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ATTIVIAMO I NOSTRI ISTINTI MIGLIORI

Èuna bella mattina di sole. Stiamo camminando in direzione dell’ufficio, e mentre attraversiamo il solito parco, vediamo che un bambino piccolo, di due o tre anni, si dimena in uno stagno e non riesce a uscirne. Ci guardiamo intorno, ma i suoi genitori non si vedono da nessuna parte. Senza pensarci più di tanto, ci gettiamo nell’acqua nel nostro completo da lavoro e salviamo il bambino prima che sia troppo tardi.

Ci sembra un comportamento irreprensibile: se possiamo salvare la vita di qualcuno a un costo ridotto per noi, abbiamo il dovere di farlo. Poco importa, ovviamente, che saremo in ritardo al lavoro e ci perderemo una riunione importante, che ci rovineremo il nostro completo nuovo, che ci verrà un bel raffreddore.

Questa storiella è l’inizio di uno dei testi di etica più famosi del secolo scorso, del filosofo australiano Peter Singer. Il suo ragionamento continua così: se ci pare moralmente necessario salvare il bambino nello stagnovisto che a rischio non c’è la nostra vita né nulla che fondamentalmente alteri il corso della nostra esistenzaallora ci sono molte altre situazioni in cui siamo in dovere di soccorrere chi è in seria difficoltà. Se possiamo aiutare una persona in povertà assoluta donando l’equivalente che pagheremmo in lavanderia per il nostro completo sporco, non abbiamo il dovere di farlo?

Non c’è nessuna differenza tra un bambino che affoga mentre attraversiamo un parco e un bambino che rischia di morire di fame in un Paese lontano. Quindi perché consideriamo nostro dovere salvare il primo ma non il secondo?

Quello di Singer è un potente monito contro la nostra indifferenza. Siamo dell’idea che aiutare gli altri, soprattutto le persone lontane da noi, sia un atto di altruismo apprezzabile ma non obbligatorio. Singer prova a mettere in dubbio le nostre certezze. Da una parte ci sembra moralmente necessario correre in soccorso del bambino nello stagno, dall’altra non siamo sufficientemente motivati nei confronti di qualcuno che non conosceremo mai di persona. Le nostre emozioni si prendono in parte gioco di noi: la distanza tra noi e qualcun altro ci convince che non ci sia nessun vincolo che ci leghi.

Ovviamente la questione non è così semplice: quando passiamo davanti al lago siamo chiamati in forma immediata ad agire. Siamo gli unici (o tra i pochi) che possono portare in salvo il bambino. È soprattutto un caso eccezionale: se dovessimo salvare ogni giorno qualcuno (e non per mestiere) la nostra qualità della vita ne risentirebbe notevolmente. Se ci sono al mondo migliaia, milioni di persone che hanno urgente bisogno di aiuto, a che punto sentiremmo di aver fatto il nostro dovere?

Inoltre, uno studio recente ha dimostrato che la decisione di soccorrere una persona in pericolo è solitamente un processo intuitivo, che ha luogo in una frazione di secondo, non il risultato di un’attenta riflessione. Molte delle persone intervistate, scelte perché avevano salvato una persona da morte praticamente certa, riportavano di non avere nemmeno avuto il tempo di pensare, di aver reagito automaticamente. Quando l’urgenza di una situazione del genere non esiste, è più difficile mettere in moto il nostro istinto.

Secondo lo psicologo Jonathan Haidt, che per decenni ha studiato il modo in cui gli esseri umani, nelle più diverse culture, producono parametri e giudizi, noi pensiamo all’etica come al risultato di riflessioni sistematiche. Concepiamo categorie ed esprimiamo giudizi influenzati prima di tutto dalle nostre emozioni. La logica interviene solo in un secondo momento, per giustificare (a posteriori, anche se non ce ne rendiamo conto) le nostre intuizioni morali.

L’emotività può essere rappresentata come un elefante, la razionalità come il suo guidatore: cerca di indirizzarlo, spesso ci riesce ma non ne ha mai il completo controllo e deve comunque tenere conto della sua forza soverchiante.

Il racconto di Peter Singer ci chiede di mettere da parte, anche solo momentaneamente, i nostri istinti, di tenere sotto controllo l’elefante della nostra emotività. Non è chiaro quanto sia possibile. Forse la soluzione più pragmatica non è quella di cercare di essere perfettamente razionali, ma di usare le emozioni a vantaggio di azioni altruistiche. Ad esempio, numerosi studi hanno dimostrato che siamo più inclini a donare denaro quando ci viene raccontata una storia personale, piuttosto che una serie, seppur allarmante, di numeri. Per cui ci farà più effetto sapere che Raman, 12 anni, ha bisogno del nostro aiuto, piuttosto che sentirci dire che mezzo milione di persone, soprattutto bambini, muoiono di malaria ogni anno. È il metodo utilizzato dalle organizzazioni che propongono adozioni a distanza: il rapporto che sentiamo di stabilire con una persona a cui diamo un nome e un volto ci spinge a donare più volentieri. Qualcuno potrebbe vederlo come una forma di manipolazione; molto meglio considerarla come uno stratagemma etico per salvare più vite attivando i nostri istinti migliori.

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