Tesi

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Partito Comunista Popolare Tesi politiche Essere comunisti oggi Essere comunisti, oggi, significa ispirarsi al pensiero ed all’opera di Marx, Engels, Lenin e Gramsci e rivisitare in senso critico ma non liquidatorio la storia del movimento operaio e comunista, traendo dalle indicazioni che ci vengono dal passato ispirazione per l’azione politica presente e futura. Bisogna, senz’altro, attualizzare l’analisi della natura della contraddizione capitale-lavoro che è la leva del divenire storico, ma bisogna assumere nel nostro bagaglio analitico e propositivo altre contraddizioni economiche e sociali strettamente interconnesse alla prima ma dotate di una loro specificità, quali la contraddizione del rapporto uomo-natura da cui si è sviluppata, nel corso del novecento, la questione ambientale, la contraddizione insita nella differenza di genere, la contraddizione derivante dalle diverse abitudini sessuali e la necessità del riconoscimento dei diritti civili e sociali di tutti gli esseri umani, tanto per citare le più significative che sono oggetto, nella nostra epoca, di dibattito e di scontro politico e sociale. Si tratta cioè di attrezzarsi culturalmente e politicamente per combattere la quotidiana battaglia per l’egemonia contro le idee delle classi dominanti nella attuale società capitalistica. Nel corso del XIX secolo, il pensiero e l’opera di Marx ed Engels hanno posto le basi scientifiche del movimento operaio e comunista, analizzando il funzionamento e gli sviluppi storici della società umana divisa in classi, scoprendo la possibilità storica di un suo superamento sulla base della conquista del potere da parte del proletariato come classe sociale priva di privilegi da difendere e perciò in grado di liberare dallo sfruttamento di classe della borghesia se stessa e tutta la società umana, costruendo un ordinamento economico e sociale fondato sull’uguaglianza, la giustizia sociale e la vera libertà, chiamato socialismo e comunismo. Sul finire del secolo ed all’alba di quello successivo, pensatori provenienti dalle file del movimento operaio e socialista, quali Bernstein e Kautsky, hanno elaborato un pensiero politico fondato sulla revisione dei capisaldi delle idee dei fondatori del socialismo scientifico, spingendo il movimento operaio a limitare la propria azione entro i confini di una “riforma sociale” del sistema capitalistico stesso. A questo approdo, si è opposto il pensiero e l’opera di Lenin che ha compiuto una vera e propria opera di ricerca e riscoperta del pensiero e del messaggio politico dei padri fondatori del marxismo, restituendo, così, alla lotta del proletariato il suo obiettivo storico fondamentale della conquista del potere al fine di costruire una vera alternativa di società. La costruzione del socialismo, avviata in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre in Russia nel 1917, ha costituito il primo tentativo, dopo la breve esperienza della Comune di Parigi, di dare attuazione a tale prospettiva tra mille difficoltà e contro potenti nemici di classe, nazionali ed internazionali, ben intenzionati a non perdere i loro privilegi. Non è un caso che l’Unione Sovietica nasca, dopo la vittoria del nuovo regime proletario, nel periodo compreso fra le due guerre mondiali scatenate dall’imperialismo, durante il quale per ben due volte, nel 1918/20 e nel 1941/45, coalizioni di stati capitalisti abbiano invaso il territorio del primo Stato Socialista al fine di distruggerlo e mantenere così il dominio incontrastato sul mondo.


La costruzione del socialismo, perciò, ha dovuto svilupparsi in un contesto di corsa contro il tempo fra una invasione e l’altra, avendo saputo, la direzione politica dell’URSS, prevedere le intenzioni e scoprire i piani d’invasione della Germania nazista, ma visti, per lungo tempo, con simpatia anche dalle potenze cosiddette “democratiche”. Per queste ragioni, da un lato va riconosciuto il successo, negli anni 30 del XX secolo, della costruzione di una economia pianificata e socializzata che ha portato l’URSS a diventare nel 1937 la seconda potenza industriale del mondo dopo gli Stati Uniti d’America, producendo e distribuendo ricchezza secondo i nuovi valori del socialismo, quali l’uguaglianza e la giustizia sociale, d’altro canto, non si può disconoscere il fatto che le forme, i modi ed i tempi di costruzione di questo nuovo ordinamento sociale siano stati tali da provocare, oltreché innumerevoli successi, anche disagi e sofferenze umane che, pur in presenza di una acutizzazione della lotta di classe nel socialismo stesso, si sarebbero potuti evitare in un diverso contesto interno ed internazionale. Dopo la Seconda Guerra Mondiale e la vittoria sul nazi-fascismo, con la cosiddetta “guerra fredda”, le potenze capitaliste ed imperialiste, in special modo Stati Uniti d’America e Gran Bretagna, riassunsero un atteggiamento apertamente ostile nei confronti dell’URSS, che peraltro non avevano mai totalmente dismesso anche durante lo svolgimento della guerra. Ora, nel dopoguerra, tuttavia, l’URSS risultava rafforzata da un elevato prestigio internazionale acquisito durante la eroica e sanguinosa resistenza alla invasione nazi-fascista ed alla successiva vittoria, ma anche da un nuovo anello di protezione di Stati socialisti costruiti nell’est europeo dopo la fine del conflitto. Tuttavia, proprio in questi anni di riacutizzazione della lotta di classe a livello internazionale, dentro l’URSS, cominciarono a maturare concezioni, relativamente alle relazioni internazionali fra gli stati ed ai rapporti economici e sociali nella costruzione del socialismo, improntate alla sottovalutazione della aggressività dell’imperialismo ed al riconoscimento della rinnovata utilità di meccanismi e misure “di mercato” al fine di dinamizzarne lo sviluppo. Si aprì, così, un periodo complesso e contraddittorio che vide da un lato, negli anni ’50 e ’60, rifiorire ed arricchirsi di nuovi successi il movimento operaio e comunista nel mondo, anche grazie al rafforzamento del campo socialista ed allo sviluppo del movimento nazionale di liberazione contro il colonialismo e l’imperialismo ( resistenza operaia e popolare nei paesi capitalistici, solidarietà internazionalista nella guerra di Corea e rinnovate conquiste sociali e tecnologiche nei paesi socialisti, fino ad arrivare, da parte dell’URSS al lancio del primo uomo nello spazio, Jury Gagarin nel 1961), ma, dall’altro, comparire quei germi infettivi sopracitati, pericolosi per il movimento operaio e comunista nel suo insieme. Il percorso che si dipanò dagli anni ’60 fino alla fine degli anni ’80 che videro la fine dell’esperienza socialista nell’est europeo, è segnato permanentemente da tale contraddizione, fino al precipitare degli eventi nel suo esito negativo della piena restaurazione del capitalismo nel biennio 89/91. Lo studio e l’analisi approfondita delle cause che portarono al fallimento del socialismo costruito nel XX secolo sarà un lavoro che impegnerà più generazioni di studiosi e militanti del movimento operaio e comunista, ma è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, per ridare credibilità e forza attrattiva alla lotta per il socialismo ed il comunismo nel mondo. In ogni caso, il nostro impegno di ricostruzione del movimento comunista riparte da un contesto


caratterizzato da grandi difficoltà ma, anche, da grandi potenzialità per la ripresa della lotta popolare contro il capitalismo e per un mondo nuovo. Qui, si colloca, anche, il nostro lavoro per la ricostruzione, nel nostro Paese, di un partito comunista autenticamente popolare che sappia collocarsi efficacemente nella società, raccogliendone le pulsioni e le istanze di protesta, di richiesta di giustizia e libertà, al fine di trasformarle in un grande movimento di lotta in grado di riportare all’ordine del giorno dell’attualità politica la prospettiva della rottura del sistema capitalistico e l’avvio della costruzione di una società socialista. Per costruire un tale partito e perseguire tali obiettivi, occorre ristabilire il primato del ruolo di una moderna cultura comunista e di un programma di trasformazione sociale che sappia dare risposte convincenti ai bisogni popolari. Politica Internazionale Il nostro Paese, come tutti quelli della Unione Europea ed a sistema capitalistico a livello mondiale, è attraversato dalla più grave, acuta e prolungata crisi che non si sia manifestata dopo quella degli anni ’30 del secolo scorso che sfociò nella seconda guerra mondiale. Quindi, il primo dato da cui fare partire le nostre definizioni programmatiche è quello che riconosce il capitalismo imperialista globale come fonte permanente di guerra, nella incessante contesa delle sue frazioni per controllare e finalizzare ai propri interessi la ricchezza del mondo. Gli Stati Uniti d’America, costituiscono, oggi nel mondo, a livello statuale e di sistema socioeconomico, la rappresentazione dell’aggregazione imperialistica più forte ed aggressiva. L’Unione Europea è lo strumento con il quale il capitalismo monopolistico europeo persegue i suoi interessi. Ma anche i Paesi, riconosciuti oggi sotto la sigla BRICS, esercitano un ruolo di competizione a livello internazionale da una posizione imperialista ed attraverso i meccanismi della concorrenza inter imperialistica, per cui, la necessità di assicurarsi il controllo delle risorse strategiche e dei mercati di sbocco, comune sia ai BRICS che agli imperialismi tradizionali, sfocerà, prima o poi in un confronto militare. Di fronte a tale prospettiva, i comunisti ed il movimento operaio hanno come unica arma con cui combattere l’internazionalismo proletario inteso come solidarietà delle lotte popolari a livello mondiale e dei partiti comunisti nella loro iniziativa. In Europa, a partire dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso, con l’Atto Unico Europeo, e poi con il Trattato di Maastricht del 1992 e con l’ingresso dell’Italia nel sistema dell’euro, abbiamo visto le principali istituzioni sovranazionali ed i Governi dei paesi aderenti all’Unione imporre ai lavoratori ed ai popoli i più gravi sacrifici in termini di attacco ai livelli occupazionali, ai redditi ed al potere di acquisto di salari, stipendi e pensioni, di smantellamento della rete dei servizi sociali e dei sistemi produttivi ed industriali attraverso una politica di privatizzazioni che hanno concentrato la proprietà e l’uso della ricchezza prodotta dal lavoro nelle mani dei gruppi monopolistici bancari ed industriali privati. Perciò, come primo atto di una politica economica alternativa, è necessaria l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea e dalla Unione Monetaria Europea (sistema dell’euro) per conquistare la sovranità politica ed economica del Paese e poterne utilizzare tutte le potenzialità di sviluppo economico e sociale.


E’, inoltre, necessaria l’uscita dell’Italia dalla NATO per poter disimpegnare il nostro Paese da tutte le missioni di guerra all’estero e chiudere tutte le basi militari straniere e poter, così, perseguire una politica estera antimperialista e di solidarietà con i popoli e gli Stati aggrediti o minacciati nella loro integrità e sovranità da qualsivoglia Stato appartenente ad una delle diverse aggregazioni imperialistiche a livello mondiale. Politica del lavoro e dello sviluppo economico L’uscita dalle organizzazioni politiche, economiche e militari imperialiste, permette ad un governo espressione dei più autentici interessi popolari di attuare misure di politica economica in grado di rilanciare uno sviluppo economico che soddisfi i principali bisogni popolari. A tal fine, è necessario reperire le risorse economiche che possono essere trovate attraverso le seguenti misure di politica economica: La nazionalizzazione, senza indennizzo, delle banche, delle società finanziarie, dei fondi speculativi, delle assicurazioni, delle grandi aziende e dei settori strategici di rilevanza nazionale, oltreché delle aziende che hanno delocalizzato all’estero. La competenza statale sul commercio estero necessaria per salvaguardare gli interessi nazionali sulla base del reciproco vantaggio e parità di rapporti nei confronti dei partner internazionali. La lotta alla corruzione nell’apparato statale e nella pubblica amministrazione, con la confisca del patrimonio sia del corrotto che del corruttore. Con queste premesse sarà possibile e necessario abrogare tutte le leggi che legittimano la precarietà del lavoro e ripristinare il Contratto Nazionale Collettivo di Lavoro come strumento di garanzia della stabilità del posto di lavoro, superando tutte le forme di false cooperative che inglobano super sfruttamento e precarietà del lavoro. Sarà, poi, necessario istituire, attraverso legge dello Stato, un salario minimo garantito, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e contributi ed il ripristino dell’indicizzazione dei salari al costo della vita (scala mobile). Per le piccole imprese, andranno attuate politiche di sostegno alla ricerca applicata ed alla innovazione, di prodotto e di processo, favorendone la concentrazione e l’integrazione in forme associate consortili o cooperative, al fine di permettere loro l’acquisizione di economie di scala, con la diretta partecipazione ed il controllo dei lavoratori e nel pieno rispetto dei diritti sindacali. Politiche fiscali Oggi, in un quadro di economia capitalistica, la pressione fiscale grava sia sui lavoratori dipendenti ed i pensionati che sul lavoro autonomo e le piccole imprese. Questo fenomeno si potrebbe superare se lo Stato, in quanto detentore e pianificatore dell’utilizzo della ricchezza prodotta dai lavoratori nelle imprese socializzate, si trovasse nella condizione di potere, fin da subito allentare, poi ridurre ai minimi termini, fino alla totale abolizione del prelievo fiscale, lasciando a tutti i lavoratori il godimento integrale del valore del proprio salario o stipendio, ai


pensionati delle proprie pensioni ed ai lavoratori autonomi ed alle piccole imprese della differenza costi-ricavi derivante dalla loro attività. Perciò si può dire che il socialismo è l’unico sistema in grado di eliminare l’oppressione fiscale oltreché lo sfruttamento di classe dei lavoratori, come dimostrato anche nella esperienza storica del novecento degli Stati socialisti. La questione ambientale Verso la metà del XIX secolo ed ancor più nel XX secolo, in Europa maturò la consapevolezza dell’impatto sull’ambiente delle attività economiche umane, dovuto essenzialmente a due motivi: a) l’accelerazione della attività economica umana che, con la Rivoluzione industriale, iniziata nella seconda metà del settecento, aveva portato alla sostituzione dell’energia animale; b) l’accrescimento della popolazione mondiale nello stesso periodo. Engels, nella sua opera” La condizione della classe operaia in Inghilterra” (1845), descrisse con dovizie di particolari la condizione di esistenza di un degrado sociale ed ambientale nelle città inglesi investite dalla Rivoluzione industriale, così come il cubano José Martì e l’inglese Herbert George Wells si interrogarono sull’impatto che questi fenomeni avrebbero avuto sulla natura. Nel XX secolo, l’economia mondiale è cresciuta di 120 volte rispetto a quella del 1500 e gran parte di questa espansione economica è stata trainata dalla crescita della popolazione mondiale, ma la Rivoluzione industriale ha operato un cambiamento radicale perché ha introdotto delle macchine in grado di convertire in potenza meccanica i giacimenti di energia della biomassa accumulati nella crosta terrestre nel corso di centinaia di milioni di anni, cioè i combustibili fossili, mentre, in definitiva, tutta l’energia a disposizione è nucleare, provenendo da una reazione di fusione nucleare che ha luogo nel sole. La macchina a vapore attinse alle riserve accumulate in milioni di anni di fotosintesi e bruciò carbone convertendo energia chimica in energia meccanica. Nel novecento, un’altra grande svolta fu rappresentata dal motore a combustione interna alimentato a petrolio raffinato, mentre l’elettrificazione del mondo incrementò la domanda ed il consumo di energia. Questa intensificazione di consumo energetico ha avuto come conseguenza l’inquinamento provocato dai combustibili fossili, il cui consumo ha anche determinato grosse diseguaglianze in termini di ricchezza e di potere tra le diverse aree del mondo. Nel XX secolo, le industrie chimiche hanno grandemente contribuito ad inquinare i suoli, assieme all’attività mineraria, metallurgica e di raffinamento. I suoli urbani, alla fine del secolo, presentavano concentrazioni di metalli superiori di 10, 100 volte rispetto ai livelli precedenti. Oltre ai metalli, l’industrializzazione ha prodotto ogni genere di rifiuti tossici e, negli anni settanta, l’esportazione di rifiuti pericolosi diventò un business internazionale. Un altro fenomeno negativo è rappresentato dalla erosione dei campi che riduce i raccolti, mentre, il suolo eroso si deporta in luoghi con conseguenze spesso negative per gli esseri umani. Un discorso a parte, per la sua gravità, merita l’inquinamento della atmosfera e dell’aria che riguarda, principalmente le città che ricorrono, per il loro funzionamento, ai combustibili fossili. L’utilizzo di essi, l’attività metallurgica e l’incenerimento dei rifiuti hanno immesso nell’aria, sotto forma di polveri, migliaia di tonnellate di metalli potenzialmente tossici. Danni alla salute umana sono venuti, particolarmente, dalle emissioni di piombo provenienti, in massima parte, dagli scappamenti degli


autoveicoli. Infatti, l’auto è il secondo inquinante della atmosfera sia a livello locale che regionale. Oltre alle decine di milioni di decessi, l’inquinamento dell’aria, nel corso del XX secolo, è stato causa e concorso di malattie croniche per centinaia di milioni di persone, particolarmente, malattie respiratorie ed il cancro, mentre il piombo danneggia il sistema nervoso ed inibisce lo sviluppo mentale. In passato, l’essere umano ha usato l’acqua principalmente per dissetarsi e per l’irrigazione. Il consumo totale di acqua dolce, alla fine del secolo scorso, risultava di circa 40 volte superiore a quello del 1700. Solo nel XX secolo, il consumo di acqua si è moltiplicato per 9 volte e la sete, nel mondo è cresciuta a dismisura. I cambiamenti biochimici delle acque della Terra, dovuti principalmente all’inquinamento ed alla sua riduzione, si sono prodotti sull’onda dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione e le acque contaminate hanno provocato la morte di decine di milioni di persone. In conclusione, si può dire che l’enorme portata del cambiamento ecologico verificatosi nel corso del XX secolo chiama l’umanità a predisporre piani di intervento a livello mondiale per fare fronte alla grave emergenza determinatasi. Su questo terreno, particolarmente impegnati devono essere i comunisti come portatori di una alternativa globale di società. Marxismo ed Ecologia L’ecologia disgiunta da una seria e critica analisi degli effetti del capitalismo, è un esercizio di buone maniere, un dovere civico, importante ma nulla più. Legata, invece, alla costruzione di un modello di sviluppo solidale, sostenibile e socialista diventa strumento fondamentale per una necessaria critica anticapitalista. Sull’onda del grande movimento di studenti e lavoratori che, negli anni ‘68/69, contestava gli elementi base della società capitalistica, la società dei consumi e la violenza insita nei rapporti fra gli esseri umani e fra gli esseri umani e la natura, la borghesia interpretò prontamente il pericolo implicito ed il potenziale eversivo dell’ecologia. Il termine era stato coniato nel 1866 da Ernst Haeckel, il grande divulgatore del pensiero di Darwin, che in una delle sue conferenze suggeriva di studiare gli scambi di materia e di energia fra gli esseri viventi ed il mondo circostante, assegnando alla nuova disciplina il nome di “ecologia”, in quanto “economia della natura”. La speranza, da parte del pensiero dominante borghese, era di riuscire a dimostrare che la società fondata sul libero mercato e la proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio avrebbe risolto tutti i problemi ecologici. Infatti, il 22 aprile 1970, negli Stati Uniti d’America, 20 milioni di cittadini risposero all’appello del senatore democratico Nelson, dando vita alla “Giornata della Terra”, facendo seguito ad una iniziativa nata in ambito universitario e diventata poi simbolo “borghese” della difesa del pianeta. Del resto, così si pensava, con la loro dottrina “industrialista”, che cosa avevano mai capito Marx ed Engels dell’ecologia. E ancora, non era stato proprio Lenin a dire che il comunismo è “soviet ed elettrificazione?” E via semplificando e, interessatamente, falsificando… Ma è questa la verità !!?? Che cosa avevano veramente detto i fondatori del comunismo sui rapporti fra l’uomo e l’ambiente? Intanto, avevano capito molte cose sull’origine della violenza contro la natura. Leggevano e studiavano gli scritti dei grandi naturalisti dell’Ottocento, loro contemporanei, quali Justus von Liebig che aveva


descritto le leggi della nutrizione vegetale ed aveva spiegato le ragioni per cui il suolo si impoverisce se coltivato intensamente, Darwin che, nel 1959, aveva spiegato le leggi dell’evoluzione e le modificazioni che le specie subiscono in relazione all’ambiente circostante, oltre al già sopra citato fondatore dell’ecologia. Ma, soprattutto, erano stati, fin dalle origini della loro elaborazione teorica, i portatori di un pensiero originale ed autonomo che non lascia dubbi sulla loro attenzione al tema ambientale. Leggiamo, infatti, quanto scrive Karl Marx nei suoi “Manoscritti economici-filosofici” del 1944: “Le piante, gli animali, le pietre, l’aria, la luce, costituiscono una parte della vita umana e dell’umana attività. La natura è il corpo inorganico dell’uomo. Che l’uomo viva della natura vuol dire che la natura è il suo corpo, con cui deve stare in costante rapporto per non morire.” Nel terzo dei manoscritti, Marx analizza come la proprietà privata condizioni non solo il lavoro, ma anche i bisogni umani: “Abbiamo visto quale significato abbia, facendo l’esempio del socialismo, la ricchezza dei bisogni umani, e, quindi, tanto un nuovo modo di produzione quanto, anche, un nuovo oggetto della produzione. Nell’ambito della proprietà privata il significato è opposto. Ogni uomo s’ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo ad un nuovo sacrificio, per ridurlo ad una nuova dipendenza e spingerlo ad un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica. Ognuno cerca di creare al di sopra dell’altro una forza essenziale estranea per trovarvi la soddisfazione del proprio bisogno egoistico. Con la massa degli oggetti, cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali l’uomo è soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni. L’uomo diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell’essere ostile, e la potenza del suo denaro sta giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno prodotto dall’economia politica, il solo bisogno che essa produce.” Il libro di Engels del 1845 “La situazione della classe operaia in Inghilterra” contiene considerazioni di ecologia urbana: “Anche la popolazione viene accentrata, come il capitale; e ciò è naturale perché nell’industria l’uomo, l’operaio, viene considerato soltanto come una porzione del capitale che si mette a disposizione del fabbricante ed al quale il fabbricante paga un interesse sotto forma di salario. Il grande stabilimento industriale richiede molti operai, che lavorano insieme in un solo edificio, essi devono abitare insieme e là dove sorge una fabbrica di una certa grandezza, formano già un villaggio… Già il traffico delle strade ha qualcosa di repellente, qualcosa contro cui la natura umana si ribella. Le centinaia di migliaia di individui di tutte le classi e di tutti i ceti si urtano, si passano accanto in fretta come se non avessero niente in comune. La brutale indifferenza, l’insensibile isolamento di ciascuno nel suo interesse personale, emerge in modo tanto più ripugnante ed offensivo quanto maggiore è il numero di questi singoli individui che sono ammassati in uno spazio ristretto”. Anche ne “Il Capitale” di Karl Marx i riferimenti ai rapporti fra produzione di merci e risorse naturali sono molto presenti. In una lunga nota al 13 capitolo della IV sezione del primo libro si legge: “Una storia critica della tecnologia finora non esiste. Il Darwin ha diretto l’interesse sulla storia della tecnologia naturale, cioè sulla formazione degli organi vegetali ed animali come strumenti di produzione della vita delle piante e degli animali. Non merita eguale attenzione la storia della formazione degli organi produttivi dell’uomo sociale, base materiale di ogni organizzazione sociale particolare? La tecnologia svela il comportamento attivo dell’uomo verso la natura, l’immediato processo di produzione della sua vita, e con essi anche l’immediato processo di produzione dei suoi


rapporti sociali vitali.” Nella IV sezione del Libro I del “Capitale” Marx spiega bene le conseguenze dell’esodo delle popolazioni operaie nelle grandi città, destinate a rappresentare un serbatoio di mano d’opera accessibile ed a disposizione della impresa capitalistica. “Il modo di produzione capitalistico porta a compimento la rottura dell’originale vincolo di parentela che legava agricoltura e manifatture nella loro forma infantile e non sviluppata. Con la proporzione sempre crescente della popolazione urbana che la produzione capitalistica accumula nei grandi centri, essa turba il ricambio organico fra uomo e terra, ossia il ritorno alla terra degli elementi costitutivi della terra consumati dall’uomo sotto forma di mezzi alimentari e di vestiario, turba, dunque, l’eterna condizione di una durevole fertilità del suolo. Così distrugge insieme la salute fisica degli operai urbani e la vita intellettuale dell’operaio rurale… come nell’industria urbana, così nell’agricoltura moderna, l’aumento della forza produttiva e la maggiore quantità di lavoro resa vengono pagate con la devastazione e l’ammorbamento della stessa forzalavoro.” Fondamentale, al fine della comprensione delle cause della violenza contro la natura, è l’analisi marxiana del modo di produzione delle merci. Il celebre capitolo XIII del I libro de “Il Capitale”, il capitolo che tratta de “le macchine”, spiega bene come il modo di produzione capitalistico, inevitabilmente, comporti lo sfruttamento dei lavoratori, la produzione di merci alterate e sofisticate, l’inquinamento ambientale. Forzatamente il capitale produce più merci al minimo costo possibile, al fine di assoggettare la classe lavoratrice e costringerla a vendere il proprio lavoro. La progettazione e fabbricazione di merci ed oggetti adatti a risolvere problemi umani, anziché ad assicurare profitti al capitale, richiede nuovi indicatori del valore su cui Marx si sofferma a lungo. Ad esempio, il valore d’uso delle merci, contrapposto al valore di scambio, per cui si afferma che “la natura è la fonte dei valori d’uso ed in questi consiste la ricchezza effettiva!” (Critica del Programma di Gotha” del 1875) ed ancora parlando del valore d’uso ancora presente nei rifiuti della produzione, ritrasformabili in nuovi elementi della produzione (sezione I del III libro de “Il Capitale”). Qui, le pagine del quarto paragrafo del capitolo 5, hanno una sorprendente attualità: “Per residui della produzione intendiamo gli scarti dell’industria e dell’agricoltura, per residui del consumo sia quelli derivanti dal ricambio fisico umano sia le forme che gli oggetti d’uso assumono dopo essere stati utilizzati. Sono, quindi, residui della produzione, nell’industria chimica, i prodotti accessori che vanno perduti, le limature che risultano dalla fabbricazione meccanica, ecc. I residui del consumo sono di grandissima importanza per l’agricoltura, quali ad esempio, le secrezioni naturali umane ed i resti del vestiario in forma di stracci che, tuttavia, in regime di economia capitalistica, vedono il verificarsi di sprechi colossali, come, per esempio, a Londra, dove, dello sterco di 4 milioni e mezzo di esseri umani non si sa far di meglio che impiegarlo, con enormi spese, per appestare il Tamigi.” Tutto il paragrafo continua, poi, analizzando le prospettive di produzione della lana dagli stracci (già praticata in Inghilterra nella metà del 1800) e la produzione di coloranti dal catrame di carbon fossile. Anche in questa parte, Marx ripete che, alla base degli sprechi, degli inquinamenti, si trova il modo capitalistico di produzione. C’è una ricetta che consenta di usare le ricchezze della natura per soddisfare bisogni umani senza distruggerne le fonti e le radici? Marx indica tale ricetta nella socializzazione dei beni della natura, un tema che affronta nella sesta sezione del III libro de “Il Capitale”. “Dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata del


globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà privata di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un’intera società, una nazione, ed anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari ed hanno il dovere di tramandarla migliorata, come buoni padri di famiglia, alle generazioni successive.” Originale ed ancora attuale è anche la soluzione che Marx suggerisce al problema della scarsità, alla fine del III libro de “Il Capitale”. “La libertà può consistere soltanto in ciò che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente in questo loro ricambio organico con la natura, portandolo sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati, come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minor consumo possibile di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura e più degne di essa. Qui comincia il vero regno della libertà”. Ma le pagine più suggestive del pensiero marxiano sul rapporto uomo-natura sono, forse, quelle espresse da Engels nel 1876, nel saggio “Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia”, oggi compreso nella “Dialettica della natura”. “L’animale si limita ad usufruire della natura esterna, ed apporta ad essa modificazioni solo con la sua presenza; l’uomo la rende utilizzabile per i suoi scopi e modificandola la domina. Questa è l’ultima, essenziale differenza fra l’uomo e gli altri animali ed è, ancora una volta, il lavoro che opera questa differenza. Non aduliamoci troppo, tuttavia, per la nostra vittoria sulla natura; la natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha, infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto diversi, imprevisti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze….Ad ogni passo ci viene ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa ma che noi le apparteniamo con carne sangue e cervello e viviamo nel suo grembo; tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle nel modo più appropriato.” Engels, riprende tale tema, anche nel”Antiduring” del 1878. “ La città industriale, che è la condizione fondamentale della produzione capitalistica, trasforma qualsiasi acqua in fetido liquido di scolo” indicando, più avanti, nello stesso libro, alcune linee guida alla pianificazione territoriale: “Solo una società che faccia ingranare armoniosamente le une nelle altre le sue forze produttive secondo un solo grande piano, può permettere all’industria di stabilirsi in tutto il paese con quella dislocazione che è più appropriata al suo sviluppo e conservazione e, rispettivamente, all’utilizzazione degli altri elementi della produzione. Solo con la fusione fra città e campagna può essere eliminato l’attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con questa fusione le masse che oggi agonizzano nelle città saranno messe in una condizione in cui i loro rifiuti siano adoperati per produrre le piante e non le malattie. La civiltà ci ha, senza dubbio, lasciato nelle grandi città un’eredità la cui eliminazione costerà molto tempo e molta fatica”. Un altro impegnativo tema su cui l’ambientalismo borghese ha costantemente attaccato i comunisti è quello della loro presunta insensibilità ai problemi ambientali per quanto era successo e stava succedendo nei paesi socialisti, in particolare nell’Unione Sovietica. Quante volte, nel corso del dibattito ecologico, si è sentito dire che i comunisti non avrebbero mai potuto dare risposta alla questione ambientale perché il loro modello sovietico era quanto di più antitetico si potesse immaginare!! Anche questa critica si fondava, oltreché sulla volontà di denigrare comunque il socialismo, sulla mancanza di informazioni adeguate sulla storia dell’Unione Sovietica. Certamente, Lenin aveva scritto


che il comunismo, in Russia, si sarebbe fondato sull’elettrificazione e, quindi, su grandi opere pubbliche quali dighe e centrali ad alto impatto ambientale, ma Lenin è stato anche quello che ha creato, in piena guerra civile, nel 1919, quando era in corso l’assedio dell’esercito bianco ad Astrakan, il primo parco nazionale, quello del delta del Volga. Inoltre, come è noto, nella storia dell’umanità, le condizioni sociali hanno determinato il grado di efficacia dei provvedimenti relativi alla salute pubblica, nel senso che l’opera di contenimento delle infezioni ha riscosso il maggior successo nelle società bene organizzate. La storia dell’Unione sovietica ne costituisce un esempio efficace. Nel periodo 1915/1922 durante la guerra e nel periodo della guerra civile e dell’aggressione degli eserciti dei paesi capitalistici nei confronti del territorio sovietico, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, epidemie di colera, di tifo e febbri tifoidee di vario tipo dilagarono e fecero numerose vittime, oltre a quelle provocate dalla guerra. Nel 1919, durante l’imperversare del tifo, Lenin dichiarò, durante il Congresso del Partito comunista, che se il socialismo non riusciva a sconfiggere il pidocchio, il pidocchio avrebbe sconfitto il socialismo. L’esito di questa battaglia rimase incerto fino a dopo il 1923, quando l’Unione Sovietica organizzò il proprio servizio sanitario ed avviò, in maniera sistematica campagne di vaccinazione e di controllo delle malattie connesse all’ambiente. Nel 1930, tifo, dissenteria, malaria ed altre patologie erano grandemente regredite e l’importanza accordata dalle autorità sovietiche alla medicina preventiva elevò una barriera sempre più efficace contro la circolazione delle malattie nel Paese, fino agli anni ’70. L’Urss, inoltre, nella sua storia ha dato un grande contributo allo sviluppo della conoscenza della biosfera e della geochimica grazie all’opera di uno scienziato di fama internazionale quale il Prof. Vernadsky, e, più in generale, delle scienze della natura. In seguito alla restaurazione del capitalismo nei paesi socialisti, per alcuni anni, una sorta di frenesia per il libero mercato ha invaso il mondo considerando definitivamente sepolti Marx, Engels, Lenin e la storia comunista. Tuttavia, negli ultimi anni, un sempre maggior numero di persone, anche in seguito ai disastri sociali ed ambientali provocati dalla nuova ondata di mondializzazione capitalistica, torna ad interrogarsi sulle vie da seguire per trovare una prospettiva di salvezza del genere umano dalla barbarie dilagante, ed, in questo contesto, trova nuovo spazio la rilettura dei classici del marxismo, proprio nel momento in cui la società informatica, virtuale e dematerializzata sta staccando le masse popolari dalla realtà delle cose fisiche. L’Ecologia, nel momento in cui anche il movimento ambientalista e “verde” è travolto dalla società delle immagini e tende a fare, prevalentemente, il consulente del Principe, può diventare un severo atto di accusa nei confronti del capitalismo ed, in questo senso, incontrare una moderna e popolare cultura critica comunista. La salvezza va ricercata riprendendo il gusto di leggere e studiare le pagine dimenticate, a cominciare da quelle di Marx, Engels e Lenin, la storia dei paesi socialisti e delle loro contraddizioni. Così come, due secoli fa, l’illuminazione a gas, figlia del capitalismo, offrì la luce nelle stanze in cui i proletari potevano riunirsi per leggere e discutere, oggi uno strumento come Internet, figlio moderno dello sviluppo capitalistico, può essere utilizzato intelligentemente per unirsi a tanti quanti, nel mondo, analizzano le radici della crisi e cercano le strade per uscirne.


Il consumo del territorio, ad opera di multinazionali e/o cordate internazionali o locali deve essere terreno comune di lotta dei comunisti. Stare nei comitati popolari sia se si battono contro un inceneritore sia per una battaglia più grande come quella NO TAV è impegno costante e coerente per i comunisti che vedono, nelle moderne battaglie ecologiste, un terreno fondamentale di lotta anticapitalista. Anche nell’ambito del commercio equo e solidale, nelle forme etiche alternative anche finanziarie come banca del tempo, Banca etica ecc, i comunisti popolari vedono modi nuovi ed alternativi di critica severa al Capitale. E’ necessario, per i comunisti popolari, essere parte di un processo radicale di cambiamento socialista. Come diceva Marx e come fece Lenin non per cambiare il sistema ma per abbatterlo e crearne uno totalmente nuovo. La condizione delle donna secondo Marx ed Engels Nonostante molta strada sia stata fatta nel senso dell’emancipazione femminile, della sottrazione della donna al giogo maschile e di sistema che la include come elemento di ulteriore debolezza su cui esercitare le leve classiche dello sfruttamento, altra ve ne è ancora da fare. Sarà nostro dovere percorrerla orientando l’analisi e la lotta sul piano ideologico e quello culturale, su un piano politico che ponga come istanza fondamentale il rovesciamento dei rapporti di produzione in senso comunista e socialista ma che sappia muoversi nel complesso sottobosco culturale caratterizzato da deformazioni e pregiudizi di matrice religiosa, borghese, interpretazioni delle questioni femminili e di genere che con grande duttilità informano trasversalmente alcuni ambienti ottusamente intrappolati nell’autoreferenzialità dogmatica di certa ortodossia che nulla ha a che vedere con il materialismo storico e dialettico di Carlo Marx. Viviamo nel capitalismo, un sistema sociale ed economico che per definizione fonda la sua esistenza sullo sfruttamento degli esseri umani, sulla concentrazione della ricchezza , prodotta dai molti, nelle mani dei pochi. Un sistema che persiste, muta, reagisce come un virus rispetto al quale la medicina della così detta politica “riformista” si è rivelata inerte e deve ammettere perciò il suo totale fallimento. Un sistema che “emette” sistematicamente una sua peculiare cultura, dei suoi sistemi di valori e di idee, quindi una sua ideologia, ad esso funzionali nella misura in cui informano di sé le coscienze, i costumi, la morale comune ed infine, la famiglia, cellula economica primaria del tessuto capitalista. Dunque la donna, in quanto essere umano, non è stata ancora liberata dal giogo del capitale e in quanto donna, non è ancora del tutto emancipata dal giogo famigliare almeno fin quanto il modello familiare sarà quello che conosciamo oggi, e che i nostri padri fondatori del marxismo, hanno definito “monogamico”, ovvero quello borghese, quello voluto, difeso, imposto come necessario e assimilato a “naturale” dal sistema capitalistico. La famiglia moderna è fondata sul concetto di “coniugalità”; la donna e l’uomo sono coniugi, ma coniuge deriva dal latino “cum iugum” cioè “portare lo stesso peso”.E di quale peso parliamo se non anche o forse soprattutto del peso economico? Non è forse la famiglia il primo vero “ammortizzatore sociale”? Non devono forse i coniugi “resistere” al massacro sociale , allo smantellamento dei fondamentali diritti che dovrebbero essere, prima ancora, vettori della libertà


di ogni singolo individuo? La macchina culturale borghese ha invece ipocritamente attribuito un’accezione romantica, carica di religioso destino, al concetto di coniugalità, svuotandola di quel significato economico che non può e non deve sfuggire a noi marxisti. Dunque è da i nostri padri, in particolare da Marx ed Engels, che dobbiamo partire per ripercorrere la storia della famiglia e in particolare del ruolo della donna al suo interno. Scopriremo quanto straordinariamente attuali siano quelle analisi, perché il metodo scientifico che ne costituisce l’approccio sottrae al caos regole latenti, modelli e ricorrenze; esso è dunque veicolo di verità ad alto valore ontologico. La storia degli esseri umani non inizia quando appare una vita complessa sul piano economico e sociale ma comincia non appena l’uomo, inteso come essere vivente, crea i mezzi per soddisfare il bisogno immediato di mangiare, bere, vivere in un’abitazione, di vestirsi creando così nuovi bisogni. La famiglia è a quello stadio primitivo il primo organo sociale che si forma per attendere a tali funzioni. L’unico rapporto sociale è la famiglia che ha anch’essa una evoluzione col mutare dei modi di produzione. Ma all’origine della storia dell’umanità e quindi dei rapporti tra uomo e donna vi è la nascita di questo primo nucleo che è andato poi evolvendosi nelle varie fasi storiche. Marx ed Engels hanno affrontato quindi il tema della donna a partire dall’evoluzione storica di come gli esseri umani si sono organizzati per riprodurre la loro vita sociale. I modi con cui ci si è organizzati non sono stati sempre uguali ma hanno assunto forme diverse nella varie fasi dello sviluppo dell’umanità. Attorno agli anni 1880/81, dopo aver condotto degli studi autonomi, Marx ed Engels hanno ritenuto che fosse giunto il momento di scrivere un’opera che li unificasse organicamente e ne illustrasse le conclusioni. Nel 1884 Engels scrisse l’opera, che è un classico del marxismo “L’origine della famiglia, della proprietà e dello Stato”, per spiegare le varie fasi di sviluppo della storia dell’umanità e le caratteristiche della famiglia moderna sotto i loro occhi sul finire dell’800. Naturalmente a noi non interessa fare l’analisi della storia dell’evoluzione della famiglia, ma di partire dalle conclusioni cui Engels, citando anche Marx, giunse dopo aver studiato i fenomeni indicati. Innanzitutto alcuni punti di partenza nella definizione. Cosa vuol dire famiglia? La parola deriva dal termine antico latino “famulus” cioè schiavo, quindi indica l’organizzazione schiavistica della società. La famiglia era dunque l’insieme degli schiavi a disposizione di un unico essere umano. Essa , nell’antichità, era caratterizzata dal soggiogamento di uno dei due soggetti, la donna, da parte dell’uomo. “La famiglia moderna”, scrive Marx nel 1846, “contiene in germe non solo la schiavitù, ma anche la servitù della gleba, poiché questa fin dall’inizio è in rapporto con i servizi agricoli e per assicurare la fedeltà della donna e quindi l’irrefutabile paternità dei figli, la donna viene sottoposta


incondizionatamente al potere dell’uomo. Anche uccidendola egli, cioè l’uomo non fa che esercitare, un suo diritto.” Ora noi parleremo della famiglia monogamica, quella moderna, dei tempi a noi vicini. Essa è fondata sul dominio dell’uomo con “l’esplicito scopo di procreare figli di paternità incontestata e tale paternità è richiesta perché questi figli, in quanto eredi naturali, devono entrare in possesso, un giorno, del patrimonio paterno”. Tale concetto di famiglia permea la società dell’antica Grecia ed in parte, anche se in modo più mediato, quella romana. Pertanto la monogamia non appare in nessun modo, afferma Engels, nella storia come “riconciliazione tra uomo e donna e tantomeno la forma più elevata di tale riconciliazione; al contrario essa appare come un soggiogamento di un sesso da parte dell’uomo, proclamazione di un conflitto fra i sessi, prima sconosciuto nella preistoria.” In un manoscritto inedito elaborato da Marx e Engels nel 1846 si afferma “ la prima divisione del lavoro è quella fra uomo e donna per la procreazione dei figli ed oggi, posso aggiungere, il primo contrasto di classe che compare nella storia coincide con lo sviluppo dell’antagonismo tra uomo e donna nel matrimonio monogamico e la prima oppressione di classe coincide con quella del sesso femminile oppresso da parte di quello maschile. La monogamia fu un grande progresso storico, rispetto alle forme precedenti, ma contemporaneamente essa accanto alla schiavitù e alla proprietà privata schiuse un ‘epoca che ancora oggi persiste in cui ogni progresso è al tempo stesso un regresso perché il bene dell’uno va a scapito ed è un male per l’altro” Già alla fine dell’800 Engels ironizzava nei confronti dei giuristi borghesi dell’epoca, che si occupavano dell’istituto matrimoniale, i quali sostenevano che il progresso della legislazione togliesse alla donna qualsiasi motivo di lamentale, poiché il matrimonio fondava la sua validità su un accordo consensuale, liberamente stipulato, e sull’uguaglianza di diritti e doveri. Engels, ironizzando con tali giuristi, riteneva che questa argomentazione fosse infatti la stessa con cui il borghese repubblicano radicale mette a tacere il proletario quando si lamenta, e quindi, nel nostro caso, mette a tacere la donna quando si lamenta nei confronti dell’uomo. “La disparità di diritti dei coniugi che noi abbiamo ereditato da condizioni sociali anteriori non è la causa ma è l’effetto dell’oppressione economica della donna”. Per cui noi abbiamo ereditato nella fine dell’ ottocento, in pieno sviluppo capitalistico moderno, in pieno sviluppo della famiglia borghese, una famiglia fondata sull’oppressione, sullo sfruttamento di classe della donna da parte dell’uomo. Questo ci insegna il marxismo. Ma perché tale oppressione? Perché “la direzione dell’amministrazione domestica con l’organizzazione del lavoro diversificato all’interno della famiglia perde il suo carattere pubblico” quindi la conduzione della famiglia non interessa la società e diventa un “servizio privato” (mantenimento famiglia, conduzione attività domestica, allevamento figli) Dice Engels “la donna diventa la prima serva esclusa dalla partecipazione alla produzione sociale. Soltanto la grande industria degli ultimi tempi sembrava riaprire alla fine dell’800 ma sempre limitatamente alla donna proletaria, la via della produzione sociale, ma in maniera tale che se essa compie i propri doveri famigliari domestici, nei servizi privati, rimane esclusa dalla produzione


pubblica e quindi non ha la possibilità di guadagnare nulla, e se vuole prendere parte alla produzione pubblica rendendosi autonoma economicamente non è più in grado di attendere ai propri doveri famigliari.” Questa è la vita dentro la famiglia monogamica. Quindi la moderna famiglia singola, presa in sé, è “fondata sulla schiavitù domestica della donna aperta o mascherata e la società moderna è una massa composta, nella sua struttura molecolare, da un complesso di famiglie singole”, quella che vediamo noi ancora oggi a distanza di oltre 140 anni dalla scrittura del libro. Al giorno d’oggi l’uomo, afferma Engels “nella maggioranza dei casi deve essere colui che guadagna, che alimenta la famiglia, almeno nelle classi abbienti, il che gli da una posizione di comando (…) Nella famiglia egli è il borghese e la donna rappresenta il proletario” Federico Engels 1884. “E così anche il carattere peculiare del dominio dell’uomo sulla donna nella famiglia moderna e la necessità di instaurare un’effettiva uguaglianza sociale dei due sessi appaiono e appariranno soltanto quando l’emancipazione della donna ha come condizione preliminare la completa reintroduzione dell’intero sesso femminile nella pubblica industria. Ciò richiede a sua volta l’eliminazione della famiglia monogamica in quanto unità economica della società” Aggiunge Engels a proposito dell’adulterio “ciò che per una donna è un delitto che si tira dietro gravi conseguenze sociali e legali è considerato per l’uomo qualcosa di quasi onorevole o nel peggiore dei casi come una lieve macchia” Quindi la famiglia con queste caratteristiche accentuatamente sempre più monogamiche si caratterizza sempre di più anche come la famiglia del capitalismo perché da un lato il capitalismo concentra le ricchezze nelle mani dei capitalisti a livello di produzione sociale e dentro l’organizzazione della famiglia monogamica l’uomo concentra su di sé la ricchezza e il potere di far svolgere alla donna la funzione di procreazione dei figli, che devono essere “certi” perché possano ereditare il patrimonio del capo famiglia. Come sarà possibile superare, si chiedono Marx ed Engels, e in che direzione, questa situazione di moderna schiavitù? Così come il lavoro salariato nella fabbrica e nella società rappresenta la moderna schiavitù del lavoratore asservito ai proprietari dei mezzi di produzione, i nuovi padroni, così nella famiglia vi è questo dominio per cui la donna è il proletario e l’uomo è il padrone. Come si riuscirà ad arrivare ad una vera emancipazione della donna da questa forma feroce di sfruttamento? La risposta va in una direzione parallela alla costruzione del Socialismo. Engels afferma “il sovvertimento sociale che sarà possibile introdurre con la socializzazione dei mezzi di produzione, cioè togliendo la proprietà dei mezzi di produzione ai padroni privati e trasformandola in proprietà statale, ridurrà al minimo anche questa preoccupazione della trasmissione ereditaria”. Ciò a dire che con la socializzazione viene anche a scomparire il lavoro salariato, quindi il proletariato, e con esso la necessità di certe donne di concedersi per denaro e quindi anche, in ultima analisi, scomparirà la prostituzione e “la monogamia invece di tramontare diventa finalmente una realtà anche per gli uomini” ( per le donne l’infedeltà era punita con la morte)


Col socialismo che avanza verso il comunismo la famiglia cesserà di essere l’unità economica della società . “L’amministrazione domestica privata si trasforma in industria sociale”. La cura, l’educazione dei figli, dei fanciulli, diventa un fatto di pubblico interesse. La società “ha cura in egual modo di tutti i fanciulli, legittimi e illegittimi, e con ciò cade la preoccupazione delle conseguenze con la quale oggi si costituisce il motivo sociale essenziale, sia morale che economico, che impedisce a una fanciulla di abbandonarsi senza riserve all’uomo amato” La conclusione di Engels è anche fondata a sull’analisi dell’amore sessuale come base della famiglia: “poiché l’amore sessuale è per sua natura esclusiva, per quanto ai giorni nostri questa esclusività si concretizzi soprattutto nella donna, il matrimonio fondato sull’amore sessuale è per sua natura matrimonio monogamico. Una volta venute meno le considerazioni economiche in ragione delle quali le donne hanno sempre lasciato passare questa consuetudinaria infedeltà degli uomini, l’eguaglianza della donna così raggiunta, secondo tutta l’esperienza fin qui fatta, agirà in una misura infinitamente maggiore nel far divenire gli uomini effettivamente monogami, così come nel far divenire poliandriche le donne. Ma ciò che sicuramente scomparirà nella monogamia sono tutti i caratteri che le sono stati impressi con la sua nascita nei rapporti di produttività secondo l’indissolubilità” Ed ancora, Engels sull’amore aggiunge “se è morale solo il matrimonio fondato sull’amore allora esso è morale fin quando persiste l’amore, per cui, poiché esso può anche non durare in eterno, quando cessa,a il divorzio è la giusta soluzione che può sciogliere il matrimonio”. Nasceranno pertanto nuovi e più umani rapporti all’interno del matrimonio perché la donna potrà finalmente partecipare alla produzione pubblica, emancipandosi. La vita domestica e l’allevamento dei figli non sarà più delegata esclusivamente alla famiglia, ma sarà presa in carico dallo Stato, attraverso la costituzione di asili, scuole materne; si creeranno solo così le nuove condizioni di uguaglianza anche fra i sessi all’interno della famiglia, perché non più fondata sul soggiogamento esclusivo della donna all’esercizio della funzione privata e sul ruolo esclusivo dell’uomo come portatore di reddito attraverso il lavoro. Queste sono le basi con cui il marxismo riconosce la possibilità di emancipare la donna dalla schiavitù che gli è imposta dal matrimonio monogamico e l’uomo dal suo ruolo di padrone, borghese, che rende schiava la donna, considerata come una proletaria alle sue dipendenze. Questa analisi dimostra che la famiglia, come le altre istituzioni della società, ha un carattere storico, essa non è sempre uguale a sé stessa, evolve col mutare della società e tanto più si è capaci di rivoluzionare i rapporti nella società, tanto più il rapporto uomo donna nell’organizzazione chiamata famiglia sarà suscettibile di mutare le proprie forme e di liberare dalla schiavitù la donna dentro di essa e dentro la società. Tutti coloro che affermano che la famiglia così come la vediamo ora è sempre stata così e non cambierà mai mentivano ieri, mentono oggi e se continueranno a dirlo mentiranno domani, perché la famiglia non è un’organizzazione statica sempre uguale a sé stessa, ma dinamica, che cambia al mutare della società. Si chiama “storicità dell’ istituzione familiare”. Chi sono quelli che hanno avuto ’interesse a dare un’idea statica della famiglia, per cui si dice spesso


“è sempre stato così…, l’uomo è sempre stato così, la donna è sempre stata così…”? Coloro che volevano conservare l’ordine costituito fondato sullo sfruttamento. I comunisti non la pensano così; i comunisti sono rivoluzionari! La condizione della donna oggi Viviamo nell’epoca della globalizzazione, che altro non è se non un’espansione dei mercati su scala globale, indispensabile per tenere in vita il nostro sistema socioeconomico che si fonda sull’estrazione di plusvalore. Nella terminologia marxista, per plusvalore s’intende la differenza tra il valore del prodotto del lavoro e la remunerazione sufficiente al mantenimento della forza-lavoro, differenza di cui in un regime capitalistico si approprierebbero gli imprenditori-capitalisti. Un’organizzazione economica centrata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo che, legittimato dal capitalismo come forma naturale di rapporto di produzione e lavoro, ha creato e alimentato il processo di reificazione, termine che nella dottrina marxista descrive l’evoluzione per cui, nell’economia capitalistica, il lavoro umano, soprattutto manuale, è considerato e trattato alla stregua di una cosa. Il capitalismo legittima la sua esistenza e si autoalimenta grazie al sistema mass mediatico, appositamente costruito per facilitare attraverso la comunicazione di massa, gli scopi che si prefigge: primo fra tutti, in relazione alla pubblicità, quello di trovare mercati e sviluppare profitti. Esiste anche una dimensione socioculturale della questione, legata alla necessità di mantenere determinati schemi cognitivi e di valore. In un sistema capitalistico, ogni realtà, ogni tentativo di diffondere cultura dall’alto, ogni forma di condizionamento mentale e di organizzazione sociale, ha lo scopo di alimentare i profitti del potere economico. Quindi è questa e solo questa la chiave di lettura per analizzare ogni cosa, ruolo e condizione femminile compresi, perché in questo sostrato si articolano quelli che sono oggi i ruoli della donna. Il Capitalismo quindi trae profitto economico nel mantenere, alimentare e protrarre da una parte quella cultura e quell’insieme di valori che vedono la donna relegata ad un ruolo di inferiorità perché questo ne permette uno sfruttamento dell’immagine e del corpo e dall’altra , trae profitto nell’impedire di fatto un’uguaglianza di diritti perché questo autorizza la schiavitù lavorativa della donna che si verifica nella scarsa retribuzione del lavoro e nel commercio legato alla prostituzione. Questo profitto economico prodotto e concesso dalla condizione subordinata della donna , sfrutta due aspetti tra loro correlati : – In primo luogo, la mercificazione dell’immagine e del corpo femminile che limita l’autonomia della donna e ne legittima lo sfruttamento. – Il secondo aspetto, non meno grave, riguarda le condizioni lavorative della donna, due volte proletaria. Si conoscono molto bene i dati di fatturato dell’industria della cosmetica e della medicina estetica, che peraltro non sembrano conoscere nemmeno il morso della crisi economica in atto.


E il nuovo business di grandissime prospettive: l’ingegneria genetica utilizzata per manipolare ed abbellire l’aspetto fisico secondo i modelli imposti. Un’industria così promettente anche per le sue caratteristiche trasversali, ovvero le sue capacità di attivare pressoché tutto l’indotto del capitalismo terziarizzato. L’analisi dell’impatto culturale dell’industria della felicità sul sistema dei valori, delle credenze, delle regole, si traduce in un codice di comportamenti, di disciplina sociale,di modelli, che ha un significato che va ben oltre la semplice fruizione delle immagini del nudo domestico o della bellezza fisica, o anche del rapporto erotico fra uomo e donna,diventando fattore di coesione sociale lungo strategie d massimizzazione del controllo capitalistico sull’individuo. È stato creato un sistema di regole e disciplina sociale che, in ultima analisi, facilita il controllo politico, soprattutto in una fase così turbolenta come quella attuale. E come non denunciare il peso dei profitti legati al commercio “sessuale”? non si può analizzare il capitalismo ignorandone gli effetti concreti su donne e bambini, trasformati in merce sessuale esportabile in tutto il mondo. La globalizzazione neoliberale è il fattore dominante dell’attuale sviluppo della prostituzione e del traffico di donne e bambini a scopo prostituzionale. Questo crimine accresce il divario sociale e sfrutta gli squilibri tra uomini e donne, rafforzandoli notevolmente. Quelle del sesso , della prostituzione e della pornografia sono di fatto delle industrie importanti, alcune sono multinazionali quotate in borsa che fruttano grandi profitti ed entrate considerevoli che incidono sul PIL, nella bilancia dei pagamenti e sui conti correnti di diversi Paesi che le considerano vitali per la loro economia. La prostituzione fa addirittura parte della strategia di sviluppo di alcuni Paesi. Taluni Stati soggetti al rimborso obbligatorio del Debito hanno accettato incoraggiamenti di organizzazioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale – che hanno concesso loro prestiti considerevoli – per sviluppare la proprie industrie del turismo e del divertimento. In ciascun caso, l’accrescimento di questi settori ha favorito l’impennata dell’industria del commercio del sesso. Le catene alberghiere internazionali, le compagnie aeree e l’industria turistica approfittano ampiamente dell’industria del commercio del sesso. Gli stessi governi ne beneficiano, basti pensare che nel 1995 gli introiti della prostituzione in Thailandia hanno costituito tra il 59 e il 60% del bilancio del governo. Non è priva di senso la promozione fatta, in questi termini, del turismo sessuale nel 1987: “Le nostre giovani donne: il frutto tailandese più delizioso del durian” (frutto locale). La monetizzazione dei rapporti sociali e il traffico di persone sono il cuore della globalizzazione neoliberale. Il rafforzarsi di disuguaglianze sociale e l’impoverimento di numerosi popoli, con le conseguenti migrazioni, sono condizioni propizie al traffico di persone. In questo scenario si assiste alla sempre più rilevante femminilizzazione delle migrazioni. Che si traduce anche con la femminilizzazione della povertà.


Sfruttando le nuove tecnologie, il turismo di massa e le occupazioni militari, le industrie del sesso hanno beneficiato di un processo di legittimazione. diversi paesi hanno legalizzato le attività di tali industrie. Inoltre il business della prostituzione trova grande beneficio nei conflitti armati. Nel Sud-Est asiatico l’importantissima industria del sesso è decollata grazie alle guerre di Corea e del Vietnam, che ha visto la presenza di migliaia di soldati occidentali. Gli USA hanno concluso un accordo con la Thailandia nel 1967 affinché il Paese fosse un luogo di “riposo e divertimento” per i soldati. L’utilizzo di “strutture ricreative” fa ancora parte delle politiche del Pentagono: infatti immediatamente dopo la guerra del golfo, le truppe statunitensi furono inviate i Thailandia per “spassarsela”. I dimenticati, in gran parte donne e bambini, sono in realtà la più fiorente fonte di reddito dell’economia globalizzata. – Il secondo aspetto, non meno grave, riguarda le condizioni lavorative della donna, due volte proletaria e lo sfruttamento donna come forza lavoro nell’industria e nella famiglia. Attualmente la situazione qual è? Nascere maschio o femmina condiziona ancora le opportunità economiche e di carriera. In qualcosa le donne sono “leader”: lavorano di più. Nonostante i passi in avanti a livello legislativo in favore della parità, è stato stimato che le donne italiane continuano a lavorare ogni giorno 326 minuti più degli uomini. Occupate nel lavoro salariato, come nei lavori domestici e di cura della casa, dei figli e dei genitori anziani. Poiché le donne percepiscono una retribuzione oraria inferiore e accumulano un minor numero di ore di lavoro nel corso della loro vita rispetto agli uomini, anche le loro pensioni sono ridotte. Di conseguenza, tra gli anziani vi sono più donne in stato di povertà rispetto agli uomini. Quindi lavorano con salari in media più bassi e lavorano in casa, il che permette la sopravvivenza e l’accudimento della forza lavoro maschile, Eppure sin dalla sua creazione la Comunità europea ha riconosciuto il principio della parità di retribuzione e su questa base, ha sviluppato un insieme coerente di leggi mirate a garantire pari diritti in materia di accesso all’occupazione, di formazione professionale, di condizioni di lavoro e in ampia misura, in materia di protezione sociale. Le leggi gli emendamenti al riguardo esistono. Nel 1989 è stata adottata dal Parlamento Europeo la Carta Comunitaria dei diritti sociali fondamentali


dei lavoratori con la quale viene ribadita la necessità di combattere ogni forma di discriminazione basata sul sesso. E La legge 183 del 4 novembre 2010 interviene sulla disciplina delle pari opportunità e dell’impiego femminile, delegano il Governo affinché venga applicata e approfondita Eppure le statistiche che riportano lavori e stipendi parlano chiaro. Questo avviene perché di fatto la mentalità e i modelli imposti tramite ogni mezzo (dalla televisione e dalla pubblicità, in parte anche dall’arte, dal cinema, dalla musica, dai giornali, dalle istituzioni scolastiche e religiose e dalla la struttura famigliare), mantengono la donna in una condizione subordinata. La nostra cultura e la nostra economia sfruttano le differenze genetiche tra i sessi e si impegnano a mantenerle, il che genera mostruose assurdità che toccano il femminicidio. A dimostrazione che le leggi non bastano e che il problema va affrontato in altro modo, la recente pubblicazione di una indagine Istat dal titolo “La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia” mostra che gli stupri, i tentati stupri, i femminicidi non diminuiscono affatto, ed anzi la gravità della violenza aumenta: E la violenza fisica è solo la punta dell’iceberg. Omicidi e stupri costituiscono l’esito più evidente del fenomeno chiamato “violenza di genere”, sono la parte più visibile e più appetibile per i media alla ricerca di scoop. Esiste infatti una realtà sommersa ed altrettanto feroce fatta di lavoro precario e sottopagato, di conciliazione di tempi di lavoro e di vita, di cura della famiglia, di lavoro domestico, nella quale le donne affrontano forme di violenza più sottili e meno percepibili. Il maschilismo non è come si vuole far credere, un fatto di condotta individuale, ma un’ideologia utilizzata dal capitalismo per mantenere il controllo sociale. E’ importante comprendere che il capitalismo si basa sulla famiglia come unità economica fondamentale e pertanto favorisce l’oppressione sociale delle donne per ottenere manodopera domestica gratuita. Esso utilizza anche le donne come manodopera a basso costo per ridurre i salari e le condizioni di tutta la classe operaia. Le donne non sono fuori dalla classe lavoratrice, la lotta per ottenere i diritti dovuti deve essere pienamente integrata con la lotta del lavoro. Le donne possono ottenere una vita dignitosa in un mondo quindi che ha superato e abbattuto quello che è il sistema capitalistico. Un mondo nel quale nessuno è merce, nessuno è sfruttato e nessuno e condizionato affinché sia uno schiavo che produce profitto e resta al suo posto, seppur con qualche piccola illusione di miglioramento e di vittoria tramite concessioni che altro non sono che un palliativo, uno zuccherino per mandare giù l’amarezza di un’esistenza dentro una gabbia. Un mondo nel quale non esistono sul piano giuridico e dei diritti sociali distinzione di genere. E durante il cammino che porterà a questo fine ultimo, le donne e gli uomini comunisti lotteranno perché giustizia sia per ognuno, perché le donne tutte possano ottenere una vita migliore e diritti e dignità.


E lotteranno al fianco di ogni persona, indistintamente dal genere, dall’orientamento sessuale e dalla razza, perché la società sempre più sia a misura della felicità di ognuno. La questione dello Stato Come ci ricorda F. Engels nella sua opera “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato “(Zurigo ottobre 1884), “… lo Stato non è esistito dall’eternità. Vi sono state società che ne hanno fatto a meno e che non avevano alcuna idea di Stato e di potere statale. In un determinato grado di sviluppo economico, necessariamente legato alla divisione della società in classi, proprio a causa di questa divisione, lo Stato è diventato una necessità…. Lo Stato, poiché è nato dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al conflitto di queste classi, è, per regola, lo Stato della classe più potente, economicamente dominante, che, per mezzo suo, diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tenere sottomessa e sfruttare la classe oppressa.” Lo Stato italiano, rientra perfettamente in questa definizione. Esso è nato nel 1861 a compimento del processo di unificazione nazionale, dalla necessità della classe socialmente dominante, la borghesia, di avere un più ampio mercato in cui svolgere i propri affari, a cui il nuovo Stato sorto dalle guerre di indipendenza avrebbe dato il necessario apporto di esercizio del potere politico a garanzia dei suoi interessi economici e sociali. Naturalmente, diverse sono state storicamente le forme assunte dallo Stato italiano secondo le esigenze e gli obiettivi da perseguire nelle diverse fasi politiche e sociali e nelle varie contingenze di sviluppo della lotta delle classi sociali componenti la società italiana. Vi è stata una prima fase, ricordata di solito come Stato liberale o democrazia liberale, con un suffragio molto ristretto legato al censo, cioè alla ricchezza dei cittadini, che garantiva, anche in questo modo, il predominio assoluto dei ricchi sui poveri su, cioè, la stragrande maggioranza del popolo italiano, durata dal 1861 all’inizio del XX secolo. Vi è stato, poi, un allargamento del suffragio maschile all’inizio del nuovo secolo che ha permesso, attraverso ampie ed aspre lotte sociali dei lavoratori, la conquista di nuovi diritti politici che hanno spesso esercitato la funzione di contrappeso e condizionamento rispetto all’esercizio del potere da parte della classe dominante. Successivamente, lo Stato fascista fu espressione della più feroce dittatura della borghesia quando essa sentì minacciato il proprio potere economico e politico dalle lotte sempre più incalzanti dei lavoratori delle città e delle campagne, che è durato dalla fine del 1922 al 1945 ed a cui è stato posto fine, nel contesto della seconda guerra mondiale, dalla lotta di Resistenza e di liberazione nazionale guidata dalla classe operaia e dalla parte più avanzata del popolo italiano. Ed infine, dal 1948, con la nuova Costituzione nata in seguito al Referendum istituzionale del 2 giugno 1946, è in vigore, finora, la forma della Repubblica democratico-parlamentare a suffragio universale, cioè col diritto di voto esteso alle donne, che costituisce l’attuale configurazione dello Stato italiano. Questa evoluzione storica e le varie forme assunte dallo Stato italiano, non hanno mai messo in discussione la natura di classe dello Stato stesso che era e resta uno Stato borghese che, nelle forme mediate della rappresentanza politica ed istituzionale, rappresenta gli interessi della classe dominante,


cioè la borghesia italiana, contro quelli della stragrande maggioranza del popolo italiano che, col suo lavoro, produce tutta la ricchezza necessaria all’organizzazione della vita sociale. Da ciò si parte per valutare l’attuale contingenza politica, la discussione attorno alla cosiddetta “riforma della Costituzione” che anima la vita politica del nostro Paese in questi mesi. In realtà, negli ultimi 20 anni, molti cambiamenti sono già stati fatti all’originario testo costituzionale, tutti nel senso di limitare, restringere e subordinare le forme di espressione della sovranità popolare, concentrando il potere decisionale nel Governo e negli organi esecutivi ai vari livelli territoriali ed espropriandone, quindi, il Parlamento ed i Consigli locali. Nella stessa direzione va l’attuale disegno di legge costituzionale Boschi, presentato dal Governo e sostenuto dalla quasi totalità dei media nazionali con la volontà di porre il nostro Paese sotto il sempre più stretto controllo politico, economico e sociale del capitale finanziario internazionale, di cui l’Unione Europea e la sua Unione monetaria sono espressione forte. E’ necessario, quindi, che, con l’avvicinarsi della prossima scadenza referendaria che dovrà dare la definitiva sanzione popolare a tale provvedimento, si sviluppi un ampio fronte democratico e popolare contrario a questo ulteriore e grave attacco alla democrazia che porti al prevalere del NO. I comunisti si impegnano, fin da ora, in questo senso, a dare il loro fattivo contributo sulla base della loro autonoma ed originale impostazione programmatica che si fonda sulla lotta per una legge elettorale proporzionale, senza sbarramenti, un Parlamento monocamerale e l’istituzione del vincolo di mandato per i parlamentari per impedire che essi tradiscano la volontà dei propri elettori. La questione democratica I comunisti, in ogni epoca e in presenza dei più diversi regimi politici e sociali, sono stati sempre i più coerenti ed appassionati difensori della democrazia e della libertà. Si tratta, per essi, di una questione di principio, che si è incarnata nei fatti che hanno contraddistinto la storia moderna dell’umanità. Fin dalle ultime parole del “Manifesto del Partito Comunista” (1848) di K: Marx e F.Engels si può leggere “Infine, i comunisti lavorano dappertutto all’intesa ed alla unione dei partiti democratici di tutti i Paesi”. Nel “Che Fare” di Lenin (1902), scritto sotto la più feroce dittatura di classe dell’Europa di inizio novecento, si legge, a confutazione delle tesi e della pratica del terrorismo: “Il gruppo Svoboda propugna il terrorismo come mezzo per stimolare il movimento operaio, per dargli un “impulso vigoroso”. In Russia ci sono, forse, così pochi scandali da dover inventare “stimolanti speciali”? D’altra parte, non è evidente che coloro i quali non si sentono stimolati e non sono passibili di esserlo nemmeno dal regime d’arbitrio che domina in Russia, rimarranno egualmente “con le mani in tasca” di fronte al duello di un pugno di terroristi col governo?” E ancora “Dobbiamo saper organizzare delle riunioni anche con quei rappresentanti di qualsiasi classe della popolazione che vogliono ascoltare un democratico e noi dobbiamo esporre e sottolineare i nostri compiti democratici generali dinnanzi a tutto il popolo, senza nascondere, neppure per un momento, le nostre convinzioni socialiste.” Ed infine, Stalin nel suo intervento di saluto, al XIX Congresso del Partito Comunista della Unione


Sovietica (Mosca 1952), rivolto alle delegazioni dei partiti che operavano, dall’opposizione, nei paesi capitalistici:” La bandiera delle libertà democratico-borghesi la borghesia l’ha buttata a mare; io penso che tocca a voi, rappresentanti dei partiti comunisti e democratici, di risollevarla e portarla avanti, se volete raggruppare attorno a voi la maggioranza del popolo. Non vi è nessun altro che la possa levare in alto.” Ecco perché, nella pratica politica degli ultimi 150 anni di storia moderna, i comunisti hanno sempre legato molto strettamente la battaglia democratica alla lotta per il socialismo, considerando che, anche la lotta per la difesa e lo sviluppo delle libertà democratiche figlie della Rivoluzione francese del 1789, avvicina e rende più credibile e probabile, passando attraverso le necessarie rotture, la conquista dei diritti sociali e lo sbocco socialista della lotta stessa. Così è stato nell’ottocento per la conquista dei diritti sociali più avanzati e per l’estensione del diritto di voto ed alla partecipazione democratica; così è stato nelle Rivoluzioni socialiste vittoriose nel corso del Novecento; così è stato nella lotta al fascismo e nella Resistenza europea con la politica dei fronti democratico-popolari; così è stato dall’ultimo dopoguerra fino ad oggi. Spetta, quindi, a noi comunisti, oggi, in una fase politica difficile di involuzione autoritaria ed antidemocratica, nel rilanciare la lotta per il socialismo ed il comunismo, partire dalla difesa e dallo sviluppo delle libertà democratiche e dei diritti civili, così come dei diritti sociali dei lavoratori e di tutti i cittadini italiani, europei ed immigrati, per creare un grande, ampio e forte, fronte democratico e popolare che sappia raccogliere ed interpretare le più profonde aspirazioni del popolo al fine di dare ad esse uno sbocco politico adeguato. La questione sindacale In questo contesto, e di fronte ai compiti che ci si prefigge, per i comunisti, assume una decisiva importanza la questione del lavoro nelle organizzazioni dei lavoratori, come terreno di incontro, di confronto e di azione politica e sociale volta ad interpretare i bisogni popolari, a partire dai luoghi di lavoro e di studio, al fine di sviluppare un ampio ed articolato movimento di lotta in grado di mettere in crisi l’egemonia culturale, il potere politico ed economico dei padroni e dei governi che ne rappresentano gli interessi. Anche su tale tema, è sempre stata molto chiara la impostazione necessaria del lavoro politico da svolgere, così come ricordato dai principali esponenti del movimento operaio e comunista internazionale. Lenin, ne “L’estremismo, malattia infantile del comunismo” (luglio 1920), indica ai comunisti di tutto il mondo, dopo la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre nel 1917 in Russia, i compiti di lavoro nelle organizzazioni sindacali di massa. Nel capitolo intitolato “Devono i rivoluzionari lavorare nei sindacati reazionari?”, Lenin ricorda che “I sindacati, all’inizio dello sviluppo del capitalismo, hanno costituito un eccezionale progresso per la classe operaia, in quanto hanno rappresentato il passaggio dalla dispersione e dall’impotenza degli operai ai primi germi della unità di classe. Successivamente, i sindacati hanno cominciato a rivelare, inevitabilmente, alcuni tratti reazionari, una certa angustia corporativa, una certa tendenza all’apoliticità, una certa fossilizzazione. Ma, in tutti i paesi del mondo, il proletariato si è sviluppato e poteva svilupparsi solo per mezzo dei sindacati, solo attraverso l’azione reciproca tra i sindacati ed il partito della classe operaia”. Quindi, i comunisti, “Per aiutare le masse e conquistarsi la loro simpatia,


l’adesione ed il loro sostegno, non devono temere le difficoltà, gli intrighi, gli insulti e le persecuzioni dei capi riformisti, e bisogna assolutamente lavorare là dove sono le masse. Bisogna saper sopportare qualsiasi sacrificio, superare i maggiori ostacoli, per svolgere una propaganda ed una agitazione sistematiche, tenaci, costanti e pazienti, proprio nelle istituzioni, nelle società, nelle leghe, anche nelle più reazionarie, dovunque si trovino le masse proletarie o semiproletarie”. Ed Antonio Gramsci (Lo Stato Operaio, 18 ottobre 1923) afferma che: “Noi siamo, in linea di principio, contro la creazione di nuovi sindacati. Ogni tentativo fatto per organizzare a parte gli elementi sindacali rivoluzionari è fallito in sé ed è servito solo a rafforzare le posizioni egemoniche dei riformisti nella grande organizzazione.” Tutta la storia del movimento operaio e comunista europeo e mondiale ha confermato la validità di tali indicazioni politiche ed organizzative, al fine di creare un movimento unitario di lotta dei lavoratori e di tutti i proletari. I comunisti, organizzati in cellule, nei luoghi di lavoro devono compiere una attività nelle organizzazioni sindacali di massa, volta ad esporre con chiarezza e semplicità le cause e le responsabilità delle sofferenze dei lavoratori, svelando i nessi di causa-effetto che legano le politiche dell’Unione europea e dei governi dei vari paesi aderenti agli interessi della classe padronale, facendo così crescere la coscienza politica, partendo dalla condizione di vita e di lavoro quotidiano, creando così le premesse per rafforzare e dare continuità alle mobilitazioni che partono dai bisogni economici di carattere immediato. L’obbiettivo generale di un tale lavoro è la creazione di un vasto fronte sociale di lotta che raggruppi lavoratori della città e della campagna, lavoratori precari, lavoratori della cultura e della scienza, piccoli imprenditori, artigiani e commercianti proletarizzati dalla crisi, al fine di mettere in crisi, con la lotta, i governi della UE e dei padroni e costruire ad essi una generale alternativa politica, economica e sociale. Il Vaticano, l’Italia e la questione religiosa Antonio Gramsci, nei suoi scritti dal carcere, relativamente al Concordato fra Stato e Chiesa Cattolica del 1929 afferma: “La capitolazione dello Stato moderno che si verifica per i concordati, viene mascherata identificando verbalmente concordati e trattati internazionali. Ma, un concordato non è un comune trattato internazionale: nel concordato si realizza di fatto una interferenza di sovranità in un solo territorio statale, perché tutti gli articoli di esso si riferiscono ai cittadini di uno solo degli Stati contraenti, sul quale il potere sovrano di uno Stato estero giustifica e rivendica determinati diritti e poteri di giurisdizione, I concordati intaccano in modo essenziale il carattere di autonomia della sovranità dello Stato moderno. La Chiesa, cioè si impegna verso una determinata forma di governo a promuovere quel consenso di una parte dei governati che lo Stato, esplicitamente, riconosce di non poter ottenere con mezzi propri. Ciò significa il riconoscimento pubblico ad una casta di cittadini dello stesso Stato di determinati privilegi politici.” Con l’inserimento nell’art.7 della Costituzione repubblicana dei Patti Lateranensi, tale rapporto fra Stato e Chiesa viene consegnato all’attualità dei giorni nostri. Si tratta, quindi, di riprendere con vigore e determinazione la lotta contro i privilegi di cui parlava Gramsci e contro la capitolazione dello Stato moderno, ancorché borghese, nei confronti della Chiesa Cattolica e la sua egemonia politica e culturale.


Relativamente al “pensiero sociale” dei cattolici Gramsci affermava che “non si tratta di un programma politico obbligatorio per tutti i cattolici ma, puramente e semplicemente, un complesso di argomentazioni polemiche, positive e negative, senza concretezza politica”. Perciò, di esso ne va seguito lo sviluppo fino ai giorni nostri, con Papa Francesco I, per saper svolgere con esso il necessario confronto-scontro sui temi sociali di attualità e sulle questioni di fondo della vita umana. A questo fine, relativamente al fenomeno religioso, va ricordata l’analisi di Karl Marx ne “L’Introduzione alla critica della filosofia del diritto di Hegel (1844): “La miseria religiosa è, ad un tempo, l’espressione della miseria reale e la protesta contro di essa. La religione è il singhiozzo della creatura oppressa, è il senso effettivo di un mondo senza cuore, come è lo spirito di una vita priva di spirito. Essa è l’oppio del popolo. La eliminazione della religione come illusoria felicità del popolo è la condizione della sua felicità reale.” Da ciò ne deriva la necessità di rivolgersi ai credenti con lo spirito di chi tende a fare chiarezza sulle origini e le cause della sofferenza umana per svelare la vera natura dei rapporti fra gli esseri umani e fra questi e la vita stessa. D’altro canto, è necessario unire il popolo su di una piattaforma di emancipazione politica e sociale che sappia prescindere dall’elemento religioso in se, nella consapevolezza che la fede religiosa, è cosa intima, spirituale dell’essere umano e che tale debba rimanere ed essere, in ogni caso oggetto del massimo rispetto, ma non condizionante la politica e le politiche di uno Stato laico, sovrano e socialista. Il Risorgimento e la Resistenza antifascista: il ruolo dell’egemonia nell’esercizio della direzione politica e sociale. I marxisti hanno sempre riconosciuto il carattere progressivo dei movimenti borghesi di liberazione nazionale contro le forze feudali ed assolutistiche, perciò, nel 1859, Marx riconobbe tale ruolo alle forze che combattevano per la conquista della unità nazionale dell’Italia che si realizzò all’inizio del 1861. Come ci ricorda Antonio Gramsci nell’articolo su “Il Grido del popolo” del 1° aprile 1916 “La nuova Italia aveva trovato in condizioni assolutamente antitetiche i due tronconi della penisola, meridionale e settentrionale, che si riunivano dopo più di mille anni. L’invasione longobarda aveva spezzato definitivamente l’unità creata da Roma, e nel settentrione i Comuni avevano dato un impulso speciale alla storia, mentre nel mezzogiorno il Regno degli Svevi, degli Angiò, di Spagna e dei Borboni ne avevano dato un altro. Da una parte, la tradizione di una certa autonomia aveva creato una borghesia audace e piena di iniziative ed esisteva una organizzazione economica e sociale simile a quella degli altri stati d’Europa, propizia allo sviluppo ulteriore del capitalismo e dell’industria. Nell’altra, la borghesia non esisteva, l’agricoltura era primitiva e non bastava neppure a soddisfare il mercato locale: non strade, non porti, non utilizzazione delle poche acque che la regione, per la sua speciale conformazione geologica, possedeva.” In un brano del “Ordine Nuovo” del 3 gennaio 1920, il punto di vista dei comunisti torinesi è mirabilmente illustrato da Antonio Gramsci relativamente agli effetti della unificazione nazionale sui rapporti fra le classi sociali ed al programma che sarebbe stato necessario al fine di spezzare il giogo dello sfruttamento. “La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di


sfruttamento; il proletariato settentrionale, emancipando se stesso dalla schiavitù capitalistica, emanciperà le masse contadine meridionali asservite alla banca ed all’industrialismo parassitario del settentrione. La rigenerazione economica e politica dei contadini non deve essere ricercata in una divisione delle terre incolte o mal coltivate, ma nella solidarietà del proletariato che, a sua volta, ha bisogno della solidarietà dei contadini, avendo interesse a che l’Italia meridionale e le isole non diventino una base militare della controrivoluzione capitalistica. Imponendo il controllo operaio sull’industria, il proletariato rivolgerà l’industria alla produzione di macchine agricole per i contadini, di stoffe e calzature per i contadini, di energia elettrica per i contadini ed impedirà che, più oltre, l’industria e la banca sfruttino i contadini e li soggioghino come schiavi alle loro casseforti. Avendo in mano le industrie e le banche, il proletariato rivolgerà l’enorme potenza dell’organizzazione statale per sostenere i contadini nella loro lotta contro i proprietari, contro la natura e contro la miseria; darà il credito ai contadini, istituirà le cooperative, garantirà la sicurezza personale e dei beni contro i saccheggiatori, farà le spese pubbliche di risanamento ed irrigazione.” Nei “Quaderni dal carcere”, poi, Antonio Gramsci analizza con lucidità e chiarezza il tema della direzione politica del processo di formazione e sviluppo della nazione e dello Stato moderno in Italia: “I moderati, rappresentavano un gruppo sociale relativamente omogeneo, per cui la loro direzione subì oscillazioni relativamente limitate, mentre il così detto Partito d’azione non si appoggiava specificamente a nessuna classe storica e, storicamente fu guidato dai moderati. Questi ultimi, invece, erano intellettuali già naturalmente organici con i gruppi sociali di cui erano espressione, una avanguardia reale delle classi alte perché essi stessi appartenevano economicamente alle classe alte: erano intellettuali ed organizzatori politici ed, insieme, capi d’azienda, amministratori di grandi tenute, imprenditori commerciali ed industriali. Il Partito d’Azione, invece, era esitante ad accogliere nel suo programma determinate rivendicazioni popolari, ad esempio la riforma agraria, oltreché in rapporto personale, da parte di alcune sue personalità eminenti come Garibaldi, di subordinazione con i capi dei moderati. Per essere una forza autonoma e riuscire, in ultima analisi, ad imprimere al moto del Risorgimento un carattere più marcatamente popolare e democratico, pur sempre nei limiti di una rivoluzione borghese, il Partito d’Azione avrebbe dovuto contrapporre alla attività dei moderati un programma organico di governo che riflettesse le rivendicazioni essenziali delle masse popolari, in primo luogo dei contadini ed un piano di resistenza e controffensiva. Invece questo mancò, ed esso, in sostanza, fu sempre, più che altro, un organismo di agitazione e propaganda al servizio dei moderati”. Fin qui Gramsci, che morì in carcere nel 1937. Successivamente ed anche contemporaneamente alla sua prigionia, i comunisti, nella storia moderna del nostro Paese, a partire dalla lotta contro il fascismo, nella Resistenza e con la vittoria nella Guerra di Liberazione Nazionale di Liberazione, hanno assunto un ruolo importante di grande forza popolare e democratica con un profondo radicamento sociale. E’ tuttavia evidente che essi hanno perso l’appuntamento con l’obbiettivo della realizzazione di una società socialista, pur condizionando nel dopoguerra, dall’opposizione, il panorama politico e sociale del Paese. Nel corso dei decenni di storia della “Repubblica democratica nata dalla Resistenza” essi hanno progressivamente espunto dalla propria elaborazione programmatica e dalla propria prassi politica la prospettiva della trasformazione socialista della società italiana, fino a decretare il proprio auto dissolvimento al venir meno del “campo socialista” nell’est europeo. Per comprendere le ragioni di tale sbocco della storia comunista, va indagato, in profondità fino alle sue radici, il nesso esistito e poi vanificato fra idealità, programma e capacità di penetrazione sociale con la propria iniziativa politica e propagandistica così come analizzato da Gramsci per il Partito d’Azione nel Risorgimento.


Ad esempio, nel contesto italiano immediatamente successivo alla fine della II Guerra mondiale, i comunisti e le sinistre si trovarono a far parte di governi di unità democratica ed antifascista che avevano il compito di ricostruire il Paese distrutto dalla guerra. Nel loro programma, i comunisti, comprendevano la socializzazione dei mezzi di produzione e la riforma agraria, ma col prevalere della linea politica togliattiana che giudicava immature, nella situazione postbellica, tali trasformazioni, essi si trovarono ben presto ad agire, da posizioni di governo, in modo subalterno alle forze politiche e sociali che operavano per una ricostruzione del Paese su basi capitalistiche, senza potere e volere condurre una robusta iniziativa di massa fondata sulla mobilitazione politica e sindacale. Più in generale, essi dimostrarono in un periodo cruciale della nostra storia nazionale, di non saper promuovere e sostenere con la mobilitazione di massa, una organica politica di epurazione e rinnovamento degli uomini e delle strutture dello Stato, premessa questa indispensabile per attuare una serie di trasformazioni strutturali (nazionalizzazioni, riforma agraria) in grado di spezzare il potere dei monopoli capitalistici ed aprire una diversa e più avanzata prospettiva di sviluppo economico e sociale del Paese. Qualcosa di simile si verificò negli anni 70 del secolo scorso, quando, in seguito ad anni caratterizzati da estese lotte sociali e avanzamenti elettorali del partito comunista si aprì la così detta stagione di “solidarietà nazionale” caratterizzata dal fatto che il PCI smise di fare l’opposizione ai governi a guida DC astenendosi, come sperato preambolo all’ingresso in un governo di coalizione. Qui i danni furono anche più gravi che nel caso precedentemente descritto. I comunisti si trovarono, per due anni, ad appoggiare dall’esterno politiche antipopolari in perfetta continuità col passato, ritrovandosi poi nuovamente all’opposizione in seguito alla inevitabile sconfitta elettorale registrata dopo tale fallimentare esperimento. Sulla base di tali precedenti storici è necessario verificare le caratteristiche essenziali di un partito comunista popolare in grado di riprendere, nel nostro Paese la lotta per la democrazia ed il socialismo. Un Partito Comunista Popolare per la democrazia ed il socialismo Non può sembrare strano, per avviare tale riflessione, partire dal tema della cultura. Su tale tema, in un articolo scritto su “Il grido del Popolo” del 29 gennaio 1916, Gramsci afferma: “Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui l’uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da riempire di dati empirici, di fatti bruti e sconnessi che egli poi dovrà incasellare nel suo cervello come nelle colonne di un dizionario per poter poi, in ogni occasione, rispondere ai vari stimoli del mondo esterno. Questa forma di cultura è veramente dannosa, specialmente per il proletariato. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell’umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barricata fra se e gli altri. Serve a creare quel certo intellettualismo bolso ed incolore come nel caso dello studentucolo che sa un po’ di latino e di storia, dell’avvocatuzzo che è riuscito a strappare uno straccetto di laurea alla svogliatezza ed al lasciar passare dei professori, credendo di essere diversi e migliori anche del miglior operaio specializzato. La cultura è una cosa diversa. E’ organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti ed i propri doveri. Ma tutto ciò non può avvenire per evoluzione spontanea, per azioni e reazioni indipendenti dalla propria volontà, come avviene nella


natura vegetale e animale in cui ogni singolo seleziona e specifica i propri organi inconsciamente, per legge fatale delle cose. L’uomo è soprattutto spirito, cioè creazione storica e non natura. Non si spiegherebbe perché altrimenti, essendo sempre esistiti sfruttati e sfruttatori, creatori di ricchezza e consumatori egoistici di essa, non si sia ancora realizzato il socialismo. Gli è che solo a grado a grado, a strato a strato, l’umanità ha acquistato coscienza del proprio valore e si è conquistato il diritto di vivere indipendentemente dagli schemi e dai diritti di minoranze storicamente affermatisi prima. E questa coscienza si è formata non sotto il pungolo brutale delle necessità fisiologiche, ma per la riflessione intelligente, prima di alcuni e poi di tutta una classe, sulle ragioni di certi fatti e sui mezzi migliori per convertirli da occasione di vassallaggio in segnacolo di ribellione e di ricostruzione sociale. Ciò vuol dire che ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee attraverso aggregati di uomini prima refrattari e solo pensosi di risolvere giorno per giorno, ora per ora, il proprio problema economico e politico per se stessi, senza legami di solidarietà con gli altri che si trovano nelle stesse condizioni. Prima della rivoluzione francese, si era formata in tutta Europa come una coscienza unitaria, una internazionale spirituale borghese sensibile in ogni sua parte ai dolori ed alle disgrazie comuni e che era la preparazione migliore per la rivolta sanguinosa poi verificatasi nella Francia. In Italia, in Francia, in Germania si discutevano le stesse cose, le stesse istituzioni, gli stessi principi. Ogni nuova commedia di Voltaire, ogni nuovo pamphlet era come la scintilla che passava per i fili già tesi fra Stato e Stato, fra regione e regione. Le baionette degli eserciti di Napoleone trovavano la via spianata da un esercito invisibile di libri, di opuscoli che erano sciamati da Parigi fin dalla prima metà del secolo XVIII e che avevano preparato uomini ed istituzioni al rinnovamento necessario. Lo stesso fenomeno si ripete oggi per il socialismo. E’ attraverso la critica della civiltà capitalistica che si è formata o si sta formando la coscienza unitaria del proletariato, e critica vuol dire cultura e non già evoluzione spontanea e naturalistica. Critica vuol dire, appunto, quella coscienza dell’io che si oppone agli altri, che si differenzia e, essendosi creata una meta, giudica i fatti e gli avvenimenti, oltreché in se e per se, anche come valori di propulsione o di repulsione. Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi, vuol dire essere padroni di se stessi, distinguersi, uscire fuori dal caos, essere un elemento di ordine, ma del proprio ordine e della propria disciplina ad un ideale.” Queste affermazioni, possono, ancor più oggi, dopo 100 anni, costituire la base ed il punto d’inizio della riflessione sul Partito e sul suo ruolo, perché la storia ci ha insegnato che tanto più la società borghese e capitalisticamente organizzata è andata affinando il suo apparato dell’organizzazione del consenso attorno ai suoi valori ed alle sue finalità, tanto più si richiede da parte della classe che ne contesta l’organizzazione e del Partito portatore del progetto alternativo di società, un affinamento ancora maggiore delle tecniche espositive dei contenuti e dei contenuti stessi del programma di trasformazione socialista della società. Noi sappiamo che il primo livello di lotta che si esprime da parte degli sfruttati, cioè dei lavoratori, contro gli sfruttatori, cioè i padroni dei mezzi di produzione, è quello economico che parte dalle rivendicazioni di carattere economico (orario, salario, ritmi di lavoro ecc.), ma sappiamo anche che la lotta economica e sindacale non può essere disgiunta dalla lotta politica e che, l’una e l’altra, non possono essere disgiunte dalla lotta ideologica. Per il Partito della classe operaia e del popolo i tre fronti della lotta proletaria si riducono, nella realtà, ad uno solo perché il militante del Partito comunista deve essere in grado di organizzare la lotta sindacale, fare crescere la coscienza dei lavoratori di essere i protagonisti di una lotta generale che investe tutte le questioni dell’organizzazione della società, fino al punto di portare il livello di coscienza alla consapevolezza della necessità di lottare per il socialismo. Perciò il Partito deve saper


acquisire e propagandare i principi del marxismo e del leninismo attraverso una rete di quadri che ne conoscano l’essenza e sappiano farne una divulgazione non scolastica e ripetitiva ma legata alla vita dei lavoratori e del popolo a cui ci si rivolge. In questo senso, si può dire che la preparazione ideologica di massa è molto importante per lottare e riportare anche vittorie parziali o temporanee, per non parlare di quelle che mutano l’orizzonte storico di sviluppo della società. Tale lavoro è sempre stato trascurato nel movimento operaio italiano. Infatti, in Italia, il marxismo è stato studiato più dagli intellettuali borghesi, al fine di snaturarlo e renderlo funzionale alla stabilità del sistema capitalistico, che dai lavoratori e dagli stessi militanti comunisti. Ciò ha sempre influito negativamente sull’andamento della lotta di classe ed ha provocato pesanti limiti nella conduzione delle lotte stesse, causandone, spesso, la sconfitta, col conseguente arretramento della volontà dei lavoratori e degli sfruttati di reagire contro lo sfruttamento e l’oppressione sociale della borghesia, consolidandone così il potere. A questo limite di fondo dello scontro politico e sociale nel nostro Paese andrà posto rimedio con lo studio e l’approfondimento delle principali questioni economiche e sociali al fine di elevare progressivamente il livello di cultura politica, prima di tutto dei militanti di Partito, per porli in grado, vivendo a contatto delle masse popolari, di essere elementi politici attivi in grado di esercitare una reale funzione dirigente. Un altro tema centrale per la costruzione di un partito comunista popolare è la sua organizzazione. Va detto, innanzitutto, che, su questo piano, grandi e fatali sono stati gli errori compiuti dalle formazioni politiche nate dopo lo scioglimento del PCI ed ora marginali, ininfluenti e sulla via dell’auto dissolvimento. Dopo il venir meno dell’esperienza del più grande partito comunista dell’occidente capitalistico ed il suo approdo all’appartenenza della socialdemocrazia europea, nel tentativo di ricostruire un partito comunista nel nostro Paese, si è oscillato fra una concezione che si potrebbe definire spontaneistica della organizzazione che lasciava esclusivamente all’iniziativa di singoli o gruppi di militanti la selezione dei temi su cui agire e la forma organizzativa con cui sostenere tali iniziative, ed una concezione che si potrebbe definire mitologica ed ipercentralista che è risultata funzionale più al ruolo ed alla visibilità del leader unico nazionale considerato come catalizzatore pressoché esclusivo dell’attenzione attraverso i media dell’opinione pubblica che all’iniziativa complessiva del Partito lasciata priva, a livello locale, di un piano di azione comune ispirato da un mix di piani nazionali e locali di iniziativa, legati alla specificità dei territori. Queste due concezioni opposte ed entrambe errate dell’organizzazione hanno portato, pur nelle forme diverse in cui si sono manifestate negli ultimi 25 anni, alla dispersione e vanificazione della iniziativa locale e nazionale, alla generazione di mostruosità leaderistiche unilaterali ed alla rappresentazione coreografica e macchiettistica dell’organizzazione stessa (servizi d’ordine, geometrie di parata nelle manifestazioni) di nessuna efficacia operativa sul piano del lavoro politico e foriera di discredito e ridicolizzazione del concetto stesso di organizzazione. Di ben altro vi é bisogno per la costruzione del partito comunista popolare. Innanzitutto, bisogna stabilire che l’organizzazione è funzionale alle priorità dell’intervento politico che si scelgono e quindi al lavoro politico che i militanti del Partito devono svolgere. Per un partito comunista che punti ad avere una base sociale ed un consenso elettorale, la priorità è


nell’intervento nei luoghi di lavoro a partire dalla presenza dei propri militanti. Il militante comunista lo si comincia a fare, ogni giorno dall’inizio dell’orario di lavoro, incontrando i propri compagni di lavoro, socializzando con essi le problematiche comuni di vario tipo, al fine di emergere, nella quotidianità della propria presenza, come punto di riferimento per affrontare problemi di lavoro e di lotta contro le angherie, le sopraffazioni e prepotenze che ledono la dignità dello svolgimento della attività lavorativa. Senza di ciò non vi è partito comunista ed anche la presenza e la propaganda esterna, che pure si rende necessaria, non trova i canali ed i soggetti adeguati con cui svilupparsi. A questo livello d’intervento, laddove esistano più militanti del Partito in un luogo di lavoro o di studio, la cellula comunista è la forma di organizzazione snella ed efficace che permette ai compagni di confrontarsi e di decidere, anche con brevi e rapide riunioni nelle pause di orario di lavoro, sui problemi esistenti e sulle modalità di iniziative da intraprendere. Vi è, poi, un altro livello di iniziativa politica che investe questioni nazionali ed internazionali che richiede la presenza di organizzazioni di Partito oltreché di luogo di lavoro, con carattere territoriale. E’ a questo livello che si intrecciano i piani nazionali di intervento del Partito con i piani locali elaborati dalle organizzazioni territoriali e di lavoro. Una campagna di denuncia e di opposizione su particolari leggi del lavoro o su questioni di politica internazionale sono i temi, ad esempio, che devono vedere protagoniste tutte le organizzazioni del Partito. Alcune considerazioni vanno fatte, poi, sugli organismi dirigenti nazionali e locali. E’ stata prassi molto diffusa, nel periodo storico precedentemente indicato, la creazione di organismi dirigenti, soprattutto nazionali, quali comitati centrali o nazionali, pachidermici ed ininfluenti, pura rappresentazione e sede di un dibattito finto e stantio che, dietro all’unanimismo di facciata, nascondeva il carattere celebrativo e formale del dibattito stesso in funzione del carattere mono leaderistico del Partito. Vanno, invece, creati, via via che il Partito cresce e si sviluppa, organismi dirigenti, a livello locale e nazionale, snelli ed operativi, caratterizzati da un confronto reale ed in grado di coinvolgere nelle decisioni e nell’operatività politica tutti i militanti del Partito. Cellule, sezioni territoriali, Comitali locali e Comitato Centrale dovranno corrispondere, anche nella loro composizione, a questi principi ed a questa impostazione del lavoro politico. A compimento della configurazione organizzativa di un moderno partito comunista di massa e popolare, va definita l’identità del militante comunista che ne costituisce l’ossatura portante. Si definisce militante comunista, colui o colei, che, condividendo le tesi e l’impianto politicoideologico del Partito, svolge la propria attività in una delle sue organizzazioni, sostenendolo economicamente ed impegnandosi nel lavoro di propaganda e di iniziativa verso coloro che comunisti non sono. Il carattere di massa del Partito risulta dalla efficacia e dalla capillarità del lavoro politico svolto verso un sempre maggior numero di persone, di lavoratori, giovani, anziani, donne, disoccupati e dalla relativa influenza che su di esse, il militante saprà esercitare, sia nella mobilitazione sociale che nella verifica del consenso elettorale e non dal numero di tessere distribuite a persone passive e distaccate dalla iniziativa del Partito stesso. Sulla base di questi principi politici ed organizzativi si può riprendere, con serenità e determinazione,


un lavoro di lunga lena, ma da avviarsi subito, per la costruzione, nel nostro Paese, di quel partito comunista di massa e popolare fondato su una cultura politica comunista moderna e critico-propositiva, all’altezza del tempi e dei compiti che ci attendono, per combattere, con la mobilitazione delle più vaste masse popolari, il capitalismo e creare, come ci hanno insegnato i padri fondatori del socialismo scientifico, quel sistema economico e sociale nuovo fondato sull’uguaglianza, la giustizia sociale e la vera libertà che emerge, nella sua necessità, da tutte le terribili contraddizioni del sistema capitalistico ed imperialista vigente e che, perciò stesso, ci attende all’appuntamento dello sviluppo storico col nome che è stato, negli ultimi due secoli, suscitatore delle più grandi speranze, delle più grandi lotte, delle più grandi vittorie e dolorose sconfitte dell’umanità e che si chiama, oggi come ieri, socialismo e comunismo. Per contatti: comunistipopolari@gmail.com https://comunistaepopolare.org


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