Tatano e gli altri

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TATANO E GLI ALTRI INDICE

Tatano

pag. 2

Elisabetta

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Fine dell’incubo

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Chiuso per arrivo luce

53

L’emigrante

58

La festa della tosatura

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Madrigale per Bianca

66

Serial killer

70

Maestrale sul mare

73

La montagna del signor Pettinau

78

Questione d’onore

92

Scacco matto

101

Blues

103

La capretta dei Sette Fratelli

111

Passione

114

La leggenda dei gigli di mare

116

Il pescatore e il cane

118

Il professore di filosofia

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TATANO ( dalla 1° edizione del romanzo I segreti del Presidente. Brano non iserito nel romanzo) Al primo giorno di Maggio, come tutti gli anni, Tatano Frau cambiò abbigliamento: indossò un vestito chiaro e mise in capo una paglietta. Si fece preparare dai servi il calesse e partì in direzione del vicino Campidano. Durante il viaggio, frusta in mano e capello di paglia in testa, preparò mentalmente le ramanzine che avrebbe rivolto ai propri dipendenti. Era di lunedì e andava a controllare che tutto funzionasse a dovere nei vasti possedimenti che i suoi genitori gli avevano lasciato in eredità. Arrivato a destinazione, incominciò a protestare con il fattore perché il raccolto

prometteva

male.

Ultimamente

le

spese

per

le

riparazioni

e

la

manutenzione degli arnesi erano state troppo alte. Gli asini parevano aver sempre maggior fame e lavoravano meno del solito. Gli uomini erano sempre in festa per colpa delle frequenti nascite di bimbi. In quel mese aveva dovuto fare il padrino di battesimo a ben cinque marmocchi! I pozzi poi, bisognava ripulirli di tanto in tanto perché altrimenti le vene dell’acqua potevano otturarsi. La necessaria ripulitura generale costava un occhio della testa. La servitù andava controllata maggiormente

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perché quando il gatto non c’è, i topi ballano. Bisognava che si ricordassero sempre che il padrone era lui, che li sfamava tutti. Che se proprio non volevano lavorare per passione, lavorassero almeno per riconoscenza. Poi lasciò che il fattore, dopo aver ascoltato con preoccupazione più affettata che effettiva la sfuriata, parlasse lui. “Vede questa pianta?” gli disse quello, “guardi com’è stracarica di frutti. Lo sa che se cerca per tutta la campagna qui intorno, di frutti grossi e belli come questi non ne trova altri? E lo sa perché sono così? Per l’acqua. Sissignore. Proprio l’acqua. Viene da quella collina laggiù, una terra santa che gli da sapore. Assaggi questa pesca padrone, l’assaggi e poi mi dica. Ne ha mai sentito di più gustose... sente com’è dolce?” Tatano Frau assaggiò. Soddisfatto e orgoglioso dei suoi frutti andò a passare in rassegna gli altri lavori. Non dimenticò di raccomandare l’uso parsimonioso del concime,

l’attenzione

per

la

potatura,

per

la

raccolta

del

frutto,

per

l’aggiustamento del fasciame dei molini. Rimproverò gli acquaioli che osservavano lo scorrere regolare dell’acqua nelle core, ma che secondo lui se ne stavano con le mani nelle mani. Continuò per tutto il giorno, e così anche il martedì, il mercoledì, il giovedì, il venerdì, finché finì quella dura settimana e arrivò il sabato. Giorno di rientro nella sua residenza cittadina e anche di paga dei dipendenti. Dentro lo studio della fattoria, gli uomini, ad uno ad uno gli sfilarono davanti con il berretto in mano. Per ciascuno di loro Tatano aveva una parola garbata e gentile. Chiedeva notizie dei familiari, e s’interessava delle mogli e dei figli. Non si dimenticava i compleanni e le altre ricorrenze, festose e non, ma nemmeno di rampognarli per lo scarso zelo che talvolta dimostravano nel lavoro. Tra una parola di rimprovero e una di lode metteva loro in mano la mercede della

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settimana. Aspettava poi, accettandolo di buon grado, l’umile ringraziamento e, non di rado, qualche dono campestre. Finita quella pressante incombenza tornò alla cascina del fattore che nel frattempo aveva preparato il cavallo attaccandolo con i dovuti finimenti al calesse. Si mise a parlare con lui e mentre i due chiacchieravano, la figlia Nora, esile e gracile, l’osservava con curiosità. Tatano si accorse dello sguardo e non gli sembrò proprio del tutto innocente. “Vuoi venire a servizio a Cagliari?” Le chiese guardando nella sua direzione. Nora arrossì. Sapeva che il padrone era scapolo e si raccontavano tante cose di lui. Era poderoso e robusto come una quercia e si diceva che in campagna avesse avuto qualche avventura, con le servotte. Forse aveva messo gli occhi su di lei. Tatano fece una carezza ai bimbi e salutò le donne che a loro volta lo riverirono. Ripartì dopo aver riempito l’agile carro con diverse verdure e svariate frutta di stagione. Non prima d’aver accettato in dono dal fattore il bottiglione di vino novello, e un paio di giovani pollastrelle. Alle quali, per l’occasione, avevano tirato il collo. Durante il viaggio di ritorno si soffermò a pensare con appetito ai pesci che Agnese cucinava alla perfezione. Lo aspettavano nella casa di Cagliari dove sarebbe rimasto fino al prossimo lunedì. Ripensò anche a Nora. Alle sue piccole spalle che incorniciavano il petto in cui s’intravedevano i seni minuti e acerbi. Alle longilinee anche che sembravano custodire al loro interno un soffice tesoro.

I torrioni dell’antica città, una volta cinta di mura, spiccavano insieme alle cupole delle chiese. Al di là il mare. I medioevali difensori avevano lasciato in eredità un piccolo scrigno, sovrastato da un cielo colorato di un intenso blu. 4


La Grande Guerra era appena passata come una lunga folata di vento. In quella città di provincia, insulare, quasi colonia, si era fatta odiare soprattutto per aver portato via dalle case gli uomini da mandare al fronte. Oltre che per le tasse e i balzelli, imposti a quelli che erano rimasti. Per il resto tutto era continuato senza scosse particolari. Aveva vissuto in semplicità. Con le passeggiate domenicali nel lungomare alberato, dove echeggiavano i rumori del vicino porto e i suoi abitanti si sfidavano in pacifiche gare d’eleganza. Le ragazze, accompagnate dagli austeri genitori, gustavano i primi gelati. Volgevano gli occhi languidi alla ricerca del giovanotto dal colletto duro e dalla folta capigliatura che ricambiava lo sguardo, con pupille dense di promesse romantiche. Il sole, a mezzogiorno, dardeggiava sulle chiome coperte di ridicoli capellini. Qualche “ break”, condotto con appariscente maestria dal nobilotto di campagna, catturava l’ammirazione delle donne munite d’appositi ombrellini. La sera, quando si accendevano i fanali e la luna incominciava il suo giro, sul bastione coperto della città si rinnovavano le intese. Ora piene d’intensa passione. Frasi dettate al cuore con l’intreccio delle dita inguainate. Amore fatto di sguardi sotto i balconi protetti da inferriate. Allora i liberali si distinguevano per comuni, nobili origini. Erano arroccati su posizioni di privilegio che li portavano a comportarsi come una casta. Essi mal sopportavano le regole in qualche modo limitative della propria sfera d’egoismi. I loro infuocati diverbi nelle sedute comunali, erano più rivolti a piccoli problemi. Decidere se dare o no il titolo di città al paese vicino. Piuttosto che a quelli più grossi, come la malaria o la fame dei più. Durante la settimana i ricchi proprietari terrieri come Tatano Frau andavano a controllare i loro possedimenti.

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In città restavano i commercianti continentali capitati lì per caso. Rimastici poi perché allettati da facili ed esclusivi guadagni e qualche volta dalla dolcezza del clima. Gli studenti con le rispettive mamme, i professionisti e le loro famiglie. Gli avvocati avevano da sbrigare polverose pratiche negli oscuri meandri del palazzo di giustizia. Sentenziavano in latino. Qualche divisione d’eredità. Qualche litigio tra confinanti. Qualche rissa scoppiata per interessi contrastanti. I medici facevano il giro dei pazienti. Consolavano le madri che avevano i figli militari. Distribuivano i preziosi consigli sull’uso delle medicine, da usare con cautela. Il giornale riportava i pettegolezzi delle personalità più in vista. Le quotazioni delle azioni della società tranviaria. Di quella della luce e del gas. La notte, quando la città andava a dormire, le barche dei primi pescatori sciamavano in acqua. Piene di speranze.

Tatano Frau viveva in un palazzotto di Cagliari. Circondato da una corte rustica dove i dipendenti avevano residenza. Questi accudivano alla custodia e alla conservazione dei magazzini in cui erano stipati i prodotti della terra. Badava invece alle sue necessità personali una donna anziana, già al servizio dei genitori. Agnese lo aveva visto nascere. Era ormai vecchia e malandata. A malapena riusciva a compiere quelle indispensabili operazioni giornaliere, necessarie per assecondare le abitudini del padrone. Lui però si accontentava. Non era molto pretenzioso. Per il mangiare, essendo di buon appetito, trovava ottima qualunque pietanza

che

riusciva

a

riempire

il

suo

vorace

stomaco.

Neppure

per

il

mantenimento e rinnovo del guardaroba personale aveva particolari interessi. Gli bastava sentirsi a suo agio dentro un paio di pantaloni e calzare comodi e robusti stivali di cuoio. In effetti, ultimamente, lui aveva per la testa un altro imperioso desiderio. Molto più importante che non quelle trascurabili frivolezze. Superato 6


ormai il quarantacinquesimo anno d’età, aveva deciso di rinverdire le fronde rinsecchite della sua famiglia. Voleva avere una prole, ma lo spaventava l’idea che, per ottenerla, avrebbe dovuto compiere quelle noiosissime incombenze del corteggiamento, della dichiarazione, del fidanzamento e del matrimonio. Decise perciò di farne a meno. Non della prole, ma di quegli ammennicoli di contorno. “Tua figlia è cresciuta bene. Ormai è grande e può andare a lavorare. Non è giusto che pesi sulla famiglia. Mi sembra ragionevole e di buon comando. Se volete può venire in città da me.” Disse un giorno Tatano al fattore e alla sua donna. “La mia Agnese è ormai vecchia e da sola non ce la fa più. Ha bisogno di un aiuto.” Nora non era mai stata in nessun luogo distante più di cento metri dalla propria casa. Non sapeva leggere ne scrivere e non era mai andata a scuola. L’idea di lasciare casa sua per andare in città le fece girare la testa. Le sembrava una cosa enorme, immensa, un viaggio nella luna. La madre versò qualche lacrimuccia quando Tatano se la portò via sul suo calesse. Ma era convinta che il destino delle figlie femmine fosse quello di andare a servire. Un padrone prima e un marito poi. Si consolò presto. Pensò che in città sarebbe stata meglio di loro, costretti a vivere tra le difficoltà e i rigori della campagna. L’unica a non approvare la scelta di Tatano fu la vecchia Agnese. “Una donna giovane come quella lì cosa ci fa da noi? Non sa fare niente!” Gli disse quando lui se la prese in casa. Dopo qualche giorno d’osservazione intensa e d’accurato studio rintuzzò: “ Guarda che quella là è furba. Stai attento che t’imbroglia.” Il primo giorno che Tatano fece delle avance nei confronti di Nora, lei si schermì

ma

non

troppo.

Agnese

le

aveva

insegnato

tutte

le

regole

sul

comportamento da seguire nel lavoro e lei aveva imparato presto. Nel portare a 7


tavola le pietanze e nel posare le stoviglie davanti al padrone si comportò secondo le istruzioni d’Agnese. Si chinò però esageratamente in avanti nel protendere i piatti. Offrendo in tal modo alla vista, anche l’unica parte del corpo scoperto: l’incavo dei seni. Si ritrasse allo sguardo del padrone, ma non in modo deciso e definitivo. “È una svergognata.” Brontolava Agnese con Tatano. I giorni del riposo festivo Tatano era solito mangiare in casa. Si attardava un po’ più del normale non avendo la preoccupazione di partire il mattino dopo per la campagna. Assumeva una posizione comoda. Poggiava i piedi, liberati dalle strettoie delle calzature, sulla sedia di fronte. Beveva qualche bicchiere di vino in più, specialmente di sera. Stava così in perfetto rilassamento, aspettando che arrivasse il momento di andare a dormire. Nora

sparecchiava

e

ritirava

le

stoviglie

rimaste

sopra

la

tovaglia.

Nell’accostarsi al bordo del tavolo, si sporse in avanti. Nell’effettuare quel movimento toccò con le sue cosce i piedi del padrone che spuntavano da sotto. Non abbandonò subito il contatto. Anzi vi premette con quella parte del corpo in cui Tatano immaginava il tesoro, lasciando che le dita dei piedi v’indugiassero a fondo. “Se ha bisogno di qualche cosa, mi chiami.” Disse rivolgendosi a lui mentre usciva dalla sala da pranzo. Tatano rimase incerto sul significato da attribuire a quella frase, ma durante la notte entrò nella camera dove Nora dormiva. Lei faceva finta di dormire. Si accorse benissimo che Tatano, mezzo spogliato, entrava sotto le coperte. Lui si accorse che lei se n’accorse. Nora non rifiutò il suo amplesso e stettero a sbaciucchiarsi per un po’. Poi lei incominciò a spogliarsi. Tatano le disse: “Guarda che non ti sposo.” Lei fece finta di niente e si spogliò del tutto. 8


La confidenza tra i due aumentò, nonostante il broncio d’Agnese, a mano a mano che le frequentazioni notturne diventavano più assidue. Tatano, quando tornava dai suoi giri in campagna e la prendeva in braccio facendosela facilmente saltare intorno alla testa, la strapazzava per gioco. Lei urlava dalla disperazione mista ad un pudore reticente. Sapeva dove i giochi dell’uomo forte e robusto l’avrebbero portata. Conoscendo la sua esuberanza e prestanza, n’aveva sempre un po’ di timore.

Non passò molto tempo e Nora rimase incinta. Nacque il bambino e Tatano scelse per il primogenito un nome che la diceva lunga sul suo modo di pensare. Era diventato un appassionato socialista nel momento in cui anche Mussolini lo era. Gli impose il nome di Benito. Tatano era un maschio rozzo e primitivo. “Non ti sposo” ripeteva in continuazione a Nora quando lei insisteva. L’aspetto rustico del carattere nascondeva tuttavia un’insita debolezza. Alla nascita del secondogenito, Luigi, le sottili arti della donna vinsero sull’ostinazione dell’uomo. Dovette cedere ai suoi desideri, nonostante lui fosse il padrone e lei la serva, e nonostante la diversa posizione sociale e la differenza d’età. Questi ostacoli non impedirono che il matrimonio avvenisse. Nora si rivelò da subito una perfetta padrona di casa e una moglie esemplare. Assecondava il marito in tutto con devozione e sembrava gioire della possibilità di dargli una prole numerosa. Continuò a tenere nei suoi confronti una sorta di rispettosa distanza come se il matrimonio non fosse mai avvenuto. Lo circondava, tuttavia, di un affetto semplice e sincero che servì a rinsaldare il loro legame. Per effetto del matrimonio, Tatano si ritrovò ben presto in casa non soltanto la sposa ma anche tutto il suo parentado. Non se ne dolse. Nora riuscì, con il suo 9


modo di agire schietto e limpido ad imporre ai propri parenti il nuovo stato, e a far mantenere le distanze. Ciò, senza suscitare in loro particolari reazioni negative. Così Tatano lusingato dalla sua piccola corte, dopo il secondo figlio, si cullò nella previsione che la serie sarebbe continuata. Invece questa dovette interrompersi perché, dopo aver dato alla luce Luigi, Nora ebbe qualche complicazione che le impedì di avere nel futuro altri parti.

Gli anni corsero via frettolosi. La città si era estesa allungandosi come un bimbo che stiri le sue membra al risveglio da un sonno. Quasi in punta di piedi. Senza scomporsi. Senza abbandonare nulla della dignità avuta in eredità e senza turbare il placido scorrere del tempo, scivolato via sereno. Nuove case, giardini, strade. Si era protesa fino a farsi lambire dal mare. L’acqua salmastra aveva impregnato dei suoi odori l’atmosfera delle case. Con l’andar del tempo, tuttavia, qualche cosa incominciò a mutare. Una specie di nuvolaglia nera all’orizzonte sembrava presagire un rapido dissolvimento dei tempi sereni. Nuove idee serpeggiavano suscitando fermenti fino allora sconosciuti, soprattutto tra le classi più povere. I germi dell’odio di classe cominciavano ad inserirsi nell’animo e nei comportamenti degli uomini. Nelle persone sottoposte a padrone, quel sentimento prese il sopravvento sul senso di gratitudine. Fino allora questo aveva contraddistinto il rapporto tra lavoratore e datore di lavoro. Si manifestò dapprima con una disaffezione alle fatiche per il padrone ricco. Non era più giusto. Subentrò quindi la malizia nei comportamenti. Di conseguenza la naturale necessità, per il padrone, di controlli più accurati. Questi si trasformarono ben presto, agli occhi dei dipendenti, in atti dispotici. Il cerchio si chiudeva aggravando il distacco.

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I lavoranti

di Tatano,

pure loro, avevano

assunto un atteggiamento

velatamente ostile che si manifestava soprattutto nel momento di prendere la paga settimanale. Guardavano i soldi. Sembrava che intendessero accertarsi che lui desse tutto quello che spettava loro. Mentalmente lo rimproveravano di volerli pagare troppo poco, addirittura di derubarli. Lui si accorgeva di questo clima. Leggeva nei loro occhi questa sensazione e non lo poteva tollerare. Aveva fatto da padrino a quasi tutti i loro figli e brindato con loro in ogni occasione di festa. Ora invece non riceveva più nemmeno quei doni frugali che negli anni precedenti gli riempivano il calesse. Ci furono i primi disordini e i contadini apertamente scesero a rivendicare i loro diritti di proletari. Tatano capì che i suoi tempi stavano cessando. Con le prime rivolte s’infranse definitivamente l’illusione di un ritorno alla normalità. Da immemorabile tempo, nella famiglia di Tatano si tramandavano da padre in figlio i beni ricevuti dagli antenati. Era vissuta fino allora nell’abbondanza e nell’agiatezza, e questo stato di cose sembrava che non potesse mai aver fine. Nel futuro, semmai, le cose erano destinate a migliorare sempre più, e non già a precipitare. Con quella certezza Tatano aveva investito tutti i suoi risparmi in titoli di stato pensando di poter vivere, nel futuro, con il loro ricavato. Tatano non si era mai interessato attivamente di politica. Fu quindi naturale per lui plaudire a quel sentimento corale che sembrava voler rimettere le cose in ordine. Accettò con entusiasmo quella specie d’esaltazione collettiva che il fascismo indirizzava verso un destino orientato ad un nuovo ordine. Non si ricredette nemmeno dopo gli episodi di violenza e d’intolleranza ai quali dovette anche lui assistere, se non proprio partecipare. La sua fede, anzi aumentò quando incominciò la grande illusione di potenza nazionale.

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Non discendeva da insigni casati, ma avrebbe egualmente potuto far parte, a buon diritto, della ristretta cerchia di persone che governavano le sorti della città. Poteva, infatti, vantare facoltose disponibilità equivalenti a qualche stemma o blasone. Lui però non aveva mai cercato di inserirsi in quei circoli esclusivi che detenevano il potere. “La politica non fa per me”, soleva dire e tuttavia talvolta si soffermava sulla gioiosa previsione di un figlio che ne diventasse protagonista. Per il suo erede ipotizzava volentieri un avvenire in tale direzione. Lo vedeva emergere tra notabili e professionisti della città. Partecipare a quella élite che si contendeva la guida del Comune e, chissà, quella della Provincia e della Regione. Inseguendo il suo sogno, mandò Benito a Roma, a studiare giurisprudenza, non appena questo ebbe terminato le scuole liceali. Lui progressivamente rallentò le andate in campagna. Al suo posto mandava Luigi. Secondo i programmi, al secondogenito era destinata la conduzione degli affari agricoli e quindi tutta la vasta proprietà. Non passò molto tempo e Luigi dovette arruolarsi e diventò sottufficiale della milizia fascista. Non poté più garantire al padre quell’attenzione alle proprietà terriere che sarebbe stata necessaria. Le campagne furono abbandonate quasi del tutto e prese in mano direttamente dai contadini, dai mezzadri, e soprattutto dal fattore padre di Nora. Questo ne divenne, in pratica, proprietario potendo accampare diritti d’affinità parentali. Alla sua morte, avvenuta poco più tardi, la cura delle terre passò ai propri figli e parenti. A Tatano non pervenne da queste quasi più alcun reddito. Il lato economico non era però quello più vulnerabile e più preoccupante. Tatano poteva sempre contare su qualche riserva che gli avrebbe in ogni modo consentito

di

sopravvivere

dignitosamente. 12

Erano

i

profondi

e

inaspettati


mutamenti nazionali e internazionali a creare una pesante atmosfera, carica d’incertezza.

La vita aveva però in serbo ancora qualche momento piacevole per Tatano. Luigi, già da qualche tempo si accompagnava ad una graziosa ragazza sua coetanea. Figlia unica di famiglia originaria del nord Sardegna suonava il pianoforte con rara grazia. Era una qualità inculcatale dai suoi genitori perbene. Aggraziato era anche il nome, Veronica. Si adattava perfettamente a lei, evocando un che di musicale. Aggraziata era anch’essa pur senza potersi definire una bellezza esemplare. Le trecce con grossi fiocchi alle estremità che adornavano i capelli biondi, le davano un aspetto di ragazzina timida e ingenua. In effetti, il carattere era come l’aspetto: dolcissimo. Tanto che Tatano e Nora si affezionarono a lei. Presero a benvolerla come se fosse una loro figlia. Forse più. La festicciola del fidanzamento “ufficiale” avvenne nel palazzotto dei Frau. La famiglia di Veronica non possedeva una casa accogliente e grande quanto quella loro. In quell’occasione s’incontrarono i rispettivi genitori. Per la prima volta. Non vi erano stati molti ospiti. La festa, abbastanza intima, era stata rallegrata dal regalo di fidanzamento. Il suo arrivo aveva suscitato sorpresa in tutti i presenti. Bussarono alla porta mentre si scambiavano auguri e brindisi. “Sono Girauldi dell’agenzia Girauldi. Ho un grosso collo da recapitare alla signorina Veronica” aveva detto, e Veronica aveva scosso la testa facendo tremare le trecce bionde. “Non è possibile, non credo proprio che sia per me...” “Sì invece.” Disse quello guardando i suoi fogli. “È proprio per lei. C’è scritto qui.” 13


Si trattava di un’enorme cassa che poggiava su un carrello. La sorpresa fu generale. Tutti si guardarono in viso non riuscendo ad indovinare il suo contenuto. Il signor Girauldi chiamò un suo aiutante. “Prendi la leva e il martello e schioda la cassa” Gli ordinò. A mano a mano che la cassa si schiodava, il suo contenuto incominciava ad apparire. Veronica si mise le mani davanti agli occhi in preda ad un’eccitazione nervosa carica di gioia. Luigi le era accanto e le passò il braccio sulle spalle stringendola a se. I genitori erano stupiti. Tatano e Nora sorridevano con aria furba e soddisfatta. Gli altri intervenuti batterono le mani quando estrassero dal legno anche l’ultimo chiodo e furono in grado di spostare liberamente il pianoforte. “Qui, qui, portatelo qui! Il suo posto è questo.” “Ora Veronica suonerà per noi” “Coraggio. Cara, non farti pregare.” Lei non si fece pregare. Era commossa. Si appoggiò a Luigi che la trascinò, quasi di peso, fino al seggiolino davanti al pianoforte. Incominciò a suonare le note di un pezzo che ricordava a memoria. Era felice. Passata l’emozione iniziale, suonò le melodie di Mendelsohn, il valzer lento di Schubert, Malerba e le canzoni che allora erano più in voga. Felici furono anche Luigi, Tatano, Nora e tutti gli altri. Ascoltando la sua musica passarono ore deliziose.

Quasi prevedendo che il tempo avrebbe lesinato loro il futuro, Luigi e Veronica, con una decisione improvvisa e veloce, si sposarono. Andarono a vivere nella casa paterna ed ebbero immediatamente un figlio. Lo chiamarono Camillo. Il mondo di Tatano si chiuse da quel momento all’interno della casa. Tra i suoi cari, con l’esile Nora, con il piccolo nipote da viziare.

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Veronica lo cresceva con cura. Camillo sgambettava tra le gambe dei nonni, mentre la mamma accudiva a tutta la casa e anche ai suoceri, aiutata in ciò da qualche occasionale domestica. Luigi, tutto preso dai suoi impegni politici militari, raramente era con loro. Ogni tanto compariva per non far sentire troppo la sua mancanza ma quei momenti erano sempre più rari. Subito dopo, tornava ad assentarsi dalla famiglia. Per quattro o cinque anni tutto filò liscio fino a che segnali inconfutabili fecero prevedere un’imminente burrascosa tragedia. Tatano non abbandonò la sua fede politica nemmeno quando si aggravò la situazione economica. I risparmi, impiegati in titoli di Stato, si rivelarono per il momento, infruttiferi e il loro godimento rimandato nel tempo. Nemmeno quando arrivarono i proclami di guerra. Neanche di fronte al presagio dell’imminente catastrofe. Continuò a vivere come un vecchio feudatario nel suo castello. Isolato dal resto del mondo. Pago di ciò che la vita gli aveva riservato. Furono gli ultimi momenti lieti perché da allora incominciò la bufera. La vita di Nora era trascorsa nella scia del marito, priva di una propria volontà, quasi in ombra. Tutta dedita a soddisfare i doveri e i desideri che quell’uomo le imponeva. Morì all’improvviso, di giorno, mentre svolgeva le faccende domestiche. Si accasciò al suolo e non fece in tempo a dire una sola parola. Nessuno avrebbe potuto sospettare che la sua scomparsa avrebbe inciso più di tanto sulla vita di Tatano. Uomo dalla prestanza fisica eccezionale, dalla salute di ferro e dall’appetito formidabile. Non fu così. Tatano sembrò rinsecchirsi. Dimagrì a vista d’occhio come se la presenza di quell’esile donna fosse stata il nutrimento della sua vita. Si chiuse in se stesso e perse tutta la baldanza. Qualche volta, per consolarlo, Veronica suonava per lui quelle musiche che per tante volte 15


avevano canterellato con sua moglie. Smetteva non appena si accorgeva che a Tatano spuntavano le lacrime agli occhi. La vecchia Agnese terminò anche lei il suo percorso tra i vivi. Se n’andò in un mesto giorno d’autunno carico di pioggia. La grande casa, con il passare degli anni, era perciò diventata, enorme e vuota. Erano diminuite le esigenze e non c’erano più i servitori di una volta. Poi gli eventi assunsero all’improvviso un’accelerazione impressionante. La città fu invasa da schiere d’uomini armati. Nel cielo sfrecciarono caroselli d’aerei militari che scomparivano veloci dietro i monti non lontani. La propaganda esortava alla passione nazionalistica e la guerra era descritta e quasi invocata come una promessa di gloria e di vittoria. Intanto però preparava la gente ai sacrifici. Si davano le disposizioni per il comportamento da tenersi prima, durante e dopo gli allarmi aerei. Chiudere le finestre, spegnere qualsiasi lume, oscurare con strisce di carta azzurra le fessure degli infissi. Chi non aveva la possibilità di recarsi nei rifugi, doveva rimanere sotto le arcate delle porte, considerate i luoghi più sicuri dell’intera casa. Cessato l’allarme non bisognava affrettarsi ad uscire in strada. La gente ancora non si rendeva conto che stava per perdere tutto ciò che aveva, ma la guerra, quella vera, sembrava ancora lontana e impossibile. Era difficile far entrare nelle loro teste che quegli avvertimenti preludevano a bombardamenti veri e propri. Si pensava fossero chiacchiere della propaganda. Erano gli altri, i nemici, a dover temere, non coloro che appartenevano alla razza vincente. L’incredulità continuò anche quando si udirono i primi scoppi. Si pensò ad esercitazioni, a colpi di cannone delle contraeree, ma non a bombe che cadevano dal cielo gettate dagli aerei nemici. Solo quando le schegge incominciarono a cadere a grappoli nei giardini vicini. Solo allora la gente iniziò a rendersi conto 16


che si trattava di una cosa maledettamente seria. Le bombe sarebbero potute cadere anche in casa propria. Ancora sembrava impossibile. Ci vollero i primi morti. Fu allora un fuggire generale. La distruzione ebbe inizio e la paura s’impadronì di tutti. Uomini e donne scapparono senza sapere talvolta neppure dove fermarsi, desiderosi soltanto di allontanarsi

dal pericolo.

Le bombe

cominciarono a cadere a valanga e gli allarmi si susseguirono uno appresso all’altro. I razzi illuminarono i cieli notturni. Le contraeree esplosero granate che provocarono sprazzi di luce improvvisi. In breve, la situazione divenne disperata. Tatano si sentiva però al sicuro tra le sue mura e il mondo esterno non lo turbava per niente. Ebbe una notte un concitato colloquio con Luigi, diventato nel frattempo ufficiale della milizia. “Papà, tu Veronica e Camillo dovete sfollare su per i monti dove si sono già rifugiati tanti altri. Qui ormai non si può restare. È troppo pericoloso.” “Che pericolo io potrò oramai correre ?” “Non vedi cosa sta succedendo?” “Tu credi che possa spaventarmi quello che succede al di fuori di casa mia?” “Può succedere da un momento all’altro anche qui, anche in casa tua!” “Se così fosse, io che cosa ci farei ancora?” “Papà. È per Veronica e Camillo. Devi pensare a loro. Non possono rimanere qui. Devono andare via, e tu con loro.” L’indomani prepararono la millecento Balilla e la riempirono di cose di prima necessità. Accompagnarono Veronica e Camillo alla stazione delle ferrovie secondarie. Tatano non volle assolutamente partire nonostante le insistenze del figlio. Li misero sul treno. Gli abbracci e i baci che si scambiarono in quell’occasione sarebbero stati gli ultimi. Non si sarebbero più rivisti.

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I tempi volsero al brutto. Ogni notte vi era una o più incursioni aeree. Cadevano dal cielo come gocce ordigni micidiali d’acciaio che la tecnologia aveva perfezionato per renderli più efficaci di una semplice bomba. Le schegge che si sprigionavano dalla distruzione dell’ordigno, non si sollevavano in aria per poi ricadere

a

pioggia

sul

terreno.

S’irradiavano

orizzontalmente.

Falcidiando

chiunque veniva a trovarsi nel loro raggio d’azione. Nella casa divenuta solitaria, Tatano Frau continuò a seguire l’andamento della guerra ma il suo interesse era limitato esclusivamente ai propri cari. Captava le notizie sempre più sporadiche e rare attraverso la radio, oppure quelle vaghe e imprecise che gli portava il figlio Luigi. Per la sua militanza nelle fila della milizia, Luigi aveva accesso alle carte che riguardavano indagini, ancora eseguite, sulle persone sospettate di sovversione politica. Nelle poche occasioni in cui andava a trovare il padre, lo aggiornava sulle novità che riusciva a conoscere su amici e conoscenti. Un giorno una di queste sconvolse Tatano. Riguardava il figlio primogenito. Il fiore all’occhiello. Colui per il quale avrebbe desiderato un avvenire importante nella sua città. Benito si era arruolato con le brigate partigiane. “Anche lui con questi voltagabbana!” mugugnò con profonda irritazione. Considerava i partigiani semplici traditori. Luigi si rese conto che, ogniqualvolta riusciva ad avere qualche notizia su Benito e la riportava al padre, suscitava immancabilmente in lui ondate di sdegno. Per non esacerbare la sua ira, gli nascondeva perciò certi episodi che lo avrebbero particolarmente irritato o ferito. Un giorno gli riferì che Benito era stato ferito da una granata esplosagli a pochi passi. Non gli disse che il fatto avvenne mentre con i compagni erano intenti a “pizzicare” le retroguardie dei tedeschi che se n’andavano. Un gruppo di suoi compagni e compagne trasportarono Benito privo di 18


sensi in una piccola infermeria di fortuna. Un solo medico badava a curare i feriti che arrivavano in continuazione. Era colpito al capo. Rimase per qualche giorno in quell’improvvisato ospedale. Poi, non potendosi più fare nulla per lui, lo rimandarono a Roma, in un grosso centro di cura. Di lì le notizie si persero nel nulla. Una terribile incursione aerea rase al suolo la città. Luigi, insieme a tante altre persone, perse la vita a causa dell’esplosione di uno di quegli ordigni micidiali. Non fece in tempo ad entrare nel rifugio antiaereo. Parti del suo corpo maciullato furono spiaccicati sulle pareti di un palazzo lungo la strada che stava percorrendo. Quel giorno la città fu martirizzata. Rimasero monconi di case abbandonate, macerie confuse, lampioni divelti, fossati. Un cumulo di detriti e di sangue. I resti terreni di Luigi, quei pochi che riuscirono a trovare e a ricomporre, furono tenuti in una cassa, conservata insieme con altre in una cappella del cimitero. Fu sepolto dopo molto tempo, in una zona destinata a tanti soldati resi irriconoscibili dalle bombe. Non si poteva essere nemmeno certi della loro reale identità. Tatano Frau non fece in tempo a sapere la verità. Ormai vecchio e stanco una notte, come sempre, si mise a letto. Incominciò a dialogare con la vita e con la morte. Quella se n’andava per suo conto e questa si avvicinava a lui. Ebbe la visione di ciò che aveva perduto per sempre, le terre, la moglie Nora e i suoi figli. Rivide il calesse che usava un tempo e volle che i servi lo preparassero ancora. Tentò di alzarsi per ordinare di preparare il cavallo ma non fece in tempo. Gli sembrò che tutto fosse diventato pesante da sopportare. A cassetta non aveva pesi, eppure non riusciva a muoversi. Da quel letto non riuscì più ad alzarsi. Morì colpito da un ictus cerebrale quando le bombe caddero sulla sua casa sventrandola e facendo crollare il tetto. Nessuno si accorse della sua morte. La città era ormai 19


completamente deserta e solo quando la parete della camera crollò del tutto, molti giorni dopo, si scoprÏ il suo cadavere. Ma la vita continuava a dispetto di quella distruzione.

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ELISABETTA

Viaggiarono per un giorno intero sui sedili di legno di un trenino sgangherato gremito di gente. Scappavano dalla guerra, dalle incursioni aeree, dai bombardamenti di tutte le notti. L’esodo verso le regioni dell’interno era aumentato in quei giorni. La popolazione cittadina in fuga aveva preso d’assalto paesi, villaggi e anche isolati casolari contadini. La gente si ricordò all’improvviso di avere in quegli sperduti angoli parenti dimenticati. Si rispolverarono parentele agli ultimi gradi. Zii e cugini mai conosciuti. Talvolta la parentela fu inventata di sana pianta pur d’arrivare a stabilire un legame che giustificasse una richiesta d’ospitalità. Rinverdirono anche le figure dei compari, madrine, testimoni di battesimi, cresime e matrimoni. Si riscoprirono conoscenze comuni, compagni di scuola. S’inventarono amicizie. Per tanta gente che non aveva nessuno al quale chiedere asilo e nemmeno la fantasia per andare a cercarsela furono disagi immensi. A fronteggiare in qualche modo l’esigenza di dare a questi sfortunati almeno un tetto sotto il quale ripararsi, ci pensarono i soldati. Avevano requisito lungo le spiagge cittadine tutto il legname proveniente dai casotti e dalle cabine distrutte. Lo avevano caricato su camion e trasportato laddove maggiore era l’affluenza della gente. In appositi piazzali, avevano montato in fretta e furia dei grandi baracconi. In quei provvisori rifugi molti sfollati trovarono una sistemazione. I più fortunati,

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giacché gli altri dovettero affollarsi in comunità come scuole, asili o altri caseggiati pubblici, presi letteralmente d’assalto. Le piccole rotaie giravano tutt’intorno ai promontori senza mai azzardarsi a valicarli. I vagoni erano sottoposti a scossoni per via delle estenuanti curve. Dalle reticelle in capo ai viaggiatori, cadevano continuamente borse e pacchi. Salirono su quel paese aggrappato alla cima del monte. Il viaggio infinito li aveva stancati come se lo avessero fatto con le proprie gambe. Finalmente arrivarono a destinazione. Veronica e Camillo potevano considerarsi dei privilegiati. Luigi si era avvalso

della

sua carica.

Era

riuscito

ad ottenere

per

i propri familiari

l’assegnazione di un’intera porzione indipendente di uno di quei grandi baracconi allestiti dai militari. Era situato in un piazzale al limitare del paese a ridosso della montagna. La loro porzione non era grande. Misurava circa tre metri per tre. Veronica e Camillo vi presero dimora e si sistemarono come poterono. Cercando di sfuggire alle occhiate d’invidia che provenivano da chi era costretto alla vita in comune nei cameroni. Era già buio fitto quando finirono di sistemarsi. La sera era calata da un pezzo e la stanchezza si fece sentire in modo crudele. Disciolsero i pacchi e mangiarono qualcosa. Nella stanza vi era una finestra con gli scurini chiusi. Veronica li aprì e scrutò fuori con curiosità. Dalla loro posizione alta, sulla costa del monte, si scorgevano giù in lontananza strani bagliori. Su Cagliari e dintorni precipitavano in continuazione le bombe. Le esplosioni delle granate provocavano quel chiarore tremolante, diffuso, con lampi che n’alteravano l’intensità del colore. Veronica era terribilmente triste. Vedere senza sentire era una sensazione che le faceva provare una specie di mancanza ossessiva. Era come se fosse cieca, ma peggio perché vedeva, o sorda, ma peggio perché sentiva. Era un film muto in 22


cui forse qualcuno gridava ma lei non sapeva, non poteva capire. Quel diagramma di paura continuava a graffitare sul buio un tracciato a scatti, a lampi. Ad ogni nuovo graffio forse la gente moriva. Il suo Luigi era lì ora, in quel preciso momento in cui lei vedeva ma era cieca, sentiva ma era sorda. Si buttò sul letto e abbracciò Camillo. Chiuse la finestra e poi la riaprì. Rimase con lo sguardo fisso fino a che il bombardamento non cessò del tutto e la notte si appropriò il buio intenso. Divenne buio fitto anche sul monte. L’indomani mattina spuntò il sole. L’aria fresca e leggera del mattino la investì non appena mise la testa fuori dell’uscio. Sul piazzale vi sorgeva una fontana e diverse donne erano d’intorno per riempire recipienti di tutti i tipi. Bottiglie, pentole, semplici contenitori. Fece anche lei alcuni passi in quella direzione. Le altre donne la guardarono. La privilegiata. Non dissero niente. Una donna incinta teneva in mano una bottiglia da riempire. Quasi trascinava il figlioletto cui stringeva l’altra mano. Il bambino aveva gli occhi appena socchiusi e le gote eccessivamente arrossate. A Veronica vennero le lacrime agli occhi. Si avvicinò alla donna e gli prese in braccio il bambino. “Ha sonno?” “Ha un po’ di febbre. Stanotte non è riuscito a dormire. Ero preoccupata per tutti gli altri.” “Signora lo dia a me, lo porto nella mia stanza, vedrà che li dormirà.” Da quel momento divise la stanza con le altre madri e, con loro, anche tutte le sofferenze di quei primi giorni di vita da sfollati. “Poverini” dicevano di loro gli abitanti del paese. Da un lato ne capivano le penose ragioni e avrebbero voluto aiutarli. Dall’altro erano infastiditi da quella presenza massiccia che aveva invaso il paese e le terre intorno, senza la loro volontà. Turbava la quieta vita cui erano abituati. “Abbiamo poco per noi. Non 23


possiamo toglierci il boccone dalla bocca per darlo a loro. Dobbiamo pensare anche ai nostri figli.” Li trattavano perciò come se fossero la causa di una disgrazia capitata alla comunità, un’improvvisa grandinata fuori stagione. Incominciarono a vendere i prodotti delle campagne e delle proprie fatiche. Capirono allora che la presenza di quella gente poteva rappresentare un vantaggio per le loro condizioni di vita, avvilite dall’isolamento e dalla solitudine. Cambiarono tipo di riflessioni. Continuarono, tuttavia, ad evitare di incontrarli. Un poco vergognandosi. Forse per non dover parlare un po’ più a fondo con le loro coscienze. Così gli sfollati furono quasi ghettizzati nelle baracche di fortuna. Solo chi aveva beni da scambiare, si faceva vivo di tanto in tanto. Offriva qualche merce rara: riso, caffè, latte o altre cose di prima necessità. I prezzi non tardarono a salire alle stelle. Mancava tutto. Quel poco che si riusciva a trovare per nutrirsi e per le altre necessità divenne in brevissimo tempo carissimo. In quella desolazione gli unici a non aver perso il buonumore erano i bambini. Questi, infatti, non tenevano conto delle differenze tra residenti e no. Le simpatie erano istintive. Le amicizie nascevano spontanee, indipendentemente dal loro luogo d’origine. Camillo sembrava non risentire per niente di quella scioccante avventura, almeno in apparenza. L’unica cosa che lo preoccupava e impensieriva la mamma era il suo continuo aver fame. Sembrava che non riuscisse mai ad essere sazio, per quanto mangiasse. Non erano certo cibi particolarmente nutrienti quelli che Veronica poteva dargli. Si doveva accontentare di molto pane, con contorni che ne variavano e accompagnavano il sapore. Era molto raro che potesse nutrirlo con pasti completi e ben equilibrati, necessari specialmente in quel periodo di crescita.

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Di là da questa preoccupazione, per il resto, gli interessi di Camillo, simili a quelli dei coetanei presenti in quel baraccone, erano appagati. Avevano subito fraternizzato con gli indigeni e si erano uniti assieme a formare tra loro gruppi misti con cui dividevano le ore della giornata. Con i suoi amichetti erano in cinque. Quattro ragazzini e una ragazzina. Lei non voleva sentirsi differente dai compagni e teneva dietro a tutto ciò che gli altri quattro facevano. Bionda, gli occhi di un azzurro quasi sbiadito, aveva il corpo legnoso e magro. Il viso cambiava espressione ogni momento. Non si sapeva mai se era contenta o se stava per piangere. Sembrava talvolta aver bisogno di chiedere qualche cosa. Era meravigliata, incuriosita, irritata, indecisa o altro. La bocca piccola e tagliente univa le due guance cosparse di lentiggini. Si accapigliava in continuazione con gli altri. Nello scendere in corsa, a balzi, al fiume, fin giù a toccarne la riva, era sempre la prima ad arrivare. L’acqua faceva una curva, rallentando notevolmente il suo fluire, in una grand’ansa che rassomigliava ad un golfo marino. Elisabetta era la preferita di Camillo. Un giorno scesero al fiume e si sedettero sul bordo. Il fondo verde traspariva e l’acqua faceva dei piccoli vortici. Su quella spiaggia fluviale si fermavano spesso per i loro giochi. Elisabetta buttò nell’acqua un pezzetto di legno. “Chissà dove andrà a finire.” Disse. “Finirà nel mare.” “Io non ho mai visto il mare. È dietro quei monti?” “Si, ma molto lontano.” “Com’è il mare? Di più del fiume? Raccontamelo. Vorrei vederlo almeno una volta.” Lui aveva teso un braccio e tracciato una linea ampia nell’orizzonte. “È come un cielo capovolto. Non sai dove finisce.” 25


Era

curiosa,

voleva

conoscere

l’origine

dei

fatti,

le

cause

che

li

producevano. La scuola le aveva insegnato poco. Non per colpa della maestra. Impartiva quasi regolarmente le lezioni, nonostante la fatica e la difficoltà incontrate per arrivare fin lassù e raggiungere il caseggiato scolastico. Era lei ad essere sempre assente. “Devo accudire a babbo” diceva, per giustificarsi, all’insegnante che le chiedeva il motivo di tante assenze. Era vero. Il suo compito era di adempiere tutte le faccende domestiche, riservate di solito alle donne più grandi. Essendo venuta a mancare prestissimo la madre, il padre le aveva inculcato che doveva pensare lei a tutto. Lo studio e la scuola erano cose che esistevano solo per gente ricca e di città, e soprattutto non servivano a niente. Non si era mai sentito che a scuola insegnassero a fare una buona minestra di fave e lardo. Talvolta la scolaresca, in caso di ritardo degli insegnanti, usciva dal caseggiato adibito a scuola. Si riversava in strada, scrutando i carri che montavano dalla bassa valle. Con quelli i maestri salivano dalla stazione al paese. I più godevano del mancato arrivo e n’approfittavano per ritornare ai loro giochi. Per Elisabetta era invece una sofferenza. Perdere la lezione in quelle poche occasioni che poteva approfittarne la avviliva. La sua voglia di apprendere era forte. Tanto che

le

volte

che

riusciva

a

partecipare

alle

lezioni,

l’insegnante

doveva

continuamente zittirla per le troppe domande su tutti gli argomenti. Anche con Camillo era una continua domanda. Voleva sapere degli studi, dove abitava, della sua casa, della città, dei negozi. Gli chiedeva tutte le materie che aveva studiato, storia, geografia. Camillo

l’assecondava come poteva.

Disegnava la Sardegna, l’Italia, l’Europa. Parlava delle città, dei paesi, dei confini con gli altri stati, delle religioni dei popoli. Tutto quello che lui aveva imparato.

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Ad Elisabetta si accendevano gli occhi come lampadine da cento candele. Era insaziabile. Elisabetta, allora, non conosceva bene la differenza tra un maschio ed una femmina. Si stupiva delle risate che talvolta gli altri quattro facevano. Tra loro ammiccavano a quella parte del corpo che stava proprio a cavallo delle loro gambe. Parlavano sottovoce. Lei si chiedeva il perché di quelle risate, senza tuttavia soffermarcisi troppo. Un giorno capitò che il proprietario di un albero di ciliegio li rimproverò aspramente. Loro cinque si erano attardati un po’ troppo a gustare i frutti della pianta, depredandola quasi del tutto. Al rimprovero del contadino risposero con frasi insolenti, e lui li cacciò via in malo modo. Accompagnò le sue parole col lancio d’alcune pietre, una delle quali colpì malauguratamente in pieno viso uno di loro. Il taglio sulla fronte fece sgorgare subito il sangue. I ragazzi s’adoperarono per fermare l’emorragia, inumidendo i loro fazzoletti e tamponando la ferita alla meglio. Non era nulla di grave. Subito dopo, passato lo spavento, decisero una spedizione punitiva dalla quale però esclusero Elisabetta. Per lei era un’esclusione immotivata. Era abituata a partecipare a tutte le azioni del gruppo. Non accettò di essere messa da parte. “Perché cavolo non devo andare anch’io?” “Perché non puoi fare quello che facciamo noi, tu sei una donna.” Le rispose uno di loro, e lo disse quasi con disprezzo. “Io posso fare tutto quello che fate voi e anche di più, e verrò con voi” disse con rabbia Elisabetta. Gli altri si misero a ridere. S’incamminarono verso la tanca del proprietario del ciliegio. Si accostarono al pozzo sul retro della casa. Il pozzo aveva una circonferenza di un metro. Un muretto di pietre lo delimitava. In cima, una ruota di ferro lasciava scorrere la 27


corda cui era legato il secchio per attingere l’acqua da bere. Al fianco del pozzo un abbeveratoio scavato in un unico blocco di roccia granitica. Sempre pieno d’acqua, vi andava ad abbeverarsi il bestiame. I quattro ragazzini salirono sul bordo dell’abbeveratoio e misero mano alle loro brachette. Si divertirono a creare dei piccoli zampilli che si riversavano all’interno del pozzo. Nel fare quell’operazione ridevano e indirizzavano parolacce al proprietario della tenuta. Elisabetta era l’unica a non partecipare all’operazione. S’immusonì. Fu quello il momento in cui si rese conto della sua diversità. N’ebbe percezione e s’intristì. Più che tristezza la sua era rabbia. Era per lei intollerabile non essere uguale a loro. “Io non posso fare nulla” disse lamentandosi. “Certo che non puoi. Te lo avevo detto, tu sei una femmina e le femmine non hanno quello che abbiamo noi.” Un maschietto le rispose con orgoglio. Camillo la vide che quasi piagnucolava e si avvicinò per consolarla “Non fa niente”, le disse, ” tu hai altre cose che noi non abbiamo. Non te la prendere.” Quella sera la curiosità d’Elisabetta si spostò dalle cose alle persone. Il fatto del pozzo l’aveva turbata ed era rimasta impressionata dalla diversità del corpo umano e dalla differenza tra uomo e donna. Non ci aveva mai pensato prima e ora le sembrava che quella differenza fosse un mistero che doveva a tutti i costi essere spiegato. Quella sera sgattaiolarono sotto le palafitte come due gatti selvatici. Camillo sentì l’odore della terra umida sotto la baracca. Sotto le palafitte delle baracche parlavano e s’interrogavano. Discorsi e gesti particolarmente interessanti per le loro menti d’adolescenti. Lei voleva sapere tutto di lui, ma proprio tutto. Gli chiedeva come fosse fatto, fisicamente. Nell’innocenza della curiosità non vi era 28


niente di falso. Tutto limpido e pulito. Solo la curiosità accendeva il loro desiderio. Voglia di sapere com’è fatto il corpo umano. Quali segreti esso nasconde. Il mistero che si cela nella nascita dei figli. Quale forza attrae l’uomo verso la donna. Nient’altro. Camillo, tuttavia, avvertì la dolce, impercettibile carezza delle dita d’Elisabetta. Il padre d’Elisabetta non aveva mai apprezzato quell’intimità tra sua figlia e quello lì. Gli avevano riferito che si nascondevano sotto i capannoni di legno che poggiavano su palafitte alte sul livello del suolo. Per lui gli sfollati erano solo dei miserabili perché non possedevano una casa. Era un uomo violento. Andava in giro armato di fucile e si diceva che non avrebbe esitato a sparare contro chiunque gli avesse intralciato la strada. “Se li trovo insieme lo ammazzo come un verme”, ripeteva spesso. Lo diceva a voce alta in modo che tutti potessero sentire. La meta preferita di Camillo ed Elisabetta era il fiume. Una sera si attardarono a giocare e a parlare più di quanto fosse loro concesso. Si fece tardi e Veronica incominciò a preoccuparsi. Trasmise quella preoccupazione alle altre madri e incominciarono a cercarli. Si stava facendo buio. Andarono verso il fiume nel timore che vi fossero precipitati dentro. Una disgrazia poteva averli fatti scomparire tra i flutti torbidi della corrente. Loro due non si accorsero che li cercavano. Non si erano resi conto che le ore erano passate velocemente. Per rientrare in paese, si erano infilati in mezzo al fieno su un carro trainato da un giogo di buoi. Il padrone camminava al fianco dei buoi, e non si sedeva sul carro per risparmiare loro la fatica del suo peso in quell’erta salita. Con un bastone appuntito punzecchiava ogni tanto le bestie per spronarle a camminare più veloci. L’odore del fieno colto da poco riempiva le narici dei due adolescenti. 29


“Quanti anni hai?” “Otto, quasi nove.” “Come me. Facciamo che tu sei il mio fidanzato?” I due ragazzi, immersi nell’oscura cavità morbida, si avvicinarono uno all’altro. Stettero avvinghiati tra loro senza quasi respirare per evitare di essere sorpresi in quella marachella giovanile. Si abbracciarono strettamente fino a sentire il respiro l’uno dell’altro. Fuori del loro mondo l’uomo incitava le bestie con urla selvagge: “Oho! Ahi! Ihi!” A loro due arrivavano attutite. Il fieno umido li avvolgeva come una coltre protettiva. Si ritrovarono a cercarsi con il corpo. Sentirono il gusto morbido della pelle toccata dalla pelle. L’impressione di voglia improvvisa di stringimento, di sapore, d’olfatto. Non seppero mai cosa successe in quell’alcova improvvisata. Forse non successe niente ma era la stessa cosa. Scesero dal carro e arrivarono alla periferia del paese. Si accorsero del clamore delle persone. Ritornavano dalle rive dove inutilmente li avevano cercati. Solo allora si destarono da quella specie di mondo personale nel quale si erano momentaneamente inoltrati. Comparvero con la mano nella mano, di fronte a tutti, con ancora le pagliuzze del fieno attaccate al loro corpo. Fu una sorpresa. Nessuno doveva sapere, anche se tutti sapevano. “Questa volta li ammazza !” Loro due erano tranquilli. Guardarono sbigottiti, con aria innocente, le persone che si accalcavano davanti. Le donne commentavano a bassa voce. Il padre d’Elisabetta sbucò ad un tratto tra quella piccola folla di persone incuriosite. Sembrava un leone inferocito. Aveva gli occhi torvi. Appena li vide imbracciò il fucile. Mise il dito sul grilletto, pronto a sparare. La gente si ritirò frettolosamente in disparte. Di fronte al suo fucile spianato, mano nella mano, rimasero solo loro due, Camillo ed Elisabetta. 30


“Vieni qua disgraziata!” Elisabetta non si mosse. Strinse più forte la mano di Camillo. Il padre ringhiò ancora “Ti ho dettò di venire qua subito se non vuoi che lo impallini come un tordo!” Elisabetta si spostò. Si mise davanti coprendo con la sua persona quella di Camillo. Camillo voleva scostarla e rispondere. Lei non glielo permise. Aveva un carattere forte e deciso. Non ammetteva di dover piegare la testa nemmeno a suo padre. Gli urlò: “E spara!” “Abbarra cheta !” gridò l’altro. Le mani tremavano nervosamente sul fucile. “Muda depisi istai, muda !” “None! Babbu, non abbarro muda ... è il mio fidanzato!” “Sta zitta se non vuoi che gli buchi la fronte!” Camillo era rimasto sorpreso dalla velocità con cui lei aveva preso l’iniziativa. Fece un passo avanti e si mise al fianco d’Elisabetta. Lei gli passò una mano sulla sua vita e lo strinse a se. Il padre d’Elisabetta rimase disorientato. Sapeva che sua figlia era una ribelle ma non si aspettava nulla di simile. Non ebbe il tempo di mettere in atto i suoi propositi bellicosi perché Veronica comparve in quel momento. Con un gesto di terrore e di disappunto corse verso i due ragazzi, strattonò Camillo afferrandolo per un braccio e lo condusse via portandoselo appresso. Il padre d’Elisabetta andò su tutte le furie quando qualcuno gli rivolse la parola. “Levatevi dai piedi tutti!” Poi rimase per un po’ in silenzio finché proruppe in una gran risata: “Avete sentito, sono fidanzati!” Lo disse a voce alta, ridendo a malincuore e a denti stretti. Era una burletta su cui tutti dovevano ridere.

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Al mattino il trenino scaricava i sacchi della posta. Li gettava dall’interno del vagone sul battuto di cemento davanti all’unica stanza che fungeva da stazione ai piedi della montagna. Un ragazzo, che svolgeva poi anche le mansioni di portalettere, andava a ritirarli e li portava fin su al paese, nell’ufficio postale. Dietro il banco a vetri con la finestrella per il pubblico, vi era l’unica impiegata delle poste, la dirigente dell’ufficio. Doveva occuparsi di tutto, anche d’operazioni di banca poiché in quel piccolo paese i soldi della comunità passavano per il suo tramite. Con tutte le incombenze da svolgere la donna era perciò sempre trafelata e di corsa. Bruna e grassa, portava due spesse lenti agli occhi. Aveva un neo sul labbro che nel parlare si muoveva andando su e giù. Sembrava voler punteggiare ogni sua parola. L’attenzione degli ascoltatori era catturata il più delle volte da quel fastidioso difetto fisico anziché da quello che diceva. Lei, nell’accorgersene, si adombrava. Per questo era sempre di malumore. Veronica andò a chiedere se era arrivata della corrispondenza per lei. Era la prima volta e la donna perse tempo a cercare il suo nome tra la posta in arrivo. La fece aspettare a lungo prima di mandarla via mugugnando in tono irritato. “Veronica Frau. Frau Veronica...non c’è niente per lei!” Intorno a mezzogiorno Veronica, tutti i giorni, si recava in quell’ufficio piccolo e dimesso e aspettava che la corrispondenza fosse smistata. Sperava in qualche lettera e, infatti, pochi giorni dopo ne ricevette una di suo marito Luigi. Vi era scritto: “... La casa senza di voi non è più la stessa. Mi mancate molto. Babbo è molto invecchiato e non gli interessa più di nulla. L’ha colpito qualche crisi e avrebbe bisogno di essere curato, ma è testardo e non vuole muoversi da casa. Non ho più notizie di Benito e l’ultima è brutta: pare che sia stato ferito gravemente alla testa e che l’abbiano mandato a Roma. Ma nessuno ne sa più niente ed ho un 32


brutto presentimento. Spero che tutto finisca in fretta e possiamo ricominciare come prima. Sembra che vogliano tradire il Duce e chiedere la fine della guerra. Bacia Camillo e digli di fare il bravo. A te cara, tutto il mio amore. A presto. P.S. Ti ho mandato un vaglia postale.” Dopo quella lettera non ne ricevette altre. Continuava a chiedere alla donna con il neo sulle labbra. Questa, impietosita dalla delusione che leggeva negli occhi di Veronica, diventò meno sgarbata. Aggiunse qualche altra parola a quelle poche con cui era solita rivolgersi al pubblico: “ nemmeno oggi”, “mi dispiace”. Infine diventò notevolmente più loquace e benevola. “Sarà per domani”, “oggi il treno non è arrivato”, “il postino non è ancora rientrato “, “c’è stato un ritardo”. All’ultimo si capiva che erano tutte scuse, dette a fin di bene per alleviare la pena che sentiva per Veronica in assenza di notizie. Qualche volta venivano dalla città parenti degli sfollati a raggiungere i propri congiunti. Si salutavano reciprocamente ma Veronica non li conosceva. E neanche loro conoscevano lei. Un giorno capitò lì una persona che aveva già visto da qualche parte. Sicuramente in città, forse un amico di suo marito, oppure qualche vicino di casa. Era un viso familiare, un po’ rugoso, con la barba ispida e le mascelle prominenti. Lui volse il viso dalla sua parte e s’inchinò leggermente facendo così cenno di riconoscerla. Veronica si avvicinò. Lui aveva dei pacchi e la moglie li apriva con cura. Vi era dentro della pasta, dello zucchero e del caffè. In una cesta vi era anche della verdura fresca. “Mi conosce?”, chiese con una punta di timidezza. “Certo signora, non si ricorda di me? Sono Girauldi. Le ho trasportato il pianoforte a casa sua. Non si ricorda?” “Oh, mi scusi, avrei dovuto. Per lei ho passato uno dei miei giorni più felici. Mi sa dire qualche cosa di mio marito? Non ricevo più sue notizie.” 33


Girauldi abbassò la testa e nascose gli occhi. La moglie era una brunetta con cui Veronica aveva scambiato diverse volte impressioni e speranze, come d’altronde aveva fatto ormai con tutte le altre. S’intromise nel discorso. Prese della verdura dalla cesta. “Tieni Veronica. Questa farà bene a Camillo. Non ne mangiamo tutti i giorni. Poi ci faremo anche un bel caffè, di quello vero!” Coloro che raggiungevano le proprie famiglie lassù in montagna, in quel baraccone isolato dal resto del mondo, portavano provviste. Raccontavano le novità intervenute nelle loro case. Parlavano dei parenti rimasti in città, dei morti e delle disgrazie capitate in quei terribili giorni. Nessuno però le parlava del suo Luigi. Lei chiedeva a tutti, ma le tennero nascosta la verità sulla morte di Luigi e del suocero il più a lungo possibile. Le persone che sapevano fecero come Girauldi, non ebbero il coraggio di rivelarglielo. Le affermarono che il marito era disperso, forse coinvolto in qualche scaramuccia con i tedeschi che se n’andavano. Poi le dissero che era stato ferito, ricoverato in ospedale; ma nessuno osava guardarla in faccia. Da qualche tempo ormai non erano arrivate più lettere a chiedere di lei e del figlio e lei non domandò più nulla. Non ci fu più bisogno di raccontare bugie, e la sorgente del dolore sembrò improvvisamente inaridirsi. Gli occhi s’incavarono dentro le loro orbite e le pupille si fissarono verso l’orizzonte dove le notti tremavano i bagliori della guerra. Guardava quei fuochi sprizzarsi spaventosi e silenziosi e in essi vedeva il volto del suo Luigi, la casa, il pianoforte, la vita passata troppo frettolosa. Era bastata una stagione per distruggerla. Una notte la gente si accorse che dalla pianura non arrivava più il chiarore terribile dei bombardamenti. Quei sinistri squarci che illividivano a tratti l’oscurità con fiammate rosso cupo o verdi o viola, non illuminavano più il buio notturno. Stettero a guardare trattenendo il fiato e aspettando, ma quella notte non 34


successe nulla. Allora attesero quella seguente, ma anche la notte successiva e l’altra ancora non successe nulla. Niente più bombardamenti, erano finiti. Qualcuno gridò che si poteva tornare, che la guerra era finita, che non c’era più pericolo. Veronica allora pianse. Pianse e con lei singhiozzavano tutti. Aveva quasi smesso di sperare e ora si riaccese in lei quella fiammella che stava per spegnersi del tutto. Intravide la possibilità di rientrare in città e riprendere possesso della sua normale vita. Col passare dei giorni la fiammella si fece fuoco ardente. Era sicura che tornare nella sua casa le avrebbe restituito la serenità che quella maledetta guerra le aveva tolto. Nella sua casa avrebbe ritrovato i segni della fortuna perduta. Avrebbe ancora potuto attingere al pozzo della felicità. Sentiva l’urgente necessità di riprendersi i ricordi e sistemarli, ordinarli, catalogarli, per poterli venerare e convivere con essi. Nessuno le aveva detto con sicurezza che era rimasta vedova, non aveva certezze. La invase una smania angosciosa di rientrare al più presto. Ogni ora, ciascun minuto che trascorreva ancora in quel posto, le sembrava di sprecare inutilmente il suo tempo. Ogni giorno arrivava sempre qualcuno che veniva a prendere qualcun altro e tante famiglie erano già andate via da quelle baracche. Ripartivano. Salutavano chi rimaneva.

Si

abbracciavano

e

c’era

tanta

commozione

negli

addii,

negli

arrivederci, nei baci e negli sguardi intensi, carichi d’emozione passata insieme, per mesi. “Addio Maria, Addio Giovanna, Addio Daniela. Addio Teresa. Addio Antonia. Addio Gloria. Addio piccini...” Partivano tutti. Rimasero solo alcune donne, qualche vecchio e pochi bambini.

Nessuno

era

ancora

venuto 35

a

prenderli.

Si

sentirono

derelitti,


abbandonati. Si guardavano in volto la sera in quella baracca diventata ormai grande e inutile e aspettavano ancora un altro giorno. “Forse domani” E domani arrivava. “Forse ancora domani” E ancora domani arrivava. “Forse, forse, forse...” Poi non aspettarono più. “Domani partiamo” Veronica lo disse a Camillo e Camillo lo disse ad Elisabetta. “Sai. Domani andiamo via. Prendiamo il treno del mattino.” Sembrava che ancora ci volesse tanto tempo invece era solamente questione d’ore. Passarono in fretta e non fecero in tempo a dirsi tutte quelle cose che il loro cuore avrebbe voluto dire. Non vi era stato il tempo. Al momento di partire, Elisabetta era alla stazione a valle del paese. Era venuta a salutare Camillo che partiva. Veronica la considerava una piccola amica del figlio, forse qualche cosa di più. Le fece una carezza. Lei volse lo sguardo a Camillo. Veronica comprese quello sguardo triste. Il dolore l’aveva fatta più sensibile. Elisabetta si rivolse a Camillo e gli diede un piccolo pacchetto: “Tieni. Mangialo durante il viaggio. È pane fresco, fatto stanotte.” Camillo le disse: “Sei la mia fidanzata.” “Allora tornerai e mi sposerai?” Non lo avevano mai fatto in pubblico e avevano rischiato di prendersi una pallottola in testa dal padre d’Elisabetta, proprio a causa di questo. Lei s’avvicinò a Camillo e lo guardò dritto negli occhi. Portò le mani all’altezza delle sue gote. Gli strinse il viso e gli diede un bacio. Non versò una lacrima quando il treno, sbuffando, arrivò alla stazione. Neppure quando Camillo e la madre salirono in treno e questo ripartì. Camillo 36


invece si accorse di avere gli occhi umidi nel vedere l’esile figura di lei scomparire dopo la curva del ponte.

37


FINE DELL’INCUBO

La guerra era finita. Un mondo intero era finito. La Germania completamente distrutta e con essa l’Italia. Distrutti convincimenti, certezze, illusioni, e ora bisognava ricominciare tutto daccapo e nel peggiore dei modi. I soldati scomparvero e la gente ritornò dai luoghi in cui si era dovuta rifugiare. Fu una lenta processione. Poveri che tornavano a piedi scalzi e non trovavano più la casa, né i parenti e le persone care. La città era anch’essa morta, e le torri simboli eretti tra i sepolcri di un cimitero. Lo sfacelo trovato da Veronica e Camillo, superò ogni loro sforzo d’immaginazione.

Il

palazzotto

dei

Frau,

gravemente

danneggiato

dai

bombardamenti, era coperto dalle macerie. Si era salvata solo un’estremità. Sotto una piccola porzione di tetto agibile, rimanevano due camere con larghe crepe alle pareti. Un bagno semidistrutto. Metà soffitto all’aria aperta. Il corridoio sventrato dalle bombe finiva pericolosamente sul vuoto. I ladri avevano portato via mobili e suppellettili. Quello che si era salvato dalla distruzione e dai furti non era pressoché nulla. Nelle stanze vuote e deserte, tra calcinacci e macerie, erano rimaste poche cose di scarso valore. Nemmeno una sedia su cui sedersi. Veronica dovette appoggiarsi ad un cumulo di detriti. Raccolse da terra una cornice senza vetro. Conteneva, sgualcita, la fotografia di suo marito che la guardava negli occhi. Scoppiò in un pianto dirotto mentre Camillo la guardava piangere, impotente.

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Rimase così a lungo, poi si alzò, cercò tra la polvere e i calcinacci e trovò una scopa ed un secchio. Rincominciò con quegli attrezzi. Nella cucina in cui era rimasto solo il lavabo incassato nel muro, mise insieme alcuni fornelli. Riuscì a scaldare del latte in un pentolino ammaccato e mangiarono il pane che Elisabetta aveva regalato a Camillo. Poi cercarono di attrezzarsi per passare la notte. Quello fu il primo impatto con la nuova realtà. Non erano i soli a provare quello sconforto. Al rientro dallo sfollamento tutti avevano trovato lo stesso sfacelo. In quei primi giorni e anni del dopoguerra quello che era capitato a Veronica e Camillo rappresentava solo un episodio in mezzo a tanti. Qualunque famiglia aveva perso la propria casa e aveva lutti da raccontare: parenti e conoscenti scomparsi, amici, semplici dirimpettai che ora non c’erano più. Per chi era rimasto diventò un imperativo categorico ricominciare. Era come nascere una seconda volta, adesso purtroppo in mezzo al trambusto, alla disperazione, alle difficoltà. Cercando di barcamenarsi tra la cattiveria, le furbizie, il mercato nero, i profittatori. Per fortuna anche tra la solidarietà dei propri simili, accomunati da un uguale destino. Questa solidarietà fece il miracolo perché con essa ricominciò la nuova vita. Si diedero la mano un con l’altro per aiutarsi, per difendersi, ciascuno diventando più disponibile verso il prossimo. Si cominciò a ripulire le case dalle macerie, a rinforzare le pareti pericolanti, a ricostruire tetti. Le case furono nuovamente abitabili. Si lavorò allora per ricoprire i buchi nelle strade e nei cortili. Infine, per rinverdire di nuovo i giardini. La solitudine era immensa. Si palpava nel buio della notte, quando la fame insaziata li destava dal dormiveglia leggero. Dove sono i miei cari, dove i parenti e gli amici di un tempo. Con chi potrò sfogarmi domani, chi mi soccorrerà, chi aiuterà mio figlio? 39


Veronica aveva pensato di mettersi in contatto con i parenti del marito. Le terre che possedevano, appartenevano alla famiglia Frau, quindi di suo marito e quindi di suo figlio. Era una buona ragione perché ora intervenissero in loro favore. Era un tentativo di ricostruire in qualche modo una vivibilità: dovevano aiutarla ad uscire dalla disperata condizione in cui si dibatteva. Non pensava per se, che lei si sentiva di aver fatto la sua parte, quanto per Camillo. Suo figlio non poteva crescere senza avere almeno le speranze e le prospettive di una vita migliore. Soprattutto doveva superare l’esigenza delle necessità quotidiane. Aveva conosciuto quelle persone in momenti della vita ormai lontani come secoli. Non si era mai posta il problema di sapere le loro precise origini. Non li aveva mai potuti sopportare a causa della loro eccessiva invadenza. Essi avevano ricambiato quel sentimento di ripulsa; Sapeva che erano contadini e che provenivano dalla campagna. Lavoravano le terre di Tatano, ma lei non era mai stata nei poderi del suocero. Non si era mai preoccupata di saperne di più, nemmeno dove si trovavano le terre. In quei tempi il suo spirito vagava lieve e felice. Tra la musica, l’amore di Luigi, la devozione per i suoceri e la felicità di avere il suo bambino. Tuttavia si diede da fare con rabbiosa determinazione per cercare di ritrovarli. Purtroppo non sapeva nulla di loro e non trovò nessuno al quale chiedere notizie. Si accorse che erano scomparsi facendo perdere letteralmente ogni traccia. Si ricordò di una zia, sorella della mamma. Unica parente che abitava anche lei in città. Altri congiunti non n’aveva. Forse lei avrebbe potuto aiutarla a rintracciarli. Decise di andare a trovarla. La casa della zia superstite era una tra quelle poche, rimasta quasi intatta. Trovò la zia nel piccolo balcone che curava i fiori. Al suo apparire alzò gli occhi 40


verso loro due ma non li riconobbe. Sorrideva guardando lontano. Poi riprese a contare le foglie di un ibisco che esplodeva di rosso. Una per una. “Mi avete fatto perdere il conto.” Disse, ricominciando a contare le foglie. Si avvicinò a Veronica un’altra donna che lei non conosceva. “È felice ora.” Le disse. “Ha visto la morte in faccia. Una bomba le è caduta a pochi passi. È salva per miracolo, ma è diventata così...”

Veronica usciva quasi tutti i giorni per fare le fila presso i vari uffici di prima assistenza. Era costretta ad aspettare paziente e rassegnata in mezzo alla folla di questuanti. Nell’attesa che dallo sportello dessero i buoni per la sussistenza,

almeno

quella

vitale.

Gli

impiegati

degli

uffici

preposti

alla

ricostruzione la costringevano a fare innumerevoli domande. A compilare moduli. A preparare un’infinità di carte, e anche ad ascoltare i suggerimenti, a volte perentori come ordini. Segretari e impiegati malevoli contribuivano a confonderle le idee anziché a chiarirgliele. Il marito era stato un ufficiale della milizia fascista e aveva combattuto a fianco dei tedeschi. Questo complicava notevolmente le cose. Non aveva nessuno su cui fare affidamento, nessuno al quale chiedere aiuto. Solo i vicini che anch’essi avevano tutti i loro problemi da risolvere. Non riusciva a adattarsi alla solitudine in cui erano piombati dal momento del loro rientro. Sentiva avvicinarsi per lei l’ora in cui la stanchezza avrebbe preso il sopravvento sulle sue forze. Si sarebbe volentieri lasciata andare, ma pensava a Camillo e si spaventava. Si sentiva gelare al pensiero di ciò che avrebbe potuto significare per lui se anche lei fosse scomparsa. Passarono in quelle condizioni giorni, mesi, anni. Non sapeva più nemmeno lei il tempo che era trascorso.

41


Le scuole avevano ripreso a funzionare a singhiozzo. Nei giorni di vacanza Veronica lasciava Camillo solo in casa, oppure in compagnia di qualche premurosa vicina. La solidarietà della gente comune che pativa le sue stesse sofferenze, era l’unica cosa che la sosteneva. Generalmente lei tornava a casa prima di Camillo e aspettava il suo rientro dalla scuola. Il più delle volte lambiccandosi il cervello per inventare cosa dargli da mangiare. Ormai, a dodici anni d’età, era diventato un piccolo uomo famelico. Un giorno era rientrata a casa dopo una giornata infruttuosa, passata cercando di ottenere una tessera supplementare per avere gli indispensabili alimenti per la sopravvivenza. Aveva un unico pensiero in testa: cosa dare da mangiare a Camillo. In casa non c’era nulla. Aveva terminato i buoni per il prelevamento gratuito del pane. Non aveva soldi per comprare al mercato nero quello che le sarebbe servito per mangiare. Si sentì mancare. Pensò che la sua ora stava per arrivare. N’era terrorizzata, anche se per lei sarebbe stata la fine della sofferenza. Si rifugiò nella camera da bagno e si guardò il viso. Le rughe solcavano il volto, sotto gli occhi, le borse livide ad accusare il tempo di essere trascorso veloce. Nei capelli qualche filo bianco, l’aspetto trasandato, illanguidito. Si portò una mano all’altezza delle tempie: “Mio Dio...” Disse. Il cuore accelerò i battiti. “Come posso fare?” “Toc, toc, toc.” Le sembrò che il cuore scoppiasse. Erano invece tocchi alla porta d’ingresso. Lì per lì si spaventò. Era ancora troppo presto per il rientro di Camillo dalla scuola, e non aspettava nessuno. Spalancò gli occhi e si precipitò fuori del bagno verso la porta d’ingresso. Non era chiusa col chiavistello. Sulla soglia

apparve

un

giovanotto

magro

dall’aspetto

Timidamente, quasi a giustificare la sua presenza disse:

42

distratto

e

stralunato.


“Scusate signora. Cerco la famiglia Frau. Mi hanno indicato questa casa. È qui?” “Si, sono Veronica Frau e voi chi siete?” “Sia ringraziato il cielo. Credevo che in questo palazzo i bombardamenti avessero distrutto tutto e non vi fosse più nessuno della famiglia Frau. Mi manda l’avvocato Frau. Benito Frau...” “Benito? Non è possibile. Benito è morto.” “No signora. L’avvocato è vivo e vegeto e si trova all’ospedale militare. È convalescente e mi ha incaricato di fare delle ricerche per suo conto.” “Mio Dio... è un miracolo. Dove ha detto che si trova adesso? Possiamo... possiamo andare subito a trovarlo?” “Si calmi signora. Non c’è bisogno di agitarsi. È qui a Cagliari e posso accompagnarvi

da

lui.”

Veronica

tremava.

Una

fetta

di

passato

tornava

inaspettatamente a portare un raggio di luce in un tunnel buio. Aspettava il ritorno di Camillo dalla scuola e intanto si preparò per uscire, ma quello che aveva sentito l’aveva quasi paralizzata. In bagno cercò un pettine. Si mise davanti allo specchio e le mani non ubbidivano ai suoi comandi. “Calmati” si disse. Dovette sedersi sul coperchio del water perché le gambe non la reggevano. “Mio figlio rientra dalla scuola da un momento all’altro. Può attendere? “Gridò senza riconoscere la sua voce. Da qualche tempo non aveva più provato la sensazione dell’attesa. Non aveva più nulla da aspettarsi. Aveva sepolto sotto un cumulo di dispiaceri gli anni della sua felicità. Si era consumata nell’unico sforzo di sopravvivere con Camillo appiattendo nella monotonia della quotidianità, ogni altro sentimento. Da sotto quel cumulo rinvennero invece imprevedibili sentimenti di gioia mista ad 43


incredulità. Ora si trovava tesa ed ansiosa ad attendere qualche cosa, e l’attesa era desiderio, quello di rivedere un volto amico, conosciuto, familiare. Non sapeva se avrebbe retto all’emozione. Ebbe ancora bisogno di sedersi. Camillo rientrò e l’afferrò per mano. “Andiamo mamma!” Disse quando l’uomo spiegò anche a lui perché li aveva cercati.

Dormiva in una stanza dell’ospedale militare dove l’avevano sistemato provvisoriamente, ancora convalescente per la ferita alla testa nella battaglia d’Anzio. Nell’attesa che si svegliasse, Veronica e Camillo si sedettero in capo al letto. Veronica si asciugò gli occhi bagnati di lacrime. Il volto di Benito assomigliava per qualche tratto saliente del profilo, a quello del fratello Luigi, ma lei non ricordava il colore degli occhi. Quelli di Luigi erano castani. Benito aprì i suoi in quel momento. Erano neri e li spalancò dalla sorpresa. “Veronica...” Mormorò sottovoce, con una voce tremula. Si abbracciarono e per diversi minuti rimasero stretti, quasi a volersi sincerare che era vero, che non tutto era andato perduto. Poi si guardarono senza parlare, riempiendosi della visione uno dell’altro. Poi Benito volse lo sguardo verso Camillo e gli tese le braccia. “Pitticcheddu ” disse stringendolo a se “Fatti vedere...come sei diventato lungo e magro.” Camillo non ricordava per niente lo zio che aveva visto soltanto in poche circostanze e quando era molto piccolo. Era più interessato ad un piatto che faceva bella mostra di se, sul tavolo che era nella stanza. Vi erano i resti del pranzo consumato da Benito: un’ala di pollo bruciacchiata, una pera e una

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pagnotta. Camillo era digiuno e aveva fame. Lo zio si accorse di quello sguardo carico di desiderio. “Vuoi qualche cosa?” gli chiese, ma Camillo scosse la testa. La mamma gli aveva insegnato l’educazione. “Siamo venuti via molto in fretta per vederti e non ha ancora mangiato” intervenne Veronica. Si accostò al piatto e prese la pagnotta. “Posso dargliela?” “Ah, Veronica. E me lo chiedi? Prendi pure Camillo. Aspettate, vi farò portare qualche cosa di pronto, se n’è ancora rimasta.” Gli occhi di Veronica luccicarono. “Ma ora raccontatemi tutto. Ora che vi ho ritrovato voglio sapere tutto di voi. Mi sembra di avere un buco in testa. Ho ancora davanti a me come una benda che m’impedisce di vedere chiaro. Ho presenti solo poche cose e non ho neanche avuto la forza per pensarci. Ditemi, raccontatemi di babbo, di Luigi, di come avete vissuto fino ad ora, di come vivete adesso, con chi state. Voglio conoscere ogni particolare.” Veronica guardò Camillo. Non sapeva da dove incominciare ed era evidente che Benito ignorava la sorte dei suoi parenti. “L’ultimo giorno mi accompagnarono al treno. Erano sorridenti e tentavano di tranquillizzarmi. Babbo scherzava con Camillo e gli diceva di non sporgersi dal finestrino perché si sarebbe imbrattato col carbone. Luigi parlava sempre di te e raccontava quello che di tanto in tanto veniva a sua conoscenza. Non erano contenti. Anche l’ultima volta...” Dopo quelle parole Veronica s’interruppe e non riuscì ad andare avanti. Entrò un infermiere e portò altre due pagnotte, del formaggio e della frutta. Veronica e Camillo si buttarono con ingordigia su quei pochi cibi sotto gli occhi quasi increduli di Benito. 45


“Vi ringrazio tanto” disse Veronica rivolta all’infermiere.” Oggi è stata veramente una bella giornata.” L’infermiere li lasciò soli ma poco dopo rientrò e prese in disparte Veronica. “Signora, il dottore mi ha pregato di dirvi di non affaticare suo cognato. È ancora molto debole ed ha bisogno d’assoluta tranquillità. Vi chiede di rimanere con lui ancora qualche minuto ma poi di lasciarlo solo. Dice di non preoccuparsi. Concorderete visite giornaliere nei momenti in cui è sveglio e riposato. L’avvocato potrà così trovare giovamento dalla vostra presenza.” Veronica si voltò allora verso Benito. “Ora dobbiamo andare. Domani, con calma, ci racconterai cosa hai fatto in questi anni, così lontano dalla famiglia. Tutti noi ti credevamo morto.” Benito aveva chiuso gli occhi e si era appisolato di colpo senza sentire le ultime parole di Veronica. L’emozione della visita lo aveva evidentemente stancato oltre misura giocandogli un brutto scherzo. La ferita gli aveva leso il tessuto cerebrale mettendone a repentaglio la funzionalità. Lo aveva inchiodato a letto per diversi anni, tenendolo in bilico tra la vita e la morte. Ora, per la sua completa guarigione, i medici pronosticavano tempi ancora lunghi. Si era procurato quella brutta ferita mentre combatteva una battaglia contro i tedeschi in ritirata verso il Nord. Allora non sospettava che quella guerra fosse molto di più che un appassionante gioco. Il destino s’incaricò di fargli cambiare opinione in modo turbolento e sanguinoso. Ciò avvenne dall’anno 1943, in cui si era lasciato trascinare a fare il partigiano. Prima di allora era stato un figlio obbediente e ossequioso. Aveva fatto tutto ciò che poteva per assecondare il padre. Erano un bel gruppo, tutti freschi di laurea. Benito, dall’aspetto tipicamente sardo, tracagnotto ma dagli occhi mobilissimi e intelligenti. Il collega di studi e 46


amico, Filippo Frigerio emiliano di nascita di carattere e di fisico, poderoso e deciso nelle sue espressioni e nelle azioni. Con loro, un altro nutrito gruppo di coetanei. Allora, nel pieno della prestanza giovanile, tutto sembrava una lieta avventura. Gli avvenimenti tragici, per quei ragazzi pieni d’energia, erano un modo per scaricare le loro esuberanze giovanili e per sfogare gli istinti guerreschi. Si sentivano forti, invincibili, pronti all’eroismo, alla lotta. In qualunque direzione o da qualsiasi parte essa provenisse, indipendentemente dalla fede politica, dalla concezione ideologica. Presa una decisione, qualunque essa fosse, andavano però avanti con fierezza e spavalderia. Riflessioni e convinzioni sarebbero maturate con gli anni; ma gli anni non erano ancora passati e quindi in loro non vi era saggezza ma spontaneità. Filippo era il suo amico prediletto, quello al quale affidava i pensieri più intimi, al quale narrava le sue aspirazioni anche segrete. Era diventato come un fratello anzi più che un fratello. “Non possiamo rimanere indifferenti a quello che sta accadendo intorno a noi. Dobbiamo fare la nostra parte. Non è giusto che altri combattano per noi, al nostro posto e che noi rimaniamo qui a guardare.” Era vero. Le battaglie si susseguivano in continuazione e il caos era diventato l’ordine. Ormai tutti si schieravano, anche chi scappava parteggiava: o per il sud o per il nord. Filippo ebbe un giorno la notizia della fucilazione di suo padre per opera dei tedeschi. La decisione con chi stare divenne scontata, e così quella di Benito. Si

arruolarono

tra

le

file

dei

partigiani

che

nelle

colline

d’Anzio

combattevano contro i tedeschi nell’attesa della liberazione. Poi risalirono le campagne verso l’Italia centrale, all’inseguimento del nemico che fuggiva. 47


Benito aveva seguito gli amici e colleghi non tanto per interna convinzione, ma quasi esclusivamente per spirito d’emulazione. Pur sapendo che così facendo avrebbe arrecato al padre un terribile dolore. Si lasciò attrarre soprattutto da Filippo. Era stato lui a convincerlo.

“Ho fatto una guerra stupida” disse a Veronica. “Una guerra in cui non sapevo per che cosa stavo combattendo. Io, abituato ai discorsi di babbo che gli andavo contro. Ma non ci pensavo, perché non c’era tempo. Eravamo sempre in movimento. Non facevi in tempo a sparare che dovevi ricaricare il fucile. Scappare, camminare la notte, correre di giorno. Tutto senza sapere. Seguendo gli ordini che arrivavano imprecisi, qualche volta da uno qualche volta da un altro. Quando mi risvegliai dopo essere stato ferito, mi accorsi che potevo di nuovo pensare. Ma i pensieri erano tutti brutti. Confusi. Ora sto cercando di rimettere ordine.”

48


Le dimissioni di Benito avvennero dopo solo qualche mese dal primo incontro in ospedale con il nipote e la cognata. I medici avevano pronosticato che la vita familiare, con qualche persona cara vicino, avrebbe di molto accelerato il processo di guarigione. Era perciò tornato a vivere nella casa paterna e Veronica si era presa cura di lui. Fu un bene per ambedue Per Benito, il tranquillo scorrere del tempo in un ambiente accogliente e sereno aveva compiuto una specie di miracolo, insperato anche per le migliori previsioni dei medici. Per Veronica, le preoccupazioni di carattere economico si attenuarono notevolmente. Con Camillo poterono contare su pasti quotidiani regolari.

Passò la fase immediatamente successiva al dopoguerra e i superstiti impegnati nella ricostruzione avevano ricominciato a vivere quasi normalmente. Sforzandosi di dimenticare in fretta avevano preso a vivere freneticamente, quasi che la rapidità dello scorrere del tempo esorcizzasse il ricordo della guerra. La gente non si fermò più, presa da un’irrazionale fretta. Anziché soffermarsi a riflettere su quale tipo di vita imbastire il proprio futuro, continuò a costruire, a far strade, ad intrecciare fili. Gli uomini delle campagne vennero ad aiutare quelli rimasti in città. Attratti da una forza irresistibile: costruire, avanzare, ricoprire gli spazi vuoti, raggiungere 49


il mare. Si assorbirono i paesi intorno e si spopolarono le campagne. Ciò che la terra dava prima con semplicità, si dovette strappare con artifici meccanici, con concimazioni sempre più raffinate. Raggiunto il mare, si saturarono tutti gli spazi liberi. Allora bisognò costruire in altezza. Si aprirono fabbriche, cantieri, officine. Questo ritmo impose abitudini affrettate. Allontanò amicizie. Il denaro diventò ancor più essenziale. Si studiarono, si divulgarono e si raffinarono le sue leggi. La città cambiò volto e si è adornò di colori e luci al neon.

Benito pensò al lavoro quando poté di nuovo considerarsi definitivamente guarito. Lentamente riprendeva contatto con l’attività lavorativa e si reinseriva nella sua città natale. Man mano si rendeva conto che essere stato, sebbene per un tempo limitato, partigiano, costituiva un privilegio. Ottenne un contributo speciale per la ricostruzione della casa. Riuscì inoltre ad esercitare la professione d’avvocato senza necessità di dare il preventivo esame di procuratore legale. Le prime

cause

che intentò,

le

destinò

a riappropriarsi

dei

terreni

abbandonati che i contadini avevano quasi confiscato. Poi si dedicò ad aiutare Veronica ad ottenere quelle sovvenzioni che aveva diritto a percepire come vedova di guerra. Per i trascorsi di suo marito lei, infatti, non era mai riuscita ad avere. In breve tempo ricompose buona parte della proprietà terriera. Affidata a mezzadri, riprese a fornire una discreta rendita, anche se non proprio come ai tempi del vecchio Tatano. Tra questi introiti e quelli derivanti dalla professione, raggiunse un equilibrio economico più che accettabile. Camillo, con il passare del tempo, era diventato un concentrato della famiglia Frau. Aveva preso da nonno Tatano l’aspetto burbero e la spontaneità di 50


carattere. Dalla madre Veronica il carattere mite e romantico e dallo zio quello volitivo e intraprendente. Il fisico era invece tutto di suo padre: longilineo, alto, snello, un viso pulito. Nel febbraio del 1959, si laureò in medicina. Aveva frequentato con assiduità l’università e superato regolarmente tutti gli esami, senza perdere nemmeno una sessione. Veronica era fiera di lui. Molto bravo e studioso, iniziò la carriera

come

ricercatore

all’ospedale

civile,

assistente

del

primario

di

cardiochirurgia. Alternava le ore di lavoro allo studio e aveva iniziato un corso di specializzazione che gli procurava molte soddisfazioni. Alcuni suoi lavori erano già apparsi in riviste specialistiche. “Tu rassomigli a tuo padre Luigi come una goccia d’acqua.” Gli diceva lo zio Benito. Contemplava, nello stesso tempo, quell’unica fotografia rimasta del fratello. Veronica la conservava quasi come una sacra reliquia. Zio e nipote, insieme, si erano permessi di ricostruire, anche se non completamente,

il

vecchio

palazzotto

avito

ricavandone

due

appartamenti

confortevoli. Dopo tanti anni disgraziati arrivava per tutti loro un periodo di serenità. Almeno così sembrava. Benito si dimenticò della ferita alla testa, delle peregrinazioni negli ospedali e del suo amico Filippo. Di questi aveva perso le tracce. A suo tempo, si era ripromesso, non appena fosse stato più tranquillo, di fare delle ricerche per ritrovarlo. Poi però le cose più immediatamente impegnative lo distolsero dal farlo. Non ce ne sarebbe stato alcun bisogno. Di lì a poco, se lo sarebbe ritrovato nel palazzo di giustizia di Cagliari, con l’alto grado di Procuratore capo della Repubblica Veronica sembrò a quel punto aver esaurito i suoi compiti. Paga della soddisfacente posizione raggiunta dal figlio non aveva più scopi né obiettivi da 51


raggiungere. Girava per la casa con gli occhi divenuti sbiaditi. Incurante della sua persona. Si lasciò andare sempre di più abbandonandosi spesso alla tristezza, nonostante ora le cose procedessero bene. L’energia profusa negli anni passati nell’intento di salvare dallo sfacelo i resti della sua famiglia, l’aveva esaurita.

Non

le

restavano

più

forze

per

continuare.

L’abbandonarono

completamente come se in un sacco pieno di ceppi di legno si ritrovassero soltanto pagliuzze inconsistenti. Il sacco si vuotò delle spigolosità e si afflosciò senz’altro nerbo. Un giorno si mise a letto e non ebbe più la forza di alzarsi. Fino all’ultimo istante di vita, volle avere accanto a se quella fotografia in cui era ritratto suo marito che la guardava negli occhi. Il giorno del funerale della madre, Camillo tornava dalla tomba ove l’avevano seppellita. Aveva lasciato lo zio, alcuni colleghi, altri amici, il prete. Si era avviato, solo, verso l’uscita del cimitero con il cuore gonfio di tristezza. Non riusciva a staccare il pensiero dalla visione della mamma che si prodigava per lui. Aveva fatto tutti i sacrifici possibili e immaginabili per permettergli di arrivare fin dove era giunto. Gli passarono davanti agli occhi giornate di sofferenza, di fame, di fatica. Le aveva dovute sopportare. Si chiedeva com’era riuscita a non soccombere prima. Pensava a come la vita si divertiva a disegnare tracciati beffardi. Proprio nel momento in cui sembrava che potesse trovare un po’ di serenità, la madre aveva cessato la sua presenza mortale. Lui ora era rimasto solo. Una chitarra suonava una nenia funebre mesta e malinconica. Le note si staccavano come foglie da un albero per ricadere lentamente nell’aria scialba di quel pomeriggio senza sorrisi. Ton…ton…ton… Una ragazza suonava la chitarra. Alcune amiche, in coro, rilevavano quelle note mentre un prete benediceva la tomba di qualcuno. Ton…ton…ton... Attorno ad una corta croce che insieme a tante

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altre sembrava una piccola candela in un prato. Centinaia di tombe di militari morti durante la guerra. Al centro ardeva una fiaccola.

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CHIUSO PER ARRIVO LUCE

Povera figlia mia. Mi si stringe il cuore a leggere la sua lettera. Senti cosa dice:

15 Gennaio 2004

Carissima mamma, ieri sera il negozio era pieno di gente e sono riuscita a vendere diversa merce. Sai quelle scarpette rosa che tu dicevi sarebbero state un bel pezzo in magazzino? Invece ne ho venduto ben tre paia. Ho venduto anche grembiulini e golfini, ma soprattutto mutandine per neonati. In pochi giorni ho addirittura finito le scorte. Ad ogni modo ti farò conoscere i dettagli quando verrò da te per passare insieme la prima domenica di Febbraio. Potrai così consigliarmi cosa prendere per quest’altra stagione. Ormai l’inverno è quasi alle spalle e bisogna rifornirsi di roba leggera. Spero che papà si sia rimesso dall’ultimo attacco di asma. Ripetigli che farebbe bene a non prendere troppo umido. In quel paesino dove lui va a lavorare sembra una cella mortuaria. Dovrebbe anzi smettere e instradare al posto suo Marco che ora è grande e capace. Anziché andare in giro con gli amici a bighellonare, farebbe anche lui il suo dovere e papà potrebbe riposarsi e magari camminare un po’ in campagna. Anche tu mamma allora potresti vederlo con altri occhi e non brontolare sempre per le sue mancanze. A proposito di occhi non dovresti stancarti. L’ultima volta erano molto affaticati, dovresti stare più attenta. Lo so, sono diventata pignola e brontolona ma, cosa vuoi, la mia vita è tutta qui. Voi, il negozio e la camera che divido con la mia amica che lavora di fronte al bar. Vi ho già parlato di lei e non vi dico il bene che mi vuole questa ragazza. È sempre 54


allegra e ride come una bambina, invece ha già ventitre anni, due soltanto meno di me. Mi confida tutto e ogni tanto mi manda in negozio una bibita o un panino o un caffè. Sono contenta di aver trovato almeno lei con cui stare assieme perché altrimenti, in questa città, mi sentirei troppo sola. Il vero motivo per cui ti scrivo, però, è che sento il bisogno di raccontare quello che mi è successo ieri. Come sono strani i casi della vita! Ho rivisto Guido. Non mi aspettavo di vedermelo così all’improvviso nel negozio. Credevo che fosse sparito per sempre e infatti l’ultima che fummo insieme mi dichiarò che aveva intenzione di trasferirsi da questa città. Ti ricordi che te ne avevo parlato? Allora sembrava quasi disposto a riprendere con me, mi era parso quasi di intuire nelle sue parole la voglia di ribadirmi che mi voleva ancora bene. Mi ero sentita più che felice, lusingata. Mi pareva di essere nuovamente carina come quando ho compiuto il diciottesimo anno, quando ci fidanzammo e ci scambiammo gli anelli davanti a voi, ti ricordi? Allora ero ancora una bella brunetta, vero mamma? Qualche volta riguardo tutte le fotografie dell’epoca e poi mi guardo allo specchio cercando di nascondere quella patina di vecchiaia che mi si è appiccicata sopra come una colla. Guido è entrato per sbaglio nel mio negozio e, impacciato, mi ha spiegato che voleva comprare uno di quei girocolli, fatti con lana merino che, tra l’altro, vanno piuttosto di moda. Ho pensato subito che doveva essere per qualche ragazza ma chissà perché la ho immaginata come una poco di buono. Mi fa l’effetto di considerarlo come se fosse sposato e quindi… Però, è inutile nasconderlo, ho provato una punta di gelosia. Come se dovesse scusarsi di qualche cosa, mi ha invitato a prendere un aperitivo Volevo rifiutare. Non mi pareva che stesse bene. Accettai non so bene neppure io perché. Per curiosità, forse, più che per altro. Seduti uno di fronte all’altro mi disse tante cose carine, niente di particolare, ma che ero ancora bella e giovanile, e chissà quanti mi facevano la corte. Anche se 55


sapevo che mentiva mi piaceva sentirmelo dire da lui. Ti faccio una confidenza che non ho rivelato nemmeno alla mia amica. Mentre parlavamo del più e del meno mi sono accorta di pensare che sarebbe stato bello avere un figlio da lui. Me lo sono persino visto tra le braccia, con il sorriso preciso al suo e con la pelle morbida dei bimbi appena nati. Pensavo quale tipo di vestitino gli sarebbe potuto andare bene, e ti assicuro che ho guardato con gli occhi dell’anima ogni angolo del negozio per cercare quelli migliori e più adatti a lui. Quanti giocattoli gli avrei comprato…E ad un tratto mi sono resa conto che Guido mi diceva qualche cosa che io non riuscivo a capire perché sentivo solo con le orecchie ma non con il cuore. Capii solo che avrebbe fatto un regalo alla sua donna. Quel maglioncino di lana merino. Mi ripresi del tutto e anzi fui un pochino seccata perché non era il caso che dicesse quelle cose proprio a me. Non le volevo sentire e infatti mi alzai piuttosto risentita. Quando ci siamo salutati è stato molto brutto. Mi ricordavo il bacio che ci scambiavamo al momento di ogni separazione, anche se questa doveva durare per poco. Mi accorsi di desiderarlo. Più di ogni altra cosa al mondo. E mentre andava via avevo gli occhi inumiditi e la gola secca. Non voglio però che pensiate che sono triste. È solo che, rivedendolo e riparlandogli, mi è sembrato che fossimo ancora insieme e che la nostra vita, la mia e la sua, sarebbero unite per sempre. Ma ora il rimpianto è passato. Ciao a tutti voi.

Le ho scritto anche io una lettera cercando di aiutarla. Non pensavo veramente di riuscirvi. Le parole sono state queste:

18 Gennaio 2004

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Cara Susanna. Abbiamo ricevuto la tua lettera e ti aspettiamo sabato per precisare le cose che hai comunicato e per preparare la lista di quello che compreremo per la prossima stagione. Per me non devi preoccuparti e neppure per tuo padre. Anche Marco sta mettendo la testa a posto e ora pare che voglia mettersi sul serio a lavorare e aiutare vostro padre che, dopo tanti anni di fatica, merita un aiuto. Piuttosto sono triste perché mi sono accorta dalle tue parole che sei ancora innamorata di Guido e che vivi nel rimpianto di ciò che sarebbe potuto essere e non è stato. Ricorda, però, sei ancora una ragazza e hai tutta la vita di fronte! Lo so, sono parole che una madre dice alla figlia per cercare di consolarla, ma è la verità. La vita non è una matrigna e, quando meno te l’aspetti, riserva sorprese che ti rendono felice. Hai ancora tanto tempo davanti a te e ti assicuro che arriverà il momento in cui una luce illuminerà le giornate che ora ti appaiono grigie. Sarà un faro che rischiarerà il tuo cammino e lo renderà sfavillante e quando arriverà ti dimenticherai subito delle lacrime che fino a quel momento avrai versato. Per tutti è così, perciò devi essere serena e forte, nell’attesa di quel momento. Un bacio.

Dubitavo di essere stata convincente e, qualche settimana dopo, ho avuto una sorpresa.

14 Febbraio 2004

Cara mamma. Non posso venire da voi, come avevamo deciso. Solo due parole per comunicarti che il girocollo di lana merino di cui ti ho parlato nell’ultima lettera era per me. Guido me l’ha regalato per San Valentino. Mi ha chiesto di partire con lui domani. Ho chiuso le serrande del negozio e vi ho affisso

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sopra un cartello con la scritta: “Chiuso per arrivo luce”. Partiremo domani. Non so quando torneremo ma ti scriverò ancora. Susanna.

Ora lei è felice. Lo siamo anche noi per lei. Però qualche cosa è cambiata. Il filo che ci univa si è spezzato e lei non sarà mai più la bambina da consolare e proteggere. Mi auguro tanto che a illuminarla non sia soltanto un brevissimo lampo. Ma perché ora non vedo più? Che sciocca…piangere di felicità…

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L’EMIGRANTE

Il cuore gonfio come un battello pneumatico. Gli occhi neri e lucidi che sembravano punte di tomaia lustrate con il lucido da scarpe Brill. Gli avevano messo nelle ruvide mani un biglietto aereo per andare all’altra parte del mondo. Un lavoro sicuro. Pagato bene. Con tanto d’assicurazioni sociali e diritto alla pensione, alla malattia, alla vecchiaia. Lui invece, in casa sua cosa faceva? Raccoglitore stagionale d’olive o di pomodori o d’uva o di mandorle. Poca cosa, anche se i soldi per mangiare tutti i giorni,

quelli

non

gli

mancavano.

Anche

se,

all’angolo

del

viottolo

che

regolarmente percorreva per andare in campagna, c’era quel bel pezzo di figliola che solo lo sguardo lo mandava in quinta rapida come un turbo diesel a 2000 giri. Non che con lei ci fosse nulla, magari! Però, chissà... se solo avesse avuto qui quello che gli promettevano così lontano... magari lei ci sarebbe stata. Forse parlandone … Ma ora non era il caso. Si sentiva maggiormente padrone del mondo. Potevano raccontargli di tutto e lui avrebbe detto che capiva. Certo, non avrebbe più potuto tifare per la squadra di calcio del paese, la Fulgor, di cui aveva indossato fino a ieri la maglietta color giallo numero dieci, e nemmeno correre con la Vespa del suo miglior amico, di sera, con i compagni, alla balera dove si esibivano i numeri uno del liscio. E nemmeno parlare il suo dialetto che tanto non lo avrebbero compreso. Questo lo infastidiva: come avrebbe fatto a bestemmiare e imprecare quando qualche cosa gli andava storta? Pazienza, non importava, avrebbe sopportato. Se anche gli avessero raccontato che improvvisamente sarebbe diventato più maturo come se cento anni gli si fossero appesi sul groppone 59


rendendogli pesante persino il camminare; che sarebbe intervenuta qualche delusione a fargli rimpiangere la sua decisione; che le difficoltà che avrebbe incontrato gli avrebbero reso faticoso il trascorrere dei giorni, sempre più lunghi; che l’amarezza per il vivere quotidiano, tanto diverso dalle sue abitudini, gli avrebbe schiantato l’animo. Anche se gli avessero spiegato che talvolta avrebbe dovuto ingoiare rospi e subire umiliazioni di cui oggi non ne avvertiva nemmeno la possibile esistenza. Ebbene, avrebbe lo stesso detto di capire. Anche se gli avessero previsto che talvolta avrebbe inseguito con la fantasia i sentieri consueti del suo paese e la sua bella mora dietro l’angolo della casa; che qualche lacrima sarebbe sgorgata spontanea nel leggere sui giornali soltanto il nome del suo paese natale. Anche se, rifugiandosi nella camera del suo alloggio, con tutti i confort moderni, avrebbe invece desiderato la vecchia cucina della casa e sentire il borbottare profumato del caffè ribollire dentro la consunta Moka. Anche se, avviandosi lungo la strada con la sua auto pulita e linda, avrebbe desiderato la sua ruvida bicicletta, senza parafanghi e con la vernice scrostata, con cui tornare alla spiaggia dai profumi intensi d’eterno presente. Anche se gli avessero assicurato che i soldi che ora guadagnava non gli davano per nulla quella felicità sperata, ma anzi, talvolta, lo avrebbero esasperato essendo, proprio loro, causa di malessere. Anche se lo avessero avvertito che non avrebbe avuto amici ma solo conoscenti, compagni d’affari, soci d’impresa, e che non avrebbe potuto fare più a pugni con l’amico del cuore per uno sgarbo che l’aveva ferito, semplicemente perché quei conoscenti, quei soci, quelle persone, non lo avrebbero colpito non avendone la forza d’urto. Anche se avrebbe desiderato tornare indietro, ma indietro non si poteva tornare perché non sarebbe stata più la stessa cosa e, tornando, non avrebbe più trovato le persone di un tempo, non le cose di allora, non le sensazioni di una volta. 60


Anche se gli avessero detto tutto questo, lui non avrebbe dato ascolto. PoichĂŠ gli bastava toccare la sua tasca che conteneva il portafogli che conteneva la busta che conteneva il biglietto aereo che conteneva la sua utopia.

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FESTA DELLA TOSATURA

I pascoli selvatici della montagna erano un ricordo. Le pecore avevano irrobustito i muscoli nel lento e continuo vagare alla ricerca della pastura adatta, ora, però, dovevano accontentarsi dell’erbetta che spuntava nei prati della pianura, attorno ai mandorli che già esplodevano di bianco, tra gli asfodeli, i cespugli d’erica e le siepi di fichidindia. Il caldo incominciava a farsi sentire e opprimeva i loro corpi, costringendole alla ricerca cumulativa dell’ombra, ma, tra poco, avrebbero ottenuto qualche appagamento alla loro sete di fresco. Già da qualche settimana fervevano i preparativi. Nell’aria si sentiva l’eccitazione del periodo. Gli uomini si preparavano a rasare, con le giuste forbici, il vello delle bestie e a selezionarlo per l’utilizzo. Le donne, nelle loro case, erano affaccendate nei preparativi della festa. Dalle grandi corbule la farina era passata al setaccio e poi impastata con l’acqua e messa a lievitare per farne il pane. Non solo. La pasta era stesa in grandi sfoglie e, a parte, erano preparati gli impasti che avrebbero riempito l’involucro; amalgama di mandorle e zucchero, mosto d’uva misto a nocciole e miele con sanguinacci. I forni a legna cocevano ininterrottamente quelle allettanti ghiottonerie che sarebbero state gustate di lì a qualche giorno.

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Paulliccu era stato l’ultimo a rientrare a valle. Dopo aver rinchiuso le pecore nel recinto aveva abbracciato Conchittu, l’asino con il quale divideva il suo tancato. A lui avevano accudito, durante l’assenza, i figli del bovaro suo cognato. Lui era considerato ricco: aveva una mandria di buoi e stava sempre in pianura. Oltre la mandria possedeva un cavallo e poteva permettersi di controllare le bestie dall’alto, a cavalcioni della sella. Dormiva tutti i giorni sotto un tetto, dove trovava la moglie Bianca, sorella di Paulliccu, che lo accudiva come lui attendeva alle pecore. Un po’ lo invidiava, ma qualche volta, quando nei monti la solitudine perfetta e i silenzi erano tanto rarefatti da non distinguersi dal rumore della morte, egli, scrutando il cielo alla ricerca delle stelle preferite, sentiva un certo languore che lo avvolgeva e lo inteneriva strappandogli lacrime di commozione. I campanacci delle pecore sembravano una musica in lontananza, come se trombe e arpe d’angeli suonassero un concerto. In quei momenti si annientava nella natura che lo circondava; gli sembrava di farne parte come se, insieme, fossero un tutt’uno. Il suo sangue scorreva nelle vene, con la stessa intensità dei ruscelli che sgorgavano dalle pareti della roccia. Era felice. Quelle sensazioni, si diceva, solo lui poteva provarle. Non certo suo cognato. Anche per questo si era attardato più degli altri a rientrare giù nella piana. Conchittu gli diede un morso di benvenuto e, subito dopo, apparvero la sorella Bianca e

suo cognato il bovaro. Si abbracciarono con entusiasmo e Bianca lo invitò a

seguirla per andare a casa loro. Lo svestirono e gli prepararono l’acqua calda. La sera prima Bianca era andata più volte a riempire le brocche al fiume in previsione di quel bisogno. Gli prepararono abiti freschi, e lo rifocillarono raccontandogli, nel frattempo, tutte le novità del paese. L’indomani avrebbe rivisto anche tutti gli altri pastori che, intanto, si apprestavano alla tosatura; qualcuno anzi aveva già incominciato. Lui lo avrebbe fatto all’indomani e, quindi, il giorno precedente la festa. “ Ditemi di Sa Pisita.” Era il nome confidenziale che egli dava alla sua promessa.

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“ Un fiore candido.”. Rispose Bianca. Non ha fatto altro che aspettare il tuo ritorno. Alla festa ci sarà anche lei. Non vede l’ora di ritrovarti. Ma, mi raccomando…non esagerare che verrà con suo fratello!”. Paulliccu si mise a ridere pregustando l’incontro con la sua amata.

La tosatura delle pecore fu una gran fatica, ma alla fine fu perfetta. Dopo il riposo, gli uomini andarono a raccogliere legna e prepararono i fuochi all’aperto. Le donne avevano sistemato nello spiazzo panche e scanni. Una botte di vino, portata con il carro a buoi, fu collocata sotto l’albero di fichi. Alcuni, intanto, preparavano gli spiedi e gli stecchi appuntiti da infilare nel petto degli agnelli e dei porchetti da arrostire alla brace. Una volta infilzati li avrebbero sistemati ritti, non troppo vicino ma neanche molto lontano dal fuoco, in modo che potessero riscaldarsi lentamente. I bambini si divertivano intorno alle fiamme, mentre gli uomini incominciavano a bere, scherzando tra loro. Quelli che erano rimasti in paese, prendevano in giro chi che era rientrato dalla transumanza, facendo insinuazioni sulla virtù delle donne che avevano lasciato a casa e sulla loro fedeltà coniugale. Fingevano di arrabbiarsi tra loro e si accaloravano nel confrontarsi e nello sfidarsi reciprocamente come se lo scherzo ridanciano fosse verità. Le donne, sentendo quelle storie inventate gridavano allo scandalo e imploravano la misericordia divina, nascondendo il volto negli scialli leggeri. Al riparo d’essi ridevano, però, di gusto, mentre con occhi maliziosi osservavano il comportamento dei loro uomini. Erano tutti affaccendati. C’era chi tagliava il formaggio, chi lavava le verdure. Qualcuno puliva con la saggina lo spiazzo in cui si sarebbero adunati a mangiare. Qualche altro riempiva d’acqua le brocche o spillava il vino dalla botte.

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Fino a quando i porchetti e gli agnelli furono cotti. Allora sì che iniziò veramente la festa. Quel giorno, Paullicu fece l’amore con la sua tonda pisita. Mangiò come un porco e s’ingozzò di culurgionis. I pastori, insieme alle loro donne, ballarono il ballo tondo al suono di fisarmonica, launeddas e battimani. Poi fu la volta dei cori e poi ancora quella delle canzoni e il classico bo bo re. Conch’ è conillu ad un certo punto crollò a terra tra risate e schiamazzi e per poco non andò a finire sul grande fuoco acceso dalla sera prima. Il vino rosso della tanca di tziu Ziulianu era scorso a fiumi e i volti di tutti erano diventati paonazzi. “Al fiume al fiume”, gridarono le donne. “Bevete l’acqua che vino già n’avete bevuto anche troppo!”. Ma pè de molenti aveva continuato a bere a garganella con gli occhi che sembravano uscirgli dalle orbite; soprattutto quando gli fecero lo scherzo. Gli avevano messo nell’ultimo piatto di culurgionis, al posto del ripieno di ricotta e spinaci, lana e farina. Li aveva messi in bocca tutti interi, due per volta fino a quando si era accorto dell’impasto. Divenne paonazzo; dovette incollarsi alla bottiglia del vino, come se il liquido potesse sciogliere il blocco che ostruiva il gargarozzo. Vomitò alcune sorsate di liquido e il viso da rosso divenne pallido. Rincarò la dose del vino convinto che il malloppo sarebbe sceso giù più velocemente, ma sentì enfiarsi le budella come membrane di un otre. Gli venne un mal di pancia che lo costrinse a scappare sulla riva del fiume, per cercare di espellere quel peso che non sopportava. “ Bevi l’olio!” Gli gridavano gli amici sghignazzando e torcendosi dalle risate. Lui era quasi certo che a giocargli quello scherzo fosse stato Anzelinu pisci malu . Avrebbe indagato e l’anno prossimo l’avrebbe ripagato con eguale moneta, ma per intanto gli avevano rovinato la festa. Era quasi l’alba, quando tutto finì. Paulliccu si sentì stanco. Aveva bevuto molto e la testa gli girava incessantemente, vuota ma pesante. Erano andati via 65


quasi tutti, chi ciondoloni e canticchiando, chi, con le gambe traballanti, facendosi sorreggere. La Pisita, anche lei, si era incamminata insieme a suo fratello, dopo averlo salutato con uno sguardo complice. Qualcuno si era messo a dormire, sdraiato per terra accanto al fuoco ormai incenerito. Prese il solito sentiero per andare verso il mare. Attraversò il salto delle vacche, dove si radunavano solitamente le vacche di compare Antiocu, poi voltò sulla sinistra, verso la capanna che lo attendeva immersa nell’oscurità. Luceva in cielo una piccola fetta di luna, e Sirio, splendente e nitida che sembrava Natale. Si sentiva in lontananza il fruscio leggero dell’onda che sbatteva sulla sabbia fine. Era stata una bella festa e per un anno intero l’avrebbe ricordata. Lo colse, però, uno struggimento improvviso, tutto quel chiasso l’aveva frastornato e lui, abituato a parlare solo con le pecore, con le stelle e con se stesso, aveva la mente che non riusciva più a connettere i pensieri. Rimpianse la solitudine dei monti. Si avvicinò al suo asino che, in piedi, sembrava guardarlo meravigliato, venire avanti ondeggiando. “ Dimmi burricchu meu, spiegami perché ero più felice ieri. La festa è stata bella e io mi sono soddisfatto. E allora che cosa c’è?” Ma l’asino non replicò nemmeno con un raglio. Non poteva rispondere che l’attesa di qualcosa che molto si desidera è, sovente, assai più allettante del suo appagamento.

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MADRIGALE PER BIANCA

Nei terribili bombardamenti del 1943, che rasero al suolo Cagliari, fu colpita anche una palazzina di tre piani a Stampace, in una delle vie adiacenti alla basilica di S. Anna. Tatano Frau, il vecchio proprietario, non volle saperne di sfollare dalla sua città natale e morì in quell’occasione, colpito da un ictus cerebrale. Tra i detriti della casa abbattuta, fu trovata una cartelletta con dentro alcuni fogli tra i quali questo “Madrigale per Bianca” d’autore sconosciuto. Da certe indagini sulla vita della famiglia Frau, sembrò, però quasi certo trattarsi di Veronica, nuora del vecchio Tatano in quanto sposata a suo figlio Luigi, deceduto anche lui durante un’incursione bellica sulla città. Con Luigi ebbero un figlio, Cammillo, che, laureatosi in seguito in medicina, visse una storia talmente interessante da essere oggetto di narrazione in una prossima pubblicazione. La vita di Veronica fu felice fino al momento in cui fu costretta a sfollare dalla città per cercare rifugio in uno dei paesi dell’interno. Dotata d’animo molto sensibile, (tra l’altro aveva studiato musica durante i suoi anni d’adolescenza e suonava molto bene il pianoforte), durante il periodo dello sfollamento da Cagliari, non potendosi dedicare alla musica come avrebbe voluto, pare si sia rivolta alla scrittura di poesie, tentando di musicarle sulla carta. Tra le cose rinvenute nella cartella esistono, infatti, spartiti musicali tra cui anche un abbozzo di musica per questo madrigale. In questo caso si tratta della storia triste di una compagna di classe, Bianca, malata di cancro e morta all’età di 22 anni. Il suo fidanzato la vide in sostanza 67


morire tra le proprie braccia, e l'amaro fatto provocò i delicati sentimenti di Veronica, inducendola ad immedesimarsi nel giovane amoroso, commuovendosi alla vicenda poetica e tentando di trasformarla in musica.

Sette sono i sigilli del Re Sette le parole che dedico a te.

Dono è la prima. Offro ai tuoi piedi l’amore come un antico vassallo porgeva al suo signore feudale la spada e l’obbedienza. Potrai accoglierlo o rifiutarlo. La mia soddisfazione è nel concederlo senza riserve. Accetterò qualunque tua decisione senza limitazioni e niente pretenderò.

Oro e argento ti voglio donare Sul mio cavallo ti voglio portare

Regina del mio cuore. Sarò, però, felice o disperato a seconda che tu deciderai di ricambiarmi l’affetto che io nutro per te o se invece lascerai che il mio sogno s’impatti sull’assito che spranga la via della felicità.

Amore caro, amore bello, amore casto, amore pio, amore intenso, amore folle, amore impuro, amore mio.

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Mille speranze, mille illusioni, mille sospiri, mille emozioni. Si è compiuto il miracolo e io ti regalo l’anello adorno di preziosi rubini e splendenti gemme, per implorarti d’affrontare insieme la grande strada della vita.

Bianca tra bianche, rugiada d’amore, stilla di sangue, ferito hai il mio cuore.

Fate del cielo, mostri del buio, gnomi dei boschi, padroni dei monti e dei mari, il suo viso è diventato cenere! V’imploro di darmi il tempo del desiderio, della passione, della letizia, per colmare ciò che il suo male, il trascorrere rapido dei giorni, delle ore, dei minuti, implacabilmente porterà via. Lasciate che il poco futuro che ci resta inventi ogni giorno nuove occasioni per renderla felice. Voglio che rida, e voglio tergerle gli occhi dall’iride inumidite per pianti di gioia, con fazzoletti di fine broccato.

Suona chitarra, batti tamburo. Lei non è più. Percorso ha il sentiero

Solitudine. È arrivato il momento e tutti i miei pensieri, i miei gesti, le azioni che quotidianamente compio fluiscono come un torrente in piena verso una unica direzione: il ricordo. Cadono, graffiano, rigano il viso. Sono lacrime vere, senza un sorriso.

Lacrime di fuoco infiammano le gote riarse. Piangere sarà l’unico sollievo alla sofferenza e quelle siano perciò benedette. E piangerò ancora e affronterò il dolore

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infinito e la tristezza senza nemmeno potermi appoggiare alle tue esili spalle come tu, invece, facevi con me.

Sette sono i sigilli del Re. Sette le note che canto per te .

Sinfonia della vita. La sua musica ci accompagna con le note musicali. Ora con toni lievi e teneri e ora bassi e pesanti. Come una barca naviga sulle onde della melodia e dentro ci siamo noi a remare, respirare, amare e sognare, per un poco.

Do, re, mi, fa, sol, la, si‌.E poi si ricomincia.

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SERIAL KILLER

Ottavio amava Rosa e lei ne gioiva. Specialmente alla sera, nel silenzio del cielo stellato che pareva una coltre tempestata di diamanti. Dal mare provenivano attutiti delle onde odori penetranti di mondi diversi e irraggiungibili, in cui tutto era

bello,

tutta

felicità.

Allora

s’inteneriva

e,

illanguidendosi,

godeva

la

meravigliosa natura che la circondava. Sbocciava alla vita e nelle calde e tepide notti di primavera aspettava il suo Ottavio. Lo sentiva arrivare con il tonfo rozzo degli scarponi da contadino. “ Sei la più bella, ” le diceva con trasporto. “ Ti amo come mai ho amato alcun’altra.” Rosa s’inteneriva. Le mani ruvide d’Ottavio appena sfioravano la sua pelle vellutata, e lei tremava nell’abbandonarsi al piacere fisico del contatto morbido. Trascorrevano così le lunghe notti di Maggio. Intense di felicità. Sulla collina che degradava verso il mare quel giorno pioveva. Rosa, al riparo di un cespuglio, sentiva le gocce penetrarle il corpo. Due sconosciuti, dall’altra parte del macchione selvatico, parlavano di lei. “ Credo che Ottavio abbia deciso per domattina!” Ebbe la percezione di crollare, mentre un freddo vento di maestrale spazzava le nubi ed il mare si gonfiava di furore. Il senso irreale s’impadronì di lei. “ Perché?” si chiese con angoscia. Ma già sapeva la risposta. 71


La

sapeva

fin

dal

principio,

anche

se,

volutamente,

aveva

finto

di

dimenticarsela. Pensava che quel momento non sarebbe mai arrivato ed invece era giunto puntuale. Ottavio l’amava e non le faceva mancare nulla. Ma il suo amore era speciale. La sera diventava un altro. Semplice e generoso di giorno, perfido ed egoista la notte. Non gli bastava il piacere semplice, voleva di più. Mischiava amore e violenza. La crudeltà si manifestava in modi diversi eppure identici nella loro perversione. Tagli, iniezioni di sostanze strane e tali da mutare il carattere e persino il colore della pelle. Lei, incapace di reagire, alla violenza brutale opponeva l’assuefazione al dolore e alle torture. Schiava di un’infatuazione, quasi idolatria. Sapeva che questa forma di perversione amorosa avrebbe portato Ottavio al delitto. Lo aveva già fatto. Lo aveva visto e n’era rimasta raccapricciata. Era una sua amica e compagna. Non avrebbe mai dimenticato il giorno in cui Ottavio l'uccise con sadica voluttà recidendole le vie respiratorie con una lama rilucente. Avrebbe

dovuto

abbandonarlo,

ma

non

sarebbe

mai

potuta

andare

da

nessun’altra parte senza di lui. Non avrebbe potuto vivere un solo giorno senza le sue premure, le sue cure, il suo amore. Incapace di ribellarsi andava incontro al destino con la consapevolezza che la fine si avvicinava ogni giorno di più. E puntuale, il giorno era arrivato. Avvertì l’incedere del passo d’Ottavio e le scarpe poggiare sui gradini che separavano la sua dimora dal resto della casa. “ Tesoro! Oggi è il nostro giorno.” Lei cercò di captare nelle parole d’Ottavio le sue vere intenzioni. Lo sbirciò tentando di scoprire l’arma nascosta. Ottavio fischiettava allegro e sembrava non avere nessun’intenzione di effettuare un atto grave. Ma gli occhi brillavano, e il terrore s’impossessò di lei. Tremava dalla paura, quando sentì le mani avvicinarsi e fare da corolla al suo capo.

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“ Dio come ti amo. Vorrei abbracciarti e stringerti al petto” E Rosa inorridì, vacillando sgomenta. Gli occhi spiritati d’Ottavio si erano trasformati in quelli di un gatto pronto a ghermire la preda. Lei ebbe un ripensamento tardivo: era stata una sciocca a lasciarsi andare al sentimento! Ora era troppo tardi. Ottavio stava per impartire il colpo decisivo e lei non poteva muoversi, irrigidita nel suo terrore. Lui la guardò ancora con tenerezza, prese la mira come se dovesse arrivare dritto al cuore, poi abbassò la lama e Rosa capì che moriva in quel momento. Il giorno dopo boccheggiava nel vaso colmo d’acqua. Ormai era morta. Una targa al suo fianco portava una dedica: Mostra dei fiori recisi. Primo premio al florovivaista Ottavio per la sua Rosa passione.

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MAESTRALE SUL MARE

Stava rannicchiato sulla battigia a scrutare nella notte buia e nera il mare muggire e infuriarsi e cospargersi di farfalle bianche che il maestrale sembrava far impazzire. Certo non avrebbe mai potuto immaginare che il proposito di festa si sarebbe trasformato in una nottata d’angoscia e paura. Però se lo era sentito dentro, quando Erminio gli aveva prospettato la battuta di pesca. Appena via dalla fabbrica puzzolente di polvere gli aveva chiesto se gli andava di uscire in mare, come d’altronde facevano sempre, ogni volta che ne avevano il tempo libero. A saperlo prima! “ Mi sembra che il vento soffi forte” aveva risposto perplesso. Nello stesso tempo aveva, però il desiderio penetrante di respirare gli intensi profumi dell’acqua salata, di godere lo sbuffare del mare come se fosse una medicina all’aria malsana e alle polveri che attanagliavano i loro polmoni nei giorni interi e lunghi della settimana passati dietro le macchine della fabbrica. A furia di ingurgitare micidiali pulviscoli avevano l’ansimare quasi uno strofinio di carta smeriglio e le sigarette non bastavano a togliere dal fiato l’affanno. Solo in quell’immensità respiravano appagati. Nelle giornate chiare e luminose, il mare piatto e argentato e il sole che illuminava la distesa rendendola rifrangente e scintillante. Con la testa a pensare solo alle coordinate di quel punto 74


che cercavano ogni volta che uscivano in mare e che tutti i pescatori vorrebbero trovare. “ Dio mio, questa è vita!” A saperlo prima! Aveva già dato l’allarme alla Capitaneria del Porto e gli avevano risposto che avrebbero provveduto immediatamente a mandare un ricognitore ad individuare se la barca fosse stata ancora in balia delle onde oppure…ma non ci voleva nemmeno pensare. Era fradicio. Non voleva tornare a casa e cambiarsi e mettersi qualche cosa d’asciutto indosso perché non voleva abbandonare la spiaggia. E nemmeno avvertire la famiglia per non spaventarli. Era sicuro che la barca, un gommone di quattro metri, sarebbe spuntata ad un certo punto, tra i marosi lividi e tetri. Dal mare, però, non arrivava alcun segnale. Così aspettava e i minuti passavano velocemente,

mentre

il vento

impazziva

e lo

sferzava

in

viso

asciugandogli i capelli bagnati come un potente phon d’aria fredda. Aveva abbandonato la barca appena in tempo prima che il maestrale rafforzasse considerevolmente e la sospingesse al largo. Il motore si era inceppato e lui si era gettato tra le onde. Ma l’amico no! Non aveva voluto abbandonare il battello. Significava perdere tutto ciò che era riuscito a realizzare in anni di risparmi, moneta su moneta. Canne da pesca, la cassetta con l’attrezzatura, i ricambi, gli ami già pronti, il mulinello special, il coppo e gli arnesi, rinchiusi ermeticamente nel grande contenitore di plastica, le taniche per la miscela, il serbatoio e il piccolo motore di scorta. “ Vai Tonio, vai tu. Dovresti riuscire a raggiungere la riva. Avvisa la Capitaneria, verranno a cercarmi subito. Non ti preoccupare per me! Me la caverò”

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Lui aveva acconsentito. Si era levato gli stivali e si era calato in acqua. Aveva incominciato a nuotare con la vigoria che solo a venti anni si può avere, con bracciate che aggredivano il mare, quasi a volerlo domare. Nonostante il maestrale sbuffasse contro e gli riempisse occhi e bocca d’acqua spumosa, era riuscito nel suo intento appena prima che il cuore in petto gli si squarciasse dalla fatica. Ancora la forza di correre come un disperato a cercare una cabina telefonica e avvertire la guardia costiera. Solo allora, esausto, aveva rallentato i suoi movimenti e si era accasciato, sfinito, sulla rena umida aspettando il ritorno dell’amico. Il cuore, in petto continuava a tamburellare. A saperlo prima! Ma si poteva immaginare una bufera di tale portata e che il cellulare, bagnato dagli spruzzi, fosse reso inutilizzabile? Che l’ancora non facesse presa su un fondale sabbioso e che il vagare senza controllo l’avrebbe portata di là dalla lunghezza della sua cima rendendola del tutto inutile? Ed ora lì, nel buio interrotto qua e là solo da bagliori di lampi, col rumore frastornante delle onde che si rifrangevano a riva e i tuoni che mugghiavano in lontananza. Un inferno. Cercò avidamente una sigaretta che non poteva avere. Alcune persone si erano avvicinate a lui. La spiaggia, fino a pochi momenti prima deserta, ora invece si animava e si riempiva di gente, di curiosi. Lui non capiva e inebetito fissava all’orizzonte la linea un po’ più scura del mare, dove probabilmente il cielo s’incontrava con le onde. Si accorse di avere tra le dita una sigaretta accesa e aspirò ingordamente alcune boccate. Qualcuno gli aveva buttato una coperta sulle spalle. Continuava a ripetere sempre no a tutte le domande. Non voleva tornare a casa, non prendere caffé, non vestirsi, non telefonare, non mangiare, non dormire, niente di niente. Voleva solo che tornasse lui, l’amico. 76


La Guardia Costiera non rientrava ancora dalle perlustrazioni eppure l’avrebbero dovuto trovare subito. Era appena lì. Lui aveva fatto il tragitto a nuoto e quindi la distanza non poteva essere un granché, e allora perché non arrivavano ancora? Il giorno livido si affacciò con un chiarore grigiastro. Nuvoloni densi e scuri correvano sulle loro teste, sospinti da quel perfido maestrale che ancora soffiava intenso. Dalle saline, inconsistenti batuffoli bianchi oltrepassavano la strada costiera e si appiccicavano al volto come un dopobarba schizzato con violenza. La spiaggia era ormai gremita, e lui allucinato continuava a scrutare l’orizzonte con gli occhi infossati, dubbiosi su qualunque macchia intravista in quelle lontananze ancora buie. Con il passare delle ore il giorno si era fatto intero e il chiarore del mattino aveva reso ancora più evidente l’intensità della tempesta. Non pensava. Una preghiera affiorò dai più profondi recessi della coscienza facendosi largo tra la sua paura. “ Dio ti prego!” Non voleva perdere l’amico, non poteva perderlo. Chiedeva che Dio gli rispondesse, che si facesse sentire per lui, per la giovane moglie d’Ercole, per i due bambini. “ Dio mio! Non essere in collera con lui se la domenica preferisce andare a pesca anziché da te. Lui ti ama lo stesso; quando avvia il motore, quando timona guardando il cielo, quando butta la lenza… Ti prego Dio!” La preghiera saliva e si confondeva con le mille voci che si erano radunate sulla spiaggia. Ora erano arrivati anche dei soldati, cercavano di scuoterlo, di farlo andare via dalla spiaggia di costringerlo a tornare a casa, ma lui era rigido e duro come una statua. Ed ora eccolo il punto sul mare diventare sempre più consistente e ogni tanto sparire per poi riaffiorare. E la gente sussurrare e il mormorio aumentare mentre 77


quel qualcosa galleggiava inerte sulle onde nere e si avvicinava a balzi. Un petalo soffiato in mezzo ai flutti. I soldati si accanirono a staccarlo dalle sue preghiere. Volevano portarlo via perché loro già sapevano. Quello strano Dio non lo aveva ascoltato e si era portato via l’amico per andare lui, insieme, a pesca in un altro mare, in un mare più intenso e misterioso, in quel punto magico cercato a lungo e mai trovato, dove i fondali traboccavano di pesci, dove il respiro non sarebbe mai stato aggredito da ceneri tossiche, o da esalazioni malsane. In quel mare pulito, freddo e asettico il suo amico l’avrebbe atteso senza impazienza,

senza

patemi

d’animo,

senza

tranquillità.

78

rimpianti,

sereno

in

un’eterna


LA MONTAGNA DEL SIGNOR PETTINAU

Non aveva cognizione di come avrebbe potuto fare a tirare su quel marmocchio che gli era capitato sulle spalle senza che lui lo volesse. Non era mai stato molto tenero con i bambini e non gli andavano a genio le loro intemperanze naturali. Il fatto che non si fosse mai sposato e che avesse fama di misogino, la diceva lunga sul carattere schivo e scontroso di quell’uomo. Aveva circa cinquanta anni ed era sempre stato solo. Non perché lo desiderasse, ma perché tutte le volte che aveva provato ad affezionarsi a qualcuno o a qualcuna, aveva avuto delle delusioni. Per un motivo o per l’altro aveva dovuto separarsene a malincuore, e questi ripetuti distacchi avevano segnato in maniera profonda il suo modo di sentire, facendolo soffrire, tanto da costringerlo alla decisione di eliminare definitivamente la causa del malessere, prediligendo la scelta della solitudine. Così si chiuse a riccio verso qualsiasi tipo d’amicizia gli offrisse il caso. In sovrappiù ebbe un incidente di lavoro: precipitando da un pontile, mentre lavorava, si fratturò una gamba in modo molto grave. Per intervenuta cancrena fu necessario amputargli il piede destro. Questo fatto lo costrinse a camminare con un moncherino che gli rivestiva la gamba all’altezza del polpaccio e terminava con un pomello circolare di gomma dura che lo rendeva simile a Gambadilegno della banda Disney. Per mascherare il tutto era solito 79


infilare il moncherino in una scarpa ad hoc e lasciare che i pantaloni lunghi lo ricoprissero. Quando, però, era nell’intimità della propria casa, non usava quello stratagemma e manteneva a vista il suo difetto, che, agli occhi di quei pochi estranei con cui veniva casualmente in contatto, provocava un certo malcelato disagio. Conscio di ciò, aveva preferito fare a meno di frequentare anche quelle poche persone. L’unica consolazione che la disgrazia gli procurò, fu l’acquisizione del diritto ad un indennizzo per l’invalidità, che gli diede libertà di vivere senza avere più obbligo di lavorare. Ora però era successo che i vicini di casa, quelli che abitavano allo stesso piano del suo, in quella città ostica e nervosa, grande, piena di chiasso e di tristezza, anche se mistificata con luci e addobbi vari, si erano dovuti assentare per un po’ di tempo. Questo, aveva raccontato lui al bambino di soli otto anni che appena conosceva per il suo lungo e articolato nome: Antonmario Pierluigino di Casamia ( così si presentava lui, abbinando insieme nome e cognome suo, Pierluigi Casamia, e del padre, Antonmario; e i genitori assicuravano che lo faceva di sua iniziativa e non in seguito al loro suggerimento) ma che, per altro, non aveva mai degnato di uno sguardo, essendo sofferente di una specie di prurito orticante verso i piccoli. In realtà i genitori del bambino erano morti in un terribile incidente stradale e avevano perso la vita anche gli altri due occupanti dell’auto contro di cui la loro si era scontrata con inaudita violenza. Al momento della sciagura, il bambino era ancora a scuola e attendeva che i genitori lo andassero a prendere. Aveva visto invece arrivare il signore col piede di legno, che abitava di fronte a casa sua, e che gli aveva raccontato una storia convincente: i suoi genitori quel giorno non

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sarebbero tornati e gli avevano chiesto cortesemente di andare a prenderlo al loro posto. Così aveva detto il Pettinau al bambino, pensando di rivelargli la verità poi, con calma. Le cose erano andate in questo modo: subito dopo l’incidente mortale, i poliziotti, dopo aver ricostruito lo stato familiare dei due genitori tragicamente morti, purtroppo non erano riusciti a scoprire alcun parente o altra famiglia alla quale affidare provvisoriamente il bambino. Precipitatasi al loro indirizzo una squadra, dopo frettolose indagini, aveva stabilito che il signor Pettinau, l’inquilino che occupava l’appartamento nello stesso pianerottolo dei defunti, non avendo impegni d’alcun genere, era l’unico che, apparentemente, poteva prendersi cura di lui. La squadra aveva effettuato il suo verbale e il rapporto era finito sul tavolo del Giudice Istruttore il quale, a sua volta, l’aveva trasmesso, con procedura d’urgenza, al Tribunale minorile. Il Giudice dei minori aveva chiamato subito un’Assistente Sociale e le aveva affidato l’incarico di recarsi sia dal Pettinau, sia presso la scuola dove studiava il piccolo. Tutti avrebbero dovuto essere prudenti col bambino e non sconvolgerlo con dichiarazioni avventate, per non provocare traumi psichici tali da influire negativamente sul futuro processo di crescita. A mezza mattina l’assistente trovò il signor Pettinau in casa, ancora con la barba lunga e il viso assonnato. Il moncherino le fece una sinistra impressione. Le sembrò trattarsi quasi di una messinscena per impietosire chi gli stava davanti. Il fatto che l’uomo si fosse presentato con una sigaretta mezza spenta in bocca, evidentemente ancor prima di aver fatto una minima toilette, aumentò in misura maggiore l’impressione negativa. Mentalmente si augurò che quell’incarico non andasse in porto, oppure terminasse presto.

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Mal disposta, gli ripeté quello che il Tribunale aveva deciso: doveva occuparsi del bambino per il tempo strettamente necessario per la decisione dell’affidamento. Nel frattempo lo richiamò all’osservanza del massimo di prudenza che la sua sensibilità gli permetteva, per non provocare al bambino ferite che avrebbero potuto essere pericolose e durature. Ottenuto l’assenso del signor Pettinau, poco entusiasta e forzato dalla paura di conseguenze in caso di rifiuto, l’Assistente si recò alla scuola, e al Preside e agli insegnanti descrisse la situazione del bambino, nell’attesa di un tutore che sostituisse i genitori in maniera adeguata. Ripeté le stesse avvertenze e lasciò loro il proprio biglietto da visita. Se qualche cosa avesse richiamato la loro attenzione avrebbero dovuto avvertirla immediatamente. Secondo obblighi precisi di legge, erano tenuti a segnalare qualunque anomalia nel comportamento del bambino, assumendosene la responsabilità in caso di negligenza. Li spaventò anche più del dovuto perché quello era il suo mestiere e lei lo espletava con puntigliosa coscienza. Compilò un breve rapporto, inserendo le note negative riscontrate nel Pettinau, sollecitando il giudice ad un’immediata decisione sull’affidamento definitivo del bambino, perché non era consigliabile lasciarlo un minuto più dell’indispensabile nella casa di un uomo così poco affidabile. Il giudice, ricevuto il rapporto, lo fece inserire dalla sua segretaria nel computer, insieme con tutti i casi che gli pervenivano da più parti, in modo da averli sempre presenti con una semplice schermata generale. Per un paio di giorni tutto andò liscio. Il bambino credeva alle piccole bugie che il signor Pettinau gli raccontava e un giorno perché i suoi erano partiti, un giorno perché avevano fatto guasto alla macchina, un giorno perché si erano dovuti fermare per lavoro, un giorno perché si erano ammalati, ascoltava le sue parole e si convinceva. Ma già Pettinau sapeva che avrebbe dovuto inventare ogni momento 82


delle altre verità per evitare di ferire il bambino. Quello era il suo cruccio maggiore, perché, per il resto, pensava che in qualche modo la faccenda si sarebbe aggiustata da sola. Il tempo cominciò, però, ad allungarsi. Pettinau non era abituato a prendersi cura d’altri, perciò si comportava con il bambino né più né meno come con se stesso, con incuria. Non essendo preparato per ospitare nessuno e, meno che mai, un bambino, cercava di arrangiarsi nel limite delle sue scarse possibilità e agiva seguendo le norme essenziali del dovere senza dare troppo peso ad altri problemi. Tanto, pensava, da me resterà poco, e qualcuno provvederà. Quello era il destino segnato per il bambino; solo che la prassi burocratica, già di per sé lenta, procedeva a ritmo di lumaca. Nessuno mostrava interesse per la risoluzione del problema. Passarono, infatti, giorni e settimane, senza che avvenisse nulla di nuovo. Dopo un mese, l’impegno del Pettinau per il piccolo era diventato abitudine. Qualche volta piacevole, invece penosa quando, (succedeva tutti i giorni), il piccolo chiedeva dei suoi genitori. Erano quelli i momenti più brutti perché Pettinau aveva esaurito le risorse della sua fantasia e non sapeva più dove attingere per dare risposte adeguate. Un giorno il bambino, dopo aver chiesto ripetutamente dei suoi genitori, si mise con le mani conserte davanti al Pettinau e gli disse. “ Non ti credo più. Sei un bugiardo! Devi dirmi dove sono papà e mamma.” E mentre diceva quelle parole gli occhi, gli s’inumidirono di pianto. Per quanto il signor Pettinau fosse scontroso, quello che era successo al bambino non lo aveva lasciato indifferente. Si sentì invadere da un’indicibile pena, ma non volendo dimostrare al bimbo i suoi sentimenti, lo lasciò frignare per un bel po’ di tempo, senza replicargli e seguendo con la coda dell’occhio i suoi 83


movimenti.

Tirò

il

fiato

sollevato,

quando

il

piccolo

Pierluigi

smise

di

piagnucolare e si sistemò davanti alla tv, che trasmetteva un cartone di suo gradimento. Il tempo corse via e passarono altri mesi senza che la questione del bambino si risolvesse. Per una sbadataggine involontaria, la segretaria del giudice aveva inserito il file riguardante il bambino Pierluigi Casamia in una cartella diversa da quella prevista. La pratica era rimasta, perciò, sospesa nel limbo computerizzato, senza apparire nella schermata generale dei casi da sistemare. Nessuno più si era occupato di lui. La cartella cartacea, inutilizzata, era rimasta nel cassetto della segretaria, destinata all’archivio. Così continuò il periodo di vita in comune tra l’uomo ed il bambino. Pierluigi chiedeva sempre dei suoi genitori, ma, lentamente le richieste avevano perso la primitiva insistenza come se si fosse, non proprio abituato, ma almeno rassegnato alla nuova realtà. Sembrava aver ritrovato la serenità. Anche il signor Pettinau si era quasi adattato alla nuova vita che, inaspettatamente e senza la sua volontà, gli aveva rivoluzionato le abitudini. Al mattino andava ad accompagnare il bambino a scuola e lo riandava a prendere. Per distrarlo dal chiodo fisso dei genitori, si dedicava ad insegnarli piccole cose casalinghe, quelle che lui compiva quotidianamente, e i giorni avevano preso a scorrere con regolarità e, talvolta, con piacere. Continuava a comportarsi sempre nello stesso modo burbero e selvatico, ma l’intrusione di questo bimbo aveva provocato in lui una sensazione nuova, mai provata: quella di avere uno scopo. Inconsciamente lo raggelava, però, un vago timore: sapeva che il bambino sarebbe dovuto andar via e, pensando al momento in cui sarebbe avvenuto il distacco, si sentiva depresso. “ Vieni”, gli disse un giorno, “ voglio raccontarti una storia importante che ti farà capire tutto quello che c’è da capire su questa terra e su questo mondo” E il 84


bimbo, con i grandi occhi spalancati e la mente sgombra da altri pensieri, si apprestò a conoscere la grande rivelazione che il signor Pettinau gli annunciava. Il discorso avvenne nella cucina, mentre il signor Pettinau preparava qualche cosa da mangiare per sé, come faceva sempre, e aveva le mani impegnate in piccoli lavoretti abitudinari, come prendere le posate e apparecchiare la tavola dove avrebbero mangiato quei cibi semplici che solitamente cucinava. L’uomo si sedette su una sedia impagliata, prese in mano un coltello e incominciò a sbucciare le patate. “Oggi facciamo patate al sugo e insieme ci metto anche la cotenna del maiale. L’hai mai mangiata? Vedrai che ti piacerà. È roba da grandi.” Ma il bambino non l’ascoltò, assorto in un pensiero dominante, la storia che stava per udire. “Devi sapere che tutto dipende dalla tua volontà. Tutto, ma proprio tutto.” “ Che cosa vuoi dire? Io non ti capisco.” “Vuol

dire

che

la

realizzazione

di

tutto

ciò

che

desideri

dipende

dall’intensità dei tuoi desideri e dalla forza della tua volontà. Solo se hai questa forza riuscirai a trasformare i sogni in realtà. Altrimenti non sarà possibile.” “ Come devo fare?” “ È un po’ difficile da spiegare, io avrei aspettato che tu fossi un po’ più cresciuto. Visto, però, che mi stai sempre alle costole con la solita lagna, voglio anticipare i tempi. Così finirai di darmi fastidio con le continue richieste.”. Il bambino si sentì in colpa, però la curiosità prese il sopravvento su quella sensazione e scomparvero anche le tracce di quel leggero disagio. Pettinau continuò. “ Scendi per la strada, cammini sempre dritto e arrivi alla fine della città. Quando anche le case non ci sono più e incomincia la campagna vedi in lontananza una montagna altissima che s’innalza oltre la nebbia fitta. Se scali quella montagna 85


vedrai dall’alto della vetta tutte le cose che sono rimaste giù, nella valle sottostante. Dalla cima guarderai in basso e tutto sarà a portata di mano. Per scegliere ed ottenere quello che più ti aggraderà basterà allora desiderarlo intensamente. “ Possono andarci tutti?” “ Certo!” “ Ci andiamo subito?” “ Non è così semplice, la strada per arrivare in cima è molto lunga. Ci vogliono mesi, anni e qualche volta prima di arrivare in cima si diventa vecchi. Non credere che sia un giochetto. Bisogna faticare molto e affrontare parecchi ostacoli. Il primo tratto si percorre con facilità. Si oltrepassano agilmente le asperità del terreno, le prime colline, i ruscelli. Sembrerà facile, divertente e privo d’impedimenti. Poi le difficoltà si faranno maggiori e la salita più impervia. Affioreranno le prime avvisaglie della montagna e compariranno dirupi e anfratti scoscesi. La vegetazione diventerà folta e selvatica e inizieranno a presentarsi i pericoli. Le notti bisognerà difendersi da bestie feroci in agguato e da serpenti pericolosi. Ad un certo punto dell’arrampicata s’incontrerà una muraglia di rovi e spine così intricata che sembrerà impossibile oltrepassarla. Bisognerà aprirsi il varco con la forza delle sole braccia e la pelle si lacererà per le ferite. Molti, arrivati a questo punto desistono dalla scalata e tornano indietro abbandonando l’impresa. Se, però, si avrà la forza di andare avanti e di superare quella barriera si salirà di un bel po’, ma, nel frattempo, le gambe saranno diventate pesanti per la stanchezza. Per andare ancora oltre, bisognerà rafforzare l’impegno, misurare gli sforzi, controllare i passi. Infine, con la saggezza dell’esperienza, si arriverà in cima. Il percorso sarà stato pieno di lotte, delusioni, amarezze, ma anche di soddisfazioni e gioia, e si sarà imparato ad apprezzare la natura, il sole, la luna, le 86


stelle. Saranno venute le rughe in fronte e gli occhi non vedranno più tanto bene, ma volgendosi dall’alto si saprà che quello che si vede giù è la vita che ci fa soffrire e gioire, mentre, in alto, sopra di tutto, vi è il cielo limpido di un intenso azzurro senza fine. Gli occhi non riusciranno a mettere a fuoco tutto il suo splendore.”. Il bambino guardava lontano e sembrava essere in vista della montagna e delle sue asperità. “ Tu l’hai mai percorsa?”. “ Sì ma non sono arrivato in cima.”. “ È perché avevi la gamba zoppa?”. “ Può darsi di sì.”. “ Da lassù vedrò anche i miei genitori?”. “ Certo che li vedrai. Potrai anche parlare con loro e ascoltare quello che hanno da dirti. Perché essi sono sempre vicini a te. Basta che tu lo voglia.” Così dicendo gli porse le patate e lo invitò a mangiare perché il bambino, tutto preso dal racconto, non apriva bocca, immerso nella visione della montagna. Pensò di aver fatto la cosa giusta: aveva insegnato al bimbo ad essere paziente, a saper aspettare e ad accettare quello che la vita decide di riservare a lui così come a ciascuno di noi. Aveva forse creduto troppo nella sua forza di persuasione logica. Avrebbe dovuto pensare di più all’immaginazione che pervade la mente di un bambino molto di più che non un ragionamento saggio. Questo l’uomo non l’aveva messo in conto e fu la causa di tutti i suoi mali. La notte Pettinau, dopo aver messo a dormire il bambino, avergli augurato la buona notte e avergli rimboccato le coperte, si mise anche lui a letto e si addormentò. Il mattino seguente, in cucina, preparò il caffé ed il latte sul bollitore, 87


aspettò che questo fosse ben caldo e poi entrò nella camera dove dormiva il bimbo. Il letto era sfatto, ma di Pierluigi non vi era nessuna traccia. Lì per li pensò che fosse andato in bagno a lavarsi e lo chiamò dicendogli che la colazione era pronta, ma non gli rispose nessuno e allora lo cercò in tutta la casa, abbastanza piccola e priva di nascondigli. Uscì sul pianerottolo e discese le scale fino al portone d’ingresso del palazzo. Del bimbo nessun segno. Risalì in casa, si mise al tavolo della cucina e si versò una ciotola di latte con il caffé immergendovi dentro una fetta di pane. La cucina gli sembrò enorme e deserta. Si disse: “Tornerà. Non m’importa.”. Non era vero. Ancora una volta il suo cuore si era aperto ad un affetto ricavandone la relativa delusione. Prima di lasciarsi andare alla speranza di un improbabile ritorno capì che la primavera non era fatta per lui e che per lui esisteva soltanto l’odore della primavera. L’insegnante della scuola dove Pierluigino Casamia studiava, dopo due giorni d’assenza consecutiva del bambino, si preoccupò e andò dal preside a riferire l’accaduto. Insieme decisero di telefonare alla dottoressa, al numero indicato sul biglietto da visita lasciato a suo tempo. La chiamarono e dall’altra parte si sentì un’esclamazione di sconcerto come se una palla fosse rimbalzata male e anziché cadere dove doveva, fosse saltata in un luogo improprio, provocando

qualche

danno.

La

dottoressa

chiese

qualche

dettaglio

e

poi,

frettolosamente, chiuse la conversazione senza neppure ringraziare. In effetti, era in agitazione perché, ricordandosi il fatto, si chiese come mai era ancora in sospeso. Riferì telefonicamente al giudice il quale, a sua volta, cadde dalle nuvole. “ Incontriamoci subito!”, bofonchiò di pessimo umore. Si chiesero, con apprensione, com’era stato possibile che la faccenda fosse arrivata così avanti nel tempo senza che loro ne fossero stati a conoscenza. Avrebbero indagato,

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certamente, ma, nel frattempo, era della massima urgenza sentire il Pettinau e il bambino. La dottoressa si recò alla casa del Pettinau. La prima volta ne riportò una brutta impressione, ma questa volta fu ancora peggiore. Trovò lui, se possibile, ancora più malandato, torvo e di pessimo umore, non aveva alcuna voglia di raccontare e rispondeva a monosillabi alle domande che la dottoressa gli poneva. Il bambino da due giorni era sparito. Non seppe precisare le cause, non le circostanze e nemmeno esattamente quando. Se n’era reso conto solo il mattino al suo risveglio, al momento di fare la colazione. La dottoressa non credé una sillaba di quello che il Pettinau le disse. Sospettò immediatamente qualche mistero in quella sparizione. Riferì al giudice, con la coscienza attanagliata da una forte preoccupazione, e questi decise di inviare nella casa del Pettinau due poliziotti con l’ordine di perquisire l’appartamento. Nell’appartamento i poliziotti rinvennero alcuni vestiti del bambino e una maglietta intrisa di sangue. L’immaginazione dei poliziotti galoppò e soprattutto quella della dottoressa. Chiese ed ottenne dal giudice un mandato di fermo per il signor Pettinau il quale si ostinò a ripetere che il bambino si era tagliato una mano pelando le patate con un coltello troppo affilato. Non gli crederono. Il giudice, già incattivito da tutta la vicenda, lo accusò d’incuria nella custodia, d’abbandono di minore, di non aver denunciato l’assenza e la sua scomparsa, di maltrattamenti e di molti altri reati contemplati dal codice penale, tra i quali, velatamente, anche di quelli più turpi. Pettinau non aveva i soldi per pagarsi un buon avvocato e così fu costretto a subire le conseguenze delle argomentazioni che il suo implacabile accusatore portò a riprova delle nefandezze da lui compiute, riuscendo a fargli affibbiare, a forza

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d’improperi, una lunga pena detentiva. Fu rinchiuso in carcere dove perse persino il conto del tempo. Divenne veramente vecchio ed ebbe la certezza che sarebbe morto dentro quella cella senza mai più rivedere le pareti di casa sua. Invece un giorno lo fecero uscire, e lui poté tornarsene alla sua casa. Vecchio, ingobbito e incattivito. Tolse le ragnatele del suo appartamento e ricominciò a vivere nell’attesa della morte, perché il suo cuore era ormai sterile e il sangue che scorreva nelle sue vene non gli dava alcuna sensazione se non d’attesa funerea. Non gli importava di nulla ed evitava tutti. Quando usciva per comprarsi quelle poche cose che gli servivano per la sopravvivenza, camminava con la testa bassa per non incrociare lo sguardo degli altri. Evitava di parlare e, fatta la spesa, rientrava immediatamente nella sua tana in cui teneva sempre le finestre chiuse come se avesse paura della luce e dell’aria. Un giorno sentì bussare alla sua porta e si vide presentare davanti un giovane. Immediatamente fece l’atto di richiudere la porta perché non voleva parlare con nessuno e meno che mai con venditori o rappresentanti che ogni tanto cercavano di appioppargli qualche carabattola. “ Fammi entrare, ” disse quello, “voglio solo parlarti.”. “Di che cosa mi vuoi parlare che io non so già? Vattene. Ho da fare.” “ Puoi lasciarmi entrare solo per un attimo? Mi chiamo Pierluigi di Casamia.” “ Non conosco nessuno con questo nome!”, rispose il vecchio che, dalla sua memoria, aveva rimosso ogni atto che si riferisse al bambino scomparso, per il quale aveva patito tante sofferenze. “ Possibile che non ti ricordi di me? Sono stato a casa tua per molto tempo e mi hai insegnato tante cose.”. 90


“ Va via! Non voglio stare a sentire le tue storie che non m’interessano per niente. Anzi, se non te ne vai subito chiamo gente!” E fece l’atto di aprire la porta per chiedere aiuto. “ Posso almeno raccontarti di una montagna?” “ Di quale montagna vai chiacchierando? E poi a me cosa vuoi che me ne importi delle tue montagne?” “ Questa montagna è difficile da superare. Per arrivare in cima vi sono mille asperità e mille difficoltà. Una volta, però, che raggiungi la cima, guardi in giù e capisci tutte le cose.”. L’uomo si accigliò e smise d’essere insofferente. “ Tu l’hai scalata quella montagna?”. “ Si. L’ho fatto.”. “ Che cosa hai visto dall’alto?”. “ Ho visto i miei genitori.”. “ Ci hai parlato?”. “ Si ho parlato con loro.”. “ Cosa ti hanno detto?”. “ …Che devo chiederti perdono per tutte le sofferenze che hai patito per colpa mia.”. Il vecchio non disse più una parola e rimase a guardare in lontananza come se la sua vista volesse trapassare le pareti della casa per dirigersi sulla vetta del monte. Il giovanotto indugiò ad ammirarlo. Nell’angolo dell’occhio di Pettinau una perla translucida che rassomigliava molto ad una lacrima, si era bloccata sul ciglio, pronta a cadere giù, ma lui si arrabbiò e la scacciò con le dita. Come trasmesse da un telegrafo senza fili si riversarono nell'animo d’ambedue, sensazioni di calore, per tanti anni trattenute sul limitare della soglia. 91


Il giovanotto allungò una mano, prese quella del vecchio e la strinse. Nel farlo si accorse che anche la mano del vecchio si stringeva intorno alla sua e tremava leggermente. Per mezzo di quel contatto si stabilì una connessione tra i due corpi attraverso cui si estendevano immagini e sentimenti, fino a quel momento racchiusi dentro invisibili e freddi involucri, ma che ora progredivano e si dimenavano per venire fuori allo scoperto in modo da effondere tutta la loro vitalità. Rimasero così a lungo a centellinare il gusto di recuperare l’affetto isolato per tanto tempo nel loro intimo, finché l’abbraccio mise un punto fermo all’incontro e ambedue furono certi di essere finalmente pervenuti insieme alla vetta della montagna.

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QUESTIONE D’ONORE

Arrivò il vento e spazzò tutta la collina con un impeto tale che gli alberi toccavano terra e l’erba era piegata a lambire il suolo formando un tappeto verde che neanche nei migliori prati dove si giocava a golf. Paullicu avvolse la sciarpa intorno al viso e rialzò il bavero calandosi il cappello in testa fino alle orecchie in modo che non volasse via insieme alle foglie secche che turbinavano nell’aria, mentre il mantello gli svolazzava schiaffeggiando di continuo i gambali stretti fino alle ginocchia. Urlando a squarciagola, utilizzava il bastone nodoso per minacciare le pecore e indirizzarle verso la parete di monte, a ridosso del quale avrebbero avuto più quiete. L’ululato del vento era simile al logorio interno che si portava dentro. Suo cognato lo aveva offeso a morte e lui non lo digeriva. Non lo poteva digerire. La sua donna, la tonda pisita, era stata considerata dal presuntuoso cognato alla stregua di una baldracca. “ Vai a farti fottere” le aveva detto con superbia, quando lei si era frapposta tra i due contendenti per il possesso della tanca di tziu Antiogu. “ Cosa c’entri tu? Questi sono ragionamenti che a te non devono interessare. Cose da uomini, sono!” Lei aveva risposto e gli aveva tenuto testa. “ Non è così. Paullicu ha più diritto di te a quella terra. Tu puoi andare a cercartene un’altra. Hai i mezzi per farlo e non sei costretto a stare in montagna anche quando fa freddo o nevica.”. “ I mezzi che ho li ho procurati da solo. E anche Paullicu , con un po’ più di carattere e di voglia avrebbe potuto farlo. Ma la verità è che lui ha sempre preferito andarsene su in montagna, a pascolare le sue pecore e a stemperare le canne!”

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Tirato in ballo Paullicu gli rispose: “ Non è così. Io non ho cavalli come te, e posso pascolare le mie pecore solo lassù. Ora però, con quella tanca non ho più bisogno di andarmene in montagna. È abbastanza grande da permettere alle pecore di pascolare liberamente e mangiare tutta l’erba che vogliono. Poi è in collina, e salire e scendere dai pendii fa irrobustire gambe e muscoli. Inoltre, il fiume che scorre lì nei pressi fornisce in abbondanza acqua per la loro sete estiva. Dunque quella terra la voglio!” “ Un conto è volere, un conto è potere!” “ Quella terra ci è necessaria.” Aveva aggiunto la pisita quasi lacrimosa. Io non voglio più che Paullicu stia via per tanto tempo. Se non capisci queste cose, non capisci niente!” Proprio allora suo cognato aveva detto quella frase che gli bruciava ancora dentro come un tizzone ardente.

Ora Paullicu accarezzava con la ruvida mano il manico d’osso del coltello, dalla lama appuntita come uno spillo ed il filo tagliente come un rasoio, e già vedeva l’azione. Il volto di Igino che diventava pallido e gli occhi strabuzzare quasi a chiedere perdono. “Scusami. Non volevo offenderti. Prenditi pure tutta la terra che vuoi, così potrai fare felice quella stronza della tua donna!” e sorrideva, mentre diceva quelle maledette parole che insultavano ancora di più. Gli rivoltava l’anima immaginare lo sguardo ironico, nel rivolgergli di rimando quelle parole che sembravano divertirlo come uno scimmiotto. Il sangue si ribellava a quelle idee che si accavallavano in testa e non lo facevano ragionare. La verità era che, di sicuro, Igino non aveva nessuna intenzione di chiedere scusa. Si considerava l’erede legittimo di Tziu Antiogu solamente perché una volta, in una festa di tosatura, mentre erano tutti ubriachi, lo ricordava bene, lo tziu, gli aveva promesso 94


che, alla sua morte, quella terra sarebbe andata a lui. L’aveva detto alla presenza di tanti testimoni, era vero, ma erano tutti ubriachi fradici. Lo potevano dichiarare tutti. Quella sera avevano bevuto attingendo a pieni boccali dalla botte sul carro a buoi e l’avevano scolata quasi tutta. Addirittura ricordava che qualcuno stava per cadere nelle braci del fuoco, acceso per cuocere gli agnelli ed i porcetti. Ed ora che lo tziu era morto si vantava di avere avuto da lui il testamento! Ma che testamento e testamento! Quella era una porcheria. E lui non lo avrebbe tollerato. Non si poteva dare via un terreno come quello in una notte in cui uno non sapeva nemmeno quello che diceva. Ma non l’avrebbe passata liscia. Se volevano prenderlo in giro avrebbero visto tutti di che pasta era fatto Paullicu . Anche se se n’andava a pascolare in montagna, mica perché rimaneva isolato nelle montagne che gli altri potevano fare tutto quello che volevano. Nossignore, non potevano e gliel’avrebbe dimostrato. Con il pollice accarezzava il filo della leppa.

Nella notte scurissima perché non vi era la luna ad illuminare il tancato, Paullicu superò con un salto lo steccato che divideva il viottolo campestre dalla tenuta del cognato. Entrò dalla parte dove era coltivata a fave che poi il prossimo anno sarebbe stato a grano. Di tanto in tanto vi erano i mandorli a spezzare la distesa del campo e, in fondo, la casa. Era una casa grande e aveva il granaio e la porcilaia dietro. Aveva due stalle, una per i buoi, perché suo cognato era bovaro, e una per i cavalli. Dentro casa c’era sua sorella e solo lei poteva mettere pace fra i due. Ma oramai era troppo tardi, quello che era stato detto non poteva essere più ritirato e chiamava vendetta. Camminò per un breve tratto e gli parve di sentire qualche cosa dietro di lui. Si girò di scatto e vide l’ombra di un gatto sparire frettolosa nel buio intenso. 95


Sapeva che intorno alla casa circolavano liberamente i cani, ma lo conoscevano perché, quando tornava dalla montagna, andava sempre a stare dalla sorella e da suo cognato, e i cani riconoscevano l’odore. Allora era bello. Si stava bene in compagnia della sorella e di suo cognato. Erano in simpatia e non aveva niente da invidiare, anche se Igino possedeva certamente più di quello che aveva lui. Era vero, però era anche vero che il cognato aveva più anni di lui e adesso anche più esigenze perché doveva provvedere al piccolo che sarebbe nato da qui a due o tre mesi. E poi chi lo diceva che i buoi valevano più delle pecore? Bisognava vedere quante n’aveva e fare la conta. Se proprio si voleva trovare una differenza, questa era sola nel fatto che lui se n’andava in montagna per sei mesi l’anno e per sei mesi viveva da solo con le sue pecore e basta. Quella era la vera differenza che poi non era nemmeno una brutta cosa. Aveva anche i suoi lati buoni. Quando era lassù, il cervello ragionava, infatti, molto meglio perché aveva più tempo per pensare. E anche i ragionamenti che faceva in montagna, solo e isolato dal resto del mondo, filavano lisci come l’olio. E quelli erano rigidi e immutabili dai tempi dei tempi. Secondo i canoni tradizionali, l’offesa andava ricambiata con un’altra offesa o lavata con il sangue. Non ci potevano essere alternative. Era come se il contrario fosse che la luna non facesse più luce o che il vento non piegasse le chiome degli alberi o che l’acqua non scorresse verso la valle. Questo accadeva quando era in montagna. Non qui, invece. Qui i pensieri, chissà perché, si aggrovigliavano come radici di lentischio perché erano sempre in lotta con quelli degli altri e allora bisognava fare e disfare, e alla fine non si capiva più nulla. Come adesso. Che gli sembrava una pazzia quello che stava andando a fare. Ora che nella piana la notte era piombata nel silenzio e si sentiva solamente, in lontananza, lo sfrecciare delle automobili lungo la strada statale, ora il pensiero, da limpido che era, diveniva contorto. “ Io non sono ancora sposato 96


con la pisita. È la mia donna, è vero, e mi piace anche. Altrochè se mi piace! È molle in tutte le parti, e quando la tocco mi fa venire i brividi. E poi è liscia. Come la mammella della pecora. Ma ancora non sono sposato, e quindi l’offesa è meno grave. Forse dovrei dire ad Igino che chieda scusa. Se lui lo fa io posso rinunciare ad ammazzarlo. Ma se non lo fa? Se si mette a ridere? Se mi prende in giro? Allora sì che devo ammazzarlo!” Però, a mano a mano che procedeva nel buio e nel silenzio, l’odio stava scomparendo. Il furore che l’aveva incattivito, quando aveva sentito quelle parole dette dal cognato alla sua donna l’avevano ferito nell’orgoglio forse perché formulate di fronte a lei. Gli era sembrato di essere stato mortificato, aggredito insolentemente senza che ce ne fosse il bisogno. Però forse il bisogno c’era. Perché si era intromessa lei? Cosa c’entrava? Se la tanca di Tziu Antiogu doveva andare ad uno dei due, non era certo lei a doverlo dire, erano proprio cose da uomini, come aveva detto suo cognato. Era tra loro due che dovevano sbrigarsela e forse avrebbero trovato l’accordo. Bastava che lui si tenesse la terra e gli permettesse di pascolare le sue greggi e avrebbero risolto il litigio. Vuoi vedere che la colpa è della pisita? Vuoi vedere che il silenzio e la notte mi fanno ragionare bene come dovevo fare anche prima? Ma il riso e lo scherno del cognato, dove lo metteva? Perché c’era stato, non lo poteva dimenticare. Quando aveva detto a lei “ Vai a farti fottere!” aveva sorriso. Forse pensava che era proprio quello che avevano fatto pochi momenti prima. E allora il sorriso non era più di scherno, ma di uno che sapeva. Era come se volesse dire “ Fai le cose che sai, mentre le altre lasciale a noi!” Se veramente le cose erano andate così non poteva rimproverare nulla al cognato. Aveva solo detto la verità e non aveva voluto offendere nessuno. Solo che lui l’aveva presa male perché la pisita si era risentita e aveva risposto. E non avrebbe dovuto. Se se 97


ne stava zitta, lui non l’avrebbe offesa e non sarebbe successo nulla. Ma oramai era successo e non si poteva cancellare. E così continuava ad avvicinarsi alla casa tenendo sempre in pugno la leppa, che era la sua vendetta. Ma continuava anche a ragionare. Perché, a pensarci bene, non aveva assolutamente minacciato il cognato. Non aveva aperto bocca e aveva ingoiato l’offesa senza proferire parola. Se lo avesse fatto, se avesse minacciato Igino di fargliela pagare, o cose del genere, avrebbe poi dovuto mantenere la sfida e presentare il conto. Così no! Non era tenuto a niente. Non c’era nessuno a costringerlo. I ragionamenti andavano in quella direzione, e adesso lui oscillava tra le due possibilità. Tra poco avrebbe avuto la conferma o meno. Dipendeva da come reagiva il cognato. Vedendolo arrivare a quell’ora, Igino avrebbe capito subito perché era venuto e si sarebbe accorto delle sue intenzioni. E allora la spiegazione sarebbe arrivata immediatamente. E il destino avrebbe agito per lui. Si sarebbe adeguato alla reazione del cognato e poi il cielo avrebbe deciso. Intanto era arrivato nei pressi della casa. Un cane gli andò incontro e scodinzolò nel riconoscerlo. L’altro, vecchio e appisolato sulla soglia della porta, lasciò al più giovane le incombenze di fargli le mosse d’averlo riconosciuto.

Bussò con la mano piena colpendo con forza la porta. Passarono solo pochi minuti e la sorella apparve sulla soglia dell’uscio. Si accorse immediatamente dell’aspetto torvo e minaccioso del fratello e si spaventò. “Come mai vieni qua a quest’ora della notte, mentre dovresti essere a dormire?”. La voce era tremula. Aveva osservato gli occhi di Paullicu e in essi vi aveva scorto la voglia di offendere.

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Lo fece entrare un po’ timidamente, ma sapeva già che tra poco sarebbe esplosa l’ira. Non poteva stabilire l’intensità e le conseguenze ma poteva cercare di limitare l’impatto negativo. “ Vuoi che ti prepari un caffé?” “ Niente voglio! Solo parlare con tuo marito. Che questa notte ha da ascoltarmi!” “ Mamma mia, non ti ho mai veduto in queste condizioni. Cosa ti ha fatto?” “ Tu digli di venire e poi lasciaci soli che noi dobbiamo discutere” La sorella lasciò la stanza e subito dopo entrò il marito Igino. “ E cosa ti porta qui a questa ora. Qualche pecora morta o ammalata?” “ Sai bene perché sono qui. Non posso certo dimenticare quello che hai detto stamattina. Sono qui per chiederti di rimangiarti le tue parole, e se non vuoi farlo…” Non terminò la frase perché Igino glielo impedì. “ Me lo dovevo immaginare che non me l’avresti passata liscia. Ma guarda che io ci ho pensato. Credo che potremo facilmente trovare un’accomodamento!” “ Ma cosa dici. Soluzioni non ce ne sono. Scusa mi devi chiedere e anche alla Pisita. Perché ci hai offesi. E se non lo fai…” Si alzò in piedi e levò dalla tasca la leppa facendo scattare il bottone in modo che la lama fuoriuscisse del tutto dal manico d’osso con uno scatto rapido. “ Ehi! Ti ha dato di volta il cervello?” Non vorrai che mio figlio nasca senza conoscermi. Lo sai che tra poco meno di due mesi tua sorella partorirà. Tu farai da padrino. L’abbiamo deciso proprio ieri. E abbiamo anche deciso che il terreno di Tziu Antiogu lo daremo a te e alla tua ragazza come regalo di nozze, se vi sposerete. Metti via quell’arnese e siediti. Ehi, tu, portaci una bottiglia e due bicchieri che Paullicu ha sete. ” 99


Paullicu fu come tramortito da quei discorsi. “ Non va così.” Disse un po’ stordito. “ La legge non è questa. L’onore si lava con il sangue. Non si possono offendere le persone e poi invitarle a bere a casa. Non riesco a capacitarmi di cosa sta succedendo. Mi sembra quasi che il mondo sia capovolto.”. “ Cosa vuoi che ti sta succedendo? Te lo dico io! È che stare da solo per troppo tempo ti fa dimenticare le cose vere. Bevi adesso e pensa ai giorni di festa che ti aspettano: la nascita di mio figlio, tuo figlioccio, e, tra non molto tempo, il tuo matrimonio. Non è forse meglio che litigare fra noi?” Paullicu prese la bottiglia e si versò un bicchiere colmo fino all’orlo e lo trangugiò tutto di un fiato. Stette fermo a rimuginare fra se come poteva uscire da quella situazione. Suo cognato non aveva riso come uno scimmiotto, però un uomo armato che se ne va via dalla casa del nemico senza aver avuto soddisfazione e senza aver usato l’arma non era degno di chiamarsi uomo. Era un uomo inutile, senza nerbo, come quelli che stanno tutto il giorno a far niente nelle bettole del paese, a bere birra e spettegolare come comari, che t’importunano, magari ridendo alle tue spalle, ma se appena fai un solo gesto di minaccia, o gli lanci uno sguardo accigliato o dici una parola dura, si azzittiscono immediatamente o scappano spaventate come lepri stanate Lui, invece, non era di quelli. In più, essendo armato, non poteva andarsene senza lavare l’onta. Che cosa avrebbero detto gli altri, e la pisita? Cosa sei andato a fare a casa d’Igino? Cosa fa un balente di fronte al nemico, colla doppietta spianata, se non spara? Allora cosa è, una pasta frolla o che altro? Perché era vero che Igino gli regalava la terra. Ma questo fatto non bastava a cancellare la vergogna perché un regalo poteva essere ricambiato con un altro regalo e dopo i conti non tornavano lo stesso.

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Però bisognava decidere subito. E a lui la decisione gli arrivò attraverso la mano con cui teneva la leppa.. Prese la leppa, la richiuse, e la porse ad Igino. “ Tieni, è tua. Questo è il mio regalo per la terra. Adesso possiamo dirci pari e nessuno potrà dire che sono venuto da te col coltello e me lo sono riportato indietro senza usarlo!.” Si versò un altro bicchiere e lo alzò in aria con gesto di brindisi.

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SCACCO MATTO Carissimo papà, questa è l'ultima lettera che riceverai da me. È brutale quello che sto per dire, forse terribile, ma è troppo forte ciò che sento dentro perché riesca a tenermelo in corpo. Non credo che riuscirai a capirmi ed ad intuire il senso di questa mia lettera. Penso, anzi, impossibile che afferri una minima parte di quello che ti dirò. Vorrei spiegarmi ma credimi, non sono io che impongo alla mano in questo momento di muoversi a piccoli scatti in modo che la penna corra più velocemente. Una cosa voglio immediatamente dirti: avrei tanto voluto imparare a giocare a scacchi come giochi tu. Ricordi? Cercavo di impegnare il fronte avanzato alla ricerca di una bella, facile vittoria e non mi accorgevo che tu intanto, con torri e alfieri insidiavi mortalmente il mio re. Avanzavo i miei pedoni cercando il colpo ad effetto, la forbice tra la regina e l’alfiere o la percussione delle torri, aprivo varchi tra le tue file cercando di trovare la breccia per incuneare le mie forze tra le tue fila. Mi arrotolavo intorno all’idea iniziale e cercavo di svolgerla come un chiodo fisso. La tenacia deve premiare, mi dicevo, ma non mi accorgevo che, mentre io avevo davanti ai miei occhi la pretesa e la certezza di arrivare ad assaporare la vittoria, tu intanto, tramavi con le tue ragnatele logiche e perfette misurando passi e pedine in modo da avvolgermi in un intrico dal quale non mi sarei mai potuto liberare. Che sconfitte brucianti mi hai dato! Le mie azioni, i miei gesti, le mie parole, i miei pensieri, tutto di me, non riesce a vedere intorno. Poi, come in un cielo di nubi dense di pioggia, un solo fulmine squarcia il cielo e rischiara l'universo. Mi domando chi guida i fulmini ora qui ora li. Me lo chiedo con tanta ostinazione da rasentare talvolta l'angoscia. Tu, però, sapresti rispondermi. Dall'origine fisica del lampo ridurresti tutto alla 102


relazione di causa ed effetto. Perciò io credo di non sbagliare se penso che tu ora non potrai capirmi. Tenterai di vedere dentro di me, di analizzare dettagliatamente i fenomeni che hanno potuto impressionarmi, sia interiori sia esterni, ed arriverai ad una soluzione facile, elementare. Sì papà, la tua logica si ridurrà ad una sola frase. E' pazzo. Ti vedo sai, seduto dietro la tua bella scrivania scura. Le carte intorno a te sembrano fili della tua barba grigia. E' il lume che aiuta le tue vive pupille rischiara un'aureola di vita vera. Vita santa. Sì papà, lasciamelo dire una volta sola, tu sei un santo. E io qui ti strapperò il cuore con questa lettera. Io sento arrivare lentamente la morte, forse è già qui davanti a me che chiama con voce diafana, trasparente. Andrò con lei papà. Non chiedermi il perché, non saprei cosa dirti, mentirei. Domani il postino busserà da te ed io, invisibile, sarò lì. Impotente, a struggermi per il dolore che ti ho dato. Ecco. Ora la regina da scacco. La mia partita ultima sarà questa. Sui suoi cavalli freddi, porosi di neve bianca io salirò le vette irraggiungibili dell'infinito. Salirò verso quel cielo che non ho mai visto ma tanto, sempre desiderato. Le tue lacrime faranno da gradini alla mia gioia crudele. Ecco la regina che avanza. Non posso sottrarmi a lei, al suo invito così pieno di promesse liete. Non oso chiamarla con il suo nome tremendo ma tu sai di chi parlo. Papà non piangere troppo. Non pensare a me, a te, a tutto ciò che mi circondava e che ora circonda te. Vedi? Sono solo fulmini che cadono dal cielo come scintille dolorose di fuoco. Anche l'anima impastata di cenere è bruciata da tanto calore. Ora non resta che un piccolo saluto, l'ultimo scacco al re, quello matto. Addio!

BLUES 103


Il ragazzo si avvicinò al tavolo di legno, posò lentamente il boccale di birra e si sedette. Guardò in giro per il locale, sembrava distratto. Poi si voltò verso Manuela, la guardò negli occhi e disse: “Lo sai quando è nato il blues?” Manuela disse: “No”. “ Bè, nello stesso momento in cui Adamo vide per la prima volta Eva”, disse il ragazzo. “Balle” disse Manuela. E lo disse quasi con rabbia come se il ragazzo l’avesse offesa. Poi si allontanò da lui. Il ragazzo si portò alla bocca il boccale di birra e la guardò destreggiarsi nel locale attraverso i tavoli vuoti. Non c’era nessuno, tranne l’uomo dietro il banco che lavorava con noncuranza alla pulizia di bicchieri e posate. Il locale era semibuio e Manuela si avvicinò al pianoforte situato nell’angolo di una nicchia interna al locale. Si voltò come per lanciare un guanto di sfida. Sollevò il coperchio del pianoforte e posò una mano sui tasti. Accarezzò quelli neri. Poi rivolse nuovamente la parola al ragazzo: “ Adamo era un bianco!”, esclamò. “ Il blues è nero. Come questi tasti. Tu non lo puoi sapere perché sei molto giovane, ma io posso dirti che questo è l’inizio del blues.” Così dicendo premette due volte il sì bemolle della prima ottava della tastiera. Nel vuoto del locale risuonarono cupe e nitide le note e Manuela sollevò le mani dal pianoforte osservando il ragazzo. Questi si alzò e si avvicinò al banco con il boccale di birra vuoto. Se lo fece riempire dal barman di nuova birra e andò nuovamente a sedersi al tavolo che già occupava. “ Chi sei tu?” Chiese rivolgendosi a Manuela. 104


Lei abbozzò un sorriso enigmatico. Gli occhi erano, però, velati da una malinconia lontana che proveniva direttamente dall’interno del suo corpo, come se questo, l’interno, dormisse sotto una coltre di cenere che si sollevava quando respirava e sembrava fuoriuscire dagli occhi. Traspiravano cenere anche le pupille cerchiate di un grigio che tendeva all’azzurro opaco. Il sorriso si sciolse come quello della Gioconda in un impercettibile e ironico movimento delle labbra. “ Non mi riconosci? L’hai detto tu prima. Io sono Eva.” “ Allora avevo ragione” disse il ragazzo con un sorriso compiaciuto. “ Le tue due note sono il blues d’Adamo ed Eva e del loro triste amore.”. “ Non ti scaldare troppo ragazzo! Non è affatto così!” Manuela rise di un riso argentino e allegro. E il suo trillo si propagò per tutto il locale buio e deserto trasformandolo in un allegro carro in cui danzavano colorate ballerine, festose come in carnevale. “ Anche per un funerale si può ridere e cantare,” continuò poi, “non solo per l’amore. E se ascolti bene vedrai la tristezza: i campi di cotone e gli schiavi neri, e i locali di New Orleans, e le donne e gli uomini sudati e stanchi, e i loro figli che zappano i terreni e lo impregnano del loro sudore, e i fiumi con gli argini colmi di gente a tirare le chiatte col sale, e le notti fumose e la marijuana, e le ferite e le trombe e l’odore del sangue e della morte”. “ Come mai sai tutte queste cose. Sei forse nata a New Orleans?” “ No. Sono nata in una grangia di una vallata veneta. Mio padre si ubriacava tutti i giorni e per divertirsi mi picchiava con la sua cinghia. Mia madre usciva il mattino dalla grangia e tornava la sera. Non sapevo neppure che lavoro faceva. Io badavo alle bestie e a curarmi i lividi che avevo su tutto il corpo. Però non era tutto così brutto come poteva apparire. Quando uscivo nella campagna d’inverno ed era tutto scintillante per la neve, mi sentivo anche io pulita e candida. Allora cantavo e mi piaceva cantare. 105


“ Come mai sei finita in questa taverna di questa città?” Lei si rivolse verso l’uomo dietro il banco delle mescite. “ Lui mi ha portato qui” “ Allora sei la sua donna” “ Te lo posso dire in confidenza: sì e no…” Manuela si fece di nuovo enigmatica ed il ragazzo sembrò incupirsi. Temette che lei volesse prenderlo in giro e non gli piaceva fare la figura dell’allocco. “ Non mi credi?” riprese Manuela, “ guarda che non sto raccontando storie. Lui mi ha salvato una volta e io per riconoscenza sono venuta a stare con lui. Ma lui sa che io sono libera come il fumo di una sigaretta. Non posso avere legami, è come l’anima del blues che avevi in mente tu. Vola per conto suo non appena vi sono i sentimenti giusti. Devi capire quali sono i sentimenti e poi capisci tutto”. Il ragazzo bevette di colpo la sua birra trangugiando di un colpo tutto il contenuto del boccale. Adesso sentiva una voglia imperiosa di conoscerla meglio. Voleva sapere qualche cosa di più di lei. Gli piaceva pensare che potesse prendere quel fumo e attirarlo verso una musica che lui sentiva dentro il cuore. Però annaspava alla ricerca di domande giuste che coinvolgessero Manuela in un discorso che aveva bisogno ancora di molte spiegazioni. Si accorse di affannare fino a quando lei, con le dita della mano destra, improvvisò un arpeggio che abbracciò i tasti alti dei pianoforte. Poi, con il dito medio della mano sinistra sbatté ritmicamente sui tasti bassi, sempre la stessa nota, il sì bemolle. “ Dove hai imparato a suonare?” Le chiese lui d’impeto. “ Ma io non so suonare. Questo è tutto quello che so fare. Basta ripeterlo per tante volte ed è bello lo stesso. Ti fa girare la testa.” Disse, mentre continuava a battere le stesse note.

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Il ragazzo prese il coperchio del pianoforte e fece per chiuderlo. “ Non voglio sentirti suonare. Voglio sapere la tua storia.” “ Mettiti a sedere dove eri prima. Arrivo subito. Ora devo cambiarmi d’abito per lo spettacolo. Il ragazzo si diresse verso l’uomo del banco. Chiese a lui “ Come vi siete conosciuti?” L’uomo non rispose subito. Sembrava riflettere sulla domanda per poter rispondere in modo adeguato alla domanda del ragazzo. Questi era in preda ad un’agitazione di cui non conosceva la causa. Voleva conoscere nei dettagli la storia di Manuela, ma, in fondo, ne aveva anche un poco paura come se si aspettasse dei risvolti troppo sciocchi che fugassero il clima di attesa e di desiderio che Manuela era riuscita a suscitare in lui. Perciò non insistette e non appena vide che lei tornava si avvicinò al tavolo di legno e riprese il suo posto. Si era fatto portare ancora della birra e Manuela si sedette al suo fianco. “ Perché vuoi sapere la mia storia?” Gli chiese. E lui rispose: “ Mi piace sentirti parlare”. Lei si era cambiata d’abito e adesso indossava un vestito leggero e una blusa che le lasciava scoperte le braccia. “ Osservami attentamente” disse, “ noti qualche cosa ?” Il ragazzo prese a squadrarla. Prima incominciò dal viso e notò com’erano fatti gli occhi e gli zigomi. Questi erano dolci e leggermente sporgenti. Davano la sensazione che la pelle vi ricadesse sopra come il velluto o la pellicola delle pesche, sofficemente. Il naso, con le narici piccole e leggermente dilatate, su una bocca senza alcuna traccia di rossetto. Una fossetta minuscola sul mento. Era incerto se considerarlo un bel viso oppure un viso interessante oppure un brutto viso. Si disse che era un viso attraente, che inspirava simpatia, e anche molto espressivo, poteva essere quello di un’attrice, perché sembrava predisposto a mutare atteggiamento ed espressione in modo repentino. Le braccia nude si 107


congiungevano ad un petto non formoso ma delicatamente abbondante. La camicetta si apriva con un piccolo colletto che accarezzava la discriminatura dei seni al principio dell’incavatura. “ Alzati” le disse in modo burbero e lei non si fece pregare. Si sollevò dalla sedia

e

fece

alcuni

passi

indietro

ancheggiando

mollemente

sulle

gambe

leggermente magre ma abbastanza proporzionate, poi fece una piroetta e ancora alcuni passi in avanti e altri indietro, tornando poi a sedersi con un atteggiamento civettuolo. “ Perché mi hai chiesto di guardarti. Vuoi che ti faccia dei complimenti?” “ No. Ti ho chiesto se non hai notato nulla di particolare”. “ Direi di no. Sei una bella donna. Desiderabile e inconsueta. Ma è tutto qui”. Manuela sporse un braccio in avanti e lentamente lo portò alla vista del ragazzo. All’altezza dell’avambraccio si notavano dei minuscoli punti neri. Il ragazzo capì subito. “ Ti droghi?” “ Devo essere fumo per sentirmi libera.” “ Allora sei infelice?” “ Io respiro. Vivo. Cosa vuol dire felicità? Quando senti una musica sei felice? La senti e basta. Non devi fare altro, perché tu in quel momento non ci sei più, sei altrove…Forse sui monti imbiancati, a preparare il mangime per gli animali, e le perle di neve ti aiutano a liberarti dalla fatica…le senti impalpabili sfiorarti il viso e le gocce che scorrono fin dentro le vene lavano e ti fanno dimenticare le cose che non vuoi ricordare…” Il ragazzo percepì qualche cosa ribollire nel suo petto. Il fiato si tese fino a diventare affannoso e la fronte si corrugò. Sembrava volersi preparare a fare una 108


guerra contro qualcuno o qualche cosa. Ma il bersaglio era mobile e non riusciva a prendere bene la mira. Forse era la ribellione verso l’incubo di un essere come Manuela che viene imbrattato dalla vita in modo tale da essere costretto a fare cose contro la propria volontà: il buio in cui Manuela era precipitata e dal quale il barista l’aveva salvata. Così aveva detto lei. Eppure, nonostante gli orribili momenti che si presentavano alla mente con straziante crudezza, gli occhi di Manuela non rivelavano nessuna guerra interiore, erano gli occhi di una ragazza serena, dolce, amabile, pronta alla concessione anche di se stessa, pronta all’abbandono. E in quel momento anche lui era pronto all’abbandono. Ora desiderava

ardentemente

che

i

loro

cuori

palpitassero

all’unisono

in

una

congiunzione completa di sentimenti. Ora che aveva capito il dolore. La birra sembrava più frizzante e gli lasciava in bocca un gusto paglierino, invitandolo a berne ancora. Manuela, di fronte a lui, gli parlava e gli sorrideva. Poi Manuela si alzò e si diresse nuovamente verso il pianoforte. Sollevò nuovamente il coperchio che il ragazzo aveva chiuso e riprese a battere gli stessi tasti di prima in modo sempre uguale e monotono. Lo invitava a gustare emozioni che lei percepiva nell’accarezzare i tasti del pianoforte. All’improvviso sembrò che la monotonia di quella musica ripetuta si sollevasse dai tasti e raggiungesse la volta del locale per poi irradiarsi attraverso le pareti permeandole di suoni come se queste fossero una cassa armonica in cui le note rimbalzavano le une contro le altre descrivendo parabole vibranti che si rincorrevano cristalline, per tuffarsi infine nel boccale che il ragazzo portava alla bocca. Quella musica si sprigionava libera come un fantasma notturno e lieve come la carezza di una piuma. E lui ascoltava e sognava. Il ragazzo sentì quelle note e si soffermò con il pensiero alla prima volta che aveva sentito un concerto del grande Armstrong. Gli sembrò che, assieme 109


all’arpeggio, riecheggiassero nell’aria le vibrazioni vocali del Grande Nero. Lo rivide con le gote gonfie riempirsi d’aria e di fiato, e poi cantare con la sua voce rauca St. Louis Blues. Ma gli arpeggi di Manuela non finivano più e le note trillanti provocate dalle dita della mano destra imitavano ora il gorgheggio di Ella Fitzgerald. Era la stessa tonalità e avevano uguale intensità. Chi era infine questa Manuela che evocava in lui quelle visioni di un tempo andato, che gli facevano vibrare le corde interne talmente intensamente da averne paura? Se lo domandò con apprensione e solo allora ebbe una percezione. Si rivolse al barista e gli chiese di dargli il suo clarinetto. Si avvicinò al pianoforte e sulle note della musica suonata da Manuela improvvisò il suo concerto. Suonava con gli occhi chiusi, rapito dalla melodia che riusciva a sprigionare dal suo strumento. Vedeva, avendo gli occhi chiusi, Manuela imprigionata nelle pareti domestiche tiranneggiata da un padre violento, la vedeva imbrigliata da un uomo al quale doveva una riconoscenza vitale per lei, ne vedeva il volto liberato dall’angoscia, mentre cantava. Vedeva tutto questo e altro ancora perché insieme vi erano personaggi ambigui, figure alle quali Manuela si era concessa per riuscire a vivere, pur mantenendo intatta la sua freschezza e bellezza. Ma l’anima, quella non riusciva a vederla. Allora si arrabbiava e scuoteva il clarinetto in su e in giù quasi aggrappandosi a lui nel tentativo di comprendere il mistero facendolo uscire dalle pareti troppo spesse e strette della sua carne. E suonò, suonò senza accorgersi

del

tempo

che

filava

via

come

una

locomotiva

e

intanto

era

sopraggiunta gente nel locale e lo ascoltava estasiata da tanto impegno. E solo alla fine, quando il locale era gremito di gente e sentì l’applauso che la folla aveva riservato alla sua bravura aprì gli occhi, desideroso di incontrare quelli di Manuela per godere insieme dell’applauso del pubblico.

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Ma Manuela non c’era. Rimase sbigottito guardando per un attimo intorno a sé, cercando gli angoli dove poteva essere scomparsa e non vedendola sentì un vuoto penetrargli fin dentro le ossa. Questo avvenne tutto in un minuto. La gente continuava ad applaudire, ma lui non sentiva nulla, nelle orecchie aveva ancora la musica sprigionata da quelle note del pianoforte ritmate e argentine.

Chiuse

ancora gli occhi inchinandosi leggermente nei confronti del pubblico e poi li riaprì definitivamente andando a posare lo sguardo verso il barista che gli fece cenno della mano con il pollice alzato in segno d’approvazione. Si sentì esausto e stanco come se avesse trasportato lui un’intera chiatta di sale spingendola con le proprie braccia. Manuela era scomparsa e con lei il sogno, la sua Eva, la musa ispiratrice.

LA CAPRETTA DEI SETTE FRATELLI

Arriva un momento nella vita in cui si fanno delle riflessioni su ciò che è stata l’avventura in questo mondo. È una specie di sintesi di tutto quello che ci è

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capitato e di quello che abbiamo fatto di buono o di cattivo. Un resumè, una sinossi semplice che passa attraverso la mente con la serie di ricordi, a volte velati da melanconia, a volte allegri e spregiudicati, e che dopo un percorso più o meno breve d’immagini si ferma nel cuore che, secondo i casi, accelera i suoi ritmi o li rallenta. Può darsi che non siamo soltanto noi umani a vivere questi momenti particolari della nostra vita, e che gli animali abbiano una vita sentimentale analoga alla nostra se non ancora più intensa. Ricordo che avevo appena quindici anni quando mio padre mi portava con se intorno ai boschi dei Sette Fratelli. Vi era la capra più affascinante della zona. Il suo mantello era liscio come quello di un cervo. Il suo manto era completamente bianco e aveva un’unica macchia nera, quasi un vezzo che le ricopriva un occhio e andava a finire su una parte della spalla destra. Lei se ne faceva quasi un vanto e quando voleva farsi apprezzare si metteva in posizione in modo che la macchia facesse risaltare l’occhio a mandorla con la grande pupilla pensosa. Si poteva ammirarla sui cigli più pericolosi della montagna a ridosso di profondi burroni dentro i quali sembrava poter precipitare da un momento all’altro. Aveva il portamento regale di una leonessa e la forza di un mulo. Le gambe s’inerpicavano lungo le pareti rocciose della montagna saltando di pietra in pietra, mentre l’occhio inseguiva l’istante in cui, immediatamente dopo il primo salto, avrebbe spiccato il secondo. Ancora in volo, sapeva già dove approdare e con un semplice sguardo aveva calcolato meglio di un ingegnere elettronico il tempo, la resistenza agli agenti atmosferici, la probabilità di caduta, il possibile smottamento della roccia, la velocità del vento, l’impatto della sua forza con il suolo.

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Si poteva scorgerla sulle vette dei monti e sui picchi più alti, anche la notte, quando si stagliava sulla luna creando una suggestione che faceva venire i brividi. Eppure venne anche per lei il momento in cui l’età fece sentire il suo peso e le ossa diventarono fragili. Un giorno cadde e nel cadere si fratturò una gamba e non poté più saltare. L’istinto le fece compiere un movimento brusco per alzarsi, ma si dovette sdraiare nuovamente perché un dolore impossibile da resistere gli trapassò la gamba fratturata andando ad incidere profondamente sul suo cervello. Rimase allora ferma,

immobile,

quasi

aspettando

che

sopraggiungesse

la

morte.

Senza

camminare, infatti, non poteva fare nulla. Si addormentò e si svegliò la mattina presto. Capì che per lei era arrivata la fine e si mise ad attendere che questa arrivasse. Aveva solo un gran desiderio: sale. Il palato sentiva il bisogno di leccare qualche cosa di salato e intuiva d’istinto che quella sostanza sarebbe stata la sua salvezza. Il sale avrebbe fortificato e cicatrizzato dall’interno la ferita, ridandole le forze per potersi alzare e camminare nuovamente in modo da potersi procacciare il cibo necessario alla sua sussistenza. Chiuse gli occhi e rimase nell’attesa e non seppe se passarono i giorni e le notti e quante ne passarono via. Stava indebolendosi sempre più senza possibilità di nessun aiuto e presto sarebbe stata preda d’animali feroci e spietati di cui incominciava a sentire la presenza nei dintorni. Si svegliò alla carezza di una lingua che ripetutamente le leccava il viso già stanco. La riconobbe. Era la capretta che cercava di imitarla, quando lei era possente e in forze. La seguiva dappertutto cercando di spiccare gli stessi salti che compiva lei. La imitava in ogni suo gesto e prendeva la rincorsa per saltare dietro di lei, quasi per gioco, a misurare le proprie capacità e a gareggiare in bravura.

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Ora era lì che la leccava e forse sapeva ciò che le era capitato. O forse no, perché ad un tratto sparì e non la vide più. Stava per morire, ma la capretta arrivò. Aveva fatto una corsa forsennata per arrivare alla strada asfaltata. Aveva percorso vallate, dirupi, colline. Superato ruscelli e guadato acque. Oltrepassato cespugli, arrampicato erti pendii ma, alla fine, aveva trovato l’asfalto. Stava per cadere sotto le ruote di un’auto lanciata a folle velocità, ma lei con un guizzo riuscì ad evitarla. Si fermò solo davanti al mucchio di sale che i lavoranti avevano depositato per rendere meno ostile la neve dell’inverno. Ne prese con la bocca alcuni grumi, tutti quelli che riusciva a mantenere nella bocca e rincominciò il percorso che aveva fatto all’andata, ma con più velocità, quasi presagendo che da lei dipendeva la vita della capra invalida. Arrivò in fine che aveva la bava alla bocca, ma era stata capace di tenerla chiusa nonostante avesse più volte desiderato aprirla per inspirare a pieni polmoni l’aria di cui aveva bisogno per riprendere fiato. Aveva resistito ed ora poneva i piccoli granelli di sale sulle labbra secche e calde della capra morente. Questa riaprì ancora una volta gli occhi quasi in segno di ringraziamento per la generosità della sua giovane allieva. Vide che la piccola sorvegliava tutta la zona, con le gambe ben ritte e la testa alta, lo sguardo fermo e deciso, e con la forza che sprigionava dal suo portamento eretto, degna rappresentante di quella razza fiera che vagabondava senza vincoli nei boschi, quasi a simboleggiare la libertà. Non possiamo sapere ciò che le passò per la mente in quei pochi momenti che precedettero la morte, ma è bello credere che chiuse gli occhi felice nella convinzione che la sua vita non era trascorsa invano. PASSIONE

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Passione. Che sarà mai? C’è la tentazione. E come resistere a mezzogiorno, dopo un bagno di mare, una doccia d’acqua dolce, un rosso bicchiere vicino, e lei. C’è anche lei ma non è la protagonista. I fondali azzurro chiaro intorno alle irsute rocce e gli anfratti scuri dove la sua esistenza trascorre felice in una dimensione atipica. È lei la dolce, amara, ambita preda. C’è il desiderio folle di possesso che le papille gustative e l’ingoiare lento producono sulla realtà gastro cervicale. Il cervello si annienta e l’occhio rimira piacevolmente i gusci screziati e porosi che sembrano provenire da abissi impenetrabili e contenere preziosi e ambiti premi perlacei. La luminosa brama giustifica l’esaltazione. C’è

la

paura.

A

posteriori.

Tremenda.

Vigliacca

perché

suscitata

dopo

l’appagamento dei sensi. Terribile perché ne capisci la punitività. Orribile per tutti i sensi. Ma è certo che lo rifaresti. Perché sono poche le soddisfazioni maggiori d’una mangiata d’ostriche con un pizzico di sale, pepe e limone.

LA LEGGENDA DEI GIGLI DI MARE ( dal romanzo La guerra del pellicano)

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Durante una invasione di saraceni, le cui scorrerie erano anticamente molto frequenti sulle rive della Sardegna, questi approdarono proprio in quella spiaggia e di lì si spinsero all’interno della vallata depredandola di tutto quello che riuscirono a trovare. Una fanciulla bionda pascolava un gregge di pecore e allorché vide i saraceni invadere la spiaggia corse a radunare le sue pecore per fare rifugio nel Nuraghe ove era asserragliata la sua gente. Ma non fece in tempo perché le pecore camminavano lentamente e lei non volle abbandonarle. I saraceni la immobilizzarono con la forza e la rinchiusero nella stiva della loro nave, sgozzarono le pecore e fecero un grande banchetto. Quando furono sazi di mangiare e di bere, dopo aver fatto razzia di tutto quello che di utile avevano trovato intorno, risalirono sulle loro navi per ripartire e il loro capo si fece portare la fanciulla bionda e cercò di ottenere le sue grazie facendosi galante e premuroso. Ma lei rifiutò le sue profferte e quando lui tentò di prenderla con la violenza si ribellò. Aveva un carattere forte orgoglioso e fiero. Si difese con tutte le forze e nel dibattersi con la furia della disperazione, gli cavò un occhio con le unghie. Allora egli, orbo, sanguinante e in preda all’ira che lo rese quasi folle, disse ai suoi uomini di torturarla e di ucciderla. Questi ubbidirono e, con sadico piacere, le strapparono uno ad uno i capelli della testa con le loro radici, e quando non ebbe più capelli in testa le strapparono i peli dal pube facendole soffrire le pene dell’inferno. Quando morì la buttarono in mare. Il suo corpo arrivò sino a riva e i gabbiani le volarono intorno. I suoi capelli e la sua bionda peluria si mischiarono con la sabbia e la loro linfa fu ancora così forte che da essi presero vita i gigli di mare 116


che hanno il cuore giallo come i capelli della fanciulla. Ma essi sono anche cosĂŹ fragili e delicati che basta strapparli dal suolo per vederli morire.

IL PESCATORE E IL CANE ( dal romanzo La Guerra del Pellicano)

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“......C’era una volta un pescatore e il pescatore tornò dal mercato dopo aver venduto tutti i pesci che aveva pescato. Lo avevano pagato bene e aveva ricavato un bel gruzzolo, ma non era felice. Mentre rientrava alla sua barca pensava alla sua “Domenica”. Era appena nata quando l’avevano lasciata sul ponte della sua barca. Appena la vide pensò che fosse un pesce dimenticato. Ma poi si accorse che era un cucciolo di cane e che aveva fame perché guaiva. Gliela avevano portata di domenica e perciò lui la chiamò “Domenica”. Andò a prendere del latte e per farla succhiare, in modo che non morisse di fame, intinse un angolo del fazzoletto nel latte e poi le aprì la bocca e gliela inumidì. Questo per un paio di volte e per tanti giorni. Fino a quando Domenica incominciò a mangiare del pesce che lui le preparava tritando in pezzetti finissimi la polpa bianca e badando a eliminare le spine una a una. Le aveva preparato la cuccia in una cesta vuota che riempì di stracci ma quando lei crebbe un pochino preferì andare a dormire dentro uno stivale del pescatore. Al mattino Domenica lo svegliava presto e doveva fare attenzione anche a non prendersi in testa le scarpate che lui le tirava addosso per essere stato svegliato. Ma dopo la prima sfuriata lei lo guardava piegando da un lato la testa e abbaiava sottovoce come se volesse dirgli “ dormiglione andiamo, è ora di iniziare il lavoro”. Ora non c’era più. La notte prima, il pescatore, dopo aver tirato le reti a bordo come faceva tutte le notti, accese il motore e si preparò a rientrare. 118


Quando si accorse che Domenica non c’era la chiamò perché gli sembrò strano che non fosse in mezzo ai piedi a giocare magari con qualche polpo. Ma Domenica non arrivò al richiamo e allora il pescatore la cercò su tutta la barca ma purtroppo non riuscì a trovarla. Gli venne il sospetto che potesse essere caduta nell’acqua durante qualche scossa improvvisa e scrutò il mare aguzzando la vista per guardare il più lontano possibile. La chiamò ad alta voce gridando il suo nome ed aspettando qualche risposta, ma non sentì niente. Voleva fare dei giri concentrici per cercarla, ma poi pensò al pescato, al tempo che avrebbe impiegato, e quindi perso, e al mercato che aspettava l’arrivo dei pescatori per comprare i pesci ancora vivi. Certo, poteva attendere e venderli un po’ più tardi, ma ne avrebbe ricavato molto meno perché, a volte, per il ritardo, si spuntava un prezzo molto più basso, e talvolta non si riusciva nemmeno a venderli tutti. A malincuore decise di rientrare. E mentre si dirigeva al porto cercava di consolarsi della scomparsa di Domenica dicendo che in fondo era soltanto un cane e che ne avrebbe trovata un’altra come lei. Sperava solo che non fosse affogata e che magari riuscisse a salvarsi aggrappandosi a qualche tavola galleggiante sulle onde. Ma quando arrivò in porto e legò la barca al molo dei pescatori e non la vide saltare a terra come faceva sempre capì che l’aveva persa per sempre e il cuore gli si chiuse dalla tristezza. Dopo aver venduto i pesci, con il portafoglio gonfio, risalì sulla sua barca e cercò inutilmente di scacciare dalla mente quel pensiero. Era abituato a preparare da mangiare per tutti e due e lei lo guardava mentre lui puliva le lische dei pesci, e aspettava il suo turno senza perdere una sola mossa

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dei preparativi. Poi le riempiva la ciotola d’acqua e infine, dopo mangiato, arrivava l’ora di andare a dormire. Invece quella notte l’ora non arrivava mai. Il pescatore ogni tanto si voltava verso il mare, guardava fino all’orizzonte e sbirciava con la speranza di intravedere la testa arruffata di Domenica spuntare dall’acqua. Passavano le ore e lui continuava a non darsi pace. Incominciava a maledirsi per non essere stato capace di fermarsi in mare e cercarla come aveva avuto intenzione di fare. Ad un certo punto non resistette più: accese il motore e si avviò verso il mare aperto. Arrivato ad una certa distanza accese le lampare e incominciò a fare quello che non aveva fatto la notte prima. Nel punto in cui aveva pescato, iniziò a remare e ad andare su e giù e a fare tratti sempre più lunghi, scrutando nel buio. Ma nell’acqua si scorgevano solo ombre che talvolta lo accendevano di speranza. Rimase cosi tante ore. L’umido della notte lo aveva impregnato tutto e lui si asciugava il volto bagnato con il dorso della mano. Ed erano lacrime quelle che gli rigavano il volto. Si maledì mille volte per essere stato così crudele solo per i soldi, e decise di fare una cosa: prese il suo portafogli e ne trasse tutti i soldi che aveva guadagnato con la vendita dei pesci la sera prima, li mise nella cesta dove Domenica dormiva tutte le notti e la calò in mare. Non poteva fare altro ma sentiva che quel gesto era dovuto. Alzò gli occhi umidi di pianto verso il cielo stellato e in quel momento vide una stella che si staccò dal firmamento e andò a tuffarsi in mare, mentre la cesta affondava,

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lasciando sul pelo dell’acqua i biglietti di banca che ad uno ad uno si disperdevano sempre più lontano, rischiarati dalla luna, come barchette d’argento. Rientrò stremato dalla fatica e dal dolore e più vecchio di tanti anni e con una tristezza infinita. Si stese sul suo giaciglio incapace di pensare ad altro se non alla sua Domenica. Gli sembrava persino di sentire il suo abbaiare sommesso, come faceva sempre quando aveva fame. Era talmente assorto nel sentire quell’abbaiare che aprì gli occhi. Domenica era di fonte a lui: viva, bagnata, scodinzolante e affamata. Lui la afferrò, la strinse al petto e pianse lacrime, questa volta di gioia e di consolazione. La sua sofferenza aveva provocato il miracolo. Nel ringraziare il cielo per averla ritrovata sana e salva il pescatore giurò che non l’avrebbe più abbandonata, neppure per tutto l’oro del mondo.”

IL PROFESSORE DI FILOSOFIA 121


Entra in aula con un severo cipiglio d’occasione stampato sul volto abbronzato dal sole di una piccola vacanza di tre giorni passata in montagna dai suoi genitori. Il cancelliere informa i presenti che il giudice affronterà la causa numero cinquantadue che vede imputato il signor Minio Casula, professore di filosofia alla scuola media di un borgo grosso e ricco del Campidano di Cagliari. Il giudice entra e si siede al suo scranno. Osserva con curiosità dall’alto della cattedra il vecchio professore. Ha avuto occasione di leggere il fascicolo relativo al suo caso e sogghigna tra sé. In realtà prova per l’imputato un sentimento simile all’odio. È ancora vivo nel suo cuore quello che, tanti anni prima, gli ha fatto patire. Non solo con un comportamento chiaramente ostile nei suoi confronti, ma anche con la denigrazione a tratti offensiva che lo metteva in ridicolo con i compagni e le compagne di scuola. Ricorda bene Bonetti alcuni episodi che allora avevano avuto la forza di farlo piangere di rabbia e di dolore! “Bonetti, il suo comportamento è quello di un pederasta!” aveva detto proprio così. E quelle parole che gli si erano appiccicate addosso come un marchio vergognoso, erano state sentite, purtroppo, anche dalla saporosa Carmen, la sua desiderata compagna di studi. Perché poi? Semplicemente perché nel tema in classe si era rifiutato di scrivere, per pigrizia, quello che il maestro aveva chiesto per poterne fare poi oggetto di dibattito: non ci può essere democrazia senza libertà. Lui aveva invece scritto che la giornata era talmente bella e piacevole che, anziché impegnarsi con il tema tra la storia e la filosofia sarebbe stato meglio andare a spasso per i giardini. Non era stato un peccato tanto grave da meritare quel rimprovero così umiliante. Dopotutto anche quella frase era la dichiarazione di un 122


sentimento di libertà. Ma il professore l’aveva presa male e aveva accentuato, da quel giorno, la propria avversione verso di lui. Così, il primo ad essere preso di mira quando la scolaresca scioperava per qualche episodio politico o per qualche rivendicazione studentesca, il primo ad essere punito era sempre lui. Di questo non si capacitava perché, nonostante il suo carattere, certamente non semplice e accondiscendente, non gli pareva tale da giustificare quella condotta punitiva nei suoi riguardi. Così ora lo guarda dall’alto dello scanno e assapora il gusto della vendetta, della contro umiliazione. Gli fa ripetere due o tre volte il nome e il cognome, godendo il sapore della rivincita seppure tardiva. Vuole cucinarlo a fuoco lento per far durare il più a lungo possibile la soddisfazione di essere dall’altra parte, da quella del più forte. Ora che le parti sono invertite può permettersi di sbizzarrirsi e fargli fare la figura dell’imbecille davanti al pubblico che assiepa l’aula. Il professore di filosofia lo guarda senza riconoscerlo. Lo sguardo non si sofferma più di tanto sulla figura di Bonetti e perciò non lo riconosce. Gli occhi sono per lo più fissi sul pavimento e si sollevano solamente quando si sente interrogato. Allora sembrano destarsi da un sonno e riprendono vitalità e lucentezza. Poi, esaurita la risposta riprendono l’acquiescenza abituale. Il

professore

sull’improvvisazione

aveva e

sul

sempre

insegnato

movimento

il

primato

coltivando

quel

della

metodicità

sentimento

nella

convinzione che fosse una importante difesa contro i pericoli di sofferenze che la vita, inevitabilmente, infliggeva a tutti, prima o poi. Osservando costantemente quel principio filosofico di rifugiarsi nella abitudinarietà, esplicitava, non solo si ergevano barriere a difesa della propria incolumità morale, ma si moltiplicava il tempo perché la mente sviluppasse i suoi pensieri. La maggior parte dei ragazzi, 123


invece, impulsivi e naturalmente amanti della azione e del moto, contestavano quel principio con le parole e con i fatti. Il professore, però, non demordeva. Bonetti ricorda bene le sue lezioni. Stronzate, le definiva. Ora però, più maturo negli anni, qualche cosa gli è rimasto impresso e anche gli sembra di averne assimilato una parte. E ripensa alla sua vita che è stata abbastanza difficile. Proveniente da una famiglia di modeste condizioni sociali ed economiche ha fatto dei sacrifici notevoli per arrivare a prendersi la laurea e a perfezionarsi prima di abbracciare la carriera della magistratura. Il primo impatto è stato a Torino. Maestra di vita forense per lui e anche per molti altri. Soprattutto per i contrasti tra operai e padronato. Torino era stata un’impegnativa e faticosa scuola che lo aveva arricchito d’esperienza, di idee e di principi. Ma la sua vita personale, quella si era impoverita. La sua mente che prima era libera e spaziava nel desiderio giovanile di avventura si era come sterilizzata. Il cielo opaco aveva preso il posto del cielo assolato e con questo i suoi pensieri si erano intristiti e ingrigiti. A Torino aveva trovato moglie. La figlia ricca di un noto imprenditore di caffè che gli aveva spalancato le porte della società dorata di quella città. E lui ne aveva approfittato per intrecciare relazioni ed amicizie altolocate, senza però ricavarne particolari gioie o piaceri. Tanto che ad un certo punto, nonostante le reiterate proteste della moglie, decise di chiedere il trasferimento nella sua terra d’origine. Sentiva impellente il bisogno di riappropriarsi dei giovanili sogni d’avventura e di quella sua affabilità di un tempo che non riusciva ad esprimersi in una città nordica dai comportamenti tanto diversi da quelli più consoni alle sue origini e alle primitive abitudini. Ma il trasferimento al Tribunale di Cagliari non sortì il risultato sperato. Capì che ormai le radici con la sua terra d’origine si erano spezzate e che non 124


avrebbe mai più ritrovato le stesse soddisfazioni che trovava nei comportamenti di un tempo. Ben presto si stufò di questa situazione, resa più difficile dalle malinconiche proteste della moglie, e si ripropose di ottenere nuovamente il trasferimento a Torino. Cosa che gli riuscì grazie al suocero che brigò tra i suoi conoscenti in modo da far rientrare la figlia vicino ai genitori. Anche questo passo si rivelò però un fallimento. E anche il matrimonio andò a rotoli. La moglie lo lasciò per stanchezza. Non sopportava più le immusonite recriminazioni del magistrato e il suo comportamento sempre più chiuso ed immusonito. Lo lasciò per un altro uomo e Bonetti decise allora di rientrare definitivamente nella sua terra d’origine, pur essendo conscio che, d’ora in avanti, avrebbe ottenuto ben pochi motivi di soddisfazioni. La sua carriera poteva, infatti, considerarsi ormai terminata con questo ultimo trasferimento e giocoforza dovette adattarsi coartando un po’ la sua indole al nuovo corso della propria vita che sarebbe stato quello definitivo.

Tutto questo gli passa per la mente mentre osserva il professore di un tempo, quello che gli aveva predetto una vita stentata e priva di soddisfazioni, che lo aveva trattato con dispregio e che, però, in fondo, aveva indovinato le amarezze di una vita vissuta all’insegna di stravolgimenti continui, privi di metodicità. Ora l’aveva in pugno e avrebbe sfogato su di lui tutto il malumore covato in tanti anni di ambizioni represse di malumori sopportati, di angustie, di tribolazioni morali a causa della diversità di censo tra lui e la moglie, di sopportazioni confuse e di spiacevoli e continui episodi di terribile insofferenza alla vita, così diversa da quella a lui congeniale. “ Quale è la sua professione?” “ Insegnante.” 125


“ Cosa insegna?” “ Filosofia.” “ Professore di filosofia. Perbacco! E nonostante il suo sapere si è trovato invischiato in una vicenda come questa?” Il professore Minio alza gli occhi a fatica. Quella avventura lo sta stancando più del previsto e non riesce a capacitarsi di come sia potuto accadere. Ha vergogna e la sua indole mite si richiude a riccio ma rifugge dal cercare risposte pungenti. Il professore è accusato di pedofilia. Nel paese in cui insegna vi sono stati casi di bambini molestati da adulti e, non si sa come, qualcuno ha ipotizzato che il professore di filosofia della locale scuola ami accarezzare i piccoli un po’ troppo benevolmente. La calunnia è un venticello e quel vento ha travolto il professore sotto forma di una denuncia anonima arrivata in questura e trasmessa poi per competenza al tribunale di Cagliari. “ Può dirmi il suo punto di vista su i fatti che gli sono addebitati?” Il professore risponde con poche parole. “È tutto falso.” Ma il giudice lo guarda sornione come se volesse giocare con lui e aspettasse di afferrare la sua coscienza come il gatto fa trastullandosi con un essere vivente prima di ghermirlo definitivamente per por termine al gioco. “ Mi risulta che la sua condotta è del tutto abitudinaria.” “ È vero. È il mio principio di vita. L’abitudine.” “ Anche verso i piccoli?” Il professore diventa rosso. Il giudice gli ha inferto un colpo terribile che, come uno sgambetto, lo butta giù senza alcun riguardo, nemmeno per l’età. Per un attimo incrocia gli occhi del giudice e una luce beffarda gli ricorda qualche cosa. 126


Un ragazzo. Cerca nella sua memoria, fruga cercando di mettere a fuoco qualche cosa che deve far riapparire dalla profondità della sua coscienza e che a fatica viene a galla lentamente ma in maniera precisa. Certo! È lui. Il piccolo delinquente della sua classe di tanti anni fa. Bonetti. Si chiamava Bonetti. Era uno di quelli che non prestavano orecchie alle sue lezioni di filosofia. Le credeva delle stupidaggini, delle cose che non servivano a niente se non a far parlare a vanvera un ciarlatano travestito da professore. Più volte avevano avuto parole dure e più volte lo aveva rimproverato aspramente per il suo comportamento. Ed ora eccolo che, a distanza di tanti anni, lo ritrovava nella scomoda posizione di imputato. Capisce che deve reagire. “ Si. Anche verso i piccoli.” “ Intende manifestazioni di …eccessiva simpatia e affetto?” “ Non eccessive ma normali.” “

Ritiene

normale

accarezzare

un

bimbo

ricavandone

soddisfazioni

sessualmente eccitanti?” “ Può essere per alcuni individui.” Bonetti intuisce che il professore non parla del suo caso e che intende rifugiarsi in una osservazione immateriale della realtà astraendosi dal caso concreto nel quale lui vuole invece inchiodarlo. “ Bene. Ammette che è possibile per alcuni individui. Parliamo di lei e della sua indole. Lei si sente attratto dai bambini?” “ Sono il seme della vita.” “ Non intendo in senso filosofico ma in senso fisico.” “ La filosofia è vita.” “ La prego di rispondere a tono.”

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Il professore intuisce che l’antico alunno sta per perdere la calma e che, però, deve assecondarlo per evitare di essere travolto dalla sua intemperanza. “ Chiedo scusa. Non intendevo eludere la domanda. La mia risposta è si. Ma non nel senso che…” “ Mi basta la sua risposta affermativa. Non aggiunga altro. Non le viene richiesto!” Rivolto poi al cancelliere detta: “ A verbale: richiesto se si sente attratto dai bambini, risponde di si.” Ora lo stenderà definitivamente con la domanda più imbarazzante. Quella che lo svergognerà davanti a tutta l’aula. Lo guarda dietro le spesse lenti che aiutano la sua vista da miope. Il professore ha i capelli bianchi. Non riesce a valutare precisamente la sua età ma certamente deve essere intorno alla sessantina. Sessanta anni trascorsi inutilmente in una vita priva di emozioni. Volutamente rifugiato in una specie di rifugio sentimentale che lo isola da tutto il resto e lo fa vivere in una specie di limbo, refrattario a incursioni sentimentali. Questo aveva sempre predicato quella mezza sega. Una specie di nirvana in cui adagiarsi da pusillanime rifiutando di combattere per sopravvivere e avere un minimo di successo, come aveva fatto lui nella sua vita di peripezie e di traslochi. Invece lui niente. Come i preti, avulsi dalla realtà quotidiana che li circondano, a predicare, parlare, sanzionare, blaterare. Ricorda per un attimo il tema al quale lui si era rifiutato di dare corso: democrazia è libertà”. Che palle! Cosa avrebbe dovuto scrivere per poter avere da lui un voto di sufficienza? Era chiaro a tutti che non vi può essere democrazia se non vi è contemporaneamente libertà! Che bisogno c’èra di scriverlo ancora. È un concetto che esiste dai tempi dei tempi, che ormai è digerito, è diventato parte integrante della nostra vita.

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Guarda il professore che tiene ancora gli occhi che indugiano verso il pavimento come se da esso traesse spunto per nuova energia. Perché non ribatte? Come mai se ne sta li quieto come se fosse lui il vincitore di quel perfido duello e non già il vinto? Lo sente sereno e in possesso di una forza derivante dalla serenità dei propri atteggiamenti. Forte come lui non è mai stato. In tutta la sua vita ha sempre agito in base a impulsi più o meno giustificati da alibi che si arrampicavano sugli specchi per poter reggere il confronto con la logica. Quale è invece la forza che sente in quell’uomo dal portamento dimesso, dalle risposte ossequiose, dalla mancanza di nervature apparenti? Se lo chiede ora che finalmente riesce a mette alle corde il suo vecchio professore. Perché sa che sta commettendo un sopruso. Sta forzando una risposta. Sta cercando con il suo potere di estorcere una confessione. E allora sente che ancora il professore tiene la sua cattedra e insegna ancora. Sente che è lui il giudice e lui l’imputato. E gli riappare il concetto democrazia vuol dire libertà. E ora gli sembra che avrebbe tante cose da dire da raccontare. Che forse il professore è libero ed è un vero democratico, che non teme l’ingiustizia perché lui è un giusto e nemmeno arriva a concepirla. Potrebbe dire che deve terminare quell’interrogatorio perché non può continuare a chiedergli conto di cose che lui non concepisce. Gli sembra che il vecchio professore sia ancora in cattedra a spiegare che dalla metodicità dei comportamenti arriva la vera giustizia perché essi sono basati sulla ripetitività collaudata dall’esperienza. E sull’esperienza si basa la storia. E cosa è la storia se non il passato che si fa presente in una simbiosi che determina le azioni dell’umanità. Ora capisce che il professore aveva ragione. Tutta la sua vita sarebbe potuta cambiare se avesse seguito i suoi insegnamenti.

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Questo è la sua vendetta ma non è la giustizia e se non è giustizia si va contro la libertà dell’individuo e non solo dell’individuo ma della società e allora non c’è più democrazia e se non cèè democrazia in una società non c’è niente che vale. Bonetti si leva gli occhiali guarda ancora il vecchio professore e gli sorride con aria bonaria, ma il professore continua a tenere gli occhi bassi in preda a suoi pensieri invisibili.

E il vecchio professore cerca di ricordare come era lui quando insegnava al ragazzo di allora il piacere della vita programmata dalla metodicità in confronto a quella scabrosa e insensata della imprevedibilità. Cullarsi nel quotidiano, alzarsi al mattino e prendere il primo caffè sorseggiandolo col gusto di rimettere in moto le funzioni cerebrali come se fosse benzina per il motore della mente. Sfogliare all’edicola all’angolo il quotidiano. Prendere il pullmann di cui conosceva il rumore ferrugunioso del suo meccanismo. Entrare a scuola riverito e salutato da colleghi e scolari. Scansare qualunque evento che potesse modificare quel percorso tranquillo, sereno, giusto. Perché era giusto, di questo non aveva mai dubitato. Era solito riprendere il comportamento agitato di quegli alunni che non vedevano di buon occhio quell’abbandonarsi alla metodicità dei comportamenti, preferendo ipotizzare una vita fatta di continue sorprese, questo lo sapeva bene. Aborriva le sorprese. Tutto doveva essere come un meccanismo oliato a perfezione in modo da non avere la possibilità di alcun attrito. Ma il ragazzo, allora non capiva questo concetto. Per lui, era chiaro, quel sistema di vita rappresentava la morte, e glielo aveva detto più volte nelle loro discussioni in classe. Allora erano discussioni pacate, che si svolgevano nell’intento di dimostrare, ciascuno, la prevalente bontà della propria tesi. Dalla mente venne fuori anche l’episodio più turbolento, quello che gli fece dire parole offensive nei confronti del ragazzo. Lo aveva volutamente 130


oltraggiato per smussare la sua boria giovanile che andava contro tutti i suoi principi. Se non avesse così profondamente reagito ne sarebbe andata di mezzo la sua autorità. Almeno così credeva allora. Oggi forse lo avrebbe giustificato. In fondo la sua mancanza era stata semplicemente quella di lasciare il foglio del tema in bianco. Erano però le poche righe che aveva scritto, che lo avevano mandato in bestia. Il concetto di libertà era stato travisato. Però, sempre di libertà si trattava. Lo aveva umiliato rimproverandogli la mancanza di serietà nel suo lavoro e dicendogli anche che nel futuro non avrebbe combinato nulla di buono. oltre l’offesa pesante anche la previsione fallace. Perché ora lo ritrovava sullo scanno del giudice che era riuscito a evidentemente a raggiungere con i propri meriti. Mentre lui …non aveva mai avuto il coraggio di cambiare. Neppure quando ne aveva avuto l’occasione, ed era stata un’occasione d’oro. Si sarebbe trattato di lasciare le sue abitudini di sempre per trasferirsi in una grande città da dove l’aveva chiamato una importante casa editrice per affidargli un compito di estrema responsabilità.

Se

avesse

accettato

la

sua

vita

avrebbe

avuto

un

seguito

probabilmente molto diverso. Invece non ne aveva voluto sentire e l’occasione era ancata perduta. Erano stati i suoi principi filosofici a farlo desistere dall’idea o piuttosto non era stata una forma di pigrizia mentale? Aveva sbagliato. Il ragazzo aveva dimostrato con i fatti che aveva vinto lui. I suoi concetti erano più validi di quelli del vecchio professore, e lui probabilmente doveva cambiare mentalità e pensare di aver fallito la sua missione.

Bonetti gli dice grazie. Il professore lo sente e alza lo sguardo verso di lui. Non capisce subito cosa vuol dire il giudice ma ora è lui a sorridergli.

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Possibile che non tremi di fronte alla possibilità di venire condannato di un reato infamante che lo avrebbe addittato a tutta la comunità come un essere vile, spregevole, dedito al più infamante dei vizi. Quale è la forza che deriva da tanta incoscienza? Forse ciò che il professore insegna e che lui non ha mai volutamente cercato di apprendere. Forse dovrebbe ripensare di più a quello che sono stati i suoi insegnamenti, quando predicava la serenità che deriva da comportamenti che trovano la loro ragion d’essere in comportamenti precedenti così da abbandonarsi agli stessi gesti di sempre come in un rituale benefico che addolcisce il trascorrere del tempo. Forse, ripensando al tema che aveva proposto allora e che era stato l’oggetto scatenante dell’oltraggio subito, democrazia e libertà, forse ora avrebbe potuto dire molte cose di più, con l’esperienza che aveva acquisito in tanti anni di professione. Cosa intendeva infatti il professore parlando di libertà e democrazia, cosa avrebbe voluto leggere nel tema che si era pervicacemente rifiutato di svolgere? E forse una lampadina si accende nel suo cuore e gli fa capire il perché della serenità del professore.

Giudice monocratico. La corte si ritira per deliberare. Libero convincimento del giudice. Deve deliberare secondo coscienza tenendo conto delle realtà emerse durante il dibattimento processuale. Sonetti non se la sente di condannare il vecchio professore. Ha capito che gli ha dato ragione e che, in realtà ambedue sono perdenti perché il loro equilibrio mentale è stato fuorviato dalle idee che ambedue hanno avuto nel passato. Se anziché insistere sulle loro posizioni fossero stati un pochino più malleabili e ciascuno avesse concesso qualche cosa di quelle che condannava con il ragionamento, le loro vite avrebbero avuto un percorso più regolare. Così venne stilata la sentenza: non doversi procedere per mancanza di prove certe di condotta riprovevole. 132


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