue18] finisce per essere invaso dalla noia: «Nel frattempo vivevo la mia accidiosa vita in campagna. […] Mi annoiavo del resto anche a Roma e, io credo, mi sarei annoiato in qualunque altro posto del mondo». L’idea che lo assilla - che assilla il Narratore, ma probabilmente anche l’Autore - è quella «dei giochi già fatti»: la vita è già stata vissuta e non c’è più nulla da attendersi. La noia, in definitiva, non è un eclissi del desiderio, ma il fatto che il suo oggetto è irraggiungibile19.

Mi corre l’obbligo di dissentire da Belpoliti, di cui pure apprezzo il talento interpretativo, perché la sua posizione mi suona come un singolare abbaglio saggistico: secondo un’argomentazione condotta au contraire, sull’asse di un lapsus freudiano per opposti, dove l’unica eclissi che rilevo, perplesso, è semmai quella della sua penetrante predisposizione critica. Confutando punto per punto la sua analisi, rilevo che, senza ombra di dubbio, «l’idea… dei giochi già fatti» «assilla» non probabilmente ma sicuramente «anche l’Autore», ovvero Parise, che testimonianze in merito ne ha lasciate a disposizione fin troppe; e ribadisco, che la noia è, «un eclissi del desiderio», laddove invece l’ irraggiungibilità dell’oggetto è origine, del desiderio. Se la noia ha i tratti spettrali di un raggelante stato psichico e corporeo - una sorta di denso strato nebbioso che opacizza la vitalità - che cammina contiguo alle esperienze della “melancolia” e dell’umor nero; al contrario, l’irraggiungibilità dell’oggetto è un’attivazione, e persino una moltiplicazione, del desiderio. A suggello di questa breve incursione nei pietrificati sguardi della noia - un tratto caratteriale importantissimo e persecutorio nell’esistenza di Parise, come confermano le sue stesse affermazioni - trovo illuminante riportare alcune

18 Goffredo Parise, L’odore del sangue, a cura di Cesare Garboli e Giacomo Magrini, Milano Rizzoli, 1997 [il libro uscì postumo per volontà dell’autore). 19 Marco Belpoliti, Settanta, cit., p. 250-1.

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considerazioni del fondamentale, seppur appartato, Eugenio Borgna, psichiatra accademico, e clinico, di orientamento fenomenologico: Dall’area della psicopatologia, nella quale i fenomeni si colgono nella loro trasparenza assoluta […], possono scaturire elementi non altrimenti constatabili e che possono aiutare la comprensione e l’archeologia di esperienze psicologiche umane come sono la noia e la malinconia. Ai confini della malinconia sta la noia: che si comprendono meglio nei loro aspetti essenziali se sono dialetticamente confrontate l’una con l’altra. La malinconia e la noia sono genialmente interpretate da Giacomo Leopardi come categorie conoscitive e non solo come categorie emozionali. “La malinconia per esempio fa veder le cose e le verità (così dette) in aspetto diversissimo e contrarissimo a quello in cui le fa vedere l’allegria. V’è anche uno stato di mezzo che le fa pur vedere al suo modo, e cioè la noia”; e ancora “Vero è purtroppo che astrattamente parlando, l’amica della verità, la luce per discoprirla, la meno soggetta ad errare è la malinconia; e soprattutto la noia; ed il vero filosofo nello stato di allegria non può far altro che persuadersi, non che il vero sia bello o buono, ma che il male cioè il vero si debba dimenticare, e consolarsene, o che sia conveniente di dar qualche sostanza alle cose, che veramente non l’hanno”. Ci sono alcuni sentimenti, alcuni stati d’animo, che ci confrontano con le fondazioni ultime dell’esistenza: questa è, ovviamente, una delle tesi radicali del pensiero heideggeriano; ma, al di là dell’angoscia che ha un’importanza decisiva in questo discorso, anche la noia è considerata da Heidegger come una esperienza essenziale nel rivelare il senso dell’esistenza. “Anche quando, e proprio quando non siamo particolarmente occupati dalle cose e da noi stessi, ci soprassale questo ‘tutto’, per esempio nella noia autentica. Essa è ancora lontana quando ad annoiarci è solo questo libro o quello spettacolo, quell’occupazione o quest’ozio, ma affiora quando ‘uno si annoia’. La noia profonda, che va e viene nelle profondità dell’esserci come una nebbia silenziosa, accomuna tutte le cose, tutti gli uomini, e con loro noi stessi in una strana indifferenza. Questa noia rivela l’ente nella sua totalità” Qualche analogia esiste fra la definizione leopardiana e quella heideggeriana della noia; anche se, certo, in Leopardi la noia genera il nulla (come egli dice: la noia “è madre del nulla”) mentre in Heidegger è l’angoscia a svelare il nulla. Ma in ogni caso sono stati già toccati, qui, dall’uno e dall’altro aspetti radicali della noia come stato d’animo e come situazione esistenziale20.

Il terzo e ultimo aspetto che vorrei evidenziare del passo autobiografico di Goffredo, attiene alla dichiarata sua capacità simulatoria (mentitoria) entro le mura

20 Eugenio Borgna, Malinconia, Milano, Feltrinelli, 1992, pp. 130-1. Le citazioni leopardiane sono tratte da: Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, voll. I e II, in Tutte le opere di Giacomo Leopardi, a cura di F. Flora. Milano, Mondadori, 1973. I passi citati di Martin Heidegger provengono da: Martin Heidegger, Che cos’è la metafisica, in Segnavia, Milano, Adelphi, 1987, pp. 59-78.b

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scolastiche: raccontando che «al contrario, le mie “invenzioni” tendevano a creare con la fantasia una realtà diversa, nella quale non mi sentissi più solo», Parise dà spiegazione del suo comportamento, confessandone la funzione compensatoria rispetto al tema della solitudine relazionale. È un aspetto che ho già indagato in precedenza, in particolare sotto il profilo di processo compensativo di tipo ludico: tuttavia, la circostanza sorprendente è che, a quest’altezza, i processi di dislocazione e compensazione della sofferenza suscitata dall’esperienza della solitudine, avvengano perfino all’interno di un contesto di piena socialità (amicale scolastica) in cui Goffredo si trova immerso quotidianamente. Tornerò a tessere il discorso sulla noia nel paragrafo finale del capitolo, dove verrà intrecciato, di nuovo, con il tema della malinconia, e soprattutto, inevitabilmente, con il pensiero poetante espresso dall’immensa figura di Leopardi. A chiusura della presente indagine, rilevo che, nel frattempo, la costellazione biografico-psichica di Goffredo ha arruolato due nuove prime attrici: la malinconia e la noia.

I.2.2

Goffredo ragazzo cede il passo a Parise adulto Proseguo il viaggio nella formazione giovanile di Parise, osservando il suo

ingresso nell’adolescenza e quindi nell’età matura. Con l’eccezione di impegno e rendimento scolastico, Parise, nella sua già ricca e “complicata” vita, non si risparmia, né con le forze, né con le passioni, né con i rischi: a conferma ulteriore del carattere profondamento vitale della sua personalità, né calpestata né tantomeno sconfitta dalle ripetute esperienze traumatiche. Seguiamone le vicende biografiche: 1943 29


Rievocando gli anni della guerra dirà: «L’avevo vissuta direttamente e indirettamente nell’Italia del Nord, negli anni ’44 e ’45. Guerra civile per esattezza. E molto duramente. Ma a tredici, quattordici anni non si conosce il valore della vita umana, non fosse altro che per un’abitudine (alla vita) ancora troppo poco radicata […]. Non avevo paura di nulla, e mi divertivo a passare sotto gli occhi delle SS che perquisivano i civili, con una pistola in tasca. Ricordo, per chi non ricorda, che un civile armato veniva fucilato sull’istante. Erano epoche di partigiani e anch’io lo ero un po’, data l’età, come potevo» (E. De Boccard, Goffredo Parise. Conversazione senza complessi con uno scrittore non alienato, «Play-men», aprile 1970)21.

È un primo mini ritratto, dal quale emerge un ragazzo - anticipatore di un atteggiamento dei suoi primi anni giovanili, come nel suo viaggio negli Stati Uniti del 1961 - forse un po’ spaccone, di sicuro spavaldo: nemmeno, poi, così giustificabile dall’appartenenza ad un’età in cui frequenti sono tali comportamenti. Un atteggiamento, dal quale viene fuori, soprattutto, un Parise coraggioso e attivo civilmente, come tanti altri giovani dell’epoca. Continuo ad accompagnarlo: 1946 Frequenta la prima liceo classico. È un allievo distratto […]. Contemporaneamente si dedica alla pittura realizzando alcune tele di impianto visionario: oscuri luoghi con personaggi fantastici, un’annunciazione, un autoritratto e altri soggetti. Organizza con alcuni amici una «balera» denominata «Il Pugnale insanguinato», in via Santi Apostoli. Affitta barche in un antro a pelo d’acqua («L’Imbarcadero»). Sono questi i luoghi che costituiscono lo scenario del suo primo romanzo, Il ragazzo morto e le comete. Dalle prime letture (Salgari, Verne, i fumetti dell’«Uomo Mascherato») passa ancora giovanissimo a Kafka, Dostoevskij, Tolstoj. Legge Lautréamont, Gide, Camus, Maugham, Hemingway, in un frenetico accavallarsi di interessi disparati […]. 1947 Prende in affitto, nel centro di Vicenza, una mansarda con un abbaino che guarda sui tetti. «Da ragazzo di notte passeggiava sui tetti dei palazzi di Vicenza o nelle trame oscure del Campo Marzio dove incontrò Antoine Zeno, il suo primo personaggio metafisico.» (N. Naldini, Parise, l’ultimo sillabario, «Epoca», 12 settembre 1986). Sempre Naldini riferisce: «Dalle avventure nel parco del Campo Marzio, prima di scriverne, aveva ricavato una mitologia notturna sullo scenario delle grandi illusioni architettoniche vicentine, dove almeno un personaggio in seguito era risultato reale: Antoine Zeno, Antonio Zeni. Un vecchio omosessuale satiresco, sopravvissuto agli inferni della vita (perfino a un lungo esilio durante il regime mussoliniano) con una incontenibile euforia di esserci, di parlare, di

21 Cfr. la Cronologia in OPERE I, p. XLIII.

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muoversi: per infine sedurre il primo giovanotto capitatogli a tiro» (N. Naldini, Il solo fratello. Ritratto di Goffredo Parise, Milano, Archinto, 1989, p. 29). Si innamora di Atena Mazzaggio, professoressa di matematica, ventiquattrenne [Goffredo ne ha diciotto], sorella di un amico. Il 15 settembre partecipa a una mostra di pittori vicentini […]. Riceve il terzo premio per un quadro raffigurante un cimitero. Il 23 settembre pubblica il suo primo articolo sul «Gazzettino»: Voli di farfalle, visioni di bellezza. Riandando a quegli anni, confesserà: «Asino. Sono sempre stato asino e sempre promosso per il rotto della cuffia […]. Perché? Perché tutto, allora, mi era difficile, ogni materia salvo forse filosofia e forse matematica. Di certo la vita» […]. Abbandona il liceo. 1948 Nel corso dell’estate visita la Biennale di Venezia e, dopo aver visto i quadri di Chagall, decide di rinunciare alla pittura: «soffrivo molto per il fatto di non saper disegnare: era una limitazione penosissima a cui avrei potuto rimediare soltanto frequentando specialisti. Poi nel ’48 andai a Venezia a vedere la prima Biennale che si teneva dopo la guerra […]. Fui folgorato e realisticamente dismisi le mie modeste ambizioni. Del resto nei miei quadri c’era proprio un andante narrativo, e così la scrittura m’è parsa il prosieguo naturale della mia inclinazione artistica» (A. Amendola, Goffredo Parise, «Amica», 25 giugno 1985)22.

È una successione di tante istantanee biografiche e autobiografiche, che restituiscono un Parise multiforme, dai tratti caratteriali ove già assestati ove in via di evoluzione. Si conferma, senza dubbio, la scarsa attitudine scolastica dell’autore, ai limiti fra negligenza e inconsapevole disinteresse. Si convalida, altresì, la passione intensa per le letture narrative, che si dispiega, con modalità eclettica un po’ disordinata, verso opere non sempre accademiche, in considerazione del futuro successo e riconoscimento di scrittore da annoverare fra i classici del Novecento: in sintesi, l’antico lettore e ascoltatore di racconti avventurosi, sta arricchendo il suo archivio poetico di nuove fonti letterarie. Si avvalora, poi, il ritratto di un giovane Parise molto socievole, persino estroverso, nientemeno che organizzatore di eventi e gestore di un locale da ballo: un’ immagine così inconsueta rispetto all’alfa e all’omega della sua vita, da dare conto del

22 Ivi, pp. XLIII- XLV, passim.

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lungo cammino percorso - comunque sia, sempre complesso e in evoluzione - da quel lontano bambino solitario, errante in casa o sul terrazzino. Si ribadisce, inoltre, l’aspetto avventuroso, irrequieto e bizzarro del suo carattere, che, in lunghe e reiterate spedizioni notturne, lo spinge ad esplorare i tetti scegliendo come via d’accesso i fiabeschi abbaini - e insieme le piazze di Vicenza: procurandosi così, con una sorta di processo premiale, sia il piacere scaturito dall’avventura in sé e per sé, sia il nuovo e suggestivo materiale per le sue prime trame romanzesche. Si ratifica, poi, l’originaria vocazione alla pittura, che prende forma in dipinti guarda caso - visionari, fantastici, noir: di cui Chagall ne è il mentore artistico, e dove l’antica passione per la visione cinematografica (dal terrazzino o dalla sala) ne è l’archetipica modalità figurativa. Rivolgendo gli occhi interpretativi verso le future opere, questa primaria passione ed esperienza pittorica getta nuova luce sulle origini della sua straordinaria capacità di tratteggiare, con poche ed efficaci pennellate letterarie, le tante descrizioni narrative che costellano le sue opere: siano esse d’atmosfera,

o

di

rappresentazione

umana,

o

paesaggistiche.

Una

precoce

frequentazione pittorica che, non va dimenticato, suffraga l’esistenza di un’antica predisposizione alla costruzione narrativa, antecedente a qualsiasi specifica opzione di genere artistico. Si dimostra, infine, che con la pubblicazione del suo scritto Voli di farfalle, visioni di bellezza sul periodico «Gazzettino» nel 1947, Parise sta già scegliendo la sua strada di precoce scrittore diciottenne, al di là del successivo abbandono ufficiale della pittura. Prima di concludere questa rassegna biografica e sfumatamente psicologica, 32


desidero spendere qualche parola su quell’aspetto della sua personalità che, con evidente connotazione negativa, chiamo infantilismo di Parise. Lo definisco infantilismo, perché consiste in un plesso di tratti temperamentali che, traendo origine da corrispondenti aspetti presenti nell’età infantile, quando essi però avevano una loro ragion d’essere fisiologica e psicologica, permangono tuttavia invariati, o di sicuro non sufficientemente elaborati, nell’età matura: a segnalare, sia ben chiaro solo parzialmente, un latente sviluppo disarmonico e morboso, a tratti patologico, della personalità dello scrittore. D’altra parte, che la sua comparsa fosse inevitabile lo si intuisce dalle parole stesse dell’autore, quando si rappresenta come «molto tardo a crescere… sempre come annebbiato e dalla pigrizia e da una sua vita imprecisa»23. Comprensibilmente, l’infantilismo di Parise è uno dei suoi tratti caratteriali meno positivi e di sicuro ammirati: è l’altra faccia, semioscura, della luna. Ne consegue, che anche dalla prospettiva dell’infantilismo dobbiamo spiegare tutta una serie di aspetti di Goffredo. Per esempio, l’irrequietezza residenziale: 1947 Prende in affitto, nel centro di Vicenza, una mansarda con un abbaino che guarda sui tetti. 1949 Si trasferisce a Venezia, dove alloggia in una camera presso Alma Marigonda, in Riva del Carbon. 1955 Assunto dalla casa editrice Garzanti, si trasferisce a Milano; alloggia in pensioni e in camere ammobiliate: «in otto anni ne ho cambiate quarantatré»24.

O l’estrema mutevolezza delle sue scelte universitarie: 1949 Frequenta all’Università di Padova la facoltà di Lettere. 1950

23 Paolo Petroni, Invito alla lettura di Parise, cit., p. 23. 24 Cfr. la Cronologia in OPERE I, pp. XLIV-XLVII, passim.

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Dopo l’iscrizione alla Facoltà di Medicina, passa a quella di Matematica. Nello stesso anno abbandona definitivamente gli studi universitari25.

Oppure la cronica instabilità sentimentale: 1947 Si innamora di Atena Mazzaggio, professoressa di matematica, ventiquattrenne [Goffredo ne ha diciotto], sorella di un amico. 1953 La lontananza […] è fonte di malinconia e frequenti rievocazioni epistolari come nella corrispondenza con Elsa Fonti, una giovane di cui era allora innamorato […]. Durante uno dei periodici ritorni a Vicenza incontra Maria Costanza Sperotti [la futura, unica, moglie da cui si separerà nel 1963]26.

Ma anche la necessità, quasi infantile, di abbandonarsi a sonni improvvisi, talvolta motivo, peraltro, di comici episodi: «Sono qui da Garzanti [a Milano] e mi trovo bene» […]. Ricorderà l’amico Naldini che Parise «era solito, nella pausa di mezzogiorno, dormire in piedi addossato a un muro. Un mendicante lì vicino aveva l’incarico di svegliarlo dopo un’ora»27. O l’assenza di quella della maturità adulta che, fra vari aspetti, rende più sopportabili le inevitabili lontananze e le solitudini affettive a cui ogni vita sottopone: 1953 La lontananza [Parise lavora a Milano presso la Garzanti] dagli amici vicentini e dalla sua città è fonte di malinconia e frequenti rievocazioni epistolari. 1954 Milano si rivela una città difficile per Parise e i periodici rientri a Vicenza si fanno sempre più frequenti e necessari. Scrive spesso al suo editore Neri Pozza. Proprio nei primi giorni dell’anno, il 9 gennaio, gli invia una lettera: «Mi par di ritrovare i vecchi amici […]. La ruota è sempre la stessa, gli amici si vedono sui giornali, spuntano le lacrime e i pensieri; e giù una malinconia e una tristezza come un pitale di cenere sulla soffitta»28.

E per concludere, gli ingenui e improvvisi slanci seguiti da altrettanto rapide e ruvide delusioni, che sono disseminati lungo un’intera vita come una mini costellazione

25 Ivi, p. XLVI. 26 Ivi, pp. XLIV, XLVII. 27 Ivi, p. XLVII. 28 Ibidem.

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di testimonianze biografiche e di esperienze narrative. Fra molti, ne mettiamo a fuoco uno: un episodio emblematico, fra le diverse possibili considerazioni, di un carattere visceralmente umorale, a tratti persino aggressivo, spinto sovente fino oltre la soglia dell’antipatia, che infatti spesso suscitava in tutti gli altri (amici, lettori, critici), provocandone l’allontanamento da sé come persona e come scrittore: causa questa, non ultima, della sua controversa e difficile “fortuna” letteraria: Antipatia è il titolo di uno dei sillabari del 1971. È la storia del rapporto tra un «uomo un po’ pigro» e «una voce dolcina», «in maschera», che gli telefona un mattino. Dietro le fattezze di quest’uomo, con cui si identifica la voce narrante, c’è ovviamente Parise stesso, mentre la voce che gli chiede al telefono una sovvenzione per alcuni fuggiaschi spagnoli che lottano contro il regime di Francisco Franco, è quella di Pier Paolo Pasolini […]. L’antipatia che Parise prova per Pasolini è un sentimento vero. Ci sono precise testimonianze biografiche, come quella di Nico Naldini. Egli racconta come Parise giudicasse «Pasolini un grande letterato, ma non volendo esserne intimidito, cercava di indispettirlo». Una volta, a casa di Laura Betti, arrivarono persino a picchiarsi, poi, racconta Naldini, non si cercarono più29.

I.2.3

I reportage: Parise emerge visionario, militante, commosso Facendo per un istante sosta nel presente viaggio, mi accorgo di trovarmi in

compagnia di un Goffredo finalmente uomo, guidato dalla sua ricca galassia esistenziale e psichica. Leggiamolo ancora, immerso nel corso degli eventi: 1950 Nei primi giorni di giugno consegna all’editore Neri Pozza il manoscritto di Il ragazzo morto e le comete. Con l’appoggio del padre inizia a collaborare al quotidiano «Alto Adige». Pubblica il suo primo articolo il 19 settembre: Si banchettò per un mese sulla fiducia di Giuliana d’Olanda. 1955 Il 15 gennaio inizia invece la collaborazione al «Corriere d’Informazione» diretto da Gaetano Afeltra, con il racconto Vuoi fare del cinema? Da Parigi dove soggiorna tra il 16 febbraio e il 23 aprile, detta per lo stesso quotidiano una lunga corrispondenza giornalistica in quindici articoli30.

29 Marco Belpoliti, Settanta, cit., pp. 76-77. 30 Cfr. la Cronologia in OPERE I, pp. XLVI-XLVIII.

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Dunque, l’esordio come narratore e giornalista professionista coincidono, non a caso, e di certo non senza conseguenze per la sua futura attività di reporter. L’inizio ufficiale dell’attività giornalistica sancisce, per Parise ancor giovane uomo, l’accettazione della responsabilità lavorativa quale impegno prioritario, fra pochi altri, assegnato dalla vita a tutte le esistenze già mature e adulte. Di lì a pochi anni, da pubblicista ormai consolidato, ha inizio la sua esperienza come reporter di luoghi, di viaggio e di guerra: l’esercizio della sua professione, dunque, sancisce anche l’ingresso dello scrittore in una modalità comunicativa ancora inesplorata, cioè nel genere artistico - per lui ancora inedito - chiamato reportage. Parise vi profonde, da subito, le note esistenziali e creative più sane, più adulte, in particolare quelle più consapevolmente esposte a un coraggioso confronto civile e a un’incondizionata adesione sentimentale: in profonda difformità, o in ogni caso con marcati scostamenti, rispetto a quanto esprime, di sé stesso, negli altri generi letterari praticati. Penso, ad esempio, al coraggioso percorso etico e conoscitivo che lo traghetterà, dalle deboli tracce di un’educazione infantile antisemita, ad atteggiamenti lucidi, onesti e commossi verso il mondo ebraico, cui donerà pagine di meravigliosa creatività: Già i passi si saranno fatti misteriosi, felpati come lo zampettare dei gatti funamboli che fanno da guida in quella penombra coi bagliori verdastri degli occhi, e i siamesi con lampi rossi nelle iridi dove il tramonto filtra in lamelle di sangue. […] Non sarà difficile in certe ore del sabato udire alle spalle un canto diffuso, dalle inflessioni orientali nel timbro delle voci, un canto che si riprende continuo, come in una scatola musicale, nell’interno della sinagoga. La comunità israelitica di Venezia è formata ora di un migliaio di persone; ma solo due o tre famiglie abitano nel ghetto. Siamo ben lontani dai 5000 ebrei che nel 1655 vivevano stipati nei meandri di quelle case e in quei due Campi,

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in un brulichio quasi assurdo di attività, di pensieri, di immaginazione31. Da ragazzo udivo parlare degli ebrei come di coloro che avevano crocifisso Gesù Cristo. La frase «sei peggio di un ebreo » usata dalla nonna per punirmi di certe piccole negligenze religiose assumeva ai miei orecchi un gravissimo significato, pari, se non peggiore, all’accusa di blasfemia. Giunsi fino all’adolescenza senza aver mai visto né conosciuto un ebreo32.

Penso poi, al sincero e mai retorico omaggio tributato a figure della cultura e del pensiero moderni e contemporanei: La morte di Paul Claudel mi ha procurato stupore e vorrei dire un certo quale intenerimento nei riguardi di Parigi: essa ha sollevato in tutta la popolazione di questa città un’ondata viva di vera, umana commozione[…]. Ho udito nei ristoranti, nei bar, perfino in una sala di boxe in cui mi sono recato ieri, parlare della morte di Claudel […]. È stata una sorpresa, lo confesso, sconcertante […]. Come se i grandi spiriti della Rivoluzione, Voltaire, Rousseau, Diderot fossero ancora presenti, in tutta la loro evidenza33.

Né dimentico l’empatia verso le persone semplici e povere, verso le esistenze fragili o sofferenti, talvolta sconfitte dalla storia, talvolta in precario eppur gioioso equilibrio sulla filo della vita: Mi decisi finalmente a fare l’acquisto. Mi diressi verso il banchetto e il negro, quando mi vide, sorrise contento intuendo i miei propositi, i suoi denti bianche apparvero in tutto il loro candore nella sera. Sembrava molto felice (andavo acquistando tre paia di babbucce e un portafogli), non finiva mai di ringraziarmi. Gli chiesi se quei bambini erano suoi ed egli mi rispose di sì […]. Andammo nella sua baracca […]. Gli chiesi dove era sua moglie […] ed egli mi rispose che era morta l’inverno precedente, sotto un’automobile […]. Possedeva soltanto quel disco, per quel solo disco aveva comperato apposta il grammofono. Era un piccolo disco dove era incisa la voce di sua moglie che gli diceva dolci e allegre parole. Egli lo toccò quasi religiosamente […]. Grandi lacrime gli scendevano sulle guance nere e lucide […]. Me ne andai ch’era già tardi e completamente buio ormai e il negro volle accompagnami a tutti i costi fino al taxi per paura ch’io perdessi la strada34. In principio pare di essere in campagna. Gran mercato, mecca, bazar, contadini dalle facce come pugni, le oche col collo fuori dalle sporte, i bambini russi congestionati in scafandri di pelliccia, le donne infagottate con sciarpe […]. Vicino a me procedono a passettini uomini e donne di tutta la Russia, accanto ho un vecchio tartaro dai baffetti lunghi e spioventi che non smette un

31 OPERE I, pp. 1396, 1401, passim. 32 Ivi, p. 1437. 33 Ivi, p. 1407. 34 Ivi, pp. 1425-7, passim.

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istante di guardarmi […]. I suoi occhietti mobilissimi e ridenti come quelli di un animale dei boschi passano rapidamente dalle mie scarpe al mio viso e ogni tanto sorridono e ammiccano […]. Torno alla vera Russia proletaria, quella immensa, quella di campagna, con i volti grossi come pugni, gli zigomi rossi, le scarpe ortopediche delle donne che sembrano quelle tipo del 1944; torno […] ai panini che al posto della mortadella, come ai nostri vecchi balli del partito comunista, hanno caviale […]; torno a Mosca e trovo quel popolo […]35. Ogni giorno, sui giornali di Santiago, appare la notizia di qualche fucilazione […]. Dalla strada asfaltata sono salite tre donne, due piangevano come piangono le loro disgrazie i poveri, con fazzolettini appallottolati, un certo povero modo di passarli sugli occhi insieme al dorso della mano, scarpe scalcagnate nel fango, cappotti grandi e sformati, di pessima lana che si aggruma […]. Era l’immagine al tempo stesso del popolo e del populismo: il dolore, lo squallore, la desolazione era un’espressione figurativa populista oltre che popolare. Di quel populismo tanto disprezzato dai puristi politici. Non ho avuto bisogno di chiedere nulla. Una delle tre donne ha fermato le altre, si è avvicinata e mi ha chiesto se ero straniero. Ho detto di sì. Ecco il suo racconto: «Sono venuti ieri mattina prima dell’alba e sono entrati nelle case. Un ufficiale aveva in mano un foglio con dei nomi. Hanno chiesto se abitavano lì. Uno era mio marito […]. Stamattina abbiamo letto sui giornali che li avevano uccisi. Siamo andate all’obitorio per riprendere i corpi, abbiamo anche offerto una mancia all’infermiere ma l’infermiere ha detto che non sapeva nulla e ha chiuso la porta.»36

Penso, infine, alla coraggiosa e autentica tensione civile, che percorre in parallelo i reportage e il vissuto più intenso di Parise. Una tensione, che fu nutrita di sincera e affettuosa appartenenza con il popolo; di rifiuto assoluto di qualsiasi ideologia totalitaria; di amore incondizionato della libertà; di rifiuto della guerra; di compassione umanissima verso i sofferenti e i vinti; in poche parole, nutrita degli ideali rivoluzionari di libertà, uguaglianza e fratellanza. Una tensione civile così potente da spingere Parise, in alcuni drammatici momenti vissuti come reporter di guerra in prima linea, ad accarezzare il limite estremo del sacrificio della propria vita per una causa, empaticamente riaffiorante dal suo io profondo come personalissimo senso di giustizia e

35 Ivi, pp. 1457, 1462, 1482. 36 OPERE II, pp. 982-3.

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testimonianza. Di tale potente e composita passione civile, ne rendono testimonianza, fra molti altri, le seguenti significative citazioni: L’impresa del metrò […] è prima di tutto un’impresa politica… Stalin ha tenuto gran conto della storia paesana […]. Conoscendo bene il popolo russo e le condizioni in cui si era trovato a vivere fino a quel tempo, Stalin diffidava della sua maturazione estetica molto più di quella ideologica: il popolo, […] non avrebbe potuto raffigurarsi la ricchezza collettiva in modo diverso da quella. La sua cultura era quella che gli veniva messa sotto gli occhi dai mercanti contadini: essi costruivano a Mosca dorati bazar […]. Il popolo russo era un popolo di contadini, di contadini sani e semplici, […] anime morte nelle campagne […]. Stalin fece costruire il metrò […] per tutti quei contadini che non erano mai stati in città. Perciò ordinò un Castello Incantato da grande fiera paesana perché quei contadini e quel popolo si sentissero tutti ricchi, allo stesso livello di quei mercanti […]37. Rab Kien, 14 aprile Proprio in quel momento sento le prime raffiche di una mitragliatrice […]. Mi metto in cammino verso quella direzione perché sono rimasto indietro, e solo. Cerco di raggiungere le prime postazioni di mitragliatrice […] ma cominciano a fischiare le pallottole e devo gettarmi a terra. Sparano contro di me, bersaglio isolato sotto il sole, e non so rendermi conto perché, quando hanno davanti a sé circa duecento americani contro cui sparare. Per circa venti minuti sento le pallottole affondare nelle grosse zolle di polvere38.

Sono passaggi testuali esemplari in cui il nostro autore si mette a nudo, nella sua umanissima concretezza di individuo e di scrittore: nei quali, il racconto della costruzione del metrò ordinata da Stalin, non significa di certo ammirazione per la figura del dittatore, quanto, semmai, apprezzamento per le caratteristiche architettoniche da lui scelte, che resero l’opera rispondente ai sogni e all’immaginario del popolo russo, unico destinatario della stima e della commozione dello scrittore; nei quali, poi, il resoconto di un episodio in cui lo scrittore mette a repentaglio la sua esistenza, non diviene esibizione di narcisistico e infantile sprezzo della vita, ma, piuttosto,

37 OPERE I, pp. 1469-70, passim. 38 OPERE II, pp. 819, passim.

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l’espressione della scelta di un vissuto avventuroso e coraggioso, speso per un senso di libera, intellettualmente onesta, estrema testimonianza civile. Sono un popolo aggressivo? Si direbbe piuttosto un popolo di contadini gelosi del grappolo d’uva, che non ama il cittadino ladro […]. Ma la realtà è la realtà: e questa è invece gente piccola, nella media; minuti, graziosi, inciampano spesso anche durante gli esercizi militari e sembrano fisicamente negati all’aggressione […]. Per il momento hanno soltanto l’aspetto di un popolo mite e segnato da grandi dolori, portato alla difesa, all’unità, alla chiusura, alla diffidenza contadina, alla superbia etnica, in una parola: un popolo centripeto e non centrifugo […]. Ecco infine la ragione della comune popolare che è come dire proprietà privata di una grossissima famiglia composta di molte piccole famiglie […], una enorme famiglia artificiale formata da famiglie naturali, simile, sotto molti aspetti, al clan del passato e in cui la famiglia è l’unità base: così la famiglia rimane sempre la cellula primaria e insostituibile […]. La grandissima intuizione (poetica) di Mao e della sua azione politica […]. Infatti Mao, ex contadino, ha intuito che la politica (cioè la rivoluzione) si fa e si può fare in Cina e per la Cina a patto di una garanzia reale, costante e tutt’altro che semplice in Asia: la comune sopravvivenza biologica […]. Non proletari marxisti dunque, ma contadini cinesi di ieri e di oggi […]. Una cosa che mi ha particolarmente colpito è l’odio di tutti i cinesi per gli americani […]: i cinesi odiano gli americani prima di tutto perché hanno terrore di essere invasi, sfruttati, imbrogliati e maltrattati come è accaduto da più di cinquecento anni a questa parte, se non dagli americani, da noi europei; poi perché catechizzati […] con sistemi non ideologici ma teologici sul marxismo di Mao […]. Di qua del confine è l’ideologia o teologia politica marxista, di là del confine l’ideologia o teologia politica del consumo […]. I cinesi hanno urgente necessità di imparare da noi, Europa, due cose: l’analisi e la sintesi: cioè la libertà. E noi da loro altre due cose non meno importanti: lo stile della vita e l’aiuto reciproco: cioè l’amore. Messe insieme significherebbero pace e grande civiltà. Dalla tenerezza e dalla commozione che hanno suscitato in me queste due qualità così reali del popolo cinese mi è venuto in mente il titolo [Cara Cina] di questo libro39.

Un ulteriore ed emblematica testimonianza, questa appena letta, in cui la pur presente e innegabile ingenuità di alcune analisi, non può offuscare il senso di fratellanza che Parise prova verso il popolo cinese, mosso da un lucido pensiero emotivo. Attraversiamo ruscelli su piccoli ponti fatti con i contenitori di bombe a biglia, sorta di grossi serbatoi che si aprono come un libro[…]. Essi sono ogni giorno in contatto, diciamo così tattile, con i residui di strumenti, con la scritta

39 OPERE II, pp. 691, 723-4, 774-6.

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made in Usa, che servono a portare la morte.[…] Prima di vedere coi propri occhi quel metallo e quella scritta quel contadino non sapeva nulla dell’America[…]. Inoltre il contadino ignorante, alle sue prime esperienze culturali, geografiche, storiche e politiche, vede che il riso che mangia arriva in sacchi di juta con grosse scritte rosse in caratteri cinesi40.

Per concludere, nel passo testé citato, con una rappresentazione dall’alto simbolismo, nella quale la prospettiva scelta da Parise è quella di un uomo che, osservando e giudicando privo di preconcetti e con inscalfibile onestà intellettuale, penetra con il suo sguardo la realtà secondo un personale e singolare punto di vista politico: dove la parola “politico”, assume per lo scrittore il significato di concretezza delle cose, poiché «la politica nasce dalle cose» e non è ad esse sovrapposta.

I.3

La visione sonnambula: Buster Keaton qui non diverte ma commuove Com’è notorio, o quantomeno noto alle persone non più giovanissime, Buster

Keaton fu, insieme a Charlie Chaplin, la maschera comica più famosa del cinema muto. La peculiarità del suo innato e immenso talento, risiedeva nella capacità di esprimere la comicità attraverso la mera mimica facciale: anzi, ad essere più precisi, mediante il suo sguardo, rimasto ineguagliato, la cui potente fascinazione scaturiva o dal solo roteare dei due occhi - ora veloce, ora lento - o, e sempre unicamente, dalla loro enigmatica immobilità: comunque sia, mimiche facciali che risultavano per lo spettatore irresistibilmente comiche, e tali lo rimangono anche oggi. A voler esemplificare metaforizzando, tale sguardo ammaliatore ricorda lo stato di immobilità e, al contempo, di impercettibile sinuoso movimento di un rettile in agguato, i cui occhi, cupidi e attenti, esplorano l’orizzonte circostante in cerca della preda: dove la preda è, naturalmente, lo spettatore. L’effetto artistico che ne deriva è lo

40 Ivi, pp. 933-4, passim.

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“straniamento” della visione, che risulta ora rallentata e ipnotica, ora velocizzata e spiazzante, ora fissa ed enigmatica, sempre comunque magnetica e dissociata, straniata: a suggerire l’idea di un paradossale sguardo in stato di sonnambulismo. Entrambe le immagini rappresentate da Buster Keaton e dalla visione sonnambula, adottate come titolo del presente paragrafo, traggono ispirazione da un passo scritto da Pier Paolo Pasolini in una recensione ai Sillabari di Parise. Per dovere di esattezza critica, preciso che il sinolo delle due immagini invertite (visione sonnambula di Buster Keaton), fu pensato da Pasolini come chiave di lettura pertinente, in modo esclusivo, ai racconti dei Sillabari: preciso, altresì, che l’uso estensivo dell’immagine che io propongo - o, se vogliamo, la sua adozione come ulteriore prospettiva di analisi della scrittura dei reportages - è da intendersi come consapevole forzatura critica, giustificata dalla comodità d’uso di una metafora, tanto esatta nella sua penetrazione interpretativa quanto suggestiva nella sua icastica e polisemica incisività figurativa. Inoltre, per doverosa e ulteriore correttezza filologica, avverto che la mia clausola visione sonnambula, è una personale trasformazione linguistico-figurativa di un’analoga immagine presente nel testo originale con l’espressione occhi imbambolati. Ecco il passo di Pasolini testé citato: Fissando la realtà mutevole quasi con gli occhi imbambolati di Buster Keaton, cioè con sostanziale umorismo, Parise può consentirsi di immobilizzare tale realtà quando vuole, e la immobilizza in visioni che sembrano sfuggire alle leggi del tempo, e che quindi appartengono per definizione al passato, così da far morire di nostalgia anche nel momento in cui accadono41.

Con difformità interpretativa rispetto a Pasolini, il mio vaglio critico ammette e conserva, delle sue diverse osservazioni, unicamente i rilievi degli «occhi imbambolati»

41 Cfr. Sillabari, in Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Meridiani Mondadori, 1999.

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e della «visione immobilizzata»: non essendo, peraltro, interessato a contestarne le restanti osservazioni, poiché non attiene alla mia tesi effettuare un’indagine critica dei Sillabari. In compagnia di Parise, e facendo mia tale visione delle cose, effettuo una prima veloce esplorazione di alcuni reportages per dare conto, nella loro specifica scrittura, di questo peculiare sguardo narrativo. L’incipit de Il ghetto di Venezia42 ne è un esempio magistrale: «C’è un luogo a Venezia, dove neppure i turisti stravaganti si inoltrano; i passanti non lo attraversano». Nello stesso istante in cui Parise fornisce l’indicazione precisa (per trasposizione linguistica, il significato) di un sito, la città di Venezia, dotato geograficamente di una “funzione inclusiva”, contemporaneamente, il medesimo scrittore, suggerisce appena (per trasposizione linguistica, il significante) una zona, un luogo, provvisto, geograficamente, di uno “stato di porzione territoriale inclusa”: con l’effetto di allontanare, in una «vaghezza» leopardiana, qualità e movimento della visione, che, come valore aggiunto, oscilla di tensione dinamica fra un esatto qui (Venezia) e un indefinito là (il luogo). Magistralmente, Parise realizza nell’incipit gli effetti della fissità dello sguardo di Buster Keaton. È una costruzione linguistica-narrativa raffinatissima, tanto più raffinata e mirabile quanto più l’artificio creativo risulta invisibile al lettore. Parise-Keaton - mi permetto tale sdoppiamento di figura, perché suona bene come coppia d’epoca di vecchi artisti comici, entrambi primattori - prosegue la sua descrizione, e la concentra su quel luogo, di cui scrive «esso risulta come un’appendice

42 Le seguenti citazioni sono tratte da Il ghetto di Venezia, in Luoghi e reportages, in OPERE I, pp. 1395-96, passim.

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lontana, imprecisa della città. Questo è il ghetto, quel gruppo di edifici disposti a giro di catena, che un tempo fu stabilita forzosa dimora degli ebrei in Venezia». Impassibile e senza sosta, la coppia Parise-Keaton continua a tessere con sguardo immobile la sua visione: distanzia ulteriormente il luogo, attraverso una consapevole aggettivazione di indubbia origine leopardiana (lontano), e, insieme, ne incrementa il tasso di vaghezza tramite un’esatta aggettivazione di indefinitezza (imprecisa). Ma il fermo immagine dura soltanto un attimo: con un movimento oculare inaspettato e repentino, la coppia Parise-Keaton avvicina (Questo) e identifica (è il ghetto) l’impreciso oggetto di realtà; lo allontana poi, di nuovo, nello spazio (quel gruppo di edifici), accompagnandone la circolare disposizione architettonica (disposti a giro di catena) con una simmetrica e lenta rotazione degli occhi; infine, lo distanzia nella temporalità passata (che un tempo fu), ratificando in tal modo l’avvenuta sovrapposizione e ricomposizione (forzosa dimora degli ebrei in Venezia) di luogo e sito, di ghetto e città. A quest’altezza, il duo Parise-Keaton ha avuto sicuro accesso a quel nucleo da cui è attratta la sua vista, e al cui interno muove lentamente i passi: «Perché allora non scendere quei gradini del Ponte delle Guglie e poi, d’un tratto, ridurre più leggeri e titubanti i propri passi, per infilare, rapidi, quel sottoportico che entra nel regno degli ebrei?». Immersa dentro al ghetto, la coppia scrittore-comico elegge nuovi luoghi (gradini del Ponte delle Guglie, sottoportico) da esplorare (Perché allora non scendere, per infilare), allontanandoli nello spazio (quei, quel), e al contempo inseguendoli con movimento ora lento (ridurre più leggeri e titubanti i propri passi) ora veloce (rapidi). Come un duetto di flâneur d’antan, Parise-Keaton si aggira ormai nel ghetto 44


con passo e sguardo sicuri e rallentati: «Già i passi si saranno fatti misteriosi, felpati come lo zampettare dei gatti funamboli che fanno da guida in quella penombra coi bagliori verdastri degli occhi, e i siamesi con lampi rossi nelle iridi dove il tramonto filtra in lamelle di sangue». Il movimento si sdoppia in due diversi e sovrapposti direzioni: una esteriore (Già i passi), l’altra interiore e metaforica (misteriosi, felpati come lo zampettare dei gatti funamboli, e i siamesi); entrambe le modalità, suggeriscono un rallentamento, quasi una pausa (Già i passi si saranno fatti misteriosi); insinuano un’atmosfera di sospensione, persino di mistero (misteriosi, zampettare); provocano un senso di attutimento della percettività sonora (felpati); stimolano la sensazione di acuite percezioni visive, in particolare cromatiche (coi bagliori verdastri degli occhi, con lampi rossi nelle iridi, lamelle di sangue); preparano, con la tensione emozionale da loro incrementata, la magia dell’evento finale, che vede irrompere nell’hortus clausus della visione del ghetto, come uno squarcio cromatico penetrato attraverso due iridi feline, l’immagine sognante e inquieta di un tramonto di fuoco e sangue (lampi rossi nelle iridi dove il tramonto filtra in lamelle di sangue). La visione appena descritta non è propriamente realistica, o quantomeno non lo è in primo grado: se di realismo vogliamo parlare, allora dobbiamo spostare il lemma nell’area del realismo visionario: perché è evidente che, in Parise-Keaton, entrano spesso in azione i meccanismi dello straniamento, della distorsione figurativa, dell’arricchimento della realtà secondo un’asse di immaginazione fantastica, di introiezione della visione “oggettiva”. Concludo il mio itinerario attraverso il ghetto con una scena finale, nella quale Parise-Keaton si immobilizza, durante l’ascolto di un canto ripetuto e dall’effetto ipnotico, in uno stato di autentica stupefazione: «Non sarà difficile in certe ore del 45


sabato udire alle spalle un canto diffuso, dalle inflessioni orientali nel timbro delle voci, un canto che si riprende continuo, come in una scatola musicale, nell’interno della sinagoga». Ripristinata finalmente la facoltà uditiva (udire un canto), il canto diffuso e iterativo (diffuso, si riprende continuo) suscita inevitabile la sensazione di una nenia ammaliante (come in una scatola musicale): l’intera scena si carica di un senso di visione sognante, uno stato quasi ipnotico che provoca, appunto, un effetto di dolce imbambolamento. È una condizione psicologica che, con semplice evidenza, fa tornare alla memoria le parole usate da Parise per delinearsi in autoritratto: precisamente, descrivendosi come un individuo che era stato «molto tardo a crescere…sempre come annebbiato e dalla pigrizia e da una sua vita imprecisa»43. Annebbiato: ecco l’ennesimo lemma, iconico e metaforico, da affiancare a imbambolato. A chiusura del paragrafo, presento pochi ulteriori, ed emblematici esempi testuali della cosiddetta visione sonnambula: Il negro era ancora là, accanto al suo banchetto che ora aveva illuminato appena con una lanterna a carburo. E, sia per il freddo e per l’oscurità, sia per dare ai piedi, che si muovevano ora più in fretta per cacciare il demone del gelo, un ritmo crescente, egli s’era messo a cantare […]. E tuttavia ora cantava, quasi sorridendo a se stesso, una sua nenia incomprensibile, di tempo in tempo sollevando le braccia e lasciandole cadere sulle cosce pesantemente e poi battendole una contro l’altra44. In basso, dentro gole che serpeggiano nel fondo della valle, si intuiscono lenti corsi d’acqua che improvvisamente si aprono alla vista in larghe anse stagnanti e nebbiose di zanzare. Quando la foresta, di colore uniforme e come polveroso, si squarcia, allora appaiono illuminate valli ricoperte della peluria verde e tenera delle piantine di riso […]. I grandi animali “classici sono scomparsi dalle foreste d’Indocina”. Le esplosioni li hanno resi pazzi ed erranti alla ricerca di spazi arborei non ancora toccati dalla guerra[…]. Sparute famiglie di gibboni si aggirano qua e là, in deambulazione semieretta e così simile a quella di marinai ondulanti: sono ormai sfollati cronici, senza più desiderio di gioco (salvo i piccoli, eterni illusi) in preda a quella pigrizia nevrotica dovuta alla perdita del senso di realtà, cioè alla perdita del

43 Paolo Petroni, Invito alla lettura di Parise, cit., p. 23. 44 Goffredo Parise, L’altissimo negro aveva un disco solo, nella sezione Luoghi e reportages, in OPERE I, pp. 1424-5.

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luogo di origine, che si nota spesso nei volti dei contadini allontanati dai loro villaggi45. Ricordo un viaggio in America, alcuni anni fa. Restai senza benzina su un’autostrada dell’Arizona, al calar del sole[…]. Enormi camion con fumaioli, simili a transatlantici di terra, solcavano l’aria verso Sud-Ovest senza badare a richiami. Il motel si chiamava Blu Sky, quanto mai ad hoc in quanto non c’era niente altro che la cupola azzurra del cielo e una sottile striscia di deserto che si allontanava fino all’orizzonte, vuota anche di cactus. Lo gestiva una coppia di olandesi anziani, senza figli […]. La coppia era immersa nella lettura della Bibbia, l’arrivo di un essere umano non li distolse se non per cenare46. La notte parve estremamente silenziosa a Marco, che dormì di un sonno al tempo stesso felice e lontano, simile a quelli delle convalescenza o della salvezza […]. In quella atmosfera estremamente rarefatta e pura, di estetismo botanico, dove colori, acque, muschio, foglie e alberi nani si sposavano con un perfetto silenzio appena rotto dai tuffi giocosi delle enormi carpe, Marco vide il giardiniere, in mezzo al prato verde e perfettamente rasato […]: con il suo modo di inchinarsi, un brevissimo, fulmineo inchino di incredibile eleganza in quel corpo piccolo e magro, mise quasi in soggezione Marco La notte giunse all’improvviso a nascondere le pettinature della ghiaia nel giardino e i primi lumi arancione si accesero nel tempio. appena oltre l’entrata, in una specie di hall e all’altezza delle sue ginocchia, Marco vide un volto di bambino sorridente che si sporgeva a spiare l’arrivo dei due: era o sembrava quasi un bambino, o meglio ancora una bambina, il bonzo principale che Marco si aspettava vecchione: si alzò da ginocchio e fece lunghi inchini […]47.

I.4

Viaggi e reportage: Parise placa l’inquietudine Nel presente paragrafo, mi inoltro in quello che potrei chiamare il cuore

interpretativo della mia indagine: lo definisco tale, in densa sintesi, perché affonda la luce critica in quel nucleo pulsante e profondo di Parise, che alimenta quelle urgenze esistenziali e narrative che sono all’origine della scrittura dei reportage e, al contempo, della loro bellezza artistica. Se, per un momento, si torna indietro con la memoria alla biografia dello scrittore, si ricorderà che l’esordio ufficiale da pubblicista, e insieme da scrittore, avvenne appena diciottenne nel 1947: quando il testo Voli di farfalle, visioni di bellezza

45 Goffredo Parise, Laos, nella sezione Reportages, in OPERE II, pp. 918-9; 952. 46 Id., New York, nella sezione Reportages, in cit., pp. 1012. 47 Id., L’eleganza è frigida, nella sezione Reportages, in cit., pp. 1060, 1062 .

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vide la luce sul periodico veneziano «Gazzettino», di cui era collaboratore, insieme a «Il Giornale di Vicenza», il patrigno Osvaldo. Si ricorderà, poi, che se nel successivo 1948 Goffredo abbandonerà definitivamente la pittura, scegliendo così la letteratura come esclusiva forma artistica, nel 1950 invece, con l’appoggio del patrigno, ebbe inizio la collaborazione giornalistica al quotidiano «Alto Adige», che a settembre pubblicava il suo primo articolo dal titolo Si banchettò per un mese sulla fiducia di Giuliana d’Olanda. Quindi, per singolare coincidenza, gli esordi come scrittore e come giornalista (pubblicista prima professionista poi) avvennero all’unisono: un caso non così singolare, però, se ci rivelano entrambi nella penombra - stagliata netta - la figura del padre acquisito Osvaldo. Tuttavia, non è l’avvio dell’attività giornalistica in sé e per sé a risultare significativa: quanto, semmai, la circostanza per la quale, di lì a quattro anni - o cinque, se per ipotesi concordassimo con la critica ufficiale, assegnando alla corrispondenza giornalistica da Parigi del 1955 lo status di primo effettivo resoconto da reporter - da giornalista ormai affermato, si compiva - con la pubblicazione nel 1954 de Il ghetto di Venezia - il nuovo esordio di Parise come reporter di luoghi e viaggi. Fu questa, finalmente, l’occasione decisiva che il destino gli riservò, e che rappresentò la svolta fondamentale nella sua vita di uomo e scrittore. La concretezza della professione giornalistica, infatti, gli fornì l’occasione di accettare prima e svolgere poi, incarichi professionali nel ruolo ora di inviato, ora di corrispondente: di intraprendere, cioè, quella carriera da reporter nella quale sperimentò il viaggio come avventura fisica della sua persona e come avventura creativa della sua immaginazione narrativa. È di sicuro semplice - in prima battuta - ritrovare la valenza dell’esperienza di viaggio nel fatto, che a quell’altezza (1954), lo scrittore - autore di due romanzi 48


fantastico-sperimentali e di uno grottescamente naturalistico - sperimentava i reportage come modalità espressiva ancora inedita: quindi, come un viaggio di secondo grado, un viaggio nel viaggio: una nuova e avventurosa vicenda di viaggio creativo (il genere reportage), all’interno di un viaggio reale (l’esplorazione dei luoghi e il loro resoconto). Tuttavia, questo è però solo un aspetto, fra i tanti che compongono la galassia dei motivi. Infatti, ricordando e citando quanto scritto in un precedente paragrafo, è altrettanto evidente riscontrare che entrambe le dimensioni del viaggio, «come avventura fisica della sua persona e come avventura creativa della sua immaginazione narrativa», rispondevano in Goffredo a molteplici richiami antichi: il bisogno di fuga da hortus clausus e locus amoenus (il viaggio come modalità conoscitiva e avventurosa, esistenziale e relazionale); la spinta verso un inoltro esplorativo originata dalle solitarie esperienze del ludus immaginario, dell’attitudine fantastica e della fruizione di racconti avventurosi (il viaggio come modalità avventurosa dell’immaginazione): una complessiva fuga, quindi, dai luoghi (nella duplice polisemia) “familiari”, conosciuti e protettivi, secondo un cammino esistenziale che, nella tensione verso l’ignoto, esaudiva una profonda necessità di risarcimento affettivo e di compensazione psichica. Tuttavia, per suggestiva ipotesi, si può delineare un’ulteriore motivazione, allo stesso tempo contingente e profonda, che permise l’incontro degli attori di questa scena da psicodramma. Per uno strano scherzo del caso, come si è già illustrato, fu proprio la figura del patrigno a rappresentare il ruolo di intermediario fra Goffredo e il suo destino di reporter, perché favorendone l’esordio come giornalista ne rese possibile anche l’attività di corrispondente. Agli occhi dello scrittore, segnato nel profondo dal sofferto senso di 49


illegittimità esistenziale, la persona di Osvaldo assunse la figura di possibile nuovo “padre” putativo, nel quale ritrovare - in una sorta di scommessa con la vita e con l’arte - il risarcimento affettivo del vulnus biologico e, insieme, la vitalità di un rinnovato punto di partenza del suo primordiale desiderio di viaggio fisico e creativo: declinato e vissuto con valenza compensatoria sì, ma soprattutto con valenza assertiva e adulta di sviluppo del senso di esplorazione, relazione, immaginazione. Sia ben chiaro: Parise non fu attore “consapevole” in questo processo interiore, tutt’altro: lo scrittore ne fu attratto da un’inconsapevole pulsione psicologica. Ciò che veramente conta, invece, è avere finalmente accesso al cuore dell’indagine. Nei reportage Parise placa l’inquietudine. Per la verità, nella realtà del suo vissuto psichico, l’esperienza fisica dei viaggi e quella narrativa dei reportage, non fu mai un acquietamento definitivo ma piuttosto ricorrente nel tempo, spesso incompleto e precario: fu un tentativo, un tendere a, una (leopardiana) tensione incessante verso il raggiungimento di uno stato di quiete in una vita irrequieta. Parise agì questa tensione inesausta come un tormentato modo di placare l’inquietudine “biografica” di figlio nato illegittimo: il vulnus, il trauma, il marchio di non appartenenza familiare. La agì, poi, per placare l’inquietudine “esistenziale” del suo status di irregolare, di colpevolmente diverso e come tale discriminato socialmente. La sperimentò, quindi, per placare l’inquietudine “affettiva” dell’antica assenza di amicale relazionalità infantile, generata da un nucleo familiare eccessivamente protettivo: un’affettività sofferta che, per la fortuita e fortunata presenza di vitalità 50


psichica ed empatia sentimentale, oscillerà con costante ambivalenza fra introversione ed estroversione, fra attrazione per un vissuto solitario e apertura travagliata a contatti emotivi e sentimentali. Analogamente, usò la medesima tensione per acquietare l’inquietudine umanitaria di persona improntata a un profondo senso di dolente compassione verso le esistenze altrui, vicine o lontane che fossero: un senso di attrazione empatica e compassionevole solo in parte inibito nel Parise bimbo e ragazzo, ma, fortunatamente per lo scrittore e per tutti noi - conservatosi intatto, nella sua sofferta bellezza, nel Parise ormai uomo. Senza dimenticare, poi, come questa incessante tensione muovesse Parise ad appagare la sua inquietudine “esplorativa e residenziale”: le cui origini vanno rintracciate in quell’anelito di fuga dai recinti dorati ma castranti di casa e terrazzino, che in età matura fissò quell’ingorda curiosità avventurosa e quel liberatorio desiderio di evasione, presenti nella sua psicologia, in brama itinerante verso luoghi ignoti e in esasperata irrequietezza stanziale durante i lunghi periodi di permanenza in Italia. E sempre la medesima insopprimibile tensione, trascinò lo scrittore a placare l’inquietudine “affabulatoria-avventurosa-immaginifica”: la quale, sbocciata dal senso di incantata eccitazione per le storie di viaggio e d’avventura lette precocemente o ascoltate dal patrigno, si mantenne nel tempo integra e vitale, disponibile per la perenne ammirazione meravigliata dei suoi fruitori. Parise dunque, immerso nella costellazione delle sue pressanti inquietudini, profuse l’intera vita adulta nella tensione incessante a placarle attraverso viaggi e scrittura: tuttavia, fu solo nell’esperienza congiunta degli scritti di viaggio, che tale tensione poté essere soddisfatta. Certo, furono stati di “quiete” provvisori, spesso privi 51


di quella piena gratificazione che sarebbe stata necessaria: ma è innegabile, che unicamente nel movimento dei reportage - inteso come esperienza dinamica della scrittura narrativa e dell’esplorazione esistenziale - Parise agganciò anche il movimento fisico del suo corpo, regalando alla sua psiche ricorrenti e acquietanti oasi di pace. D’altra parte, lo stesso processo di scrittura può essere letto come movimento multidimensionale, che da un avvio come mero atto grafico, raggiunge l’intenzione comunicativo-significativa, sperimentando - in itinere - l’esplorazione della polisemia linguistica e la navigazione. nei contesti culturali individuali e sociali. Analogamente, i diversi reportage possono essere letti come un movimento pluripersonale (sdoppiato ma parallelo), che realizza la narrazione di viaggio come un’esperienza, insieme, vissuta come protagonista e raccontata come autore: coinvolgendo i piani di scrittura, narrazione e viaggio in un intreccio indissolubile. È un movimento di movimenti, un’orchestrazione complessa e moltiplicata: in cui Parise tuffò la sua galassia di inquietudini, e da cui ricevette effetti di stordimento vitale e appagante dislocamento passionale. A quest’altezza, infatti, siamo avvertiti e consapevoli nel riconoscere nella tensione di Parise un movimento per il movimento, un itinerario circolare dalla vita alla narrazione e dalla narrazione di nuovo alla vita. Tale spostamento, avviene secondo il girotondo ipnotico di una giostra per bambini, la cui immagine, intendo quella della giostra, non a caso ricorre di frequente nei suoi testi, di qualsivoglia genere. È una sorta di moto autoalimentato, in cui lo spostamento, per un effetto cortocircuitante, è “movimento” come viaggio verso una meta, e, al contempo, incessante “spostamento” della meta stessa. Un modello dinamico, questo, ravvisabile, per mia dichiarata suggestione critica, nel paradigma del mito di Sisifo, rivisitato da un appropriato 52


processo sostitutivo: nel quale, quindi, la spinta del masso sul piano inclinato è sostituita da analogo moto, sul piano orizzontale verso lo spazio dell’oltre, mentre sul piano verticale verso la profondità dell’interiorità; e nel quale, lo sforzo patito dalla fatica della spinta e la sofferenza torturante dello scacco, vengono sostituite dalla naturalezza di un camminare commosso e dall’appagante vittoria - senza requie - sugli incubi infantili; e nel quale, infine, il perenne ricadere indietro del masso viene convertito in risoluta navigazione verso il seppur provvisorio riscatto. Metto in guardia, infine, concludendo questa lunga digressione, da un possibile e rischioso fraintendimento: se, per caso, il pensiero critico riconoscesse, in tale circolare movimento, il meccanismo topico dell’“annullamento” - ovvero il dissolvi, tuttavia, dovrebbe certamente intenderlo come una forma di annullamento dentro un incessante processo vitale, come un cullamento - un galleggiamento - di un piccolo essere in una corrente impetuosa e ribollente. A quest’altezza dell’indagine, considero illuminante consultare un’importante voce della critica contemporanea, accompagnandone poi le analisi con le mie sempre fallibili controdeduzioni interpretative. Lo scrittore e intellettuale che, con lucida immediatezza di analisi, è finora riuscito, più di tutti a descrivere e comprendere la prospettiva da me definita cuore interpretativo, è stato Alberto Moravia. A questo proposito, è indispensabile confrontarsi con un suo ben preciso intervento, ovvero quello scritto in occasione del convegno dedicato a Parise nel 1987, che, in aggiunta, nella seguente citazione viene introdotto e concluso dalle considerazioni critiche di Silvio Perrella: La scrittura vola via dalla pagina, in stato di grazia: i sensi, l’immaginazione, il ricordo di un’artista amato, sono tutt’uno con lo stile che Parise ha ormai in pugno. Se da una parte i tanti viaggi lo hanno invecchiato, dall’altro gli hanno dato la possibilità di scoprire parti di sé nelle immagini del mondo. E di tornare quindi alle ragioni più profonde della «nevrosi motoria» che spesso lo 53


prendeva quando il tempo passa senza poter essere impiegato nella scrittura. Alberto Moravia ha provato a spiegare le ragioni del viaggio. Per lui,48 «Parise aveva un ideale dell’azione che immagino fosse fatto su un modello. […] La letteratura non bastava, bisognava essere, agire. […] D’Annunzio è il caso più preclaro ed illustre. Ora un po’ di estetismo c’era anche in Parise. Non era affatto dannunziano, ma hemingwayano, aveva cioè un po’ il mito dell’azione moderna, dell’azione del reporter che, con le mani in tasca, la giacca a vento, e la valigetta con dentro lo spazzolino da denti, va a guardare le guerre, politiche o no, oppure va a caccia. […]. Anche nelle fotografie questo mito dell’azione in Parise viene fuori molto bene; spesso fotografato a mezzo busto, con le mani in tasca, la sigaretta tra le labbra, con un aspetto diciamo pure spavaldo, una spavalderia molto simpatica; ha cioè l’aspetto di un uomo che pianta la penna e il calamaio, adesso sarebbe una biro, e se ne va per il mondo. Andò per il mondo e io ho detto una volta che ci andò per dimostrare che non è vero che tutto il mondo è paese, cioè per avere delle avventure. Perché il letterato vero dice che tutto il mondo è paese e se ne sta a casa, invece l’avventuriero – poiché in fondo questo è l’ideale di Parise – vuol dimostrare che ogni paese ha la sua avventura, la sua specialità, la sua particolarità di odore, di colore della pelle, di monumenti ecc. e così Parise andò in giro facendo moltissimi viaggi. Alla base di questi viaggi più che estetismo c’era una forma di vitalità. A dirla proprio in breve Parise era un uomo vitale ma forse questa vitalità non bastava alla letteratura, dico forse, ma è molto difficile capire perché non gli bastasse»49. Parise come Rimbaud, insomma, è allergico al castello di Axel, secondo l’efficace immagine di Edmund Wilson. Il desiderio principale di Parise a me sembra un desiderio primario. quello di toccare il mondo, di toccarlo con il proprio corpo50.

Amico di Parise sin dal suo trasferimento a Roma nell’aprile del 1960, Moravia ne fotografa alla perfezione l’esperienza di reporter, mettendo a frutto sia la profonda e affettuosa conoscenza dello scrittore, sia la sua intelligenza critica lucida e sensibile, che lo ha contraddistinto come intellettuale italiano di riferimento del Novecento. Moravia, si posiziona immediatamente nelle prospettive critiche classiche di tipo biografico e caratteriale, e, con (apparente) straordinaria semplicità, illumina Parise sotto la luce del bisogno di azione («il mito dell’azione moderna, dell’azione del

48 Silvio Perrella, Fino a Salgareda, cit., p. 80-1. 49 Alberto Moravia in, Con Goffredo Parise, a cura di Nico Naldini, Atti del Convegno tenutosi a Treviso in occasione del premio Comisso il 19 settembre 1987, Dosson (TV), Zoppelli, 1988, pp.31-32; contributi di Fernando Bandini, Gianfranco Folena, Clelia Martignoni, Alberto Moravia, Nico Naldini, Andrea Zanzotto. 50 Silvio Perrella, Fino a Salgareda, cit., p. 81.

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reporter»): un’azione che, intesa come risposta all’insufficienza della letteratura («la letteratura non bastava»), e collocata nel contesto di una personalità da avventuriero («invece l’avventuriero»), peraltro contrassegnata da un’insopprimibile vitalità («era un uomo vitale… questa vitalità»), lascia tuttavia in eredità - all’intellettuale e a noi tutti l’enigmatica domanda sul perché tale vitalità non bastasse all’attività di scrittore («forse questa vitalità non bastava alla letteratura… ma è molto difficile capire perché non gli bastasse»). Le considerazioni espresse da Moravia mi confortano, se non sulla validità volendo sposare un atteggiamento di modesta prudenza saggistica - quanto meno sulla plausibilità di quella spiegazione nodale già esposta nella presente indagine, che legge i reportage come luogo-tempo-limite in cui Parise placa la tensione dell’inquietudine, nel duplice aspetto di viaggio fisico che risponde al bisogno di azione, e di “viaggio” creativo che, mediante la scrittura, colma l’insufficienza della letteratura. Tuttavia, nel massimo e doveroso rispetto intellettuale, l’indiretta domanda conclusiva di Moravia mi lascia un po’ perplesso. La prima ragione, risiede nel fatto che Moravia aveva condiviso una troppo lunga e approfondita amicizia con Parise per sottovalutarne - se non, persino, trascurarne - la connaturata irrequietezza esistenziale, ancor prima che artistica: è, quindi, del tutto impossibile che ne sottostimasse il sofferto itinerario biografico e psichico, invece di intercettarlo, al contrario, come una spinta già di per sé sufficiente a trascinarlo verso l’azione del suo viaggiare in prima persona, vissuto come esperienza di investimento ed elaborazione dell’inquietudine. La seconda ragione, è palesemente storico-letteraria. Moravia, non poteva non avere presente la secolare tradizione di scrittori che avevano esperito, insieme, 55


l’importante esperienza di appassionati viaggiatori: dagli stranieri Sterne, Goethe, Stendhal, Conrad, fra altri, agli italiani Cecchi, Praz, Buzzati, Brancati, Piovene, Comisso, Malaparte, Pasolini, lo stesso Moravia, solo per citarne alcuni. Da dove nasce, quindi, la riserva di Moravia nell’accettare - con evidenza e pienezza - di poter annoverare anche Parise nella innumerevole schiera di scrittori spesso viaggiatori, semmai arricchita dalla frequente e peculiare esperienza di reporter di guerra? Perché scaturisce, in lui, tale interrogativa inquietudine di critico, che, sorpreso, rileva lo scarto fra intensità (e la qualità?) della vitalità e necessità della vitalità stessa da parte della letteratura? Ammetto di non saper fornire una risposta, diciamo, sicura, né, d’altra parte, è mia intenzione cercarla, poiché non è pertinenza della tesi indagare su Moravia critico letterario: posso, tuttavia, proporre un’ipotesi di lavoro. Moravia, ha aderito - senza un minimale ma salutare scarto interpretativo - a una prospettiva totalmente “interna” alla tradizione del letterato-scrittore-intellettuale, la cui figura indossa certamente i panni del viaggiatore - che viaggia con maggiore o minore frequenza, priorità e adesione esistenziale – sempre, però, vestendoli come “estensione” e approfondimento dell’attività letteraria o culturale. D'altronde, è comprensibile, in Moravia, questa sua scarsa - chiamiamola così - distanza critica, se si pensa che, questa delineata, era la tradizione a cui lui, insieme agli scrittori-viaggiatori citati in precedenza, apparteneva: quella stessa tradizione nella quale, la duplice esperienza - fisica e testuale - del viaggio, veniva declinata verso il recupero e l’immersione nostalgici in un mitico passato classico (ad esempio nel Grand Tour); oppure, verso l’esplorazione, curiosa e disponibile, delle “diversità” ambientali e antropologiche: in entrambi i casi, comunque, senza mai mettere in discussione né 56


l’indiscutibile sufficienza della letteratura verso sé stessa, né la funzione ancillare del viaggiare rispetto all’arte e alla vita: secondo una tradizionale e frenata prospettiva umanistica, che esclude dal viaggio ogni tratto utopico, e qualsiasi illimitato investimento desiderante. Semmai, proseguendo in modo libero il mio ragionamento, sarebbe stato più plausibile, per Moravia, pensare all’esperienza, radicalmente diversa, dei pittori-poetiromanzieri viaggiatori, rappresentata dalla linea Gauguin-Rimbaud-Conrad: nella quale, il viaggiare, come incessante ricerca dell’altro e dell’ignoto, veniva piegato in esotico e definitivo viaggio verso l’Eden come approdo: dove l’approdo, si materializza, per il pittore, nei solari e conturbanti colori della Polinesia, mentre nel poeta e nello scrittore, nei ventosi altipiani nordafricani e nelle tenebre della foresta equatoriale centroafricana. È davvero indecifrabile questo tentennamento saggistico di Moravia, considerando, per di più, quanto il suo profilo critico di Parise risulta magistrale: sapiente, e tanto essenziale quanto solidissimo. Come non ricordare, per esempio, che Moravia aveva avuto, come amico fraterno e sodale letterario, uno scrittore, il cui vissuto poteva risultare un possibile esempio di chiave di lettura per l’indecifrabile vita di Parise: mi riferisco a Pasolini. E proprio su questo tema, come integrazione dei noti parallelismi e accostamenti critici fra i due intellettuali che la saggistica propone, ormai, da lungo tempo, mi permetto di rilevare, che il corrispettivo della passione esistenziale odeporica di Parise, è stato, in Pasolini, la sua infaticabile, avida e trasgressiva esplorazione diurna e notturna di Roma, nel suo caso spesa fino alle estreme tragiche conseguenze. Proprio tale visione, congiunta, dei due scrittori, mi suggerisce allora la considerazione finale, posta a contraltare delle riflessioni di Moravia: era la letteratura, 57


semmai, che non bastava alla vitalità. Chiudo il paragrafo ripensando alla mia perplessità iniziale, che mi sollecita un’ultima riflessione: ossia, che la domanda, semmai, che Moravia avrebbe potuto e dovuto porsi, era un’altra: Parise fu un avventuriero divenuto scrittore e reporter, o fu invece uno scrittore trasformatosi in avventuriero? Confesso che ho avuto difficoltà nel trovare una risposta: che richiederebbe, sicuramente, un approfondimento maggiore. Le due anime, di avventuriero e di scrittore-reporter, condividono la persona di Parise: talvolta autonome, talaltra persino indipendenti, e con differente prevalenza nel tempo, i due tratti mantengono comunque la loro inseparabilità. L’evidenza biografica, che lo qualifica di professione scrittore, fu la conseguenza di semplici circostanze, talune prevalenti rispetto ad altre: in quel gioco del “caso” che è la vita, dallo scrittore darwinianamente intesa come inevitabile e cieco «spreco». D’altra parte, la mia ricognizione biografica e psicologica del nostro autore, conferma lo sviluppo di entrambi i tratti di personalità: sia quello esplorativo-avventuroso che quello fantastico,creativo, spesso tessuti insieme in modo inestricabile. A voler riferire un episodio della vita di Parise, scegliendolo fra quelli spassosi e leggeri, piuttosto che fra le drammatiche esperienze di guerra, non posso non ricordare l’immagine del giovane Goffredo, allegro e avventuroso, che, con irrequieta stravaganza, esce dal fiabesco abbaino di casa per intraprendere, in notturna, fantasiose passeggiate per i tetti, e amene scorrerie per le per strade e le piazze di una Vicenza ancora dormiente. Gaddianamente, possiamo tratteggiare la vita di Parise secondo l’immagine

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dello gnommero51: nel quale, l’individuazione, e poi la separazione, di un singolo filo, ammesso che sia possibile, risulta sempre operazione ardua e altamente complessa. Come riuscire, dunque, a sbrogliare questo gnommero, fosse pure come mero tentativo? Di sicuro, rispondendo a un’altra domanda: attraverso quale strategia Parise placò la sua inquietudine? Lo scrittore vi riuscì vivendo senza sconti, nell’esperienza dei reportage, la sua tensione desiderante, cioè la tensione come desiderio senza fine. E sull’onda di tale pensiero, entriamo nel prossimo paragrafo.

I.5

Il desiderio del desiderio. Limite e tensione come dilazione perenne Parie è stato un uomo sfuggente, sotto certi aspetti persino indecifrabile:

simbioticamente, lo sono stati anche lo scrittore e il reporter. Tuttavia, non posso profilarlo come individuo complesso, perché la complessità - di una cosa, di un fenomeno, di una persona - presuppone il modello del sistema come imprescindibile requisito, che deve appartenere sia all’entità da rendere intelligibile - come sua connaturata proprietà - sia alla visione del soggetto che ne tenta la comprensione, come necessario approccio epistemico. L’intera figura di Parise - temperamento, personalità, biografia, produzione letteraria nel suo insieme - respinge da sé ogni possibile ascrizione al paradigma del sistema. Se, dunque, una realtà complessa sfida la comprensione, una realtà elusiva, come quella di Parise, sfugge all’intellezione. Ne consegue, che qualsiasi studio critico sullo scrittore che aspiri a conseguire un livello quantomeno sufficiente di penetrazione d’analisi, deve per “forza di cose”

51 La parola gnommero è adoperata da Carlo Emilio Gadda nel romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Appartenente al dialetto romanesco con il significato di gomitolo, viene usata dallo scrittore per rappresentare il groviglio di concause, la complessa costellazione di fattori che produce lo scatenarsi di un evento, tanto più se critico o catastrofico.

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contemperare una prospettiva solida, flessibile e sottile, e l’imprescindibile tratto dello scarto: interpretativo e intuitivo. Ho scritto “forza di cose” fra virgolette, riandando con il pensiero a tutte le occasioni in cui era Parise stesso a usare, sempre virgolettata, l’espressione “la forza delle cose”: ad intendere la prepotente, darwiniana e biologica forza della vita. In fondo, la sua intera esistenza fu elusiva, quasi inafferrabile. Il suo ritratto è quello di un personaggio errante, erratico: cambiò identità anagrafica; cambiò città e case; cambiò le nazioni di viaggio; cambiò compagne; cambiò poetiche e narrazioni; cambiò approcci esistenziali. Come in un’ipnotica attrazione, l’elusività riecheggia la sua irrequietezza: la biografia, coloro che lo hanno frequentato, la critica al completo, il sottoscritto nella tesi, tutti, rintracciano nell’inquietudine il tratto arcaico e fondante di Parise. L’inquietudine è la sua esistenza: forse, ma è solo una suggestiva e ipotetica intuizione, elusività e inquietudine sono le due facce del Giano bifronte, dove Giano, fuor di metafora, è il suo vissuto: l’una, elusiva, sfugge il mondo esterno; l’altra, inquieta, sfugge lo stesso io interiore, come un inseguimento circolare di sé stesso. Lo confesso: per l'appunto la visione di uomo inquieto quasi “per genetica”, mi ha reso molto difficile accettare, o per meglio dire, trovare una sensata spiegazione all’esistenza, nella sua psiche, di due drammatici persecutori: l’ozio e la noia; per di più, nonostante Parise abbia rilasciato ripetute ammissioni in merito alla loro annosa e tormentosa presenza. Una difficoltà, la mia, acuita da un ulteriore tarlo interpretativo: la presenza ambivalente, in entrambi i tratti psichici, di tonalità ora depresse, ora eutimiche, ora euforiche. 1941 Frequenta la prima ginnasiale alla scuola media Leonardo da Vinci. Così 60


ricorderà quegli anni: «A scuola mi sono sempre annoiato […]. Per sottrarmi a un’atmosfera così opprimente inventavo un mucchio di bugie per le quali venivo poi regolarmente punito»52. 1961 Acquista un appartamento in via della Camilluccia 201, nel quartiere di Monte Mario, a Roma […]. Parise attraversa un momento di esaltata felicità, che gli fa scrivere a Comisso: «Freneticamente vivo ciò che avevo voglia di vivere e che Milano mi aveva soffocato, ossia la fantasia. Ozio superbamente bene fingendo acuti ragionamenti e studi […]»53. 1964 Confidandosi ancora una volta con la Polizzi, così scrive il 13 marzo da Roma: «Vivo oziosamente, la bella vena di Treviso se n’è andata, sopravvive solo per i ricordi del Corriere»54. 1965 Il disagio interiore e il pessimismo dell’ultimo periodo non accennano ad attenuarsi. «Noia, noia fitta come nebbia» confida all’amico Naldini in una lettera del 27 aprile, «e la sensazione che le cose definitive, cioè il momento della dissoluzione interiore sia giunto. Infelicità. Non angoscia, ma pensiero e riflessione plananti come dal letto di morte sulla realtà»55. 1970 Ero un uomo solo che viveva solo, felice e infelice come capita. Stavo a Roma ma sempre più spesso in quel luogo incantato dove l’ozio era popolato di compagnia animale, giorno e notte» (Veneto barbaro, «Corriere della Sera, 1° gennaio 1984)56. 1976 Si legge sul suo diario inedito, alla data del 13 gennaio 1976: «Stanotte svegliato alle quattro e mezzo fino alle sei e mezzo. Anziché lasciarmi andare a cattivi e tristi pensieri mi sono incazzato con Roma, stando ai fatti. A Salgareda dormo, qui no. Che ci sto a fare a Roma? In quindici anni non una sola emozione, una vera gioia, niente. Amici? Mah! Due veri drammi della mia vita: l’ozio e il fumo. l’uno mi perseguita dalla nascita, l’altro dall’età di 13 anni e so quanto sia dannoso per me. Ma vanno d’accordo, purtroppo. Quando lavoro lo faccio rapidamente, senza intoppi, e poi ozio. E nell’ozio fumo57».

Sono due temi contigui, questi dell’ozio e della noia, due territori dell’esistenza psicologica di Parise che vibrano, risonanti, in mutua simbiosi: spesso, l’ozio attiva la

52 Cfr. la Cronologia in OPERE I, p. XLIII. 53 Ivi, p. LI. 54 Ivi, p. LIII. 55 Ivi, p. LIV. 56 Ivi, pp. LVII-III. 57 Ludovica Del Castillo, Goffredo Parise: una città di papi e topi che insegna a vivere, cit., p. 233.

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noia; sempre, la noia annerisce l’ozio. Ozio e noia, dunque, come motivi dominanti, due zone esistenziali in contiguità ondeggiante fra la stigia Stimmung della depressione della malinconia psicopatologica, la Stimmung tossica della tristezza astiosa e pessimistica - e la malinconica Stimmung dell’allegrezza, ora esaltata, ora felice, ora lieta. In ogni caso, temi che lo scrittore sperimenta, in particolare l’ozio, secondo il suo instabile temperamento umorale. Sono evanescenti territori di confine, che danno vita ad un plesso denso e multiforme che l’autore attraversa con le urgenze del suo vissuto: un plesso come “zona franca” della vita, analoga a quelle geografiche e militari, e come queste priva di confini nazionali ben definiti: ossia, e fuor di metafora, declinati come confini psichicamente identitari, come precise ripartizioni psicologiche: disponibili, quindi, come qualsiasi territorio libero, all’accoglienza di altri, fondanti temi esistenziali. Comincio, solo ora, vagamente, ad orientarmi. La modalità elusiva di Parise, trova senso nella scelta di una strategia che evita il confronto con le ragioni dell’inquietudine, ma viceversa, ben determinata, preferisce consegnarsi incessantemente alla sua irrequieta Stimmung, in un estremo e paradossale tentativo di placarla: consegnandoci, pertanto, un visionario e straniato autoritratto giovanile nello stile della sua fase pittorica chagalliana, che lo raffigura attraversato dal lampo dell’inquietudine come tratto prevalente. Capisco anche che, come nel girotondo di una infantile giostra, la medesima inquietudine entra in questa zona franca, dove, in una rincorsa circolare fra i vari temi l’ozio, la noia - alla fine, non risulta poi così ben chiaro chi insegue e chi è inseguito. E poiché è una zona libera, una giostra disponibile a nuovi arrivi, entra in scena un altro partecipante: la malinconia. 62


1940 All’inizio della guerra la famiglia Parise si trasferisce in un appartamento di piazza Castello mentre Goffredo frequenta le scuole elementari Giuseppe Giusti con il maestro Mingotti. «Ciò che […] ricordo esattamente» scriverà molti anni dopo «è proprio che a quell’epoca comincia la mia malinconia, originata da una frattura insanabile tra la realtà e la mia fantasia, che mi creava intorno un popolo di sogni meravigliosi. Questa malinconia, allo stato più acuto, è durata quindici anni, non è scomparsa nemmeno adesso, anzi in fondo dura tuttora e costituisce il fondamento della mia tematica di scrittore» (Il Sillabario degli scrittori italiani: Goffredo Parise racconta la sua vita, «Novella», 13 febbraio 1966)58. 1954 Milano si rivela una città difficile per Parise e i periodici rientri a Vicenza si fanno sempre più frequenti e necessari. Scrive spesso al suo editore Neri Pozza. Proprio nei primi giorni dell’anno, il 9 gennaio, gli invia una lettera: «Mi par di ritrovare i vecchi amici […]. La ruota è sempre la stessa, gli amici si vedono sui giornali, spuntano le lacrime e i pensieri; e giù una malinconia e una tristezza come un pitale di cenere sulla soffitta»59. 1976 Nel giugno 1976 scrive a Omaira Rorato Vedi, per scrivere, per esprimersi, per trovare lo stile come si trovano senza alcuna difficoltà le note in un pianoforte è necessario trovarsi in quel particolare stato d’animo non facile da descrivere che non è necessariamente felice, ma non può e non deve essere assolutamente infelice. Deve essere una specie di limbo, di lieve e confusa esaltazione, in cui, nel suo complesso ti piace la vita e ne hai al tempo stesso nostalgia. Allora, in questo stato d’animo che non è reso infelice da nessuna disarmonia (questo è importantissimo, fondamentale) si forma quasi meccanicamente l’armonia, quella armonia soprattutto stilistica e quella mentale e muscolare, quella condizione di «energia» che rappresenta l’optimum per esprimere sé stessi, attraverso un racconto, un romanzo eccetera. Questa armonia, questa energia per il momento mi manca: anzi per essere più precisi, la sento, ma è in disarmonia con la mia vita attuale […]60. 1978 In luglio con una lettera esprime a Neri Pozza la sua crescente inquietudine e insoddisfazione: «Non mi piace stare a Roma e sono un’anima in pena, molto più che un tempo. Vorrei una casa con qualche rumore di gocce di pioggia […]. Che potesse dare senso di regressione come dicono oggi, di memoria o ricordo come si diceva ieri […]. Dove si potesse respirare però il senso del tempo, sia atmosferico che psichico. E così, ma senza troppe scosse, diventare vecchi e morire in una giornata di vento “au plus tard”!»61. 1980 Qualche giorno dopo, il 4 ottobre, in un’altra lettera, sempre a Omaira

58 Cfr. la Cronologia in cit., p. XLIII. 59 Ibidem. 60 OPERE II, p. 1545. 61 Cfr. la Cronologia in cit., p. LXIII.

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Rorato, ribadisce il suo stupore per lo stile nipponico: «Sto bene di umore, dormo per terra come si usa, ma quello che più mi ha colpito è l’estetismo di cui ti ho già parlato. C’è un giardino tutto di muschio, di varie sfumature di verde, sublime. C’è un giardino con tre rocce che sembrano Capri vista dall’aereo: meraviglioso. C’è un Budda, tra maschio e femmina, misterioso e senza sesso. Non tutto è perfetto, è una società piramidale e monolitica, dove ognuno ha la sua parte, come le formiche o le api». Il 20 ottobre, da Singapore, indirizza una lettera a Giosetta Fioroni: «È il vero Oriente, non quello fatto di “eleganza è frigida” come dice un poeta giapponese, ma quello cinese, commerciale, vitale e odoroso. […] L’albergo qui è delizioso, old style […]. Sono tutte atmosfere che già conosco (Cambogia, Saigon) ma che amo molto: mangiare nelle bettole cinesi, il caldo umido, l’odore del curry e di cibo e via dicendo» […]. Ricorderà questo viaggio anche in una lettera del 3 gennaio 1981 ad Alcide Paolini: «Il Giappone è spettacoloso, il paese di gran lunga più interessante che ho visto nella mia vita. Tale da farmi dire che è la mia alternativa come per altri l’America. È tutta psicologia molto nascosta ed estetismo e perfezionismo»62. 1984 Il trasloco avviene in maggio. «Sono, con molta soddisfazione, nella nuova casa, tra due giardini, bella, ampia, la prima vera casa o home della mia vita. Sono contento»63.

Da quanto appena letto, nel Goffredo ancor giovane ragazzo, icastica, si staglia la figura della malinconia: nata da uno scarto insanabile, si attiva come ennesimo movimento circolare all’inseguimento dei due separati fuggitivi: la realtà e la fantasia: è lui stesso che lo racconterà, molti anni dopo, nel ’66, dichiarando la Stimmung malinconica come sua fedele compagna di scrittore. La malinconia, nella sua essenza, è uno stato d’animo dinamico: è movimento, è tensione, perché nasce sempre da uno scarto, da una sorta di clinamen esistenziale. È desiderio, come fra poco spiegheremo. Proprio in ragione della sua qualità erratica, trascolora, più mutevolmente dell’ozio e della noia, fra le intense tinte della psiche di Parise: ora ha l’animus sognante della meraviglia, simile all’infanzia; ora quello della tristezza cinerea e irritata; ora ha l’animus dell’allegrezza pacata, che risolve in armonia vaga e cullante le tonalità del diletto e della nostalgia: suggerita, peraltro, nel complesso

62 Cfr. la Cronologia in cit., p. LXIV. 63 Ivi, p. LXVI.

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metaforico di una descrizione, che risuona di evidenti echi di analoghi passi leopardiani dello Zibaldone; ora quello dell’inquieto anelito verso la quiete del ripiegamento nel riflusso memoriale; ora, invece, ha l’animus di una disposizione contemplativa e insieme sensoriale, che prende forma di armonica quiete soffusa di ammirata e sensuale percettività, dove brillano come stelle le note del sublime, del meraviglioso, del misterioso, della sensorialità, della stilizzazione. Esiste un solo territorio che sopprime la vocazione errante del vissuto malinconico: è quello della tristezza clinica, psicopatologica, della statica glaciazione dell’umore depresso, che la scienza psichica moderna si ostina a definire, con equivoca intercambiabilità semantica, malinconia clinica: immagino, per una sorta di dovuto omaggio, ma insieme, purtroppo, di incondizionata resa intellettuale, al pensiero di Aristotele, e non solo: la cui melancholìa, tanto è stata preziosa per le successive meditazioni sulla psiche, quanto risulta negativa nel suo effetto confondente sull’episteme malinconica: in special modo, quando essa non viene usata per metafora, laddove, invece, sarebbe ora di definirla con lemmi univoci e differenti, e di assegnarla a territori della Stimmung più circoscritti e specialistici. Sale infine su questa giostra, infernale e meravigliosa insieme, il tetro tema della depressione: 1979 Intrattiene con Paolini una corrispondenza che si protrae fino al 1984, nella quale i toni confidenziali prevalgono sulle questioni editoriali. In una lettera del 13 febbraio Parise si confessa: «Non sto bene: un alter ego atroce, beffardo, crudele, disumano e nazista mi perseguita: anche nelle decisioni editoriali, per non parlare delle decisioni quotidiane. Ho nausee, pianti e come una condanna da scontare pur sapendomi innocente: ma si sa che l’innocenza è infinitamente più debole della colpa. Quale poi?»64

64 Ibidem.

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Implacabile, fa la sua temibile comparsa - «un alter ego atroce, beffardo, crudele, disumano e nazista» lo dipinge inorridito lo scrittore - quel campo di sterminio psicologico ed esistenziale della tristezza psicopatologica, che nell’anima di tutti, compresa quindi quella di Parise, non solamente è l’unica a sopprimere la disposizione errabonda del territorio malinconico, ma, con effetto ben più funesto, trasforma l’essere in vita in una nera, inerte, presentificata glaciazione. Questo devastante umore depresso, è l’esito ciclico, vittorioso e letale insieme, di quelle ragioni dell’inquietudine da cui Parise - spinto da un saggio e istintivo “senso della vita” e non avendo potuto o saputo mettere in atto differenti alternative liberatrici - ha tentato di sfuggire per l’intera vita, eludendo, con strenuo coraggio, il loro abbraccio mortale: consegnandosi, anima e corpo, all’inquietudine medesima come ad un’esperienza - secondo una ben paradossale episteme che coniuga Leopardi e Darwin - alimentata da un insopprimibile istinto alla vita. Su questo solitario canto di Parise, corifeo dolente ma indomabile, ha inizio una sorta di antica danza greca, movimentata dalle due eterne anime apollinea e dionisiaca, e popolata dalle figure tersicoree di Eugenio Borgna, Giacomo Leopardi, Antonio Prete. Tema danzante: l’ozio: Velleio nel tracciare, come suole, i caratteri delle persone illustri che descrive […], soggiunge poi che nell’ozio era molle ed effeminato, o almeno si compiaceva anche dell’ozio, e dei diletti pacifici, e insomma delle frivolezze, e che tanto era pigro e voluttuoso nell’ozio, quanto laborioso diligente e tollerante nel negozio […]. Dappertutto fa menzione dell’ozio […]. Cosa ignota agli antichi Eroi romani, i quali nell’ozio non trovavano né potevano trovare nessun piacere […]. Notate dunque gli effetti dell’incivilimento e della corruzione. Notate quanto ella porti per sua natura all’inazione, all’ozio e alla pigrizia […]. La causa è il piacere che nell’antico stato di Roma non si poteva trovare nell’ozio, e perciò l’uomo

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desiderando il piacere e la vita, si dava necessariamente all’azione65. Quelli che non sogliono mai far nulla e che per conseguenza hanno più tempo libero, e da poter impiegare, sono ordinariamente i più difficili a trovare il tempo per una occupazione […]. La cagione è chiara, cioè l’abito di negligenza66. L’abitudine dell’ozio in qualsivoglia età è sempre conciliatrice d’egoismo[…]: apparisce e sempre apparirà, che la natura dell’egoismo è un ghiaccio dell’animo, un freddo, un congelamento, una quasi concrezione, una durezza67.

Sopra il tema dell’ozio, Parise danza avvinto a Leopardi per tutto il tempo in cui la musica suona il motivo dell’allegria, ora pacata ora vivace, e dell’accidiosa mollezza: quando la musica assume i tratti dissonanti della cupezza, lo scrittore si separa. La danza prosegue con il tema della noia: Dall’area della psicopatologia, nella quale i fenomeni si colgono nella loro trasparenza assoluta […], possono scaturire elementi non altrimenti constatabili e che possono aiutare la comprensione e l’archeologia di esperienze psicologiche umane come sono la noia e la malinconia. Ai confini della malinconia sta la noia: che si comprendono meglio nei loro aspetti essenziali se sono dialetticamente confrontate l’una con l’altra. La malinconia e la noia sono genialmente interpretate da Giacomo Leopardi come categorie conoscitive e non solo come categorie emozionali. “La malinconia per esempio fa veder le cose e le verità (così dette) in aspetto diversissimo e contrarissimo a quello in cui le fa vedere l’allegria. V’è anche uno stato di mezzo che le fa pur vedere al suo modo, e cioè la noia”; e ancora “Vero è purtroppo che astrattamente parlando, l’amica della verità, la luce per discoprirla, la meno soggetta ad errare è la malinconia; e soprattutto la noia; ed il vero filosofo nello stato di allegria non può far altro che persuadersi, non che il vero sia bello o buono, ma che il male cioè il vero si debba dimenticare, e consolarsene, o che sia conveniente di dar qualche sostanza alle cose, che veramente non l’hanno”. Ci sono alcuni sentimenti, alcuni stati d’animo, che ci confrontano con le fondazioni ultime dell’esistenza: questa è, ovviamente, una delle tesi radicali del pensiero heideggeriano; ma, al di là dell’angoscia che ha un’importanza decisiva in questo discorso, anche la noia è considerata da Heidegger come una esperienza

65 Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, in Id., Tutte le opere, a cura di Walter Binni, II, Firenze, Sansoni, 1983, II, [474-476], p. 167. 66 Id., Zibaldone di pensieri, in cit., [1075-1076], p. 312. 67 Ivi, [3315], p. 828.

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essenziale nel rivelare il senso dell’esistenza. “Anche quando, e proprio quando non siamo particolarmente occupati dalle cose e da noi stessi, ci soprassale questo ‘tutto’, per esempio nella noia autentica. Essa è ancora lontana quando ad annoiarci è solo questo libro o quello spettacolo, quell’occupazione o quest’ozio, ma affiora quando ‘uno si annoia’. La noia profonda, che va e viene nelle profondità dell’esserci come una nebbia silenziosa, accomuna tutte le cose, tutti gli uomini, e con loro noi stessi in una strana indifferenza. Questa noia rivela l’ente nella sua totalità” Qualche analogia esiste fra la definizione leopardiana e quella heideggeriana della noia; anche se, certo, in Leopardi la noia genera il nulla (come egli dice: la noia “è madre del nulla”) mentre in Heidegger è l’angoscia a svelare il nulla. Ma in ogni caso sono stati già toccati, qui, dall’uno e dall’altro aspetti radicali della noia come stato d’animo e come situazione esistenziale La psicologia della noia (certo) non è la psicopatologia della noia. Slittando ora nell’area di un discorso più immediatamente psico(pato)logico direi che è possibile indicare come elemento costitutivo della noia la dis-sonanza (lo s-quilibrio) fra l’egemonia della razionalità e l’inaridirsi della emozionalità. L’accentuazione e l’esasperazione (la radicalizzazione) della razionalità sembrano accompagnarsi, cioè, alla desertitudine emozionale e alla sottrazione dei sentimenti: alla erosione delle regioni irrazionali della vita […]. Nella noia non ci sono luoghi (spazi) che siano vissuti come dotati di senso: non ci sono luoghi testimoni di una storia personale e di una patria (di una Heimat) che si incida nella storia personale […]. Nella noia il paesaggio (la Landshaft) si trasforma in geografia inanimata che non vive nella memoria (nelle memorie) e non si muove sugli schermi della nostra soggettività congelata e desertificata. Se questa è la psicologia negativa della noia, esiste un valore possibile nella noia […]. La noia appare la più camaleontica (la più proteiforme fra tutte le creature) […]: inafferrabile nel suo entrare a far parte di una infinità di cose. La noia ha nondimeno dimensioni ancora più inattese: essa (la noia che si direbbe pura noia) è il sentimento che non c’è alcun sentimento e questo significa che ha in sé la possibilità di tutti i sentimenti. La parola tematica della noia […] è il vuoto. Nella noia, cioè, il tempo “segna il passo”68. La varietà è tanto nemica della noia che anche la stessa varietà della noia è un rimedio o un alleviamento di essa […]. All’opposto la continuità è così amica della noia che anche la continuità della stessa varietà annoia sommamente69.

68 Eugenio Borgna, Malinconia, Milano, Feltrinelli, 1992, pp. 130-3. Le citazioni leopardiane sono tratte da: Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, voll. I e II, in Tutte le opere di Giacomo Leopardi, a cura di F. Flora. Milano, Mondadori, 1973. I passi citati di Martin Heidegger provengono da: Martin Heidegger, Che cos’è la metafisica, in Segnavia, Milano, Adelphi, 1987, pp. 59-78.b 69 Giacomo Leopardi., Zibaldone di pensieri, in cit., [51], p. 35.

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Anche il dolore che nasce dalla noia e dal sentimento della vanità delle cose è più tollerabile assai che la stessa noia70. In somma la noia non è altro che una mancanza del piacere che è l’elemento della nostra esistenza, e di cosa che ci distragga dal desiderarlo71. L’uomo si disannoia per lo stesso sentimento vivo della noia universale e necessaria72. La noia è la più sterile delle passioni umane. Com’ella è figlia della nullità, così è madre del nulla: giacché non solo è sterile per se, ma rende tale tutto ciò a cui si mesce o avvicina73. Chi dice assenza di piacere e dispiacere, dice noia, non che assolutamente queste due cose sieno tutt’una, ma rispetto alla natura del vivente, in cui l’una senza l’altra (mentre ch’ei sente di vivere) non può assolutamente stare. La noia corre sempre e immediatamente a riempire tutti i vuoti che lasciano negli animi de’ viventi il piacere e il dispiacere; il vuoto, cioè lo stato d’indifferenza e senza passione, non si dà in esso animo, come non si dava in natura secondo gli antichi. La noia è come l’aria quaggiù, la quale riempie tutti gli intervalli degli altri oggetti, e corre subito a stare là donde questi si partono, se altri oggetti non gli rimpiazzano. O vogliamo dire che il vuoto stesso dell’animo umano, e l’indifferenza, e la mancanza d’ogni passione, è noia, la qual è pur passione. Or che vuol dire che il vivente, sempre che non gode né soffre, non può fare che non s’annoi? Vuol dire ch’è’ non può mai fare ch’è’ non desideri la felicità, cioè il piacere e il godimento. Questo desiderio, quando e’ non è né soddisfatto, né dirittamente contrariato dall’opposto del godimento, è noia. La noia è il desiderio della felicità, lasciato, per così dir, puro. Questo desiderio è passione. Quindi l’animo del vivente non può mai veramente essere senza passione. Questa passione, quando ella si trova sola, quando altra attualmente non occupa l’animo, è quello che noi chiamiamo noia. La quale è una prova della perpetua continuità di quella passione. Che se ciò non fosse, ella non esisterebbe affatto, non ch’ella si trovasse sempre ove l’altre mancano (17 ottobre 1823)74.

La vertiginosa danza di Leopardi, traccia i contorni della Stimmung della noia che, lesta e inesorabile come il corrispondente, precoce persecutore di Parise, si diffonde come un’aria mefitica e opaca - o come un liquido sterilizzante nell’atmosfera vitale dell’esistenza. Tuttavia, la stessa noia, con uguale metamorfica ambivalenza già sperimentata da Parise, si svincola dal letale e sterile abbraccio del

70 Id., Zibaldone di pensieri, in cit., [72], p. 46. 71 Id., Zibaldone di pensieri, in cit., [174], p. 83. 72 Id., Zibaldone di pensieri, in cit., [262], p. 111. 73 Id., Zibaldone di pensieri, in cit., [1815], p. 499. 74 Id., Zibaldone di pensieri, in cit., [3714, 3715], p. 928.

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filiale - e al contempo, per paradosso - materno nulla, generato dal flusso ossessivo della continuità, sia esso piacevole o doloroso: e, riconoscendosi nello statuto emozionale di desiderio puro di felicità, ritrova in sé la Stimme della passione che, nelle vesti di scarto discontinuo che frattura l’uniformità, avvia al ciclico riscatto di sé stessa suscitato da un nuovo piacere. Nella conturbante danza fa il suo ingresso il tema della malinconia: la malinconia come stato d’animo (come Stimmung) e la malinconia come malattia sono due realtà psicologiche e umane diverse che non possono nondimeno essere radicalmente staccate l’una dall’altra e che si possono riflettere (si riflettono), sia pure con diverse e autonome modalità, nella insorgenza di una esperienza creativa […]. Le due nozioni, quella di malinconia come malattia e quella di malinconia come stato d’animo e come temperamento, si sono costituite, così, come esperienze ineliminabili dalla letteratura e dall’uso comune. Nella lirica d’amore, ad esempio, la malinconia è stata intesa costantemente come espressione equivalente a quella di follia. Non si può nemmeno sfiorare un tema come questo senza rinviare al celebre testo (Problemata 30, I) che è concordemente tramandato con il nome di Aristotele e in cui sono delineate alcune considerazioni […] sulle correlazioni fra genialità e malinconia: intesa, questa, ora come Stimmung ora come malattia. In questo testo, Aristotele si chiede come mai tutti gli uomini eccezionali, che svolgano attività filosofica o politica, abbiano un temperamento “malinconico” (o “atrabiliare” come, anche, lo si definisce) e alcuni soffrano perfino degli stati patologici che ne derivano. Egli afferma poi: “Pare che molti altri eroi abbiano accusato sindromi identiche a queste […], sono inclini, se non stanno attenti, alle sindromi melanconiche, chi in una chi in un’altra parte del corpo: i sintomi possono consistere per alcuni in epilessia, apoplessia, forti depressioni, per altri in esaltazioni eccessive” La malinconia come Stimmung ineliminabile dalla condizione umana e come sorgente di sofferenza senza fine è stata vissuta e descritta […] da Giacomo Leopardi con la sua vertiginosa capacità di autoanalisi e la sua radicale profondità […]. Nella prima [lettera a Pietro Giordani] del 30 aprile 1817, si legge: “A tutto questo si aggiunga l’ostinata nera orrenda barbara malinconia che mi lima e mi divora, e collo studio s’alimenta e senza studio s’accresce. So ben io qual è, e l’ho provata, ma ora non la provo più, quella dolce malinconia che partorisce le belle cose, più dolce dell’allegria, la quale, se m’è permesso di dir così, è come il crepuscolo, dove questa è notte fittissima e orribile, è veleno, come Ella dice, che distrugge le forze del corpo e dello spirito […]”. La malinconia è considerata da Giacomo Leopardi non solo come esperienza umana così dolorosa e disperata ma anche, e contestualmente, come sorgente e parola tematica di ogni poesia radicale […]. La malinconia come stato d’animo ineliminabile da ogni invenzione 70


poetica e la malinconia come portatrice di conoscenza: come fascio di luce intensissima che fa risplendere e scintillare le cose e l’esperienza che si ha delle cose75. La malinconia, il sentimentale moderno ec., perciò appunto sono così dolci, perché immergono l’anima in un abisso di pensieri indeterminati, de’ quali non sa vedere il fondo né i contorni […]. Perché in quel tempo l’anima si spazia in un vago e indefinito76. Quelle rare volte ch’io ho incontrato qualche piccola fortuna, o motivo di allegrezza, in luogo di mostrarla al di fuori, io mi dava naturalmente alla malinconia quanto all’esterno, sebbene l’interno fosse contento. Ma quel contento placido e riposto, io temeva di turbarlo, alterarlo, guastarlo e perderlo col dargli vento. E dava il mio contento in custodia alla malinconia77. Vero è che purtroppo che astrattamente parlando, l’amica della verità, la luce per discoprirla, la meno soggetta ad errare è la malinconia; e soprattutto la noia, ed il vero filosofo nello stato di allegria non può far altro che persuadersi, non che il vero sia bello o buono, ma che il male cioè il vero si debba dimenticare, e consolarsene, o che sia conveniente di dar qualche sostanza alle cose, che veramente non l’hanno78.

La danza sapiente e profonda di Borgna, delinea con suggestiva metaforicità la figura polimorfa della malinconia, che tuttavia sconta, nelle sue riflessioni, un’erronea declinazione verso le nere e paludose acque dell’umore depresso. La scrittura letteraria, sia essa poetica o narrativa, non è di certo solamente lirica, amorosa; e in ogni caso, non è l’esperienza della lirica d’amore a qualificare la malinconia con il carattere della follia, ma, semmai, è l’esperienza dell’amore, anzi, dell’innamoramento, come Stimmung psicologica comune al genere umano, ad assumere quei toni da sempre riconosciuti come “folli”, declinati nel senso di momentanea e fisiologica follia, certo non patologica: toni che per osmosi contagiano la scrittura creativa, nello specifico quella lirica, ma non viceversa di sicuro. Risulta peraltro sorprendente che si attribuisca alla secolare tradizione poetica e

75 Eugenio Borgna, Malinconia, cit., pp. 146-9. 76 Giacomo Leopardi., Zibaldone di pensieri, in cit., [170], p.81. 77 Id.., Zibaldone di pensieri, in cit., [460-461], p.163. 78 Giacomo Leopardi., Zibaldone di pensieri, in cit., [1691], p.471.

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narrativa, di genere lirico oppure no, l’esperienza di una malinconia dai toni ora maniacali ora atrabiliari: laddove, invece, è assolutamente prevalente l’esperienza malinconica declinata secondo le tonalità della dolce tristezza, e, come suggeriscono alcune incursioni psicoanalitiche, della tristezza compiaciuta: quelle stesse di cui scrivono Parise e Leopardi, e da loro esperite come esperienza poetica ed al contempo esistenziale. E quasi profetiche emergono le conclusive parole di Leopardi, che nella scommessa della consolazione mette in scacco le naturali ed esistenziali ragioni della sofferenza: in modo analogo, Parise nei reportage investe la sua inquieta esistenza di uomo e scrittore, così da eludere il complesso e tormentante vulnus biografico e psichico, e da riuscire a mettere in salvo la sua irrequieta passione attraverso una rinnovata consolazione dalle tinte leopardiane. Nel circolo danzante entra ora il tema dell’ebbrezza: La velocità, per esempio, de’ cavalli o veduta, o sperimentata, cioè quando essi vi trasportano […] è piacevole per se sola, cioè per la vivacità, l’energia, la forza, la vita di tal sensazione. Essa desta realmente una quasi idea dell’infinito, sublima l’anima, la fortifica, la mette in una indeterminata azione, o stato di attività più o meno passeggero. E tutto ciò tanto più quanto la velocità è maggiore. In questi effetti avrà parte anche lo straordinario79.

Proprio in questo appunto leopardiano, risiede la risposta alla malinconica domanda che Moravia si poneva sulle scelte di vita di Parise: ricordandolo come un uomo che «aveva cioè un po’ il mito dell’azione moderna, dell’azione del reporter… con le mani in tasca, la giacca a vento», si chiedeva le ragioni di un vissuto in cui «a dirla proprio in breve Parise era un uomo vitale ma forse questa vitalità non bastava alla letteratura, dico forse, ma è molto difficile capire perché non gli bastasse»80. Come nel

79 Giacomo Leopardi., Zibaldone di pensieri, in cit., [1998], p.537. 80 Alberto Moravia in, Con Goffredo Parise, cit., pp.31-32.

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sensistico quadretto leopardiano, la letteratura non poteva bastare in quanto priva della necessaria esperienza percettiva, corporea: per dinamico traslato sensoriale, quella che in Leopardi è l’ebbrezza della velocità è in Parise l’ebbrezza del viaggio senza sosta, e in cui l’aspetto della velocità è trasformato in dissimulata tensione passionale. Come un consumato primo ballerino, entra nella danza il raggiante tema del desiderio: Le meditazioni leopardiane sul piacere muovono da un presupposto: alla radice di ogni movimento verso il piacere c’è il desiderio. Il “desiderio del piacere”, e non di “un piacere” particolare, è ciò che dà contenuto al desiderio e indirizza la sua tensione. Senonché è proprio questa indeterminatezza che fa permanere lo scarto tra il desiderio e il suo “riempimento”, fa rinascere ad ogni illusoria soddisfazione il desiderio, fino ad esporre la sua illimitatezza e l’impossibile spegnimento. Le lunghe osservazioni sul piacere [contenute nel passo 183, datato 12-23 luglio 1820] dello Zibaldone, approdano infatti ad una prima conclusione (e da questa vogliamo cominciare): “Conseguito un piacere, l’anima non cessa di desiderare il piacere, come non cessa mai di pensare, perché il pensiero e il desiderio del piacere sono due operazioni egualmente continue e inseparabili dalla sua esistenza”. Pensiero e desiderio sono attività connaturali all’esistenza, esse definiscono l’esistenza stessa: in questa pulsione binaria Leopardi trascrive, certo, la classica articolazione di logos e pathos e la “moderna” dicotomia di ragione e passione, ma la nuova dizione intende cogliere il pathos nel suo movimento senza approdo e la passione al di fuori della classificazione delle “facoltà”. Lo sguardo di Leopardi è proprio sullo scarto permanente tra desiderio e piacere determinato, sulla incolmabilità di questo vuoto ch’è il desiderio. Il desiderio leopardiano è una “tendenza”, e, perché “ingenita o congenita coll’esistenza”, non può realizzarsi “in questo o quel piacere”, che non la esaurisce, ma “solamente termina con la vita”. La lettura di questo testo leopardiano, fin dai primi passaggi, evoca, in contrappunto, un altro testo, le cui domande non vogliamo certo sovrapporre, ma non riusciamo neppure a vedere estranee: Al di là del principio di piacere, di Freud. Il desiderio leopardiano è una pulsione se “termina solamente con la vita”? se nessun piacere colma il desiderio, è forse perché le sue domande sono altre da quelle “vitali” che pure esso si rappresenta e ricerca? E se il suo cammino, dietro l’apparente rinnovarsi e “spingersi avanti”, inseguisse di fatto un ritorno? Quello stesso ritorno adombrato nell’eros, cui si dà il nome di morte? Le interrogazioni già si allineano, nell’incontro tra i due testi, e di colpo e senza reticenze qui sono anticipate […]. Quanto poi allo scarto, che è il tema d’avvio della riflessione leopardiana, il testo di Freud, citando il Faust goethiano, dà conferma: “…la differenza fra il piacere del soddisfacimento agognato e quello effettivamente ottenuto determina nell’uomo quell’impulso che non gli permette di fermarsi in nessuna posizione raggiunta, ma, secondo le parole del poeta, ‘sempre 73


lo spinge più avanti’”81. Torniamo allo Zibaldone. L’impossibilità di circoscrivere il piacere in “durata” e in “estensione”, l’impossibilità di “riempire” con un piacere determinato la domanda del desiderio, fa permanere uno “stato di desiderio”: si tratta di una condizione vuota, e la si può spiegare solo col fatto che proprio quell’esperienza che potrebbe colmare il desiderio, l’esperienza dell’infinito, è “materialmente” impossibile. Il ripiegamento sul piacere determinato, sui piaceri, è pagato anch’esso con l’”insoddisfazione”, cioè con l’esperienza dello scacco, se non accetta di entrare, pienamente, in questo ordine della “soddisfazione”, che è poi l’ordine del sapere, lo statuto dell’io: Il fatto è che quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non un tale piacere […]. E perciò tutti i piaceri debbono essere misti di dispiacere, come proviamo, perché l’anima nell’ottenerli cerca avidamente quello che non può provare, cioè una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato. (Zibaldone, 166-167) In questo scarto sta l’esperienza del dolore. In questo amaro gioco, l’immaginazione, “la facoltà immaginativa”, agisce su due piani: da una parte offre al desiderio immagini di piaceri impossibili (“ella può figurarsi dei piaceri che non esistono, e figurarseli infiniti”), e dunque semina di obiettivi irraggiungibili i percorsi del desiderio, dall’altra “supplisce” alla drammatica esperienza dello scarto, proponendosi come facile, e compensatoria, oasi, dove è possibile rendere pieno il desiderio: “Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà si trova così nell’immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec.”. L’immaginazione è dunque il terreno di difesa contro l’urto provocato dall’esperienza dello scarto tra desiderio e piacere. L’immaginazione, e non il rifugio nel principio di realtà. Al potere dell’immaginazione dà forza la “gran varietà delle cose”: la quale è una riduzione del campo di riflessione su quello scarto, una sorta di distrazione dello scarto, che così sfugge alla meditazione sull’impossibilità del piacere82.

In modo analogo alla poetica e al vissuto leopardiani, Parise nei reportage ha trasformato l’antico scacco esistenziale in un’incessante tensione desiderante, dove il desiderio del desiderio, in un circolare movimento protettivo, reitera lo scarto dal vissuto doloroso: attingendo forza dal suo insopprimibile senso della vita, impiegando la sua fantastica e avventurosa immaginazione creativa, e iniettando nel vissuto e nella narrazione il suo inquieto frisson interiore.

81 Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere (1920), in Opere, vol. IX, Boringhieri, Torino, 1977, p. 235. 82 Antonio Prete, Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi, Milano, Feltrinelli, 1984, pp. 16-20.

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Il destino della scrittura e dell’esperienza dei reportage di Parise, è quello di diffondersi come un virus, che nascosto per decenni o magari secoli nel suo organismo ospite, in un momento indefinibile effettua il salto, lo spillover, e contagia il singolo lettore con la sua vertigine, a volte visionaria, sempre comunque ipnotica e struggente.

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CAPITOLO II

Gli inarrivabili reportage di viaggio e di guerra

II.1

In stato di grazia. Parise pescatore di incantevoli perle «I libri importanti sono come le stelle, la luce arriva fino a noi quando sono

già morte. Nelle stelle si annida un paradosso del tempo che la letteratura conosce bene »83. Ho scelto di iniziare il presente capitolo con una citazione acuta e suggestiva (e tale anche in virtù anche della sua paradossalità) né per vezzo retorico né per una captatio benevolentiae sotto le mentite spoglie di un colpo a effetto: quanto semmai, perché la luce stellare in differita e il concetto di paradosso sono l’orizzonte giusto per illuminare esistenza e sorti della produzione letteraria di Parise, sia pre-mortem che post-mortem. Compresa quindi la presente ricezione delle sue opere da parte di noi lettori e dei critici. Goffredo Parise è stato definito in molti modi. Inquieto. Irregolare. Irrequieto. Illegittimo (di nascita e in letteratura). Snob. Dandy. Disimpegnato. Solitario. Apolitico o impolitico. Anticonformista. Tutte chiavi di lettura valide ma che purtroppo alla fine non ci restituiscono l’intero. Qualcosa sfugge sempre. Ecco, appunto: io preferisco definirlo sfuggente. E ambivalente. Talvolta ambiguo. Sempre difficile. Non certo per scrittura ed espressività, mai criptiche ma costantemente semplici, lineari, trasparenti. Ma difficile in quanto insintetizzabile (ed è il motivo per cui Parise non è personalità complessa). Indecodificabile. All’analisi critica risulta precario reperire una chiave di

83 Silvio Perrella, Fino a Salgareda, cit., p. 122.

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lettura finale; un algoritmo interpretativo. Forse, allora, potrebbe essere proficuo usare Parise stesso in aiuto alle insufficienti armi interpretative, ricordando quanto scrive a proposito del satori Zen: E il Giappone non si presta all’analisi ma quasi esclusivamente a una serie pressoché infinita di elettroshock, di fulminee intuizioni, quello che i giapponesi chiamano satori, una specie di perdita di conoscenza, e niente altro84.

O magari, si potrebbe predisporre l’indagine critica all’ascolto, dopo aver acuito la nostra sensibilità e approntato gli strumenti critici, ma soprattutto abbandonato ogni pregiudizio metodologico, facendo parlare le opere attraverso la loro scrittura: e ricorrendo ai modelli di due fenomeni naturali, quelli del gorgo e del ciclone, immaginare di trovarsi nel centro del primo e nell’occhio del secondo, unici punti di immobilità da cui osservare nodi e scenario dell’elicoidale creatività parisiana. O anche, perché no - riandando con la memoria ad antiche frequentazioni e lezioni universitarie - esplorare la scrittura dei testi ponendosi in attesa di quel fenomeno definito click dalla critica stilistica, di cui ci parlava il prof. Achille Tartaro nelle sue magistrali lezioni. È bene poi non trascurare mai il fatto che Parise stesso ha contribuito, se non a depistare la schiera dei suoi studiosi, certo a confonderla, e in ogni caso a rendere sistematicamente povero - e quel poco, spesso, contraddittorio - lo scenario e della sua biografia e della sua poetica. Sappiamo che consapevole è stata la scarsità di notizie biografiche fornite a critici o intervistatori: come dichiarava lui stesso, per una forma di onestà intellettuale che gli inibiva le così frequenti simulazioni e invenzioni biografiche: Mi scuso di non dare altre notizie a carattere aneddotico, come sempre in questi casi si cade nel gorgo dell’ispirazione diciamo così poetica, o in altre parole, dell’inventiva, delle amabili e geniali balle. Meglio in ogni caso una seria e stretta

84 Goffredo Parise, Opere, a cura di Bruno Callegher e Mauro Portello, II, Milano, Mondadori, 1989; 3a ed. aggiornata, 2005; p. 1545. [D’ora in avanti il testo sarà abbreviato in OPERE II].

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informazione85.

Né tuttavia, va tralasciata la dolorosità provocata dalla rievocazione di alcuni traumatici nodi personali: Il dolore Parise lo tiene per sé, o se lo racconta e lo tematizza, come in Arsenico e ne L’odore del sangue, è un dolore oggettivizzato, di chi davvero non vuole che nessuno gli metta la mano sulla spalla. È abituato a cavarsela per conto proprio e la morte sa cosa sia da sempre, almeno da quando ha fatto morire il suo ragazzo di quindici anni86.

Ma a spiegare la contraddittorietà frequente delle sue dichiarazioni va anche chiamato in causa il carattere viscerale, l’istintività sistematica che connotava le sue affermazioni, le dichiarazioni di affetto o di antipatia, le sue scelte rapide e incostanti quanto lo erano ripensamenti e abbandoni. Parise era capace, prendendo come esempio uno scritto di reportage, di eleggere in modo differente a distanza di poche pagine la tale città come quella più bella al mondo, o la tale donna come la più bella vista nella sua vita. Insomma, la lezione che ne dobbiamo trarre è che dichiarazioni e notizie fornite da Parise devono essere considerate con la dovuta cautela, e passate al vaglio di un costante e vigile processo di raffronto e valutazione caso per caso. Così, tornando alla nostra metafora iniziale, paradossale è stata la scansione della sua esistenza e vicenda letteraria. Scrisse giovanissimo due romanzi - Il ragazzo morto e le comete87 e La grande vacanza88 - definiti fantastici, visionari e sperimentali, pubblicati nel 1951 e nel 1953, dunque in netta controtendenza con il canone ufficiale del neorealismo imperante nel periodo. Rimasti di fatto invenduti, raccolsero qualche rara recensione, ma di prestigio (Montale, fra queste). Scrisse poi e pubblicò nel 1954 Il

85 Paolo Petroni, Invito alla lettura di Parise, cit, p. 15. 86 Silvio Perrella, Fino a Salgareda, cit, p. 38. 87 Il ragazzo morto e le comete, Vicenza, Neri Pozza, 1951; ora in OPERE I, pp. 7-148. 88 La grande vacanza, Vicenza, Neri Pozza, 1953; ora in OPERE I, pp.1497-297.

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Prete bello89, un successo editoriale - il primo best seller del dopoguerra - sia di pubblico che di critica, certo: ma, seppur caratterizzato da una trama effervescente, da un’ambientazione umoristica e da un tratteggio icastico di personaggi e dialoghi, rimane un racconto iscritto nell’alveo naturalista ormai sul viale del tramonto. Un’ulteriore sfasatura temporale, dunque. Seguirono altri romanzi di uguali genere e ambientazione territoriale, di scarso o minor successo di pubblico e critica. Nel frattempo, dalla metà dei 50’, scriveva i primi reportage di viaggio, passati però sotto silenzio. Nel 1965 pubblicava Il padrone90, secondo grande successo di pubblico e di critica, che gli riservò però anche forti polemiche. Con quest’opera Parise è insieme dentro e fuori lo spirito del tempo: ne è dentro, perché alle soglie dell’avvento in Italia della società neocapitalistica, scrive un testo - feroce, grottesco, con tratti sperimentali - di denuncia dell’iperconsumismo, della disumana gerarchizzazione degli individui, della riduzione delle persone a merci; ne è fuori, perché il genere adottato è una palese sfida apparentemente di retroguardia – all’ormai proclamata fine non solo del romanzo ma della letteratura tout-court; e a seguire, una sfida alla neoavanguardia, che in Italia ne era la rappresentanza teorica e artistica. Senza aver cessato di sorprenderci, su limitare del decennio della contestazione mondiale, nel 1966 Goffredo si recava in Cina, che racconterà da uno dei suoi reportage più famosi, Cara Cina. Il nostro autore non era interessato a conoscere la Rivoluzione Culturale in sé, in ossequio alle tendenze ideologiche e simpatie rivoluzionarie allora correnti, tutt’altro: voleva invece indagare la natura dell’altra grande società consumistica al mondo, oltre la statunitense, quella narcotizzata dalle ideologie piuttosto che dalle merci. Nel 1967 viaggiava in Thailandia,

89 Goffredo Parise, Il prete bello, Milano, Garzanti, 1954; ora in OPERE I, pp. 299-552. 90 Id., Il padrone, Milano, Feltrinelli, 1965; ora in OPERE I, pp. 833-1073.

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Cambogia e soprattutto Vietnam del Sud, come reporter di guerra al seguito delle truppe americane, con le quali rischiò la vita in prima linea in diverse occasioni. Tratteggiò vietcong e americani in modo acuto e da un personalissimo punto di vista, fuori dagli schemi come sempre: attirandosi, inevitabili, le critiche ironiche - fra tante altre - di N. Chomsky. Nello stesso anno visitava Cuba insieme a Giangiacomo Feltrinelli, Valerio Riva e Rossana Rossanda, lui così refrattario a velleità rivoluzionarie. Nella primavera del Sessantotto era addirittura a Parigi insieme a Nanni Balestrini, lui così anticonformisticamente scettico e contestativo rispetto alla contestazione: tanto da essere giudicato ormai, dalla critica, un’icona intellettuale irregolare parallela a quella di Pier Paolo Pasolini. Nel luglio 1968 raggiunse il Biafra, in preda alla guerra con la Nigeria e all’orrore di un sistematico genocidio annunciato. L’aereo della Caritas Internationalis su cui volava fortunosamente passò indenne il fuoco della contraerea nigeriana. La testimonianza che Parise riportò di quell’esperienza tragica fu una delle poche a livello mondiale, come sempre coraggiosamente critica e in controtendenza. Nel 1972, nel decennio della politica, delle ideologie, anche del piombo nelle strade, Parise pubblicava il Sillabario n.191, un testo scandalosamente - per il contesto storico incentrato sui sentimenti e sulla loro rievocazione. Venne accusato di disimpegno e di conservatorismo: Parise divenne quello del caso Parise. Nel 1973 si recava come inviato nel Cile post golpe, e nel medesimo anno ne pubblicava il relativo reportage: e l’occhio che indagava sul paese sudamericano non era certo quello di un conservatore. Nel 1975 visitò New York - di cui tratterà nell’omonimo reportage del 1976 - che i suoi occhi non videro come la capitale mondiale della disco music, ma, semmai, del consumismo come ingorda macchina divoratrice. Con l’ingenuità e l’impulsività sue

91 Id., Sillabario n. 1, Torino, Einaudi, 1972; ora in OPERE I, pp. 196-314.

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consuete, si infatuò del fenomeno dei graffiti e dei loro autori, in anticipo sui tempi a venire. È il 1975: gli viene assegnato in Campidoglio il prestigioso premio “Gian Gaspare Napolitano” per il reportage dal Cile: finalmente un alto riconoscimento ufficiale anche per il Parise reporter. Nel 1980 visitò il Giappone, di cui narrerà negli articoli pubblicati nel 1981 sul «Corriere della Sera »: fu una scoperta e un’esperienza fulminante, questa della «perla », del «diamante nero » d’Oriente, di nuovo in anticipo sui tempi. Nel 1982 pubblicò Sillabario 292, che gli varrà il premio Strega93. Dunque un itinerario, questo di Parise, sicuramente spiazzante. Fuori da ogni cliché e modello comodo e pronto all’uso. Spesso paradossale. D’altronde, ho già avuto modo di accennare, nel capitolo precedente, alla stessa difformità della sua storia biografica. Goffredo nasce figlio “illegittimo” a Vicenza nel 1929, da madre orfana precoce dei genitori e adottata da quelli che furono i nonni dello scrittore: evidentemente, una condizione di slittamento biologico e biografico scritta nel biodestino della sua stirpe. La sua condizione di illegittimità biografica lo poneva nella situazione paradossale di vita sì nata ma negata, respinta nello stesso istante. In Arsenico94, ultima opera pubblicata in vita, e testo atrabiliare e rabbioso, il protagonista è un feto (in proiezione, Parise pre-nascita) che pensa al suicidio. Giunge luce stellare sì, ma la fonte è già buia, o se ne chiede la soppressione. Se in Goffredo, all’anagrafe Bertoli, l’illegittimità psichica rimase un vulnus irredimibile per l’intera esistenza, viceversa l’illegittimità biografica fu sanata allorché,

92 Id., Sillabario n. 2, Milano, Mondadori, 1982; ora in OPERE I, pp. 315-512. 93 Cfr. la sezione Cronologia in OPERE I. 94 Goffredo Parise, Arsenico in OPERE II, pp. 535-560.

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sposata la madre Ida Bertoli nel 1937, il giornalista Osvaldo Parise lo adottò come figlio legittimo nel 1943. Fu un evento epocale nella vita di Goffredo: insieme al cognome, il padre Osvaldo gli portò in dono eccitanti letture serali dei libri avventurosi di Salgari potente innesco in una personalità già predisposta a fantasticherie e sogni - e l’ingresso facilitato nel mondo del lavoro giornalistico, con l’inizio nel 1950 della sua collaborazione al quotidiano «Alto Adige»95. Ebbe così inizio quell’attività giornalistica di Parise - conclusasi solo con la morte nel 1986 - che lo vide lavorare come redattore, inviato speciale, reporter di guerra nelle

redazioni

più

diverse:

«Arena»,

«L’Illustrazione

italiana»,

«Corriere

d’informazione», «Settimo Giorno», «L’Espresso», «Corriere della Sera»96. Presso le diverse testate Parise fu revisore di manoscritti e traduzioni; pubblicò ininterrottamente racconti; scrisse elzeviri; pubblicò corrispondenze di viaggio e reportage di guerra; curò rubriche di impegno civile e dialogo epistolare con i lettori. In ogni caso, un’attività parallela e preponderante rispetto a quella di scrittore puro. E fu proprio l’impegno giornalistico a intensificare e direzionare la già precoce passione parisiana per il viaggio. Sin da giovane infatti iniziò a spostarsi di città in città (Vicenza, Venezia, Milano, Roma, Salgareda, Ponte di Piave), cambiando decine di affittacamere e pensioni, e abitando molte case diverse. Ma viaggiò anche, per piacere o per lavoro, in molti paesi e continenti (Europa, America del Nord e del Sud, Asia, Africa). E come la luce stellare differita, spessissimo Parise raccontò il luogo appena lasciato dalla successiva destinazione eletta: C’è e ci sarà sempre in lui uno slittamento tra luoghi scritti e luoghi

95 Cfr. la Cronologia in OPERE I. 96 Cfr. le schede relative a Goffredo Parise in Giornalismo italiano, a cura di Franco Contorbia, Milano, Mondadori, 2009, vol. III, pp. 1839-40; vol. IV, pp. 1900-01.

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vissuti, una non coincidenza. Anche i reportage, che sembrano così diretti, sono spesso scritti a viaggio finito, a casa, con l’aiuto degli appunti e del ricordo ancora vivo97.

D’altra parte, fu Parise stesso a delineare l’orizzonte della poetica e i criteri estetici da cui originavano i suoi reportage. Lo scrittore parlava infatti di un brivido, di un «frisson» di cui aveva bisogno, come di una scossa necessaria per il processo di scrittura, che fosse insieme sia ispirazione estetica che tensione sentimentale e intellettuale verso la conoscenza dell’altro da sé. Non solo. Precisava, senza ombra di dubbio, che i suoi reportage, genere giornalistico deputato alla comunicazioni di dati di paesaggio o di fatti o di umanità, nascevano in realtà sotto il crisma del romanzo, dunque della finzione artistica. Sarà bene a questo punto fare riferimento alle due fonti, famose e sistematicamente citate, nei quali Parise dichiarava le sue scelte artistiche: […] Trascorsa l’estate, in ottobre [1973, N.d.A.] Parise parte per il Cile dove analizza il golpe e l’instaurazione del regime dittatoriale di Pinochet. Ritorna passando per il Perù e in novembre pubblica il suo reportage sul «Corriere della Sera ». In una lettera a Gaspare Barbiellini Amidei [direttore del «Corriere della Sera », N.d.A.], giustifica il ritardo nell’invio degli articoli: «Sono partito, mi sono molto stancato, ho aspettato un momento, ho scritto, ora vi posso dire che vi mando un materiale che mi soddisfa, come un buon artigiano. Non cosa fare di più: per me nulla è “routine” e tutto deve avere un “frisson” interiore che è ciò che ha fatto dei miei viaggi precedenti qualcosa di modestamente diverso da altre produzioni artigiane»98. Un giornalista generalmente sente il bisogno di comunicare quello che ha visto. È il suo mestiere. Io in un reportage mi esprimo come in un romanzo. Per me reportage e romanzo nascono nello stesso modo, da un’idea, che al principio è molto semplice, magari una piccola notizia letta su un giornale. Il reportage è un romanzo, con una situazione in cui lo scrittore è il protagonista99.

È qui, nei reportage, che il nodo bio-psichico, il bisogno di azione, la creatività fantastica e avventurosa, lo stile leggero e sognante, la personale interpretazione di

97 Silvio Perrella, Fino a Salgareda, cit, p. 35. 98 Cfr. la Cronologia in OPERE I, p. LX. 99 Manlio Cancogni, L’odore casto e gentile della povertà. Conversazione con Goffredo Parise, in «La Fiera Letteraria», n. 34, 22 agosto 1968, pp. 16-17.

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impegno, la tensione civile, l’empatia con l’altro, si incontrano e cortocircuitano, donando quello stato di autentica grazia mediante il quale, davvero, consegna a noi fruitori perle artistiche di rara bellezza, efficacia espressiva, adesione emotiva, acutezza interpretativa e coraggio prospettico. Ed è proprio in base a queste considerazioni che stupisce il fatto che, a trent’anni ormai dalla morte dell’autore, e salvo poche voci di cui riferiremo più avanti, la saggistica non abbia ancora adeguatamente e sistematicamente messo a fuoco né l’importanza né la valenza estetica di questi scritti. Certo: è innegabile un progressivo avvicinamento della critica in direzione degli scritti di viaggio e guerra. Gli studiosi che, negli ultimi vent’anni circa, si sono cimentati con l’opera di Goffredo Parise - e penso in particolare a Silvio Perrella, Franco Marcoaldi e Gaia De Pascale, ma non solo – hanno man mano centrato e affinato la messa a fuoco sulla scrittura dei reportage rispetto al resto della produzione: riconoscendole, finalmente, un valore artistico unico e altissimo, a prescindere dal genere letterario specifico; sottoponendola a interpretazioni via via più acute, profonde e innovative tendenti a identificarla sempre più come nodo fondamentale rispetto alla vita biografica, psichica e letteraria dell’autore; e infine, restituendole, se non sempre una posizione di centralità, quantomeno un ruolo primario, costante e ricorrente - di vero e proprio leitmotiv - all’interno dell’opera dello scrittore. Delegando al paragrafo successivo la trattazione dei reportage secondo le caratteristiche appena definite nodo fondamentale e leitmotiv, indaghiamo ora l’aspetto del riconosciuto e pieno valore estetico di queste opere. E a suffragare ed esemplificare quanto esposto, cominciamo facendo parlare la saggistica. Impossibile non iniziare dalla memorabile definizione di Marcoaldi, secondo

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cui Parise «[…] gira il mondo intero scrivendo reportage di inarrivabile bellezza»100. Una testimonianza, questa, che al momento rimane l’unica che assegna un così alto livello estetico all’intero corpus dei reportage. Di pochi anni precedente è l’osservazione di Rolando Damiani, secondo il quale: […] L’inviato speciale Parise è un romanziere dimidiato, un giornalista con il cuore e la mente dello scrittore. […]Nei resoconti dei grandi viaggi asiatici, iniziati con la visita della Cina all’epoca della Rivoluzione culturale e conclusi con il tour giapponese del 1980, Parise propone come motivo conduttore la nozione di uno stile, concepito come supremo valore101.

E puntuali e coinvolgenti sono le precisazioni di Perrella - uno dei critici che più hanno “frequentato” Parise negli ultimi vent’anni - che ad inizio del nuovo millennio scrive: In

una straordinaria intervista al generale William Childs Westmoreland, comandante supremo delle forze americane in Vietnam, Parise dà in questo senso il meglio di sé, trovando il punto di sintesi tra l’immaginazione romanzesca e la realtà[…]102. La scrittura vola via dalla pagina, in stato di grazia: i sensi, l’immaginazione, il ricordo di un’artista amato, sono tutt’uno con lo stile che Parise ha ormai in pugno103.

E sempre Perrella, citando in una pagina successiva Alberto Arbasino, ci consegna un’ulteriore e decisa testimonianza critica: «Quando la buona letteratura si trovò in una impasse Goffredo partì per le guerre politiche e ideologiche degli anni Sessanta e Settanta come i migliori inglesi e americani degli anni Trenta. E con analoga eleganza nel coraggio scrisse reportage magnifici specialmente dal Vietnam104 ». Saggiamo ora direttamente alcuni esempi di scrittura di viaggio di Parise, per

100 Franco Marcoaldi, Prove di viaggio, Milano, Bompiani, 1999, p. 171. 101 Rolando Damiani, Alla ricerca dello stile: Parise reporter in Asia, in Goffredo Parise, a cura di Ilaria Crotti, atti del Convegno svoltosi tra il 24-25 maggio 1995 a Venezia, Firenze, Olschki, 1997, p. 102. 102 Silvio Perrella, Fino a Salgareda, cit., p. 77. 103 Ivi, p. 80. 104 Ivi, p. 84.

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avere evidenzia immediata del loro carattere sì documentaristico ma soprattutto artistico e narrativo. Nel 1954 la rivista «L’Illustrazione italiana» gli pubblicava lo scritto Il ghetto di Venezia105, la descrizione di una passeggiata dello scrittore nei meandri di quello che considerava uno dei cuori più antichi e suggestivi, ma anche misconosciuti, di Venezia. Sulla mia attribuzione del testo al genere reportage, discordante rispetto alla vulgata critica che lo definisce semplice descrizione di luogo, rimando al sottoparagrafo I.3.1. Leggiamone alcuni passi significativi: C’è un luogo a Venezia, dove neppure i turisti stravaganti si inoltrano; i passanti non lo attraversano perché non c’è ragione di compiere quell’inutile giro quando la «strada Nova» mena dritto a Rialto, senza labirinti e tortuosità; quegli stessi veneziani che tutto sanno della città, che scovano angolini e bassorilievi in pietra veneta nelle cantonate, palpandone gli interstizi consunti e lucidi con le dita della mano e della fantasia, di rado lo menzionano, o se lo fanno, esso risulta come un’appendice lontana, imprecisa della città. Questo è il ghetto, quel gruppo di edifici disposti a giro di catena, che un tempo fu stabilita forzosa dimora degli ebrei in Venezia[…]. Perché allora non scendere quei gradini del Ponte delle Guglie e poi, d’un tratto, ridurre più leggeri e titubanti i propri passi, […] per infilare, rapidi, quel sottoportico che entra nel regno degli ebrei? […] Già i passi si saranno fatti misteriosi, felpati come lo zampettare dei gatti funamboli che fanno da guida in quella penombra coi bagliori verdastri degli occhi, e i siamesi con lampi rossi nelle iridi dove il tramonto filtra in lamelle di sangue. […] Non sarà difficile in certe ore del sabato udire alle spalle un canto diffuso, dalle inflessioni orientali nel timbro delle voci, un canto che si riprende continuo, come in una scatola musicale, nell’interno della sinagoga. La figura dello “shammash” il cerimoniere, si aggira nell’interno, con quei suoi occhi scuri, umidi e languidi, dove si specchia, immobile e misteriosa, la solennità di una stirpe; le sue mani accostano con morbida lentezza gli scuri, lisciano l’antico rotolo di una Bibbia, accendono una candela in un bagliore rossastro che illumina il giro oblungo degli occhi, dove, all’improvviso, scintilla, tremolante, il riflesso dell’oro. Questi stessi ebrei che abitavano lassù quasi a contatto col cielo, a tale altezza da poter scorgere i bagliori del mare e i galeoni giungere da Levante, quegli stessi scendevano al sabato e nei giorni delle feste, dai tuguri; infilavano rapidi la porta tarlata del tempio dei Levantini o quella massiccia della sinagoga spagnola dei Ponentini e sedevano devoti negli scranni, circondati d’oro, ad ascoltare la voce d’Israele. Ora i banchi sono scomparsi: di essi non resta che la traccia, […]

105 Goffredo Parise, Il ghetto di Venezia, in «L’Illustrazione italiana», maggio 1954, pp. 67-70.

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annusando un sentore di muffa che invita la fantasia a udir suoni, lo struscio dei ducati nelle mani di uomini barbuti e bisbiglianti. Pure anche a desso […] si può toccare dalla finestra la cupola del tempio “Canton” e si può scendere sui tetti e girare attorno ad essa, e raggiungere altri tetti, altri abbaini e cupole, con una sensazione sconcertante e insolita che vi afferra, come se vi trovaste ad un tratto, sottomano, il paesaggio e gli oggetti di un sogno106.

Consideriamo che a quest’altezza Parise è in una fase ancora acerba della sua carriera letteraria: nel 1954 ha venticinque anni, alle spalle i due suoi primi romanzi giovanili Il ragazzo morto e le comete (1951) e La grande vacanza (1953), veri insuccessi di pubblico, ma autentici successi per la critica, considerati a posteriori due sorprendenti esordii letterari, precoci per qualità e originali. Questa acerbità dello scrittore è ravvisabile, per esempio, anche, nella presenza di ripetute descrizioni didascaliche, in particolare nella parte centrale del testo: Parise non ha ancora trovato l’equilibrio giusto tra figurazione artistica di pertinenza dello scrittore ed esigenza descrittiva puntuale e dettagliata di ambienti e persone propria del giornalista puro. Ma i passi presi in considerazione sono già un piccolo miracolo, tenuto conto della precocità dello scritto. Non c’è nulla di oleografico. La scrittura è fluida e segue il fluire della sua flânerie. La scrittura ci cattura in modo inconsapevole trasformandoci in altrettanti passeggiatori che ripercorrono l’itinerario dei passi compiuti da Parise, mentre il suo sguardo diviene la nostra veduta. E ciò, in modo inconsapevole: ovvero, senza darci a vedere l’artificio dell’arte. Può sembrare una poetica datata, regressiva, quella di un processo artistico che crea dietro le quinte, presentandosi con quella “naturalità” che proprio nel Novecento sarà deprecata e perfino rasa al suolo dalle Avanguardie. Ma a un’indagine più riflessiva e sottile ci accorgiamo che Parise compie il procedimento inverso: con movimento centripeto, collassa la realtà nel gorgo dei suoi

106 OPERE I, pp. 1395-1403.

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sensi, del suo immaginario, del suo mondo affettivo e intellettivo; quindi, avvenuta l’elaborazione personale, secondo un processo centrifugo estroflette nella scrittura la sua individuale e personalissima visione del reale. A questo riguardo ricordo quanto il prof. Pedullà, durante le sue lezioni, amava precisarci: nel Novecento, «i migliori realisti hanno le visioni». Parise distanzia luoghi e persone, calandosi nel riabilitato ruolo di flâneur di memoria fine ottocentesca, che passeggia con il privilegio di una quasi estraneità in un luogo semi sconosciuto a tutti gli altri: abitanti, viaggiatori, turisti. L’estraneità contrassegna come mondo ignoto la realtà esterna, attivando un processo di esplorazione secondo i connotati dell’avventura seppur condotta in un angolo ristretto e conosciuto di una città nota. Soprattutto e più importante, avvia un’esplorazione che è elaborazione e proiezione personale sul reale: come scrive Angelo Pellegrino, «nell’età postmoderna non c’è più molto da “riportare”. Viaggiare, o è transfert, o non è più nulla»107. Da ultimo, è da rilevare, già a questa altezza della produzione dei reportage, la presenza di una costellazione di parole e immagini, un vero e proprio personalissimo lemmario di Parise, che apparso già nei due romanzi giovanili ritroveremo arricchito, ricorrente e più o meno diffuso nell’intera produzione dello scrittore: nei reportage, nei romanzi, negl’innumerevoli racconti. Un lemmario che chiameremo per comodità di fantasia sognante, tutto insistito sui temi del sogno, dell’esotico, del fantastico, dell’avventura, del mistero, polarizzante fenomeni, situazioni, oggetti e tutto ciò che Parise ritiene pregnante riferire a queste aree semantiche: labirinti, fantasia, misteriosi,

107 Angelo Pellegrino, Verso Oriente. Viaggi e letteratura degli scrittori italiani nei paesi orientali (1912-1982), Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1985, p.177.

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bagliori verdastri (degli occhi), lampi rossi (nelle iridi), (lamelle) di sangue, inflessioni orientali, bagliore rossastro, riflesso dell’oro, bagliori del mare, i galeoni giungere da Levante, circondati d’oro, sentore di muffa, tetti, abbaini e cupole, sogno. Aree semantiche e lemmario, che altro non sono che l’epifania dell’immaginario esistenziale e poetico dello scrittore. Nel maggio 1970 Parise si reca in Laos come reporter di guerra, e ne scrive in una serie di articoli pubblicati sul quotidiano «Corriere della Sera» da maggio a luglio del medesimo anno108. Prima di delineare sinteticamente questo secondo reportage, risulterà ancora una volta illuminante, ai fini del nostro lavoro, riportare quanto Parise scrive nel 12 marzo 1967 in una lettera da Saigon a Giosetta Fioroni, che conferma un continuum creativo con la poetica adottata nella scrittura di viaggio nel reportage precedente: Ho girato come una trottola e materiale ce n’era per un libro, la difficoltà stava nel costringere questo materiale e al tempo stesso nel non fare del reportage eccessivamente giornalistico, cioè dati, enunciazioni, eccetera, insomma superficialità. L’importante è dare sempre l’odore, il sapore delle cose: e questo è dato magari da poche righe e da pochi particolari. Staremo a vedere se ho scelto quelli giusti. Credo di sì109.

A differenza de Il ghetto di Venezia, che è la descrizione della passeggiata di un solitario flâneur, in questo reportage (ma in realtà tali caratteristiche erano già state sperimentate in precedenza) lo scrittore intreccia le descrizioni di luoghi e persone, con le trascrizioni di dialoghi intercorsi con alcuni personaggi della popolazione locale, e con sue riflessioni personali etiche ed emotive. Di conseguenza, il reportage ne risulta di una bellezza più efficace e completa, più umanamente profondo, più toccante in quanto

108 Goffredo Parise, Laos in Goffredo Parise, Guerre politiche. Vietnam, Biafra, Laos, Cile, Torino, Einaudi, 1976. [Laos raccoglie gli articoli pubblicati su «Corriere della Sera» il 17, 26, 28 maggio; il 2, 16, 29 giugno; il 6 luglio 1970]. 109 Cfr. il capitolo Guerre politiche nella sezione Notizie sui testi, a cura di Mauro Portello, in OPERE II, pp. 1660.

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a riflessione del pensiero e ad esposizione emozionale. Esaminiamone alcuni passi particolarmente rilevanti: Basta vedere città come Bangkok, Saigon, con la loro pazza e dissociata esplosione di American way of life (asiatica però), il loro ibrido e tattile rapporto con i Gordon Flash americani, simili ad abitanti di un pianeta stupefatto; i loro nuovissimi grattacieli sorti accanto a casupole di legno, alveari di cubicoli per “bagni e massaggi” traboccanti di schiuma badedas; i loro bar pullulanti di stupende contadine asiatiche trasfigurate da hippies, le loro strade popolate di minuscoli e micidiali lustrascarpe che propongono di lustrare almeno una scarpa, come in una immensa e atomizzata Napoli 1943[…]. In basso, dentro gole che serpeggiano nel fondo della valle, si intuiscono lenti corsi d’acqua che improvvisamente si aprono alla vista in larghe anse stagnanti e nebbiose di zanzare. Quando la foresta, di colore uniforme e come polveroso, si squarcia, allora appaiono illuminate valli ricoperte della peluria verde e tenera delle piantine di riso[…]. A quelle ventate di luce vedo ragazze vietnamite, lucenti di lunghi capelli e di satin nero, ridere sotto il cappello conico ed eclissarsi pigolando nella boscaglia armate di fucile mitragliatore. Ma è necessario stabilire (se il destino lo vuole) quella non programmabile unità di misura che si chiama simpatia; e che nessuna ufficialità o burocrazia al mondo (salvo in Cina) riuscirà mai ad estirpare dal cuore degli uomini. Attraversiamo ruscelli su piccoli ponti fatti con i contenitori di bombe a biglia, sorta di grossi serbatoi che si aprono come un libro[…]. Essi sono ogni giorno in contatto, diciamo così tattile, con i residui di strumenti, con la scritta made in Usa, che servono a portare la morte.[…] Prima di vedere coi propri occhi quel metallo e quella scritta quel contadino non sapeva nulla dell’America[…]. «Ci vorrebbe la televisione » mi dicono, la «la guerra si vincerebbe prima. Ma chissà quando l’avremo, poveri come siamo ». Questo mi fa riflettere rapidamente alle condanne contro i mass media di tanti conservatori illuminati nostrani e lo dico ai miei ospiti. Dalla risposta ho una prova in più, se mai fosse necessaria, che il cammino dell’uomo, quale che sia, è irreversibile. «Ma come!» esclamano in coro, «la televisione è una grande rivoluzione moderna» e «aggiungono», «se usata secondo la una linea ideologica giusta.». «Mi chiamo Souvane Phomali, ho trentatré anni, sono sposata con tre bambini, una femmina di tredici anni, un maschio di undici e un’altra bambina di tredici mesi. I primi due non li vedo da tre anni perché studiano ad Hanoi. La più piccola è con me in ospedale. Mio marito è commissario politico e sta con i combattenti nel basso Laos. Viene a trovarmi una volta all’anno, come? A piedi.[…] Finché ero al villaggio non sono mai andata a scuola. A dieci anni ho conosciuto i partigiani che combattevano i francesi[…] sono andata con loro[…]. Ho lavorato prima come portatrice, poi come agente di collegamento, poi sono entrata nel dipartimento politico[…] Dopo la laurea…al fronte una altro anno, come chirurgo negli ospedali da campo. Alla fine del’67 sono tornata e ora dirigo il reparto maternità». Torniamo all’ospedale e al giovane direttore: «Vede, io sono stato a Parigi e Mosca… e specialmente a Parigi, mi sentivo non soltanto straniero, ma inferiore, e mi vergognavo del mio Paese. Non perché asiatico ma perché il mio Paese è povero, sottosviluppato, fino a pochi anni fa asservito agli stranieri e dunque nella condizione di non contare nulla e di non essere rispettato all’estero. 90


Mi chiedevo: […] che cosa ci impedisce di diventare un paese libero e moderno? […] Mi sono risposto: ce lo impedisce, ora che è indipendente l’immobilità secolare delle tradizioni, insomma[…] la nostra cultura, che sarà una grande cultura, ma non è una cultura scientifica e tecnica. Questo tipo di cultura, che l’Occidente possiede, è nelle mani sia dei paesi capitalisti, sia dei paesi socialisti. Sono ritornato nel mio Paese.» Una teiera sta nel mezzo del tavolo, con quattro tazzine minime disposte ai lati con calcolata simmetria, il piattino con il pacchetto di sigarette aperto, un mazzetto di fiori colti ora, in un bicchiere. Accoglienza che si incontra dovunque (è d’uso, anche se non ci sono stranieri) e che rende così irresistibile e perfino tenero il non tenero comunismo asiatico. Il mio soggiorno tra i partigiani del Laos è finito. Questa è l’ultima sera e mi dispiace molto andarmene. Dispiace alla mia guida e interprete… Alle mie due guardie del corpo, umilissimi soldati che non mi hanno abbandonato un istante e che dormivano con un occhio solo per badare a me. Un anticomunista arrabbiato direbbe: per sorvegliarmi. Ma non è vero: cosa avrei potuto fare senza di loro, non conoscendo il terreno, la foresta, la lingua? Sarei rimasto nella mia grotta senza muovermi. Dunque non mi sorvegliavano, ma badavano a me. Dispiace anche alla dolcissima infermierina che mi seguiva con una pesante cassetta a tracolla, piena di ferri chirurgici, garza e iniezioni. Le ho regalato una borsetta che avevo portato dall’Italia, oggetto che lei non aveva mai visto, e mi sono anche vergognato per questo regalo[…]. Ma dispiace soprattutto a me. Una barriera non ideologica ma, come dire, logica dovrebbe ergersi tra me e loro. Invece non è così, né per me né per loro; anzi, al contrario, loro provano per me (per essermi inerpicato fin quassù dopo aver percorso parecchie migliaia di chilometri) e io provo per loro un sentimento profondo e semplice che è l’affetto. Io ho provato per loro svariatissime gamme di questo sentimento: l’affetto fraterno, paterno l’amicizia, la protezione, la riconoscenza, il rispetto, la stima, l’ammirazione, l’orgoglio e perfino quel po’ di invidia senza la quale l’affetto non acquista “tempi lunghi”. Ho imparato che, alla fine di un viaggio, non sono i “dati”, le “informazioni” o la ragione analitica che contano, bensì sempre e soltanto il sentimento che si prova verso gli uomini e le cose che l’occasione, e ancor di più il caso, ci ha fatto incontrare. Il resto, tutto il resto, di cui scorrono vani e presuntuosi fiumi di inchiostro, non conta nulla110.

Nelle descrizioni, in particolare di luoghi e situazione, Parise conferma la fluidità di scrittura, che mantiene sinuosità ritmica, forza icastica nelle immagini e profondità improvvise nell’espressività, tutte caratteristiche che nella loro integrazione e declinazione tipica dello scrittore donano allo stile una visione leggermente sognante, seppur nitida ed esatta. Pur confrontandosi qui con una realtà fatta concretamente di situazioni (la guerra, i dialoghi) e cose (oggetti bellici, ospedali, rifugi) che meno si

110 OPERE II, pp. 913-966.

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prestano a rielaborazioni fantastiche, tuttavia l’autore non rinuncia comunque a fletterne la visione verso una prospettiva di meraviglia e di sospensione, di parziale sogno. In alcune descrizioni di dialoghi ritroviamo quella marca didascalica che evidenziavamo a proposito de Il ghetto di Venezia: ma Parise, a quest’altezza, non è più in una fase di acerbità artistica, e la scelta stilistica è evidentemente voluta, consapevole; e d’altra parte, le precisazioni giornalistiche di dati e fatti contenute nelle interviste ai personaggi sono necessarie a fornire lo sfondo, il contesto e il rilancio del processo di narrazione. Attraverso di esse, Parise rallenta per un momento il ritmo narrativo e indirizza la messa a fuoco su informazioni e situazioni emotive che preparano e innescano le successive proiezioni dello scrittore: coinvolgenti atmosfere e raffigurazioni d’ambiente, ma soprattutto toccanti ed esemplari considerazioni umane, sentimentali, etiche. Questo aspetto della commozione sentimentale - che non scade mai nel sentimentalismo, perché rimane per così dire illuministica, un’empatia sì emotiva ma insieme del pensiero - è un tratto fondamentale che connoterà progressivamente i reportage (e non solo a partire da quelli di guerra ma già precedentemente) in modo distintivo rispetto alle altre opere e generi della produzione dell’autore. Non solo: lo stato commotivo si manifesta spesso in un tutt’uno con la tensione etica e le posizioni ideali e storiche, dando luogo a quella personalissima, inimitabile, e sola possibilità di essere impegnato appartenente a Parise. E analogamente a quanto riscontrato ne Il ghetto di Venezia, qui in Laos, come in altri reportage similari, la prospettiva di commozione sentimentale congiunta a tensione etica dà luogo a un ulteriore e parallelo lemmario, un arcipelago semantico centrato su un’area di temi pertinenti: sentimento, (provare) affetto, fraterno, amicizia, 92


protezione, riconoscenza, stima, ammirazione, accoglienza, tenero, dispiace, umilissimi, badare, dolcissima, (mi sono) vergognato, (mi) sentivo inferiore, simpatia, cuore, (ventate di) luce, ragazze lucenti (di lunghi capelli), ridere, pigolando, (peluria) verde (e) tenera (delle piantine), pazza (e) dissociata, stupefatto, (pullulanti di) stupende contadine, (popolate di minuscoli e micidiali) lustrascarpe. Concludo questa prima e breve rassegna dei reportage, condotta secondo l’angolazione del valore estetico, e articolata in modo da coprire l’intero arco temporale della carriera parisiana (dagli inizi negli anni Cinquanta, alla piena maturità di fine Sessanta, fino ad arrivare agli anni Ottanta), con il testo L’eleganza è frigida, il reportage del viaggio compiuto dallo scrittore in Giappone nel 1980 e pubblicato due anni dopo111. Leggo alcuni passaggi: La notte parve estremamente silenziosa a Marco, che dormì di un sonno al tempo stesso felice e lontano, simile a quelli delle convalescenza o della salvezza. Questa era infatti la speranza di Marco nel lasciare il paese della Politica [l’Italia], sconvolto per millenni da furti, ricatti e assassinii, e questo il nuovo stato d’animo che lo accompagnò per tutto il tempo del suo soggiorno in Giappone […]. In quella atmosfera estremamente rarefatta e pura, di estetismo botanico, dove colori, acque, muschio, foglie e alberi nani si sposavano con un perfetto silenzio appena rotto dai tuffi giocosi delle enormi carpe, Marco vide il giardiniere, in mezzo al prato verde e perfettamente rasato […]: con il suo modo di inchinarsi, un brevissimo, fulmineo inchino di incredibile eleganza in quel corpo piccolo e magro, mise quasi in soggezione Marco per il grande stile che emanava dalla sua persona[…]. Egli era il creatore di quel giardino e, così come i suoi progenitori […], aveva assunto fisicamente e spiritualmente l’arte del giardino con lo stesso estetismo di un lord un po’ maniaco in un giardino inglese […]. Marco capì immediatamente [che] si trattava di un paese non soltanto molto lontano fisicamente e geograficamente dal paese della Politica ma da tutti quei paesi occidentali (cioè veramente quasi tutti) che credono nella materia e non nello spirito […]. Sia il traffico sia il rumore del traffico non si notavano e non disturbavano lo stato d’animo calmo e allegro di Marco che era attento a guardare e a sentire ogni caso attraverso i sensi, il primo e sempre più utile strumento di conoscenza per un viaggiatore come lui che, come è noto, era partito da Venezia ed era giunto in Cina tra mille avventure e peripezie […].

111 Goffredo Parise, L’eleganza è frigida, Milano, Mondadori, 1982.

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A Marco insomma parve di cogliere in quegli sguardi, del resto molto belli, e solo per fulminei istanti, la coscienza di una profonda diversità non soltanto culturale ma razziale. Ma ciò che colpì Marco sopra ogni cosa erano la gentilezza delle persone e l’inalterabilità del loro volto che lasciava trasparire tuttavia l’emozione soltanto dagli occhi […]. Gli occhi dei giapponesi, che ho davanti ai miei, pure non facendo trasparire nulla, fanno sentire molte cose che si potrebbero riassumere in un solo sentimento: la timidezza infantile. Questo fatto piacque molto a Marco che, anche lui, nonostante la fama che lo aveva accompagnato per secoli, era timido, infantile, curioso e dunque si sentiva a proprio agio. Vide poi un ombrellaio […]. Si fermò per osservarlo nel lavoro e fu ammirato dalla precisione microscopica con cui l’operaio in chimono lavorava. Era una precisione artigianale antichissima, che del resto Marco trovò anche in altri operai e muratori che lavoravano poco più avanti a disporre piastrelle su un pavimento. Anche quelli mostravano la stessa precisione anche se si trattava di lavoro moderno e si sarebbe detto che gli uomini lavoravano spinti da un sentimento in qualche modo amorevole verso quel pavimento come fosse di loro proprietà […]. Marco […] si avvide immediatamente che, per quanto raffinata, la cucina cinese risultava quasi grossolana in confronto ai sapori giapponesi. Gli parve così, da quello che aveva visto fino a quel momento, che il Giappone, nel suo insieme, fosse una derivazione della Cina, ma una derivazione estremamente perfezionata e portata ai più alti gradi termici dell’estetismo. Come un vetro dentro un altoforno nell’istante della sua massima fusione. Quel cibo, disposto sul quel tavolino a vassoio [...], nella sua fattura a incastro, era frutto di estetismo: mentre la disposizione dei bocconcini era perfezionismo […]. Lo stile, sia cinematografico che letterario, era un esercizio quotidiano […] Dovunque, e sempre mischiate alle nuove costruzioni di cemento e acciaio, sorgevano vie non più grandi delle calli veneziane […]. Passati alcuni giorni Marco cominciò ad abituarsi al nuovo paese d’Oriente e alla città di Tokyo, sua capitale, ma era come abituarsi a un altro tipo di ossigeno che dava l’ebrezza […]. Altri ancora stavano curvi al loro lavoro e sorridevano con rapidi e scattanti inchini rivolti anche a colui con cui parlavano al telefono […]. Marco si fece l’idea di un ordine gerarchico e burocratico trasmesso geneticamente […]. Il comportamento doveva avere un’importanza capitale nella vita di quel paese e infatti Marco venne a sapere che esisteva un comportamento linguistico molto strano, basato sul rapporto inferiore-superiore. Esisteva cioè una struttura grammaticale per parlare con un superiore e un’altra, completamente diversa, con un inferiore e ancora un’altra se ci si rivolgeva invece a un familiare di pari grado come ad esempio un fratello o una sorella […]. Tutti questi non erano che alcuni esempi […] ma bastarono a far capire a Marco come fossero difficili e complicati per lui i rapporti tra le persone e dunque, di conseguenza la psicologia […]: il vero problema non era quello linguistico ma, appunto, quello psicologico. Infatti, come si fa a capire chi è il superiore e chi è l’inferiore senza i gradi gerarchici? E che il problema psicologico, esistendo da entrambe le parti, poteva diventare una consuetudine di formalismo, ma tra giapponesi e stranieri doveva costituire un vero rompicapo. Questo accadeva per esempio e in modo elementare quando Marco cedeva il passo alle signore, com’era stato educato, ma le signore giapponesi erano state educate a cedere il passo agli uomini, così che alla porta scorrevole di un ascensore o davanti a qualunque entrata si formava una specie di saltellio reciproco 94


che metteva tutti i presenti di buon umore […]. In realtà ci volle poco a Marco per capire che la comunicazione occidentale, in confronto a quella giapponese, era diretta sì ma rozza, logica ma inelegante, rapida ma senza sfumature, analitica ma totalmente priva di senso estetico. Al contrario il modo di comunicare dei giapponesi era prudente ma sfumato, lento ma più profondo, sintetico ma più sensibile per non dire sensuale e che in ogni caso mai veniva considerato soltanto comunicazione ma prima di tutto espressione […]. Marco provò a definire il carattere base dei giapponesi: si trattava di persone innanzitutto timide e infantili, curiose, paurose, estremamente attente e molto più emotive di tutti gli altri abitanti al mondo […]. Infine parve a Marco che il carattere fondamentale del popolo giapponese fosse l’orgoglio nazionale o la superbia individuale che per un giapponese è la stessa cosa anche se nel paese della Politica questo sembrerebbe un controsenso […]. Marco ebbe l’impressione che la “questione morale” insieme a quella estetica fosse patrimonio del Giappone più di molti altri Paesi e continuamente vedeva intersecarsi, nel comportamento dei suoi abitanti, le due questioni, estetica e morale112.

La prima e più evidente caratteristica che salta agli occhi di questo testo, è l’uso della terza persona: per la prima e unica volta Parise sdoppia le figure di io narrante e protagonista: il quale, di nome Marco, e impersonando nel suo personaggio un redivivo Marco Polo viaggiatore in Giappone, rimane pur sempre proiezione dello scrittore. L’adozione dello sdoppiamento e della terza persona ha la funzione di filtro verso la realtà da percepire ed elaborare, di distanziazione maggiore fra l’esterno e l’io, così da facilitare lo scrittore nell’opera di stilizzazione della scrittura. Si tenga conto che la ricerca di uno stile fu presente e talvolta pressante nello scrittore sin dai tempi giovanili: Parise ne aveva bisogno per ricomporre un’identità nella e attraverso (dalla) la scrittura. Nella scrittura, inteso come tentativo di investire l’atto consapevole e volontario dello scrivere di una valenza assertiva, sanatrice e generatrice di un’identità non lacerata, ma intera, solida ed equilibrata nel suo status adulto. Attraverso la scrittura, intesa come operazione atta a generare una re-visione (una visione à rebours, dunque di ritorno) della realtà, tale da restituire un mondo modellato secondo nodi,

112 OPERE II, pp. 1055-1178.

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temi, urgenze del suo immaginario esistenziale e letterario: un processo dunque, e il mondo risultante, tali, da conferirgli un’identità di scrittore simmetrica ma anche integrata all’identità personale. Nel caso specifico del reportage giapponese, il fenomeno della stilizzazione entra in cortocircuito proprio con quella caratteristica del Giappone - sia presente di per sé come connotato nipponico, sia rilevata dalla percezione focalizzata di Parise che condivide con questa nazione consonanza spirituale e artistica - che lo qualifica, per definizione, come il paese del culto estetico. E proprio la consonanza di poetica e vissuto parisiani con il Giappone, insieme al fenomeno per cui questo paese si presenta agli occhi dello scrittore come una realtà esterna nella quale la vita si traduce naturalmente in arte, riescono a compensare, o comunque mitigare, gli effetti artistici di quel processo per cui la stilizzazione, in Parise, è stata da sempre, o quasi sempre, intesa come estetismo, letterarietà, artificiosità: con il risultato di rendere la scrittura prigioniera di uno sguardo offuscato; di un ritmo frenato, fino al punto da risultare, talvolta, lezioso; di un’immaginazione che - priva di icasticità ed esemplarità collassa e ripiega in cadute memoriali minimali e senza respiro (come spesso nei Sillabari113) o in narrazioni grigie e non coinvolgenti (Il crematorio di Vienna, ma anche molti altri racconti sparsi); di un investimento artistico che perde la vitalità delle opere migliori (i due primi romanzi giovanili, Il padrone, i reportage). Fortunatamente, il genere reportage, quale è inteso e praticato, da Parise riesce sempre a ridurre i rischi suddetti e, nel caso, a riscattare la scrittura da eventuali eccessive impasse estetiche. La forma reportage è comunque un viaggio di avventura, proiezione dell’autore verso la realtà, o processo di contaminazione dell’autore da parte dell’altro da sé: una sorta di esplorazione e attivazione che il mondo opera nello

113 Goffredo Parise, Sillabari, Milano, Mondadori, 1984; ora in OPERE I cit.

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scrittore. A confermare la presenza di entrambi i risultati estetici ne L’eleganza è frigida, basta mettere a fuoco le descrizioni di alcuni aspetti della vita giapponese: lo sguardo talvolta si imbambola in una visione bloccata e manierata, talaltra si vivifica e prende luce in sequenze di immagini nitide e penetranti, spesso commoventi. In questi esempi di bellezza autentica, riflessiva e/o commossa, talvolta Parise riesce persino a suonare la corda dell’ironia, un aspetto pressoché assente sia nella sua personalità che nella sua creatività artistica, e di cui citiamo nuovamente un esempio: Questo accadeva per esempio e in modo elementare quando Marco cedeva il passo alle signore, com’era stato educato, ma le signore giapponesi erano state educate a cedere il passo agli uomini, così che alla porta scorrevole di un ascensore o davanti a qualunque entrata si formava una specie di saltellio reciproco che metteva tutti i presenti di buon umore […].

II.2

La narrazione di reportage come centro propulsore e fil rouge Nel precedente paragrafo, si è fatto cenno agli altri due aspetti qualificanti dei

reportage, oltre quello dell’alta valenza estetica: ovvero, le caratteristiche che ho definite nodo fondamentale e leitmotiv, che nel presente paragrafo indichiamo come centro propulsore e fil rouge. Ho scelto di introdurre l’argomento della centralità dei reportage con le parole di Silvio Perrella, prezioso e insostituibile critico di Parise da cui nessuno studioso contemporaneo dell’opera dello scrittore può prescindere: Il racconto di viaggio o di osservazione, il reportage, non è per niente un aspetto secondario dell’opera di Parise, come qualcuno crede o ha creduto fino a o oggi. Parlando della sua necessità di spostarsi nello spazio, del suo modo di farlo, della quantità e qualità di pagine che ci sono rimaste, ci si può avvicinare al centro propulsore della sua energia poetica e quindi conoscitiva114.

114 Silvio Perrella, Fino a Salgareda, cit., p. 75.

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Come ho già avuto modo di accennare nel paragrafo precedente, il riconoscimento della centralità poetica e della valenza artistica dei reportage ha seguito un processo incrementale graduale da parte della critica degli ultimi vent’anni, ed è tuttora in corso. E se è certo che alcuni reportage hanno goduto di immediati apprezzamenti e fama, solo in tempi relativamente recenti, finalmente, la saggistica ha acceso un faro sulla scrittura di viaggio e guerra nel suo complesso. Come ci ricorda Marco Belpoliti, lo stesso Pasolini, pur acuto e poetico recensore e critico di Parise, di cui apprezzò in particolare i Sillabari, «ignora invece i reportage giornalistici. Ne sottovaluta l’importanza, forse non li capisce»115. Lo stesso Belpoliti, citando a sua volta Garboli, ci attesta di quanto la ricezione critica fosse mutata a distanza di un decennio rispetto a quella degli anni Settanta del poeta friulano; e con l’insostituibile passaggio, nel caso di specie, dell’avvenuta interrelazione fra vita biografico-psichica e poetica degli scritti di viaggio: la vita stessa di Parise è un campione letterario: avventurosa, imprevedibile, capricciosa, ricca di modelli, inesausta nella sua sete di viaggio e conoscenza, essa si presenta in un disordine che non è altro che l’assestarsi di una forma (tragica)116.

Il nodo fondamentale dei testi di viaggio, che illumina questi e per contrasto tutta la restante produzione di romanzi e racconti, è l’aver rappresentato, rispetto alla attitudine giovanile alla creazione fantastica e immaginifica, di cui sono esempi i due primi romanzi giovanili, lo spostamento su un piano di realtà della tensione del desiderio verso l’oltre e l’altro. Se nella fase giovanile d’esordio, Parise attiva la sua profonda pulsione ad esplorare - nel senso di conoscenza e di avventura come viaggio e tensione desiderante - attraverso la creazione attiva di una realtà fantastica rappresentata

115 Marco Belpoliti, Settanta, Torino, Einaudi, 2001, p. 82. 116 Ivi, p. 89.

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dalla finzione romanzesca, seppur nutrita da un mondo di immagini e visioni scaturite dalla sua memoria biografica; viceversa, nella fase giovanile appena a ridosso degli esordi citati, Parise opera una sua interna rivoluzione copernicana e riorienta in modo capovolto il processo, lasciando che sia la realtà del mondo esterno, altro - lontano più nello spazio che nel tempo - ad attivare la medesima pulsione ad esplorare, accostandola in collisione creativa e artistica alla sua costellazione interiore: costellazione articolata secondo i tratti di un immaginario fantastico; di un approccio emozionale all’esistenza; di una tensione desiderante verso l’ignoto; di una necessità di autoaffermazione precocemente adulta nell’arte, in sostituzione e a compensazione della maturità personale tarda a crescere; di un esercizio non esibito di lucidità intellettuale e tensione civile; di un bisogno vitale - costante ma con picchi ciclici - di rilancio della propria esistenza, intesa come sfera psichica e concretezza del corpo, nel vissuto del viaggio come azione. Più sinteticamente, Parise ha delegato la realtà esterna a esercitare il ruolo di scenario di partenza e innesco creativo, che, fino ad una determinate e precoce fase, era appartenuto integralmente alla sua autonoma personale ispirazione artistica. Il mondo è fondale; è l’origine di stimolazioni sensoriali, intellettuali, emozionali, è gorgo attrattivo per la sua curiosità famelica; e infine è leva che attiva l’esplorazione meravigliata dell’oltre, è il limite che scatena il processo desiderante. A questo riguardo, centrando perfettamente e acutamente la questione, scrive Franco Marcoaldi, voce profonda e imprescindibile della critica contemporanea che più di altri ha messo a fuoco i nodi fondamentali di Parise scrittore: Detto altrimenti: risvegliato al desiderio da una presenza allusiva, il nostro sguardo finisce inevitabilmente per oltrepassare l’oggetto immediato della sua visione […]. È una ragione in più per indagare meglio cosa si celi dietro l’apparente, svagata semplicità di quel “non c’è niente da capire, basta guardare” da cui 99


eravamo partiti; visto che alle sue spalle si apre davvero una vertigine senza fondo […]. Proprio come l’anima, infatti, l’occhio è sempre sul punto di perdere il proprio controllo. Perché ogni vero incontro dell’occhio, come ogni vero incontro dell’anima, è, alla lettera, sorpresa […]. Affidandosi al colpo d’occhio, lo scrittore è dunque costretto a rimettere perennemente in discussione lo statuto di realtà, e di se stesso. Lo sguardo che si dirige verso me, infatti, non è il mero riflesso della mia interrogazione, una realtà mi cerca, mi fissa, mi ingiunge di rispondere. E io, prima di parlare a mio nome, devo prestare la mia voce a questa strana potenza che mi interroga. Ma perché questo accada, la precondizione è che io osservatore mi faccia in qualche modo ignorante, innocente, barbaro. Ossia che rinunci a ogni schema precostituito di giudizio sul mondo. Ecco perché i reportages di Parise sulle guerre politiche risultano a tuttoggi così efficaci. Perché proprio in un momento di particolare stordimento ideologico - quello in cui vennero scritti - il suo atteggiamento fu al contrario, per quanto possibile, sgombro da pre-giudizi: uno sguardo antisistematico, antimetafisico per eccellenza. Anziché rifugiarsi nella musica rassicurante della sua convinzione, Parise insomma - nei reportages di guerra nondimeno che nei Sillabari - ha preferito esporsi totalmente alla domanda che gli veniva incontro dalla sua concreta esperienza: […] sempre unica, irriducibile, irripetibile. Come ha scritto ancora Starobinski, non è affatto facile mantenere gli occhi aperti per accogliere lo sguardo che ci cerca. A Goffredo Parise questo difficilissimo esercizio è perfettamente riuscito, e basterebbe questo, io credo, a farne il grandissimo scrittore che è stato117.

Come ulteriore supporto e conferma di quanto delineato, esistono numerose altre attestazioni saggistiche che, da diverse angolazioni, mettono a fuoco il procedimento dello scrittore. Paolo Pietroni ad esempio, citando Parise stesso, scrive che: Se come scrittore Parise è stato precoce, come uomo, lo ripete sempre, era «molto tardo a crescere…sempre come annebbiato e dalla pigrizia e da una sua vita imprecisa»118. L’anno dopo [1967], di ritorno da l sud-est asiatico, attratto come sempre dai luoghi «dove è necessaria l’azione […]»119.

Marco Belpoliti, con un’osservazione dalla visione più lunga, precisa che: Per Calvino il Caso è una roulette che distribuisce senza enfasi e con neutralità statistica i numeri rossi o neri, mentre Parise cerca nel Caso il proprio destino, lo vive come un Fato: qualcosa di imperscrutabile, ma sempre determinato.

117 Franco Marcoaldi, Parise e il gioco degli occhi, in Goffredo Parise, a cura di Ilaria Crotti, cit., pp.. 116, 119, 120. 118 Paolo Petroni, Invito alla lettura di Parise, cit., p. 23. 119 Ivi, p. 25.

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Parise, al contrario di Calvino, nonostante il suo darwinismo, è tutto sommato, uno scrittore antropocentrico120.

E sempre Belpoliti, focalizzando una delle chiavi di volta dell’esperienza esistenziale e letteraria del Nostro, scrive: Tuttavia Parise è sempre stato inquieto, e questa inquietudine l’ha saputa placare attraverso il viaggio e il reportage di guerra (quello dal Vietnam per le pagine dell’ «Espresso» di Eugenio Scalfari è il suo capolavoro giornalistico)121.

Armando Balduino, prendendo le mosse dalle riflessioni contenute in un’intervista rilasciata dallo stesso Parise nel 1968 e da noi già citata, delinea la scrittura di viaggio attraverso un’incursione nel cuore della loro poetica: «Per me reportage e romanzo nascono nello stesso modo […]. Il reportage è un romanzo, con una situazione di cui lo scrittore è il protagonista »122. Quello che nel caso dice io, vien fatto di precisare pensando assai più a Parise che non a generalizzazioni teoriche, è un protagonista per il quale, come è già data la messa in situazione, non meno risulta esserlo la condizione-base, che sarà di norma quella dello sradicamento e della solitudine; è un romanziere però nelle cui mani l’intreccio precostituito non è, neppure sotto forma di ‘scaletta’, e che è semmai in attesa che siano suggeriti dagli eventi, non solo scansioni e strutture, ma in un certo senso le stesse tonalità stilistiche; ed è infine uno scrittore che, proprio perché tale, attivando le sue privilegiate antenne per le piccole cose e per tutto ciò che, non ovvio, sta al di sotto dell’apparenza, muove in primo luogo alla ricerca di vite da raccontare, e soprattutto naturalmente di ‘vite non illustri’. Se si tratta di un Parise spinto non dalle inquietudini dell’intellettuale, ma dichiaratamente sempre da una autentica «passione umana»123, ecco allora un giornalista-scrittore che punta dritto sui retroterra dell’evento, tutto teso a far conoscere vicende e sentimenti che darci non possono né la TV, né, meno ancora, la sintesi delle cronache ufficiali: primo piano dunque alla periferia della notizia, in prospettive dal basso che - se vogliamo dirlo in termini all’incirca manzoniani saranno di norma quelle di una storia vista con gli occhi e i patimenti dei protagonisti anonimi, chiamati a ‘fare’ e soprattutto a subire la storia loro malgrado124. Su una prospettiva comune ad altri saggisti, fra cui Balduino, si pone Gaia De

120 Marco Belpoliti, Settanta, cit., p. 248. 121 Ivi, p. 258 122 Cfr. Armando Balduino, I ‘miti’ antiamericani di Parise, p. 85, nota 11, in Goffredo Parise, a cura di Ilaria Crotti, atti del Convegno svoltosi tra il 24-25 maggio 1995 a Venezia e promosso dall’Università «Cà Foscari»-Dipartimento di Italianistica in collaborazione con la Fondazione «G. Cini», Firenze, Olschki, 1997. 123 Ibidem, nota 12. 124 Ibidem.

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Pascale quando scrive: La scrittura non è più, o non solo, funzionale alla cronaca giornalistica, ma diviene narrativa, resoconto letterariamente elaborato di un’esperienza personale che mira attraverso lo sguardo di un personaggio inventato, attraverso la finzione, a superare la pura soglia comunicativa per indagare sulle più profonde ragioni del viaggio, al di là dell’oggettività dei fatti e delle cose viste125.

Silvio Perrella invece, come sempre profondo e magistrale nelle sue analisi, ci suggerisce un punto di vista più puntuale e circoscritto rispetto ad altri, che tuttavia reputo bisognoso di alcuni chiarimenti perché io lo possa pienamente condividere: Quale futuro avrà uno scrittore del genere? «Cosa può uscire nel futuro da un simile miscuglio di dolore e di vitalità biologica?». La domanda è ben posta, perché in realtà Il padrone è un libro di non ritorno, da quale lo stesso romanziere esce sconfitto. Sappiamo che all’indomani di questo libro, Parise incrementerà il suo nomadismo, trasformandosi in reporter di guerra. Sarà il suo modo di dare una risposta originale al problema della forma-romanzo, allontanandosi dalle macchinazioni del romanzesco e sbattendo sia il dolore sia la vitalità biologica direttamente contro la realtà esterna. È un procedimento di inversione: non sarà più l’immaginazione della mente a dare forma al mondo, attraverso una finzione, ma il contrario: sarà il mondo a costituire il limite dei pensieri, la misura oltre la quale non è giusto farli andare126.

Ma cos’è avvenuto di così epocale, nella vita e nell’attività artistica dello scrittore, da rappresentare un vero e proprio turning point nella definizione e nella pratica del suo vissuto e delle sue scelte creative? Ed esattamente, che significati - oltre quanto già esposto nel presente paragrafo - si vogliono attribuire ai due concetti di centro propulsore e fil rouge usati per qualificare gli scritti di reportage? La risposta alla prima domanda è negli accadimenti avvenuti nei diversi contesti che interessano la vita di Parise: biografico e poetico, sociale e antropologico, storico-letterario e culturale. Per descrivere tali eventi faremo parlare in parallelo

125 Gaia De Pascale, Scrittori in viaggio. Narratori e poeti italiani del Novecento in giro per il mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, p. 231. 126 Silvio Perrella, Fino a Salgareda, cit., p. 107.

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proprio Parise, attraverso un suo scritto capitale, citato in modo copioso e doveroso in qualsiasi studio sullo scrittore: Quando la fantasia ballava il «boogie»127, testo letto dallo scrittore l’8 febbraio 1986, giorno in cui l’Università di Padova gli assegnò la laurea ad honorem. Nell’agosto dello stesso anno sarebbe morto, lasciando a noi tutti queste pagine come sintesi lucida, commovente e suggestiva di un’intera poetica e carriera artistica. Scrivevamo nel primo paragrafo che lo scrittore esordì precocemente, pubblicando nel 1951 e nel 1953 rispettivamente Il ragazzo morto e le comete e La grande vacanza: i romanzi passarono inosservati al pubblico ma notati e ammirati dalla critica, seppur ancora scarsa. Erano due opere sperimentali improntate al senso del fantastico, a una visione romantica, ad atmosfere noir e spesso funebri. La materia e i soggetti erano autobiografici, attingevano nella vita di Goffredo bambino. Nel 1954 Parise pubblicava Il prete bello - espressione di un’avvenuta maturità artistica - con il raggiungeva il successo di pubblico e critica: il romanzo è nel solco del naturalismo, anche se di eccezionale caratura. Contemporaneamente, nel 1950 iniziò l’attività giornalistica: è l’ingresso nel mondo adulto della responsabilità lavorativa e in quello comunicativo di una nuova rappresentazione artistica: il reportage. Ma ancor giovane adulto, proprio a quest’altezza Parise esauriva la vena creativa originata dal tratto autobiografico dell’infanzia vicentina: un prosciugamento dell’ispirazione da intendersi non tanto come cessazione di ulteriore produzione (seguiranno altri due romanzi, come scrive il Nostro a «spremere» la città d’origine), quanto come vitalità, efficacia e riuscita estetica, come mood:

127 Goffredo Parise, Quando la fantasia ballava il 1986; ora in OPERE II, pp. 1605-9.

«boogie », in «Corriere della Sera», 9 febbraio 103


Lì [Vicenza] non ho più alcun parente, rispose Goffredo. E poi Vicenza l’ho già spremuta a dovere, in ben quattro libri. Perciò a questo punto è meglio ricordarla da lontano, “come si ricorda un sogno. Le grigie colonne palladiane in lunghe e alte file come alberi della foresta malese, la piazza, il passato”128.

È questo il primo evento, poc’anzi definito contesto biografico e poetico, che sollecitò Parise a virare - in parallelo a romanzi e racconti - sulla scrittura di viaggio come genere innovativo alternativo per esprimere e rappresentare la sua poetica e immaginazione. C’è però dell’altro. Quel momento di massima creatività estetica espresso attraverso la forma romanzo, coincise in modo consonante con lo spirito del tempo, come ci avverte lo scrittore: Di questa laurea sono grato al Rettore, alla Facoltà, ai docenti […]. Tuttavia è giusto dare a Cesare quel che è di Cesare e ad Dio quel che è di Dio. Il merito, non di Cesare ma di Dio o del destino, va dato soprattutto all’esistenza dell’immaginazione, cioè alla libertà e allo spazio d’immaginazione che per la mia generazione è nato nel 1945 alla fine della seconda guerra mondiale e durato nel mondo circa vent’anni. Poi una rivoluzione, qualche cosa di tellurico per l’immaginazione è salito alla superficie, qualche cosa di paragonabile soltanto alla rivoluzione agricola è accaduto nel mondo e la libertà di immaginazione, ciò che fa sognare e poetare l’uomo da vari millenni, si è trovato stretto nelle spire del programmatico, tutt’al più del noto e dell’antico […]. In the mood, il famoso boogie, ha segnato la data di quest’ultima libertà d’immaginazione e, con lo stesso titolo, il mood dell’epoca. Non facile tradurlo perfettamente in italiano […]. Forse “capricciosamente” o “a capriccio” o “umore capriccioso”. In ogni caso quel boogie, quel tempo, quel ritmo inventò un’epoca che coinvolse il mondo nella grande aura della libertà. Questa libertà non era dovuta soltanto alla fine di una guerra, anche se coincise con essa […]. Vista a distanza la libertà, e con essa il massimo di libertà di immaginazione possibile, giunse in Europa e nel mondo perché doveva giungere, perché non poteva non giungere, indipendentemente dagli anni di guerra, senza precise cause e senza precisi effetti; giunse, come si dice sbagliando, dal cielo. Ecco il dio a cui va dato l’onore. La libertà è un grande scoppio di energia vitale e centrifuga. Bisognava fare tutto, dal cibo ai grattacieli. Fu il momento dell’azione e ancora una volta quel magnifico boogie divenne l’inno mondiale dell’azione dei corpi nella loro massima espressione di libertà pratica, immaginativa e spirituale: corpo e cervello si accordavano perfettamente per esprimerlo, la vitalità ne era l’impulso quasi meccanico […]. Ad ogni modo In the mood fu una musica assai più grande, in senso filosofico e persino metafisico, di quanto si possa oggi pensare. Fu la musica ad hoc.

128

Franco Marcoaldi, Prove di viaggio, cit., p. 166.

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È vero, probabilmente è vero che una qualche grazia doveva avermi toccato se proprio in quegli anni abbandonai questa stessa Università […] per mettermi a scrivere senza l’aiuto, il corpus di una cultura universitaria: ma qualcosa premeva oggettivamente nelle cose, nel mood e dentro di me e non ammetteva ritardi. Il soffio potente della libertà mi aveva strappato dagli studi di letteratura e mi portava inconsapevolmente nella letteratura. Ma quale letteratura? Ancora una volta devo rispondere: quella che nasceva dal vento potente della libertà […]. Mi pareva di dover rappresentare la libertà, il caos, su quella lieve spirale di fumo del romanticismo finito proprio pochi mesi prima tra le macerie. Mi attraevano le cose e la loro sostanza organica e non obbligatoriamente letteraria, l’odore della vita e delle sue stagioni, passando attraverso testi diretti. Fu così che a diciannove anni scrissi il mio primo romanzo, Il ragazzo morto e le comete. Cos’era quell’alternarsi di sequenze cinematografiche, in ogni caso visive, quell’amalgama di sogni, di sensazioni, di odori, di muffe e di tombe? […]. In ogni modo la mia buona stella mi portò senza difficoltà a un editore. Neri Pozza […]. Mi pareva allora che la struttura del romanzo, per così dire ottocentesca, fosse troppo stretta per i miei giovani anni e che la “soluzione neorealistica” allora a pieno vigore fosse troppo di derivazione […]. Mi pareva che molta parte di letteratura francese, inglese e americana avesse in qualche modo rotto le regole ferree che costringevano il racconto […]. Mi pareva che il realismo, il naturalismo della letteratura italiana e non italiana dovessero aprirsi e scomporsi […] così come la canzonetta italiana si era aperta al boogie […]; che si dovessero seguire altre vie che erano già state aperte dalla scoperta dell’inconscio e da altri scrittori non italiani […]; che la fantasia, cioè il subconscio, dovesse avere la prevalenza sul conscio, cioè sullo storico […]; che la sensazione soggettiva, la sempre inesatta pressione del sangue, cioè il sentimento individuale non potesse prestarsi ad alcuna oggettivazione e infine che l’assurdo, il non storico, il casuale e l’oscuro che è in noi nel suo perenne filmato dovesse prevalere sullo storico, e non programmaticamente ma in modo quasi gestuale, smembrato, come il boogie appunto. Era un’idea della letteratura in qualche modo romantica, in qualche modo rivoluzionaria, che del resto era stata troppo sbrigativamente proposta dai futuristi ma in modo illuminante dalla pittura di De Chirico. Era un’idea non profetica, al contrario. Con pregi e difetti ritengo che Il ragazzo morto e La grande vacanza che seguì a due anni di distanza siano stati il mio vademecum, il mio Baedeker. Eppure sono ancora, tra quello che ho scritto, i miei romanzi di gran lunga meno conosciuti. Avendo abbandonato l’Università da allora non mi restò altro che sperimentare, girando attorno ai miei Baedeker, e non sempre con intima fortuna. Alle volte mi allontanai da loro e non fu buona cosa. Nel complesso fu un attivo? Ho i miei dubbi. Ho fatto quel che potevo e quasi mai quel che volevo. Poi passarono gli anni e la libertà aveva fatto tutto quello che doveva fare. Aveva ricostruito le nostre vesti, il nostro paese. L’azione era finita, cominciava l’amministrazione. Per tutto. E qui apparvero in tutta la loro forza impiegatizia e burocratica i partiti politici a praticare un’arte ben diversa da quella letteraria, di certo molto più potente, infinitamente più potente e forse utile, chissà? detta arte della politica, che nel nostro paese credo abbia dato i risultati più geniali del mondo. È ancora una volta il fine di duemila anni di amministrazione della Chiesa cattolica a cui siamo e saremo sempre ombelicamente legati. Con l’arte della politica il benessere, con il benessere il boom economico, il consumo, i consumi, la teologia televisiva. Non posso dire di non aver subito il colpo come è testimoniato nel mio romanzo Il padrone […]. L’aria, il vento della libertà, la polvere delle sue macerie e il battito del martello pneumatico cessarono e furono 105


sostituiti dall’amministrazione […]. Anche la mia ora è passata. Mi piacerebbe molto poter ancora testimoniare da scriptor privo di computer, nel modo che è stato riconosciuto come il mio stile, altre avventure del barone di Münchausen, del marinaio Ahmed […]. Ma il mood è lontano, sempre più lontano e in ogni caso ce ne fu uno e uno solo. Forse invece non sarà più possibile perché se lo stile ha degli eredi, l’arte è come una farfalla, senza eredi e capricciosa, si posa dove e quando vuole lei. È inoltre un insetto, come tutti sanno a vita breve […]129.

Ho citato quasi per esteso (ad eccezione di pochi tagli non significativi) questo bellissimo quanto memorabile e imprescindibile testo, perché riassume in modo fulminante la poetica e il contesto storico di una vita di scrittura. Risulterà interessante, anche a mo’ di chiarimento delle considerazioni di Parise, citare altri due testi. Il primo, Roma, punto e a capo, pur concentrando l’indagine critica su Roma (come luogo) nell’arco di poco più di un decennio (come tempo) vissuta dall’angolazione del neorealismo - ma non solo - (come contesto letterario) nel momento magico della Liberazione e del dopoguerra (come contesto storico ed esistenziale), può contribuire a suggerirci quell’atmosfera italiana e mondiale di entusiasmo collettivo di cui scriveva Parise: “Con la primavera del ’48 finiva il dopoguerra”, affermava nel 1953 Franco Fortini. Con esso finiva anche il momento più fertile del neorealismo, che della guerra era stato specchio fedele e cassa di risonanza. Nessuno in quel momento poteva non dirsi neorealista […]. Ma cos’era stato il neorealismo? In che cosa consisteva l’unità di intenti, la voglia propulsiva di “esprimersi” di ricordare e raccontare, che aveva contagiato un po’ tutti? […]. Uscito fuori dall’esperienza “collettiva” e solidale della guerra e della Resistenza, l’intellettuale matura un’esigenza radicale di rinnovamento […]. È stato detto: soltanto chi l’ha vissuto può sapere e raccontare che cosa sia stato il clima del dopoguerra a Roma. Si respirava un’aria euforizzante perché il ricordo del lungo incubo, di quella dissennata convivenza con la morte, faceva da propellente per una volontà di ripresa, di “rinascita”, potremmo dire, che si traduceva in un fervore iniziative in tutti i campi. E se è vero, come ha scritto Franco Fortini, che con “la primavera del ’48 finiva il dopoguerra”, tuttavia negli anni Cinquanta e oltre, quella spinta emotiva del dopoguerra durava ancora fino a portare l’Italia al boom economico negli anni Sessanta. Fu un decennio tutto da

129

OPERE II, pp. 1605-9.

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vivere e da ricordare, quello, che vede il passaggio da una concezione di vita ancora dominata dagli ultimi strascichi di miseria e di fame, al gusto ritrovato per la “dolce vita” […]. Ma se non proprio dolce vita per tutti, certamente una più dignitosa condizione di vivere da cui guardare con fiducia il futuro130.

Un contesto, questo, condiviso almeno in parte anche dal secondo testo che qui pongo all’attenzione, Memorie di una militante azionista: Il 1944 e 1945 furono anni irripetibili. Non più arresti, torture, sparatorie e bombe: fine dell’incubo. Improvvisamente la gioia della libertà, fino ad allora mai provata. Anni indelebili nella memoria di chi li ha vissuti. Eravamo poveri, malnutriti ma gai. Eravamo pieni di speranza. Speranza nel futuro. Lo immaginavamo ricco di promesse. E dibattevamo, dibattevamo su tutto[…]. Anche le arti vissero un momento magico […]. Ma tutto questo fiorire di iniziative in ogni branca della cultura durò solo pochi anni. Non tutto si spense, ma finì quell’atmosfera magica, quell’entusiasmo e quella ricerca del “nuovo” nel pensiero e nell’arte che avevano caratterizzato il secondo dopoguerra. Quell’atmosfera mi faceva spesso venire in mente il Rinascimento, anche se la creatività degli anni del dopoguerra non arrivò mai alla qualità di quell’epoca antica. La fiducia nel futuro era in quel momento un sentimento dominante, non solo per la speranza di un maggiore benessere economico ma perché pensavamo che avremmo avuto una vita culturale degna, ben più ricca di quella precedente. Da allora una domanda è rimasta senza risposta: quello che la mia generazione ha vissuto è stato un nuovo rinascimento soffocato sul nascere o la fine, pirotecnica, dell’antifascismo?131

Dunque, alla prima fase di poetica autobiografica e fantastica di Parise arrisero intrecciate uno vero e proprio stato di grazia (il suo personalissimo mood) nell’ispirazione artistica e creativa; e insieme, un momento storico di entusiasmo ed eccitazione collettivi, di senso di libertà e speranza: ciò che lo scrittore chiama grande aura della libertà. Una prima crisi, personale e poetica, si affacciò nella vita di Parise a ridosso del successo letterario, a metà dei Cinquanta, ed è spesso indicata come fine de mood. Se non fosse un giovane adulto, potremmo pensare a una crisi di crescita; ma forse, in fondo, lo fu, se è vero quanto già precisato in precedenza, ovvero una precocità artistica

130 Silvana Cirillo, Mamma Roma, in Roma, punto e a capo. La città eterna attraverso gli occhi di grandi narratori, cit., pp. 12-21. 131 Gianna Radiconcini, Memorie di una militante azionista. Storia della figlia di un onesto cappellaio, Roma, Carocci, 2015, pp. 55, 59-60.

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a fronte di una tarda maturità psicologica. Parise esaurì la sua lunga adolescenza al tramonto e con essa esaurì creatività e ispirazione. Senza dimenticare che l’ingresso nel mondo della responsabilità adulta venne sancito dall’esordio come giornalista. Fu un passaggio cruciale: la nuova professione fu l’occasione per sperimentare il reportage come forma alternativa di creatività artistica, nella quale iniziò progressivamente a riversare attitudine fantastica e universo immaginario, oltre a ritrovarvi per allusione e proiezione la sua mitografia autobiografica. È una frattura nella sua vita di cui lo scrittore ci lascia testimonianza e cognizione: Ciò che ricordo esattamente è proprio che a quell’epoca [anno 1940] comincia la mia malinconia, originata da una frattura insanabile tra la realtà e la mia fantasia, che mi creava intorno un popolo di sogni meravigliosi. Questa malinconia, allo stato più acuto, è durata quindici anni [anno 1955], non è scomparsa nemmeno adesso, anzi in fondo dura tuttora e costituisce il fondamento della mia tematica di scrittore132.

Una seconda crisi - storica sociale e antropologica - colpì Parise agli inizi degli anni Sessanta, e ne abbiamo già accennato nel primo paragrafo: con il boom economico, esplose anche in Italia la società a capitalismo avanzato caratterizzata dal dominio delle merci come valore e dall’ipertrofia del consumo, che negli Stati Uniti aveva avuto la nazione di incubazione, sviluppo e definitivo trionfo economico. Di questo ragionava lo scrittore quando in Quando la fantasia ballava il «boogie » scriveva « Poi passarono gli anni e la libertà… L’azione era finita, cominciava l’amministrazione… con il benessere il boom economico, il consumo, i consumi… L’aria, il vento della libertà, la polvere delle sue macerie e il battito del martello pneumatico cessarono». Non era più e solo fine dello spirito della Liberazione: fu una svolta epocale

132 Cfr. Cronologia, in OPERE I, p. XLIII.

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paragonata alla rivoluzione agricola preistorica, a giusta ragione. Era un intero mondo passato, tutta una pregressa costellazione esistenziale, sociale e culturale che veniva devastata. Fu un’autentica mutazione antropologica. Uno shock traumatico. Parise stesso ce lo descrisse come un «trauma conoscitivo». E parte della critica ha centrato perfettamente anche quest’aspetto: Dopo […] Atti impuri si apre per Goffredo Parise, agli inizi degli anni Sessanta, un periodo incerto durante il quale sente di aver smarrito l’ineffabile mood, che lo ha prodigiosamente reso in gioventù un romanziere […]. Un viaggio negli Stati Uniti, nel 1961 […], gli procura, per sua ammissione, un «trauma conoscitivo » […]. Il silenzio, che precede la stesura del Padrone, edito nel marzo 1965, coincide con la perdita della vena per un esaurimento naturale e il disseccarsi della fonte di immaginazione romanzesca, situata nei luoghi di nascita. La mutazione della società italiana, che Pasolini chiamerà antropologica, coinvolge drammaticamente, sulla soglia della maturità, l’enfant-prodige […], lo strappa quasi con violenza dall’autobiograficità, in cui esprimeva l’adesione istintiva a un proprio mondo133. Parise, a differenza di altri autori della nostra letteratura, è stato uno scrittore vitale, non vitalistico in senso deteriore, ma vitale […]. Per lui viaggiare era una necessità fisica […]. Tra gli scritti di viaggio e quelli d’invenzione c’è un pendolarismo benefico e salutare. Per un ammirato e accanito lettore di Darwin […] l’America è […] «la fortuna, il piacere e l’eccitazione intellettuale di sperimentare in corpore la verità enunciata da Darwin con il nome di ‘lotta per l’esistenza’ » […]. L’America è l’esperienza dello sradicamento totale […] e insieme l’incontro con la prima società di massa, basata, come dice lui, sull’ideologia del consumismo134.

Quest’autentica rivoluzione epocale - sociale e antropologica, questo traumatico passaggio di testimone fra una civiltà e l’altra, fu il secondo potente fattore che sollecitò Parise a realizzare, a cercare il proprio “centro” nei reportage: poiché i viaggi permettevano alla realtà esterna di essere esplorata da un soggetto che, attraverso la sua scrittura, riaffermava (anche se in modo indiretto e non certo egotizzato) la sua esistenza e vitalità, proiettando la stessa materia oggettiva in un orizzonte di

133 Rolando Damiani, Alla ricerca dello stile: Parise reporter in Asia, cit., pp. 99, 100. 134 Silvio Perrella, Parise viaggiatore indigente, in Polinnia. La parola “quotidiana”. Itinerari di confine tra letteratura e giornalismo. Atti del Convegno. Catania 6-8 maggio 2002, Firenze, Olschki, 2004, pp. 191-2.

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conoscenza; di avventura dei sensi, della mente e dell’immaginazione; di sogno e tensione umana verso l’altro. Gli ultimi eventi critici che colpirono Parise - e con lui un’intera generazione riguardarono il contesto storico-letterario e culturale. All’altezza dei Sessanta l’espandersi della società a capitalismo avanzato provocò un terremoto anche nel sistema culturale nel suo insieme, letteratura compresa, della quale venne messa in discussione liceità e sensatezza futura. In Italia ne fu teorizzatrice e ‘organo giudicatrice’ il gruppo della cosiddetta Neoavanguardia, con il quale Parise entrò in contrasto in una sorta di scontro subìto: va posto almeno il dubbio che, fra i fattori che contribuirono ad allontanare lo scrittore dalla forma-romanzo (quantomeno dal punto di vista della pubblicazione se non della composizione), ci fosse anche questa messa in discussione, seppur maldigerita. Un secondo evento fu il Sessantotto, con il quale lo scrittore si scontrò, e che rifiutò al pari di Pasolini: interpretandolo come il fenomeno conclusivo, la spallata definitiva alla secolare cultura umanistica, nella quale lui e precedenti generazioni di intellettuali era cresciuto. Tenuto conto dell’insieme di eventi tramatici che investì lo scrittore in differenti periodi, ai nostri fini preme dire che proprio i reportage furono l’unico genere praticato da Parise ad essere passato indenne a tempeste e naufragi. È innegabile rintracciare un’evoluzione nella loro scrittura: Parise vi sperimentò la crescita della maturità artistica; un affinamento estetico; l’emergere di diverse prospettive conoscitive e criteri stilistici, a seconda dei mutati contesti, e luoghi visitati. Tuttavia i tratti fondamentali e profondi che originarono la loro creazione, rimasero immutati nel corso dell’attività di scrittore. Rappresentarono quel «centro» che Parise dichiarava di aver cercato di raggiungere per tutta una vita, senza riuscire. Dichiarazione tanto illuminante 110


quanto sorprendente, da cui intuiamo che Parise in fondo è stato il primo regista del misconoscimento o tardivo apprezzamento dei suoi stessi reportage: a tal punto che la scrittura di viaggio, con modalità del tutto inconsapevole, rappresentò il fulcro della produzione letteraria di un’intera esistenza senza tuttavia conquistare il crisma dell’ufficialità. La risposta alla seconda domanda, cosa debba intendersi per fil rouge, risiede nel fatto che il periodo di produzione dell’opera di reportage coincise, in parallelo, con l’arco temporale della restante produzione letteraria: come peraltro già descritto in precedenza.

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CAPITOLO III

Ricognizione degli scritti di reportage: un viaggio fra i viaggi di Parise

III.1

Una breve premessa all’indagine Ora che la figura di Parise uomo e reporter è stata - voglio sperare con

sufficiente ampiezza analitica e perspicacia interpretativa - delineata secondo le prospettive esistenziale, psicologica e narrativa, è giunto il momento di svolgere un’approfondita indagine di ciascuno dei suoi reportage, fornendo, per ogni scritto, i dettagli di vicenda editoriale e contesto storico; le citazioni più pertinenti di passi scelti e significativi del testo; le interpretazioni personali congiunte, ove presenti, a quelle della critica; l’eventuale apprezzamento di lettori e critica verso le singole opere. Verranno utilizzate le metodologie di analisi più varie e reputate di volta in volta più opportune e pertinenti: dalla quella stilistica; a quella ispirata alle tecniche di ripresa cinematografica; a quella genericamente psichica; a quelle storico-biografica e storico-letteraria. Adottando sempre, comunque, una personale angolazione prospettica tale da mantenere inseparabili sia un atteggiamento di “terzietà” - indispensabile per lo sguardo lucido del critico - sia, in una sorta di empatia intellettuale ed emotiva, un’immersione nella visione specifica e diretta di Parise: nel tentativo di coniugare lo sguardo distante ed esterno dello spettatore e l’immedesimazione nel personaggio dell’attore di teatro. Riguardo alla loro organizzazione, le indagini sui reportage si succederanno secondo l’ordine cronologico della prima pubblicazione dei testi, così da mostrare, in parallelo, l’evoluzione esistenziale e lo sviluppo narrativo dello scrittore vicentino. 112


III.2

1954 Venezia (Il ghetto di Venezia) Devo subito precisare che, discostandosi leggermente dai criteri di

assegnazione al genere letterario del reportage utilizzati dalla vulgata critica parisiana, questa tesi ne adotta di più estensivi: suffragati sempre, comunque, da interpretazioni e scelte proposte dagli studiosi più prestigiosi di Parise, o da suggerimenti e precisazioni fornite da Parise stesso. Seguendo questo criterio, annovero fra i reportage in senso stretto anche l’articolo di viaggio Il ghetto di Venezia, apparso nel maggio 1954 sulla rivista «L’illustrazione italiana», che i due curatori dei Meridiani dell’opera parisiana (Callegher e Portello) includono sì fra i testi di esordio di Parise viaggiatore comprendenti racconti di luoghi e reportage - ma come un racconto di luogo, assegnando dunque il ruolo di prima autentica corrispondenza giornalistica ai testi scritti in occasione del viaggio a Parigi come inviato del «Corriere d’Informazione», e pubblicati fra il 23 febbraio e il 21 aprile del 1955. Basterebbe già da sola l’importanza di Venezia nella vita, nella produzione letteraria e nella biografia psicologica di Parise (insieme a Vicenza, Roma, Salgareda) ad assegnare a questo testo veneziano lo status di reportage, genere fondante e unico leit motiv della sua carriera. A rafforzare tale decisione tuttavia, interviene la definizione «mini-reportage di Parise su Roma» che Ludovica del Castillo, nel suo saggio Goffredo Parise: una città di papi e topi che insegna a vivere135, assegna ai cinque articoli pubblicati dal «Corriere della sera» (più precisamente sul «Corriere Romano») nel marzo 1976: un riesame del suo vissuto romano e dell’importanza da esso avuta nell’esistenza dello scrittore. Se non è dunque

135 Ludovica Del Castillo, Goffredo Parise: una città di papi e topi che insegna a vivere, cit., pp. 227242.

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la lunghezza del soggiorno, né la dimensione della corrispondenza, né - per riprendere le preziose osservazioni di Ilaria Crotti - lo status ufficiale di «inviato speciale »136 a qualificare come tale un reportage di Parise - ma semmai la valenza esperienziale di un’avventura di viaggio tradotta in scritto, è allora lecito e corretto proporlo anche per Il ghetto di Venezia. Questo scritto di viaggio fu il primo di due mini-reportage (il secondo è Suite romana che analizzeremo in un successivo paragrafo) in cui Parise raccontava la sua esperienza di viaggiatore all’interno della città eletta in quel momento suo luogo di residenza: più propriamente, restringendo il focus su un nucleo territoriale più ristretto e significativo, nel reportage veneziano all’interno del ghetto ebraico, mentre in quello romano nel «quadrilatero molto preciso […] dal Colosseo a piazza del Popolo»137. Venezia fu la prima città dove lo scrittore, lasciata ventenne, e definitivamente, la natia Vicenza nel 1949, scelse di risiedere stabilmente fino al 1953, quando si trasferì per lavoro a Milano. Iscritto alla Facoltà di Lettere, furono questi ora e luogo della sua massima creatività letteraria: Parise era nel mood, e compose e pubblicò i suoi due primi capolavori: Il ragazzo morto e le comete e La grande vacanza. Venezia fu la città che vide la sua rinascita dal trauma biografico e psichico di Vicenza. Dove esplose la sua immaginazione e iniziò la sua carriera. Che lo vide nel 1950 approcciare la professione di giornalista. Che supportò e sollecitò, città scenografica e fantastica per antonomasia, lo scrittore nelle sue prime creazioni di fantasia. Era una città magica come poche, che non poteva non attirare la scrittura di viaggio sull’esplorazione di se stessa, addirittura su uno dei suoi nuclei più antichi e suggestivi: il ghetto. Nel quale Parise si aggira come

136 Ilaria Crotti, 1955: Goffredo Parise reporter a Parigi, Padova, Il Poligrafo, 2002, p. 7. 137 Cfr. Suite romana, in Roma, punto e a capo. La città eterna attraverso gli occhi di grandi narratori, cit., pp. 246.

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un solitario, estraneo e tuttavia intimo esploratore, che compie una flânerie fisica e mentale in luoghi fisici e della memoria (del mondo ebraico come ulteriore costellazione di immagini ricorrenti e del relativo lemmario, a partire già dalla realtà vicentina e delle sue rappresentazioni romanzesche, si tratterà più avanti a proposito del reportage Israele (L’ultimo sabato di Israele)). Nel precedente capitolo abbiamo già ampiamente fornito copiosi stralci del reportage, di cui sono state analizzate da più angoli visuali la valenza estetica, e di cui si sono suggerite alcune pertinenti interpretazioni critiche. Non ci resta che chiudere il cerchio presentando alcune argomentazioni conclusive della saggistica e esplorando il testo un’ultima volta. Silvio Perrella, sempre acutamente, scrive: Ma a Venezia Parise non deve soltanto i suoi primi due libri. Venezia è il luogo della prima trasformazione, al punto tale che «se esiste una mia radice ideale, non pratica, è l’attaccamento che nutro, profondissimo, per Venezia. Non sono nato a Vicenza: sono nato a Venezia. Poiché la vera nascita, non è quella biologica, ma bensì la nascita culturale». Non sono nato a Vicenza: sono nato a Venezia. in questa semplice frase c’è il racconto implicito di cosa è avvenuto nei giovanili anni veneziani e poi è stato rielaborato lungo il resto della vita: il figlio illegittimo, rifiutando la nascita biologica, fonte di dolore continuo - come verrà raccontato in Arsenico - si è dato una nascita culturale. Vicenza viene sostituita da Venezia […]. Ecco il senso segreto e ramificante de Il ragazzo morto e le comete […]. Esiste anche una nuova geografia: una geografia diurna in cui situare il lavoro dell’immaginazione […]. Nella geografia notturna, infatti, Vicenza esiste, eccome; fa capolino nel sonno e abita i sogni […]. È dunque qualcosa di così intimo che non appare nella geografia diurna […] anche se è la linfa che segretamente nutre la scrittura. A Venezia Parise si era dato una nuova nascita culturale: lì era nato come scrittore e aveva trasformato la geografia reale in una geografia esistenziale. Da quel momento, il rapporto con i luoghi era servito a produrre un urto tra i sensi e l’immaginazione138.

Si legga ora il seguente passo: La comunità israelitica di Venezia è formata ora di un migliaio di

138 Silvio Perrella, Fino a Salgareda, cit., pp. 22-3, 128.

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persone; ma solo due o tre famiglie abitano nel ghetto. Siamo ben lontani dai 5000 ebrei che nel 1655 vivevano stipati nei meandri di quelle case e in quei due Campi, in un brulichio quasi assurdo di attività, di pensieri, di immaginazione. Quando il vecchio Melchisedek, come racconta la leggenda, s’era creata una singolare consuetudine: quella di trasferirsi sempre più in alto, ad ogni sopraelevazione, ad ogni nuovo abbaino che si costruiva. E di lassù discorrere da solo, quasi salmodiando, con le mani coprendosi il volto in direzione di Israele139.

Parise tratteggia e anima le descrizioni del ghetto e del personaggio attraverso essenziali, rapide pennellate, sono tentato di dire: come se il giovanile aspirante pittore non avesse lasciato campo al futuro scrittore. Nulla risulta superfluo. La narrazione scorre fluida dal ritratto del brulichio di una comunità umana a quello puntuale di un luogo un po’ asfittico e meandrico, fino all’immagine conclusiva di un progressivo movimento ascendente di un personaggio carismatico e un po’ misterioso, su per tetti ed abbaini. C’è molto di autobiografico nella scena: prima di rappresentarle in scrittura (nelle sue romanzesche fantasie), Parise le sue passeggiate per tetti ed abbaini le aveva già praticate dal vero nelle sue giovanili scorrerie vicentine. Lo stesso Melchisedek, con le sue movenze fiabesche, ci immerge piuttosto nel mondo dei racconti delle Mille e una notte, tanto amati e citati ripetutamente dallo scrittore lungo tutta una vita: tanto da apparire come figura di un dipinto di Chagall, forse il suo pittore più amato, di sicuro il più citato e trasfigurato dai suoi libri. A chiusura della presente interpretazione critica, ritengo pertinente e illuminante inserire una sorta di appendice: una narrazione di luogo sempre riferita alla Serenissima, Venezia inedita140, che Parise scrisse e pubblicò nel 1956: Venezia è una città misteriosa: lo è perché non si riesce mai a conoscerla abbastanza e anche quello che si conosce muta di continuo secondo le stagioni, le ore del giorno, la luce. Lo è soprattutto perché la sua vita si svolge intima e fuori di

139 Goffredo Parise, Il ghetto di Venezia in OPERE I, p. 1401. 140 Goffredo Parise, Venezia inedita, in «Il Giorno», 25 maggio 1956; ora in OPERE I, pp. 1428-9.

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ogni osservazione, sempre segreta, quasi ambigua, di una ambiguità che sta fra la realtà e il sogno. Come le calli che la percorrono a labirinto i suoi personaggi più veri e rappresentativi seguono il filo di un’esistenza mai chiaramente proporzionale alla realtà. La fantasia che fa di loro dei personaggi […] sfuma e illanguidisce […]. La lingua stessa, il veneto con le sue molli cadenze e cantilene, sottolinea l’impressione che il mondo veneziano e veneto sia in genere sia ancora ai confini fra due civiltà: quella moderna e di origine storica e quella antica, senza origini precise, posta ai limiti fra l’immaginazione, i viaggi e i mercati d’Oriente […]. Questa stupenda città, come un immenso bazar del Medio Oriente

È un’inquadratura esatta, trasformata allo stesso tempo in suggestiva visione da un’atmosfera sognante, che agisce come fondale cittadino, al cui interno - sul proscenio - si svolge la passeggiata attraverso il locus circoscritto del ghetto. Da segnalare in extremis quel fenomeno che da qui in poi definirò mancata elisione, rintracciabile nell’intera opera dello scrittore sia come arco temporale sia come diffusione nei diversi generi letterari, e consistente nella scelta morfo-sintattica di rifiuto dell’elisione - ortograficamente corretta e dunque opzionabile - fra vocali finale e iniziale di pronome e soggetto di genere femminile, allo scopo di ricomporre una diversa articolazione fonica e ritmica della frase, recuperando accenti tonici secondari che ne redistribuiscano la scansione: come esemplificazione segnaliamo qui le occorrenze «di una ambiguità», «di una esistenza», «ad una indagine». Tale mancata elisione rappresenterà sempre la spia morfologica di una precisa scelta stilistica di Parise: a volte a favore e in rafforzamento di una narrazione condotta secondo uno stile snob e lezioso; a volte, come nel presente caso, con l’intento di contribuire a rendere la narrazione più fluida e sinuosa, il suo ritmo più rallentato e predisposto a sospensioni, tali da accrescerne lo spessore emozionale e riflessivo. Con riguardo poi al lemmario della fantasia sognante:, ritroviamo o rileviamo ex-novo voci quali: misteriosa, intima, segreta, ambigua, sogno, calli, labirinto, fantasia, sfuma, illanguidisce, (molli) cadenze, cantilene, antica, immaginazione, viaggi, ( mercati d’) Oriente, bazar, Medio Oriente. 117


III.3

1955 Parigi Il 15 gennaio 1955, la pubblicazione di un racconto inaugurò la collaborazione

di Parise con il quotidiano «Corriere d’Informazione». Il mese successivo, in qualità di inviato della testata, si recò a Parigi, ove rimase dal 16 febbraio al 23 aprile, di cui scrisse un reportage pubblicato sul giornale sotto forma di quindici articoli. Come già accaduto con il precedente testo Il ghetto di Venezia, anche questo non vide mai la luce sotto forma di volume unico, ma ne fu fatta una prima raccolta parziale degli articoli nell’opera di Parise edita dai Meridiani141, e una successiva raccolta altrettanto parziale nel saggio142 di Ilaria Crotti dedicato al viaggio dello scrittore nella capitale parigina. Con titolo La camera N. 7 d’uno strano Grand Hôtel143 e Ma guarda chi si incontra! Pancho Villa redivivo144, i due primi articoli si presentano subito come capitoli successivi di una micro-storia unitaria, un mini racconto singolare e autonomo all’interno dell’intero reportage. Le stesse parole di Ilaria Crotti confermano quest’articolazione del viaggio, qualificata come dittico: Il loro disporsi in dittico viene sottolineato, oltre che da evidenti contrassegni testuali interni (temi, intreccio, caratteri e voci dei personaggi, stile e tono del discorso), anche dalla comparsa del Numero II (in cifra romana) proprio in testa al secondo, mentre, invece, un corrispettivo numero I risulta assente nel precedente145.

A dire il vero, questo breve racconto poco o nulla ha a che vedere con una narrazione di viaggio in senso stretto, in quanto di luoghi se ne vedono ben pochi e quasi tutta la scena è concentrata in un albergo e nella vicenda che vi si svolge. Non è

141 Cfr. la sezione Luoghi e reportages, in OPERE I, pp. 1404-27. 142 Ilaria Crotti, 1955: Goffredo Parise reporter a Parigi, cit., p. 59-70. 143 La camera N. 7 d’uno strano Grand Hôtel, in «Corriere d’Informazione», 23-24 febbraio 1955; ora in Ilaria Crotti, 1955: Goffredo Parise reporter a Parigi, cit., p. 59-64. 144 Ma guarda chi si incontra! Pancho Villa redivivo, in «Corriere d’Informazione», 25-26 febbraio 1955; ora in Ilaria Crotti, 1955: Goffredo Parise reporter a Parigi, cit., p. 65-70. 145 Ilaria Crotti, 1955: Goffredo Parise reporter a Parigi, cit., p. 55.

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poi così azzardato definire i due testi un racconto che oscilla fra i generi noir, giallo, spy story e umoristico, sempre che non si voglia considerare quest’ultimo un semplice tratto stilistico, fra altri: di cui uno, facilmente rilevabile, è una leggera atmosfera di assurdità kafkiana che percorre la narrazione. Parise, auto dichiaratosi viaggiatore provinciale e neofita, viene catapultato in un’atmosfera strana e poco comprensibile, quasi misteriosa, sin dal suo arrivo nell’hotel Grand Hôtel des Iles du Sud, dove trova ad accoglierlo un improbabile vicedirettore dal nome spagnolo Gonzales e dal comportamento indecifrabile: tanto che, precisata la sua mansione di vice, più che accettarlo come cliente dell’albergo sembra dissuaderlo, invitandolo a trovare una sistemazione a lui più consona in un altro albergo di Parigi. Il comportamento di Gonzales si fa man mano inspiegabilmente più complimentoso e confidenziale, tanto da confidare a Parise che presto diventerà lui il padrone: mentre la figura del padrone, di fatto, continua ad aleggiare come un fantasma su tutta la vicenda: Sono un provinciale, non ho mai viaggiato ed ora eccomi a Parigi sulla porta del Grand Hôtel des Iles du Sud, nei pressi si St. Lazare. Qui ha luogo il mio primo incontro con Parigi […], di una miseria intensa[…]. Scendo dunque dal taxi ed entro in questo strano grand hoôtel dal nome strano, dove già l’ombra del Corsaro Nero mi viene incontro nella fantasia, in un gioco di immagini confuse ed eccitanti. L’entrata è strettissima, una specie di corridoio, male illuminato da una lampada a forma di galeone […]. Chiedo una stanza, ma l’uomo con le basette non risponde. Egli si chiama Gonzales, non è il padrone, dice, il padrone verrà tra poco. Tuttavia può ugualmente farmi cedere la camera. Molto complimentoso […] comincia subito col dirmi sotto voce che quello non è un albergo per me […]. Arriviamo al quinto piano, il signor Gonzales con molte cerimonie mi fa entrare in una camera, il numero 7 […]. A un certo momento una voce roca e lamentosa chiama da una stanza di sotto. È un mistero […]. Ricomincio a pensare a Parigi […]. Mio padre non ha fatto che sognare Parigi, durante la sua vita e non c’è mai stato. Ho finito per sognarla anch’io come lui […]. Dalla stanza di sotto giunge una voce lamentosa, e, a tratti, quella del signor Gonzales, questa volta stranamente autoritaria nel tono146.

146 Ivi, p. 59, 60, 61.

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Parise consegna il passaporto ed esce. Entra subito in un ristorante di cui rimane deluso. Torna per strada, inizia a passeggiare per la città ma si perde. Per orgoglio non chiede indicazioni. Si ritrova sotto l’Arco di Trionfo di cui scrive «non è un aiuto, non è niente, è solo un gigante di cui, al momento, non mi importa proprio niente»147. Alla fine l’orgoglio cede e chiede indicazioni a un passante: Sono le tre di notte, di Parigi non ho visto che l’Arco di Trionfo […]. Suono ma nessuno viene ad aprirmi […]. Finalmente, dopo circa mezz’ora, ecco spuntare da una finestra Gonzales […]. M’apre la porta, mi fa accomodare in un salottino […]. A quell’ora far preparare la camera? Non capisco niente… Dice che le patron è molto malato ed ha avuto una crisi di nervi […]. Il signor Gonzales più cerimonioso che mai mi accompagna nella mia camera […]. Mi butto sul letto quasi vestito. Mi sembra di udire, nella camera di sotto, continui rumori, lamenti, perfino delle grida. Non saprei dire se fosse un sogno ma non credo.

Parise insomma, ci sta mostrando la possibilità che un’esperienza di viaggio non sia sempre un percorso lungo un itinerario di luogo, fisico o mentale, ma anche pretesto per l’attivazione parallela di storie e narrazioni elaborate dall’immaginazione che di quella realtà geografica fanno mero scenario. Sottolineo immediatamente l’importanza del passo in cui Parise scrive «ricomincio a pensare a Parigi […]. Mio padre non ha fatto che sognare Parigi, durante la sua vita e non c’è mai stato. Ho finito per sognarla anch’io come lui», perché ci conferma quanto l’aspetto biografico e psichico infantili delle letture e dei racconti paterni siano stati fondamentali nell’accendere nello scrittore curiosità, passione per il viaggio e immaginazione fantastica. Riguardo poi alla presentazione iniziale che Parise fa di sé stesso con le parole «sono un provinciale, non ho mai viaggiato», è la stessa Ilaria Crotti che acutamente mette in allerta sul pericolo di cadere in facili “manipolazioni” poetiche da parte dello scrittore, fornendoci un’interpretazione ben più complessa e letterariamente smaliziata:

147 Ivi, p. 65..

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Anche l’opzione “provinciale” di Parise […] sembra collocarsi […] in modo tale da rigenerare l’apparente professione di subalternità in uno sguardo invece attento a non lasciarsi ingannare dalle fasulle quinte di una magnificenza d’apparato. In questa linea programmatica mi pare proprio collocarsi l’ouverture del primo brano, nel suo esibire una voce che dice io nel discrimine di un ostentato “provincialismo”. Una prima persona che dice io, quindi, che si autocertifica in quanto “provinciale”, ma non solo; che dichiara con apparente candore voltairiano, come se non bastasse, la propria totale inesperienza odeporica. Parrebbe l’autoritratto di un personaggio ingénu […]: sembra in grado di garantire un quoziente elevato di stupore estetico ed emotivo sia sul versante del personaggio che lo narra come al livello del lettore che lo recepisce e rielabora148.

Ed è sempre la Crotti che ci conferma il carattere anomalo di questo racconto in due parti, la sua appartenenza ad un genere più vicino all’investigazione del giallo che alla narrazione odeporica: La scansione a due puntate, organizzate tra la prima e la seconda parte del dittico, diviene funzionale a una spaziatura che finalizza entrambe a una resa “poliziesca” dell’intreccio149.

Nel secondo articolo del dittico, intitolato Ma guarda chi si incontra! Pancho Villa redivivo, Parise prosegue e conclude il racconto, portando a compimento la trama attraverso poche scene che condensano gli eventi in un classico colpo di teatro, che lascia tuttavia contorni ancora misteriosi. Parise viene svegliato più volte di notte da un rumore di passi. Ne chiede spiegazione ma Gonzales lo tratta in modo villano. Sale in camera a scrivere lettere ma è distratto da altri rumori nell’albergo. Affacciatosi alla finestra vede un’ambulanza davanti all’albergo. Sceso al burò vede due infermieri trasportare il padrone su una lettiga fino all’ambulanza. Vorrebbe chiedere spiegazioni a Gonzales ma entrano due ragazzi con un uomo, che riconosce: è un generale eroe della guerra civile spagnola. Questo personaggio squadra lui e minaccia Gonzales. Parise si presenta come scrittore italiano: dal quel momento l’uomo lo prende in simpatia. Lo

148 Ivi, pp. 30, 31. 149 Ivi, pp. 37.

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invita ad uscire insieme e in macchina raggiungono un bar frequentato da spagnoli. L’uomo rivela che Domingo, nome del padrone dell’albergo, è un eroe di guerra come lui. E che Gonzales è un agente sovietico, che vuole eliminare Domingo. E che lui stesso prima o poi morirà. L’uomo si alza e va via. Parise esce e torna all’albergo. Dove trova la polizia e le sue valigie pronte. Questa in sintesi la trama, che possiamo leggere attraverso alcuni passi finali del testo: Parigi riserva delle sorprese, che alcune volte vanno al di là della fantasia. Si ha la sensazione che questa città conservi ancora un clima rivoluzionario […]. Ieri, per esempio, ho dovuto cambiare albergo perché il padrone dell’Hôtel des Iles du Sud è stato trasportato all’ospedale, in circostanze piuttosto strane, tanto che ora la polizia sta interessandosi della cosa. L’altra notte mi svegliai varie volte, al rumore di passi che salivano e scendevano le scale. Al mattino ho interrogato il signor Gonzales […], mi ha risposto evasivamente, in modo quasi villano […]. Guardai fuori, in strada. Un’ambulanza sostava sulla porta dell’hôtel. Sospettando qualcosa, mi vestii in fretta e scesi al burò; proprio in quel momento due infermieri stavano uscendo dalla stanza del padrone, trasportando su una lettiga un uomo grossissimo, paonazzo in viso, con gli occhi strabuzzati. Continuava a chiamare Gonzales […]. Entrarono in albergo tre uomini: due giovanissimi… il terzo aveva l’aspetto di un contadino siciliano […]. Lo riconobbi immediatamente: era uno dei più famosi generali della guerra civile spagnola […]. L’uomo si alzò […], prese Gonzales per il maglione, lo scrollò due o tre volte, poi lo lasciò […]. Lei è un famoso generale della guerra civile, non è vero? […] L’uomo mi squadrò poi sorrise e con modi estremamente cortesi […] mi chiese come avevo fatto a conoscerlo. Gli dissi che ero uno scrittore italiano, che conoscevo molto bene le sue avventure… Mi invitò ad uscire con lui […]. Il caffè dove ci fermammo era pieno di spagnoli […]. - Domingo è mio amico - disse - è in mezzo ai guai perché quella canaglia di Gonzales vuol farlo fuori. Egli ha combattuto con me in Spagna, era un grande organizzatore di guerrillas […]. Gonzales, invece, lavora per la Russia […]. A questo punto lo spagnolo si alzò per andarsene. Fuori c’era un arabo in baracano e con un grande turbante di seta bianca in testa […]. Presi il tassì e tornai all’albergo, colto da uno strano presentimento. L’albergo era piantonato dalla polizia.

Sono pochi ed essenziali tratti icastici, questi che Parise usa per comporre una rappresentazione vivida che a un ritmo snello abbina atmosfere attente e concentrate. 122


Lasciato il mini-racconto nel racconto, dai successivi articoli il maturando stile di Parise torna prepotente a immergere la scrittura in descrizioni talvolta lente e quasi solenni, talvolta scattanti e graffianti, scandite da quel suo personalissimo ritmo avvolgente e sinuoso, alternate da intermezzi discorsivi e riflessivi. È innegabile tuttavia che, con intensità diversa nel corso del reportage, la caratura giornalistica si faccia talvolta ancora prevalente rispetto a quella poetica. In ogni caso, persino l’impressione generale di Parigi sembra assumere tinte più gradevoli rispetto al primo articolo, rimanendo comunque ambivalente. Si veda quanto Parise scrive nell’articolo Il signore che aveva prenotato un posto in fondo al giardino150: La Francia ha perduto con Paul Claudel il suo più importante poeta contemporaneo. Ho voluto anch’io, immerso in questa immensa Parigi come in un pazzo sogno, rendere omaggio ultimo alla salma del grande poeta. Voglio dire innanzitutto il mio grande stupore di fronte a questa sua casa[…]. Lo stupore m’era derivato da questo: di non aver provato la minima sensazione macabra […], ma, al contrario, una sensazione fortissima di vita […]. La morte di Paul Claudel mi ha procurato stupore e vorrei dire un certo quale intenerimento nei riguardi di Parigi: essa ha sollevato in tutta la popolazione di questa città un’ondata viva di vera, umana commozione[…]. Ho udito nei ristoranti, nei bar, perfino in una sala di boxe in cui mi sono recato ieri, parlare della morte di Claudel […]. È stata una sorpresa, lo confesso, sconcertante […]. Come se i grandi spiriti della Rivoluzione, Voltaire, Rousseau, Diderot fossero ancora presenti, in tutta la loro evidenza.

Scrive Ilaria Crotti, che in questo testo Parise rappresenta una sua traccia ricorrente: quella «mortuaria, coniugata ad una visionarietà onirica»151. Afferma anche che «scartati i palcoscenici spagnoleggianti» lo sguardo di Parise «scopre l’etimo più originale di uno spazio urbano che vive… una vita che nega il macabro di una civiltà e

150 Il signore che aveva prenotato un posto in fondo al giardino, in «Corriere d’Informazione», 26-27 febbraio; ora in OPERE I, pp. 1404-8. 151 Ilaria Crotti, 1955: Goffredo Parise reporter a Parigi, cit., pp. 45.

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di un popolo che professa un “amore connaturato per la cultura”». Si leggano ora alcuni passi tratti dall’articolo Per divertire Parigi ciclisti ai lavori forzati152: Non credo di andare molto lontano dal vero se affermo che una delle caratteristiche meno superficiali di Parigi è la crudeltà […]. Sono stato in questi giorni alla “Parigi sei giorni” […]. Anzitutto lo stupore per il luogo dove questa gara ciclistica si svolge: una pista coperta, dall’aspetto di un circo equestre […]. Gli spettatori della pelouse, mangiano salsicce, quelli delle gradinate [] assiepano ai parapetti urlando simili a bestie inferocite in direzione della pista: e sulla pista, per sei giorni e sei notti ininterrottamente, un gruppo di sedici uomini in bicicletta disputa la più snervante e la più artificiale delle gare che io abbia mai visto. I loto volti sono solcati dai segni dello sforzo […]. Entrando in questo luogo chiamato “Vélo d’Hiver”, ho sentito parlare soprattutto di denaro […]. Ho notato il modo in cui trattano. La rivalità, è chiaro, elimina ogni rapporto umano diretto, l’egoismo e la ferocia lasciano il posto ad ogni altro sentimento o moto dell’animo […]. Non mi si dica che questo è sport […]. L’altro pubblico, quello meno snob e più genuino, quello degli operai o della povera gente, non ha di questi capricci […]. Molti hanno lavorato tutta la giornata e la loro sete di emozione è allo spasimo […]. Il fumo, via via che si avvicinano le ore piccole, rende ancora più greve l’atmosfera […]. Essi [i corridori] assumono l’aspetto di minuscoli giocattoli automatici […]. E il pubblico delle logge […] fu uno degli spettacoli umani più terribili che io abbia mai visto. Come se la crudeltà, di cui ho parlato all’inizio di queste righe, fosse giunta senza ritegni al vizio sfrenato: il caldo era soffocante, una folla di volti […] protesi verso la pista, in una tensione simile, nella sua sostanza, alla febbre o alla paura. E fu in quei volti che io lessi per la prima volta da quando sono a Parigi la prova di una decadenza intima e profonda, che non si può cancellare.

Non è più una gara ciclistica che Parise ci sta raccontando: è la descrizione di una lotta fra gladiatori e belve dentro un’arena. La scrittura sceglie la pennellata veloce ed espressionista e tratteggia situazioni, luoghi e persone in modo graffiante e deformato. Parise è maestro nell’evocare particolari atmosfere a lui congeniali, e questa lo è: una scena di eccitazione generale, animalesca, grottesca, talvolta confusa e asfittica. Ovunque si concentri il suo sguardo, sempre ne viene restituita un’immagine

152 Per divertire Parigi ciclisti ai lavori forzati, in «Corriere d’Informazione», 17-18 marzo; ora in OPERE I, pp. 1414-7.

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di vitalità negativa, di energia ferina, di disumana lotta competitiva. È il segno di una decadenza di civiltà, come lui scrive. Ma forse è anche l’anticipazione della disumana lotta per l’esistenza di cui avrà esperienza di lì a pochi anni nella società statunitense? Da segnalare l’aspetto stilistico della fantasia sognante, che troviamo popolato da lemmi quali: pazzo sogno, macabro, Corsaro Nero, fantasia, (immagini) confuse ed eccitanti, galeone, mistero, nebbia, sognare, sorprese, strana e sospettabile, circo equestre, sospensione (nell’aria), (situazione) drammatica, avventure, (paura) immaginaria, fantasma, arabo in baracano, turbante, gitano.

III.4

1959 Israele (L’ultimo sabato di Israele) Nel gennaio del 1959 Parise si recò in Israele per un breve viaggio, di cui

racconterà nel reportage pubblicato in aprile su «L’illustrazione italiana»153. Lo scritto risulta a tutt’oggi poco, o niente affatto, frequentato, indagato e apprezzato dalla saggistica. Probabilmente, per una sua non elevata qualità estetica, di cui può essere concausa il taglio descrittivo marcatamente giornalistico: Parise insomma, se non con poche eccezioni, non riesce a trasformare in narrazione poetica la didascalicità arida e insistita delle descrizioni pur necessarie alle comprensibili esigenze informative del genere giornalistico. Tuttavia, nel testo le eccezioni esistono, seppur brevi, e le rileveremo; e sempre nel testo, è ravvisabile una strutturazione raffinata e precisa del racconto, tale da

153 Goffredo Parise, L’ultimo sabato di Israele, in «L’Illustrazione italiana», 4, aprile 1959; riedito in Saggi italiani 1959, a cura di Alberto Moravia e Elemire Zolla, Milano, Bompiani, 1960, pp. 51-5; ora in OPERE I, pp. 1437-1449.

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confermare una consapevole sorveglianza e maturità dello scrittore-giornalista. Infatti, per usare immagini prese in prestito dalla tecnica cinematografica, se il racconto di viaggio Il ghetto di Venezia è costruito sullo sguardo di Parise in movimento, dunque secondo la tecnica della carrellata in avanti, viceversa il reportage su Israele è articolato secondo differenti e alternate modalità di visione da parte dello scrittore, e dunque su diverse tecniche di ripresa: a inquadratura fissa con voce fuori campo, a piano sequenza, a carrellata in avanti. Il reportage inizia con un’inquadratura fissa con voce fuori campo: Parise mette a fuoco la propria biografia per descriverne vissuto e ricezione relativi a ciò che significa per lui mondo ebraico: dal misterioso appellativo «ebreo » usato dalla nonna, all’universo degli eccitanti giochi infantili in un cimitero ebraico, alle leggi razziali: secondo un movimento non spaziale ma temporale: Da ragazzo udivo parlare degli ebrei come di coloro che avevano crocifisso Gesù Cristo. La frase «sei peggio di un ebreo» usata dalla nonna per punirmi di certe piccole negligenze religiose assumeva ai miei orecchi un gravissimo significato, pari, se non peggiore, all’accusa di blasfemia. Giunsi fino all’adolescenza senza aver mai visto né conosciuto un ebreo. Tutto quanto sapevo su di loro, popolo razza o religione stava racchiuso in quella frase della nonna o nella malfida oscurità di certe iscrizioni sulle lapidi di un piccolo cimitero ebraico abbandonato dove mi recavo a giocare; quelle lettere così simili a quelle arabe mi facevano pensare a un popolo di pelle scura chissà come infiltratosi fin quassù. Il cimitero era stato scelto da noi ragazzi come luogo di ritrovo, proprio per una certa aria quasi infetta e di maledizione […], proprio per quell’aria sinistra di luogo maledetto. Molti di noi, scoperti dai genitori […] venivano puniti; queste punizioni servivano a montare la fantasia e […] gli appuntamenti al cimitero assumevano l’importanza di una avventura. Più tardi all’idea di ebreo si associò quella di avaro e imbroglione. Poi cominciarono le leggi razziali e […] mi sfuggivano i termini di questo oscuro ma insistente dialogo sull’ebraismo154.

Questa iniziale e autobiografica descrizione ha in realtà un alto tasso poetico, non fosse altro perché Parise la costruisce con rapidi e suggestivi tratteggi, e la qualifica

154 L’ultimo sabato di Israele, in OPERE I, pp. 1437-8.

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con le immagini e il mondo della sua infantile immaginazione fantastica che già abbiamo avuto modo in più occasioni di rilevare come nodo fondante della sua arte. E tale valenza estetica, come sempre nei suoi reportage, rende più toccante ed efficace l’aspetto civile della narrazione, che a questa altezza indirizza la tensione etica verso le radici personali, ma ipotizzabili anche nel collettivo, di un razzismo antiebraico: tanto da precisare lui stesso che «ho voluto risalire di proposito all’infanzia, con l’intento di mostrare in quale modo […] si fondassero l’equivoco sul mondo ebraico e, sotto certi aspetti, i germi di un antisemitismo latente»155 . La narrazione prosegue poi con una seconda inquadratura fissa con voce fuori campo, nella quale Parise delinea sinteticamente caratteristiche ed evoluzione in Europa di questo contagio antisemita, secondo un ulteriore excursus verticale nel tempo: Si giunge facilmente a comprendere come alla radice di ogni ondata di persecuzioni, molto più in fondo dei pretesti […] storico-economico-razziali, ardesse l’indistinto rancore della non conoscenza […]. Da un simile sostrato psicologico radicatosi nei non ebrei in seguito a “impressioni” simili a quelle personali già descritte e nutrito da un passivo conformismo nell’accettare l’idea delle persecuzioni nei territori della Diaspora come fatalità storiche, derivò quel tanto di antisemitismo popolare sufficiente, se non a giustificare nelle sue forme più acute, certo a tollerare uno stato di perenne violenza (e per violenza intendo anche il solo bagaglio dei pregiudizi) verso il popolo ebraico156.

Segue una terza inquadratura fissa con consueta voce narrante, in cui Parise traccia storia e significati della nascita dello stato d’Israele: è questa una delle parti più didascaliche e aridamente informative dell’intero testo. La quarta inquadratura, sostituendo spazialità alla temporalità, effettua uno zoom sul quartiere Meat-Schearim di Gerusalemme, evidenziandone confusione e aspetti miserabili, e in particolare le yeschivot, le scuole ove si coltiva la più rigorosa

155 Ivi, pp. 1438. 156 Ivi, pp. 1439.

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ortodossia. A seguire, una quinta inquadratura dalla spazialità astratta nella quale si descrive storia e pratica dell’esperienza del kibbuz. La sesta ripresa è a piano sequenza, e la voce fuori campo di Parise propone una corrispondenza fra il dualismo del concetto di Israele presso gli ebrei e il dualismo presente nel paesaggio mostrato dal piano-sequenza della macchina da presa oculare dello scrittore: Abbiamo detto che c’è […] nel concetto di Israele presso gli ebrei un dualismo di natura ideologica […]. Questo dualismo risulta benissimo dal paesaggio: si immagini un territorio lungo circa sei o settecento chilometri, largo nei punti massimi centocinquanta o duecento, in quelli minimi perfino venti […]. La zona a nord […] si innalza in direzione del Libano e della Siria, quella a sud si estende attraverso il deserto del Neghev fino al golfo di Eliat. La diversità tra queste due zone di territorio, così vicine, è enorme: in un giorno di automobile da un paesaggio di tipo collinoso e vagamente verdeggiante, si passa a un deserto immane e desolato, fatto di pietrisco. Di queste due regioni […] prendiamo le due città più significative. A nord Safed; a sud Beersheba.

Nella settima inquadratura lo sguardo effettua uno zoom sulla città di Safed «considerata dagli ebrei ortodossi la città santa di Israele»157, quindi si inoltra nel suo interno attraverso una carrellata in avanti della ripresa: è questa la parte più bella e poetica del reportage, poiché Parise risulta impareggiabile nel tratteggiare con pochi schizzi le atmosfere estetiche di un luogo e di una situazione: Questa atmosfera rarefatta e quasi irreale data dall’inganno di quelle terrestri visioni, si fa ancora più intensa quando si entra in città […]. Arrivammo a Safed proprio di venerdì sera, all’ora del crepuscolo […]. La città appariva deserta. I negozi chiusi, gli alberghi sprangati, rari passanti per le strade. Un vento freddo e secco che spirava da nord, oltre le montagne del Libano, spazzava la città […]. Il silenzio non turbato dal vento […] rendeva più intensa la spiritualità del luogo; non potendo sopportarlo gettai un sasso tra le macerie […]. Il paesaggio, oppresso da quel silenzio, mi parve quasi lugubre. L’oscurità scese rapidamente […]. Sempre scendendo lungo il dedalo di viuzze giungemmo ad una sinagoga che la nostra guida ci indicò come una delle più antiche e più belle di Safed […]. Ma non era affatto così […]. I candelabri a

157 Ivi, pp. 1445.

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sette braccia reggevano lampadine e tutto intorno alle volte friggevano e ronzavano tubi di neon. Anche in quel tempio era arrivata la follia di rinnovamento […], e ciò che appariva ancora più lugubre in quella specie di castello incantato da Luna Park di paese era la presenza di volti smarriti, incorniciati dalle barbe bianche […]. Al centro della stanza un uomo guercio cantava; superstite di quello sfacelo era la sua splendida voce: essa si levava da quel luogo assurdo […] a dispetto di quel teatro di marionette158.

Nell’ottava inquadratura Parise adotta la medesima tecnica: zoom sulla città di Beerscheba e a seguire carrellata in avanti e ingresso nel paese. Con la nona inquadratura la narrazione si chiude: adottando l’iniziale stile didascalico Parise conclude il testo, avanzando conclusioni sintetiche che delineano la contemporanea e lacerante polarizzazione del popolo di Israele fra richiami e anatemi dell’ortodossia e urgenza del sionismo avanzante. Se ce ne fosse bisogno, il presente scritto ci conferma che nei reportage, nei romanzi, e negli innumerevoli racconti è ricorrente la frequentazione del mondo ebraico da parte dello scrittore, attestata da numerosi passi e testi integrali: lapidi, tombe e cimiteri in Il ragazzo morto e le comete e vari racconti; sinagoghe e il ghetto stesso nella flânerie attraverso quello di Venezia, nell’omonimo reportage. Tanto da attestarci l’esistenza di uno specifico mini-lemmario ebraico. Riguardo ai lemmarii fantasia sognante ed ebraico, raggruppati insieme sotto un’unica area semantica, segnaliamo un campionario non esaustivo di voci (già registrate o nuove): ebreo, malfida oscurità, lapidi, cimitero ebraico abbandonato, lettere arabe, popolo di pelle scura, aria infetta e di maledizione, aria sinistra, luogo maledetto, lume di candela, tombe, fionde, fantasia, avventura, misteriosa, infanzia, antisemitismo, leggende popolari, inconscio sedimento, (sulla) magia (e le) streghe, l’oscurità della lingua, ghetti, Diaspora, Torà, Talmud, medine nordafricane, mellah,

158 Ivi, pp. 1445-7.

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fondachi carichi di spezie, scole, lunghe barbe, deserto immane, piane seleniche, silenzio, lugubre, dedalo di viuzze, marmi sontuosi, candelabri a sette braccia, castello incantato, Luna Park di paese, colbacco mongolo, gabbane da ghetto orientale, teatro di marionette. Fra questi, va evidenziato Luna Park, che insieme ad un ristrettissimo numero di lemmi (avventure, fantasie, barone di Münchausen, marinaio Ahmed, bazar, oriente …) ricorre con frequenza ancor più impressionante dagli esordi fino alla fine della carriera artistica di Parise.

III.5

1960 Russia (Questa è la Russia di Krusciov) Il reportage analizzato in questo sottopragrafo ha per titolo generale Questa è

la Russia di Krusciov, e risulta composto da tre testi, dotati di specifico sottotitolo, pubblicati in tre corrispondenti articoli sul periodico «Settimo Giorno» nel marzo 1960: All’aeroporto di Mosca incontro Tarass Bulba con un transistor159, Trent’anni di vita politica attraverso le stazioni del metrò160, Leningrado è il fantasma di Pietroburgo161. In una lettera scritta in febbraio (1960) a Giovanni Comisso Parise: afferma che il viaggio nei Paesi dell’Est è andato «benissimo ».. via Vienna raggiunge Mosca e Leningrado. Prima di partire per Mosca fa tappa a Budapest. In aprile rievoca sul «Corriere d’Informazione» quel suo primo avventuroso viaggio: «Indosso un peliccione con manicotto da zia invernale […]. Alberga famiglia di tarme settecentesche, in parrucca e spadino, polvere della prima guerra mondiale e toni di voci tragiche […] e dal momento che sono in aereo mi pare di viaggiare nel cielo come il barone di Münchausen su una palla di cannone»162.

159 Goffredo Parise, Questa è la Russia di Krusciov 1. All’aeroporto di Mosca incontro Tarass Bulba con un transistor, 10 marzo 1960, pp. 28-31; ora in OPERE I, pp. 1457-66. 160 Goffredo Parise, Questa è la Russia di Krusciov 2. Trent’anni di vita politica attraverso le stazioni del metrò, 17 marzo 1960, pp. 18-21; ora in OPERE I, pp. 1466-1474. 161 Goffredo Parise, Questa è la Russia di Krusciov 3. Leningrado è il fantasma di Pietroburgo, 24 marzo 1960; ora in OPERE I, pp. 1475-82. 162 Cfr. la Cronologia in OPERE I, p. L.

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Superfluo rilevare l’ennesimo ricorrere dell’immagine del barone di Münchausen, se non per sottolinearne il contributo umoristico ad una scena già resa comica dallo scrittore infagottato in un improbabile «peliccione con manicotto da zia invernale» infestato di «tarme settecentesche»: per di più, rammentando sempre quante infrequenti siano state le declinazioni umoristiche o comiche nella vita e nell’opera parisiane. Come già per il reportage da Israele, anche questo scritto risulta a tutt’oggi assai poco - o per nulla - frequentato e indagato dalla critica. Curiosamente oserei dire, poiché la sua valenza estetica è fuori discussione e le esigenze informative del giornalista scorrono in equilibrio con le suggestioni creative del romanziere, persino in quei passaggi descrittivi sempre a rischio di meccanicità informativa. Senza trascurare il fatto che Parise si recò nel paese originario e capofila del socialismo reale - la Russia di Krusciov - nel periodo storico della divisione mondiale in blocchi e della guerra fredda, seppur di lì a poco exeunte: questo aspetto, da solo, varrebbe a conferire al reportage maggiore rilievo storico e politico. Nel primo dei tre testi che compongono il reportage, intitolato All’aeroporto di Mosca incontro Tarass Bulba con un transistor, Parise racconta le prime impressioni ricevute all’aeroporto di Mosca, le sue esplorazioni in tassì attraverso la città, le visite alla Piazza Rossa e al Mausoleo di Lenin e Stalin, gli incontri con il popolo russo, il girovagare per quartieri e sobborghi cittadini fino al limitare delle prime zone di campagna. Le descrizioni sono espresse nel consueto stile parisiano: un ritmo lento e sinuoso congiunto a un’aura di sospensione perenne, declinate insieme da uno sguardo che attira magicamente la realtà per restituirla trasformata in mondo al contempo reale e 131


allusivo, oggettivo e altro. Con fulminee e icastiche, quanto leggere, immagini, a tratteggiare improvvise un soggetto, una situazione, un paesaggio. Inizio dunque con il leggere alcuni passi di questo magnifico reportage, ingiustamente trascurato da critica e lettori: In principio pare di essere in campagna. Gran mercato, mecca, bazar, contadini dalle facce come pugni, le oche col collo fuori dalle sporte, i bambini rossi congestionati in scafandri di pelliccia, le donne infagottate con sciarpe e sciarpette e fazzoletti di rayon lucido multicolore […]. Arrivo che è quasi notte. Scendendo dalla scaletta dell’aereo scorgo […] una immensa parata di reattori Tupolev, simile ad una sterminata famiglia di balene di alluminio affioranti dal ghiaccio […]. Dentro l’aeroporto, di nuovo fagotti con le oche […]. Mi pare di essere un poco sfollato […]. Perdo la nozione del tempo storico, che sembra diviso tra il ricordo dell’inverno 1944 e la fuga spaziale avvenire. Sono avvolto in un pelliccione cencioso scovato a Budapest, nelle soffitte di un teatro, ricettacolo di tarme ottocentesche, di polvere, di toni di basso profondo […]. E mi prende un eccitamento irrefrenabile, all’istante, come se davanti a me, lì, seduto sulla panca dell’aeroporto [..], vedessi Tarass Bulba [condottiero cosacco che impersona il personaggio di un omonimo racconto di Gogol’], con un transistor in mano. I miei ospiti, che stentano a riconoscermi sepolto come sono in quei cenci di teatro, mi fanno salire su una tassì elegantissimo che sembra un’auto diplomatica […]. Ecco le luci di Mosca, piatte, distese sulla campagna. Un grande riverbero nel cielo e più alte di tutte le luci bianche o azzurrine o rosa e più alte di tutte […] altre luci rosse [..]. sono grandi stelle rosse sulla sommità degli edifizi […]. Mi ricordano le immense croci al neon […] sui campanili di certi nostri santuari in collina. Le prima case di Mosca: immensi edifici color ocra livido, grandi cubi, più grandi di tutti i grandi cubi delle nostre periferie, e tutte uguali […]. Dalla periferia cubica l’auto si infila dritta in una vasta cintura di casette a due piani, quasi tutte di legno o di legno e stucco, un poco sbilenche […]: mi pare di essere entrato in un immenso teatro di posa dove tutto fa parte di una labirintica ricostruzione scenografica […].vedo lampeggiare le cupole d’oro delle chiese del Cremlino, tonde, gialle e multicolori […], grosse, gonfie cipolle d’oro, irregolari e aeree come in un sogno infantile dopo un’eccitata sera in un Luna Park […]. Esco dall’auto sulla Piazza Rossa […]: il freddo è intensissimo, a causa del vento. La neve corre e scivola sulla piazza come una grande tenda di garza […]. Ma è un vento silenzioso, sicché la piazza è sospesa in un vuoto inciso appena dal ronzio dei riflettori […]. Ho davanti a me il mausoleo di Lenin e di Stalin una […] architettura cimiteriale moderna […], di una pesantezza d’acciaio, neocapitalistica […]. È l’unica cosa che mi fa ripensare immediatamente all’Italia provinciale e contaminata da follie faraoniche dei giorni nostri: a certi cimiteri di provincia con tombe che sembrano ville […]. Questo mausoleo sembra una banca […]. E un ronzio […] lugubre nel silenzio della piazza notturna. Saliamo all’albergo Nazionale […]: un vecchio albergo fine Ottocento […]. 132


Si cena al suono di una orchestrina e ogni tanto una coppia si alza dal tavolo […]; come una casalinga e un falegname ai nostri balli dell’ENAL nel 1947 […]. Si muovono con quella timida serietà proletaria che esisteva nei balli ENAL prima dell’infiltrazione jazzistica e dei juke-boxes che ha distrutto tanghi, fox, e valzer lenti, colonne del proletariato domenicale […]. Osservo le stelle sulle guglie del Cremlino […]. Più tardi, dalla finestra della mia camera, le guardo a lungo, quelle stelle, cercando di trattenere negli occhi i loro rossi bagliori […]. Dietro il Cremlino […] il cielo è arroventato da nuvole di fuoco che salgono dalle ciminiere della centrale elettrica: un fumo rossastro, da grande incendio […]. L’interno del Mausoleo corrisponde in maniera sorprendente alla mia primissima impressione, di sotterraneo di una banca […]. La sala dove sono esposti i corpi dei due capi del comunismo è più lugubre di qualsiasi lugubre fantasia, appunto perché non vi è traccia alcuna di qualsiasi lugubre fantasia […]. Anche questa campagna è impossibile comprenderla senza immaginarne l’estensione. È una sorta di oceano di terra […]. Cominciano le casupole di legno, sgangherate, colorate, con le finestre a forma di cornice intagliata, rosa, blu, bianche, verdi, assolutamente uguali alle casupole dei quadri di Chagall163.

Mi è stato inevitabile estendere la citazione un po’ più del consentito, perché la bellezza di questo testo iniziale, intesa come efficacia estetica di una personalissima rappresentazione del mondo russo e sovietico, lo richiedeva in modo ineludibile. Rilevo immediatamente che le immagini iniziali nelle quali spiccano «le oche col collo fuori dalle sporte», sono inconfondibilmente gaddiane, richiamando quasi alla lettera due scene del romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana164 ambientato nella Roma del Ventennio: la prima, la descrizione della folla di curiosi sotto il palazzo di via Merulana luogo dell’omicidio: «Donne sporte e sedani; qualche esercente di un negozio di là, col grembiule bianco»; la seconda, la rappresentazione del mercato romano di piazza Vittorio: «Gentili anatomie di capretti spellati, rosso bianche, il codonzolo appuntito… Le donne, le polpute massaie… Polponi semoventi, esse ambulavano a fatica da uno spaccio e da un ombrellaccio al successivo…, annaspavano ad aprirsi il passo…». Entrambe, narrazioni che Gadda ci ha lasciato in eredità fra le più

163 OPERE I, pp. 1457-66. 164 Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Milano, Garzanti, 1957.

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memorabili di tutta la letteratura novecentesca, non solo italiana. A questo proposito, non posso non sottolineare la curiosa circostanza secondo cui, proprio nell’aprile 1960, Parise si trasferiva a Roma, dove, fra altri, conosceva Carlo Emilio Gadda, con il quale stringeva sin da allora una forte e duratura amicizia. Tuttavia, considerata la discrasia temporale dei fatti, dovremmo piuttosto indagare fra le disordinate e originali letture dello scrittore. Ma avremo modo di approfondire questo legame gaddiano in una sezione successiva dedicata alla Suite romana. Tornando all’insieme dei passi citati, non può non risultare acuta e pertinente la citazione dello stesso Parise, il quale ci suggerisce un’interpretazione del suo viaggio attraverso Mosca e dintorni come una lunga sequenza di visioni chagalliane, ovvero sguardi artistici che sollecitano nella realtà l’emersione del fantastico: a conferma dell’importanza che il pittore ebbe per la poetica di Parise, come già evidenziato in precedenza a proposito del reportage veneziano. Nel secondo testo del reportage - Trent’anni di vita politica attraverso le stazioni del metrò - Parise, accompagnato da una solerte interprete, descrive le impressioni di viaggio attraverso le diverse stazioni della leggendaria metropolitana di Mosca, e, successivamente, quelle vissute sempre nella capitale durante la visita all’Esposizione nazionale. Parise non può non evidenziare, segnalando bellezza e monumentalità del metrò, la correlazione fra impianto scenografico-architettonico delle stazioni e regime politico e situazione economica vigenti nel corrispondente periodo di costruzione. Secondo tale approccio, lo scrittore delinea un’originale sintesi storica e politica attraverso un esempio di storia materiale, quella architettonico-funzionale del sistema dei trasporti moscoviti. Nella seconda parte, letteralmente trascinato dall’interprete delusa dal suo disinteresse per tutto ciò che riguarda conquiste spaziali e 134


interplanetarie, visita con fatica e noia i vari padiglioni dell’Esposizione; e in chiusura, passeggia curioso e meravigliato nel più grande magazzino di Mosca, il GUM. Si ravvisa la consueta metaforicità fantastica - che assume talvolta tinte grottesche e fumettistiche - ma di minore intensità estetica, mentre la sospensione del ritmo risulta attenuata e l’atmosfera meno magica, in particolare nella seconda parte: si percepisce nel complesso una minore adesione emotiva e poetica dello scrittore. Costante permane il suo apprezzamento per le sterminate distese di terra e di campagna della Russia, segno tangibile di un’ancora intatta nostalgia della civiltà contadina italiana e non solo: Penso a una campagna […] sterminata, massiccia, fatta a Stati, a mari di terra[…]. Penso a tutto questo stando in metrò. Vicino a me, con un sorriso pallido da suor laica della Casa del Pellegrino, ho la mia interprete: è una ragazza di ventiquattro anni, coi capelli biondo cenere mezzo nascosti da un basco marrone. Parla perfettamente il francese e sa tutto ciò che le chiedo […]: non è soltanto senso del dovere […] ma semplicemente festosità […]. Paradossalmente si potrebbe ricostruire trent’anni di politica sovietica attraverso le stazioni del metrò. Il metrò è prima di tutto un vastissimo palazzo sotterraneo, caleidoscopico, incantato, una sorta di immensa e labirintica dimora da Gran Visir, dove il Gran Visir è il popolo sovietico […]. Le sue stanze sono tutte una diversa dall’altra e riassumono in una arco a parabola ciò che si potrebbe chiamare la proiezione scenografica delle tappe politico-economiche del popolo russo. Le prime stazioni, costruite intorno al 1930, hanno l’aspetto di alberghi diurni o bagni pubblici […]. Le […] seguenti si trasformano in halls di alberghi di prima categoria [..]. Da queste […] si passa […] alle halls di alberghi di lusso. L’impresa del metrò […] è prima di tutto un’impresa politica […]. Stalin ha tenuto gran conto della storia paesana […]. Conoscendo bene il popolo russo e le condizioni in cui si era trovato a vivere fino a quel tempo, Stalin diffidava della sua maturazione estetica molto più di quella ideologica: il popolo, […] non avrebbe potuto raffigurarsi la ricchezza collettiva in modo diverso da quella. La sua cultura era quella che gli veniva messa sotto gli occhi dai mercanti contadini: essi costruivano a Mosca dorati bazar […]. Il popolo russo era un popolo di contadini, di contadini sani e semplici, […] anime morte nelle campagne […]. Stalin fece costruire il metrò […] per tutti quei contadini che non erano mai stati in città. Perciò ordinò un Castello Incantato da grande fiera paesana perché quei contadini e quel popolo si sentissero tutti ricchi, allo stesso livello di quei mercanti […]. Quando risposi a un passante […] che del lunik non mi interessava nulla […] vidi per la prima volta spandersi il rossore sulle guance della mia interpretemonachella e la udii tradurre con difficoltà […]: non persuasa, prese l’iniziativa e mi trascinò all’Esposizione nazionale di Mosca […]. Vi si respira la stessa 135


atmosfera che sta tra il sortilegio e il sogno […]. Ritorno […] in mezzo alla gente, nel più grande magazzino di Mosca: il GUM […]. L’incredibile curiosità e festosità, mi rammentano i bazar e i grandi fondachi di tutta la costa adriatico-mediterranea, dalla bassa Jugoslavia al Marocco […], perché il contadino e l’arabo […] vi si recano prima di tutto e talvolta soprattutto per curiosità e per il piacere, di natura collettiva, di trovarsi in mezzo alla gente.

Nel terzo e ultimo testo, Leningrado è il fantasma di Pietroburgo, Parise inizia la narrazione descrivendo le impressioni ricevute all’arrivo in treno a Leningrado e nel trasferimento in tassì all’albergo; racconta poi una serie di visite compiute per la città: alla piazza sede del Palazzo d’Inverno; alla Neva; all’istituto di Letteratura Puskin; ai due quartieri storici del centro città - separati dalla lunga arteria della Prospettiva Nevsky - con la guida preziosa di un’esperta di Dostoevskij; all’Associazione scrittori di Leningrado, dietro invito ufficiale. Lo scritto si conclude con il ritorno a Mosca, a quella Mosca tanto agognata quanto più capace di sollecitare il ripiegamento nostalgico e memoriale verso un’Italia e una civiltà ancora vive e attive nel cuore antico dello scrittore. La qualità estetica torna a crescere, non solo grazie alla consueta suggestione di ritmi sinuosi, di atmosfere sospese, e di vivide figurazioni poetiche, ma anche per un ricorrente e malinconico timbro nostalgico e commotivo verso rappresentazioni di esistenze collettive, particolarmente accentuato a questa altezza: Arrivo alle nove del mattino con il vagone letto Mosca-Leningrado. Fa un freddo tremendo, un gelo da aria liquida, e il buio è fitto; ma è uno strano buio, un buio innaturale di limbo, blu e silenzioso come le profondità marine, ma si sente chiaramente che è giorno o che il giorno di lì a pochi minuti romperà le tenebre. Saliamo in un tassì che ci accompagna direttamente in albergo; i finestrini dell’auto sono coperti di arabeschi di ghiaccio […]; posso dire di entrare a Leningrado […] senza provare il tuffo al cuore all’uscita dalla stazione con la valigia in mano: senza la meravigliosa libertà della città vista in faccia, di colpo, come si guarda in faccia la gente per la fretta di capirla […]. Usciamo di nuovo in tassì […]. Finalmente ci fermiamo di fronte al Palazzo d’Inverno […]: la piazza con le sue case intorno hanno una bellezza triste e senza dimensioni […]. Conosco i palazzi di Palladio […]. Qui queste colonne sembrano costruite di cartone e gesso come in un teatro, hanno qualcosa di assurdo e fantomatico come il sogno di una città palladiana […]. 136


Voglio subito andare a vedere la Neva, il fiume che ho più immaginato nella mia vita […]. E sempre questo silenzio, pressoché assoluto, il silenzio dei grandi freddi che è l’espressione della rarefazione del movimento e della vita […]. All’Istituto di Letteratura Puskin c’è un gran traffico per l’organizzazione del Centenario di Cechov […]. Il modo di darsi da fare dei russi in questo genere di cose è ingenuo e di un infantile cronico come quello di certe monache di asili di provincia in prossimità della visita di una superiora è…]. È tutto un cicaleccio […]. Le case, per quel tempo, erano case moderne e in certo modo razionali, molto più civili che da noi […]. Era una miseria del tutto diversa, grigia, tetra, sinistra […], quella cupa miseria fatta di zuppe di cavoli mattina e sera, di velleità piccolo-borghesi, di scialletti con le frange […]. Sono invitato per una visita ufficiale all’Associazione scrittori di Leningrado […]. Tutti sono calmi, sereni, silenziosi come in un ospizio […]. Torno a Mosca con una felicità che mi fa battere forte il cuore. Rivedo le cupole d’oro delle chiese del Cremlino, le stelle di rubino, ed è una festa di campanelli, un Luna Park, gran vita […]. Torno alla vera Russia proletaria, quella immensa, quella di campagna, con i volti grossi come pugni, gli zigomi rossi, le scarpe ortopediche delle donne che sembrano quelle tipo del 1944; torno […] ai panini che al posto della mortadella, come ai nostri vecchi balli del partito comunista, hanno caviale; torno alla vita vera che non vedevo da tanto tempo, torno a certi miei ricordi, speranze, illusioni e anche lotte; torno a Mosca e trovo quel popolo […].

Concludo la presente indagine evidenziando che, con riguardo ai consueti lemmarii (fantasia sognante ed ebraico), corre l’obbligo di segnalare le seguenti voci: mecca, bazar, soffitte (di un) teatro, ricettacolo di tarme ottocentesche, balene, (altre luci) rosse, tenebre, labirintica ricostruzione scenografica, palcoscenico, cupole d’oro, gonfie cipolle d’oro, sogno infantile, Luna Park, vento silenzioso, campanelli, lampi gialli e oro e rame delle cupole, cimitero di provincia, ronzio, lugubre, grandi tappeti, tanghi fox e valzer lenti, stelle, rossi bagliori, sotterraneo, (lugubre) fantasia, marmo dai rilessi di carbone e di color rosso sangue, casupole di legno (sgangherate, colorate), (assolutamente uguali alle) casupole di Chagall, brillio (di certi) occhi mongoli, (metrò…) un palazzo sotterraneo, caleidoscopico, incantato, immensa e labirintica dimora del Gran Visir, faraonico, liberty e fumettismo scenografico, dorati bazar, moschea, Castello Incantato, atmosfera che sta tra il sortilegio e il sogno, i giocattoli e gli album di Gordon, fondachi, fiera paesana, (piacere di natura) orientale, buio blu e 137


silenzioso, profondità marine, bellezza triste, teatro scoperchiato, colonne (costruite di) cartone e gesso, assurdo e fantomatico, sogno di una città palladiana, rarefazione del movimento, città fantasma, distesa di edifici neri e tetri, bruttezza esistenziale, cittàectoplasma, salotti gotici, stelle di rubino, festa di campanelli, Luna Park.

III.6

1961 Stati Uniti Nel novembre 1961, insieme al regista Pierluigi Polidoro Parise intraprese un

lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti, commissionatogli dal produttore Dino De Laurentis con lo scopo di trovare ed elaborare un soggetto per un film sulla realtà americana. Al ritorno dal viaggio, dichiarò al produttore l’indisponibilità di un soggetto interessante e del film non se ne fece più nulla. Lo scrittore tuttavia realizzò una sorta di memoriale di viaggio, un diario di appunti nella forma di lettere a un fantomatico Vittorio: lettere che non risultò essere mai state recapitate, e un destinatario di cui lo scrittore mai fornì l’identità. Parise non pubblicò né su periodico né in volume il reportage di quell’esperienza: fu necessario aspettare il 1987 perché vedesse la luce una pubblicazione parziale delle lettere, e quindi il 1990 perché il diario di viaggio venisse pubblicato postumo in modo completo a cura di Cesare Garboli165. Nel corso della tesi si è già avuto modo di spiegare contesto e impatto dell’incontro fra Parise e la realtà americana. A quell’altezza storica, da precursori gli Stati Uniti si erano trasformati in modello trionfante di tre fenomeni epocali: società di massa; capitalismo avanzato; consumismo e dominio delle merci. Lo scrittore mise piede in tale realtà provenendo dall’esperienza socio-economico italiana chiamata boom

165 Goffredo Parise, Odore d’America, Milano, Mondadori, 1990 [coedizione di New York [Venezia, 1977] e delle lettere-reportage in parte già pubblicate con il titolo America in «L’Espresso», 13 dicembre 1987, pp. 127-51].

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economico, in cui il neocapitalismo d’oltre oceano lentamente ma inesorabilmente iniziava la sua opera di destrutturazione del mondo rurale e di ricomposizione della civiltà secondo modelli industriali e mercantili d’importazione. È Gaia De Pascale a ricordarci come, con le sue stesse parole, lo scrittore interpretasse e definisse il ruolo egemone mondiale degli Stati Uniti: Nel corso del Novecento gli Stati Uniti hanno assunto un ruolo sempre più forte nel contesto politico-economico mondiale, tanto da essere nel 1976 definiti da Goffredo Parise «il caput mundi, quello che Roma e l’impero romano furono duemila anni fa»166.

Ed è certo, ed attestato ormai anche dalla critica, che l’incontro-scontro con la civiltà nordamericana produsse una rivoluzione epocale nello stesso Parise, come ci conferma sinteticamente Silvio Perrella: In apparenza, quel primo viaggio americano non lascia cospicue tracce scritte; eppure Parise dirà di averne ricevuto un vero e proprio trauma conoscitivo. E non esagera, poiché oggi possiamo considerare l’esperienza americana e i suoi postumi come uno spartiacque nella sua vita espressiva e intellettuale167.

Nei fatti, la reazione immediata di Parise agli States avvenne all’insegna della dell’ambivalenza (come già in altri scrittori-viaggiatori italiani, uno su tutti Mario Praz), tratto psicologico peraltro non infrequente nei suoi giudizi e comportamenti. Per questa civiltà lo scrittore provava insieme attrazione e ripulsa, e lungo tutto il testo il suo sguardo ci restituisce una nazione insieme paradisiaca e demoniaca; bellissima e orribile, seducente e repulsiva. Proprio in un precedente paragrafo della tesi, si è evidenziato questo fenomeno, ben descritto dalle analisi già citate di Perrella - che qui riprendiamo - secondo cui, se è vero che «per un ammirato e accanito lettore di Darwin l’America è “la fortuna, il piacere e l’eccitazione intellettuale di sperimentare in corpore

166 Gaia De Pascale, Scrittori in viaggio. Narratori e poeti italiani del Novecento in giro per il mondo, cit., p. 20. 167 Silvio Perrella, Fino a Salgareda, cit, p. 65.

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la verità enunciata da Darwin con il nome di ‘lotta per l’esistenza’”», è però pur vero che «L’America è l’esperienza dello sradicamento totale e insieme l’incontro con la prima società di massa, basata, come dice lui, sull’ideologia del consumismo». Nel reportage emerge una forte volatilità umorale di Parise, che oscilla tra delusione, frequente tristezza, noia, smania e insofferenza, contentezza, entusiasmo, persino eccitazione, per così dire, maniacale: un’instabilità psicologico-caratteriale che caratterizza secondo una modalità appunto ambivalente tutti i temi del memoriale di viaggio. In particolare, con riguardo alle fasi positive della curva umorale dello scrittore, leggendo il reportage ci viene incontro un inconsueto Parise, dai prevalenti atteggiamenti euforici, cinici e persino razzisti, spavaldi e strafottenti, che talvolta assumono toni che con linguaggio contemporaneo definiremmo politically incorrect: nei riguardi del genere umano senza distinzioni, ma più spesso nei riguardi del genere femminile, tanto più se afroamericano. Il viaggio dello scrittore si svolse secondo un itinerario che fece tappa nelle città di New York, Miami, New Orleans, Dallas, Amarillo, Las Vegas, Chicago: per comodità didattica lo analizzerò mantenendo distinte le descrizioni che si riferiscono a tematiche e situazioni diverse vissute da Parise. Iniziamo dall’ambivalente impatto con la nuova civiltà facendo parlare lo stesso Parise: N. Y. 20 marzo. Caro Vittorio, arrivati ieri sera in questa folle città; comincio subito la mia corrispondenza con te, a mo’ di diario, così non perdo tempo, idee e appunti […]. Questo albergo ha l’aspetto babilonico di una tomba [...]: mi spiego sommariamente che questo macabro derivi da mancanza di aggressione erotica, in sostanza da mancanza di eros. Infatti ieri a Broadway ho trovato un mucchio di bottegucce […] piene di oggetti in gomma o di plastica: tette finte, donne intere di gomma, da gonfiare, col buco tra le gambe, salamini di gomma rossa […]: l’allusione erotica è continua ovunque, ma fa veramente pensare alla morte perché 140


non un volto, non un’espressione non un corpo di donna, una bocca, degli occhi esprimono sensualità autentica, ma alienazione evidente di questa sensualità e quindi impotenza, frigidità. Tutto sommato mi perseguita una sensazione di nausea profonda, per tutto questo nero e per le molte cose finte Tuttavia è la città al mondo che mi ha più emozionato: è chiaro che la violenza fatta alla natura è tale da dare a ogni istante la sensazione della morte, e tuttavia, decadenti come siamo ciò dà una sorta di allegria e canagliesca eccitazione come se si trattasse di scendere agli inferi. Oggi andrò a comprare […] la donna col buco e proverò a portarmela a letto […]. In ogni caso non sono assolutamente disposto a rinunciare a questa mia America. N. Y. 22 marzo. Ho trovato aperto un solo negozietto: un orologiaio. Il più bello, il più fantastico, il più incredibile orologiaio del mondo […]. Vento, sempre e una sensazione di solitudine angosciosa e paralizzante. Ma ho trovato quasi subito una stranissima consolazione: devi pensare che in questa città il rumore è pressoché eterno […]: ebbene, in tutto questo rumore, un cinguettio diffuso, di migliaia e migliaia di uccelli […]. Forse non ti ho parlato ancora delle pubblicazioni erotiche: donne seminude fasciate di corpetti di pelle nera, con gambali di pelle nera, […] con scarpe alte mezzo metro come quelle dei sarti zoppi […]: se penso a quello che immaginavo io! Broadway, paradiso di meraviglie […]… che delusione! Solo le mute, nere fabbriche, tutte una ragnatela di scalette di sicurezza, dalle finestre nere di fuliggine […] sono la realtà americana. N. Y. 24 marzo. Veramente questa è la città che mi stanca di più, più ancora di Parigi, ed è molto strano perché in ogni posto dove vado non sto mai fermo e quasi non dormo alla notte per non perdere niente di niente. Anche qui dormo pochissimo ore…

Risulterà utile passare brevemente la parola ad Armando Balduino, così da inquadrare in prima battuta l’incontro iniziale di Parise col mondo americano: Nell’insieme, io credo, fu un’esperienza sommamente istruttiva anche per le per le future imprese del Parise inviato speciale, e inebriante non solo perché coronava un già antico sogno, ma anche perché consumata in condizioni di libertà assoluta che, in seguito, le mansioni ufficiali solo in parte gli avrebbero consentito di preservare. […]. Subito coinvolgente invece l’inarrestabile frenesia che spinge ad esplorare senza sosta rinunciando persino al sonno168.

Balduino ci sta suggerendo una sottile chiave di lettura a spiegazione degli negli inediti atteggiamenti di sfrenatezza e licenziosità che emergono dal testo di Parise: secondo il critico, il carattere “non ufficiale” del viaggio - quasi si trattasse di una

168 Cfr. Armando Balduino, I ‘miti’ antiamericani di Parise, cit., p. 86-7.

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goliardica esperienza compiuta in compagnia di amici - connotata il suo diario di una minore sorveglianza morale e comportamentale, presente viceversa in tutte le restanti narrazioni di viaggio scritte nel ruolo di corrispondente o inviato, e quindi soggette inevitabilmente al crisma dell’ufficialità e a freni e vincoli censori costituiti dagli editori e dal pubblico dei lettori. Proseguiamo la lettura di altri passi del diario: L’erotismo di questi luoghi è veramente incredibile […]. Ho lasciato perdere e siamo andati tutti alla Bowery, squallido quartiere pieno di dormitori pubblici […]. Dunque Harlem. Tutti ne parlano come se fosse un posto di malavita […]: solite sciocchezze: io sono sempre entrato dappertutto, ho dormito in tuguri in Marocco e non è mai avvenuto niente […]. Ieri a spasso per il quartiere italiano […] dove ho visto la cosa più assurda e più allucinante della mia vita: un enorme palazzo, quasi un grattacielo… vuoto, abbandonato e in rovina […]. Un falansterio enorme di buchi, stanze, bagni, cessi, un immenso cadavere di Gulliver lasciato a marcire sulla strada. Impressione veramente sinistra […]. Qual enorme tristezza offre questa città […], una immensa sporcizia […], nemmeno nei quartieri arabi: perché alla sporcizia si aggiunge la miseria morale […]. È incredibile come i film abbiano costruito nella testa di molti italiani una America così balorda e inesistente da spingerli molto spesso ad emigrare! I film hanno fatto moltissimo e lo so io che, tutto sommato, provo la stessa delusione, da anima semplice. Da decadente invece, trovo assai più di quello che mi aspettavo. N. Y. 27 marzo. Eccomi di ritorno dal paradiso color bronzeo chiaro (vedrai le fotografie di questa venere negretta) un poco mollo e deluso. Che rabbia, niente dura più di qualche ora e la mia smania, la mia insofferenza per moltissime cose si sta facendo quasi patologica. Non sopporto più le persone che mi annoiano anche pochissimo e mi fanno perdere anche un solo secondo di vita […]. Vittorio mio, lì dentro ho visto le donne più belle, più eleganti, più affascinanti del mondo. E dunque, dato il mio temperamento, sento che la strada da seguire, per quel che mi riguarda è una storia sempre lievemente sopra tono. N. Y. 31 marzo. Ho passeggiato a lungo oltre l’Hudson all’inizio di Brookling, dove i due ponti di Brookling e di Manhattan confluiscono in una sola grande via sopraelevata […]. È un immenso quartiere senza cielo […]. Ho pensato all’Italia e a Roma con una felicità suprema. O all’Africa che so io, a tutti quei paesi che nascono ora […] ma che ospitano ancora cose, oggetti, abitazioni, natura, secondo la misura dell’uomo. Tuto ciò immerso in una luce che vorrei chiamare industriale, anziché naturale, una luce impastata di deposito polmonare, di miniera di ferro e rame. Miami 31 marzo. E questa città tanto lontana non è, se non per la vastità, da Riccione […]: una immensa stazione balneare con alberghi alberghi e alberghi a non finire. Città da grande fiera mediocre, ladrocinio organizzato ma finalmente America […]. Migliaia e migliaia di automobili quasi nuove di tutti i tipi, in vendita. 142


New Orleans 2 aprile. Non ho visto ancora nulla, la città si presenta come ogni altra città americana, con una grande via automobilistica che conduce al centro, piena di motel, distributore TEXACO auto da vendere in una ridda di bandierine[…]. Già tre città americane si presentano così nello stesso modo, sfavillanti di luci paesane e pioniere, di motel che sembrano carovane, bandierine, odor di frittelle lampi di neon. Ora queste divinità bionde fanno quello che a Napoli affamata per davvero non faceva il più miserabile ruffiano, la puttana più sfrontata. Si prestano a qualsiasi lenocinio, venderebbero anche la madre per un dollaro […]. Lieta sorpresa nel vedere questi italiani morti di fame, che hanno venduto figlie e sorelle a Napoli per fame agli americani, passare dall’altra parte. Della barricata. Ora sono loro che riducono gli americani […] a fare foky foky con le dita ai clienti sulle porte dei loro locali […]. Certo che non me l’aspettavo così New Orleans. Questa fiera di paese mi ha molto deluso, pietosamente deluso, dandomi ancora una volta il senso della decadenza di questo paese […]. Su sedie a dondolo sdraio o piccole altalene si dondolano famiglie di negri, bambini […]. Sì, lo sguardo dei negri di qua, non è quello dei negri di New York […]: questi sono occhi, corpi, volti di schiavi. Dallas, Texas 6 aprile. Magnifica campagna della Lousiana: appena usciti da New Orleans, oltrepassato il ponte sul Mississipi, entriamo in piena palude. Immense zone paludose cosparse di fantasmi di alberi che sembrano morti stecchiti […], vecchie streghe piantate tra il fango e le savane […]. Vivono in baracche miserabili, in otto, dieci per baracca e mostrano una miseria assai più triste e desolata di quella delle nostra borgate […]. Al tramonto, un tramonto stupendo, una sorta di denso succo d’arancia rosso che colava al di là degli alberi strega Las Vegas 12 aprile. Tutto sommato le cittadine americane e tutte le periferie di grandi città capitali sono assolutamente uguali in tutta l’America: motel, motel, motel, motel e Oroco, Texaco, e neon. tutte uguali spaventosamente da confondere. In principio ti sembrano noiose, poi scopri che proprio in ciò sta la loro bellezza: l’assoluta anonimità […]. Non so cosa dirti di questo grande viaggio, se non la immensa monotonia e la noia e talvolta l’angoscia e la disperazione notturna e solitaria nei motel da poco prezzo […]. Un giovane, sui vent’anni ci chiede un passaggio… faccia quasi da deficiente, la faccia di un contadino biondo, del bellunese, metti.

Rileviamo invece ora considerazioni e atteggiamenti che Parise manifesta riguardo al mondo e alle situazioni della sfera sessuale, o dell’eros come lui preferisce definirle, intese come avventure personali: N. Y. 22 marzo. A Parigi il Quartier ha un senso, come Pigalle, mentre il Village, con le sue strade deserte, qualche bar con qualche brutta puttana […]. Siamo andati a finire in un locale tipo Carousel di Parigi, di travestiti; vecchi frocioni, grassi, osceni […]. Dopo questo di corsa in un bar di negri, pieno di puttane negre, e poi a mangiare […]. N. Y. 24 marzo. Anche qui dormo pochissime ore preso dalla frenesia delle negrette che mi perseguitano una più dell’altra. Tra un’ora […] viene a trovarmi qui una 143


mulattina mezza italiana, irlandese […], più ne hai più ne metti di sangue in un corpicino sottile con un culetto tondo tondo e una carne scivolosa […]. Una bionda bionda pettinata come le tedesche, tettona. Sono rimasto un poco al Palladium poi sono sceso al bar di negri che sta sotto. È un piccolo bar pieno di mignotte negre […]. Donne grassissime e vecchie, tutte piene di strass e impennacchiate di struzzo. Sono rientrato al bar di Broadway e rapidamente ne ho raccolta una […]. Tassì, a casa […]. Ma lei, Annie, tutta liscia e oleosa e perfino vergine nonostante fosse una mignottina […]. Abbiamo passeggiato a lungo con dolcezze e bacetti […]. Ho lasciato lei (non si curano queste cose fino ai limiti dell’affetto) per entrare in un […] bar incredibile: […] negrette di dieci, dodici anni circa […]. Ragazzine che mi mangiavano con gli occhi e due o tre frocioni negri. N. Y. 27 marzo. Eccomi di ritorno dal paradiso color bronzeo chiaro (vedrai le fotografie di questa venere negretta) un poco mollo e deluso […]: la poverina, meravigliosa concubina, da portar giù e ficcare dentro un appartamentino a Fregene, ha qualche solco di cellulite […] se non fosse che tra due anni diventerà enorme, come tutta la gente di colore […]. Dopo aver lasciato lei, non ho resistito e sono tornato a Broadway a battere, come si dice. Miami 31 marzo. Signore borghesi con figlie culone. Aggrediti da affamate mignotte, ma mignotte e americane, non ragazzine napoletane. Ma qui andremo nelle bettole […] verso altre negrette.

Ho preferito far parlare di gran lunga Parise attraverso il suo scritto piuttosto che la critica con i suoi saggi, e ciò per due precisi motivi: prima di tutto, il testo risulta chiaramente “parlante” di per sé, con le sue immagini vivide e nette, crude e passionali, di luoghi, situazioni e sensazioni; in seconda battuta, poiché la critica, con rare eccezioni, ha trascurato questo racconto, forse per la peculiare vicenda editoriale, forse per lo scarso tasso di sorveglianza e autocensura impiegati da Parise, o forse per altre ragioni che sarebbero da indagare. È però un fatto, che quanto proponevamo all’inizio è stato ampiamente confermato: Parise vive l’esperienza dell’incontro con gli Stati Uniti in modo assolutamente contraddittorio, o, ancor meglio, ambivalente. La conoscenza della biografia,

della

contraddittorietà

psichica

e

delle

oscillazioni

umorali

che

contraddistinguono lo scrittore (peraltro già anticipate nel corso della presente tesi), ci autorizza a eleggerle come elementi scatenanti della personale e ambigua ricezione 144


americana da parte di Parise quale emerge nel reportage: tanto più in considerazione del carattere in “presa diretta” del viaggio e della sua traduzione in scrittura, uno status che permette lo svelamento di un Parise senza filtri. A sugello di questa analisi vorrei citare ancora Armando Balduino e le sue preziose osservazioni, anche per permettermi la licenza di farne una correzione di tono: Si aggiunge, a scandire i primissimi giorni, la voracità di avventure erotiche vissute con poetiche tenerezze quanto pronte a franare in cinico disincanto, e però sentite anche come sfida a un mondo dove paiono sopravvivere solo le caricature commerciali di un erotismo falso e finto. Dominano, più in generale, un vitalismo e un empito di così travolgente giovinezza che farebbero pensare a certo Nievo, […] se non fosse che su tutto parallelamente aleggia un senso di morte, via via percepito… come sfacimento, squallore, sporcizia, abbandono, ineluttabile decadenza169.

Con l’eccezione della considerazione sulle avventure erotiche, condivido le restanti osservazioni del critico come sintesi perfetta di quanto abbiamo letto e spiegato in precedenza. Preciso che non sono affatto animato da scandalo né da una sorta di pruderie all’inverso, cioè censoria. Tuttavia qualcosa mi dà da pensare. Nelle mie riflessioni non riesco mai ad escludere completamente un lato etico. Quindi, quando lo scrittore qualifica come «deficiente» e simile a un «contadino del bellunese» ( dunque veneto come lo scrittore) l’autostoppista americano, non so perché, ma sento spirare una leggera brezza di razzismo provinciale e campanilistico: peraltro rintracciabile, in più occasioni, nella biografia e nell’opera. Un leggero e suadente razzismo, un delicato pregiudizio, a voler indorare la pillola critica. Ma c’è altro. Non so dove Balduino sia andato a scovare e pensare in questo Parise la «tenerezza» cui si riferisce. Pur concedendo che in un maschio che abbia un rapporto con una lucciola o con una

169 Cfr. Armando Balduino, I ‘miti’ antiamericani di Parise, cit., p. 87.

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sentinella del sesso170 (usando non a caso due immagini care a Pasolini), possano anche albergare senso di solitudine, o tenerezza, o perfino altro di più sentimentale, non ravvedo tutto ciò nelle immagini usate da Parise, e dunque presumibilmente nelle sue esperienze. Che, senza scomodare l’eros, che è tutt’altro, definirei semplici rapporti di sesso mercenario. Conditi di sbruffoneria ed esaltazione. Non solo. È innegabile che in un contesto di sensibilità etica e sessuale non solo contemporaneo a noi ma contemporaneo a Parise, la considerazione sulle «negrette di dieci, dodici anni circa» lascia abbastanza interdetti. Senza considerare, poi, la riflessione contenuta nella «lieta sorpresa nel vedere questi italiani morti di fame, che hanno venduto figlie e sorelle a Napoli per fame agli americani» suona sinistramente contraddittoria e falsa, e persino ambigua. Sotto questo aspetto di sensibilità sessuale e ancor prima di dignità umana, il testo mi ricorda un diario di scuola di un adolescente, ancora molto ragazzino, abbastanza spregiudicato, e mi svela un Parise a tratti inquietante. Sotto l’aspetto linguistico e immaginifico, da segnalare il fenomeno del lemmario fantasia, seppur ridotto in consistenza: babilonico, macabro, inferi, arabi, strega, meraviglie, ragnatela, fuliggine. Di passaggio e a conclusione, rilevo la consueta presenza della mancata elisione in esempi quali, fra molti altri: una immensa sporcizia, una immensa stazione balneare, la immensa monotonia.

III.7

1966 Cina (Cara Cina) Cara Cina171 è il testo per il quale critica e pubblico consacrarono Parise

170 Marcello Carlino, Pier Paolo Pasolini. Effetto simbolo: Roma non Roma nelle Ceneri di Gramsci, in Roma, punto e a capo. La città eterna attraverso gli occhi di grandi narratori, cit., p. 168. 171 Goffredo Parise, Cara Cina, Milano, Longanesi, 1966; ora in OPERE II, pp. 653-770.

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grande scrittore di reportage. Fra le narrazioni di viaggio finora studiate, fu la prima ad essere pubblicata in singolo volume, benché composta da una serie di capitoli, dotati di autonomo titolo, originariamente apparsi sotto forma di articoli sul «Corriere della Sera», nei mesi di giugno, luglio ed agosto 1966172. Il motivo che spinse lo scrittore ad accettare l’incarico di inviato speciale in Cina fu - per sua stessa ammissione - il desiderio di conoscere la seconda più grande civiltà di massa al mondo dopo quella rappresentata dagli Stati Uniti. Ma a questa ragione, oltre quelle più ovvie della sua inesauribile curiosità e del desiderio di avventura, e senza dimenticare la propensione dell’irregolare Parise a stare sempre “sul pezzo”, ovvero all’altezza della situazione dell’epoca, bisogna affiancare la spinta a conoscere, e far conoscere, in profondità il paese asiatico: tanto più, in coincidenza con quell’evento di trasformazione rivoluzionaria che si verificò proprio in Cina nel 1966, e che fu chiamato Rivoluzione culturale. Per sua stessa dichiarazione, Parise volle dare un’immagine della Cina non stereotipata né oleografica, non convenzionale, con l’intento di restituire del paese sia l’immagine di società contemporanea di massa a socialismo reale, sia quei tratti profondi e immutabili presenti allora come secoli prima durante la civiltà imperiale, e riferibili alle strutture sociali e insieme a quelle caratteriali dell’anima cinese. Per riuscire nell’intento, Parise predispose il suo sguardo ad essere quanto più possibile privo di pregiudizi e anticonvenzionale, e, ancor più, disponibile alla ricezione: così da rendere critici e penetranti l’intelletto, l’emozione, i sensi. Sempre a tale scopo, inoltre, adottò per la prima volta in un suo reportage l’uso della tecnica dell’intervista, in modo

172 Cfr. il capitolo Cara Cina, nella sezione Notizie sui testi, in OPERE II, pp. 653-770.

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da permettere che il popolo cinese si esprimesse con la sua viva voce. Nonostante la corposità del testo - risulta il più lungo fra i reportage finora studiati, e dunque l’inevitabile quantità di descrizioni informative richieste dall’esigenza giornalistica, raramente la lettura soffre per l’eccesso di tono didascalico, tanto è capace lo scrittore di mantenere alta la tensione estetica: magari, nel caso di specie, non in passaggi paesaggistici, che sono pressoché assenti non interessando Parise, quanto negli incontri con le persone e nelle osservazioni sugli aspetti umani del popolo cinese. Lo scrittore esplora buona parte del paese, rilevandone tutta una serie di temi, di aspetti: la non convenzionale immagine di società di massa contemporanea; l’aspetto dell’iterazione ossessiva, connotato costante e millenario della Cina: di cui due indicativi esempi sono la ripetizione claustrofobica delle geometrie architettoniche della Città Proibita, e la maniacale ripetizione di formule e slogan della propaganda maoista; il sistema socialista maoista nelle sue strutture di lavoro (fabbriche e campi), insegnamento (scuole e università di Pechino), organizzazione economica e militare (comuni rurali e milizia), situazioni di svago (teatri); le strutture e le tradizioni sanitarie (ospedali, agopuntura e altra medicina tradizionale); i tratti profondi del carattere e della psicologia cinese; i sentimenti. Iniziamo a far parlare Parise citando alcuni passi del primo capitolo dal titolo Arrivo173: Sono a Canton da poche ore: è il crepuscolo di una stagione molto simile alla primavera siciliana, umida, calda e profumata di gelsomino e di acacia. Passeggio lungo il fiume delle Perle osservando le manovre delle giunche […]. Dentro le giunche […] donne accovacciate e bambini agitano le bacchettine della ciotola del riso alla bocca […]. A poppa un uomo e una ragazza dai lunghi capelli […] muovono lentamente il grande remo alla maniera dei gondolieri veneziani. È una immagine insieme tradizionale e convenzionale della Cina,

173 OPERE II, pp. 653-658.

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l’immagine esotica ma familiare delle fotografie e delle diapositive a colori che riempiono il mondo. Ma come tutte le immagini entrate nella convenzione […] perde di colpo ogni significato. Sulla strada, a pochi metri dalla giunca ecco un’altra immagine della Cina che invece non ha nulla di tradizionale e convenzionale:[…] operai e contadini passeggiano, in grandissimo numero, vestiti più o meno allo stesso modo, uomini e donne, cioè con l’abito della nuova Cina che è quello che si vede in tutte le fotografie di Mao Tse-tung. Sono in compagnia del mio interprete che parla francese […]. Dopo le notizie d’obbligo gli chiedo se è membro del partito. Sorride e sospira: «Magari! Ho fatto domanda due anni fa ma in Cina non è così facile come in Italia entrare nel partito, bisogna esserne veramente degni.» «E cosa ci vuole?» «Bisogna essere bravi, buoni, lavorare bene, meglio e più degli altri, sacrificarsi per gli altri, per il bene comune e per l’edificazione socialista del nostro paese.» […] «E lei legge sempre le opere di Mao Tse-tung?» «Ogni sera, come milioni e milioni di cinesi.» Osservo l’interprete che mi è molto simpatico: non è necessariamente la sua ideologia che me lo rende simpatico […] ma i tratti del suo volto e perfino il suo tono timido e dolce di esprimere un linguaggio che è invece pedagogico, stereotipato e insopportabilmente iterativo. […] «Ma i rapporti con sua moglie e la famiglia sono rapporti politici?» «Certamente.» «In che senso?» «Nel senso che entrambi lavoriamo, sotto la guida del presidente Mao Tse-tung, per l’edificazione socialista del nostro paese.»

Mettiamo ora a confronto con il testo citato alcune osservazioni critiche di Gaia De Pascale: Nel 1966, in piena Rivoluzione culturale, anche Parise compie il suo viaggio in Cina. E anche Parise decide di raccontarcelo attraverso una prosa asciutta, scorrevole, pacata, che lascia un grandissimo spazio alla forma dialogica, riportando fedelmente colloqui e conversazioni, lasciando parlare, mettendo a nudo i protagonisti degli incontri di cui il testo è costellato attraverso le loro stesse parole. Cara Cina, a dire il vero, comincia con un’immagine, anzi due […] che stimolano fin da subito in Parise la volontà di scindere l’autentico dallo stereotipo. È la Cina vera, la Cina nuova […] che all’autore interessa, non tanto o non solo in quanto incarnazione di un ideale politico , ma in quanto portatrice del valore supremo dello stile inteso qui come discrimine fondamentale tra Oriente e Occidente, generatore di un sentimento di commozione […]. Del resto la loro estrema gentilezza, verso la quale non si può che provare un sentimento di sincero affetto, colpisce molti viaggiatori italiani174.

174 Gaia De Pascale, Scrittori in viaggio. Narratori e poeti italiani del Novecento in giro per il mondo, cit., p. 175-6.

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Riprendiamo ora la lettura del reportage dal capitolo Pechino175: Pechino è una città […] insieme geometrica e labirintica: un quadrato dentro un altro quadrato che contiene a sua volta un quadrato e così via. I lati dei quadrati sono, in ordine concentrico, le mura esterne e interne, le mura della Città Proibita, o città imperiale, le mura all’interno della Città Proibita […]: una città tutta parallelismi, analogie, ripetizioni, soprattutto ripetizioni che spiegano perché i cinesi ancora oggi si ripetono tanto senza mai stancarsi. Che impressione produce questa allucinante e labirintica ripetizione di oggetti sempre uguali? Produce da un lato una intollerabile noia fisica […] e dall’altro invece una eccitazione tutta intellettuale e metafisica

Proseguiamo la lettura con il capitolo intitolato Teologia politica176: Cosa è accaduto dunque con la rivoluzione di Mao Tse-tung? È accaduto ciò che non era mai accaduto per millenni e cioè non soltanto si è creato un rapporto, bensì è nata l’identificazione tra il popolo cinese e la sua nuova classe dirigente […]. Ecco, esposte rapidamente, le ragioni per cui la Cina sembra un seminario di teologia politica, dove la volontà del dell’individuo singolo che non ha mai contato nulla in passato perché doveva identificarsi con quella della famiglia, continua a non contare nulla nel presente perché deve identificarsi con quella dei capi.

Leggiamo dal capitolo Stipendi e spese177: Ho visto molte donne tirare carri pesanti, alle stanghe, oppure, se i carri sono stracarichi, alla cinghia legata al carro; camminano lentamente e tirano, stando piegate fin quasi a terra […]. Ho voluto parlare direttamente con una delle donne. Ho ripetuto anche a lei che quello non mi pareva un lavoro per donne. Mi ha risposto: «È un lavoro, io lo faccio da quando ero bambina.»

Proseguiamo con il capitolo Spettacoli178: Ho detto che tutto fa ridere ma ho sbagliato; avrei dovuto dire: tutto fa ridere all’inizio, alla fine tutto commuove e fa pensare: commuovono le scene, i costumi, la recitazione. Ma tutto ciò che prima appare ridicolo, dopo commuove per la sua semplicità. La commozione che si prova non è dunque una commozione di natura estetica e poetica di fronte a un’opera d’arte individuale e unica ma una commozione di natura umana e sentimentale.

Proseguiamo con il capitolo Agopuntura179:

175 OPERE II, pp. 659-664. 176 Ivi, pp. 665-670. 177 Ivi, pp. 677-683. 178 Ivi, pp. 684-690.

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Sono nel reparto di agopuntura all’ospedale di medicina tradizionale cinese. Ho sotto gli occhi un bambino di circa un anno, nudo, con la gamba destra atrofizzata dalla poliomielite. La madre, una contadina sui trent’anni, gli sta accanto mentre una dottoressa in camice, cuffia e maschera di garza gli conficca sottilissimi aghi nella gamba: comincia dall’inguine, un centimetro a sinistra dello scroto, poi, rapidamente, scende lungo la coscia, il ginocchio, il polpaccio… Finita l’applicazione la dottoressa accarezza il bambino su una guancia con un movimento lento, lieve e dolcissimo della mano minuscola. Durante tutto il tempo il bambino non si è mosso, non ha gridato, non ha sussultato, non ha avuto nessuna, nessunissima reazione. Guardava qua e là con occhi incomprensivi e stupiti, annaspando con la manina intorno al capezzolo della madre coperto una blusa di tela scolorita.

Leggiamo ancora, ma dal capitolo Viaggiare con noia e pazienza180: Chi viaggia in Cina […] non può fare nulla senza il China Travel Service. Le catene di questa prigionia non sono soltanto la lingua cinese, ma anche la totale burocratizzazione della propria persona e infine un senso di estraneità quasi biologica […]. Perciò gli strumenti di conoscenza di uno straniero che viaggia in Cina, oggi, non sono diversi da quelli di Marco Polo nel suo famoso viaggio. Essi sono: gli occhi per vedere, il cervello per riflettere, il caso e infine la propria persona, con tutto quanto possiede di lampante e oscuro […]. In altre parole, al posto dell’individuo (Marco Polo) è subentrata la massa (Occidente capitalista) e al posto dell’oggetto di conoscenza di volta in volta imprevedibile, misterioso e diretto (Cina del tredicesimo secolo), la massa prevedibile, senza ombre e indiretta (Cina comunista) perché appartenente ad una uguale anche se opposta convenzione. Insomma, almeno per quel che riguarda il nostro pianeta, tra l’uomo e l’oggetto, o varietà di oggetti che egli, viaggiatore inesausto, vuole conoscere, non si apre più l’abisso dell’ignoto (sempre affascinante) ma la strada piana (e sempre noiosa) della convenzione. Tuttavia la curiosità resta pur sempre una molle potente e il cuore degli uomini inesplorato.

Insomma, Parise ci sta consegnando una teorizzazione, esistenziale in quanto uomo, e poetica in quanto scrittore, di capitale importanza: ci sta avvertendo che se non è più possibile nel mondo contemporaneo - o quantomeno lo è in confini sempre più ristretti - esperire l’avventura all’interno di luoghi, siano essi spazi terrestri, geografici o situazioni storiche, è tuttavia ancora possibile esercitare l’esplorazione nell’interiorità dell’uomo, spostare il viaggio all’interno dell’io: e ciò, grazie alla spinta perenne, inesausta e vitale della curiosità.

179 Ivi, pp. 710-715. 180 Ivi, pp. 716-722.

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Attenzione: a quest’altezza della sua vita e della sua produzione, Parise sta faticosamente resistendo allo shock subito per il cambiamento epocale che interessa non solo l’Italia e progressivamente la civiltà Occidentale, ma lentamente anche il resto del mondo: forzando, ma di poco in fondo, i termini, potremmo azzardare una visione anticipata del concetto odierno di globalizzazione. In realtà, la questione è più complessa e sottile: infatti, spostando la rotta della nostra esplorazione sull’avventura interiore, e da creatore di finzioni qual è per il suo status di scrittore, Parise connota questa dimensione di viaggio non solo di tutti gli spazi e i tempi rappresentati dall’articolazione dell’io, ma anche e soprattutto di tutta la capacità fantastica e ideativa che all’io appartiene, dunque, della sua possibilità di proiezione e persino di immaginazione di nuovi mondi ignoti, in una sorta di processo autogenerativo. Riprendiamo la lettura con il capitolo Freud in Cina181: «In Cina non si applica l’analisi perché le nevrosi sono quasi sconosciute. Esse sono appannaggio della borghesia, non di un popolo di contadini analfabeti fino all’altro giorno […].» «Da quel momento Freud diventerà per tutto il mondo capitalista quello che Marx è per il mondo socialista: l’incontrastato ideologo[…].» «Con questa frase volevo dire soltanto che lei, in Cina, non deve cercare di capire la ragione dei cinesi, che è molto semplice, sana e quasi infantile, bensì il cuore dei cinesi: che è invece complicato, ha patito molti dolori ed è vecchio, vecchissimo, così vecchio che solo un orecchio abituato ai rumori cinesi può avvertirne il battito.»

Leggiamo ora dal capitolo Donne e bugie182: La donna cinese […] è diversissima dalla donna occidentale e, bella o brutta, è quasi sempre bella. Questa bellezza è data, lo ripeto ancora una volta, dallo stile. Perciò lo strumento per giudicare la donna cinese non è e non deve essere l’occhio, come avviene in Occidente, bensì l’intuito […]. Attrice: «Le donne cinesi conoscono bene il significato di bellezza ed eleganza. Noi riteniamo che la vera bellezza è dare la propria vita per il partito. Ma dopo il lavoro badiamo anche all’eleganza.»

181 Ivi, pp. 743-749. 182 Ivi, pp. 750-756.

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Concludiamo con l’ultimo capitolo, L’amore183: “L’amore è un sentimento silenzioso: si prova ma non si dice.” Credo che non ci sia introduzione migliore di questa risposta, datami da una contadina di ventidue anni nel Kiangsu, ad alcune osservazioni sull’amore in Cina […]. Ho fatto molte domande sull’amore […]. Non ho mai ricevuto una vera risposta ma sempre frasi che preludevano e infine suggerivano il silenzio […]. Mi hanno insegnato, senza mai dirmelo, che agli effetti proprio della conoscenza sono molto più utili due strumenti apparentemente ambigui e oscuri come la discrezione e l’intuito che la chiara, limpida, matematica e apparentemente esatta ragione […]. Mi hanno insegnato altresì che la realtà che si vuole conoscere mostra ampie zone d’ombra in cui la ragione può perdersi e l’intuito invece orientarsi. Infine mi hanno insegnato che queste zone d’ombra […] danno soddisfazioni tanto più intense e belle quanto più l’ombra si fa profonda e rifugge la luce […]. La volgarità è estranea a questo popolo. In particolare alle donne cinesi, la cui leggerezza, dolcezza, ma soprattutto stile, non dico esclude, ma non conosce nemmeno che cosa sia la volgarità. Siamo arrivati allo stile, così mi sono permesso di tradurre la parola cinese li […]. Come si esercita il li, per esempio tra innamorati? Si esercita col rossore. «Ritorni, ma non solo, questa volta: vogliamo vedere sua moglie e i suoi bambini». Che non ho. Salgo sul treno […]. Ecco la periferia […], ecco, di colpo, Hong Kong dove si può comprare e vendere quello che si vuole, soprattutto l’amore, e dove le idee sono le sole cose che non valgono nulla: ecco, insomma, l’Occidente.

Alla luce dei passi letti, possiamo esporre le ultime chiose critiche, e avviarci poi alle conclusioni: L’ «atto d’amore» verso un’intera civiltà non può non prescindere dal desiderio di trovare il filo d’Arianna, la chiave di lettura che permetta di rendere il labirinto razionalizzabile […]. E la chiave che Parise si dà è quella che tenta di aprire […] il nucleo da cui tutto ha origine. Il primo passo è, allora, quello di provare, per quanto possibile, a diventare «almeno un poco cinese», ad abbandonare «almeno per un poco educazione umanistica e individualismo» […]. Nella continua alternanza tra un approccio di tipo visivo-poetico e uno dialogico-conoscitivo si sviluppa tutto il testo184. La Cina è il paese in cui la più alta forma d’arte è la scrittura, nel suo aspetto materiale e tangibile della calligrafia. È difficile, allora, sottrarsi alla possibilità di considerare anche l’agopuntura come una forma di tale pratica, che attraverso l’uso degli aghi individua la sintassi del corpo […]. È forse questo che affascina Parise, infatti vuol subito provarla sul suo corpo, con risultati istantanei

183 Ivi, pp. 764-770. 184 Gaia De Pascale, Scrittori in viaggio. Narratori e poeti italiani del Novecento in giro per il mondo, cit., p. 176, 178.

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[…]. Per intima disposizione, infatti, quando scrive Parise non dimentica mai di possedere un corpo; il corpo lo guida spesso su sentieri ancora oscuri. A pensarci, con i suoi reportage Paris si inoltra in zone del mondo esterno da lui non ancora conosciute e la traccia di scrittura che ne può derivare è come la trascrizione di un sismografo […]: quella traccia è la trascrizione dei terremoti sensoriali185.

Come nei precedenti reportage, lo stile di Parise procede lento e sinuoso, fino a che un colloquio più icastico e brillante di altri non ne accelera il ritmo, conferendo al testo maggiore piacere estetico e più alta penetrazione conoscitiva ed emozionale, sancite spesso da commoventi chiose riflessive dell’autore. Linguisticamente, da rilevare la costante presenza di esempi di mancata elisione quali, fra molti altri: una immagine, alla astratta, una intollerabile, una eccitazione.

III.8

1967 Vietnam (Guerre politiche. Vietnam) Nel 1967 Eugenio Scalfari, allora il direttore de «L’Espresso», invitò Parise a

recarsi in Vietnam (per l’esattezza, Vietnam del Sud) nel ruolo di reporter di guerra al seguito delle truppe USA: da quell’esperienza estremamente rischiosa e umanamente difficilissima, lo scrittore ricavò un reportage che vide la luce sulla testata in forma di articoli usciti fra aprile e maggio del medesimo anno186. Sempre nel 1967, il reportage venne raccolto e pubblicato in volume per i tipi Feltrinelli con il titolo Due, tre cose sul Vietnam187, mentre nel 1976 appariva di nuovo in volume (dal titolo Guerre politiche. Vietnam, Biafra, Laos, Cile188) insieme agli altri tre reportage scritti da Parise nei tre anni successivi: una vicenda editoriale “articolata” che dimostrò l’apprezzamento di

185 Silvio Perrella, Fino a Salgareda, cit., p. 72-3. 186 Goffredo Parise, Vietnam, «L’Espresso », 9 aprile, 7, 14, 21 maggio 1967. 187 Goffredo Parise, Due, tre cose sul Vietnam, Milano, Libreria Feltrinelli, 1967. 188 Id., Guerre politiche. Vietnam, Biafra, Laos, Cile, Torino, Einaudi, 1976.

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lettori e critica verso una narrazione di altissima testimonianza “politica” e umana, e di eccezionale livello estetico189. Proprio sotto il profilo artistico, ho già avuto modo di esporre gli apprezzamenti critici di alcuni studiosi nei confronti del reportage: se Perrella scriveva che «in una straordinaria intervista al generale William Childs Westmoreland […] Parise dà in questo senso il meglio di sé, trovando il punto di sintesi tra l’immaginazione romanzesca e la realtà»; se quindi Arbasino annotava che «con analoga eleganza nel coraggio scrisse reportage magnifici specialmente dal Vietnam»; Belpoliti chiosava, concludendo questo trittico, che «il reportage di guerra […] dal Vietnam […] è il suo capolavoro giornalistico». Un coro di voci, a quanto pare, troppo nutrito, qualificato e convinto per nutrire ancora

dubbi sulla valenza estetica del

presente testo. A quest’altezza, invece, reputo proficuo sottoporre il reportage a una “triangolazione di fuoco” interpretativa: tanto per usare, immersi in un contesto militare, una definizione bellica che indica un tipo specifico di fuoco incrociato. Cupio dissolvi? No. Cupio vitam profundere. La metafora militare appena suggerita è quanto mai pertinente: durante i suoi spostamenti da reporter di prima linea, al seguito dei reparti USA e vietnamiti, Parise guardò ripetutamente la morte in faccia, per la prima volta nella sua vita e nei tanti anni di viaggi avventurosi: Dong Ha, 1° aprila, alba Faccio fatica a scrivere perché le mani mi tremano molto. Tremano anche le viscere e la palpebra destra. Ieri sera al tramonto, nel silenzio e nella calma più completi, è arrivato il primo colpo di mortaio. Immediatamente dopo è stato un

189 Per la vicenda articolata del testo cfr. il capitolo Guerre politiche nella sezione Notizie sui testi, in OPERE II, pp. 1660.

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inferno. Mi sono gettato subito a terra; le esplosioni erano intorno a me, la terra mi ricopriva, i frammenti fischiavano nell’aria. I tiri di mortaio sono durati, senza una pausa, per circa venti minuti. Tremavo molto e tuttavia ero calmo. Ho pensato alle persone che mi sono care, ma in modo confuso e cercando con la ragione il sistema migliore per proteggermi. Palpando con le mani il terreno ho cercato un piccolo avvallamento ma non l’ho trovato […]. Sentivo le urla del capitano e di altri soldati, bestemmie, in cui la parola fuck risuonava più di tutte le altre […]. Sono rimasto a terra, senza rendermi conto di nulla, per tutta la durata del combattimento […]. Camminando curvo sono tornato indietro, in direzione del cratere. C’erano quattro soldati con una mitragliatrice. Mi hanno fatto segno di saltare dentro e l’ho fatto. Due erano feriti leggermente. Uno aveva un lungo striscio sulla schiena e sanguinava molto, ma pareva non sentire nulla […]. Poi mi sono addormentato di colpo senza sapere l’ora e ho dormito fino a questo momento. Ora è l’alba. L’alba del primo aprile. Bello scherzo. 1° aprila, ore 12 Stamane all’alba mi sono svegliato al passaggio degli elicotteri che portavano via i morti e i feriti. Passavano a uno, due metri sopra la mia testa sollevando un vento bollente. Da uno di essi è scivolato un lenzuolo pieno di sangue che schioccava nell’aria come una bandiera. Ho lasciato la buca per la prima volta […]. Mi avvicino al giovane capitano che sta accanto al telefono da campo. Gli chiedo cos’è successo. «Un’imboscata.» «Quali sono le sue perdite?» «Diciassette morti e trentasei feriti […].». «Quanti eravamo?» «Centoventi.» 3 aprile, ore 11 Mi dice anche, con voce lamentosa di condoglianza, che una pattuglia così è molto pericolosa dal momento che il campo verrà tolto comunque alla sera, e che sarà difficile che ci vengano a cercare se succede qualcosa. A queste parole mi prende la paura, che finora non ho mai avuto. La vera paura, cioè quella oscura, contro la quale non c’è nulla da fare, e che, purtroppo, si vede in faccia […]. Il sudore ha inzuppato in pochi minuti la mia uniforme e tutti se ne accorgono. Partiamo. Duc Co, 3 aprile, sera Stanotte alle undici è cominciato il fuoco dei pezzi da 175 mentre stavo disteso sulla branda. Il pezzo dista dalla mia buca undici passi. Ad ogni esplosione i timpani sembravano spezzarsi, pezzi di terra e di trave fischiavano come proiettili […]. Sono uscito disperato, ma ho dovuto rientrare di corsa perché lo spostamento d’aria mi sbatteva qua e là. Rab Kien, 14 aprile Proprio in quel momento sento le prime raffiche di una mitragliatrice […]. Mi metto in cammino verso quella direzione perché sono rimasto indietro, e solo. Cerco di raggiungere le prime postazioni di mitragliatrice […] ma cominciano a fischiare le pallottole e devo gettarmi a terra. Sparano contro di me, bersaglio 156


isolato sotto il sole, e non so rendermi conto perché, quando hanno davanti a sé circa duecento americani contro cui sparare. Per circa venti minuti sento le pallottole affondare nelle grosse zolle polvere. Saigon, 16 aprile Oggi parto per l’Italia, ma sono di malumore perché vorrei rimanere ancora per molto tempo. Che faccio a Roma? A Roma mi annoio.

Ho scelto di citare tutte le situazioni di rischio estremo nelle quali Parise si trovò coinvolto, per rendere evidente sia la nuda concretezza del pericolo corso dallo scrittore, nella sua cruda realtà di vissuto, sia - non suoni cinico rilevarlo - la bellezza dello scrittura che lo racconta, nella sua brillante forza immaginativa. Questo è lo scrittore nelle sue vette più alte. Dove valenza estetica, sincerità personale, lucidità intellettuale, risonanza sentimentale, precipitano chimicamente in una forma irripetibile. Ma perché Parise scelse “improvvisamente” di mettere in gioco per alcuni anni addirittura la sua vita, quasi impegnandola (e non di certo nel senso di “impegno” ideologico-politico in quegli anni corrente) al Monte dei Pegni dell’esistenza? Per averne in cambio e pagamento cosa? Forse perché le sue anime di uomo e scrittore, così irregolari e coraggiose, avevano già messo in gioco più di una volta percorsi esistenziali e carriera artistica? No, troppo facile; e fuori rotta. Senza dimenticare la circostanza per cui, se Parise fu di certo inquieto e irrequieto, e uomo di curiosità avida e di inestinguibile passione per il viaggio, è altrettanto vero che soffrì tutta la vita di una ricorrente pigrizia, inguaribile e quasi leggendaria: a testimonianza ulteriore di una personalità tratteggiata da forti ambivalenze. Noia, ozio, pigrizia: la triade caratteriale negativa che perseguitò lo scrittore per l’intera esistenza. La risposta alla domanda, cui neanche Parise seppe rispondere, può essere trovata sia in due circostanze biografiche e storiche, che in quegli anni contrassegnarono la sua vita, sia, aspetto forse ancor più importante, nel coraggio analitico di affondare la 157


lama dell’indagine in un nucleo esistenziale dal quale persino lo scrittore preferì ritrarsi. Leggiamo intanto cosa scrive a riguardo nella prefazione al reportage pubblicato in Due, tre cose sul Vietnam nel 1967: L’occasione di questo viaggio mi fu offerta da Eugenio Scalfari, allora direttore dell’”Espresso “. Ancora oggi gliene sono grato anche se esso rappresentò il secondo (ma il più pesante) invecchiamento di tutta la mia persona. Allora non me ne rendevo, il processo degenerativo di tessuti, arterie e sangue, essendo in corso190.

Nel 1975, da un’angolazione sì immutata ma certo più sofferta per il peso degli anni e degli eventi, con poche memorabili annotazioni scrive nella prefazione del volume Guerre politiche. Vietnam, Biafra, Laos, Cile: I viaggi e soprattutto le guerre invecchiano. Oggi rimpiango e invidio chi è rimasto a casa, a fare politica, a parlare o a scrivere di politica: tutti costoro sono molto più giovani di me. Di questi scritti alcuni critici letterari hanno parlato con lode, e io li ringrazio ma rimango scettico. Sono scritti di giornale, dopo tutto, e senza

rinnegarli, hanno il valore della data che portano. Tuttavia mi chiedo oggi, il perché di questi miei viaggi in mezzo a guerre e rivoluzioni. Partecipazione umana? Sì, in parte. Curiosità politica? In parte. Inquietudine intellettuale e personale? In parte. Amore del rischio? In parte, perché in quegli anni la vita non mi piaceva e mi piaceva invece giocarla, stupidissimamente. Tutte queste parti, però, non fanno l’intero, nemmeno la più piccola parte dell’intero. Per cui la domanda “perché questi viaggi”? rimane nell’oscurità e io non so dare una risposta a me stesso. Sono quelle che si diceva un tempo “i casi della vita”191. Lo sguardo di Parise gira in circolo intorno al nucleo oscuro, stringe il cerchio con un vortice di domande a ciascuna delle quali assegna senza esitazione la risposta, quasi scontata: qui però si arresta; non riesce o non vuole andare oltre; non affonda la lama dello sguardo nell’occhio del vortice. Senonché, nel 1970, le sue qualità di incredibile onestà intellettuale e lucidità di analisi originano una coraggiosa intuizione psicologica:

190 OPERE II, pp. 785. 191 Cfr. l’Avvertenza, nella sezione Guerre politiche. Vietnam, Biafra, Laos, Cile, in OPERE II, pp. 77980.

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Compie un nuovo viaggio, nel mese di maggio, tra i partigiani del PathetLao […]. Segue le unità partigiane lungo la pista Ho-Chi-Minh […]. Sono le pagine del «Corriere della Sera» a ospitare anche questo reportage. Un frammento, dattiloscritto con numerose cancellature, databile al 1970 e conservato in Archivio a Ponte di Piave, contiene un testo quasi visionario, senz’altro nato dalla forte passione per l’Estremo Oriente e dalle emozioni derivanti dall’esperienza diretta della guerra: «Ora so che sono tornato in Vietnam per morire. Non lo sapevo, un anno fa, quando mi trovai in mezzo a queste risaie, sotto il fuoco. O meglio, lo intuivo soltanto, ma come un suono che non si è certi di aver udito, il proprio nome pronunciato in mezzo a una folla vociante. Ora invece lo so con la coscienza e col cuore, perché, nel periodo di tempo trascorso a Roma, a poco a poco, pensandoci, ricordando e analizzando la natura e i sentimenti di questi ricordi, questa calma, serena e quasi allegra aspirazione si è mostrata molto più forte delle altre in tutta la sua bellezza. Ho detto aspirazione, non disperazione, e questo dovrebbe bastare per allontanare ogni sospetto di suicidio»192.

Parise si è affacciato sull’orlo della voragine, confessa un calmo, sereno e quasi allegro desiderio di morte, di cui rifiuta con convinzione la definizione di suicidio. Ma cos’è allora? Facciamo un passo indietro, e illustriamo le circostanze (biografica, storica) cui accennavamo in precedenza. Nel 1967, quando si recò in Vietnam per la prima volta, Parise risiedeva a Roma da diversi anni. L’iniziale travolgente entusiasmo era scemato, talvolta si estingueva perfino: immancabile, l’innata oscillazione ambivalente fra eccitazione e depressione, curiosità e noia, pigrizia e vitalità, artigliava di nuovo come un persecutore implacabile la sua vita. Svaniti entusiasmo e illusione, anche nell’ennesima città lo scrittore sperimentava una rinnovata delusione e perdita. A rendere più drammatico il quadro, lo scrittore subiva pesantemente la crisi innescata da quei cambiamenti epocali che abbiamo già illustrati. Tanto travagliato fu il vissuto di quel periodo, che perfino la valenza liberatoria dei reportage non sempre era sufficiente per compensare e invertire di segno i tratti bui e patogeni di carattere e psiche; né la capacità di viaggi e scritti di

192 Cfr. la Cronologia, in OPERE I, p. LVII.

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viaggio di placare l’inquietudine, riusciva ad avere sempre la meglio sui riflussi negativi delle mareggiate. Tuttavia, proprio viaggi e reportage rimanevano pur sempre l’ultima via di fuga, l’ultimo appiglio del rocciatore, l’estrema ratio per una sopravvivenza psichica e creativa, l’ultimo scatto vitale cui abbandonarsi per tentare un rilancio. E proprio questo Parise fece: rilanciò, mettendo sul piatto la sua stessa vita. Tuttavia, gli orizzonti personali - seppur fondamentali - non sono sufficienti da soli a rendere conto dell’aspirazione estrema alla morte: perché, con le stesse parole di Parise, «tutte queste parti, però, non fanno l’intero». Ecco quindi entrare in scena l’atmosfera di fine anni Sessanta, con il suo vento possente di cambiamento e contestazione, con il suo irripetibile sogno di un mondo nuovo: così simili e così lontani dal vento di libertà e senso di speranza già sperimentati nel dopoguerra. Inevitabile per Parise esserne investito ma soprattutto coinvolto. E mentre quel senso di impegno diveniva presto asfittico e declinava verbosamente sul versante politico e ideologico, Parise invece ne tirò le redini e lo cavalcò verso una personalissima forma di impegno totale, di mente cuore e corpo, fino a giocarsi la sua stessa vita nella roulette del Fato. Inevitabile e anche troppo facile allora pensarlo, ma non fu né estremo nichilismo, né patologica autodistruttività, né placante desiderio di annullamento mortale: non fu il tragico cupio dissolvi, se a questo pensiamo, consegnato alla mitologia delle esistenze irrequiete e senza pace. Parise è chiaro su questo punto e pronto a fugare ogni dubbio. Semmai, ed è questa la mia intuizione interpretativa, fu un cupio vitam profundere, un desiderio di offrire la propria vita per una causa: la sua personalissima forma di “impegno”, la modalità originale e fatale di vivere il sogno di cambiamento che percorreva quell’epoca: insomma, il modo individuale e irregolare di 160


esprimere impegno civile, tensione morale, adesione umana. C’è tuttavia ancora dell’altro: immergendo più a fondo lo sguardo, è inevitabile scoprire che il desiderio di immolarsi rispondeva anche ad un contiguo definitivo bisogno di pacificazione interiore, ad un tentativo di dare senso, attraverso una sorta di martirio, ad un’implacabile inquietudine esistenziale. Sotto tale profilo, le figure di Parise e Pasolini si rincorsero sulla pista della vita consegnandosi di continuo il testimone. Anche Pasolini contestò il Sessantotto, pur partecipando in prima persona, per esempio, sia alla contestazione che all’occupazione della Biennale, e avvertendone, analogamente, la spinta ideale. Non solo: anche lui abbracciò la scelta del martirio, che seppur perseguito a Roma nella guerra del degrado antropologico, lo condusse con micidiale precisione a testimoniarsi come cadavere all’idroscalo di Ostia. Impegno civile, aspetto umano. Ma per quale causa Parise sarebbe pronto a immolarsi? Per la sua causa, per la causa di Parise stesso, la causa dell’essere testimone partecipe e lucido di un ennesimo evento tragico nel modo: respingendo la pressione ideologica a scegliere una delle parti, ma coltivando l’ambizione a interferire con il corso del Fato attraverso la semplice testimonianza; a modificare la realtà pur con la letteratura e da semplice intellettuale: Personalmente, dopo tutti i miei viaggi, non me ne importa niente delle parole impegno e disimpegno, mostrando, nel così dire, un riprovevole disimpegno. Lo confesso, sapendo a cosa vado incontro. Il mio impegno, quando pensavo di essere impegnato, era questo: credere fermamente che, con le mie parole scritte, avrei informato e forse coinvolto nella sorte di alcuni ragazzi di quindici sedici anni, mandati a fare la guerra e disperatamente morti, alcuni lettori. Forse sono riuscito e io ho sempre pensato e ancora penso che l’impegno di uno scrittore dovrebbe essere

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questo, che pare non sia più o non debba essere193. Parise osserva da vicino soldati USA e vietcong: certamente gli appaiono come attori di una guerra politica, ma il suo sguardo li vede principalmente come protagonisti di uno scontro di civiltà e di un dramma umano. La sua chiave di lettura è originale anticonformista, «tirandosi addosso, nel caso del Vietnam, censure da sinistra»194, Noam Chomsky fra questi: Di guerre “giuste” e “ingiuste” si diceva in quegli anni e si dice, e si dirà. Anche questi aggettivi assoluti metto tra virgolette avendo imparato che nessuna guerra è mai giusta, quale che sia la sua politica. Allora e oggi giudico profondamente ingiusta la guerra condotta dagli americani in Vietnam, così ingiusta che essa è diventata il simbolo (giusto) della attuale decadenza degli Stati Uniti. Giudicavo però e ancora giudico ingiusto scoprire tra i cadaveri dei combattenti nord-vietnamiti ragazzi di quindici, sedici anni, fossero o no volontari. Troppo giovani per morire, e soprattutto in paesi stranieri […]. Lo scrittore che viaggia finisce per avere una sua idea di luoghi e persone diversi […]. La gioventù lo aiuta a guardare, perché l’occhio, la mente e il cuore sono forti e resistenti anche ai grandi dolori dell’umanità. Più avanti, nella maturità, lo scrittore tende a riflettere e a ricordare e a vedere come si dice in “prospettiva” i viaggi della sua gioventù.

Lasciamo parlare ora lo scrittore dal cuore vivo del reportage: 30 marzo 1967, ore 21,30 Questo è il mio primo giorno di guerra. Siamo al confine della zona demilitarizzata, immediatamente a sud del 17° parallelo, dove in questi giorni avvengono i combattimenti più duri. Qui non operano soltanto i vietcong ma unità regolari dell’esercito vietnamita che si infiltrano verso sud. Camminano di notte, in territori che solo loro conoscono […]. I contadini stavano sulla soglia delle loro case e ci guardavano sfilare sulle strette dighe delle risaie con occhi privi di curiosità, indifferenti come chi è abituato al dolore. Sono entrato nelle loro case […]. I marines […] non entravano nelle case e non davano nessuna confidenza ai bambini. Temevano che il terreno fosse minato, case comprese. Un bambino mi ha offerto un cocco […] spontaneamente, per tradizione di ospitalità dal momento che sono entrato nella loro casa. Non avevano nessuna intenzione di essere pagati. Ma quando ho mostrato il denaro ognuno voleva la sua parte […]. Sono le tre. L’attacco è cessato, la notte è calma e serena, la sabbia è

193 Cfr. l’Avvertenza nella sezione Guerre politiche. Vietnam, Biafra, Laos, Cile, in OPERE II, pp. 78081. 194 Gabriele Braggion, Più delle cose la vita. Goffredo Parise reporter, in «Linea d’ombra», 117, luglioagosto 1996, p. 23.

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coperta da una spessa garza di nebbia che ondeggia a dieci-venti centimetri dal suolo Dong Ha, 31 marzo

Sono sbalordito dalla formidabile organizzazione, di confort, che giunge nei punti più avanzati. Non manca nulla, una trincea è un piccolo angolo d’America. Ore 14

In venti minuti di elicottero abbiamo coperto la distanza che ci separa dalla zona d’operazione. L’elicottero ha come stemma il coniglietto bianco di “Playboy”. È questo il vero comandante delle forze armate e il vero agente di pacificazione dei villaggi. “Playboy” è il simbolo dell’America […]. Mi presento al capitano: è un uomo giovane, enorme e bellissimo. una specie di Unno o di atleta greco in technicolor […]. Mi raggiunge un ragazzo che si chiama Carmelo Cipollone, siciliano. Ha diciannove anni. Mi parla fittamente e i marines che fanno cerchio intorno a noi dicono ridendo: «Mafia, Italian Mafia» […]. Capisco, ascoltandoli, che per loro la guerra si svolge in un’atmosfera di dissociazione molto simile al sogno. 1° aprile, ore 12

Poi mi avvicino ai morti che nessuno guarda. Sono ragazzi. possono avere quindici o sedici anni. I corpi sono lacerati da ferite profonde, uno che sembra il più giovane ha il cranio spaccato […]. Improvvisamente vedo ai miei piedi, sotto un cespuglio, un fagottino tremante con le mani alzate. Poiché non ho armi giunge le mani e fa un piccolo inchino, alla vietnamita. Non so cosa fare. […]. Com’è diversa l’usura quotidiana di un oggetto o di un uomo e quella rapida e oscena della guerra! […] Quella pallottola in serie non ha prodotto un buco in serie bensì uno strappo unico, bizzarro e impensabile prima, così come sono bizzarre e impensabili le ferite e le esplosioni negli arti, nella testa, nella carne degli uomini […]. Dopo le munizioni la birra è senza dubbio il prodotto di maggior consumo delle truppe americane. 3 aprile, ore 17

Sono quasi allegro perché il luogo è molto bello e, nonostante i crateri delle bombe e il napalm, non ha perduto né il suo mistero né la sua verginità. Duc Co, 3 aprile, sera

«Sono armi, monsieur. Questa piccola freccia avvelenata penetra tutta intera nel corpo e spesso è avvelenata. Non c’è di peggio di una ferita di bambù quando si è nella foresta. La cancrena si forma subito. Non sottovaluti il bambù…: non dimentichi, monsieur, che il Vietnam è il paese del bambù» è…]. Cantho, 9 aprile

Gli americani ridono. Ma per chi ha visto la potenza di fuoco dell’esercito americano […] queste pallottole fatte a mano con vecchi

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bossoli raccolti la notte dopo il combattimento provocano ammirazione e commozione195. Ho scelto di dare ampio spazio al testo per mostrare il talento di Parise nel mantenere la scrittura in perfetto equilibrio artistico fra i caratteri del resoconto giornalistico di guerra e quelli della narrazione bellica esteticamente esemplare: scandita, quest’ultima, da liriche e idilliche descrizioni naturali; da brevi dialoghi efficaci e suggestivi; da riflessioni umane insieme sagge e commoventi. Prostituzione. Pubblicità industriale. Simmetria e scambio fra una vietnamita e un americano Prima di concludere la trattazione del reportage sul Vietnam, vorrei esaminare in sintesi due testi che ne sono appendice finale. Il primo, Una vietnamita è una vietnamita (1967)196, è il frutto di un’inchiesta del Nostro sulla prostituzione nella città di Saigon. L’indagine è condotta con rigore di analisi, laicità di approccio e insieme partecipazione umana. Il fenomeno viene messo a fuoco non solo sotto la lente del degrado - sia esso personale, sessuale e sociale - ma anche sotto quella della sua organizzazione (quindi non solo sfruttamento) ai fini del finanziamento occulto alle truppe vietcong - infiltrate in territorio vietnamita, presidiato e difeso dalle truppe congiunte USA e governative: partigiani vietcong, precisa il reportage, spesso perfino familiari e fruitori dei proventi delle prostitute volontarie. Dunque, non soltanto un’immensa, scontata e variegata offerta di sesso a pagamento a disposizione delle truppe militari, USA prevalentemente. Esaminiamo il testo: Dirò subito che la prostituzione a Saigon ha caratteri molto particolari: il più evidente è la xenofobia. Delle trentamila ragazze che lavorano nei 1429 bar di Saigon, Gia Dinh e Bien Hoa, pochissime si accompagnano per la notte con uno

195 OPERE II, pp. 783-822. 196 Ivi, pp. 823-842.

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straniero. Delle donne, ragazze e bambine che lavorano nelle quattordicimila case di prostituzione di Saigon solo un parte accetta gli stranieri. Altra particolarità importante […]: una volta riscosso il denaro (sempre in anticipo) l’oggetto della prostituzione, cioè la donna, quasi sempre scompare […]. Sotto questo aspetto, stranissimo, che produce effetti di chimera e uno stupore continuo, quasi onirico, che può giungere al sonnambulismo (vedi strategia americana), Saigon e il Sud Vietnam sono unici al mondo […]. La donna vietnamita è molto bella, una tra le più belle al mondo […]. Per dare un’immagine della donna vietnamita bisogna descrivere i suoi movimenti. Lo farò brevemente: si pensi alla naturale eleganza, alla souplesse e insieme all’autorità di una volpe quando, di notte, attraversa un prato nevoso al lume di luna per passare da un bosco all’altro […]. Trotterella soltanto. Infine […]essa è certamente o quasi certamente verso una preda. Questa preda è l’America. In piedi davanti a me, in una baracca di legno e lamiera bollenti, contro una parete, c’è una bambina vietnamita di quattordici anni, prostituta professionale da più di un anni […]. È bella: i capelli neri e lunghi […], gli occhi, che tiene bassi, esprimono al tempo stesso paura, disprezzo, astuzia e innocenza […]. Poiché è a pochi centimetri da me posso sentire il suo odore: sa di incenso di sandalo, ma sa anche di latte, di pipì e di talco, come certi neonati. Non vuole sedersi accanto a me e a brevi intervalli arrossisce […]. Alcuni bambini la spingono contro di me. Dietro di me ci sono l’intermediaria, la padrona, il marito dell’intermediaria e la mia guida […]. Chiedo alla bambina perché ha tanta paura di me. Risponde: «Perché sei americano». «Non sono americano, sono italiano». Ma la mia guida non traduce nemmeno. «Allora dimmi perché gli americani ti fanno tanta paura». «Perché sono stranieri e sono molto grandi». «Perché non conosco la loro lingua, non so cosa pensano e vogliono sempre rubare o fare del male». «Qual è il tuo prezzo?». Risponde la padrona per lei: «Cinquecento piastre». «Qual è il tuo prezzo?». A questo punto il mento della bambina comincia a tremare. Fa cenno di no col capo e ha gli sbarrati per il terrore e la vergogna […]. Alla fine la guida dice che non le farò alcun male e che le darò cinquecento piastre solo per parlare con lei davanti a tutti […]: mi sorride da sotto in su con lente e lunghe occhiate. «Quanti anni avevi la prima volta?». «Undici». La mia guida, che è suo cliente abituale, mi spiega che la verginità della bambina è stata venduta a un cinese per quindicimila piastre. La verginità si vende spesso e il suo prezzo varia a seconda della bellezza della ragazza e dell’abilità degli intermediari. «Chi sono, di solito, gli acquirenti?». «Sono vecchi cinesi. I vecchi e ricchi cinesi di Cholon sono convinti che la verginità di una ragazza rinnova la virilità e ringiovanisce: una specie di elisir di giovinezza» […]. Molti dei loro mariti o dei loro fratelli sono vietcong, e lo sono anche loro perché, come avrà visto, non hanno nulla da perdere […]. Dove vanno gli americani a trovare una ragazza? Vanno nelle migliaia di 165


bar che si allineano come tiri a segno lungo le vie principali di Saigon. Enormi, carnosi bambini simili a grossi frutti artificiali si aggirano la sera per le vie del centro […]: la più colossale beffa ai danni del sentimentalismo convenzionale, industriale (e puritano) della civiltà americana. Infatti l’istituzione dei bar è un prodigio di astuzia vietnamita […]: una guerriglia erotica197.

Ricordando quanto Parise scriveva nel reportage sugli States del 1961 - e quel suo atteggiamento sopra le righe, spaccone e cinico verso il sesso mercenario offerto da donne di colore, bianche o meticce, fossero adulte o bambine - lasciano ora esterrefatti il cambiamento di stile e toni, e soprattutto la forte empatia e la sincera adesione umana verso il femminile. Agiscono solamente censura morale e sorveglianza letteraria dettati dal ruolo ufficiale di inviato di guerra e dagli inevitabili sguardi critici del pubblico di lettori e cittadini? È possibile, molto plausibile, ma come scriverebbe Parise ciò non restituisce l’intero. Il secondo conclusivo testo che rimane da esaminare ha per titolo Un americano è un americano198 e prende spunto dall’intervista rilasciata allo scrittore dal generale William Childs Westmoreland, comandante in capo delle forze americane nel Vietnam. La sua figura è stata già citata nel corso della tesi, a conferma del valore simbolico sia della descrizione sociologica sia dell’originalità narrativa che Parise realizza e che la critica rileva. Con nitore icastico delle immagini, il generale Westmoreland assurge a prototipo esemplare dell’industria americana tout-court, più specificamente tecnologica e bellica, veicolato attraverso un modello pubblicitario di figura eroica rivestita dall’alone del mito. Leggiamo: La prima volta che lo vidi, il generale William Childs Westmoreland,

197 OPERE II, pp. 823-842. 198 Ivi, pp. 843-849.

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comandante supremo delle forze armate americane nel Vietnam e probabile candidato alla casa Bianca per le elezioni del 1968, era in smoking […]: un volto così immobile, sorridente, pubblicitario, con il suo bicchiere scintillante di whisky ambrato e ghiaccio […]. Un militare che è al tempo stesso un uomo-pubblicità per una nota marca di whisky […]. Osservai i suoi occhi […]: una luminosità di fosforo, che suggeriva… non soltanto autorità, ma qualcosa di più intenso e quasi doloroso che assomiglia alla vocazione religiosa. Dunque, non era più soltanto un generale e un modello pubblicitario ma […] un discobolo […]. Poi l’ho visto una seconda volta. Un appuntamento al suo quartier generale che mi ha accordato perché l’ambasciatore d’Italia […] è riuscito a presentarmi a lui come scrittore e non come giornalista […]. Entrambi sorridono nello stringermi la mano. Osservo le labbra dei due che s’aprono su denti bassi, larghi, di marmo. Un’iterazione visiva, una legione romana […]. «Non vedo alcuna analogia tra noi e gli antichi romani. I romani conquistavano e occupavano […], noi siamo stati invitati dal governo vietnamita per salvare la pace». «Debbo dirle francamente che lei mi dà più l’impressione d’essere un missionario che un militare […]». «La sua impressione è giusta. Io mi considero un missionario della libertà» […]. Mentre parla lo esamino. L’uomo che mi sta di fronte […] è un prodotto perfetto dell’industria americana […] Non è un capo militare del tipo MacArthur o di Eisenhower […]. Non ha nulla di quanto restava ancora di umanistico […] in quegli uomini […]. In compenso possiede, all’interno della sua macchina bellica, una pressoché totale disponibilità d’essere uno strumento […]. Egli inoltre crede con pura e profonda fede nella tecnica, nella scienza, nell’industria bellica americane […]. Egli è persuaso che non le idee e i sentimenti possano vincere e perdere una guerra, bensì sempre e soltanto gli strumenti dell’industria, siano essi uomini o cose. Sacerdote del neo-puritanesimo industriale.

Gli occhi di noi lettori scorrono il reportage, e il suo lento e studiato movimento ci attrae con i consueti tratti parisiani: bellezza ed efficacia. Vietnam, dunque, rappresenta un testimone esemplare delle qualità che hanno reso insuperabili i reportage di Parise. Dell’altra qualità, la commozione, testimonierà il prossimo scritto di viaggio.

III.9

1968 Biafra (Guerre politiche. Biafra) Un anno dopo il Vietnam, Parise non aveva certo chiuso la partita con il «cupio

vitam profundere»: quel «desiderio di offrire la propria vita per una causa», quella «personalissima forma di “impegno”», quel suo modo «originale e fatale di vivere il 167


sogno di cambiamento che percorreva quell’epoca» erano non soltanto integri ma persino più potenti di prima, nella loro urgente passione che sollecitava lo scrittore a spendersi di nuovo in un’esperienza irregolare, irripetibile, di impegno civile e partecipazione umana. Dunque, persino per il “disimpegnato”, anticonformista e libertario Parise, controcanto critico della contestazione, il 1968 fu un anno “rivoluzionario” per la sua esperienza personale e creativa: e stanno a testimoniarlo le posizioni politiche e civili fuori dal coro, e le scelte di vita sempre uniche ed estreme. Ne abbiamo già accennato in precedenza: in primavera, si recava con Nanni Balestrini a Parigi per osservare «da vicino» i movimenti giovanili della contestazione, quelli assurti a icona con il Maggio francese: Nel 1968 ebbi una precisa sensazione: la sensazione di una rottura di continuità della cultura storicistica, o se si vuole della cultura umanistica. E che ci fosse l’invasione dell’ideologismo verbale, addirittura fluviale, che si traduceva nel nulla. Ricordo che andai a Parigi e mi resi conto che dietro quel marasma, apparentemente rivoluzionario, c’era il vuoto. Però molti ne ebbero un’impressione grandiosa. Tanti intellettuali, anche comunisti, si confusero e si persero dietro una specie di sogno romantico giovanile. E ancora si parla del ’68 come di un anno di grande importanza storica, esagerando enormemente, producendo confusione e retorica (Giorgio Amendola e Goffredo Parise a colloquio… La crisi del marxismo comincia nel ’68?, incontro registrato da M. Pendinelli per il «Corriere della Sera», 4 gennaio 1978)199.

Comportamento e dichiarazioni dello scrittore, ci confermano un’identità complessa e coraggiosa di intellettuale che voleva mantenersi sempre all’altezza degli eventi sociali e culturali più critici (come dimostra il tempestivo viaggio a Parigi), senza mai rinunciare a quell’analisi lucida e critica del reale che lo rendeva non omologato e quindi impopolare. A Parise non poteva né bastare né andare a genio l’esperienza sessantottina, in

199 Cfr. la Cronologia in OPERE I, p. LV.

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particolar modo quella europea così da vicino vissuta e analizzata, che nasceva ancor prima da un dilagante fenomeno di respiro mondiale: un’esperienza nella quale l’originaria tensione utopica si era degradata in sterile verbalismo politico; in cui azione e pensiero erano frutto di una gioventù borghese, in teoria aperta al popolo umile e diseredato ma nella prassi chiusa in un’elitaria e perdente separazione; e in cui la rottura apparentemente rivoluzionaria della tradizione umanistica si era immiserita nei tratti di una cesura euforica e provvisoria, arretrata e asfittica, prigioniera del medesimo utero epocale che l’aveva in gestazione: senza riuscire davvero a trasformarsi in autentico processo rivoluzionario, dotato di tensione lucida e duratura; di praticabile propositività ideale e reale progettualità culturale; di urgente necessità antropologica. Parise dunque, più volte e con chiarezza, sentì il bisogno di prendere posizione e insieme esprimere il suo dissenso rispetto al tradimento e al fallimento di quel sogno contestativo: ne rilevava ad esempio l’imperante verbosità, quando parlava di «invasione dell’ideologismo verbale, addirittura fluviale, che si traduceva nel nulla»200 o precisava di non amare «l’inflazione delle parole, il verbalismo[…] così in uso oggi specialmente tra i giovanissimi consumatori di parole»201; e ne stigmatizzava l’inconsistente sterilità, quando scriveva «ricordo che andai a Parigi e mi resi conto che dietro quel marasma, apparentemente rivoluzionario, c’era il vuoto»; oppure, ne evidenziava l’abuso linguistico e sociologico della parola “politica”, quando affermava che «è vero, politica […] è usata troppo e in troppi contesti: in altri termini, sento che, appunto, è […] inflazionata»202; o quando, fornendone una spietata sintesi storiografica attraverso un linguaggio suggestivo, tratteggiava quel movimento come illusoria e

200 Ibidem. 201 Furio Colombo, Le guerre di Parise, in «Tuttolibri», supplemento a «La Stampa », 6 marzo 1976. 202 Ibidem.

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fugace meteora storica: «però molti ne ebbero un’impressione grandiosa. Tanti intellettuali, anche comunisti, si confusero e si persero dietro una specie di sogno romantico giovanile. E ancora si parla del ’68 come di un anno di grande importanza storica». Parise, in ogni caso, avvertì come insufficiente il suo ruolo di controcanto critico di un movimento, tanto più nella posizione di semplice spettatore: e, circostanza ancor più importante, capì che non era questa la causa cui votarsi. Lo scrittore sentì l’urgenza di investire tutto sé stesso - in prima persona, compresa la fisicità del proprio corpo - e di profondere la propria vita (vitam profundere), nella condivisione di un evento tragico che attraeva per empatia le sue profonde corde del sentimento politico e civile e della commozione umana. Nuovamente inviato dal Corriere della Sera come reporter, in agosto raggiungeva il Biafra, un piccolo stato secessionista interno alla Nigeria che lo circondava territorialmente: l’inevitabile conflitto militare che si era acceso un anno prima fra le due realtà territoriali, ebbe come conseguenze non solo e tanto i drammi prevedibili di ogni guerra, quanto l’orrore di uno sterminio - tanto implacabile e inesorabile nelle sue letali cause “naturali” di denutrizione e malattia piuttosto che di diretta violenza bellica, quanto, di conseguenza, privo di individuabili colpevoli diretti di centinaia di migliaia di bimbi trasformati già da vivi in puri scheletri: un olocausto delegato alla natura, dunque, che con diffusione planetaria fu offerto ed esibito per l’irresponsabile e inconcludente gioco della diplomazia internazionale e per la gioia disumana e cinica del mondo pubblicitario e mediatico, sempre affamato di sensazionalità, tanto più efficace se tragica. Un orrore umanitario che, come leggeremo, fu scientemente usato dai secessionisti come richiamo pubblicitario verso un conflitto 170


altrimenti anonimo e senza interesse; dalla controparte nigeriana come inaspettata quanto fortunata occasione di incolpevole sterminio; dai restanti attori della scena mondiale (istituzioni, media, cittadini) come ennesimo emergenza in cui esercitare impotenza politica, cinico sensazionalismo, retorica umanitaria. Per di più, su uno scenario già di per sé orrendo, aleggiò il sospetto sconvolgente di forti interessi economici dovuti alla presenza di ricchissimi giacimenti petroliferi nel territorio biafrano. Lo stesso viaggio in aereo compiuto da Parise per arrivare ad Aba, testimonia la drammaticità e la pericolosità di quell’esperienza, ma anche il coraggio e la passione civile dimostrati dello scrittore: Nel mese di luglio raggiunge il Biafra, dove si sta combattendo una feroce guerra civile. Vi arriva in modo fortunoso, con un aereo della Caritas International, atterrando nella foresta tra le raffiche della contraerea nigeriana. Pubblicate dapprima sul «Corriere», le corrispondenze biafrane vengono poi riprese nell’opuscolo Biafra (edizioni della Libreria Feltrinelli). Suscitano accese discussioni perché, rompendo schemi informativi convenzionali, denunciano il ruolo di una potente società pubblicitaria elvetica nella guerra civile biafrana203.

Come anticipato nella citazione, il reportage dal Biafra fu pubblicato sul «Corriere della Sera» sotto forma di articoli usciti nei giorni 6, 9, 13, 15, 18 agosto 1968204, successivamente riuniti in un testo unitario intitolato Biafra edito il medesimo anno dalla Libreria Feltrinelli205. Nel 1976 - lo abbiamo già appreso nel precedente paragrafo Vietnam - il reportage venne nuovamente dato alle stampe per i tipi Einaudi nel volume Guerre politiche. Vietnam, Biafra, Laos, Cile206, che raccoglieva tutte le corrispondenze di guerra dello scrittore. È fin troppo evidente che Biafra ripercorre la

203 Cfr. la Cronologia in OPERE I, p. LV-LVI. 204 «Corriere della Sera» 6, 9, 13, 15, 18 agosto 1968. 205 Goffredo Parise, Biafra, Milano, Libreria Feltrinelli, 1968. 206 Goffredo Parise., Guerre politiche. Vietnam, Biafra, Laos, Cile, Torino, Einaudi, 1976, [ora presente anche come Biafra, nella sezione Guerre politiche. Vietnam, Biafra, Laos, Cile, in OPERE II, pp. 911-66.

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medesima movimentata storia editoriale del reportage Vietnam, a conferma dell’altissima ammirazione che lettori comuni, intellettuali, critica nutrirono verso una narrazione di inarrivabile bellezza e di partecipazione umanitaria profondissima e dolente207. Al suo rientro in Italia, Parise venne chiamato dalla RAI ad assistere alla proiezione di un documentario sulla tragedia biafrana girato da troupe francesi e inglesi, e, in quanto unico italiano ad aver visitato il paese, gli venne richiesto un commento in merito. Il nove agosto, la RAI trasmetteva nella rubrica TV7 il servizio sul Biafra corredato dalle sue considerazioni, mentre il giorno successivo il quotidiano «Paese sera» pubblicava un articolo di critica televisiva a cura di Vice - pseudonimo di Aurora Santuari - che da giornalista tanto insulsa quanto figlia dell’arrogante spirito dottrinario dell’epoca, qualificava con esibita saccente disumanità lo speciale televisivo Fine del Biafra un documentario di «moderato interesse», tacciandolo per di più di analisi superficiale e sterile delle cause del conflitto. Parise, a sua volta, certo non vigliacco né domo, rilasciò una controreplica all’articolo del quotidiano, tanto serena quanto affilata, commossa, nelle sue corde politiche e umane. Successivamente, partecipò ad un dibattito sulla tragedia biafrana con l’ambasciatore della Nigeria a Roma, John Mannan Garba, con la presenza in qualità di coordinatore del giornalista Nello Ajello. Entrambi i supplementi mediatici - risposta al quotidiano e intervento nel dibattito - videro la luce una prima volta nel 1968 su «L’Espresso»208 e una seconda nel già menzionato volume Guerre politiche209.

207 Per la ricca vicenda editoriale, cfr. il capitolo Guerre politiche nella sezione Notizie sui testi, in OPERE II, pp. 1660-1. 208 «Corriere della Sera» 8 settembre 1968. 209 Goffredo Parise, Guerre politiche, cit.; ora in OPERE II, pp. 895-98; 899-910.

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Avremo comunque modo più avanti di leggere e commentare le osservazioni di Parise rilasciate nelle due appendici giornalistiche. Per il momento, invece, entriamo nel cuore del reportage, e iniziamo a leggere alcuni passi dell’introduzione che Parise vi antepose, e nella quale presentava un breve antefatto di quel tragico evento: Biafra, agosto 1968 Il Biafra era un piccolissimo stato, apparso e scomparso nel giro di un anno. Un negro di nome Ojukwu, di ottima famiglia, ufficiale di carriera dell’esercito Nigeriano, con studi a Eton e Cambridge, decise un giorno di diventare il capo di una grossa tribù cattolica, nel cuore della Nigeria, in una zona ricchissima di petrolio. Formò uno stato secessionista, combattuto dal governo centrale della Nigeria. Ci fu una guerra, fatta come poteva essere fatta. Per pubblicità alla sua causa e alla guerra presso le nazioni di tutto il mondo, il negro Ojukwu, in accordo con una potente società pubblicitaria svizzera, installò una telescrivente nella foresta. Non si limitò a questo, perché qualcosa bisognava pur dare in pasto ai lettori della telescrivente che smistava ai giornali di tutto il mondo; e questo qualcosa doveva essere sensazionale in maniera esplosiva, tanto poco sensazionale ed esplosiva era la notizia di una guerra locale fra tribù. Furono così fatti morire di fame, ed esibiti agli osservatori, centinaia di migliaia di bambini nigeriani ridotti a scheletri. Nessuno, nemmeno il sottoscritto, pensava che potesse essere una trovata pubblicitaria, una orrenda trappola. E invece lo fu, il mondo cadde nella trappola (Cina compresa), la Caritas Internationalis, con gli oboli dei fedeli, organizzò una flotta aerea per gli aiuti, la Croce Rossa anche, le grandi potenze mandarono osservatori. Il negro Ojukwu, educato a Eton e Cambridge, annunciò al mondo che la guerra sarebbe durata fino a quando lo Stato del Biafra non fosse riconosciuto ufficialmente e, naturalmente, fino all’ultima goccia del suo sangue. Invece la guerra fu perduta, gli assassini smascherati, la telescrivente smontata e il negro Ojukwu fuggì nel Camerun trasportando in elicottero anche una sua Cadillac. Né di lui, né delle centinaia di migliaia di bambini morti di fame si sentì più parlare. Forse il negro Ojukwu gioca a tennis da qualche parte. Dubito che questo nome - Biafra - abbia trovato posto in qualche enciclopedia210.

Parise non dimentica mai il suo dovere di eccellente giornalista, e nell’introduzione delinea una sintesi efficace di antefatti e fatti, un asciutto resoconto informativo: che a mano a mano, prende corpo e sapore, attraverso commenti umani e civili a controcanto, e grazie al sottile spessore narrativo che serpeggia nel testo e che emerge più visibile in poche incisive immagini («apparso e scomparso nel giro di un

210 OPERE II, pp. 853-4.

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anno», «pur dare in pasto ai lettori della telescrivente», «forse il negro Ojukwu gioca a tennis da qualche parte»). Prima di proseguire, devo confessare senza reticenze il mio intenso coinvolgimento emotivo nei confronti del reportage: i cui motivi, chiaramente personali, non attengono alla presente analisi, eccezion fatta per quelli che hanno origine dal testo e di cui ho già fatto cenno: la valenza estetica davvero eccezionale, tanto più in quanto non esibita; l’atteggiamento solidale di Parise, commovente, persino struggente; la sua scelta di impegno - ideale e politico - ribelle e cristallino, dove intelletto, passione, e corpo sono spesi al servizio della causa della testimonianza. Ho voluto dichiarare il mio coinvolgimento per avvertire il lettore, oltre che me stesso, del possibile rischio di non avere sempre il sufficiente distacco critico durante l’analisi del reportage: ma soprattutto, dopo averne dato conto in modo esplicito così da anticipare i dubbi di chi legge, per rassicurare comunque sulla presenza costante di attinenza testuale e vigilanza critica. Resta il fatto, che Biafra è uno dei testi più belli che abbia mai incontrato: di sicuro, il più struggente. Arrivo in Biafra Accantonata l’introduzione, nel primo capitolo Arrivo in Biafra il lettore inizia a muovere i suoi passi sul suolo biafrano, osservandolo con gli occhi dello scrittore vicentino: Aba (Repubblica del Biafra), agosto 1968 Sono in Biafra da un giorno soltanto eppure non so liberarmi da una sensazione molto inquietante, mai provata prima, che oscilla tra la claustrofobia e la paura. Fin dal primo momento in cui si mette piede in questo paese si avverte nettamente che la gabbia si è chiusa dietro di noi e non è certo che se si potrà uscirne. La sorte del Biafra, territorio che si va rimpicciolendo di ora in ora sotto la pressione delle truppe federali nigeriane che lo circondano, affamato, disperato, alla fine delle munizioni, dove circa seimila bambini muoiono ogni giorno per denutrizione, circola per così dire nell’aria come qualcosa di fisico, insieme tattile e 174


olfattivo, e anche l’uomo occidentale, l’uomo del benessere, ritrova immediatamente in se stesso quegli istinti percettivi dell’animale in pericolo. Così il calare delle tenebre, i silenzi improvvisi della notte quando i grilli, apparentemente senza ragione tacciono di colpo e solo qualche uccello getta qua e là un richiamo e poi tace a sua volta, le albe lente e grige che salgono faticosamente da sottili fasce di orizzonte aperto e subito coperto da nubi gonfie di pioggia, tutti quegli avvenimenti naturali, quotidiani e così spesso monotoni, a cui l’uomo non presta quasi più attenzione, assumono invece il valore altissimo, insieme angoscioso e liberatorio, di fenomeni unici e definitivi211.

Il passo letto è l’ouverture del capitolo, e mostra una qualità di stile esclusivamente narrativa di forte rilievo estetico, in cui l’intento giornalistico - scevro comunque da qualsiasi notazione informativa - è circoscritto alle dolenti meditazioni dello scrittore, peraltro condivise - attraverso la scrittura - con il fine letterario della creatività artistica. Anticipo fin d’ora che l’intero reportage è scandito dal ricorrere di alcuni leitmotiv, in qualità di veri e propri refrain lessicali, figurativi, ambientali, situazionali, affettivi. La sfingea, arcana presenza dei grilli. L’allusiva, spettrale visione del biancore-biancheggiare delle cose. La partecipazione impassibile della natura, indifferente ma emblematica. Il sentimento smarrito, quasi narcotico dell’orrore. La percezione angosciosa di una realtà cupa, asfissiante. La simbiotica comparsa di ragione del dubbio e del senso di pietà. La prima visione del Biafra ha per lo scrittore un impatto scioccante, che gli suscita una «sensazione molto inquietante, mai provata prima, che oscilla tra la claustrofobia e la paura», e che marca il reportage con un tono immediatamente cupo e spaventoso: è la prima attestazione di quel refrain della percezione cupa del reale, cui accennavamo. Il senso di soffocamento sottolineato dalla parola «claustrofobia» viene ribadito due righe dopo, dove l’entrata nel paese africano viene paragonato ad una

211 Ivi, p. 854.

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«gabbia» che immediatamente si richiude alle proprie spalle. Sull’onda di questo shock emotivo, Parise muove la narrazione dal presente, tetro e tragico, verso un futuro, definito «la sorte del Biafra», già segnato da un sentore di catastrofe: nel passaggio temporale, la narrazione rallenta in modo quasi impercettibile, ed assume la forma grammaticale di periodo ampio e sostenuto (da «La sorte del Biafra» fino a «dell’animale in pericolo») con funzione di struttura organizzativa, all’interno della quale le singole frasi («territorio che si va rimpicciolendo», «alla fine delle munizioni», «dove circa seimila bambini muoiono ogni giorno per denutrizione») presentano insieme lo sguardo dell’autore sul reale e i dati nella loro fatale concretezza. Nella frase precedente alla chiusura del periodo, lo scrittore scrive che la sorte del paese africano «circola per così dire nell’aria come qualcosa di fisico, insieme tattile e olfattivo»: rammentandoci, in una sorta di autocitazione della lettera scritta alla Fioroni da Saigon nel 1967, la poetica originale cui si ispirava nelle scritture di viaggio: L’importante è dare sempre l’odore, il sapore delle cose: e questo è dato magari da poche righe e da pochi particolari212.

Il periodo trova la sua conclusione in una considerazione cruda ma vitale di tono antropologico, in cui l’autore, scrivendo che «anche l’uomo occidentale, l’uomo del benessere, ritrova immediatamente in se stesso quegli istinti percettivi dell’animale in pericolo», risponde alla sfida della tragedia africana - sotto il cui peso insostenibile vacillano persino ragione e sentimento - rilanciando la sua attrazione per la darwiniana lotta biologica per la vita. Il periodo successivo è di eguale ampiezza, scorre con il medesimo ritmo lento ma così scandito metricamente da piegare il testo in prosa versificata («solo qualche

212 Cfr. la sezione Notizie sui testi, in OPERE II, p. 1661.

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uccello getta qua e là un richiamo e poi tace a sua volta», «le albe lente e grige che salgono faticosamente»), ha un registro esclusivamente narrativo privo di qualsiasi declinazione informativa, prende la forma di lunga e densa rappresentazione paesaggistica di fenomeni naturali («i silenzi improvvisi della notte», «il calare delle tenebre», «da sottili fasce di orizzonte aperto e subito coperto da nubi gonfie di pioggia», «tutti quegli avvenimenti naturali»), presenta la prima occorrenza - qui persino lessicale, i grilli - di uno dei leitmotiv cui accennavamo poc’anzi («quando i grilli, apparentemente senza ragione tacciono di colpo»), conclude con lirismo metafisico - inquietante e affrancante insieme - lo scenario del complesso sodalizio fra uomo e natura («assumono invece il valore altissimo, insieme angoscioso e liberatorio, di fenomeni unici e definitivi»). Basterebbe quest’esordio di capitolo - peraltro una breve porzione di testo - per dare conto della sapienza magistrale di Parise nell’inventare una scrittura lenta, fluida, sinuosa nei suoi ritmi magici, esente dal rischio di cadere nella noia e nella gravosità; e poi leggera e densa nella dimensione figurativa, esercitata con un connubio raro di sobrietà stilistica e spessore immaginativo, sempre immune da superficialità semantica ed ampollosità espressiva; e insieme fremente, in misura impercettibile, di quel brivido esistenziale - lo chiamava il suo frisson creativo - che accoglieva in simbiosi vitale le sue passioni più profonde: l’esercizio di una lucida libertà intellettuale, la messa in atto di scelte etiche libertarie, l’abbandono senza pudori al doloroso coinvolgimento nelle sofferenze umane. Procedo ora con più celerità a leggere la seconda parte del capitolo: dove la rapidità non nasce da un’impropria fretta nell’analisi ma dal carattere prevalentemente informativo del testo: 177


Come si arriva in Biafra? Le organizzazioni dei voli clandestini sono due: la Caritas Internationalis, che possiede due aerei, del tipo DC7 per l’invio di viveri e medicinali, e un certo capitano Warton, americano, proprietario di altri due aerei tipo DC6, che trasporta armi e munizioni incettate dai biafrani in molti paesi d’Europa e detiene il monopolio degli equipaggi. L’intera minuscola flottiglia fantasma, cha a base a Lisbona, porta il suo nome, sulla carta ma non sugli aerei privi di qualunque contrassegno, di Bermuda Airline. L’accordo è il seguente: Warton mette gli equipaggi che la Caritas affitta a prezzi altissimi per i propri voli. L’esclusiva del Biafra è dunque nelle sue mani, niente affatto disinteressate. Si deve a lui, tuttavia, se gli aiuti della Caritas arrivano quasi ogni notte in Biafra. Infatti soltanto lui è riuscito a raccogliere quel gruppo di piloti mercenari che nessuna compagnia al mondo si prende il rischio di assicurare: disposti ad atterrare nelle tenebre, su un tratto di strada asfaltata nella foresta, dopo aver superato o evitato, nel modo che ciascun capitano ritiene opportuno, i tiri della contraerea nigeriana disseminata lungo la costa e la foce del Niger. Warton però non vola. Sta all’albergo Tivoli, uno dei più eleganti di Lisbona, assistito da una segretaria in minigonna. Il suo volto piccolo, appuntito, di lince sorride sempre ed egli si muove a scatti […]. Nello stesso albergo abita l’inviato della Caritas, padre Doran, un giovane irlandese […] sereno e sicuro di sé e della sua missione. Si capisce subito che la lince è nelle sue mani213.

Come anticipato, sin dall’inizio questa sezione di testo presenta un’impronta spiccatamente giornalistica, quindi agile nel linguaggio e insieme essenziale ma esauriente nella comunicazione delle notizie, tale da fornire le informazioni preliminari su protagonisti, mezzi e modi della macchina dei trasporti predisposta per raggiungere il paese africano: confermandone, al contempo, sia la segretezza, sia la rischiosità, sia le avide ambiguità intrecciate agli slanci umanitari di organizzatori e fruitori. L’esigenza informativa infatti, né impedisce né esime lo scrittore dall’esporre il suo punto di vista, con la franchezza e la libertà che gli riconosciamo. Il tono narrativo - letterario, per essere precisi - affiora tuttavia qui e là nel testo attraverso improvvise e rapide pennellate semantiche e figurative, tipiche in Parise, calate in un gioco di scarti metaforici: «minuscola flottiglia fantasma», «atterrare nelle tenebre, su un tratto di strada asfaltata nella foresta», «disseminata», «Warton però non vola», «assistito da una segretaria in minigonna», «volto piccolo, appuntito, di lince», «si capisce subito che la

213 OPERE II, pp. 855-6.

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lince è nelle sue mani». Proseguiamo nella lettura: A Lisbona esiste anche una rappresentanza del governo biafrano. Una telescrivente, installata nella villetta i periferia dove ha sede la rappresentanza, trasmette senza interruzione: è collegata con le altre sedi di Londra, Parigi, Ginevra e, naturalmente, Biafra. Tuttavia il cervello della diplomazia e della politica estera biafrana non sta a Lisbona, bensì a Ginevra e ha sede in una società di pubblicità che si chiama Mark Press. Fino all’altro giorno, cioè fino alla dichiarazione di indipendenza del Biafra, questa società si occupava di cosmetici, ora si occupa di guerra, di secessione e di genocidio. È la Mark Press che ha provveduto ad installare immediatamente una rete di telescriventi, a creare sedi di rappresentanza paradiplomatiche in Europa e, soprattutto, a far esplodere nel mondo il più colossale e al tempo stesso sinistro scoop giornalistico di questi ultimi mesi. Per dirla in breve, si tratta di un contratto d’appalto tra una qualunque società privata di pubblicità e un governo in guerra: la merce da propagandare sono cadaveri di bambini, i consumatori l’intera opinione pubblica mondiale. L’affare può apparire cinico e luciferino: oppure uno spaventoso esercizio di realismo politico dei dirigenti biafrani. Infatti quei dirigenti hanno intuito fin dall’inizio che la guerra di resistenza di un piccolo paese nel cuore della Nigeria […] poteva sprofondare semplicemente nel silenzio insieme ai suoi milioni di morti. Essi hanno intuito fin dall’inizio che l’arma più potente di tutte le armi del mondo moderno occidentale non sono le atomiche, bensì la pubblicità. Essi hanno intuito infine che […] era indispensabile […] conquistare quel terreno geograficamente inesistente ma politicamente fondamentale che è il cuore dell’opinione pubblica mondiale. Con realismo politico tanto moderno quanto ambiguo, Ojukwu ha intuito che la sorte del Biafra è nelle mani dell’Occidente. Così si è affidato alla pubblicità. Senza la Mark Press è difficile pensare che inviati, fotografi e troupe televisive di ogni parte del mondo sarebbero giunti in Biafra. Senza il capitano Warton che recluta febbrilmente equipaggi per aerei pirata è difficile pensare che il Biafra avrebbe ancora qualche cartuccia per tentare di sopravvivere, almeno fino a quando il mondo non avrà deciso qualcosa, se aiutarlo o lasciarlo morire. Senza la Caritas Internationalis che ha sede a Roma, in piazza San Callisto 16, e i due sacerdoti che la dirigono, due James Bond della fede cristiana - monsignor Bayer e padre Frank - migliaia e migliaia di bambini sarebbero già morti. Senza queste tre organizzazioni europee, spinte da interessi così diversi, il denaro le prime due, l’amore universale la terza, non i bambini, ma nemmeno il Biafra sarebbe ancora in vita. Resta da esaminare l’inazione della Croce Rossa internazionale. Dal primo luglio questa organizzazione, attenendosi allo statuto secondo cui gli aiuti possono attraversare le linee di fuoco soltanto sotto il controllo di governi riconosciuti ufficialmente, ha smesso di inviare soccorsi in Biafra, via Warton, per così dire. Ho avuto queste notizie a poche ore dalla partenza da Lisbona, quando tutti i voli erano chiusi e soli biancheggiavano in una piccola pista laterale, seminascosti dagli sterpi, i nostri due aerei-fantasma214.

214 Ivi, pp. 856-9.

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Ho preferito correre il rischio di un rimprovero da parte del lettore per la lunghezza della citazione, piuttosto che frazionare l’integrità stilistica e comunicativa di questa parte di reportage, dotata peraltro di una sua parziale autonomia testuale. La scrittura continua a mantenere un pronunciato carattere giornalistico, con il quale secondo una modalità tuttavia più complessa - lo scrittore tesse insieme tre diverse tonalità stilistico-morali: un’accresciuta velocità e ritmicità frasale, che genera un sottile, anticipatorio senso di inquietudine, conseguito anche con l’uso di un’ossessiva iterazione lessicale («A Lisbona esiste […] Una telescrivente, installata […] Tuttavia il cervello», «quei dirigenti hanno intuito fin dall’inizio[…] essi hanno intuito fin dall’inizio […] Essi hanno intuito infine che»); il sistematico contrappunto di valutazioni storico-politiche e di considerazioni etico-umanitarie («si occupava di cosmetici, ora si occupa di guerra, di secessione e di genocidio», «il più colossale e al tempo stesso sinistro scoop giornalistico», «la merce da propagandare sono cadaveri di bambini», «spaventoso esercizio di realismo politico», «fino a quando il mondo non avrà deciso qualcosa, se aiutarlo o lasciarlo morire», «senza la Caritas Internationalis […] migliaia e migliaia di bambini sarebbero già morti», «Senza queste tre organizzazioni europee, spinte da interessi così diversi, il denaro le prime due, l’amore universale la terza, non i bambini, ma nemmeno il Biafra sarebbe ancora in vita», «resta da esaminare l’inazione della Croce Rossa internazionale»); una più fitta modulazione letteraria, generata dalle frequenti incursioni di immagini altamente metaforiche e di lemmi di intensa densità significante («il più colossale e al tempo stesso sinistro», «la merce da propagandare sono cadaveri di bambini», «luciferino», «febbrilmente», «pirata», «due James Bond della fede cristiana», «biancheggiavano in una piccola pista laterale», «aerei-fantasma»). 180


Forse non a caso Parise scrive “biancheggiavano” riferito ai due aerei in attesa: quasi a presagire, recuperando con il lemma la vulgata clausola linguistica di tradizione letteraria che parla del “biancheggiare delle ossa dei morti”, il volo desolato verso un realtà assoluta di morte. Come analogamente profetiche suonano le parole rivolte al merito e alla qualità dell’azione delle Croce Rossa: a riprova, nel tempo futuro al reportage che è diventato la nostra contemporaneità, dell’incapacità delle due maggiori organizzazioni umanitarie al mondo - Croce Rossa medesima e Unicef - di essere veramente altezza del compito umanitario loro richiesto, secondo un circolo virtuoso di coraggio, trasparenza, efficacia operativa: prigioniere come erano, e sono tuttora, di organizzazioni tanto elefantiache quanto dispendiose, con evidente spreco di risorse a tutto svantaggio del soccorso verso i disperati del mondo; di logiche di appartenenza, o legame, con figure e apparati di rilievo internazionale di dubbia moralità o dalla sinistra storia; di acquiescente, pavida, disumana subalternità rispetto a principi e trattati tanto vincolanti nel rispetto delle leggi internazionali - sistematicamente però violate dalle controparti colpevoli - quanto ambasciatrici di morte per i milioni di abbandonati della terra. Rilevo, prima di proseguire, la presenza dei leitmotiv della percezione angosciosa del reale («la merce da propagandare sono cadaveri di bambini, i consumatori l’intera opinione pubblica mondiale. L’affare può apparire cinico e luciferino: oppure uno spaventoso esercizio di realismo politico dei dirigenti biafrani») e del sentimento simbiotico di ragione del dubbio e senso di pietà (dal punto «infatti quei dirigenti hanno intuito fin dall’inizio» al punto «ha smesso di inviare soccorsi in Biafra, via Warton, per così dire»). Continuo la lettura con la terza e ultima parte del capitolo: 181


Il primo, il DC7 su cui sono salito insieme ad altri undici passeggeri, era un aereo della Caritas, donato proprio quel giorno dalle chiese protestanti. L’altro, un DC6 di Warton, carico d’armi e munizioni. Nel nostro tutte le poltrone della classe turistica erano state tolte per far posto a venticinque tonnellate di latte e uova in polvere, distribuite in sacchi di plastica di venticinque chili l’uno […]215.

Le prime righe riferiscono lo spostamento spaziale di Parise, proiettandolo dall’attesa in aeroporto al viaggio in volo verso il Biafra: confermano, inoltre, insieme alla compresenza di morte bellica e soccorso umanitario rappresentati dalle opposte merci caricate sui due aerei - rispettivamente armi su uno viveri sull’altro - anche il giusto e tuttavia commovente spirito di sacrificio dei passeggeri, costretti a sopportare un lungo volo senza la consueta comodità delle poltrone. Il volo intanto prosegue: Prima sosta a Bissau, […] infine l’ultimo volo, al crepuscolo, così da sorvolare la costa nigeriana con la oscurità, che del resto è calata dopo mezz’ora. Tutte le luci, all’interno e all’esterno dell’aereo, erano state spente. Si volava nella tenebra più completa, ad alta quota, in un cielo temporalesco in cui fitte nubi si alternavano a improvvise schiarite. I tiri della contraerea cominciarono dopo un’ora, ma erano piccolissime fiammate rosse tra le nubi, a grande distanza dall’aereo […]. Dopo un poco le fiammate scomparvero […]. Riapparvero infine sopra di noi le stelle e, sotto, una folla occhieggiante di altre minuscole stelle o lucciole che si estendevano a perdita d’occhio, fuochi accesi nella foresta dai profughi vaganti. Ad est, la pista illuminata. Scendemmo velocemente. Sotto di noi intravedevo la fitta foresta di palme, le prime lampade verdi della pista, i fuochi laterali che la illuminavano: una pista stretta quanto una qualunque autostrada. L’aereo scese ancora, poi, di colpo, piombò a terra con grandi sobbalzi. Avvertii un colpo violento e immediatamente l’aereo cominciò a sbandare […]. Nessuno parlava, la tensione era molto forte fino a quando […] l’aereo si arrestò, inclinandosi da un lato. Un carrello si era schiantato. Scendemmo tutti con qualche difficoltà. Aveva appena smesso di piovere, ultime gocce sperdute bagnavano il volto, la notte era fresca e serena, grilli giganti cantavano nella foresta intorno. L’indifferenza, insieme misteriosa e solenne, della natura verso gli affanni dell’uomo, in questo caso il pericolo di un’esplosione dell’aereo, dava una grande pace. Da quella natura uscì correndo, coi denti scintillanti nella notte, un soldato bambino lungo lungo, armato di mitra cecoslovacco nuovissimo. Si mise sull’attenti, su due grandi scarpe sfondate e divaricate e disse, con voce timida e appena percettibile: «Welcome in Biafra»216.

215 Ivi, p. 859. 216 Ivi, pp. 860-1.

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È innegabile notare come nella terza parte del capitolo - se si fa eccezione del preludio dove il dovere informativo di giornalista è, seppur attenuato, persistente Parise pieghi la scrittura verso la tonalità spiccatamente letteraria della narrazione, realizzata con poetiche rappresentazioni paesaggistiche ed umane, dense di valore simbolico di tono esistenziale. Talmente potente è in questo reportage il coinvolgimento di Parise - uomo, narratore, giornalista - da originargli una tensione verso le massime vette possibili della sua scrittura, tali da restituire un testo memorabile per bellezza ipnotica, per poeticità figurativa, per pensosità esistenziale: proprio a tal fine - come già evidenziato nel corso della tesi - lo scrittore ricorre, ma a questa altezza con intensità e frequenza maggiori, all’adozione di stilemi leopardiani, quali «la notte era fresca e serena», «l’indifferenza, insieme misteriosa e solenne, della natura», «gli affanni dell’uomo», «dava una grande pace»: vere e proprie marche stilistiche lessicali o poetico-figurative, fissate nella vulgata lirica ma non necessariamente consapevoli all’autore. Ritroviamo poi, almeno nell’occorrenza «la oscurità», il tratto stilistico della mancata elisione, spia di un intento creativo di rallentamento del ritmo descrittivo. Quasi a scandire il reportage con la sua interrogativa presenza di basso continuo, fa di nuovo la sua comparsa il leitmotiv dei grilli: «grilli giganti cantavano nella foresta intorno». L’impronta letteraria, caratterizzata dall’elevato tasso poetico, è rintracciabile in una rete linguistica composta da marche lessicali poeticamente dense e da stilemi espressivi

metaforicamente

rilevanti:

«crepuscolo»,

«tenebra»,

«in

un

cielo

temporalesco in cui fitte nubi si alternavano a improvvise schiarite», «piccolissime fiammate rosse tra le nubi», «riapparvero infine sopra di noi le stelle e, sotto, una folla 183


occhieggiante di altre minuscole stelle o lucciole che si estendevano a perdita d’occhio, fuochi accesi nella foresta dai profughi vaganti», «correndo, coi denti scintillanti nella notte», oltre quelle già evidenziate. Da rilevare assolutamente, poi, il poeticissimo e finissimo gioco di contrappunti - cromatici e di apparizioni luminose o buie - che Parise orchestra durante la descrizione del volo: l’oscurità presente nell’aereo che vola a luci spente, seguita dai bagliori lontani dei fuochi della contraerea, a cui succede il brillare improvviso delle stelle in alto - che nell’espressione «riapparvero invece sopra di noi le stelle» ripropone un’immagine idillica tanto consueta quanto poeticamente suggestiva - e dei fuochi degli accampamenti profughi nella foresta in basso. Nell’avviarsi alla conclusione del capitolo, lo scrittore non tralascia di marcare scrittura e viaggio con un’ultima considerazione mestamente enigmatica, che attraverso quel refrain a noi già noto parla di «l’indifferenza, insieme misteriosa e solenne, della natura verso gli affanni dell’uomo […] dava una grande pace». Chiudo l’analisi del capitolo, mettendo in rilievo che la descrizione di «un soldato bambino lungo lungo […]. Si mise sull’attenti, su due grandi scarpe sfondate e divaricate», oltre che di struggente, icastica e poetica tenerezza - accresciuta dal drammatico e contraddittorio vissuto di bambino soldato - richiama senza indugi alla memoria, nel particolare delle scarpe sfondate e divaricate, la figura indimenticabile, ugualmente comica e malinconica, di Charlot. I profughi, la fame, i morti Si entra nel secondo capitolo. Lo scenario è apocalittico. Tornano alla memoria le tante visioni mediatiche degli ultimi trent’anni, africane e non. A me, fra diverse altre, in modo prepotente e fulmineo si affaccia il ricordo del genocidio del Ruanda nel 184


1994: anche se lì l’orrore prese le forme di un’inconcepibile macelleria etnica. Parise è ormai sul suolo africano e si aggira nel campo profughi di Umuahia: Umuahia (Repubblica del Biafra), agosto Sono in un campo profughi nella foresta […]. I profughi sono seicento, forme imprecise di colore bruno, spesso avvinte una all’altra, in cui denti e cornee biancheggiano. Affollano l’interno dei capannoni o stanno accovacciati nel cortile, sotto minuscole tettoie di foglie di palma che non servono a ripararli dalla pioggia che scroscia: si stringono intorno a fuochi che si spengono, avvolti dalle spire di un fumo nauseabondo che vaga nell’aria, si perde nella foresta e rende imprecisa la vista. Solo un poco alla volta e aguzzando lo sguardo si riesce a distinguere in questa massa, che ha perduto le caratteristiche individuali dell’umanità e ha assunto quelle collettive e indecifrabili della morte, ciò che un tempo doveva essere un uomo, una donna, un bambino. Si è costretti a guardarli dall’alto perché quasi nessuno si regge in piedi. I bambini, che sono la maggioranza, scheletrici, rattrappiti, chi sdraiato e chi seduto contro un muro o un paletto piantato nel fango, poggiati sul bacino come su un piedistallo, le ossa inerti delle due gambe allineate davanti a sé, le mani congiunte nel grembo nudo. Stanno immobili, il grosso cranio sostenuto a fatica dalle visibili e fragili vertebre del collo, si piega sugli omeri. Sul volto che non ha più carne ma solo pelle tesa sulla struttura ossea e sulle cartilagini, le vene gonfie delle tempie pulsano a intermittenze lentissime e irregolari; ai lati degli occhi la pelle forma una rete di rughe, i capelli schiariti dall’assenza di proteine, di un biondo rossiccio, fanno pensare alla canizie e, visti insieme, uno accanto all’altro, sono una folla di minuscoli vecchi in silenziosa, educata, composta attesa. Nessuno si muove verso di me, nessuno tende la mano, nessuno chiede nulla, spinto se non altro da un ultimo fremito di vitalità. Dalla loro povera, essenziale nudità, seduti su un terreno liso, consunto come una vecchia sedia dai loro corpicini, sollevano lo sguardo con fatica, per un istante, poi lo riabbassano verso un punto-nulla al loro fianco: uno sguardo non triste, non disperato, non affamato, non impaurito, bensì calmo e quasi sereno, distaccato, contemplativo: della totale e definitiva intelligenza delle cose di questo mondo, della perfetta coscienza della solitudine e del dolore dell’uomo. A due, tre, cinque anni, perché questa, nella maggioranza, è la loro età, essi possiedono la grandezza di chi ha conosciuto e sperimentato l’intero arco di una lunga vita che si preparano ad abbandonare. Eccone uno, accanto alla madre, avrà forse tre anni: piccolissimo tutto testa, ossicini, unghie e membrane come un pipistrello: attizza un piccolo fuoco davanti a sé e sul fuoco arrostisce una lucertola che poi gratta con la lama arrugginita di un coltello. Al seno della madre, due stracci lunghi, spiegazzati, sta appeso un altro bambino, quasi un neonato, ma ossuto e rugoso come un centenario, i denti sporgenti da una bocca ormai senza più labbra. Si accanisce a poppare e ingoia quel misero seno fin quasi a ingozzarsi, poi si stacca […] e si sforza di strillare: ma non è uno strillo, un vagito, il suo, bensì una sorta di strido rauco e debole che perde suono via via e si spegne in un rantolo asmatico […]. Nello spazio di venti minuti, il tempo della mia visita, ne muoiono due, un bambino di cinque anni e una bambina di nove […]. L’altra madre, in fondo al capannone, si lamenta accanto al cadavere della figlia. Più che un lamento è un canto funebre, un urlo ritmico che lei accompagna battendo le mani […]. Il mio accompagnatore insieme al direttore del campo mi porta a vedere il 185


magazzino viveri […]. La razione è di un pugno di manioca e uno di fagioli per persona, al giorno. Chiedo chi potrà sopravvivere. «Per il novanta per cento e forse più dei bambini che sono qui la

sorte è segnata. Vivranno ancora qualche giorno, forse una settimana, forse dieci giorni. Ma è certo che moriranno tutti. Per gli adulti la mortalità è inferiore. Le cause della morte sono la totale mancanza di nutrimento proteinico.» «Come sono arrivati fin qui?» «A piedi, errando nella foresta verso nord. Hanno terrore della guerra, la vedono per la prima volta, e temono di essere tutti massacrati dai nigeriani […].» Esco dalla baracca viveri. Alcuni uomini stanno scuoiando un corpo bianchiccio, gonfio e semicarbonizzato. Per un istante ho un sospetto terribile, ma mi accorgo subito che è il corpo di un agnello. Quel corpo puzzolente e gonfio, da cui non sono state tolte le interiora, non appare tanto diverso da quello dei due bambini morti: così promiscuo, totale e totalitario è l’orrore da rendere non solo possibile ma perfino lecita la confusione tra essere umani e animali. La mente è come dissolta, la ragione perde di colpo la sua funzione di strumento conoscitivo e associativo, soli strumenti di conoscenza rimangono i sensi che registrano indifferentemente i fenomeni»217. «così promiscuo, totale e totalitario è l’orrore da rendere non solo possibile ma perfino lecita la confusione tra essere umani e animali. La mente è come dissolta…» La prima volta che ho letto il testo citato, in special modo il passo evidenziato in corsivo, la memoria è volata all’istante ad Apocalypse Now di Francis Ford Coppola: film cupo, inquietante, tragico, quanto lo è il reportage Biafra. Ho immaginato che il regista avrebbe potuto con egual forza, forse persino superiore nella potenza del sentimento di orrore e di commozione che vi si respira, ispirarsi al reportage di Parise piuttosto che a Cuore di tenebra (Heart of Darkness) di Joseph Conrad. Senza esitazioni, considero questo testo lo zenit estetico ed etico dell’intera opera di Parise, senza esclusione di generi. A tutt’oggi, forse il reportage più bello e straziante mai scritto.

217 Ivi, pp. 862-5.

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È un testo persino visionario: tanto il suo aspetto insieme atroce e struggente assume il tenore di una narcotica allucinazione. Di fronte a un tale scritto arretra la mente, il sentimento, ma arretra anche la parola, la letteratura, e la tesi di un semplice studente. Paradossalmente, dedicherò minor spazio interpretativo rispetto al primo capitolo, lasciando che sia il testo a parlare con la violenza espressiva della sua bellezza. Con la dovuta precisazione che, comunque, rimangono valide le considerazioni critiche svolte nella sezione precedente: aggiornate, semmai, dalla rilevazione di un’accentuata tonalità artistica e di un’integrale visione umanitaria di tono apocalittico, oltre le specifiche declinazioni testuali dei temi interpretativi suddetti. Il registro letterario della narrazione è esclusivo e pervasivo, e il ruolo e la presenza della scrittura giornalistica viene completamente assorbito dalla figura del narratore: l’autore non reinventa intimisticamente il reale, non c’è fuga all’interno; né lo commenta impersonalmente, non c’è fuga all’esterno: nel collasso simbiotico di uomo, scrittore, giornalista, e secondo un atto creativo circolare, Parise, investito dal frisson scatenato dalla tragedia del Biafra, accoglie il brivido e lo restituisce, iniettandolo nello sguardo sul reale che si fa visionario (quel realismo visionario di cui ho già scritto nella tesi); infondendolo nell’osservazione delle cose che diviene atroce e desolata intelligenza del male; propagandolo alla compassione umana che si flette in allucinata e tetra pietà. Di maggiore o minore tasso poetico, le marche letterarie intessono diffusamente l’intero scritto, nella forma ora di singoli lemmi, ora di stilemi espressivi, ora di intere frasi o periodi dotati di poetica narratività. Per evidenti esigenze di spazio e tempo ne rileveremo solo un campione: «forme imprecise di colore bruno»; «avvolti 187


dalle spire di un fumo nauseabondo che vaga nell’aria, si perde nella foresta e rende imprecisa la vista», «rattrappiti», «le mani congiunte nel grembo nudo», «le vene gonfie delle tempie pulsano a intermittenze lentissime e irregolari», «una rete di rughe», «seduti su un terreno liso, consunto come una vecchia sedia», «piccolissimo tutto testa, ossicini, unghie e membrane come un pipistrello», «al seno della madre, due stracci lunghi, spiegazzati», «quasi un neonato, ma ossuto e rugoso», «errando nella foresta», «quel corpo puzzolente e gonfio», «la mente è come dissolta». Ritorna ossessivamente, con il suo spettrale sentore allusivo di morte, il refrain del biancore-biancheggiare, presente nelle occorrenze «in cui denti e cornee biancheggiano» e «scuoiando un corpo bianchiccio». Anche l’aspetto della riflessione umanitaria ed esistenziale è più diffuso che nel primo capitolo: si dispiega nelle smarrite, sgomente e fosche raffigurazioni dei profughi in caduta libera verso la morte, di cui è intessuta l’intera descrizione della vita nel campo di accoglienza, attonita e spettrale; si disvela nelle frequenti meditazioni, desolate e inesorabili, che a mo’ di misurato contrappunto narrativo animano il racconto dell’esistenza quotidiana dei rifugiati; si sprigiona, soprattutto, in tre ampie e dense sezioni di testo - da «solo un poco alla volta» a «una donna, un bambino», da «nessuno si muove verso di me» a «si preparano ad abbandonare», da «Quel corpo puzzolente e gonfio» a «registrano indifferentemente i fenomeni» - nelle quali l’implacabile e compassionevole susseguirsi di pensieri e percezioni suscitate dal genocidio in atto, scivola in un tenore di impassibile, raggelante apocalisse. Continuo nella lettura di Parise, che abbandona Umuahia per raggiungere un secondo campo profughi: Lasciamo il campo. Una donna segue la nostra automobile sotto la pioggia torrenziale […], si batte il ventre con una mano, fa il gesto di mangiare e 188


parla, parla incessantemente. Poiché si accorge che l’auto si allontana ci segue spalancando le braccia, cade nell’acqua, si risolleva, cade ancora e urla, con urla rauche da bestia. A poche centinaia di metri dal campo […] incontriamo abitanti dei villaggi vicini. […]. Che a piedi, chi in bicicletta, ridono, saltano con la vitalità allegra e un po’pazza degli africani. In una capanna due bambini sani, grassocci, danzano al suono di un tamburo. Con l’incoscienza della natura altrettanto allegra, altrettanto vitale. Percorriamo ampie vallate, felice foresta di un verde smeraldo intenso, irrorata dalla pioggia, solcata da balenanti spade di sole, palme, banani, liane, foglie, si gonfiano, si illuminano di colori, esplodono nel loro spettacolo insieme indifferente, crudele e misterioso della vita218.

Parise itinerante fra un campo e l’altro non cessa di confrontare le vite parallele dei mondi umano e naturale. Il primo, dinamico, ora ha i tratti animaleschi di una rabbiosa donna urlante, ora le sembianze umane di allegri e vitali abitanti leggermente folli. Il secondo, in apparenza statico, da presenza silenziosa e immobile si anima - con festosa vitalità - di impalpabili fenomeni ambientali: fino al punto in cui lo spettacolo della foresta «solcata da balenanti spade di sole» - immagine di incantevole, puro e assoluto lirismo - insinua un estremo tentativo di armonica sintesi con il suo analogo ma contrapposto aspetto di «spettacolo insieme indifferente, crudele e misterioso della vita», nell’intento di condensare la visione della natura in emblema bifronte, sul modello di Giano, simbolo archetipico dell’esistenza, la cui faccia incurante, feroce e arcana richiama l’uomo all’amara rassegnazione, mentre il suo volto rigoglioso, colorato e esuberante incoraggia l’umanità ad una consolatoria redenzione. Raggiungiamo un altro campo profughi, a pochi chilometri di distanza. Stessa visione. Alcuni hanno tentato di organizzare un mercatino […]. Nel cortile si allineano traballanti banchetti […] su cui è esposta la merce in vendita: cinque o sei fagioli allineati, un mucchietto di bacche, un microscopico mucchietto di sale, un topo […]. «Molto spesso sono loro a mangiare la merce che mettono in vendita perché quasi nessuno possiede denaro. È la forza dell’abitudine e l’attaccamento alla vita che li spinge a continuare nel loro mestiere. Guardi quello.» Mi indica un uomo che sta intrecciando nasse. «È un pescatore. Eppure continua a fare il suo mestiere come se il mare ci fosse. È la speranza signore.»

218 Ivi, p. 865.

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Visitiamo un ospedale col tetto coperto di corvi magrissimi, schifosi, arcigni, che si spennano. È pieno di soldati feriti, ammassati sui letti e sul pavimento sotto i letti. Sono tutti giovanissimi, chi senza un braccio, chi senza una gamba. Uno di questi mi chiama, indica il troncone della gamba fasciata poco più su del ginocchio con bende rigide di sangue rappreso […]. Un altro è arrivato ora dal fronte sud. Gronda sangue e delira […]. Passiamo nel reparto bambini. Anche qui le condizioni dei bambini sono disperate. Nella maggioranza sono piccoli scheletri come ho già visto nei campi, altri sono gonfi, tumefatti, la pelle scura si squama da tutto il corpo […]. È la pelle della morte. A questo punto non c’è più niente da fare, se non lenire le sofferenze con un liquido viola […]. Uno di questi bambini viola, di due anni, sta mangiando.. lo osservo: ha accanto a sé un piatto con una salsa rossa molto pepata, qualche pezzetto di carne di montone nella salsa e in una scodella una specie di polenta […]. L’uso è quello di modellare palline di questa polenta tra le dita e immergerle poi nel sugo. Il bambino fa tutto questo con estrema lentezza e vorrei dire perfino con distaccata eleganza […]. Sta seduto eretto nella culla, come se fosse a tavola, come un adulto, educato, calmo, autoritario. La madre, una donna giovanissima, gli sta accanto. Osservo lo sguardo della madre. Non è rivolto al bambino, bensì al cibo. È uno sguardo vorace, bestiale. A un certo punto, coprendo il gesto col suo corpo per nascondersi, si getta sul cibo del bambino e comincia a mangiarlo in fretta. Il bambino lascia fare, smette di modellare le palline di yum e incrocia le mani sul grembo guardando altrove. In quell’istante entra un’infermiera, solleva la madre dal cibo e la schiaffeggia con violenza una, due, molte volte. La donna riceve gli schiaffi con la bocca piena, non fa nulla per difendersi, in piedi, rigida, fino a quando le lagrime cominciano a scorrerle sulle guance219.

In quest’ultima parte del capitolo, la scrittura di Parise recupera con più intensità e frequenza il registro documentario del giornalista reporter, che descrive lo spostamento verso un campo profughi e le diverse visite nelle sue strutture, mentre intesse un dialogo con i suoi accompagnatori: con tale trama informativa, essenziale ma portante, lo scrittore intreccia il consueto registro narrativo, che emerge prepotente in immagini icastiche e sinistre quali «un microscopico mucchietto di sale, un topo», «coperto di corvi magrissimi, schifosi, arcigni», «gronda sangue e delira», «è la pelle della morte», e che si addensa e precipita nelle descrizioni più o meno estese di scenari scioccanti, tanto più sconvolgenti quanto più impassibili, quali troviamo nelle rappresentazioni di un miserabile mercatino, di un sanguinolento reparto adulto d’ospedale, o di uno struggente reparto per bambini del medesimo nosocomio, dove il

219 Ivi, p. 865-6.

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passo «è uno sguardo vorace, bestiale» “strania” il racconto verso una quasi ipnotica visione animale. In modo esemplare, questo testo ci conferma che lo stile di Parise possiede un ulteriore tratto peculiare, presente in tutti i reportage ma più intenso negli scritti di guerra, in base al quale il racconto procede secondo due movimenti alterni, non sempre compresenti, simboleggiati dai modelli, simmetrici e contrari, del gomitolo (o per dispersione) e della valanga (o per condensazione): come il gomitolo che rotola perde filo, quindi massa, e velocità, così in molti passi la scrittura di Parise si diparte da una massa profonda e condensata di pensieri, commozioni e immagini, quindi prosegue lungo il viaggio narrativo rilasciandone via via le schegge sotto forma di singole incursioni poetiche di diverso registro comunicativo; analogamente, come la valanga che cade s’accresce in neve, quindi massa, e in velocità, così, più frequentemente, la scrittura dell’autore raccoglie lungo il viaggio del racconto i suoi sciolti frammenti riflessivi, affettivi e poetici, e li condensa in un periodo conclusivo di vertiginosa esemplarità e bellezza. Potrei concludere qui l’indagine sul reportage, tanto è emblematico quanto è stato già letto e spiegato: tuttavia, con pochi altri sintetici esempi, commentati, tratti dai capitoli successivi, vorrei dare conto di ulteriori aspetti del genocidio con cui Parise dovette confrontarsi. Ricchezza e povertà: vita o morte Il nostro reporter così scrive nel terzo capitolo: Aba (Repubblica del Biafra), agosto In Biafra non si muore di fame soltanto nei campi di raccolta che contengono seicentomila profughi, ma nei villaggi all’interno della foresta dove se ne accumulano e vagolano tre milioni e mezzo […]. Nelle città invece, i ricchi, i potenti […] che hanno studiato in Inghilterra […], mangiano. Così, ancora una volta, anche in questa guerra che vuole avere tutta l’apparenza di una guerra difensiva, di popolo e di razza (dunque, teoricamente 191


unitaria e compatta), anche in questo paese che presenta ogni giorno al mondo i cadaveri di seimila bambini che muoiono per denutrizione, in questo luogo di poverissimo e dolentissimo dolore, domina l’eterna e ignobile regola (e non soltanto contraddizione) della ricchezza e della povertà o, per dirla in una parola, del bestiale e feroce egoismo dell’uomo. L’area di questo paese è perciò dimezzata, la popolazione raddoppiata se non triplicata a causa dell’imponente afflusso di profughi dalle zone occupate dalle truppe federali nigeriane o dai luoghi di combattimento. Significa che una foresta già densamente popolata come prima, ora formicola di famiglie erranti, senza casa, senza denari, senza cibo […]: una rete vastissima di piste, villaggi, stradine, minuscoli agglomerati, sentieri e capanne che formano un tracciato fitto e labirintico, popolato di vita umana. A rendere ancora più angoscioso il senso dell’affollamento, della sovrappopolazione, contribuiscono il canto altissimo, pazzoide e ogni volta imprevedibile dei grilli, gli urli strozzati e ingozzati di uccelli sconosciuti, gli sbuffi di animali raspanti e ruspanti, i fruscii ventilati, da ladri, dei beccuti corvi dalle grandi ali logore e impolverate […]. Tale polifonia umana, animale e vegetale, può dare molto bene il senso del buio problema geografico, storico, politico e linguistico non soltanto del Biafra ma di molte zone dell’Africa nera: come questa particella di foresta brulica e risuona di specie diverse e differenti linguaggi certamente in lotta fra loro, così il continente, una volta crollate le unità artificiali e autoritarie imposte dal colonialismo europeo, corre il rischio non tanto di veder crollare le sue frontiere, anch’esse nate dall’artificio, quanto di sprofondare nel caos di un neocolonialismo minoritario e locale: preistorico e industriale al tempo stesso, governato da una borghesia indigena insieme cinica e crudele, che dal colonialismo bianco ha imparato fin troppo l’uso di strumenti e fini. Se tutto questo accadrà, tutta l’Africa si sbriciolerà e il comune dolore del popolo nero, unica reale e altissima unità storica non soltanto nazionale ma continentale, cesserà di esistere come storia di libertà e tornerà a essere buio e servitù, la struggle for life di questa foresta. Le vittime di tutto ciò saranno ancora e sempre i poveri e i diseredati, quelli che Franz Fanon chiama “i dannati della terra” […]. A Owerri sono andato a trovare il vescovo cattolico, dottor Joseph B. Whelan […]. «Urgono trecento tonnellate al giorno di viveri, ne arrivano tre. Come fare? I governi si perdono in negoziati, in cavilli, in discussioni sul modo di far arrivare i viveri, io dico che i morti non discutono […]. Posso testimoniare che birra, glucosio, latte e sale, viveri passati sotto il controllo delle truppe nigeriane erano avvelenati […]. Se il Santo Padre non interverrà rapidamente tutti moriranno. Ricordi al Santo Padre che questo paese è il cuore del cristianesimo in Africa e noi lo preghiamo […].» Ad Aba ho visto il mercato che è stato colpito in pieno giorno, e dunque in pieno affollamento, da bombe nigeriane (o inglesi?) sganciate da Mig sovietici pilotati da egiziani […].nel cortile della scuola ho visto le tracce tipiche del napalm […]. Ho osservato che molti giovani si fanno crescere la barba a imitazione di Ojukwu, che a sua volta imita Castro, il che mi fa pensare che il fenomeno imitativo nel mondo non sia, oggi, non meno globale di quello contestativo, quando addirittura non coincide […]. Più tardi ho chiesto al mio accompagnatore se non era mai stato fatto alcun tentativo di razionamento dei viveri. A cinquecento metri da questo mercato la gente muore di fame […]. 192


«Esiste un governo che stampa banconote e francobolli, esiste una burocrazia… che fanno?» Ha risposto una sola parola: «La guerra»220.

È evidente il sopravvento del registro informativo proprio del giornalista spesso dai tratti molto asettici e impersonali generati dall’assenza di tonalità letteraria giustificato dal suo bisogno di documentare la complessa articolazione di cause ed effetti della tragedia africana. Tuttavia, la spinta poetica è pur sempre esistente, e riemerge prepotente in numerose occorrenze lessicali dall’alta densità metaforica: «vagolano», «bestiale», «formicola», «erranti», «labirintico», «il canto altissimo, pazzoide», «pazzoide raspanti e ruspanti». Ricorre, come testé accennato, il refrain dei grilli, dalla presenza arcana e interrogativa: «canto altissimo, pazzoide e ogni volta imprevedibile dei grilli». Anche le riflessioni dell’autore risultano più aride e razionali che in precedenza, prosciugate come sono di qualsiasi vertigine visionaria: tuttavia, si rivelano un mirabile esempio di esercizio intellettuale - libero, acuto, lucido - e di analisi storicoantropologica, originale, competente, coraggiosa. Proseguiamo con il quarto capitolo: Situazione militare Umuahia (Repubblica del Biafra), agosto Sono le nove del mattino, corriamo in automobile verso il fronte nord, nella zona di Onitsha, a una settantina di chilometri da qui, dove per le undici è previsto un attacco di commandos biafrani contro una posizione nigeriana. Il mio accompagnatore è Freddy Forsyte […], un inglese di venticinque anni. Mr Forsyte, a quel che si dice in questo staterello, è il maggior consigliere politico, economico,, ma anche militare e strategico di Ojukwu […]. Emana fascino e desta sospetto al medesimo tempo, dunque attrae. Non mi stupirei che fosse un inviato del governo inglese, tanto intricata è la vicenda e tanto intricati gli inglesi. Ha un curriculum per lavori del genere […]. Attrae quando parla di strategia: lì si intuisce una reale, profonda e romantica passione […]. Parla della guerra nei vari fronti del Biafra come fosse lui a deciderne le mosse e forse le decide per davvero […]. «La situazione militare in questo momento in Biafra è molto grave. Il

220 Ivi, p. 869-74.

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problema numero uno è la scarsità di armi e munizioni. Il secondo è la scarsità […] di istruttori e comandanti europei, bianchi insomma» «Mercenari?» «Non sono mercenari, perché non ricevono alcun compenso da mesi. E sono loro cinque i soli combattenti bianchi in Biafra […]. È rimasto solo Steiner […]. Ma la nostra tattica comincia a somigliare sempre di più alla tattica della guerriglia: attacco fulmineo e ritirata, attacco e ritirata. È necessario colpire il nemico nel sonno, aspettando quell’incerto e breve momento di luce che è l’inizio dell’alba […]. Si parla dell’odio razziale dei musulmani del nord, gli Hausa, verso gli Ibo. Gli chiedo di darmi o suggerirmi ragioni concrete di quest’odio […]. «Le componenti dell’odio degli Hausa verso gli Ibo sono tre: odio religioso, odio economico, odio razziale [..]. Conclusione, queste tre componenti si fondono in una che si potrebbe semplicemente definire: odio di classe. Strano, dal momento che, tra le altre cose, furono proprio gli Ibo i più attivi combattenti per la indipendenza, quello che oggi si dice i progressisti.». «Tuttavia questa secessione può apparire […] una rivoluzione della proprietà privata. Non a caso il Biafra siede esattamente sulla regione più ricca di petrolio di tutta la Nigeria.» «Che però coincide esattamente coi territori d’origine del popolo Ibo. So cosa pensa, che questa guerra potrebbe essere finanziata dai privati europei, per uno sfruttamento futuro del petrolio. Non dico finanziata, ma creata, fatta scoppiare apposta.» Gli chiedo, a questo punto, di parlarmi di sé, qual è la sua professione e cosa faceva prima. «Oh, è semplice. Ero reporter della BBC. Chiedono a me un breve viaggio di una settimana. Torno, riferisco. I miei reportages non sono graditi al Foreign Office, che non vuol sentire parlare di stragi e di genocidio. Mi secco, torno per mio conto in Biafra dove rimango un mese, conosco Ojukwu, lo trovo un intellettuale, sombre, affascinante […]. Do le dimissioni, torno in Biafra in febbraio di quest’anno e non mi muovo più […].» «Che cosa farà se i fronti crollano e il paese cadrà in mano ai nigeriani?» «Quello che faranno i biafrani. Dal momento che ho scelto la loro causa e dovrei subire la loro stessa sorte mi ritirerò con loro nella foresta e comincerà la guerriglia vera e propria. Se i negoziati ad Addis Abeba andranno come prevedo, cioè male, è questione di giorni»221.

I passi citati attestano, anche per questa seconda parte, la permanenza dello stile del resoconto giornalistico, declinato in modo assolutamente asciutto e puntuale, documentato e incalzante, impermeabile a qualsiasi significanza letteraria nel suo essere interamente proteso verso il dovere informativo del reporter: il quale, infatti, avverte il bisogno di trasferire sulla carta di giornale il conflitto bellico e il genocidio esistenti nella più che reale guerra biafrana, trasfigurando la medesima in mediatica guerra

221

Ivi, p. 875-881.

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internazionale, condotta da Parise con le armi rappresentate dalle sue affilate e indipendenti riflessioni sulla tragedia africana. Il timbro cronachistico viene alimentato anche dal contrappunto dialogico con l’interlocutore, identificato con il suo accompagnatore Freddy Forsyte, costruito su una rete di succinte domande del reporter e di risposte più distese dell’inglese, entrambe intente a fornire notizie sugli scenari interni - l’odio religioso, razziale ed economico fra Hausa e Ibo - ed esterni - la presenza occulta ed equivoca degli ex colonialisti inglesi, l’irresponsabile incapacità d’azione delle varie potenze mondiali, l’ombra inquietante degli onnipresenti interessi economici, nella fattispecie petroliferi - all’origine del conflitto militare. Si rileva un’occorrenza della mancata elisione nell’espressione «per la indipendenza». Concludiamo l’analisi del reportage con il quinto capitolo: La paura Ihiaia (Repubblica del Biafra), agosto L’aria ferma e calda di un mezzogiorno di sole cala sui morti e i feriti che arrivano con i camion. L’attacco è finito ora, ultimi spari vagano tra mosche e insetti ronzanti. I due morti vengono trasportati all’ombra, già rigidi, sotto una tettoia dove donne e bambini terrorizzati si stringono gli uni agli altri. I feriti sono sedici, si siedono o si sdraiano per terra, i più gravi distesi su barelle zuppe di sangue aspettano il loro turno per entrare nella baracca del chirurgo il sangue gocciola dai camion, dalle barelle, dagli arti, dalle schiene e dai volti dei feriti che lo tamponano con le mani. Il caldo e gli insetti crescono di minuto in minuto, i feriti si coprono il capo con stracci e fogli di carta […]. Sono giovanissimi […]. Il loro sguardo non esprime dolore e paura ma si concentra e per così dire si coagula in un solo sentimento fisso e collettivo che è lo stupore. È la prima guerra che vedono e che fanno, loro e i loro avi. Li passa in rassegna il comandante, maggiore Steiner, in tuta mimetizzata e berretto verde. Alto e biondo, sui quarant’anni, non ha l’aspetto di un tedesco. È timidissimo, l’atteggiamento severo, militaresco e autoritario sembra preso lì per lì al momento, e gli da un’aria malsicura di dilettante della guerra, nonostante i quindici anni di legione straniera […]. Gode di un grandissimo prestigio in tutto il Biafra, i soldati lo amano forse quanto Ojukwu […]. In mezzo a loro stanno due Land Rover scoperte […]. Sui fianchi di una di queste è stampato a grandi caratteri bianchi major George, in memoria di un italiano di trent’anni, Pier Giorgio Norbiato, di Aosta, caduto due mesi fa durante la resistenza di Port Harcourt […]. Un altro bambino di una diecina d’anni, vestito come se andasse alla 195


prima comunione, pantaloni corti, camicia e cravatta, con le scarpe in mano, si presenta timidamente davanti a noi e si mette sull’attenti. Viene da un villaggio vicino e chiede di essere arruolato. Steiner dà l’ordine di dargli una divisa e mi dice: «Bisogna tenerli d’occhio perché vorrebbero giocare alla guerra per davvero: sono invece utilissimi e molto abili come informatori» […]. Andiamo a mangiare: spaghetti lasciati dai costruttori stradali italiani che abitavano la villetta […]. «Il vero problema non è questo, […] ma le munizioni […]. Sa quanti colpi do in dotazione a ciascun soldato? Cinque colpi […]. Un altro problema è la scarsezza di ufficiali bianchi, urgono ufficiali europei. I ragazzi sanno che noi ci battiamo per loro senza prendere un soldo, per questo ci seguono dappertutto […].» «Perché lo fa, anzi perché lo fate?» «Gli altri non so, io all’inizio sono venuto con un contratto, poi quando mi hanno detto che non c’erano soldi per pagarmi sono rimasto lo stesso. Questi gruppi li ho fatti io, dal niente, dalla foresta, dalla campagna e con qualche studente di città che ora è già capitano. Come potrei abbandonarli, ces enfants? Mi pare un’azione molto brutta, non si fa.» «E se le cose andranno peggio?» «Le cose “vanno peggio”; se la Francia non interverrà almeno con munizioni non resta che la guerriglia. Per questo non posso abbandonarli. Tanto non lascio nulla, quindici anni di legione e gli amici quasi tutti morti.» Per tutto il pomeriggio e la sera, Steiner è tormentato da una troupe televisiva che lo scongiura di organizzare un attacco per il giorno successivo, visto che hanno mancato quello di stamattina e devono partire. È evidente che la cosa gli ripugna, evita le insistenze dicendo che non ha informazioni. Ma quelli non mollano […]. Rifletto sulla “civiltà dell’immagine”: essi chiedono un’azione di guerra non necessaria alla guerra in Biafra, bensì alla televisione del loro paese. Essi sono pronti a veder morire, e a filmarli, soldati nigeriani colti nel sonno alla prima luce dell’alba, come spettacolo-consumo televisivo. Essi infine, a quale punto servi del loro strumento, programmano artificialmente la morte di esseri umani e forse la loro stessa sorte, al solo fine di obbedire agli imperativi dei loro padroni. Come quel fotografo che in un campo di profughi morenti di fame mi ha detto, raggiante: «ho fatto un lavoro vachement bon». Arriva la notte, i grilli biafrani felici e incoscienti canterini, automatici poeti […]. Ci avviamo nella notte, seguiti dalla jeep con la guardia del corpo, fatta di due ufficiali e tre bambini. Per tutto il tempo Steiner tiene il mitra in una mano, i finestrini spalancati. Non è un viaggio allegro. A metà strada foriamo. Ci buttiamo fuori tutti e due: non era nulla, era un chiodo. I grilli cantano, si riprende il cammino. «Perché fa questa vita?» «Non mi piace farne un’altra. Dopo quindici anni di combattimenti non si sa fare altro, non si hanno altri amici, altri familiari che i soldati. Ho una piccola azienda a Grenoble, una fabbrichetta di una sessantina di operai. Sono ingegnere elettrotecnico e produco in quel campo. Potrei stare tranquillo ma non ci sto. In Biafra il mio destino è deciso. Chissà perché proprio qui […].» Steiner esce, torna coi documenti dell’italiano morto a Port Harcourt e mi chiede di consegnarli alla famiglia […]. Mi accompagnano a dormire. Dormo avvolto in un solo lenzuolo come in un sudario […]. Il giorno successivo le notizie vengono confermate, i nigeriani tentano di attaccare l’aeroporto. Alla sera Michele Mbabuiké mi accompagna all’aereo, forse l’ultimo, se ci sarà. Ne arrivano tre invece, due di munizioni, e, più tardi, l’aereo della Caritas con viveri, medicinali. Tireranno avanti ancora qualche giorno. Salgo 196


su questo aereo, Michele Mbabuiké mi saluta agitando le braccia. Con le sue ultime parole, gridate accanto alle eliche già in moto, mi pare giusto finire le mie note in Biafra: «Pourquoi le monde nous laisse tomber comme ça?»222.

Siamo tornati su quelle vette altissime che la scrittura di Parise ci ha già fatto esplorare: è vero, il livello estetico non raggiunge l’eccellenza apprezzata spesso nei capitoli precedenti, dove bellezza abbagliante e visionaria compassione sono abbracciate in esemplare, inscindibile sintesi; tuttavia, il livello ideale e civile risulta così rigoroso e commovente da elevare il testo a testimonianza memorabile di una vita spesa per una causa altrui scelta come propria, sia che la si offra nel sacrificio in guerra della propria esistenza, sia che la si doni nella rischiosa e dolorosa passione del reporter che la documenta. Non a caso, il reportage racconta di due esistenze, del volontario italiano morto di nome Pier Giorgio Norbiato, e del comandante “mercenario” Steiner, che si presentano come alter ego di quel Parise che scelse le rischiose missioni come reporter di guerra: secondo lo spirito del cupio vita profundere, dello spendersi nel sacrificio per una causa. La tonalità letteraria affiora circoscritta nei primi periodi del capitolo, in una serie di passi poetici cupi e attoniti: «L’aria ferma e calda di un mezzogiorno di sole», «ultimi spari vagano tra mosche e insetti ronzanti», «barelle zuppe di sangue», «il sangue gocciola dai camion, dalle barelle, dagli arti, dalle schiene e dai volti dei feriti», «Il caldo e gli insetti crescono», «si coagula in un solo sentimento», «come se andasse alla prima comunione, pantaloni corti, camicia e cravatta, con le scarpe in mano». Fa la sua rituale, enigmatica e conclusiva comparsa il leitmotiv dei grilli: «i grilli biafrani felici e incoscienti canterini, automatici poeti», «i grilli cantano, si

222 Ivi, pp. 882-889.

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riprende il cammino»: una voce da coro tragico che commenta con epica solennità il girovagare fisico e interiore dello scrittore. Da evidenziare poi, meravigliati (siamo nel 1968), l’anticipatrice definizione «“civiltà dell’immagine”», e con essa la coerente e profetica denuncia della macchina mediatica, che in modo disumano, cinico e anche assassino viola persino le vite umane con il bieco fine di accrescere la spettacolarità del prodotto informativo e la conseguente vendibilità del medesimo come merce. Parise chiude il reportage con un breve epilogo, una vertiginosa riflessione sull’orrore della guerra in Biafra e sulla sconfitta del riscatto dell’Africa postcoloniale; con le sue parole concludo la lettura del reportage Biafra: Un viaggio in Biafra si accompagna a una mai sperimentata condizione dell’animo che assomiglia all’angoscia ma la supera: essa nasce dal conflitto tra l’orrore e il dubbio. Ma come l’orrore appartiene alla sfera dei sentimenti quasi irrazionali e il dubbio invece alle quasi fredde operazioni della ragione, così si può dire che il conflitto si fa più che angoscioso, buio ed esistenziale, e si riduce ai due elementi primi, ragione e sentimento, su cui si fonda la natura stessa dell’uomo. L’orrore in Biafra si prova fin dal primo giorno, quando si passa da un campo profughi all’altro, quasi senza accorgersene, e la mente pare dissolversi nella pure registrazione dei fenomeni. È un sentimento composito, vorticoso e poliforme: innanzitutto orrore visivo, immediato, diretto, elementare e, vorrei aggiungere, animale. Tale è la violenza di ciò che si vede, infatti, che l’uomo cessa per un istante di essere tale, con le caratteristiche che gli sono proprie, di oggettivazione, discernimento e giudizio, e compie per così dire un balzo all’indietro, nei millenni, fino alle sue lontane e basse origini. Poi quando, a poco a poco, la nebbia che avvolge la mente si dirada, quel primo orrore diventa orrore umano: anch’esso diretto, ma già un poco mediato, da esperienze, ricordi, dati personali, insomma da quei molti filtri che formano il carattere individuale. Poi orrore storico, il più mediato e forse il più doloroso di tutti in quanto in esso siamo costretti a riconoscere il fallimento, l’involuzione e forse l’inesistenza stessa di quelle aspirazioni, così tese alla imitazione quando non all’identificazione col divino, che abbiamo creduto accompagnare, o addirittura creare, le diverse successive culture e la storia dell’uomo. E infine orrore un’altra volta immediato e diretto, non più fisico, ma metafisico, che sorge dalla nostra individuale certezza dell’esistenza del male sulla terra. A queste molte forme di orrore corrispondono in uguale misura e con uguale forza altrettante forme di dubbio. Allora la ragione agisce e si pone quei quesiti che appunto si pone la storia. Di chi è la colpa? Perché si è prodotto tutto ciò? […]. È naturale che, essendo soli con sé stessi e testimoni di un dolore così vasto, le risposte a tali quesiti e i dubbi che ne risorgono siano soltanto personali. Perciò, a questo punto, dirò quali sono stati i miei dubbi, non i dubbi, i miei sospetti 198


e non i sospetti, le mie emozioni ma non le conclusioni. Il mio dubbio principale nasce da una breve riflessione sui confini dell’Africa nera. Quei confini artificiali, tracciati sulla carta dal colonialismo europeo e non da stati indigeni […], possono essere considerati reali? […] Mi sono risposto: no […], perché in Africa nera non convivono ma lottano all’interno di essa molte pseudo-unità geografiche, centinaia di gruppi etnici […]. E tuttavia si può dire che l’Africa nera […] possiede oggi come continente una unità storica che nessun altro continente al mondo ha mai avuto [….]: il comune dolore della schiavitù […]. D’altro canto, come permettere che l’Africa nera, una volta ottenuta la libertà, si frantumi in un caos di neocolonialismi militaristici e locali, quasi sempre manovrati dall’esterno? […] Questi dubbi, questi interrogativi-iterativi valgono per il Biafra223.

Come anticipato in avvio di indagine, prima di concluderla devo dare conto delle due appendici giornalistiche che chiudono il reportage sul Biafra, pubblicate una prima volta su «L’Espresso» nel 1968, quindi nelle edizioni in volume per i tipi Einaudi del 1976 (Guerre politiche) e per i tipi Mondadori del 1989 (Opere II). Nel medesimo esordio interpretativo, ho anche fornito, in particolar modo, una breve ma adeguata sintesi dei contesti, delle ragioni, e degli sviluppi delle suddette vicende mediatiche, di cui dunque, a quest’altezza, non presenterò ulteriori dettagli; viceversa, ritengo fruttuoso per la piena intelligibilità di Biafra esporre diversi passaggi estratti direttamente dalle fonti documentarie. Leggo dunque ciò che scrive Parise a proposito della prima vicenda: A un sintomatico vicemaestrino* Il giorno del mio ritorno dal Biafra la televisione italiana mi fece vedere un documentario girato in quei luoghi da operatori inglesi e francesi; poiché ero il primo italiano reduce da quel paese, mi chiesero di fare, subito, un breve commento. Il documentario era di grande e tragica bellezza, le immagini non avevano bisogno di nessun commento, ma fui pregato di farlo lo stesso. Uscì venerdì 9 agosto nella rubrica TV7 e credo sia stato visto, con angoscia e orrore, da molti spettatori. Le immagini che più colpivano erano quelle di bambini di tre, quattro, cinque anni, già decrepiti, scheletriti, incanutiti dalla fame. Bambini destinati a morire entro pochi giorni e forse, da quel che mi è parso di capire osservando i loro sguardi saggi e definitivi di chi ha capito ogni cosa di questo mondo, coscienti di morire.

223 Ivi, p. 882-892.

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Il giorno successivo, 10 agosto, su Paese sera, giornale che stimo e che leggo sempre, usciva una critica televisiva, firmata Vice, che così commentava quel documentario: “…per tornare a ieri sera abbiamo avuto quattro servizi di moderato interesse. Lo speciale sulla Fine del Biafra, firmato Goffredo Parise (collaboratore Ennio Mastrostefano) ci è sembrato mancare di una analisi approfondita sulle cause di un fatto storico che pure ha radici ben precise nelle nefandezze recenti e remote del colonialismo. Una inchiesta che ha fatto presa soprattutto sui sentimenti di orrore che può provocare la conoscenza della spaventosa sorte riservata a quel popolo: una denuncia accorata ma in fondo sterile” […]. Mi soffermo su tre “campioni” come si dice in gergo linguistico, di questa breve prosa. Il primo è “quattro servizi di moderato interesse”. Il secondo: “ci è sembrato mancare di una analisi approfondita sulle cause…”. Il terzo: “una denuncia accorata ma in fondo sterile”. Cosa ci dicono questi tre “campioni”? Il primo ci dice che immagini di bambini-scheletri morenti per fame (anche se queste immagini durano soltanto due minuti), che impiegano appunto quei due minuti per salire un gradino di pochi centimetri, sono immagini “di moderato interesse”. Il secondo “campione” ci dice che il commento, il mio commento, “è sembrato mancare di una analisi approfondita…”, come dice Vice. Mancava perché non mi pareva umano anzi mi pareva dissacrante, per essere più esatti, violare con parole estranee alla mia personale e urgente necessità di testimone quelle immagini storiche. Mancava inoltre perché giudicavo inopportuno parlare di un argomento impegnativo, intricato, lunghissimo, su immagini che, in particolare, non si riferivano a quell’argomento. Mancava ancora perché mi proponevo, come ho fatto, di toccare se non sviscerare quell’argomento, negli articoli apparsi sul ”Corriere della Sera”, e successivamente, per scrupolo di ricerca, in un dibattito con l’ambasciatore della Nigeria a Roma, Mr John Garba, che segue: sedi più adatte per analisi, dubbi, giudizi, punti divista e posizioni personali e politiche. Infine mancava, lo ripeto ancora una volta, perché mi pareva che la tragica urgenza di quel documentario (non mio, perché io non so usare la macchina da presa) stesse tutta in una sola notizia da dare e da far vedere agli italiani: circa seimila bambini muoiono ogni giorno di fame in questo paese, oggi, in questo momento: domani, dopodomani saranno di più. Di fronte a questa visione-notizia mi pareva che la “analisi approfondita” dovesse venire certamente dopo, in un secondo momento. Terzo “campione” di prosa: “una denuncia accorata ma in fondo sterile”. Ebbene no, didattico e sentenzioso Vice. Quella denuncia di cui non ho alcun merito non si è rivelata “in fondo sterile”, ma si è sparsa insieme ad altre in tutto il paese, ha colpito violentemente i sentimenti di amore (e non solo di orrore) di moltissimi italiani che non l’hanno trovata di “moderato interesse” e […] ha dato quei frutti che essa si proponeva: soccorsi immediati da tutte le parti d’Italia, cifre altissime […] servite […] a far sì che gli aerei diretti clandestinamente in quel paese […]aumentino; e con gli aerei latte condensato, cibi proteinici, medicinali. Tutto ciò non sono “analisi approfondite”, è vero, non sono nemmeno azione politica ma, oggi, sono un po’ più di vita contro la morte. Quanto più vivo e generoso e impetuoso e imprudente di lei, sintomatico Vice, il senatore Terracini, che […] mostrava con indignazione i suoi sentimenti di comunista sì, ma, prima ancora, di uomo-comunista. Concludo col dirle, Vice […], che […] la sua disobbedienza agli schemi è sì povertà, ma calma. E la mia inquietudine e i miei dubbi - o la mia disobbedienza agli schemi – sono sì ricchezza, ma angoscia. Glielo dico perché un viaggio in Biafra è fatto sempre e soltanto di dubbi, di sospetti angosciosi, cioè una condizione dell’animo che precede ogni “analisi approfondita” e, nel caso proprio 200


del Biafra, travolge tout court qualsivoglia analisi. Tali sospetti e dubbi nati dal trauma visivo in quel paese, non investono soltanto il terreno politico […] ma lo superano, lo travolgono, sprofondano nell’essenza della natura stessa dell’uomo e rinnovano l’angoscioso interrogativo della presenza del male in essa. Resta da vedere, come molti lettori si chiederanno, perché me la prendo tanto con Vice. Rispondo subito: perché sono democratico e perché non ho alcun rispetto per le gerarchie. Prendersela con il linguaggio, mettiamo, dei capi […] che già sappiamo irriducibile […] non vale. Il loro non è un linguaggio sintomatico, quello di Vice sì: tipico, rivelatore di ciò che potremmo chiamare ”presunzione di sinistra”. Da presumere, senza perciò necessariamente essere. Tale linguaggio infatti, di categoria, così diffuso, didattico, sentenzioso, asettico nel significante è, per tutto ciò, autoritario: dunque di destra. E non si addice, Sintomatico Vice, né alle immagini che lei ha visto sul Biafra, né in generale all’Africa nera e ai suoi problemi. Perciò usi un linguaggio più umile, più diretto e popolare, quel linguaggio che la porterà un giorno, forse, ad avvicinarsi ad essere ciò che per il momento lei soltanto presume di essere: un comunista. * Aurora Santuari224.

È l’ennesima, magistrale, abissale lezione di vita che Parise ci lascia in dono: umanitaria, etica, ideale, politica, militante, persino linguistica: antropologica. Concludo, con le considerazioni dei partecipanti al dibattito pubblico: Dibattito tra Goffredo Parise e John Mannan Garba ambasciatore della Nigeria a Roma225 AJELLO Mi sembra opportuno aprire questo dibattito sulla guerra della Biafra parlando del suo episodio più grave, più tragico: la fame, la morte per denutrizione di 6 mila bambini al giorno. GARBA Da chi ha avuto questa cifra? AJELLO È stata confermata dal vescovo di Owerri […] Ora vorrei chiedere a Parise […] di raccontarci le sue impressioni. PARISE La mia testimonianza riguarda[…] la regione secessionista, e la cifra di 6 mila bambini […] mi è stata data da Joseph B. Whelan, vescovo di Owerri, che rappresenta la Caritas Internationalis in Biafra. Ho visitato personalmente molti campi di profughi e lì ho assistito a scene terribili. Ho visto morire davanti ai miei occhi due bambini nel giro di venti minuti […]. AJELLO Ha idea di quanti siano questi campi di raccolta, e dove siano dislocati? PARISE Sembra che i campi ospitino circa 600 mila rifugiati, ma la cifra dice poco: si calcola infatti che siano dispersi nella foresta e nelle zone dell’interno circa 3 milioni e mezzo di rifugiati […]. AJELLO L’ambasciatore della Nigeria vuole precisare qualcosa […] ?

224 Ivi, p. 895-898. 225 Ivi, p. 899-910.

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GARBA Prima di tutto devo osservare che l’arcivescovo Whelan è una fonte molto parziale. Egli si è dichiarato favorevole al Biafra […]. Ma non possiamo separare ciò che avviene dall’aspetto politico […]. AJELLO Per ora trattiamo separatamente i due problemi[…]. Parise, vuol chiarire in che modo funziona l’organizzazione della Caritas Internationalis […] ? PARISE La Caritas Internationalis è, fino a questo momento, la sola organizzazione assistenziale che, infrangendo i divieti del governo nigeriano, riesca ad arrivare in territorio secessionista […]. Ho potuto accertarmi che il carico degli aerei clandestini della Caritas […] è costituito esclusivamente da medicinali e generi alimentari; perché allora il governo della Nigeria non permette a questi aerei di entrare ufficialmente in Biafra, quando addirittura non gli fa sparare contro? GARBA […] noi vogliamo soltanto evitare che gli aerei dei soccorsi arrivino direttamente al Biafra perché in questo caso sarebbe impossibile controllarne il carico. PARISE Si potrebbe accettare un controllo internazionale sui voli diretti al Biafra. GARBA Ma chi ci darebbe la garanzia che gli aiuti diretti al Biafra senza il nostro controllo non venissero da paesi interessati ad aiutare anche militarmente i secessionisti? PARISE In questo momento il lato umanitario è molto più importante di quello politico: ed è questo che la Nigeria dovrebbe comprendere, rinunciando a qualcuna delle sue esigenze politiche e militari […]. AJELLO A questo punto passiamo alla questione politica […]. Ormai la contesa tra gli Hausa e gli Ibo, le due razze predominanti in Nigeria, non basta più a spiegare tutto. È soltanto un remoto precedente […] di una crisi più vasta e più complicata. Io stesso, quando mi recai in Nigeria, nell’ottobre del 1966, assistetti ai primi gravissimi episodi originati da questo odio razziale […]. Ci fu certo un susseguirsi di violenze reciproche. Ma forse l’avvenimento più sconvolgente […] fu la fuga di decine di migliaia di persone dal nord verso sud: una folla di profughi, ammucchiati su camion rudimentali […] che s’avviavano verso il Biafra, sfuggendo all’odio razziale […]. L’ospedale di Enugu è…], in questa specie di pogrom, non era uno spettacolo edificante. GARBA Lei ha potuto vedere soltanto una faccia della verità. AJELLO Lei ritiene che Ojukwu abbia voluto la secessione […] per desiderio personale, o sotto l’impulso di ragioni economiche? Quale ruolo hanno assunto… le pressioni di paesi europei? GARBA Furono per primi gli operatori economici europei a constatare che Ojukwu è un uomo ambizioso […]. Parliamo di economia […]. In quella parte di Biafra viene estratto il 60 per cento del petrolio nigeriano. Sappiamo che alcune potenze straniere mandarono armi […] in cambio di concessioni che avrebbero dovuto diventare esecutive quando fosse stata ratificata l’indipendenza del Biafra. AJELLO Lei sta parlando di concessioni petrolifere? GARBA Anche altri minerali, carbon fossile, e così via. In gran parte però petrolio. PARISE Al di là dei sospetti […] c’è in me un dubbio molto più generale e radicale. Penso a quello che sono oggi i nuovi paesi africani, alle frontiere artificiali da essi ereditate dall’ordine colonialista […]. L’unica vera e grande unità di tutta l’Africa […] [è] il ricordo della comune schiavitù e del comune dolore subiti sotto i vari colonialismi […]. Mi sembra giustificato il dubbio che sul piano sociale, economico, culturale, la secessione degli Ibo […] rappresenti in fondo una forma di neocolonialismo minoritario […], che non poteva non 202


interessare alcuni paesi occidentali […]. C’è un elemento che avvalora […] il sospetto che la secessione del Biafra sia in fondo un’operazione di potere di una minoranza borghese. Ed è il fatto che in una situazione così tragica, all’interno del Biafra non esista una qualsiasi forma di razionamento dei viveri […]. Vicino ai campi di profughi dove ho visto coi miei occhi dei bambini morire di fame, c’è un mercato in cui vige la borsa nera, in cui chi ha del denaro può acquistare quel tanto che basta non solo alla semplice sopravvivenza, ma a vivere, e nemmeno male. C’è dunque una borghesia che può procurarsi dei relativi agi mentre a poca distanza migliaia di bambini muoiono di fame. È così che ho avuto la visione chiara e precisa che anche nel Biafra vige la spaventosa regola della supremazia biologica della ricchezza sulla povertà. AJELLO In occasioni molto meno gravi della guerra del Biafra (per esempio all’epoca del terremoto siciliano) abbiamo sperimentato come sia difficile e faticoso assicurare un’organizzazione per il razionamento dei generi alimentari e la equa distribuzione degli aiuti […]. C’è un’altra serie di problemi […] e sono i problemi della pace […]. GARBA Vorrei chiarire un punto importante […]. Nella federazione nigeriana vi sono centomila Ibo […]. È ingiustificato nutrire timori per quella minoranza. PARISE Perché allora vi è affluenza di profughi verso l’interno del Biafra e non verso l’esterno? GARBA Tutta colpa della propaganda svolta da Ojukwu: i cibi avvelenati, le minacce di genocidio. AJELLO L’augurio è comunque che la guerra si concluda in virtù di trattative prima della vittoria militare, quello che conta è soprattutto che la guerra […] si combatta tenendo presenti certe regole elementari di umanità cui finora si è certamente trasgredito. Un piccolo popolo sta morendo di fame, giorno per giorno: se si tratti di un genocidio organizzato dalla Nigeria ai danni del Biafra o di una tragica legge di guerra, la sostanza del fatto non cambia molto.

III.10

1970 Laos (Guerre politiche. Laos) Anche in Laos Parise viaggiò in qualità di reporter di guerra, inviato nel

maggio 1970 dal «Corriere della Sera», che ne pubblicò il reportage in una serie di articoli apparsi sulla testata fra i mesi di maggio e luglio dello stesso anno226. Nel 1976, il reportage veniva riedito, con nome Laos, in un volume unitario, dal titolo Guerre politiche. Vietnam, Biafra, Laos, Cile227, insieme ad altre narrazioni di guerra: Vietnam, Biafra, Cile.

226 Goffredo Parise, Laos, in «Corriere della Sera» 17, 26, 28 maggio; 2, 16, 29 giugno; 6 luglio1970. 227 Goffredo Parise., Guerre politiche. Vietnam, Biafra, Laos, Cile, Torino, Einaudi, 1976, [ora nel testo Laos contenuto nella sezione Guerre politiche. Vietnam, Biafra, Laos, Cile, in OPERE II, pp. 911-966.

203


In un precedente paragrafo della tesi ho già copiosamente indagato su questo scritto di viaggio, mettendone in luce valenza estetica e testimonianza politica e umana. Tuttavia, esistono nel testo una serie di passi non ancora evidenziati che suscitano in me forte interesse e suggestione, poiché forniscono, insieme, un esempio e un pretesto per dare luce ad un aspetto del pensiero parisiano, che risulta finora inedito nel presente lavoro, e di rado frequentato dalla saggistica pur recente. Sto parlando di visione ideale e visione storiografica dello scrittore, quale emerge dalla citazione seguente: Ma ciò a cui la riflessione porta inevitabilmente è la sorpresa: di constatare che anche qui, anche in queste zone dove la lotta è spontanea, sincera, appassionata ed eroica, anche qui penetra inesorabile il germe della burocrazia: bacillo astratto e devitalizzante, che riduce ogni sentimento alle formule, ogni passione a puro linguaggio, a flatus vocis ideologico, ogni umanità a meccanica, ogni colore all’assenza di colore. Tra Sombat, giovane rivoluzionario, pieno, sì, di disciplina e di obbedienza ma soprattutto di sentimento, di violenta anche se trattenuta dinamica, e il commissario dell’Accademia militare, riccio politico dagli aculei dogmatici, la differenza è enorme. Cosa li fa sembrare, ed essere, nonostante la comune ideologia, così diversi? L’età e l’esperienza o semplicemente il carattere, cioè una diversa natura intellettuale e umana? Marx ci dice che “il comunismo sarà il regno della più profonda disuguaglianza” perché una volta eliminate le disparità economiche ogni uomo sarà diverso dall’altro soltanto per le sue individuali qualità. Frase molto bella che soltanto il tempo dirà se profetica. Ma fino a che punto le “individuali qualità”, l’idealismo di Sombat, mettiamo, o il dogmatismo del commissario della scuola militare, riusciranno a convivere? E quali delle due, chiamiamole ancora così, “qualità individuali”, ma certamente antitetiche, vincerà sull’altra nella perenne dinamica dei rapporti di forza? Mi pongo la stessa domanda nella immensa grotta delle riunioni, dove stasera si commemora il centenario di Lenin.228

Inizio col dire che è difficilmente ipotizzabile che fra le pur disordinate letture di Parise rientrassero i testi marxiani, e tanto meno è pensabile che lo scrittore avesse conoscenza proprio di quei rari passi (Il Manifesto, L’Ideologia tedesca, e pochi altri che non rammento a memoria) in cui il pensatore tedesco esprimeva la sua visione futura del concetto di comunismo: è più plausibile immaginare, invece, che in quegli

228

OPERE II, pp. 949-950.

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anni di impegno ideologico-politico e di diffusa, militante cultura marxista-leninista, un’eco di alcune considerazioni di Marx in merito giungesse inevitabilmente alle orecchie e alla mente dello scrittore. Proseguo con l’ammettere che è ben comprensibile che il lettore o lo studioso – incluso il sottoscritto - si sorprenda della circostanza di un Parise che citava Marx: proprio lui, al quale intellettuali engagé e movimento studentesco rivolsero l’accusa di persona disimpegnata, e che fu spesso definito impolitico o apolitico. Tuttavia, e in seconda battuta, ritengo che non deve stupirci più di tanto che Parise - in considerazione dei tratti personali che lo qualificano anticonformista e strenuo difensore dell’individualità, con determinazione tale da sfiorare quasi il culto della libertà personale - giungesse a strizzar l’occhio o, per meglio scrivere, a provare risonanze e consonanze fra il suo mondo personale ed ideale e le poche visioni profetiche del marxismo utopico, come si era e si è soliti definirlo, verso le quali esprimeva esplicitamente adesione e simpatia. Lo scrittore infatti contestualizzava la citazione di Marx unicamente pro domo sua, poiché ne rilevava l’enfasi sul concetto di individualità e ne sottolineava la scontata tempistica futura, che gli dava l’agio di smarcarsi da qualsiasi possibile coinvolgimento in progettualità ideali e sociali declinate nella sua contemporaneità. Per una sorta di malizia interpretativa, mi sono poi posto la domanda se per caso Parise non stesse ammiccando al movimento rivoluzionario e contestativo - mi si perdoni questa definizione così sbrigativa, dettata da sole esigenze di sintesi, non attenendo alla tesi approfondire in dettaglio taluni aspetti di contesto sociale: rimango però propenso a concludere che antipatie e scontri fra scrittore e movimento politico e intellettuale “impegnato”, furono troppo forti, sistematici, e soprattutto senza occasioni 205


di dialogo e avvicinamento, per poter confermare l’ipotesi iniziale. Senza dimenticare, da ultimo, che gli aspetti profetici e utopici del pensiero marxiano rimasero in ombra nel migliore dei casi, o nel peggiore furono d’autorità facilmente oscurati e censurati dalla rigida impostazione ortodossa della vulgata marxista-leninista allora imperante. D’altra parte, come già rilevato per il reportage Vietnam, nel clima di fine anni Sessanta - al di là e oltre i verbalismi ideologici e asfittici dei singoli movimenti di contestazione soffiò un vento di speranza e cambiamento così potente con il loro irripetibile sogno di un mondo nuovo, che fu inevitabile per tanti se non per tutti, Parise compreso, esserne colpiti e affascinati. Viceversa, lo scrittore, in tale tensione utopica sospinta dall’energia che percorreva l’Occidente con il sogno di un mondo nuovo, ritrovava conferma e nuova linfa per le sue istanze rivendicative tanto di un vissuto declinato verso una spiccata e gelosa individualità, quanto di una creativa immaginazione fantastica per forza di cose altrettanto individuale. Mentre la sollecitazione verso un personale coinvolgimento e collaborazione al movimento di cambiamento mondiale, connotandosi di tratti utopistici e spostandosi nella dimensione di un tempo futuro, gli facilitava il consueto rifiuto dell’inevitabile richiamo ad un impegno nella contingenza presente. Riprendo la lettura del reportage: Questi brevi racconti […] sono “dati” e “informazioni” che si potrebbero prestare e si prestano ad analisi. Analisi che dovrebbero condurre a un giudizio politico, non dico sul Laos, ma su quella parte di Laos (comunista) i cui campioni, appunto, mi sono stati offerti dall’organizzazione di viaggio dei miei ospiti e dal caso. senonché questo giudizio politico io non lo darò. E spiegherò anche le ragioni, o parte delle ragioni per cui non “evito” ma rifiuto di darlo. Le ragioni nascono innanzitutto dalla profonda ripugnanza che ho provato nel corso di questi ultimi anni all’obbedienza totalitaria verso chi, da una parte e dall’altra, violenta costantemente la realtà (o la soggettiva parvenza di essa), con l’imposizione non soltanto di un giudizio totale e obbligatorio, ma soprattutto con l’imposizione di una metodologia di giudizio. Cioè verso coloro che vogliono trarre assolutamente un giudizio politico da tutto non tanto perché la politica scaturisca dalle cose, ma perché la politica deve imporsi alle cose. 206


Sono d’accordo che non esiste informazione “oggettiva” ma sono anche profondamente convinto che, al contrario, le informazioni soggettive, cioè individuali, non soltanto siano preziose, ma assai rare. È verissimo che la politica è nelle cose ma appunto, è nelle cose, cioè scaturisce dal perenne confronto di forze che sta nelle cose. Non al di sopra e tantomeno al di là. La ideologia, come la metafisica, non stanno nelle cose. Un uomo guarda la vita, se vogliamo la analizza e naturalmente trae le sue provvisorie, contingenti conclusioni. Che proprio in virtù di quel perenne confronto di forse, sono e debbono essere sempre mutevoli. Per cui il suo giudizio, se non sarà costantemente ispirato da se stesso e dalla propria personale sperimentazione, confortata dalla ragione, sarà errato. Un’altra ragione (tra le moltissime) per cu imi rifiuto di esprimere quel giudizio tanto atteso da molti pedagoghi col dito alzato è che sono, per indole e forse per poco tempo ancora, un uomo libero. E per libero intendo una cosa sola, così ben espressa da Rosa Luxemburg: «Libero è colui che può decidere altrimenti ». Dunque, anche questa volta, darò del mio viaggio tra i partigiani del Laos un giudizio che non sarà affatto globale politico, come fanno gli obbedienti del giudizio politico concordato a priori bensì un giudizio relativo e umano. Forse questo tipo di giudizio è già apparso negli scritti e nelle righe precedenti a queste ultime. Ripeterò con parole semplici che, dal mio punto di vista, la maggior forza politica di un popolo è la sua capacità di provare forti sentimenti. Non ha alcuna importanza se, per candore, per illusione, per ignoranza, per un certo quale ottundimento della mente dovuto a infinite cause geografiche, storiche e sociali, un popolo prova un forte sentimento verso idee giuste o sbagliate. Se saranno sbagliate il sentimento di quel popolo, presto o tardi, le rinnegherà. Ciò che conta è, in due parole, la forza di amare. Questo amoroso tocco, che va rapidamente estinguendosi nelle elites dell’Occidente, contagiandone le masse, è ciò che distingue specialmente i popoli del Sud-Est asiatico che non si possono e non si devono chiamare masse. È il popolo, gli individui del popolo, e non le masse che io ho avuto la fortuna di incontrare nel fronte patriottico del Laos. L’organizzazione delle masse non è ancora arrivata. Ed è al sentimento di questi individui che ho cercato di rispondere con eguale sentimento scrivendo questi resoconti di viaggio229.

La citazione da parte di Parise della suggestiva quanto meravigliosa frase di Rosa Luxemburg «Libero è colui che può decidere altrimenti», ci conferma che pratica e concetto della libertà individuale sono il nodo fondamentale che attraversa l’esistenza, la scrittura, la visione civile e ideale dello scrittore: tanto da farne un vero e proprio culto. Una libertà personale proteiforme che si declina e prende forme diverse sotto il profilo storiografico e dell’analisi socio-economica.

229 OPERE II, pp. 964-966.

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Parise, infatti, rivendicava diritto interpretativo e valutativo ad una metodologia di indagine che, all’applicazione esterna di astratti modelli ideologici, preferisce lo sguardo soggettivo che percepisce i dati congiunti a una loro prima primitiva spiegazione. Quello che Parise stava proponendo, non è tanto una forma di empirismo privo di modelli interpretativi e propositivi, quanto, semmai, un approccio anglosassone all’analisi economica e sociale: un approccio che, certamente, com’è sua tradizione, ha origine da un’attenzione empirica verso i contesti e trae linfa da una sua personale sensibilità percettiva verso la realtà materiale (in senso generale), che strizza l’occhio, consapevole o meno che ne fosse lo scrittore, a quell’orientamento storiografico nato in Francia che ne faceva (di tale realtà materiale) oggetto e metodologia di indagine. Lo scrittore, rifiutando, com’è sua natura ideale e indole personale, ogni totalitarismo, quale ne sia l’orientamento, ne rifiuta anche l’arbitraria e forzata visione politica, verso il quale prova persino disgusto. Non solo: a quest’altezza, lo scrittore manifestava una volta di più un ulteriore nodo fondamentale radicato nel vissuto e nella visione del reale a lui congeniti: la prospettiva umanitaria e sentimentale come chiave di lettura dei fenomeni storici. Non è superfluo allora ricordare che, non a caso, proprio in questi anni arriva a maturazione la sua poetica dei sentimenti, di cui i Sillabari saranno l’esemplare compimento: una poetica la cui apparizione in pieno Novecento sarà vissuta come un autentico scandalo. Rilevo infine che, in più passi, Parise usa il lemma forza: «la politica… scaturisce dal… confronto di forze che sta nelle cose», «la maggior forza politica di un popolo», «ciò che conta è… la forza di amare»: una parola non neutra nella sua scrittura, che richiama alla memoria con immediatezza, per esempio, quanto Parise 208


afferma in una serie di articoli scritti per la rubrica Parise risponde tenuta sul Corriere della Sera fra il 1974 e il 1975, e ora raccolti nel volume Verba volant. Profezie civili di un anticonformista230 a cura di Silvio Perrella: […] inesorabilmente sotto la spinta più forte che esista al mondo e che non so come chiamare se non ‘la forza delle cose’ […]. Né ricordo più l’Italia di venti-trent’anni fa. E la colpa non è mia, ma della ‘forza delle cose’ (la storia) che ha mutato profondamente il volto del nostro paese […]. La colpa non è soltanto di questi ometti italiani di oggi […], se si può parlare di colpa, è della ‘forza delle cose’ che emana tutta intera e potente, da un intero paese.

È un’ulteriore dimostrazione che alberga in Parise una visione del mondo contraddittoria, che oscilla fra la legge di natura della teoria darwiniana, l’idea di Fato del pensiero classico greco, e il periodico moto di resistenza e riaffermazione dello scrittore, che rivendica per l’individualità umana una possibilità di lotta condotta con la forza del sentimento e con il valore civile della testimonianza.

III.11

1973 Cile (Guerre politiche. Cile) All’indomani del golpe attuato dal generale Pinochet che instaurò la dittatura

militare nel paese, Parise nell’ottobre 1973 raggiungeva il Cile come inviato del «Corriere della Sera», che pubblicò il suo reportage dallo stato sudamericano in due articoli apparsi nel successivo mese di novembre231. Come per i tre precedenti reportage, anche questi articoli vennero raccolti e ripubblicati nel 1976 in un testo unitario dal titolo Cile, incluso nel volume Guerre

230 Goffredo Parise, Verba volant. Profezie civili di un anticonformista, a cura di S. Perrella, Firenze Liberal Libri, 1998 [Raccolta delle prose civili scritte da Parise per la rubrica Parise risponde del «Corriere della Sera» domenicale, pubblicate fra il 13 gennaio 1974 e il 25 maggio 1975]. 231 Goffredo Parise, Cile, in «Corriere della Sera» 1°, 11 novembre 1973.

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politiche. Vietnam, Biafra, Laos, Cile232. Il suo consueto punto di vista anticonformista, di libero intellettuale e scrittore, gli valse nuovamente aspre critiche e censure, questa volta da destra, «di certa borghesia che vede, chissà come, paurose analogie fra la situazione italiana e quella del paese sudamericano»233. Ma quale significato attribuiva Parise all’aggettivo del dittico guerre politiche? Lui così distante e perfino allergico alla politica, fosse pure il semplice lemma di un vocabolario? Leggiamo cosa rispondeva in un’intervista resa al giornalista Furio Colombo: Parla lo scrittore, dal ”Prete bello” a oggi Le guerre di Parise Furio Colombo D. – Guerra e politica non sono parole «naturali » dentro la tua vita di scrittore (i tuoi libri) e intorno ad essa (gli articoli, la conversazione, la vita). Adesso formano il titolo del tuo nuovo libro Guerre politiche. Vuoi definire queste parole? R. – È vero, politica non è una mia parola «naturale » non essendo io un «politico» di professione: è una parola che uso quando mi pare indispensabile usarla. Non amo l’inflazione delle parole, il verbalismo[…] così in uso oggi specialmente tra i giovanissimi consumatori di parole. Sento che la parola politica, pure essendo una parola importante (ma non più di molte altre come pane, terra, povertà sete caldo […]) è usata troppo e in troppi contesti: in altri termini, sento che, appunto, è […] inflazionata. Ad ogni modo l’ho usata nel mio nuovo e vecchio libro Guerre politiche come se fosse tra virgolette […]. Le virgolette servono a calmarla. L’ho usata per le seguenti ragioni: ogni rapporto è rapporto di forza, in storia naturale: dunque anche nella storia dell’uomo. Non per questo è strettamente un rapporto politico, di lotta politica. Ci sono guerre con una preponderanza di peso, politico, altre con minor peso politico […]. Sono o sono state molto spesso il prodotto di una grande o piccola quantità di fattori, spesso riconoscibili dagli storici, altre volte no, e dunque non totalmente storicizzabili. Ritengo che molte guerre sono il prodotto di una serie di «casi» presi d’infilata da «cecchini» inconsapevoli. Tra il passante e la tegola che gli cade sulla testa e lo uccide c’è un rapporto di forza, una guerra, se così si può dire, regolata dalle leggi della fisica: massa più velocità… eccetera, più il caso. Non per questo dirò che il l’infelice passante […] è una vittima politica di un certo catalogabile disegno storico. Ritengo per esempio: riferendomi a Guerre politiche che la guerra in Vietnam, come quella in Corea, come il colpo di stato in Cile siano avvenimenti

232 Goffredo Parise, Guerre politiche. Vietnam, Biafra, Laos, Cile, cit. [ora nel testo Cile, nella sezione Guerre politiche. Vietnam, Biafra, Laos, Cile, in OPERE II, pp. 967-995. 233 Gabriele Braggion, Più delle cose la vita. Goffredo Parise reporter, cit. p. 23.

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particolarmente politici dove il caso ha poco (ma non nessuno) peso. Così il Biafra […]. Insomma la parola politica in Guerre politiche obbedisce al mio desiderio di precisione, come dire guerra tradizionale o guerra moderna, o meglio ancora guerra di religione. Queste da me viste e raccontate sono guerre dove la politica e l’ideologia hanno avuto un’importanza pari alla religione (Vietnam in particolare) nelle guerre di religione (Islam in particolare)234.

È fin troppo chiara la premura dello scrittore nel volerci chiarire il personale vissuto della parola politica, mettendoci in guardia dal suo abuso (così invasivo in quegli anni ideologizzati), evidenziandoci altre possibili e parallele chiavi di lettura della realtà, avvertendoci della necessaria sua precisione d’uso, e fornendoci la sua applicazione nell’interpretazione storiografica. Tutt’altro che impolitico e disimpegnato, sembrerebbe, un tale Parise: semmai, verrebbe da dire, un cauto ma affilato - e defilato scrittore-intellettuale che per uno di quei «casi presi d’infilata da cecchini inconsapevoli» indossa pro tempore le vesti di un politologo militante. Una posizione personale e ideale già incontrata - per la prima volta nella sua vita, almeno con tale sistematicità, lucidità e coraggio di esposizione - nei precedenti reportage dal Vietnam, dal Biafra, dal Laos. Ed è proprio nel corso del reportage dal Cile che Parise ribadisce - affinandolo - il suo punto di vista “politico” sulle cose della vita, fondendolo al contempo con la narrazione degli eventi pre e post golpe. Leggiamo quanto scrive nel primo articolo dedicato al popolo cileno: Il Popolo Santiago del Cile, ottobre 1973 Quando uno scrittore decide di partire verso un paese sconvolto da avvenimenti politici o da azioni militari ciò che lo spinge al viaggio non è la passione politica o la passione militare: è la passione umana. La passione umana è una specie di fame fisica e mentale che porta a confondere il proprio sangue con quello degli altri, in luoghi o paesi che non siano soltanto quelli della propria origine [...]. Il fine della passione umana di uno scrittore […] è quello di partecipare, come per una trasfusione, di quel sentimento molto più confuso, molto

234 Furio Colombo, Le guerre di Parise, cit.

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meno schematico, ma certamente più “eterno” che […] domina il popolo di quel paese sconvolto […]. Lo scrittore sa sempre dove andare, una volta arrivato in quel paese, egli andrà “naturalmente” verso la parte più umile di quel popolo, verso la parte più povera, e diseredata, e illusa e delusa, perché egli sa che soltanto da quella parte del popolo, quella che sempre suscita i maggiori dolori, egli verrà a conoscere (e a partecipare) non la verità sui fatti politici e sulle azioni militari, bensì la realtà delle conseguenze e dei dolori e dei lutti di cui sempre quella parte di popolo è la sola o la maggiore protagonista. Dell’altra parte di popolo (le altre classi sociali) lo scrittore diffida perché egli sa per intuito e per esperienza, che è più intelligente e più abile, più forte, più astuta, più ricca insomma e dotata di amministrazione politica e amministrazione vitale ma assolutamente priva, proprio per questo, di sogni e speranze. La parte di popolo che subisce e ha subito in passato le maggiori sofferenze […] sogna, chissà perché, la libertà come una cosa semplice: qualcosa di labile, di allegro e di festoso […]. L’altra parte di popolo (le altre classi sociali) sanno invece che la libertà è un complicato corpo a corpo senza libertà, dove è sempre necessario essere più forti e dove è sempre necessario vincere. La parte di popolo che sogna la libertà spesso muore senza averla mai vista. L’altra parte muore ugualmente senza averla mai vista e nemmeno sognata.

Ecco. “La passione umana”. Di tali parole e di tale moto dell’anima sentivamo la mancanza esplicita in uno scrittore che pur professando da sempre libertà personale e intellettuale, e pur dimostrando, anche se in modo discontinuo, coraggiosa irregolarità ed esposizione nella vita e nelle opere, nella pratica più frequente di esistenza e attività letteraria rivelava molto più spesso comportamenti e pensieri tiepidi, indolenti, scettici, snob, distaccati: fonte di forte irritazione e persino disistima per chi sia mosso dalla “passione” di approfondire la sua conoscenza. “La passione umana”: ecco uno dei sentieri che seppur tenuto in ombra ci inoltrano nel nucleo magmatico di Parise. Ed ecco, finalmente alla luce del sole, convinta e assertiva, una scelta di campo dello scrittore: dalla parte del popolo. Una consapevole visione ideale che non è solo dichiarazione di alleanza sociologica ma anche confessione di empatia umana verso la realtà della sofferenza: verso il perenne mondo dei vinti. Prima di proseguire, rilevo che il presente testo, come alcuni precedenti, è costruito da Parise alternando interviste a personaggi rappresentativi di situazioni ed eventi, con descrizioni di realtà esemplari, e infine con riflessioni umane e ideali. 212


Inizio la lettura: Santiago del Cile è una città in cui si può udire un grande silenzio intenso. Esso emana dagli animi di un popolo che, oggi, non ha più alcun sogno di libertà. Questo silenzio interno è molto simile al silenzio che emana dal corpo di una persona amata e morta […]. La persona morta e amata è Allende […]. Gli avvenimenti politici e le azioni militari […] non hanno affatto distrutto l’idea di quei sogni e di quelle speranze che ha assunto invece maggiore grandezza. Allende fu un uomo, un socialista dell’Ottocento, disordinato, poetico, debole e poco reale che un popolo dell’Ottocento avrebbe amato e seguito: allo stesso modo il popolo cileno lo amò e lo seguì […]. Per popolo cileno intendo tutti coloro che abitano nelle borgate, cioè i poveri […]. Oltre queste zone di meticciato bianco, si estende un’altra città, una immensa città fatta di baracche di legno […]: un sottoproletariato che Allende amò e da cui fu amato, che Allende tentò di rendere “politicamente cosciente” riuscendoci in minima parte, che Allende illuse e deluse per troppo cuore e troppo poca ragione e che costituì la base del suo elettorato. Le borgate in spagnolo si chiamano poblaciones […], precipitate nella loro realtà sottoproletaria di magma presociale […], [dove] si accanisce la ferocia di soldati durissimi […]; e tuttavia proprio nelle poblaciones […] abita il vero e legale proprietario del suolo del Cile […]. Su Santiago e su tutto il Cile vagola anche un’altra cosa: un’aria antica, vecchia, ottocentesca, come di paese rimasto molto indietro[…]: questo essere rimasto troppo indietro con i tempi ha permesso tre anni di festosa e illusoria speranza popolare promessa da un umanista dell’Ottocento; e ha prodotto altresì questa brutale reazione tipicamente nazista […]. Ho parlato con moltissima gente, delle due parti, cioè con il popolo e la borghesia. I primi, specialmente coloro che erano di Unità popolare parlano con molta difficoltà, prudenza e timore […]. «Ho votato per Allende e ora ho molta paura. Negli ultimi tempi si stava male perché non c’era da mangiare e poi c’era troppa politica, io mi fido solo del partito comunista perché i comunisti nel mondo sono tanti […] Unidad popular non era affatto unita, c’era il Mir, il Mapu, il partito socialista, i radicali, tutti facevano comizi per conto loro […], secondo me facevano molta confusione. […].» El Teniente: parlo con due minatori […]. «Sì, anche io ho scioperato, certo sono socialista ma anche i socialisti devono mangiare, io ho scioperato per questo non contro Unidad popular, i dirigenti mi hanno detto che boicottavo il governo.» Ogni giorno, sui giornali di Santiago, appare la notizia di qualche fucilazione […]. Dalla strada asfaltata sono salite tre donne, due piangevano come piangono le loro disgrazie i poveri, con fazzolettini appallottolati, un certo povero modo di passarli sugli occhi insieme al dorso della mano, scarpe scalcagnate nel fango, cappotti grandi e sformati, di pessima lana che si aggruma […]. Era l’immagine al tempo stesso del popolo e del populismo: il dolore, lo squallore, la desolazione era un’espressione figurativa populista oltre che popolare. Di quel populismo tanto disprezzato dai puristi politici. Non ho avuto bisogno di chiedere nulla. Una delle tre donne ha fermato le altre, si è avvicinata e mi ha chiesto se ero straniero. 213


La Borghesia Valdivia, novembre 1973 Momio vuol dire mummia […]. Parola con cui il popolo chiama i borghesi, non vuol dire soltanto borghese, o proprietario, o ricco […]: significa senza vita, noioso, immobile, senza allegria e senza fantasia, prevedibile, inanimato, polveroso e grigio e le molte altre cose funebri e fredde. che una simile grande metafora può suggerire. Anche i momios usano una parola per definire quelli che stanno “di là”, li chiamano rotos, che significa rozzo, ordinario, plebeo. Ma roto è una parola neutra da vocabolario e momio una terribile metafora verbale […]. Basta pochissima proprietà per perdere l’anima del popolo e acquistare la paura dei momios. Quale paura? La paura della vita, delle contraddizioni e del disordine della vita […]. La borghesia cilena è media, parca, severa, moralista, ottocentesca […], nazionalista […]: nemmeno ottocentesca ma un ritratto allucinante della decadenza borghese di quel secolo che si configurò in Europa nella piccola e media borghesia tra le due guerre. Da questa […] sorsero in Europa il fascismo e il nazismo […]. I militari […] sono figli di questa classe sociale […]: è ferocemente e visceralmente anticomunista, ma soprattutto antimarxista: «L’esercito ci ha salvati in tempo, si viveva nel terrore. C’erano le liste con i nostri nomi, se avessero vinto loro saremmo stati uccisi tutti, come in Russia. No, il Cile non vuole il marxismo, né politica. Quello che occorre è ordine dopo tanto caos […]. Dio ci ha salvato e ha salvato il paese.» Caminetto acceso, famiglia, pianoforte a coda, tè […]. Solo povertà, baracche inabitabili, da animali. Perché? «Perché l’operaio, il contadino cileno sono flojos (fannulloni), non hanno voglia di lavorare.» Invitato, ho un incontro con alcuni membri della comunità italiana di Valparaiso, noti per aver fatto pubblicare a pagamento, su “El Mercurio” un’intera pagina di plauso alla Giunta militare e una petizione al governo italiano per il riconoscimento.

Interessante rilevare come Parise usi parole e concetti del pensiero marxista in voga in quel decennio tra Sessanta e Settanta - proletariato, sottoproletari - insieme ad altrettanti - popolo, poveri - patrimonio di una tradizione più antica, quasi ottocentesca, precedenti o comunque estranei all’ideologia marxista-leninista: rispolverati poi, per quei “curiosi” casi della storia, a partire dal cosiddetto “tramonto del comunismo” di fine anni Ottanta. La scrittura di Parise mantiene inalterate le sue caratteristiche di bellezza ed efficacia espressiva, di tensione etica e sentimentale: il tono è, inevitabilmente, cupo, plumbeo; le immagini mantengono nitidezza ed esemplarità; l’empatia dello scrittore è

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coinvolgente e pensosa. Indimenticabile l’immagine con cui tratteggia l’avvicinarsi del gruppo di donne piangenti, addolorate per la sorte oscura dei loro cari: i particolari, selezionati con incredibile cura minimale, sono messi a fuoco nel loro realismo simbolico e sentimentale, caricando la scena di una potente e suggestiva esemplarità: tornano alla mente le scene migliori del nostro cinema neorealista.

III.12

1975 New York Nell’ottobre del 1975, dopo lo “shock traumatico” rappresentato dal primo

viaggio del 1961, Parise tornò negli Stati Uniti, con l’intento di visitare nuovamente - e nell’occasione unicamente - la città di New York in qualità di inviato del «Corriere della Sera», sulle cui pagine la corrispondenza di viaggio apparve in una serie di articoli pubblicati fra gennaio e aprile del 1976235. Gli articoli furono poi riuniti in un singolo reportage dal titolo New York236 pubblicato nell’aprile del 1977. Nel primo capitolo, dal titolo Venice (Venezia), Parise s’inoltra subito nel cuore dell’orizzonte di viaggio che in tale frangente più gli sta a cuore: l’impatto del suo personale sguardo - che vuole essere immediata figurazione dello sguardo dell’umanità tout court - con la realtà, terribile e affascinante insieme, della città newyorkese: assurta da tempo a capitale mondiale del capitalismo; a centro di irradiamento del modello consumistico su intera scala mondiale; a faro neorinascimentale di un’egemonia tecnica - incarnata dal pragmatismo industriale - e culturale, veicolata dall’invasività delle

235 Goffredo Parise, New York, in «Corriere della Sera», 25 gennaio; 1°, 8, 15, 22 febbraio; 7, 23 marzo; 7 aprile 1976. 236 Goffredo Parise, New York, Venezia, Edizioni del Ruzante, 1977; [ora nel testo New York, in OPERE II, pp. 998-1053].

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merci; a centro di contagio di una trasformazione biologica virale; a porto di partenza di un’ennesima colonizzazione antropologica globale: Così la spirale si allarga: al vertice sta l’America o per meglio dire il way of life e tutto ciò che l’industria leggera americana produce: è importante l’industria leggera americana perché invade il cuore e le menti degli uomini in tutte le parti del mondo con la sua filosofia dell’utilità e della pratica, cioè della materia […]. Molte parti del mondo sono colonie dell’America, altre lo stanno diventando […]. New York è il cervello del vertice […], la marcia è inarrestabile e irreversibile […]. E la mutazione continua, l’erosione continua, alcuni caratteri del popolo italiano si fondono con quelli degli abitanti dell’America237.

Come già accaduto in altri reportage, anche nella decifrazione di New York Parise evoca, per risonanza, Venezia: non solo e non tanto per rivestire il luogo di viaggio di appartenenza esistenziale e di confidenza emotiva, quanto, per illuminare la sua città simbolo di una valenza epistemologica: New York come Venezia, l’una nel presente e l’altra nel passato, assurgono a modello esemplare di città fucine di trasformazioni socio-economiche, e di città esportatrici delle loro civiltà nel mondo intero: New York è, insieme a Venezia, la città più bella del mondo. Ci sono momenti e ore a Venezia, di luce perpendicolare o radente, priva d’ombre […], tale da apparire un oggetto prismatico e non reale, una sorta di astratto diamante trafitto da bagliori interni, puro oggetto di contemplazione. Sono i momenti in cui l’esteta tocca con mano il miraggio. Così New York produce effetti di estetismo puro, ma le somiglianze, le affinità elettive e storiche , non si fermano qui […]. La presenza di un porto con immensi traffici commerciali, la richiesta e l’offerta di manodopera […]. Un afflusso magmatico, disperato di e pionieristico di molte razze e gruppi etnici […], minoranze chiuse (Venezia ebbe il primo ghetto del mondo) […]. Entrambe le città nacquero su un’isola238.

Nel capitolo Horror vacui, lo scrittore si confronta e descrive quel sentimento angoscioso dell’orrore del vuoto (di radici, storia) che attraversa, nella città di New York in modo particolar, l’uomo americano: privo, com’è, di un retroterra di civiltà minimamente paragonabile a quell’europeo. Non solo: Parise ne indaga anche le

237 OPERE II, pp. 1004-5. 238 Ivi, pp. 1006-7.

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strategie di compensazione, con uno sguardo crudo e pietoso insieme. La scrittura di Parise tratteggia con lucidità le situazioni di sradicamento e le sue conseguenze, e i tentativi umanissimi di reazione e sopravvivenza dell’uomo americano, fornendone una rappresentazione a volte patetica, a volte crudele, a volte commossa: Ma se non c’è la storia, e la data del suo addio è recente anche da noi, non c’è terreno dove fabbricare la casa, non c’è la casa, non ci sono la moglie e i figli, non c’è la sedia dove stare seduti né l’uomo che siede: c’è il vuoto sotto il pavimento […]. E forse è bene così: ma produce [… l’horror vacui: sentimento che gli americani hanno scoperto dentro di sé in epoca relativamente recente, quando, con l’aiuto di Freud e di un esercito di sostituti, la struggle for life ha ceduto il passo alla struggle for identity. L’horror vacui americano, cioè la solitudine silente e assoluta […] è lo “stile” dell’americano medio […]. Ad ogni modo quando si sta qualche mese in una città come New York, noi, che portiamo ancora qualche traccia di vecchio vizio umanista, tendiamo a mettere radice[…]. Ma ci sono giorni in cui l’abitudine e la pigrizia riflessiva, retaggi dell’umanesimo, sono tenute lontane dalla ragione che non può permettersele e allora l’horror vacui investe anche noi come un terribile uragano […].

Improvvisamente, con un guizzo appena anticipato dalle riflessioni precedenti, Parise compie un vero e proprio tuffo nel profondo, in quel nucleo di esotismo e di senso dell’ignoto che, come un’oscura luce, rappresenta il cuore della sua esistenza di uomo e scrittore: Domande così fatte a sé stessi, durante l’uragano, si chiamano esotismo. Più o meno le stesse domande si posero nel secolo scorso Paul Gauguin, Arthur Rimbaud o qualche marinaio fuggiasco […] quando giunti a un certo punto della loro vita, salirono su un veliero e partirono verso isole sconosciute o si inoltrarono nel cuore dell’Africa nera dove scomparvero per sempre. Era l’esotismo, malattia che cominciò a contagiare l’uomo col nascere della civiltà industriale e in pochi anni è diventata la sua seconda pelle. A quei tempi, però, rappresentava un’alternativa reale al disgusto della civiltà, egli poteva, se voleva, trovare scampo nella natura o nel sogno dell’Eden. Mezzo secolo è bastato e il cielo è percorso da jets che non soltanto ci portano in quella stessa isoletta del Pacifico ma ci fanno trovare laggiù, una volta sbarcati, lo stesso disgusto da poche ore abbandonato. L’alternativa che si offrì al pittore e al poeta ci è preclusa per sempre. Non però il suo opposto; non sarà la contemplazione del paradiso terrestre, incontaminato e naturale, ma la degradazione dell’inferno contaminato e innaturale, cioè la nuova preistoria: in altre parole l’American way of life239.

239 Ivi, pp. 1018.

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L’illuminante passaggio testé letto, mette in evidenza un Parise che sta sì azzerando la prospettiva dell’esotismo classico - con una posizione peraltro fin troppo scontata - ma sta contemporaneamente rilanciando una nuova idea di esotismo, in cui l’esplorazione dell’ignoto non viene più percorsa verso luoghi sconosciuti rispetto a quello di partenza, ma, semmai, verso luoghi altri all’interno del mondo conosciuto, sia esso il mondo geografico o sia il mondo interiore dell’individuo: secondo un itinerario ormai verticalizzato in cui il luogo è tanto spazialità quanto spostamento temporale. Senza i toni spavaldi e goliardici, euforici, presenti all’epoca del primo viaggio del 1961, in questo nuovo viaggio negli States Parise propone l’alternativa di un immersione nella realtà contemporanea, quasi fosse una resa, praticata con il sentimento decadente dell’adesione al negativo. Sarà utile analizzare ora, nel capitolo Pornografia, quell’aspetto molto diffuso nella vita americana rappresentato dalla pornografia, che Parise considera un semplice consumo di merci - seppur particolari - fra tante altre, e che, paradossalmente, ma neppure troppo secondo la sua chiave di lettura, viene stimolato proprio dalla cultura religiosa del puritanesimo americano: La pornografia esiste, la pornografia è una morale, la pornografia ha uno stile. Il suo stile corrisponde […] alla cultura popolare di ciascun paese […] per cui la pornografia è nazionale, regionale, paesana […]. La pornografia è sempre esistita nel mondo, soltanto oggi è diventata un prodotto di immenso consumo come del resto molti altri prodotti. Infatti la morale del mondo cosiddetto occidentale è mercantile e permissiva […]. Qual è la morale della pornografia? Che essa ha pieno diritto di appartenere al mercato libero come ogni prodotto […]. Insomma la pornografia americana […] è il prodotto della Riforma […]. Il puritanesimo […] dice press’a poco così: «L’uomo è un angelo, la sua aspirazione è Dio, a cui somiglia e da cui deriva. Dio premia la sua aspirazione con il successo e il denaro ottenuto con il lavoro. Purtroppo però l’uomo ha dentro di sé non soltanto il bene, ma anche il male, non soltanto Dio ma anche il diavolo». E del diavolo ha, nel suo corpo, gli attributi: cioè il sesso […]. È necessario dunque trovare dei rimedi. Ve ne sono di santi, come il matrimonio, ve ne sono di meno santi ma utili, come il mercato […].» 218


E tra l’onnipotenza e la severità del Dio protestante e la pietas di un sacerdote in confessione la differenza è grande240.

Proseguo la lettura con il capitolo Consumare consuma: Consumare consuma: invecchia, degenera precocemente le persone umane, il pensiero associativo […]. Consumare non significa comprare, ma appunto consumare, cioè comprare oltre e ben oltre la necessità e oltre l’istinto che ha costituito nei secoli la seconda pelle dell’uomo: quella economica che provvede al sostentamento di quella fisica. Comprare secondo necessità ha come effetto la scelta e la scelta altro non è che la dignità della propria persona […]. L’attuale mercato di massa ha perduto la qualità […], in compenso ha guadagnato in quantità. Così l’uomo d’oggi si trova immerso in uno sterminato mercato […]. Questa è la degenerazione dell’uomo occidentale […]. E anche noi ci siamo ormai abituati a pensare che la “dignità” è costituita, anzi si confonde, con una sempre maggiore quantità di oggetti da comprare con una sempre maggiore quantità di denaro. Noi abbiamo dimenticato che la povertà non è un male come sostiene l’ideologia americana […]. Non si possono però comprendere le ragioni della corsa ai consumi in Italia se non spiegandola con la degenerazione degli italiani […]. Non è la lobotomia americana […], è invece un contagio, una specie di lebbra degenerativa dei caratteri nazionali apparso dopo quello che fu chiamato “il miracolo economico” […]. Il risultato è che la città di New York, bellissima anche per questo suo ventre mai sazio e sempre pieno, appare in certi giorni fissati e in certe ore della notte un immenso immondezzaio battuto dal vento, dove rifiuti e uomini si confondono, prefigurando l’immagine di tutte le città del futuro.

Nel passo appena letto, Parise delinea i caratteri degenerativi dell’ipertrofia consumistica americana, segnalandone al contempo il processo di penetrazione nella civiltà italiana, per poi concludere la sua considerazione proiettando l’immagine di New York in un mitologia negativa e insieme affascinante, e nell’esemplarità simbolica di città prototipo di tutte le future metropoli. Lo stile della sua scrittura tradisce una marca forse eccessivamente concettosa e didascalica, parzialmente inevitabile, che è però riscattata da fulminei scatti riflessivi, esemplari quanto suggestivi, e attraverso il consueto uso di immagini liriche rappresentative di una realtà o di una sua interpretazione.

240 Ivi, pp. 1022-1027.

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Concludo l’analisi del testo, con alcune riflessioni critiche di Gaia De Pascale, che a sua volta cita parzialmente Ilaria Crotti: Parise si ripropone di analizzare un «mito novecentesco in perenne trasformazione: quello di una città che, senza radici, fondata contemporaneamente sullo spreco e sulla solitudine di massa, sul puritanesimo e sul sesso, prefigura tutte le metropoli del futuro » […]. Certo, si prospetta un futuro per Parise paragonabile a un «immenso immondezzaio battuto dal vento» ma pare che, a conti fatti, la vera e più profonda «colpa» del Nuovo mondo sia stata e sia quella di aver contaminato la possibilità di un’alternanza autentica e di un’autentica via d’uscita, chiudendo il mondo in un artificio dal quale non si può più fuggire […]. L’inferno, quello vero, sarebbe non trovare più l’altro, specchiarsi e vedere nello specchio un volto al nostro non uguale, ma identico. Il pericolo esiste realmente, ma al di là delle visioni catastrofiche è chiaro che i sentimenti così forti e contrastanti riversatisi su questo paese nel corso del Novecento sono il frutto dell’immagine archetipica double face proiettata sull’America fin dai tempi di Colombo: Eden corrotto, purezza violata, paradiso perduto, girone infernale o eterea salvezza […]. Ma l’America non è un mito, e come tale non può infrangersi. Il futuro non è ancora stato scritto, e nell’Eden si nasconde sempre un serpente241.

III.13

1976 Roma (Suite romana) Nel 1976, Parise scrive un mini-reportage su Roma organizzato in cinque

articoli, pubblicati in marzo sul «Corriere della Sera»242 nella rubrica intitolata Suite Romana: Suite Romana è il titolo della rubrica tenuta da Goffredo Parise sul Corriere della sera (più precisamente sul Corriere romano) nel marzo 1976, qui raccolta in volume per la prima volta, e composta da cinque articoli: Roma (4 marzo), I romani (6 marzo), Intellettuali e artisti (8 marzo), Il cinema (13 marzo), la Chiesa cattolica (17 marzo)243.

Non più tardi di due anni fa, nel 2017, il mini-reportage veniva raccolto in un

241 Gaia De Pascale, Scrittori in viaggio. Narratori e poeti italiani del Novecento in giro per il mondo, cit., pp. 54-5. 242 Goffredo Parise, Suite Romana, in «Corriere della Sera», 4, 6, 8, 13, 17 marzo 1976. 243 Ludovica Del Castillo, Goffredo Parise: una città di papi e topi che insegna a vivere, in Roma, punto e a capo. La città eterna attraverso gli occhi di grandi narratori, a cura di S. Cirillo, Roma, Edizioni Ponte Sisto, 2017, p. 227.

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testo unitario dal titolo Suite Romana244, suddiviso come gli articoli originari in cinque capitoli, e, corredato dal saggio introduttivo Goffredo Parise: una città di papi e topi che insegna a vivere245 di Ludovica Del Castillo, dato alle stampe nel volume collettaneo Roma, punto e a capo. La città eterna attraverso gli occhi di grandi narratori curato da Silvana Cirillo. Prima di leggere alcuni passi tratti da questi brevi flashes su Roma, e di aver fornito un’adeguata interpretazione dei singoli capitoli, è necessario capire perché l’autore avvertì l’esigenza di comporre un piccolo scritto di viaggio sulla Capitale. Innanzitutto, intendiamoci sulla parola “viaggio”. Da subito ho considerato i reportage su Venezia del 1954 e su Roma del 1976 come due gemelli testuali: entrambi ambientati in città determinanti nella vita di Parise: veri e propri snodi esistenziali; entrambi situati in una zona franca fra lo scritto di viaggio e quello di luogo, dove il movimento spaziale è nell’uno ridotto e nell’altro assente; entrambi, altresì, protesi a piegare flânerie veneziana e vedutismo romano a pretesto per un movimento verticale attraverso il tempo: nel primo caso, il tempo storico di un ghetto secolare che accende a mo’ di innesco la creatività fantastica del reporter narratore: nel secondo, il tempo biografico del vissuto in una città millenaria che seduce lo scrittore con l’immersione interiore della ricognizione esistenziale, tanto più significativa quanto più ambivalente fu il suo rapporto con la metropoli. Infatti, in controtendenza eccentrica rispetto a tutti i reportage (Il ghetto di Venezia compreso) in cui la temporalità è risucchiata nell’attualità del presente (flânerie, viaggio, guerra) O tutt’al più protesa verso allusive incursioni utopiche nel futuro, in

244 Suite romana, in Roma, punto e a capo. La città eterna attraverso gli occhi di grandi narratori, cit., pp. 243-256. 245 Ludovica Del Castillo, Goffredo Parise: una città di papi e topi che insegna a vivere, cit.

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Suite romana semmai, il dispiegamento cronologico è inghiottito solo in apparenza e solo per un primo istante dall’occasionale contemporaneità: teso com’è a spostarsi nel passato per soddisfare l’intento nostalgico e memoriale di Parise, e a raffigurare la città con vedutismi atemporali di familiare simbolicità, che affrancano tempo trascorso e tempo presente attraverso l’allusione ad una visione di futuro astorico ed eterno, come eterna è da sempre definita l’Urbe. Sulla soglia dei cinquant’anni, il nostro autore sente il bisogno di tracciare il bilancio esistenziale del soggiorno capitolino e, al contempo, di sperimentare un nuovo genere di reportage: in cui il placamento dell’inquietudine non si invera più nel movimento presente, circolare e perenne della tensione sprigionata dalla narrazioneviaggio, bensì, nell’immobilità leggera, ammirata e limpida della contemplazione come fuga senza tempo scaturita da una narrazione-vedutismo. È una visione eccentrica - solo in parte retrodatata - rispetto alla poetica degli scritti di viaggio più recenti, che mi induce a definire Suite romana un reportage “anomalo”. A giustificare questo ritratto di uomo e di scrittore, che si volta a fare i conti col suo vissuto più recente; che ripiega, nostalgico, verso un assorto godimento memoriale; che cambia gioco, carte e rilancia la sfida alla sua inquietudine, tentando la sorte di una provvisoria serenità attraverso l’immersione nella disincantata e sorniona contemplazione: ecco, a render conto di tale scenario sussistono precisi contesti e condizioni nella vita dello scrittore. Va innanzitutto rilevato che Parise prese dimora a Roma nell’aprile 1960, proveniente dall’incubo milanese, e quando scriveva Suite romana erano trascorsi ben 16 anni da quel primo arrivo, cioè un periodo di stanzialità lunghissimo se si considera l’irrequieta mobilità residenziale dello scrittore. Ed è a Roma che entrò a far parte di un 222


fraterno e duraturo sodalizio di frequentazioni letterarie, alcune delle quali divenute con il tempo inossidabili amicizie personali: fra tutte, Alberto Moravia, Carlo Emilio Gadda, Elsa Morante, Natalia Ginzburg. Ed è sempre a Roma, che nel 1963 si rompeva il matrimonio con Maria Costanza Sperotti, e dove un anno dopo conosceva Giosetta Fioroni, colei che diverrà da quel momento la compagna di una vita, non l’unica ma sicuramente la compagna di riferimento. Dunque Roma rappresentò per l’autore un luogo-città speciale, fondamentale come lo furono Venezia e Salgareda: un posto con cui condivise le trasformazioni epocali del contesto storico mondiale; quelle profonde, e talvolta entusiaste talaltra annoiate e sofferte del contesto personale; e infine, quelle ideali - all’inizio utopiche e liberanti ma via via sempre più fosche e drammatiche - del medesimo contesto sociale e politico cittadino. Le condizioni di salute sono peggiorate: quelle fisiche, con l’aggravarsi dei problemi cardiocircolatori e respiratori - di cui il precoce vizio del fumo delle sigarette ne è una delle tragiche cause; quelle psichiche, con il ripetersi più frequente di crisi depressive, e di periodi di noia, umor nero, cupezza estrema; quelle “anagrafiche”, con un prematuro senso di invecchiamento e stanchezza originati, anche - per sua stessa ammissione - dagli anni traumatici trascorsi in guerra come reporter, e più in generale da una vita spesa senza tregua. Non meno travagliato è il suo stato d’animo esistenziale: incupito dal senso della solitudine, di fronte a cui pare capitolare rassegnato; angosciato - insieme a buona parte della società a lui coeva - dal lato oscuro dell’atmosfera rigogliosa del decennio Settanta, che la posterità - la nostra contemporaneità - ha definito in modo lugubre con l’espressione “anni di piombo”. Tutte queste ragioni, insieme ad altre, spiegano l’acquisto di una casa di 223


campagna a Salgareda, presso Ponte di Piave, in provincia di Treviso, una dimora incantata immersa nel bosco e subito eletta a nuovo e raro “luogo dell’anima”, dove Parise soggiornò e si rifugiò sempre più spesso in alternante pendolarismo con Roma. È il momento di leggere alcune essenziali schegge della sua storia biografica capitolina: 1960 In aprile si trasferisce a Roma con la moglie ed abita a San Salvatore in Lauro. Conosce Moravia ed Elsa Morante, La Capria e Gadda, con i quali stringe amicizia; frequenta l’ambiente letterario romano, Sandro Penna, Pier Paolo Pasolini e in seguito Natalia Ginzburg246. [Parise] aveva considerato il trasferimento come una boccata d’ossigeno, una rinascita nel segno della positività [come scrive] a Comisso il 17 gennaio 1961247. 1961 Acquista un appartamento in via della Camilluccia 201, nel quartiere di Monte Mario, a Roma. È Carlo Emilio Gadda, che abita nei dintorni, in via Blumensthil, a consigliarlo nella scelta. Parise attraversa un momento di esaltata felicità, che gli fa scrivere a Comisso: «Freneticamente vivo ciò che avevo voglia di vivere e che Milano mi aveva soffocato, ossia la fantasia. Ozio superbamente bene fingendo acuti ragionamenti e studi, litigo atrocemente con Mariola, m’intanto in questa Roma di papi e topi (sembra un rebus), m’imbuco nelle baracche e nelle stradine, guardo le nuvole che passano notturne sopra le cupole di questa città di Aladino, rapide e gonfie quasi di sangue, con un leggero ma costante fruscio come di marina. vivo insomma intensamente i giovani anni che restano nel modo che mi è congeniale, nell’estro e nel disordine dell’avidità, nel sogno e nell’avventura. Faccio il mercante persiano, il venditore d’acqua e di fumo, di fumate di zolfo e di decotti ipnotici, di lampadine magiche e incantesimi» (lettera da Roma del 17 gennaio 1961)248. Parise vede in Roma il luogo adatto per stimolare la sua fantasia e per liberarlo della noia che lo aveva soffocato nella Milano impiegatizia - quella trasfigurata nel Padrone249. 1963 A gennaio il matrimonio giunge a un punto di rottura […]. Accorata la corrispondenza con l’amico Naldini. In una lettera del 15 dicembre si legge: «Mi sento una specie di meteorite vagante nello spazio matematico, ma credo che sia una comune condizione dell’uomo pensante e

246 Cfr. la Cronologia in OPERE I, pp. L-LI. 247 Ludovica Del Castillo, Goffredo Parise: una città di papi e topi che insegna a vivere, cit., p.231. 248 Cfr. la Cronologia, in cit., p. LI. 249 Ludovica Del Castillo, Goffredo Parise: una città di papi e topi che insegna a vivere, cit., p.232.

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cosciente. Non ti dico cosa faccio, perché tutto quello che faccio è grattarmi alla ricerca di desideri che non ho. Anzi, per meglio dirti, mancando il sublime anelito che tu hai, la vita e la realtà per me non esistono. La cosa si trascina da molto, da troppo»250. 1964 «Vivo oziosamente […]. Ho pensato seriamente che, appena concluse le mie faccende, vorrei vendere e comprare casa e campi a Ponte e, con l’aiuto di Guido, fare il coltivatore diretto». Durante la primavera incontra Giosetta Fioroni, alla quale resterà legato per tutta la vita. Insieme frequentano un gruppo di pittori, poi denominato Scuola di Piazza del Popolo, che comprende, oltre alla Fioroni, Mario Schifano, Tano Festa e Franco Angeli. Nello stesso periodo conosce Nanni Balestrini, esponente del «Gruppo ‘63». E consulente a Roma della casa editrice Feltrinelli251. 1965 Il disagio interiore e il pessimismo dell’ultimo periodo non accennano ad attenuarsi. «Noia, noia fitta come nebbia» confida all’amico Naldini in una lettera del 27 aprile, «e la sensazione che le cose definitive, cioè il momento della dissoluzione interiore sia giunto. Infelicità. Non angoscia, ma pensiero e riflessione plananti come dal letto di morte sulla realtà»252. 1967 Nel 1967 Parise e Fioroni lasciano la casa di via della Camilluccia per trasferirsi nel quadrilatero dove Parise dice necessario abitare a Roma, se non si è romani: in via delle Zoccolette 11, in pieno centro storico, nelle vicinanze di Lungotevere e di Torre Argentina253. In marzo intraprende un lungo viaggio in Estremo Oriente: Thailandia, Cambogia, Vietnam del Sud […]. In seguito, richiamandosi a questo periodo, affermerà che il viaggio aveva rappresentato «il secondo (ma il più pesante) invecchiamento di tutta la sua persona» (Guerre politiche, Torino, Einaudi, 1976, p. 5)254. ‘70 Negli anni Settanta la permanenza di Parise a Roma è sempre meno costante: oltre ai suoi frequentissimi viaggi all’estero e ai reportage di guerra - che hanno spesso la funzione di placare la sua inquietudine - Parise passa la maggior parte del suo tempo a Salgareda255. 1970 Gli avvenimenti storici e la sua situazione psicologica ed esistenziale consolidano in Parise un tetro pessimismo. In una lettera del 26 febbraio a Giuseppe Prezzolini scrive: «Anche io sono un pessimista, come tu sai, e come ho

250 Cfr. la Cronologia, cit., pp. LII-III. 251 Ivi, p. LIII. 252 Ivi, p. LIV. 253 Ludovica Del Castillo, Goffredo Parise: una città di papi e topi che insegna a vivere, cit., p.232. 254 Cfr. la Cronologia, cit., pp. LIV-V. 255 Ludovica Del Castillo, Goffredo Parise: una città di papi e topi che insegna a vivere, cit., p.233.

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enunciato dal mio primo romanzo Il ragazzo morto e le comete, senonché la mia specie di pessimismo non ha origini strettamente speculative-morali, bensì quasi biologiche, anzi, per così dire, di casualità biologica: come dire che la natura, dispensatrice sciupona di vita, non guarda ciò che dà, non sceglie, dà soltanto. E noi viviamo in tanta e tale casualità del tutto a caso». All’inizio dell’estate soggiorna da amici a Ponte di Piave, nei pressi di Treviso: durante una cavalcata mattutina, verso la fine di agosto, si imbatte in una minuscola casa sul greto del Piave. Affascinato dalla sua collocazione, la compera e inizia subito un attento lavoro di restauro per restituire agli ambienti la loro originaria semplicità. «L’atmosfera, per quanto di pochi metri quadrati, era strana e felice: un piccolo Eden profumato di sambuco […]. Stavo sempre più spesso in quel luogo che riservava sorprese […]. Ero un uomo solo che viveva solo, felice e infelice come capita. Stavo a Roma ma sempre più spesso in quel luogo incantato dove l’ozio era popolato di compagnia animale, giorno e notte» (Veneto barbaro, «Corriere della Sera», 1° gennaio 1984)256. 1971 Il 17 marzo, a Milano, si ammala di nuovo molto gravemente […]. Nella primavera, accompagnato da Nico Naldini, riparte per un nuovo viaggio verso Oriente […]. Si ammala di nuovo. Ristabilitosi continua il viaggio […]. Rientra alla fine di giugno molto affaticato257. 1972 In ottobre Einaudi pubblica Sillabario n. 1. Scoppia ancora una volta un «caso Parise», che innesca una polemica dai toni accesi sul rapporto tra politica e letteratura, tra sentimenti privati e impegno sociale. Viene definito un «reazionario» […]. Si manifestano in lui profondi mutamenti interiori. Si accentua il sentimento della solitudine, anche se continua a viaggiare e a incontrare molte persone. Così lo ricorda Massimo Di Forti: «Detestava profondamente la banalità, tutti i luoghi comuni e le false certezze […]. C’era al fondo del suo carattere, una componente infantile che alimentava continuamente il suo gusto per l’anarchia; c’era, nello stesso tempo, un’amarezza dolente che esprimeva il suo sgomento per la sofferenza presente nella vita di ogni essere umano» (Disse no alla banalità, «Il Messaggero, 17 settembre 1986»)258. 1974 A partire dal 13 gennaio tiene una rubrica, a scadenza in genere quindicinale, sul «Corriere della Sera»: «Parise risponde», che durerà fino al 25 maggio 1975. Ne fa una sede di riflessione civile, non priva di spunti polemici. La sua prosa pungente denuncia le contraddizioni dell’ideologia e del moralismo, la vacuità del luogo comune. I temi trattati sono: il divorzio, il sesso, il consumismo, la pornografia, la scuola, i mass media, la politica, il femminismo e altro al centro dell’attenzione civile di quegli anni […]. In primavera gli viene diagnosticata un’ischemia coronarica. Continua però a condurre un tipo di vita che non lo metterà al riparo da successive gravi

256 Cfr. la Cronologia, cit., pp. LVII-III. 257 Ivi, pp. LVIII. 258 Ivi, pp. LIX.

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ricadute259. 1975 Il 13 febbraio riceve in Campidoglio, a Roma, il premio Gian Gaspare Napolitano per il reportage sul Cile. Nello stesso mese scrive la presentazione del dipinto Vucciria di Renato Guttuso per la mostra alla Galleria Toninelli di Roma260. 1976 Il rapporto con Roma, inizialmente spensierato, è poi sempre meno entusiasmante. Sintomatico di un atteggiamento abbastanza tipico di Parise: uno slancio seguito dalla sua perdita. Molti sono i progetti che lo scrittore inizia e poi abbandona, i buoni propositi non portati a termine. La noia e l’ozio fanno parte di Parise - tanto da dare il titolo a due racconti del Sillabario n. 2 - ma, se non si trova nel giusto mood, questi due tratti del suo carattere diventano per lui spesso un macigno difficile da sostenere, che ingrigiscono anche i ricordi legati al presente. Si legge sul suo diario inedito, alla data del 13 gennaio 1976: «Stanotte svegliato alle quattro e mezzo fino alle sei e mezzo. Anziché lasciarmi andare a cattivi e tristi pensieri mi sono incazzato con Roma, stando ai fatti. A Salgareda dormo, qui no. Che ci sto a fare a Roma? In quindici anni non una sola emozione, una vera gioia, niente. Amici? Mah! Due veri drammi della mia vita: l’ozio e il fumo. l’uno mi perseguita dalla nascita, l’altro dall’età di 13 anni e so quanto sia dannoso per me. Ma vanno d’accordo, purtroppo. Quando lavoro lo faccio rapidamente, senza intoppi, e poi ozio. E nell’ozio fumo.» E poi in una lettera a Omaira Rorato, del 15 maggio 1976: «Vuoi che ti parli di me; primo, ho nostalgia del Piave, che nasconde un altro tipo di nostalgia che non voglio e non posso permettermi di avere: la nostalgia per qualche cosa che ricordo vagamente ormai, cioè la mia terra, la patria delle mie prime emozioni. In sedici anni che sono a Roma, emotivamente, poeticamente ho ricevuto ben poco. Direi niente. Questo mi dà una sensazione di vuoto, di svuotamento (del sacco espressivo) e al tempo stesso una certa qual impazienza che non so di che natura sia: è certamente espressiva, ma se il sacco è o mi appare vuoto (ma non è) finisce che non lavoro»261. Interviene sul «Corriere della Sera», in un primo tempo, a partire dal 4 marzo, con alcuni brevi flashes su Roma intitolati Suite romana, sottolineando l’importanza che la città ha avuto nella sua formazione umana e poetica262.

Abbiamo dunque concluso la ricognizione del contesto biografico romano di Parise, e il quadro che ne emerge conferma le osservazioni che avevamo anticipato. Tuttavia, sia il tono che le considerazioni finali dello scrittore lasciano perplessi ancora una volta, tanto più in quanto suonano contraddittorie rispetto alle precedenti

259 Ivi, pp. LX-XI. 260 Ivi, p. LXI. 261 Ludovica Del Castillo, Goffredo Parise: una città di papi e topi che insegna a vivere, cit., pp.233-4. 262 Cfr. la Cronologia, cit., p. LXII.

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descrizioni del suo vissuto capitolino. Non mi riferisco ai sin troppo evidenti aspetti caratteriali e psichici della pigrizia, della rabbia, della cupezza, della noia, della solitudine che emergono prepotenti nel diario e nella lettera: a quest’altezza della tesi, sappiamo che fanno parte della genetica esistenziale dello scrittore, sempre: con l’unica eccezione dei periodi profusi in viaggi o guerre. È questo accanimento poetico, emotivo e relazionale contro Roma che ci rende disorientati: perché, senza contare la netta contraddizione con quanto dichiarava nel 1961 un anno dopo il suo arrivo nella Capitale: «freneticamente vivo ciò che avevo voglia di vivere e che Milano mi aveva soffocato, ossia la fantasia. Ozio superbamente…», suona incredibile che Parise accusi la città di aver tarpato le sue ali creative e insieme soffocato le sue esigenze emozionali e sentimentali, procurandogli inevitabile conseguenza - noia, senso di vuoto esistenziale e artistico, solitudine. La realtà lo smentisce clamorosamente. È un memorabile falso d’autore: dal quale, peraltro, avevo già messo in guardia criticamente nel corso del presente lavoro. Parise è uomo spiccatamente umorale: e, in particolare nei suoi momenti atrabiliari parola che va intesa senza equivoci come “rabbiosi e foschi” e non come “malinconici”, racconta delle mezze verità, o, per meglio dire, distorce la verità delle cose secondo il suo transitorio, torvo e tetro stato d’animo. Per quanto semplice possa sembrare, è questa la spiegazione. A Roma lo scrittore costruisce un sodalizio letterario e amicale che rimarrà fedele, presente e affettuoso sino alla fine dei suoi giorni - pensiamo per esempio a Moravia, che andrà a fargli visita poco prima della morte. Sempre a Roma, Parise scrisse il Padrone, seppur poeticamente riferito e 228


pensato a Milano; quasi tutti i reportage più importanti, famosi e poetici; moltissimi racconti; i due Sillabari: insomma, tutte quelle opere che, includendo anche Il ragazzo morto e le comete, La grande vacanza e Il prete bello, sono state riconosciute dal pubblico e dalla critica come quelle più riuscite: quelle che hanno sancito la sua appartenenza alla schiera dei classici del Novecento. Chiarite dunque le discrasie emerse con le dichiarazioni dello scrittore, cominciamo finalmente a leggere il reportage dal suo capitolo iniziale, intitolato Roma, accostando al testo - sia nel primo che nei capitoli successivi - le spiegazioni critiche mie personali e della saggistica: Roma I flutti dell’emigrazione, con le maree, mi hanno portato a Roma, dove abito, alternativamente, dal 1960. Per essere più precisi i flutti dell’emigrazione intellettuale che porta sempre là dove ci sono altri intellettuali, così come porta braccianti là dove ci sono altri braccianti. Ma mentre l’emigrazione di braccia va da sud a nord, per quella intellettuale accade il contrario; così si può dire che di tutte le città italiane quella che raccoglie […] il maggior numero di braccianti intellettuali, questa è Roma. Il perché non si sa bene, forse dipende dal fatto che la paura intellettuale o artistica […] sfugge il torchio della produzione industriale e affini, a cui dovrebbe sottoporsi al Nord. Sotto questo aspetto gli intellettuali italiani che stanno a Roma hanno l’aspetto di nomadi, appartenenti a piccole tribù […]. Per quanto mi riguarda sono nato nel Nord dell’Italia, nel Veneto, e pure non rinunciando alla mia regione, cioè alla mia patria, considero Roma la città della mia formazione, se non poetica, certamente pratica. Perché? Cercherò di spiegarlo ai lettori romani in una serie di capitoletti […] Capitai a Roma la prima volta verso i diciotto anni, nel 1948, dopo circa ventidue ore di treno, sempre in piedi. Un barbiere romano che stava appiccicato a me nel corridoio mi offrì per ben sei volte panini non si sa come freschissimi, imbottiti con magnifico prosciutto. Ricordo ancora oggi molto bene quel barbiere e anche i panini […] e ricordando anche quei sei panini capisco perché oggi abito a Roma. Difficilmente una cosa del genere sarebbe accaduta nel mio Nord. Forse sarebbero arrivati a due panini, non oltre. Vi capitai per due giorni, abitavo nel quartiere Bologna e la prima impressione fu di trovarmi in Tunisia, in Algeria. Poi vi tornai molte altre volte finché presi casa. Ho già avuto modo di dire che Roma è un suk, cioè un grande mercato, un attendamento perenne di uomini, idee, religione, poteri politici. La tenda inamovibile è san Pietro, ma è una tenda[…]. Il vociare è perenne, come perenne è il rumore […]. Tra tende e tende si ergono i monumenti […], essi testimoniano […] una decadenza storica politica e geografica che dura 229


ininterrottamente da duemila anni. Intorno alle tende del mercato per una grande estensione si espandono le periferie, quali ricche per i pascià e gli sceicchi, quali povere fino a perdersi nei rivoli di casupole, baracche, buchi, anfratti e di liquame dell’acquedotto Felice. Si dirà che descrivo Roma e i [errata corrige: ai] romani ma debbo farlo in parte dal vero in parte attraverso la metafora perché solo così posso trasmettere l’impressione di uomo del Nord che ho avuto e ancora ho di Roma. E poi lo devo fare per spiegare la ragione per la quale anch’io ho piantato la mia tenda (mobilissima) e mi sono messo a vociare ed esporre le mie mercanzie. Ho scelto di stare a Roma perché questa città, nel suo vociare, nel suo odore di cuoio e di sterco di cavallo e di cucine all’aperto, nei suoi cumuli di mercanzie, dalle pietre preziose agli stracci è […] la città che rappresenta meglio quello che gli stranieri chiamerebbero il fenomeno Italia, poi perché […] è la capitale, infine perché è la città italiana più libera e viva che io conosca. Anche Venezia un tempo doveva essere così, ma ora è morta e dunque non è né libera né asservita. Infatti è silenziosa; di sera, se uno parla, si sentono gli echi. Ho abitato un anno in piazza San Salvatore in Lauro […], poi ho traslocato in via della Camilluccia […] per tredici anni, che però a un certo punto mi dava l’impressione di essere alla periferia di Varese. Allora sono tornato a Roma, in pieno centro del mercato e lì ho piantato un’altra tenda, ancora più piccola, in via Vittoria, che guarda il Corso: più traffico di così non potrebbe esserci. Ora sono profondamente convinto da non romano, da nomade che se si vuol stare a Roma, e si vuole e vedere e toccare i prodotti del mercato non si può altro che stare in centro e per centro mi riferisco a un quadrilatero molto ben preciso che ha come direttrice una linea retta che va dal Colosseo a piazza del Popolo. È lì dentro che sta il mercato. Per uno che non è romano il mercato è molto importante, per vedere […] come vanno le cose […] e cercare di capire la lingua del mercato e tradurla e lasciarne forse qualche documento come un tempo facevano i certosini. I romani questa lingua la conoscono da millenni e non la stanno nemmeno a sentire, parlando invece di cose che interessano loro e le loro famiglie, ma questo è argomento del prossimo capitolo. Corriere della Sera, 4 marzo, 1976263.

Il sipario è ormai tutto alzato, e all'istante Parise mette piede sul palcoscenico nelle consuete vesti di inesausto viaggiatore: o per meglio dire, di navigante intellettuale trasportato dalle maree della cultura. Proseguendo per metafora - tale è, e a confermarcelo è lui stesso, il suo sguardo verso la città - lo scrittore approda nella sua isola del tesoro, Roma, italica sede del regno dorato della cultura che richiama i

263 Goffredo Parise, Suite romana, in Roma, punto e a capo. La città eterna attraverso gli occhi di grandi narratori, cit., pp. 243-246.

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migranti intellettuali. La scrittura adotta il ritmo solito, lento, ma nel nostro caso non sinuoso; il tono dell’umore risulta calmo, sereno, disteso; lo sguardo del reporter prende corpo in descrizioni un po’ didascaliche ma colloquiali, familiari. Il nostro autore, a volte indossa i panni di un ipotetico sociologo del lavoro, che discorre con parole ed espressioni quali «braccianti», «l’emigrazione di braccia va da sud a nord», «produzione industriale»; altre volte, veste quelli dell’esploratoreetnologo-antropologo, che conversa con vocaboli come «nomadi», «tribù», «suk», «mercato», «attendamento», «pascià», «sceicchi», «sterco di cavallo», «mercanzie», «pietre preziose», «Tunisia», «Algeria»; altre volte ancora, mette gli abiti di antropologo contemporaneo, di flâneur dei nostri giorni che girovaga in quartieri eleganti e rispettati («quartiere Bologna») come pure in luride borgate sottoproletarie («baracche, buchi, anfratti e di liquame dell’acquedotto Felice»). Non a caso, con lo sguardo dell’esotico esploratore fa di nuovo la sua comparsa il lemmario della fantasia sognante, cui vanno ascritte le seguenti voci: nomade, tribù, suk, tenda/attendamento, pascià, sceicchi, pietre preziose, Tunisia, Algeria. Parise inoltre, nel descriverne la città, dichiara di rivolgersi ai romani come destinatari primi («cercherò di spiegarlo ai lettori romani»), e tale scelta di un interlocutore privilegiato e circoscritto territorialmente rappresenta una novità assoluta comunicativa e poetica - nella sua intera produzione di reportage: a conferma del carattere deviante di Suite romana. È un’opzione narrativa che trova spiegazione in due motivazioni: confessare il suo debito di riconoscenza verso la città, che lo spinge a ad affermare «considero Roma la città della mia formazione, se non poetica, certamente pratica»: la platea privilegiata dei lettori aumenta la confidenzialità, e la confidenzialità, 231


di pari passo, la sincerità della confessione; le seconda motivazione è, invece, il bisogno di comunicare le impressioni personali di Roma insieme ai motivi dell’elezione a città di residenza attraverso una visone metaforica, straniata da uno sguardo “altro” in quanto diverso per provenienza territoriale. La difformità del testo emerge poi eloquente nella descrizione bozzettistica del viaggio in treno con il barbiere, dove fa la sua comparsa - caso rarissimo in Parise - il registro ironico, modulato con impassibile leggerezza “inglese” («Difficilmente una cosa del genere sarebbe accaduta nel mio Nord. Forse sarebbero arrivati a due panini, non oltre») e persino declinato nella forma di autoironia regionalistica («Difficilmente una cosa del genere sarebbe accaduta nel mio Nord»): diffusa per tutto il testo, comunque, è rintracciabile una lieve tonalità umoristica, o quanto meno di controllata allegria, intrecciata nel tessuto linguistico e figurativo. Segnalo inoltre, concentrata in un singolo periodo del discorso, la triplice ricorrenza del lemma perenne, che con enfasi linguistica contrassegna l’identificazione fra Roma e il suk di una città araba con i tratti di un luogo senza storia, eterno, come «ininterrotta» è la presenza decadente dei monumenti, in contraddittorio contrappunto con la vitalità e la rumorosa vivacità del mondo romano-orientale. In conclusione, emerge un’immagine solare, forse meglio dire luminosa, sicuramente tersa e un po’ decadente di Roma, vivace e sonora ma insieme attonita e sorniona: un luogo di contemplazione lieta, pacifica, ironica. È decisamente un reportage anomalo: e i conti non ci tornano proprio tutti. Prima di continuare con il testo, esaminiamo cosa ne scrive la studiosa Ludovica Del Castillo nel suo saggio di accompagnamento: Potremmo quindi considerare la Suite romana come il personale minireportage di Parise su Roma, genere non nuovo per lo scrittore, pubblicato nella 232


formula “a puntate”, in cui viene affrontato di volta in volta un tema rilevante per la sua “formazione”: la scelta dell’argomento trattato risulta quindi significativa, ancor prima del contenuto del testo. Inoltre stupisce che i destinatari privilegiati di questo reportage su Roma siano i romani stessi […], e non lettori lontani centinaia - se non migliaia - di chilometri. Ciò che qui conta è lo sguardo del diverso […]. Crediamo che Parise intenda la metafora nella sua accezione più ampia, nel senso di traslato; tanto più che sempre forte è stata in Parise la capacità e la volontà di trasferire su un piano narrativo le questioni del presente. Nella Suite Roma è spesso sia un pretesto per intervenire sul contemporaneo, sia un modo per tornare a sé, attraverso l’osservazione della Città che, per osmosi, è diventata parte di Parise: nella rubrica si intravedono riflessioni di carattere generale, mescolando la critica alla realtà storica con la narrazione personale e autobiografica […]. La prima volta che Parise visita Roma, nel 1948, già durante il viaggio di andata ha la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di diverso e di misterioso: di esotico […], un esotico-romano che avvolge la città. L’esotico prende il sopravvento sia formalmente - adottando la forma-reportage a puntate, comunemente utilizzata per argomenti lontani al lettore sia nello spazio che nel tempo - sia contenutisticamente, paragonando spessissimo Roma a un suk e sottolineando gli elementi caratteristici della città con un atteggiamento quasi antropologico264.

Proseguo la lettura con il secondo capitolo del reportage, dal titolo I romani: I romani I romani mi hanno insegnato a vivere. Mi hanno insegnato che la vita è una cosa che si tocca, si mangia e si beve, che è una cosa materiale e “politica”, che non si ispira mai in nessun caso a principi inflessibili, a punti fermi. Essendo la vita una cosa materiale e giornaliera, deperibile come la carne fuori dal freezer, essa può essere soggetta a continui mutamenti e soggettivi e oggettivi […]. “Ideologico” non è una parola che si attaglia molto ai romani; Maurizio Ferrara giorni fa su questo stesso giornale ha fatto un’orazione demo-ideologica su Roma in risposta a Natalia Ginzburg, ed è strano perché Maurizio Ferrara è molto romano […]. Naturalmente Maurizio Ferrara potrà dirmi che, al contrario di quanto io penso dei romani, molti romani sono ideologizzati […]. Va bene, è giusto, naturale e umano che lui lo dica, io però non ci credo. Ripeto che l’osservazione dei romani e i romani che ho conosciuto, molti, moltissimi, non hanno natura ideologica semplicemente perché hanno soprattutto natura pratica e materialistica. Si dice che non è bene generalizzare che non è né “approfondito” né “corretto” ma io invece generalizzo perché ho sperimentato che si può farlo, naturalmente dopo aver ben riflettuto, e senza sbagliare troppo. Il materialismo dei romani assomiglia a quello dei gatti, che sono molto romani per temperamento e per simpatia. I gatti stanno fermi quando non hanno il loro da fare per il cibo. Stanno fermi e di solito ronfano e fanno finta di dormire,

264 Ludovica Del Castillo, Goffredo Parise: una città di papi e topi che insegna a vivere, cit., pp.227-9.

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ogni tanto aprono un occhio, un occhio assolutamente sveglio e si guardano intorno. Quella rapidissima occhiata serve a far capire ai romani, in una frazione di secondo, se è il caso di muoversi oppure no. Se non è il caso richiudono l’occhio e riprendono a dormire o a fingere di dormire. Si muovono solo se un camion sta per investirli […]. Allora, o si arrabbiano giustissimamente oppure trottano via […], tornano a chiudere gli occhi. I romani sono grandi conoscitori di uomini perché, appunto, ne hanno viste tante durante i secoli. Sapevano, sanno e sapranno sempre tutto per questa loro dote, non di preveggenza o di particolare velocità di intuito ma semplicemente di pratica. C’è un negozio di abbacchi e polli a Roma, all’inizio di via Ripetta. Il proprietario si chiama Serpilli, un ex campione italiano di boxe. In negozio, c’è sempre la moglie e spesso la madre […]. Sono due donne opulente e nell’insieme è una tipica famiglia romana da cui sono affascinato. Ma c’è qualcosa di più romano ancora, di romanissimo, c’è l’anima di Roma nel modo con cui Serpilli pulisce i polli e taglia e pulisce gli abbacchi. Egli palpa il pollo, lo soppesa, poi lo appoggia sul banco di marmo dopo averlo decapitato e tagliate le ali e le zampe. Infine gli fa un taglio sul sedere e comincia a pulirlo. Infila la grossa mano da pugile dentro il pollo e fruga. Frugando pensa e il suo sguardo non si posa sul pollo, ma al di là della vetrina, non si sa dove; pensa, frugando e pensando allo sguardo affiora una lieve ebbrezza, una beatitudine. Ma quel gesto, quella mano dentro il pollo fino al polso che fruga dolcemente e lentamente è il gesto più romano che io conosca. In quel gesto c’è tutta la pratica di vita materiale dei romani, la realtà della vita, l’idea (non l’ideologia) della vita e perfino della storia e della filosofia della storia. Di romani come Serpilli ce ne sono molti tra i bottegai, gli artigiani di Roma. Hanno anche loro quell’attimo, quella pausa mentale, che forse soltanto Alberto Sordi saprebbe rifare. È un attimo che per me è e sarà sempre una lezione. Corriere della Sera, 6 marzo, 1976265.

Approcciamo ora il testo a parti invertite, lasciando prima la parola interpretativa alla Del Castillo: Il secondo capitolo, I romani, si inserisce in una polemica sviluppatasi sul Corriere romano in seguito a un articolo di Natalia Ginzburg a commento del libro Contro Roma, comparso invece sull’edizione nazionale del quotidiano. Tra gli interventi […] vi è anche quello di Maurizio Ferrara […]. Il brano I romani - e forse l’intera Suite - andrebbe dunque collocato nell’ambito di un dibattito più ampio, allora in corso, sul degrado della Capitale e dei suoi abitanti. È poi interessante notare il paragone dei romani con i gatti, che crea un ponte tra il mondo umano e quello animale, dominato dall’istinto. In questi passi riecheggiano le teorie darwiniane care a Parise: i romani sono quello che sono, e lo sono per una spinta alla sopravvivenza alla storia266.

265 Goffredo Parise, Suite romana, in Roma, punto e a capo. La città eterna attraverso gli occhi di grandi narratori, cit., pp. 246-249. 266 Ludovica Del Castillo, Goffredo Parise: una città di papi e topi che insegna a vivere, cit., p.229.

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Il capitolo è una successione di istantanee, una sequenza rallentata di scatti fotografici della vita di Roma e dei romani: un polittico assolato e ameno, articolato in quadretti cittadini pigri, statici e sornioni come i suoi gatti. Nella prima istantanea lo scrittore ribadisce il suo debito di riconoscenza verso la città, che lo ha addestrato nella difficile arte della vita, del saper vivere: un addestramento esistenziale che gli si rivela come un fenomeno pratico, materiale, quasi materico oseremmo dire, paragonato alle azioni vitali del bere e del mangiare. Trovo pertinente estendere anche a questo passo lo spunto critico che la Del Castillo suggerisce circa il paragone fra i gatti e i romani, che il nostro autore propone appena due istantanee dopo: « È poi interessante notare il paragone dei romani con i gatti […], in questi passi riecheggiano le teorie darwiniane care a Parise: i romani sono quello che sono, e lo sono per una spinta alla sopravvivenza alla storia». È corretto questo spunto, che attesta dunque che per lo scrittore, ma senza seriosità né assolutismi, l’arte della vita è materiale e “fisiologica” come i processi biologici e genetici della darwiniana lotta per la vita: forse, volendo osare un po’ con un livello critico ad esponente, quella di Parise è una spiritosa e autocritica deformazione del darwinismo sociale dell’Ottocento e della sociobiologia novecentesca. Nell’istantanea successiva, Parise esordisce dichiarando la parola “ideologia” espressione e concetto non pertinenti - dunque non attribuibili - alla natura dei romani: lo spunto gli è dato da un dibattito sviluppatosi in seno alle pagine del Corriere nazionale e Corriere romano, di cui dà conto il passo critico della De Castillo poc’anzi citato: con la quale concordo sull’esigenza di inquadrare il capitolo presente, e l’intera Suite, dentro il contesto storico-politico di un dibattito giornalistico incentrato sullo stato degradato della città di Roma; ma dalla quale dissento, circa l’esclusività attribuita 235


a tale prospettiva critica. Nel mini-reportage su Roma, lo scrittore sta mostrando una visione della città sì straniata, ma ottenuta con un processo sottrattivo, per assenza potremmo dire, tale da restituire un luogo percepito come ordinario, apparentemente senza scosse, senza brivido (il frisson): dove le scariche elettriche creative e riflessive sono appena percettibili. È una linea nuova quella che inaugura Parise: successiva ai reportage di guerra visionari e apocalittici, la Suite, in una certa misura riprende il filo dei primi scritti precedenti Cara Cina; per un altro verso anticipa L’eleganza è frigida, dove però la sobria tonalità contemplativa verrà appesantita dalla leziosità e dall’estetismo proprie di una certa poetica e produzione dello scrittore. Parise dissimula bene, e ci sta menando un po’ po’ il naso. Prima di concludere l’indagine del secondo quadrettino, sottolineo la presa di posizione in difesa dei letterati che, spesso, sono anche suoi amici: nel caso di specie, di Natalia Ginzburg; è un atteggiamento di protezione verso i suoi amici-colleghi che conferma - diversamente da quanto dichiara lo scrittore nel suo diario e nella sua corrispondenza - l’importanza esistenziale che Roma assunse nella sua vita anche sotto i duplici, ma di frequente simbiotici - profili affettivo e letterario. La terza istantanea è un dipinto vedutista, dove romani e gatti sono le figure protagoniste e quasi uniche. La tonalità poetica riemerge discreta, e il tono emotivo è quello dell’umorismo, che già conosciamo come rarissimo in Parise. Anche per questo passo, intessuto dell’insistito e creativo paragone, vale quanto già ricordato dalle osservazioni critiche della Del Castillo che evidenziano la propensione dello scrittore per le teorie darwiniane: a margine, rilevo che l’espediente poetico della comparazione con il regno animale è in Parise precoce, frequentissimo ed esteso a tutta l’opera senza distinzioni di genere; semmai, è la scelta del gatto come 236


animale di paragone a risultare una novità quasi assoluta, tanto più, poi, in quanto la sua presenza nel testo viene reiterata ed enfatizzata narrativamente: a segnalare, una volta in più, la voluta identificazione, da parte di Parise, del proprio vissuto con quello di Roma, non a caso celebre, fra tante ragioni, per l’immancabile e sorniona cittadinanza di popolose colonie degli enigmatici felini. La successiva istantanea, esigua nel suo ritrarre poche cose, persone, fenomeni, tributa un rinnovato, riconoscente omaggio esistenziale alla pratica e materiale sapienza di vita dimostrata dal popolo romano: ad ulteriore conferma della consonanza spirituale, leggera e sorridente, che lega lo scrittore al suo luminoso luogo di residenza. La quinta e ultima fotografia, rappresenta nel suo incipit il bozzettistico quadretto di giornaliera attività lavorativa di un nucleo familiare, esercitata da madre, figlio e relativa moglie nella loro bottega di macelleria situata in pieno centro metropolitano, in via Ripetta. Parise identifica il proprietario della bottega in un tale di nome Serpilli, e ne ricorda i suoi trascorsi di ex campione di pugilato, all’epoca lo sport maschio e violento per antonomasia: la cui connotazione brutale, associata a quella da sempre animalesca e sanguinolenta del macellaio che squarta noncurante abbacchi e polli, conferisce all’intera ambientazione un’atmosfera comicamente truce, minacciosa e inquietante. Lo scrittore ammette il fascino che prova per quella ristretta famigliola tipicamente romanesca, le cui figure femminili - secondo una canonica tradizione folcloristica - sono giunoniche e fiorenti: dove Parise, invece, scrive il densamente polisemico «opulente», a suggerire, in poetica simbiosi, i tratti di fisica prosperosità, di spirituale rigogliosità, di economica agiatezza. Lo sguardo del reporter prosegue oltre, soffermandosi sul particolare di una 237


scena che la sua penna definisce «qualcosa di più romano ancora, di romanissimo»: gli occhi si trasformano in cinepresa, quindi inquadrano lo spettacolo - che si rivela già “straniato”, rallentato e attraente - del proprietario che pulisce prima e squarta dopo abbacchi e polli, e infine filmano - zoomando - il dettaglio più simbolico di tutto lo scenario: la beatitudine pensosa di Serpilli mentre la sua mano fruga dentro il pollo per ripulirne il corpo dalle viscere. La rappresentazione restituisce, tutta intera, una visione ipnotica ed estasiata. Nell’analisi del testo Questa è la Russia di Krusciov, avevo evidenziato alcuni passi del reportage russo il cui registro echeggia in modo ineccepibile corrispondenti figurazioni de Il pasticciaccio di Gadda. Per ragioni altrettanto attinenti, rilevo in tutta la descrizione dell’attività della bottega da macellaio un analogo registro che riprende le medesime visioni gaddiane: nello specifico, quelle che tratteggiano il mercato romano di piazza Vittorio durante il Ventennio fascista: «gentili anatomie di capretti spellati, rosso bianche, il codonzolo appuntito… Le donne, le polpute massaie… Polponi semoventi, esse ambulavano a fatica». Con le seguenti uniche differenze: una maggiore lentezza dello sguardo cinematografico e della corrispondente scrittura, in Parise; la maggiore vivacità della corale vita cittadina, in Gadda; ma soprattutto, il carattere straniato della visione che in Gadda è allucinata e grottesca mentre in Parise risulta ipnotica ed estasiata. Da un punto di vista biografico, è opportuno rammentare che Gadda rappresentò uno dei primi sodalizi letterari e amicali del nostro autore appena giunto a Roma, peraltro di una tale immediata ed empatica affettuosità che fu lo stesso ingegnere-letterato a convincere Parise a trasferirsi dalla casa di San Salvatore in Lauro in via della Camilluccia, proprio nei pressi della sua; e a cui succedette, per tantissimi 238


anni, una frequente condivisione di pranzi, visite, regali, gite in macchina, chiacchierate. Da ultimo, nella progressione descrittiva di questo quadretto non posso non rilevare l’uso del modello, già in precedenza spiegato, per condensazione, o movimento a valanga, analogo - con modalità più schematica - alla tradizionale figura oratoria del climax. Terzo capitolo, Intellettuali e artisti: Ho già detto nel primo capitoletto di questo concertino romano che sono giunto a Roma sui flutti […]. Gli intellettuali sono uno sparuto gruppo in Italia, fatti di alcune persone in provincia, di un gruppetto a Milano e di una più folta carovana a Roma. Essendo una carovana, naturalmente c’è il buono e il cattivo, ci sono intellettuali veri e intellettuali falsi che però a poco a poco possono anche passar per veri a Roma. Basta dirlo forte, a voce altissima, strillando e con parole incomprensibili. Gli intellettuali che stanno a Roma per la più parte non sono romani […]. Il solo scrittore nato a Roma è Moravia, ma è come se non lo fosse perché natura ed educazione hanno fatto di lui un cammelliere vagante […]. Quasi tutti gli altri invece, me compreso, sono stranieri ed emigranti. Ci sono stati scrittori emigranti che a un certo momento della loro vita hanno compiuto un vero e proprio lavoro di mimesis, ambientale e linguistica, a cominciare da Carlo Emilio Gadda e a finire con Pier Polo Pasolini […]. Ad eccezione di Moravia, che vive a Roma come vivrebbe a New York, molti si fanno tra di loro musi e dispetti, ma questo è naturale […]. Le loro case dicono molto. Quella di Moravia è, come egli stesso l’ha descritta, completamente anonima […]. Così era anche la mia quando abitavo a via della Camilluccia. Non così quella di Guttuso, che è un palazzo di principe, appunto, siciliano […]. La casa di Natalia Ginzburg può sembrare romana […] ma non è: all’interno è non soltanto piemontese e un po’ austriaca ma molto di più […]. La casa di Pasolini all’Eur era, come la mia, abbastanza anonima […]. La casa di Gadda, in via Blumensthil a Monte Mario era il massimo dell’anonimato […]. Tra i pittori più romani sono Franco Angeli, Mario Schifano e Tani Festa […]. Sono tre “lenze” come si dice e non c’è bisogno di spiegare ai romani cos’è una lenza. Quelli, anche se ce l’hanno, è come non avessero una casa: quelli sono veramente gatti romani […]. Hanno, in tre diversi modi, molto talento e sono forse, insieme a Giosetta Fioroni, altra romana pigra e sentimentale, i soli ed ultimi a dipingere su delle tele […]. Ai tre gatti, se non forse in giovane età, non è mai mancato il polmone […]. Tutto questo fin qua scritto sugli intellettuali e sugli artisti romani o abitanti a Roma, darà l’idea al lettore non di un’accademia, ma di un paese della provincia di nome Italia […]. La retorica, la vanità di alcuni intellettuali veri o falsi (più falsi che veri) vorrebbe presentare al nostro paese, cioè anche ai lettori, una cultura paludata, una cultura, insomma, in divisa da cultura […]. Per quanto ne so io, i migliori fra gli intellettuali che stanno a Roma sono semplicemente e forse casualmente italiani: hanno coscienza di sé, ma anche dei loro limiti geografici, storici, politici e linguistici. Non suppongono né vogliono essere all’avanguardia di nulla se non di una coscienza critica che è stata in passato, è, e sarà in futuro la sola salvezza del Paese. Sono però, come dice Moravia, quattro gatti. 239


Corriere della Sera, 8 marzo, 1976267

L’indagine di Ludovica Del Castillo dedicata al terzo capitolo, pone in evidenza il contesto culturale di due polemici dibattiti intellettuali intercorso sulle pagine del «Corriere della Sera», in cui lo scrittore - solitario o in solida compagnia di Moravia, con Arpino, Bocca e Fortini come controparte, si trovò coinvolto in quel giro di anni problematici e ideologizzati: Il titolo del terzo capitolo, Intellettuali e artisti, ricorda quello di un breve articolo di Alberto Moravia, Differenza tra artista e intellettuale, pubblicato sul Corriere della Sera il 5 novembre 1972, in risposta a un attacco di Giovanni Arpino, che aveva invitato l’autore degli Indifferenti a diminuire la frequenza dei suoi interventi nel dibattito contemporaneo. Un’accusa uguale e contraria, sostiene Moravia, a quella che appunto a Parise era stata appena mossa da Giorgio Bocca: di “disimpegno” e assenza dalla vita pubblica. Moravia si chiede allora come debba comportarsi un artista, e propone una distinzione tra l’intellettuale, che avrebbe il compito di “cambiare il mondo” accostandosi all’uomo politico, e l’artista, che invece il mondo vuole rappresentarlo, perché “la funzione dell’arte consiste proprio nel non essere sociale (…), perché inutile, almeno in apparenza”. Per Moravia Parise è un’artista, ma “è anche vero che rappresentare il mondo vuol dire cambiarlo, sia pure indirettamente e mediatamente”. Non stupisce allora che in Intellettuali e artisti, una delle figure citate da Parise sia proprio l’amico Moravia. Nel suo intervento Parise divide la “carovana” […] in intellettuali veri e intellettuali falsi, che però possono passare per veri se a Roma lo gridano fortissimo, “strillando parole incomprensibili”: si anticipa qui un’ulteriore, più nota polemica che si svolgerà sempre sul Corriere della Sera e vedrà contrapposto a Parise Franco Fortini, quella sulla necessità di ”scrivere chiaro”268.

Parise sembra proprio divertirsi in questo reportage romano, e per la prima volta nella scrittura narrativa di un’intera vita, dispiega il consueto piglio disincantato ma contrassegnato, nell’occasione, da un tono disinvolto e spiritoso: un perfetto aplomb inglese, esperibile unicamente come scrittore, e mai nel suo vissuto umano, come sappiamo. Tutto il capitolo è intessuto di una tonalità umorale che oscilla in modo leggero fra l’umorismo, l’ironia e il sarcasmo minimale. L’ho già rilevato, e lo ripeto: è un fatto

267 Suite romana, in Roma, punto e a capo. La città eterna attraverso gli occhi di grandi narratori, cit., pp. 249-51. 268 Ludovica Del Castillo, Goffredo Parise: una città di papi e topi che insegna a vivere, cit., p.230.

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eccezionale nella produzione letteraria di Parise. Gli stessi richiami alle polemiche intellettuali che lo videro insieme spettatore e attore, e delle quali la Del Castillo fornisce un’esauriente spiegazione nonché contestualizzazione storica e culturale, sono riferiti con distaccata e divertita leggerezza. Fa di nuovo la sua comparsa, nel tratteggio delle vite dei pittori e nella citazione delle parole di Moravia, la comparazione animale con il mondo dei gatti, la cui presenza colora la narrazione del loro comportamento enigmatico e sornione. L’adozione di lemmi quali

«carovana»,

«cammelliere»,

«emigranti»,

appartenenti ad un insieme metaforico ben preciso, prosegue la linea poetica di raffigurazione della Capitale come un suk orientale avviata nei capitoli precedenti. Proseguo la lettura con il capitolo seguente, Il cinema: Com’è noto il cinema è la maggiore e forse la sola vera industria di Roma. Il cinema italiano è Roma […]. Evidentemente il cinema italiano ha necessità, per vivere, di respirare soltanto l’aria di Roma […]. C’è una figura che rappresenta il cinema italiano in modo così perfetto che non si sa quale sia l’originale e quale la copia. Parlo della figura, della figura fisica, di Federico Fellini […]. È noto che Federico Fellini […] una volta arrivato a Roma dalla Romagna non si è più mosso. Facendo il cinema egli si è per così dire impastato con la città […]. Cosa significa questo gioco di specchi in cui, al posto del cinema romano, che è il tema di queste righe, appare sempre Federico Fellini? Significa che il cinema romano, nel bene e nel male, ha una sua fisionomia appunto romana per non dire tout court italiana. Che questa fisionomia è complessa, oscura, stracciona e regale al tempo stesso; che è menzognera e geniale, pigra e suadente, ed eternamente femminile. Insomma che non è un’industria, come si vuol far creder e come lo sono le industrie cinematografiche di tutto il mondo, cioè logica, matematica, precisa come tutte le altre industrie; bensì, come appunto in una persona, l’impasto di molte cose insieme che assommano in sé il carattere italiano. Si aggiunga, per finire, che il cinema è di per sé l’industria delle ombre, cioè di qualcosa che appare ma non c’è, ed ecco si capirà perché il cinema romano è il cinema per eccellenza Corriere della Sera, 13 marzo, 1976269.

269 Suite romana, in Roma, punto e a capo. La città eterna attraverso gli occhi di grandi narratori, cit., pp. 251-4, passim.

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L’articolo si presenta, prima di tutto, come un ennesimo omaggio indiretto a Roma, dal momento che Parise identifica il cinema italiano con quello romano e con Roma tout court. Rappresenta, poi, la celebrazione nostalgica di un periodo e di un cinema felici che lo videro, nei primissimi Sessanta, suo protagonista in qualità di sceneggiatore. È un omaggio a un cinema, indifferentemente romano e italiano, con cui si trova in consonanza perché la sua anima vive di arte, tutt’al più di artigianato, mai di sicuro di razionale e fredda industria. È, inoltre, il riconoscimento del primato di un vissuto di anarchica creatività artistica, contrapposto a quello, nel suo passato, dell’aziendale, impiegatizia e produttiva Milano de Il padrone. È, infine, un omaggio - ben dissimulato, schivo ed espresso per metafora attraverso il tratteggio fantasioso dei caratteri del cinema romano - al suo più profondo essere di uomo e di scrittore. Concludo la lettura di Suite romana con l’ultimo capitolo, intitolato La Chiesa Cattolica: Quando ero bambino, lassù nel Nord, le chiese erano fresche d’estate, ombrose e freddissime e buie d’inverno. Vi entravo qualche volta al mattino presto portato alla prima messa e ricordo che quelle entrate non erano quasi mai estive ma quasi sempre invernali […]. Non ci si riscaldava nella chiesa buia ma ci si orizzontava verso le fiammelle delle candele lontane […]. C’erano molte vecchie, vestite di nero, con la corona in mano dai grani neri e ornate di un crocefisso di ebano nero. Alcune di queste vecchie con grandi e grossi scialli neri portavano calze nere e grosse di lana e vecchie scarpe da uomo, qualche volta rotte o con apposite aperture alle nocche[…]. Dentro la chiesa […] c’era qualcosa di più che non era rappresentato, o rappresentato molto vagamente in alto, sotto l’arco della cupola, in forma di occhio dentro un triangolo. Nel buio dell’inverno non si vedeva. Questo qualcosa era Dio […]. Per me, per noi, la Chiesa Cattolica era tutto questo e altro ancora, più nero ancora, più severo ancora e più misterioso e solenne, pronta a punire severamente per un nonnulla. Questa cosa misteriosa era ancora Dio, molto più presente d’inverno che d’estate. Dunque Dio si fondeva nella nostra immaginazione con la 242


Chiesa Cattolica, con Gesù morto sulla Croce, con la punizione di qualunque anche piccolissimo peccato. Era un’idea in certo qual modo protestante di Dio, ma non era colpa nostra se eravamo nati e cresciuti ai piedi delle Alpi, così vicini al vento della Riforma. Passarono gli anni […], e arrivai a Roma, dove vidi la Chiesa cattolica nella sua più grande e universale immagine di potenza. Era tutta un’altra cosa. Sì, anche a Roma c’erano le chiese […], c’erano il Papa, i cardinali, i vescovi […]. Ma la Chiesa cattolica di Roma, che avrebbe dovuto essere uguale, severa e punitiva come quella del Nord […], era tutta un’altra cosa. Prima di tutto nelle chiese di Roma non c’era Dio, poi, se c’erano le statue dei Santi, della Madonna e Gesù Crocefisso, esse non parlavano a me la stessa lingua severa e punitiva di quelle del Nord e non chiedevano penitenze e sacrifici. Non c’era Dio ma dei signori con le scarpe lucide che entravano e uscivano parlando (cosa proibitissima), poi c’erano molti sacerdoti eleganti che avevano l’automobile […] e occhiali cerchiati d’oro come notai o avvocati, o proprietari di negozi di gioielleria o banchieri. Poi, e questa fu la cosa che mi colpì più profondamente, i romani non avevano nessuna paura di essere puniti, anzi, erano completamente sicuri di cavarsela […]. In una parola mi accorsi che i romani non erano cattolici così come io intendevo da bambino e anche da ragazzo essere cattolici. I romani non parlavano con Dio ma parlavano semmai e sempre allegramente e ridendo e al ristorante con sacerdoti eleganti e sempre di cose pratiche e quotidiane, come se i sacerdoti fossero stati uomini come gli altri. E andavano poco in chiesa e anche lì senza nessuna paura, con una forma di confidenza e famigliarità che noi non ci saremmo mai permessi. In poche parole mi accorsi che i romani non credevano in Dio, nemmeno ci pensavano e avevano confidenza e sbrigavano affari con la Chiesa cattolica romana come se niente fosse. Allora, riflettendo, ho pensato che quella mia, quella del Nord, non era la vera Chiesa cattolica romana, perché la vera era qui, a Roma, e che per essere cattolici non è necessario credere in Dio, che è una cosa che non si vede e non si tocca e con cui non si sbrigano affari, bensì, semmai, credere nei preti […] su su fino al Papa, tutte persone che si vedono e si toccano e con cui, volendo si può parlare, si può avere udienza, insomma si può, tentando, ottenere cose utili alla vita di questa terra. Ecco perché distinguo sempre quando scrivo cattolico, da credente, o religioso, o cristiano, perché queste sono cose che appartengono a lassù, alle Alpi e di là delle Alpi e a molti altri luoghi di questo mondo ma non a Roma. Corriere della Sera, 17 marzo, 1976270

Ludovica del Castillo, nella brevissima analisi dedicata al capitolo, non ci sottopone nessuno spunto interpretativo, con l’eccezione di un’isolata osservazione di contesto culturale e religioso - «una contrapposizione questa, tra l’autentica Chiesa del Nord e la corrotta Chiesa romana, estremamente diffusa» - tanto generica da risultare

270 Goffredo Parise, Suite romana, in Roma, punto e a capo. La città eterna attraverso gli occhi di grandi narratori, cit., pp. 254-6.

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inessenziale: Nell’ultimo capitolo, La Chiesa Cattolica, la Chiesa del Nord fredda e austera, è confrontata con quella romana, così lontana dal rigore della prima. Un ponte tra questo capitolo della Suite e i Sillabari è la neve, qui accostata al ricordo della Chiesa veneta. Effettivamente alla chiesa del Nord Parise associa una purezza e un mistero assenti nella Chiesa romana, ed è una contrapposizione questa, tra l’autentica Chiesa del Nord e la corrotta Chiesa romana, estremamente diffusa. Come già accennato, la Chiesa cattolica è la grande tenda del mercato romano, il fulcro della città271: «Nulla era mutato da quegli anni lontani e certo l’istituzione più moderna non era la res publica italiana ma la chiesa cattolica. La repubblica italiana è una convenzione, la chiesa cattolica una realtà storica, con i suoi delitti e le sue pene.272»

La lettura del capitoletto conclusivo ci pone davanti un testo in cui - senza quella pervasività rilevabile in alcuni dei precedenti articoli, che qui, al contrario, è circoscritta alla seconda parte dello scritto - emerge un registro spiritoso, spesso ironico, che assume talvolta i toni di critica allusivamente graffiante e persino caustica, tanto più efficace quanto più è dissimulata. Pongo in luce, addensati in alcuni estesi passi, l’iterazione insistita e quasi ossessiva dei lemmi «buio», «nero», «severo», «misterioso», «punitivo»: distinti sèmi dal contiguo significante, che Parise collassa in un raffinato complesso semantico che irradia la sua scrittura di precisa e tenebrosa luce emozionale, morale e religiosa, e che infine si riverbera nell’animus fruitore di ogni lettore. Con conseguente analisi, e riferendomi alla descrizione iniziale dove Parise ricorda le mattutine frequentazioni della chiesa per assistere alla messa, metto in evidenza che le alternanze semantiche e spirituale fra le percezioni - sensoriali ed emotive - «ombrose e freddissime» e le percezioni di «fiammelle delle candele» al cui calore termico ed emotivo Parise si «riscaldava», sono intrecciate, in contrappunto stagionale, all’avvicendarsi di inverno e

271 Ludovica Del Castillo, Goffredo Parise: una città di papi e topi che insegna a vivere, cit., p.231. 272 Goffredo Parise, Veneto barbaro di muschi e di nebbie, «Corriere della Sera», 1° luglio 1983; ora in OPERE II, p.1536.

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estate nelle due espressioni dove le chiese sono «buie d’inverno» e «fresche d’estate». Sottolineo, inoltre, il talento narrativo di Parise - nella fattispecie, poeticamente ritrattistico - nelle ricorrenti descrizioni di figure umane popolari, semplici, povere, di origine spesso contadina o comunque paesana: come, nel presente testo, le «vecchie, vestite di nero» che «con grandi e grossi scialli neri portavano calze nere e grosse di lana e vecchie scarpe da uomo, qualche volta rotte o con apposite aperture alle nocche». È una ben dissimulata genialità rappresentativa che, fra tanti aspetti, dimostra un’acuta attenzione percettiva verso alcuni dettagli poi trasfigurati in modo altamente simbolico: quali sono - restituendo al lettore bellezza estetica ma soprattutto commovente tenerezza - le calze grosse e le scarpe vecchie e bucate. A questo proposito, ricordo che lo zoom narrativo ed emozionale sul dettaglio delle scarpe emerge negli scritti di reportage come un ennesimo refrain poetico, così frequente da assurgere quasi alla dignità di ulteriore topos creativo dello scrittore: nel reportage dalla Russia, «le scarpe ortopediche delle donne»; dal Biafra, «su due grandi scarpe sfondate e divaricate » e «pantaloni corti, camicia e cravatta, con le scarpe in mano»; dal Cile, «scarpe scalcagnate nel fango». E non a caso, è significativo che le uniche scarpe che “salvano le apparenze”, sono proprio quelle viste in una chiesa di Suite romana dove «non c’era Dio ma dei signori con le scarpe lucide», che da gran signori, e non certo contadini, «entravano e uscivano parlando (cosa proibitissima)» senza alcun rispetto per il luogo comunque sacro. Reputo necessario, per inquadrare il reportage nel suo contesto storico, culturale e sociale, fornire un’ulteriore considerazione. Parise ricorda le frequentazioni infantili della chiesa cattolica del suo originario Nord veneto, e nel farlo ne descrive il carattere cupo, austero - tanto da rasentare il monastico, rigido, castigatore, intriso tuttavia della impenetrabile e genuina sacralità del 245


divino: una chiesa di impronta protestante, ma pur sempre una chiesa di fede, spirituale, sincera, povera. Fa da contraltare il ritratto della chiesa cattolica romana, con la quale convisse sin dal 1960, e della quale sottolinea la natura frivola, indulgente, mondana, trascinata da una passione profana dal sapore quasi sacrilego: una chiesa di impronta romano-decadente e bizantina, sempre più inabissata in chiesa di potere, materiale, ricca, immorale. Le osservazioni dell’autore vanno collocate in un contesto religioso e sociale di urgenti e profonde trasformazioni interne al movimento cristiano e cattolico, non solo romano: frutti tardivi ma vitali, germogliati sull’onda lunga di quei semi sparsi, nel decennio precedente, dalle indagini socio-urbanistiche di Giovanni Berlinguer, Piero della Seta e Italo Insolera sulle drammatiche condizioni delle borgate e dei borghetti romani; e provenienti, poi, dal Concilio Vaticano II, e dal Sessantotto. Tale rinnovamento di ambito cattolico, si interrogava sulle richieste provenienti dalla base dei credenti, che invocavano uno spirito più autenticamente religioso e solidale, e al contempo una maggiore assunzione responsabilità all’interno e da parte delle strutture ecclesiastiche ai suoi vari livelli. La chiesa di Roma, seppure con ritardo, e con tutti i freni derivanti dalla sua secolare cautela clericale, investita da questo vento di riforma anche nelle sue gerarchie più retrive e ostili al cambiamento, inaspettatamente si mantenne tutto sommato all’altezza della sfida. Nella prima metà degli anni Settanta infatti - anche sotto la molteplice spinta di pressioni di tipo sociale, politico e religioso che percorrevano sia l’opinione pubblica che le istituzioni stesse - l’intera comunità cristiana romana, dalle più alte gerarchie religiose fino alle collettività parrocchiali e giù giù fino ai singoli credenti, diede vita a un fervore di dibattiti e iniziative per riorientare spirito, teoria e prassi della presenza sociale e religiosa della Chiesa nella città di Roma. 246


Di tale irripetibile ed entusiastico movimento collettivo di trasformazione, ne dà testimonianza il ricordo della persona carismatica e infaticabile di Don Luigi Di Liegro, nello specifico organizzatore e promotore nel 1974 del memorabile convegno La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di giustizia e di carità nella diocesi di Roma: La collaborazione con i gesuiti della Gregoriana si fece più intensa, e nel 1969 fu promossa un’indagine sulla religiosità dei romani che gli servì per programmare le sue attività future; nel 1972 venne infatti chiamato in modo formale alla direzione del Centro pastorale diocesano per l’animazione della comunità cristiana e i servizi sociali. Una delle attività che ebbe un maggiore impatto sull’opinione pubblica fu il convegno del 1974 dedicato a La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di giustizia e di carità nella diocesi di Roma, pensato come un momento di riflessione coinvolgente tutte le forze religiose, politiche e sociali che agivano a Roma, e che sarebbe entrato nella cronaca come il convegno sui «mali di Roma». Don Luigi ne fu il vero animatore e molti degli interventi del cardinale vicario di Roma, Ugo Poletti, furono scritti sulla base delle sue proposte e dei suoi appunti. Anche questo è un capitolo spesso rievocato da varie angolature. Molti giornali scrissero che don Luigi aveva forzato la mano al cardinale Poletti. I manoscritti dell’archivio Di Liegro provano il contrario: i testi di Poletti sono quasi sempre scritti da don Luigi, le correzioni fatte dal cardinale sono in genere orientate verso una maggiore apertura e accentuano alcune critiche che don Luigi non aveva indicato. Anche da parte della Curia romana vi furono critiche all'operato di don Luigi. Tutto venne ribadito, al momento della sua morte, in un articolo di Orazio La Rocca pubblicato su La Repubblica il 13 gennaio 1997. Don Luigi risultò comunque uno dei veri protagonisti dei lavori, attirando simpatie ma anche non poche antipatie, soprattutto da personaggi politici legati alla Democrazia cristiana che avevano interpretato il convegno come una denuncia delle loro inadempienze. Tra l’altro, questo fu uno degli episodi che spinsero un noto protagonista della vita politica romana, l’onorevole Vittorio Sbardella, ad accentuare la sua diffidenza nei confronti di don Luigi. Da notare che Sbardella lo avrebbe poi voluto al suo fianco al momento della morte. Probabilmente proprio in seguito a quel convegno sarebbero arrivate a don Luigi alcune proposte di un incarico politico. Don Luigi non le accettò, ma fu coinvolto in un Comitato di coordinamento che iniziò a operare nel 1975 e raggruppò diversi studiosi e personaggi politici, con lo scopo dichiarato di contribuire a un profondo rinnovamento della Democrazia cristiana romana. Dall’aprile del 1976 don Luigi smise di partecipare alle riunioni del Comitato, non a causa dei molti impegni, come si disse allora, ma in seguito a una precisa richiesta del cardinale Poletti, vicario di Roma, il quale gli fece notare che la sua presenza in quel Comitato significava di fatto un impegno politico della diocesi di Roma, dal momento che lo stesso don Luigi era responsabile di uno degli

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Uffici del Vicariato273.

Don Luigi, “prete” battagliero di frontiera - dove “prete” riecheggia la datata, inattuale e stolida espressione dei “mangiapreti” - fu di quegli anni entusiasmanti una delle figure più importanti ed incisive: lo chiamo Don, perché non ho alcun dubbio che, da uomo umile quale era, da ex prete di borgata (non prete operaio, come erroneamente riportano tuttora i suoi biografi), da sacerdote di strada sempre, e soprattutto da personali amicizie con volontari che lo hanno conosciuto e frequentato, non avrebbe certo gradito l’appellativo di “monsignore”. Insieme a lui e ad altri sparuti sacerdoti militanti, spicca a tutt’oggi la commovente e caritatevole personalità di Don Roberto Sardelli: morto nel febbraio 2019, sodale frequentatore di Don Milani, l’intera esistenza spesa a fianco e per il riscatto dei reietti della terra, è oggi - come allora - popolare e meglio conosciuto come “il prete dei baraccati”, per la sua scelta di condividere la stessa miserabile vita nei tuguri dei diseredati - con la altruistica speranza di emanciparli dalla miseria - che lo portò ad “abitare” in quel mondo di liquami, grotte, baracche e borgate (di pasoliniana e parisiana memoria: non a caso il Nostro scrive «si espandono le periferie, quali ricche per i pascià e gli sceicchi, quali povere fino a perdersi nei rivoli di casupole, baracche, buchi, anfratti e di liquame dell’acquedotto Felice274»), situato a ridosso delle rovine idriche di epoca romana dell’Acquedotto Felice e del Mandrione: Una vita passata accanto agli ultimi, agli emarginati, tra le baracche e il degrado. Si è spento oggi, a 83 anni, don Roberto Sardelli, uno dei protagonisti della Roma degli anni Settanta, il "prete dei baraccati" che con il suo insegnamento ha cambiato la vita a molti di quei ragazzi che fino ad allora vivevano in gravi situazioni sociali. Originario di Pontecorvo, nella Bassa Ciociaria, don Roberto

273 Treccani (2014), Di Liegro Luigi, in Dizionario Biografico degli Italiani,[in Rete] http://www.treccani.it/enciclopedia/luigi-di-liegro_(Dizionario-Biografico), (8 dicembre 2019). 274 Goffredo Parise, Suite romana, in Roma, punto e a capo. La città eterna attraverso gli occhi di grandi narratori, cit., p. 245.

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venne ordinato sacerdote nel 1965, a 30 anni. Durante i suoi studi filosofici e teologici ebbe modo di incontrare don Lorenzo Milani a Barbiana del Mugello. Per un lungo periodo soggiornò a Lione in Francia dove approfondì la conoscenza dei preti operai e lo studio del teologo gesuita Teilhard de Chardin. Nel 1968 gli venne dato l'incarico di collaboratore nella parrocchia di San Policarpo, dove cominciò attivamente il suo impegno a favore di chi, soprattutto migranti provenienti dalle regioni del Sud Italia, viveva nelle baracche proprio alle spalle della chiesa, costruite nelle arcate dell'Acquedotto Felice.

Nel 1969 acquistò una della baracche da una prostituta e si trasferì nell'insediamento. Lì fondò la celebre "Scuola 725", dal nome della baracca che la ospitava, definita dagli stessi ragazzi "la scuola del riscatto". Era il tentativo di recuperare chi veniva emarginato anche dalla scuola, consentendo loro di proseguire gli studi e conoscere testi e autori come Gandhi o Malcolm X. Le riflessioni venivano collezionate nel quindicinale redatto dagli stessi ragazzi. Da questo lavoro nacque la "Lettera al sindaco" e il libro "Non tacere". «Il luogo dove viviamo è un inferno, l'acqua nessuno può averla in casa - si legge nella Lettera al Sindaco - la luce illumina solo un quarto dell'Acquedotto. Dove c'è la scuola si va avanti con il gas. L'umidità ci tiene compagnia per tutto l'inverno. Il caldo soffocante l'estate. I pozzi neri si trovano a pochi metri dalla nostre cosiddette abitazioni. Tutto il quartiere viene a scaricare ogni genere di immondizie a 100 metri dalle baracche. Siamo in continuo pericolo di malattie. Quest'anno all'Acquedotto due bambini sono morti per malattie, come la broncopolmonite, che nelle baracche trovano l'ambiente più favorevole per svilupparsi». Subito dopo lo sgombero della baraccopoli, nel 1973, don Roberto si dedicò alle collaborazioni giornalistiche con Paese Sera, l'Unità e Liberazione, ma anche con riviste del mondo cattolico. Nel 1982 fondò lo Studio Flamenco, per avvicinarsi al mondo Rom attraverso la danza, mentre dal 1989 al 1998 seguì negli ospedali i malati di Aids275. Non casualmente, condivisa da Parise, Pasolini e Don Roberto - che acquistò una baracca da una prostituta e ne fece la sua abitazione - ritroviamo una medesima visione eterodossa, rispettosa, delicata, quasi sacrale come per tutti, dell’esistenza reietta delle “lucciole”. Pongo inoltre in luce che, esemplarmente, quelle di Don Luigi, Don Roberto e Parise stesso sono altrettante esistenze donate senza riserve al cupio vitam profundere.

275 Avvenire (martedì 19 febbraio 2019), Roma. Morto don Roberto Sardelli, il prete dei baraccati dell'acquedotto Felice, [in Rete] https://www.avvenire.it/attualita/pagine/roma-morto-don-robertosardelli-il-prete-dei-baraccati-dell-acquedotto-felice, (8 dicembre 2019).

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A questo punto del discorso, sorgerà spontaneo chiedere qual è il nesso profondo fra il nostro autore e lo scenario sociale e religioso del cattolico romano testé illustrato. Sarà bene ricordare, allora, che in più occasioni Parise dichiarò con naturale schiettezza di essere ateo; tuttavia, sarà altrettanto necessario tener presente - lo si è già appreso nel corso della tesi - che Parise medesimo spese l’intera vita da uomo intellettualmente “laico”, irregolare, dall’esistenza libera e anticonformista: e che quindi, da persona curiosa e anticonvenzionale, fu colui che vagabondava per i diversi quartieri, rioni e periferie di Roma, visitando quelli dalla vita dignitosamente borghese, ma non disdegnando di aggirarsi per liquami e tuguri della borgata dell’Acquedotto Felice: in un’originale, personale flânerie urbanistica che racconta in prima persona: «m’intano in questa Roma di papi e topi (sembra un rebus), m’imbuco nelle baracche e nelle stradine», attraverso una città in cui «si espandono le periferie, quali ricche per i pascià e gli sceicchi, quali povere fino a perdersi nei rivoli di casupole, baracche, buchi, anfratti e di liquame dell’acquedotto Felice». Sarà illuminante leggere quanto scrive a tal proposito Alessandro Zuccari: Del resto Roma già allora si presentava come una città fortemente asimmetrica, del tutto inadeguata, in continua crescita e trasformazione. Nei quindici anni del dopoguerra erano immigrate nella capitale più di 360.000 persone e, raggiunti i due milioni di residenti nel 1960, almeno in sessanta-settantamila abitavano in baracche, grotte, borghetti e più del 20% delle famiglie viveva in coabitazione. Basta rileggere le acute e impietose analisi fatte da Giovanni Berlinguer e Piero della Seta in Borgate di Roma (1960) o quelle di Italo Insolera, che due anni dopo scriveva: “È difficile descrivere questa poverissima periferia di Roma. Alcuni gruppi di baracche sono note e famose sia perché in prossimità delle linee ferroviarie o delle vie consolari, sia perché spesso alla ribalta della cronaca: la lunga sfilata di baracche che dalla Via Nomentana arriva al Fosso di Sant’Agnese lungo la ferrovia Roma-Firenze è a tutti nota per essere adiacente al popolosissimo ‘quartiere africano’, per essere stata lo sfondo del film Il tetto [1955, regia di Vittorio De Sica, soggetto di Cesare Zavattini, ndr] e per le frequenti disgrazie che avvengono lungo la linea ferroviaria che una parte degli abitanti deve attraversare per uscire di casa” (Roma moderna, 1962). 250


Era, e per certi versi è ancora, la realtà informe, paradossale e disumana che costituiva un’altra Roma e - come si diceva allora - ne faceva una città da terzo mondo. Non a caso il sociologo Franco Ferrarotti nel 1970 scelse, come icastico titolo del suo studio più noto, Roma da capitale a periferia. Non è questa la sede per ripercorrere le vicende politiche, economiche, sociali o urbanistiche che accompagnarono la deflagrante espansione di Roma e i mutamenti culturali e antropologici che avvennero nel giro di pochi decenni. Tuttavia non è fuori luogo ricordare che tra i primi a indagare la città anche nei suoi recessi più nascosti, a porre in luce questioni nodali o a cogliere le novità e le sfumature più sottili della Capitale, sono stati molti scrittori, registi, intellettuali e artisti276.

Parise quindi, oltre quanto appena esposto, da persona ribelle, empatica e solidale, fu anche colui che sposò le cause - politiche, sociali, e civili che fossero - che nel corso della vita sentì per sé più giuste, vale a dire quelle più consonanti con le sue intime e compassionevoli corde umanitarie: un atteggiamento che lo avvicinò alle posizioni del socialismo utopistico, vissute secondo una sua personale visione eterodossa. Di tali scelte di profonda partecipazione umana e civile - peraltro in prima persona e a rischio della vita - ne danno attestazione, in prima battuta, le due esperienze come reporter di guerra in Vietnam e Laos, di cui testimoniò il valore sacrale della vita persa dai soldati morti da entrambe le parti, con un tono di maggiore immedesimazione sentimentale per i combattenti della componente più debole, quella dei Vietcong, più oppressa e maggiormente sostenuta dal popolo, senza che ciò significasse né considerare quella la parte “giusta” né prendere posizione per uno dei contendenti; in seconda battuta, la missione da reporter di guerra in Biafra, di cui documentò la realtà di orrore puro costituita dal genocidio di centinaia di migliaia di bimbi prima e di adulti poi, consumato sotto l’occhio indifferente del mondo intero e quello attentissimo e vorace dei media, ma nella quale ebbe modo di apprezzare coraggio, efficienza e solidarietà dimostrati dalla Caritas Internationalis nello svolgere il suo ruolo

276 Alessandro Zuccari, Roma: nuovi punti di vista, in Roma, punto e a capo. La città eterna attraverso gli occhi di grandi narratori, cit., pp. 25-6.

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assistenziale, peraltro esercitato in solitudine, e correttissimo sotto il profilo storico e umanitario. Prima di avviarmi alle conclusioni, ricordo che lo scrittore, da uomo sempre assolutamente ateo ma al contempo intellettualmente laico, in occasione di interventi pubblicati sulle pagine del «Corriere della Sera» da gennaio ’74 a metà ’75, suggerì al mondo cattolico inteso come istituzione Chiesa e come assemblea dei fedeli l’idea - una proposta spirituale e politica - di assumere direttamente la gestione della sua “temporale” rappresentanza parlamentare, ritirando la delega a quel partito per antonomasia cattolico e di riferimento rispondente al nome di Democrazia Cristiana: sia perché era ormai entrato in crisi l’automatismo di appartenenza e voto fra l’essere cattolico e la scelta politica democristiana; sia perché i tratti confessionali ed etici erano stati ormai pesantemente intorbiditi da decenni di stabile ma equivoco malgoverno e dalle fosche, inquietanti e recenti stagioni della tensione; sia perché l’accettazione della gestione del potere temporale avrebbe permesso l’assunzione diretta della responsabilità politica, evitando così l’ineluttabile scambio di favori reciproci di ogni tipo e l’inevitabile immobilismo prodotto dai vicendevoli ricatti, che ogni processo di mediazione ambigua e poco etica comporta come conseguenza. Sotto questo profilo insieme critico e propositivo verso Chiesa e mondo cattolico, per l’ennesima volta nella sua storia intellettuale Parise intervenne con modalità parallela ma contrapposta rispetto a Pasolini. A conclusione della presente analisi di Suite romana, voglio leggere passi ripresi da due mirabili articoli controcorrente, pubblicati nel 1974 nella rubrica Parise risponde del «Corriere della Sera», nel primo dei quali riecheggiano - singolarmente analoghe pensose riflessioni che Italo Calvino attribuisce al protagonista de La giornata 252


d’uno scrutatore, quando s’interroga sul significato esistenziale di quella frontiera “oltre l’umano” rappresentata dall’estrema disabilità fisica e psichica dei pazienti del Cottolengo, trovando come unica risposta lo sconfinato amore elargito dalle suore, dove il “democristiane” è ormai aggettivo senza alcun senso: 10 marzo 1974 ITALIA CATTOLICA Lo temo anch’io, e lei mi ha dato quasi scacco matto. Ha rifatto il verso al buon senso italiano in modo perfetto. Ho detto quasi scacco matto perché non voglio, e con il cuore e con la ragione, accettare come lei accetta l’immobilità del nostro paese. Non la voglio accettare a priori perché, essendo logico, penso sempre a un a posteriori possibile. E soprattutto perché, nella sua brillantissima analisi dell’animo italiano e cattolico, lei non ha fatto il conto del tempo che verrà […]. Lei ha fatto la sua analisi sul tempo di ieri, sul tempo ‘cattolico’, se così si può dire, quello scandito dalle vite dei papi e dalla lunghissima vita della Chiesa cattolica. Ma questo sublime orologio, signor Gaspare, se non si è inceppato del tutto, segna tuttavia molti minuti di ritardo […]. Tra il tempo cattolico di ieri e un altro tempo meno cattolico di domani, dentro quello spazio intermedio incontrollabile e impossibile da programmare, sta la mia speranza che lei chiama bella, naturale e poetica, ma poco cattolica e che io chiamerei invece molto semplicemente: la speranza dello spirito. La vecchia, stanca, decrepita ma misericordiosa Chiesa cattolica capisce che cosa intendo dire con queste mie parole. Non lo capiscono forse molti italiani, cattolici o no […]. Anch’io, come la stragrande maggioranza degli italiani, sono battezzato, signor Ravaioli. Sono laico, ma battezzato […]. Dunque ‘preti e monache’, incluse campane domenicali e vecchie che vanno a messa all’alba non soltanto mi piacciono ma mi danno allegria, guardi un po’. […]. Vede, signor Ravaioli, noi italiani, battezzati o no, non possiamo non essere cattolici. Lo siamo da troppi anni e l’impasto di amministrazione cattolica di cui siamo fatti è ormai fisico, lo spirito essendo volato via al tempo di Riforma e Controriforma di là delle Alpi e degli oceani. A noi sono rimaste le pompe, le statue e le statuette, i pepli dei comunicandi e dei cresimandi, i confetti, le bomboniere e la pietà dei preti e delle monache. È poco, rispetto all’idea di Dio (invisibile) e alla sua giustizia che stanno di là delle nostre frontiere? Non è poco. Vede, anche lei, con la sua prosa anticlericale e libertaria, è cattolico. Infatti non se la prende con Dio ma con preti e monache. Perché? Perché anche lei come la stragrande maggioranza degli italiani non crede in Dio, ma nelle cose che vede per la strada e che sono preti e monache. Siamo un paese di atei. È poco? Non è poco. Questi preti e monache che secondo lei rendono triste l’Italia hanno per molto tempo amministrato questo paese (male) e ancora lo amministrano (peggio) tramite terzi […]. Queste monache e preti sono stati educati alla pietà. Le do un esempio di pietà: alcune sere fa ero a casa di un medico di campagna. Pioveva. Verso mezzanotte è squillato il campanello. Era un giovane prete, uno di quei preti che lei giudica parassiti, con un gran fagotto di lenzuola tra le braccia. Dentro il fagotto c’era un bambino mongoloide, nudo, gravemente ustionato. Dietro il prete c’era la madre, una giovane contadina sul cui volto apparivano le tracce di una degenerazione ereditaria, forse dai genitori o nonni alcolizzati, che aveva poi trasmesso al figlio. A chi si era rivolta quella madre? Chi aveva avvolto quel deforme corpo nudo coperto di piaghe in un lenzuolo? Chi era corso dal medico? Ecco un esempio di pietà. 253


Con tutto ciò sono laico, perché il mio cuore e la mia ragione non hanno potuto diventare ed essere atei e cattolici277. 1 dicembre 1974 LA CHIESA AL GOVERNO Dunque: no, non intendevo affatto il ripristino dello Stato Pontificio. Perché la nostra è una Repubblica parlamentare e il Papa e la Chiesa cattolica non potrebbero, non possono rappresentare, per esempio, gli otto milioni di elettori comunisti, né gli altri elettori laici. Intendevo molto semplicemente questo: il partito democristiano è un partito ‘delegato’, come gli amministratori nelle società: rappresenta o dovrebbe rappresentare l’elettorato cattolico in Italia. Mi sono sempre chiesto perché la Chiesa cattolica, anziché ‘delegare’ all’amministrazione del suo elettorato dei laici, privi di garanzia e di attendibilità, non abbia provveduto ad amministrarlo direttamente, come del resto ha sempre fatto in passato, attraverso le sue normali reti amministrative: vescovadi, parrocchie, diocesi ecc. mi sono sempre chiesto perché la Chiesa cattolica ha ritenuto necessario servirsi di mediatori del potere, come certi principi sfaccendati che lasciano l’amministrazione delle loro terre a dei fattori rubacchioni […]. Non essendo religioso non credo al potere spirituale che, secondo me, non esiste e in ogni caso non è mai disgiunto dal potere temporale nella lunga storia dell’uomo. La chiesa non vive d’aria, vive di proprietà, di beni non spirituali, che vengono amministrati, di solito, con grande parsimonia e oculatezza, in modo tutt’altro che spirituale. Mi chiedo, ma questa è una domanda diretta alla Chiesa cattolica: perché non amministrare direttamente l’elettorato cattolico (democristiano) eliminando mediatori e fattori, sedendosi direttamente in Parlamento? Che cosa glielo impedisce? Sono certo che milioni di cattolici sarebbero in mani infinitamente più sagge, oneste, misericordiose e attente di quelle dove sono oggi, affidando il loro voto a cappellani, parroci, frati, suore, monsignori e vescovi di loro conoscenza e gradimento (le autorità ecclesiastiche locali). Ho detto che non sono religioso, cioè che non credo in Dio, e lo ripeto, ma non ho mai detto né scritto che non credo all’efficienza della Chiesa cattolica. Per prima cosa è la sola organizzazione amministrativa (anche di anime) che goda immenso prestigio nel mondo […]. Poi credo nella Chiesa cattolica per la sua efficienza culturale, per la sua attenzione, non soltanto spirituale, ma umanistica e scientifica: infinitamente superiore, anche nel più umile dei suoi servi, a quella del più dotto uomo politico democristiano. Poi credo nella sua onestà, nella sua rettitudine, nella sua saggezza che ha sempre agito non soltanto ad maiorem Dei gloria, ma anche a maggior gloria del Paese in cui vive. Anche il più umile servo della Chiesa possiede queste doti in misura infinitamente superiore del più francescano degli uomini politici democristiano. Allora perché la Chiesa cattolica non può amministrare la sua fetta di elettorato e far politica? […] La differenza sta tutta in una assurda e irreale convenzione conciliare (emendabile) che stabilì di assumere la frase del Cristo «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» […]. Ripeto, per un cattolico […] votare per il Parlamento e per il Senato il proprio parroco […] mi pare […] nella migliore tradizione della Realpolitik: […] praticata con clamoroso successo da alcuni Papi del passato. Al contrario, l’avere la Chiesa cattolica abdicato a quella parte di potere

277 Goffredo Parise, Verba volant. Profezie civili di un anticonformista, cit., pp. 32-5.

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temporale che le spetta (l’elettorato cattolico) appare sintomo di debolezza e di decadenza, lesivo non soltanto della sua autorità amministrativa ma soprattutto della sua autorità spirituale […]. Personalmente non mi auguro affatto, come Pasolini, il Papa a Tormarancio, povero tra i poveri, ma Ministro dei poveri contro i ricchi, un Potente della povertà […]. Mi auguro infine una Chiesa cattolica attiva, pratica, che occupi con tutto il suo prestigio internazionale, le sedi di potere che le spettano. Chi non è cattolico avrà sempre a disposizione un vasto arco parlamentare di opposizione per cui votare […]. Questa, chiamiamola così, ‘teoria di responsabilità politica’ che ho sostenuto da sempre, e che naturalmente può non essere affatto condivisa da questo giornale (che ha sempre ospitato in assoluta libertà ogni pensiero) ha radici molto pratiche: non cesserò mai di ripetere che il solo altissimo prestigio del nostro Paese nel mondo è dovuto alla presenza fisica della Chiesa cattolica e del suo Princeps, a Roma, in Italia. All’infuori di questo prestigio non c’è altro. C’è la mafia, alcuni prodotti alimentari, un po’ di canzoni. Ma questo non è prestigio internazionale, questa è bancarella […]. Tra il prestigio internazionale della Chiesa cattolica e quello della bancarella di prodotti folkloristici c’è un’immensa, incolmabile differenza di stile […]. Uno stile da così lungo tempo avvezzo al potere che si è fuso con esso, uno stile depurato con i secoli da volgarità e scorie, dall’esercito dei parvenus politici da cui siamo afflitti noi laici. Perché non metterlo misericordiosamente al servizio del Paese278?

III.14

1982 Giappone (L’eleganza è frigida) Nel settembre del 1980, dopo aver incontrato a Roma l’ambasciatore a Tokyo

Boris Biancheri, e averne accettato l’invito a visitare il Giappone, Parise raggiunse il paese asiatico soggiornandovi poco più di un mese circa. Di quel viaggio lo scrittore scrisse un reportage, pubblicato in forma di articoli sulle pagine «Corriere della Sera» in un arco di tempo che va dal gennaio 1981 al febbraio 1982279, e raccolti successivamente in un volume singolo uscito nel 1982, dal titolo L’eleganza è frigida280.

278 Goffredo Parise, Verba volant. Profezie civili di un anticonformista, cit., pp. 161-5. 279 «Corriere della Sera», 25, 28 gennaio; 1°, 10, 13, 22, 28 febbraio; 10, 18,, 25, 31 marzo; 22 aprile; 3, 19, 30 maggio; 2, 10, 20 ottobre 1981; 21, 24 febbraio 1982. 280 Goffredo Parise, L’eleganza è frigida, cit.; [ora in L’eleganza è frigida, in OPERE II, pp. 10551178].

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Di tale reportage, ho già fornito in un precedente paragrafo della tesi un’esauriente trattazione, che vorrei ora concludere con l’esposizione di due considerazioni finali. La prima, attiene al rapporto fra aspetto narrativo (letterario) e aspetto giornalistico, e alla loro eventuale vicendevole prevalenza, all’interno dei reportage: problematica peraltro già ripetutamente sfiorata nel corso della tesi. Leggo, quindi, quanto Parise afferma in un’intervista rilasciata al giornalista Furio Colombo nel 1976: D. - Tu riesci a suscitare un’attenzione che è quasi tensione. Ma senti una diversità, vedi due modi diversi di vivere e di scrivere, da «inviato nella memoria» a «inviato sul posto»? R. - Quando faccio, come si dice, il giornalista, sto un po’ meno attento allo stile e più alla divulgazione del mio pensiero e a una descrizione il più possibile corretta e dettagliata di ciò che vedo con i miei occhi. Una descrizione «personal» insomma. È ovvio che il carattere, il tono di uno scrittore è sempre quello, come la sua faccia. Ma lo stile, che è la sua faccia e anche molto di più che la sua faccia, ha bisogno di riflessione, di «depositi», in una parola di tempo. Il giornalismo, che io del resto faccio dandomi molto tempo e in rare occasioni, non permette né tempo, né «deposito». Quando invece scrivo, poniamo un racconto del Sillabario, sto più attento a certe fonie e ritmi che mi piacciono, che sembrano giusti al mio orecchio. Inoltre un racconto del Sillabario è tirato fuori da uno stock di merce che è lì in deposito, magari da quarant’anni281.

Letta così, di getto, privi magari sia di una conoscenza approfondita delle contraddizioni dello scrittore sia di un’opportuna malizia critica, sembrerebbe una colossale operazione di depistaggio operata da Parise: messa in atto, sia ben chiaro, in modo del tutto inconsapevole e originata da una sindrome che chiameremmo qui e ora è la verità, in cui concorrono insieme volatilità mnesica e assolutizzazione di un’affermazione contingente e circostanziata contraddittoria rispetto ad una precedente. D’altra parte, nell’intervista è lo scrittore stesso ad attenuare l’impatto dell’urgenza e dello stile richiesto dal lavoro giornalistico, «che io del resto faccio dandomi molto tempo e in rare occasioni»: con chiarezza e determinazione Parise ci sta ricordando la

281 Furio Colombo, Le guerre di Parise, cit., p. 3.

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sua personale necessità di affrontare l’attività giornalistica con interventi rarefatti nel tempo e dalla calibrata lentezza elaborativa. Tuttavia, alcuni nostri dubbi persistono, e una domanda sorge immediata: ma come, non era stato proprio Parise ad esprimersi ben diversamente in un’analoga intervista rilasciata a Manlio Cancogni? Un giornalista generalmente sente il bisogno di comunicare quello che ha visto. È il suo mestiere. Io in un reportage mi esprimo come in un romanzo. Per me reportage e romanzo nascono nello stesso modo, da un’idea, che al principio è molto semplice, magari una piccola notizia letta su un giornale. Il reportage è un romanzo, con una situazione in cui lo scrittore è il protagonista282.

E non era stato sempre lo scrittore, in una lettera a Gaspare Barbiellini Amidei, a dichiarare che per poter scrivere aveva bisogno di essere attraversato dal frisson, il brivido, quel brivido inteso come ispirazione artistica e come passione per il soggetto da trattare? […] Trascorsa l’estate, in ottobre [1973, N.d.A.] Parise parte per il Cile dove analizza il golpe e l’instaurazione del regime dittatoriale di Pinochet. Ritorna passando per il Perù e in novembre pubblica il suo reportage sul «Corriere della Sera ». In una lettera a Gaspare Barbiellini Amidei [direttore del «Corriere della Sera », N.d.A.], giustifica il ritardo nell’invio degli articoli: «Sono partito, mi sono molto stancato, ho aspettato un momento, ho scritto, ora vi posso dire che vi mando un materiale che mi soddisfa, come un buon artigiano. Non cosa fare di più: per me nulla è “routine” e tutto deve avere un “frisson” interiore che è ciò che ha fatto dei miei viaggi precedenti qualcosa di modestamente diverso da altre produzioni artigiane »283.

Il problema è che Parise “funziona” spesso - nelle dichiarazioni esplicite riguardo alle sue predilezioni estetiche e alle sue poetiche - secondo un movimento polarizzato dall’ultima “attrazione”, quale essa sia, attiva in quel momento; un processo che, con terminologia informatica relativa all’accesso ai dati, definiremmo modalità LIFO: Last In First Out, l’ultimo elemento ad entrare è il primo ad uscire. Con

282 Manlio Cancogni, L’odore casto e gentile della povertà. Conversazione con Goffredo Parise, cit., pp. 16-17. 283 Cfr. la Cronologia in OPERE I, p. LX.

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terminologia parisiana: l’ultima donna incontrata occasionalmente, l’ultima città visitata, l’ultima scelta poetica attuata, assurgono al rango di donna più bella al mondo, di città più meravigliosa esistente, di scelta poetica più autentica. Ma perché espongo tali considerazioni proprio nel contesto del reportage dal Giappone? Perché pur non essendo, a mio giudizio, uno dei reportage più riusciti e toccanti - sotto il profilo estetico, emozionale, e della tensione civile - è tuttavia uno dei più apprezzati dalla critica, e quello in cui lo scrittore applica con maggiore estensione e profondità la “stilizzazione” della sua scrittura: facilitato o attratto, verso tale direzione, da quel cortocircuito scatenato dalla risonanza estetica e spirituale fra il suo animus e il paese definito quello, per eccellenza e antonomasia, del culto estetico. D’altra parte, anche sotto il profilo della tempistica di elaborazione dei testi - dal viaggio compiuto nel settembre 1980 ai primi articoli del gennaio 1981, senza addirittura considerare gli ultimi di ultimi di febbraio 1982 - trascorrono mesi a sufficienza perché la scrittura di Parise decanti e si “sedimenti”. Leggiamo ora un passo significativo del reportage: La notte giunse all’improvviso a nascondere le pettinature della ghiaia nel giardino e i primi lumi arancione si accesero nel tempio. appena oltre l’entrata, in una specie di hall e all’altezza delle sue ginocchia, Marco vide un volto di bambino sorridente che si sporgeva a spiare l’arrivo dei due: era o sembrava quasi un bambino, o meglio ancora una bambina, il bonzo principale che Marcosi aspettava vecchione: si alzò da ginocchio e fece lunghi inchini […]. Dall’altro lato del tokonoma una mensola sempre d’oro sosteneva un pezzo qualunque di roccia grigiastra con scintillii di salnitro e muschio. Era tutto. E in mezzo, al suo centro esatto, il bonzo bambina avvolto nella seta, con le mani danzanti che apparvero improvvisamente a Marco, con un brivido, quelle di una vecchia. E così il piccolo cranio di graziosissima forma infantile, come per effetto dell’oro o di magia, parve coprirsi di piccolissime, impercettibili rughe, e così intorno alla bocca che era piccola e carnosa e intorno ai profondi occhi che cominciavano già a cerchiarsi come appassiti dall’incontro […]. Un profumo di incenso, che usciva da chissà dove, li avvolse con discrezione mentre si avviavano sorridenti i discorsi[…]. Era infatti, con certezza, un’area erotica, di proposta. Egli e il bonzo si guardavano attenti e sornioni negli occhi e ciò che dicevano i loro sguardi esclusivi era totalmente estraneo da quello che usciva dalle labbruzze smorfiose del monaco […]. Quegli sguardi parlavano tra loro e inoltre Marco ebbe quasi una 258


allucinazione e vide il monaco in forma di signorina Tokugawa, la sua totale guida di Tokyo.

È inevitabile parlare di letteratura, di aspetto marcatamente narrativo dopo la lettura di questo brano. Da una situazione pressoché statica, Parise riesce con minimali tratti a rappresentare una scena in movimento, attraverso le sole percezioni dei sensi, luminose e somatiche: si accesero, scintillii, danzanti, brivido, cerchiarsi, si guardavano, li avvolse…. Com’è nelle sue corde migliori, lo scrittore avvolge l’intera scena di un’atmosfera leggermente sognante, sonnambula, e straniata: dove l’attrazione verso un atteggiamento contemplativo non riesce tuttavia a rallentare la dinamica dei cromatismi e delle mutazioni materiali. Parise pennella con estrema essenzialità la trasformazione del bonzo da bambino-a a vecchio-a, imprimendole toni un po’ sinistri, quasi grotteschi, noir, con quella ragnatela di minute rughe che improvvisamente marca sia il viso del bonzo che la visione narrativa di un’atmosfera macabra appena accennata. È un capolavoro di estetismo l’incipit del testo citato, in cui «la notte giunse all’improvviso a nascondere le pettinature della ghiaia», dove la bellezza raggiunge il punto di eccellenza nella metafora delle «pettinature della ghiaia». Come altrettanto splendida è l’immagine: «un profumo di incenso… li avvolse con discrezione mentre si avviavano sorridenti i discorsi», in cui l’asse analogico è percorso tanto da eleganza quanto da trasparenza semantica. Precisato ciò, mi chiedo: ma allora, Parise, cosa ci sta raccontando? Risponderò così, scartando: di un libero pensatore e scrittore, peraltro dissimulato “provocatore”, si deve sempre diffidare, quale ne sia, anche altissimo, il nostro apprezzamento. Attraverso lo spunto rappresentato da un’esemplare quanto significativa immagine del reportage giapponese, concludo la presente indagine critica esaminando un aspetto rilevante nella personalità e nell’opera di Parise, evidenziato peraltro di 259


frequente dalla saggistica ma finora non indagato dalla mia tesi: sto parlando della componente sessuale ed erotica della scrittura di Parise: Credeva che la visita ai quartieri del vizio fosse così conclusa, ma il giorno successivo capitò per caso in uno in uno zoo. O così gli parve per l’odore di serraglio e per alcune immagini […]. Il biglietto d’entrata costò 5000 yen che non era poco […], e forse si sarebbe trovato in un deserto night giornaliero. Invece sentì l’odore dello zoo ed entrò in una saletta, la platea di un teatrino. In mezzo alla platea […] alcune donne nude accosciate e con la gambe divaricate verso il pubblico che stava seduto a ridosso dei tamburi in grande numero, mostravano il loro sesso ai clienti. Poiché, per quanto divaricate fossero le gambe l’operazione non era tanto facile, le donne, tra cui Marco scorse giapponesi, filippine e due tedesche, rovesciavano l’interno del sesso come un guanto mostrando una protuberanza rossastra simile alla testa di un polipo. Su questa testa di polipo era concentrata l’attenzione di alcuni vecchi in prima fila che si alzavano dalle seggioline e inforcavano gli occhiali simili a periti di oggetti preziosi nelle aste. A confermare in Marco l’idea dello zoo erano le donnine giapponesi, il cui corpo era completamente ricoperto di un tatuaggio raffigurante un enorme serpente boa che le avvolgeva dal collo alle caviglie in molte spire.

La maggior parte della critica, ha da lungo tempo messo inevitabilmente in risalto il carattere fondamentale della presenza - a tratti prevalenza - dell’aspetto erotico, sessuale, comunque sensuale nell’opera di Parise: sempre interpretato, a buona ragione, come un tratto le cui origini corporee e immaginative sono radicate nell’infanzia. Fra le diverse voci critiche c’è però chi ha contestato la liceità di qualificare come “morbosa” l’immaginazione sessuale dello scrittore: la voce è quella di Marco Belpoliti, ed è una di quelle che pesano: Tuttavia quello che attrae maggiormente Parise è la mescolanza di spiritualità - lo Zen - e di sessualità propria dei giapponesi. Lo si vede bene nella descrizione dei combattimenti di sumo – una «potente attrazione misteriosa ed erotica» - condotti da gigantesche masse di carne maschile, lottatori coperti solo da un minuscolo perizoma -, e nelle visite che compie nelle zone delle case di appuntamento e nei bar erotici della periferia di Tokyo, di cui descrive l’esposizione del sesso femminile - «simile a una testa di polipo» - e le esibizioni sessuali di giovani uomini e donne. Non c’è in questa pagine di Parise nulla di morboso, ma piuttosto una curiosità onnivora verso tutto ciò che riguarda il sesso e i riti privati e sociali, anche se è evidente che la separazione tra sentimento e sessualità, vero tabù dell’Occidente, lo avvince e insieme lo respinge284.

284 Marco Belpoliti, Settanta, cit., p. 278.

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Nell’evidenziare la «potente attrazione misteriosa ed erotica» verso un fenomeno sportivo rituale ed antico come quella del sumo, quindi nel caso di specie verso una pratica - fra le altre - della realtà giapponese, Belpoliti non compie un’operazione né originale né circoscrivibile al solo reportage in oggetto: considerando che attrazione sensuale e sguardo erotico attraversano in modo pervasivo tutta l’opera dello scrittore, e che la loro rilevazione - talvolta con posizioni interpretative che lo qualificano persino come “tratto fondamentale” - è un’acquisizione oramai consolidata da parte di tutta la moderna critica parisiana. Lo scarto a lato di Belpoliti, sotto questo aspetto unica voce clamans in un insieme o silente o dissenziente, è negare la definizione di “morboso” per la sessualità narrata da Parise nella scrittura. Con posizione difforme rispetto a Belpoliti, e in modo indipendente dalle osservazioni della saggistica, non concordo con il suo punto di vista: che, ipotizzo, considero condizionato da una sorta di scrupolo laico e antimoralistico verso lo scrittore. Detto senza giri di parole: se non posso certo qualificare con cognizione di causa quella del vissuto, di sicuro la sessualità che attraversa i suoi scritti è invece esemplarmente morbosa. A sostegno della sua tesi, Belpoliti attribuisce la sessualità alla sfera della «curiosità onnivora» di Parise: ma appunto in quanto tale, onnivora - o vorace come la si è anche definita nel corso della tesi - la sua curiosità è un tratto di personalità onnipresente, perché ogni oggetto la può attivare ed attrarre, in misura differente e con diversa declinazione a seconda del caso specifico. Viceversa, lo sguardo sessuale parisiano non è generica curiosità, non è solo neutrale attrazione smodata verso tutto: ha piuttosto i tratti marcati di un’avventura dei sensi - tutti senza esclusione - e dell’immaginazione, con aspetti deformati, a volte grotteschi, sempre alterati nelle misure e sensazioni, percepiti o fantasticati in uno stato 261


onirico, sonnambulo; e dove la sensualità risulta insieme tanto delicata quanto fortemente carnale, corporale. Fra i cinque sensi, e data per scontata la vista, il senso prevalente è l’olfatto, un canale di percezione arcaico, sicuramente assegnabile all’infanzia. Quella di Parise è una visione sensuale e sessuale deformata e sognante, quale si presenta senza sovrastrutture a due occhi infantili: è la visione narrante che percorre per intero i due romanzi Il ragazzo morto e le comete e La grande vacanza. Per avere un’idea più precisa di questa visione di Parise, è necessario leggere alcuni passi tratti da romanzi, narrazioni di luogo, racconti: Quanta confusione. Eppure in questa confusione di barche in giro per il canale […] appaiono ogni tanto gambe chiare di fanciulle negli scafi sottili che avanzano a pelo d’acqua. Davanti agli occhi del ragazzo di quindici anni esse promettono prati di erba alta, carezze e tuffi improvvisi da un albero nei punti profondi e caldi. Per un attimo la felicità sono proprio queste immagini di bellezza solare, acquatica e subacquea, la gioia di penetrare nei punti profondi e caldi con gli occhi aperti sapendo nuotare poco e faticosamente285. Una sera andò nel cortile e lo trovò deserto […]; apparve da sotto il porticato la bambina paralizzata che quella sera aveva le gambe coperte da calze di lana di colori diversi, disse che gli altri erano andati alla festa di San Valentino e che […] lei era rimasta ad aspettarlo […]. Si era appesa con un braccio al collo di lui come per sorreggersi e ad ogni passo il ragazzo sentiva l’anca di lei sbattere contro la sua e il viso lisciato dai capelli che odoravano di fumo e senza trecce avvicinarsi ed allontanarsi scaldando il suo con l’alito dolce di caffelatte e di caramelle […]. Quando si avvicinò sentì che il suo alito scottava. Lei gli prese la mano e gliela portò fin sopra il ginocchio. Con un fil di voce egli disse: «Non sento niente qui, fammi sentire meglio» ed infilò le mani sotto la veste, salendo sulle gambe calde e unite […]. Il calore di un tratto di pelle scoperta gli fece tremare le dita egli le infilò rapido tra le cosce fino a toccare la pietra del pozzo. Primerose si chinò a mordergli il volto tracciandolo di saliva primarosa ed egli sentì le dita, liberate dalla stretta,, scivolare sulla pietra fredda che andava a poco a poco scoprendosi286. Claudio tirò fuori una scatoletta gialla di latta […], l’aprì e afferrò con la punta di due dita un pezzetto di pellicola da film: un negro seminudo con una grande capigliatura da donna cosparsa di perle e nastrini in un trono e con la lancia in mano […]. Lei la guardò appoggiata al muro […] Claudio disse: «Non si vede niente ma è tutto grasso e pare una donna, ti piace non è vero? Vuoi dargli un bacino?» […].

285 Goffredo Parise, Il ragazzo morto e le comete, in OPERE I, p. 9. 286 Ivi, pp. 25-27.

262


Ora la figura del negro, o della negra con le gambe grasse e unte e le mammelle dal capezzolo appena lustro di bava sdrucciolevole occupava l’intero bugigattolo di frenetico moto, con risate e ghigni di scimmia e strida di uccelli esotici. (Zoo) […]. «Ma tu sei una bambina, non sei fatta come me» disse Claudio287. Ma in quei giorni la casa del cav. Esposito sapeva di peccato e di sensualità come non mai. E ora, in quegli ultimi giorni, a quel sentore di sensualità che le ragazze spandevano nelle stanze fino ad impregnarle, s’era aggiunto l’altro sentore, quello maschio, selvatico, di pollame, che il cav. Esposito emetteva per virtù d’amore […]. Ne risultava lo stesso selvatico di un pollaio, arricchito da tutte le dolciastre fragranze femminili, verginali e viziose, nel quale pollaio da poco avesse preso dimora il gallo. Don Gastone dovette sentirlo bene poiché arricciò il naso in una smorfia particolare […]. Come prima […] ridiventò tutto olfatto per quell’odore che stagnava nella stanza di Fedora a lui nuovo e conturbante, tiepido, di letto288. Ed ecco che dopo otto anni di viaggio in tutto il mondo egli [zio Gennaro] […] giunse da noi insieme a […] una cassetta segreta che mi regalò perché l’aprissi quando fossi stato più grande. Poiché ero ammalto […] ottenni di aprire la pesante cassetta[…]: conteneva una quantità enorme di lettere d’amore […] e altrettante fotografie. Vi apparivano spesso donne completamente nude, o stelle del cinema di cui egli era stato fidanzato. Sul fondo della cassetta, sepolta da tutte le altre gettate alla rinfusa [… ] stava un’altra fotografia […]: raffigurava anch’essa una donna nuda, di color scuro, immersa dentro un enorme calice, di champagne. Anche questa fotografia portava una dedica e un nome, molto grande e chiaro: Josephine Baker. Non avevo mai visto, nemmeno in fotografia, una donna di pelle scura, una negra. O meglio avevo sempre confuso i due sessi di questa razza, figurandomi i negri tutti uguali. Ne avevo visti infatti nel film Bozambo […]. Ricordo con esattezza di aver provato una impressione sconvolgente per quella fotografia […]. Passavo notti intere a scrutarla, quel corpo lungo e sciolto come di biscia o di cavallo, arcuato nell’abbandono entro la grande coppa, le lunghe gambe sporgenti dall’orlo e tese verso l’alto, la grande bocca di denti scintillanti, i seni aguzzi e indistinti dentro i riflessi dello champagne…289. Si chiamava Jiky, un nome che a sentirlo sembra da ballerino […], da avanspettacolo; un nome che comprendeva i mari del Sud e anche le scimmie […], certe tele di Gauguin come “Manau Tupapau”. La vidi per la prima volta in un locale notturno in Rue du Colisée, uno di quei mille locali di Champs Elysées, per turisti […]: sottile come un giovane negro, i capelli lunghi e neri di corvo della Polinesia, gli occhi lunghissimi e lucenti come pieni di lacrime ma sorridenti […], le labbra gonfie screziate, con un filo di pelle quasi bianca a limitare il turgido labbro superiore. La sua pelle […] anch’essa pareva inturgidita o come indurita allo stesso modo delle labbra […]. Cantò una canzonetta da niente […].

287 Ivi, pp. 218-220. 288 Goffredo Parise, Il prete bello, in OPERE I, pp. 483, 486. 289 Goffredo Parise, Josephine, in OPERE I, pp. 1232- 4.

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Non era una bellissima donna, e non era nemmeno una donna ma solo una ragazzina di quindici, sedici anni forse […]: era qualcosa di più di una bellezza, qualcosa di più, di diverso, di ambiguo, di incomprensibile, in certi momenti perfino di mostruoso […]. Ma perché mai si sarà vestita da uomo? È un uomo? È una donna travestita da uomo, o un uomo travestito da donna? […] Non potrò mai dire che cos’era: era Jiky e niente altro, un’ora donna e un’altra ora uomo, un’altra ora scimmia, gatto, trampoliere, uccello del paradiso, bisesso, trasformabile, dotata di ubiquità e di invisibilità. Poi scomparve dal locale notturno290.

Ora, sia chiaro: il primo punto è intendersi sul significato di morbosa. Personalmente, definisco morboso l’eros vissuto e immaginato secondo esperienze e fantasie prevalentemente infantili, con parziali o scarsi filtri adulti. E proprio questa direi senza ombra di dubbio, anche fermandoci ai passi appena letti - è la condizione in cui sempre si è espressa la sessualità dello scrittore nel corso della sua scrittura. Senza dimenticare, che con una certa seppur ridotta analogia con la figura di Comisso, anche nei riguardi di Parise la saggistica ha ipotizzato una sorta di pansessualismo: che in ogni caso e senza possibilità di equivoco, prende ripetutamente nelle sue opere la forma di ambivalenza o ambiguità sessuale, di attrazione androgina e bisessuale, di esplicito omoerotismo infantile.

III.15

1984 Parigi Nell’agosto del 1984, accompagnato da Giosetta Fioroni e da Omaira Rorato,

Parise visitò nuovamente Parigi, di cui scrisse nel suo ultimo reportage “ufficiale” almeno a quanto ci è dato conoscere, fino ad oggi, dallo studio delle sue carte conservate negli archivi di Ponte di Piave e Roma - pubblicato sotto forma di articoli usciti per il «Corriere della Sera» fra il settembre e il dicembre dello stesso anno. Gli articoli non furono mai riuniti ed editi in volume unico, ma sono stati in seguito raccolti

290 Goffredo Parise, Ballerina sì e no, in OPERE I, pp. 1450- 6.

264


- con l’eccezione dell’ultimo - nei due tomi dei Meridiani dedicati all’opera dello scrittore291. Parise scandisce il testo attraverso una continua alternanza fra considerazioni del momento, ricostruzioni memoriali del primo viaggio nella capitale francese, riflessioni e descrizioni del presente parigino devastato dal turismo di massa, e frequenti dialoghi con il personaggio femminile rappresentato da un’anonima giovane chiamata “figlia adottiva”: identificabile, plausibilmente, con Omaira Rorato, insieme alla Fioroni sua compagna di viaggio: una ragazza che aveva conosciuto nel 1977 a Ponte di Piave, di cui era stato innamorato, e alla quale rimase sempre affezionato. Scorrendo la narrazione avvertiamo che la rinnovata flânerie attraverso Parigi è accelerata rispetto a quella di trent’anni prima: benché lo scrittore deprechi la frenesia contemporanea che contagia la vita parigina, persino in quei locali - bistrot o brasserie rimasti immutati per atmosfera e qualità culinaria ma adeguati ai tempi per velocità del servizio, tuttavia, una medesima, seppur molto attenuata frenesia, caratterizza sia il suo girovagare per la città sia il racconto che lo narra. Il ritmo narrativo si fa incalzante, più incalzante rispetto ad altri reportage: lo rendono tale il passo più affrettato della camminata, lo spostamento quasi senza soste di luogo in luogo, i dialoghi serrati, brevi, incisivi. È una scrittura che assorbe lo spirito della contemporaneità, trasformandola, e moltiplicandone l’efficacia estetica: lo scrittore raggiunge un elevato grado di bellezza artistica, da cui emana una luce originale e ancor più coinvolgente. È forse un nuovo Parise, di sicuro un Parise rinnovato nel suo stile di scrittura di reportage. La spia iniziale di un’ennesima svolta. Troncata due anni dopo dalla prematura ma annunciata morte dello scrittore.

291 Cfr. la sezione Scritti vari, in OPERE II, pp. 1552-82.

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Leggo qualche passo dal primo capitolo, intitolato Com’è cambiata Parigi negli ultimi trent’anni: Trent’anni prima arrivi alla Gare de Lyon con sbuffi bianchi di vapore, polvere di carbone e un rimasuglio di odore della Wehrmacht. Di povero, umido e sconfitto panno di guerra. Non conosci nemmeno la parola porteur necessaria quando si ha una valigia povera dunque enorme, che trascini da solo con la tua gioventù fino a un taxi, già preso dai rimorsi del taxi. Trovi da dormire in una stamberga secca e pulciosa lì vicino, abitata da arabi in barracano che blaterano tutta la notte. Poi ti allontani in cerca di un altro alberghetto bon marché e inevitabilmente, fatalmente, capiti a Saint Germain des Prés. Hai con te un altro bagaglio, apparentemente senza alcun peso: i diari di Gide, quelli di Léautaud, Camus, Sartre […], e con il tuo bagaglio leggero guardi Parigi come fosse ancora il centro del mondo.. il cielo è azzurro e le case del colore del piombo. Sei un uomo dell’Ottocento che incespica nelle ceneri dell’Ottocento, ma sei giovane e non lo sai. Oggi sbarchi a un satellite dell’aeroporto Charles de Gaulle, risucchiato da una proboscide mobile e da tappeti mobili e scale mobili […]. Questa volta non sei solo, sono passati trent’anni e hai una figlia, una adoptive che ha trent’anni meno di te, non ha bagagli di nessun tipo e genere e tu, subito, andando a Parigi senza alcun rimorso nel tuo taxi, ripercorri mentalmente l’itinerario dei tuoi alberghi, da quelli già detti e su su fino al Ritz […], e poi il tuo pensiero e il tuo cuore ti riportano, invece, a Saint Germain des Prés, in un alberghetto di nemmeno due stelle perché quello è il tuo posto, costasse anche come il Ritz […]. C’è però accanto a te tua figlia che tu, chissà perché, speri che riesca a vedere Parigi con i tuoi occhi di allora solo perché ha la tua età di allora. La storia giustamente non è il suo forte, per perdita di credibilità, l’ideologia per sua fortuna, per la fortuna della sua pelle e delle sue labbra di bambina imbronciata non sa nemmeno cos’è, ma ha occhi e cervello per guardare e pensare. Non ha bagagli né pesanti né leggeri. Questa è certamente l’ultima volta che vedrai Parigi e lo sai, ma fingi di non saperlo per scaramanzia e in ogni caso la vuoi vedere anche tu con gli occhi di tua figlia, ma è impossibile. Siamo a Place de la Concorde e tu non puoi rinunciare alla vanità dl tuo bagaglio, è più forte di te e dici: «Questa è Place de la Concorde. Vedi quell’obelisco? Al suo posto, alla fine dell’Ottocento [Settecento], c’era la ghigliottina. Qui hanno tagliato la testa al re…» «Quale re? » «Luigi XVI. Dietro di te ci sono i giardini reali, le Tuileries…» «Perché gli hanno tagliato la testa?» «L’hai studiato a scuola.» «Non lo ricordo più bene» […] Il bistrot Saint Pères, all’angolo del Boulevard con la rue des SaintsPères, è uguale. Sempre le stesse cameriere piuttosto agée, una è platinata, con quegli stessi grembiuli di satin nero e quella cantilena parigina in un francese che ora mi sembra spalmato anche se leggermente di vischio per i turisti. Ma forse non lo è. La mia adoptive è entusiasta della terrine de champagne e non ha torto […]. Mangia con fame, con piacere e con curiosità. Vuole assaggiare tutto […]. Dopo andiamo al Flore. Si trova un minuscolo tavolo perché il turismo intellettuale, il più cretino del mondo, non dà spazio. 266


«A me sembra un caffè come un altro. Ma con troppa gente. Andiamocene» Sono un poco orgoglioso della mia adoptive: dice le cose giuste al momento giusto292.

Proseguo con l’articolo Fra grattacieli più freddi di un cimitero: Cedi alle insistenze dell’adoptive e la porti al Père Lachaise, centro del labirinto funebre che si snoda lungo le vie di Parigi […]. Il profumo della tuia è quasi istituzionale nei cimiteri […]. Profondo, intenso, nordico, vive di silenzio. Qui turismo non c’è, essendosi fermato alle soglie del Novecento […]. Tu stesso sei stato uno di quei turisti, trent’anni fa, sull’onda di una gioventù romantica e adatta ai cimiteri se non al Foscolo293.

Ora con Il budello nato dal ventre di Parigi: Tu ricordavi Les Halles, polverosi e piovigginosi padiglioni dal tetto di vetro dal cui interno occhieggiavano enormi Charolais squartati, polli, fiori e gli infiniti colori della natura commestibile, luogo di grande traffico, il grande marcato, il ventre di Parigi. negli anni l’hai visto abbattere, sfondare, bucare e con lui travolti un sacco di bistrot dove, affamato, d’inverno, al freddo, entravi al caldo a mangiare una bollente bouillabaisse […]. «Doveva essere ben triste la Parigi di trent’anni fa» osserva l’adoptive una volta usciti dal commissariato. «La misura era esattamente questa» le dico, «ma non era affatto triste. Era la misura della Francia, il suo stile, lo stile della povertà. Anzi non della povertà ma della parsimonia e se vuoi dell’avarizia»294

Leggo infine dall’articolo Visita con ricordi, “Chez Gallimard”: Oggi un altro fantasma percorre la Francia: un fantasma deriso, spregiato, ridicolizzato. Si chiama M. Le Pen, un ex parà, braccio destro di Poujade (qualcuno lo ricorda?) anzi semi gorilla dello stesso: si dice abbia perduto un occhio in colluttazioni politiche. È di destra, di estrema destra, e basa il suo nazionalismo e la sua xenofobia su un elementare assioma diretto a tutti gli algerini, tunisini, arabi, vietnamiti, cinesi e stranieri, moltissimi dei quali vivono illegalmente a Parigi. Avete voluto l’indipendenza […], ora avete territorio e indipendenza, perché venite a Parigi a cercar lavoro? Interrogativo elementare ma senza alcun dubbio assai logico. Non è un grande fantasma M. le Pen, ma si può star certi che lo diventerà perché la sua logica non fa una grinza e perché lo sciovinismo francese è pur sempre quello […]. M. Le Pen è un fantasma che aumenterà di statura elettorale ogni giorno di più. Ogni giorno di più si vedranno pulire le strade da africani e in generale da

292 Goffredo Parise, Com’è cambiata Parigi negli ultimi trent’anni, in «Corriere della Sera», 18 settembre 1984 [ora nella sezione Scritti vari, in OPERE II, pp. 1552-57]. 293 Id., Fra grattacieli più freddi di un cimitero, in «Corriere della Sera», 4 ottobre 1984 [ora nella sezione Scritti vari, cit., pp. 1563-67]. 294 Id., Il budello nato dal ventre di Parigi, in «Corriere della Sera», 11 ottobre 1984 [ora nella sezione Scritti vari, cit., pp. 1568-72].

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uomini di colore. E del resto quali sono quei francesi che vogliono fare gli spazzini?295

Parise scandisce i passi del suo cammino per Parigi e in parallelo la scrittura scandisce i passi del suo scarto fra memoria del vissuto, percezioni del presente, continuo dialogo affettivo con l’adoptive. Risulta perfino superfluo segnalare lo strabiliante carattere profetico delle osservazioni sul fenomeno nazionalista rappresentato da Le Pen, e più in generale sulla problematica dell’immigrazione crescente soprattutto dalle ex colonie, che trovava in Parigi un prototipo già esplosivo delle future evoluzioni in ambito europeo: osservazioni dai tratti così anticipatori da apparire oggi un impressionante cortocircuito della Storia.

295 Id., Visita con ricordi, “Chez Gallimard”, «Corriere della Sera», 1° novembre 1984 [ora nella sezione Scritti vari, cit., pp. 1578-82].

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BIBLIOGRAFIA

AVVERTENZA La presente bibliografia, focalizzata sulla produzione di reportage di Goffredo Parise, ripropone - con le opportune integrazioni, aggiornamenti e precisazioni - quelle pubblicate nella IV edizione (gennaio 2006) del volume primo, e nella terza edizione (marzo 2005) del volume secondo, dei due Meridiani Mondadori dedicati all’opera dell’autore.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

Goffredo Parise, Opere, a cura di Bruno Callegher e Mauro Portello, I, Milano, Mondadori, 1987; 4a ed., 2006. Id., Opere, a cura di Bruno Callegher e Mauro Portello, II, Milano, Mondadori, 1989; 3a ed. aggiornata, 2005.

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OPERE DI REPORTAGE DI GOFFREDO PARISE

In volume Cara Cina, Milano, Longanesi, 1966. Due, tre cose sul Vietnam, Milano, Libreria Feltrinelli, 1967. Biafra, Milano, Libreria Feltrinelli, 1968. Guerre politiche. Vietnam, Biafra, Laos, Cile, Torino, Einaudi, 1976. New York, Venezia, Edizioni del Ruzante, 1977. L’eleganza è frigida, Milano, Mondadori, 1982.

Raccolte postume (di testi pubblicati da Parise in vita) Gli americani a Vicenza e altri racconti, con una nota introduttiva di C. Garboli, Milano, Mondadori, 1987 (ristampa di Gli americani a Vicenza accompagnata da una scelta di racconti apparsi in giornali e riviste). Odore d’America, Milano, Mondadori, 1990 (coedizione di New York [Venezia, 1977] e delle lettere-reportage in parte già pubblicate con il titolo America in «L’Espresso», 13 dicembre 1987, pp. 127-51). Suite romana, in Roma, punto e a capo. La città eterna attraverso gli occhi di grandi narratori, a cura di S. Cirillo, Roma, Edizioni Ponte Sisto, 2017, pp. 243-256.

In quotidiani e riviste

(ordinate per data)

1954 Il ghetto di Venezia, in «L’Illustrazione italiana», 5, pp. 67-70. 1955 La camera N. 7 d’uno strano Grand Hôtel, in «Corriere d’Informazione», 23-24 febbraio 1955. Questo e i seguenti articoli (fino a L’altissimo negro …) costituiscono il primo reportage di Parise su Parigi. Ma guarda chi si incontra! Pancho Villa redivivo, in «Corriere d’Informazione», 25-26 febbraio 1955. Il signore che aveva prenotato un posto in fondo al giardino, in «Corriere d’Informazione», 26-27 febbraio. 270


Né a Napoli né a Milano è possibile un Museo Grévin, in «Corriere d’Informazione», 910 marzo. Per divertire Parigi ciclisti ai lavori forzati, in «Corriere d’Informazione», 17-18 marzo. Non ci sono spettri e ci si balla di gusto, in «Corriere d’Informazione», 25-26 marzo. L’altissimo negro aveva un disco solo, in «Corriere d’Informazione», 2-3 aprile. 1959 L’ultimo sabato di Israele, in «L’Illustrazione italiana», 4; riedito in Saggi italiani 1959, a cura di Alberto Moravia e Elemire Zolla, Milano, Bompiani, 1960, pp. 51-5. Il presente articolo rappresenta il reportage su Israele. 1960 Questa è la Russia di Krusciov 1. All’aeroporto di Mosca incontro Tarass Bulba con un transistor, in «Settimo Giorno», 10 marzo, pp. 28-31. Il presente articolo, insieme ai seguenti fino a Questa è la Russia di Krusciov 3…, costituiscono il reportage sulla Russia. Questa è la Russia di Krusciov 2. Trent’anni di vita politica attraverso le stazioni del metrò, in «Settimo Giorno», 17 marzo, pp. 18-21. Questa è la Russia di Krusciov 3. Leningrado è il fantasma di Pietroburgo, in «Settimo Giorno», 24 marzo. 1976 Roma, in «Corriere della Sera», 4 marzo. Questo e i seguenti articoli su Roma (fino a La Chiesa Cattolica …) costituiscono il mini-reportage di Parise sulla Capitale, e nel 2017 sono stati pubblicati con il titolo Suite romana nel volume collettivo Roma, punto e a capo. La città eterna attraverso gli occhi di grandi narratori, cit., pp. 243-256. I Romani, in «Corriere della Sera», 6 marzo. Intellettuali e artisti, in «Corriere della Sera», 8 marzo. Il cinema, in «Corriere della Sera», 13 marzo. La Chiesa Cattolica, in «Corriere della Sera», 17 marzo. 1984 Com’è cambiata Parigi negli ultimi trent’anni, in «Corriere della Sera», 19 settembre. Il presente e i seguenti articoli su Parigi (fino a Visita con ricordi…) costituiscono l’ultimo reportage di Parise. D’improvviso, a Montmartre, l’odore dell’arte, in «Corriere della Sera», 22 settembre. Fra grattacieli più freddi di un cimitero, in «Corriere della Sera», 4 ottobre. Il budello nato dal ventre di Parigi, in «Corriere della Sera», 11 ottobre. È un po’merito dei re se qui si mangia ancora bene, in «Corriere della Sera», 23 271


ottobre. Visita con ricordi, «chez Gallimard», in «Corriere della Sera», 1° novembre.

In quotidiani e riviste

(ordinate per testata)

«L’Illustrazione italiana» Il ghetto di Venezia, maggio 1954, pp. 67-70. L’ultimo sabato di Israele, 1959, 4; riedito in Saggi italiani 1959, a cura di Alberto Moravia e Elemire Zolla, Milano, Bompiani, 1960, pp. 51-5. «Corriere d’Informazione» La camera N. 7 d’uno strano Grand Hôtel, 23-24 febbraio 1955. Questo e i seguenti articoli (fino a L’altissimo negro …) costituiscono il primo reportage di Parise su Parigi. Ma guarda chi si incontra! Pancho Villa redivivo, 25-26 febbraio 1955. Il signore che aveva prenotato un posto in fondo al giardino, 26-27 febbraio 1955. Né a Napoli né a Milano è possibile un Museo Grévin, 9-10 marzo 1955. Per divertire Parigi ciclisti ai lavori forzati, 17-18 marzo 1955. Non ci sono spettri e ci si balla di gusto, 25-26 marzo 1955. L’altissimo negro aveva un disco solo, 2-3 aprile 1955. «Settimo Giorno» Questa è la Russia di Krusciov 1. All’aeroporto di Mosca incontro Tarass Bulba con un transistor, 10 marzo 1960, pp. 28-31. Il presente articolo, insieme ai seguenti fino a Questa è la Russia di Krusciov 3…, costituiscono il reportage sulla Russia. Questa è la Russia di Krusciov 2. Trent’anni di vita politica attraverso le stazioni del metrò, 17 marzo 1960, pp. 18-21. Questa è la Russia di Krusciov 3. Leningrado è il fantasma di Pietroburgo, 24 marzo 1960. «La Fiera letteraria» Manlio Cancogni, L’odore casto e gentile della povertà. Conversazione con Goffredo Parise, in «La Fiera letteraria », 22 agosto 1968. «Corriere della Sera» Roma, 4 marzo 1976. Questo e i seguenti articoli su Roma (fino a La Chiesa Cattolica …) costituiscono il mini-reportage di Parise sulla Capitale, e nel 2017 sono stati pubblicati con il titolo Suite romana nel volume collettivo Roma, punto e a capo. La città eterna attraverso gli occhi di grandi narratori, cit., pp. 243-256. I Romani, 6 marzo 1976. 272


Intellettuali e artisti, 8 marzo 1976. Il cinema, 13 marzo 1976. La Chiesa Cattolica, 17 marzo 1976. Com’è cambiata Parigi negli ultimi trent’anni, 19 settembre 1984. Il presente e i seguenti articoli su Parigi (fino a Visita con ricordi…) costituiscono l’ultimo reportage di Parise. D’improvviso, a Montmartre, l’odore dell’arte, 22 settembre 1984. Fra grattacieli più freddi di un cimitero, 4 ottobre 1984. Il budello nato dal ventre di Parigi, 11 ottobre 1984. È un po’merito dei re se qui si mangia ancora bene, 23 ottobre 1984. Visita con ricordi, «chez Gallimard», 1° novembre 1984.

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BIBLIOGRAFIA DELLA CRITICA SULLE OPERE DI REPORTAGE

Atti di convegni, volumi miscellanei e numeri monografici di riviste Angelo Pellegrino, Verso Oriente. Viaggi e letteratura degli scrittori italiani nei paesi orientali (1912-1982), Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1985, pp. 1-3, 10-6, 121-3, 142-9, 176-82, passim. Omaggio a Parise, a cura di Silvio Perrella, «Nuovi Argomenti», s. IV, 9, ottobredicembre 1996, pp. 15-39; contributi di A. Zanzotto, I. Man, R. Manica, S. Onofri, S. Perrella, A. Picca, C. Piersanti, L. Doninelli, A. Franchini, G. Mozzi, G. Montesano, C. Pinzigrilli, R. Carbone. Goffredo Parise, a cura di Ilaria Crotti, atti del Convegno svoltosi tra il 24-25 maggio 1995 a Venezia e promosso dall’Università «Cà Foscari»-Dipartimento di Italianistica in collaborazione con la Fondazione «G. Cini», Firenze, Olschki, 1997; contributi di G. Bàrberi Squarotti, A.M. Mutterle, E. Trevi, P. Pepe, A. Balduino, R. Damiani, F. Marcoaldi, L. Accati, I. Crotti, E. Guidorizzi, N. Naldini, S. Perrella, G. Pullini, G. Raboni, R. Ricorda e M. Brunetta. Franco Marcoaldi, Prove di viaggio, Milano, Bompiani, 1999, in particolare pp. 164-72. Marco Belpoliti, Settanta, Torino, Einaudi, 2001, in particolare il capitolo II, pp. 53-83 e il cap. VI, pp. 181-233. Gaia De Pascale, Scrittori in viaggio. Narratori e poeti italiani del Novecento in giro per il mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, passim. Silvio Perrella, Parise viaggiatore indigente, in Polinnia. La parola “quotidiana”. Itinerari di confine tra letteratura e giornalismo. Atti del Convegno. Catania 6-8 maggio 2002, Firenze, Olschki, 2004, pp. 191-9. Giornalismo italiano, a cura di Franco Contorbia, III, Milano, Mondadori, 2009, pp. 1839-40; I Meridiani, 1939-1968. Giornalismo italiano, a cura di Franco Contorbia, VI, Milano, Mondadori, 2009, pp. 1900-01; I Meridiani, 1968-2001.

Interventi critici e studi monografici di carattere generale Manlio Cancogni, L’odore casto e gentile della povertà. Conversazione con Goffredo Parise, in «La Fiera Letteraria», n. 34, 22 agosto 1968, pp. 16-17. Paolo Petroni, Invito alla lettura di Parise, Milano, Mursia, 1975. Gabriele Braggion, Più delle cose la vita. Goffredo Parise reporter, in «Linea d’ombra», 1996, 117, pp. 23-6. Silvio Perrella, Fino a Salgarèda. La scrittura nomade di Goffredo Parise, Milano, Rizzoli, 2003. 274


Recensioni e saggi PARIGI (1955)

Ilaria Crotti, 1955: Goffredo Parise reporter a Parigi, Padova, Il Poligrafo, 2002.

CARA CINA

Silvio Perrella, Introduzione, in Goffredo Parise, Cara Cina, Milano, Mondadori, Oscar Narratori del Novecento, 1992, pp. 5-8.

GUERRE POLITICHE Furio Colombo, Le guerre di Parise, in «Tuttolibri», supplemento a «La Stampa », 6 marzo 1976. Silvio Perrella, Introduzione, in Goffredo Parise, Guerre Politiche, Milano, Mondadori, Oscar Narratori del Novecento, 1992, pp. 5-11.

NEW YORK Marco Belpoliti, Parise un diavolo a New York, in «La Stampa», 25 maggio 2001.

L’ELEGANZA È FRIGIDA Mario Portello, Introduzione, in Goffredo Parise, L’eleganza è frigida, Torino, Loescher, 1993, pp. 1-11.

SUITE ROMANA Ludovica Del Castillo, Goffredo Parise: una città di papi e topi che insegna a vivere, in Roma, punto e a capo. La città eterna attraverso gli occhi di grandi narratori, a cura di S. Cirillo, Roma, Edizioni Ponte Sisto, 2017, pp. 227-242.

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OPERE NON DI REPORTAGE DI GOFFREDO PARISE

In volume Il ragazzo morto e le comete, Vicenza, Neri Pozza, 1951. La grande vacanza, Vicenza, Neri Pozza, 1953. Il prete bello, Milano, Garzanti, 1954. Il padrone, Milano, Feltrinelli, 1965. Sillabario n. 1, Torino, Einaudi, 1972. Sillabario n. 2, Milano, Mondadori, 1982. Sillabari, Milano, Mondadori, 1984 [l’edizione, come le successive, raccoglie entrambi i Sillabari].

Raccolte postume (di testi pubblicati da Parise in vita) Verba volant. Profezie civili di un anticonformista, a cura di S. Perrella, Firenze Liberal Libri, 1998 (raccolta delle prose civili di Parise). Lontano, a cura di S. Perrella, Cava de’ Tirreni, Avigliano Editore, 2002.

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