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COME SE NIENTE FOSSE
lost sahaRAWI Un popolo senza terra, uno Stato senza nazione. E un muro, lungo 2.700 chilometri di pietre e sabbia, che divide un territorio (il Sahara Occidentale) dal suo popolo (i saharawi). È come una ferita questo muro di muri: quattro, cinque, sei cumuli che corrono paralleli nel deserto del Sahara, disseminati di oltre cinque milioni di mine e sorvegliati da 160 mila militari marocchini. L’hanno costruito negli anni Ottanta, per impedire gli attacchi dei miliziani saharawi e il ritorno dei profughi nella terra d’origine. Oggi il popolo saharawi vive in gran parte in esilio, così come il suo governo: duecentomila persone ammassate nei campi profughi nei pressi di Tindouf, in Algeria. Senza acqua, cibo, strutture educative e sanitarie adeguate... Dipendenza totale dagli aiuti umanitari. E un futuro molto incerto. Il dramma del popolo saharawi affonda le sue radici in epoca coloniale, quando la Spagna si ritagliò un suo piccolo dominio nel Sahara Occidentale, tra Marocco e Mauritania, in una regione controllata quasi esclusivamente dalla Francia. Con molto ritardo rispetto all’epoca delle indipendenze (1960), il 26 febbraio 1976, la Spagna si ritira definitivamente dalla colonia. Il giorno successivo, il 27 febbraio, viene proclamata dal Fronte Polisario la Repubblica Araba Saharawi Democratica (Rasd) Tuttavia, già l’anno precedente, in seguito alla cosiddetta “Marcia verde”, il governo di Rabat promuove
un’“invasione” pacifica del Sahara Occidentale, inviando 350 mila uomini. Ma è nel 1976 che Marocco e Mauritana occupano militarmente la regione, provocando l’esodo drammatico di migliaia di profughi verso il deserto algerino. Dopo alcuni anni di guerriglia e diversi attentati che interessano anche la capitale Nouakchott, il 5 agosto 1979 la Mauritania firma la pace con il Fronte di Liberazione di Saghia-el-Hamra e Rio de Oro, detto Fronte Polisario, nato nel 1973 per combattere per l’indipendenza dei saharawi e il riconoscimento della sovranità sulla loro terra. Il Marocco, tuttavia, ha continuato a rivendicare la sovranità su questa regione, rifacendosi a vicende storiche molto antiche. La dinastia degli Almoravidi, infatti, che regnò sul Marocco e sulla Spagna nel 1100, aveva portato avanti il sogno di realizzare il “Grande Maghreb”, comprendente non solo il Sahara Occidentale, ma anche alcuni territori dell’Algeria. Sin da allora i regnanti marocchini hanno continuato a considerare questa regione geograficamente come il sud naturale del Paese e storicamente come un territorio del “Grande Maghreb”. A ciò vanno aggiunti gli interessi economici, legati alla presenza di importanti risorse minerarie e a un tratto di costa tra i più pescosi dell’Africa. Le vicende coloniali e di decolonizzazione, legate alla Spagna, nonché le rivendicazioni marocchine non hanno certo favorito 2
una soluzione pacifica della questione del Sahara Occidentale. Anzi, hanno complicato alquanto la situazione, degenerata in un conflitto armato e nella costruzione del muro. Nel 1991, dopo quindici anni di combattimenti, si è arrivati alla firma del cessate-il-fuoco tra Marocco e Polisario. Il piano di pace prevede una consultazione popolare per l’autodeterminazione, compito affidato a una specifica Missione delle Nazioni Unite per il referendum del Sahara Occidentale (Minurso), ma finora lontano dal realizzarsi. Il Fronte Polisario - anche se ha abbandonato la lotta armata - continua a mantenere e addestrare un proprio esercito. Ma ora la battaglia si è spostata sul piano politico e diplomatico. Con scarsissimi risultati. Oggi, nonostante i colloqui in corso, il processo di mediazione e di pace ristagna. I nodi principali restano il consolidamento del muro da parte del Marocco, la realizzazione del referendum, la violazione dei diritti umani dei saharawi nelle zone “occupate”... Ma in gioco ci sono pure questioni economiche. Anche da questo punto di vista le rivendicazioni dei saharawi sono spesso disattese platealmente. Un esempio sono gli accordi di pesca che l’Unione Europea ha recentemente rinnovato con il Marocco per quanto riguarda le coste del Sahara Occidentale, sancendo di fatto l’appartenenza di questa rephogione al regno marocchino. E poi ci sono i fosfati: il Sahara Occidentale è una delle regioni più ricche al mondo di questo minerale e, grazie alle miniere di
Bou Craa, il Marocco è il terzo produttore mondiale. Ma anche a livello internazionale, non c’è una reale volontà di sbloccare una situazione complessa e controversa, che chiama in causa retaggi storici e interessi economici, mire egemoniche e orgoglio identitario. Da una parte come dall’altra. E in mezzo, ci sono centinaia di migliaia di profughi che ne pagano le conseguenze più drammatiche. Nel 2011, la Rasd ha celebrato i 35 anni della propria fondazione. Uno Stato che non c’è, con un governo in esilio. Ma che fa parte dell’Unione Africana ed è riconosciuto da 82 Paesi. «Viviamo in una condizione di grave privazione - sostiene il Presidente della Rasd Mohamed Abdelaziz -, innanzitutto della nostra libertà. Il nostro popolo subisce una situazione di sofferenza e oppressione, sia che si trovi nei campi profughi, sia che risieda nella zona “occupata” dal Marocco, sia che viva all’estero. Che cosa chiediamo? Libertà! Libertà di vivere nella nostra terra e di scegliere il nostro destino. Confidiamo nel sostegno della comunità internazionale, perché quella dei saharawi è una causa giusta di libertà e legalità». La sensazione, però, è che questo popolo sia sempre più dimenticato e abbandonato in mezzo al nulla di un deserto aspro e spazzato dal vento. Come se niente fosse. ANNA POZZI 3
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UN POPOLO IN ESILIO
UN POPOLO IN ESILIO
Un mondo color ocra, fatto di sabbia e di vento, di tende e di casupole. Di giorno tutto è piatto, fermo. Come fissato dal sole rovente e dalla luce abbacinante. Solo di tanto in tanto, e solo di sera o di mattina presto, viene ravvivato dai colori sgargianti degli abiti delle donne, dalle grida dei bambini, da qualche capra che vaga alla vana ricerca di un po’ d’erba. Oggi, circa metà della popolazione saharawi vive nei campi profughi nel sud dell’Algeria, suddivisa in quattro insediamenti maggiori (più altri che sono nati qua e là). Nei nomi ricordano le principali città del Sahara Occidentale da cui sono fuggiti nel 1976: El Ayun, Smara, Auserd, Dakhla. Un legame affettivo e della memoria che permette a questo popolo di rimanere simbolicamente unito alla sua terra. Nel frattempo, però, vivono sospesi in questi campi nel cuore del deserto, dove non si può coltivare nulla o quasi, dove si cerca di incentivare un poco di allevamento di capre, dove tutte le infrastrutture sono estremamente precarie. Dove non c’è lavoro. E non c’è futuro. Il domani è sospeso a una speranza e a un anelito che i lunghi anni di vita da profughi non hanno ancora spento. Ma che si fa sempre più flebile. La sopravvivenza è legata agli aiuti umanitari internazionali. Numerose ong stanno cercando, ormai da molti anni, di tenere desta l’attenzione del mondo sulla causa saharawi, oltre a portare nei campi
aiuti concreti. La maggior parte sono associazioni spagnole e italiane, che operano a diversi livelli. C’è chi distribuisce capre ad alcune famiglie, e chi ha avviato piccole serre per coltivare un po’ di frutta e verdura. Molte ong italiane, insieme alle agenzie delle Nazioni Unite, hanno dato vita a progetti e iniziative, specialmente nei settori dell’istruzione e della sanità, ma anche per promuovere un minimo di attività economica e di scambi commerciali locali e far sì che questo popolo non si ritrovi del tutto dipendente dagli aiuti umanitari. Ogni anno, viene organizzata anche la Sahara Marathon, un’iniziativa di sport e solidarietà, che porta nei campi profughi centinaia di atleti e militanti provenienti da una quindicina di Paesi. Anche l’Italia è sempre presente con decine di partecipanti, che corrono tra le sabbie del deserto, cercando di attirare l’attenzione del mondo sulla causa saharawi. Nella maratona vengono coinvolti anche i bambini, che vivono così un momento di svago e di festa, che li distrae dalla monotonia della vita dei campi. Per loro sono previsti anche periodi di accoglienza presso famiglie italiane durante le vacanze estive. Un modo per creare legami di amicizia e solidarietà e far sì che le famiglie saharawi si sentano un po’ meno abbandonate a loro stesse.
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SGUARDI DI DONNA
SGUARDI DI DONNA Un sentimento di orgoglio e di libertà. Lo si respira, nonostante tutto, nei campi profughi saharawi. E lo si deve soprattutto alle donne, che ne rappresentano la spina dorsale. Qui, l’organizzazione è in buona parte sulle loro spalle. Donne coraggiose e dinamiche, come Nuena, fuggita dal Sahara Occidentale nel 1976, sotto le bombe marocchine. Suo marito è rimasto ucciso e lei è arrivata nei campi senza nulla. «Io e le altre donne abbiamo dovuto strappare i veli per coprire i nostri figli», racconta Nuena, che ha perso anche il secondo marito in guerra mentre il terzo è stato ferito. Nonostante ciò, è ancora energica e battagliera. «Noi donne abbiamo accettato la sfida di assumerci grandi responsabilità nelle strutture del nuovo Stato, per dare un futuro ai nostri figli e trasmettere loro l’orgoglio di appartenere al popolo saharawi». Militante sin dalla prima ora, Nuena continua, insieme alle altre donne, a proteggere e organizzare la vita dei campi. Su di loro si regge la fragile economia familiare, ma anche la trasmissione della cultura, delle tradizioni e della storia saharawi. Anche perché molti uomini sono morti e tanti giovani sono partiti per il servizio militare. «Se chiedi libertà, devi sapere che ha un prezzo: tuo marito, tuo padre, un figlio o un amico - dice Nuena -. Se lotti per la libertà, sai che devi pagarla molto cara. E le donne saharawi conoscono molto bene il prez-
zo salato di questa libertà». Nuena esce dalla sua casa, una grande stanza spoglia ma accogliente, con il pavimento coperto da tappeti. La sua melfa, il grande velo colorato che avvolge le donne saharawi, svolazza nel vento, mentre il crepuscolo infuoca la sabbia del deserto e disegna pennellate di rosso fiammeggiante tra le nubi del cielo. Salka, invece, è nata nei campi, e la storia del suo popolo l’ha sentita raccontare come una fiaba triste di morte e di esilio. Nuena e Salka rappresentano due generazioni di donne che sognano una patria che non c’è. «Non so quando il popolo saharawi rivedrà la sua terra», racconta Salka, mentre prepara l’immancabile tè, versato tre volte: amaro come la vita, dolce come l’amore, soave come la morte. Un rito d’accoglienza che viene prima di tutto. «Non so - insiste - quando mia madre rivedrà El Ayun, la città dove è nata e da cui è scappata all’età di 16 anni. L’immagine che ne ho è stata costruita da piccola, con i racconti delle nonne, delle mamme, di chi veniva dal Sahara Occidentale. L’immagine di una terra che in realtà non so neppure se è proprio così. La nostra fiaba era il Sahara Occidentale. Si parlava solo di questo, giorno e notte. Con colori, suoni, personaggi… E con un finale che non c’è, che è ancora tutto da scrivere».
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MURO DELLA VERGOGNA
MURO DELLA VERGOGNA Non lo si vede ma c’è. Come una ferita nella terra e nell’anima di un popolo. Taglia il deserto per oltre 2.700 chilometri; divide in due i saharawi da quasi quarant’anni. Lo chiamano il “muro della vergogna”. In realtà sono molti muri: tre, quattro, persino sei, scavati più che costruiti. Alti poche spanne, corrono paralleli e invalicabili in mezzo al deserto, disseminati di cinque milioni di mine e di 160 mila militari marocchini. Occorre avvicinarsi per rendersi conto della lucida follia con cui trent’anni fa si è costruito un altro muro. Per dividere, per generare odio, per sfidare la storia e umiliare un popolo. Ancora oggi invalicabile. Concretamente e simbolicamente. L’ha costruito il Marocco negli anni Ottanta per “proteggersi” dagli attacchi dei militanti del Polisario, esperti di guerriglia e di attentati. È il risultato del conflitto, iniziato nel 1976, quando il governo di Rabat decise di occupare il Sahara Occidentale appena liberato dai coloni spagnoli. Ma è anche il simbolo di una disputa incancrenita che nessuno riesce - o ha interesse - più a sanare. A protezione del muro, il governo marocchino ha posto migliaia di militari, ma soprattutto milioni di mine anti-uomo, molte di fabbricazione italiana. Ancora oggi, nonostante le bonifiche fatte dai militari saharawi con metodi tradizionali, queste mine continuano a pro
vocare decine di morti e feriti. Al punto che la Scuola per vittime di guerra, vicina al campo di Rabouni, continua ad accogliere persone che portano i segni indelebili del conflitto che dal 1976 al 1991 ha segnato per sempre un intero popolo, e di quel muro che ancora oggi non solo divide, ma ferisce e uccide. Una donna, mutilata da una mina, racconta della sua fuga nella cosiddetta zona “liberata”, al confine tra Marocco e Mauritania. Vive da molti anni nella “Scuola” insieme ad altre 150 persone, tutte con i segni di quelle mine. Makathari, nella stanza accanto, è paralizzato dal 1980. Una scheggia si è conficcata nella sua colonna vertebrale. Lo spirito, però, resta battagliero: «Non chiediamo cose impossibili, ma normali e giuste. Stiamo aspettando da più di 35 anni una soluzione trasparente ed equa. Ma c’è un limite anche alla pazienza. Ormai siamo esasperati. Il silenzio di molti ci fa male. Assomiglia molto a una complicità». Confinata nel cuore di questi campi profughi nel deserto algerino, la voce del popolo saharawi fa fatica a superare non solo il “muro della vergogna”, ma anche quello dell’indifferenza e della disattenzione del resto del mondo. E il loro grido di libertà e giustizia si perde inascoltato nel grande vuoto sahariano. 43
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STORIA DI UN INCONTRO
STORIA DI UN INCONTRO Cinque giorni insieme, dopo 35 anni di attesa. È festa grande presso la famiglia di Mohammed. I suoi parenti sono arrivati nei campi profughi provenienti dal Sahara Occidentale, grazie ai programmi di ricongiungimento promossi dalla Minurso. Famiglie divise da un muro che finalmente possono riabbracciarsi. Anche se per poco. Come quella di Mohammed, molte altre famiglie saharawi sono state divise nel 1976 e non si sono mai più riunite. Genitori, figli, nonni, parenti vari hanno passato lunghi anni senza la possibilità di vedersi, sentirsi, avere notizie. Qualcuna è riuscita a ricongiungersi. Almeno per qualche giorno. Almeno una volta nella vita.
di persone di cui non si hanno più notizie. Bouamoud ha rischiato di fare la stessa fine. Viene dai territori “occupati” e racconta una storia agghiacciante. Quella di una retata della polizia marocchina e dello stupro della madre e della sorella, davanti ai suoi occhi. Lui stesso dice con gli occhi bassi che si riempiono di lacrime - ha subito una brutale violenza sessuale. È riuscito a venire in Algeria per farsi curare, ma ora vuole rientrare nel Sahara Occidentale, anche se rischia la prigione. «Sono il figlio maggiore e ho delle responsabilità nei confronti della mia famiglia, ma temo per quello che potrebbe capitarmi».
E allora è festa grande. Mohammed ha ingaggiato persino un complesso musicale. Gli amplificatori lasciano un po’ a desiderare e il concerto deve fare i conti con i tempi limitati dei generatori di corrente. Ma è festa comunque. Tutti danzano. Le ragazze, in particolare, avvolte nei loro bei veli colorati, si muovono flessuose come farfalle nel vento. Per un po’ si mettono da parte fatiche e preoccupazioni. Nei campi profughi, però, sono arrivati anche alcuni militanti, che vivono dall’altra parte del muro, nel Sahara Occidentale. E con loro portano storie di sofferenze e soprusi. Bouamoud è uno di loro. È un ragazzo magro ed emaciato. È ospite dell’Associazione delle famiglie dei presunti spariti saharawi che si occupa di almeno 500 casi
Anche Ahmed racconta di aver subito una pesante aggressione da parte della polizia, che lo ha rinchiuso in cella senza formali accuse. «Prigionia, tortura, umiliazioni e insulti - si sfoga di fronte a un gruppo di coetanei -. Siamo stati sbattuti all’interno di terribili campi di concentramento e prigioni. Ma coloro che giacciono nelle carceri marocchine vi sono entrati con dignità, fierezza e orgoglio». Poi Ahmed si calma ed emerge allora anche un velo di frustrazione e di sconforto: «Speriamo che la comunità internazionale faccia tutte le pressioni necessarie per arrivare a una soluzione», dice avvilito. Ma in fondo non sembra crederci molto neppure lui. 55
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DESERTO DI SOLITUDINE
DESERTO DI SOLITUDINE C’è molto fermento nei campi profughi. Tutti si preparano per il grande trasferimento: autorità, militari, civili, ospiti stranieri si avventurano per centinaia di chilometri su piste impercettibili, tra sabbia e vento, per raggiungere il villaggio di Tifariti, nel cuore di quella che i saharawi chiamano la zona “liberata”. Si tratta di una stretta striscia di terra che corre a sud del Marocco, tra il muro e il confine mauritano. Nel 2011, in occasione dei 35 anni di fondazione della Repubblica Araba Saharawi Democratica (Rasd), i leader del Polisario hanno voluto che le celebrazioni si tenessero proprio in questo angolo di deserto sassoso, inospitale e sostanzialmente disabitato. Ma l’unico che appartiene solo a loro. Qui vivono poche famiglie di pastori nomadi, che si spostano con le loro mandrie di cammelli e le loro tende. Mentre il governo della Rasd cerca di incentivare il trasferimento dei profughi per dare loro una prospettiva di futuro e di libertà. Anche per questo, in occasione dell’anniversario della Repubblica, hanno fatto un grande sforzo per arrivare sin qui, con dispiegamento di bandiere, divise, parate militari, lunghi discorsi di orgoglio nazionale e identitario. L’inevitabile retorica, però, nasconde solo in parte l’orgoglio di un popolo che crede davvero in una causa di giustizia e libertà. E che rivendica la propria scelta pacifista, in una regione in grande fermento, percorsa da gruppi di terroristi islamici sempre più ag
gressivi e violenti. Originari dello Yemen, i saharawi sono musulmani sunniti al cento per cento; un popolo molto religioso che tuttavia ha conservato dalla tradizione nomade un sentimento di libertà che li rende più aperti e tolleranti anche nei confronti della religione. Oggi, però, le cose potrebbero cambiare. Negli ultimi tempi anche i saharawi hanno dovuto fronteggiare l’avanzata di un islam più radicale, che nella regione sahariana si è organizzato in formazioni terroristiche, dedite al traffico di droga, armi e migranti, oltre che al rapimento di occidentali. È quanto è successo il 23 ottobre 2011 nel campo di Rabouni, dove alcuni esponenti del gruppo estremista Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) hanno rapito tre volontari, due spagnoli e l’italiana Rossella Urru, poi liberati il 18 luglio 2012. Questa vicenda ha fatto balzare la causa del popolo saharawi agli onori della cronaca. Ma solo per un breve momento. In fondo a questo deserto aspro e ostile, la loro voce di denuncia e di fierezza fa fatica ad arrivare ai centri di potere di un mondo concentrato su altre crisi, ritenute certamente più interessanti dal punto di vista geopolitico, strategico ed economico. E rischia di rimanere inascoltata ancora per lungo tempo.
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DOCUMENTARIO
LOST SAHARAWI
1 - Una grande bandiera saharawi viene fatta sventolare in occasione del 35° anniversario della proclamazione della Repubblica Araba Saharawi Democratica (Rasd). 4 - Panoramica al tramonto sul campo profughi di Smara, nelle vicinanze di Tindouf, in territorio algerino. 5 - Un militare saharawi nei pressi di una zona di muro liberata dall’esercito del Polisario, nella 2ª regione militare dei territori “liberati”, non lontano dal villaggio di Tifariti. 6 - Vecchi container di aiuti impilati nel deserto, nei pressi dei campi profughi. 7 - Militari saharawi a Tifariti per le celebrazioni del 35° anniversario della proclamazione della Rasd. 8 - Un recinto per le capre nel campo profughi di El Ayun.
11 - Militare saharawi in una stanza del presidio di Tifariti, in una zona “liberata”. Sullo sfondo l’ombra di una teiera.
22 - Un ragazzino della scuola coranica della moschea nel campo profughi “27 febbraio” in territorio algerino.
14 - Tende di famiglie saharawi nel campo profughi di Dakhla. 15 - Tramonto sul campo profughi di Smara. 16 - Tramonto sul campo profughi di Smara. 17 - Una donna cammina al crepuscolo nel campo di Smara. 18 - Tende e casupole si fiancheggiano nel campo profughi di Smara. 19 - Nuena, una delle responsabili della distribuzione degli aiuti nel campo profughi di El Ayun, insieme alla direttrice di una scuola elementare.
9 - Un ragazzino gioca nel campo profughi di Smara.
20 - Un ragazzino si ripara dal sole in attesa di sfilare in occasione dell’anniversario della proclamazione della Rasd.
10 - Esplosione dimostrativa di 1.600 mine anti-uomo a Tifariti,
21 - Una bimba tra due poliziotte saharawi nel campo profughi di Smara.
23 - Festa nel campo profughi di Smara per il ricongiungimento, dopo anni di lontananza, di due famiglie saharawi separate dal muro. 24 - Un allevatore di cammelli nei territori del Sahara Occidentale “liberati”. 25 - Ragazzi disabili in un apposito centro di recupero nel campo profughi di Smara. 26 - Macelleria nel campo profughi di Smara. 27 - Coltivazioni in una serra creata grazie agli aiuti umanitari nel campo profughi di Dakhla. 28 - Alcuni ragazzi posano per un ritratto in uno studio fotografico improvvisato del campo profughi di Smara. 29 - Una tenda illuminata nella notte nel campo profughi di Layoune. 32 - Anziana saharawi che vive in una tenda nei territori “liberati”. 76
33 - Alcune donne saharawi manifestano nel campo profughi di Dakhla in occasione delle cerimonie per la fondazione della Rasd.
41 - Una agazza saharawi in abito tradizionale nel campo di Dakhla.
34 - Una ragazza saharawi a bordo di un’automobile a Tifariti; sul parabrezza si riflette la bandiera saharawi.
44 - Militare saharawi nei pressi di una zona di muro “liberata”, non lontano dal villaggio di Tifariti.
35 - Donne saharawi manifestano nel campo profughi di Dakhla in occasione delle cerimonie per la fondazione della R a s d .
45 - Militare saharawi nei pressi di una zona di muro “liberata” dall’esercito del Polisario, non lontano dal villaggio di Tifariti.
36 - Tra i saharawi anche le donne sono parte dell’esercito o della polizia.
46 - Scultura raffigurante un simbolico cavallo di Troia, pronto a sconfiggere il Marocco con l’astuzia, in una zona di territorio “liberato”.
37 - Un reparto femminile dell’esercito saharawi sfila ordinato a Tifariti. 38 - Donne saharawi con un manifesto di Aminata Haidar, una delle donnesimbolo della resistenza saharawi.
47 - Militare saharawi di guardia in un avamposto nei pressi del muro marocchino nei territori “liberati” del Sahara Occidentale,
39 - Nuena, una delle responsabili della distribuzione degli aiuti nel campo profughi di El Ayun.
48 - Militare saharawi scopre una mina nei pressi di una zona di muro “liberata” . 49 - Una mina di fabbricazione italiana estratta da un militare saharawi.
51 - Fisioterapia presso la Scuola delle vittime di guerra nei pressi del campo profughi di Rabouni. 52 - Mutilati ricoverati presso la Scuola delle vittime di guerra nei pressi del campo di Rabouni. 53 - Ragazze, vittime di mine anti-uomo, si allenano a camminare con una protesi presso la Scuola delle vittime di guerra. 56 - Il ricongiungimento di una famiglia che vive separata da anni, una parte nei campi profughi algerini e un’altra nei territori del Sahara Occidentale “occupati” dal Marocco. 57 - Il ricongiungimento di una famiglia che vive separata da anni, una parte nei campi profughi algerini e un’altra nei territori del Sahara Occidentale “occupati” dal Marocco. 58 - Il ricongiungimento di una famiglia che vive separata da anni, una parte nei campi profughi algerini e un’altra nei territori del Sahara Occidentale “occupati” .
40 - Alcune ragazze saharawi nel campo profughi di El Ayun.
50 - Militari marocchini lungo il muro di 2.700 chilometri che costituisce la prima linea di fortificazioni.
59 - Decorazioni con l’henné sulle mani di una giovane ragazza per la festa di ricongiungimento familiare. 77
60 - Il felice momento di una giornata di danze, canti e musica per festeggiare il ricongiungimento familiare. 61 - Assemblea nel campo profughi di Dakhla di un gruppo di attivisti che vivono nei territori del Sahara Occidentale “occupati”dal Marocco. 64 - Un militare del Polisario durante la preghiera in un avamposto della 2ª regione militare nei territori “liberati” del Sahara Occidentale. 65 - Un saharawi sta pregando sulla tomba di suo padre ucciso durante la fuga dai bombardamenti marocchini nel 1976, in una zona di territorio “liberata” del Sahara Occidentale.
69 - Tempesta di sabbia lungo la pista per Tifariti. 70 - Una delle scuole militari dove la maggior parte dei giovani saharawi vengono periodicamente addestrati all’uso delle armi dall’età di 19 anni. 71 - La complicata cerimonia del tè in una scuola militare.
Si ringraziano sentitamente l’Associazione di volontariato Tre.Ca.Sma di Trento e la Provincia Autonoma di Trento - Servizio Emigrazione e Solidarietà Internazionale per la fattiva collaborazione e il sostegno senza il quale questo progetto multimediale non avrebbe potuto prendere forma.
Tre.Ca.Sma
72 - La grande parata militare a Tifariti in occasione del 35° anniversario della proclamazione della Rasd. 73 - Carro armato marocchino distrutto dai saharawi durante la guerra tra il 1976 e il 1991, in una zona di territorio “liberata” del Sahara Occidentale.
66 - Una delle famiglie nomadi che vivono nelle loro tende nei territori “liberati” 67 - Un militare sta pregando in una postazione della 5ª regione militare dei territori “liberati” nel Sahara Occidentale. 68 - Militari e civili saharawi a Tifariti per le celebrazioni del 35° anniversario della proclamazione della Rasd. armi dall’età di 19 anni.
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Tutte le foto © Copyright Bruno Zanzottera/Parallelozero Tutti i testi © Copyright Anna Pozzi
Coordinamento e cura editoriale: Parallelozero - Divisione Libri Direzione tecnica: Studio LeftHand - Milano Progetto grafico e art direction: Studio LeftHand - Milano
ISBN: 9788898512010 © Copyright 2012/2013 - Parallelozero - Divisione Libri Tutti i diritti riservati/All rights reserved Parallelozero srl, via Donatello 19/a - 20131 Milano Tel. +39 02 89281630 - Fax +39 02 89281636 e-mail: info@parallelozero.com Sito web: www.parallelozero.com
All’indirizzo internet http://vimeo.com/33902829 è possibile vedere il documentario “Saharawi, 35 anni di solitudine” realizzato da Parallelozero nei campi situati nel sud dell’Algeria e nei territori liberati lungo il Muro. Testimonianze dirette e storie di ordinaria sopravvivenza raccontate da chi vive da piú di tre decenni in attesa di una soluzione politica che non arriva mai. Riprese video di Davide Scagliola, foto di Bruno Zanzottera, testi di Anna Pozzi.
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