Benvenuti tra le nuvole africane, paradiso aeronautico dove i Cessna si usano al posto dei taxi, i piccoli aerei diventano Land Rover con le ali e i mono-motore si trasformano in biciclette del cielo con cui correre senza sosta tra il vento, la savana e le ere geologiche. Si volteggia come falchi tra spazi immensi e luci radenti, planando su praterie color dell’oro, terre argillose e branchi di bufali in fuga. Le distanze si accorciano, le velocità aumentano. Visioni d’aquila rivelano dimensioni nuove, tracciate da geometrie naturali impossibili da vedere altrimenti. I fiumi diventano serpenti di luce infiniti, le tracce di transumanza si trasformano in direttrici naturali e riferimenti geografici perfetti. Le montagne, i deserti e i laghi assumono colori e forme strepitose. Dall’alto si impara a riconoscere la storia della Terra. Cambiano le prospettive e l’Africa diventa una straordinaria cartina tridimensionale. D.S.
CITTA DEL CAPO - IL CAIRO
Due Cessna 210 14 mila chilometri 55 ore di volo effettive 21 giorni di safari aereo 10 paesi attraversati 9 mila litri di carburante 10 chili d’olio 26 campi di atterraggio differenti
PREFAZIONE
“Le parole sono come uova: appena schiuse mettono le ali” (Proverbio del Sahel)
Peter Pan aveva problemi con la sua ombra. "L’unico modo che hai di staccarti dalla tua ombra", disse Leunga, "è quello di saltare, come facciamo noi guerrieri nella danza". Leunga è un giovane rendille. Vive, più o meno, a Loiyangallani, un agglomerato di capanne semisferiche sulle rive del lago Turkana, nel Kenya settentrionale. In questa desolazione strappacuore, Leunga si muove come un ubriacone in miseria, prodotto dello scontro tra
educazione e tradizione. Una sera tardi biascicò, con lucida intelligenza, d’aver letto la storia di un vecchio pescatore che ci aveva messo giorni per portare a riva il pesce, per poi vederselo mangiare "da un coccodrillo, credo", come aveva detto con buona pace di Hemingway. Eppure, quando non veniva portato da me per essere benedetto dopo una malefatta (il padre era morto ubriaco), o non si trovava a prender legnate in gattabuia, Leunga si dipingeva il corpo di ocra rossa, recuperava da qualcuno le apposite collane di perline multicolori (le sue le ha vendute da tempo a turisti maledetti) e si univa ai guerrieri della sua classe di età. Si disponevano in fila, coperti dalle stoffe rosso sangue, davanti alle fanciulle e alla folla dei ragazzini adoranti. E andavano avanti a danzare verso il cielo, in balzi verticali. Un giorno chiesi a Leunga periii
ché non si convertisse all’Islam (speravo di allontanarlo dal micidiale distillato locale). "Ma hai visto come pregano quelli?", mi aveva risposto. "Mostrano il culo a Dio, mentre noi cerchiamo di raggiungerlo volando". In Africa, Dio è un creatore atarassico. Se ne sta lassù, disinteressandosi di ciò che ha fatto. D’altro canto, è Dio: mica è tenuto a occuparsi delle minuzie del comportamento umano. Ecco perché da Dio emana una sorta di piramide di potenza che incontra alla sua base, in un cielo basso vicino alla Terra, gli spiriti di natura (dal fulmine alle acque, dalla cima della foresta alla polvere ruotante nel deserto). Dagli spiriti emana un campo di forze, sempre in forma di piramide, ma rovesciata, che si muove ulteriormente verso il basso, no a colpire nel vertice l’individuo, per il bene o per il male. Sui tetti delle case in terra cruda dei Lobi del Ghana o dei Dogon del Mali ci sono appositi “condensatori di energia” per il controllo di questa piramide di forze. "Se si interrompe il flusso", mi aveva detto Datinte Hien, un anziano lobi di Djilengoura, "si taglia il cammino agli antenati: e questo è pericoloso". Cosa succede, allora, a volare attraverso la piramide? Si mozza il Cielo dalla Terra, istante per istante. La dan-
za di Leunga, guerriero rendille gonfio di alcool, riannoda i fili al cielo, recisi dai casi della vita o da un aereo di passaggio. La danza dei guerrieri finisce spesso nel trance, uno stato di coscienza modificata prodotta dall’iperventilazione e dall’eccitazione. Per stadi successivi si arriva all’allucinazione: è il volo sciamanico nel mondo dello spirito. Qui appaiono girandole di giraffe, spirali di uccelli, antilopi bicefale, buoi che piangono, teste che esplodono in milioni di puntini, esseri metà uomo e metà animali, cavalli volanti. Lo sciamano vola tra le metafore dello spirito. Tutto cominciò trentamila anni fa, dalle parti dell’Africa meridionale. Qui, come in Europa e Australia, l’alterazione chimica di coscienza, attraverso mezzi vari, portò per la prima volta l’uomo fuori da se stesso. Al termine del volo all’interno del cervello, gli sciamani cominciarono a disegnare sulle rocce ciò che avevano visto. L’arte rupestre è ciò che rimane di questi sciamani, partiti dai ripari sottoroccia dei monti Drakensberg, volati alla caverna Apollo 11 della Namibia, infilatisi nelle correnti ascensionali che li portarono a Kondoa in Tanzania, passando per le colline Matopo dello Zimbabwe; quindi seguirono il grande Rift africano, lasciando tracce graffite sulle lave del Turkana o nelle grotte della iv
Somalia. Poi virarono a occidente: gli sciamani-artisti invasero milioni di ripari e di pareti nei tassili sahariani di Libia, Ciad, Niger, Algeria, lasciando dappertutto le immagini del volo che, ancora oggi, qualche sciamano affronta tenendo in mano le “asce del tuono”, antiche pietre neolitiche che si trovano sparse sulle sabbie del Sahara. Tutti questi segni riempiono l’Africa da assai prima che altre genti inventassero la scrittura. È sbagliato cancellare l’Africa dalla civiltà solo perché, a nostro parere, “non sa scrivere”. Nelle raffigurazioni artistiche come negli oggetti di uso quotidiano, l’africano costruisce una relazione tra immagine e memoria, un linguaggio con una sua sintassi, dove sequenze e intervalli (decorazioni geometriche e pitture corporee), chiari e scuri (pareti in terra cruda e tessuti), figura e sfondo (maschere e costumi), policromia e materia (collane di perline e feticci), tutto ciò concorre a memorizzare e a elaborare concetti, fatti, storie. L’africano, come ogni essere umano, non ha uno sguardo neutro: gli oggetti che appaiono in questo libro riflettono l’immagine mentale del suo corpo e il concetto collettivo d’identità. In prospettiva “a volo d’uccello”. Ho conosciuto un maasai capace di volare. Si trattava di un il-murrani, un guerriero trasformista che accompagnava i turisti in mongolfie-
ra, al di sopra delle piane del Serengeti, in Tanzania. "Quando mi alzai da terra per la prima volta", mi disse aggiustandosi le treccine intrise di grasso e ocra rossa che tiene per piacere ai turisti, "mi venne in mente un proverbio: “L’occhio spacca le pietre”. Il mio occhio schiacciava le colline, ruotava i fiumi, rimpiccioliva i pachidermi, cambiava i colori. Tutti mi dicevano: “Vedi laggiù? Sono le colline Ngama! E quello è il Sand River! Là c’è Ol Doinyo Lengai. La montagna dove abita il tuo Dio!” E io vedevo solo piante minuscole da cui mi guardavano buffe giraffe nane, che nessuno avrebbe mangiato se non per stuzzicarsi l’appetito, in mezzo a sassi insignificanti. Poi vidi le capanne della mia gente. Erano come i giochi che fanno gli ilayok, i pastorelli non circoncisi che costruiscono capannucce con palle di sterco e rametti, circondate da recinti in cui le mucche sono sassi bianchi e neri". "Fanno così anche gli El Molo, sulle rive del Turkana", dissi. "Poi arriva l’onda e spazza tutto via, come nel mondo reale". "Già", disse il guerriero, "guardando in basso, tutto si muoveva ed era vivo. Un licaone, piccolo piccolo, rimase come fulminato dalla nostra apparizione nel cielo; sospese per un attimo la corsa, mi guardò in faccia e perse il branco. La savana dei Maasai era così lontana che mi parve di morire di v
nostalgia. Credo di essermi messo a cantare a squarciagola, come ci hanno insegnato gli anziani, per vincere freddo ed emozioni. Tutti i turisti fecero fotografie".
poter sparare in alto senza problemi per il soffio posteriore. Ne beccammo qualcuno, così. Ma il meglio era quando decidemmo di metterci in una trentina, tutti assieme con l’AK-47. Sparavamo a casaccio verso il cielo. Colpivamo gli Un giorno, un aereo da turismo sorvolò Loiyanelicotteri nel culo, per la legge dei grandi nugallani a bassissima quota, disturbando, nelmeri. Dovevi sentire le radio che gracchiavano l’ordine: a) due gattine gemelle che fanno la “Black Hawk Down! Black Hawk Down! Una festa". ronda nella mia capanna in cerca di scorpioni; b) una gran porzione della sabbia lavica del Mentre spolveravo il pelo alle gattine, cercancortile; c) una ragazza intenta a stendere i do di proteggere il computer portatile, si fece panni (rimase così avvolta nei teli da sembrare ombra. Non succede spesso, al Turkana. Così aluna fiaccola colorata agitata dal vento); d) i zai gli occhi e mi trovai davanti Davide Scapesci in cottura nella pentola; e) me; f) Cabdi gliola, l’autore di questo libro, appena sceso, Saac. E quest’ultima cosa non era un bene. Quan- fresco fresco, dal maledetto aereo. do un ubriaco aveva disturbato una mia amica, - "Se provi a dire: “Dr Livingstone, I presuCabdi il somalo voleva darmi il suo Kalashnikov me”, ti faccio sparare dal mio amico qui", perché lo facessi fuori. Non capì mai il mio dissi. cortese rifiuto. "Sembra di essere di nuovo a Mogadiscio", disse Cabdi con nostalgia, frugan- Mi sorrise. Cabdi lasciò perdere il mitragliatodo sotto la branda. re: credo aspettasse il pilota in persona. "Là gli elicotteri dell’Onu e dei fottuti ameri- -"Ora capisco i tuoi racconti su questo posto. cani ci facevano impazzire: ti mettevi seduto a Qui è bellissimo” - disse Davide. mangiare e improvvisamente la polvere riempiva - Benvenuto nel piano prospettico dei vermi", cibo, occhi, narici. Provavi a dormire e arrivapensai. va il thud-thud agli infrasuoni delle pale rotanti. Andavi in giro e quelli ti piombavano addosso, sempre. Così ci organizzammo: trasformamAlberto Salza mo con un tubo i lanciarazzi RPG, allo scopo di vi
Città del Capo Repubblica Sudafricana i boscimani, primi abitatori dell’Africa australe,incidevano sulle uova di struzzo case con i tetti. Le vedevano moltiplicarsi sotto la montagna. Dentro vi abitavano degli uomini: bianchi come un uovo.
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CITTA’ DEL CAPO S 33° 58‘, 100 E 18° 36’, 310
VOLO MOVIMENTATO SOPRA TABLE MOUNTAIN, E POI GIÙ, SINO AL CAPO DI BUONA SPERANZA DOVE FINISCE L’AFRICA Il Cape Doctor ci investe con furia inaspettata. A bordo dei due Cessna con le insegne namibiane in volo sopra la baia di Città del Capo, rimbalziamo improvvisamente lontano dalle pendici delle montagne, frullati dal muro d’aria e dall’effetto fionda innescato dalle folate di sud-est. Ribattezzato il Dottore per la sua micidiale capacità di pulizia dell’atmosfera, il vento soffia per tutta l’estate con raffiche fino a 160 chilometri all’ora precipitando violentemente dalle colline che circondano la città. In queste occasioni è impossibile per qualunque aereo volare direttamente sopra l’altopiano. Le turbolenze sarebbero eccessive anche per una mosca. Ci tocca perciò seguire il profilo della costa a distanza di sicurezza, mentre scivoliamo d’ala, tra vortici e scossoni, verso la fine dell’Africa. Il Capo visto dall’alto è un prodigio: costoni rocciosi, spiagge selvatiche, savane fiorite, scogliere tormentate e subbugli marini s’intrecciano sotto le nostre ali. Da quassù si vede bene l’intera penisola. La linea costiera s’infrange lungo pietraie tornite e lagune di marea grigio-verdi che sfilano sino al faro di Cape Point affacciato sull’orizzonte antartico. C’è persino qualche struzzo che corre sulla sabbia in mezzo a gruppi di babbuini. Doppiamo a bassa quota lo scontro tra l’Atlantico e il Pacifico nell’immenso bacino delle Agulhas, prima di rientrare verso nord e picchiare su Robben Island, l’isola-prigione dove visse segregato Nelson Mandela per ben 27 anni.
360 GRADI DI VIRATA SULLE ONDE E POI CLOCHE A NORD-OVEST E CABRATA STRETTA PER RIPRENDER QUOTA Risaliamo lungo la costa ovest del Sudafrica fino a incontrare il confine con la Namibia delimitato dal fiume Orange. Il paesaggio si fa secco e rossastro. Le montagne s’oscurano e il veld si mischia alle prime dune del deserto. L’oceano è già un ricordo. Il delta del fiume invece si apre in canali e ramificazioni labirintiche che invadono le rocce e la sabbia. Sembra un serpente di luce. Laggiù ci sono miniere di diamanti e pietre preziose, forse basterebbe scendere. Atterriamo invece su una striscia d’asfalto, dopo altre due ore di volo, a Keetmanshoop, avamposto namibiano, per fare dogana. Riempiamo anche i serbatoi sotto il sole soffocante del primo pomeriggio. Di pietre preziose, nemmeno l’ombra... Ancora un paio di planate sopra il veld per avvistare branchi di orici e gazzelle e poi prima del tramonto siamo pronti ad appoggiare il carrello a Wolwedans, sulla polverosa pista privata della riserva naturale del Namib Rand. Ci troviamo 180 miglia a sud di Windhoek - capitale del paese - il cui nome significa curiosamente Angolo del Vento. Siamo in mezzo a 1.800 chilometri quadrati di savana, dune e montagne, una delle più grandi aree di conservazione ambientale private di tutta l’Africa australe. Parcheggiamo gli aerei a bordo pista, alle spalle di una collina fiorita (la settimana scorsa è piovuto) e filiamo infine verso il lodge per una doccia e un aperitivo con vista sulla valle. Da queste parti l’arte del safari ha mantenuto tradizioni anglosassoni e stili d’altri tempi. Si viaggia sempre su fuoristrada scoperti color verde scuro. Le guide e i ranger sono impeccabili e preparati professionisti del wilderness, mentre i campi tendati offrono comodità ed eleganze inaudite in mezzo al nulla. Dovunque ci si tratta bene: si mangiano bistecche di kudu (una specie di antilope)a lume di candela, si beve Sauvignon sudafricano gelato e si parla di leoni, elefanti e ippopotami come da noi si discute di calcio al bar. Seduti magari su verande di legno rosso che si affacciano su panorami atavici.
NOTTI STELLATE SOTTO ZANZARIERE E LUNE CRESCENTI Poi per i successivi due giorni, vagabondiamo all’interno della riserva in auto e a piedi alla ricerca di antilopi, orici, gazzelle, zebre, iene e sciacalli. I branchi migrano spesso tra questa riserva, il parco nazionale di Naukluft e le sabbie di Sossousvlei. Con i piedi per terra cerchiamo anche di capire meglio che cosa sono gli strani cerchi che vedevamo segnare la pianura dall’alto il giorno del nostro arrivo.
Migliaia di circonferenze disegnate sul terreno, vuote e perfette su cui non cresce piĂš nulla costellano il veld. Vuoti naturali, buchi di vegetazione nella savana. Ce ne sono dozzine per metro quadrato: geometrie ocra e oro che macchiano il territorio come impronte di animali preistorici o segni esoterici.
I Fairy Circles sono un enigma. Nessuno sa con precisione che cosa siano: li chiamano cerchi magici, forse tracce di precedenti arbusti velenosi che hanno contaminato il terreno lasciando segni circolari perennemente sterili.
O forse sfoghi di gas sotterranei. ChissĂ . Tra le colline di Wolwedans avvistiamo di tutto. Comprese fitte nuvole di cavallette, stormi vibranti e impenetrabili che oscurano il cielo durante il pomeriggio precedente la nostra partenza.
Capo di Buona Speranza, Repubblica sudafricana “ Quattro del mattino: l’Olandese Volante, nel suo viaggio eterno, ci incrocia di prua. La vedetta del castello di prora e gli ufficiali di guardia vedono il vascello. Una strana luce rossa, come di un fantasma di nave ardente, nel mezzo della quale luccicano l’albero maestro, i pennoni e le vele di un brigantino gonfie di vento.” Diario di bordo della HMS Bacchante, 11 luglio 1881, redatto dal guardiamarina inglese che sarebbe divenuto re Giorgio V
Orange River Repubblica Sudafricana A metà del fiume, la gola di Augrabies provoca 19 cascate. L’acqua ha scavato nel granito una fossa immane. Qui tutti sognano di deviare il fiume e raccogliere dalla buca milioni di diamanti.
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I deserti dell’Africa australe esistono da 70 milioni di anni. Nel Kalahari possono cadere 350 mm di pioggia l’anno, mentre nel Namib l’umidità deriva dalla nebbia prodotta dalla corrente del Benguela, di origine antartica. Quando c’è acqua, si riproducono alghe, batteri e protozoi, moltiplicando la biomassa di oltre 50 volte. Così si mantengono i fillopodi, minuscoli crostacei le cui uova sono in grado di resistere a condizioni estreme: sono sopravvissute per 16 ore senz’acqua a 98 °C. Un cespuglio (Stipagrostis sp.) e uno scorpione (Parabuthus sp.) sono correlati da una complessa catena alimentare che può partire da una pozza di fango o dall’accumulo di detriti vegetali portati dal vento.
Deserto del Namib Namibia L’ordinato modello caotico dei cordoni delle dune, narra leggende di città perdute, da cui riaffiorano volti di sabbia e terracotta, come successe altrove per la civiltà di Nok, antichità profonda dell’Africa Nera.
Wolvedans, Namib Rand, Namibia “ Il coleottero Lepidochora discoidalis è notturno. Quando arriva la nebbia di convezione, costruisce trincee perpendicolari al vento. I bordi rilevati raccolgono e convogliano più umidità.Il coleottero torna alla trincea, la appiattisce ed estrae l’acqua. Il quantitativo di input idrico ammonta al 14% del peso corporeo iniziale.” Mary Seely, Ecology of Desert Organisms, 1982.
La costituzione dei primi parchi naturali, in Namibia, risale al 1907, a opera del governatore tedesco von Lindequist. Oggi, i più importanti parchi sono il Namib Naukluft (2.340.150 ettari di deserto) e l’Etosha (2.227.000 ettari di savana arida). Di grande interesse è la fascia costiera della Skeleton Coast, dove però esistono restrizioni al turismo. Nonostante una leggenda boscimane affermi che Dio doveva essere davvero arrabbiato quando ha creato questi luoghi, la Namibia offre meraviglie al turista ambientale.
Sossusvlei, Namib-Naukluft Park, Namibia “La strada per le dune rosse di Sossusvlei segue il letto arido del fiume Tsauchab a partire dalla gola di Sesriem (‘Sei Corde’), il cui nome deriva dal fatto che i primi viaggiatori, per recuperare l’acqua dai pozzi scavati nel fiume, dovessero attaccare i secchi a ben sei corregge di pelle cruda.” Friedrich von Lindequist, 1907.
SOSSOUSVLEI S 24° 45‘, 000 E 15° 17’, 000 Wolwedans – Sossousvlei - Swakopmund – Kunene River - Okawango
Poco dopo l’alba sorvoliamo le dune di Sossousvlei, i laghi salati e gli uadi fossili del parco del Naukluft. A metà mattina atterriamo di fianco a gigantesche montagne di sabbia e andiamo a passeggiare tra Dead Vlei e gli altri laghi morti. Uno scheletro d’albero in mezzo al letto gessoso della distesa, sembra uno spaventapasseri preistorico. I colori sbiadiscono man mano che la luce diventa più violenta. Altri turisti invadono le sabbie, arrivano fuoristrada zeppi di gente. In un baleno finisce la magia. Tagliamo corto con l’esplorazione delle dune e rimettiamo la prua a ovest verso la costa dell’Atlantico dove le sabbie del Namib incontrano l’oceano gelato. Il mattino è ancora velato da nebbioline che ricoprono il deserto. E’ l’unica umidità che permette alla vegetazione di sopravvivere. Da quassù il deserto sembra un tappeto bianco. Seguiamo la linea costiera a bassa quota e avvistiamo alcuni relitti di navi semi sepolti nella sabbia. Mercantili, bettoline e pescherecci hanno trovato speso cattiva sorte lungo la Skeleton Coast. Questo tratto marino di Namibia è un cimitero navale. Voliamo sopra immense colonie di leoni marini che giocano con le onde gelide dell’Atlantico. Poco più a sud ci sono miniere d’oro e diamanti, ma l’area è off limits anche agli aerei. Siamo quasi in vista di Swakopmund.
All’improvviso appaiono fenicotteri e stormi di uccelli migratori che vivono tra le lagune e le saline polimorfe della baia e del parco marino di Sandwich Bay. Prima di atterrare planiamo su immense vasche di evaporazione del sale. Sembrano specchi colorati che formano inarrivabili geometrie tra il mare scuro e la sabbia ocra. Sulla spiaggia poi, ci sono case colorate che sembrano uscite da libri d’architettura francesi, sparse tra la battigia e il centro abitato di Swakopmund. Il paesaggio assomiglia all’Aquitania. Non fosse per il deserto intorno: ombrelloni colorati, pick-up parcheggiati sulla sabbia e intere famiglie al bagno paiono modellini caduti sulla sabbia. Scendiamo nel piccolo aeroporto per fare rifornimento di carburante e per aggiungere olio al motore. Poi ancora verso nord seguendo la costa fino a Terrace Bay. Da una parte il mare, dall’altra il deserto roccioso del Damaraland, aspro e variegato come le Canyonlands americane. Lontano dal mare e elica verso nord-est. Ancora un paio d’ore di volo sino alle montagne che racchiudono il Kunene, terra degli himba e degli owambo, proprio sul confine con l’Angola. L’orizzonte cambia di nuovo. Il letto del fiume appare nel cuore secco del Kaokoveld. Cerchiamo un luogo dove atterrare. La pista di terra battuta si distingue a malapena dal resto della pianura. Un vecchio Land Rover è già in attesa: onusto, simbolico. Un veicolo molto british, carico di anni africani. Il Sierra Cafema Lodge, costruito vicino alle cascate, a un tiro di sasso dal confine, è la base delle attività. Dal campo si possono compiere escursioni a piccole comunità seminomadi disperse tra le dune dell’Hartmann Valley e le alture del Marienfluss. Per un paio di giorni lasciamo riposare le eliche. Esploriamo in 4x4 sistemi di dune formidabili, chiare e lucenti, che si muovono lentissime tra pietraie e altopiani desolati popolati da orici e aquile. Scenografie primordiali dove guidare e camminare per ore in silenzio, abbacinati dalla bellezza, dalle casuali, sublimi armonie naturali.
Quassù la Namibia si frastaglia in colline brulle e rocciose, pianure e valli profonde. Navighiamo sul Kunene, che funge da frontiera geografica con l’Angola e risaliamo una montagna di sabbia. Poc il pomeriggio a osservare la vita quieta della comunità. Compriamo monili e collane da ragazze in età da marito coperte di ocra, burro e perline. Dormiamo nell’oasi fresca e profumata, incastrata tra le rive del fiume e le montagne nere. Poi, al mattino esploriamo ancora la fenomenale valle di Hartmann alla ricerca di baobab e cani della prateria. Troviamo solo acacie secche, otocioni, una specie di volpe della savana con le orecchie a pipistrello e qualche scheletro d’antilope spolpato per bene. Ma presto ci tocca cambiar orizzonte un’altra volta. Recuperiamo gli aerei e in meno di un’ora, dopo aver volato sulla testa degli owambo, l’etnia più numerosa del paese (600 mila individui), che vive in villaggi e comunità tra gli altopiani acquitrinosi dell’Owamboland, entriamo nella desolazione geografica del Kalahari, in Botswana. Spariscono forme e colori. Solo sabbia in sospensione, piane rocciose inanimate e terreno crettato. Atterraggio tecnico a Maun, avamposto del parco di Moremi e formalità di dogana. In un pomeriggio caliginoso riprendiamo la crociera nel cielo australe verso il delta dell’Okawango. Il paesaggio si trasforma ancora: cominciano acquitrini, canali e lagune azzurre: venti mila chilometri quadrati di pianure allagate color smeraldo. Branchi di elefanti, gazzelle d’acqua, bufali, ippopotami e immensi paesaggi antidiluviani.
Atterriamo poco prima del tramonto su una pista d’erba soffice e pettinata come un campo da golf.
Namib-Naukluft Park, Namibia “ L’area è una massa di roccia che, un tempo geologico fa, formava una catena montuosa. In qualche modo scivolò lateralmente e viaggiò per almeno 70 km, fino ad assestarsi nella posizione attuale. Ha cavalcato formazioni più morbide, oppure le ha piegate e spinte dal di dietro. Potete vedere le pieghe nella roccia.” Roy Miller, Geological Survey, 1983.
Planate sulle dune della Skeleton Coast. L’aereo domina a fatica le raffiche di vento che si formano tra l’oceano e il deserto. Flaps abbassati di 15 gradi e carrello fuori per rallentare le virate che compiamo per osservare meglio i relitti delle navi e le colonie di leoni di mare 400 metri più in basso
Oranjemund, a sud di Swakopmund Namibia La decantazione mineraria racconta come l’Africa sia sottosuolo. La metallurgia è nata qui, nel II secolo a.C. Il ferro collega gli elementi: terra, fuoco, aria, acqua. Il coltello dell’antico circoncisore fabbrica uomini.
Kunene River, Kaokoland, Namibia “Dove il fiume Kunene segna il confine con l’Angola, cinquant’anni fa avreste sentito il suono di pietra su legno. Nei radi boschetti di molane avreste potuto incontrare un uomo,con la pelle lucida di grasso pigmentato, che dimostrava come fosse possibile abbattere un albero con un’ascia di pietra. Tutto ciò è finito.” J.S. Malan, Cimbebasia, 1973
CAMP OKAWANGO S 19° 23‘, 160 E 44° 22’, 510 Okawango – Striscia di Caprivi – fiumi Chobe e Zambesi – Victoria Falls (Zimbabwe) Il Camp Okawango è costruito su un’isola ordinata e silenziosa. Mi sveglio alle prime luci del mattino nella frescura della laguna. Fuori dalla grande tenda ci sono profumi di papiri e fischi di uccelli. Con i mokoro, canoe tradizionali, un tempo scavate da un unico tronco (monoxilo) e oggi ricavate invece da leggerissimi gusci di plastica, navighiamo per tutto il giorno tra praterie di basilico selvatico, ranocchie dai colori acidi, elefanti che giocano con l’acqua bruna, lechwe rossi (piccole gazzelle indiavolate, dagli zoccoli aperti così da camminare sulle ninfee), impala e ippopotami in amore. Dalla canoa l’orizzonte è limitato al muro verde della vegetazione e non si capisce granchè. Ci si gode solo la luce del pomeriggio che infiamma i colori dei canneti, qualche piccolo uccello e il silenzio del delta. Dall’alto invece, salendo ad almeno a mille e cinquecento piedi di quota, s’intravede il grande disegno idro-geologico che si disperde da nord a sud. E’ un incanto di sfumature verdi, marrone e azzurre, continuo movimento che non si riesce ad abbandonare. di terra argillosa, che diventano isole e approdi in si distendono tra le montagne dell’Angola e il cuore fiumi al mondo che non sfocia da nessuna arte. Semplicemente si dissolve nel Kalahari.
una geografia frattalica, paradiso liquido in Distese di gigli d’acqua si alternano a fazzoletti un mare d’erba. Lagune, stagni e piane alluvionali assetato del Botswana. L’Okawango è uno dei pochi
Il Botswana custodisce ambienti diversissimi tra loro. E’ incastrato nel plateau interno dell'Africa centro-meridionale, ed è grande come il Texas. E’ indipendente dalla Gran Bretagna da più di 30 anni, ma ha mantenuto stile e qualità dei servizi (specialmente nell’industria turistica), degni della madrepatria. Un tempo si chiamava Bechuanaland Protectorate. Oggi, grazie soprattutto al turismo e alle miniere di diamanti (scoperte curiosamente appena dopo la fine della colonizzazione), il paese ha conquistato stabilità politica ed è potenzialmente uno dei più ricchi d'Africa. Peccato sia flagellato dall’Aids. Un tempo quest’area era un universo infinito e vario, fatto di terra salata, sabbia bollente, acqua, nuvole e pianure senza orizzonti dove i nostri antenati vissero per milioni di anni imparando a camminare e a sopravvivere prima di popolare il resto del pianeta. Una terra per giganti abitata invece da piccoli boscimani, astuti cacciatori e raccoglitori, che hanno sfruttato per secoli le risicate risorse di un mondo segreto. Oggi è un luogo di delizie solo per turisti e animali. Ci appostiamo al tramonto tra le canne, non lontano dal lodge. Sull'altra sponda, poco prima dell'imbrunire, all’improvviso spunta una mandria di almeno 500 bufali che vengono ad abbeverarsi accompagnati da intere famiglie di babbuini e stormi di garzette in volo. E’ l’Africa dei documentari e dei film. Non lascia scampo.
Il cielo sembra l’unica via d’uscita. Rimontiamo così sui monomotori e abbandoniamo il delta alla svelta. Seguiamo sempre il confine tra Namibia e Botswana (la tormentata striscia di Caprivi, oggi in via di pacificazione) fino ad incontrare il corso del fiume Chobe. Migliaia di elefanti sguazzano tra canali e pozze di ristagno. Sfumature di colore fiamminghe disegnano la geografia fluviale di quest’area che si estende sino alle Cascate Vittoria.
Dopo un’ora di volo,il Mosy-Oa-Tunya, il fumo che s’innalza, luogo epico in cui il fiume precipita da più di 100 metri tra gole e canyon drammatici provocando colonne di acqua vaporizzata visibili da parecchi chilometri di distanza, compare all’orizzonte.
Ci avviciniamo da ovest con cautela. Sulle cascate volano tutto il giorno elicotteri, aeri e ultraleggeri che compiono voli scenici per mostrare a migliaia di visitatori i mille metri cubi d’acqua al secondo che si tuffano nel vuoto roccioso sottostante. Ci districhiamo tra i voli internazionali in arrivo all’aeroporto di Vic Falls ed entriamo ufficialmente in Zimbabwe
Da queste parti ben quattro frontiere si intersecano nello spazio di pochi chilometri. Zambia, Zimbabwe, Namibia e Botswana si contendono l’accesso alle cascate. In una giornata di escursioni i doganieri ti riempiono di timbri il passaporto. Intorno alle rapide negli ultimi anni sono nati resort troppo grandi, negozi e villaggi turistici dall’atmosfera disneyana che quaggiù stonano come un coccodrillo in una vasca da bagno. Fortunatamente, in meno di un’ora noi siamo già sulla terrazza del Victoria Falls Hotel a prendere un tè con vista sulle gole.
Gli ambienti e le architetture edoardiane di questo storico albergo costruito nel 1904 sono eccezionali, uniche: sale principesche, arredi originali, quadri della Regina Vittoria, trofei di caccia, pianoforti e vibrazioni coloniali, sono rimaste intatte come al principio del secolo scorso.
Skeleton Coast, Namibia “ Procedo verso un fiume che dovrebbe trovarsi 60 miglia a nord. Se qualcuno trovasse questo messaggio e mi volesse seguire, che Dio l’aiuti.� Autore sconosciuto; messaggio inciso su una lavagnetta usurata dal tempo, sepolta nella sabbia accanto a 12 scheletri senza testa, ammucchiati sulla spiaggia accanto, una capanna con le ossa di un bambino. Messaggio datato 1860, trovato nel 1943
Ovamboland Namibia Gli Ovambo si considerano discendenti di madre in madre. Il monile di cintura femminile, fatto di conchiglia portata dal lontano oceano, è l’ellisse del villaggio, sede della famiglia allargata, che comprende bestiame e antenati.
Delta dell’Okawango Botswana Il fiume si apre in un immenso delta, per poi perdersi nel deserto del Kalahari. E’ come se Famballa, lo spirito delle acque in forma di serpente adorato nei riti vodou - se lo fosse inghiottito, assieme alle incongrue ninfee africane.
VICTORIA FALLS S 19° 23‘, 200 E 25° 49’, 500
Victoria Falls – Lago Kariba –Mfuwe (Zambia) - South Luangwa Valley Ruaha Nationa Park (Tanzania) – Cratere del Ngorongoro Ci lasciamo alle spalle le colonne di acqua nebulizzata delle cascate e seguiamo lo Zambesi verso est. Virare a bassa quota sul magnifico lago Kariba tra piroghe, villaggi sonnolenti, banchi di alghe, infiorescenze galleggianti e isolotti di sabbia, è molto istruttivo. Gruppi di pescatori e mandrie al pascolo alzano appena il naso al nostro passaggio. Chissà cosa pensano di una mezza dozzina di facce bianche affacciate ai finestrini di una scatoletta di metallo con le ali che sfreccia rumorosamente a soli trecento metri d’altezza sul livello del loro mondo. Atterraggio a Mfuwe, base di arrivo e partenza per i safari all’interno della riserva naturale della Valle del South Luangwa in Zambia. Finalmente ci si può concedere il lusso di scendere dall’aereo e usare i piedi per un walking safari. Il Mfuwe Lodge si trova dentro i confini del parco del South Luangwa. Un grande corpo centrale affacciato su una laguna popolata da ippopotami, elefanti, leoni, miriadi di uccelli e scimmie. Dal mio bungalow, al risveglio, conto almeno 200 bufali e non so quante gazzelle in pastura davanti alla veranda di legno. Mi siedo dietro a un ficus e guardo l’alba colorare gli animali. Ci spostiamo con i Toyota verso il centro dello Zambia. A meno di quattro ore di fuoristrada troviamo alcuni bush camp di lusso dove è possibile passare qualche giorno circondati dalla foresta, a un passo dalle pozze d’abbeverata e dai guadi usati dalle mandrie di elefanti.
Si tratta di campi tendati stagionali organizzati alla perfezione dove gli alloggiamenti hanno letti matrimoniali e zanzariere, mobili in stile coloniale, doccia e servizi privati nonostante si trovino lontani decine di chilometri da qualunque centro abitato. Gli spazi comuni sono pensati per sfruttare le scenografie naturali e risultare meno invasivi possibili. Qualche suite è persino costruita sugli alberi. In uno di d’Africa, A 60 anni del Fondo
questi campi, il Kuyenda, gestito da Phil Berry, uno dei più celebri naturalisti e ranger praticamente una leggenda da queste parti, imparo cosa vuol dire andare a piedi in savana. suonati, di cui trenta ormai passati tra gazzelle, leonesse e baobab, nonchè come presidente Africano per la Salvaguardia dei Rinoceronti, Phil ci guida personalmente in cerca di leoni.
Fila indiana, silenzio assoluto, fucili in spalla, sangue freddo e appostamenti pomeridiani. Non si riesce a star granchè tranquilli però. Ogni rumore fa voltare la testa a tutti, compreso il ranger che chiude il gruppo. Giornata estenuante. Falò e cena sotto la luna calante. Ci vorrebbe Kipling per raccontare queste ore. Il pomeriggio successivo filiamo a 140 nodi verso il confine con il Tanzania. Lungo il percorso il letto del fiume nasconde anse e lagune piene di vita. Guadi e tracce di transumanza affollate di animali. Ci sono migliaia di ippopotami a pelo d’acqua. Tamarindi e baobab, spuntano ovunque sulla pianura. La foresta cresce. Poi l’Africa, finalmente, si popola anche di uomini. Cambia la densità di costruzioni e villaggi e iniziano grandi appezzamenti di terreno coltivato. Spariscono gli animali. O quasi. Raggiungiamo Mbeya, scalo in Tanzania, assolato e soffocante. Sbrighiamo timbri e rifornimenti in una torre di controllo gestita da Joey, un nero cordiale e accaldato che parla spesso alla radio davanti a un bel ventilatore anni ’30.
Qui di aerei ne arrivano, si e no, uno alla settimana e l’attività non è proprio frenetica. Appena possibile decolliamo con estrema attenzione sulla pista che taglia in due un campo di calcio improvvisato. I ragazzini aspettano pazienti che gli aerei si tolgano dai piedi per ricominciare a giocare. Ci sono anche tre vacche e un gregge di capre che vorrebbero riprendere a pascolare. Ancora verso nord-est sino al Ruaha National Park. Lasciamo gli aerei sotto un baobab immenso all’entrata del parco e ci immergiamo subito tra le colline di pietra per un’escursione all’imbrunire. Notte umida al campo lungo la riva del fiume e poi, il giorno successivo,safari tra 13 mila chilometri quadrati di natura selvatica.
Il Ruaha National Park è stato creato nel 1964 ricavandolo da metà della riserva di Rungwa. E' una zona selvaggia e poco attrezzata ma gli animali sono numerosi. Il Great Ruaha segna il confine orientale. Il resto del parco è costituito da un altopiano ondulato a mille metri di quota disseminato da sporadiche formazioni rocciose. In una giornata di fuoristrada tra i kopje (monticelli di pietra) e il miombo, (la savana arida), osserviamo elefanti, kudu, antilopi roane, antilopi nere, ippopotami, coccodrilli, giraffe e leoni.
L'ultimo censimento degli animali dava la presenza di 33.000 bufali, 23.000 zebre, 12.000 elefanti, 12.000 impala, 4.800 giraffe e 6.000 elan. Una meraviglia. All’alba rimuoviamo i rami di acacia spinosa intorno alle gomme dei Cessna (messe la sera prima per proteggere le ruote dai morsi curiosi dei leoni) e in una nuvola di polvere riprendiamo quota verso nord. Scalo tecnico a Dodoma, la capitale amministrativa del Tanzania, insignificante e poco frequentata. La prossima tappa è sull’orlo del cratere di ‘Ngorongoro: ci vogliono meno di tre ore di volo per raggiungere le sponde alcaline del lago Manyara dove c’è una pista attrezzata. Prima del tramonto compiamo anche il lungo trasferimento in auto sino al bordo del vulcano.
Fiume Chobe Tra Botswana e Zambia La leggenda dice che l’Ippopotamo fosse molto piÚ orgoglioso della propria folta pelliccia che non delle zanne. Allora Lepre lo punÏ: diede fuoco al suo pelo e costrinse Ippopotamo a rifugiarsi nei fiumi, da cui esce solo di notte, per vergogna.
Fiume Luangwa, Zambia “ Frederick Courtney Selous è un assassino, non necessario, di leoni e altri animali ”. Così Henry Stanley definì il leggendario avventuriero di quella “riserva di caccia” che all’epoca erano Zambia, Zimbabwe e Tanzania. Selous affermava di uccidere per mangiare, ma nel 1873 abbatté 78 elefanti, per un carico di 2.300 kg di avorio.
OL DOINYO LENGAI
S 02° 45‘, 200 E 35° 54’, 800
Cratere del ‘Ngorongoro - Ol Doinyo Lengai – Nairobi - Maasai Mara Il grande zoo racchiuso dentro l’invaso vulcanico di ‘Ngorongoro è una trappola desolante. Ci sono dozzine di 4x4 che girano nel cratere. Troppi animali abituati ai turisti. Troppi ranger che si chiamano per radio quando trovano un gruppo di leoni in caccia o un povero rinoceronte solitario. Ogni volta è un’orgia di una trentina di fuoristrada che si radunano per filmare l’evento. In lontananza si vedono le pareti del vulcano che per secoli ha intrappolato le mandrie al suo interno trasformando l’intera area in un eden di avvistamenti e caccia fotografica. Oggi i pastori maasai sono i soli a poter accedere al ‘Ngorongoro senza permessi. Portano gli armenti al pascolo e spesso si fermano a guadagnare qualche spicciolo facendosi fotografare con le lance dai turisti. Tutti noi invece dobbiamo rispettare gli orari, dall’alba al tramonto, e girare solo con guide e mezzi autorizzati. Una brutta giornata fatta di pic-nic affollati, safari condivisi con un centinaio di persone e avvistamenti di valanghe di gnu e giraffe annoiate. L’ambiente è però straordinario. La caldera è grande come il lago di Bolsena, ma brulica di elefanti, scimmie, zebre, facoceri, iene, sciacalli, impala e gazzelle. Le pozze salate al centro sono abitate da centinaia di fenicotteri e la savana tutt’intorno è color dell’oro. C’è un incendio a ovest e le colonne di fumo inquadrano migliaia di gnu che corrono in controluce. Notte triste in uno degli enormi alberghi costruiti in cima al cratere, il Rim, che offrono vista sublime ma atmosfere da villaggio-vacanze troppo affollato.
Meglio volare via appena spunta il giorno. Ali al vento e subito l’umore migliora. Giornata serena e orizzonte pulito. Le coordinate sul Gps indicano il Kilimanjaro a est e il confine con il Kenya a meno di due ore di cielo. Appena aggirato il Ngorongoro si apre una pianura devastata da colate laviche e vulcanelli. A oriente si stagliano due coni immensi. Puntiamo sulla cima fumante dell’Ol Doinyo Lengai, la montagna di Dio sacra ai maasai: 2900 metri di accumuli di lava preistorica, bocche eruttive, colate nere come la pece, geometrie stupefacenti. Giochiamo con le prospettive virando sulla piana tra laghi verdissimi e coni lunari. Sembra la Kamchakta. L’Ol Doinyo Lengai è l’unico vulcano attivo del mondo che erutti carbonato di sodio. Wilfried, a bordo di V5-LYJ, il Cessna 210 bianco e amaranto, sfiora con le ali le caldere in cima, tra nuvole bollenti e lingue di sodio incandescente. Andrea tiene invece alto il muso del nostro aereo per avere visioni di insieme più ampie. L’aria che entra dal mio oblò senza vetro, sa di terra muschiata, zolfo, sodio e chissà che altro. La montagna scintillante, è scomparsa. Non ci resta che proseguire verso la frontiera keniota e Nairobi. In meno di un’ora tocchiamo terra al Wilson Airfield, il vecchio aeroporto della capitale. Parcheggiamo vicino agli hangar dei Flying Doctors. Oggi c’è un via vai ininterrotto di piccoli e medi aerei privati e charter che arrivano e partono per ogni angolo del paese. Ci rifugiamo dentro lo storico Aeroclub of East Africa tra saloni foderati di boiserie, foto seppiate di imprese aeree d’inizio secolo e motori radiali in bella mostra vicino al bancone. Alle pareti c’è persino un lungo elenco di nomi che comprende il meglio dell’aristocrazia aviatoria di sua Maestà Britannica.
Ma si sta facendo tardi. Il carburante deve bastare sino all’aeroporto di Kilimanjaro.
La cima del monte è ancora sgombra dalle nuvole quando l’avvistiamo in lontananza: 5.895 metri di roccia, storia, mistero e anima africana s’innalzano nette dalle pianure dell’Amboseli. Atterraggio svelto e procedure di controllo ormai consolidate. Quando rimettiamo il naso per aria però, pronti a salire in quota per vedere dall’alto i tre vulcani che formano la punta del gigante, (Kibo, Shira e Mawenza), ammassi lattei impenetrabili hanno già avvolto la cima più alta d’Africa.
Ci scoliamo un paio di birre gelate (tranne i piloti) e festeggiamo la metà del cammino verso la fine dell’Africa. Ma la giornata non è ancora finita. Ci vuole poco meno di un’ora per raggiungere le pianure disseminate di acacie del Maasai Mara, altro santuario turistico e naturale del paese. Il fiume Mara serpeggia contornato da una fitta foresta. Il resto è spazio infinito. Volo radente prima dell’atterraggio: sotto le ali ci sono decine di migliaia di gnu che corrono senza meta. Quasi non si vede più l’erba talmente è grande il loro numero. Piccole lagune e pozze per l’abbeverata scompaiono tra spruzzi e nuvole di polvere. Compare una bellissima luce calda e obliqua su branchi di zebre e giraffe al pascolo mentre andiamo verso il Kichwa Tembo Camp. Notte senza luna condita da tuoni e lampi lontani.
Busanga Plains, Zambia “ Una mandria di bufali arriva ai 2000 individui, su un territorio di 50 km2, in parte condiviso con altri bufali, ma comprendente uno spazio entro il quale c’è una sola mandria, con le femmine,i piccoli e un numero di maschi. La seconda unità è la mandria dei celibi (al massimo 20 individui), dai giovani immaturi ai troppo vecchi.” David Western, Wildlife Guide, Nairobi 1983.
South Luangwa River Zambia Il monile d’avorio è metà antilope e metà coccodrillo. Lo specchio sulla fronte riflette il mondo degli spiriti, così come il fiume. E’ esistito un tempo privo di separazione tra acqua e terra, tra uomini e animali: lo ricordi?
Lo sviluppo deve essere ridefinito in modo da includere gli abitanti locali nel controllo delle risorse.
In questo senso, l’Africa ha una serie di ambienti che divengono, tramite il turismo, una risorsa per lo sviluppo. Il cosiddetto “turismo responsabile” e l’eco-turismo sono le risposte occidentali a tale domanda. Da parte africana si stanno moltiplicando i progetti di “affidamento ambientale” alle comunità residenti: queste devono avere il controllo di terre e capitali, con potere decisionale sulle risorse. Il modello di conoscenza locale dell’ambiente è lo strumento per lo sviluppo sostenibile.
Lago Kariba Zimbabwe Allo scopo di dipingere le rocce, il boscimane altera la coscienza: è come affogare. L’acqua diventa l’interfaccia di un luogo dove donne-lepre hanno emissioni genitali multiple, per creare la pioggia, i fiumi e i laghi.
In Africa si dice: “Non si è mai fatta una porta di baobab”. È considerato un albero inutile, al punto che neppure Dio sapeva che farsene. Così lo scaraventò sulla Terra. L’albero sprofondò dalla parte dei rami: ciò che affiora sono le radici, rovesciate verso il cielo. In realtà, in Africa non si butta via niente. La corteccia del baobab serve per fare corde. Un trito di corteccia e foglie è la base per una tisana dolcificante. Le foglie fresche si consumano come verdura o, seccate all’ombra, vengono polverizzate nel mortaio: la polvere viene mescolata alla polenta di miglio, come condimento. La polpa secca del frutto, il “pane delle scimmie”, ha gusto acidulo. Non male.
Ol Doinyo Lengai Tanzania Per i Masai, è “la casa di Dio”. Ogni tanto sbuffa, come fa il fumo di sterco che, la mattina crea nebbie sugli insediamenti dei pastori. Succede come nel 1966 che il vulcano schizzi polenta bollente: prima di raffreddarsi in gemme di granito.
LOYANGALLANI S 02° 45‘, 000 E 36° 43’, 800
Maasai Mara - Rift Valley – Lago Turkana Un’altra ora abbondante di volo e ci ritroviamo all’imboccatura degli altopiani che si ergono sull’orlo delle fratture della Rift Valley. Il Kenya centrale si trasforma ancora. Le pianure sterminate diventano una serie infinita di campi e coltivazioni ordinate: tè, caffè, banane. A tratti il paesaggio assomiglia alla Toscana. Mancano solo gli ulivi. Tra le colline di Menengai spettiniamo campi di grano, mais e proprietà agricole immense. Abbiamo bisogno di benzina. Da queste parti non ci sono aeroporti veri e propri. Contattiamo via radio la fattoria di Madrugada che ha una bella pista in erba e che ci aspetta con alcuni fusti di carburante. E’ domenica a mezzodì. Peter, il proprietario, è lo stereotipo del colono inglese. Nonostante il giorno di festa ci accoglie con entusiasmo vicino alle stalle con il suo accento ottocentesco e offre da bere a tutti. Ci racconta un po’ di storia della sua famiglia e mostra il suo aeroplano parcheggiato sotto una tettoia, vicino ai trattori. Anche lui è un aviatore e spesso se ne va in giro a perlustrare le sue proprietà. Montiamo le pompe a mano e i tubi per il travaso della benzina e ci arrampichiamo sulla fusoliera. Per chi non lo sapesse i tank dei Cessna si trovano nelle ali. A turno quindi pompiamo via qualche dozzina di galloni dai bidoni di Peter, e li travasiamo nei serbatoi come se stessimo rifornendo un’utilitaria in panne.
Il cielo non promette nulla di buono. Cade anche qualche goccia di pioggia portata dal vento. Andrea e Wilfried dispiegano le carte aeronautiche sui piani di coda e approfittano della pausa per chiedere lumi a Peter sulla rotta migliore da tenere per Loiyangallani e il lago Turkana. Stiamo per entrare in aree difficili. Non ci sono postazioni radio, né radar. Solo le immani tragedie geologiche della Rift Valley. Di nuovo per aria. Sorvoliamo prima i laghi alcalini di Bogoria e Baringo, ricchi di fenicotteri, alghe scure e distese di nulla assoluto punteggiate da crateri, colossi di roccia e antichi letti di fiumi. Abbiamo appena attraversato l’equatore costeggiando un temporale che scuote l’aria. Troppi scossoni però. Non riusciamo a goderci per bene il momento. Meglio allontanarsi alla svelta dalle montagne e puntare verso il sereno di nord-ovest. Stiamo per addentrarci nella Suguta Valley. La pianura è un inferno buono solo a sciogliere le suole degli scarponi e a far dannare i pastori. Oltre un crinale però, dopo aver virato tra due picchi rotondi, scopriamo l’immensità verde e sensazionale del Lago Turkana, il Mare di Giada. Sembra un miraggio. La caldera del vulcano Nabuyatom, polifemica e perfetta, riempie tutto il finestrino. Il suo unico occhio nero, bocca infernale per ora inattiva, è circondato da lagune, isole, lingue di sabbia e colate laviche dove nidificano migliaia di coccodrilli. Proprio quaggiù arrivò poco più di un secolo fa anche il conte austro-ungarico Samuel Teleki von Szek compiendo l’ultima vera scoperta geografica del Continente Nero. Oggi non ci va praticamente nessuno.
Atterriamo a Loiyangallani, tra pescatori turkana ed el molo di ritorno dalla giornata di lavoro. Sulla pista pietrosa accanto alla spiaggia nera ci tocca ancorare gli aerei con corde e massi per evitare che si ribaltino. Il vento è teso e bollente e soffia incessante. Il Turkana è increspato.
Ol Doinyo Lengai Tanzania Il Grande Rift forma ambienti a mosaico, palestre evolutive dove gli ominidi imparano a stare sulle due gambe, mentre lo gnu pare fatto con scarti dell’evoluzione. E’ come nel mortaio in vertebra di elefante: si spezzetta una foglia per trasformarla in tabacco da fumare.
Cratere Empakaai Tanzania “Un cratere perfetto a caldera nasce in 4 fasi” a) formazione di uno strato-vulcano B) esplosione e collasso nella camera magmatica C) formazione del cratere D) conetti e flussi lavici all’interno della caldera.
La zona attorno al cratere di ‘Ngorongoro (nome derivato da un clan dei Maasai) è una Conservation Area di 7800 km2, con villaggi, siti paleoantropologici (Olduvai) e animali selvatici. Solo il cratere vero e proprio (304 km2) è parco nazionale. Questo implica che i pastori maasai possano abitare nei dintorni e condurvi gli armenti al pascolo. L’integrazione uomo, bestiame e animale selvatico è uno degli obiettivi dell’ecologia umana in Africa. Recenti studi, infatti, evidenziano come la produttività dell’ecosistema sia meno delicata e l’ambiente più persistente proprio dove questa interazione è garantita su un territorio sufficientemente vasto.
Masai Mara Collegata direttamente al grande parco del Serengeti, La riserva (1100 km2), in Kenya, è parte dell’ecosistema del Serengeti, il quale ospita la più alta concentrazione di erbivori al mondo: 1 700 000 gnu, 260 000 zebre, 480 000 gazzelle, 110 000 impala, 160 000 antilopi, 70 000 bufali e 4000 elefanti. I predatori al seguito, di ogni specie, sono moltissimi: nelle pianure del Masai Mara si ha un leone ogni 6,3 km2, mentre nelle zone alberate la densità scende a uno su 8,4 km2. Alla confluenza tra i fiumi Mara e Sand passa annualmente la migrazione stagionale degli gnu, all’inseguimento di pioggia ed erba.
Masai Mara Kenya Lo gnu viene definito il “Pagliaccio della savana”: il muso è curvo, la barba ispida; le corna gli danno un’aria petulante; ha la criniera di un cavallo con l’alopecia. Eppure la sua coda adorna lo scacciamosche di chiunque, in Africa, abbia autorità sugli altri.
La spaccatura tettonica del Rift africano è caratterizzata dalla presenza di laghi vulcanici. Le loro acque sono spesso alcaline, con pH elevatissimi. Il Magadi e il Natron sono trappole di calore caustico: ogni anno cadono 400 mm di pioggia, ma l’evotraspirazione, nello stesso periodo, fa svanire nella calura 9 volte tanto di vapore acqueo.
Lago Baringo Kenya Una scaglia fossile, dalla corazza di un coccodrillo di milioni di anni fa: i laghi alcalini del Rift sono l’ambiente più adatto al processo di fossilizzazione. Le origini dell’uomo sembrano essere qui, ma lo scienziato può solo dire che, da queste parti, i fossili si sono conservati. Altrove no.
Lago Turkana Kenya I Turkana chiamano questo posto Nabuyatom,
“l’Ombelico dell’Elefante”. Lava rossa, gialla, nera: i sassi sembrano perline colorate. Nelle acque color giada, tra minuscole alghe verdi, nascono i piccoli di coccodrillo.
Lago Turkana Kenya La vita, nel villaggio el molo di Loriyan, ha ritmi fissi: si pesca un’ora, all’alba e al tramonto. IL resto del tempo si passa a rammendare le reti e a preparare il pesce. Un osso di persico per cucchiaio e una collana di perle per non morire.
I pescatori el molo, che abitano la riva orientale del lago Turkana, sono in numero così esiguo (un censimento del 1974 ne contava 92) da sembrare irreale. Le analisi genetiche dimostrano che si tratta di un coacervo di “profughi” sfuggiti ai pastori e costretti alla pesca. Anche le caratteristiche culturali concordano: uno dei loro ornamenti classificatori è un orecchino in osso di vacca, a testimonianza di un passato pastorale, mentre molte tecniche di pesca sono mediate dai cacciatoriraccoglitori okiek, gli unici autoctoni dell’area.
Moite, Lago Turkana Kenya Una forma robusta di ominide, Australopithecus aethiopicus (olotipo WT 1700, Cranio Nero), viveva qui quasi tre milioni di anni fa. L’ambiente era ostile anche allora. Grazie perchè sei sopravvissuto, favorendo la mia evoluzione.
A piedi finalmente lungo le rive del Turkana. Luce calda e rocce vulcaniche. Una barca tra le alghe vicino ad un deposito per la lavorazione e lo stoccaggio del pesce. Il villaggio di Loyangallani è a 5 minuti a nord-est
La metropoli, in Africa, ha connotati specifici: 1) numeri elevatissimi (Addis Abeba, una delle città “piccole”, conta oltre quattro milioni di abitanti); 2) alte densità abitative alternate a zone di vuoto gestionale; 3) carenza di energia e servizi primari; 4) annullamento delle reti operative della famiglia allargata.
Si ha così un sistema complesso ad alta sensibilità alle condizioni iniziali, entro cui avvengono variazioni (dal clima erratico alla diffusione della malattia, come per l’Aids) imprevedibili e incontrollabili. Questo porta a successive forme di auto-organizzazione spaziale e a meccanismi di economia parallela: dalla discarica verso lo slum, in retroazione positiva.
Addis Abeba Etiopia La lamiera ondulata è elemento fisso di presenza umana nel panorama africano. Talvolta luccica come la neve che non c’è; altrove è policroma tavolozza di ruggine progressiva, segnale del tempo che passa sotto la pioggia.
Il cristianesimo, secondo il sapere locale, apparve in Etiopia nel 42 d.C. Divenne religione ufficiale, in forma ortodossa, a partire dal 320 d.C. La croce, in Etiopia, ha significati simbolici: è l’albero del paradiso, il cespuglio della vita, la speranza dei cristiani. Il piedistallo alla base è la tomba di Adamo, e occorre superare questo sarcofago per giungere al centro della croce: il punto della redenzione.
Altopiano amhara Etiopia I contadini amhara, per non piegare la schiena alla zappa, inventarono l’aratro. Ma, come dicono loro,: “Se lavori duro puoi restare povero, oppure ti capita di diventare ricco senza fatica. Tutto dipende dal destino�.
ADDIS ABEBA S 08° 58‘, 605 E 38° 47’, 900
Lago Turkana – Lokichoggio – Addis Abeba (Etiopia) – Lalibela Il villaggio di Loiyangallani dall’aria, poco prima, assomigliava a un biliardo di marmo nero con migliaia di palle colorate sparse a caso. Le capanne dei turkana, dal tetto di paglia e dalle geometrie curve, spiccavano sulla lava come fiammiferi di legno sulla sabbia scura. Sembravano finte . Ora, invece, a camminarci dentro tutto pare sin troppo reale. Il villaggio è abitato da 4300 anime gabra, rendille, turkana, samburu, tra gli altri. M’incammino attraverso il piccolo mercato lungo la via centrale e incontro indigeni con piume e perline, qualche cammello e molti asini. Non so se salutare con la mano come un turista idiota o guardare per terra continuando a farmi gli affari miei. Mi distraggo pensando che qui intorno si distendono pietraie infinite che hanno visto nascere ed evolversi i nostri antenati. L’intera area è ancora oggi una manna per gli archeologi e paleoecolocologi. Sulle colline più a nord vivono gruppi di pastori nomadi e qualche banda di predoni che agiscono in un territorio di bruta, desolante bellezza. L’ex lago Rodolfo ha una superficie di 6405 chilometri quadrati, è lungo 240 chilometri e ha una larghezza massima di 55. Siamo a soli 600 chilometri da Nairobi ma potremmo essere su Marte. Senza gli aerei ci avremmo messo una settimana ad arrivare quaggiù via terra. Un luogo infinitamente difficile da descrivere. Bisogna capitarci in mezzo per capire. Passiamo una paio di magnifici giorni a zonzo tra comunità el molo, siti di paleoantropologia umana, graffiti rupestri, lagune verdissime, piane desertiche sterili come la luna e orizzonti senza limiti apparenti. La gente da queste parti è straordinaria: ha abitudini e schemi mentali fuori dal mondo.
Ora capisco perchè il mio amico Alberto, antropologo e paleoecologo, passa le sue estati da più di vent’anni sempre quaggiù. Basta camminare nella Suguta Valley in compagnia di qualche asinaio turkana o semplicemente sedersi su una pietra a guardare quel che succede nella comunità, per scrivere storie strepitose. Lo ritrovo alla sera nel cortile di una guesthouse a bere tè e a scrivere rapporti scientifici su un computer portatile alimentato a batterie solari. Notte stellata tra chiacchiere e birra calda. Il giorno dopo, finalmente, cala il vento. Ma ci tocca abbandonare anche Loiyangallani. Attraversiamo in orizzontale tutto il bacino e ci infiliamo tra pianure immani fino al campo base dell’Onu a Lokichoggio. Atterriamo tra granai e depositi di aiuti umanitari, campi profughi, aerei e mezzi di soccorso con le insegne delle Nazioni Unite e della Fao che servono tutta quest’area disastrata dalla geografia politica e dalle guerre civili. E’ giorno di riposo. Aspettiamo un rifornimento che arriva solo dopo mezza giornata di attesa. Poi ancora verso nord. In meno di 180 minuti incontriamo l’Etiopia. Scendiamo ad Addis Abeba giusto per farci timbrare i passaporti e riempire la pancia. Siamo pronti per entrare nella Rift Valley etiope tra terrazzamenti verdissimi, villaggi, calanchi e costoni rocciosi che delimitano il fondo del Nilo Azzurro e le cime piatte dell’acrocoro. Voliamo su scarpate profonde, villaggi costruiti in posizioni funamboliche, minuscoli coltivi cavati a forza sull’orlo di precipizi e devastazioni geologiche fenomenali. Lalibela, celebre per le portentose chiese rupestri intagliate nella roccia, si trova a 2700 metri. La città del Re della dinastia Zagwe, ci accoglie tra fiori d’aloe profumati, aria frizzante, greggi di pecore e una processione di contadini vestiti di bianco che arrivano proprio oggi dai villaggi limitrofi per incassare una decima extra del raccolto stagionale.
L’ombra del Mount Abuna Joseph (4200 metri) avvolge le pieghe più nascoste del paese mentre arranchiamo tra i viottoli polverosi del villaggio. Scivolo e rompo nell’ordine un sandalo di cuoio, un paio di occhiali da sole e un obbiettivo che rotola sulle rocce poco più a valle del mio maldestro piede sinistro che ha mancato la presa sul sentiero. Un calzolaio di 13 anni rimedia al primo problema. Un santo sconosciuto (spero) riceve le mie maledizioni invece per le lenti scure ormai distrutte e per l’ 80-400 Nikon stabilizzato che valeva più della mia motocicletta. I ragazzini ridono, come sempre in Africa, delle disgrazie altrui. Li sfido allora a ping pong nella pubblica piazza. Il tavolo è un inferno di piani inclinati, rimbalzi difficili e spigoli testardi. Le racchette e la pallina sembrano favorire solo chi professa la vera fede. Perdo. Onorevolmente, ma perdo. Mi rifugio lontano dai sorrisetti maliziosi dei più grandi. La sconfitta mi costa anche qualche birr. Non sapevo che il tavolo fosse in affitto. E chi perde, giustamente paga.
Me ne vado a meditare tra le sale buie della chiesa di San Giorgio, forse la più elegante di tutte le costruzioni di Lalibela. Con una pila da tasca illumino affreschi religiosi e icone straordinarie. In controluce sulla soglia appare un pellegrino vestito di bianco. Un bastone nella destra e un libro nella sinistra. Sento un canto lontano. E’ umido qui dentro e fa freddo. O forse è solo l’impressione della storia che mi scivola accanto. Gli angoli delle pietre sono ormai arrotondati e consunti da secoli di piedi e mani. Una candela si accende nell’angolo ovest e rivela una donna in preghiera, genuflessa sotto un drappo bianco. Esco su camminamenti esterni a prendere una boccata dell’ultimo sole.
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La casa di San Giorgio a Lalibela, in Etiopia, è un monolite scavato nella roccia con l’aiuto del santo: nel cortile è visibile l’orma del suo cavallo. Da queste parti nacque, attorno al 1100, un nobile fanciullo che venne avvolto da uno sciame di api. Per cui fu chiamato Lalibela: “Le-Api-Riconoscono-il-Sovrano”. Un giorno, Dio salvò il giovane re da un attentato. In sogno, Lalibela ricevette un ordine celeste: costruire “preghiere di pietra”, chiese fatte come il mondo non avesse mai pensato. Così, in 24 anni e con l’aiuto degli angeli, sulle montagne del Lasta apparve una nuova Gerusalemme, con il Giordano e il Santo Sepolcro, in mezzo a 11 chiese ricavate dalla roccia viva. In un pezzo unico.
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Acrocoro centrale Etiopia CosĂŹ come la collana del matrimonio scende sul petto della sposa, altrettanto si altera la forma delle montagne etiopi, frutto di esplosioni vulcaniche, di rigonfiamenti della crosta, di fratture, di erosioni durate milioni di anni.
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Omdurman, Sudan “Io sono il Mahdi, colui che venne inviato dal Profeta. Affrancherò il Sudan dall’oppressione degli Egiziani e degli Inglesi infedeli. Il mio popolo deve tornare alla purezza della fede”. Resoconto orale di un discorso del 1881 di Mohammed Ibn Ahmed el-Sayyid Abdullah, prima della battaglia di Abba.
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Khartoum Sudan “Passo gran parte del tempo sul tetto. Scruto le acque del Nilo. Non vedo traccia di una forza di soccorso. ma continuo a guardareâ€?. CosĂŹ scriveva nel dicembre 1884, Charles G. Gordon, governatore generale del Sudan, assediato dal Mahdi. E beveva dalla fiaschetta da tasca.
KHARTOUM S 15° 35‘, 105 E 32° 33’, 400 Lalibela- Khartoum (Sudan) - Lago Nasser (Egitto) – Aswan – Hurgada – Il Cairo Lasciando l’altopiano la terra digrada bruscamente verso le foreste del confine tra Etiopia e Sudan, fino al deserto. Scampoli di Africa centrale, tropicale. Poi le pianure polverose, interrotte solamente dalle curiose distese di coltivazioni di riso di New Halfa, stazione biologica e agricola sperimentale, prendono il sopravvento e trasformano il Sudan in un universo marrone. Ci vuole tutta la mattina per arrivare al cuore dell’ex impero del Mhadi. Incrociamo cumulonembi pesanti ed estesi che non riusciamo ad aggirare facilmente. Ci voliamo dentro per un pezzo. Si guasta anche il giroscopio dell’orizzonte artificiale e per una buona mezz’ora viaggiamo senza direzioni apparenti. Poi la fortuna gira di nuovo. Torna il sereno e anche lo strumento riprende a funzionare. Sorvoliamo il Nilo Azzurro e il Nilo Bianco che s’incontrano a Khartoum, poco distante dalle scintillanti moschee di Omdurman. All’aeroporto della capitale del Sudan erano anni che non atterravano piccoli aerei privati civili in gita di piacere. Le formalità si sbrigano in fretta, ma dietro a un velo di diffidenza. Solo grazie a una specie di agente all’Avana sudanese che ci fa da apripista tra le pieghe della burocrazia locale, riusciamo a sbrigarcela in giornata. La città è torrida e polverosa d’afa estiva. Invece mi infilo nel suq e cerco di comprare delle pile cinesi per il motorino della Nikon. Passo la notte sotto un ventilatore all’hotel Acropole, uno storico albergo in centro città dall’atmosfera delabrè, frequentato da viaggiatori e archeologi. 85
La mattina successiva andiamo a sgranchirci le gambe alle stupefacenti piramidi di Meroe, quel che resta del regno dei faraoni neri. Il luogo è mistico. L’immensa necropoli reale comprende una cinquantina di costruzioni e almeno una ventina si trovano ancora in buone condizioni. Il regno meroitico sopravvisse, dopo lunghissime vicissitudini, sino al 350 dopo Cristo. Entro e esco dalle sale a cielo aperto ormai invase dalla sabbia bollente e mi siedo vicino a geroglifici che ricordano quelli egizi per grafica e significati. Templi, altari, sale segrete e cumuli di pietre scure scolpite tra le dune, si trovano a sole tre ore di fuoristrada da Khartoum. Mi arrampico su una muraglia diroccata e me ne sto seduto sotto il sole a pensare perché diavolo qualcuno avesse voluto spostare una capitale di un regno tanto potente in un posto così desolato e difficile. Prima di delirare sotto il sole di rientriamo verso il fiume e infine in città. Decolliamo dalla capitale all’alba del giorno successivo e rimaniamo nella frescura dell’alta quota mentre sorvoliamo la Nubia e il suo nulla. Fino alle propaggini meridionali del lago Nasser, che s’impadronisce della sabbia con dita d’acqua artificiali verdissime, il paesaggio quasi non esiste. I templi di Abu Simbel e le vele del Nilo appaiono infine inaspettati tra i contrafforti rocciosi dell’Egitto del sud. L’antico impero dei libri di storia, dell’immaginario collettivo, scorre insieme al Nilo mille metri più in basso. Scendiamo ad Aswan a goderci l’aria umida dalle terrazze dell’Old Cataract, leggendario hotel affacciato sulle anse del fiume. Io mi arrampico sulla collina di fronte, dopo un breve viaggio in feluca, e mi godo un tramonto solitario in controcampo. Il Nilo è ormai più trafficato che il Danubio. Le navi da crociera dai colori fastidiosi e dalle forme sgraziate inquinano il panorama. Il crepuscolo smorza un po’ i contrasti, grazie al cielo.
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Siamo quasi alla fine. La diga di Aswan, grazie ai prodigiosi sogni idro-agricoli di Nasser e all’ingegneria italiana, ha strappato nel 1971 alla sabbia migliaia di ettari di terra oggi trasformate in un bacino immenso che accoglie le acque del Nilo. Districhiamo i velivoli dalla burocrazia egiziana e torniamo nel vento a sorvolare l’Alto Regno. Ancora sabbia. Le linee fertili si estendono a fianco del fiume solo per qualche chilometro. Il resto è immerso nella polvere sterile. I corridoi aerei rigidi che ci vengono imposti dai radar militari che controllano tutto l’Egitto non ci permettono di scendere di quota. L’aria è troppo afosa per permettere una buona visibilità da 7500 piedi di quota. Ma le geometrie delle coste rocciose e delle valli che riusciamo ad intravedere sono comunque una meraviglia. Chiediamo via radio di dirigere verso la costa per simulare un atterraggio a Hurgada e sorvolare quindi ad un’altitudine inferiore almeno la barriera corallina del Mar Rosso. Ci accordano un avvicinamento alla costa a bassa quota. Le isole del canale di Jubal, diventano omologhi delle Maldive. Il reef visto dall’alto non ha nulla da invidiare alla grande barriera australiana. L’Africa si fa liquida e azzurra. Uno spettacolo straordinario. Colonne coralline salgono dal profondo blu affiorando a pelo d’acqua. L’elica si avvita finalmente nell’aria umida e salmastra, mentre noi pure ci godiamo il profumo del mare e i colori delle lingue di sabbia e delle lagune che si susseguono sino alla penisola del Sinai.
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Finalmente il mare. Gli aerei sembrano respirare meglio sorvolando la barriera corallina a nord di Hurgada. I controllori del traffico aereo egiziano ci costringono a corridoi aerei alti e poco scenografici. Tutta l’area e ben sorvegliata. Non si scappa nemmeno con le ali. Riusciamo solo ad abbassarci di quota mentre viriamo verso ilCanale di Suez e Il Cairo.
Hurgada Egitto Il Mar Rosso è luogo di antichi naviganti, interfaccia liquida tra Africa e Asia. A volte pare bastare un fischietto da nostromo per chiamarsi da una riva all’altra dei continenti. Per dirsi cosa?
I coralli sono animali dell’Ordine Scleractinia, dotati di scheletri calcarei. La barriera corallina è la struttura costruita dai coralli stessi. Questi organismi hanno bisogno di molta luce solare, temperature tiepide, piena salinità (oltre 20 ppt), acque libere da sedimenti e un fondo marino duro e stabile cui ancorarsi.
Hurgada Egitto Fossili di ammoniti al centro del Sahara di 100 milioni di anni fa: in principio era il mare, che copriva l’Africa. Monili in amazzonite dal Mali neolitico: in principio era il deserto, quando il mare si ritirò.
Isole dello Stretto di Gubal Egitto Guarda tutte le stelle: se sei un bravo marinaio, almeno nel momento in cui morirai saprai dove ti trovi. Eh giĂ , come diceva Alice: “Mi chiedi a che latitudine e longitudine mi trovo, non ho la minima idea di cosa siano la latitudine e la longitudine, ma sono due parole fantasticheâ€?.
Lago Nasser Egitto La Terra di Punt, il luogo dei profumi si raggiungeva navigando il Nilo, corridoio per l’Africa Nera d’oriente. IL Padre dell’Egitto ha oggi acque dilatate, come le pupille di chi guarda il futuro.
Le file di petroliere e porta-container in attesa del loro turno per raggiungere il Mediterraneo, annunciano l’imbocco del Canale di Suez. Raffinerie e strade solitarie disturbano il reg costiero, altrimenti ordinato dal vento. Le nuvole di smog che si alzano in cielo annunciano Il Cairo. Appare di nuovo il Nilo e la sterminata megalopoli dove si distinguono a malapena le piramidi di Saqqara e El Giza con la Sfinge insidiata dal traffico. 14 mila chilometri a nord delle turbolenze sudafricane, l’Africa, semplicemente, finisce (o ricomincia) in un soffio sulle sponde del nostro mare. Flaps a 30 gradi e carrello giù. Da oggi si torna tutti con i piedi per terra Davide Scagliola
IL CAIRO N 30° 04‘, 000 E 31° 11’, 500
Diga di Aswan, Egitto “Costruita nel 1902 e ammirata per molti anni, la vecchia diga di Aswan è stata declassata dalla nuova Sadd-el-Ali, inaugurata nel 1971. La sua corona è lunga 3600 m e larga 40; si erge a 111 m dal letto del Nilo. La piramide di Cheope potrebbe esservi contenuta 17 volte. Un flusso di 80 miliardi di m3 l’anno aumenta di un terzo la superficie coltivabile e produce 1,2 miliardi di kWh”. Hans Strelocke, “Guida del turista”,1981
Dahshur: la piramide romboidale di Snefru Egitto Mattoncini del Lego assomigliano ai caratteri arabi dello storico al-Hamdani, morto in prigione a San’a nel 945 D.C. “Nelle sabbie del deserto è sepolta una piramide rovesciata che Racchiude la verità sulla specie umana”.
LEGENDA I
Borraccia di uovo di struzzo con motivi incisi a fuoco. h. 15 cm boscimani !Kung, deserto del Kalahari, Botswana 1980
Pendente ricavato dalla testa rinsecchita di un piccolo coccodrillo del Nilo. l. cm 7,5, con cordiglio in cuoio, cultura dinka, Equatoria, Sudan
Diamanti provenienti dalle miniere sudafricane
Cucchiaio e collana femminile in osso di pesce, filo di ferro e perline di vetro. l. cm 19, cultura el molo, lago Turkana, Kenya, 1974
Testa in stile Katsina Ala, terracotta, h. 27 cm scultura nok, Nigeria, 350 a.C.
Cranio fossile di Australopithecus aethiopicus, numero museale WT 17.000, trovato nel 1985, fiume Lomekwi, lago Turkana, Kenya, cm 21x15x11 ca., 2,5 milioni di anni
Coltello del circoncisore in ferro, l. 20 cm cultura fang. Gabon, ca. 1500 d.C.
Monile ekipa per cintura, in conchiglia, con motivi pirografati, l. cm 8, cultura owambo, Namibia, inizi del xx secolo
Coppo di tetto, lamiera ondulata recuperata in una discarica in provincia di Cuneo. Identica a milioni di altre osservate in tutta l’Africa
Moneta a forma di lancia-serpente, in ferro. l. cm 38, cultura ngelima. Congo, regione del basso Ituri, senza datazione
Figura votiva dello zappatore, in ferro, cm 16x10,5, cultura dogon, Mali, 1600 d.C. ca.
Zanne di ippopotamo, trovate nel 1982 sulla riva orientale del lago Turkana, Kenya
Colana matrimoniale in vetro, argento e lana, cm 80, cultura amhara, Lalibela, Etiopia, rimontata piĂš volte nel tempo
LEGENDA II
Pendente-accumulatore di potere raffigurante un capro con denti di coccodrillo, in avorio, l. cm 4,7, cultura chokwe, Angola, fine XIX secolo
Fiasca da tasca per liquori, in vetro e cuoio marcato con lo stemma dell’esercito britannico, h. cm 14,5, 1880 ca.
Figure sciamaniche femminili, pittura su roccia, raccolte in Zimbabwe da Frobenius nel 1931
Fischietto di segnalazione da nostromo, in ottone, l. cm 12,5, ca. 1940
Blocco di lava con granati, l. cm 13,2, raccolto sul vulcano Kulal, lago Turkana, Kenya, nel 1986
Collana in perle di amazzonite, cm 70, Neolitico del Mali, ca. 2000 a.C.
Pestello e mortaio per tabacco in vertebra di elefante scolpita, h. cm 14,8, cultura maasai, Tanzania, ca. 1950
Ciotola ricavata da una zucca pirografata usata per bere e mangiare
Stelle marine 5 specie diverse fotografate sulla spiaggia dell’isola di Zabargad, tra Egitto e Sudan
Scacciamosche rituale con figura implorante, simbolo di autoritĂ dei notabili, in avorio, legno inciso e coda di gnu, manico l. cm 23,5, cultura kongo, fine del XIX secolo
Portaprofumi con distributore con iscrizioni, in lega metallica, smalto e vetro, l. cm 16, cultura islamica, Egitto, ca. 1920
Cresta dorsale di coccodrillo fossile, l. cm 8, raccolta nel 1983 a Lenterit, lago Turkana, Kenya, databile a oltre il milione di anni
Mattoni Lego per costruzioni, cm 7x7x9
Davide Scagliola Photojournalist
Ringraziamenti Questo libro è stato realizzato anche grazie alla straordinaria collaborazione de “Il Gabbiano Livingston”. Un ringraziamento infinito va poi ad Andrea Guerra e a tutti i compagni d’avventura, gli amici e i piloti che hanno collaborato a portarmi sano e salvo da un capo all’altro dell’Africa.
Curatela La prefazione e tutti i testi antropologici e scientifici, sono stati scritti e curati da Alberto Salza, amico di lunga data, consulente infallibile, nonchè antropologo, scrittore e divulgatore scientifico eccellente. Gli oggetti, i monili e i reperti (esclusi i pezzi del Lego...), fotografati accanto alle immagini aeree, appartengono tutti, tra l’altro, alla sua collezione privata.
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Tutte le immagini, i testi, i disegni contenuti in questo libro, non possono essere riprodotti con nessun mezzo in nessun contesto, senza un’autorizzazione scritta dell’editore
ISBN: 9788898512041