Osteria d'oriente

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DAVIDE E RENATO SCAGLIOLA

Osteria d’Oriente

Avventure Piemontesi


Ballata di Batista Batista cavalier del Collombardo saraceno mezzo longobardo Contrabbandiere marinaio bergè, batista Vicerè del Musinè, partì di furia di casa, lasciando la stufa accesa la mula bianca strigliata legata all’inferriata... (Cantambanchi 1983*)

*Questa ballata la cantammo con il gruppo dei Cantambanchi in giro per il Piemonte per anni. Contiene tutti gli elementi che, sviluppati in vario modo, sono poi diventati “Osteria d’Oriente”. E qui non guasta ricordare che cosa è stato il gruppo musicale dei Cantambanchi. Eravamo in sette: chi scrive (voce), il figlio Davide (batteria e percussioni), Francesco Bruni (voce e chitarra), Claudio Perelli (chitarra, voce e tastiere), Laura Ennas (voce, e che voce), Franco Contardo (voce), Giancarlo Perempruner (voce, strumentario autocostruito, fabulazioni). Tutti torinesi, tutti con un altro lavoro. Abbiamo girato per vent’anni, dal ’70 al ’90, in Piemonte e fuori, siamo riusciti ad incidere un paio di dischi, abbiamo imparato molto e ci siamo molto divertiti, cantando brani tradizionali e molte altre canzoni di “produzione propria”.

Ascolta la canzone dal disco “Land Rover “


1. Prefazione

Sfoglierai queste pagine e respirerai profumi d'erba e di legno muschiato, odori di formaggi e di stalla. Vedrai gli spazi illimitati - ma non voraginosi, anzi, rasserenanti - che si possono dominare da un picco alpino o dalla gobba di una collina. Sentirai suoni comuni ma ormai per molti di noi insoliti, come una campana che batte l'ora, il muggito che arriva da un alpeggio, il fruscio del vento tra le foglie baluginanti di un pioppeto. E ti accompagnerà… Batista, personaggio e archetipo che nasconde in se‚ gli opposti del vagabondaggio e della stanzialità, della passiva contemplazione e della fatica operosa, della follia e della saggezza. In un libro ne troverai due. Amalgamati, intrecciati, indistinguibili. Uno fatto di parole e uno fatto di immagini.

Modi diversi, per evocare le stesse sensazioni e per registrare, prima che svaniscano, i ricordi di un mondo minacciato e in parte già scomparso per sempre. Un padre e un figlio si sono messi insieme per scrivere e fotografare, il che è già bello e raro. Ed è anche strano, perchè‚ entrambi hanno girato mezzo mondo, soprattutto nelle sue mete estreme: il deserto o i ghiacci polari non importa. Salvo poi accorgersi che a volte l'esotismo più inebriante è girato l'angolo. Sulle montagne del Cuneese, nelle Langhe, in riva a un lago grigio di pianura o nel chiostro muto di un' abbazia. Molti posti che stanno sotto l'insegna dell'<Osteria d'Oriente> li ho conosciuti bene, a piedi o in bicicletta, quando da studente battevo la Val Varaita, la Valle Grana (con le loro diramazioni), la Valle Po, la Val Vermenagna e altre ancora. O quando - più occasionalmente - salivo al Gran Paradiso dalla parte di Cogne. Soltanto i piedi o la bicicletta possono misurare davvero le distanze e lasciare nella memoria tracce durature di un itinerario. Riconosco dunque puntualmente luoghi, toponimi, costumi, persone. Rivivo le estati del liceo, quando, lasciate le aule del d’ Azeglio e trasferito nel Cuneese, in calzoni corti o con i primi jeans facevo l'inviato speciale di importanti settimanali che si chiamavano (e ancora si chiaii


mano) <Corriere di Saluzzo>, <La vedetta>, <Il Saviglianese> e via elencando. Scrivevo di incidenti stradali come della stagione turistica o dello spopolamento della montagna: già drogato dall'aroma di petrolio che permeava le tipografie di provincia, quelle di una volta, dove ticchettava una linotype e ansimava una macchina piana, che prima stampava le due pagine da una parte e poi, il giorno dopo, con le notizie più fresche (tutto è relativo), dall'altra facciata (bianca e volta, come dicevano i tipografi, quando ce n'erano ancora). A Costigliole di Saluzzo, imbocco della Val Varaita, ci chiamavano la <banda dei tre>: io, Ugo e Pinuccio, con Pierino che ci raggiungeva il sabato pomeriggio a fare il quarto, quando staccava dalla catena di montaggio della Seicento. Tutti i sentieri, erano i nostri, tutte le baite e i forti diroccati, tutte le ragazze che facevano svolazzare la gonna come un fazzoletto. Salvo poi, nelle balere, star paralizzati a guardare quelli che le ragazze le avevano sul serio. Ci si consolava come gli stambecchi, silenziosi, salendo in alto a scrutare lontano nei giorni sereni. Puntavamo lo sguardo al Monviso, dalla cui vetta una leggenda vuole che talvolta si scorga il mare, e ci dicevamo che prima o poi saremmo saliti. Ma era sempre per l'anno dopo, quando finalmente ci sarem-

mo allenati nel modo giusto. Di anno in anno, la punta del Monviso si è fatta sempre più lontana, come in un binocolo girato al contrario. Ugo è ingegnere all’Ansaldo, con meno capelli e più pancia. Pierino, passato alla Recchi, scava il passante ferroviario di Torino. Pinuccio vende medicinali di farmacia in farmacia. Io, sono qui, con cinquant'anni e la barba bianca. Ormai non sento più dire che nei giorni sereni da lassù si indovina la linea azzurrina del mare; sento dire, invece, che pure quei pochi metri quadri a 3841 metri di quota sono pieni di borse di plastica e di lattine di Coca-Cola. Al diavolo anche il Monviso! Non ho mai condiviso con Renato Scagliola - nè ovviamente - con il giovane Davide neppure uno dei posti raccontati nell'<Osteria d'Oriente>. Loro ci sono stati per conto proprio, io per conto mio, probabilmente in tempi alquanto diversi. Eppure, se leggo bene, abbiamo provato le stesse emozioni. Ma quello che più mi è piaciuto, oltre a trovarci qualcosa di me, è il loro modo di raccontare. E' facile, in queste cose, finire nella melassa della nostalgia, peraltro giustificata e apprezzabile anche lei. Molto più difficile è tenere la misura concreta della cronaca, dandole insieme l'aura magica della fiaba o addirittura del mito, quel mito teriii


ragno che teorizzava Cesare Pavese quando giocava a far l'antropologo. Così come è più difficile, linguisticamente, incastrare così bene nell'italiano parole dagli echi dialettali. Discorsi simili valgono per le immagini: anch'esse concrete e simboliche, documentaristiche e mitiche, belle ma non del bello che di solito si premia nei concorsi di fotografia artistica. Insomma, anche nello stile della scrittura e nelle inquadrature delle foto, mi sono ritrovato. Sarà che con Renato ci sono tante cose in comune, e soprattutto una: prima i palchetti di legno della <Gazzetta del Popolo>, in corso Valdocco, bruciacchiati da migliaia di mozziconi di sigaretta, e poi i corridoi asettici de <La Stampa>. Sarà che la poesia trattenuta dal pudore e tuttavia affiorante in queste pagine, avevo incominciato a conoscerla nelle sue canzoni, quando con <I cantambanchi> metteva in parole e musica allegria e malinconia, costume e lotta politica, serietà e umorismo. Un cocktail non sempre facile da mandar giù, neanche negli Anni Settanta. Un solo aneddoto. Curavo, allora, la <rubrica motori> di Rai Due, e ci mettevo dentro, più che gli ultimi modelli di vetture, un tentativo di analisi del fenomeno automobile: analisi estetica, sociale, psicologica, di impatto ambientale. Si fece, una volta, una puntata sull'auto

nella canzone, e provai a infilarci <Automobilesimo>, un pezzo satirico in cui i <Cantambanchi> parlavano delle quattro ruote come di una religione, con tutto il suo fondamentalismo. Bene: non passò, se non come fugace citazione. Preferirono avere in studio Roberto Balocco, che cantò una sua canzone su un'utilitaria con il motore <truccato>. Meno grane, deve aver pensato il vigile funzionario dell'epoca. Sono cambiati i tempi, è cambiata la Fiat, è cambiata la Rai. Renato è sempre lo stesso, con vent'anni di più. E anch'io, spero.

Piero Bianucci 8 luglio 1994

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2. Il progetto originale Batista in piemontese si dice con una ti sola, come in spagnolo. Il diminutivo è Tistin. Fu un’idea di una dozzina di anni fa, come sinergia tra padre giornalista e figlio fotografo.

3. Le immagini

Un libro e una serie di situazioni inventate per giocare nei luoghi più appartati del Piemonte, e raccontare le balle che avevamo nella testa: poesia, straniamento in un tempo sospeso, colline e montagne deserte, il passato, una cascina malandata, una grangia sperduta, un campo di meliga, con un personaggio un po’ epico e un po’ di campagna che va in giro rimuginando e guardando per aria, sapendo quello che è stato, e con poco entusiasmo per quello che c’è.

Realizzate nell’arco di un paio di anni, le foto di Batista selvatico e visionario, a zonzo per il Piemonte in cerca di tutti e nessuno, non seguono altro criterio se non quello di una personalissima ricerca estetica e d’atmosfera. Io e Batista, fedele comparsa obbligata a posizioni scomode e a volte perigliose, a lunghe attese e scrupolose ricerche di inquadrature nuove, non abbiamo fatto altro che seguire, durante le gite fotografiche, l’istinto (una direzione vale l’altra quando non si sa cosa cercare…) e le condizioni meteorologiche più sfavorevoli: neve, temporali e nebbie maestose.

Viene fuori una regione in parte inesistente, se non nella testa degli autori, con poca gente, grandi spazi, una specie di altopiano andino però con vigne e pioppeti, castelli diroccati e mulattiere selciate. Seguendo, per dire, la vecchia storia della ricerca della freccia - come raccontava Kipling - che come sappiamo non porta in nessun posto.

Quando necessario ho isolato il quadro fotografico dal contesto iper-reale in cui si trovava, tagliando fuori pali della luce, tralicci, autostrade e cartelli pubblicitari che, secondo noi stonavano con il mantello nero, il bastone minaccioso e l’atmosfera surreale del momento. Non per questo però le foto sono un falso, una ricostruzione; anzi. Alla fine sono solo pezzi di vero Piemonte - soprattutto montagne e campagne - ripuliti da immagini severe, fortuna e gusto personale.

Ma almeno, nel frattempo, uno gira, impara e fa passare il tempo.

Davide Scagliola 1994

Renato Scagliola 1994 v


3. Copyright

Osteria d’Oriente di Davide e Renato Scagliola

Š Per i testi e le immagini: Davide e Renato Scagliola prima edizione 1994 - I-Book: luglio 2013 Numero ISBN: 9788898512027 vi


4. Gli autori

Renato Scagliola, nato a Torino nel 1941, abita a Rivoli (Torino). Dopo tanti mestieri è diventato giornalista: Gazzetta del Popolo, Stampa Sera, La Stampa. Ha lavorato in cronaca: nera e bianca, giudiziaria, agli spettacoli, ai supplementi scientifici. ha firmato reportage africani - dall’Algeria alla Mauritania, all’Etiopia - viaggiato un po’ in Bolivia, Amazzonia, Malesia, Micronesia, e tanto in Piemonte, soprattutto in montagna. Oggi è in pensione e trascorre molto tempo nella sua cascina dell’Occa, vicino a Barge, in provincia di Cuneo. Nel 2013 ha pubblicato il seguito ideale di queste avventure piemontesi: “La Grappa alla Vipera”.

Davide Scagliola, il figlio, è nato a Torino nel 1967.

Abita a

Torino ma ha viaggiato per tutto il pianeta producendo dozzine di reportage fotografici per le più importanti riviste italiane e straniere. Oggi è uno dei fondatori dell’agenzia fotogiornalistica Parallelozero e viaggia molto meno, occupandosi principalmente del dietro le quinte di produzioni editoriali e multimediali per il mercato internazionale. “Osteria d’Oriente” è il primo lavoro realizzato insieme da padre e figlio in due anni di scorribande, estive ed invernali, nei mesi a cavallo tra il 1992 e il 1994. vii


5. Indice I

Grandi Viaggi: Meliga trail

II

Sotto il tavolo Batista le toccava le cosce

III

Sopravvivere

IV

Fortezze in montagna

V

Equinozio d’autunoo

VI

Sognando alle Meire Bigoire

VII

Donne nude in montagna non se ne vedono mai

VIII

Beati bergè

IX

Monte Benedetto

X

Grandi Viaggi: cronachetta delle Alte Langhe

XI

Il maggiociondolo bello e velenoso

XII

Narbona o degli abbandoni

XIII

Magari compri un coltellino o una mela

XIV

Monviso

XV

Caro ecelenza e nobile che stai nelle pianure

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XVI

Mulattiere e sentieri

XVII

Acque ferme

XVIII

Batista marinaio

XIX

Castagna, Marsiglia e Menelik

XX

Elogio del maltempo

XXI

Grandi Viaggi: Chivasso-Asti in treno

XXII

Compratori clandestini di latte

XXIII

Al passo del Colonnello

XXIV

Batista una volta cantava

XXV

Acquasantiere di pietra

XXVI

Che ďŹ ne ha fatto Michael Timojev

XXVII

Macchine da campagna

XXVIII Osteria d’Oriente

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C APITOLO I

Meliga trail

Esiste un modo di vivere nobile, e un altro abietto, o tutti i modi di vivere sono semplicemente futili? Bertrand Russel


Torino Cuneo a piedi, un trekking per niente turistico, con nella testa i miti della campagna e della provincia, che si scontrano con la realtà. Tre giorni allo stato brado, con carta e bussola, sudato e impolverato, quasi sempre fuori dalle strade asfaltate. Forse una voglia inconscia di darsi definitivamente alla macchia. Una direttissima nord-sud, in solitaria, (forse perfino una prima, ah, ah), con alcuni giri viziosi per evitare statali e provinciali, con troppo caldo per la stagione (fine settembre prima delle piogge), fendendo migliaia di ettari di granoturco maturo, e seguendo la metafisica ferrovia abbandonata che corre da Airasca a Saluzzo. Un binario morto, mortissimo, lungo trenta chilometri. Si passano nove fiumi: Sangone, Chisola, Lemina, Pellice, Po, Varaita, Maira, Grana e Stura di Demonte. Non volendo perdere tempo con guadi pericolosi o costruzione di rudimentali natanti, bisogna cercare i ponti e cascare su strade trafficate. Pazienza. Il cammino comincia a Rivalta, per evitare il disgusto della periferia di Torino che non finisce mai e non insegna proprio niente, neanche andando a piedi. Da Rivalta a Volvera in mezzo ai campi: piantagioni di pioppi, campagna deserta, poche cascine, prati, officine. Si scavalca la nuova autostrada per Pinerolo su un cavalcavia deserto appena asfaltato. La campagna è strana, come trasformata dall'interno. Gli stabilimenti hanno messo radici invisibili che s'infilano dappertutto, guastano gli odori, molestano l'atmosfera. An-

che se sei in un gerbido, con intorno solo alberi e melighe, girasoli disfatti, senti che c'è qualcosa che non va. E infatti dopo una siepe c'è una cascina diventata deposito di un'impresa edile, trasformata in carrozzeria, o in una boita di carpenteria metallica, col contorno di olii, puzze, liquami, grandi porcherie. A Volvera c'è una via Spirito Santo, pensionati che curano minuscoli giardini, (un metro quadro d'insalata, una fila di peperoni, zucchini, un cespo di grisantemi), la Fiat Ricambi, e il ricordo ancora vivo della famosa Santa, che morta nel luglio del '93 a 75 anni suscitando grandissimo cordoglio. Per decenni migliaia di pellegrini malati hanno fatto la fila nel cortile di casa. Prima del paese, un'orribile discarica del comune e un acquedotto fascista in disuso (scritta Dux smangiata). La rugiada inzuppa le pedule. Una mietitrebbia ha aperto un largo varco in un campo di mais maturo e sembra il mar Rosso che si apre davanti a Mosè. Piccola marcia trionfale, verso orti con zucche gialle, pomodori tardivi, cavoli. L'itinerario fuori dalla provinciale si scontra ad un certo punto prima con l'immensa cascina che si chiama Pascolo Nuovissimo (grandi porcilaie, coro di grugniti), poi con la cinta smisurata della Fiat, piantata in mezzo ai campi. Uffici e stabilimento sembrano un piroscafo arenato nei prati, pieno di marinai e passeggeri imprigionati per sempre nelle stive. Ma non si sente un lamento. Superata la ferrovia per Pinerolo-Torre Pellice, va meglio. Sopra 11


macereti e boscaglie volano gazze, ghiandaie, poiane. Si sentono delle rane. Ad Airasca, dopo la cappella di San Rocco, si prende a sinistra e cominciano i binari che arrivano fino a Saluzzo. Ramo secco tagliato da anni, pieno di rovi e ruggine. Airasca non sarebbe un brutto paese, ci sono vecchie case aggraziate, piloni e chiese, inglobate e mischiate con porcherie d'oggi mal disegnate, villette, condominii. Il problema è che nei paesi e nelle città, non c'è mai stato un progetto urbanistico ed estetico unitario, coerente, pensato. Tutto a casaccio, come viene viene. Un po' il guaio del Paese, del resto. La massicciata corre dritta verso sud, invasa dai rovi che scorticano le caviglie, qualche volta da piante di zucche che debordano da orti vicini, dagli equiseti che chissà perchè abbondano sempre vicino alle rotaie. Erbacea strana, l’equiseto, detta anche coda di cavallo, residuo del Triassico, - roba di milioni di anni fa, come le felci - usata una volta dalle massaie per pulire le pentole, dato che le foglioline sono ricche di silicio, perciò abrasive. Spesso bisogna lasciare le traversine (prima di cemento, poi di legno), e camminare a fianco quando è possibile. Peccato che il ghiaione faccia rumore sotto i piedi e rompe il silenzio della campagna. Ci sono caselli abbandonati, con le solite cose che si trovano negli edifici devastati e isolati: vetri rotti, merde, siringhe, preservativi, riviste porno strappate (perchè poi?). Pieve di Scalenghe è silenziosa e semideserta. Sul sagrato della chie-

sa c'è uno fermo, sotto il sole, con una valigia posata per terra. Va o viene? E dove o da dove? Sembra un film. Tra gli scambi della stazioncina crescono salici e fiori gialli. La fontanella funziona ancora. Camminare a piedi in luoghi <normali> (quindi non montagna, savane, deserti), vuol dire entrare magari in un bar, sporco e sudato e farsi guardare storto, quasi sempre. Per strada e in campagna, sguardi interrogativi, tra l'interdetto e il diffidente. Chiedere un bicchiere d'acqua nelle cascine è un problema. Intanto è una vecchia scusa usata sovente dai briganti anche odierni. Poi bisogna superare mute urlanti di cani alla catena, che obbligano a gridare la richiesta da lontano alla madama che esce sulla porta della cucina scostando la tenda. La maggior parte delle volte la signora - giovane o vecchia è uguale - non si fida, perchè gli uomini sono fuori, tergiversa e fa finta di non capire. Allora è inutile insistere, tanto vale tirar via e riprendere la polvere della strada. Anche chiedere informazioni su strade secondarie non sentieri che non esistono più - è un rebus. Perchè un contadino per esempio, pur vedendo l'interrogante visibilmente appiedato, risponde testualmente: <Si c'è una strada che va verso la frazione ma non è asfaltata>. E cascano le braccia. Vigone ha bellissimi portici, un magnifico municipio e niente locande. Ce n'era una ma ha chiuso. La padrona loquace spiega che la legge prevedeva migliorie troppo dispendiose e un numero minimo di sette camere (perchè 12


proprio sette? Forse perchè è un numero scaramantico: i peccati capitali, i sette nani, i giorni della settimana, mah!). La legge è uguale sia per uno Sheraton che per una trattoria con alloggio. Geniale. Quindi le locande della provincia, con poche camere per passeggeri occasionali senza pretese, sono sparite quasi tutte. E' il progresso, come diceva sempre il mio amico Perempruner. Il percorso ferroviario da Villafranca Piemonte a Moretta e assolutamente impraticabile, sepolto dalla vegetazione e poi è perfettamente parallelo alla strada. Quindi asfalto, orribile. Moretta ha un centro delizioso, ben sistemato, con castello, parrocchia barocca, portici, canali tra le case. Magnifico il grande santuario di Nostra Signora del Pilone, all'ingresso del paese. Nei bar si parla della caccia. A proposito della politica sono spicci: <Mah, tanto è tutta una mafia>. In quasi tutti i paesi organizzano un palio dei borghi. Una pestilenza. Manifesti con serate di liscio dappertutto, insieme alle ordinanze del sindaco che impone la pulizia dei fossi e il taglio di <siepi, cespugli e rosai che sporgano sulla pubblica via>. Orribile cena in trattoria tetra con posto per cento persone. Avventori cinque che guardano la partita alla tv e il piatto di sbieco. Cibo disonesto. Fioche luci al neon. Pagare e via di corsa. Dopo Moretta, superata la magniloquenza degli stabilimenti della Polenghi Lombardo, immane caseificio, la ferrovia è quasi pulita. Si vede che qualcuno ha tagliato i rovi. Forse i guardiacaccia o cacciatori (cartucce a

terra), visto che la zona è un'<Azienda Faunistico Venatoria>. Grandi campi di soia, quasi gialla, melighe, prati di trifoglio, gli ultimi fieni. Poche le vacche al pascolo. Ogni tanto cespi di uva americana inselvatichita con grappoli asprigni. Riposo all'ombra di un piccolo filare di noci. Alla lunga la ferrovia diventa noiosa. In territorio saluzzese cominciano le piantagioni di mele, pere, pesche, kiwi, pianta maleodorante, invadente, antipatica anche se esotica. Impianti di irrigazione a goccia, come nel Negev. Vicino ai grandi allevamenti di bovini, minacciati dalle multe miliardarie ordinate da Bruxelles, immensi letamai alimentati dagli elevatori che escono direttamente dalle stalle. La frutta caduta tra l'erba, non raccolta, marcisce e fermenta con odori penetranti. Passano trattori turbodiesel condotti da ragazzotti con lo stereo a tutto volume. I camionisti (non tutti si capisce), che trasportano frutta o trinciato di mais hanno il telefonino. Dopo Saluzzo procedere fuori dall'asfalto è un problema, nel dedalo di proprietà e piantagioni. Si scopre tra l'altro la complicata rete di irrigazione, il mondo vitale delle acque, organizzato meticolosamente da secoli, con orari precisi per ognuno, una rete immensa di fossi, canali, bealere, con centrali di smistamento, anche computerizzate, saracinesche da chiudere e aprire alla data ora, pozzi, pompe. Il fragore della cartiera di Verzuolo si sente a chilometri di distanza. Questa non è più campagna, è industria agricola, 13


che è un’altra roba, con enormi magazzini frigoferi, esportazioni in tutta Europa e anche oltre, investimenti, ville, fax, Mercedes. La trattoria Ceretto, è tradizionale sosta tra Cuneo e Saluzzo, da quasi un secolo. Prima era anche stallaggio, adesso è un buon albergo dove si mangia bene, e si beve – volendo - il Pelaverga, vino dolce a bassa gradazione alcolica prodotto sulle colline di Costigliole. I carrettieri che andavano al mercato di Saluzzo partivano a mezzanotte da Cuneo e a metà strada il cavallo si fermava da solo a Ceretto per la colazione. Bellissimo il centro storico di Busca, case patrizie, il convento, Municipio. Bella strada sterrata di fianco al torrente Grana che scorre in una forra profonda venti metri più in basso. La campagna è cambiata. Meno frutta, più mais, prati irrigui, soia e tanti fagioli borlotti. Cuneo è a 17 chilometri. Ospitale la Trattoria d'Oriente da Alfio, cucina casalinga a Castelletto di Busca, vecchia di 70 anni. Dopo il Bosco di Busca, le frazioni San Pietro del Gallo e Passatore sono già Cuneo. All'improvviso, dopo dieci chilometri d'asfalto e uno che chiede: <Ma perchè va a piedi a Cuneo? Ha fatto un voto?>, si sbuca sulla provinciale che viene da Caraglio, quasi sul viadotto Soleri con le sue reti anti suicidio, intasato di traffico, rumoroso, saturo di gas di scarico. E finalmente il caffè da Arione, sotto i portici di piazza Galimberti, con le camerierine che guardano un po' storto il viandante assolutamente male in arnese. 14


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CAPITOLO

II

Sotto il tavolo batista le toccava le cosce


Dopo Bricherasio sulla provinciale, al bivio per Bibiana andando verso la val Pellice, prima del ponte sul torrente, ci sono cartelli che indicano: Bibiana, Barge, Bagnolo, Cavour, Campiglione. Paesi poetici per chi non ci abita. Così come sono mitici - pensandoli magari dai tropici - Revello, Dronero, Pradleves, Castelmagno, sparsi nella grande provincia di Cuneo, regione di frontiera epica e remota, parrocchiale, industriale, contadina, colta. Il bivio, l'incrocio, sono posti adatti, concettualmente, dove sostare e riflettere, fare progetti. L'incrocio è anche una salvezza perchè offre opportunità, permette fughe in diverse direzioni, non come il rettilineo che non da scampo. Sull'angolo c'è il <Cafè d'l Pont>, dove si mangia anche una buona torta di mele fatta in casa. Andando dritto s'infila la valle che porta a Luserna, Torre, Bobbio e infine alla disadorna osteria di Villanova, con dietro vecchie case di pietra, odore di fieno e buse di capra, che segna la fine dell'asfalto e l'inizio della mulattiera per la conca del Prà. Hanno aperto una pista per raggiungere gli alpeggi; passano trattori con rimorchio, fuoristrada giapponesi e russi, ciclisti in mountain bike con tute aderenti e colorate. Il vallone non è più lo stesso. Un peccato mortale che sia chiusa per sempre la Trattoria Alpina di Bobbio, archetipo da museo di osteria alpestre, rustica, con padroni apparentemente scorbutici, vecchi calendari, foto anteguerra, poesie in piemontese a celebrare la montagna, il barbera, la toma e le acciughe al verde. Si poteva stare delle ore seduti ai tavoli di legno con il piano segnato dai

circolini dei bicchieri e dei quartini. Magari guardare fuori che nevicava e c'era la stufa accesa. O riposare dopo una sgambata in montagna, e piluccare una merenda sinoira. Al Bivio, girando invece a sinistra seguendo i cartelli, non si va solo a Bibiana, Bagnolo, Barge eccetera, dove da secoli lavorano il gneiss lamellare pietra di Luserna) e il raro bargiolino che è una varietà di luminosa quarzite. Si può salire fino al Monte Bracco sopra Barge, alla medioevale certosa della Trappa, dove c'è la Trattoria del Convento, e si guarda in giù nella pianura. Nelle giornate serene il Monviso è di fronte a un passo. Volendo camminare, i boschi sono a portata di mano, e basta poco per scoprire un mondo silenzioso e selvaggio, con rupi strapiombanti e muscosi ripari sotto roccia, castagneti. A Cavour in punta alla rocca hanno aperto un ristorante tra le nuvole, con le sedie fuori che sembra di stare su una nave o nella cesta di una mongolfiera, ma fermi. Si chiama genialmente La Vetta della Rocca e ha i tetti di lose. Battista Giraudo detto Batista o solo Tistin, si fermava sempre agli incroci, quando andava al mercato con la mula imbastata; faceva una sosta anche se non aveva nessun motivo. Stava un po' immobile avvolto nel mantello, il cappello sugli occhi, guardando verso i boschi, pensando quando era in America e gli avevano anche fatto una foto a cavallo nella pampa gringa in Argentina; allora gli bruciava da morire stare in un posto piatto, con l'erba alta un metro, mangiare sempre bistecche e mai insalata, e neanche una montagnola a pagarla. Anche là lo chiamavano Batista, perchè il nome, combinazione, è uguale in piemontese e in spagnolo, sempre 17


con una T sola. Non come Pietro, cambiato in Pedro, o Giovanni che diventava Juan. Poi era tornato a casa e aveva ripreso il filo della sua vita normale, la stalla, i coscritti, la legna per l'inverno. Di quel periodo si ricordava solo due belle parole musicali che gli venivano in testa ogni tanto chissà perchè: <alborada>, che è l'alba, e <cantinplora>, che è la borraccia. Gli piaceva col freddo, torciare una sigaretta di trinciato e accendere il fiammifero che dava una sbuffata di zolfo nelle narici. Un odore che gli ricordava quand'era piccolo e la mamma accendeva il camino con due rame secche messe sulla cenere ancora calda della sera prima, e che rimandava all'odore di fuliggine del focolare, al profumo delle castagne messe a bollire con due foglie di lauro, e ai rumori della mattina presto, il suono delle catene delle vacche nella stalla, gli schizzi del latte munto nel secchio, il trepestio leggero delle donne di casa, il padre che usciva nel cortile a guardare il tempo. Dei giorni saliva verso il colle della Gianna e gli piaceva veder spuntare a poco a poco la piramide del Monviso; stava seduto masticando una paglia e il cane Subiet, un pastore bastardissimo dal pelo lungo, si accucciava nell'erba guardando lontano. Pensava soprattutto a Katiuscia, che aveva un nome russo perchè suo padre era stato sul Don ed era tornato casa per miracolo e aveva voluto battezzar la figlia col nome di una santa donna che in Ucraina gli aveva dato da mangiare due patate bollite e lo aveva fatto dormire nalla sua isba durante la ritirata dell'Armir, e poi perchè le katiusce erano quelle

tremende batterie lanciarazzi, che chiamavano anche organi di Stalin, perchè avevano tante canne come gli organi di chiesa, solo che suonavano tutta un'altra musica. Katiuscia - era l'unica in tutta la provincia a chiamarsi così che aveva due belle poppe bianche e rotonde, morbide, che sapevano di borotalco, e un bel culo fatto a mandolino, ed era capace di meravigliarsi per tutto quello che vedeva e gli diceva cose belle e terribili. Faceva anche delle magnifiche frittate con le erbe, le verdure, le ortiche, la cipolla. Era dolce, o perfida, lunatica; spariva per dei giorni, aveva degli sgangheramenti di umore che la rendevano brusca come una cotoletta in carpione. Ma quando era del verso giusto lo faceva ammattire, con quel modo di parlare cantilenante sconosciuto nella valle, con quel fiato che sapeva di timo e un buon odore tutto suo che emanava dalla pelle, dalle ascelle, dal collo e anche dal cespuglietto nero che aveva in mezzo alle gambe, che Tista non osava neanche ricordare bene altrimenti gli veniva un groppo allo stomaco e un dolore fisico. Da una parte gli veniva da ridere ricordandosi di quella volta che erano andati a camminare sul sentiero delle Anime che chiamavano così perchè le beghine dicevano che quella era la strada che facevano i morti per andare in chissà quale aldilà. Gli veniva da ridere perchè avevano fatto l'amore cinque o sei volte dal mattino alla sera, fermandosi ogni momento; su un bel masso venato di marmo bianco in mezzo al torrente, in un prato in pendenza che facevi fatica a non scivolare, poi contro un castagno e Katiuscia diceva ma sei proprio un vecchio porco, 18


ma era contenta e gli occhi erano brillanti. Avevano mangiato solo delle pesche rubate la mattina presto con ancor la rugiada sopra. E Katiuscia diceva ma quelle pesche fanno miracoli e giù a ridere mentre allargava le cosce, e il sole batteva sul bianco della pelle e sui peli neri e morbidi, che nell'incavo dell'inguine stavano benissimo altro che superflui. Stavano tutti e due liberi e selvatici sulle montagne, ognuno a casa sua, e quando s'incontravano era una festa. Le voleva bene, si parlavano di tutto, e andava volentieri con lei per mano al mercato di Busca tra le madame che se la contavano e pensionati che camminavano piano sotto i portici. Una volta le comprò due penne di pavone e un vestitino a fiori da poco prezzo, ma allegro, poi andarono a mangiare pane e toma alla Trattoria del Tramwai. Era un piacere stare a tavola con la Katiuscia. Mangiava di buon appetito, non come tante che spiluccano appena, chiacchierano e lasciano la roba nel piatto. Fu memorabile una cena alla Cantina dei Passeggeri una sera di dicembre. I vetri delle finestre erano appannati, fuori c'era una nebbia bianca e spessa che copriva gli alberi, infittiva ancora di più la notte, proteggeva, smorzava i rumori.

sopra il cestino del pane, con un buonissimo nebbiolo appena appena frizzante. Sotto il tavolo Batista le toccava le cosce. Gli agnolotti avevano il ripieno giusto, con arrosto, spinaci, pane bagnato nel latte, tutto tritato con la mezzaluna sul tagliere di legno, e fumavano e profumavano prima nella terrina, poi nei piatti, e lui le diceva <ecco sei proprio come un bell'agnolotto>, e lei si faceva uno sbaffo di sugo sulla guancia e lo guardava da sotto in su con gli occhi che ridevano perchè non poteva ridere con la bocca piena.

La magna Margherita stava in cucina da tempi immemorabili, col suo grembiule, le calze scure e i capelli a crocchia, che erano già grigi quando la Muti faceva i rastrellamenti in valle.

C'erano pochi commensali, una coppia di pensionati che si erano ritirati nella frazione, tre coscritti dell'undici che parlavano di una controversa partita di bocce e un vecchio che mangiava sempre da solo. Si sentiva un lieve brusio dall'altra sala dove giocavano a carte. Magna Margherita portò il coniglio alla cacciatora, la faraona arrosto con le patate, un pezzetto di bollito e le coste passate al burro, e Katiuscia diceva a Batista che avrebbero potuto stare a tavola così anche fino a primavera e aveva i pomelli un po' rossi. C'era un rapporto così forte tra le cose buone che stavano mangiando, il desiderio reciproco, il piacere profondo di stare insieme, divisi solo dai grissini sulla tovaglia, che il tavolo era diventato una fonte di benefica energia vitale che li avviluppava, li scaldava a fuoco lento.

Cucinava con una scienza che le veniva da generazioni di tegami, soffritti di cipolla e pietanze trattate con amore e senso del risparmio. Portò i peperoni con la bagna caoda, il cotechino con la purea, gli zucchini in carpione, le acciughe al verde, la lingua salmistrata. Fecero cin cin con i bicchieri

Il trasporto di lui per lei e viceversa, nasceva dal morbido del bollito, dall'odore dell'aglio e del prezzemolo del bagnetto verde, girava intorno alla bottiglia del Nebbiolo, provocava degli sfrigolamenti interni ed era non solo un fenomeno mangereccio, si capisce, perchè i tremori partivano dalle 19


gambe, si congiungevano sul pube, salivano lungo la spina dorsale e scoppiavano nel cervello, spandendosi come una nuvoletta di beatitudine. Un giorno, anzi una sera, erano alla Barma Monastira. Tirava vento, l'aria era fresca. La luna cominciò a venir su da dietro una cresta, una palla luminosa, magnifica. Una toma fosforescente, interplanetaria. Guardandola fissa si vedeva muovere, salire, lasciare lo scuro del bosco e intanto illuminava i prati e le grange, la grande pietraia dietro la casa, e tutto si schiariva di una luce notturna. Andarono a dormire nella vecchia casa di Batista, nel letto che era stato dei nonni. Una stanza con mobili di ciliegio e castagno, al muro una foto dei vecchi, un odore leggero di muffa e cenere tiepida come nelle vecchie sacrestie. Le lenzuola fredde. La luna si vedeva dalla finestra aperta, attraverso l'inferriata. Tista stette sveglio il piÚ possibile perchè non gli sembrava vera tanta meraviglia. Emozionante come quella volta della luna, fu una notte di tuoni e grandine, sotto la trapunta un po' sfilacciata. La fiamma della candela sul comodino ondeggiava all'aria temporalesca che entrava dai vetri aperti. Poi si spense. Il buio era interrotto ogni tanto dalla luce azzurra delle saette, e Katiuscia dava dei piccoli gridi di gioia e spavento insieme e si vedevano per un attimo i suoi seni candidi che scappavano da sotto il lenzuolo. Piovve a dirotto a lungo, e l'acqua faceva un bel rumore sulle lose del tetto.

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C APITOLO III

Sopravvivere


Come fare per sopravvivere ai computer, ai turbodiesel, al fisco, al calcio, alla scemenza, alle puzze? L'unica è scappare appena si può. Chi abita a Torino o nella prima cintura (chi sta a Milano se lo sogna), ha questa fortuna, che con mezz'ora di macchina è tra le colline monferrine, o in mezzo ai canyon, alle praterie e boschi della mezza montagna e poi può andar più su a piedi. E si può far finta che il Piemonte sia soltanto quella fetta della regione che va dal confine con la Francia alla fine delle colline del Monferrato e delle Langhe. Quindi considerare buone per ripararsi solo le provincie di Torino, Cuneo, Asti e un pezzo di Alessandria. Novara e Vercelli sono troppo lontane. Poi la pianura di Novara è già quasi Lombardia e le montagne sono mezze Svizzere, quindi è come andare all'estero. E se uno deve scappare e rincuorarsi annusando odori di terra, di fascine bruciate, di letame invernale, di potagè con sopra le bucce d'arancia, non deve passare le frontiere. Se deve illudersi di salvare anima e corpo nascondendosi dietro l'idea, il concetto astratto delle cose, non può andare a sentire il rombo delle autostrade e perdersi tra nebbie e aree industriali. Stabilito che bisogna far finta, allora si può partire con l'animo in pace e vedere solo quello che merita. Qualche osteria c'è ancora, perfino a Torino, ma siamo alla fine. Sconosciuta alle guide metropolitane una, piccola piccola sopravvissuta proprio per caso, in corso Racconigi angolo via Bardonecchia. Si salgono pochi scalini, e c'è ancora il pensionato che beve

un quartino. Non è un'osteria ma comunque un simbolo del vecchio borgo San Paolo, il chiosco che c'è sempre in corso Racconigi, angolo via Frejus. Consigliabile prendere un caffè prima delle sette di mattina, quando stanno montando i banchi del mercato. Sembra quasi di sentir passare il tram numero 20, che non c'è più da trent'anni e faceva capolinea tra le case popolari, all'angolo con via Cenischia. Introvabile, se non si va a piedi, la cooperativa con dehor in via Matteotti, nel centro storico di Collegno, vicino al castello e al manicomio. I locali pubblici sono indispensabili per ripararsi, bere e sentire cosa dice la gente. Se sono vecchi hanno odori e atmosfere, silenzi. Quelli nuovi non vanno bene. C'è troppa plastica, specchi, marmi, sedie finte tonnet, divanetti in fintapelle, tavolini di finto marmo, tv grosse come comò, aperitivi della casa, olive, e in ciotole di vetro robette secche e gialline che sembrano bachi da seta morti, tramezzini pallidi. E' magnifico il Grand Hotel Rocciamelone di Usseglio, in val di Viù, aperto tutto l'anno, spesso deserto, anche se una volta ci andavano nobili e alta borghesia. Ha una grande sala da pranzo con mobili liberty e lampadari in ferro battuto, dove i villeggianti mangiano in silenzio affettati, agnolotti o minestrine, arrosto, spinaci e purea di patate: sempre lo stesso menù, buono e confortante. Cavour: l'osteria appena dopo la piazza del Municipio, di fronte alla chiesa, era storica e formidabile, col pavimento di legno consumato e tutto il resto a posto. Adesso si chiama Caffè della 23


Fontana. L'hanno rifatta tutta, ma è comunque un posto molto gradevole, con belle sedie di legno, travi secolari e volte di mattoni a vista. Peccato che nel vano dove uno si aspetterebbe un grande camino medioevale, in armonia con l'edificio, ci siano due videogames. Tra l'altro l'edificio non è da poco: è nientemeno che il Palazzo degli Acaja, dove nel 1561 Emanuele Filiberto firmo la pace coi Valdesi, concedendo la libertà di culto, libertà che durò poco. Si parla da tempo di mettere una targa per ricordare i fatti, ma pare che sia un'operazione complicata, e la targa non c'è ancora. I forestieri passano, ignari. Da frequentare il ristorante (ma si mangia solo a mezzogiorno), Locanda del Tramway, con in sala una grande stufa a legna, alle pareti vecchie copertine della Domenica del Corriere, una collezione di caffettiere dietro il bancone, radio degli anni '50, elmi della grande guerra, ritratti e note di cavourresi illustri dell'altro secolo, dal conte Camillo Benso, ai Buffa di Perrero, Giolitti, Luigi Goytre, colonnello del Nizza Cavalleria, Luigi e Alessandro Portis, uno colonnello l'altro geologo. Bruna Petitti e Giuliano Danilo, gestiscono il locale dal 1951, e negli anni hanno raccolto 3.500 pezzi diversi, tutti relativi alla vita di un tempo. In parte sono nel locale diventato un piccolo museo, con gli altri hanno fatto delle mostre in paese. Se uno non sa dov'è, è difficile capitare per caso al cral Azzurra di Luserna alta, in val Pellice. C'è appena una piccola insegna e un cancello verde che da sul giardino con gioco di bocce e pergolato.

Dentro il bar e una saletta per mangiare. Decisamente una delle ultime osterie sopravvissute quasi intatte. Su due mensole ci sono una coppia di chitarre e mandolini e ogni tanto c'è musica live. Una volta c'era una bealera appena fuori, sul bordo della strada, (adesso è coperta), e capitava spesso che qualcuno rotondo, come si dice, andasse a bagno prima di andare a casa. Gli anziani fondatori non si danno pace che sia passato quasi mezzo secolo da quando erano loro a far baldoria. Barge non è un posto di villeggiatura, ma si può anche fare un viaggio, meglio col brutto tempo, per andarsi a sedere al Bar Roma in piazza San Giovanni, davanti alla facciata barocca, ruvida di mattonacci a vista, della parrocchia. Fino a poco tempo fa era un locale fermo nel tempo, un piccolo museo di se stesso, con una vecchia padrona gentile. Adesso dei giovani a modo l'hanno rifatto con garbo, con legni, mattoni, somiers di velluto cremisi; anche il telefono pubblico è un vecchio modello di bachelite nera. Fuori una bella insegna di latta dipinta che porta la data 1771, anno di costruzione del palazzo, e sul pavimento di quarzite chiara lo stemma in pietra del paese. Preghiamo il cielo che rimanga così com'è il Caffè Città di Savigliano, sotto i portici di via Alfieri. Ha tre grandi sale dove si gioca a carte e biliardo; tutto perfettamente demodè‚ con parquet di legno consumato, le pareti rivestite di legno verniciato a biacca, pensionati che raccontano e ricordano. E' gestito dalla stessa famiglia dal 1924. Fuori, fatti due passi c'è la pittorica piazza Santorre di Santarosa, con il torrione comunale, i 24


suoi trenta palazzotti medioevali, seicenteschi, barocchi, uno diverso dall'altro, alti e bassi, qualcuno ben messo, altri pieni di rughe, e, in fondo, il Santorre di Santarosa di pietra e l'arco di trionfo neoclassico. Sotto i portici bassi negozietti e botteghe nuove, regie pasticcerie. La piazza è finalmente diventata un'isola pedonale, ed è stu-pen-da. A Borgo San Dalmazzo si è salvata per un pelo la Trattoria San Sebastiano, in piazza VI Novembre, arredamento d'epoca, una bella topia (pergolato), di uva fragola, e affreschi naif sui muri. Finchè dura. E mentre uno è lì bisogna assolutamente andare a vedere la bottega di ferramenta Bodino, a due passi, in via Roma 29. Un museo che forse durerà poco. Con le falci, zappe, lampade a petrolio, asce, arnesi per la campagna, tubi di stufa, catene, e fil di ferro, tutto accatastato alla rinfusa in un supremo, secolare e scenografico disordine. Sembra che siano appena passate le Brigate Nere a fare una perquisizione. Revello è un paese monumentale all'imbocco della valle Po, con un pittoresco campanile isolato in mezzo agli alberi, che incombe sull'abitato. Vale la pena girarlo tutto a piedi per poi andarsi a sedere al Caffè Centro in piazza Denina, vicino alla cappella Marchionale, residuo monumento dei tempi del Marchesato di Saluzzo. Il Caffè c'era già nel 1900, ora è stato rimodernato ma con buone maniere, essendo stati rispettati gli spazi e soprattutto le aure di un tempo. Gentile nella sua semplicità il negozio di casalinghi di piazza San Rocco angolo via Giolitti (grande coerenza anche estetica della toponomastica sabauda), che vende cose normalissime oltre a pezzi in rame a buon mercato. La padrona sembra quasi coeva della bottega,

non nel senso anagrafico ma per la cortesia e il nitore semplice della persona, così come il banco di legno lucidato a cera. Un posto che nessuna guida si sognerebbe di citare, ma che da la misura di questa provincia granda, civile e tenacemente attaccata alla sua cultura, espressa in un negozio, in uno stabilimento, in un allevamento di tori. Alla frazione Colletto di Castelmagno, in val Grana, c'è un posto buffo e tenero, l'osteria Castelverde che a dispetto del nome ha solo una stanzetta disponibile con quattro tavoli, senza finestre: la signora Mary ci sta da sola, anche se ha quattro figli ormai in giro per il mondo, coltiva un piccolo orto, alleva qualche gallina per la compagnia e prepara polenta e gnocchi al Castelmagno se uno telefona prima. A Campomolino (il capoluogo dove c'è il municipio), c'è anche la squisita accoglienza domestica della trattoria <La Sosta>, che per decenni è stata una pittoresca piola alpina di stanzette basse. Adesso l'edificio è stato rimesso a nuovo, ma è tutto buono come prima. La signora Elisa cucina frittate alle erbe, gnocchi al Castelmagno, polenta e spezzatino, prepara folgoranti acciughe al verde. Piccola e sempre tranquilla la trattoria commestibili Pelvo alla frazione Chiesa di Bellino, in val Varaita che è anche posto tappa della Gta. Pochi tavoli di legno, il bancone massiccio di larice, con i simboli intagliati della valle, cibo onesto, pace. Se fuori piove o nevica vien voglia di star sulle vecchie seggiole e non muoversi, pensando. San Damiano Macra, in val Maira, Trattoria Colombe25


ro con giochi bocce nel cortile. Si sale una scala, si passa un pianerottolo. C'è ancora, rimodernata, ma sempre con buone atmosfere. Solitaria e domestica la Croce Bianca a Macra, frazione l'Arma. A Cuneo non è male l'Antico Zuavo, in via Roma 23, ma una volta era meglio. Si va solo per mangiare, non per soste e chiacchiere. Qualche miglioria ha subito anche l'osteria Stella D'oro in via Roma 35, nel cortile. Pittoresca. Dieci anni fa era perfetta. Oncino, valle Po. Si prende un bivio a sinistra, prima di arrivare a Crissolo e si risale la valle del Lenta; attenzione perchè la strada è stretta. Nei giorni di festa è un disastro. La Trattoria della Concordia è in alto sopra la piazza, di fianco alla chiesa. C'è una bella terrazza dove mangiare un panino e bere vino freddo. A Cartignano in val Maira, nella trattoria del Paschero c'era un bella stufa (magari c'è ancora), montagnini con pantaloni di velluto che parlano del tempo, e fuori ragazzi con le moto. L'Osteria di Campagna del Cudine, frazione di Corio, esisteva, più piccola, già negli anni Trenta. Nel dopoguerra l'ha rilevata la famiglia Picca Picon. Adesso ci sono i giovani che l'hanno rimessa a nuovo. Marco Picca (conosce tutte le erbe aromatiche e commestibili delle Alpi, e forse anche dei Pirenei e dei Carpazi) e la sorella Silvia hanno fatto pochi lavori, molto bene. Un trave, un magnifico camino in pietra scolpito da Marco (chef che ama cucinare sul potagè e a tempo perso lavorare la pietra), delicate ghirlande di fiori dipinte sul soffitto dalla Rita che è la morosa di Marco. Ambiente caldo,

montagnardo. Si mangia benissimo e si può cantare. La mamma Ida, del '27,lavora ancora in cucina e nel negozio di commestibili attiguo. Una dei quelle donne che non si fermano mai, fino alla morte. Il patriarca Giaco, classe 1925, padre di Marco e Silvia, duro e nodoso come il ceppo di un vecchio castagno, dopo aver lavorato trent'anni all'Amiantifera, adesso va per funghi, per cinghiali quand'è la stagione, spacca la legna. Non lo dice, ma pensa quando era partigiano e correva come un camoscio per le montagne e non si stancava mai... E speriamo che duri anche la Locanda Gran Paradiso a Rosone, in valle Orco, semplice semplice, coi tavoli di legno, la stufa, e i proprietari che non sanno di custodire un luogo prezioso di grandi memorie. Il pane ai giovani non fa nè caldo nè freddo. Mangiano tanta pietanza e poche biove. Per i più vecchi è diverso. Senza pane è quasi impossibile fare un buon pranzo. Il pane migliore in assoluto (forse, che non si può sapere tutto), si fa in provincia di Cuneo. A Venasca, da Martini, piccola panetteria con forno a legna. Marito e moglie da soli e un figlio che studia da architetto a Torino e da grande non farà certo il panettiere. Vale la pena di fare un viaggio. Parola. Buonissime anche le pagnottone campagnole di Torre Pellice, in viale Mazzini angolo piazza Vittorio, di fronte alla Libreria Claudiana. Ottimi i miconi di Rinaudi a San Damiano Macra, di Migliore a Monterosso in val Grana, e anche quelli di Fantone a Paesana, forno a legna sotto i portici della armoniosa piazza da26


vanti alla Chiesa di Santa Margherita, una bella piazza di paese conservata nell'estetica e nelle proporzioni ottocentesche. Buone le miche di Isabello, fornaio a Monpellato, sopra Rubiana, sulla strada che porta al colle del Lys, le biove del panettiere alla frazione Occa di Envie e della panetteria di San Rocco a Barge servite con garbo da una gentile panatera che si chiama Elisabetta. Sempre facendo finta che il mondo non sia cambiato, o che sia rimasto solo quello che ci piace di più, si può andare per abbazie, conventi, chiese campestri, piloni votivi, vie crucis di collina. Uno crede di sapere quanto basta, perchè magari è andato una volta alla Sacra di San Michele, o a Superga, ma ci sono tante di quelle cose da scoprire che appena si apre, una guida sulla Novalesa, per dirne una, ci si perde in storie che hanno mille anni: frati, asceti, anacoreti, Saraceni, Longobardi, milizie mercenarie, roghi di streghe, l'Inquisizione, imperi economici immensi anche per l'epoca, Napoleone e fino alla Resistenza. Come per esempio l'Abbazia di Casanova, a pochi chilometri da Carmagnola sulla strada per Poirino. Anche quì bisogna vedere la facciata di mattoni, il grande giardino con ciliegi - e poi lavorare d'immaginazione. Escludendo dalla vista le auto parcheggiate davanti, i tralicci dell'alta tensione nella campagna vicina. E' un po' come fare fotografie, isolando un particolare dal resto. Togliendo dettagli che non c'entrano con l'immagine che uno vuole realizzare. Così si fanno anche dei falsi, si capisce, come chi fa magnifiche foto di animali selvaggi allo zoo, tagliando sbarre e visita-

tori. E le colline? Ottimi posti anche col cattivo tempo, con la nebbia e la brina, il fango gelato, le ruere dei trattori nelle strade sterrate, gazze e cornacchie. Stoppie di granoturco, i filari delle vigne orlati di galaverna, boschi dove le foglie secche crocchiano sotto i piedi. Se nevica diventa tutto un presepio. Ma bisogna andare a piedi, in silenzio. Sarebbe bello fermarsi in una cascina a bere un bicchiere, chiacchierare con un anziano che fabbrica scope di saggina, o intreccia una cavagna di salice, come si faceva una volta, ma i tempi sono cambiati. Ci sono cani tremendi, e i padroni di casa non si fidano. Ma conoscendo qualcuno che poi ti presenta un altro, diventa facile. Si potrebbe prendere un paese e andare a scoprirlo. Per esempio Agliano d'Asti, vicino a Montegrosso, confinante con Castelnuovo Calcea, patria di Angelo Brofferio, con Calosso, Mombercelli, Costigliole. Zona epica di fierissime barbere. Intanto è un paese quasi in mano alle donne. Il sindaco Bianca Gentile, energica e simpatica, Jole Mercado, il segretario (a) comunale, Lucia Barbarino, la direttrice della scuola alberghiera (una delle più apprezzate del Piemonte), Mimma Baldi, factotum in municipio che si occupa di anagrafe, amministrazione, pubbliche rrelazioni e scrive novelle, Tiziana Taricco, direttrice della casa di riposo. Ci sono le Terme (uniche nell'astigiano), con l'Hotel delle Fonti, quasi trecento produttori di vino tra grandi e piccolissimi, da Trinchero che esporta anche in Giappone, ai Pavia, ai tanti Bologna (i fratelli Duilio ed Elio hanno creato un nuovo vino che han27


no chiamato <Caratel>, dal vecchio nome dialettale del barrique, la tradizionale botte da invecchiamento da 225 litri), alla cantina di Agostino Pavia e figli che producono tra l'altro un barbera di un cru che si chiama la Marescialla che vale tutti i rossi di Francia. C'è uno straordinario centro agrituristico alla frazione Val Rotonda, con interni luminosi, sale da pranzo con camino e decorazioni in terracotta fatte a mano da Giancarlo Chiriotti, titolare, che è anche un cuoco geniale. Si mangiano cibi così buoni da far ammutolire, come il flano di cardi con fonduta, la verza ripiena, il pasticcio di fegato con cipolle, gli agnolottini di verdure, il coniglio con cipolle e rosmarino. Volendo si può anche viaggiare solo sulle carte topografiche, quelle al cinquantamila; e fare esercizi di analisi dei toponimi, cioè dei nomi delle località. Gli <igronimi> (nomi dei fiumi> e gli <oronimi> nomi delle montagne, da cui derivano tanti altri. Intanto il dialetto appare dappertutto, emergendo da stratificazioni linguistiche che hanno perfino radici anteriori alle colonizzazioni indoeuropee, con parole che arrivano dagli Urali, dalla Francia, dalla cultura celtica, da dimenticati linguaggi ugro-finnici. Pensiamo a come si definisce il concetto di frazione o gruppo di case. In montagna si usano tanti modi: Ruata (il nome precede il nome proprio, esempio Ruata Rossi), poi ci sono Prese, Tetti, Prato, il semplice Case (Case Sparse, bellissimo, essenziale), Balma, Baite, Rio, Grange (famose le Grange Sises al Sestriere, dove ormai non c'è più nemmeno l'odore del fieno o di una busa), Al-

pe, Comba, Cantone (nel Canavese), Serre (diffuso nelle valli valdesi e chissà che non ci sia un rapporto con lo spagnolo <sierra>, che indica una catena di montagne?), <Gias>, che non vuol dire ghiaccio, ma la lettiera della stalla, e per estensione un alpeggio; poi il comunissimo Bric (collina), e Truc, che indica una modesta elevazione. Muoversi tra i rilievi colorati delle carte, i reticoli sinuosi dei sentieri e delle curve di livello, consente una maggiore libertà d'immaginazione. Sulla carta non si vedono discariche abusive, brutte seconde case, tralicci. Il mondo è ridotto in scala e si può pensare bello. S'incontrano nomi misteriosi, sinistri, curiosi: una montagnotta in val Sangone che si chiama Carra Saettiva (la radice <car> è diffusa in tutte le Alpi, ma <saettiva> vuol dire che attira i fulmini?), un'altra sopra Condove detta <Tomba di Matolda>, in memoria di un'antica leggenda longobarda. Ci sono i laghi di <Frema morta> in valle Stura (Cn), (frema in occitano vuol dire femmina, donna), il vallone del Tiraculo che sale da Giaglione verso il rifugio Vaccarone, e che la dice chiara sull'erta del tragitto, come il sentiero che sale dal rifugio Gastaldi al lago della Rossa che si chiama <Il calvario>. Poi nomi come Punta Maledia (maledetta), nelle Marittime, la frazione Desertetto in valle Gesso, il vallone Infernetto in val Pellice. Sui monti ci sono tanti nomi, che testimoniano che in quota la gente non si è mai divertita tanto. Mai. <Pian dei Morti>, ce n'è dappertutto (sotto lo Chaberton, e a metà strada per il rifugio 28


Gastaldi in val di Lanzo e per andare al Prà in val Pellice), ci sono tante tante cime o punte Rognose. E quì l'etimo è incerto: può riferirsi all'aspetto spelato della montagna o al fatto che è di difficile ascesa per via delle pietraie, dei ghiaioni, delle rocce friabili e malsicure che comportano un passo avanti e due indietro. Poi ci sono i nomi degli animali, che non richiedono indagini etimologiche, perchè luoghi battezzati <in chiaro>, in tempi relativamente recenti da pastori, montanari, taglialegna, carbonai. Il <Becco del Lupo> sopra Avigliana, i valloni Serpentera e del Cavallo e un Pian del Lupo, nel parco di Chiusa Pesio; Colle del Mulo in val Maira, Pian dell'Orso, Monte Orsiera, Pian delle Cavalle e la punta dell'Aquila in Val Sangone, il Pian delle Mule in val di Lanzo, colle dell'Asino, Rocca Camoscera, Roc du Ciatt (Rocca del gatto), e Borgata Merlera in val Sangone, un Passo del Bue nelle Marittime. Alle falde del Monte Lera (Valle di Viù) c’è‚ il magnifico toponimo franco provenzale <Barma dla Crava> (Barma=balma=Alpe, della capra). Il colle della Ciabra (seeempre la capra), tra le valli Varaira e Maira sopra il santuario di Valmala. Poi il Colle dell'Agnello (Val Varaita) e il Ghiacciaio dell'Agnello (val di Susa), il Couloir del Porco (Monviso). A parte l'orso e l'aquila e il lupo, stranamente non ci sono fonemi legati ad altri selvatici. C'è un Cervere (ma è in pianura), un torrente Cervo nel biellese, un Cervasca (Cuneo). Non una traccia scritta di cinghiali, daini, linci, stambecchi, marmotte, gufi. Mah! 29


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CAPITOLO IV

Fortezze in montagna


Ai tempi del duce, lo chiamavano vallo Alpino del Littorio, ed era presidiato dalla Gaf, Guardia alla Frontiera, corpo creato apposta; finanzieri in armi che portavano il cappello alpino senza penna, sfottuti pesantamente dagli alpini veri che la penna ce l'avevano. L'imponente sistema di fortificazioni in montagna, dal Colle di Tenda alla valle d'Aosta, costruito ai confini con la Francia, a partire dalla fine dell'800, costato cifre enormi all'erario, non servì praticamente a niente. Prese fuoco per venti giorni, nel giugno del 1940, per la breve guerra del fronte occidentale (la pugnalata alla schiena ai francesi, che durò dal 10 al 24 giugno), che costò la vita a 62 ufficiali e 1.185 soldati, più 2.600 feriti e 2.151 congelati nonostante si fosse all'inizio dell'estate. La meteorologia non è bizzarra solo oggi. Il tempo orribile però, con nebbie, basse temperature e nevicate tardive, fu la salvezza di tanti, poichè impedì combattimenti e carneficine su scala più vasta. Bunker, fortini e casematte servirono poi saltuariamente come base per nazisti e repubblichini durante i rastrellamenti dal '43 al '45. Ma furono anche utilizzati dai partigiani come ricoveri d'emergenza. Dopo la guerra, fino al 47/48, gli impianti più importanti – ‘opere’ nel gergo del genio militare - vennero fatti saltare con l'esplosivo in accordo col trattato di pace. Per anni e anni i montanari portarono a valle tonnellate di ferro tolte dalle costruzioni militari. I bravi valligiani ripulirono tutto, depredando porte e stipiti, finestre, travi, fino al più piccolo cardine e chiodo rampino, mentre armi e munizioni continuarono a venire alla luce fino alla fine degli anni '50. Bracconieri e pescatori di frodo andarono a lungo a caccia

con moschetti '91, o usando bombe a mano per far strage di trote nei laghetti d'alta quota. Poi venne il silenzio e l'abbandono. Ogni tanto si trova ancora qualche brandello che ricorda la guerra, sepolto tra le macerie: una cassetta di legno fradicio di piastre da mitragliatrice, uno zaino sdrucito, giberne sfilacciate, bossoli, scatolette. Adesso le fortificazioni sono quasi integrate con l'ambiente, pietra su pietra, e sono mete di escursioni, esattamente come il teatro della Grande Guerra in Trentino. I giovani escursionisti e alpinisti, passano ignari, distratti, sui sentieri costruiti a regola d'arte con picco e pala, dai genieri del Regio Esercito; mangiano scatolette di antipasti Galfrè e prugne secche all'ombra di solitarie casematte diroccate, si riparano dal maltempo in camerate spoglie, i muri striati di salnitro, piene di echi e spifferi, che ospitarono isolate guarnigioni, senza pensare che solo un paio di generazioni dividono la pace di oggi dalla guerra di ieri. Il sistema logistico impiantato allora è praticamente ancora intatto nelle sue strutture murarie, e può rappresentare un singolare obiettivo per una specie di archeologia rivolta ad un passato recente, con visite ai massicci monumenti all'idiozia guerrafondaia, alla megalomania di chi sprecò cifre pazzesche per un vallo che, oltretutto, non servì a niente, esattamente come la linea Maginot francese, aggirata tranquillamente dai tedeschi allo scoppio delle ostilità. Non solo, ma Nuto Revelli - che queste cose le sa perchè le sperimentò di persona - scriveva che specialmente le postazioni d'artiglieria in caver32


na e i nidi di mitragliatrici nei bunker, erano praticamente inservibili. Perchè dopo pochi colpi, l'aria all'interno diventava irrespirabile per i gas sprigionati dalle armi, e spesso i soldati svenivano. I locali si riempivano d'acqua per le infiltrazioni, erano gelidi anche d'estate e venivano evitati come la peste dalla truppa che anche con la neve preferiva le tende a quelle specie di tombe di cemento armato. I primi lavori sulle montagne piemontesi cominciarono alla fine dell'800 tra lo stupore dei valligiani, e durarono fino al 1939. Decine di imprese si arricchirono costruendo per la guerra, su indicazioni obsolete degli Alti Comandi, che avevano ancora in mente i criteri bellici della prima guerra mondiale. L'unica cosa ben fatta che resta, sono le strade militari, mulattiere e sentieri, carrozzabili fino a quote impensabili, complete di parapetti, muretti di sostegno, ponti, canali di scolo delle acque, muri di contenimento, con pendenze e tracciati sapientemente calcolati per far transitare autocarrette e corvèe di muli. Il resto è tutto andato. Caserme con porte blindate tra pascoli, pietraie e brughiere d'alta quota, bunker di guardia a valichi, e valloni, magari travestiti - con pietre sopra il cemento armato - da innocue grange, ma smascherati dalle bocche di lupo, interi acquartieramenti appena dietro colli di presunta importanza strategica. E tanto filo spinato, truce, malefico, anche se vecchio e rugginoso. La guerra con la Francia non fu solo una vigliaccata, ma una tragedia in famiglia per i montanari piemontesi, abituati a consi-

derare l'oltralpe una seconda patria, dove andavano a lavorare per sopravvivere, e dove tanti si erano fermati per sempre, costituendo nuclei franco-piemontesi dopo aver cancellato, di fatto, frontiere e nazionalità diverse. Battista Rinaudo classe 1914, di Sant'Anna di Valdieri, in valle Gesso, nel '40 era in forza al battaglione alpini ‘Valle Ellero’ e fu in servizio in una ridotta avanzata a dieci ore di marcia dai laghi di Valscura, un posto idillico dove oggi si vanno a pescare le trote. <Il rancio arrivava freddo, i maccheroni gelati. Non era una guerra sentita. Mio cognato emigrato, era soldato coi francesi e un cugino di un mio coscritto era nell'aviazione sempre francese, e dopo la guerra raccontava che faceva voli di ricognizione sopra casa dei genitori in valle Stura, e gli veniva male. E pensare che ancora nel '39 ci siamo presi una ciucca coi militari francesi, i Chasseurs, quelli col basco di traverso, e coi carabinieri italiani proprio al confine>. I confini in montagna, come sul mare, non si vedono, se proprio uno non inciampa nei vecchi cippi sabaudi di pietra scolpita, con da una parte il giglio di Francia e dall'altra lo stemma dei Savoia. Ce n'è ancora qualcuno: al colle del Maurin, in alta val Maira, al colle dell'Autaret, sopra Bellino al colmo della val Varaita, e chissà dove ancora nascosti su qualche crinale. Forse una frontiera è necessaria, non fosse che per oltrepassarla, e sentirsi subito stranieri. E godere della situazione del forestiero che scopre, si confronta, si avventura senza legami coi luoghi e le persone. Ma i valligiani 33


non hanno mai avuto di queste finezze. Passavano il confine a piedi (anche d'inverno), spesso di frodo, magari senza documenti, qualche volta braccati dalla Milizia Confinaria, per andare a lavorare dove il lavoro c'era, non per procurarsi brividi esistenziali o per curiosità geografiche. La frontiera era (lo è anche oggi), anche una linea magica che moltiplicava inspiegabilmente il valore delle cose. C'erano così contrabbandieri di burro e tome, sale in tempo di guerra, e dopo anche di fisarmoniche o muli. Così fortificata, il significato della frontiera divenne ancora più marcato, con tutte le strade e sentieri che finivano drammaticamente con l'affacciarsi su un vuoto, oltre il quale si trovava una terra che poteva diventare nemica per decisioni incomprensibili, prese lontano, e che invece non era che l'altro versante di una catena alpina, dove si parlava (si parla) la stessa lingua (nel caso delle valli provenzali) o dove comunque i dialetti sono maledettamente simili e dove tante famiglie avevano parenti e conoscenti, amici. Il filo spinato fornito da chissà quale trafileria, messo in opera in complessi reticolati sotto la vetta dello Chaberton, montagna che guarda da lontano i condomini di Sestriere, doveva essere di ottima qualità (zincato, a sezione quadrata, leggermente ritorto), se dopo oltre cinquant'anni sono arrugginite, e neanche tanto, solo le spine. Il monte, 3.130 metri, tra Cesana e Claviere, oggi in territorio francese, è l'esempio più evidente e conosciuto dell'asservimento di una montagna a fini bellici. Si tratta di un'immensa cordigliera calcarea con una cuspide piramidale, pareti a picco di roccia friabile, solcate da canaloni e couloir vertiginosi. La vetta, spianata già alla fine

dell'800, ospita ancora le otto torri in calcestruzzo su cui erano montati altrettanti cannoni da 149/35, in grado di sparare su Briançon. Nel 1905 fu realizzata un'arditissima teleferica che collegava la fortezza a Cesana, duemila metri più in basso, mentre la strada carrozzabile che arriva alla cima fu terminata già nel 1897. Nonostante la segretezza che all'epoca circondava l'opera, la sua funzione offensiva quando scoppiò la guerra fu zero. Le poderose bocche da fuoco spararono un paio di centinaia di colpi facendo scarsi danni oltre le dogane. In compenso i francesi, che da tempo avevano preparato (noi no) meticolosi piani di tiro, il 21 giugno 1940, con un preciso bombardamento di mortai pesanti distrussero sei delle otto torri, mettendo fuori combattimento quello che era il vanto dell'artiglieria da fortezza del Regio Esercito. Tra i 320 uomini della guarnigione ci furono nove morti, e 50 feriti, alcuni orribilmente ustionati. Oggi salire sullo Chaberton è un'escursione molto piacevole: si parte dall'abitato di Claviere, passando sul versante est, e per un sentiero che porta prima al colle dello Chaberton a 2.761 metri, poi alla cima su ripidi tornanti, tra immani reticolati, resti di casermette, postazioni scavate nella roccia viva. Ci vogliono tre ore abbondanti per arrivare in cima, uno spiazzo piatto e polveroso. E occorre sopportare di buon grado il viavai di fuoristrada su due e quattro ruote che contendono lo spazio a chi va a piedi. Ci sono perfino speleologi che ogni tanto s'infilano pericolosamente nelle gallerie che portano in abissi artificiali, ormai 34


quasi pieni di concrezioni ghiacciate, alla scoperta del misterioso universo sotterraneo, che un tempo ospitava magazzini, cucine, camerate, polveriere, cucine. Tutto ormai morto e sepolto nelle viscere buie e pietrose del monte. Intorno al colle, sparsi nei ghiaioni ripidi, ancora brandelli di casermaggi: lamiere, una stufa di ghisa, brande, putrelle, vecchie scatolette insieme a quelle nuove dei selvaggi domenicali. La valle di Susa in quota, è piena di opere militari. Tracciati sterrati e parzialmente agibili partono da Salbetrand e raggiungono le fortezze del Pramand, passando sotto le rimbombanti grotte dei Saraceni. salgono ai ruderi del Jafferau sopra Bardonecchia a quota 2.700 metri, dopo 36 chilometri di strada, franata in alcuni tratti. Ancora a monte di Bardonecchia le mura granitiche del forte Bramafam, una delle maggiori costruzioni difensive delle Alpi Cozie italiane, chè anche i francesi a casa loro spesero fortune inimmaginabili con gli stessi scopi. Il Bramafam, tra le due guerre, venne aggiornato come strutture e armamento, anche con postazioni in caverna esterne, collegate al forte con gallerie scavate nella roccia. Volendo si possono passare settimane a esplorare valloni e dorsali, valichi, congetturando quanto sia costata nei secoli la difesa <dal nemico>. Le testimonianze sono imperiture anche se malridotte. E non solo del Vallo Littorio, ma di resti, magari solo di trinceramenti, che risalgono al 1600 come all'alpeggio della Rossa in alta val Sangone o del '700 ai colli dell'Assietta e dell'Orsiera.

Ricordato da un vecchio canto degli alpini il forte di Pampalù, a 1.600 metri sulle pendici del Rocciamelone, a picco sulla città di Susa fu costruito nel 1891 e disarmato nel '21. Durante l'ultima guerra ospitò ancora una batteria di quattro cannoni. Adesso è una solitaria rovina assediata dagli abeti. Il piccolo altipiano detto dei Tredici Laghi sopra Ghigo di Prali nell'alta val Germanasca è una bella prateria ondulata con macereti e torbiere, a quota 2.400 metri. Si può raggiungere in seggiovia da Ghigo camminando poi una mezz'ora; o più sportivamente salendo con una tortuosa strada militare che si stacca dalla provinciale prima di Perrero e porta alla Conca Cialancia. Lasciata l'auto si sale al colle omonimo e si scende sui laghi con un percorso facile di un'ora circa. Ci si trova in un labirintico complesso di caserme in pietra costruite ai primi del '900 intorno ad un laghetto glaciale, e che si chiamavano <Ricoveri Perrucchietti>. Sulle rive del lago Rametta a monte, dunque verso il passo Cialancia, gli unici due pezzi d'artiglieria rimasti sul posto alla fine dell'ultima guerra. Bocche da fuoco da 149/35 costruite dall'Ansaldo di Genova nel 1917, come si legge sugli affusti, le canne segate con la fiamma ossidrica. Ormai inoffensivi e bruti pezzi d'acciaio su ruote che non si muoveranno mai più. D'estate sono una curiosità per i gitanti che passeggiano tra gli obici e mettono bottiglioni di vino al fresco nel lago dove s'intravvedono ferraglie e legni di guerra. Intorno alla grande caserma principale, sui roccioni circostanti, cognomi e no35


mi, la classe, tracciati col catrame ancora leggibili, di tanti najoni che passarono quassù mesi, tra esercitazioni e corvèes. Camminando un paio d'ore con comodo, si può raggiungere la punta Peigro, 2.700 metri, dove ci sono resti di piccole postazioni di vedetta, che si affacciano vertiginosamente sul vallone che scende a Prà del Torno in val d'Angrogna, già nelle valli valdesi. Il luogo è aperto, panoramico, si può immaginare la vita dei soldati comandati di guardia all'avamposto, riparati alla meglio nelle piccole costruzioni di pietra a secco, a spiare l'immaginario nemico come nel Deserto dei Tartari di Buzzati, parlando certamente di tutto, fuorchè dell'arte di ammazzare la gente. In due ore e mezza di marcia, in un ambiente di rara bellezza, si va dal Pian del Re, sopra Crissolo dopo aver bevuto volendo alle sorgenti del Po, fino al colle delle Traversette, 2.959 metri, valico aereo e pericoloso che conduce in Francia. Dopo tre quarti d'ora circa, deviando a destra su un tracciato ormai poco evidente, tra serpentini scistosi, si può andare a vedere un gigantesco bunker in cemento armato fatto saltare con la dinamite nel '46. Un botto che sentirono a chilometri di distanza. E' ancora un bestione enorme col tetto spesso due metri, spaccato in più parti, putrelle in ferro contorte, circondato da un reticolato perfettamente rotondo, messo a sorvegliare la mulattiera (una volta carrozzabile) che scende dalle Traversette. Mezz'ora prima del colle, sotto le Rocce Fouriun, un pianoro con abbondanti resti di reticolati, centinaia di metri di filo spinato che chiudevano

l'accesso al valico, stesi fino al sommo delle pietraie sui fianchi della valle. In alto una casermetta ora luogo di sosta per alpinisti, anche perchè ha vicino, nascosta tra i sassi, una limpida sorgente, ed è a due passi dal celebre <Buco di Viso>, primo traforo alpino realizzato dal marchese di Saluzzo nel XV secolo. Tutta la provincia di Cuneo è ancora munitissima nei suoi alti confini. L'ambiente alpestre è dappertutto selvaggio, spesso intatto, popolato di animali. Nel cuore del parco dell'Argentera si trova la guarnigione di Valscura in riva ad un grande lago, a 2.274 metri. Siamo in alta valle Gesso, sopra il quieto piano del Valasco, dove Vittorio Emanuele II si fece costruire una regale casa di caccia con due torrette, che oggi è diventata una stalla. Dopo il tramonto, d'estate, i camosci scendono a brucare e a bere nel torrente. A Valscura si arriva su una strada militare ben costruita, (un tratto è perfino in galleria e può essere un riparo provvidenziale in caso di temporale), ostruita però da alcune frane. Gli edifici di Valscura sono in parte crollati, in parte furono demoliti e rasi al suolo, ma rimane l'impianto generale di un sistema logistico articolato e complesso. Duecento metri sopra il lago, c'è la caserma del Drus, una specie di castello tozzo, di pietre squadrate con pesanti stipiti monolitici di granito. All'interno le solite camerate spoglie, la scuderia per i muli con ancora le mangiatoie in lamiera zincata e sulle rocce all'esterno, le firme dei coscritti. Su un pietrone la scritta <Morire al proprio posto>, fa venire i brividi ancora oggi. 36


Il colle del Mulo a circa 2.500 metri di quota, a monte di Castelmagno, sulla displuviale tra le valli Maira, Grana e Stura, è solo un noto riferimento topografico, nome fortunato perchè pittoresco e breve. In realtà la strada supera diversi valichi: Valcavera per chi arriva anche dal vallone dell'Arma salendo da Demonte, Esischie per chi viene da Marmora, del Preit per chi sale da Canosio e infine il passo della Gardetta, alla fine di un magnifico viaggio in alta quota. Tutte le strade dell'altipiano sono militari. Nel nodo viario vicino al colle del Mulo c'è una sorgente di acqua buonissima, ruderi di caserme scoperchiate, un laghetto, un alpeggio,il Gias Bandia, all'ombra di una montagna inconfondibile, Rocca La Meja, solo 2.831 metri, ma aguzza e imponente, di calcari chiari. Gli alpini vengono ancora a fare campi estivi quassù e ogni tanto sparano con i cannoni; poi gli artificieri vanno in giro a raccogliere i proietti inesplosi, nascosti tra genziane e stelle alpine. I rilievi intorno sono a tratti colorati, per bancate di gessi, terre rosse, pendii dilavati dalla pioggia che diventano ocra. Ci sono casematte col tetto bianco e rotondo che occhieggiano sulle creste, circondate da reticolati; polveriere aperte ai quattro venti. In mezzo ad un prato in pendenza, un'enorme corona sabauda disegnata con sassi bianchi dai soldati, certo comandati all'opera d'arte da ufficiali memori dell'imperativo <il soldato non deve mai stare con le mani in mano>. L'altopiano è ampio, con corrugamenti e pascoli, luogo incantato con pochi visitatori, salvo ad agosto; il posto meno adatto per fare la guerra. Vien voglia piuttosto di piantare una tenda, aspettare la notte, e guardare le stelle. Di fianco alla strada

prima del passo della Gardetta, tra vacche di razza piemontese che ruminano nei pomeriggi estivi, un'apparizione incongrua, imprevista in un luogo così solitario e fuori mano. Un'ara neoclassica con due colonne mozze di marmo bianco, eretta nel '29, a ricordo della morte accidentale di sei soldati, uccisi dopo un'esercitazione, da proiettili inesplosi. Sulla lapide i nomi dei caduti. Sul piano dell'altare laico, qualcuno ha messo (chissà se ci sono ancora) schegge di proiettili d'artiglieria raccolte intorno. Ma c'era anche una lattina di Coca Cola, sberleffo idiota per sei poveracci che avrebbero preferito trapassare per conto loro, a tarda età, in borghese e anonimi, invece che essere consegnati ai posteri su un pezzo di marmo.

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CAPITOLO V

Equinozio d’autunno


Dopo l'equinozio del 23 settembre data astronomica dell'inizio dell'autunno, gli animali del Parco del Gran Paradiso cominciano ad annusare l'inverno. Nel vallone del Lauson in Valnontey, sopra Cogne, in val d'Aosta, le femmine degli stambecchi continuano ad allattare i cuccioli sotto le scogliere di gneiss di Crocheneuille,(zona di svernamento e dove partoriscono in primavera), brucando ciuffi di erba olina, mentre un dieci per cento degli adulti non vedrà la primavera. Gli altri arriveranno stremati ad aprile, maggio, perdendo la metà del loro peso. Più in alto, tra i 2.600 metri del rifugio Vittorio Sella antica casa di caccia del re, e i tremila del Gran Lauson, pascolano piccoli branchi di camosci, molti già con la livrea invernale, e solitari stambecchi, tra i filacci di nebbia. I maschi adulti si grattano la schiena con le grandi corna arcuate lunghe fino a un metro, ruminano quieti, osservando senza paura i visitatori o i guardiaparco. Lo stambecco, mitico patriarca, simbolo del parco, è una bestia antiquata, un caprone corpulento di indole contemplativa. Una razza di 14 milioni di anni, originaria dell'Asia Minore. Pare che in questa zona delle Alpi sia presente da un milione di anni circa. Dalla glaciazione di Wurms, quando i ghiacciai arrivavano fino in Liguria, e i cavalli erano grandi come cani lupo. L'Ibex ibex (nome latino) dicono sia un fossile vivente. Lui non lo sa, o se ne infischia, e caracolla impavido in un ambiente <eunivale e paleartico> (dove cioè la vegetazione si riduce ai minimi termini), su cenge vertiginose, riposando preferibilmente su un masso con vista

sull'infinito, resistendo a inverni terribili. Può superare il quintale di peso, ha una vita media di 16/18 anni, ma ha sempre l'aspetto di un vecchione saggio, anche da giovane. Anche quando fa a cornate per gioco con qualche compagno, preparandosi ai duelli di novembre, quando si batterà per scegliere le femmine. Già ai primi di ottobre al mattino presto, si sentono gli schiocchi sonori delle grandi corna a scimitarra, che s'incrociano, cozzano, risuonando nell'aria fredda come legni stagionati. Ci sono grossi maschi che le guardie battezzano e riconoscono anche da lontano: Barba Giaco (zio Giacomo) in Valsavarenche, animale avanti con gli anni, trasandato, (da un paio d'anni non cambia più il pelo), la barba lunga, l'andatura stanca. Faraone, per la barba girata all'insù. Dartagnan, con le corna dritte come spade. Negus, con quattro peli sotto il mento, come l'imperatore d'Etiopia buonanima. Più tre personaggi tutti con un corno dritto e uno curvo, che potrebbero anche essere una bestia sola, se non fossero stati visti quasi contemporaneamente in valloni diversi e lontani. Le guardie li hanno battezzati Satana, l'Alpino e l'Aeroplano, e non hanno ancora risolto l'enigma dell'uno e trino. Si può stare delle ore ad osservare uno stambecco. Sta pacifico e irraggiungibile nel suo iperuranio di ungulato, impenetrabile alle speculazioni antropocentriche, alle domande. Non si muove se non per cambiare posizione. Chissà cosa pensa. Sarà un mistico o un pragmatico? O solo un pelandrone? Guarda lontano con gli occhi scuri e si allontana se il visitatore gli arriva a tre o quattro metri. Allora si 40


alza adagio e si sposta. Paziente, serafico. Non scappa, si allontana a passo lento. Il Parco del Gran Paradiso è più o meno sui 45 gradi di latitudine nord; alla stessa altezza, procedendo verso Oriente, di Trieste, Zagabria, Timisoara in Romania, del delta del Danubio, e più in là di Ulan Bataar in Mongolia, o dello stretto di La Perouse nel Pacifico, tra la penisola di Sakhalin e l'estrema punta settentrionale del Giapppone. C'è un rapporto sotterraneo, forse, fra lo stambecco e questa latitudine spinta verso est. Perchè l'animale ricorda l'Europa danubiana e caucasica, spazi asiatici gelati e polverosi più che panorami occidentali. I camosci sono meno simbolici e più selvatici. Caprette vivaci e sospettose, il musetto bicolore, i cornetti ad uncino. Si vede che la razza è più giovane. Non si lasciano avvicinare se non a distanza di sicurezza, poi partono al galoppo e spariscono. Dove un escursionista fatica e stranfia, guardando bene dove mettere i piedi, il Rupicapra (nobile e pertinente nome latino), salta da un masso all'altro sulle pietraie, tocca appena le ghiaie delle morene, passa leggero su nevai pensili e sulle conoidi di detriti instabili sotto le pareti. Tuttavia, come gli alpinisti, ogni tanto è vittima di fatalità e imprudenza, come dimostrano le carcasse che si trovano in giro per il parco, rosicchiate dalle volpi, ripulite dai corvi. Può cadere sotto una slavina, fidarsi troppo dei suoi zoccoli e precipitare, o rimanere imprigionato su una cengia fino a morire di fame. All'inizio di ottobre cambia il mantello, mette sulla schiena la <riga mulina>, un filo di pelo scuro (come i

muli), che si drizza come una criniera man mano che arriva il periodo degli amori. Per questo i cacciatori, specie tedeschi, coi ciuffi di quel pelo si fanno il piumino da mettere sul cappello di loden, simbolo di forza e virilità. L'autunno è stagione di grandi lavori domestici per la marmotta. Pulisce la tana dalle porcherie accumulate nel periodo estivo, raccoglie festuche ed erbe secche per coibentare l'ambiente, ed è tanto indaffarata che fischia molto meno del solito all'avvicinarsi degli estranei. Deve fare in fretta poichè a metà mese, neve o non neve, chiuderà la porta e fino a primavera non metterà il naso fuori. Tra le cose da fare una dieta di erbe che puliscono gli intestini e che pare siano anche vermifughe. Il suo letargo è talmente simile ad una ibernazione che gli scienziati la studiano da anni con enorme interesse. La temperatura corporea scende infatti da 39 a sette gradi centigradi, le pulsazioni si riducono a due, tre al minuto, e il respiro ha una cadenza di uno ogni sessanta secondi. A Vienna un segnale inequivocabile dell'inverno incipiente è dato dai grandi corvi che arrivano dalle pianure ucraine nel parco di Schoenbrunn e nella Wienervald, dopo aver sorvolato la Cecoslovacchia, l'Ungheria. Nel Gran Paradiso i corvi ci sono tutto l'anno, divoratori di carogne, quindi con la funzione di spazzini: i grandi Imperiali, e i piccoli gracchi corallini, dal piumaggio nero e lucente, le zampette rosso fuoco, i gridi metallici con una singo41


lare eco. Volano in stormi d'autunno, classico presagio di neve, sbucando all'improvviso da dietro un picco, uscendo in picchiata dai nidi su pareti vertiginose. Vittorio Peracino veterinario, ispettore sanitario del parco, personaggio maiuscolo, una vitalità esplosiva, da trent'anni difende gli animali e l'ambiente con le unghie e coi denti, combattendo non solo la broncopolmonite necrotica e la cheratocongiuntivite, ma soprattutto bracconieri, burocrati ottusi, politici e amministratori miopi, e chi vorrebbe nel territorio skilift e pizzerie. Perracino mostra i segni del cambio di stagione: la carlina (il grande cardo di montagna detto le chardon) che chiude la corolla spinosa, l'erba delle fate che arriccia gli steli sentendo l'umidità , le cavallette che cominciano a morire per il freddo notturno. Il gestore del vecchio rifugio Sella (nei locali c'è ancora la stanza del Re, e nell'ingresso lo stemma sabaudo scolpito in pietra ollare), intanto chiude bottega dopo aver cucinato per gli ultimi ospiti pesanti pranzi alpini: polenta concia, spezzatino e piselli, trippa con patate.

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CAPITOLO VI

Sognando alle Meire Bigoire


Batista si addormentò mentre era al pascolo alle Meire Bigorie, senza un pensiero fuori posto. Le sue tre vacche Pasturina, Alpina e Marsiglia ruminavano tranquille accosciate nell'erba, solo un po' infastidite dalle mosche terribili di quell'anno troppo caldo anche a duemila metri. Le marmotte facevano un fischio ogni tanto, un fringuello stava immobile su un masso. Il sole andava e veniva dietro rare nuvole. L'aria che a folate veniva giù dal vallone, era profumata. Mentre sognava beato di quando era giovane e infilava la mano sotto le gonne di Catlinin, fu svegliato da un rumore come di macchine e motori, guardò giù nella valle e non credeva ai suoi occhi: c'era una superstrada che saliva verso le Balze di Cesare e una grande stazione di servizio con snack-bar e vendita di souvenir dove prima c'era l'alpeggio del Tivoli. Guardò su verso il Monviso ma nonostante il cielo sereno il Viso non c'era più. E c'era un fiume di macchine che saliva e scendeva. Andò su di corsa verso il Quintino Sella spaventando le pecore in pastura sulle pietraie della Punta Forcion, sprofondando nei brevi tratti di torbiera dei pianori, ansimando sulla vecchia mulattiera. Il Monviso era sparito. Al suo posto un supermercato grande come Cuneo, immenso, luccicante, formicolante che cominciava in Piemonte e finiva in Francia, con parcheggi a terrazze che arrivavano fino al lago Chiaretto, ascensori e tapis roulant portavano i clienti fino alle morene del lago di Viso, nelle cui acque adesso si specchiavano le architetture di ferro e cristallo di una città com-

merciale, di quelle che gli americani chiamano mall, che si legge mol che in piemontese significa molle, per dire. Il lago era stato valorizzato con sponde in cemento, passeggiatate illuminate, cremerie postmoderne, postazioni di Mc Donald, distributori automatici di pop corn e profilattici. Di sera s'illuminava la riproduzione in plexiglas (cento metri quadrati), della famosa <Madonna Nichelata>, opera giovanile di Defendente Ferrari. L'acqua riscaldata del lago (eliminate le trote immesse a suo tempo, per non spaventare la gente), permetteva una balneazione di massa ad alta quota, rallegrata da scivoli alti quasi come il Visolotto, e da musiche diffuse da un aadeguato impianto hi-fi. L'energia elettrica era ottenuta con un mostruoso impianto elettrogeno che faceva un allegro rumore di ferriera, e spandeva i suoi soavi fumi all'intorno. Il carburante necessario arrivava da un oleodotto collegato con le raffinerie di Genova. La montagna era stata spianata in base una convenzione internazionale che aveva stabilito che per rinsaldare i vincoli d'amicizia fra Italia e Francia, era meglio un maxi centro commerciale piuttosto che una piramide di pietra bella se vogliamo, ma inutile e anche pericolosa, per via di quei quattro cottolenghi che ogni tanto per andare in cima si facevano anche male. I francesi entusiasti dal Queyras, e gli italiani festanti dalla Valle Po, s'incontravano tra i chilometrici banchi e le migliaia di boutiques e negozi specializzati in oggetti utili altrimenti introvabili (cavatappi elettrici, copriwater decorati, strofinacci con scritte in inglese), fraternizzavano, si scambiavano gli indirizzi. Dei ragazzi di Bagnolo entrati con la licenza delle medie, uscirono con 45


la maturità in tasca e le mamme dicevano incontrandoli al parcheggio per tornare a casa, <ma come sei cresciuto, hai anche la barba>. All'ingresso ognuno aveva a disposizione un carrello 4x4, con wc chimico, bullbar, alzacristalli elettrici, airbag, lettore di dvd e due posti letto. La shop-ville alpina era dotata - oltre che di alberghi, self-service, bordello, ospedale e camposanto - anche di riformatori e caserme, manicomio e prigione, dove venivano rinchiusi i clienti riottosi che entrati, poniamo prima delle feste di Natale, pretendevano già di uscire per Pasqua, accampando scuse inverosimili come la famiglia in ansia, un lutto, la nostalgia di casa. Tra i servizi era anche compresa la cremazione di visitatori deceduti durante lo shopping. I resti venivano confezionati in eleganti bocce di finto cristallo e consegnati all'uscita. I defunti senza parenti venivano ridotti in cenere d'ufficio e poi esposti in un reparto speciale. Chi voleva - specialmente le persone sole senza neanche morti da piangere - poteva comprarli con modica spesa e avere così a disposizione un cognato, un marito, una moglie, da mettere sul buffet. Chi invece disponeva di sufficienti capitali poteva comprare parenti vivi. Gli orfani potevano acquistare una mamma o un papà (completo di autoradio estraibile) o entrambi (paghi uno prendi due nei periodi dei saldi). Erano anche disponibili nonni autentici completi di ricordi della Grande Guerra (costavano un occhio ed erano quasi esauriti), zie anzianotte brave in cucina e a stirare, ancora in buone condizioni,

con garanzia di un anno, foderine fantasia, marmitta catalitica e antifurto. I giovani in età di leva potevano compiere il servizio militare sostitutivo, nel tempo compreso tra l'uscita e l'entrata dell'ipermarket, convincendo le persone anziane a comprare anche se riluttanti. L'addestramento dei ragazzi era particolarmente duro, comprendendo corsi di psicologia della terza età, tecniche del corpo a corpo, seminari su <Marketing e senilità>, e <La frattura del femore come mezzo di persuasione>, o <Vecchio mio comprati questo forno a microonde se vuoi uscire vivo>. Grande successo del reparto <montanari>, dove erano esposti valligiani riprodotti in cera in grandezza naturale con gilè, pantaloni di velluto e sigala (il sigaro). Insieme erano in vendita tome di Crissolo, (prodotte in un caseificio di Timisoara), marmellate di mirtilli, specialità valligiana (confezionate a Oslo), burro fresco e panna del Pian della Regina (made in Aberdeen), bambini paffuti con le guance rosse (orfanelli albanesi) spacciati come gli ultimi frugoletti della montagna. Mettendo un euro in una macchinetta si potevano ascoltare musiche tradizionali come boureo e corente, e leggende in occitano, con traduzioni in quattro lingue. Non solo, ma su grande schermo si proiettavano documentari sui bravi valligiani - specie protetta - stanziati nei valloni più aspri e irraggiungibili. Alcuni esemplari erano stati catturati dai rangers con sparo di siringhe narcotizzanti, e poi liberati, dopo aver applicato loro un collare radio per controllarne gli spostamenti. Prima 46


erano però stati esaminati dai veterinari che avevano rilevato: misura del pene, diametro e quantità dei testicoli, numero e profondità dei buchi nel naso, stato delle mutande, qualità degli scarponi, e così via. Dopo gli esami e l'inanellamento, passato l'effetto della narcosi, i viton venivano liberati vicino al loro areale, e se andavano un po' intontiti, borbottando frasi incomprensibili nell'antica lingua d'oc. Poi i ranger, dalla centrale, seguivano sui monitor il loro vagabondare di uomini selvatici, raccogliendo una messe di cognizioni scientifiche che poi passavano al computer. I dati sarebbero serviti per un futuro allevamento in cattività della specie. Chissà.

bracciava la ragazza in fuseau lilla e la cuffia del walkman sulle orecchie e le diceva reggendo con una mano l'autoradio: <Sbrigati cretina altrimenti non troviamo più i carrelli giapponesi, e poi voglio vedere se trovo ancora quei nuovi video-games con i Savoia che massacrano i Valdesi>. Batista si svegliò tutto agitato. Il Monviso era mezzo avvolto di nebbia e tirava una bella aria fresca. Il cane Subiet, con le orecchie dritte, controllava la situazione poco lontano. La Marsiglia, l'Alpina e la Pasturina erano ancora lì a ruminare, tra arniche gialle, vecchie buse e i ginepri raso terra.

Batista intanto, seduto sul Viso Mozzo risparmiato dai bulldozer, osservava col cappello di traverso, da lontano, la babele, ascoltando anche brani di discorsi portati dal vento che ora spazzava l'immensa spianata urbanizzata e asfaltata, dove prima c'era il Re di Pietra, come chiamavano una volta il Monviso. Una signora era entrata adolescente nel market prima ancora di avere le mestruazioni, si era poi fidanzata e sposata nella cattedrale di St. Ticket con uno di Grenoble e si era separata dopo la visita al reparto surgelati coreani. <Pensa - raccontava ad un'amica che aspettava il marito da un anno mezzo, andato a scegliere un set di 72 chiavi inglesi fabbricate in Cina - volevo comprare una lampadina per il bagno invece c’era un'occasione e ho preso un rustico vicino a Clermont-Ferrand che è un amore>. Un ragazzotto coi bermuda a fiori, parcheggiata la sua Golf cerchinlega, si ab47


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CAPITOLO VII

Donne nude in montagna non se ne vedono mai


La montagna non è rude nè dolce, non traditrice nè matrigna, nè scuola di vita. Nessuno, cretino a livello del mare, migliora se portato a duemila metri. La montagna se ne sta semplicemente per i fatti suoi a guardare per aria. E ogni tanto deve sorbirsi qualcuno che delira, la idolatra, l'insulta, ha crisi mistiche. E' vero tuttavia, che da un punto di vista antropocentrico, a differenza del piano, è un posto che può ispirare sicurezze, poichè i luoghi impervi sono poco frequentati. In pianura, in campagna, in collina, può sempre arrivare un trattore, un geometra, un ispettore dell'Inps in servizio. Il bello della montagna sta nel fatto che ognuno distilla le essenze che vuole, rischiando la vita su cascate di ghiaccio, o sul settimo grado (ma basta anche meno), marciando diciotto ore su un ghiacciaio o limitando l'attività alle sue modeste forze. Ricavandone comunque grandi piaceri fisici, estetici e psicologici. Ed è sorprendente considerare quanti spazi liberi ci siano ancora, e che il loro accesso sia gratuito. Speriamo che duri. In viaggio verso il colmo della valle, in fuga dalla pianura, verso una salvezza presunta. Appena uno s'infila gli scarponi va subito meglio. E' ovvio che lo scarpone in sè non è niente, se non un manufatto di cuoio o polimeri. Ma basta metterlo ai piedi perchè cambi identità e diventi uno stivale delle sette leghe, stimolando capacità inedite al suo utente. Il vibram è duro, forte, avventuroso. Perfino sexy, richiamando il concetto di una bella vitalità naturale. Va un pensiero riconoscente al Vitale Bramani buonanima, geniale calzolaio veneto che lo

inventò già prima della guerra battezzando la nuova suola con le sue iniziali. Anche lo zaino, quando non è un peso inumano, ma solo un adatto contenitore di cose necessarie, travalica le sue funzioni terrene, e diventa un socio silenzioso e affidabile, e fa compagnia, appollaiato sulle scapole. Momento di meditaziome davanti ad una grangia perfetta, che neanche ad immaginarla riusciresti a pensarla cosi giusta nelle proporzioni, nei materiali, nella composizione armonica dell'insieme dei volumi. Perfino negli odori. A farla oggi ci vorrebbe un fior di architetto, calcoli e disegni, mentre questa l'hanno fatta, a occhio, montanari che magari non sapevano nè leggere nè scrivere. La pietra muschiata e ossidata dei muri a secco, le grate di legno tagliate con l'accetta, il trabial (fienile) coi suoi aromi sottili, persistenti, la lobia, il balcone di legno camolato che sta su per miracolo. E il portico perfetto, essenziale, luogo di lavoro, ricovero e protezione per il brutto tempo, ricco e allusivo, poetico (per noi naturalmente). Un po' di paglia a terra, mista a foglie secche e fili di fieno. La panca che traballa contro il muro, la porta pesante, di castagno, da chiudere col cordino o un fil di ferro. L'inferriata forgiata dallo stesso padrone di casa, che ai suoi tempi era fabbro, muratore, falegname, pastore, tessitore, scalpellino. E pensare di sedersi e stare lì a sentire gli odori, e magari un chioccolìo d'acqua, e non muoversi mai più. Solo che c'è la fregola segreta che dopo un po' ti spinge in discesa, e ti sbrani la coscienza e il ben dell'intelletto perchè bisogna deci50


dersi o su o giù. E scegli di andare giù, nonostante tutto. Non sapendo bene perchè alla fine si deve vivere sempre a brandelli, un pezzo di quà e uno di là. Nel vallone di Arnaz in val di Lanzo, il sentiero che dovrebbe salire a incontrare l'altro che arriva da Margone, più in alto si rivela impraticabile, sepolto dagli ontani nani, da ortiche, lamponaie, e rovi da machete. La luce del mattino estivo - con tempo incerto fra sole e pioggia - è sciamanica e tangente, come irradiata dal fogliame del bosco, radente i tronchi e le felci. La frazione di Arnaz Inferiore, sta tra grandi faggi, pioppi bianchi ed enormi dal fusto pallido, betulle giganti e una mandria disordinata di massi grandi come case, precipitati al tempo di Noè dalle sovrastanti bastionate della Torre d'Ovarda. Le grange sono in un naturale labirinto di gneiss, una scenografia muscosa, coperta di licheni, rossi e neri. Il sambuco e il sorbo sono cresciuti tra le rovine pseudo incaiche, nelle cucine, la cui funzione s'indovina dalle pareti nere di morchia e fuliggine fino al tetto, oggi scoperchiate e aperte al sole e alla pioggia. Ci sono ancora due famiglie che si ostinano a portare le bestie agli alpeggi d'estate. Dalle stalle con le volte basse e finestrini da sette nani, escono rivoli di liquame bovino che debordano nei cortiletti selciati e sulla mulattiera. La frazione è un insieme di pietre e merda. Una volta non ne andava sprecata nemmeno un grammo; oggi non si fanno più lettiere, i gias - non parliamo della paglia che costa più del frumento - ma nemmeno di foglie. Perciò la naturale

lordura va in rigagnoli per prati e prode, concimando ortiche e spinaci selvatici. Batista, un vecchio pastore, gentile, classe 1912, guarda le sue vacche pezzate verso l'Alpe Barnas e grida ordini e insulti amichevoli al cane. All'inverso sono tutti cespugli di ginepri, mirtilli, rododendri. All'indritto (a mezzogiorno), prati e terrazze fino alle creste più alte. Dice il vecchio: <Ho zappato anch'io lassù, ancora nel '45, per seminare un po' di segale. Il mio trisnonno era del 1801 e stava già quì; di giorno lavorava per gli altri, e di notte coltivava i due campi che aveva. Noi andavamo a portare la terra e la drugia (letame), con le gerle fin lassù dove passa la funivia - e indica un posto lontanissimo perso tra il crinale e le nuvole - tutto per dare da mangiare alle masnà (i bambini). Abbiamo cominciato a fare i signori solo dopo la guerra>. I bovini del vallone di Arnaz hanno ottimo e sano metabolismo, come testimoniano le fatte nei pascoli e sul sentiero, larghe e spiaccicate come polente, incommestibili per i cristiani, ma ambite dai ditteri montani che s'infilano e sguazzano, mangiano a quattro ganasce, fanno brusio e salotto. Ci sono esemplari di razza bionda con gambe lunghe e buon appetito, che hanno colonizzato una collina di merdone rapprese e ronzano senza una vergogna, praticando la coprofagia di gruppo. Su una pietra chiara una cavalletta dallo scafo corazzato verde e arancio, in riposo i leveraggi delle zampe, guarda in cagnesco un calabrone di pelo nero, con la faccia da canaglia. Più lontano una marmotta salta su da un an51


fratto dove stava prendendo il sole senza niente addosso, e spara un potente fischio di allarme e protesta, correndo poi come una matta fino alla tana. Non entra, si ferma, si volta e stranfiando dice allo straniero: embè? Siamo sempre in valle di Lanzo. Nella piccola frazione di Vru, a tre chilometri da Cantoira, mille metri d'altezza, tra castagni, pascoli, faggi e betulle, c'è una piccola meraviglia nascosta: il presepe meccanico costruito in vent'anni di lavoro paziente da Francesco Berta, detto Cichin, classe 1924, nato e vissuto sempre a Vru. Nel diorama ci sono una quarantina di personaggi intagliati nel legno, ma le figurine crescono continuamente. Cichin continua a fabbricarne pazientemente anno dopo anno. Un lavoro infinito, che riempie le sue giornate di pensionato geniale e instancable. Da giovane ha lavorato alle miniere di talco nella comba di Vrù a quota 1600 metri: a piedi tutti i giorni andare e venire, poi ha gestito il cinema del paese finchè la gente non ha comprato la tv. Ma non ha mai smesso di essere anche un contadino di montagna con qualche vacca e capre nella stalla. Insieme ad altri paesani ha rifatto il tetto della chiesa e del campanile della frazione, combinando due cupolette coperte di lose mai viste in valle. Due anni fa si è costruito nel prato di fronte a casa, una Mole Antonelliana di pietra altra cinque metri, perfetta nei dettagli: <Avevo una foto in casa - dice - e ho pensato, mah, magari la faccio>. Giustamente ce l'ha con la Cee, la Provincia, la burocrazia in genere <che fanno di tutto per far passare la voglia di lavorare>.

Guido Ferro Famil, guida alpina di Usseglio, della dinastia dei Vulpot - cosiddetti dal capostipite ottocentesco, famoso per la sua sveltezza - conosce ogni anfratto della sua valle, e accompagnò in passato geologi e riercatori, a caccia di vecchie miniere, possibili filoni di metalli nobili, improbabili giacimenti di minerali. La cava di amianto di Balangero - attivata nel 1914 - non è più in produzione dal 1990. Tutto è fermo: escavatori, nastri trasportatori, dumper, compressori. La montagna, scavata per decenni, è diventata una voragine paurosa, ciclopica. Nel fondo le acque di falda affiorando, hanno creato un autentico lago - si potrebbe andare in barca a vela - circondato da un circo immenso di gradoni rocciosi. Ma lo spettacolo si puù vedere solo dall'alto, dalla strada che da Corio porta a Coassolo, deviando sulla sinistra su una carrareccia al Colle Forcola. La vista è impressionante, non solo per lo specchio d'acqua, immobile in fondo alla voragine, ma per le colline di detriti accumulate intorno. Tutta la montagna è rosicchiata e smangiata, ridotta in colline di ghiaia, per tutti i secoli dei secoli. Dicono che bisognerà spendere miliardi per bonificare tutta la zona. Nella frazione Fragnè di Chialamberto, al confine con la località Prati della Via, in un punto verde e pianeggiante sulla destra, salendo, della strada provinciale, c'è una vecchia miniera di pirite (minerale di ferro) abbandonata da una ventina d'anni. I primi scavi risalgono alla fine dell'800 seguito dal boom durante la Grande Guerra. Siamo a quota 800 metri circa, ai piedi della Bellavarda. Ci sono capannoni con tetti di lamiera variamente arrugginiti, e cumuli pietrificati degli scarti della lavorazio52


ne. Il minerale a suo tempo veniva avviato in camion a Portogruaro; i minatori erano soprattutto sardi e toscani, pochi i valligiani. La proprietà era lontana, a Milano, i nomi dei padroni non li ricorda più nessuno. L'impianto venne dismesso e abbandonato alla fine degli anni sessanta, (si estraeva anche un po' di rame), perchè ormai antieconomico. Sono rimaste scale in ferro corrose, rivoli d'acqua col fondo muschiato, conoidi di inerti e pietre ossidate, muraglioni mezzi crollati, resti di binari della decauville, con tre vagoncini arrugginiti e deragliati su una terrazza cento metri sopra il fondovalle. Gallerie s'inoltrano per centinaia di metri nella montagna: mezze franate e allagate, impercorribili, con pozzi improvvisi per l'aerazione, alcune con gli ingressi murati. Un reticolo sotterraneo buio e cieco, pericoloso da esplorare. La montagna intorno è tutta terrazzata, colonizzata da betulle e castagni, tra rivoli ocra e grigi di terre rapprese, colate di acque che striano di nero le rocce. I locali industriali senza vita hanno salnitri sulle pareti, sono ingombri di foglie secche e fanghi solidificati color zolfo. Fuori vecchie cataste di legna, sbiancata dalla pioggia, dal sole, dalla neve. L'area - dice il sindaco - sarebbe da recuperare, ripulire, riconvertire, ma non c'è una lira. Ma poi siamo sicuri che non sia meglio se resta tutto così com'è? Mah! Vallone di Subiasco, detto degli Invincibili, alta val Pellice, sopra la frazione Bessè di Bobbio. Canyon aspro con coni aguzzi di serpentini; il sentiero è obbligato, tagliato alla base di grandi bastio-

nate e muretti a secco; oltre metà strada c'è una bella sorgente con un tubo di gomma, e vicino un bicchiere di vetro per servire gli assetati. E'lì da anni. Ogni tanto si rompe e qualcuno provvede a cambiarlo. Nel percorso verso la Barma d'Aut, alpeggio aereo a 1.532 metri, passa fra quattro successive forcelle rocciose facilissime da difendere. I barbet in fuga nel 1600 ebbero buon gioco contro i mercenari savoiardi. Un uomo solo poteva impedire il passaggio, anche solo sputando in faccia ai tagliagole cattolici. Appena fuori dal tracciato spine, e ginepri, terreno difficile, ripido, pietraie, pascoli erti e scivolosi. Barma d'Aut ha di fronte un promontorio e in punta piccole grotte naturali che servono da ricovero per gli ovini. Le svelte caprette quando sono a casa hanno una vista solenne verso il fondovalle e ruminano avendo pensieri serafici. Montagna? Solitudine, silenzio, libertà. Il basto e le cinghie dello zaino scricchiolano dolcemente, come la sella di un cavallo al passo in qualche steppa, o come il fasciame di una vecchia goletta che si dondola alla bonaccia. Sul sentiero è bello notare la dinamica dei passi. Le gambe che scelgono in una frazione di secondo i movimenti giusti guidando i piedi, coordinando il complesso delle articolazioni, l'anca, il ginocchio, la caviglia. E tutto funziona perfettamente da sè: muscoli, tendini, nervi, legamenti. Si può fare un gioco: non fare assolutamente rumore, evitando di pestare foglie secche, ramoscelli, sassi instabili o non lasciare orme, nè segni anche minuscoli del passaggio. E pensare cosa doveva essere 53


camminare su queste mulattiere al tempo dei partigiani, quando dovevi stare attento alle spalle, e aver paura degli spioni, o scappare in salita magari con gli scarponi rotti, senza mangiare, uno zaino da morire, le armi, e vedere in fondo alla valle nazisti o repubblichini che venivano su implacabili, e adesso invece puoi andare a passeggio tranquillamente, guardare il panorama e fare fatica per il gusto di farla, con pedule tecnicissime, morbide, leggere, abbigliamento adatto, e pile e fornellini e alimenti energetici. Al lago della Manica, nel parco dell'Orsiera, a metà settembre, le cavallette danno i numeri. Saltano a casacccio senza cognizione, finiscono in acqua come fosse una scelta. Nuotano un po' come non avessero fatto altro nella loro breve vita di ortotteri, poi affondano e annegano. Altre - è il periodo della riproduzione - stanno strenuamente una sopra l'altro (o viceversa, chissà se il maschio sta sopra o sotto?) e saltano insieme. Il coito diventa una fatica, e il piacere a occhio e croce, non sembra granchè. Negli intervalli tra un balzo e l'altro riposano tra i fili d'erba e guardano in giro facendo finta di niente. Sempre nel territorio dell'Orsiera col direttore del centro di Pra Catinat, Boris Zobel. A dispetto del nome è torinese. E' curioso di animali, montagne, psicanalisi. Fotografa le nuvole dalla terrazza del suo alloggio, che è come la tolda di un piroscafo in navigazione tra le valli. Tra gli interstizi dell'immenso ponte-pavimento crescono piantine di genepy. Tra i suoi passatempi guardare al microscopio un frammento di muschio, entro cui vivono centinaia

di insettini, vermetti, vite microbiche sconosciute, un universo pieno di vita, chiuso in un centimetro cubo tutto verde. Raccoglie le borre dei selvatici nascoste tra l'erba, aghi di pino e strobili secchi. Le borre sono dei rigurgiti, ridotti a bioccoli lanosi, del pasto dei rapaci (gufi, poiane, falchi, allocchi) e si chiede, cacciando le mosche con un ramo di artemisia: <Non saranno invece stoppacci dei fucilieri francesi del generale Catinat?>. Difficile più oltre risolvere l'interrogativo di vari escrementi sui sentieri. Sono di cervo, camoscio, volpe? E quelle sono invece del gallo forcello? I picchi hanno forato perfettamente i tronchi dei larici per il nido: un buco rotondo, poi un cunicolo che gira a novanta gradi all'ingiù. Bello. Basta mettere una mano vicino a un formicaio - una montagnola di aghi di pino e rametti - per avere spruzzato sulla pelle l'acido formico della formica rufa che difende la casa, i figli, il lavoro dagli estranei. Puzza. Dall'altra parte del parco in val Sangone, verso il colle della Rossa, d'inverno col sole e una bava di vento. Le avventurose foglie dei faggi saltano sul sentiero come ranocchie. Una piccola tromba d'aria si fa una suonata e via, dopo dei mulinelli silenziosi. Qualche foglietta secca attaccata al suo ramo, presa da un firulino d'aria, fa frrrr e vibra eccitata. Al tramonto si ferma, esausta per l'interminabile orgasmo eolico. Nei boschi ogni tanto, inchiodati agli alberi, ci sono cartelli di lamiera bianchi, con una riga rossa di traverso, e su scritto <Zona di rifugio>. Ma vale solo per gli animali. Vuol dire che nessuno può fucilarli o molestarli. Mammiferi 54


e uccelli sono al sicuro. Ma perchè oasi riparate solo per le bestie? Sarebbe necessarie zone di rifugio anche per la specie umana. Aree protette dove fosse interdetto l'ingresso a uomini in divisa, burocrati in servizio, imbecilli, autorità, psicopatici. Terre libere e vergini, extraterritoriali, dove stare in pace, guardare le nuvole, tacere. La fortezza di Fenestrelle sale come uno spropositato dinosauro di pietra per quasi mille metri: dal forte San Carlo in fondo valle, alle ridotte più alte di Elmo e Belvedere, passando dalla vertiginosa garitta del Diavolo appollaiata su uno sperone aereo. Una specie di muraglia cinese in scala ridotta. Dentro l'immane labirinto ci sono camerate e cappelle, forni per il pane, e camminamenti, ponti levatoi, celle di punizione, camerate gelide, polveriere, postazioni d'artiglieria da decenni senza bocche da fuoco. Fatiche ciclopiche di generazioni di carpentieri, muratori, scalpellini, fabbri. Il ridicolo è che il forte non ha mai partecipato a una battaglia, essendo sempre stato aggirata a monte. Più che altro ha funzionato da deterrente e da galera. In una delle celle del Padiglione Ufficiali, Xavier De Maistre abbozzò nel 1790 il suo <Viaggio intorno alla mia stanza>, mentre scontava 40 giorni di fortezza a causa di un duello. Oggi c'è silenzio come a Machu Picchu quando non ci sono turisti. Si sentono solo i versi dei codirossi e magari lo strido di un'aquila. Ci sono penombre gelate, buchi scuri e mortali nei corridoi; pozzi, fossati asciutti, macerie erte. La scala coperta, di quat-

tromila gradini, con muri a prova di bombarda, che sale dalla piazza d'armi del forte San Carlo fino alla ridotta dell'Elmo, passando dalla Batteria dell'Ospedale, è interrotta in più punti; i ponti levatoi sono andati distrutti e non si passa a meno di acrobazie. Tutto quello che si poteva rubare è sparito. Il resto si sgretola piano piano e viene mangiato dal bosco che avanza in silenzio. Da qualche tempo la Pro Loco organizza visite guidate. Alto vallone di San Bernolfo, laterale alla valle Stura, provincia di Cuneo. Fu una bella gita ,tanti anni fa, col mio amico Giancarlo Perempruner che mi portava a scoprire la <sua> provincia di Cuneo. Dal passo della Guercia al passo del Bue, che è un varco striminzito a 2.600 metri, dove un bue non ci passa proprio, e nemmeno un vitello. E' un passaggio fra due rocce a <V> cui si arriva dopo un sentiero aereo, mezzo franato, tracciato dagli Alpini negli anni trenta. C'è una piccola caserma blindata e diroccata sotto il passo; su dei sassi una bomba di mortaio inesplosa, abbandonata, chissà di quale guerra o resistenza o esercitazione in tempo di pace. Una presenza cretina e sinistra, la punta e la coda mangiate dai colpi di qualche incosciente escursionista aspirante artificere e mancato suicida. Più sotto, a monte del rifugio del Laus, dei ricoveri militari, sono stati trasformati in stalle. Una pastora sui quaranta, vestita di nero, la faccia dura e diffidente, come nelle fotografie dei tempi del duce, accudisce le bestie, con gli scarponi piantati nel fango. La figlia forse 16 anni, calzoni corti, bella fighetta, chissà cosa sogna. Spiagge, discoteche, il mo55


torino, videogames. Invece fischia alle manze e va a mungere le vacche tenendole ferme con due dita nelle froge. Poi scappa a valle dopo il tramonto. Tornerà domattina per un'altra giornata solitaria. Primi di giugno, anni fa, salendo alla conca del Prà, in alta val Pellice: c'è un gran traffico di acque di disgelo. Acque chiare, senza un vibrione, senza una salmonella e nemmeno cromo, olii minerali, rifiuti. Sembra perfino strano. A Villanova, dove finisce la strada e comimncia la mulattiera, due muli imbastati scalpitano carichi. Succedeva quando non era ancora stata fatta la strada fino al pianoro. In giro ci sono già animali al pascolo. I montagnin sorvegliano, mai cambiati. Pantaloni di velluto, cappello di feltro, camicia a quadri, ombrello, bastone. Salutano la gente che passa e stanno sotto la pioggia come indios. Ma quanto può valere un uomo o una donna così? Quanto costerebbe alla comunità, per ipotesi, l'istruzione di un valligiano? Insegnargli tutto dall'a alla zeta, della montagna: il fieno, le patate, i nomi dei fiori e delle erbe, delle fontane, le storie dei vecchi, il patois. Invece sta lì gratis, a disposizione di chi vuole parlare, ben contento di scambiare due parole con i forestieri educati. Senza pensare di valere un Perù. Al Prà è già aperta la Ciabota, ottocentesca osteria (funziona dal 1830) locanda con antiquati letti cigolanti. I padroni, la famiglia Cairus, sono al lavoro con bovini, ovini, galline, maiali. Sulla fontana sono stesi panni al sole, le braghette dei bambini sono di lana, fatte a mano. La toma è erborinata e forte, il vino freddo. Al

tramonto, bevendo un genepy o una genziana, si sta seduti su un muretto tra la Ciabota, la montagna di ieri, e il rifugio Jervis, quella di oggi. Il custode del rifugio, la guida Robert Boulard, ha un fuoristrada giapponese, affitta mountain-bike, dà lezioni di arrampicata libera, e ogni tanto accompagna clienti in giro, magari sulle Ande o in Himalaya. Ma guai a togliergli il <suo> rifugio. Ci sta benisssimo estate e inverno, come un topo nel formaggio. Mentre cala il sole l'ambiente pastorale regala momenti di rara felicità e calma. Le galline sono al coperto,i maiali dormono, le vacche sono nella stalla dopo essere state munte. Si sentono voci piemontesi, occitane, ma anche francesi, tedesche, e nessuno è straniero. Il mondo è una meraviglia. La Sacra di San Michele la conoscono tutti, almeno di nome e di vista, appollaiata sulla vetta rocciosa del monte Pirchiriano, a picco sull'abitato di Sant'Ambrogio nella bassa valle di Susa. La maggior parte dei visitatori sale in auto e fa cagnara di domenica. Ma una esperienza consigliabile è raggiungere la vetta a piedi, percorrendo l'antichissima mulattiera selciata che parte dalla piazza della parrocchia di sant'Ambrogio, dietro il roccioso campanile medioevale, a base quadrata, fatto di pietre annerite. Anche chi non cammina abitualmente, può sobbarcarsi la fatica (un'ora e mezza circa), ripagata dalle buone vibrazioni che vengono dall'ambiente, dal tracciato percorso a suo tempo, da migliaia di pellegrini. Avendo voglia si può salire di notte, con la luna piena. Le pietre del viottolo sono chiare e indicano la strada anche quando questa 56


passa nello scuro del bosco. Si sentono i versi delle civette. Può capitare di sentir grufolare un cinghiale nelle forre. E si sentono i treni notturni passare in basso, da e verso la Francia. Nel silenzio non passa il treno, passa l'<idea> del treno, il suo concetto rumoroso, l'essenza un po' misteriosa di questo convoglio invisibile che va chissà dove, con sopra chissà chi, in bilico sui binari, centrando infallibilmente le gallerie anche al buio. Di giorno uno non ci penserebbe nemmeno.

consapevolezza di un rapporto ancestrale con la terra, le pietre, la gente che c'è e che c'è stata. Le immanenze vengono fuori dalla macchia gialla del maggiociondolo, dalle pietre lisce del sentiero, dal raro giglio martagone, dal glin glon dei campanacci di una mandria al pascolo, dall'odore di fieno, dalle facce dure dei paesani. Il saluto in dialetto sul sentiero, fa scattare scintille subliminali, silenziosi tellurismi interni alla coscienza, emergenti da un pozzo profondo che non sai dove va a finire.

Il cane da pastore che guarda le pecore all'Alpe Crosenna in punta alla val Pellice, di pelo lungo biancastro, ha buon senso e professionalità. Distingue a naso il passeggero innocuo da chi pratica il furto di madie e l'abigeato. Si vede che è un cane zen e mangia solo cose macrobiotiche. Da come guarda e si gratta si capisce che ha letto <Il libro tibetano dei morti> e che gli è piaciuta a suo tempo <La ballata del vecchio marinaio> di Coleridge, anche se non ha mai visto il mare. Ti gira intorno tranquillo (abbaia, corre, ringhia, solo se necessario, per lavoro) controlla se c'è qualcosa da sgranocchiare di extra, starnutisce in segno di amicizia se gli fai una carezza. Poi torna a controllare la casa e il gregge, visto che il padrone è più in basso e verrà su solo al tramonto.

Donne nude in montagna non se ne vedono mai.

Camminare sulle montagne di casa non è solo un contatto fisico con un ambiente naturale. Andare a piedi nel deserto, in una savana, su un sentiero nella giungla, sul bordo di una scogliera senza intorno segni umani, è altrettanto emozionante ed epico. Ma la montagna domestica dà in più, oltre il silenzio e l'isolamento, la

Pensare che sarebbe bello, coricato in un pascolo, con l'odore forte del timo serpillo, intrufolarsi fra i riccioli neri, tra le gambe di una, con un bel controluce. E una punta piena di neve che viene fuori da dietro la curva sinuosa di un fianco. Mai che giri il gomito di una mulattiera e vedi lei - che cerchi sempre e non trovi mai - sdraiata su un lastrone di serpentino, i vestiti buttati nel prato, i seni all'aria, e ti dice, <Ce ne hai messo del tempo ad arrivare>. E spiega che viene da Arles, e i suoi erano della valle Stura. <Sono solo di passaggio, domani devo andare a Pietraporzio all'anagrafe, poi parto per Port-au-Prince per lavoro. Stai lì un momento che vado a bagnarmi i piedi nel torrente>. E se ne va all'acqua, muovendo appena le natiche rotonde.

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CAPITOLO VIII

Beati bergè


Noi andiamo beati per le montagne. Ci va bene il poco cibo, dormire per terra nel fieno di una baita o tra le vecchie coperte di un rifugio, stare al troppo caldo o al troppo freddo, sapendo che si tratta di situazioni temporanee. Per i montanari è sempre stato diverso come testimoniano i tanti toponimi che raccontano invece le gramizie di vite sempre in salita. Eppure sono gli stessi posti dove escursionisti e alpinisti viaggiano con grande piacere. Questione di punti di vista. Le località si chiamano Frema Morta, Vallone della Rovina, Pian dei Morti, Desertetto, Valdinferno, Vallone del Tiraculo, Cima Maledia, Punta Tempesta, Vallescura, Combamala, Cime di Malaterra, Monte Tenibres, Punta Rognosa, Punta Serpentiera, Malpasso, Vallone di Malanotte. Citando a caso luoghi delle montagne in provincia di Torino e Cuneo. Così è per i cimiterini che sembrano ormai giardinetti d'antan, senza tristezze. Dalle vecchie lapidi sbrecciate non spirano arie di thanatos, nè d'estate brillano fuochi fatui. Se ne stanno abbandonati alle stagioni, spesso in frazioni dove si arriva solo a piedi, incrostati di anni e muschi; ruggini sulle croci di ghisa istoriate, divelte, sghimbesce magari per il passaggio di una talpa. Sono archivi all'aria aperta, con le frasi fatte, gli epitaffi dolenti, le piccole foto su ceramica di visi antiquati. Spesso con quattro parole viene fuori la vita del defunto: pastore, contadino, cacciatore, minatore. Le tribolazioni, le parentele, i decenni passati a portare gerle di fieno e fascine, l'emigrazione stagionale in Francia, sublimano in un fumo invisibile che aleggia

quieto sulle valli, come un muto racconto corale, percettibile con sensi che ogni tanto si attivano improvvisi, in particolari stati di grazia. Questo è un itinerario non ragionato topograficamente, chè le montagne ormai sono piene più di morti che di vivi, e sacri recinti più o meno dimenticati ce ne dappertutto. Sono alcuni luoghi messi insieme dopo anni di camminate tranquille.A Celle sopra Rubiana, nella bassa val di Susa, il camposanto è raccolto intorno alla chiesa (con campanile romanico) come usava fin oltre un secolo fa. Nei giorni feriali, scampando cercatori di funghi e cacciatori, quando c'è deserto e silenzio, si può sedere sotto un grande ippocastano, di fronte alla cappella ricavata sotto un roccione e meditare in pace. C'è la solida casa del prevosto, diventata un locale per saltuarie adunate festive dei parrocchiani. Si sentono gracchiare le cornacchie. Campanacci lontani.Anche a Chiaves, in val di Lanzo, i trapassati stanno sottoterra intorno alla chiesa, entro una cinta cui si accede da un modesto cancello di legno. Ci sono sempre fiori di plastica dai colori vividi che fanno allegria contro gli intonaci grigi. Da Ingria, valle Soana, per un bel sentiero, si sale nel vallone di Betassa: nella frazione omonima, lontano dalla chiesa restaurata qualche anno fa, nonostante il villaggio sia deserto otto mesi all'anno, c'è un cimiterino mezzo nascosto dalla vegetazione. Con erbe profumate e fiori fra i tumuli, d'estate. E' sempre silenzioso e solo nel suo eremo pacifico. Gli ospiti guardano il cielo tra i fili 60


d'erba, e non si decidono a dare un giudizio su quello che è stato. Troppo repentino il passaggio dalla grangia odorosa di fieno, dall'odore di fascine bruciate, dal calore di parenti e amici alla solitudine e all'isolamento. Stanno ancora pensando com'è potuto succedere che un momento prima erano alla festa dei coscritti, e un momento dopo li portavano a spalle i paesani. Luserna San Giovanni, val Pellice. Il cimitero dei Jallà è un giardino di siepi di bosso e larici. Chi abita vicino va a prendere il fresco d'estate; siede all'ombra, non intimorito - anzi - dalle lapidi e della epigrafi, dai cancelletti di ferro. Quello dei Jallà è un vecchio camposanto solo valdese, con sepolture che risalgono alla fine dell'800, quando i barbet non erano ancora ben sicuri che la libertà, finalmente concessa da Carlo Alberto nel 1848, sarebbe durata. Intorno ci sono prati rasati, case coi tetti di lose, e la calma nordeuropea di un paese civile e ordinato. E' tenuto pulito e lindo dagli abitanti della frazione che lo accudiscono a turno. Il camposanto di Chasteiran, frazione di Roure in val Chisone, non ha sentito il rumore di un motore a scoppio fino a pochi anni fa. Poi hanno aperto una strada e da allora, d'estate, la gente sale in macchina. E' piccolo, con nessuna inumazione recente. I coniugi Charrier sono seppelliti vicini: due croci di legno e i nomi su un cuore di lamiera smaltata. Lei, Faure Alexandrine, morta il 3 ottobre 1944 a 66 anni, lui Ferdinand, morto poco prima, il 17 settembre a 65 anni. Non c'è altro. Giovanni Battista Charrier ha invece una lapide di marmo: <Giovane onesto e laborioso morì

vittima del lavoro nelle cave di talco della Rossa, il 5 novembre 1925 a 22 anni>. Allora a Chasteiran c'erano un centinaio di persone, e tanti andavano a lavorare nelle cave sotto il passo della Rossa, dall'altra parte della valle. Bisognava scendere e risalire il versante opposto. Tre ore per andare e tre ore per tornare, più o meno. Un percorso che oggi è una gita da fare con lo zaino, pedule da trekking, macchina fotografica, scendendo a valle soddisfatti, al tramonto, della salutare fatica, del panorama, del silenzio, dell'avvistamento fortuito di un muflone. In quegli anni bisognava farla tutti i giorni la gita. Le giornate cominciavano e finivano che era scuro. Oggi ci sono brezze leggere che accarezzano il paese. Il campanile della parrocchiale si vede da lontano. E c'è la strada che è arrivata troppo tardi. Chissà che fatica hanno fatto nel '25, per portare a casa Giovanni Battista Charrier <giovane onesto e laborioso>, forse schiacciato da un masso o dilaniato da una mina. Tre ore col morto in spalla i paesani minatori. Un giorno nebbioso di fine ottobre a Roccapiatta di Prarostino. I defunti abitano un piccolo recinto a ridosso del tempio valdese, tra pascoli verdissimi, boschi di castagni, gente che va per funghi, e mele buonissime che non raccoglie più nessuno. Un anziano cammina piano per il viottolo, passando a randa del muretto, è solo e sbircia apppena il tempio e la sua corte calma, ornata di crisantemi secchi. Va verso casa adagio, di buon umore per essere arrivato vivo alla fine di un'altra delle sue lunghe giornate. 61


Battista Griva detto Tistin, di Traversella in val Chiusella, venne sepolto presumibilmente tra il 1895 e il'96 nell'antico camposanto del paese, dove oggi c'è un campo da tennis. Non aveva parenti. I resti vennero traslati in una fossa comune già alla fine della grande guerra. Ci ricordiamo di lui per una lettera trovata da un escursionista negli anni Trenta in una grangia mezza diroccata al Pian del Gallo, poi bruciata dai tedeschi nel'44. Tistin lo chiamavano Buenosaires, perchè era stato in Argentina tanti anni; ma gli dicevano anche <balefreide> per via dei calzoni sempre scuciti sotto il cavallo. Aveva un cane che chiamava perro, come nella pampa. Ma da vecchio lo chiamava solo più peru, passando dal castigliano al piemontese senza accorgersene. Nel vecchio scritto - che riportiamo integralmente senza correzioni - Buenosaires anticipava in un certo senso il suo aldilà. <L'unica cunsulasiun de la vita povera, è di notte che sto fora a guardar le stelle, che a l'inverno sono sclinte e berlusenti e agratis. e quando cè la luna è una maraviglia di illuminazione come fosse latte versato daspartut e un silensio che mi sembra che ero morto e stavo in paradiso, anche se ò fato dei pecati ma mica tanto e solo da giovane. E quando sto a laria a la noit a guardar el cielo penso a che vite ò fato di fatica e sempre poco soldo e poca pitansa e la molie che è morta da tanti ani perchè faceva dei lavori istess come un mulo, e una bella volta mi à detto che ne aveva a basta e ciau Tistin e guerna la casa e le crave che io vado>. Tistin Griva è sparito, tornato nel gran ciclo

naturale della terra e delle stagioni, ma c'è da supporre che sia in pace da morto come lo fu da vivo, nonostante le fatiche e i patimenti. Val Maira. L'antico camposanto di Pagliero, frazione di San Damiano Macra, mille metri d'altezza, nel selvoso vallone che sale al colle del Birrone, è tutto in discesa, nascosto dietro la chiesa parrocchiale. Bisogna scendere un sentierino ripido, e varcare un portale sempre aperto. I tumuli sono sistemati su tre terrazze digradanti, a picco sulla valle. Lapidi e croci di ghisa sono mezze nascoste da erbe e cespugli. Il luogo fu abbandonato quando venne costruito il nuovo cimitero nel 1935, poco lontano. Un posto scomodo ed emblematico: dopo aver faticato a vivere, i montanari dovevano tribolare anche per l'ultimo viaggio. Mocchie, frazione di Condove, in val di Susa, circa 800 metri d'altitudine una ventina di abitanti stabili, tutti anziani. Quelli del cimitero, all'ombra di un sobrio campanile romanico di pietre nude che pencola un po', stanno tutti coi i piedi a sud, guardando la valle. A novembre, dopo il giorno dei morti, ogni tomba è carica di fiori. Spesso fino a Natale ci sono giornate di sole radioso, caldo, e i boschi intorno hanno colori smaglianti. Nel recinto cinque tempietti minuscoli, di marmo, ultima dimora di altrettanti valligiani fucilati dai tedeschi per rappresaglia il 7 aprile del '45. Stavano per uscire indenni dalla guerra; erano scesi al mercato di Condove e mentre tornavano a casa furono catturati e messi al muro. Angelo Cinato 34 anni, Vincenzo Giuglard 42 anni, Ercole Pau62


tasso 39 anni, Giovanni Alotto 21 anni, Francesco Pautasso 21 anni.<Innocenti vittime della barbarie tedesca> è inciso sulle lapidi. Il 20 aprile fu ucciso anche Secondino Giuliano 26 anni, e sepolto vicino ai compaesani. A fianco del cimitero c'è un grande orto davanti a quella che una volta era la canonica della parrocchia. Un gatto cammina sul muro, due oche sono in pastura in un prato e poco lontano pascolano quattro vacche pezzate.

compagnia di ricci e scoiattoli. Dopo una vita affaticata forse non gli sembra vero questo eterno riposo, al riparo dalla confusione e dalla cattiveria.

Frassinere è un'altra frazione di Condove, tre chilometri più in su. Anche qui il cimitero è raccolto vicino alla chiesa che ha una semplice facciata bianca rivolta verso oriente. Una piccola piramide riporta ben 48 nomi di caduti nella grande guerra, tutti della borgata. Una dozzina di chilometri oltre, la strada finisce a Maffiotto, 1.300 metri, a picco sulla valle. Quattro o cinque gli abitanti stabili, un piccolo campanile a cipolla e il cimiterino appena fuori dalle case. Un'insegna stinta su una baita indica dov'era l'"Osteria dei calzolai", perchè un tempo in paese si facevano le suole degli zoccoli. D'estate il camposanto è pieno di erbe e alte e fiori; una delle tante lapidi recita: " Dio grande e buono, accolga nell'eterna pace Ferdinando Gioberto, che alla vigilia trepida delle nozze auspicate,immaturamente cadeva,vittima ignara, innocente, del rastrellamento della Folgore. 21.1.1908-1.12.1944. La sorella e la fidanzata e i nipoti". La merda satanica della guerra è ormai lontana. Il posto è magnifico per starci anche da vivi, circondato da un bosco di castagni. I beati bergè si guardano tutto il giorno le montagne del parco dell'Orsiera, proprio davanti, in 63


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CAPITOLO IX

Monte Benedetto


Ancora per tutto marzo bisogna salire guardando bene dove si mettono gli scarponi, perchè tutto il versante esposto a nord, è gelato. Piste forestali e mulattiere sono lastricate di ghiaccio; a parte questo l'ambiente è bellissimo. La zona è il lato settentrionale del parco Orsiera-Rocciavrè, versante della val Susa. Due i possibili obiettivi: il rifugio Amprimo e la medioevale Certosa di Monte Benedetto, entrambi a circa 1.300 metri d'altezza. Il rifugio si trova a Pian Cervetto, pianoro ondulato e ventoso, con alcune grange ben riattate, un balcone naturale sulla bassa valle di Susa. D'estate ci si arriva con tre quarti d'ora di passeggiata lasciando la macchina a Città, frazione di San Giorio. D'inverno si può partire dalla frazione Giordani di Mattie, (bella la Trattoria delle Alpi con tovaglie a quadretti e onesti cibi), e seguendo il sentiero (ogni tanto una tacca rossa) che qualche volta si perde nel bosco, si raggiunge l'Amprimo. Nei fine settimana è sempre aperto, ci capitano sci alpinisti, escursionisti. Qualcuno ha messo addirittura i ramponi lasciando i segni sulla neve ghiacciata. Il custode Massimo De Michele, torinese, ha lasciato dall'81 l'impiego in pianura che gli andava stretto e ha scelto la montagna. Si trova benissimo, è un ottimo chef, conosce l'ambiente, i guardiaparco, gli animali. Con un po' di fortuna si può incontrare Elio Re, di Mattie, una specie di gigante barbuto, boscaiolo e filosofo; un mangiafuoco colto e socievole, gran bevitore di grappa, che sa tutto sui boschi intorno, ed è sempre in giro a tagliar legna o lavorare negli alpeggi come carpentiere. D'estate accompagna i ragazzi che vanno in

giro coi cavalli del Mulino di Mattie, un maneggio alpestre e centro agrituristico. Insegna a conoscere le piante, i fiori, le bestie. Dall'Amprimo in un paio d'ore tranquille - quasi sempre a mezza costa su un sentiero segnatissimo anche da cartelli di legno - si arriva al monastero di Monte Benedetto, (abbandonato nel 1473 dopo una disastrosa alluvione che uccise anche diversi certosini, e mai più occupato), percorrendo una mulattiera ripulita da qualche anno da squadre di volontari. E' un tratto del <Sentiero dei Franchi>, un lungo percorso in quota che partendo dal Gran Bosco di Salbertrand arriva alla Sacra di San Michele. Si passano frazioni abbandonate e deserte: Travers d'Amont, Arbrun, Pois, Passet. Case, stalle, fienili di pietre appena squadrate, un'architettura povera ridotta all'osso, medioevale; materiali venuti dalla terra intorno e che alla terra stanno lentamente ritornando. Le travi marciscono, i tetti cadono, i muri pencolano. Tra gli alberi spogli muretti a secco, terrazzamenti, che hanno spezzato la schiena agli antichi abitanti della montagna che in quei fazzoletti di terra seminavano segale e patate. Si risale per un piccolo tratto il vallone del Gravio verso l'omonimo rifugio, poi si torna verso valle sul versante opposto, e dopo poco appaiono le pietre grige dell'abbazia, al centro di una vasta conca silenziosa e intatta. Per strada può capitare d’incontrare (se c'è ancora) un cane eremita, un lupo nero tranquillo, che sta tutto l'anno alla frazione dell'Adret e quando passa qualcuno si aggrega, fa una gita, scrocca qualcosa da mangiare, poi torna al suo romitaggio. La certosa è un luogo di raro fasci66


no. Anche se dell'originale è rimasto solo l'impianto generale e un mezzo affresco su un muro esterno, molto bello anche se parzialmente cancellato dai secoli. C'è la grande chiesa romanica, una corte selciata, un ampio porticato, la stalla che d'estate viene usata come alpeggio, locali che un tempo ospitavano i frati, celle, cucine, refettorio, dispense, cantine. Il chiostro è sparito, travolto a suo tempo dall'immane alluvione.

casa madre vicino a Grenoble, la celebre Chartreuse, a Monte Benedetto due secoli dopo. Poi a Banda, poco più a valle, ad Avigliana nel 1600, infine a Collegno nel 1641, dove rimasero fino alla metà dell'800, per poi scomparire definitivamente come comunità, con la legge del 1855 sulle soppressioni delle comunità religiose, dopo sette secoli di vita in valle.

E non guasta ricordare, sforzandosi di ricostruire mentalmente la vita di allora, qual'era la rigida regola claustrale dei frati, nel Medio Evo, estate e inverno. Ore 23 alzata, mattutino e <laude de beata> in cella. Ore 23.45 mattutino e laude dei morti in chiesa. Ore 2.45 rientro in cella, laude de beata e riposo. Ore 5.45 sveglia. Ore 6 colazione, terza <de beata> e tempo libero. Ore 6.45 entrata in chiesa, litanie dei santi, messa conventuale. Ore 8 Messa bassa, ritono in cella. Ore 9 meditazioni. Ore 9.30 riposo, tempo libero e lavoro manuale. Ore 11 pranzo in cella, solo di domenica e nelle festività in refettorio, poi ricreazione e solitudine. Ore 12 lettura spirituale. Ore 13 studio (regole dell'ordine, teologia, sacre scritture). Ore 14.30 vespro <de beata> in cella. Ore 14.45 vespro del giorno, ufficio per i morti in chiesa. Ore 16.30 cena. Ore 17.30 meditazione, esame di coscienza, lettura spirituale. Ore 18 compìeta del giorno e <de beata> in cella. Ore 19 riposo. Il venerdì sempre digiuno con solo pane e acqua. I monaci ebbero una lunga e travagliata storia in val Susa: dal primitivo insediamento della Madonna della Losa, nel 1200, provenienti dalla 67


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CAPITOLO X

Cronachetta nelle Alte Langhe


Ormai viaggiare nelle Langhe, a parte retoriche e mitizzazioni, è come arrampicare sul VI grado, si procede su minuscoli appigli: una collina, una vigna, le chiese, i castelli, le rare cascine non ristrutturate, le chiacchiere con gli anziani, gli unici che sanno. Inutile infatti chiedere qualche notizia, anche non impegnativa, ai giovani che caracollano in motorino. Per non parlare della scortesia diffusa nei locali pubblici. Nei bar (le osterie, sono sparite tutte), si ha quasi sempre l'impressione di disturbare; i gestori - uomini e donne - in massima parte non salutano gli avventori, a meno che non siano conosciuti, e servono con noia e sufficienza, guardando nel vuoto. Spesso poi bisogna chiudere gli occhi per non vedere nè architettura nè urbanistica contemporanea. Abitazioni, condomini, stabilimenti, capannoni di aziende vinicole. I danni sono diffusi e irreparabili. Passare dalle Langhe dei libri a quelle reali è un esercizio rischioso e qualche volta deludente. Anche se poi ci si salva a tavola. Ed ecco la cronachetta di un possibile itinerario nelle Alte Langhe, meno addomesticate, più ruvide di quelle tartufate e piene di businnes intorno ad Alba. Da Bra la statale 661, dopo alcuni tornanti, si precipita verso la pianura con un vertiginoso rettilineo in discesa; s'infila al volo sotto un ponte della ferrovia, attraversa un pericoloso incrocio con semafori e si arrampica, dopo aver oltrepassato la Stura di Demonte, sulla collina dove sorge la monumentale Cherasco, bella e silenziosa. Il comune successivo è Narzole, che ha passato bruttissimi momenti ai tempi del vino al metanolo, ma che deve aver avuto

precedenti anche in tempi remoti, se un detto maligno recita: <I narsolin che con l'eva fan 'l vin> (I Narzolini che con l'acqua fanno il vino). Prima del paese bellissimo complesso settecentesco abbazia, chiesa, cascina, civile, detto <Madonna della Neve>, con un breve viale di platani che parte dallo stradone. Un cartello dice che è proprietà privata dell'ing. E. Ramondetti. Vietato l'ingresso. Più avanti il bivio per Bene Vagienna, paese di eccellenti architetture, portici freschi, e, in campagna, archeologici resti della romana Augusta Bagiennorum, ancora quasi tutti da scavare. Dopo Narzole la statale scende, voltando a sinistra, verso la valle del Tanaro. Sui muri di contenimento della strada scritte e motti di una scemenza che fa cascare le braccia, come dappertutto. Gli ignoti scrivani vogliono lasciare un segno, essere ricordati; e non gli passa in testa che certe esistenze sarebbe meglio rimanessero occultate, invece che esposte, rivelando gerbidi infestati dalla prolifica erba imbecille. In basso, tra i prati - località Chiabotti - si erge la mole dell'Hotel ristorante Victor, disegnato da chissà quale architetto o geometra che a scuola ha evidentemente saltato tutte le lezioni di storia dell'arte. Ponte sul Tanaro, con ferrovia affiancata, cava di ghiaia e indicazioni per Monchiero. All'ingresso del paese un basso fabbricato nuovo, con il bar tabacchi Bonsai, (tipica coltura locale), distributore di benzina, e filiale della Cassa di Risparmio di Cuneo. Seguono la Trattoria della Stazione e il Daisy Pub. In marcia verso Dogliani <Zona tipica del Dolcetto>, come dice un cartello giallo. Passa un camion con la scritta 70


<Pollo Vecchio Piemonte>. Modesto imbroglio pubblicitario, che stuzzica i buoni sentimenti, specula sui tempi di una volta, sulla gallina biaanca che becchetta nell'aia e la massaia che getta il becchime, facendo <pru, pru, pru>, con ampi gesti ieratici, come i seminatori di D'Annunzio. Ma va!

Schellino), dalle brave monache della Congregazione Domenicane del SS Rosario. Un pugno in un occhio. Come il condominio celestino vicino ai SS Quirico e Paolo. Armonioso invece l'ingresso del cimitero, (sempre Schellino), con guglie aguzze, rosse, dove è sepolto il presidente Einaudi con i famigliari.

Bella la <Pieve di Santa Maria di Dogliani>, altro complesso contadino-religioso del XVII secolo, isolato nei campi, integro nella bellezza rustica dei fabbricati, con vialetto di tigli, glicini sul muro, la facciata della chiesetta restaurata e ridipinta e il cartello Proprietà Privata. Intorno prati, vigne, boschetti, e filari di salici con cui qualcuno fa ancora d'inverno cavagne e cavagnin.

E' bella la chiesa della Confratenita dei Battuti, detta L'Addolorata, firmata dall'architetto Gallo, uno dei maestri del barocco piemontese e dei mattoni lavorati a vista. Sotto il vecchio ponte sul Rea gli antichi lavatoi pubblici sono in disuso. Bisognerebbe fare un monumento al Francesco Gallo, nato a Mondovì nel 1672, e morto a Cuneo nel 1750, architetto e ingegnere alla corte Sabauda, allievo di maestri del barocco come Bertola, Vitozzi, Lanfranchi, Castellamonte, Guarini. Perchè è grazie a lui se in tutta la provincia di Cuneo, e nel Monregalese, ci sono edifici (non solo chiese), di grande pregio e armonia, dall'ospedale della Santissima Trinità di Fossano, alla gigantesca cupola ellittica del Santuario di Vicoforte. Sulla strada per Bossolasco, sulla sinistra, addossati ad una parete di tufo alta un centinaio di metri, i singolari resti di quella che fu una chiesa eretta in ricordo di una miracolosa apparizione della Vergine. Appiccicati in alto rimangono parti di una facciata in mattoni, sorrette da un arco e colonne di cemento armato, e un'edicola con l'immagine della Madonna e sopra la data: 1925. In paese raccontano che allora si spese una piccola fortuna per costruire la chiesetta, ma tutto fu distrutto dopo qualche anno da una frana della parete che, come tutti i calanchi e dirupi ar-

Il torrente Rea è un solco verde e acquatico che divide il paese di Dogliani, prima di entrare nella piazza del Rivellino, dove c'è la monumentale parrocchia dei SS Quirico e Paolo, di laterizi e pietre nude, con la sua grande cupola di rame inverdito dagli ossidi, già visibile da lontano, opera dell'eclettico Giovanni Battista Schellino, nato e vissuto a Dogliani, che ha connotato indelebilmente il paese con le sue bizzarre costruzioni alla fine dell'800: l'ospedale, la torre comunale merlata, il cimitero, la candida chiesetta dell'Immacolata, i piloni e il Santuario della Madonna delle Grazie fuori dal paese, sulla strada per Murazzano. Da non credere l'aggiunta (una superfetazione degli anni sessanta a occhio e croce), fatta all'ex asilo Sacra Famiglia, della borgata Castello, (si vede da tutto il paese, fantastica opera sempre di

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gillosi della zona, si sbriciola e precipita con gli acquazzoni. Data la pericolostà del sito il tempio non fu ricostruito, anche - spiegano i paesani - per la presunta invidia dei preti del santuario di Vicoforte (Dogliani fa parte della diocesi di Mondovì), che temevano una concorrenza in fatto di miracoli. <Ma la Madonna è rimasta>, dicono soddisfatti i vecchi che giocano a bocce lungo lo stradone polveroso. Prima di entrare in Somano da ammirare la semplice facciata in pietre e mattoni del cimitero, tra noccioleti e boscaglie. Ci sono piccoli lavori in corso per nuovi loculi e cellette. Ma come per le case dei vivi, non c'è rispetto - nemmeno per le ultime dimore per l'armonia dell'insieme: anche i cimiteri sono vittime di malvage progettazioni. Coerentemente in paese non mancano le brutte case. Il ristorante albergo Conte d'Aste, ha invece un aspetto rassicurante. Bruttina la nuova area pic nic con panche e tavoli in cemento e giovani platani che faranno un po' d'ombra solo molto dopo il duemila. Per la strada schizzano ogni tanto i soliti bruti a bordo di Peugeot 205 e Golf. Razza in espansione, sempre più pericolosa. Dopo Somano si sale ancora, siamo ormai nell'Alta Langa, e si sbuca in una specia di altopiano ventoso e aperto che culmina con il santuario dell'ennesima Madonna della Neve. Sobrio edificio con un porticato sorretto da colonne dipinte di rosso, ombreggiato da due grandi ippocastani. E' strano. Certo che d'inverno quassù nevica quasi come in montagna, ma ci sono più madonne della neve in collina (anche nel Monferrato), che sulle Alpi.

Boh! Il santuario è bello e solitario, ben tenuto, al bivio per la frazione Ruatalunga-Langa che sembra uno scioglilingua. Più avanti la borgata Garombo, che tra l'altezza dei luoghi, il panorama grandioso - trasparente per il marino, vento che sa di salmastro - e il suono del nome, ricorda <Garabombo l'Invisibile>, eroe mitico delle Ande peruviane, dello scrittore Manuel Scorza. Siamo a Bossolasco, altezza sul livello del mare 474 metri. Stop all'incrocio della strada che da una parte va a Savona, dall'altra ad Alba, itinerario classico dei motociclisti che nei week-end si scapicollano per le curve, gasati dallo strepito dei cilindri che scaldano e fanno loro vibrare il didietro e le frattaglie connesse. Sopra il paese il Colle della Resistenza, una collina piena di pini e tuie; la stradina che conduce al parco è affiancata da belle ville, quasi tutte residenze estive. All'ingresso del sacrario un cartello: <A ricordo del colonnello Paolo Della Valle, ideatore e realizzatore del parco>. Poi una grande targa in bronzo: <Qui vivono per sempre gli occhi che furono chiusi alla luce, perchè tutti li avessero aperti per sempre alla luce>. Giuseppe Ungaretti 22 settembre 1968. E ancora più avanti una lastra di pietra con su scritto in lettere di bronzo: <1945-1985, gente di Langa, sei stata con noi nei venti mesi della lotta di liberazione. Dopo 40 anni come ieri, oggi, sempre, rimani insieme a noi, nella difesa della libertà. I partigiani della Langa>. Infine un'altra piccola targa dei maquisard francesi. Non c'è altro nel parco. Solo un piccolo anfiteatro con una scultura di putrelle in ferro; più lavoro di carpenteria metallica che sim72


bolo. Ma forse è ormai troppo difficile far monumenti alle idee, ai morti, senza avvicinarsi alla retorica. Comunque il luogo invita a meditare, riflettere. Ma è deserto. Un segno? Volendo fare un chilometrico strappo all'itinerario, affascinati e incuriositi da un toponimo, si può raggiungere Olmo Gentile, nella Langa Astigiana, oltre Bormida, a est di Cortemilia. Dell'inquinamento delle acque del fiume scriveva già Fenoglio alla fine degli anni '50. Poche righe nel racconto <Un giorno di fuoco>: <Hai mai visto Bormida? Ha l'acqua color del sangue raggrumato perchè porta via i rifiuti delle fabbriche di Cengio e sulle sue rive non cresce più un filo d'erba. Un'acqua più porca e avvelenata che ti mette freddo nel midollo, specie a vederla di notte sotto la luna...>. Il viaggio per Olmo Gentile è lungo e tortuoso. Il nome è bellissimo, il paese minuscolo (127 abitanti, i residenti ancor meno): bisogna andarci apposta: la strada finisce lì. L'abitato, poche case, è costruito su uno sperone aereo, come appeso in cielo. Il castello (privato), è in rovina. Resiste una torre di avvistamento medioevale, di pietra nuda, abitata da stormi di corvi. Di fianco il municipio, una scatolotta beige che fa a pugni con i ruderi. Il problema delle scorrerie barbariche - saraceni in prima linea - era un incubo per queste zone, dato che ogni paese ha ancora la sua torre. Quella di Olmo Gentile guarda le sorelle di San Giorgio Scarampi e Perletto. Olmi in campagna ne son rimasti pochi, decimati dalla malattia. Unico locale pubblico la Trattoria della Posta, consigliato dalle guide per la buona cucina.

Da Bossolasco la strada s'infila con una serie di tornanti nella mitica valle del Belbo, poco coltivata, poco abitata, colline che sono quasi montagne, con grandi spaccature che mostrano calanchi franosi, pieghe tettoniche di tufi e strati di argille grige. A Feisoglio, il ristorante Piemonte <Da Renato funghi e tartufi>, è considerato il migliore del'Alta Langa. Cravanzana, <Centro della produzione della nocciola tonda gentile delle Langhe>, con il suo tozzo castello, già dei Marchesi Del Carretto, oggi sede di una Scuola di Agraria, ha un brutto municipio e la pizzeria ristorante dal nome californiano <da Jessica>. Ok. La frazione a valle del minuscolo comune di Bosia, si chiama Rutte. Il paese subito dopo la guerra aveva 700 abitanti, oggi ne ha 200, ma in compenso è stato appena costruito un nuovissimo campo per il pallone elastico. <Peccato che non ci siano più giocatori>, commenta un anziano. E' scomparso il vecchio ristorante che si chiamava <Rifornimento Pance Vuote> gestito per tanti anni da Cesare Magliano, geniale personaggio, che serviva funghi e tartufi, quando (a parte il Savona di Alba), per le colline le trattorie avevano nel menù solo minestrone, bollito e insalata. Nei comuni della valle ci sono cartelli che indicano il <Sentiero della Valle Belbo>, itinerario escursionistico che dicono però pochissimo frequentato. All'incrocio con la strada Alba-Savona c'è ancora un locale pubblico. Sulle carte è segnato come Osteria Campetto, 73


ma adesso si chiama Del Ponte, perchè è a un passo dal ponte sul Belbo. La strada per Alba è a sinistra. Tirando dritto si scende su Santo Stefano e Canelli. Borgomale è piccolo, con un castelletto alto alto e stretto detto Dei Cacciatori che risale al 1400. Restaurato perfettamente, è proprietà privata. Chiedendo il permesso si può visitare. Vicino c'è‚ l'Osteria della Pace. Bellissima, panoramica, con poco traffico, la strada che va a Lequio Berria, un bricco, circondato da vigne e campi di fagioli <Bianchi di Spagna>. Prima del paese un santuario (come si chiama? Madonna della Neve), che domina la valle, con un sagrato erboso, una fila di ippocastani, panche e tavoli di cemento per le merende. Dalla chiesa si partono le edicole di una via Crucis che arriva fino all'abitato, con le scene della Passione in tavole neogotiche di ghisa con le scritte in francese, dono (primi '900), di una famiglia emigrata oltralpe. Su una collinetta alberata, la più alta del paese, un angiolone bianco ricorda i caduti; poco più su una grande croce in legno e tre cappelle della via Crucis, compongono un piccolo Golgota paesano. Il ristorante-locanda del paese si chiama Bersaglieri. Tornati sulla statale s'incontra il ritrovo-bar-trattoria Tre Cunei, nella frazione omonima, che deve il bizzarro nome al fatto che si trova al punto di giunzione di tre triangoli appartenenti ai comuni di Albaretto Torre, Arguello e Lequio.

A Benevello invece, sulla strada, si affaccia il Ristorante Campoleone Spaghettoteca. Brividi! Subito dopo Benevello il panorama (dal punto di vista morfologico), si addolcisce, le colline, dopo grandi noccioleti dove gazze e cornacchie banchettano, sono striate di vigne di moscati e nebbioli, e compaiono i cartelli per Neive, Niella, Barbaresco, Treiso, che è il possibile capolinea di questo viaggio. La strada è in cresta e se si ha la fortuna di imbattersi in un temporale, è come navigare in un mare in tempesta. Infine si approda all'Osteria dell'Unione a Treiso, piccolo comune a pochi chilometri da Alba. Solo una decina di anni fa il locale era un'osteria per davvero. Poi a causa del talento gastronomico della Pina Bongiovanni, e la complicità di Carlo Petrini di Bra (che qui ha inventato l'Arcigola e lo slowfood), è diventato un obiettivo per golosi, segnalato da ogni sorta di guide, e se non prenoti per tempo non c'è verso di mangiare. Uguale fama si è conquistato il ristorante Tornavento, sulla piazza dietro la chiesa, condotto da Lella Gobino a Marco Serra, che sposano con grandi risultati piatti tradizionali con la <nouvelle cuisine>. E dopocena - tornando a casa - c'è solo da sperare di non dove soffiare nel palloncini della Polizia Stradale.

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CAPITOLO XI

Maggio-ciondolo bello e velenoso


Alberi isolati o in filari in pianura, in forma di bosco e piccole foreste in montagna e collina, individui giganti, sopravvissuti a incendi, mobilieri, carbonai e boscaioli, essenze rare o popolazioni plebee e rustiche. Un mondo di tronchi, rami, fogliami, radici, chiaroscuri, odori. E contorno di muschi, funghi, scoiattoli, uccelli, formiche. Il Piemonte ha perso per sempre le sue grandi foreste, ma qualcosa c'è ancora. E comunque l'universo arboreo è pieno di bellezze e poesie da scoprire, rispettare, capire. Ogni stagione ha le sue meraviglie: le architetture nude dei rami d'inverno, le fioriture primaverili, l'opulenza estiva, la tranquilla moria di foglie d'autunno. E ogni stagione con un suo buon odore. Il fascino della vegetazione è grande, perchè rappresenta la parentela più evidente con la natura, le sue linfe, i suoi ritmi costanti, i suoi complicati meccanismi biologici. Un uomo ha sempre da imparare guardando, annusando un albero, per quel legame stretto che lega la vita animale a quella vegetale, legame che per troppi è ormai allentato, quando non dimenticato. C'è anche un feeling sensuale, terragno, con il legno, sia quello da bruciare che quello usato dal falegname. Preparare la legna per l'inverno, vuol dire segare tronchi e rami, infarinarsi con la segatura, usare l'ascia per spaccare i ceppi, lottare con i nodi e le venature, far schizzare in aria schegge, maneggiare pezzi di legno ancora odorosi di resine, muschi e funghi, toccare la corteccia, sentire il profumo acuto dell'albero, insomma avere un rapporto concreto e amoroso con ciò che è molto più che

un combustibile. Gli stessi sentimenti che suscita un bel mobile, una casa fatta di tronchi, un locale foderato di tavole di pino. Per non parlare del fuoco della stufa o del camino: la fiamma libera del focolare è più che una fonte di calore. E' fortemente ancestrale e rassicurante da sempre. Si può stare a lungo a contemplare le fiamme, la ridda delle scintille che si avventurano nel nero della cappa, ascoltando il crepitio, studiando il formarsi delle braci, la loro metamorfosi, annusando il buon odore che si sprigiona dai ceppi, e quello antico della fuliggine e della cenere. Ogni varietà legnosa ha le sue caratteristiche, brucia in modo diverso, con fiamme chiare, scure, violacee. La pianura è popolata dalle piantagioni ordinate di pioppi, una piantaccia senza pedigree che cresce in fretta, viene abbattuta dopo quindici, vent'anni e venduta a pezzi alle cartiere. Allevamento intensivo, come i polli in batteria, che tuttavia produce singolari prospettive geometriche di tronchi allineati. Boschi artificiali, che vanno e vengono. L'abbattimento è un lavoro che si fa d'inverno. Squadre di boscaioli arrivano con motoseghe e trattori da 150 cavalli, quattro ruote motrici, con benne che caricano sul rimorchio del trattore i tronchi segati in pezzi regolari. In quattro e quattr'otto fanno piazza pulita. Poi si estirpano le ceppaie con una trivella, si ara e si fresa il terreno e si ricomincia. D'inverno spiccano, soprattutto lungo i fossi, i rami rossicci dei salici. Una volta erano indispensabili per i piccoli lavori in campagna. Potati tutti gli anni alla sommità del tronco, buttano ogni primavera i 77


rami nuovi che vengono regolarmente tagliati e usati nella vigna, per legare le fascine, fare canestri. Anche i gelsi sono un residuo della passata civiltà contadina. Ce ne sono ancora tanti, in tutta la pianura padana, perchè fino agli anni trenta le foglie erano il foraggio indispensabile per i bachi da seta (bigat, in piemontese). Il gelso (morè, in piemontese), da vecchio raggrinzisce, si torce, viene scavato dal fulmine e dal gelo, roso dai parassiti. Oggi non serve più a nessuno; i ragazzi non sanno nemmeno più che le more (bianche o nere) sono dolci e commestibili. La specie più rude è quella delle acacie, o gaggie, o robinie, (nel mondo ne esistono centinaia di specie, che si adattano anche a steppe e savane africane), una pianta randagia, (attecchisce dovunque su ogni terreno, non patisce niente), che compone fitte boscaglie piene di spine. Il legno ha un bel colore giallo con un'anima marrone; da sempre si usa nella stufa e nel camino. Costa poco, ricresce in fretta. Un tempo era comune per i contadini avere un <riva da bosch>, cioè un pezzo di terra, una ripa scoscesa, inadatta a qualsiasi coltura, che veniva usata solo per far legna. Le piante più mortificate sono quelle da frutta. Nel cuneese ci sono centinaia di ettari potati a spalliera per comodità di raccolta (pere, mele, pesche). L'albero fin da giovane viene su come vuole il padrone, con rami disposti ad angoli retti, senza ramaglie sghimbesce e polloni inutili, <costruito> secondo precisi studi e calcoli per un maggior rendimento. La potatura delle piante è un argomento che fa parecchio discutere negli ultimi anni. Specialmente in città, Verdi, pensionati, bambini, s'impressionano e protestano per le traumatiche tronca-

ture dei giardinieri, che spesso riducono a fine inverno, gli alberi a enormi attacapanni. Ma evidentemente le difficili condizioni ambientali, che costringono gli alberi a sopravvivere tra fumi e pestilenze, obbligano a cure radicali, come quando si rapano i bambini, per guarirli dai pidocchi. Un' altra forma di potatura, non terapeutica ma estetica, è quella a candelabro. In numerosi viali di Torre Pellice, (ma anche a Torino sul Lungo Po, sopra i Murazzi), per esempio, ci sono magnifici esemplari di platani <a candelabro>, che innalzano regolari impalcature verso il cielo. Il platano lasciato crescere normalmente, è uno degli alberi più monarchici e napoleonici, poichè da un paio di secoli almeno, è stato usato, (in Francia e in Italia), per ornare parchi reali, residenze aristocratiche, tenute, viali. Si dice che fosse lo stesso Napoleone a far piantare migliaia di platani lungo le strade d'Europa, per dare ombra ai suoi soldati in trasferta. A Torino gli esemplari più grandi sono forse quelli di lungo Po, (corso Casale a partire dalla Madonna del Pilone).Il faggio è uno degli alberi più belli e monumentali. Ce ne sono domestici e selvatici. In alcuni parchi o giardini privati si possono vedere esemplari secolari alti venti, trenta metri. Le foglie lucide, la chioma tondeggiante, regolare, l'intrico dei rami apparentemente disordinato, ma che miracolosamente, alla fine, compone una figura generale armoniosa e ben disegnata. Nella varietà pendula i rami s'incurvano fino a terra, formano un riparo, una specie di capanna. I boschi di faggi in montagna possono essere inquietanti. 78


I tronchi sono pali contorti e lisci color della ghisa, il sottobosco è libero da cespugli, chè l'ombra impedisce l'allignare di altri ospiti. D'inverno il terreno è ordinatamente coperto da un tappeto di foglie secche che crocchiano sotto i passi. L'ambiente è rigorosamente bicolore: il bruno delle foglie, il grigio delle cortecce. Le betulle stanno bene in montagna, ma anche in pianura. E' un albero bello e delicato, femmineo da giovane, con la corteccia bianca che si squama in sottili pellicole, liscia al tatto. Crescono a mazzi certe volte. D'autunno può capitare di vedere steli candidi, in mezzo al verde e al ramato scuro delle felci. Un giardino perfetto, di forme e colori, naturale, venuto su per conto suo. A volerlo ricostruire artificialmente si spenderebbe un capitale, ci vorrebbero architetti specializzati, botanici, giardinieri, e il risultato non potrebbe essere lo stesso. Il maggiociondolo (laburnum anagyroides), è una sorpresa, in genere, per chi non ha un minimo di confidenza con le popolazioni arboree spontanee. E' un alberello non più alto di quattro, cinque metri, che a maggio, giugno, (in montagna a seconda della quota), produce bellissimi grappoli di fiori gialli. Una vampata di colore nella macchia del verde. Il legno è duro e pesante, elastico. Si può lucidare molto bene, tanto da essere chiamato <falso ebano>. Foglie e fiori sono però velenosi. L'ippocastano (aesculus hyppocastanum) è imponente e decorativo, con fiori bianchi o (più raramente) rossi. Non esiste praticamente allo stato brado, ma solo nei viali e nei giardini. Produce le famose <castagne d'In-

dia>, (qualcuno le tiene in tasca contro il raffreddore), perfettamente inutili, come frutto, quanto perfette. Belle lucide, turgide. E' strano, ma non se ne trova mai una camolata, secca o mezza marcia come le castagne commestibili. Pioppo cipressino (populus italica). E' maestoso, con la chioma allungata, slanciata, a forma di cipresso appunto, presente in coreografici viali specialmente in campagna. Quando diventa vecchio gli viene una corteccia rugosa, ma la sua figura non si guasta, prende l'aspetto di un patriarca. Guarda la sua campagna, osserva i cambiamenti, sopporta il traffico se le sue radici sono vicine disgraziatamente a qualche strada asfaltata, punta la sua cuspide verso le nuvole, medita in silenzio. Larice (larix decidua). E' l'unica conifera che perde gli aghi d'inverno. In autunno colora i lariceti di un rosso arancio irresistibile. Se è mischiato ad altre specie sempreverdi, (per esempio abeti o pini neri), forma chiazze a due colori di insuperabile bellezza. Luogo esemplare per godere questo rigoglio cromatico autunnale, è il valllone di Vallanta, che sale da Casteldelfino in valle Varaita, e s'insinua alle falde della parte ovest del Monviso. La foresta colorata è interrotta da radure e pascoli, dirada man mano che cresce la quota, s'incendia e s'arrossa all'alba e al tramonto. Tiglio. Specie odiata dagli automobilisti che, sbandando su strade ombreggiate da filari di tigli, si fracassano contro gli stessi. La colpa è quindi dell'albero, non degli autisti deficienti. Il tiglio, quan79


do fiorisce a maggio, produce profumi soavi, sommamente apprezzati dai poeti in ogni tempo. Con i fiori si fanno tisane, e adesso anche shampoo per capelli. Bagolaro (Celtis Australis). Magnifici filari (piantati subito dopo la guerra), in corso Peschiera a Torino, per esempio. Uno scultoreo esemplare orna il piccolo cortile della trattoria <'L Combal>, poco prima di Rubiana. In piemontese il bagolaro si chiama <tenes-cia>, ha un portamento regolare, tronco grigio e liscio. Produce frutti neri, minuscoli, come pallini da caccia, dolciastri. Una volta il suo legno, molto elastico, era usato soprattutto per fare i manici delle fruste. Famosi erano i <fuet> (la frusta in piemontese), di Nole Canavese, dove l'albero era oggetto di coltivazioni e cure. Ordinare in cataste la legna per l'inverno, è un'arte raffinata, compito quasi esclusivo degli anziani. Nessun giovane ha abbastanza pazienza e puntiglio per fare un lavoro del genere. Bisogna provare per rendesi conto delle difficoltà. Ci sono cataste che sono capolavori di precisione e bellezza. Ma bisogna avere davanti il tempo del pensionato, forse, che pensa ai tempi andati, mettendo bene uno sull'altro ceppi e tronchetti, e alla fine è soddisfatto del buon lavoro, e di avere una scorta e risorse per il futuro.

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CAPITOLO XII

Narbona o degli abbandoni


Narbona a 1500 metri d'altezza, è un'antica frazione del comune di Castelmagno in val Grana, completamente disabitata dagli anni sessanta. Si arriva solo a piedi in un'ora e mezza circa. Si possono fare due sentieri, uno che parte dalla frazione Colletto - alta sopra il capoluogo Campomolino - che passa a mezza costa lungo il fianco del vallone, comodo, panoramico, l'altro che serpeggia invece in basso lungo il torrente che ha un letto di pozze e cascatelle scavate in rocce calcaree. Un letto ondulato e armonioso di vasche e scivoli, rotondità e pietre lisce che verrebbe voglia di starci a bagno non fosse che l'acqua ti gela le chiappe dopo due minuti. Il sentiero è poco battuto e si può usare solo fino alla fine di maggio; dopo si perde tra rovi, lamponaie, macchie immense di ortiche. Il villaggio, perchè si tratta di un vero e proprio agglomerato urbano autosufficiente - perfetto esempio di magnifica architettura senza architetti - è costruito sul fianco ripido del vallone, con scale interne alle case, passaggi coperti, che permettevano di andare avanti e indietro anche con il cattivo tempo. Ci sono stalle ampie, molto più grandi di quelle solite, case incastrate sapientemente una nell'altra (e una sopra l'altra), cucine con grande camino, piccole stanze da letto, minuscoli porticati con ancora appesi basti da mulo, vecchie corde, falci e zappe arrugginite, e poi ripostigli, pollai, una chiesina, il forno comune per il pane con ancora le pale di legno per infornare le pagnotte. Tanti edifici sono ormai crollati e le pietre hanno invaso i viottoli, a loro volta pieni di ortiche.

Quasi tutte le case hanno ancora i mobili, grandi letti di ferro o di legno - portati fin lassù a dorso di mulo - suppellettili, pajasse, trapunte camolate; dalle pareti e dai soffitti di legno pendono brandelli di carta colorata, economiche e casalinghe tappezzerie, ma gli ambienti sono completamente sottosopra, ad opera di chissà quale squadra di barbari. Sembra che il paese sia stato abbandonato in massa nello stesso momento, come per una pestilenza, e abbia poi dovuto subire la vergogna e la violenza di una scorreria di saraceni. Non si capisce il motivo di tanta furia demolitrice, visto che era improbabile che i disperati ultimi abitanti siano scesi a valle lasciando tesori nascosti sotto i letti o nelle credenze. Eppure chi ha sistematicamente violato le case, ha rovesciato mobili, buttato all'aria cassetti con dentro poveri stracci, frugato in ogni angolo voltando e rivoltando ogni cosa, lo ha fatto con lo stile selvaggio e predatorio dei ladri d'appartamento. Ma nelle case di Narbona non sono rimasti di prezioso che i ricordi di secoli di vita dura, eppure perfettamente organizzata in una comunità vitale e solidale. Sarebbe bello pensare a un modo per evitare la perdita definitiva di tanta memoria e genialità costruttiva, realizzata unicamenente con materiali del posto, immaginando un recupero in chissà che modo. Ma è assolutamente impossibile. E poi, ammesso il miracolo, cosa si potrebbe fare? Un villaggio del Mediterranèe? Monolocali da affittare d'estate? Un centro culturale, di meditazione? Un museo? Per giunta il concetto di restauro è un affare pieno di spine, pericoloso, anche se fatto con amore e buo83


ne intenzioni. La cosa restaurata, salvata,rifatta, lucidata, diventa un'altra, irrimediabilmente, la stalla un soggiorno, il fienile salotto, la madia un mobile bar, il basto del mulo un soprammobile. Il criterio si applica anche ai monumenti, castelli, chiese, palazzi medioevali. Non c'è rifacimento filologico che restituisca la memoria del passato, anzi, la cancella, la sterilizza, la fa diventare di plastica. Un palazzo barocco, mettiamo, rimesso a nuovo dai serramenti alle grondaie, con in più impianto elettrico e di riscaldamento, senza una ragnatela, un'inferriata arrugginita, un intonaco scrostato, è certamente una cosa bella, ma tutta diversa da quella che era. Il seicento è bello e dimenticato. Diventa una cosa senza echi, come un condominio qualunque. La meraviglia di Narbona è questo suo essere sospesa nel passato, con tutti i segni e gli oggetti della vita quotidiana, fatti a mano, e il genius loci che continua a stare in un angolo a custodire il ricordo della gente che non c'è più. Tutto sommato forse è meglio che tutto resti così com'è, e che piano piano il villaggio si riduca ad un rudere abbracciato da rovi, muschi e ortiche, scomparendo lentamente sotto le fronde dei frassini che già quasi coprono il sentiero.

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CAPITOLO XIII

Magari compri un coltellino o una mela


A Vigone il mercato è ogni giovedì. I banchi si snodano in centro, sotto i portici e fin davanti al sagrato della monumentale parrocchia di Santa Maria del Borgo. Non è un gran mercato, ma è simpatico, contadino e casalingo. La Trattoria dell'Orso in via Boetto, dietro la chiesa, vicino alla piazza dove ci sono i trattori, i rappresentanti di mangimi e le macchine agricole, la mattina è sempre piena di gente che contratta, mangia e beve. Fuori, anche d'inverno ci sono crocchi di uomini fino oltre mezzogiorno, che parlano degli affari del paese e della campagna, delle direttive della Cee che nessuno capisce, visto che una volta ti danno il premio per il vitello e un'altra ti pagano se ammazzi la vacca, ti danno la multa se produci troppo latte e intanto i magazzini comunitari sono pieni carne, burro e formaggio e i russi e gli africani non hanno da mangiare, dicono male dei politici che non hanno mai visto un trattore e magari pensano che la verdura cresce direttamente sotto i banchi dei supermarket bella e impacchettata nella plastica. Il mercato grosso di Saluzzo è il sabato. (Quello del mercoledì è più ridotto). Imponente, ricco, immenso, in piazza Cavour, in piazza Garibaldi con le vecchie tettoie in ferro, davanti al Duomo, e praticamente in tutte le vie vicine. Scendono a far la spesa dalla val Varaita, dalla valle Po, da Pagno nella valle Bronda. Qualcuno va poi a mangiare alla trattoria <Due Cavalli> di via Savigliano, o al vecchio <Parpojn> (oggi rimesso a nuovo), in piazza Risorgimento, che si chiama così perchè un tempo davanti c'era il

mercato dei polli e i clienti sovente portavano nel locale i pidocchi delle galline. C'era anche il Leon d'Oro in piazza Garibaldi, ma è diventato una pizzeria e amen. Il bestiame, i mangimi, trattori, paglia e fieno, si trattano in piazza d'Armi, dove c'è il nuovo Foro Boario che era prima nella piazza dietro il nuovo tribunale, detta <Piassa dij crin> perchè si vendevano soprattutto maiali. I vecchi raccontano che ai tempi del duce ci furono polemiche perchè Mussolini, nel suo giro per la Provincia Granda, si fermò anche a Saluzzo e parlò proprio nella <piassa dij crin>, con grande soddisfazione degli antifascisti locali per lo sberleffo. Oggi, anche se il mercato si è spostato, commercianti e mediatori hanno conservato l'abitudine di incontrarsi dietro il tribunale. Andare per fiere e mercati è un modo di conoscere, fare viaggi. Significa anche evitare la trappola dei supermercati e tornare all'antico rapporto a tu per tu cliente-venditore. Si parla, si contratta, si prende aria. Gli ambulanti poi sono in genere gente socievole, che ne ha sempre una da raccontare, liberi per scelta, anche se si alzano all'alba tutti i giorni, montano e smontano la bottega e prendono tutto il freddo e il caldo che c'è. In provincia si possono comprare oggetti introvabili a Torino: un bel rastrello di legno, una falce per il prato, una scopa di ramaglie, un paio di zoccoli. Magari uno non ha bisogno di niente, e si compra solo un temperino o una mela, ma girare tra i banchi può essere attività tranquillante, perchè non c'è nulla di più pacifico e rassicurante delle attività minute quotidiane, tradizionalissime, ugua87


li negli anni, nei decenni. A parte i cambiamenti merceologici, (si trovano prodotti asiatici ormai da Ceresole Reale all'alessandrino), i ritmi del mercato, i suoi contorni sono rimasti gli stessi da sempre. L'osteria (diventata bar), il bateur – figura in via d’estinzione - che propone affari improbabili, l'arrotino con il suo trabiccolo da museo, (altra rarità), le madame che si fermano a chiacchierare con la borsa appesa al braccio o frugano nel banchi degli scampoli, gli ambulanti che d'inverno bruciano cassette della frutta per scaldarsi dentro stufette di fortuna e dicono battendo i piedi per terra, <Forza che sono gli ultimi e poi andiamo tutti a casa che fa freddo>. Oggi si sono aggiunti i neri con i loro banchetti di minutaglie, grandi maestri del mercato, che in Africa è uno dei momenti più importanti della vita sociale ed economica. Nel Continente Nero, dove l'economia è all'osso, ci sono donne che stanno tutto il giorno accoccolate a terra, con davanti sei o sette arance, un mucchietto di banane, un pugno di peperoncini rossi.

tour tra la verdura e i casalinghi, i banchi frigo semoventi dei formaggi e dei salumi, si può ancora fare due passi sotto i portici di via Giolitti o sotto quelli più angusti e vecchiotti intorno al Duomo. Al venerdì si può andare a Torre Pellice, e osservare una ordinata folla di montanari, professionisti, artigiani, valdesi delle montagne e del fondovalle, forestieri ospiti. Curiosità storiche: fino agli anni settanta c'era mercato, sempre al venerdì, anche a Luserna Alta, sotto la secolare <Ala>, massiccia tettoia coperta di lose, sotto cui si commerciava già nel '600, (il mercato era così importante che venivano compratori anche dalla Francia), e dove avvenivano anche vivaci dispute religiose. Fu proprio in un giorno di mercato invece, che il 27 febbraio del 1848 a Torre Pellice, uno studente, poi passato alla storia, Jean Jacques Parander, diede al popolo la notizia che Carlo Alberto, dieci giorni prima, aveva dato le Regie Patenti ai valdesi, cioè la libertà di culto dopo secoli di persecuzioni.

I giovani africani hanno trapiantato in Europa la stessa tecnica paziente e silenziosa. E si sono intrufolati dappertutto, entrando piano piano nel mondo degli ambulanti.Il piacere supremo di andare per mercati è comunque in provincia, quasi niente nei mercati rionali urbani, salva la baraonda monumentale di Porta Palazzo che rientra però in un altro contesto. La provincia è ancora un luogo di possibile salvezza, e non solo per i mercati. Ma bisogna allontanarsi da Torino. Già Pinerolo va bene. Al sabato la piazza Vittorio Veneto è completamente ingombra di banchi e finito il

Di venerdì c'è anche mercato a Nizza Monferrato. E per qualche anno ancora, se Dio lo conserva in salute, ci sarà Virginio Canti, che vende indumenti usati e militari; Canta, di Costigliole d'Asti, gira i mercati da una vita, ha più di ottant'anni, e nessuna voglia di stare a casa. Su un trespolo c'è la ‘cassa’ dove tiene i soldi, una cassetta di legno centenaria che doveva essere già camolata ai tempi del re. Nascosto il registratore a batterie per gli scontrini. Si vede che lo tiene perchè lo dice la legge, ma lo odia. Grida: "Che prendano, che prendano", ai clienti. Poi contratta testardo, ciabat88


tando nelle sue pantofole piene di buchi, in testa un cappelluccio a cencio. La mercanzia è sciorinata a terra in grandi teli grigioverde che diventano rapidi fagotti quando è mezzogiorno e tocca caricare tutto sul furgone, guidato da un ragazzone che presenta come suo nipote e invece è un vicino di casa..

muso inscurito, con occhiaie nere, la gobba di grasso sulle spalle, fasci di muscoli tesi sotto la pelle, l'anello al naso e l'aria feroce.

Il martedì potrebbe toccare a Cavour, paese lindo e quieto, con una magnifica tettoia, porticati, chiese; il mercoledì a Carmagnola tra i banchi della bella via Valobra, nella scenografica piazza sant'Agostino, e dove c'è anche un famoso e sempre affollato mercato del bestiame. Da qualche anno funziona il nuovo Foro Boario, con grandi spazi anche per i camion carichi di paglia e fieno, provenienti dalla Francia. Fino a vent'anni fa era tutto concentrato sotto il vecchio porticato di piazza Martiri e si poteva mangiare panini con acciughe al verde e cotechino caldo in un'osteria vicina oggi diventata un bar, e c'erano ancora tanti campagnini col mantello nero e la bici. Il curioso di bestiame può girare tutto il Piemonte per farsi un'idea del mondo degli allevatori. Oltre Carmagnola, c'è Chivasso, Cuneo, Savigliano, Fossano, Ivrea. Ci sono vacche, tori, vitelli, cavalli, maiali, galline, pecore e capre, oche, pulcini, conigli. Curioso assistere alle fiere delle vacche Frisone da latte per esempio. Ci sono allevatori fierissimi delle loro bestie che strigliano, spazzolano, infiocchettano prima di mostrarle alla giuria. Le Frisone, grandi lattifere, assumono portamenti da parata, la testa alta, la schiena dritta, sembra provino a gusto a mostrarsi. Spettacolosi i tori di razza piemontese, che hanno il 89


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CAPITOLO XIV

Monviso


Varrebbe la pena partire dagli antipodi per vedere il Monviso anche da lontano, quando spunta tra la nebbia della pianura con la sua cuspide inconfondibile. O riflesso nelle acque del Po a Casalgrasso in una mattina limpida d'inverno, tutto bianco e rosa per i primi raggi del sole. O blu al tramonto, con le sagome irte delle Alpi Cozie che sembrano ritagliate nel cartone. La piramide sta a guardia del Piemonte col bello e il cattivo tempo, e non stupisce la voglia di salirlo che prese i primissimi alpinisti e che proprio sulla sua vetta Quintino Sella si sia fatto venire in mente di fondare il Cai. Il Viso non è il Cervino, epico e sportivo, nè ha la fama di altre montagne celebri, anche se ogni anno fa qualche vittima che però rientra nei grandi numeri delle vicende umane. E'a disposizione di tutti dato che si può vedere da qualunque punto della pianura, al contrario del Cervino che si rivela solo quando ci sei quasi sotto. Si vede benissimo da Torino, dal Monferrato, dalle Langhe. Nelle giornate terse i buoni fotografi lo schiacciano contro le colline col teleobiettivo e vengono fuori magnifiche immagini dove la figura principale è una cascina, l'abbazia di Staffarda, la collina di Saluzzo, l'abitato di Paesana. E dietro questo fantasma a punta, il gigante buono, il papà delle pianure. Un gran colpo d'occhio sul gruppo - perchè insieme alla cima principale ci sono tante vette secondarie, torrioni, colli d'alta quota, e ripide terre rocciose senza nome - si può avere dai 2500 metri del colle della Gianna, dopo aver percorso il selvaggio sentiero, che arriva dal rifugio Barbara alla testata del vallone dei Carbonie-

ri in val Pellice. L'ambiente è grandioso, deserto sempre, senza alberi, solo pascoli di erba corta, pietraie e vento. Volano piccoli stormi di gracchi corallini e può anche capitare di stanare senza volerlo una coppia di pernici acquattate sotto una roccia e che scappano quasi da sotto gli scarponi in volo rapido, facendo brutti versi. Il Pian del Re col vecchio rifugio e la strada che sale da Crissolo non si vedono. Non si vede il parcheggio dei gitanti, gli stessi che mangiano e prendono il sole, quelli che giocano al pallone, sport malefico soprattutto alle alte quote. C'è solo l'intera catena con la punta principale, il torrione di Saint Robert, il Viso Mozzo, il Visolotto, le cosiddette Due Dita, la Punta Gastaldi, la Punta Roma, la punta Udine che sovrastano l'invisibile rifugio Giacoletti - in mezzo alla neve anche a luglio - costruito su un colletto proprio sotto il Couloir del Porco. E s'indovina appena, se uno sa dov'è la depressione invisibile del Passo del Colonnello. Se la giornata è serena si osservano i canalini, le creste, i gendarmi di serpentino, le conoidi di detriti sotto le pareti, le diverse vie di salita dei rocciatori, diedri, strapiombi, piccoli nevai pensili, il vertiginoso canalone Coolidge, gelato anche ad agosto, chiuso dal passaggio chiave chiamato della <corda molla>, il ghiacciaio della gelida parete nord dimezzato da un ciclopico crollo anni fa che ha anche riempito con materiale franoso, con un boato da terremoto una parte del Lago Chiaretto. Un mondo intatto e primitivo, senza un segno umano. Che d'altra parte non c'è proprio, se non impercettibile e visibile solo da vici92


no. La via normale per salire al Monviso o meglio per <andare a Viso> come dicono i cuneesi, è un sentiero ben segnato, con tratti di arrampicata elementare: un itinerario affascinante e faticoso, mai banale, come sempre quando in montagna si superano i 2500 metri. Non stiamo parlando di grande alpinismo, ma di un'attività media, che si svolge però su un nobile acrocoro affondato, radicato, nelle storie secolari piemontesi. Muoversi sulle sue scogliere e pietraie, vuol dire calpestare le stesse pietre dei padri, dei nonni, dei trisavoli, montanari duri e poveri, piccoli contrabbandieri, emigranti disperati, pastori, cacciatori non per passione ma per necessità. Prima della salita però bisogna arrivare al Quintino Sella, il rifugio più famoso del Piemonte, gestito da anni da Hervè Tranchero, guida alpina che d'inverno abita in una bella casa di pietra a Paesana, e che è salito qualcosa come 250 volte sulla sua montagna. Hervè è uno strano nome che viene dalla Bretagna, poichè il padre Antonio, classe 1904, contadino di Piasco, se n'andò emigrante in Francia prima della guerra e volle ricordare nel figlio la giovinezza oltralpe. Fu a Parigi e a Grenoble dove sposò una francese, e negli anni trenta riuscì a realizzare un sogno, comprando due camion, un Berliet e un Unic. Andava a prendere frutta e verdura a Marsiglia e la portava ai mercati di Grenoble: non dormiva mai, dice Hervè. Poi venne la disgraziata guerra del '40 e i francesi gli requisirono i camion. Lo fecero lavorare un po' per il governo, poi con l'occupazione tedesca della Francia le cose si complica-

rono. Come italiano mezzo francese non sapeva più dove stare. Finchè scappò nella sua valle portandosi dietro i figli. La moglie lo seguì poco dopo attraversando il colle dell'Agnello accompagnata da un contrabbandiere di sale. Il vecchio Antonio era un grande inventore, con dozzine di brevetti internazionali. Suoi sono i sistemi di sollevamento a leve e parallelogrammi, usati ancora oggi per sollevare gabbie, pesi (officine Pagliero), <Viveva solo per quello - dice Harvè - se aveva una questione da risolvere stava giorno e notte a studiare e disegnare finchè non trovava la soluzione. Al Beaubourg di Parigi c'è un suo sistema di sollevamento che funziona ancora. Avevano un problema complicato e lui gliel'ha risolto bagnando il naso a americani e giapponesi con una spesa dieci volte inferiore. Ecco aveva il difetto che non aveva nessun senso degli affari e del commercio>. Tranchero figlio, nato a Grenoble nel 1941, è uno da conoscere. Archetipo di se stesso, coriaceo, tuttofare, instancabile, abile a fare tutti i mestieri perchè al rifugio non puoi aspettare l'elettricista, l'idraulico e il muratore. Può servire in tavola, aggiustare l'impianto elettrogeno, e un minuto dopo partire per un'emergenza con l'elicottero del Soccorso Alpino o a piedi se è brutto tempo. Parla adagio, in un bel piemontese (più esattamente cuneese), arcaico e colorito con una forte erre arrotata, si liscia appena la barba rossa e prima di rispondere guarda lontano a lungo. Spesso d'estate alpinisti ed escursionisti che si preparano alla partenza per obiettivi diversi, - si fa su lo zaino, si riempiono le borracce di 93


tè, ci si spalma il naso di crema - hanno di fronte il classico mare di nuvole che nasconde la pianura. Il sole sfolgora brillante in un bel cielo mentre sotto, la coltre è impenetrabile. Può essere invece, anche ad agosto di andare a dormire con una stellata brillante, calma di vento, e svegliarsi con dieci centimetri di neve. Allora il panorama diventa antartico, alaskano, la discesa va fatta con più attenzione. Ma a meno di bufere, l'emozione è grande, sinfonica, le nuvole basse, il bianco inaspettato, il silenzio totale, di quelli che fanno fischiare le orecchie. Conoscere la strada è un piacere in più: indovinare dove gira il sentiero, scoprire l'ometto che conferma la direzione, la torbiera conosciuta, il masso dalla forma stramba. Le cime intorno al Viso - a partire dal colle delle Traversette e fino al passo di San Chiaffredo - hanno nomi come Punta Udine, Punta Venezia, Caprera, Trento, Dante, Malta. La stessa vetta ha due cuspidi distinte che si chiamano Nizza e Trieste. Questo perchè ai primi del '900 Ubaldo Valbusa, alpinista e professore di scienze naturali al Regio Liceo Scientifico di Torino, <italiano ardente> rilevò la zona e diede nomi patriottici ai siti che ne erano privi,<per far assurgere il Monviso a sacrario d'italianità, a panteon del nostro alpinismo>. Tranchero dice che sarebbe interessante fare ricerche per individuare le antiche denominazioni, se c'erano, e magari ribattezzare con i nomi originari vette e colletti, passi, morene e gendarmi. Chissà. Ci sono tanti itinerari di avvicinamento al Viso. Il più noto, oggi, è quello che parte dal Pian del

Re, sopra Crissolo e arriva al rifugio Quintino Sella. Si passa il lago Fiorenza dove andavano in barca alla fine dell'800 e dove si fermano tanti gitanti dal fiato corto. Quando il tempo è umido, o nebbioso, al crepuscolo bisogna stare attenti a non pestare le salamandre nere (Salamandra di Lanzay, specie endemica delle valli Po e Pellice), che escono a passeggio sul sentiero. Sono anfibi timidi e lenti sul terreno, lunghi una quindicina di centimetri, di un nero brillante. Meno battute le rotte che salgono da Oncino e che furono a lungo la strada usata dai primi alpinisti. Si passa per la Croce Bulè, ricordo di un eccidio nazifascista, e si arriva, scavalcata una scogliera ripida e imponente che sbarra la valle, e passato un breve pianoro, al vetusto rifugio dell'Alpetto, piccolo e solitario in riva a un lago. Di quì pestando pietraie e morene si sale al Quintino Sella. Bello anche il tragitto che parte dall'alpe Tivoli e segue il fondo del vallone che si ferma in alto, bloccato dalla formidabile bastionata delle Balze di Cesare: d'estate con mandrie al pascolo ci sono mosche, tafani, sciami noiosi e aggressivi di ditteri di ogni specie che inseguono il viandante fino oltre i duemila metri. Poi col fresco della quota si stancano e spariscono. Il Viso che appare e scompare tra le nuvole, tra filacci di nebbie in veloce movimento è una presenza totemica, un ciclope benefico. E' un piacere religioso anche per atei, laici, agnostici, muoversi in 94


silenzio intorno alle sue falde, arrampicarsi faticosamente sulle sue membra rocciose, per conoscere la sua orografia, i suoi caratteri presunti. Quì non si parla più di alpinismo, escursionismo, trekking; è qualcosa di più, un viaggio metafisico dentro atavismi oscuri ed emozionanti, tocchi le pietre, i fiori, la terra, bevi acque gelide, ti trovi ad avere addosso, mischiato al sudore che è un segno di vitalità concreta, gli stessi odori del prato sui cui sei seduto, il sentore dei muschi e della torbiera; e perfino le merde secche delle vacche diventano una parte armonica dell'insieme. Diventi prato e gneiss, un lichene rosso, la radice di un rododendro, terra bagnata, nuvole. Il vallone di Vallanta parte dalla frazione Castello di Casteldelfino in riva al gran lago artificiale, in val Varaita, e prosegue dritto verso nord fino al passo omonimo. Un'ora prima del valico s'incontra il nuovo rifugio Vallanta, che ha sostituito il vecchio rifugio Gagliardone lontano un chilometro circa. Il rifugio nuovo è moderno, pieno di comodità, ci sono perfino le docce con l'acqua calda, e l'elettricità è fornita da una centralina idroelettrica. Ma il vecchio Gagliardone era meglio, c’erano memorie. Siamo dietro il Viso, in faccia all'imponente parete ovest che culmina con un bitorzolone quadrato che si chiama il Dado di Vallanta. Da questo versante salgono solo alpinisti. In autunno il percorso del vallone è tutto arancione per via dei boschi di larici che ingialliscono. Un'altra via affascinante di avvicinamento alla montagna parte dai primi tornanti della strada che sempre dalla valle Varaita, por-

ta al colle dell'Agnello. Si prende il sentiero che segna il vallone di Soustra e ci s'inoltra in direzione nord est in un ambiente ampio, sereno. Si arriva con una lunga e tranquilla camminata al passo della Losetta a 2872 metri e il Viso quasi ti cade addosso. Ma l'emozione più forte viene scoprendo la montagna dal colle della Gianna, valico che unisce la val Pellice con l'alta valle Po.Si parte dal rifugio Barbara alle Grange del Pis, ricovero costruito negli anni trenta e rimasto tale e quale, come atmosfera, anche se oggi ha la luce, il telefono, le docce. Il sentiero per il colle parte dal fondo del breve pianoro e sale in mezzo a un rado lariceto; scavalca il colle della Proussera e serpeggia a mezza costa in una vasta e calma conca di pascoli e sfasciumi. Il luogo è arido, ma c'è il miracolo di una fresca sorgente, la Fonte Mait di Viso, così segnata sulle mappe. Appena sopra, a poco più di 2.500 metri, il colle della Gianna. Il Viso non si vede se non arrivati al colmo della sella. Ed è un colpo di teatro, sempre, anche per chi conosce lo spettacolo. Chi poi lo vede per la prima volta rimane a bocca aperta e poi dice Cristo Santo: la montagna emerge letteralmente di colpo, colossale, magnifica ad un paio di chilometri in linea d'aria. Prima c'era solo il cielo. Fatti quattro passi in più si materializza tra le nuvole un poderoso sortilegio rugoso di serpentini e macchie di neve.

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CAPITOLO XV

"Caro Ecelenza e Nobile che stai nelle pianure..."


Batista, seduto vicino al potagè, su una sedia con ormai poca paglia, in una giornata di nebbia, si era verso i Santi, rideva da solo sotto i baffi leggendo una delle ultime lettere di suo padre. Lettere che il vecchio Tistin scriveva e non spediva mai perchè non trovava il tempo di andare alla posta e poi magari si dimenticava. Il vecchio ce l'aveva a morte con i gitanti della domemica e avrebbe chiamato volentieri la Guardia Regia (ai suoi tempi) o i carabinieri, gli alpini, insomma qualcuno in divisa dotato di autorità che mettesse in riga ladri di castagne e razziatori; invece scrisse con il suo piemontese italianizzato e non successe niente.

a spacare le castagne con le marende, che a sua casa stava nel lucido, e nel prato della comba fa invece luridezze del maiale. Io ha ricordanze che scoltava l'usel con le sue musiche, e nel mentre guernava le bestie alla pastura, stava con la bergera a nufiare i bei fior, e alla luna era la festa col pintone, e si faceva i salti de la curenta e poi ci tirava a tutti i fioi, e si stermava nel dietro dei sambuchi a randa del trabial del Minot e ciau Nineta.

<Quando il vecchio Tistin era piccolo e masnà e non ero con le vene vorticose e i molari che fanno i movimenti, e non come ura che di stranom mi dicono liamera e con l'odore della crava, mia mare aveva ben contenta del fiol grande e sclinto che sapeva come una bela biova del forno. Ma io scrivo questa mia per farvi sapere che ho tutto sbrundellato e coi liquami nella camera, per via dell'inclinamento dell'equologia, che ho uno spavento di terrore a che apro le porte della cucina e schiaccio il piede nella busa, e il casamento sta nelle puzze marse, che una volta era tutto un odorino delle erbe e si stava in contentezza anche che era nella miseria, non come oggi che c'è il frigu e la macchina per la frittata.

Ma caro ecelenza e nobile che stai nelle pianure che c'è mai una salita e fino la luce quando è scuro, e mangia tutti commestibili nella carta e nella lamiera, io ho stufo di vedere le masche quando è il uichend che ariva i barbarici con la sua famiglia che mangia e mangia e poi fa i rumori col didietro, e c'è i strillamenti delle donne grasse che stanno in cumbines che è un schifo coi sudori e i gorba che cola il naso e grida mama mama guarda la mucca. Ma se il vecchio Tistin viene una volta a tua casa e tiro giù le braie nella scala e ti fa una berla sulle pianelle? E se meno giù il mulo che ti smangia i gerani e zoccola nel tinello e tira un peto dentro l'amuar e poi ti lascio una ramina con la minestra vecchia nel buffet e una pelle del conillio nel canaèŠ? Eh, merlo, com’è, magari ti girano i collioni, e gridi di canaglia questo è mio e te villano vai fuori nei tuoi campagne stralunate che questa non è una stalla.

Quand che si stava nelle miande con la vaca giaja e tutto lo sgallinamento e la bestia cane e il barba della grande guerra e le tome nella tomaia, stava come i padreterni coi sabot e le paglie nei piedi, e i tacconi nel culo e il gilè frusto e mai era sbaruà dal forestiero che veniva

Poi io crede che se uno è invasore e rompitore di gente, è come un barbarossa e un satana, che se mi grata le bergne ne l'orto ha poi subito anche capace delle guerre, chè gli piace le sofferenze e i sanguinamenti dei cristiani e anche dei musulmani, e non ha un rispetto dei po98


vromini, e già una volta ho corso via dalla meisun, e mollato la pitansa che mi han detto va afare la bataglia che c'è i nemici; che i nemici mai li vedeva prima e era spaventati e paesani come me e io non voleva metterle la baionetta nei sbudella, e farlo stramazzare morto che se si trovava all'ostu si poteva bere un bicchiere insieme ala santè e magari gli piaceva i peperoni conforme a me, e invece il capitani diceva avanti savoia, e savoia le bale, e va sulla beata quei sacramenti che io momenti lassava le piume e ciau Tistin. E alora dico che è giusto che te balordo vuoi stare nel fresco delle boscaglie, e sbranare le sautise e la graticola a la duminica, ma metti la creansa e le sanità e non spatarare le porcherie nel dintorno che mi rovina la drugia che è buona merda sana e mi serve per le patate, e no far rumori da paura a le galine che poi non fa più un uovo e viene palide e smorte. Te stai da bravomo e godi le arie delle valli che io dico gnente, chesenò mi monta la flina, e alargo il cane e prendo la forca e ti buco il didietro, e ti fa correre che poi ti spendola la lenga e stremolano le gambe e ha mai preso uno spavento come quello lì.

Vostro infezionatissimo Tistin

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CAPITOLO XVI

Mulattiere e sentieri


Sentieri in montagna. Qualche volta solo una vecchia traccia appena visibile, mangiata dalle erbe, che si perde a tradimento in una pietraia, nel bosco in mezzo ai mirtilli; o una mulattiera, magari ben lastricata, profondamente incisa nel fianco di una bastionata o che corre tranquillamente in un bosco di larici, con le pietre lucidate da migliaia di scarponate. O ancora rigorosi tracciati costruiti dai genieri alpini a scopi bellici, zig-zag regolari, con muretti di sostegno, canali di scolo delle acque. Un tempo, quando i monti erano più fittamente abitati di oggi, i sentieri erano battuti quotidianamente e costituivano un intricato universo viario pedonale, segnato unicamente da solitarie cappellette e piloni votivi. Oggi molti tracciati sono spariti, altri sono usati così poco da venir sepolti dagli ontani nani, da macchie tenaci di rododendri e rose canine, dal sottobosco. Fino a prima della guerra pochissimi escursionisti usavano cartine topografiche; c'erano solo quelle militari al 25 mila, ma ampi tratti delle Alpi erano off limits (a causa delle imponenti installazioni militari, fortezze, bunker, caserme, depositi) e le carte relative non erano in vendita. Quindi andare in montagna voleva dire chiedere indicazioni a montanari e pastori, o accompagnarsi a qualcuno che conoscesse la strada. Oggi invece gran parte dei tanti sentieri rimasti sono <segnati>. Vuol dire che ogni itinerario ha un suo segnavia che si ripete dall'inizio alla fine del tragitto. Un semplice segno rosso di vernice, diventato negli ultimi tempi più elaborato. Bianco e rosso con la sigla <Gta> (Grande Traversata

Alpina), punti gialli circondati da un filo nero col numero dell'itinerario in valle d'Aosta, e poi segni blu, gialli. Insomma quasi una segnaletica automobilistica come in pianura. Ai tempi di Quintino Sella i segni erano solo costituiti da ometti di pietra, cioè piccoli (o grandi) mucchi di pietre più o meno regolari, visibili anche da lontano, e utili quando la neve copre e livella il terreno. Oggi la frequentazione dei wilderness di casa ha portato un aggiornamento non sempre giustificato. La questione, marginale ma non insignificante, è già al centro di polemiche. Sotto accusa in particolare, gli organizzatori di gare e marce alpine che sovente segnano il percorso con esagerate pennellate di vernici indelebili, confondendo non solo le idee agli escursionisti futuri, ma imbrattando senza rimedio rocce e alberi. Anche i cartelli con l'indicazione di un colle, un rifugio, una vetta, si stanno moltiplicando. La Valle d'Aosta in questo senso è molto attiva e precisa. Forse fin troppo. I segnavia valdostani (perfetti), sono infatti composti da paline in ferro con cartelli in lamiera verniciata, con indicazioni chiare: quota, nomi, tempi di marcia. Ma il nitore degli oggetti qualche volta stona con l'ambiente e sarebbero preferibili i cartelli in legno, in uso nei parchi (Orsiera, Gran Paradiso, Argentera, Valle Pesio, per dirne solo alcuni). Paradossalmente sono meglio i vecchi cartelli (sempre di lamiera) del Cai, ormai mezzi rosi dalla ruggine, qualche volta poco leggibili, è vero, ma appunto per questo integrati con il bosco, il macereto, i pascoli. Hanno preso tanta acqua, sole e neve, che si sono guadagnati il diritto di cittadi102


nanza ad honorem. Andare in montagna è attività anche poetica, se vogliamo, quindi ci si conceda la preferenza. Ma c'è anche altro da leggere andando per sentieri. In vicinanza delle vette, ci sono le lapidi dei caduti. Di pietra, di marmo, qualche volta di bronzo, spesso con la foto dell'alpinista <morto sulle montagne che tanto amava>. O Crocette di ferro arrugginite. Messe da amici, dai parenti, con frasi inneggianti. Oleografie che fanno parte integrante - volenti o nolenti - della cultura legata alla montagna. Poi ci sono i vecchi cartelli metallici della Pro Natura che invitano a rispettare l'ambiente. Anche questi sono patetici, pieni di anni e ammaccature e si stanno trasformando a loro volta in reperti da tutelare. Sono invece spesso bucati da pallottole di diverso calibro gli avvisi <Divieto di caccia>, inchiodati sugli alberi. Non sono brutti invece i quadretti verdi che segnalano i parchi naturali piemontesi. Ogni tanto li vedi anche lontani dal sentiero, appiccicati ad un masso, piantati in cima ad un paletto di legno.

sbiadita pennellata di minio che significa che si è sulla strada giusta. E si è riconoscenti a quegli sconosciuti volontari, che per anni hanno battuto (e battono) le montagne con vernice e pennello, dormendo spesso dove capita, camminando dall'alba al tramonto, segnando per la comodità altrui chilometri di antiche tracce.

Ma per tornare ai segnavia c'è ancora da aggiungere qualcosa. E cioè il piacere di andare a caccia del sentiero giusto quando si procede su terreni fuori mano. Con la nebbia o nuvole basse diventa un affare serio, se il percorso è sconosciuto e l'ambiente ostico. Ma in condizioni normali è un piacevole esercizio di osservazione, scrutare l'andamento del terreno, indovinare impercettibili tracce, scoprire in lontananza, (finalmente), un ometto, o una 103


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CAPITOLO XVII

Acque ferme


Il bello dei laghi piemontesi non è facile da consumare, richiede

applicazione, intelligenza e la capacità di capire attraverso le budella sommerse delle acque apparentemente ferme, l'impalpabile rapporto tra la terra, l'acqua, la storia, la gente, la cultura. Di festa, d'estate al lago d'Avigliana ci sono barchette a vela, bagnanti, sciatori d'acqua e a riva reggimenti di crapuloni a intasare ristoranti e bar, prati e spiaggette, mentre le auto ostruiscono con dighe e barricate strade, cancelli, sentieri. Ma basta passare in settimana per cambiare secolo. In alto la Sacra di San Michele riprende i suoi connotati di millenaristica fortezza monastero e guarda in giù, arcigna e sospettosa come fossero ancora i tempi dei saraceni e dell'eresia catara. Mentre intorno il silenzio feriale e i boschi di castagno, strapazzati il giorno prima dai cercatori di funghi, sono un irresistibile invito a camminare a piedi. I due laghi che si chiamano, per la precisione, Lago Grande e Lago Piccolo, riprendono il loro aspetto di passato remoto, aiutati nella metamorfosi dalla campagna che resiste impavida e coltivata, e dalla palude dei Mareschi, oasi naturale di canne, alghe, libellule e zanzare, nitticore e gallinelle d'acqua. Tutte le stagioni sono buone per andare in Canavese a bagnarsi il becco nelle acque dolci dei laghi di Candia, Viverone, Sirio. Lo specchio di Candia è il più grande, salvato dalla peste dei motoscafi, pieno ancora di lucci, tinche, carpe e qualche persico. Tra i canneti borbottano le rane, le piccole paludi a riva, animate da inintelligibili andirivieni selvatici, sono percorribili con barchet-

te a pertica, navigando lungo canali emissari che arrivano in lontane campagne. Cabotando la mattina presto d'estate, può capitare di spaventare qualche alzavola, o un germano reale, tagliando con la prua domestica un tappeto di erbe lacustri e si potrebbe essere benissimo in un anfratto del delta del Danubio, salvo che non ci sono storioni ad azzannare la chiglia della barca, nè pellicani in pastura sulle rive. Il barcaiolo non è rumeno, (per ora), ma l'incanto naturale dell'ambiente è molto simile. In più sbarcati e messe le gambe in spalla, c'è tutto il micro continente canavesano da esplorare. La pure modesta superficie del lago, 170 ettari, è sufficiente a rendere diverso il clima dei dintorni, permettendo il rigoglio di oleandri e palme in qualche giardino fuori mano. Questa parte del Canavese richiederebbe camminate calme, col naso in aria, curiosando tra le cancellate di ville liberty e ottocento, dove d'inverno resistono le macchie verdi dei bambù, i cespugli maculati dell'aucuba, e d'estate, all'ombra, gonfiano le ortensie in siepi floride e rotonde, si sdilinquiscono iris bianchi e viola. E si viaggia tra castelli e grandi cascine, paesi porticati, torri e campanili, vigne, frutteti, trattorie e locande dove raramente si mangia male. Il lago di Viverone è già più sportivo. A luglio e agosto è sconsigliato agli anacoreti. Si radunano moltitudini di bagnanti, gitanti, natanti. Tanti. Ci sono alberghi e campeggi per qualche migliaio di posti letto e un passo di clienti internazionali che sostano una notte o due nella migrazione verso sud. Anche in questo caso il feeling segreto dell'acqua e della terra, bisogna andare a 106


cercarselo piano piano tra le basse colline, la palude, le case che erano già vecchie ai tempi di Gozzano, camminando nella calura, nelle ore tra mezzogiorno e le due, quando il lago è esausto e fermo fin nelle sue più piccole onde, e le cicale si fregano le zampe, con quel rumore che ricorda infanzie campagnole.

parte bassa tra le prime conifere, gli ultimi castagni, faggi, e betulle, ha due laghetti da cartolina: Alice e Meugliano, in un ambiente di felci e torbiere di mezza montagna, con le prime case in pietra, la dolcezza dei pascoli, la gente che avendone viste di tutti i colori non ha più paura di niente, ed è gentile e socievole.

La zona è una frontiera, un crocicchio di colture e culture, cedendo gradatamente il mais e la vigna alle risaie che cominciano pochi chilometri a est. Le risaie non sono laghi, ma un'immensa distesa d'acqua, profonda pochi palmi, visibile solo a primavera. Ci sono tante strade che le attraversano, provinciali, comunali, poderali, che corrono sugli argini, sulle rive dei canali, in paesi che si chiamano Cavaglià, Saluggia, Carisio, fino a Santhià e oltre in direzione di Novara e Vercelli, provincie che sono ormai quasi Lombardia. Un mondo a parte con aironi e garzette bianche, cimiteri che spuntano dalle acque, filari di pioppi, risiere ottocentesche in parte abbandonate, rane e zanzare. Risotti come si deve si mangiano dappertutto, ma nessuno abbandoni la zona prima di aver mangiato la panissa, che è fatta semplicemente di riso, fagioli, sedano, cotto a lungo, meglio se al forno, benedetto dal cotechino o dalle cotiche di maiale. Non è roba da signorine, ma che Dio abbia in gloria quella brava donna che nel tempo dei tempi riunì la prima volta gli ingredienti nel tegame.

I laghi in montagna sono per forza di cose poco ampi, gli invasi maggiori sono artificiali, ma non per questo sono da evitare. Almeno due val la pena di citarli: quello del Moncenisio appena oltre la frontiera con la Francia, ma orograficamente entro il sistema alpino piemontese, è un colossale esempio di diga in terra battuta ad alta quota (circa duemila metri). L'opera, del dopoguerra, ha cambiato i connotati del vastissimo altipiano, sommergendo l'ospizio e alcune frazioni. La zona è un unico immenso pascolo che secondo la stagione prende colori diversi, e potrebbe essere il Belucistan, o una porzione di Bolivia con vacche pezzate rosse invece che lama o alpaca.

La Valchiusella è ancora compresa nei confini Canavesani, ed è la catarsi della pianura, del cibo, della palude, della barca a vela. Appena sopra Ivrea si arrampica verso il Gran Paradiso e nella sua

Diverso il sistema di bacini idroelettrici dell'alta valle dell'Orco. Il primo è a Ceresole Reale a quota 1600 metri, seguito dal Serrù a oltre duemila metri e dall'Agnel, catino di acqua gelida e chiara, costeggiato dalla strada che porta al colle del Nivolet, ormai entro i confini del parco del Gran Paradiso. Qui laghi e montagna sono tutt'uno, il paesaggio è ampio, maestoso, aspro. Al colle tira sempre un'aria gagliarda, e appena va giù il sole si gela anche a luglio. Gli altri laghetti nascosti nelle pieghe delle Alpi piemontesi sono unicamente a disposizione di chi ha ancora l'antiquata abitudine 107


di camminare. Ce n'è una quantità spropositata a quote variabili tra i due e i tremila metri, parecchi, asciutti un anno, ricompaiono l'anno dopo a seconda delle precipitazioni dell'annata Qualcuno è più famoso di altri, come i Tredici laghi sopra Prali in Val Germanasca, che sono di più ma per comodità e scaramanzia il nome è quello e stop. Cè il Lago Nero sopra Cesana, in mezzo ai larici, che è plumbeo solo quando riflette nubi temporalesche, e dove si dice che i nazisti in fuga avessero seppellito chissà quale tesoro. Anni fa sommozzatori fecero ricerche ma non trovarono niente. Oppure il lago Verde in valle Stretta, oltre Bardonecchia, che è verde davvero per via delle alghe.

davanti, libera, e la strada a sinistra, che basta la carta d'identità per arrivare fino in Svezia senza che nessuno ti dica beh, uno si sente tranquillo, assiso in mezzo al crocicchio delle genti, con la certezza di potere in qualunque momento prendere la giacca e via. Sarà anche questo fatto a favorire l'adulterio di lago, non solo per le nebbie autunnali e Fogazzaro e Byron, ma perchè l'illecito ha più gusto se consumato in territorio cosmopolita, e con spazi liberi a portata di mano.

Sul lago Maggiore sono cambiati i tempi del Piccolo Mondo Antico, aumentati i prezzi e la baraonda estiva, decaduti in parte i grand hotel, spuntati campeggi, discoteche e pizzerie. E' un lago che è una specie di mare ma più a portata di mano, con burrasche e naufragi, ma dove si può essere marinai al mattino, alpinisti al pomeriggio o viceversa, e alla sera viveurs; e andare perfino all'estero visto che la Svizzera è a due passi. La Svizzera è importante perchè portofranco come idea, e perchè un posto di vacanza è bene sia aperto a molte possibilità, ipotesi di fuga, digressioni, trasgressioni. Magari uno non si muove da Intra o Pallanza, passa il tempo in riva all'acqua a leggere il giornale, mangia un gelato nelle cremerie di Stresa, va a vedere il San Carlone - un santo così alto, tutto di bronzo e vuoto dentro che non si è mai visto - e di passare il confine non gli passa neanche per la testa. Ma tra l'acqua 108


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CAPITOLO XVIII

Batista marinaio


Batista era stato una volta al mare, al porto di Savona. L'unica cosa che conosceva di marino erano le acciughe sotto sale dentro le latte da cinque chili che si vendevano al mercato. Se ne comprava un etto o due al massimo e costavano poco. Le latte vuote servivano poi da vasi per i gerani e il rosmarino, allineate in cortile o sul balcone, così artisticamente decorate con le figure dei pesci e le scritte marinaresche dorate su fondo rosso scuro. E gli faceva strano che pesci di mare anche se conservati, fossero cibo così comune in Piemonte e soprattutto in montagna. Come anche il merluzzo, che una volta si teneva fuori dai negozi, a bagno in bacinelle di ferro smaltato – blu fuori, bianco dentro oppure lo stoccafisso secco, appeso a mazzi legati col cordino al soffitto, insieme a salami e prosciutti. Le acciughe - vendute sciolte dagli acciugai della val Maira, che vestiti di velluto e fustagno giravano tutto l'inverno col carretto per città e campagne - erano una merce quasi domestica, arrivando dalla Liguria (ma anche dalla Sicilia, dalla Spagna, dal Portogallo), mentre il merluzzo era esotico e nordico, più forestiero, anche se come pietanza era ormai casalinga, da mangiare soprattutto con la polenta, cucinato al verde, con prezzemolo, aglio o cipolla, un po' di conserva. A dir la verità c'era anche qualcos'altro di oceanico nella testa di Batista: le conchiglie fossili dell'astigiano. Le aveva scoperte quando andava e prendere le uve alla cascina Manina, in valle Cipollina, e al Bric delle Capre, in valle Andona, tra Villafranca e Montafia in provincia di Asti. I fianchi delle colline mostravano banchi

di argille chiare, sedimenti di ghiaie rossicce, sabbie giallastre e grige, in cui affioravano conchiglie di ogni qualità, anche grosse come una mano, vecchie di milioni di anni. Le valve si annidavano tra le radici delle robinie, dei ciliegi selvatici, delle farnie, e bastava grattare un po' la terra per tirarle fuori. In certi punti ce n'erano strati compatti e fitti, che dovevano anche comprendere coralli, scheletri di pesci, rimasugli di molluschi. Gli scienziati chiamavano la zona <bacino pliocenico astigiano>. I contadini quando aravano rivoltavano insieme alla terra frammenti vagamente madreperlacei, li trituravano con gli erpici e le frese, e i materiali fossili erano così tanti che i campi diventavano dei chiaroscuri, con solchi color marrone, sfumati in chiazze più chiare. Batista immaginava questo mare preistorico dove adesso c'è il Monferrato, con onde lunghe che arrivavano da Alessandria (ma Alessandria non c'era ancora), con balene e dugonghi negli abissi, oltre la barriera corallina che magari era dalle parti di Acqui, e lagune di acque calde e trasparenti, e sulle spiagge foreste tropicali. Arrivato alle banchine savonesi, Batista era rimasto incantato dall'odore forte del salso, dall'aria fresca che veniva dal largo, dalle barche colorate dei pescatori, dai bastimenti che, anche se fermi, esalavano vapori dal fumaiolo e buttavano getti d'acqua dalle fiancate, dai grandi rimorchiatori di aspetto fortissimo, che potevano andare in qualunque oceano anche tempestoso e non affondare mai. E considerava con ammirazione le rugose pilotine che con 111


gli anni di onde, sole e pioggia erano diventate come vecchie tartarughe, un blocco solo di fasciame, pece, bronzo e alluminio, la tuga striata di colori sbiaditi, un odore intenso di nafta e pesce, la ruota del timone consumata dalle manacce di almeno due generazioni di uomini di mare, che avevano quella bella cantilena ligure, e dicevano sempre belin e anche belan. Gli sembrava che se non fosse stato montanaro avrebbe potuto essere benissimo marinaio, con la voglia che aveva di andare sempre da un'altra parte a vedere cose sconosciute. Il porto è un posto magnifico per questo. Il mare ti permette di andare dappertutto anche agli antipodi, basta avere tempo. Non vedi nessun confine, come in montagna, il mondo sembra libero e disponibile, almeno finchè sei in acqua. Un pensiero che gli dava i brividi. Quel grande pensiero di libertà si scontrava però con le divise dei finanzieri che controllavano i carichi, la gente, i passeggeri. Sapeva che insieme alle merci autorizzate, legalizzate da plichi di carte piene di timbri e firme in tutte le lingue, ci sono immensi traffici clandestini, contrabbandi di ogni genere, e anche il mondo estraneo e lontano degli armatori, onesti e disonesti, le truffe alle assicurazioni, gli ordini via radio che dirottano un carico da un porto all'altro a seconda della convenienza del mercato al momento, per quella certa materia prima, petrolio, grano, fertilizzanti, caffè, banane. Batista sapeva queste cose, ma gli interessava di più l'idea del mare, il senso di grande nave che va lontano, l'astrazione del mestiere di marinaio o di ufficiale di macchina o di capitano. An-

che se questi erano specialisti e tecnici, mica poeti e vagabondi. Gli piacevano soprattutto i pescherecci e i piccoli mercantili quasi in disarmo, incrostati di molluschi e vecchie vernici, carrette con nome e bandiera cambiati chissà quante volte, dipinte e ridipinte alla meglio, gli ottoni ossidati, e negli angoli dei boccaporti e delle maniche a vento, ruggini invincibili. Ogni tanto si vedeva uno dell'equipaggio guardare a terra appoggiato alla murata. Batista non sapeva neanche immaginare di che nazionalità fosse, che pensieri aveva in testa. Era magari siciliano, greco, o albanese. C'erano anche facce asiatiche sui ponti, e va a sapere se erano cinesi, coreani, malesi. Gente mai vista dalle sue parti, anche se ogni tanto in valle cominciavano ad arrivare poveri venditori ambulanti, marocchini e neri del Ghana, della Nigeria, del Camerun, e d'inverno si scaldavano nei caffè di Revello o di Pradleves. E gli veniva in mente che anche i suoi vecchi erano andati a fare i venditori ambulanti fino al principio del secolo, e facevano le stesse vite di questi africani spaesati, pochi soldi, fastidio o un po' di commiserazione della gente, dormire dove capita, condannati a girare dal mattino alla sera col caldo e col freddo. Camminando sui moli Batista guardava da sotto in su piroscafi giganteschi all'ancora, tenuti fermi da gomene grosse come un braccio, con bandiere mai viste e nomi ostrogoti. Ognuno fatto in maniera diversa, secondo se era petroliera, o da carico, traghetto, o fatto per portare prodotti chimici. In quel caso la nave era un intrico di tubi e serbatoi anche in coperta, e il castello di pop112


pa alto come un palazzo, con la plancia e gli alloggi, guardava su una specie di raffineria complicata, un labirinto metallico misterioso color argento, con sigle ermetiche, scritte in inglese. Gli sembrava impossibile che bastimenti così grossi potessero ad un certo momento muoversi, lasciare il porto lentamente senza urtare nessun altro, o demolire una banchina, e mettersi in rotta con precisione verso chissà quale Africa o America, senza sbagliare, navigando anche di notte, con il timoniere assorto e solitario, a guardare ogni tanto la bussola, il buio infinito di fuori, e magari la prua spazzata dalle onde se il mare era grosso. Batista ricordava i racconti di suo nonno Tistin, che era andato in Brasile da giovane, col famoso passaporto rosso, quello degli emigranti, e aveva fatto un viaggio bestiale su un piroscafo, pigiato nella stiva tra centinaia di disperati, non solo italiani, ma anche arabi e turchi. <Trenta giorni di nave a vapore> diceva una canzone di quei tempi e anche <come le bestie abbiamo riposà>. Poi anche a terra non era andata tanto meglio. Sempre la stessa canzone diceva <Andremo coi carri dei zingari, andremo coi carri dei zingari, in America voglio andar>. C'era dunque del mare nella memoria collettiva dei montagnini, ma un mare il più delle volte ostile, anche doloroso, non epico, ma visto come ostacolo da superare, territorio di nessuno da attraversare in fretta, per ritrovare sotto i piedi la terra ferma e l'odore delle piante.

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CAPITOLO XIX

Castagna, Marsiglia e Menelik


Mandrie e pastori in Piemonte. In pianura d'inverno, in montagna d'estate. L'allevamento di bovini, caprini e ovini non un settore economicamente in buona salute, tuttavia sono ancora tanti i margari che passano i quattro mesi estivi negli alpeggi e il resto dell'anno nelle cascine al piano, cambiando sovente indirizzo a seconda dei prezzi del foraggio e dei contratti possibili con i <cassinè>. Qualcuno in pianura, d'inverno, porta ancora greggi di pecore di pascolo in pascolo, accampandosi con la tenda per la notte o bivaccando in cascine decrepite. Sono gli ultimissimi pastori nomadi dell'Europa. Un mestiere ancestrale, faticoso, scomodo. Eppure ce n'è ancora tanti che, legati alla tradizione, continuano l'attività dei padri e dei nonni, pur rendendosi conto di essere quasi dei sopravvissuti, e che, se alla fine dell'anno facessero il conto del lavoro fatto, ore spese e ricavi, il risultato sarebbe la negazione di qualsiasi teoria economica. Ma evidentemente ci sono in ballo altri fattori. Condurre una mandria ai pascoli estivi, accudirla dall'alba al tramonto, rimanere isolati per mesi, può non essere solo una condizione scomoda. Per qualcuno una scelta quasi obbligata, una continuazione per forza d'inerzia dell'impresa famigliare, un odio-amore, un feroce attaccamento alla propria storia. Per altri una situazione che non cambierebbe con nessun altra. Una vita in pace e silenzio, fatica sì, ma poche preoccupazioni salvo quelle quotidiane, con il conforto di gesti sempre uguali, e incombenze previste. La lontananza fisica dal mondo industriale favorisce questo estraniamento psicologico. E anche se d'estate non sono

inconsueti incontri con forestieri in vacanza, questi si risolvono in rapporti così superficiali che non intaccano la sostanziale estraneità delle due culture. Ancora oggi è tutt'altro che raro incontrare montanari che sono scesi dai bricchi solo una volta, per andare soldati, e non hanno mai più rimesso piede a Torino, o Cuneo. Senza andare tanto lontano in una frazione sopra Giaveno, in mezzo ai boschi, ma non isolatissima, abitano due anziani fratelli, che vanno una volta la settimana a fare la spesa al mercato e Giaveno, (di scendere a Torino non ne parla nemmeno <e poi per andare a fare cosa?>) e poi tornano di corsa a casa perchè <in città> (cioè Giaveno) c'è troppa confusione. Così un pastore con poche capre, incontrato nella bassa valle Po, vicino a San Front, in una frazione dalle parti della celebre Balma Boves, andò al distretto di Cuneo nel '42, fece il suo dovere di soldato, tornò a casa e non scese mai più dal suo <truc>. Questi personaggi, (comunque rari e in progressiva diminuzione), alcuni scapoli, un po' eremiti, forse diventati misantropi per forza, non rifiutano tanto il resto del mondo: semplicemente lo ignorano. Se ne infischiano di Canale 5, dei giornali, della crisi delle ideologie. Vivono con molta semplicità la loro condizione, non la teorizzano, ci stanno dentro senza tante filosofie. Hanno poche esigenze e poche spese. Seguono le stagioni, (come tutti i contadini per esempio non usano l'ora legale e vanno avanti col 116


sole, sempre), lavorano tutto il santo giorno anche da vecchi, fumano il toscano o torciano tabacco trinciato forte, seduti davanti alla porta di casa, la sera, salutano i viandanti se ci sono, non gli importa di non lasciare grandi segni del loro passaggio su questa terra, e sicuramente non si sono mai posti nemmeno il problema. La giornata tipo di un pastore (possiamo chiamarlo Batista), in alta montagna non prevede necessariamente la sveglia all'alba. Presto sì, intorno alle sei, perchè bisogna mungere, ma le bestie sono avviate al pascolo alle otto, le nove. A quell'ora, oltre i 1.500 metri d'altezza, fino ai duemila, fa ancora freddo. Le vacche, se in stalla, sono liberate dalle catene ed escono senza fretta. Se hanno dormito all'aperto, si apre il recinto e fuori. Le abitudini cambiano da un posto all'altro. Alcuni lasciano le mandrie custodite dai cani e stanno a casa a lavorare, altri rimangono sul posto tutto il giorno, appoggiati al bastone, la giacca in spalla. Molti hanno con sè la famiglia. Le donne non hanno solo l'incombenza del focolare, ma lavorano come gli uomini nella stalla e al pascolo. Così i ragazzi. Un tempo - tanti lo fanno ancora - per la stagione si portavano in montagna anche galline, oche, maiali, (da ingrassare con i resti della lavorazione del latte), il mulo. Oggi in molti alpeggi sono ricomparsi i cavalli da soma. Razze italiane, ma anche aveglinesi (biondi, originari del Trentino) e i neri Merens, rustica razza pirenaica, ambientatasi da un decennio in Val Varaita per iniziativa di un gruppo di giovani che fanno capo alla Cooperativa Lu Viol.

Una delle fatiche di Batista è andare a cercare gli animali che si perdono. Succede. Ogni tanto sparisce una manza, una pecora. Non ci sono ladri di bestiame in montagna, ma gli animali ogni tanto si allontanano e perdono la strada. Può anche capitare che cadano in qualche dirupo. Seccature in questo senso vengono anche dai cacciatori. I cani da caccia, tenuti per la maggior parte dell'anno in città o comunque in pianura, se capitano nelle vicinanze di una mandria possono anche perdere la cognizione e sbranare pecore ed agnelli. O dar loro la caccia finchè s'infilano in qualche brutta situazione. Peggio sono i cani inselvatichiti che ogni anno provocano cospicui danni. Bestie randagie e selvagge, difficili da avvistare e quasi imprendibili. Per non parlare dei cinghiali che quando arrivano in un posto di loro gradimento, erpicano letteralmente il terreno con le zanne scorticando il pascolo. Qualche margaro ha dovuto perfino installare il cannone a gas, un attrezzo che spara terribili colpi (a salve), ogni tanto di notte. Ma i cinghiali dopo i primi spaventi, continuano a grufolare. Nel tardo pomeriggio di questo nostro pastore tipo - dopo aver lavato la stalla con l'acqua corrente (un'operazione da fare tutti i giorni), deviando il canale scavato apposta nelle vicinanze - arriva il momento della mungitura. Le bestie tornano dopo aver ruminato tutto il pomeriggio, con le pance gonfie di erba. Il latte munto bisogna metterlo nei bidoni se si manda a valle, o lavorarlo subito nei grandi paioli di rame, facendo burro e tome. Alcuni grandi alpeggi, serviti dalla strada, lo mandano giù tutte le sere. Mungono 117


direttamente in recinti costruiti vicino alla strada e via. Il profitto degli allevatori sta tutto quindi nel latte e i suoi derivati. Qualcosa viene dalla vendita di vitelli, capretti, agnelli. E il tutto è legato all'andamento stagionale (pioggia o siccità, quindi buon pascolo o erbe secche), ai prezzi del fieno per l'inverno, alle malattie delle bestie. Dopo la mungitura il nostro Batista può cenare, far due parole con la famiglia, se c'è, e a letto. Nelle Alpi piemontesi sono ancora tanti gli alpeggi occupati, anche se molti altri sono in stato di abbandono e i prati non vedono la falce, una vacca o una capra da decenni. Ci sono posti, con le vecchie stalle dalle volte basse, ormai crollate o in procinto di abbattersi per naturale consunzione, dove - anche se non c'è più una bestia da anni - continua il rigoglio della vegetazione ammoniacale (specialmente ortiche e spinaci selvatici, i cosiddetti Bon Henry), cioè quelle erbe che vegetano di preferenza intorno ai letamai (l'orina animale contiene ammoniaca). La potenza di questo concime naturale è tale che perdura anche decenni dopo che la concimaia non esiste più. Quindi anche se gli edifici sono scomparsi è facile riconoscere un vecchio alpeggio, un giass, guardando le erbe. Tanti i toponimi ancora in uso per indicare l'alpeggio, diversi di valle in valle: alp o alpe, miande o muande, tetti, prato, prese, balma o anche barma, cialma, comba e combal, truc, serre, ruata. I nomi delle vacche si ripetono quasi identici, una generazione dopo l'altra, ripresi intatti dalla tradizione, in dialetto o in italiano. Ci sono allevatori che si vantano di non aver mai comprato una

bestia in pianura, (questioni di salute), e di avere solo bovini nati da vacche <della famiglia>. Anche per questo i nomi sono sempre quelli. Si rinnovano una figliata dopo l'altra. Si trovano confusi tutti insieme, definizioni naif, nomi semplici riferiti al colore del mantello, lontane reminiscenze storiche, di guerre ed emigrazione: Bionda, Mora o Moro, Rossa, Bianca, Bianchina e anche Biancone, Pastorina. Poi ci sono i nomi di frutti della terra, Nocciola, Castagna, Limone, Portigal. Nomi esotici: Frontiera, Tripoli, Adua, Marsiglia, Ginevra, Merica, Lione, Spagna, Fransa, Germania, Negus, Menelik, o di città una volta lontane come Genova. Vezzeggiativi come Carina, Bimba, Diletta, Birba, Stella, Margherita, Parpaion (farfalla in piemontese). Aggettivi regionali diventati nomi propri: Toscana, Lombarda, Romana. Poi varie come Savoia, Regina, Merlo, Alpina, Bandiera. Capre e pecore invece non vengono battezzate. Hanno meno personalità, valgono meno, forse. Sono più gregarie, appaiono più come gregge che come bestie singole. Al cittadino sempra impossibile, eppure ciascun pastore conosce una per una, per nome le sue bestie, fosse anche una mandria di cento capi, le riconosce da lontano, secondo il mantello, le corna, l'andatura, la statura. Ne conosce il carattere, i vizi. Le chiama, invia ordini con suoni e richiami sempre uguali, da secoli. Il marghè che chiama una bestia o grida al cane, sembra che sia sempre furibondo, invece usa semplicemente un <tono> necessario e indispensabile per farsi ubbidire. Perfino le bestemmie, che sono quel118


le classiche, <normali>, fanno parte evidentemente dei suoni usuali. Mancando, la litania dialettale ne uscirebbe monca, incomprensibile agli armenti che evidentemente hanno grande memoria storica. Tanto che tornando alla stalla la sera, si mettono ciascuno al suo posto, davanti alla greppia, senza far confusione, riconoscendolo da un anno all'altro. Discorso a parte i cani da pastore. Animali rustici per eccellenza, quasi sempre bastardissimi, scarmigliati, sempre con la lingua fuori per la corsa, con una capacità lavorativa incredibile e tanto intelligenti da valutare a naso il forestiero, distinguendo per istinto il furfante dall'escursionista di passaggio. Quando sono al pascolo stanno accucciati accanto al padrone osservando attentamente i movimenti dell'armento e con un orecchio teso agli eventuali ordini. Appena il marghè urla, scattano come frecce per raggiungere i garretti di una manza vagabonda, o una pecora indisciplinata che perde tempo a brucare lontano dal gregge che invece sta rientrando. Cani che si guadagnano onestamente la vita, e che non sanno nemmeno cosa il kitekat e altre robe in scatola, ma mangiano di tutto, quando c'è. Molti vivono a pane e latte e stop. Bestie che valgono un Perù, anche se un prezzo di mercato non esiste. Ma un marghè del Collombardo sopra Condove dice <Lo vede questo cane? Bene se mi desse due milioni non glielo do. Questo qua gli dici di andare a prendere le bestie lontano un chilometro,

va e le porta indietro da solo>. I cani da pastore sono tali di padre in figlio. I cuccioli vengono in genere regalati, i pastori non ne fanno commercio, li danno ai colleghi che ne hanno bisogno. I campanacci sono di due qualità quelli <di tutti i giorni>, senza ornamenti e con collari rustici, e <quelli della festa> che si usano per tornare a valle alla fine di settembre. Sono lucidi, magari cromati, di rame o bronzo, con grandi collari di cuoio istoriato. Alla fiera di San Chiaffredo a Crissolo, ad agosto in alta valle Po, ce n'è sempre una grande quantità, insieme agli attrezzi - falci, rastrelli, scuri, vanghe - e ai classici bastoni da pastore, aborriti da tutti gli animalisti. La maggior parte delle bergerie sono ancora collegate al fondo valle con sentieri e mulattiere, percorsi qualche volta da giovani pastori che hanno sostituito il mulo con la moto da trial, ma molte sono ormai servite da strade poderali, piste forestali interdette al traffico privato. Tante le grange con due, tre secoli di vita, lose e pietre a secco, pesanti porte di legno grezzo, finestrine con l'inferriata, il focolare in un angolo, le pareti della cucina incrostate di caligine, ma forse altrettante le nuove costruzioni, alcune perfino belle e dotate di elettricicità con piccole centraline idrauliche. E' anche abbastanza diffusa ormai, la radio, collegata col fondovalle, spesso messa a disposizione dalle Comunità Montane. La vita in questi casi è quasi normale, nel senso che c'è la luce elettrica, il frigorifero, la tv. Si può scendere a valle a fare la spesa con la mac119


china o con l'Ape, o portare il burro o i formaggi al grossista o al mercato, una volta la settimana. Chi non ha la fortuna di avere la strada, tira avanti come ai tempi di Noè, andando su e giù col mulo (ma ce n'è sempre meno) o con lo zaino. Molti non lavorano il latte perchè quello che c'è è usato solo per i vitelli e allora il lavoro è minore. Ma nel caso dei margari c'è da correre dalla mattina alla sera. E alla fine della giornata, nessuno ha problemi d'insonnia. Si piomba nel letto, con due coperte, mentre dalla stalla, o dal recinto, vengono leggeri scampanii notturni.

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CAPITOLO XX

Elogio del maltempo


Disgraziato chi ha solo e sempre bel tempo, come i tuareg, i mauri, i boscimani del Kalahari, i berberi sahariani, che fanno festa se piove due volte all'anno. E se capita di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato cioè in un oued, (il letto asciutto di un fiume) che si riempie all'improvviso, corrono anche il rischio di morire annegati da piene terribili e improvvise. Sembra ridicolo affogare nel deserto ma è successo. Fortunati gli irlandesi che hanno un tempo variabilissimo, sole e pioggia nel giro di mezz'ora. Dell'Irlanda si dice che in una giornata possono essere presenti tutte e quattro le stagioni. Ed è vero. La maggior parte della gente ha paura della pioggia. Anche delle acquette normali. Chi viene sorpreso da un acquazzone anche da poco, allo scoperto, si mette a correre in cerca di un riparo. Corre con la testa incassata tra le spalle, coprendosi con un giornale, con una ventiquattrore. Anche d'estate quando bagnarsi non è un dramma. C'è un rifiuto dei fenomeni naturali, motivato dalla scarsa dimestichezza, ormai, con lo stare all'aperto. Chi ha provato invece a camminare sotto la pioggia in montagna, in campagna, in un bosco, sa che l'acqua che viene dal cielo è sempre meno violenta di quanto non sembri osservandola al riparo. Il temporale è poi un'apoteosi, naturalmente quando non si rischia l'alluvione, la morte per folgorazione, o la frana sotto i piedi che trascina il viandante verso paludi e fangaie. Un temporale osservato da sotto il portico di una cascina, nel fienile di una grangia,comunque in un posto al riparo, ma lontano

da un centro abitato, è una manifestazione di forza e bellezza. La pioggia che batte sul tetto, il tamburellare sulle foglie degli alberi, il vento che precede e segue l'acquazzone, i tuoni che rimbombano tra le nuvole, e che possono essere delle cannonate o dei borborigmi lontani, lunghi, come una specie di eco, lo stesso cielo che si muove lentamente o in fretta, sotto forma di nuvolaglie sfilacciate o di forma compatta, arruffato, con tante tonalità di grigio, fino a diventare quasi blu scuro nel punto dove il fortunale è più intenso. I lampi che sono sempre motivo di meraviglia. Ma come nascono i fulmini? Quando il calore eccessivo del giorno fa aumentare l'umidità relativa dell'aria, e si produce una cospicua differenza di temperatura tra il suolo e le nuvole (sottili le stratiformi, quelle cumuliformi spesse anche un chilometro), con conseguente differenza di potenzialità elettrica), si formano i fulmini. I lampi sono invece tra nuvola e nuvola, solo questioni celesti, litigi stratosferici. Il voltaggio di un fulmine va da uno a due milioni di volt, amperaggio da 5000 a 100 mila amperes. Nelle prese di casa abbiamo 50 amperes, per dire. Il fulmine scocca in seguito ad un corto circuito tra terra e cielo, ad una velocità di propagazione di 150 mila chilometri al secondo, (va da terra ai cumuli nembi in un centesimo di secondo), da terra verso il cielo, preceduto da una <traccia> invisibile (dal cielo verso terra), che si muove a zig zag con scatti di 40/80 metri. E' questo il percorso violentemente illuminato che poi si vede durante i temporali. Per evitare i fulmini stando all'aperto, bisogna sta123


re lontano dai cosiddetti buoni conduttori. Non solo pali in ferro, tralicci, ma cose che producono una colonna d'aria calda. Anche mandrie di bovini e ovini (calore animale), e alberi. I più colpiti dal fulmine sono quercia, pioppo, conifere e in genere le piante che più riescono a mantenere asciutto il tronco. Pericoloso portare in spalla un piccone, una pala, una falce, la piccozza degli alpinisti. I fulmini invece sono benefici per la terra perchè le scariche producono reazioni chimiche come fossero poderose iniezioni di azotati (uno dei componenti dei concimi). In acqua - in mare, al lago, in un fiume - se scoppia un temporale bisogna scappare a gambe levate e uscire, poichè l'acqua è buon conduttore e si rischia una bollitura mortale. In montagna è giusto aver paura del temporale. Sei per esempio tra i 2.500 e i tremila metri zone dove sono spariti i boschi, il panorama è aperto e deserto, traversi magari una lunga pietraia o cammini su una cresta rocciosa: non è necessario essere nel difficile per aver paura. Arriva il vento, forte e rumoroso, poi i tuoni assordanti più che in pianura, i lampi vicini, le prime gocce. Non ci sono ripari. Il primo impulso irrazionale è scappare, cercare un ricovero. Ti senti perso, in pericolo di vita. Poi ragioni, ti calmi e alla fine te la godi anche, questa dimostrazione tellurica di forze naturali. Anche pensando che finire incenerito da una saetta forse non è nemmeno una cosa brutta. Ovvio che anche la neve benedetta: ma ha ragione chi non l'ama in città. Questa bella cosa bianca che viene dal cielo gratis, sull'asfalto non complica solo la

circolazione, ma diventa subito una merda nera, assorbe tutto il peggio che c'è per terra, ingloba rifiuti, e alla fine fa schifo. In un ambiente naturale invece è una magia. Se sei per caso in un bosco in quelle giornate di silenzio completo per le nuvole basse e stai fermo, immobile ad ascoltare, può capitare la fortuna di sentire i primi fiocchi gelati scendere sulle foglie secche. E' un crepitio leggerissimo, che quasi non lo senti, che aumenta piano piano, fino a che cominci a vedere le pietre, il sentiero, i rami spogli che s'imbiancano. E se continui a star fermo, si sentono ancora i fiocchi che si posano sui precedenti, con un suono impalpabile, dolce. E uno si sente come un aborigeno che scopre una cosa mai vista, fantastica, un segno delle potenze del cielo, invincibili; e s'incammina di malavoglia per andare a mettersi vicino ad un fuoco di legna secca, a una stufa, a guardare fuori in silenzio.

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CAPITOLO XXI

Chivasso - Asti in treno


In treno da Chivasso ad Asti, su littorine (che ormai non si chiamano più così), quasi sempre vuote. I convogli composti da due vetture, partono da Chivasso dove di bello e ferroviario è rimasto solo l'esterno del buffet della stazione, una casetta di legno liberty, con festoni di legno traforato sotto le gronde e un grande glicine che l'avvolge. Lasciata la città le rotaie passano il canale Cavour su un vecchio ponte di ferro, poi il Po sulle arcate di un imponente viadotto in pietra, e toccano stazioncine deserte, con minuscole sale d'aspetto, la stufa, arredamenti in legno, fuori aiuole con gerani e oleandri. Prima che rimodernassero la linea c'era il capostazione - molte erano donne, giovani - che si annoiava a morte a veder passare un treno ogni tanto.

in disuso, le pompe dell'acqua in ghisa che servivano a rifornire le caldaie delle vaporiere, gli arganelli per comandare i passaggi a livello nascosti lontano in mezzo ai campi.

I ferrovieri anche maschi, avevano il tempo di coltivare dalie, iris, crisantemi, piccoli orti, e guardare a destra e sinistra la fuga delle rotaie lucide e vuote, in attesa che suonasse il campanello che segnalava i convogli. Adesso le stazioni sono diventate <fermate>, non c'è più il capo col berretto rosso fischietto e paletta, i passaggi a livello sono automatici, la stufa in sala d'aspetto non l'accende più nessuno.

Le fermate sono, partendo da Chivasso: San Sebastiano Po, Lauriano, Monteu da Po, Brusasco, Cavagnolo, Brozolo, (dove inizia la provincia di Asti), Cocconato, Sant'Anna Robella, Montiglio, Murisengo, Cunico, Scandeluzza, Montechiaro, Chiusano, Cossombrato, Settime, Cinaglio, Mombarone, Serravalle d'Asti, Sessanti e infine Asti. Quasi una filastrocca. Ci dev'essere un destino nei nomi dei paesi o meglio, questi diventano portatori di atmosfere e meraviglie, o dispiaceri, il suono delle sillabe provoca associazioni immediate. Dopo San Sebastiano Po c'è una prima galleria lunga 500 metri, rimbombante e fresca d'estate, con l'odore di treno e di cantina. Passata la fermata di Lauriano, le colline si coprono di boschi cedui impenetrabili, tagliati da strade di campagna piene di buche e ruere profonde. I passaggi a livello in mezzo ai prati sono la disperazione dei contadini che qualche volta per andare a tagliare un po' d'erba medica, devono aspettare mezz'ora seduti sul trattore.

Il paesaggio d'inverno è fatto di prati secchi e brinati, con nebbiette fra le vigne, pioppi, boscaglie selvatiche. D'estate grilli e zanzare, uccelli, silenzio, caldo, galline, campi di zucche e trifoglio, vacche al pascolo con la vecchina che sferruzza, segherie, odore di campagna. Nei paesi toccati dalla ferrovia sono rimasti intatti tutti i fabbricati marcati FFSS: la stazione vera e propria, i magazzini

Si passa Cavagnolo, bivio che porta, a sinistra alle risaie vercellesi, Brozolo (fonte solforosa), Cocconato con grandi capannoni pieni di bottiglie e cisterne di barbere. Il paese è in alto sulla collina, uno dei più aerei della provincia di Asti, a quota 491 metri, per questo anche nelle calure estive la sera è fresco e ventilato. E' famoso per le robiole e il ristorante del Cannon d'Oro. Di notte gi127


rare per il borgo addormentato, è come andare a spasso in un paese delle meraviglie. I passi risuonano sulle pietre, dal sagrato a lato della parrocchia si vedono vicoli in discesa, non c’è anima viva. Sant'Anna Robella è una stazione piccola piccola, isolata in mezzo alla campagna. Quella di Montiglio-Murisengo sembra in confronto un nodo internazionale ed è leggermente spolverata di bianco per via della vicina fabbrica di calce. E' chiuso il vecchio ristorante anni trenta della stazione, con tavoli e staccionate di cemento. Il cimitero del paese visto dalla valle, sembra un posto di mare circondato da un campo arato che sembra sabbia. Un' oasi sospesa in cielo. Le stazioni hanno quasi tutte nomi cumulativi perchè servono comuni diversi a pochi chilometri dalla strada ferrata. Si passa Montechiaro, dove ci sono mulini e fornaci abbandonate con ciminiere pencolanti, spente da decenni, Chiusano-Cossombrato, (vicino c'è il delizioso paese di Colcavagno), poi Settime-Cinaglio-Mombarone. La valle della Versa è ormai una larga pianura ben coltivata, con declivi dolci, panorami agresti, ottocenteschi. Serravalle a Sessant sono gli ultimi comunelli prima della metropoli astigiana. Tutto il viaggio dura un'ora e un quarto.

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CAPITOLO XXII

Compratori clandestini di latte


Abitavano compratori clandestini di latte vicino alla cascina di Ruata Cavagna. La stalla aveva volte imbiancate a calce, finestrini con le inferriate, chiusi d'inverno da pezzi di sacchi di plastica di concimi chimici, nidi di rondine negli angoli, polli che becchettavano tra il letame, il gatto che dormiva in un angolo, il buco nel soffitto per il fieno da buttare giù direttamente dal fienile. Una volta c'erano porcellini d'India che correvano nella paglia e nelle mangiatoie. I contadini dicevano che mantenevano sana la stalla, perchè facevano scappare i topi. Alla catena solo vacche bianche di razza piemontese, non quelle bestione stolide delle Frisone senza corna e senza nome. Di sera, col buio, c'era un andirivieni circospetto di anziani e vecchiette con lo scialle stretto intorno alle spalle, un baracchino in mano, o una bottiglia nascosta in un giornale. Andavano a comprare il latte appena munto. Una cosa proibita, proibitissima, perchè antigienica, contraria alle direttive della Cee, vietata dall'Ufficio d'Igiene, dalla Finanza, dalla Costituzione, perseguita da tutti i corpi armati della Repubblica, insomma illegale anche perchè senza scontrino. Anche la Chiesa condannava la pratica, perchè pagana. Il latte appena munto era inviso ai massimi organi dello Stato, alle gerarchie del potere, perchè in grado di produrre falsi miti agresti e libertari, alimentare idee fuori moda come i cibi naturali in odio a surgelati e precotti, e comunque indurre a pensare in modo autonomo e difforme dalle leggi promulgate a suo tempo: una babelica biblioteca di

tomi con la copertina marmorizzata, pieni di ingiunzioni e minacce, che praticamente proibiva ogni attività se non sotto il completo controllo statale. Anche assistere alla mungitura non era permesso, specie ai minori. <Perchè le stalle non sono bordelli>, era scritto nei decreti, e non sta bene che un bambino veda un adulto, o peggio un vecchio, per non parlare delle donne, strizzare i capezzoloni di una vacca, magari giovane, che si gira pure a guardare con i suoi occhioni mansueti, palesando addirittura piacere. Erano anche arrivate felpate istruzioni alle parrocchie, dentro ricche buste vescovili, per orientare i giovani durante il catechismo. All'alba e al tramonto giravano per le campagne pattuglie di soldati col colpo in canna, collegati via radio con sentinelle piazzate su alte torri di avvistamento, dotate di potenti fari e mitraglie. Ogni tanto si sentiva una fucilata e un compratore clandestino, sorpreso con la bottiglia piena, finiva stecchito. Il latte di contrabbando si spargeva tra l'erba e venivano a leccarlo la volpe e i cani selvatici. Batista, il bergamino - che era da considerare una specie di delinquente - seduto sul suo sgabello con una gamba sola, mungeva nel secchio con movimenti ritmici, precisi; il latte schizzava dalle mammelle e faceva ziinnn, ziinn, schiumava, catturava qualche mosca che veniva poi eliminata al momento del travaso con il mestolino. Il latte - diceva la legge - bisogna comprarlo esclusivamente impacchetto o imbottigliato, bollito, sterilizzato, scremato, decatizzato, derattizzato, delattificato. Deve non sapere di niente, 131


essere asettico, senza grassi, senza mosche, senza latte. Solo pochi vecchi con la testa dura e la memoria lunga si ostinavano a volere il latte appena munto, che ai giovani faceva schifo, e anzi tanti non l'avevano mai nemmeno assaggiato, nè l'avrebbero mai bevuto in vita loro. Anzi, poco per volta, stavano perdendo la memoria della sua origine animale. Alcuni già pensavano che si producesse in grandi stabilimenti, con acqua e polverine, come, per dire, la Coca-Cola. Ma i vecchioni testardi e nostalgici, chiusi nelle loro paranoie anteguerra, aspettavano la notte, poi uscivano di casa, con le pantofole di panno chiuse dalla lampo, e raggiungevano, dopo lunghi giri, la stalla di Ruata Cavagna passando da dietro, costeggiando l'orto e il pollaio, facendo sssst ai conigli in gabbia sotto il portico e alle faraone che dormivano nella paglia. Portavano a casa mezzo litro, qualche volta un litro, nascosto sotto la giacca o il paltò. In cucina, dopo aver messo un bel pezzo di legno nella stufa, facevano la zuppa per cena, chiudendo gli scuri prima di riempire la scodella, e staccando il cane dalla catena in cortile, per evitare visite improvvise.

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CAPITOLO XXIII

Andare al Passo del Colonnello


Andare al Passo del Colonnello o al Colle Perduto? E' uguale, anche se i nomi importano, e suggeriscono ipotesi e retoriche diverse, muovono meccanismi psicologici differenti. Non spiegano la geografia, ma una storia minima, magari insignificante o banale, eredità di sconosciuti cartografi che hanno raccolto chiacchiere di paese; o raccontano, senza spiegazioni, fatti che più nessuno ricorda. I valichi in teoria sono passaggi verso altri posti, ma possono essere anche solo un punto d'arrivo, volendo lasciare le cose in sospeso. La salita faticosa di un canalone, con il sentiero, appena un traccia, che fa zig zag tra sassi e ghiaie instabili tra le pareti di roccia sgretolate dal caldo e dal freddo, il cielo in alto nell'intaglio del valico che man mano si abbassa. Magari pesti ancora una lingua di neve. Ti aspetti una liberazione, una sorpresa, la grande novità rimasta ignota e occultata per tanto tempo. Finalmente la salita si smorza, irrompe la corrente d'aria dell'altro versante e pensi, adesso vediamo cosa c'è. In qualche posto la salita è ertissima e appena al colmo ti affacci su un precipizio. A destra e sinistra roccioni e creste di sfasciumi, in basso, un dedalo di terrazzini e cenge, camini terrosi, ghiaioni e pietraie, macchie di ginepri, e vaghi segni che indicano la via di discesa.

tra due quote maggiori. Allora l'avvicinamento è meno drammatico, c'è tempo per immaginare il futuro, la prossima valle, un laghetto, un alpeggio abitato. Spesso da una parte splende il sole, e quando ti affacci verso il mondo nuovo c'è un mare di nebbia, o banchi di nuvole in veloce movimento verso l'alto, che salgono dai boschi per venire a strofinarsi sui pendii spogli, e non riescono a passare sull'altro versante, respinte dalle correnti d'aria contrarie. Allora il colle diventa una terra di nessuno, non solo meteorologicamente: un luogo aereo e metafisico. Il sudore gela addosso, la schiena si raffredda appena togli lo zaino, e ti accorgi tra l'altro che gli spallacci sono consumati, segno che il gesto è stato ripetuto tante volte, che è passato tanto tempo da quando sei in giro per le montagne in cerca delle cose che non ci sono o che sono sempre altrove. Il caldo della salita scompare, l'aria è fresca, puoi sederti e mangiare qualcosa, fumare dopo aver calmato i polmoni. Fare progetti irrealizzabili. E non importa se sei al Passo del Colonnello, o al Colle Perduto. E' importante essere ancora in giro a fiutare l'aria, inciampare nella tana di una marmotta, e mangiare lamponi, o mele selvatiche fresche e asprigne, al ritorno, se si è d'autunno.

Altrove il sentiero taglia a mezza costa pascoli infiniti, deserti, e si avvia in lenta ascesa verso il passo che è appena una depressione 135


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CAPITOLO XXIV

Batista una volta cantava


Batista come musica era quasi zero, cioè come teoria. Aveva im-

parato a fatica a solfeggiare da giovane, e aveva suonato un po' la fisarmonica. Poi aveva dimenticato le crome e le biscrome, le corone, la chiave di basso; quella matematica rigorosa che governa un fenomeno così inspiegabile e fantastico che è l'armonia, la melodia, gli accordi: un gruppo di note che chissà perchè, messe insieme formano un suono pieno e strabiliante, una cosa impalpabile che adesso c'è e tra un momento non c'è più, e avverti il dispiacere che finisca, e ti mette in movimento i sentimenti e l'intelletto, ti porta in posti mai visti, altrimenti inesistenti, belli, armoniosi, poetici; una specie di passaggio verso l'aldilà, un insieme fatto d'aria che diventa come una buona pietanza, un momento di felicità piena e compiuta. Che riesce qualche volta a scioglierti quei macigni interni, quei grumi interiori di pece e catrame, quei gomitoli di merda secca e filo spinato. Una cosa strana, come il tempo che passa, che può provocarti un tremore leggero e profondo, che scuote le fibre, le distacca, le divide in fasci sottili e sensibili, che si allungano verso un chissà dove, comunque un posto infinitamente più bello del solito, anche se sai che non esiste, accessibile con un senso che c'è solo ogni tanto, a sorpresa, e poi si spegne e ti rimette al buio. Batista aveva anche cantato nel coro dell'Ana di Acceglio, ex alpini, cioè no, alpini in congedo, chè gli alpini non sono mai ex, e guai a dirgli così. Comunque questi alpini in borghese sono strambi. Sempre pronti a fare delle cose per gli altri. Conservato-

ri, molti sempre in chiesa, <custodi delle tradizioni>, nel senso che conservano tutto il buono e il cattivo, non buttano via niente. Saranno altri a decidere quello che merita conservare e quello che si può tranquillamente eliminare. Pittoreschi fino alla oleografia: polenta e salsiccia, vino, acciughe al verde e gorgonzola, camicie a quadri, la piuma sul cappello, veci e bocia, sempre disposti a issare una madonna su una cima, una targa, una croce di ferro, ma anche disposti a farsi in quattro per aiutare qualcuno, a muoversi, organizzarsi per la società civile, la comunità. Le canzoni del repertorio erano sempre le stesse, quelle che cantavano già i vecchi della Grande Guerra, e che poi erano sovente canzoni che si cantavano anche prima con parole diverse. Solo che in quei momenti di disperazione per la trincea e gli Austriaci, e il freddo, la fame e i pidocchi, il pensiero della casa, con la moglie o la morosa da sole, e i fieni da fare, le patate e la segale da seminare, non si poteva anche fare la musica. Si prendevano le canzoni già fatte e si cambiavano le storie e si cantava tutti insieme e poi venivano i lucciconi, perchè una bella aria, specialmente se c'è la guerra e non sai se tra un momento sei morto, fa sempre commozione. A Batista piaceva cantare nel coro perchè aveva scoperto che un conto è cantare da solo, un altro è fare ognuno la sua parte e poi alla fine quando metti le quattro parti insieme viene fuori una cosa mai sentita, che fa venire i brividi, con delle musiche profonde e ariose, non perchè ci credi che sia vero quello che canti, ma per138


chè è un'idea finta ma grandiosa e poetica, e per questo ti prende dal di dentro, e ti piacerebbe crederci alla pastora e al suo bel caprin, alle tre colombe bianche sulla riva del mar, e alle belle rose du printemp.

può che finire lì dove senti che sta per salire o scendere irresistibilmente, allora ti si slargano i polmoni e il cuore, e i cantori erano come bambini innocenti e felici. Non più contadini, falegnami, fabbri, pastori, bottegai. Ma uomini buoni e in pace.

I cori che si facevano quando si provava nel salone della parrocchia non erano perfetti, si capisce, c'era sempre qualcuno che stonava. Allora il maestro che faceva anche il farmacista e scriveva poesie in provenzale, faceva fare le prove <a quartetto>, cioè quattro cantori da soli, ognuno con la sua parte: primi, secondi, baritoni e bassi; e lì si sentivano subito le magagne, e chi gli slittava l'ugola e faceva una nota storta.

Anche la banda era bella da sentire. Batista in qualche giorno d'inverno, stretto nella mantellina nera, masticando il sigaro, guardava e ascoltava. Anche quì i suonatori erano gente qualunque, del paese, ognuno col suo mestiere e le sue preoccupazioni. Ma la vera passione era la musica, letta con attenzione sugli spartiti pinzati sul trombone, a metà del clarino, sul dorso del flicorno. La banda aveva il suo bel gonfalone con le frange dorate, ma solo il berretto come divisa, perchè il vestito intero costava troppo; c'erano suonatori anche di settant'anni, che per tutta la vita avevano litigato con la moglie tutte le volte che partivano per un concerto da qualche parte. Eppure non avevano mai mancato una volta. Feste patronali, funerali, processioni. E senza guadagnare mai una lira.

Quando invece tutto era a posto e il coro sapeva bene le parti e le voci erano scaldate, nasceva un miracolo. Da una canzone che sembrava una robetta, che cantavano magari le nonne ai bambini per farli addormentare, veniva fuori una sinfonia come nelle opere, come nel Nabucco. E tutti cantavano come sonnambuli, sentendo insieme la propria voce, e il solenne insieme che saliva dal pavimento di legno del vecchio salone parrocchiale e usciva dalla finestra per spandersi intorno. Venivano fuori delle specie di architetture sonore in movimento, colorate, con vibrazioni di chiari o scuri secondo se preponderavano i bassi o i tenori primi. Certo era diverso cantare alle prove, o in piazza, o tra le navate di una chiesa quando il coro aveva un pubblico attento. Ma nel pieno di un accordo di maggiore, di minore, le difficili quarte, e settime, quando la melodia senti che sta per andare da un'altra parte e non

La banda aveva timbri diversi dal coro, per forza, ma nell'insieme era la stessa cosa. Una marcetta da niente, se i clarini e le cornette e quei benedetti sassofoni non stonavano, diventava una cosa allegra, irresistibile, con lo schiocco dei piatti, il frullare ritmico del rullante, il bordone del basso tuba. E anche le canzoni tradizionali, trascritte per banda, sentite e risentite mille volte, erano una cosa diversa, nobilitavano la vita quotidiana, lo stesso come i pittori che dipingono capolavori con due vacche al pascolo, una casa diroccata o un mazzo di cipolle. 139


Batista ci pensava, masticando una paglia, a questa storia della musica, buttando gli scarponi uno davanti all'altro meccanicamente, salendo al colle Sautron. Ci pensava tanto che sembrava di sentire delle arie strane. Come fosse una ghironda che suonava in qualche posto nascosto; poi sentì un coro quasi come quelli russi, pieno e terribile, con timbri scuri, che veniva da dietro una cresta. Sentì anche dei pifferi flebili e tamburi sordi, come avessero pelli consunte e allentate. E immaginò che fossero dei disertori di Napoleone rimasti intrappolati in una gola. Sapeva dalle storie che raccontavano i vecchi, che a loro volta le avevano sentite nelle stalle d'inverno da altri anziani, che con Napoleone c'era di tutto, italiani, polacchi, cechi, ungheresi, scozzesi. E ogni tanto scappavano perchè la guerra è sempre stata una cosa scomoda e bestiale. E poteva essere benissimo che un gruppo fosse rimasto isolato per due secoli senza sapere e vedere cos'era capitato nelle pianure nel frattempo. Aspettavano la pace cantando canzoni imparate nella Russia Bianca, o in Ucraina, suonando marce militari con pifferi ormai frusti e tamburi camolati, con una sentinella sempre all'erta in caso arrivassero nemici a tradimento. A sentire quelle melodie della steppa, veniva fuori un legame di sangue tra i montanari cuneesi, magari l'alpino del Battaglione Dronero, di Stroppo o del Preit, e il contadino di Arnautovo, di Valuiki, villaggi persi nelle pianure del Don, passati alla storia per la ritirata degli italiani nel '43. I canti russi avevano quella bellez-

za e tristezza infinite come le canzoni degli alpini, che, più poveri avevano i muli, mentre i cosacchi correvano a cavallo. Le storie delle canzoni erano le stesse di qui, con la terra, le patate, l'amore e la guerra, la miseria. In più c'erano solo i girasoli. Batista una volta aveva letto un libro russo, <Guerra e pace>, un librone che girava per casa da anni, e gli sembrava quasi di sentire storie di famiglia, anche gli odori. Batista tutte queste cose non le pensava chiare, gli rimuginavano nel cervello come una fumeria confusa. Sapeva solo il significato alla fine, ma avesse dovuto spiegarlo, non gli veniva. Poi pensò che quelle arie lontane, come di chiesa, potevano anche essere eretici rimasti nascosti nel vallone di Marmora dal 1600, quando, via i Francesi erano arrivati i Savoia, papisti e intolleranti, che una volta conquistata la Val Maira imposero ai calvinisti l'abiura o l'esilio. Gli eretici cantavano laudi importate dalla Sassonia e dal cantone di Zurigo, canti severi, tristi che non servirono però a cacciare la peste che arrivò anche nelle alte valli. Forse un manipolo si rifugiò in una comba sperduta, arcana, senza sentieri, battuta dal vento d'estate e da formidabili bufere di neve d'inverno. Visitata solo dall'alto da voli di poiane. Uomini e donne, pochi, smunti, che potevano aver passato anni, decenni, secoli, spiando le stagioni, temendo l'arrivo dei mercenari irlandesi dei Duca di Savoia. E cantavano i salmi in un francese arcaico, ormai sconosciuto anche agli studiosi. Non li aveva scoperti e raggiunti nessuno, nè gendarmi ducali, nè carabinieri, nè finanzieri, nè il postino. 140


Non erano più in nessuna anagrafe, o registro parrocchiale. Quelli delle imposte non ne sapevano niente. Non gli arrivavano bollette della luce e del gas, pubblicità, cataloghi di vivaisti, avvisi di mora, non avevano bisogno di certificati, ricevute, codice fiscale. Sapevano solo che la pianura è un posto pericoloso, infido, da dove non era mai venuto niente di buono. Per secoli erano saliti solo soldati, esattori, preti, banditi. E non ne volevano più sapere di estranei. Cantavano per conto loro, nè allegri nè disperati. Girò il vento e Batista, nonostante si fosse fermato con le orecchie tese, sentì solo più l'aria che faceva frusciare gli ontani nani. Diede un giro alla mantellina con un largo gesto del braccio, e continuò verso il colle, chè la strada fino a Marsiglia era ancora molto lunga.

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CAPITOLO XXV

Acqua santiere di pietra


Non c'è‚ bisogno di essere baciapile per visitare volentieri chiese, monasteri, abbazie, o sostate davanti a un pilone di campagna solitario, una chiesetta smangiata dai secoli. Uno non pensa al Papa, ai vescovi, ai kirieleison, alle encicliche. E non è neanche una questione solo di storia dell'arte. Dietro il bric-a-brac di mattoni, intonaci scrostati, affreschi naif, ex voto, acquasantiere di pietra, santi e Madonne, ci sono le vicende terrene, le storie di generazioni di contadini e montanari che si sono spellati le mani e rotta la schiena lavorando, fidando nel sostanzioso premio del Paradiso. Ci credevano, pregavano, mangiavano di magro quasi tutto l'anno, facevano fioretti. I segni concreti di questa rustica religiosità sono perciò preziosi anche per i miscredenti, che comunque non camminano tra boschi e silenzi senza interrogarsi sul significato di quei bizzarri, incomprensibili fenomeni che sono la vita e la morte.

chissima, con periodi di splendore e di grande floridezza anche economica, seguiti da un inesorabile declino, fino ad essere, oggi, niente più che monumenti carichi di ricordi.

Le abbazie famose in Piemonte sono essenzialmente sei, Staffarda, nella grande pianura tra Cavour e Cuneo, la Sacra di San Michele, all'imbocco della Val di Susa, la Novalesa in val Cenischia, Vezzolano, tra le colline nel Monferrato astigiano, e Sant'Antonio di Ranverso, entrambe di magnifico disegno gotico e ormai da anni senza frati. Più la Certosa di Chiusa Pesio (Cuneo), geograficamente la più lontana da Torino, entro i confini del parco omonimo. Meno conosciute quella di Monte Benedetto e la vicina Banda, nella bassa val di Susa, tra i boschi sopra Villar Focchiardo, abbandonate già alla fine del '400 dopo un terremoto che mise in fuga i religiosi e sconquassò gli edifici. Ognuna ha una storia ric-

Santa Maria di Staffarda. Nel comune di Revello, a dieci chilometri da Saluzzo. Appartiene (come Ranverso) all'Ordine Mauriziano ed è forse l'abbazia più bella, ampia e meglio conservata. Sembra ancora viva e in attività soprattutto perchè le cascine annessse funzionano ancora, anche se ci sono trattori al posto dei buoi, affittuari invece che braccianti. Poi c'è il fascino del Monviso che sta alle spalle, e la immensa campagna cuneese che circonda le fabbriche gotiche. Il chiostro è magnifico, le tre navate gotico-romaniche della chiesa, buie e ieratiche, l'atmosfera piena di echi medioevali. Fondata nel 1135 per iniziativa del marchese di Saluzzo Manfredo I del Vasto, ospitò sempre monaci Cistercensi. Era qua-

I santuari invece sono dozzine, grandi e piccoli, più o meno conosciuti. La differenza fra una chiesa <normale> e un santuario, sta nel fatto che quest'ultimo è oggetto di una devozione particolare, si è riempito, nei secoli di ex voto, è accudito amorevolmente da volontari spesso nominati dalla popolazione del paese, e conserva nel tempo, quasi intatta, immagine e fama di luogo santo. I santuari sono tutti affascinanti, vecchi di secoli. Spesso edificati in montagna, su poggi, picchi, tra boschi e pascoli erti, tanti raggiungibili solo a piedi. Molti aperti e santificati con funzioni, solo una volta all'anno per la festa patronale.

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si un paese, autosufficiente, con foresteria sempre molto frequentata, un mercato coperto dalle volte a ogiva, (c'è ancora), laboratori, un mulino ad acqua, forno, ospedale, camposanto. Novalesa. In val Cenischia, a pochi chilometri da Susa, tra boschi e acque, sotto il passo che porta al Moncenisio, l'antica abbazia fondata nel 726 dal nobile Abbone all'esterno è stata ampiamente rimaneggiata nei secoli, e oggi ha un aspetto vagamente ottocentesco, con pietre a vista e la facciata affrescata della chiesa sbiadita. Difficile trovare pathos monastico nell'insieme. I benedettini che fanno da custodi (la proprieta è della Provincia di Torino), sono quattro, e gestiscono un piccolo laboratorio di restauro di libri, manoscritti, incunaboli. Il cenobio conobbe periodi splendidi, specialmente dopo Sant'Eldrado, abate del IX secolo, con amanuensi che miniavano codici e manoscritti, custodivano una biblioteca ricchissima, mentre i frati coltivavano le terre circostanti. Intorno al Mille l'influenza di Novalesa arrivava lontanissimo, fino in Liguria e a Marsiglia. Sant'Antonio di Ranverso. Altro insigne monumento del gotico piemontese tra Rivoli e Avigliana. Dell'antico complesso (fondato nel 1188 da Umberto II di Savoia detto <Il beato> che abitava nel castello di Avigliana da secoli ridotto a rudere), rimangono in piedi chiesa e campanile, la sacrestia, il convento e il lazzaretto dove nel Medioevo venivano curati soprattutto appestati, lebbrosi e malati del Fuoco di Sant'Antonio. All'epoca le cure consistevano nel mettere sulle piaghe grasso di maiale. Per questo l'animale compare così di frequente nell'ico-

nografia del monastero. Oggi il visitatore puo vedere il famoso polittico di Defendente Ferrari sull'altare, affreschi di Jaquerio sulle pareti della sacrestia, il bellissimo chiostro, la facciata in cotto del lazzaretto, la grande cascina all'esterno, e il fiume ininterrotto di veicoli che corre a poche centinaia di metri, al fondo del bel viale di platani che porta alla statale 23. Col rombo malefico del traffico, è difficile raccogliersi, e trovare atmosfere mistiche. Occorre un grosso sforzo di concentrazione per ricostruire la vita medioevale. Montebenedetto, bassa valle di Susa. Si raggiunge in auto, su una strada sterrata di otto chilometri, che sale da Villarfocchiardo, o meglio ancora a piedi, percorrendo un bel sentiero fra i boschi del parco dell'Orsiera, (un'ora abbondante), partendo dalla frazione Città di San Giorio. La chiesa è stata restaurata qualche anno fa dalla Provincia (rifatto il tetto e il pavimento), ma all'interno non c'è assolutamente nulla. Il muri sono nudi, le navate spoglie, la poca luce che piove dalle finestre a ogiva illumina spazi deserti. Il resto degli edifici (erano refettori, dormitori, magazzini, stalle), hanno mantenuto poco della fisionomia originale, e sono di proprietà privata. L'insieme ha però conservato un disegno compiuto e armonioso. Nei giorni feriali non c'è anima viva e il luogo, circondato da pascoli e boscaglie, è di una pace e solitudine assolute. Vezzolano. In una valletta fra vigne boschi e prati, appena fuori l'abitato di Albugnano, nel Monferrato astigiano, c'è l'altra perla gotica del Piemonte, l'Abbazia di Vezzolano. Anche quì con i po145


chi fondi a disposizione delle Soprintendenze i lavori di restauro vanno avanti da anni. Nell'ex refettorio c'è una mostra con la storia dell'abbazia e gli esempi (tanti) di architettura romanica dell’intera zona. Abbazia di Casanova a Carmagnola. Poco conosciuta, nella frazione omonima, sulla strada Carmagnola-Poirino. In mezzo a campi, cascine, tralicci dell'alta tensione, ombreggiata sul davanti da tigli, gaggie e ippocastani. Anche la Casanova ha origini dopo il Mille, ma l'attuale costruzione, con una bella facciata barocca di mattoni a vista, risale alla metà del seicento. Ogni attività religiosa è finita da un pezzo. La chiesa oggi è la parrocchia della frazione, mentre il resto dell'edificio, è proprietà privata e non è possibile alcuna visita. Abbazia di Montebruno. Sulla strada PineroloCavour, dopo Osasco, nel territorio del comune di Garzigliana, sulla destra, sulle rive del torrente Pellice - che quì ha un letto ampio, sassoso, quasi sempre in secca - c'è l'Abbazia di Montebruno, neogotica, costruita nel 1901, al posto di una piccola chiesa romanica, accanto ai ruderi del castello, con annessa canonica ottocentesca. Il castello apparteneva ai signori di Luserna. La chiesa - di proprietà privata, tutelata dalla Soprintendenza ai Monumenti - è sola nella campagna, tra coltivi, pioppeti e boscaglie, ed è custodita dal vecchissimo don Fassino, ex parroco di Garzigliana, che dice messa tutti i giorni. Speriamo sia ancora vivo. L'isolamento dell'abbazia è dovuto al fatto che ai primi dell'800 una furiosa inondazione distrusse il paese che allora era costruito intorno, e che

dopo il disastro venne ricostruito al sicuro, ad un chilometro di distanza, lontano dal fiume. La chiesa rimase così sola, esposta ai rischi di ogni piena. Ma fin'ora ha resistito. Davanti, dall'altra parte della strada, c'è la Trattoria Montebruno, vecchia di un secolo, gestita senza interruzione, a partire dagli anni Trenta, dalla famiglia Lisdero. Un modesto, tradizionalissimo locale, dove si mangia a mezzogiorno e sera. Il santuario di Forno Alpi Graie, intitolato alla Madonna di Loreto (dipende dalla parrocchia di Ceres), è stato edificato nel 1758 e restaurato nel 1873, come recita la scritta sul frontone. E' abbarbicato al fianco della montagna, sulla sinistra salendo nel solitario vallone di Sea, appena fuori dal paese. In basso passano gli escursionisti che risalgono il vallone, lunghissimo e deserto, fino ai 2.300 metri del bivacco Soardi, e atletici free climbers che vanno ad arrampicare su placche e torrioni, esplorati e segnati dal quel grande alpinista che è stato Giancarlo Grassi. Negli anni '50 furono costruite le scalinate in pietra viva, che portano dal basso all'aereo sagrato, un centinaio di metri più in alto. Curiose strutture piranesiane, che s'incrociano sul fianco boscoso della valle, interrotte da cappelle, pianerottoli, terrazzini. Per ogni scalino una targhetta in alluminio con il nome di un benefattore che ha contribuito ai lavori. Santuario degli Olmetti in val di Viù prima di Lemie. Una bella costruzione porticata, sulla riva del torrente, a fianco della strada provinciale, vicino al ponte che porta alla frazione Chiampetto. Ombreggiato da giganteschi faggi è rimasto tale quale come alla metà 146


del '700. Santa Cristina. E' un minuscolo santuario appollaiato su una becca di roccia sulla cresta che divide la val Grande di Lanzo dalla valle di Ala, sulla sinistra salendo, appena prima di Cantoira. Ogni anno, da tempo immemorabile, il 24 luglio, salgono i fedeli in pellegrinaggio. Una cappella esisteva già nel 1440, poi ampliata fino alle dimensioni attuali. Cantoira e Ceres disputarono a lungo sul possesso della chiesa che si vede dal fondovalle e fa impressione, così sospesa in cielo. Ci si arriva solo a piedi, con una passeggiata di un paio d'ore, partendo dalla piazza di Ceres, per un antico sentiero tra i boschi. Poco sopra il paese c'è un pilone dove la gente assisteva alle funzioni ai tempi della peste. Arrivati al colletto sotto la chiesina, c'è ancora una ripida scalinata in pietra che sembra salire direttamente dal Padreterno. Il panorama è grandioso. Chi vuol meditare, salga, non di domenica, anche d'inverno. Sant'Anna di Vinadio, in alta valle Stura, provincia di Cuneo. Più che il celebre santuario, (a duemila metri d'altezza, lungo la strada che porta al colle della Lombarda, transitabile solo d'estate), restaurato orribilmente, è interessante la pia tradizione dei pellegrini che, lungo la strada, costruiscono ometti di pietre, e piccoli mucchi di sassi, impetrando grazie, con preghiere litiche, che rimangono negli anni a testimonianza della religiosità valligiana. Una forma liturgica antica, quella delle pietre, comune ad altre religioni, in altri paesi anche lontani. Santuario del Collombardo. Sul displuviale fra la valle di Susa e quella di Viù, a quasi duemila

metri di quota, tra i pascoli, sotto la mole del Monte Civrari. Luogo di devozione fin dal 1600, (intitolato alla Madonna degli Angeli), sorge isolato, massiccio, raggiungibile con una strada sterrata (buona e neanche tanto e solo nella bella stagione), che attraverso il colle del Collombardo, da Condove scende a Lemie con un percorso vertiginoso. Sant'Ignazio, in val di Lanzo, alla quota di 931 metri, vicino alla frazione Tortore. Costruito tra il 1628 e il 1635, e rifatto da Bernardo Vittone nel 1725. La leggenda vuole che la costruzione sia stata decisa per ringraziare S.Ignazio da Loyola, per aver protetto la valle da un'invasione di lupi. La costruzione salta all'occhio salendo nella valle di Ceres, con la sua mole severa, piantata sul cocuzzolo del monte coperto di castagni. Si sale sia da Lanzo che da Pessinetto. Santa Maria della Stella stà sopra Rubiana, in val di Susa, da dieci secoli. Non è un santuario, solo una pieve romanica, dall'architetura semplice e perfetta, circondata da un cimiterino, raccolto sotto il tozzo campanile. L'unica in val di Susa a conservare una cripta sotto l'altare. E' un posto di rara suggestione, un intatto ambiente d'altri tempi a picco sulla val di Susa, piena di strade, officine, ferrovie. La bella canonica di fronte alla chiesa, è deserta e chiusa, utilizzata ogni tanto per riunioni e feste religiose. Curiosa la cappella vicina, scavata nella roccia, intitolata a San Giovanni Vincenzo. In pratica una grotta chiusa da una facciata e con un piccolo portico davanti. Raccontano che nei boschi vicini - intorno all'anno mille - ci fossero decine di eremiti. San Besso in alta 147


Val Soana, sopra il pianoro dell'Azaria, già dentro i confini del Parco del Gran Paradiso. Anche quì le indulgenze si guadagnano con una camminata sostenuta di un paio d'ore, partendo da Campiglia Soana, ultimo paese della valle. Dove i famosi fratelli Clerico (originari di Campiglia, proprietari del Lido e del Moulin Rouge di Parigi) hanno costruito quel bellissmo albergo Grand Paradis che ha avuto così poca fortuna essendo chiuso da anni. San Besso è costruito sotto un enorme sprone roccioso, piantato come la prua di una nave in mezzo ai ripidi prati ai piedi della Rosa dei Banchi. Alcuni locali del santuario servono anche come rifugio per escursionisti e alpinisti che salgono la montagna. La festa patronale è il dieci agosto. I fedeli salgono sia da Campiglia che da Cogne, e portano in processione intorno alla chiesa, la statua di san Besso, vestito da antico romano. Santuario di Ciavanis. In val Grande di Lanzo, sopra la frazione di Fondo (Chialamberto). Anche in questo caso si arriva solo a bordo dei propri scarponi. Un'ora e mezza di sentiero ripido. C'è una strada costruita dai proprietari dei pascoli, ma la circolazione è vietata ai forestieri. La chiesa, piccola, imbiancata a calce si affaccia su un minuscolo sagrato che fa da spettacoloso balcone sulla valle. Custodia e manutenzione sono affidate ad una confraternita di Chialamberto che nomina ogni anno priori e badesse. Poco fuori da Paesana, nella bassa valle Po, c'è una piccola deviazione per il vallone di Croesio. Pieno di grange deserte, frazioni abbandonate, boscaglie. Ma con una meraviglia inaspettata: il santuario della Madonna dell'Orien-

te, piccolo monumento rustico, dipinto di un arancio pallido d'inverno con la neve è un lampo di colore improvviso - un ampio porticato, un trompe d'oeil e un Cristo in croce sul retro della canonica, staccata dalla chiesa, un campaniletto aguzzo celeste pallido. Più su, oltre la frazione dei Borghini dove finisce la strada e comincia il sentiero per Prato Guglielmo, dove i vecchi dicono <ormai c'è solo più la volpe>, alcune grange con begli affreschi con la Vergine, San Chiaffredo, e la data 1877. Castelmagno. Lontano da Torino, nell'alta val Grana, (Cuneo). Luogo antico di culto a 1.700 metri d'altezza; costruzione imponente di severa architettura alpina, circondata da un porticato. La festa di San Magno si celebra il 19 agosto e richiama ogni anno migliaia di fedeli. Si raggiunge comodamente in auto, anzi la strada prosegue ancora per decine di chilometri su un vecchio tracciato militare, fino agli altipiani carsici, epici del colle del Mulo e al colle della Gardetta. Il problema è arrivarci nei giorni festivi. La provinciale è stretta, circolare e parcheggiare è un problema. Qualcuno ogni tanto va giù dai burroni con la macchina e tutto.

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CAPITOLO XXVI

Che ďŹ ne ha fatto Michael Timojev?


Comune di Villar Focchiardo, bassa val di Susa. Case di pietra grigia, intorno boschi di castagni. Duemila abitanti su un territorio tutto all'inverso (cioè esposto a nord). Bisogna andarci apposta, non è un luogo di transito. Un posto come tanti, di mezza montagna, con storie e personaggi ordinari e straordinari. Libero Manfroni, toscano di origine, ultrasettantenne irsuto e anarchico, che viveva da solo con quatro muli e ogni tanto aveva screzi con i vicini per via del pascolo delle sue bestie. E’ sempre vissuto facendo piccoli trasporti in montagna. Era proprio l'ultimo, l'ultimissimo della sua specie. E' morto nell'inverno del '94, senza aver conosciuto un padrone. Luigi Martoia, (nato nel 1913, morto nel 1986), che passò la vita impiegato al Cotonificio valle di Susa, e compilò una documentatissima storia del paese, oltre 600 pagine scritte (in trent'anni di ricerche e studi), in bella calligrafia e disegnata a mano, lasciando per testamento il divieto di pubblicazione <a fini speculativi>. Del manoscritto (in fotocopia), ci sono due esemplari in comune, e due alla Biblioteca Civica. Chi vuole li può consultare. Le piole scomparse: la Trattoria delle Alpi, la Cantina Nuova, la Cantina Comboira, la Cantina della Piana, la trattoria Quattro Strade trasformata in birreria, e la ex Cooperativa che adesso si chiama La Pantera e fanno anche le pizze. E la medioevale certosa di Banda, piccolo cenobio benedettino in una conca riparata dal vento, due chilometri a monte del paese. Banda fu scelta dai frati dopo essere stati costretti ad abbandonare Montebenedetto

nel '400. Oggi del monastero rimane la chiesa, il piccolo campanile, resti armoniosi di archi in pietra, ruderi di romitori nei boschi circostanti. Quattro o cinque i residenti stabili nella frazione, che tengono puliti i boschi, allevano poche vacche e capre, coltivano perfino una piccola vigna, orti, fanno il fieno. Un posto microscopico, bello, isolato, sereno. Adesso. Ma nel '44 i nazi fucilarono tre partigiani tra le grange. Una targa dell'Anpi li ricorda. C'è poi la storia della <Bealera del Molin>, opera idraulica che attraversava tutto il paese e forniva movimento a una piccola centrale elettrica, alla falegnameria, alla fucina, a due o tre mulini, a un pastificio, e serviva anche per l'irrigazione. La bealera c'è ancora ma serve ormai solo a dar acqua ai campi. Appena fuori dal paese, sulla strada sterrata che sale a Banda, c'è una vecchia cava di quarzo in disuso, in riva al torrente Frangerello. Fuori una casa pericolante e poco lontano un altro edificio dell'impresa mineraria, tutto abbandonato, sgangherato. La cava di Marra (il nome dei vecchi proprietari), è un antro immenso, gelido, sostenuto da ciclopiche colonne rocciose sghembe, illuminato da un lato da grandi aperture; la coltivazione dei filoni iniziò nel 1910 circa, e cessò negli anni Trenta. Il materiale serviva alle Fonderie Moncenisio di Condove, e alla fornace di laterizi vicina, la Boni & Canavesio che produceva refrattari. La fornace c'è ancora, mezza andata, (la produzione è cessata da un pezzo), bell'esempio di archeologia industriale, con stinte scritte fasciste sulle pareti esterne. E c'è ancora anche la <Strà dle rue>, viale rettilineo, la151


stricato, lungo un chilometro, che arrivava fino a Dora. Di qui partiva un cavo lunghissimo, d'acciaio, che, azionato dalla forza idraulica del fiume, portava energia alla fabbrica. Il cavo era sorretto da piloncini e carrucole. Per questo la strada si chiamava <dle rue>, delle ruote. L'ingresso alla cava, era una galleria di settanta metri circa, scavata nel fianco della montagna, alta e larga un paio di metri, ma è stato chiuso definitivamente nel '92 da massi enormi. A dir la verita il tunnel funzionava da uscita dei materiali, l'ingresso era dietro, sul fianco della montagna, uno squarcio enorme, adesso ostruito da boscaglia impraticabile e reticolati. C'è ancora una traccia di sentiero. L'interno è pieno porcherie, bottiglie di birra, lattina, immondizie, resti di picnic. C'erano anche lumini cimiteriali, lungo la galleria, e resti di fuochi; dicono facessero messe nere o cose del genere. Si sente, stando in silenzio, una goccia che cade ogni tanto, split, split. Chiodi a espansione da roccia (spit) lungo una parete, attrezzata da free climbers locali per arrampicare al coperto. Non è chiaro che cosa andassero a fare tanti nella grande caverna. Dicono cerimonie esoteriche, con gente che veniva anche da lontano, da Genova, Milano, Firenze. In valle si mormorava di sette non identificate. Ma i giovani, in cerca di emozioni letteralmente underground, facevano semplicemente feste in un ambiente insolito e un po' inquietante. Almeno una volta un happening fu organizzato con tanto di manifesti affissi anche a Torino e con lumini

messi come indicazione sulla strada che porta alla caverna, altrimenti introvabile. Oggi l'utilizzo ludico dell'antro è finito. I carabinieri, il comune e il proprietario del terreno si sono messi d'accordo e, per evitare altri raduni clandestini, hanno bloccato l'entrata con qualche tonnellata di pietroni. E nella cava di Marra è tornato il silenzio. Ma c'è un'altra storia da raccontare. Fuori dalla grotta, su una roccia pulita, mezza nascosta dai rovi, si legge la firma di un certo Michael Timojev e una data 1921 (anno di nascita?), due stemmi, sembra di reggimenti, e un'altra data più grande <1944>. Scrittura perfetta, in un bel corsivo, incisione nitida, anche dopo mezzo secolo. Si vede che chi la lavorato con lo scalpello era del mestiere. Alfredo Casale, classe 1927, assessore del comune di Villar Focchiardo, un simpatico tipo di patriarca con una bella barba grigia, (specialista in innesti e potatura di alberi da frutta, abita in una delle più vecchie case del paese), che fu partigiano coi Garibaldini in bassa valle, 106¦ Divisione Velino Giordano, (da Susa in su c'erano i gielle della divisione Stellina), racconta che la cava venne usata durante la guerra come deposito di esplosivi del Dinamitificio Nobel di Avigliana. <C’erano centinaia di quintali di T4 - racconta - sorvegliati da sette, otto carabinieri. La notte tra il 17 e il 18 dicembre del 1943 i partigiani del comandante Walter Fontan fecero irruzione, immobilizzarono i carabinieri e portarono via trenta quintali di esplosivo che venne usato poi per far saltare i ponti. L'anno dopo invece, nel '44, mentre era di guardia una pic152


cola guarnigione di ucraini inquadrati nella Wermacht, abbiamo radunato gente del paese e siamo andati all'assalto. I russi si sono arresi e noi abbiamo buttato tutto l'esplosivo nel torrente. Dopo qualche mese però ci sono state due vittime. Due ragazzi avranno avuto 12 o 13 anni, che andavano al pascolo con le capre, forse hanno buttato dei sassi nell'acqua, e magari erano rimaste sacche di esplosivo e qualche detonatore, fatto sta che ci fu uno scoppio che mandò in frantumi i vetri di mezzo paese e i ragazzi morirono sfracellati>. Molti degli ucraini, ex prigionieri, fuggirono, gli Ivan, i Misha, i Vasili, si unirono ai partigiani e dopo un po' formarono un distaccamento tutto loro. Molti rimasero in Piemonte alla ďŹ ne della guerra. Si sposarono, trovarono un lavoro, e adesso sono in pensione. Si formarono amicizie che durano ancora oggi. In Ucraina c'è un paese dove si festeggia tutt'ora il 25 aprile, in ricordo della resistenza piemontese. Ogni tanto i sopravvissuti vengono al Villar a salutare i vecchi compagni.

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CAPITOLO XXVII

Macchine da campagna


Il trattore <testacalda>, prodotto dal 1920 circa, fino al primo dopoguerra, era un diesel, due tempi, con un solo cilindro orizzontale, enorme. Un rinoceronte fatto di ferro, ghisa e pesanti lamiere da due millimetri, dotato di grande forza bruta. Per fare un esempio l'<Argo> della Orsi di Tortona, una bella macchina degli anni trenta, aveva un pistone del diametro di circa quaranta centimetri, una cilindrata di 11.600 cc, e la potenza di 50 cavalli. Peso totale 39 quintali. Oggi per avere la stessa potenza un trattore pesa la metà. Guidare un testa calda era uno strazio, quasi come manovrare un carro armato, perchè trasmetteva vibrazioni da squinternare qualunque solido contadino. Metterlo in moto un'impresa complicata: bisognava scaldare la testa fino a farla arroventare (di qui il nome), bruciando benzina o nafta in una specie di fornelletto, o usando addirittura una cartuccia di polvere nera da inserire in un apposito buco sulla testata. Si accendeva la miccia si turava il buco e lo scoppio avviava il motore. Poteva anche capitare che il pistone si mettesse a girare al contrario, allora bisognava spegnere e ripetere l'operazione, altrimenti tutte le marce funzionavano a rovescio. Aveva un enorme volano esterno di ghisa - che poteva pesare anche un quintale che gli conferiva una fisionomia inconfondibile, e sul quale veniva accoppiato, con una ruota libera, lo stesso volante dello sterzo (che si poteva mettere e togliere), e col quale si dava - al momento giusto - il colpo per l'avviamento. Il motore dava scoppi lenti, sor-

di, possenti, come (più in piccolo si capisce), il Falcone buonanima della Guzzi. I testacalda li costruiva soprattutto la Landini di Fabbrico (Reggio Emilia), ma c'erano anche modelli della Orsi di Tortona, della Bubba (fabbrica milanese scomparsa)e della Lanz tedesca, (era famosa la serie Bulldog),che poi è diventata un marchio Usa e si chiama John Deer Lanz. Oggi i testacalda, sono diventati pezzi da museo; restaurati come fuoriserie sfilano ogni tanto alle feste patronali, nelle sagre, diventati oggetto di archeologia industriale. Un grande specialista e collezionista del settore è Angelo Gullino, un supermeccanico (classe 1923), che commercia e ripara macchine agricole a Savigliano, e possiede una satrapica raccolta di più di 150 pezzi (funzionanti), di ogni epoca e marca, uno squadrone di antiquati e aristocratici gentiluomini di ferro, a riposo dopo decenni di fatiche. Gullino smonta pezzo per pezzo le sue macchine, rifà i particolari mancanti con santa pazienza, le rimonta, le rivernicia, e ogni tanto le porta a far festa in qualche fiera, anche all'estero. In cortile ha anche un poderoso schiacciasassi Breda del 1932, bicilindrico, peso 170 quintali, che può funzionare bruciando legna, carbone, paglia, turaccioli, ogni sorta di combustibile. Ma è a Cavallermaggiore che ha la sede il Club Trattori d'Epoca Piemonte, il secondo d'Italia, con più di trecento soci che raccolgono, rimettono in ordine antiche macchine - trattrici e locomobili, mietilegatrici e trebbie - con amore, pazienza certosina e competenza. Il presidente Giorgio Bollino, che per vivere commercia in fiori, ha scritto anche l'unico libro edito in Italia sull'argomento. E i soci sono orgogliosi proprietari di pez156


zi rari come il Landini L30, il Landini Bufalo, il Wallis 12/20 (Usa), la bellissima trattrice Fiat 700 A, del 1927. I motori, le macchine della campagna, sono un mondo a parte della tecnologia. Il legame con la terra le trasforma. Ogni organo sovradimensionato per sopportare urti pesanti e superlavoro, per resistere al fango, al freddo, al troppo caldo. Intanto vediamo le anticaglie. Gli arnesi che si vedono più spesso abbandonati nei campi sono i vecchi ranghinatori e i voltafieno. I primi servivano (e servono) a ordinare l'erba appena tagliata in <ranghi> appunto, cioè file ordinate e parallele, che poi si voltano e rivoltano fino all'essiccazione completa del fieno. I secondo (progettati per essere trainati da un cavallo), hanno piccoli tridenti che si muovono avanti e indietro con semplici meccanismi e leveraggi, che ruotando voltano il fieno, ma in maniera non ordinata. Roba di prima della guerra, come concezione. Ce ne sono tanti in campagna, arrugginiti, con il seggiolino anatomico di lamiera traforata, le grandi ruote a raggi di gomma piena. Abbandonati vicino a un filare di gelsi o salici, fermi sotto una tettoia sgangherata, o semplicemente lasciati al sole e alla pioggia. Le macchine di oggi sono invece piene di gadget, spie, accessori, servomeccanismi, aria condizionata, riscaldamento. Fino a trent'anni fa per esempio per cambiare marcia, bisognava fermarsi; oggi il cambio (si arriva fino a 48 marce, con inversore e overdrive), è sincronizzato, elettromeccanico, e si usa come su un'auto o come sui camion. Basta premere un bottone. Fino agli anni sessanta la cabina era un optional. Le prime erano semplici ripari per i sole e la pioggia. Oggi tutti i trattori sono ca-

binati, i sedili sono molleggiati e imbottiti come quelli degli autotreni, per non parlare della fanaleria che permette di lavorare tranquillamente anche di notte. Un tempo il trattore veniva usato anche come motore ausiliario per la trebbiatrice o per azionare pompe idrauliche per l'irrigazione (e questo si fa anche oggi). Il movimento veniva trasmesso con un cinghione di cuoio che ogni tanto si strappava menando pericolose frustate intorno. Poi venne la <presa di forza>, grande innovazione degli anni '50. Un albero calettato, collegato al cambio, sporgente dal posteriore della macchina, cui si possono attaccare ogni sorta di attrezzi che necessitano di energia per funzionare. Seminatrice, carro spandiletame, pressa imballatrice, erpice rotante, fresa, trivella o coclea per fare buchi nel terreno o estirpare ceppi di alberi abbattuti, pompe idrauliche, seghe circolari. La barra falciante (per tagliare l'erba), si applicava invece di fianco con un trapezio che collegava il pettine alla presa di forza posteriore. Oggi l'erba non si taglia più così, le barre laterali sono state sostituite da falciatrici rotanti, velocissime attaccata dietro il trattore, che può correre, lavorando, fino a 15 chilometri orari. Grande invenzione anche il <sollevatore>, due bracci potenti mossi dall'impianto idraulico, che servono appunto a sollevare gli attrezzi montati dietro (aratro, erpice e così via). Attaccato al sollevatore si può mettere anche una piattaforma che serve per portare piccoli carichi: due sacchi di concime, la bici, balle di paglia o fieno, quattro miria di erba medica fresca, bidoni del latte. Un arnese impressionate è il rimorchio spandiletame. Un'invenzione relativamente recente. Una volta semplice157


mente si caricava lo stallatico su un pianale senza sponde e il contadino con un tridente lo buttava a mano, nei campi o sui prati. Adesso il letame si stiva in un grosso rimorchio che posteriormente ha tre coclee dentate (cilindri verticali con una specie di vite senza fine) che girando spruzzano sul campo il concime. D'inverno il trattore e il rimorchio, che erutta il suo odoroso carico, sono circondati da una nuvola di vapore di condensa, spettacolo sabbatico e propiziatorio, anche offensivo per i delicati olfatti cittadini. Il trattore è così la sorgente energetica di molte funzioni, un gigante forzuto che fa tutte le fatiche che il contadino doveva fare a mano, prima della civiltà delle macchine. Esemplare l'uso (specialmente d'inverno) per abbattere alberi. In questo caso la macchina assume un aspetto industriale, con una lama anteriore (per spingere i tronchi) e il <ragno>, cioè un braccio idraulico con una benna che prende il legname da terra e lo sposta sul rimorchio. I giovani che fanno questo lavoro usano i loro mezzi con una grande disinvoltura, come un mandriano il suo cavallo. Avanti e indietro tra le sterpaglie dei pioppeti, scendono al volo dalla cabina, si arrampicano sul sedile che comanda la benna, imbragano fulminei i tronchi tagliati di misura, caricano il rimorchio, risalgono in cabina e via. Poi ci sono i turbo a quattro ruote motrici. Bestioni da 15O cavalli (possono costare fino a 150 milioni), in grado di cavarsela su qualsiasi terreno, con ruote enormi e magnifiche. Sembrano veicoli da guerra; e infatti specialmente i giovani in campagna, non resistono al loro fascino. Sovente uno dei motivi per cui rimangono nell'azienda paterna invece che andare in fabbrica, o

cercarsi un lavoro più comodo, è proprio il Turbo rosso, con aria condizionata e stereo, parcheggiato sotto il portico. Che guidano con disinvoltura e divertimento nel fango dei campi, arrampicandosi pericolosamente sulle colline, o arando furiosamente con aratri trivomere, lavorando all'abbattimento dei filari di pioppi, col trattore che fa il lavoro dell'elefante in India. Carica e trascina tronchi, traina rimorchi monumentali. Il trattore è anche bello, come tutti gli oggetti legati al lavoro, la cui forma è determinata dalle funzioni richieste. Così come sono magnifici oggetti da collezione, gli arnesi ancora costruiti a mano, per i lavori minori in campagna. Forgiati da residui fabbri che riforniscono i mercati della provincia. Vanghe, zappe, roncole, falci, falcetti. Hanno una fisionomia diversa i trattori che lavorano nelle risaie. Dovendo manovrare nel fango e nell'acqua, a seconda dell'impiego specifico, gli vengono montate ruotone metalliche, senza copertoni, o ruote composte da un unico disco dentato di metallo. Con l'arrivo della bella stagione sembra che navighino in un mare calmo, diviso in stagni rettangolari, pieno di filari di pioppi e voli di aironi cinerini. Discorso a parte le macchine per lavorare la vigna. Ci sono un mucchio di arnesi bizzarri, inconcepibili fino a pochi anni fa: trinciastoppie (per tritare e sotterrare i tralci tagliati, resti della potatura), cimatrice, macchina per la potatura verde (si usa due volte all'anno), la spollonatrice-legatrice (che dirada e lega automaticamente i tralci), l'interceppi, piccola fresa da passare tra un ceppo e 158


l'altro. InďŹ ne le macchinette piĂš piccole con decine di modelli: motocoltivatori anche a cingoli, trattorini con rimorchietti per trasporti leggeri, seminatrici, frese ed erpici semoventi, da condurre a mano, per i lavoretti dell'orto. Sono i giocattoli dei pensionati. Sono molti i lavoratori, magari originari della campagna, che dopo una vita in cittĂ , piantano tutto e tornano al paese. E allora passano il tempo coltivando ortaggi, curando un prato di trifoglio, un campo di granturco, tagliando legna per l'inverno. Sono maestri nel fare ordinate cataste. Per questi lavori non c'è bisogno di grandi macchine, bastano piccoli sussidi a motore. E' facile vederli passare al tramonto, seduti su trabiccoli scoppiettanti, che procedono a passo d'uomo, tornando a casa per cena, seraďŹ ci e soddisfatti, dopo una giornata passata a potare la vigna, o a raccogliere erba per i conigli.

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CAPITOLO XXVIII

Osteria d’Oriente


Ogni tanto Batista andava a bere una grappa fatta di contrabbando all'Osteria d'Oriente, mezza nascosta dietro il fienile di Gusto Pomè; non c'era insegna, nè lume esterno. Ci andava solo chi sapeva dov'era. Due stanzette con soffitti bassi e affumicati, tavoli scuri segnati dai circolini di quartini e bicchieri. Alle pareti - rivestite di doghe di legno fino a metà e con dei quadratini di carta vetrata per accendere i fiammiferi - una veduta a colori di Venezia, una volpe impagliata, una fotografia di sciatori degli anni trenta, un stampa del re Vittorio Emanuele II, lampadine fioche, da 25 candele, col piatto di lamiera, bianco sotto e blu sopra, un banco di legno grezzo con il piano di lamiera zincata. In un angolo la stufa di ghisa, con le gambe arcuate, che si accendeva già quasi alla fine di agosto. L'osteria era l'unica casa ancora abitata nella frazione. Le altre grange erano vuote e mezze diroccate. Nel vecchio forno, la cui bocca di ghisa ogivale, nera di fuliggine non aveva più visto una pagnotta da decenni, aveva fatto il nido una coppia di barbagianni; i terrazzamenti di pietre a secco, dove una volta si seminavano segale e patate - la terra la portavano con le gerle dal più basso erano invasi dalla boscaglia. Lavoro e fatiche di anni e anni, andati in malora. In giro era pieno di cespugli e alberelli di bosso, un sempreverde chiamato anche martel, per il legno duro(quando piove o c'è umido, esala un profumo buono e lievissimo) che si trova soprattutto nei cimiteri, in forma di siepi, nei giardini all'italiana delle ville patrizie, nei par-

chi recintati dei castelli. Qui era allo stato naturale e mandava intorno flebilmente il suo odore antico. La campana della cappella di San Magno l'aveva rubata chissà chi, la meridiana dipinta sul frontone era stinta e in più era cresciuto una albero davanti, quindi non segnava proprio più nessuna ora. Gli ultimi abitanti erano stati i partigiani di un piccolo distaccamento di garibaldini. Duri, stalinisti, magri e malvestiti, che passavano il tempo oliando gli Sten e sorvegliando il sentiero che veniva dalla Ruata Moschieres. Mangiavano toma e castagne quando ce n’era, poi tiravano cinghia. La sentinella notturna fu inutile perchè un giorno salì la repubblica a tradimento, nell'ora più fredda e deserta dell'alba, e fucilò tutti sul posto. Dopo d'allora nessuno abitò più la borgata che fu avviluppata, una stagione dopo l'altra, da rovi impenetrabili anche d'inverno. Se non conoscevi il sentiero, l'unico, ti trovavi perso nei burroni, pieno di spine, affondato nelle foglie secche. Batista all'Oriente si sentiva fuori dai pericoli; riposandosi dal vagabondare. Seduto in un angolo, poteva guardar fuori - e aveva davanti agli occhi direttamente i castagni - o parlare con qualcuno, o stare zitto, in pace. L'osteria era insieme un porto di mare e una tana sicura, per una legione straniera di vecchi pastori e boscaioli, bracconieri stanchi, reduci taciturni, scampati a ogni sorta di guerre e strazi, e vite difficili, ribelli stanchi e delusi, ex prigionieri di cattive famiglie, in perenne fuga anche se seduti sulle vecchie cadreghe, ciascuno pieno di esperienze, cicatrici e malinconie. E ognuno aveva la sua da raccontare. Tistin, oste segaligno con un eterno cappello in testa, - cappello da marghè, di feltro ti162


rolese, grigio chiaro picchiettato di nero, con tese strette, un cordoncino intorno e infilata una piccola piuma di ghiandaia - ogni tanto spariva in cantina, da una botola dietro il bancone, scendendo una scala ripida. Nessuno era mai sceso laggiù oltre lui. La crota era vasta, con volte di mattoni; botti da una parte, damigiane piene e vuote, fiaschi spagliati negli angoli, file di bottiglie polverose di vetro nero di Poirino col bollo in rilevo, barattoli di pesche e albicocche in composta, peperoni sott'olio, conserve di pomodoro, cassette di mele, patate, castagne, una candela infilata in una spirale di fil di ferro. Odore di umido e ragnatele. Un filo di luce veniva da un finestrino a mezzaluna che guardava in strada. Tistin non era stato informato di quel fatto della Repubblica. Per lui c'era ancora il Re. Era un po' stupito che non fosse più venuto a caccia al camoscio in valle, ma non più di tanto. Si faceva gli affari suoi. L'osteria era aperta da sempre. Ci passavano già i contrabbandieri di sale al tempo del Marchese di Saluzzo, cacciatori di frodo, i pastori che andavano a comprare le mule al mercato di Arles, valligiani che d'estate andavano a raccogliere la lavanda in Provenza, muratori che facevano la stagione a Marsiglia. Batista, giocando lente partite a scopa, stava a sentire Bartolomeo dla Burera che raccontava della guerra d'Abissinia, e che belle erano le morette con quelle tette all'insù. <Ho ancora delle foto in un cassetto>, diceva con gli occhi furbi, e i Galla che guai a farsi catturare, perchè tagliavano le palle ai soldati e gliele infilavano in bocca per spregio. <Nella bassa Dancalia c'erano 60 gradi all'ombra, venivano le piaghe tropicali, e a Massaua si prendeva la malaria pernicio-

sa. Poi a Gura dormivamo nelle baracche, sul legno - raccontava per l'ennesima volta - e le jene di notte venivano ad annusarci i piedi. Si mangiava la galletta, il pane con la muffa verde, la minestra in scatola che era acida. E mi ricordo che una volta è arrivato un plotone di alpini che si sono buttati nel fiume Takazè per il gran caldo, e i coccodrilli ne hanno mangiati cinque>. E Francesco Grivet, detto Cecco dla Carlina. <Me car maramao, io mi ricordo che andavo a piedi alla fiera di Cuneo, quando non c'era ancora il viadotto Soleri e neanche il treno, e dovevi scendere a Stura e poi risalire. E dopo il mercato quando ero a Mondovì, andavo al caffè Cuneo, e una volta c'era una gara a scala quaranta con dei premi mai visti, una moneta d'oro in pesos messicani, un mezzo marengo austriaco e una medaglia d'oro da millimetri 17 e ho vinto proprio quella lì, teh!>, diceva sempre, e poi raccontava di Solferino e di quando era coi Cacciatori delle Alpi, con il sangue che arrossava le divise bianche degli austriaci, e quel colpo di baionetta che gli aveva trapassato un braccio che aveva ancora il segno adesso e gli faceva male quando cambiava il tempo. <Nei Balcani nel '42 caro te non c'era neanche un metro di strada asfaltata - raccontava Martino Arneodo soprannominato Cilindro, perchè parlava sempre di moto - e io andavo con la mia Guzzi estate e inverno, col Breda a tracolla, a portare gli ordini del colonnello in posti dove non arrivavano neanche i muli e quando tirava la bora ti sanguinava la faccia per il freddo. L'Alce era una gran moto, non come la Gilera Otto Bulloni che era alta e sbandava nel fango e nella neve. Dormivi tre ore su una branda e poi via di nuovo. Ci 163


davano 38 nazionali alla settimana, puntuali>. E il vecchio Barbou Titto, che aveva fatto il minatore nelle miniere di talco di Sapatlè, morte e sepolte, ripeteva la storia del ragazzo che con un colpo di fionda aveva abbattuto il Moro di Poirino, comandante di un plotone di archibugeri papisti in val d'Angrogna, alle Pasque Piemontesi, con i mercenari irlandesi inferociti che squartavano e mettevano alla graticola i Valdesi e portavano altri in catene, nelle segrete dei castelli della pianura. <E se non gli avessero tagliato la testa a quel bastardo vizioso del conte Bartolomeo Malingre di Bagnolo, che comandava tutte quelle canaglie, gliela taglierei io ancora adesso>. Quando cominciavano le nevicate Costanzo Audino, detto Tancio, contava immancabilmente che quando era giovane alle Grange della Maura, se moriva qualcuno lo avvolgevano in una coperta e lo mettevano tra le fascine aspettando di portarlo al camposanto in paese. Una storia che ripeteva sempre, ogni inverno. Fuori sui tetti di lose, verdini e rossicci per le muffe e i licheni che avevano impiegato cent'anni per spandersi in silenzio in grandi macchie colorate, si spargeva il fumo della stufa, e un buon odore di fascine bruciate. Gli unici stranieri accettati ogni tanto, erano quattro giovani indios boliviani, provenienti dal lontanissimo, diseredato distretto di Santa Ana de Chipaya sull'altopiano andino, dalle parti del Salar de Uyuni, il lago salato più grande del Sud America. Erano scuri di pelle, bassetti, capelli lunghi e nerissimi, con il poncho e cap-

pelli di feltro. Non ridevano mai. Stavano silenziosi intorno a un tavolo bevendo grappa e menta, o scambiavano brevi frasi in lingua quechua. Giravano i mercati suonando le struggenti musiche degli altipiani, con chitarra, quena, charango, tamburo. Nessuno sapeva come erano capitati all'Oriente, ma sapendoli montanari e profughi erano trattati come compaesani. Batista che era stato in Venezuela da giovane, gli chiese una volta se sapevano <Alma Llanera>, la vecchia canzone degli llanos, le pianure selvagge intorno a Puerto Ayacucho. Non la sapevano. Gli cantarono invece <Rey moreno> e <Auqui auqui>, ballate del confine cileno che Batista non aveva mai sentito. Allora Batista gli insegnò Baron Litron e ci fu uno scambio proficuo di musiche. Le Ande e le Alpi si mischiarono fraternamente. Alla fine, allegri e commossi anche da un litro di barbera, intonarono insieme <Maria Gioana> facile da imparare. E tutti avevano i lucciconi. Carlin era scappato dalla pianura tanti anni fa. Diceva di essere un diretto discendente del barone Von Leutrum, eroico difensore di Cuneo. Adesso faceva anche il suonatore ambulante; era un gran fabulatore, raccontava di Bianca Lancia di Agliano, moglie dell'imperatore, di Guglielmo Lungaspada, condottiero astigiano, che fu perfino re di Gerusalemme, dei feroci lanciferi di Federico Barbarossa. Nel suo orto parlava con le rape, e teneva rigorosamente separati i pomodori dai fagioli <perchè non vanno d'accordo>. Girava i boschi e baciava le betulle, <Prova una volta - diceva - la corteccia è 164


così liscia che sembra quasi di baciare una donna>, e faceva sonagli per i bambini con le galle secche dei roveri. Teneva soprattutto a far sapere che non era d'accordo con <quelli là sotto>. <Nel piano è come fossi stato trent'anni prigioniero in Siberia - strepitava dando dei pugni sul tavolo - Solo che faceva meno freddo. Magari non gliene frega niente a nessuno, ma a me sì, e quando sarò morto vorrei che si sapesse che a me non piacevano. Laggiù si lavorava nel rumore, ti muovevi per strada nei frastuoni, e il divertimento doveva essere un rumore ancora più grosso. Io ho mai guardato la tivu e ho anche sentito poco la radio, e al lunedì non potevo andare da nessuna parte perchè trovavo sempre dei balenghi che parlava solo delle partite di futbol e ti facevano diventare cretino e furibondo. Io non ho niente contro le robe moderne, ma se le comodità alla fine ti camolano il cervello allora non siamo più a posto. La gente non sa più neanche quando si raccolgono le patate e se vengono sottoterra o su un albero, e le donne fan cucina con robe che non sanno da dove vengono, perchè ormai c'è l'uva anche a Natale e i pomodori a gennaio. E non è quello il male, il male è che non sanno più le stagioni e cosa viene nell'orto quando è ora, e magari credono che la verdura cresce anche sotto la neve. Così gli vendono qualunque roba e sono tutti contenti. Là nel basso nessuno ti stava ad ascoltare, eri uno zero. E poi c'era sempre qualche bollettino da pagare. Va a finire che mettono le imposte anche sulle scoregge.

Io non pago più neanche la bolletta della luce che tanto non ce l'ho. Perchè se non conto niente, non pago niente>. All'Oriente non s'era mai visto un forestiero oltre i quattro indios. Solo una volta era passato un rappresentante che voleva vendere una macchina del caffè di quelle modernissime, a colonna, tutta cromata, con tanti beccucci di rame e un'aquila in cima. Era capitato chissà come una sera che nevicava. Aveva chiacchierato a lungo, tra una china calda e un grigioverde, mentre l'oste gli dava appena retta masticando il toscano. Poi alla fine se n'era andato scornato. Lo trovarono in primavera, stecchito in fondo a una riva di lamponi, ben conservato dal freddo dell'inverno, appena un poco rosicchiato da qualche volpe. Altri che avevano sentito parlare vagamente dell'Oriente avevano provato a cercarla ma erano stati sempre sviati. Anche uno della Finanza voleva controllare quell'osteria ribelle e fuorilegge, ma dopo aver chiesto a uno e all'altro, aveva fatto un lungo giro nel vallone dei Carbonieri e alla fine, dopo essere stato morsicato dal cane di Batista Picca Picon che non conosceva nessuno salvo il padrone e le sue capre, si era ritrovato in una torbiera con l'acqua fino alle caviglie e gli scarponi risucchiati dal muschio molle e profondo, ed era tornato in caserma stanco morto e infangato. Il brigadiere dei carabinieri l'aveva cercata per anni la cantina dell'Oriente, ma aveva sempre fatto fiasco; gli informatori dicevano che era un covo di disertori, meticci, rinnegati, e alle volte c'erano perfino dei negri. E dei comunisti. 165


Poi si era a convinto che magari era una fandonia inventata dai margari che, dopo la ďŹ era di San Chiaredo alla Madonna d'Agosto, facevano festa, compravano i campanacci nuovi per le bestie, e pieni di barbera le sparavano piĂš grosse che potevano.

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