Il vuoto, da spazio di risulta a elemento di progetto

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Il vuoto Da spazio di risulta ad elemento di progetto

Paolo Catrambone

Prof. Fulvio Irace Accademia di Architettura di Mendrisio . Gennaio 2016


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INDICE

6 . Introduzione

9.

I vuoti della città

17.

RICOSTRUIRE UN PENSIERO DI CITTA’

18.

Nigel Henderson, i bambini di Chineshale Road

21.

Allison e Peter Smithson, la strada come luogo di incontro

27.

The Economist building a Londra, progettare un vuoto nel costruito

33.

Aldo Van Eyck, i playground di Amsterdam

39.

Gordon Cullen, Townscape

45.

RICOSTRUIRE LA CITTA’ DALL’INTERNO

49.

Gabriele Basilico, la permanenza della città

55.

Alvaro Siza, la ricostruzione del Chiado di Lisbona

67.

David Chipperfield, il progetto di JoachimStrasse a Berlino

73.

Renzo Piano, il progetto di St. Giles a Londra

77.

CONCLUSIONI

82. TRE POSSIBILI PRINCIPI PROGETTUALI 86.

BIBLIOGRAFIA 3


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INTRODUZIONE

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Questo lavoro di approfondimento indaga un tema la cui riconoscibilità sfugge spesso alla nostra completa comprensione: il vuoto. Intorno a questo argomento sono molti gli affascinanti aspetti di riflessione che possono raccontare il vuoto secondo diversi angoli di lettura. Possiamo infatti partire dalla sua configurazione fisica, intendendolo come spazio di sottrazione, come elemento conquistato per offrire spazi alla vita dell’uomo, oppure lo si può considerare come mezzo di trasmissione di significati, pensando agli esempi delle culture orientali o a grandi spazi architettonici come il Pantheon di Roma, che attraverso il suo immenso vuoto ambiva ad essere rappresentazione costruita dell’universo. Il vuoto però può anche assumere significati personali se inteso come mancanza, come assenza e allo stesso tempo come luogo in attesa del futuro e quindi portatore di promesse e di fiducia. Questi tre ampi ordini di classificazione sono quelli secondo cui il professor Fernando Espuelas organizza il suo interessante testo intitolato “Il Vuoto, riflessioni sullo spazio in architettura”, che si pone l’obiettivo di fornire una sorta di palinsesto sul quale sovrapporre le diverse qualità di questo tema, non tanto nel tentativo di offrire delle risposte definitive ma bensì provando a interpretare la densità di significati e qualità che questa dimensione può raccogliere. 1 Il vuoto è direttamente collegato alla dimensione del pieno con il quale è chiamato ad instaurare un sistema di relazioni in grado di esprimere il senso dell’opera costruita. Gli aspetti affascinanti legati a questo tema sono molteplici ma queste pagine provano a concentrarsi sulla dimensione urbana del vuoto, sullo spazio pubblico, sui vuoti della città. All’interno di questo ambito il vuoto mantiene la sua dimensione spaziale ma si fa diversificato, aperto e collettivo. Si tratta appunto di un vuoto urbano nel quale trovano la propria rappresentazione la memoria della città e il trascorrere quotidiano della vita umana. Piet Mondrian sintetizza splendidamente questa dimensione nella sua opera intitolata Broadway Boogie-Woogie, in cui attraverso un interessante processo di scomposizione il pittore figura la simultaneità degli eventi e il ritmo di una città, rappresentandone solo l’intreccio di vie e piazze. Scegliere di affrontare il vuoto nei sistemi urbani significa anche riflettere sulla realtà presente e sullo sviluppo delle nostre città. La matrice dei vuoti ci permette di leggere con chiarezza l’impianto delle città antiche fino all’epoca ottocentesca e di percepire in molti casi la topografia e il territorio che le supportano e ne definiscono le direttrici. Il concetto di vuoto si intreccia qui con quelli di densità e di soglia: il primo distingue chiaramente l’ambito urbano da quello rurale mentre il secondo segna il passaggio dall’ambito privato a quello pubblico. Questa dimensione nel suo insieme definisce la realtà di una città e al tempo stesso conferisce ai vuoti il ruolo di protagonisti della vita pubblica, della percezione della città e della sua memoria.

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Cfr. Fernando Espuelas. Il vuoto riflessioni sullo spazio in architettura, edizioni marinotti 2004, Milano

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Fig.1 Piet Mondrian, Broadway Boogie Woogie, tratto dal libro “Mondrian, Piet”

I nostri giorni hanno invece conosciuto lo sviluppo di una nuova dimensione urbana associata alla definizione di città diffusa, dove lo sviluppo di singole abitazioni puntuali e degli spostamenti veicolari ha generato un mondo in cui spesso non è più chiaro se ci si trovi in una città o nelle sue campagne e in cui la qualità dei vuoti non appartiene più alla sensibilità della pianificazione preferita al suo quasi totale rifiuto concretizzato nello riempimento dello spazio senza controllo. Il vuoto nel mondo dell’architettura può rivestire un ruolo molto importante e il recupero della sua comprensione, come vedremo attraverso diversi esempi, può definirsi come elemento basilare per una nuova cultura progettuale e pianificatoria.

“E’ curioso come tutti noi architetti fotografiamo l’architettura senza persone, sapendo che è nata per essere usata dalle persone, ed è perché l’architettura permane, le persone cambiano. L’architettura mette in relazione cose e persone. Nella buona architettura vediamo, quando è vuota, sia persone che cose che, pur non essendoci, sono presenti. Il fatto che non ci siano è perché si rinuncia alla loro presenza, e la buona architettura è piena di buone rinunce”. 2

In queste parole di Alejandro De La Sota comprendiamo con un’immagine chiara la reciproca importanza che intercorre tra il vuoto e lo spazio costruito e lungo le pagine di questo lavoro proveremo ad andare più a fondo, rifiutando uno sguardo nostalgico a modelli passati, ma provando a comprendere l’importanza di un tema attraverso cui rileggere il futuro delle nostre città.

Alejandro De la Sota, testo di introduzione all’articolo: “1929/1986. Reconstrucion del Pabellon de Barcelona” , in Arquitectura, n.261

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I VUOTI DELLA CITTA’

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Le città sono i momenti di incontro, o solo il momento del desiderio di incontrarsi, materializzati sotto forma di muri, strade, case, luci, piazze, sale, stanze, fiere, teatri, fonti, bagni, terme (…) Le città sono fatte del tempo dell’incontro e del tempo che lo precede. 3

Se le cittá sono i momenti dell’incontro con il tempo, con la memoria e con le persone diventa interessante analizzarle a partire dal luogo fisico dove ciò avviene, ovvero lo spazio pubblico: la matrice dei vuoti di una città. Il vuoto delle cittá é lo spazio condiviso, quello dove la vita scorre ogni giorno, dove le persone si esprimono e dove l’architettura ha la possibilità di radicare il proprio significato. Siamo abituati a pensare le città a partire dai suoi edifici e a immaginare la forma urbana a partire dai pieni. Ribaltare questa visione provando a comprendere cosa significhi guardare un paesaggio urbano studiando la forma e il significato degli spazi compresi tra le architetture può permetterci di ampliare il nostro sguardo portandoci a considerare i vuoti con la medesima importanza che diamo ai pieni. Parlare di questo tema in un periodo storico come il nostro apre collegamenti ad altre epoche e ci da la possibilità di portare la nostra attenzione all’importanza delle cose minime, del silenzio e delle relazioni. Lo sviluppo sfrenato delle nostre città oggi non è più sostenibile né dal punto di vista sociale né da quello economico: le città devono iniziare a rigenerarsi dall’interno. Pensare ai vuoti, come ad uno spazio che necessita di un pensiero progettuale può essere uno dei temi più decisivi per la futura qualità dello spazio di vita delle nostre città.

“L’architettura esprime la sua importanza se in grado di costruire una città viva, porosa, relazionale, inclusiva, identitaria, partecipativa e creativa. Noi come architetti costruiamo i contenitori di questa vita affinché le persone possano poter amare e appropriarsi dei loro luoghi”. 4

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Joao Nunes, La memoria delle città, in PROAP, Architettura del Paesaggio, Note editorial, Lisbona,2010, p.48 Goncalo Byrne, Urbanidades, Madrid Conde de fenosa Fund. Pedro Bairre de la Maza 2009, p. 8

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Il sistema di vuoti non è solo il luogo della vita di una città ma è anche lo spazio in cui entrano in relazione temporalità e stratificazioni differenti che noi possiamo percepire attraverso le vie, i cortili o le piazze. Sono questi spazi tra gli edifici a raccontarci la storia di un luogo e a comunicarci con immediatezza la gerarchia di una determinata area urbana. I vuoti di una città non sempre hanno assunto importanza attraverso una pianificazione definita ma spesso è stato il trascorrere il tempo a definirne la conformazione spaziale. Atene è in questo caso un esempio molto particolare di questo processo. La famosa agorà non venne mai progettata, bensì assunse il proprio significato attraverso l’appropriazione da parte dei cittadini di quella grande area ai piedi dell’Acropoli. Gli edifici vennero dopo e furono costruiti intorno a questo spazio che venne lasciato volutamente libero accrescendo da un lato l’importanza degli edifici governativi che lì vennero eretti e dall’altro la forza della piazza stessa che divenne il vuoto simbolo dell’identità democratica e relazionale dell’antica civiltà attica. L’importanza che quello spazio non costruito rappresentò per la storia di quella civiltà venne reso ancora piu forte dalla successiva conquista di Atene da parte dei Romani, che scelsero simbolicamente di costruire il tempio dedicato ad Ares al centro del vuoto dell’Agorà. Una demolizione costruendo un tempio: il cuore della grandezza della civiltà greca risiedeva in quel grande spazio pubblico che i romani scelsero di cancellare sostituendo il costruito al vuoto. 5 “I Romani con i loro mirabili edifici fecero un regalo avvelenato: era scomparso lo spazio ampio, libero ed unitário, emblema di una singolare forma di convivenza. La grande spianata dell’Agorá, il suo civico e sacro vuoto centrale, fu come il mare invisibile dello spirito attico che con il trascorrere del tempo depositó i suoi sedimenti urbani: edifici, scalinate altari. L’impero romano si impiegó nel riempimento di quel vuoto cívico, prosciugando il mare della libertá ateniese.” 6 Se Atene rappresentò un caso di crescita urbana pianificata a partire dagli usi di vita dei suoi cittadini, Mileto costituì invece il primo caso di città realmente pianificata, nella quale anche i vuoti furono pensati a partire dal primo momento: la città era pensata come un tutto, nel quale lo spazio urbano dovesse cessare di essere un semplice residuo tra il costruito, diventando ora un’entità a se stante, misurata e disegnata per ospitare la vita pubblica della città. 7 Atene e Mileto costituiscono due momenti molto diversi fra loro che peró portano a rendersi conto dell’importanza che gli spazi pubblici ricoprono nella lettura di una cittá e dei suoi edifici. L’architettura del passato ,a cui ci siamo riferiti, fu sempre pensata per durare attraverso il tempo mentre noi oggi ci scontriamo con una cultura architettonica autoreferenziale, volta a stupire e a generare immagini che prescindono dalla realtá cittadina in cui si inseriscono.

Cfr. Fernando Espuelas. Il vuoto riflessioni sullo spazio in architettura, edizioni marinotti 2004, Milano Fernando Espuelas. Il vuoto riflessioni sullo spazio in architettura, edizioni marinotti 2004, Milano, pp 54-55 7 Cfr. Fernando Espuelas. Il vuoto riflessioni sullo spazio in architettura, edizioni marinotti 2004, Milano 5 6

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Fig.2 L’agorà di Atene, tratta dal libro “Fernando Espuelas, il vuoto” Fig.3 L’agorà di Atene ai tempi dell’occupazione romana, tratta dal libro “Fernando Espuelas, il vuoto”

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La nostra contemporaneitá, che tende all’omologazione, alla velocitá e a una pioggia costante di immagini, si é diretta verso un edificato che esprime la stessa confusione. La gran parte delle immagini che ci circondano svaniscono dopo pochi istanti, sono come dei sogni che non lasciano traccia nella memoria, cosi come un’architettura incapace di pensare al vuoto che la circonda non lascerá traccia nella memoria della cittá. La metafora dei sogni é quella usata da Italo Calvino nella sua lezione sull’Esattezza in cui troviamo anche un riflessione sulla cittá. La cittá secondo Calvino è il simbolo piu articolato capace di comunicare la tensione tra la razionalitá geometrica e il groviglio delle esistenze umane. Possiamo allora ritrovarci nei panni del Kublai Khan che, riprendendo le parole di Calvino, “riduce la conoscenza del suo impero alla combinatória dei pezzi di scacchi di una scacchiera, scomponendo le cittá raccontate da Marco Polo in altre disposizioni di torri, alfieri e re sui quadrati bianchi e neri di una scacchiera”. 8 L’operazione a cui peró arriva il gran Khan é la presa di coscienza che le sue vere conquiste non sono altro che il tassello di legno su cui ciascun pezzo si posa:

“Il Gran Khan cercava di immedesimarsi nel gioco: ma adesso era il perché del gioco a sfuggirgli. Il fine d’ogni partita é una vincita o una perdita: ma di cosa? Qual’era la vera posta? Allo scacco matto, sotto il piede del re sbalzato via dalla mano del vincitore, resta il nulla: un quadrato nero o bianco. A forza di scorporare le sue conquiste per ridurle all’essenza, Kublai era arrivato all’operazione estrema: la conquista definitiva, di cui i multiformi tesori dell’impero non erano che involucri illusori, si riduceva a un tassello di legno piallato. Allora Marco Polo parló: La tua scacchiera, sire, é un intarsio di due legni; ébano e acero. Il tassello sul quale si fissa il tuo sguardo illuminato fu tagliato in uno strato del tronco che crebbe in un anno di siccitá: vedi come si dispongono le fibre? Qui si scorge un nodo appena accennato: una gemma tentó di spuntare in un giorno di primavera precoce ma la brina della notte lo obbligó a desistere. Il Gran Khan non si era fino ad allora reso conto che lo straniero sapesse esprimersi fluentemente nella sua língua, ma non era questo a stupirlo. Ecco un poro piú grosso: forse é stato il nido di una larva; non d’un tarlo, perche appena nato avrebbe continuato a scavare, ma d’un bruco che rosicchió le foglie e fu la causa per cui l’albero fu scelto per essere abbattuto… Questo margine fu inciso dall’ebanista con la sgorbia perche aderisse al quadrato piu vicino, piu sporgente.. La quantitá di cose che si potevano leggere in un pezzo di legno liscio e vuoto sommergeva Kublai Khan, i fiumi, gli approdi, le donne alle finestre…” 9

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Italo Calvino, Lezioni Americane, sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, 2002, Milano, pp 80 Ibidem, pp 81-82

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Fig.4 Rappresentazione della città Invisibile di Ersilia presso Berlino, tratta dal sito “www.unurth.com”

Ritroviamo un vuoto nell’immaginazione del Khan: quello lasciato dal Re caduto, quello rimasto sulla scacchiera, la vera conquista capace di superare quei tesori che altro non rappresentano se non involucri illusori. Il vuoto di cui il Khan si rende conto é un luogo colmo di cose da leggere, uno spazio apparentemente scontato portatore peró di una forza, di una storia e di una bellezza capace di essere il senso ultimo di ogni palazzo conquistato. Marco Polo in questo caso altro non é che il cantore di quel tassello, delle sue stratificazioni e delle sua energia nascosta sotto l’immagine delle pedine.Oggi siamo abituati a a dar per scontato lo spazio della vita pubblica, mentre Kublai Khan ci dimostra come scomponendo ogni cittá, se ne ritrova la sostanza ultima, il tassello su cui tutto si regge, che nelle nostre cittá concrete è costituito dallo spazio pubblico.

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RICOSTRUIRE UN’IDEA DI CITTA’ Una nuova linea di pensiero tra Regno Unito e Olanda negli anni ‘50

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NIGEL HENDERSON I bambini di Chineshole Road

Nigel Henderson nacque a Londra nel 1917, fu tra i fondatori dell’Indipendent Group e strinse legami con molti architetti della sua epoca che vennero colpiti dalle sue immagini. Alla fine degli anni ’40, Henderson inizió a scattare una serie di fotografie che ritraevano anonimi bambini della periferia londinese intenti a giocare lungo Chineshale Road. Henderson era un artista molteplice, in grado con una serie di immagini scattate dalla sua finestra, di esprimere e raccontare la vitalitá potenziale di uno spazio collettivo libero ed informale come una strada. Il paesaggio urbano diventa uno spazio di cui le persone si appropriano, un vuoto dove i bambini si ritrovano e giocano con mezzi semplici come una griglia disegnata sull’asfalto. Le fotografie di Chineshale Road testimoniano la necessitá di un’architettura piú attenta alla spontaneitá della vita che alla razionalitá delle regole. 10 Il lavoro di Henderson permette di vedere meglio e di percepire come nell’Europa postbellica si avvertisse la necessitá di pensare agli ambienti della vita collettiva concentrandosi anche sulla piccola scala comprendendone l’importanza. Rispetto ad un movimento moderno che non fu in grado di determinare uno spazio pubblico dal punto di vista del suo proprio disegno specifico, una generazione di professionisti contemporanei tra cui A&P Smithson e Aldo Van Eyck cercó di superare l’inadeguatezza dei propri strumenti progettuali ricorrendo anche alle influenze di altre espressioni artistiche, come la fotografia, che con piu sottigliezza si stavano concentrando sulla rinnovata necessità sociale delle nascenti metropoli. 10

Cfr. Fulvio Irace, Learning from the street, Politecnico di Milano, 2007

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Fig.5, 6, 7, 8 Fotografie di Nigel Henderson presso Chineshole Road, tratte dl sito “www.tate.org.uk�

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ALLISON & PETER SMITHSON La strada come luogo di incontro

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Due figure centrali e innovative nel pensiero urbano di questo periodo sono gli architetti inglesi Allison e Peter Smithson. La figura di Nigel Henderson e delle sue fotografie fu in questo senso fondamentale per la coppia di architetti, che proprio attraverso quelle immagini presentarono per la prima volta la loro visione delle necessità urbane. Durante il IX CIAM Le Corbusier aveva ormai adottato un sistema di presentazione dei singoli gruppi basato su una cosidetta Grille. Tale griglia si basava sul concetto di zonizzazione e mirava a smontare e dividere le varie funzioni urbane per analizzarle singolarmente. Gli Smithson svuotarono il sistema courbusiano e inserirono all’interno della loro griglia alcune delle fotografie di Henderson, chiamate a descrivere i sistemi di relazione urbana difesi dai due architetti. La luce, l’aria e la trasparenza dei nuovi modelli del movimento Moderno venivano contrapposti alla miseria delle condizioni di vita tradizionali e presentate come temi basilari nella progettazione delle nuove realtá urbane. Il razionalismo vestiva in quel momento il ruolo di unica medicina in grado di curare le cittá, di ridare ordine e armonia. Allison e Peter Smitshon esprimono invece un’idea completamente diversa, nella quale il gioco dei bambini vuole mostrare l’importanza di una cultura urbana che pensi il progetto legandosi alla vita di chi ne fruirá superando gli schemi analitici presentati dalla nuova architettura moderna. Come abbiamo accennato, le idee degli architetti inglesi erano condivise da altri giovani professionisti che gravitavano intorno ai congressi internazionali. La Carta di Atene pareva aver offerto risposte universali ai problemi urbani, ma furono proprio questi nuovi protagonisti a rimettere in discussione i dogmi della nuova architettura riunendosi nel gruppo chiamato Team X. Condividevano tutti una sorta di fedeltá nei principi della nuova architettura, ma tutti, avevano ugualmente piena coscienza dei limiti che presentava esprimendo una forte critica rispetto alla complessitá dei problemi della cittá. “Per noi il costruire ha un significato speciale nel senso di una responsabilità assoluta. (...) Nessun piano astratto esiste tra l’architetto e ciò che deve fare ma soltanto un fatto umano e le logiche del contesto. (...) Il team X è dell’opinione che soltanto in questo modo possano costruirsi dei gruppi di edifici significativi, dove ogni edificio è una cosa vivente e un’estensione naturale degli altri; insieme essi conformeranno spazi dove ogni uomo realizzerà ciò che desidera essere”. 11 Queste parole segnano la messa in discussione del verbo modernista, volgendo ora lo sguardo a una umanizzazione dell’architettura, che rifiuti piani astratti inadeguati e indifferenti alla naturale costruzione di una comunitá, di una cittá e di un individuo. Le immagini dei bambini lungo le strade chiarificano, con l’immediatezza dell’immagine, queste posizioni e testimoniano idee forse meno conosciute ma che in questi momenti di ripensamento della città, furono in grado di leggere le lacune di modelli urbani che limitavano il potenziale dell’architettura al semplice edificio in sè. 11

Dichiarazione dell’Obiettivo del Team X, in Team X Primer, Londra, 1953

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Fig. 9 La Grille proposta da A&P Smithson tratta dal libro “The Charged Void�

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Gli Smithson allargano i punti di vista e scelgono di concentrarsi sui vuoti, sullo spazio tra gli edifici, dimostrando con quelle fotografie l’importanza della strada nella vita di una città. La coppia inglese definisce questo pensiero introducendo il loro volume “The Charged Void”, parlando della capacità dell’architettura di caricare d’importanza lo spazio che la circonda con un’energia che può entrare a sua volta in relazione con la vita della città. Si tratta di una capacità che non sempre è possibile registrare o definire, ma che costruisce l’identità di un luogo e che come architetti possiamo sentire e con la quale siamo chiamati a lavorare. “Quello che noi stiamo cercando di offrire è un’urbanistica dove la pianificazione specifica si generi a partire dallo spazio tra gli edifici e il progetto che ne segue dovrà essere visto nell’ottica di questa ambizione. Lo in between parla con il cielo... Lo in between carica di interesse quello stesso cielo” 12 Ai loro occhi appariva con evidenza che l’architettura e l’urbanistica dovessero trovare una necessaria articolazione integrando i temi teorici con il fattore umano e il vuoto tra gli edifici rappresentava il campo adeguato dove tale interazione poteva avere luogo. L’idea di vuoto urbano è individuata dalla coppia inglese nell’immagine della strada che rappresenta il primo luogo in cui si manifestano le relazioni sociali e le espressioni di ciascun individuo. L’impostazione data dalla Carta di Atene rendeva possibile affrontare meccanicamente il disordine della città finendo però col diventare eccessivamente diagrammatica, senza rispondere adeguatamente alla vita quotidiana delle persone. Il sistema delle quattro funzioni (vivere, lavorare, riposare e circolare) viene quindi riletto dagli Smithson e dal Team X, che proposero un’analisi urbana a partire dai diversi livelli di relazione tra gli individui sintetizzata in quattro momenti: la casa (realtà privata), la strada (primo contatto con il mondo esterno), il quartiere (insieme di fatti urbani che garantiscono un’identità alla propri comunità) e infine l’insieme che lega tutti questi sistemi specifici ovvero la città. 12

A&P Smithson, The Charged Void, The Monacelli Press, New York, 2005, pp 13

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Fig.10 Schema associativo disegnato da P.Smithson tratto dal libro “The Charged Void�

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THE ECONOMIST BUILDING Progettare un vuoto nel costruito

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La nuova sede dell’Economist a Londra, costruita tra il 1959 e il 1964, fu la traduzione in opera costruita di molti dei pensieri che abbiamo analizzato. Il progetto non fu accolto positivamente da tutta la critica e molti degli stessi sostenitori degli Smithson, tra cui Ryener Banham, nutrirono dubbi sulle scelte compositive, temendo una riproposizione pittoresca di scale urbane del secolo passato. Questi pareri negativi spinsero la coppia a riaffermare, sulla rivista Architectural Review del 1957, la loro approvazione per le idee urbanistiche di Le Corbusier chiarite successivamente con il progetto Haupstadt di Berlino. Si trattava di un lavoro sullo sviluppo di un’area della capitale tedesca, nel quale tutto il traffico veniva lasciato al livello più basso, mentre tutte le zone destinate a negozi e allo svago volavano sopra questo livello incrociandolo solo in apposite piazze dove le risalite consentivano i collegamenti tra i livelli. Haupstadt fu un lavoro in cui il nuovo sviluppo era chiamato a dialogare con i resti della vecchia città e gli Smithson scelsero di preservare tutto quanto rimaneva, edificando i nuovi manufatti tra gli edifici precedenti, aumentandone la scala e generando corti e piazze pubbliche tra gli uni e gli altri. La descrizione della strategia del progetto Berlinese, introduce chiaramente l’Economist building di Londra, sottolineando ancora una volta la centralità del cosidetto space-between nella progettazione degli Smithson. Il lavoro venne affidato alla coppia dopo un breve concorso con la volontà di raggruppare in un solo signficativo edificio i diversi uffici allora dislocati in diversi luoghi della città. Le possibilità prevedevano di chiudere l’isolato lungo l’intero perimetro, di costruire una singola torre su un podio al centro dell’isolato o una terza opzione che mettesse in dialogo le precedenti. A margine di questa terza opzione venne ritrovata una nota che recitava: “Possiamo pensare di costruire una torre su un podio, con l’aggiunta di alcuni blocchi più piccoli sempre sul medesimo podio, attivandone un dialogo attraverso una piazza pubblica”. 13 Fu questa terza possibilità quella scelta dagli Smithson per la progettazione del nuovo edificio, scegliendo di porre dentro una torre 14 piani l’intera sede del giornale, ubicandola su un podio, in posizione arretrata rispetto a St. James street, così da attenuarne l’impatto visivo. Altri due edifici completarono l’isolato: uno seguiva l’allineamento della posteriore Bury street e fu destinato a residenze o uffici privati, mentre un secondo manufatto, sede della Martins Bank, seguiva l’allineamento sulla principale St. James street, distanziandosi dall’esistente edificio in mattoni sede del Boodle’s club e definendo attraverso questa separazione l’ingresso alla nuova piazza pubblica creata tra gli edifici. Questo tipo di disposizione permise la massima permeabilità pedonale e di luce attraverso il sito e la minima perdita di superficie costruita ai nuovi edifici. La rottura nella continuità costruita della via londinese fu un gesto forte che al tempo stesso conferì un nuovo e prestigioso indirizzo all’Economist. Gli Smithson scelsero di costruire un sistema di vuoti, all’interno del denso tessuto londinese, concependolo come una vera piazza pubblica, aperta sulla 13 Nial Hobhouse e Louisa Hutton e Krucker Bruno, Architecture is not made with the brain, Architectural Association, Londra, 2005, pp18

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Fig.11 Assonometria progettuale di A&P Smithson tratta dal libro “Architecture is not made with the brain”

Fig.12 Ipotesi di riproposizione dell’Economist Building, tratta dal libro “Architecture is not made with the brain”

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strada ma rimanendone distanziata, intensa e calma contemporaneamente come tutte le piazze. Il vuoto in questo intervento è uno spazio urbano nel quale l’architettura è in grado di liberare quell’energia relazionale così importante per gli Smithson. Una sorta di connettività che lega in un insieme urbano tre edifici distinti, mettendoli in dialogo,attraverso uno spazio pubblico, con la città. Questo spazio ricorda molto la corte aperta del municipio disegnato a Saynatsalo da Alvar Aalto: un momento di quiete distanziato dal rumoroso e sgradevole traffico urbano senza perderne però la percezione. Gli Smithson vollero rinforzare questa idea di pausa nel tessuto urbano disegnando un lunghissima panchina in pietra lungo il muro cieco del Boodle’s club. La lunga panchina è uno degli elementi che permette di capire come questo vuoto sia un vero elemento di progetto, pensato nei suoi singoli elementi, nei suoi materiali che inducono ad abbassare la chiassosa temperatura della città, fino ad arrivare ai giunti di una pavimentazione che con il loro disegno zig-zag conducono subliminalmente all’entrata della torre. Il vuoto dell’Economist si apre agli usi e alla vita della città per diventare il corridoio principale di un accesso o una semplice scorciatoia tra due vie per qualunque cittadino percorra questo quartiere di Londra. La nuova sede dell’Economist di Londra è un progetto paradigmatico per comprendere l’architettura degli Smithson e la densità di significati che un vuoto può raccogliere nella sua relazioni con i pieni. Lungo St. James street, la città si rompe ed entra all’interno del progetto per dare spazio alle diversità che la vita quotidiana può offrire. Questo tipo di apertura è parte del pensiero stesso degli Smithson che sentivano la necessità di lavorare sul fattore umano della pianificazione per cercare di preservare gli elementi identitari di una città. Molti contemporanei inglesi finirono per perdersi in stili storicisti e pittoreschi mentre gli Smithson furono capaci di rispondere alle critiche ricevute, con la forza di una modernità che permette a questo progetto di essere ancora contemporaneo a quasi cinquant’anni dalla sua realizzazione. La loro proposta urbanistica va oltre l’edificio la cui progettazione si spinge fino “allo spazio collettivo che ogni architettura porta con sè” 14 . Peter Smithon difende un approccio alla pianificazione volto al recupero di un approccio meno analitico e più umano: “(...) se una strada si estende in una certa maniera, gli edifici dovranno sottolinearne l’importanza. Allo stesso modo se vi è un’abitudine come andare al tempio o a fare shopping, l’organizzazione degli edifici sarà la migliore per dare importanza a una attività che non ne avrebbe senza gli stessi edifici. Se non si operasse in questo senso non avremmo le nostre attività quotidiane, sarebbe tutto molto banale e non avremmo sistemi di relazione o ragioni per compiere le nostre azioni”. “Un edificio oggi è interessante soltanto se rappresenta qualcosa in piu di se stesso, se caricherà lo spazio intorno a se con possibilità di connessione e se sarà soprattutto in grado di farlo attraverso un silenzio che la nostra sensibilità non può percepire fisicamente come architettura” 15 A&P Smithson, The Charged Void, The Monacelli Press, New York, 2005, pp 13 Nial Hobhouse e Louisa Hutton e Krucker Bruno, Architecture is not made with the brain, Architectural Association, Londra, 2005, pp26 14 15

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Fig.13 Pianta del piano terra dell’Economist Building tratta dal libro “Architecture is not made with the brain”

Fig.14 Immagine della piazza interna dell’Economist Building tratta dal libro “The Charged Void”

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ALDO VAN EYCK I playground di Amsterdam

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Aldo Van Eyck costruì il primo playground nel 1947 ad Amsterdam, entro un piccolo lotto nel quartiere di Bertelmanplein. Il lavoro dell’architetto olandese segue le idee di A&P Smithson e i suoi progetti costituiscono un’ulteriore scarto alle idee urbane del funzionalismo. La progettazione non è piu pensata secondo un movimento dall’alto verso il basso, ma al contrario diviene un percorso capace di partire dal basso e dagli spazi collettivi, per dare senso all’edificato. Van Eyck come gli Smithson riteneva superato il “quartetto congelato delle funzioni” proposto dal movimento moderno, non credendolo più in grado di affrontare la questione urbana del dopoguerra. La situazione olandese era molto grave e le difficoltà coinvolgevano diversi campi tra cui quello dell’edilizia, incapace in quel momento di offrire ai cittadini spazi per la vita collettiva. Van Eyck in questo complicato momento venne incaricato di progettare quasi 700 playgrounds ed i primi interventi si installarono presso lotti temporanei inutilizzati. Parevano interventi quasi di emergenza ma portavano con se significati ben piu profondi di una soluzione creativa in un momento di bisogno. La dimensione dei singoli lavori era minima, ma in grado nel suo complesso di disegnare una punteggiatura dentro il tessuto di Amsterdam ben più efficace di qualunque piano regolatore. Lotti lasciati vuoti dalla guerra, dall’incuria, dal tempo, con un piccolo atto di progettazione sensibile all’umiltà della piccola scala, da spazi vuoti e derelitti divengono spazi pieni di vita. 16 Il lavoro di Van Eyck è un elogio di quell’architettura senza protagonismo, capace di avere rispetto e di porsi molte domande per incidere veramente sulla vita delle persone e dei bambini. “Una città senza i particolari movimenti dei bambini è un paradosso” 17 Nel dopoguerra per Amsterdam fu pensato un grande piano urbanistico, redatto da Corneliis Van Eesteren che seguiva le previsioni di crescita demografica e dei trasporti, mirando a quella zonizzazione propria del pensiero funzionalista: lavoro, riposo e trasporti venivano divisi ma integrati nel piano. Tale proposta dava il via alla costruzione di nuovi edifici e di grandi blocchi di edifici residenziali secondo i nuovi principi che il movimento moderno aveva proposto. Il piano immaginava inoltre operazioni di sventramento per favorire i trasporti e le nuove infrastrutture ma non si spinse tanto avanti, a causa di forti movimenti di protesta ai quali partecipò attivamente anche Aldo Van Eyck.

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Fulvio Irace, Learning from the street, Politecnico di Milano, 2007, pp 7 A.van Eyck, Kind en Stad, in Goed Woenen, Ottobre 1950

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Fig.15 Immagine di un area dismessa lungo i canali di Amsterdam prima dell’intervento di Van Eyck, tratta dal sito”www.architekturfurkinder.ch)

Fig.16 Immagine della medesima area lungo i canali di Amsterdam dopo l’intervento di Van Eyck, tratta dal sito”www.architekturfurkinder.ch)

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L’architetto olandese, che inizialmente aveva lavorato a fianco di Van Esteren, finì lentamente per distanziarsi dalle sue posizioni e fu proprio la nuova visione proposta con i suoi playgrounds a farlo divenire fortemente critico riguardo le idee funzionaliste: “Il funzionalismo ha ucciso la creatività. E’ come una fredda tecnocrazia, nella quale l’aspetto umano è dimenticato. Un edificio è più che una somma delle sue funzioni. L’architettura deve facilitare l’attività dell’uomo e favorire l’interazione sociale”. 18 Dei 700 playgrounds oggi ne restano circa 90 e tutti questi interventi sono stati interpretati dall’architetto come un momento per sviluppare e verificare le proprie idee legate all’architettura, all’immaginazione e alla relatività. Quest’ultima parola appare in molte descrizioni e consiste nel rendersi conto che i vari elementi del progetto non rispondono a una gerarchia ma si determinano attraverso mutue relazioni: tutti gli elementi che Van Eyck disegnava erano ugualmente importanti. Ogni elemento era pensato dalle mani dall’architetto che voleva stimolare l’immaginazione di quei bambini. La struttura emisferica di tubi in metallo, non era solo un luogo da scalare, ma diveniva un momento di incontro o il punto piu in altro dal quale controllare tutto l’intorno. L’immaginazione rispondeva ad un esigenza di apertura, una volontà innovativa con cui progettare un luogo di cui le persone potessero appropriarsi ognuno secondo la propria volontà. Altri aspetti innovativi risiedevano nella modularità di questi elementi ma la vera grande forza di questi playgrounds sta nella loro ubicazione interstiziale. Il progetto non prende in considerazione l’idea di tabula rasa proposta dai funzionalisti ma al contrario disegna questi vuoti esistenti attivando relazioni con il tessuto urbano. Van Eyck usa l’architettura affinchè le persone possano creare i propri luoghi e sentirsi a casa anche nella città moderna, rifutando le fredde regole moderne secondo cui l’architettura era soltanto una fusione di spazio e tempo.

“Benchè spazio e tempo abbiano un significato, luogo e occasione significano di più. Lo spazio nell’immagine di un uomo è un luogo, il tempo nell’immagine di un uomo è un’occasione” 19 18

Aldo Van Eyck, The Story of Another Thought, in (Forum) 7/1959, Amsterdam

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Fig.17 Immagine prima-dopo di un’area periferica di Amsterdam oggetto dell’intervento di Van Eyck, tratta dal sito”www.architekturfurkinder.ch)

Fig.18 Immagine prima-dopo di un’area centrale di Amsterdam oggetto dell’intervento di Van Eyck, tratta dal sito”www.architekturfurkinder.ch)

19 Aldo Van Eyck (1959), in Ana Mendez de Andès (2010), Urbanacciòn 07/09, La Casa Encendida, Madrid, pp. 25-39

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GORDON CULLEN Townscape

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Gordon Cullen fu un architetto e intelletuale inglese autore del testo “TownScape”: neologismo in grado di legare insieme due concetti apparentemente distanti come quello di paesaggio e città. Questo lavoro venne completato intorno al 1960 e raccoglie molte idee che abbiamo visto concretizzarsi nei lavori degli Smithson in Inghilterra e di Aldo Van Eyck in Olanda. L’intera opera di Cullen si concentra sullo spazio urbano, analizzando tutti gli elementi che lo definiscono: le pavimentazioni, i materiali, gli alberi, le zone d’ombra, quelle più dinamiche e così via per poi tesserli insieme in quell’evento comune che Cullen definisce come dramma urbano. Townscape si divide in tre grandi capitoli che articolano l’esperienza dei vuoti della città attraverso una vera e propria esperienza spaziale. Il primo capitolo riguarda l’esperienza visuale che racconta del paesaggio urbano come di una realtà che sorge attraverso una successione di sorprese, di intuizioni o di rivelazioni improvvise. La seconda parte del testo si riferisce alla nostra percezione di quello che ci circonda e alle nostre diverse posizioni all’interno dello spazio urbano: essere dentro, essere fuori o percorrere un portico provoca sensazioni diverse che secondo Cullen è importante registrare per pensarne la progettazione. Secondo la sua opinione se le nostre città fossero disegnate considerando anche la percezione di chi si muove nello spazio, queste potrebbero rivelarsi come una sorta di esperienza plastica, fatta di aree di compressione e di vuoto, di forte contrasto tra spazi ampi e spazi delimitati e alternanza di momenti di tensione e di quiete. 20 L’ultimo punto riguarda i contenuti che la matrice dei vuoti di una città è in grado di raccogliere e di trasmettere attraverso i colori, le texture, i rapporti di scala, gli stili, la natura e tutto ciò che ne costituisce un’identità non riproducibile. L’immagine a destra accompagna la descrizione di quelle che Cullen definisce Visioni Seriali. Si tratta dell’esperienza visuale di un centro urbano che si articola in una successione di punti di vista che nel loro insieme concretizzano la nostra percezione di una città. Cullen insiste sull’importanza che le piccole variazioni e gli allineamenti urbani, assumono nella loro ricostruzione visiva definendo la nostra progressiva scoperta di un luogo, svelando un mistero che si chiarifica passo dopo passo. Si tratta di una maniera di pensare che Cullen definisce attraverso il suo tratto preciso e che nel testo si ripete per molte realtà diverse. Ciò che è interessante di questa opera di Cullen è l’idea di trattare il vuoto conferendogli la stessa importanza che viene data agli edifici, dimostrando come esista una relazione strettissima tra pieni e vuoti: “Lo spazio esterno non è solamente la mostra di lavori individuali di architettura come quadri in una galleria, ma deve ambire ad essere un ambiente umano completo. Il dramma urbano deve sorgere e comporsi a partire da tutto l’intorno, dal pavimento, alle luci, agli alberi, agli edifici”. 21

20 21

Cfr. Gordon Cullen, Townscape. The Architectural Press, Londra, 1961 Gordon Cullen, Townscape. The Architectural Press, Londra, 1961, pp 24

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Fig.19 Disegni relativi alle Visioni Seriali proposte da Gordono Cullen, tratte dal suo testo “TownScape�

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Nella pagina a fianco riconosciamo il progetto di Allison e Peter Smithson per l’Economist building ma il disegno dell’edificio è stato tracciato da Gordon Cullen. Townscape raccoglie moltissimi elementi di analisi ma riferirsi a questo schizzo composto dallo stesso autore può portarci a capire il paesaggio urbano pensato dagli Smithson, attraverso le categorie che Gordon Cullen elenca nel suo testo. Innanzitutto l’edificio viene trattato nella sua completa relazione con la città attraverso una visione seriale che in tre momenti diversi ci trasporta da un punto di vista distante fino all’interno della nuova piazza pubblica. In tutti i tre disegni non manca mai la presenza della città che si rivela e si relaziona con l’edificio attraverso il vuoto della piazza. Passando alle categorie di luogo, la nuova sede dell’Economist definisce un ambiente urbano riferibile a un Enclosure: isola da cui il rumore della città rimane escluso come i rapporti casuali e impersonali, in favore di un relativo silenzio e della dimensione relazionale. Questo sistema nel testo di Cullen spesso però si riferisce a un vero e proprio ambiente chiuso e per questo la nuova piazza potrebbe porsi a metà tra i concetti di Enclosure e di Closure, ovvero un’interruzione delle visuali dirette e immediate ottenuta per mezzo di irregolarità o nuovi allineamenti che portano a intuire un mondo tra gli edifici capace di generare un’aspettativa o una sorpresa. All’interno di queste categorie l’Economist risponde ancora ad altri elementi che lo scrittore inglese ritiene importanti nella percezione di una città. Il tema di vedere oltre l’enclosure è per esempio perfettamente chiarito dal disegno in basso a sinistra, dove la continuità visiva tra piazza e contesto non viene interrotta ma volutamente ricercata. Il cambio di livello, considerato da Cullen una di quelle azioni sottili in grado di cambiare la percezione di un ambiente, è perfettamente chiarito dal podio rialzato su cui i tre edifici si articolano. Il tema delle strettoie e delle compressioni spaziali che conducono attraverso la piazza sono esaltate nel testo di Cullen come strategie capaci di gerarchizzare e far sentire le diversi parti di una città. L’intimità, ritenuta necessaria per diversificare la forza di ciascun luogo, viene portata dagli Smithson con quella panchina contro il muro in mattoni che trasmette la sensazione di un ambiente quasi domestico. Molto interessante è infine un ultimo punto che riguarda i “Contrasti” di una città. Questa analisi apre l’ultimo capitolo di Townscape che parla dei contenuti che il paesaggio urbano può trasmettere proprio attraverso lo spazio pubblico. Nel progetto degli Smithson il contrasto avviene tra il nuovo edificio e il precedente Boodle’s club, da cui la coppia sceglie di distanziarsi, aprendo in quella separazione l’affaccio verso St. James street. Quel vuoto tra due tempi della città fa si che si possa stabilire un dialogo tra i due momenti. Townscape cataloga un’interpretazione del disegno urbano che questo gruppo di architetti ha cercato di introdurre nell’ambito del dibattito di quegli anni, spostando l’attenzione dagli edifici allo spazio urbano che li unisce. Si tratta di un allargamento dello sguardo supportato da disegni, testi e progetti costruiti, che stabiliscono interessanti relazioni anche con la nostra epoca in cui sentiamo la necessità di ripensare il mestiere dell’architetto in relazione alle necessità del nostro tempo. 42


Fig.20 Disegni relativi alle Visioni Seriali proposte da Gordono Cullen per l’Economist Building, tratte dal suo testo “TownScape”

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RICOSTRUIRE LE CITTA’ DALL’INTERNO L’architettura contemporanea attraverso il tessuto urbano

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Gli Smithson, Van Eyck e Cullen esprimevano le proprie idee durante un periodo di completa ricostruzione in cui il mondo dell’architettura fu chiamato a ripensare fisicamente i paesaggi urbani distrutti dal conflitto. Le posizioni difese dal movimento moderno, dai diversi congressi CIAM e soprattutto da Le Corbusier trovarono una più ampia diffusione, ma la sensibilità degli architetti che abbiamo analizzato sembra quasi esprimere sotto forma di proposte quelle che negli anni a venire sarebbero state le maggiori lacune delle idee di quel periodo. La convinzione di dare importanza ai vuoti, allo spazio pubblico e quindi alla vita dei cittadini non era soltanto una strategia progettuale, ma una vera priorità: allargare il campo d’azione dell’architettura all’intera città per ricostruire una forte identità urbana, capace di ricucire le relazioni tra le persone. Dopo il dramma della seconda guerra mondiale questi architetti proposero una lettura contemporanea, figlia della modernità ma in grado di andare oltre e di recepire le necessità urbane di un’epoca di forti trasformazioni. La progettazione urbana e il pensiero architettonico subivano un ribaltamento e se i CIAM ,e molti dei loro partecipanti, proponevano una pianificazione dall’alto verso il basso, questa generazione di professionisti scelse di muoversi in senso inverso: partire dagli spazi interstiziali, dai luoghi di risulta o semplicemente dalle strade, per ricostruire la città del dopoguerra. La realtà contemporanea è estremamente distante da quell’epoca, ma esistono riflessioni che oggi mantengono la loro attualità e attraverso le quali possiamo provare a costruire un parallelo. La sintesi delle proposte di quel gruppo di professionisti fu una voluta attenzione a realtà minori che non vennero mai trattate in termini progettuali dai congressi internazionali. Lo sviluppo urbano degli ultimi decenni si è rivelato spesso sconsiderato, provocando la nascita di realtà urbane periferiche, completamente slegate del tessuto urbano. Edifici di grande scala e interi quartieri hanno provocato espansioni urbane illimitate ma soprattutto l’assenza di relazioni umane, di vita e di qualità pubbliche di cui ogni cittadino ha diritto. Il perpetuarsi di questo sistema ha generato forti problematiche portando a fenomeni di esclusione e di separazione sociale. Il ruolo dell’architettura e dell’urbanistica può essere decisivo in questo sistema, capendo la necessità di frenare lo sviluppo incontrollato e iniziando a ricostruire la città dal suo interno. Tale operazione può definirsi attraverso situazioni diverse che possiamo raccontare con tre esempi distanti tra loro, ma legati dalla ritrovata attenzione agli spazi della vita della città. Alvaro Siza dopo l’incendio che devastò i magazzini del Chiado di Lisbona, intervenne nel corpo della capitale portoghese rifiutando ogni formalismo e ponendosi come obiettivo la ricostruzione delle relazioni urbane di questa parte di Lisbona. David Chipperfield affronta un interessante progetto a Berlino, definendo un progetto che parte dalla sua facciata principale per ricostruire all’interno dell’isolato una serie di cortili e spazi aperti dove pubblico e privato dialogano attraverso gli spazi vuoti. L’ultimo lavoro preso in considerazione ci riporta a Londra con il progetto di St. Giles realizzato da Renzo Piano, nel quale la città penetra nella trasparenza dell’edificio fino al grande patio centrale. 46


Seguendo questo ideale parallelo ritroviamo il ruolo importante della fotografia, con la sua capacità di cogliere indizi e impulsi che dirigono la nostra attenzione a realtà ignorate. Se le fotografie di Henderson stimolarono l’attenzione degli Smithson con la loro rappresentazione della vita collettiva per le strade di Londra, a partire dalla fine degli anni settanta una serie di attenti fotografi iniziò a catturare una dimensione diversa delle grandi città del mondo. Nelle immagini di personaggi come John Davies,Thomas Truth e Gabriele Basilico i protagonisti che irrompono sulla scena sono gli spazi urbani vuoti, abbandonati, residuali che non appaiono più parte della città. E’ una realtà che si fa sempre più urgente e che riguarda la dimensione urbana di questi spazi che Ignasi de Solà-Morales definì “Terrain vague”, scegliendo l’espressione francese perchè terrain assumesse il significato di una parte di territorio, precisa ma figlia di limiti accumulatisi nel tempo e vague potesse riempirsi della sua complessità di significati. Vague è un termine di cui Solà-Morales esalta la duplice radice latina che lo definisce prima come vuoto, non occupato, disponibile e in secondo luogo come vago, indeterminato, incerto. 22 La tensione tra questi significati definisce l’importanza di questi spazi la cui vacuità li riempie della libertà di aspettative e di possibilità e rende il vuoto non solo un’assenza ma anche uno promessa di incontri e opportunità future. Le immagini fotografiche diventano ancora una volta dei ricettori di questa estraneità tra i Terrain Vague e il corpo della città, marcando con evidenza come la mancanza di interventi progettuali coinvolga anche le problematiche della vita sociale contemporanea. 22

Cfr. Ignasi de Solà-Morales, Territorios, Gustavo Gilli, Barcelona, 2002

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GABRIELE BASILICO La permanenza della cittĂ

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Nella crescente attenzione verso i vuoti, Gabriele Basilico è stato un personaggio dotato di incredibile profondità, capace di esprimere una sintesi delle parole di Solà Morales, cogliendo gli aspetti più interessanti delle realtà urbane meno fotogeniche. Il 1991 fu l’inizio di un reportage molto diverso da quelli a cui Basilico aveva finora lavorato. L’attenzione del suo obiettivo era ancora una città ma questa volta si trattava di una città semidistrutta come Beirut che ,a seguito di una sanguinosa guerra civile durata quasi quindici anni, si trovò ad essere devastata in gran parte delle sue aree centrali. La seconda parte di questo lavoro sui vuoti tratta della necessità di leggere l’ampliamento delle nostre città ricostruendole dall’interno e tale volontà spesso viene a proporsi come una necessità causata da eventi traumatici. Come Alvaro Siza ricostruisce il Chiado di Lisbona dalle rovine di un incendio, così Gabriele Basilico compone nelle sue immagini della capitale libanese un’idea basilare che unisce questi lavori: la permanenza della città. A Beirut Basilico si trova di fronte le rovine di un mondo che fu splendido e che dopo molti anni iniziava a svegliarsi dal lungo incubo della guerra. Un momento di attesa tra due tempi: tra le rovine del passato e la preparazione del futuro, un momento fatto di silenzio, vacuità ed assenza. Il fotografo milanese cattura questa realtà sospesa tra distruzione e rinascita, ponendosi con umiltà di fronte al dramma del conflitto per raccontare il miracolo del ritorno alla vita . Basilico compone le sue fotografie, senza lasciarsi attrarre dalla semplice componente drammatica, ma bensì cercando di catturare la normalità quotidiana oltre le macerie, cogliendo la sensazione di attesa del ritorno della vita e della normalità lungo queste strade.

“La mia impressione era che tutto si svolgesse come se la gente avesse abbandonato edifici e strade per tornarci in futuro prossimo (…). Tutto sommato la situazione poteva sembrare quasi normale la città era solo caduta in un lungo periodo di attesa. Il vuoto per me non significa mai vera assenza: si tratta piuttosto di una fase di silenzio che mi permette di instaurare un dialogo spero autentico con la città” 23 23

Gabriele Basilico, Architetture, città, visioni, riflessioni sulla fotografia, Mondadori, Milano, 2007, pp 86

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Fig.21 Fotografia di Gabriele Basilico, tratta dal libro “Beirut 1991-2003�

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Dominique Eddè, scrittrice francese che seguì Basilico a Beirut, racconta che la svolta nel reportage avvenne salendo sul tetto dell’albergo Holiday Inn dove alloggiavano; da quella prospettiva Basilico capì che la città era ancora viva, che il dramma che l’aveva martoriata era soltanto una malattia epidermica molto evidente che non era però riuscita a distruggere la struttura fisica della città. La riflessione di Basilico è molto forte e lo spinge a recepire la complessità del tessuto urbano attraverso la matrice dei vuoti di Beirut che sul tetto di quell’albergo fu in grado di comprendere. Gli edifici erano sventrati e anneriti dal fumo ma il tessuto era integro e questo spinse Basilico a fotografarne la permanenza, compiendo cosi un elogio alla resilienza della città che attraverso il vuoto esprimeva la propria sopravvivenza.

“Mi sono reso conto che le parti interamente distrutte non erano molte(…). Ho cercato così di assimilare la struttura della città (…) guardandola come avrei potuto guardare Roma o Milano”. 24 24

Ibidem

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Fig.22 Fotografia di Gabriele Basilico, tratta dal libro “Beirut 1991-2003�

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ALVARO SIZA La ricostruzione del Chiado di Lisbona

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La notte del 25 agosto 1988 un grande incendio devastò i magazzini del quartiere Chiado di Lisbona investendo ben diciotto edifici e presentando drammaticamente la vulnerabilità della città. La parte di Lisbona coinvolta nell’incendio costituiva un elemento integrante del grande piano di ricostruzione che il Marchese di Pombal realizzò a seguito di un altro momento drammatico come il terremoto che nel 1775 rase al suolo gran parte della capitale. Il piano prevedeva di sostituire il malsano groviglio di vicoli della parte bassa della città con un sistema di vuoti urbani ortogonali, alternati ad un sistema di isolati rettangolari dotati di lunghe corti interne, in modo da controllare l’occupazione e i rapporti volumetrici. Tre grandi piazze con destinazioni diverse venivano messe in relazione per mezzo della nuova maglia ortogonale e il nuovo piano illuminista dovette la sua forza proprio alla qualità e alla modularità di un sistema di spazi pubblici generatore non solo dell’intero sistema urbano ma anche di un linguaggio di facciate che vennero rese tutte uniformi secondo uno specifico disegno che caratterizza ancora oggi il centro della capitale portoghese e l’intero quartiere devastato dall’incendio. I magazzini del Chiado da cui ebbe origine l’incendio si trovano in un punto di limite tra l’area piatta della Baixa e la collina del Carmo, il cui dislivello viene affrontato dalla sezione degli edifici e dalle ripide risalite delle vie posteriori. L’intervento proposto da Pombal mirava alla rifondazione completa di una città secondo nuovi principi, mentre il progetto di Alvaro Siza reagisce alla ferita urbana introducendo un sistema di aggiustamenti e correzioni in grado di ristabilire la forza e la compiutezza del fabbricato urbano reso debole dal grande incendio. “La vulnerabilità è una condizione indissociabile dalle strutture urbane apparentemente solide e durature e rappresenta al tempo stesso il motore possibile della loro trasformazione. Nell’interpretazione costante tra la percezione di tale vulnerabilità e il processo progettuale, ossia tra un’interpretazione rigorosa di ciò che precede e la trasformazione che il progetto veicola risiede l’esemplarità del metodo di Alvaro Siza” 25 Queste parole scritte nel testo dell’architetto Goncalo Byrne dal titolo “Lisbona, una città vulnerabile” sintetizzano molto bene la strategia di recupero di un’identità urbana che Siza mette in atto a Lisbona. Seguendo il testo, l’architetto portoghese, individua le tre strategie secondo cui la ricostruzione del Chiado venne sviluppata. 25

Goncalo Byrne, Lisbona: una città vulnerabile, in Lotus International 64, 1989, pp 34

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Fig.23 Immagine aerea dell’area del Chiado dopo l’incendio, tratta dal libro “Chiado em Detalhe”

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Prima di tutto Byrne parla della capacità di Siza di conservare il sentimento della città anteriore, operazione che si traduce nella conservazione formale delle volumetrie e delle facciate pombaline, in secondo luogo viene esaltata la capacità ripristinare l’equilibrio funzionale della città, studiando spazi che garantissero una varietà di usi dal commerciale, al residenziale fino ad attrezzature e servizi. Il terzo punto che forse rappresenta la vera rivoluzione di questo progetto riguarda il disimpegno strutturale di tutta l’area, con la creazione di una nuova stazione della metropolitana e di un passaggio sotterraneo in grado di connettere la maglia ortogonale della Baixa con la ben più alta piazza di Camoes 26 Il progetto di Siza è un progetto che parte dal basso, dall’interpretazione di una situazione urbana e di un sistema di spazi pubblici cui era necessario restituire una vita partendo dalle rovine. Il fulcro dell’intervento non risiedeva secondo Siza nelle facciate ma nelle periferie e negli interstizi dimenticati di quest’area della città, la dove si registrano le differenze temporali e dove ,secondo il maestro di Porto, si può incontrare “una vocazione moltiplicata alle trasformazioni” 27. Ecco allora che Siza inizia a correggere allineamenti, ad aprire passaggi pedonali, a liberare antichi cortili per offrirli alla città, andando a registrare, come afferma Byrne, le situazioni sospese, fugaci, senza fissarsi in forme precipitose 28. La ricostruzione del Chiado è un esemplare progetto di vuoti in grado di coinvolgere non solo l’area oggetto della ricostruzione ma l’intera vita pubblica di Lisbona. I momenti di transizione tra l’area di progetto e le parti della città colpiscono fortemente l’attenzione di Siza che ne comprende la forza e la potenziale capacità di essere elementi di fortissima trasformazione. La nuova apertura del passaggio sotterraneo ne è esemplare dimostrazione ed è oggi un collegamento pedonale utilizzatissimo in grado sia di semplificare la vita dei cittadini che di riqualificare, con il suo costante traffico giornaliero, la parte del quartiere Baixa verso cui si apre. I nuovi cortili, un tempo stretti e residuali, ora resi pubblici e allargati nelle loro dimensioni ospitano dehors e bar affollati. I nuovi collegamenti concedono nuove risalite per le colline di Lisbona e nuovi “Miradouros” da cui godere dello splendido paesaggio della capitale portoghese costruendo legami con il tessuto urbano circostante. Cfr. Goncalo Byrne, Lisbona: una città vulnerabile, in “Lotus International” no. 64, 1989 Goncalo Byrne, Lisbona: una città vulnerabile, in “Lotus International” no. 64, 1989, pp 34 28 Ibidem pp 36 26 27

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Fig.24 Situazione urbanistica dell’area prima dell’incendio, tratta dal libro “Chiado em Detalhe”

Fig.25 Schema dell’operazione di svuotamento proposta da Siza, tratta dal libro “Chiado em Detalhe”

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Fig.26 Fotografia del lotto verso l’Igreja do Carmo dopo l’incendio, tratta dal libro “Chiado em Detalhe”

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Fig.27 Schizzo progettuale dell’arch. Alvaro Siza relativo alla medesima area della Fig.26, tratta no.64 della rivista Lotus anno 1989

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La dimensione del tempo è un altro elemento importante nel lavoro di Siza che parla di un “progetto che potrà guadagnare spessore in seguito” 29 con il coinvolgimento di altri attori e altri progettisti in grado di integrare la ricostruzione che proprio nei due ingressi alla metropolitana ha il proprio rituale di partenza e arrivo. Byrne sottolinea ancora come questo progetto, capendo la propria dimensione urbana, sia capace di “installarsi nella propria vulnerabilità cittadina, di scrutarne i limiti attraverso una trasformazione che si verifica sulla base di un dialogo tra interventi specifici” 30 : un dialogo attraverso i vuoti liberati della città. L’ultimo tassello di questo lavoro è stato recentemente completato e aggiunge allo svuotamento di un ampio patio interno, un sistema di perforazioni urbane a piccola scala in grado di creare microambienti adatti a nuovi usi. A partire da questo spazio si collega un nuovo percorso panoramico di scale e ascensori pubblici che legano questi luoghi alle rovine dell’antica chiesa del Carmo costruendo oltre che nuovi spazi pubblici, alcuni momenti di tensione poetica tra momenti drammatici di Lisbona dai quali la città è stata capace di rialzarsi attraverso le trasformazioni sensibili della pratica progettuale. Questo ampio e complesso lavoro è esemplare nell’ottica di una nuova maniera di vedere l’architettura nel nostro tempo. La dove l’esasperata spettacolarizzazione dell’architettura contemporanea avrebbe potuto lasciare i propri segni effimeri, Siza sceglie di capire con umiltà la memoria urbana, di fermarsi a ricucire le ferite di un evento tragico, generando un lavoro di attenzione e miglioramento degli spazi della vita condivisa. Un progetto di ricostruzione non solo fisica ma anche identitaria, in grado di migliorare l’accessibilità allo spazio pubblico, al costruito e alle relazioni vitali tra questi elementi. Siza disegna ogni singolo elemento di questo progetto, dalle maniglie alle finestre, dalle facciate alle soglie, arrivando a definire ogni elemento degli spazi pubblici come ringhiere, scale o pavimentazioni. Si tratta di un progetto di permeabilità e di relazioni che a più di vent’anni da quel tragico evento dimostra ogni giorno il suo pieno successo, che l’architetto Byrne sintetizza in poche righe concludendo il proprio testo:

“Alvaro Siza disegna l’essenziale, dal grande spazio pubblico, al mondo relazionale della prossimità, dove le vite delle persone si uniscono o si relazionano ai propri luoghi attraverso un’esperenzia sensoriale, visiva, olfattiva, sonora o tattile (...) A venticinque anni dall’incendio, grazie al modo in cui il progetto procede ad una intelligente rifondazione architettonica, approfondendo la logica Pombalina, arricchendone il linguaggio, aggiungendo tensione poetica, Siza ha contribuito alla ricostruzione della centralità storica di Lisbona”. 31 Ibidem Goncalo Byrne, in Chiado em detalhe, Alvaro Siza Vieira, Verbo editor, 2013, Lisbona, pp 15 31 Ibidem pp 17 29 30

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Fig.28 Schizzo dell’arch.Siza relativo alle perforazioni nel tessuto esistente, tratta dal libro “Chiado em Detalhe”

Fig.29 Fotografia del nuovo ingresso alla stazione metropolitana e passaggio urbano previsto del progetto, tratta dal libro “Chiado em Detalhe”

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“Quello che è: Rovine, facciate vuote e aperture che liberano muri portanti antichissimi (...) Uno scheletro bellissimo e incompleto, un oggetto freddo e astratto a rivelare Lisbona. Sorta di specchio che non riflette, gente affrettata che guarda le pietre, le gru, gli operai.

Quello che può essere: Basamento di distribuzione su cui tutti passano e si fermano, un’apparizione da cui vedere un paesaggio. Chiado essenziale, enorme, su Rua de Crucifixo.

Quello che non può essere: Commovente, affascinante macchina in cui il passato è presente, in cui tutto ha l’incanto di un vicolo, polvere dorata al giungere della sera, graffiti consumati, bagliori e fratture, l’incanto del Kitsch e del fuori moda, della spazzatura, della droga, di una conferenza sul Tejo. Lapidi con nomi dimenticati, collages in stile vacillante, androne abbandonato con piccole piante, decadenza. Nostalgia di ciò che ho conosciuto male”.

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“Quello che sarà: Uguale a ciò che era? C’è un tocco di falsità inevitabile. Un aspetto consapevole, pronto a dissolversi, di maquette esposta al tempo. In Rua Garret, a sinistra e arrivando in Rua do Carmo si nota un portale mangifico in calcare metallo, legno, vetro e specchi. Questo portale apre su una galleria, al cui fondo c’è luce. Invita a entrare, sebbene non vi siano neon, pannelli pubblicitari, altoparlanti, nè marce popolari. La luce è naturale, irrompe la facciata del rigido disegno pombalino, mentre le persone attraversano in controluce la galleria: penombre e riflessi. In fondo riappare la facciata dell’hotel, ibrida e recentemente modificata. Le finestre ripetute lottano da pari a pari con il muro rivestito di calcare, ci sono portieri vestiti di livrea, clienti e uomini d’affari, coppie di sposi, stranieri, bar, ristoranti, musica sotto al silenzio. Ai piani superiori le finestre non rivelano nulla, se non un ospite che scosta le tende e spia con sguardo inquieto. E di questo sguardo lo spazio si riempie. In Rua Nova do Almada passano le folle, una moltitudine in movimento unisce la Escalada do San Francisco alla Escalada Novissima, discende Rua Do Crocifixo, si divide nei pressi del portale metropolitano, marmo nero e rosa sulle finestre spalancate, una porta che ora appare nuova, frettolosamente opaca e comune. Le vie della Baixa sottostante sono meno cinerine, ci sono antiquari, barbieri, fiorai e cartolerie. (...) Chi osserva megli nota i telai doppi e altre cose e soprattutto chi ci vive. Chi vive meglio non nota nulla. Non è attento. E questo portale? Un foro violento, senza fronte nè modanatura, un foro improvviso, sorta di imbuto incompleto che avvolge una scala preziosa, precedente al grande consumo, costruttore di rotondità incomparabili e di strane macchie di intonaco. Nell’aria il ponte dell’ascensore e la città alta indovinata. E la luce in fondo alla galleria, piena di verde e di lillà, come in un quadro di Malhoa; e volti e sedie di bambù e bevande di un colore squisito e il peso dei muri portanti. Al tramonto le persone che abitano in alto aprono le finestre o attraversano il cortile del Carmo, salgono le rampe, si fermano sui pianerottoli. La città sale adagio, prima serata, poi improvvisamente spezza i muri, Tejo, severi quartieri popolari, Castelo, Rossio. Esplodono gli archi del Carmo. Qualcuno divertito ricorda, una previsione diversa” 32. Alvaro Siza Vieira 32

Alvaro Siza Vieira, Quello che è, in “Lotus International” no.64, 1989, pp 38

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DAVID CHIPPERFIELD Joachimstrasse e i cortili di Berlino

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Il tema della rigenerazione della città a partire dal suo interno ha a che fare come abbiamo visto con la condizione di vulnerabilità e trasformazione dei sistemi urbani. Lisbona ha dovuto le proprie ricostruzioni a cataclismi naturali o a eventi accidentali come nel caso dell’incendio ai magazzini del Chiado, ma anche la mano dell’uomo e gli eventi bellici possono obbligare una città ad affrontare una forzata rinascita come nel caso eclatante di Berlino. La capitale tedesca dal secondo dopoguerra in avanti, e a seguito poi della caduta del muro, ha dovuto far fronte a numerosi processi di ricostruzione, nel tentativo di ridefinire un’identità civica dopo gli orrori del secolo scorso. La dimensione progettuale può essere un mezzo per misurare le diverse contemporaneità di una città e questo come abbiamo detto, può avvenire attraverso la relazione dei vuoti con i pieni; esemplare in questo senso, appare il progetto dell’architetto inglese David Chipperfiled presso JoachimStrasse proprio a Berlino. Il lavoro dell’architetto riguarda un profondo lotto del centro della capitale, semidistrutto dai bombardamenti della seconda guerra mondiale e successivamente frammentato e occupato in una confusa mescolanza tra edifici storici e nuove strutture in calcestruzzo. A partire dal 1990 molti edifici dell’isolato vennero rinnovati e nuove aree verdi invasero gli spazi interni di questi isolati, seguendo il parallelo ridisegno di patii e aree pubblice interne al tessuto urbano. Il progetto di Chipperfield si inserisce in questo contesto di ricostruzione e di riscoperta di valori urbani la cui bellezza risiede nell’irregolarità, nel confronto tra tempi diversi, nello spazio lasciato all’appropriazione di chi ne fruirà. Il primo passo dell’architetto inglese prevede la chiusura e la continuazione del fronte urbano esistente con un primo blocco residenziale in calcestruzzo di quattro piani che ripropone le proporzioni del contesto circostante, presentando però un’inaspettata perforazione che permette di intuire il fluire dello spazio urbano verso l’interno dell’isolato. Chipperfield sceglie di proseguire il suo lavoro ricreando quella sensazione di quiete e di allontamento parziale dal traffico urbano, definita con il termine Enclosure da Gordon Cullen, attraverso un interessante sistema di cortili interni. Le visioni seriali del testo Townscape, trovano qui un’ideale continuazione, che si concretizza in un’esperienza visiva che parte dalla realtà urbana per passare poi all’oscurità compressa di un passaggio coperto al fondo del quale si scopre il primo dei tre cortili interni disegnati da Chipperfield, che pone poi abilmente i successivi due blocchi a una distanza sufficiente per intuire la presenza di un antico edificio in mattoni e del terzo e più ampio cortile interno. Si tratta di un progressivo passaggio dalla dimensione pubblica della strada a spazi via via più privati, all’interno di un mondo in cui la scala degli edifici e dei passaggi è definita in relazione alla struttura del quartiere, nel tentativo di “costruire un’ambivalenza tra la ristrutturazione dell’isolato precedente alla guerra e una nuova idea contemporanea di cortile interno”. 33

33 David Chipperfield Architects, descrizione progettuale tratta dal sito http://www.davidchipperfield.co.uk/project/joachimstrasse, 2013, Londra

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Fig.30 Pianta del piano terra del progetto, tratta dal sito “www.davidchipperfield.co.uk”

Fig.31 Planimetria generale del progetto, tratta dal sito “www.davidchipperfield.co.uk”

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Il progetto di Chipperfield si trova a poche centinaia di metri dal complesso di Hackesche Hofe, edificato a partire dal 1700 nel quale 8 diversi cortili interni sono pedonalmente connessi l’uno all’altro attraverso l’edificio. Questo luogo che caratterizza il quartiere di Mitte ha conosciuto proprietà e occupazioni molto diverse fino all’ultimo restauro che a partire dal 1995 ha ridato luce ad uno dei luoghi più vivi e più cosmopoliti della capitale tedesca. I cortili sono percorsi a partire dal fronte urbano seguendo un percorso di scoperte continue fatto di ristoranti, atelier, associazioni e teatri. Leggere il progetto di David Chipperfield in relazione a questa viva realtà urbana ne aumenta il valore e la comprensione dell’importanza di questi vuoti interni al tessuto urbano. Questo intervento nel corpo della città consolidata ha molto a che fare con il progetto che gli Smithson costruirono per la sede dell’Economist a Londra e questa condizione rafforza il potenziale parallelo tra due epoche storiche apparentemente distanti. La città entra all’interno dell’edificio, lo feconda e acquisisce importanza proprio a partire dalla mutua relazione tra la dimensione pubblica e la dimensiona privata del progetto. Peter Smithson sostenne più volte che gli edifici generano un’energia relazionale sullo spazio che li circonda e questo progetto di Chipperfield catalizza tale energia concretizzandola nei tre vuoti che scandiscono il disegno progettuale. Lo spazio “in-between” non ha qui la stessa condizione urbana di Regent’s street a Londra ma la porosità e la qualità degli spazi che si vengono a creare è ugualmente forte. Questa nuova visione permette anche di vedere nel sistema dei vuoti un momento per misurare i tempi della città e al centro dell’isolato di Joachimstrasse, Chipperfield pone i suoi blocchi in relazione con una presistenza di valore. Un antico edificio in mattoni diviene un elemento con cui l’architetto inglese sceglie di dialogare, costruendo attraverso i cortili, le strettoie e gli scorci una relazione interessante tra il contemporaneo e l’antico. Senza uno spazio pubblico, senza lo svuotamento messo in atto da Chipperfield il rapporto con questo edificio non potrebbe essere altrettanto profondo e anche in questo caso il collegamento all’Economist building si fa molto stretto. Il lungo muro in mattoni del Boodle’s club rimanda anche matericamente a questo antico edificio berlinese, che qui come a Londra viene inglobato nel nuovo progetto di ricostruzione dell’isolato. I legami tra l’epoca contemporanea e la generazione del Team X sono qui ancora piu evidenti che nel precedente caso e testimoniano come il valore umano di percezione e comprensione del paesaggio urbano sia assolutamente centrale e possa essere affrontato con la precisa progettazione di spazi condivisi di qualità nei quali l’architettura stessa possa definire il proprio significato. 70


Fig.32 Immagine del primo cortile interno del progetto, tratta dal sito “www.davidchipperfield.co.uk�

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RENZO PIANO I nuovi edifici di St. Giles a Londra

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Ritorniamo nel centro di Londra, non troppo distanti dalla sede dell’Economist building, con un lavoro inaugurato nel 2010 e progettato dall’architetto genovese Renzo Piano. Tra l’area di Covent Garden ed Oxford street un colorato ed ampio edificio interrompe il susseguirsi di grigi condomini terziari e residenziali. Il nuovo edificio prende il posto di una preesistenza molto poco accessibile che la città scelse di demolire per i diversi problemi sociali che provocava. Piano si trovò ad affrontare una situazione non facile dovuta all’ingente volumetria prevista per l’area e la vicinanza con una delle aree più tradizionali di Londra, con le quali era importante costruire un dialogo per evitare di ricadere nelle difficoltà dell’edificio preesistente. L’approccio di Piano fu quello di non rinunciare alla densità urbana tipica di questa zona della città, scegliendo però di frammentare il perimetro dell’edificio in una serie di facciate con angolazioni diverse per ridurre l’impatto sul quartiere. L’aspetto di questo grande progetto che può essere davvero interessante per leggere questo lavoro nel tessuto complesso della capitale inglese, è sicuramente la scelta dell’architetto di tagliare con un’operazione quasi scultorea il volume dell’edificio in corrispondenza delle principali direttrici circostanti. Piano vuole che il suo edificio partecipi alla vita della città e rifiuta la possibilità di riempire completamente il lotto che gli venne affidato, preferendo l’idea di svuotare la massa costruita per offrire un nuovo spazio pubblico in questa zona centrale di Londra. I temi di accessibilità e fruibilità dell’edificio erano assolutamente centrali in questo lavoro e molto dello sforzo dell’architetto genovese fu speso nella comprensione dei collegamenti pedonali che attraversano quest’area di confine tra i diversi quartieri. Seguendo gli schizzi e il gran numero di modelli volumetrici prodotti nella fase progettuale, è possibile rendersi conto che il disegno stesso degli edifici è stato definito a partire dal vuoto centrale, una piazza pensata come un momento di pausa all’interno di un percorso pedonale che fino ad allora non esisteva. Le colorate facciate in elementi ceramici non toccano mai il livello del terreno ma si muovono ad un altezza variabile dai quattro ai sei metri conferendo totale trasparenza al piano terra degli edifici dove Piano sceglie di ubicare tutte le funzioni pubbliche e di accesso per quanto riguarda gli edifici destinati ad uffici oltre a bar e ristoranti che potranno affacciarsi sul patio centrale oltre che sul fronte stradale. 34 Una grande quercia destinata a crescere nel tempo è posta al centro dell’isolato quasi a sottolineare il distacco dalla convulsa realtà urbana che Piano cerca in questo suo lavoro. Molti aspetti del complesso di St. Giles rimandano alla sede dell’Economist degli Smithson, soprattutto il tentativo riuscito di costruire un edificio in grado di scomporsi in unità diverse per definire un luogo permeabile, fruibile e per questo legato alla vita dei cittadini. Il progetto di Piano è un esempio chiarissimo dell’utilità che un vuoto può esprimere e dell’importanza che tale consapevolezza ricopre nella ricostruzione delle nostre città.

Informazioni relative al progetto riferite alla conferenza tenutasi in occasione del cersaie di Bologna 2010 e disponibile attraverso il realtivo canale Youtube.

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Fig.33 Schizzo dell’arch. Piano relativo alla frammentazione del volume di progetto, tratto dal sito “www.rpbw.com”

Fig.34 Immagine del cortile interno, tratto dal sito “www.rpbw.com”

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CONCLUSIONI

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Non è pretesa di questo testo giungere a conclusioni definitive o chiarire una maniera corretta di comprendere e analizzare la dimensione urbana del vuoto. Nello scorrere di soli sei esempi abbiamo percepito la molteplicità di circostanze che questo tipo di lettura può generare. Il vuoto come conquista di uno spazio umano nel caso degli Smithson, il vuoto come risposta ai luoghi residuali e dimenticati come nel caso di Van Eyck e Chipperfield ed il vuoto come mezzo di relazione visiva e culturale come nel caso di Cullen e Siza. L’idea è quella di raggiungere una presa di coscienza che ci permetta di comprendere la qualità degli spazi vuoti evitando di commettere uno degli errori più frequenti della pianificazione contemporanea che ha spesso affrontato il disegno urbano con fitte distese di edifici incapaci di generare un vero insieme urbano. Le città, come afferma Renzo Piano nell’intervista che introduce al catalogo della mostra “Le città Visibili”, hanno nelle sorprese, in ciò che non ci aspettiamo e in quello che non è stato completamente pianificato, alcune delle loro più affascinanti qualità.

“Quando si progetta una piazza in una città , non la si deve progettare in maniera troppo precisa, perché la piazza è uno spazio vuoto e sono proprio questi spazi vuoti che nella realtà della vita vengono riempiti con l’inaspettato, con le sorprese, con l’effimero e con i momenti delle relazioni” 35.

Piano insiste ancora sottolineando poi come la scelta di non progettare troppo i vuoti delle città risponda alla natura stessa dei centri urbani, cosi da permettere a questi spazi di mutare nel tempo, di rispondere alle nuove necessità e di consentire una delle principali azioni umane che sta nel reciproco scambio tra le persone. 36Oggi queste qualità degli spazi urbani sono più rarefatte e meno leggibili; la società contemporanea non esprime più, come in passato, un modello culturale preponderante traducibile nel costruito, ma al contrario risponde in modo disordinato alla moltitudine culturale tipica del mondo globalizzato. Rifiutando, come espresso all’inizio, una lettura nostalgica della questione urbana, tale diversificata e confusa dimensione culturale va assunta come condizione con cui confrontarsi e a cui trovare adeguate risposte.

“Le nuove terminologie che si affacciano nel panorama culturale per descrivere le agglomerazioni, quelli di città diffusa o di città continua, sono espressioni segnate dal disagio verso questa nuova condizione” 37.

35 Renzo Piano, Dialogo sulle città: un intervista tra Fulvio Irace e Renzo Piano, in “Le Città Visibili”, TriennaleElecta, Milano 2007 36 Ibidem 37 Mario Botta, Quasi un diario, Le lettere editore, Firenze, 2013, pp 28

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L’architetto Mario Botta riflette qui sulle città contemporanee, chiarendo che il vero problema di questi nuovi modelli sta nel non rispondere alle caratteristiche basilari di una città, generando paesaggi urbani nei quali si stanno erodendo i concetti di centro e contemporaneamente quello di limite, inteso come definizione fisica chiara degli spazi di vita dell’uomo 38. La città è lo spazio della vita comunitaria, uno spazio sempre in trasformazione attraverso il tempo ma che oggi sta perdendo la propria capacità di essere interprete delle condizioni del vivere contemporaneo. Tale perdita ha tra le proprie cause l’erosione dei limiti di cui diceva Botta, una perdita che coinvolge soprattutto lo spazio pubblico senza il quale una città perde la propria identità. Lo spazio pubblico si costruisce proprio nella matrice dei vuoti e coglierne l’importanza e le potenzialità può essere una opportunità molto forte per affrontare la costruzione delle città nel tempo della globalizzazione. Il vuoto assume la propria qualità se definito da un chiaro sistema di pieni, per questo la reazione alla perdita di tale comprensibilità portata dalla città diffusa, può ritrovarsi in un ritorno ai temi di densità e compattezza. Costruire una nuova prossimità urbana, rifiutando la dispersione che la nostra cultura oggi veicola, può essere un interessante elemento con cui lavorare per ritrovare una vera qualità degli spazi di vita delle città. Gli spazi vuoti rappresentano uno degli ambiti progettuali nei quali risiede il maggior potenziale di trasformazione delle condizioni urbane ed oltre ai temi di qualità e di sviluppo delle città, questi possono essere uno strumento molto forte anche per ridurre i fenomeni sempre più frequenti di disuguaglianze sociali, nelle quali un’attenta progettazione degli spazi comunitari può giocare un ruolo molto importante. Come detto non si tratta di esprimere soluzioni che da sole siano in grado di risolvere ogni questione, ma piuttosto di provare a comprendere su quali basi costruire la nuova realtà che abbiamo davanti. L’ossessione contemporanea di un risultato definitivo deve piuttosto essere sostituita dall’idea di sommare una serie di trasformazioni coerenti che vadano tutte nella direzione di un progressivo miglioramento della qualità dei nostri spazi di vita in comune. Una visione di questo genere ci può portare ad affrontare i problemi delle nostre periferie, i drammi sociali delle megalopoli dei paesi emergenti e l’anonimato di tutti quei luoghi dimenticati e degradati di qualunque città contemporanea. L’interesse nei vuoti urbani risiede esattamente nella presa di coscienza che la comprensione della loro importanza possa essere un fortissimo veicolo di trasformazione, basato su una maggiore attenzione alle realtà meno evidenti ma in grado di migliorare davvero la vita delle persone.

“ Ci sono frammenti di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici ” 39

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Ibidem Italo Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano, 1996, pp 10

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TRE POSSIBILI PRINCIPI PROGETTUALI

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DENSITA’ e COMPATTEZZA

PERMEABILITA’ e RELAZIONI

ORDINARE e LIBERARE

Aree di nuova urbanizzazione

Interventi nel tessuto esistente

Aree sovrappopolate

Periferie urbane Blocchi dormitorio – vuoti come strade e parcheggi

Insediamenti spontanei Densità eccessiva, insalubrità e poca vivibilità

Città diffusa dispersione e assenza di spazi pubblici

Città compatta minor consumo di suolo e definizione di spazi comuni

Densità e prossimità rispetto alla generica dispersione provocata dall’urbanizzazione puntuale della città diffusa. Tale approccio permette di ripensare a una relazione tra i vuoti urbani in grado di riproporre le qualità spaziali che definiscono una città dalla dimensione rurale.

Diffusione di nuove aree verdi e relazionali Perforazione precisa del tessuto per migliorarne la permeabilità

Decompressione del tessuto Puntuale liberazione di aree pubbliche

Inserimento di funzioni pubbliche Attivazione del vuoto – Pluralità di funzioni

Sovrapposizione e svuotamento delle unità Creazione di spazi di permeabilità e relazione

Intervenire sul tessuto ricostruendo le relazioni umane attraverso nuove aree verdi in grado di svelare la potenzialità di aree destinate a parcheggi o dimenticate. Un puntuale svuotamento di passaggi nel costruito può inoltre migliorare la circolazione perdonale esistente e l’inserimento di attività pubbliche come biblioteche o case di quartiere per attivare il vuoto.

Il vuoto può aiutare la vivibilità di insediamenti difficili come le favelas e gli slums, ad esempio per mezzo della conquista di aree la libere ottenibili tramite sovrapposizione in altezza delle attuali abitazioni poste una a fianco all’altra senza soluzione di continuità nella struttura dell’insediamento.

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BIBLIOGRAFIA

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TESTI

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RIVISTE E ARTICOLI

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-

Forum, no. 7, anno 1959, Amsterdam

-

Arquitectura no 261, Madrid

-

Irace, Fulvio, Learning from the Street, Politecnico di Milano

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Io sottoscritto studente PAOLO CATRAMBONE dichiaro che il presente elaborato teorico è originale e che in esso sono state rispettate le norme della proprietà intellettuale.

Mendrisio, lì 25 Gennaio 2016

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