La città svelata

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Cernusco sul Naviglio

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La citta svelata


Prefazione

il Sindaco, Eugenio Comincini

Questa bella pubblicazione sulla nostra città ha davvero qualcosa di nuovo rispetto ai numerosi libri sinora editati: per la prima volta sono le immagini a raccontare il territorio, i paesaggi, i luoghi sacri e le dimore patrizie, i monumenti, i cortili di Cernusco sul Naviglio. La città viene davvero svelata in tutta la sua autenticità e in tutto il suo fascino: per i cernuschesi „da sempre‰ e quelli di nuova acquisizione questÊopera rappresenta un utile strumento di conoscenza della realtà nella quale viviamo, delle sue bellezze e dei suoi piccoli e grandi tesori. Un libro che ci aiuta – se ve ne fosse bisogno – a riscoprire lÊorgoglio di vivere in questa bella città, a sentirci più legati ad essa e alla sua storia. Una città che ha saputo e sa distinguersi in meglio anche per le attenzioni che si sono nel tempo avute al suo passato e alla sua conoscenza. Elisabetta Ferrario è la più nota, informata e autorevole conoscitrice della storia di Cernusco sul Naviglio e del suo patrimonio architettonico: dopo 5 importanti pubblicazione dedicate a ciò, ora ci offre un testo che – facendo sintesi delle informazioni storiche – ci parla con chiarezza dei monumenti, dei personaggi e degli avvenimenti che hanno caratterizzato il passato, accompagnando e raccontando le bellissime immagini di cui questo volume è ricco. La maestria fotografica di Stefano Sgarella ci consegna immagini che raccontano Cernusco sul Naviglio in modo inatteso, consentendo di elaborare un nuovo e parallelo racconto: quello della nostra vita dentro la città. Questo bel libro diventa anche invito e impegno a continuare sulla strada della tutela dei nostri beni storico-architettonici e del paesaggio: se Cernusco sul Naviglio è quello che è lo deve alla sua storia; è per questo che abbiamo tutti il dovere di conservarne le esistenze e le memorie. Un grazie a Donatella e Gianni Vidé per la determinazione con la quale hanno voluto e realizzato questÊopera.

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Elisabetta Ferrario Stefano Sgarella

Cernusco sul Naviglio, ’

la citta svelata

A cura di: Donatella Fiorini

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In copertina: Chiesetta di Santa Maria in Cernusco, tecnica mista su base fotografica (100x120 cm) di Giovanni Sesia. LÊopera è di proprietà del Comune di Cernusco sul Naviglio.

Testi: Elisabetta Ferrario Immagini: Stefano Sgarella Progetto grafico: Lucrezia Pettinari Coordinamento editoriale: Donatella Fiorini

© 2012 Pecora Nera adv - www.pecoraneraadv.it © Gli autori per i testi e le immagini

ISBN Printed in Italy

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Indice

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Le dimore patrizie

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• Villa Rovida, Gervasoni, Carini

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• Villa Biraghi Ferrario

• LÊagricoltura biologica

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• Villa Alari, Visconti di Saliceto

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• I giardini storici perduti

124

• Villa Biancani, Greppi

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• Il parco di Ambrogio Uboldo

132

• Villa Uboldo

32

• I parchi pubblici

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• Ville Liberty

38

I luoghi dellÊattività agricola

142

I cortili: tessuto connettivo del borgo

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• Cascina Imperiale

146

• Palazzo Tizzoni

48

• Cascina Castellana

148

• Palazzo Scotti

52

• Cascina Torriana

150

• Palazzo Viganò

56

• Cascina Ronco

152

• Corte della Senavra

154

• Corte dei Barnabiti

158

Verso lÊindustrializzazione

164

• La filanda Gavazzi

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Le opere del regime

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• La torre dellÊacqua

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Bibliografia

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Referenze fotografiche

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Presentazione

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Il territorio

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I luoghi del culto

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• Santa Maria Addolorata, chiesa pievana

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• Santa Maria Assunta, la nuova parrocchiale

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• Gli oratori campestri

82

• I conventi

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Il Naviglio Piccolo

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• La ruota idraulica

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• La metropolitana

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Nota introduttiva Donatella Fiorini

San Tommaso affermava che: „Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu‰, cioè „Nella mente non cÊè niente che non sia già iscritto nei sensi‰. Cosa cÊentra con questo libro? Ebbene, quando con Elisabetta e Stefano abbiamo pensato di avventurarci nella stesura di un volume che parlasse al cuore e liberasse emozioni positive, che in qualche modo svelasse la nostra città, ho pensato che la sua definizione era proprio in questa frase latina. Questa piccola città ti fa sentire a casa sempre, anche se le tue radici sono in tuttÊaltro posto, si insinua nel tuo essere e la ami ancor prima di averla capita come se fosse „iscritta‰ nel tuo DNA o meglio: nei tuoi sensi. Sicuramente nel produrre questo libro, nei sei mesi della sua lavorazione, ho ricevuto più di quanto ho dato. Ho visto ciò che sembrava celato e ho conosciuto tante persone: la vera anima di questa città. Ho avuto conferma di vivere in un posto meritevole di essere custodito, amato, rispettato per essere consegnato alle prossime generazioni come un tesoro veramente prezioso. Finita questa bella avventura, ringrazio Cernusco che si è aperta alla nostra curiosità, i cittadini che ci hanno accolto con pazienza, Elisabetta che mi ha aiutato a vedere la bellezza che ci circonda nascosta tra le cose di ogni giorno. Un particolare ringraziamento a Stefano che fa della passione il suo lavoro quotidiano. Con tutta la speranza che insegni ai miei nipoti ad amare e difendere questa città, dedico la mia parte dÊimpegno messa in questo volume a Lucrezia, senza di lei non ce lÊavremmo fatta!

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Nota introduttiva Elisabetta Ferrario

Un anno orsono la richiesta di scrivere un libro su Cernusco mi lasciò, confesso, perplessa. Ho allÊattivo cinque pubblicazioni sul patrimonio architettonico della città a partire dal 1980 e molti interventi su pubblicazioni più ampie, per non citare i moltissimi scritti di altri storici. La ricchezza degli studi che hanno per oggetto il territorio di Cernusco è significativa dellÊinteresse che la storia locale ha assunto negli ultimi anni. La prima trattazione del territorio di Cernusco risale al 1743 quando MarcÊAntonio Dal Re descrive lÊambiente in cui si inserì villa Alari definita „dÊarchitettura magnifica e di ottimo gusto‰. Dal 1743 ad oggi molto si è scritto su Cernusco, unÊisola felice rispetto ad altri centri, pur di dimensioni maggiori e ben più ricchi di beni. LÊattenzione dei cernuschesi verso la storia della loro città è sempre stata vigile ed ogni tematica è stata attentamente studiata. Cosa si poteva mai trovare di nuovo? Di quale strumento di conoscenza necessitava ancora il territorio? La prima idea fu una guida turistica agile, sintetica, con informazioni chiare. La conoscenza di Stefano Sgarella, il fotografo che mi venne affiancato dallÊeditore, arrivò a sconvolgere tutti i miei progetti. Davanti alle prime fotografie scattate ho subito realizzato che non potevano essere svilite in formato „francobollo‰. Sarebbero state le immagini a raccontare Cernusco! Le parole del testo sono così diventate la voce narrante che guiderà il lettore ad osservare i monumenti più significativi, a scoprire avvenimenti e personaggi storici che hanno costruito la città rendendo Cernusco una realtà molto singolare. La trattazione dei beni non pretende di essere esaustiva. Là dove le linee architettoniche erano state pesantemente alterate si è

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preferito inserire vecchie fotografie o dipinti che ne raffiguravano lÊaspetto originario. La descrizione dei beni è preceduta da unÊintroduzione sullÊevoluzione della tipologia nellÊarea milanese al fine di illustrare come questi beni, che ancora possiamo fruire, hanno preso forma dallÊuomo, dalla sua operosità e da esigenze di vita vissuta. Il monumento, nucleo fondamentale dellÊambiente, è quindi un bene prezioso. Auspico che questa pubblicazione possa costituire lÊavvio di una serie di accadimenti relativi al recupero di alcuni monumenti che non possiamo permetterci di perdere. Mi associo a Stefano nei ringraziamenti allÊintera famiglia Fiorini - Vidé che ci ha supportato con grande professionalità.

Quando la febbre edilizia diviene più forte della storia accade che la memoria storica sia oltraggiata in nome dei danée (C. Castellaneta)

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Nota introduttiva Stefano Sgarella

Che grande amarezza sarebbe sentir dire che queste immagini non danno emozioni, ma trovo conforto nel pensare che ogni cernuschese, scorrendo le pagine di questo libro, possa accedere ai propri ricordi con occhi nuovi o semplicemente ri-scoprire la propria città osservandola da un punto di vista differente. La fotografia, che si fa immagine, è un pretesto per raccontare una storia e le parole sono uno stimolo per la fantasia e rivelano il tempo che è stato. Ogni singolo fotogramma contiene unÊinfinità di dettagli, gran parte dei quali non sono visibili, perché vivono nella mente di chi osserva. Per questo motivo sono convinto che lÊopera prestata alla città di Cernusco sul Naviglio dagli autori possa dare vita a lieti momenti di commozione, di condivisione, di appartenenza e di orgoglio cittadino, ma anche di riflessione e di buoni propositi per il domani, perché tutelare, valorizzare e difendere il territorio, lÊambiente, il patrimonio artistico e monumentale della propria città, sono valori indispensabili per non perdere mai di vista se stessi. Ringrazio Elisabetta Ferrario per aver fatto conoscere, ad un non-cernuschese, il presente ed il passato della città di Cernusco sul Naviglio. Ringrazio Donatella Fiorini e Gianni Vidé per avermi supportato, sopportato e motivato per un anno di intenso lavoro. Ringrazio Lucrezia Pettinari per aver magistralmente impaginato immagini e parole. A queste meravigliose persone va ogni merito, perché in un momento storico complesso come lÊattuale presente, hanno saputo dar vita a qualcosa di nuovo, e mi hanno concesso lÊinestimabile opportunità di esprimere pensieri visivi senza porre confini al mio istintivo bisogno di emozionare. Un particolare ringraziamento alla città di Cernusco sul Naviglio e ai suoi cittadini.

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Il territorio

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Il territorio

Il territorio di Cernusco si inquadra in quello milanese impostato su fasce ambientali ad andamento est-ovest interagenti con i bacini lacustri che fungono da collegamento tra la fascia collinare prealpina e la pianura. La natura alluvionale di tale territorio, costituito dallÊaccumulo di materiali di erosione con depositi ghiaioso-sabbiosi, ha dato origine ad una stratificazione di falde acquifere intervallate da livelli argilloso impermeabili. Il tipico fenomeno dei fontanili è determinato dal riaffiorare delle due falde più superficiali. Risorgive si allineano per lÊintera ampiezza della pianura rendendo particolarmente fertili le zone interessate dal fenomeno. Disposte parallelamente, tali fasce ambientali sono collegate dalle valli fluviali di Ticino, Adda, Olona e Lambro. La favorevole morfologia del territorio determinò un precoce insediamento antropico divenuto stabile già nel neolitico (V-IV millennio a.C.) grazie allo sviluppo agricolo che produsse la differenziazione degli ambiti paesistici della zona e la valorizzazione dellÊambiente mediante lo sfruttamento delle abbondanti risorse idriche. Il paesaggio locale fu soggetto a continue trasformazioni determinate sia da interventi naturali che antropici. ˚ il territorio a fornire i mezzi di sussistenza alla città la cui nascita, mai casuale, è strettamente connessa a ben definiti ambiti paesistici ed agli elementi che ne compongono lÊecotessuto. Le risorse idriche naturali vennero, attraverso i secoli, potenziate dallÊopera dellÊuomo mediante la regolazione dei fontanili e lo scavo di una rete di canali talmente ricca e articolata da rendere il Milanese famoso in tutta Europa. Ai romani si deve la riorganizzazione del territorio col metodo della centuriazione di cui rimangono solo sporadiche tracce in quanto nel Milanese non fu necessario estendere il sistema su grande scala per la già buona conduzione agricola del territorio. In epoca gallica boschi di querce costituivano il confine dei fondi e nei campi chiusi si insediò la tipologia rurale gallica, di cui rimane memoria nei tipici casott sparsi nella campagna. Nonostante i notevoli interventi agricoli e di infrastrutturazione del territorio portati

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avanti dai romani, i boschi rimasero a presidio della proprietà, alternati ai campi coltivati col metodo della rotazione biennale. ˚ questo il periodo che vide la nascita della villa rurale, una tipologia che ebbe grande sviluppo a partire dal XV secolo, in una fase di particolare floridezza del Milanese determinata dallÊarticolato piano ducale di canalizzazione e dallÊintroduzione di forme industrializzate ai fini della conduzione delle aziende agricole. Colture come la marcita e la risaia, particolarmente estese a sud di Milano, costituirono un significativo esempio di ecosistema di compromesso. LÊopera dellÊuomo seppe infatti sfruttare la situazione negativa determinata dalle acque superficiali stagnanti senza distruggere lÊambiente, ma trasformandolo a suo vantaggio. Indispensabile fattore stabilizzante negli ecosistemi agricoli fu, nel XV secolo, lÊintroduzione della piantata padana che fortemente ha caratterizzato il paesaggio agrario del Milanese sino in epoche molto recenti. LÊagricoltura raggiunse il massimo sviluppo nel Milanese intorno alla metà del Settecento grazie alle illuminate riforme del Governo austriaco ed, in particolare, allÊintroduzione del catasto di Carlo VI attivato, nel 1757, dalla figlia Maria Teresa. Fu questa la riforma che determinò le maggiori trasformazioni a livello economico implicando unÊintegrale revisione della politica fiscale che modificò la conduzione dei fondi agricoli incidendo profondamente sulla morfologia del territorio. La forte caratterizzazione del paesaggio „teresiano‰ fu strettamente connessa allÊattività agricola incentivata dalle riforme e dallÊestensione del sistema idroviario e di canalizzazione. Le mappe catastali di Carlo VI ben visualizzano la rete idrica di un territorio già naturalmente ricco di acque. Il sistema idrico venne ulteriormente articolato nella seconda metà dellÊOttocento come attestano le mappe del catasto Lombardo Veneto (1862). Il Milanese era governato da un sistema economico di carattere rurale decodificabile mediante lo strumento catastale che, attraverso lÊampia documentazione conservata presso lÊArchivio di Stato di Milano, fornisce il quadro dettagliato dellÊorganizzazione sociale e dellÊimpiego dei suoli in Lombardia a partire dagli anni Venti del XVIII secolo. La coltura a cereali, indicata quale Aratorio, era di gran lunga la più diffusa estendendosi nel 1751 su 15.964 pertiche pari allÊ83% dei terreni inedificati. La superficie a seminativo, raramente condotta come coltura specializzata, era quasi sempre consociata alla vite ed al gelso. Il seminativo era ampiamente rappresentato sul territorio da frumento e granoturco, colture

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incentivate dal rialzo dei prezzi sul mercato internazionale. Nel 1858, lÊestensione del seminativo su 10.000 pertiche pari, al 78% del territorio comunale, non giustificherebbe lÊincremento della produzione cerealicola che va imputata al progresso delle tecniche agronomiche ai fini di un miglior sfruttamento del suolo. Il pascolo aveva unÊestensione molto minore rispetto allÊaratorio: solo 2.500 pertiche nel 1751 pari al 13% dei coltivi. Estensioni ridotte della coltura erano localizzate in prossimità degli aggregati rurali per lÊallevamento del bestiame necessario a coprire il fabbisogno interno, sia a livello alimentare, latte e suoi derivati, che per la lavorazione dei campi con lÊaratro. Come lÊaratorio, anche il prato era spesso consociato alla vite ed al gelso. Sempre annessa agli edifici residenziali era una coltura specializzata, lÊorto, che si estendeva nel 1751 su una superficie di 122 pertiche pari allo 0,6 % del territorio destinata a salire allo 0,7% nel 1858. LÊesigua estensione della coltura nel panorama agricolo locale è motivata da un utilizzo esclusivamente limitato al fabbisogno familiare. LÊelevatissima estensione dei terreni classificati quali „vitati‰ alla metà del XVIII secolo, pari al 64% del territorio, ulteriormente incrementata nel secolo successivo sino ad interessare il 70% dei coltivi, parrebbe indicare una fiorente produzione vinicola. Bisogna peraltro considerare che la coltura della vite era allÊepoca sempre consociata. In assenza di dati atti a stabilire il numero di piante messe a coltura, come invece avvenne per i gelsi, risulta impossibile quantificare la reale produzione di vino. La carenza dei dati catastali al riguardo è peraltro indicativa della scarsa commercializzazione del prodotto, che non forniva quindi una rendita tassabile. La promiscuità della coltura ed il conseguente basso rendimento, conferma lÊuso familiare che si faceva del prodotto. La qualità scadente di un vino a bassa gradazione alcolica, e quindi conservabile non oltre lÊanno, non consentiva la sua commercializzazione. La coltura che rivestiva il maggior interesse nellÊeconomia locale era il gelso che raggiungeva unÊestensione di 12.319 pertiche pari al 64 % dei terreni coltivati. Nel 1751 furono censite 3.715 piante. Già allÊepoca, lÊalta redditività aveva indotto i rilevatori a censire ogni singola pianta al fine di una corretta ripartizione del carico fiscale. A Cernusco la coltura ebbe una diffusione capillare sul territorio andando ad alimentare la fiorente industria relativa alla produzione della seta.

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Il territorio

L’agricoltura biologica

LÊagricoltura che ancora si pratica sul territorio di Cernusco è molto cambiata da quella storica. LÊedificazione ha invaso ampie fasce di terreni agricoli salvaguardando solo lembi di territorio, insufficienti per le colture estensive. Qui si sono sviluppate attività orticole e florovivaistiche estremamente raffinate che caratterizzano il territorio agricolo locale. I terreni interessati allÊagricoltura biologica sono prevalentemente localizzati ad est, verso Bussero. Il metodo utilizzato permette di ottenere alimenti con tecniche che salvaguardino la salute dellÊuomo, il benessere animale e lÊambiente Si tratta di un metodo codificato dallÊUnione Europea (Regolamento CEE 2092/91) le cui norme tutelano il consumatore e il produttore. Il regolamento comunitario si applica ai prodotti vegetali e animali, ma anche agli alimenti trasformati (conserve, salse, formaggi) e addirittura ai mangimi per animali. LÊetimologia del termine „biologia‰ deriva da due parole greche: bios (vita) e logos (scienza). Biologica significa quindi ritorno alla natura contrapponendosi allÊuso indiscriminato di concimi e sostanze chimiche per le colture. LÊobiettivo storico dellÊagricoltura biologica è stato da sempre „produrre tanto da sfamare le popolazioni‰. AllÊinizio del Novecento, i progressi dellÊindustria chimica portarono alla produzione di sostanze utili per combattere le malattie delle piante, sterminare gli insetti dannosi, eliminare le piante infestanti. I pesticidi erano considerati sostanze miracolose. Ben presto emersero i pericoli di un uso indiscriminato dei prodotti chimici, tanto che già negli anni Venti due ricercatori posero le basi dellÊagricoltura biologica. LÊagronomo inglese Sir Albert Howard contrapponeva lÊuso di sostanze organiche degradate (compost) ottenendo risultati analoghi, ma senza danneggiare lÊambiente. Nel 1924 un altro scienziato, lÊaustriaco Rudolf Steiner descriveva tecniche e principi spirituali dellÊagricoltura biodinamica dando spazio allÊuso di sostanze

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organiche, ma mettendo anche in rilievo lÊinfluenza delle forze cosmiche e astrali sulla crescita delle piante e sui ritmi biologici. I parametri dellÊagricoltura bio sono ora ben definiti: per fertilizzare si usano concimi organici (letame, sovesci), contro i parassiti si mandano i loro nemici naturali (insetti, uccelli), per difendersi dalle infestanti si usa la rotazione delle colture. Sul territorio di Cernusco operano diverse aziende bio. Tra le prime, lÊAzienda Agricola Corbari ha iniziato la sua attività alla fine degli anni Settanta sui terreni posti in prossimità della cascina Imperiale. Ma ascoltiamo dalle parole del proprietario, Antonio Corbari, la storia di questa azienda „...nata si può dire dal nulla. Prima il terreno era stato coltivato per 20 anni a monocoltura di mais. Io non ho solo cambiato il tipo di produzione, ma ho fatto in modo di cambiare lÊaspetto del terreno. Ho piantato alberi autoctoni, arbusti, siepi, anche fiori... Ho voluto creare dei miniambienti con le loro peculiarità: lo stagno con le anatre e i cigni, i pezzi di terra lasciati con erbe e fiori selvatici, la zona degli alveari. Si, perché le api sono necessarie per impollinare. E questo è il vero modo di fare agricoltura biologica‰. LÊazienda è diventata biologica nel 1987, ma con caratteristiche particolari, come tiene a precisare Antonio. „LÊagricoltura biologica non significa solo non usare i pesticidi. Bisogna anche riuscire ad assecondare la natura, intervenendo su di essa il minimo indispensabile, con leggerezza. La natura è in grado di difendersi da sola. Se in un ambiente cÊè biodiversità, ci saranno anche insetti utili che predano quelli nocivi. Insomma, gli equilibri naturali vanno rispettati e ricreati. Questo è il vero „orto biologico‰. Lo dico sempre ai miei allievi‰. LÊazienda Corbari è un ecosistema dove batteri, uccelli, insetti, alghe mantengono il terreno sano, in grado di fornire prodotti genuini. LÊagricoltura biologica è unÊagricoltura della vita, una tecnica che permette di coltivare mantenendo, a volte addirittura ricreando, gli equilibri naturali dellÊambiente. Le risorse alimentari delle nostre campagne erano nellÊOttocento molto limitate. I contadini, allÊalba, consumavano la pulta, una farina di cereali poveri condita con brodo dÊossi. Il pranzo, nei campi, consisteva in cipolle crude e pane di mistura, cotto una volta al mese, con vino crodello, ottenuto dalla spremitura degli acini caduti. La sera veniva servita zuppa di verdura (rape o verze) e un pezzo di formaggio. Solo a metà Seicento venne introdotto il mais, dai Balcani, da cui il nome di „grano turco‰ che i contadini tuttora chiamano melgun (grosso miglio).

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Il territorio

I giardini storici perduti

La sequenza delle antiche ville, in una straordinaria concentrazione, assume un ruolo determinante nel paesaggio locale caratterizzandolo in un progetto paesistico globale. Il più importante giardino locale, progettato in sintonia con villa Alari dallo stesso architetto Giovanni Ruggeri, è andato perduto, ma è ben documentato da una dettagliata descrizione e da quattro incisioni realizzate da MarcÊAntonio Dal Re nel 1743. Il giardino Alari costituiva un esempio significativo del tipo „alla francese‰ per la presenza di tutti quegli elementi distintivi della tradizione topiaria italiana mediata dallÊinfluenza francese che trovarono massima diffusione in ambito lombardo grazie anche alla pubblicazione del trattato di Dezallier DÊArgenville la cui prima edizione risale al 1709, in piena fase costruttiva della villa Alari. I quattro parterres centrali, contornati da festoni in bosso, erano decorati con piante fiorite – tulipani, giacinti, narcisi, viole, ciclamini, primule – con funzione puramente pittorica. Gli spazi verdi, destinati al riposo e al soggiorno della famiglia, erano collegati alle stanze private della villa mediante un giardino pensile cui si accedeva dallo splendido rondò assiale al gruppo scultoreo, confine del giardino che peraltro si prolungava visivamente con i lunghi assi prospettici. Il rondò simmetrico conduceva al teatro allÊaperto e alla „Peschiera‰ posta verso il canale, su un livello ribassato. Quattro scalinate scendevano fino allo specchio dÊacqua, il maggiore tra quelli lombardi, tanto che vi si girava in barca e vennero dati spettacoli di danza su pontoni e naumachie. Di grande suggestione dovevano essere i giochi dÊacqua di questo giardino con la fontana monumentale posta sullÊasse principale del complesso, tra la villa e lÊapprodo sul canale, e, come traguardo, il lungo cannocchiale prospettico oltre il Naviglio. Alimentava i giochi dÊacqua una roggia che un tempo scorreva lungo il lato meridionale della via Cavour. Il giardino

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MarcĂŠAntonio Dal Re, Veduta verso il Naviglio del Palazzo del Sig. Conte Allario in Cernusco, 1743

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era interamente percorso da „passeggi ombrosi‰ riferisce il Dal Re alludendo alle monumentali carpinate con campate coperte a padiglione. Il diffondersi dallÊInghilterra della moda del giardino „romantico‰ determinò la distruzione di questo come di molti altri giardini. Nel 1813 Luigi Villoresi, il noto specialista che aveva operato nel parco di Monza, realizzò la sistemazione allÊinglese del giardino Alari. Alcune fotografie dÊepoca e una descrizione del 1887 consentono la ricostruzione, seppur sommaria, dellÊintervento. Soppressi lÊapprodo e la balaustra monumentale lungo il Naviglio, lo spazio antistante la villa divenne un grande prato attraversato da viali ad andamento curvo. La settecentesca peschiera fu sostituita da un lago dal perimetro naturale lungo cui vennero piantati salici piangenti, essenza tipica dei giardini allÊinglese. Qui la vegetazione sÊinfittiva creando una barriera verde. Ben poco rimane anche del secondo giardino storico, sacrificato alle esigenze ospedaliere dellÊarea e alla più recente conversione ad uso pubblico. Analoga sorte coinvolse due giardini contigui: lÊappendice verso il canale del parco di Antonio Greppi e il giardino di villa Rovida, Carini, anchÊesso con struttura allÊitaliana e approdo sul Naviglio. Il parco Greppi è accuratamente descritto in un documento stilato nellÊagosto 1771 e da una planimetria (1800) conservata nellÊArchivio dellÊOspedale Maggiore di Milano. La villa vi appare interamente isolata dal borgo tramite diversi giardini. Quello di levante si estendeva sino allÊemiciclo chiuso dalle cancellate poste in fregio alla via Fatebenefratelli. Da qui un asse fendeva la campagna in una sconfinata prospettiva, fondale della monumentale fontana azionata mediante la torre dellÊacqua che tuttora svetta sulla via Cavour. Su piazza Unità dÊItalia insisteva il giardino degli „erbaggi‰ delimitato ad ovest dai due cortili dei rustici (demoliti). A meridione il giardino arrivava sino alla via Cavour. SullÊarea ora occupata dalla Biblioteca civica era posto il teatro che aveva per scena unÊesedra di sempreverdi. Grandi vasi di agrumi sottolineavano le campiture geometriche dei parterres, tipiche dei giardini alla francese. A metà Ottocento anche questo parco fu trasformato allÊinglese. Si salvò il ninfeo della Fortuna, traguardo della prospettiva che, attraverso le due cancellate affrontate, giungeva al naviglio. Pubblicato dal Bascapè (1962)

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il ninfeo venne demolito insieme ai rustici. Il giardino si prolungava oltre la via Cavour dove era lo „sbarco fatto a scalinata‰ sul naviglio, il „padiglione per uso deÊ bagni, e di piacere‰ e la darsena. Ben poco rimane dei giardini storici delle ville ordinatamente allineati lungo il canale ed ora inglobati in un indistinto spazio pubblico.

Il conte Alfonso Visconti di Saliceto nel giardino di villa Alari

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Il territorio

Il parco di Ambrogio Uboldo

Il diffondersi dallÊInghilterra della moda del giardino „romantico‰ fu favorito dai nuovi ideali libertari dellÊIlluminismo che individuavano nella libertà politica dellÊuomo quella delle forze spontanee della natura sacrificate, nel giardino allÊitaliana, alla volontà forgiatrice dellÊuomo. In Lombardia la fortuna del giardino romantico fu sostenuta a partire dal 1764 da Pietro Verri che nel suo scritto Le delizie della Villa afferma: „sembra opera libera della natura quello che è lÊultimo raffinamento dellÊarte‰, dove lÊartifizio è impiegato a simulare la spontaneità naturale. Il parco Uboldo costituisce un esempio molto precoce in Italia di giardino romantico – nel 1808 la sua costruzione era già avviata – tanto da costituire un modello in Lombardia. Il lotto di terreno pianeggiante mal si adattava alla trasformazione, ma venne abilmente modificato: la terra di scavo del laghetto andò a formare unÊaltura interamente percorsa da camminamenti ad imitazione di grotte naturali. Elemento qualificante del giardino rimane il Naviglio nei suoi aspetti naturali, visivi, prospettici. In prossimità del ponte dellÊAssunta, le sue acque sono convogliate in un canale artificiale che si snoda per lÊintera estensione del parco formando il lago. AllÊestremità orientale è posto il tempio di Diana: pareti e volte sono ricoperte di tufo e conchiglie marine su cui si diffonde una luminescenza mobile di notevole fascino. La vegetazione venne disposta a macchie dallÊirregolarità attentamente studiata per dilatare illusionisticamente lo spazio, mentre la spianata erbosa antistante la villa era funzionale allÊapertura di un cannocchiale visivo dal Naviglio, ora occluso dalla fitta piantumazione. Un secondo cannocchiale, diagonale, si apre tuttora sulla villa dal ponte dellÊAssunta, in tangenza alla fronte della finta chiesa: qui avrebbe dovuto aprirsi lÊingresso principale, mai realizzato. Al suo posto rimane il muro di

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cinta in ceppo rustico che simula le rovine di un castello con torre e camminamento merlato, forse riuso di strutture fortificate medievali. La cinta si salda ad una finta facciata di chiesa in stile gotico lombardo concepita come fondale architettonico di supporto alle sculture dĂŠepoca murate in calcolato disordine. Sopra il portale, una lapide indica il 1816 quale data di realizzazione. Il giardino era il museo allĂŠaperto della collezione di Ambrogio Uboldo: sculture e frammenti architettonici furono abilmente inseriti in scenari ambientali di ispirazione medievale. Lungo il muro di confine orientale in ceppo rustico vennero murate lapidi e colonne entro cui si inseriva una collezione omogenea di targhe araldiche in pietra di famiglie lombarde databili tra la

Il Tempio della Notte posto allĂŠinterno delle grotte

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fine del XVI e gli inizi del XVII secolo provenienti dalla fronte del Palazzo di Giustizia di Milano. Le opere di maggior pregio erano murate sulla facciata della finta chiesa, alcune provenienti da importanti edifici sacri milanesi. Le sculture sono state in gran parte trafugate a fine dicembre 1999. Rimangono, a tramandarne il ricordo, le cavità in cui sÊinserivano. Lungo la via Uboldo, una porta murata alla base di unÊaltura evidenzia la presenza di un sistema di grotte. Sul portale dÊaccesso una data: 1817, ricorda forse lÊapertura delle grotte. Alla sommità una lapide riporta unÊiscrizione minacciosa: Sempre allÊentrare aperto allÊuscir chiuso, un verso della „Gerusalemme Liberata‰ di Torquato Tasso. Gallerie rivestite di tufo, a tratti illuminate da fasci di luce provenienti dalle fessure delle volte, conducono al Tempio della Notte, unÊampia sala coperta da una volta emisferica che ricorda nella struttura a nicchie e colonne binate il Pantheon romano. Recentemente sono stati fatti studi su questa tipologia di architettura dei giardini, peraltro molto rara. Ad oggi si conoscono solo due esempi in Lombardia: il Tenpio della notte di Cernusco, quello di villa Finzi di Gorla. Il significato simbolico della loro struttura risiede nel concetto che lÊuomo è parte dellÊuniverso e quindi si mette in una posizione dÊascolto, di dialogo con la natura. Tali studi hanno anche fatto emergere come i proprietari fossero esponenti della Massoneria che qui tenevano i loro riti. A Cernusco lÊapertura nella volta è laterale per cui la luce penetrava in modo studiato in determinati momenti del giorno o dellÊanno nellÊambiente utilizzato per le cerimonie. La professoressa Breda, studiosa della tipologia, asserisce che „dai risultati archeoastronomici ottenuti è possibile riscontrare un possibile allineamento solare‰. La tipologia, e in particolare lÊesempio di Cernusco, merita di studi più approfonditi anche in relazione al fondatore del complesso. Ritornando al giardino, alcuni elementi sono andati perduti con la costruzione del nuovo padiglione ospedaliero come il curioso ponte del diavolo. La tradizione popolare era solita attribuire al diavolo la costruzione di ponti arditi in cambio dellÊanima della prima persona che lÊavrebbe attraversato. Oltre il ponte, si giungeva alla capanna boschereccia o del Cervo, indi alla casina di Angelica e Medoro, manifesto richiamo allÊ„Orlando Furioso‰. Il mistero del giardino è nellÊatmosfera che ancora si respira percorrendone i sentieri solitari nonostante le mutilazioni inferte, nonostante i furti perpetrati negli anni.

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…tortuosi sentieri…menano ad oscure grotte per le quali, oltrepassato l ’antro sacro ad Enea e Didone, si giunge per intricati meandri al Tempio della Notte.

(Ghezzi, 1911)

All’accendersi delle luci, in un palco eretto a fiord ’acqua, si svolse la danza delle fate silvane – quattro giovanette dai biondi capelli fluenti, cinte di veli vaporosi, con leggere ali iridate – dall ’alto cadeva un nugulo di petali sfarvallanti come fiocchi di neve …una vasca costellata di ninfee era irradiata da luci irreali dai magici colori: dall ’acqua emersero tre ninfe in lunghi veli, che salirono la proda al ritmo di una tenue musica.

Alla sensazione di orrido si aggiunge la voce del murmure ruscelletto che scorre lungo il camminamento pel quale si giunge infine al Tempio della Notte. ( Fermini, 1933)

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Una serata di gala si aprì con la Danza degli Amorini: putti alati volarono lievemente da un albero all ’altro, retti da corde, scesero sul prato per la danza…al suono di un’orchestra celata da una siepe. ...sul fianco della collina digradante verso un ameno laghetto, si distendeva la vigna di Bacco. (Ghezzi, 1911)

…il ponte a catene detto “del diavolo” è tradizionale in questo giardino per l ’emozione e l ’ilarità scherzosa che provoca nell’attraversarlo. (Fermini, 1933)

… da ricordare i fastosi ricevimenti offerti da Ambrogio Uboldo nel parco…percorso da un canale diramato dal Naviglio. In quel canale ebbe luogo una singolare regata storica: imbarcazioni di tutte le epoche, dall ’età fenicia in poi, con persone in costume, sfilarono lentamente davanti a centinaia di invitati, uscirono sul Naviglio e rientrarono nel parco... 31


Il territorio I parchi pubblici

A Cernusco lÊAmministrazione municipale ha da tempo avviato una politica di acquisizione di aree da destinare a verde pubblico. Già nel PRG del 1985 si evidenziavano aree destinate ad un grande parco comprensoriale sovracomunale mantenendo sempre il vincolo sulle aree ad esso destinate. Il progetto, nato quale recupero delle aree interessate da escavazione poste lungo il versante settentrionale del territorio comunale, fu condiviso dai comuni limitrofi (Brugherio, Carugate, Cologno Monzese). I terreni di formazione alluvionale, come il nostro, sono costituiti di ghiaia e sabbia stratificati in profondità. LÊampio utilizzo di questi materiali in edilizia ha determinato lÊapertura di diverse cave a partire dagli anni Sessanta, alcune recuperate, altre lasciate in abbandono come quella che si estende alle spalle della cascina Gaggiolo. La cava Merlini gravitava sui terreni nord-orientali del territorio, terreni gradualmente ceduti al Comune dopo lÊescavazione ed il ripristino a parco effettuato dallo stesso operatore. Il parco degli Aironi, inaugurato il 17 maggio 2003 si sviluppa su 80.000 mq. di terreno posti attorno ad un lago attrezzato per la pesca sportiva. Le sponde scendono a gradoni verso il filo dellÊacqua, ricoperte da una lussureggiante vegetazione al cui riparo nidificano aironi, anatre selvatiche, fagiani. ˚ stata segnalata anche la presenza di alcune volpi. La sorveglianza del parco è stata affidata a due associazioni: il club Pescatori e gli Scout. Poco discosta, verso ovest, si estende unÊarea naturalistica di notevole interesse in corrispondenza del fontanile Lodi, lÊunico sul territorio. Il suo tracciato compare con grande evidenza nelle mappe catastali sette-ottocentesche. La pressione della falda faceva sgorgare acqua sorgiva in corrispondenza della testa del fontanile, acqua che veniva canalizzata ed utilizzata per usi agricoli, ma anche domestici. In prossimità della testa del fontanile andò ad insediarsi la cascina San Maurizio,

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una delle più antiche. Più tardi, lungo il percorso, vennero edificate le cascine Visconta e Fontanile che tuttora mantengono, lungo il canale, gli antichi lavatoi e la successione degli orti che i contadini coltivavano per soddisfare il fabbisogno familiare. LÊabbassamento della falda ha interrotto il fenomeno di cui rimangono intatti i tracciati, ormai asciutti. LÊumidità del microclima ha favorito lo sviluppo di un bosco sulla testa del fontanile che ancora permane, seppur assediato dalla recente urbanizzazione della zona. LÊarea verde più interessante ai fini sportivi è la fascia posta a meridione del Naviglio, recupero dellÊantica alzaia che correva, senza soluzione di continuità, da Milano a Trezzo sullÊAdda. Tra il 1994 e il 1998 lÊarea, degradata dallÊabbandono, è stata bonificata ed attrezzata con piste ciclo-pedonali e „percorso vita‰, con il contributo della Provincia di Milano. A presidio del parco dei Germani sono sorti lÊOsservatorio astronomico, la sede dellÊAssociazione Canoa Fluviale e la Baita degli Alpini coi loro punti di ristoro. Il parco più frequentato del territorio si estende sullÊaltro versante del Naviglio ed è nato da un accordo di programma coi Fatebenefratelli che mettevano a disposizione dellÊAmministrazione comunale di Cernusco unÊarea di 174.000 mq attestata lungo la sponda destra, in pieno centro urbano e in corrispondenza di due fermate della linea 2 della MM. LÊarea verde è interamente cintata: due ponti mobili in ferro, uno girevole e lÊaltro levatoio, collegano le due sponde del canale andando a costituire le porte dÊingresso da sud. Il parco non aveva infatti soltanto una semplicistica destinazione a verde attrezzato. Le sue valenze storico-artistiche e la sua particolare localizzazione ne potevano fare un Museo diffuso sul territorio, unÊarea „attrezzata dalla Storia‰ che qui ha lasciato segni tangibili con una serie di „permanenze‰ che sono retaggio del nostro passato. Le numerose acquisizioni di aree al patrimonio pubblico hanno consentito a Cernusco di fregiarsi del titolo di Comune più verde della Provincia di Milano con 600.000 mq di verde pubblico comunale fruibile. Non bisogna peraltro dimenticare il verde privato che, oltre ai numerosi giardini delle ville locali, annovera lÊestensione del campo di golf del „Molinetto Country Club‰ sorto nel 1982 sul fondo agricolo della cascina Molinetto recuperata per farne la club House. Complessivamente verde pubblico e privato ammontano a 1.300.000 mq con unÊestensione procapite di circa 40 mq.

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I luoghi dell ’attivita’ agricola

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I luoghi dell ’attivita’ agricola

LÊarchitettura rurale è strettamente connessa alle modalità di vita e allÊambiente che lÊopera dellÊuomo ha saputo trasformare mediante una gestione tesa allo sfruttamento di tutte le risorse. ˚ unÊarchitettura „spontanea‰ caratterizzata da unÊaltissima valenza funzionale, è „la divina bellezza della semplicità‰. Nelle tipologie rurali lo stretto legame a sistemi di vita in lentissima trasformazione ha determinato fenomeni evolutivi più statici con una ripetitività delle strutture che rende spesso problematica lÊattribuzione temporale. A lungo considerata unÊarchitettura „minore‰, tale pregiudizio venne superato solo nel nostro secolo con la nascita del funzionalismo che seppe cogliere gli aspetti di estrema modernità insiti nellÊedilizia rurale. LÊevoluzione degli schemi tipologici della cascina è legata alla morfologia del territorio su cui è localizzata, alle infrastrutture di servizio – strade, canali, rogge – al clima, sino agli stessi uomini che vi lavorano formando una comunità con caratteri organizzativi e formali di tipo industriale. Tutti gli elementi della cascina vivevano in rapporto simbiotico tra loro e col territorio circostante, rapporto che, avviato dagli ordini monastici, raggiunse lÊapice grazie alla politica ducale. Lo stesso Leonardo si dedicò allo studio di opere idrauliche, di bonifica e di organizzazione agricola, studi che sperimentò nei pressi di Vigevano, alla Sforzesca, su incarico di Lodovico il Moro. Per il suo ambizioso progetto agrario il duca acquisì grandi appezzamenti di terreno su cui fece costruire dal veneziano Ermolao Barbaro mulini e cascine. LÊarticolato complesso rurale suscitò grande ammirazione tra il seguito di Luigi XII durante lÊinvasione francese. Agli effetti dellÊinsediamento delle cascine notevole importanza ha avuto lo scavo dei Navigli, a partire dalla fine del XV secolo vie privilegiate di comunicazione e trasporto, oltre a prezioza fonte idrica.

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A nord di Cernusco, un rialzamento del limite dei fontanili determinava un tempo lÊaffioramento delle acque che scorrevano sul territorio comunale con andamento nord-sud. Il fontanile di Cernusco sgorgava in prossimità del complesso rurale di San Maurizio andando poi a lambire le cascine Visconta e Fontanile. La mappa catastale del 1721 ben visualizza le 27 cascine del territorio ed il rapporto che legava lÊagglomerato urbano di Cernusco ai suoi nuclei insediativi, legame ora spezzato dallÊintensa edificazione e che ha determinato la necessità di infrastrutture territoriali. NellÊOttocento, nuove cascine di modeste dimensioni si addensarono in prossimità dellÊabitato: la cascina Lupa (distrutta) lungo il viale Assunta e le cascine Francesca, Scirea e Battiloca. La tipica cascina lombarda è caratterizzata da un impianto planivolumetrico organizzato attorno ad unÊampia corte quadrata o rettangolare delimitata da corpi di fabbrica con destinazioni dÊuso estremamente diversificate: dalle residenze rurali con alloggi individuali per ogni nucleo familiare, alle stalle con fienile soprastante disposte in modo da garantire lÊaerazione, ai depositi porticati per il rimessaggio di carri e attrezzi agricoli. Oltre alle funzioni residenziali, la cascina era La cascina Gaggiolo, 1979

centro di prima trasformazione dei prodotti agricoli quali la raccolta, la lavorazione, lÊessicazione e lÊammasso delle granaglie. LÊassetto planimetrico si organizzava attorno ad una grande corte di cui non va sottovalutato il ruolo sociale di spazio comunitario, dÊincontro e ritrovo. Nelle cascine più antiche è esplicito il riferimento alla tipologia castellana nella torre posta a difesa dellÊunico ingresso e nella scarsità di aperture, come appare nella cascina Imperiale.

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Cadute le necessità di carattere difensivo contro le bande di predoni adusi alla razzia dei raccolti, e non solo in tempo di guerra, la cascina iniziò, a partire dal Cinquecento, ad aprirsi verso lo spazio circostante. LÊimpianto poteva anche ampliarsi attorno a più cortili in conseguenza dello sviluppo dellÊazienda agricola, come avvenne alla cascina Imperiale o a Ronco. Particolare è invece la situazione di Castellana, Torriana, Gaggiolo dove il duplice cortile va collegato alla presenza dellÊedificio colto, vera e propria villa dotata di una corte dÊonore indipendente dallÊattività agricola e di un giardino privato. Soltanto dal XVII secolo la residenza signorile iniziò a distinguersi nettamente dai rustici. LÊoratorio privato, usuale nelle ville-cascina, era caratterizzato da una semplice e ricorrente organizzazione spaziale dettata dalle Istruzioni impartite da S. Carlo per avere il placet della Curia. In ambito locale sono dotate di oratorio le cascine Imperiale, Castellana, Torriana, Olearia e Gaggiolo. Anche gli aggregati rurali di Ronco e Colcellate erano un tempo dotati di un oratorio proprio per sopperire alla notevole distanza dalla parrocchiale. La distanza costituiva il requisito indispensabile per ottenere la licenza edilizia, come pure lÊuso allargato dellÊedificio sacro che doveva aprirsi verso lo spazio pubblico. Estremamente diversificata appare la tipologia

La cascina Imperiale, 1979

rurale in ambito locale costituendo un patrimonio edilizio insospettato, di cui è andato perduto lÊambiente a cui si rapportava. Il legame profondo tra uomo e natura faceva convivere in un contesto armonico il lavoro della terra e lÊambiente. Un rapporto che lÊincremento demografico, lo sviluppo industriale, la rete delle infrastrutture stanno sempre più mettendo in pericolo.

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I luoghi dell ’attivita’ agricola Cascina Imperiale

Fino alla metà dellÊOttocento la cascina si stagliava solitaria sulla piatta distesa di campi nellÊestremo lembo settentrionale del territorio di Cernusco. Ampie distese di frumento e mais su cui, allÊimprovviso, prendeva forma una torre quadrata, passante, a difesa dellÊunico accesso alla corte rurale. Un portale carraio a tutto sesto decorato da un motivo a scacchiera in cotto e, sopra, una targa marmorea: lo stemma dei Castelsampietro. LÊaristocratica famiglia milanese aveva proprietà in Cernusco documentate a partire dal XVI secolo. Nel 1721 la possessione, intestata ad Alessandro, si estendeva su 1.397 pertiche e, oltre allÊImperiale, comprendeva le cascine Castellana, Torriana de la Cruz e Visconta. La proprietà Castelsampietro sulla cascina Imperiale è antecedente il 29 novembre 1617, data della divisione dei beni di famiglia tra i fratelli. La cascina è peraltro molto più antica come attesta lÊoriginaria struttura a corte chiusa dÊorigine feudale. La prima citazione del complesso compare in una descrizione del feudo di Melzo datata 18 maggio 1526 quale entità amministrativamente autonoma. Pochi anni più tardi, nel 1558, in un elenco dei proprietari dei terreni della cascina compare Evangelista Imperiale di Milano coi fratelli, famiglia che potrebbe aver dato il nome al complesso rurale. La datazione, anteriore al 1526, va anticipata sulla base degli elementi decorativi della torre quali le eleganti profilature in cotto del portale, a scacchiera, e della monofora di facciata, a torciglione, ascrivibili al repertorio ornamentale lombardo dei secoli XIV e XV. La mappa catastale di Carlo VI (1721), prima rappresentazione grafica, conferma le ipotesi sulla struttura a corte chiusa. Accanto compare lÊoratorio di San Bernardino la cui prima notizia storica risale al 1643, nei documenti della Visita pastorale alla pieve di Vimercate effettuata dal cardinale Cesare Monti. Le precedenti Visite pastorali non fanno alcuna menzione dellÊoratorio, neppure quella del 1598. LÊedificio sacro, edificato quindi nei prini decenni del XVII secolo, dipende tuttora dalla

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parrocchia di Carugate. Nel 1683 il visitatore della diocesi di Milano annotò che vi si celebrava solo nella festa del santo patrono per devozione di Giovanni Panzeri, lo stesso che fece costruire lÊoratorio di Santa Teresa alla cascina Castellana. NellÊaprile 1691 il feudo di „Cassina Imperiale‰ venne rilevato dalla contessa Aurelia Besozzi. Dagli atti risulta la presenza di undici „fuochi‰, ossia nuclei familiari e si fa riferimento allÊoratorio privato di patronato della contessa. La famiglia Castelsampietro ricorre ancora tra i proprietari della cascina insieme ad Anna Besozzi e alla famiglia Panzeri. Il 23 luglio 1803 i fratelli Biraghi rilevarono la cascina dal conte Giuseppe Trivulzio Manzoni. Il complesso era ancora caratterizzato da unÊunica corte quadrata protetta dalla torre. Solo dopo il 1854 lÊorganismo si articolò su tre cortili. Ricordiamo il considerevole aumento degli abitanti della cascina che arrivò a duecento anime in quegli anni, come viene segnalato nella Visita pastorale Romilli (1856). LÊampliamento ottocentesco avvenne senza un piano organico, come pure il recupero più recente. La vendita frazionata anche della corte ne ha determinato la perdita del significato storico quale luogo sociale di lavoro comunitario, ma anche di ritrovo e di incontro. Dopo il 1854 la cascina fu ampliata verso ponente con una struttura porticata al piano terreno sormontata da un arioso loggiato. Il ballatoio era un tempo attrezzato per lÊallevamento dei bachi da seta che andarono ad alimentare la fiorente produzione serica. Sul lato contrapposto, a levante, è lÊoratorio di San Bernardino, detto anche di San Rocco. La sobria struttura si organizza su una pianta rettangolare con abside semicircolare. La copertura a cupola ellittica è decorata da una medaglia affrescata con una Madonna col Bambino fra i Santi Giovanni Battista e Bernardino da Siena ascrivibile alla seconda metà del Settecento. SullÊaltare una statua di San Rocco ha sostituito quella di San Bernardino descritta negli atti della Visita Pozzobonelli (1756). Negli stessi si fa menzione delle reliquie delle sante martiri Faustina e Cristina, munite del sigillo della Curia arcivescovile di Milano del 1715. Sul colmo del tetto il classico campanile a vela chiudeva la spoglia facciata a capanna serrata da lesene. LÊassetto medievale della cascina appare snaturato da un recupero legato al frazionamento sia delle unità abitative che degli spazi comuni. Permane intatta la torre a campeggiare, come un tempo, sul territorio circostante.

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I luoghi dell ’attivita’ agricola Cascina Castellana

La cascina appare assediata dalla recente edificazione che ha dilagato nei territori prossimi alla città di Milano. La situazione ambientale doveva apparire ben diversa allÊepoca di fondazione della cascina, come possiamo rilevare dai dati dei catasti storici. La mappa di Carlo VI (1721), prima rappresentazione grafica del fondo agricolo presidiato dalla cascina, mostra i campi arativi interrotti dalla presenza di 47 gelsi. A meridione si estendeva un grande prato irriguo, in seguito trasformato in rustico cannocchiale prospettico. I documenti del catasto Lombardo Veneto (1865) confermano la destinazione agricola dei terreni, con un incremento della coltura del gelso, addirittura decuplicata. La cascina ha peraltro unÊorigine più antica rispetto ai documenti storici citati facendo parte di un sistema difensivo medievale attestato dai resti di una torre angolare e che il toponimo Castellana parrebbe confermare. La prima notizia certa risale al 19 aprile 1613: in uno scambio di beni tra i fratelli Castelsampietro, Francesco compare quale proprietario della „Casa da Nobile posta nel loco della Castellana‰. A tale data la cascina già presentava la conformazione definitiva con una parte residenziale signorile e una parte rustica. Successivo è invece lÊoratorio di Santa Teresa menzionato nellÊaprile 1674 nella Visita vicariale di Ignazio Francesco Riccardo dove viene definito „splendidamente ornato‰. LÊoratorio fu costruito dallÊabate Panzeri e dai nipoti che allÊepoca abitavano la parte signorile della cascina, mentre la parte rustica era proprietà dei fratelli Somaglia. Il 17 luglio 1728 la famiglia Panzeri vendette al barone Giovan Angelo Manzoni, mentre i rustici passarono dai fratelli della Somaglia al conte Giulio Antonio Biancani. La proprietà del complesso fu riunificata solo nel 1803 quando, il 23 luglio, i fratelli Biraghi subentrarono al conte Giuseppe Trivulzio. La famiglia Biraghi si era trasferita a Cernusco da Vignate acquistando, insieme alla Castellana, le cascine Imperiale

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e Torriana Guerrina. Nel 1831 i fondi agricoli intestati Biraghi ammontavano a 1572 pertiche. Tra gli esponenti della famiglia emerse per statura morale e storica il Beato Luigi Biraghi, di cui tratteremo insieme allÊordine monastico da lui fondato. Un accenno merita anche Enrico Biraghi (1838-1912), nato a Cernusco da Pietro ed Emilia Marzorati. Giovanissimo, partecipò quale volontario alla Campagna per lÊIndipendenza e lÊUnità dÊItalia del 1859. Sergente nel Corpo dei Cacciatori delle Alpi al comando di Giuseppe Garibaldi, si distinse nelle battaglie di Varese e di San Fermo (26-27 maggio 1859) tanto da ottenere la medaglia commemorativa della seconda Guerra dÊIndipendenza. Congedato, riprese gli studi e si laureò in Legge a Pavia il 22 dicembre 1860. Nel 1871 sposò in seconde nozze Rita Carini (1850-1898) da cui ebbe tre figli. Delle tre cascine, la Castellana divenne la residenza della famiglia ai cui discendenti ancora appartiene. Alla parte signorile del complesso si accede da una cancellata barocca che delimita la corte dÊonore su cui prospetta la facciata preceduta da un portico in tre arcate su colonne. Il portico aperto verso meridione aveva la funzione di proteggere i locali retrostanti dal sole. La fronte principale, caratterizzata dallo sviluppo orizzontale, è coronata da un piccolo campanile a vela che aveva il compito di cadenzare la vita dei campi. A levante la corte dÊonore è delimitata da un portico che fungeva da scuderia ed ora viene usato per ricoverare le piante di limone nei mesi invernali. Al centro il salone principale occupa lÊintero corpo di fabbrica disimpegnando sale di dimensioni più ridotte. Tra portico e giardino, la grande sala costituisce il fulcro dellÊasse prospettico della residenza nobile, asse che un tempo sconfinava nella campagna circostante, ben oltre le due cancellate dÊaccesso. Questo, come tutti gli ambienti del piano terreno, presenta soffitti a cassettoni con le tipiche decorazioni a passasotto, pavimenti in cotto e grandi camini in marmo. La corte rurale, di dimensioni molto contenute, è stata recentemente molto ristrutturata. Addossato alla parte rurale, lÊoratorio gentilizio si inserisce in una tipologia largamente diffusa in Lombardia in età barocca. La cascina Castellana, usualmente inserita nellÊarchitettura rurale, presenta caratteristiche tipologiche e decorative riferibili allÊarchitettura civile assimilandola alle ville rustiche.

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I luoghi dell ’attivita’ agricola Cascina Torriana

Posta allÊestremità settentrionale del territorio, la cascina è legata nel toponimo a due vicini insediamenti rurali: le cascine Torriana Guerrina e Torrianetta. Tale circostanza è attribuita dalla storiografia locale alle lotte tra Torriani e Visconti a cui Cernusco fece da scenario. LÊorigine medievale delle tre cascine non è peraltro suffragata da documenti, né da elementi fortificati. La prima notizia certa risale al 1570 e si deve a padre Leonetto Chiavone della Compagnia di Gesù. Negli atti della Visita pastorale della pieve di Gorgonzola viene descritto lÊoratorio di Santa Caterina, in località cascina Torriana. Un precedente riferimento (1398) non è attribuibile con certezza al nostro oratorio, anche se è molto probabile. Il 23 febbraio 1605 la cascina fu visitata dal cardinale Federico Borromeo. Negli atti si puntualizza il patronato di Giacomo Filippo Vimercati cui è riferibile la proprietà dellÊintero complesso attestata dalla targa araldica posta allÊingresso della corte rurale. La famiglia Vimercati aveva proprietà terriere in Cernusco almeno dal 1513. A loro si deve quindi la costruzione della cascina di cui il nucleo generatore fu la corte rurale delimitata dai due lunghi corpi di fabbrica delle residenze dei contadini e delle stalle. LÊoratorio si inserisce senza fratture nel complesso attestando unÊorigine molto antica. La volta ad ombrello del presbiterio è riferibile al tardo Quattrocento, come pure la decorazione interna ad affresco dalla squillante policromia ricordata negli atti delle visite pastorali (1572 e 1605). Il degrado dellÊoratorio dovette iniziare molto presto. Gli affreschi non sono più ricordati successivamente, forse intonacati in occasione della peste del 1630. LÊedificio sacro fu restaurato in occasione dellÊedificazione della residenza signorile che, allÊinizio del XVII secolo, andò a chiudere il versante occidentale. La prima attestazione della residenza signorile risale al 1636, nellÊatto di vendita del complesso. Lo schema planimetrico ad „U‰ si apre verso la campagna con una corte dÊonore circolare un tempo chiusa da un bel portale

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La parte padronale negli anni Cinquanta della cascina Torriana

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abbattuto negli anni Ottanta del Novecento per consentire lÊingresso delle macchine agricole nella corte trasformata in recinto per bovini. Qui si apriva la visuale sulla facciata impostata su una sapiente articolazione di volumi alleggeriti da un insolito utilizzo di superfici curve, invito al portico in cinque fornici su colonne. Dal portico si accedeva al salone principale affrescato con unÊesuberante decorazione che, dopo aver sottolineato porte e finestre si estendeva sulle pareti e sui cassettoni del soffitto. La residenza era dotata di un vasto giardino privato cintato. Nel 1636 Paolo Antonio Vimercati vendette la cascana Torriana a Giovanni Battista Litta la cui famiglia è documentata a Cernusco dallÊinizio del XVI secolo, in localita cascina Ronco dove aveva una residenza signorile con oratorio annesso ed i terreni di pertinenza. Tra il 1708 e il 1721 Valentino deÊ Conti rilevò la cascina con 1660 pertiche di coltivi tenuti a seminativo, una coltura mista intervallata da vite e gelso. Sul versante sud-occidentale si estendeva un bosco e pascoli per lÊallevamento del poco bestiame atto a soddisfare il fabbisogno interno. I terreni della possessione erano irrigati con le acque della roggia Gallerana scavata nel 1475 e in attività sino allo scavo del canale Villoresi. Con il passaggio alla famiglia Tizzoni la coltura del gelso venne incentivata triplicando il numero delle piante le cui foglie erano utilizzate per lÊallevamento del baco da seta, indispensabile

Affresco del salone da ballo negli anni Novanta

alla produzione serica gestita nella filanda di famiglia. Il 4 febbraio 1963 la cascina venne ceduta ed è ora proprietà della Società Cave Merlini. La cascina versa in condizioni di assoluto degrado. La residenza signorile è inagibile per il crollo dei solai e lo sfondamento delle coperture. LÊoratorio, profanato e spogliato di tutti gli arredi è anchÊesso inagibile. LÊabbandono del complesso è tanto più doloroso considerata la concessione della conversione dÊuso e il vincolo ambientale e monumentale imposto dalla Soprintendenza.

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I luoghi dell ’attivita’ agricola Cascina Ronco

AllÊestremità orientale del territorio di Cernusco è localizzata la frazione Ronco, un tempo isolata nella campagna. Le mappe dei catasti storici ben visualizzano il caratteristico contesto rimasto inalterato sino agli anni Sessanta. Il grosso agglomerato rurale compare nella mappa di Carlo VI (1721) con grande evidenza. Le due aziende agricole, diversificate nella proprietà, sono strettamente connesse da una curiosa unità strutturale. A nord si sviluppava la possessione del conte Costanzo Taverna, a sud quella del conte G. Antonio Melzi. Il perno che collegava le due proprietà era lÊoratorio di San Rocco (demolito) che costituiva il traguardo scenografico della strada che collegava lÊantico borgo alla cascina. Le sue origini sono peraltro più antiche essendo già citati nel 1517 terreni agricoli in località Ronco, termine ricorrente per indicare un „luogo disboscato‰. I terreni appartenevano alla famiglia Litta come risulta da molti documenti stilati nella prima metà del Cinquecento, ma non vi è alcuna menzione della residenza signorile né dellÊoratorio che dovevano già esistere, come attesterebbero la pala dÊaltare e gli affreschi. Alla residenza nobiliare si accede attraverso la corte rustica da un ingresso un tempo posto accanto allÊedificio sacro. Il salone di rappresentanza era decorato da una fascia affrescata che correva sotto i cassettoni lignei. La fascia sÊinterrompeva sul quarto lato per un tramezzo, come parrebbero suggerire le limitate dimensioni, ipotesi peraltro confermata da una planimetria del 1791 conservata nellÊArchivio municipale. Il disegno documenta i dettagli del salone ed il grande camino tuttora esistente. La sala si apre con un bel porticato ad archi su colonne che si affaccia su una minuscola corte dÊonore. La residenza Litta era dotata di un giardino privato delineato nella mappa catastale del 1721, ma meglio dettagliato nel rilievo del 1791. UnÊattenta disamina meritano gli affreschi, assolutamente sconosciuti. Ho avuto la fortuna di poterli vedere nel lontano 1979

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Ambrogio Fermini, villa Taverna in un dipinto del 1884

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insieme a Simonetta Coppa. Le fotografie scattate in quellÊoccasione sono lÊunica documentazione nota. Non ci resta quindi che sintetizzare gli esiti dello studio allÊepoca effettuato. Gli ambienti affrescati dovrebbero essere tre. NellÊunico visitato compaiono, nella fascia sottosoffitto, coppie di figure La pala dÊaltare dellÊoratorio di San Rocco a Ronco

muliebri coperte da elaborati panneggi che sorreggono figure reggitarga contenenti raffigurazioni del Tempo, dellÊAutunno, dellÊInverno, di Muse e di divinità. I gruppi allegorici sono distanziati da stemmi araldici ispirati ai legami matrimoniali. In corrispondenza dei travoni sono poste teste virili su volute dallÊinusuale iconografia. I modelli figurativi sono legati al manierismo lombardo, ma con riferimenti genovesi dÊispirazione alessiana per le inquadrature architettoniche. Come sono arrivati a Cernusco artisti capaci di un linguaggio così aggiornato? Chi fu il committente? ˚ Simonetta Coppa ad avanzare delle ipotesi sulla base di confronti con gli affreschi tardomanieristi lombardi posti nella villa Cicogna Mozzoni di Bisuschio e in palazzo Vertemati a Piuro, in Valtellina, attribuiti ai Campi. Nel 1559 i fratelli Alberto e Camillo Litta erano gli intestatari dei fondi agricoli di Ronco. I loro nomi comparivano pure su una lapide marmorea murata sopra il portale e datata 1567 che attesta il loro intervento nella ricostruzione dellÊoratorio sui resti di un precedente edificio sacro fatto edificare nel tardo Quattrocento dal loro avo Alberto e restaurato dal padre Giovanni Battista. Di questÊultimo edificio, malauguratamente demolito negli anni Sessanta, rimane solo la pala dÊaltare nella moderna

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chiesa di San Rocco. Il soggetto del dipinto è La Madonna col Bambino in trono tra i S.S. Ambrogio e Rocco. Il piede destro della Vergine poggia su una pietra su cui è inciso lo stemma dei Litta. La pala, di ascendenza leonardesca, è ascrivibile agli anni 1510-1515 e fu probabilmente commissionata da Giovanni Battista. DellÊoratorio cinquecentesco non rimangono immagini, ma molte descrizioni. A navata unica lunga 6.80 metri e larga 5.50, lÊedificio misurava in altezza 6.40 metri. Sulla parete di fondo del presbiterio era affrescata unÊAnnunciazione, mentre sui lati San Bernardo e SantÊAgostino. La copertura, a volta, era anchÊessa affrescata coi quattro Evangelisti. La demolizione dellÊedificio sacro è stata una gravissima perdita per il patrimonio artistico locale. La relazione della Visita pastorale del 1605 è preziosa anche perché è la prima attestazione della presenza dei conti Taverna a Ronco che spartivano coi Litta il compenso del cappellano. LÊazienda agricola Taverna si accostò a quella dei Litta in un secondo tempo. Nel 1685 un documento relativo alla devoluzione alla Camera del feudo di Melzo, Ronco risulta in parte del „Conte Gio. Antonio Melzo‰ e in parte del conte Matteo Taverna. Non conosciamo la data della cessione da parte dei Litta, peraltro collocabile tra il primo e il secondo decennio del XVII secolo. Le residenze delle due famiglie erano collegate tramite lÊoratorio di cui rimane ancora il passaggio sospeso che lo collegava alla villa Taverna. Questa, malamente ristrutturata dopo il frazionamento, è raffigurata in un dipinto (1884) di Ambrogio Fermini, pittore locale che risiedeva proprio in cascina. Impostata sul tradizionale schema planimetrico ad „U‰ con portico trabeato aperto sulla corte dÊonore, la villa era dotata di un giardino privato ora divenuto parco pubblico. Poche sono le decorazioni rimaste. Sotto il portico rimangono solo alcune tracce dei busti di poeti entro tondi di gusto neoclassico. La volta dello scalone, decorata con motivi dÊispirazione pompeiana, è invece crollata durante la ristrutturazione. Cascina Ronco costituiva un esempio di insediamento di grande interesse per la qualità delle decorazioni. Purtroppo un recupero sciagurato ha irreparabilmente danneggiato questo singolare agglomerato, ulteriormente svilito da una recente edificazione, avulsa dal contesto agricolo, che soffoca il nucleo di antica formazione.

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I luoghi del culto

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I luoghi del culto

A Cernusco la devozione alla Vergine Maria risale ai primi secoli del Cristianesimo, già in epoca longobarda la chiesa pievana era intitolata a Santa Maria. La devozione ai dolori di Maria è invece più tarda. Nella prima metà del XIV secolo si diffuse lÊiconografia della Mater dolorosa, mentre nel secolo successivo il clima di ardente devozione ai dolori favorì lÊintroduzione di due feste liturgiche celebrate il Venerdì Santo e il 15 settembre. La devozione ai Sette dolori, originata nelle Fiandre, si diffuse alla fine del XVI secolo in Germania, in Spagna, in Italia grazie allÊOrdine dai Servi di Maria. In Lombardia la devozione alla Madonna Addolorata fu promossa da San Carlo mediante lÊistituzione di Confraternite. A Cernusco la Confraternita del SS. Sacramento venne istituita il 25 settembre 1566 ed ebbe notevole seguito se nel 1572 gli iscritti erano già cento su 900 anime, iscritti che raddoppiarono nel giro di sette anni. Dal 1605 la Confraternita amministrò anche la Società del SS. Rosario, ramo femminile della stessa. La pratica applicazione delle regole della Scuola per oltre tre secoli alimentò la fede e lÊeducazione religiosa di generazioni di cernuschesi. Dal Seicento Santa Maria divenne chiesa sussidiaria della nuova Parrocchiale, anchÊessa intitolata alla Vergine Assunta. LÊantica Santa Maria continuava peraltro ad essere assiduamente frequentata sia per la prossimità al cimitero che per devozione alla miracolosa immagine della Pietà posta nella cappella esterna. Era questa, infatti, la Madonna che si venerava in Santa Maria, il simulacro ligneo ancora non esisteva. La più antica citazione rinvenuta della Madonna Addolorata risale al 5 settembre 1715 comparendo nella richiesta di benedizione per il nuovo altare predisposto per accogliere il simulacro. Il culto della Madonna dalle sette spade si celebrava già alla fine del XVI secolo in una chiesa milanese distrutta: Santa Maria Beltrade, di cui rimane il sedime nella piazza omonima. La processione col simulacro si celebrava il Giovedì Santo, in forma

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La Madonna di Santa Maria portata in processione dai reduci dalla guerra di Etiopia, 27 settembre 1936

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solenne, già nel 1591 a cura della Confraternita della Beata Vergine dei Sette Dolori. Tale processione fa ora capo ai Santuari dedicati allÊAddolorata e si tiene il Venerdì Santo. DellÊintroduzione di tale pratica a Cernusco non conosciamo la data. Rimangono due bellissimi stendardi processionali fatti ricamare dalla Confraternita del SS. Sacramento. Il primo abbina la devozione eucaristica e mariana con le immagini della Madonna Assunta, cui è dedicata la Parrocchiale. Il pannello è firmato Giuseppe Martini e datato 1847. Sul secondo stendardo è raffigurata la Madonna del Rosario, protettrice del ramo femminile della Confraternita. I confratelli in talare bianca, cordone, fiocco e rocchetto rossi partecipavano alla processione: i piu giovani e forti portando a spalla i due simulacri, gli altri in doppia fila li scortavano. Dietro seguivano le consorelle con al collo il nastro rosso con la medaglia.

Stendardo del ramo femminile della Confraternita del SS. Sacramento, 1864

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I luoghi del culto

Santa Maria Addolorata, chiesa pievana

Il legame di Santa Maria alla pieve di Gorgonzola è accertato dalla fine del XIII secolo quando viene menzionata nel Liber Notitiae Sanctorun Mediolani di Goffredo da Bussero. Questa è la prima notizia certa della chiesa, anche se in documenti antecedenti (1191, 1201, 1206) è citata, ma non è chiara la localizzazione del paese. La dedicazione a Maria è ricorrente nelle chiese di fondazione longobarda. La stessa struttura primitiva della chiesa, emersa durante i lavori per la costruzione dellÊOasi di preghiera (1998) e leggibile sulla parete dÊambito meridionale, ne conferma la fondazione. La chiesa aveva unÊunica navata lunga una decina di metri e larga sette organizzata in cinque campate alte cinque metri allÊimposta delle capriate. La navata era chiusa da unÊabside semicircolare, forse quella indicata nel rilievo del 1579. Due monofore strombate per lato illuminavano fiocamente la navata. La fine tessitura muraria, lasciata a vista, ben documenta la primitiva chiesa pievana ampliata dopo il Mille, quando si verificò una corsa febbrile alla costruzione di nuove chiese o alla ristrutturazione di quelle esistenti. LÊampliamento, ben documentato da una tessitura muraria molto più grossolana, comportò la costruzione di unÊunica navata laterale, a settentrione, bilanciata sul lato contrapposto dalla casa per il parroco. La larghezza raggiunse i 15 metri e la navata centrale venne soprelevata. Alla fine del XV secolo, la costruzione del Naviglio separò nettamente il borgo medievale dalla sua parrocchiale, come ben documentano le mappe storiche a partire da quella catastale del 1721. Due incisioni di MarcÊAntonio Dal Re (1743), dove Santa Maria compare sullo sfondo della villa Alari, visualizzano come la chiesa sorgesse oltre il canale, isolata nella campagna. Un solo edificio si addossava al complesso sacro delimitando il sagrato verso ponente. La localizzazione esterna al borgo è riferibile allÊordinamento pievano che dallÊXI secolo si diffuse nella nostra area. Dalla capo pieve, con funzione battesimale,

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dipendevano altre chiese a presidio del territorio. Quale fosse la destinazione del curioso complesso medievale, ora corte Andreoni, rimane avvolto nel mistero. Il Ghezzi (1934) avanza lÊipotesi di un convento dellÊordine dei Serviti, attribuzione peraltro confutata da recenti ricerche. Rimane un bel portico trabeato su colonne in granito coronate da capitelli di fattura medievale. Il portico immette in un ambiente voltato a botte. Si può forse avanzare lÊipotesi di un luogo di sosta per i pellegrini devoti alla sacra immagine della Madonna che ancora rimane nella cappella esterna. Il diffondersi della fama dellÊimmagine miracolosa attirava sempre più fedeli dando lavoro anche allÊosteria già segnalata nel 1572 e contrassegnata nella mappa catastale del 1721 nel corpo prospiciente il canale. La proprietà era della famiglia Castelsampietro che nel 1605 finanziò il restauro della chiesa. LÊintitolazione allÊAssunzione della Vergine Maria compare solo nel 1566 in una relazione di Gerolamo Arabia, delegato di San Carlo, che visitò la chiesa segnalando la mancanza del fonte battesimale. Nel 1570 un altro delegato del Borromeo, Leonetto Chiavone stese unÊaccurata descrizione della chiesa supportata da un rilievo datato 1579. La chiesa era divisa in due navate, pianta non rara in epoca romanica. La navata maggiore era chiusa da unÊabside semicircolare con cancelli di legno che delimitavano la zona presbiteriale illuminata da due feritoie. La navata laterale, delimitata da due pilastri, aveva una terminazione piatta con altare dedicato a San Girolamo, raffigurato su una tela. La facciata era a capanna, con due ingressi, ed il campanile sÊinseriva a meridione. SullÊarea dellÊattuale sagrato insisteva il cimitero della comunità. Il 24 gennaio 1572 San Carlo venne in Visita pastorale. Nonostante la costruzione del battistero, la parrocchiale dovette apparire al cardinale molto modesta, poco illuminata ed in stato di degrado. Negli atti della Visita successiva, effettuata dal delegato di Federico Borromeo nel 1602, la chiesa viene indicata come „S. Maria un tempo parrocchiale‰, chiaro riferimento alla costruzione di una nuova chiesa. In Santa Maria erano peraltro stati intrapresi dei lavori: la costruzione di una cappella esterna a protezione dellÊeffigie miracolosa dipinta sulla parete settentrionale e la ristrutturazione dellÊedificio che si intendeva riportare ad unÊunica navata. Fu Pietro Paolo Castelsampietro a finanziare i lavori che iniziarono nel 1605 con la rimozione dellÊaltare maggiore per consentire la costruzione del nuovo coro. Nel 1629 la curia richiese che sullÊarchitrave del presbiterio

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si agganciasse un crocifisso, forse quello che è ora appeso sulla parete di fondo del coro. Riferibile al XVII secolo, il Cristo ligneo, intagliato e dipinto, è posto su una croce non pertinente. I lavori procedettero a rilento tanto che nel 1641 il cardinale Monti invitò i nobili e la popolazione tutta a contribuire finanziariamente per ultimare i lavori. Nel 1688, per la Visita del cardinale Federico Visconti, la ristrutturazione era conclusa e la chiesa si presentava come oggi la possiamo vedere. Solo lÊaltare venne sostituito per lÊarrivo dei due simulacri qui venerati: la statua lignea dellÊAddolorata e il Cristo morto. La statua della Beata Vergine Addolorata in legno intagliato e dipinto (XVIII secolo) con il petto trafitto da sette spade è documentata nel Santuario a partire dal 1837. Il Cristo morto (XVII secolo) in terracotta dipinta, posto sotto la mensa dellÊaltare, è qui documentato dal 1851. Gli ultimi interventi sullÊedificio risalgono al 1884 con lÊulteriore ampliamento del coro, la costruzione della sagrestia e la soprelevazione del campanile. LÊattuale denominazione „Santuario della Beata Vergine Maria Addolorata‰ risale solo al 1899 e si deve al cardinale Andrea Ferrari. Un discorso a parte merita la pregevole vetrata collocata nel 1936 sulla facciata, dono dei cernuschesi a mons. Luigi Ghezzi per il suo 25° di sacerdozio. La vetrata raffigura la Pietà con sei devoti della famiglia Della Porta inginocchiati. LÊopera, datata 1562, venne probabilmente realizzata dalle scuole vetrarie bavaresi, come si evince dal profondo scorcio prospettico marino con agglomerato urbano, tipicamente nordico come la luce fredda e azzurrina. Le donne compaiono avvolte in ricche vesti rinascimentali. Il recente restauro (2005) ha restituito in tutto il suo splendore una rara vetrata, unico esempio, oltre alle vetrate del Duomo di Milano, dellÊarte vetraria lombarda cinquecentesca. Nel maggio 1998 la chiesa fu dotata di una porta in bronzo realizzata dallÊartista locale Felice Frigerio. I sei pannelli che la compongono hanno per tema Maria madre della Chiesa. La porta è in fusione di bronzo a cera persa. Una targa in rame ricorda il committente: don Nando Macchi nel suo Giubileo sacerdotale. Alla fine degli anni Novanta accanto al santuario è stato costruito un complesso complementare, un luogo di preghiera e raccoglimento gestito dalla Parrocchia per i fedeli cernuschesi. La comunità ha tuttora un intenso rapporto col santuario riconoscendogli, ad un millennio di distanza, il ruolo di Chiesa matrice.

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I luoghi del culto

Santa Maria Assunta, la nuova parrocchiale

Con lo scavo del Naviglio, la parrocchiale di Santa Maria rimase nettamente separata dal borgo per cui la popolazione iniziò ad utilizzare una chiesa più centrale, San Genesio, gestita dalla comunità dei fedeli di Cernusco tanto da prospettare una situazione di conflitto per la parrocchiale. Fu San Carlo a tentare di risolvere la situazione. Nel 1572 decretò lo scambio di sede tra il cappellano che officiava in San Genesio, pagato dai cernuschesi, e il parroco che avrebbe così potuto stare più vicino ai suoi parrocchiani. Entrambe le chiese necessitavano peraltro di adeguamenti e riparazioni. Per finanziare i lavori San Carlo pensò di avvalersi delle chiese diroccate del territorio (Santa Maria di Colcellate, Santo Stefano, San Maurizio) reimpiegando i materiali e vendendo i lotti di terreno. Non sappiamo cosa intervenne, ma i tempi si dilatarono. Forse i cernuschesi ostacolarono il disegno dellÊarcivescovo. Nel 1584 venne fondata la nuova parrocchiale su progetto di Pellegrino Pellegrini, detto Tibaldi (1527-1596) che fu per ventÊanni lÊarchitetto di San Carlo. Una curiosità storica: il luogo dÊorigine del Tibaldi, Puria in Valsolda, coincide con quello di più parroci che si succedettero a Cernusco in quegli anni: i Pozzo. Uno scritto depositato presso il notaio arcivescovile Gio. Pietro Scotti attesta lÊintenzione di alcuni nobili del luogo di finanziare la costruzione di una nuova chiesa „in un sito più comodo‰ lasciando la scelta di luogo e progetto allÊarcivescovo. Era il 1578. LÊanno successivo, negli atti della Visita pastorale, è annotato lÊelenco dei nobili con lÊindicazione delle somme che ognuno sÊimpegnava a versare. Il luogo prescelto per la costruzione fu lÊattuale piazza Matteotti. Il lotto comprendeva lÊarea della chiesa di San Genesio, interamente abbattuta, e parte del giardino dei padri Barnabiti che possedevano la casa adiacente. Il 16 aprile 1584 avvenne la posa della prima pietra della nuova parrocchiale dedicata a Maria Vergine Assunta.

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LĂŠantica Parrocchiale in un disegno del 1835

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Della chiesa voluta da San Carlo non rimase nulla se non un rilievo eseguito nel 1833 da Carlo Caimi, oltre alle descrizioni nelle Visite pastorali a partire dal 1602. La chiesa cinquecentesca era a navata unica con profondo coro chiuso da unÊabside semicircolare. Le due cappelle erano dedicate a San Genesio e al SS. Rosario. Una terza cappella posta a settentrione, custodiva il battistero e controbilanciava il campanile posto in facciata. La chiesa era dotata di sagrestia e casa parrocchiale. La facciata a capanna antistante la piazza e lÊestremo rigore compositivo erano in linea con le Istruzioni dettate da San Carlo nel 1577. Il pronao su colonne con timpano spezzato dallÊinserimento di una nicchia è un elemento tipico del linguaggio del Tibaldi, come pure il campanile con lanterna ottagonale. Nei primi decenni del XVII secolo la chiesa venne affrescata con le Storie della Vergine nella cappella maggiore, la Decollazione di San Genesio nella cappella dedicata al Santo e, sulla volta, I Misteri della passione di Cristo. Nel 1755 il primitivo altare maggiore in legno venne sostituito con quello in marmi policromi tuttora utilizzato nellÊattuale parrocchiale. Con tipologia a tempietto, molto diffusa allÊepoca, il nuovo altare era stato ordinato dalla Scuola del SS. Sacramento, come pure lÊaltare laterale dedicato al SS. Rosario, benedetto nel 1759. Nel corso dellÊOttocento la chiesa subì due ampliamenti. Nel 1837 anche il campanile fu riedificato. LÊinterno era diviso in tre navate da robusti pilastri rinforzati da lesene a sostegno della volta a botte lunettata. Del progetto rimangono numerosi disegni dellÊingegnere Caimi che ben documentano le fasi del radicale ampliamento che cancellò la chiesa tibaldiana. Nonostante gli ampliamenti ottocenteschi la capienza dellÊedificio sacro continuava ad essere insufficiente a causa del notevole incremento della popolazione: 6.000 i cernuschesi censiti nel 1892. Iniziò così a diffondersi il desiderio di una nuova chiesa e i cernuschesi si attivarono ad organizzare lotterie e pesche di beneficenza, ma il ricavato fu largamente insufficiente. Intervenne allora il cardinale Andrea Carlo Ferrari, arcivescovo di Milano, sollecitando i cernuschesi con unÊofferta personale che aprì la strada alla raccolta dei fondi necessari alla costruzione. Acquistato nel 1907 il terreno (piazza Conciliazione), fu avviata lÊopera di costruzione su progetto dellÊarchitetto Andrea Fermini, nativo di Cernusco ed esponente del Liberty milanese. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale determinò la sospensione

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dei lavori. Alla loro ripresa (1928) il progetto iniziale fu sostituito da quello dellÊarchitetto Ugo Zanchetta. La chiesa venne consacrata il 17 luglio 1932 dal cardinale Ildefonso Schuster e dal nuovo parroco Claudio Guidali. Quanto a spazi i cernuschesi non lesinarono: oltre 2.000 mq. di superficie coperta si organizzano su una pianta a croce latina i cui bracci misurano 70 e 43 metri. In elevato la facciata misura 23 metri e la cupola raggiunge i 40. I dati qui riportati sono tratti da un numero di „Voce Amica‰ interamente dedicato alla consacrazione della chiesa (12 luglio 1932) in cui lÊarchitetto Zanchetta illustra come „pure ispirandosi alle più pure fonti dellÊarchitettura religiosa, abbia realizzato una costruzione modernissima, intendendo per moderno non il nuovo a tutti i costi, ma piuttosto lo sfruttamento dei più arditi mezzi della tecnica‰. La chiesa si sviluppa su tre navate riprendendo la struttura basilicale e il paramento in cotto tipici del romanico lombardo, stile ritenuto il più adatto per gli edifici sacri in questo periodo di eclettismo architettonico. Il transetto si conclude alle estremità con due cappelle dedicate alla Beata Vergine e a San Giuseppe. Un discorso attento meritano i due simulacri posti nelle cappelle in quanto costituiscono il trait-dÊunion tra le due chiese di Santa Maria Assunta: lÊantica (1584-1974) e la nuova (1930). A sottolineare la continuità tra i due edifici, gli arredi sacri furono spostati nella nuova chiesa e, con grande enfasi, furono trasportate le quattro colonne del pronao utilizzate nel transetto, a sostegno della cupola. Il corteo, documentato da alcune fotografie (1930), mostra la folla di cernuschesi che fa ala al trasporto in una corale partecipazione di tutta la cittadinanza. Oltre alle colonne furono collocati nella nuova parrocchiale lÊaltare maggiore, gli stalli del coro, la quadreria recentemente restaurata e i due simulacri già ricordati: San Giuseppe e la Madonna col Bambino. Le cappelle che chiudono i due bracci del transetto presentano una struttura unitaria. Delimitate da una balaustra marmorea, le cappelle si sviluppano allÊinterno dellÊabside che conclude il transetto. La curva parete di fondo è interamente decorata a tempera con motivi fitomorfi di colore verde e ocra con andamento a rombo al cui interno compare un giglio con una scritta. Il catino absidale è invece ricoperto dal mosaico. Al centro è posto lÊaltare in marmi policromi sormontato da un tempietto che racchiude il simulacro. Il raffinato paramento decorativo delle due cappelle venne realizzato intorno al 1940 dagli allievi della Scuola del Beato Angelico. Le due cappelle sono state recentemente restaurate come la quadreria parrocchiale.

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I luoghi del culto Gli oratori campestri

Intorno al Mille sorsero nelle campagne del Milanese numerose chiese di dimensioni molto ridotte, tanto che sarebbe più opportuno chiamarle sacelli. Furono peraltro questi luoghi sacri a dar forma alla tipologia dellÊoratorio campestre che avrà ampia diffusione a partire dal XVI secolo. Oratorio non è sinonimo di chiesa parrocchiale alla cui costruzione concorreva tutta la comunità. LÊoratorio veniva eretto da singoli possidenti o da gruppi di persone – corporazioni o confraternite – divenendo spesso anche luogo dÊincontro. Nel 1577 San Carlo, con lÊaiuto del suo architetto Pellegrino Tibaldi, elaborò le Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae che regolamentava la costruzione degli edifici sacri tentando di porre un freno a questa dilagante consuetudine a favore delle parrocchie. Dei primi oratori sorti nelle campagne di Cernusco rimane memoria in numerosi documenti a partire dal X secolo. LÊoratorio campestre di San Maurizio „de Albairate‰ è citato in una pergamena del 923 insieme a San Martino, anche se a tale data erano entrambi subordinati alla chiesa pievana di San Giuliano Monzese e quindi al Duomo di Monza. Tale dipendenza è confermata nel 1169 da una bolla di papa Alessandro III. Nel 1278 lÊoratorio viene citato come San Maurizio „de Catiis‰ con riferimento alla famiglia che ne aveva il patronato assumendosi quindi lÊonere della manutenzione e del mantenimento del prete. Albairate doveva essere un villaggio posto tra Cologno e Cernusco, identificabile con la cascina San Maurizio (Rota, 1919). LÊoratorio è censito nella Visita pastorale del 1566 come diroccato e in abbandono per cui San Carlo Borromeo nel 1584 ne decretò la demolizione e la vendita del sito. Medesima sorte toccò allÊoratorio di Santo Stefano più volte citato in documenti del 1206 e del 1286 al fine di individuare dei terreni agricoli. Ciò fa pensare si trattasse di un oratorio campestre e come tale lo classifica il delegato di San Carlo

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nel 1566 precisando che lÊedificio era in rovina e coperto di rovi. I documenti sinora emersi non consentono peraltro di localizzarne il sito. Numerosi erano gli oratori annessi agli aggregati rurali più popolosi come lÊoratorio della Visitazione della Vergine a Colcellate la cui prima citazione rinvenuta risale al 1398. La Visita pastorale del 1570 la descrive senza tetto e con pavimento dÊerba. Due anni più tardi gli atti della Visita di San Carlo ne confermavano lo stato di decadenza, tale da giustificare lÊabbattimento con lÊindicazione del riuso dei materiali per la costruzione di San Genesio. Nel fondo Spedizioni diverse dellÊArchivio di Curia, un Cascina Olearia, Oratorio dellÊImmacolata Reliquiario di San Felice Martire

documento datato 8 maggio 1595 concedeva la licenza per la costruzione di un nuovo oratorio. La planimetria allegata lo descrive a navata unica con due cappelle laterali ed un presbiterio rettangolare molto profondo. La costruzione fu presto avviata con onere finanziario sostenuto dal possidente locale Pompeo Bevacqua. LÊoratorio era molto ampio e articolato, inusuale per una cascina. Nella mappa catastale del 1721 appare fedelmente delineato a meridione, isolato rispetto gli edifici rustici. Non conosciamo la data dellÊabbattimento del secondo oratorio che potrebbe risalire agli anni Quaranta del Novecento. Anche la cascina Ronco aveva un oratorio che subì sorte analoga; sono invece tuttora dotate di oratorio le cascine Imperiale, Torriana, Olearia e Gaggiolo. Alla cascina Castellana rimane integro e ben tenuto lÊoratorio di Santa Teresa menzionato nellÊaprile 1674 nella Visita vicariale di Ignazio Francesco Riccardo dove viene definito „splendidamente ornato‰. LÊoratorio fu costruito dallÊabate Panzeri e dai nipoti che allÊepoca abitavano la parte signorile della cascina. Addossato alla parte rurale, lÊoratorio gentilizio

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si inserisce in una tipologia largamente diffusa in Lombardia in età barocca. La pala dÊaltare con lÊEstasi di Santa Teresa mostra riminiscenze ceranesche e cairesche che la collocano verso il sesto decennio del Seicento. Ai lati della pala sono posti due reliquiari lignei a busto raffiguranti i Santi Sisinio e Innocenzio databili agli inizi del XVII secolo. Sulle portine che chiudono le due nicchie sono lavorati ad intaglio gli emblemi del martirio (la palma e la corona). NellÊoratorio celebrò la sua prima messa il Beato Luigi Biraghi, fondatore dellÊordine delle Suore Marcelline, a cui la cappella è stata ceduta. Tra gli oratori campestri cinquecenteschi un discorso a parte merita San Rocco edificato in funzione dellÊepidemia di peste scoppiata a Milano nel 1576 e successivamente propagatasi nelle campagne attraverso i milanesi che fuggivano dalla città.

LÊOratorio di San Rocco nel 1988

Ricordata come la peste di San Carlo, il santo si prodigò per non far mancare lÊassistenza religiosa agli ammalati, affiancato da alcuni ordini religiosi quali i Barnabiti presenti a Cernusco. Fece erigere ai crocicchi delle strade colonne sormontate dalla croce simili a quella che ancora svetta accanto allÊoratorio sorretta da un basamento decorato con tibie e teschi. LÊedificio sacro locale nacque probabilmente come cappella votiva in ringraziamento per la fine della peste, come pare confermare lÊindagine tipologica e stilistica essendo impossibile una verifica documentale. Non è da escludere che il complesso commemorasse i cernuschesi morti di peste nel lazzaretto locale, probabilmente una semplice capanna ben isolata rispetto al borgo dal Naviglio. La mappa catastale del 1721 ne definisce la localizzazione e lÊaccesso mediante una strada affiancata da due rogge. La facciata si apre a settentrione con un disegno a serliana sormontato da un timpano spezzato. LÊinterno è dominato dalla grande pala dÊaltare raffigurante La Madonna col Bambino assisi in cielo e sotto San Rocco e San Sebastiano.

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I luoghi del culto I conventi

La presenza di ordini religiosi sul nostro territorio risale al medioevo. Del 1344 è la prima attestazione certa di un insediamento di Umiliati a Cernusco. Il Ghezzi (1911) retrodata tale presenza al 1280 citando una casa detta „Faggia‰ dove era un laboratorio per la tessitura della lana. Accanto sorgeva la chiesa di San Martino citata già in un documento del 1120 alle dipendenze della Pieve di San Giuliano Monzese, e quindi da Monza. Il complesso umiliato era posto alle spalle della chiesa di San Genesio e prospettava sulla via dei Barnabiti. LÊindicazione del Ghezzi, di cui non è stato possibile verificare la fonte, suscita alcune perplessità in riferimento alla datazione. La domus di Cernusco non compare tra quelle esistenti alla data del 1298 ed elencate nel catalogo Tiraboschi. LÊinsediamento di un convento degli Umiliati a Cernusco è quindi da porsi tra il 1298 e il 1344. La comunutà fu sciolta anteriormente al 1553, anno in cui furono censite durante il Capitolo elevato a Brera. La domus di Cernusco apparteneva al Secondo Ordine costituito da uomini e donne che, pur mantenendo lo stato laicale, vivevano in castità e povertà nella stessa casa, vestiti di un umile abito di lana grezza da cui la denominazione. Agli Umiliati si deve lÊintroduzione della gelso-bachicoltura nelle zone asciutte del Milanese, cosa che avvenne probabilmente anche a Cernusco. Le grandi ricchezze accumulate col lavoro manifatturiero vennero incamerate alla soppressione dellÊordine avviata nel 1327 per le comunità miste e culminata nel 1571 con lo scioglimento del ramo maschile dopo lÊattentato perpetrato da un aderente alla vita del cardinale Borromeo. I beni incamerati consentirono a San Carlo di istituire Seminari e di dotare ordini religiosi quali i Gesuiti, che ereditarono la casa madre di Brera, ed i Barnabiti. I Padri di San Barnaba ebbero riconoscimento canonico fin dal 1533 dedicandosi allÊeducazione dei fanciulli nelle scuole Arcimbolde di SantÊAlessandro a Milano. Il Ghezzi,

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basandosi sulle „Memorie del Collegio di San Barnaba in Milano‰ afferma che ottennero la „Faggia di Cernusco‰ allo scioglimento dellÊordine degli Umiliati facendone una casa di villeggiatura con giardino. La mappa del catasto teresiano (1721) parrebbe confermare la versione del Ghezzi in quanto nella parte meridionale dellÊisolato, è posta la „Casa di propria abitazione‰ con pianta ad „U‰ e ampio giardino a ponente. Le proprietà dei Barnabiti Facciata del collegio in una cartolina del 1933

in loco vennero rilevate tra il 1772 e il 1775 da Antonio Greppi che profittò delle confische statali. LÊordine monastico che più di ogni altro ha lasciato una traccia indelebile a Cernusco è lÊIstituto delle Suore di Santa Marcellina qui fondato nel 1838 dal Beato Luigi Biraghi. Nato a Vignate il 2 novembre 1801, Luigi si trasferì a Cernusco dove la famiglia è documentata dal 26 luglio 1803 alla cascina Castellana. Figura di primo piano nella Milano dellÊOttocento, il Biraghi ricoprì alte cariche ecclesiastiche. Fu direttore spirituale del Seminario di Milano tra il 1833 e il 1848, Dottore dellÊAmbrosiana tra il 1855 e il 1879. Questo fu il periodo più fecondo per i suoi studi storici. Ebbe stretti rapporti con due Papi: Leone XIII e Pio IX che lo nominò nel 1873 prelato domestico. Il Biraghi seppe valutare appieno la grande importanza che le donne andavano assumendo nella società dellÊOttocento e fondò una congregazione con la finalità di „ben educare le fanciulle dalla cui cristiana e civile riescita dipende in tanta parte il bene della Chiesa e dello Stato‰. Stesa la regola con la collaborazione di Marina Videmari, il Biraghi si adoperò per fornire una sede alla nuova congregazione. Comprò un lotto di terreno da casa Greppi e diede incarico allÊarchitetto Moraglia di progettare il convento seguendo personalmente i lavori, come si evince dal suo epistolario. Giacomo Moraglia (1791-1860), esponente del Neoclassicismo milanese, creò unÊopera impeccabile, senza guizzi della fantasia, ma perfetta nella sua classica gravità. Il convento si organizza attorno allÊampio chiostro quadrato cadenzato dal ritmo delle 33 colonne in granito, riprendendo lo schema tipologico dei Seminari Arcivescovili.

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Il collegio fu scenario di un miracolo avvenuto nella notte tra il 22 e il 23 febbraio 1924. Era qui ricoverata suor Elisabetta Redaelli paralizzata e cieca da un anno per un male incurabile. La Madonna, col Bambino in lacrime, apparve alla suora lasciando un annuncio. La repentina guarigione di suor Elisabetta è stata riconosciuta miracolosa dalla Chiesa. Un simulacro raffigurante La Madonna del Divin Pianto è stato realizzato sulle indicazioni della miracolata ed è conservato nella camera che vide lo straordinario evento, ora trasformata in cappella.

Veduta del collegio negli anni Cinquanta

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Il Naviglio piccolo

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Il Naviglio piccolo

Nel 1443, un gruppo di nobili possidenti – il ceto dirigente dellÊepoca – sviluppò un progetto di sfruttamento delle acque dellÊAdda al fine di realizzare un canale atto ad azionare sedici ruote da mulino per potenziare lÊeconomia agricola del territorio. Il progetto prevedeva lÊincile a valle del castello di Trezzo, un tracciato iniziale parallelo al corso del fiume con cambio direzionale allÊaltezza di Cassano, per poi raccordarsi alla fossa di cerchia di Inzago. Il canale avrebbe poi raggiunto Trecella e Melzo per scaricare nel torrente Molgora. La morte del duca Filippo Maria Visconti (1447) bloccò il progetto. Il contado divenne scenario di guerra contro la Repubblica di Venezia sino al 1454, quando il nuovo duca, Francesco Sforza, firmò la pace di Lodi. Il progetto, sostenuto dal duca per le finalità strategiche di controllo del confine di Stato, fu ripreso e realizzato nel 1457 in soli sei anni. Il Naviglio Piccolo – solo successivamente denominato Martesana – col suo sistema di rogge andò a disegnare il paesaggio irriguo del contado. LÊindotto economico fu rilevante; per quarantÊanni vi lavorarono schiere di operai sotto la vigile guida degli ingegneri ducali. Il materiale necessario veniva reperito in loco. Il ceppo dellÊAdda era estratto dalle cave di Trezzo e Vaprio, lÊargilla, cavata tra Gessate e Bellinzago, veniva lavorata e i mattoni cotti in fornaci una delle quali era, come suggerisce lÊetimo, a Villa Fornaci, una cascina di Cernusco posta lungo lÊalzaia. Sino ad Inzago il tracciato del nuovo canale seguì il progetto del 1443, da qui fu prolungato sino a Milano. Canale ed alzaia andarono a costituire unÊalternativa allÊunica strada che attraversava gli abitati collegando Milano allÊAdda, confine di Stato. Bertola da Novate è il più famoso tra gli ingegneri ducali in quanto il suo nome ricorre negli appunti di Leonardo. A lui si ascrive il merito di questa importante infrastruttura che condivise con altri ingeneri ducali tra cui Cristoforo da Inzago e

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Filippo Guascone. LÊintervento di Leonardo nella progettazione dei Navigli milanesi è spesso sopravvalutata. Quando lÊartista giunse a Milano (1482) i navigli già esistevano col loro sistema di chiuse. Leonardo ricoprì la carica di ingegnere ducale solo per breve tempo, nel 1498. A lui si devono alcuni interventi innovativi come la carenatura dei portelloni delle chiuse convergenti per facilitarne lÊapertura contro corrente. A lui si deve anche lo studio del raccordo tra il nostro naviglio e la cerchia interna di cui rimane memoria nella conca dellÊIncoronata. Il naviglio Martesana aveva in origine solo una funzione irrigua. Le numerore rogge erano predisposte dai proprietari dei terreni di cui prendevano il nome. LÊacqua era un bene prezioso ed il suo emungimento era attentamente controllato da pubblici funzionari: i campari. Era lo stesso duca che concedeva la quantità dÊacqua da prelevare, stabilita con brevetto, da cui la necessità di precisi strumenti di misurazione. Solo nel 1471 il canale fu predisposto per la navigazione. Le due funzioni erano in conflitto creando non pochi problemi per garantire la portata dÊacqua indispensabile al pescaggio dei barconi, tanto che nel 1571 fu aumentata la portata del canale. Il ponte sul Naviglio in una cartolina del 1901

Verso Milano, in favore di corrente, viaggiavano derrate alimentari e materiali da costruzione, in senso opposto stoffe, manufatti e soprattutto il sale, allÊepoca tassato al ponte delle gabelle, sulla chiusa dellÊIncoronata. Le merci venivano sbarcate nel porto in città, un grande specchio dÊacqua prospiciente la chiesa di San Marco. Il canale doveva apparire molto animato, come si può peraltro constatare in incisioni e dipinti dÊepoca. Oltre ai barconi addetti al trasporto delle merci, il naviglio

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era solcato da barche più piccole di proprietà di nobili che facevano la spola tra il palazzo di città ed i fondi agricoli per gli approvvigionamenti. Anche le sponde del canale furono coinvolte nellÊindotto commerciale. Lungo lÊalzaia si insediarono numerose osterie, come quella Castelsampietro di Cernusco, adiacente a Santa Maria. La posizione era strategica in quanto poco discosta dallÊapprodo pubblico, posto accanto al vecchio ponte, unico accesso al borgo. In questo tratto di canale rimane ancora lÊantico lavatoio. Tartari (2003) racconta un curioso fatto emerso dagli archivi sacri. „In un rapporto del 1592 si racconta di una fatua (prostituta) che esercitava il suo lavoro su un barcone fra Cernusco e Vimodrone‰. Il distretto ecclesiastico non era lo stesso per cui i due parroci non erano in grado di intervenire. UnÊaltra piaga che affliggeva la vita del canale era la pirateria, fenomeno che è possibile seguire attraverso le grida. Numerosi, quanto infruttuosi, furono i provvedimenti sino al Settecento inoltrato quando fu debellata dallÊapplicazione delle rigorose leggi giuseppine. I tempi di percorrenza della via dÊacqua erano notevoli. Dopo lÊapertura del naviglio di Paderno (1777) era necessaria unÊintera giornata in favore di corrente e ben 45 ore

Il ponte sul Naviglio in una cartolina del 1909

durava la risalita dei convogli trainati da cavalli. Il declino del naviglio Martesana è legato alla chiusura della Cerchia interna (1929-1933) ed alla successiva interdizione alla navigazione sancita il 18 marzo 1959. Si sta peraltro aprendo una nuova stagione per il nostro canale dettata dallo sfruttamento delle valenze turistiche del corso dÊacqua e del paesaggio che attraversa.

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Il Naviglio piccolo La ruota idraulica

Nel 1857, Vincenzo Carini fece installare sul Naviglio una ruota a 12 pale con un diametro di sette metri per sollevare lÊacqua per gli usi della filanda posta nella vicina villa. Alcune vecchie cartoline ne documentavano la presenza presso il ponte dellÊAssunta. Rimaneva lÊisolotto, delimitato dal canale di alimentazione, e il ponticello di collegamento realizzati nel 1857. Sulla scorta della documentazione rinvenuta nel fondo Acque dellÊArchivio di Stato di Milano e di alcune fotografie si è provveduto ad una fedele ricostruzione della ruota idraulica demolita alla fine degli anni Quaranta. La nuova ruota, installata nel 2006, ha un diametro di 7 metri e movimenta una pompa a stantuffi. Il ripristino dellÊantica ruota idraulica della filanda Carini è stata una meritevole operazione di recupero dellÊambiente storico lungo il canale.

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Il Naviglio piccolo La metropolitana

I lunghi tempi di percorrenza del Naviglio avviarono la ricerca di nuovi mezzi di trasporto. A fine Ottocento, le innovazioni della tecnica portarono allÊavvento della ferrovia che andò a sostituire i barconi dei navigli. La prima strada ferrata che percorse il nostro territorio fu la Ippovia trainata Milano-Monza inaugurata lÊ8 luglio 1876. Da porta Venezia partivano vetture a due piani trainare da coppie di cavalli per raggiungere Monza. Lungo il percorso Loreto-Gorla-Precotto-Sesto San Giovanni furono per la prima volta posati quei binari che Milano aveva rifiutato. Subito seguì la Milano-Gorgonzola-Vaprio aperta nel 1878 e ben presto modificata per lÊintroduzione del vapore. Fu il primo esempio in Italia di tramvia su sede stradale con locomotiva a vapore. Il mitico Gamba de legn percorreva i trenta chilometri in tre ore. Il tracciato seguiva quello del canale, ma spostato verso meridione. I viaggiatori naviganti si spostarono prontamente su questa linea, anche se più onerosa nelle tariffe, mentre il trasporto pesante continuò a svolgersi via acqua. Con lÊavvento dellÊelettricità, le tramvie si modificarono ulteriormente. Nel 1939 lÊelettrificazione della linea tramviaria raggiunse la Martesana e il Gamba de legn venne sostituito dal tram. Il capolinea milanese della tramvia Milano-GorgonzolaCassano dÊAdda era in via Benedetto Marcello, in corrispondenza della nuova Stazione Centrale. Alla fine degli anni Cinquanta la crescente motorizzazione determinò un decremento dei passeggeri. La linea tramviaria verrà quindi dismessa e sostituita dalle Linee Celeri dellÊAdda inaugurate il 5 maggio 1968. Il nuovo percorso fu tracciato tanto vicino allÊantica via navigabile che, per il tratto di Vimodrone, fu fatto correre nel letto del Naviglio stesso. LÊattuale linea metropolitana che raggiunge Cernusco sfrutta la medesima sede.

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Le dimore patrizie

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Le dimore patrizie

Profondo è il nesso che collega lÊarchitettura della villa al paesaggio ed al territorio. Nella sua accezione tipicamente milanese, la villa va considerata innanzitutto centro della gestione del territorio agricolo. Le ville erano infatti abitate dallÊaristocrazia milanese nei mesi in cui il ciclo agricolo era più produttivo. Del fondo rustico ormai rimane solo il ricordo; della villa, nella migliore delle ipotesi, la funzione residenziale. La gestione del fondo era lÊattività principale, cadenzata da tutta una ritualità del „vivere in campagna‰ largamente codificata dalla letteratura storica: lÊozio operoso, le feste, le battute di caccia, le reciproche visite. Il nobile possidente, pur da una posizione privilegiata, conviveva col borgo senza peraltro dominarlo. I rapporti si intrecciavano grazie allo scambio di prodotti agricoli e manufatti durante fiere e mercati. La tipologia della villa ebbe grande sviluppo nel mondo romano cui seguì una totale eclissi determinata dal sorgere di necessità difensive. La tipologia egemone diventò, per ben sette secoli, il castello o la casa fortificata. Solo nel Trecento si avviò un processo di rivalutazione della campagna che portò alla rinascita della villa grazie anche alla rielaborazione umanistica delle fonti classiche. I primi segni del fenomeno si registrarono in Toscana con la costruzione delle ville medicee. Nel Ducato degli Sforza la tipologia iniziò a diffondersi nella seconda metà del Quattrocento interessando prima gli immediati dintorni di Milano, poi zone sempre più lontane con casini di caccia collegati a fondi agricoli o ad aree boschive. Tra gli esempi prossimi a Cernusco, la bicocca degli Arcimboldi e il casino di caccia Borromeo ad Oreno, sulle cui pareti ancora palpita la vita che li animava. Nei cicli pittorici tardo gotici che ancora permangono riviviamo i giochi di società,

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gli svaghi allÊaria aperta, le cacce di palude e quella allÊorso. Agli inizi del Cinquecento il gusto si orientò verso la cultura di Roma: il Raffaello della Farnesina divenne il modello da seguire. Si diffuse così lÊuso dello stucco e soprattutto della grottesca. Un interessante esempio è la Gallerana (1480-1506) di Carugate. Il semplice impianto a blocco su due piani con portico ancora decentrato e totale assenza dellÊornato contrasta con la sontuosa decorazione pittorica. Due sale, coperte con volte a stella e ad ombrello, presentano decorazioni a grottesche con figure antropomorfe e zoomorfe allusive dei fasti della famiglia Gallerani. La decorazione fu commissionata nel terzo decennio del Cinquecento da Galeazzo, fratello di quella Cecilia Gallerani ritratta da Leonardo nella Dama con lÊermellino. Superata la crisi degli anni Trenta segnati da epidemie, carestie, saccheggi, la seconda metà del secolo fu caratterizzata dallÊesplosione delle infeudazioni. Il mercato dei feudi fu una necessità per il governo spagnolo che doveva far fronte alle ingenti spese militari e lo fece sfruttando la vanità di ricchi mercanti Leonardo, Dama con lÊermellino, ca 1490

desiderosi del titolo nobiliare. Aggirando le disposizioni in merito, i nuovi nobili proseguirono a praticare le attività venali i cui proventi venivano investiti in terreni agricoli ed immobili. Nel corso del XVI secolo si consolidano le caratteristiche della villa lombarda quale sede della gestione agricola, ma anche luogo di riposo e di studi favoriti dalla lontananza dalla città. Tale molteplicità di significati è ben evidenziata nella villa detta la „Pelucca‰ a Sesto San Giovanni edificata tra il 1518 e il 1524 su progetto dello stesso proprietario, Girolamo Rabia. La decorazione pittorica si deve invece a Bernardino Luini con temi dedicati alla natura agreste dellÊedificio. La situazione politica era peraltro foriera di grossi rivolgimenti. Con la morte di Francesco II Sforza (1535) lo Stato di Milano

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venne risucchiato nellÊorbita spagnola. Nel 1546 divenne Governatore di Milano Ferrante Gonzaga cui si deve la realizzazione di una splendida villa suburbana: la „Simonetta‰ progettata dallÊarchitetto siciliano Domenico Giunti. La trattatistica inizia a codificare le caratteristiche tipologiche della villa. Nel suo trattato di architettura, Pellegrino Tibaldi affronta le tematiche funzionali e distributive, mentre Bernardo Taegio in La villa (1559) tratteggia le amenità della campagna. Per lÊintero corso del Seicento sorsero in grande quantità ville di dignitoso livello. Progettisti furono gli stessi proprietari dando vita ad un fenomeno tipicamente milanese, ma che ostacolò lÊaffermarsi di architetti in grado di qualificare il prodotto. Della seconda metà del Seicento sono peraltro „alcuni esempi che costituiscono lÊanello di congiunzione tra i tentativi di villa a corte cinquecentesca e la produzione matura firmata della prima metà del Settecento...nelle quali, abbandonando la sperimentazione manierista, si articolano i corpi di fabbrica in modo organico secondo una gerarchia non solo funzionale, ma anche prospettica‰ (Langè 1992). La villa barocca, mai isolata nel microcosmo del giardino, si presentava sempre strettamente legata al centro edificato. Quasi sempre con schema ad „U‰, o suoi multipli negli esempi maggiori, la villa si apriva con la corte dÊonore sullo spazio pubblico del borgo originando un asse prospettico su cui si allineavano il corpo di fabbrica principale, con i saloni per le feste e la musica, il giardino e tutta una serie di elementi decorativi quali cancellate, fontane, cannocchiali prospettici. SullÊasse secondario la corte dÊonore si allineava con le corti rustiche dedicate allÊattività agricola e, più tardi, manufatturiera. La precisa gerarchia spaziale della villa rifletteva quella sociale rispettando il ruolo del possidente patrizio, che raramente lÊabitava stabilmente, come pure del personale addetto al funzionamento dellÊazienda agricola, che vi risiedava stabilmente relazionandosi con la comunità locale. Con la pace di Utrecht (1713) lo Stato di Milano passò dalla Spagna allÊAustria. ˚ in questo periodo di grandi riforme che si andrà definendo il concetto di „Villa di delizia‰ codificato da MarcÊAntonio Dal Re nel suo Ville di delizia o siano Palagi camparecci nello Stato di Milano nelle due edizioni del 1726 e 1743. Pur privilegiando lÊintento celebrativo delle famiglie che fecero costruire le ville, la raccolta costituisce un importante strumento per lo studio dellÊevoluzione della tipologia nella

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prima metà del Settecento. Il diffondersi della nuova moda della „villeggiatura‰ fu avviato proprio a Cernusco da Giovanni Ruggeri, architetto romano, che nel 1703, in epoca molto precoce per il fenomeno, avviò la costruzione della villa di Giacinto Alari. SullÊonda delle grandi realizzazioni europee, le ville diventeranno sempre più importanti nelle linee architettoniche e fastose nellÊornamentazione tanto che il nobile committente dovrà cedere la progettazione ad architetti di spicco puntualmente annotati dal Dal Re. A partire dal 1771 Milano visse un periodo di grandi fasti grazie a Ferdinando dÊAsburgo, quattordicesimo figlio di Maria Teresa, divenuto Governatore e Capitano generale della Lombardia. A Milano furono celebrate le nozze tra Ferdinando e Maria Beatrice dÊEste organizzate da Giuseppe Piermarini destinato a divenire lÊarchitetto arciducale, artefice del rinnovamento urbanistico della città. La cronaca degli avvenimenti venne documentata da Giuseppe Parini che stilò anche il libretto dellÊopera „Ascanio in Alba‰ composta da Mozart durante il soggiorno milanese su commissione dellÊImperatrice. LÊarciduca necessitava di residenze adeguate al rango; si incaricò quindi il Piermarini. Come residenza cittadina si provvide alla ristrutturazione del palazzo che era stato dei duchi di Milano, per la villeggiatura la scelta fu più complessa. LÊarchitetto prese in considerazione diversi edifici, tra cui la villa Alari di Cernusco dove lÊarciduca e la corte villeggiarono sino al 1777. Ferdinando aspirava ad una villa grandiosa. Dopo aver trattato lÊacquisto del Castellazzo di Bollate, delle ville Alari e Greppi di Cernusco, spingendosi nelle ricerche sino a Bellagio, la decisione fu presa. Il 21 luglio 1775, in una lettera al Firmian, Ferdinando sosteneva la necessità di costruire un edificio ad hoc, che si concretizzerà diciotto mesi più tardi con la scelta di Monza. Il 17 aprile 1777 un dispaccio ne autorizza la costruzione, a spese dellÊerario. La villa arciducale di Monza non rispecchia le caratteristiche tipologiche del Milanese, ma rappresenta un unicum architettonico ed ambientale. Il territorio del ducato era ancora legato alla sua funzione rurale e, nonostante la razionalizzazione delle colture, la villa ne rimase il centro direttivo sino alla diffusione dellÊindustrializzazione. Un discorso a parte merita la villa costruita tra il 1808 e il 1816 dal banchiere Ambrogio Uboldo a Cernusco per una funzione del

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tutto particolare: custodire le collezioni dÊarte del ricco proprietario. Il diffondersi dellÊindustrializzazione determinò la nascita di un nuovo ceto sociale, la borghesia, di cui la villa liberty divenne il contrassegno del livello sociale acquisito. La residenza individuale con giardino privato, anche se in scala ridotta rispetto alle dimore nobiliari, diveniva accessibile a più larghe schiere di fruitori. Il declino della tipologia è connesso alla decadenza del patriziato, in particolare al venir meno della consistenza economica necessaria a sostenere lÊonerosa manutenzione. Le ville storiche sono in genere sopravvissute nella loro struttura edilizia, seppur private dei fondi

LÊarciduca Ferdinando con la famiglia a Milano, 1776

agricoli e di conseguenza della dimensione rurale. A Cernusco le tre ville maggiori hanno avuto sorte analoga: trasformate in ospedali con interventi invasivi che ne hanno mutilato e svilito la struttura. Le ville patrizie hanno anche consentito a molte amministrazuioni di reperire aree allÊinterno dellÊedificato da destinare a verde pubblico, se non addirittura per costruire scuole o edifici pubblici. Si è così persa lÊopportunità di salvaguardare giardini storici di considerevole valore sia culturale che ambientale. Caso eclatante a Cernusco è il parco di villa Greppi distrutto per costruirvi due scuole, di cui una divenuta poi Biblioteca civica, ed aprire la piazza Unità dÊItalia. La città avrebbe oggi potuto fruire di un parco pubblico, firmato da Giuseppe Piermarini.

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Le dimore patrizie

Villa Rovida, Gervasoni, Carini

La villa è posta in unÊarea paesistica di particolare suggestione: lungo il corso del Naviglio, in corrispondenza di un isolotto, e poco discosta dal ponte, un tempo lÊunico che collegava il paese con la strada di impianto romano che da Milano portava a Bergamo ed Aquileia. Il tracciato rettilineo di viale Assunta ha come traguardo settentrionale la corte dÊonore della villa. Superato il Naviglio, la strada piega per adeguarsi alla planimetria dellÊedificio. Solitamente sono gli edifici ad inserirsi nel reticolo viario, tale anomalia è indice della vetustà della villa che, ad una disamina superficiale, potrebbe apparire ottocentesca. LÊanalisi tipologica e strutturale conferma peraltro tale ipotesi. La villa si sviluppa attorno ad una corte quadrata, completamente chiusa, con una struttura compatta ed introversa. LÊunica facciata monumentale si affaccia sulla corte con un bel portico in cinque fornici su colonne in granito. Neppure il vicino Naviglio ha condizionato le scelte progettuali, quasi la sua costruzione fosse precedente allo scavo del canale. Su quale insediamento venne costruita la villa? A Cernusco esisteva un castello, almeno fino al 1309. Guido Della Torre, inseguito dai Visconti, vi si rifugiò, ma del castello non rimangono resti anche se alcuni studiosi avanzano lÊipotesi che il vicino spalto sul giardino di villa Uboldo possa essere stato edificato coi resti del castello. Accantoniamo la suggestiva ipotesi e torniamo ad analizzare quanto concretamente rimane. Villa Rovida è probabilmente la villa più antica di Cernusco presentando lÊimpianto tipico delle ville cinquecentesche, ancora legate alla tipologia castellana che si andava lentamente modificando in funzione delle minori necessità difensive. LÊingresso carraio lungo la via Cavour era evidenziato da un portale monumentale a doppio ordine dÊimpianto cinquecentesco demolito nel 1972. Attualmente si utilizza un ingresso carraio che sÊincurva ad emiciclo sulla via IV Novembre con una cancellata realizzata a metà Ottocento.

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La villa compare nella mappa catastale di Carlo VI (1721), ma con una planimetria più estesa verso levante comprendendo anche un cortile dei rustici (demolito). Proprietario era il conte Antonio Cesare Rovida cui apparteneva anche in precedenza. Nel 1708 Domenico Trezzi, console della comunità, stese una „Nota delle Case da Nobile‰ esistenti in Cernusco nel 1685 in cui è compresa quella appartenente al conte Rovida. La famiglia è documentata in loco già nel 1584 avendo la proprietà dei terreni annessi alle cascine San Maurizio e Increa. Il documento attesta la vendita di tali terreni, la proprietà è quindi precedente: è probabile che la famiglia avesse anche una residenza in loco. Nel 1754 i Rovida erano intestatari di 790 pertiche di terreni delle possessioni Lenzuoletta e Viscontina e avevano un mulino con due ruote denominato „Molino Novo‰, da non confondere con la ruota sul Naviglio in corrispondenza del giardino. I conti Rovida mantennero la proprietà della villa fino al 29 ottobre 1840 quando la cedettero al conte Carlo Bertoglio. Solo cinque anni più tardi, il 9 dicembre 1845, la proprietà passò a Nicolò Bonsignori e Vincenzo Carini. Il 15 aprile 1847, rilevò tutto il Carini, imprenditore nel settore della seta e artefice della fortuna familiare. A lui si devono diversi interventi sulla villa e sul giardino. Datato 18 novembre 1857 è il contratto dÊaffitto dellÊacqua del Naviglio per il funzionamento di una ruota idraulica che serviva a portare lÊacqua alla filanda del Carini. Questa fu installata tra la sponda del canale ed un isolotto appositamente costruito anteriormente al 1865 di cui allÊArchivio di Stato di Milano si conserva il progetto. Vincenzo si adoperò anche a riqualificare la villa con decorazioni eclettiche molto in voga allÊepoca e tristemente andate perdute. I saloni al piano terreno presentavano soffitti a cassettoni dipinti e fasce sottosoffitto affrescate con motivi neobarocchi di putti, trofei floreali, festoni vegetali, quadrature riferibili alla seconda metà dellÊOttocento. Questi sono stati sacrificati nel cambiamento di destinazione della villa che negli anni Settanta è stata trasformata da ospedale psichiatrico femminile a Curia provincializia Lombardo-Veneta dellÊOrdine Ospedaliero di San Giovanni di Dio (Fatebenefratelli). Solo nel portico rimane la decorazione che un tempo culminava sulla volta dello scalone dÊonore dove un affresco dal curioso soggetto allegorico

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La Fama circondata dai simboli delle Arti, delle Scienze e dellÊIndustria costituiva un esplicito riferimento alle imprese industriali di Vincenzo Carini. Ancora a lui vanno attribuite alcune strutture in ferro sul giardino malauguratamente rimosse, ma rilevate e documentate fotograficamente nel 1975. Una pensilina sullÊingresso e una veranda in ferro e vetro verso oriente davano brio a una facciata troppo sobria e documentavano il diffondersi di quellÊeuforia per il progresso industriale tipica della seconda metà del XIX secolo. Il riferimento alla Galleria Vittorio Emanuele di Milano (1865) è esplicito. Dopo la morte di Vincenzo (1883), i figli mantennero la proprietà sino al 1919 quando la villa venne rilevata da Luigi Gervasoni ed Angelo Maj, mentre il passaggio ai Fatebenefratelli risale al 1939. LÊultima ristrutturazione realizzata alla fine degli anni Settanta ha stravolto le caratteristiche distributive dellÊedificio sacrificando le decorazioni in nome di una presunta funzionalità.

La villa in una fotografia dÊepoca

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Le dimore patrizie Villa Biraghi Ferrario

LÊimpianto introverso che caratterizza la villa non è probabilmente lÊoriginale. In unÊincisione di MarcÊAntonio Dal Re (1743) lÊedificio compare sullo sfondo di villa Alari con una struttura a blocco che tuttora permane nel corpo centrale, più rialzato e assolutamente autonomo. Le ali, più recenti, si addossarono al corpo principale andando a chiudere alcune finestre. Anche la relazione della villa col Naviglio, poco distante, è stata stravolta nellÊOttocento dalla costruzione di una filanda che ha interrotto il cannocchiale visivo sul canale e sullÊantica pieve. Il primo documento che attesti lÊesistenza della villa è la mappa del catasto teresiano (1721), ma il disegno sommario non consente di leggere la planimetria dellÊedificio. La proprietà è invece chiaramente documentata dallÊatto di vendita datato primo aprile 1724 con cui Giacinto Alari cedeva ai fratelli Lucio e Francesco Cotta la possessione della Torrianetta e una „Casa da Nobile con giardino, ed altre case contigue‰ da identificarsi con la villa e i due cortili rurali adiacenti verso settentrione. La data dellÊatto corrisponde allÊultimazione della magnifica residenza che Giacinto si stava facendo costruire poco discosta: la vecchia magione non serviva più. Solo quindici anni più tardi Francesco Cotta rivendette la villa al conte Carlo Galesi per una cifra inferiore a quella dÊacquisto. Il Galesi saldò quanto pattuito direttamente allÊOspedale Maggiore di Milano, onde coprire i debiti del Cotta. Nel 1756 lo storico Francesco Saverio Quadrio, dissertando sullÊopera del pittore Cesare Ligari, menzionava un affresco eseguito a Cernusco nella casa del „conte Galesio Segretario di Stato‰. Della „vasta Prospettiva‰ non rimane traccia visibile, ma la notizia è indicativa del censo del committente e del suo gusto artistico. Alla morte di Carlo Galesi, lÊedificio passò a Cristoforo Carenzi Galesi insieme alla possessione Visconta. Dal primo maggio 1772 al 21 luglio 1778 Cristoforo si trovò nella condizione di dover affittare la villa per ospitare la corte di

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Ferdinando dÊAsburgo, e con grave danno per le finanze di famiglia. LÊaffitto, con canone annuo di lire imperiali 700, venne corrisposto saltuariamente, come risulta dai solleciti di pagamento protrattisi sino al 1780. Anche questa villa, come lÊAlari e la Greppi, entrò nelle infruttuose trattative per la vendita allÊarciduca. Il 23 marzo 1791 villa e possessione furono rilevate da Francesco Werich. LÊatto di vendita presenta in allegato accurati inventari dei mobili, degli arredi e dei quadri. Dal documento si evince la presenza di una cappella dedicata alla Sacra Famigla. Il Werich, nato a Praga nel 1749, era dotato di un cospicuo patrimonio e fu benefattore dei Luoghi Pii Elemosinieri e dellÊOspedale Maggiore di Milano nella cui quadreria è conservato un ritratto. Alla sua morte, avvenuta a Milano nel 1816, la villa venne ereditata dai fratelli Pedretti; nellÊatto di divisione dei beni (1825), compare un altro prezioso inventario che descrive minuziosamente le caratteristiche distributive sia del corpo centrale che delle ali: il complesso aveva assunto lÊattuale conformazione. Nel 1903 la villa apparteneva a Marianna Pedretti, passò poi alla famiglia Biraghi ai cui discendenti tuttora appartiene. LÊedificio è abitato dai proprietari che ne hanno gelosamente preservato le originarie caratteristiche e la destinazione residenziale. La villa sÊinserisce nel tessuto dellÊantico borgo, seppur isolandosi. LÊingresso principale si apriva sulla via Cavour con una coppia di pilastri barocchi che sorreggono la cancellata dÊaccesso al giardino. Impostata su un unico asse di simmetria normale al Naviglio, la parte signorile emerge nettamente per la maggiore elevazione e per i partiti decorativi che ne scandiscono i prospetti. La facciata principale prospetta sul giardino, ma un tempo la visuale arrivava sino al Naviglio. LÊarticolazione delle masse è alleggerita dallÊinserimento del portico trabeato e dal soprastante balconcino in ferro battuto. Più sobria si presenta la facciata sul cortile che piacevolmente contrasta con le sagome mistilinee del bel balcone barocco e della scalinata sottostante. In posizione leggermente rialzata si aprono i saloni passanti coperti da soffitti a cassettoni dipinti a tempera con decorazioni „a passasotto‰. Le caratteristiche distributive ed ornamentali consentono di datare la villa al tardo Seicento. Ancora più tarda appare la decorazione del salottino estesa sulle pareti con medaglioni che incorniciano dipinti e specchi. Ben inserita nel nucleo settecentesco del paese che gravita sulla via Cavour e sul Naviglio, villa Biraghi Ferrario costituisce un esempio interessante di dimora signorile di campagna di epoca barocca.

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Le dimore patrizie

Villa Alari, Visconti di Saliceto

Villa „dÊarchitettura magnifica, e dÊottimo gusto‰. La definizione si deve a MarcÊAntonio Dal Re che nellÊedizione del 1743 del suo Ville di delizia tratteggia le caratteristiche architettoniche ed ambientali del complesso. Precisa inoltre la scelta della località „in sito assai fertile e dÊaria temperata‰ e le attrattive turistiche del „luogo assai frequentato da nobili e arricchito di belle fabbriche⁄ e con il comodo del canale atto alla navigazione in ogni tempo sicura e deliziosa‰. Fondatore della villa fu Giacinto Alari nato a Como nel 1668 da Giambattista Alari e dalla sua seconda moglie, Livia Taroni, comasca. La famiglia Alari, dÊorigine piemontese, è documentata in Cernusco dal 1697, ma risiedeva a Milano in un palazzo sito in via Santa Maria Fulcorina, andato distrutto. Giacinto fu lÊartefice della fortuna familiare, grazie anche alla brillante carriera costellata dÊincarichi pubblici di rilievo. Nel 1702 fu nominato Commissario Generale delle Munizioni dello Stato di Milano e nel 1705 Luogo Tenente del Corriere Maggiore. Dal matrimonio con Teresa Gariboldi nacquero, nel 1702, Francesco e, nel 1708, Saulo. Seguirono Giuseppe, che abbracciò la carriera ecclesiastica, Livia che sposò Giuseppe Truccato, e alcune figlie che si fecero religiose. Nel 1721 Giacinto era proprietario delle cascine Olearia, Parolina, Tarona e Torrianetta e dei fondi agricoli di pertinenza che assommavano a 1780 pertiche, ma i possedimenti terrieri si estendevano anche sui comuni limitrofi, in particolare sui territori di Vimodrone, Moncucco di Brugherio e Cologno Monzese, ammontando, alla metà del XVIII secolo, a 20.500 pertiche milanesi. Giacinto coronò la sua ascesa sociale nel 1731 col conferimento del titolo di conte appoggiato al feudo di Tribiano concessogli da Carlo VI. A Giacinto mancava peraltro una villa di campagna degna del rango nobiliare cui aspirava, da qui la decisione della nuova

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fabbrica, cui sovrintese un giovane architetto romano, Giovanni Ruggeri (1665-1729), giunto in Lombardia al seguito di Carlo Fontana. ˚ sempre il Dal Re ad indicare il nome dellÊarchitetto alla sua prima impegnativa esperienza che a Cernusco lascerà il prototipo della „Villa di delizia‰ su cui modellerà le residenze dellÊaristocrazia milanese. LÊ11 aprile 1702 Giacinto acquistò un terreno di 103 pertiche adiacente sia al borgo che al canale, e subito ebbe inizio la costruzione che si concluse nel 1719 grazie ad unÊéquipe di pittori, decoratori, stuccatori, mosaicisti, artigiani del ferro, che lÊarchitetto Ruggeri aveva assoldato e che abilmente guidava per giungere ad un linguaggio fortemente unitario. La straordinaria omogeneità stilistica era un tempo sottolineata dagli arredi e dalla quadreria appositamente realizzati ed andati malauguratamente dispersi. Il tradizionale impianto ad „U‰ si smaterializzava nelle trasparenze del corpo centrale e nei delicati passaggi chiaroscurali di portici e logge. I giochi dÊacqua del giardino dovevano accentuare il fenomeno di evanescenza della massa muraria che si perdeva nei lunghi cannocchiali prospettici che un tempo fendevano la campagna circostante. La villa fu interamente decorata intorno al 1723 dai principali frescanti del Ducato, tra cui Giovan Angelo Borroni, comprimario del Tiepolo nel palazzo Clerici di Milano. Al piano terreno un ampio portico immette nella sala della musica, con volta decorata da unÊAllegoria con le quattro stagioni riferibile a Pietro Maggi e sovraporte a quadrature. Uno scalone dÊonore di grande respiro, con splendida balaustra in pietra e ferro battuto, collega i due piani della villa. Sulla volta Francesco Fabbrica affrescò Ercole accolto nellÊOlimpo, un episodio mitologico che allude alla scalata sociale del fondatore, Giacinto Alari. Dalla grande galleria decorata sul tema del Trionfo delle Arti, si accede al salone da ballo sviluppato su una doppia altezza con una raffinatissina decorazione che, dalla volta affrescata con il Trionfo di Apollo di Giovan Angelo Borroni, scende lungo le pareti con lesene a finti marmi, monocromi con Strumenti musicali, sovraporte, sovrafinestre e trompe-lÊoeil che simulano logge per i musici. La cappella gentilizia, posta in uno dei due avancorpi sulla via Cavour, si organizza su una pianta ottagonale allungata che sÊincunea nel presbiterio. I due ambienti, coperti da cupole ellittiche, sono caratterizzati da decorazioni molto differenti

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riproponendo peraltro le due tecniche che si succedono allÊinterno della villa: lÊaffresco e lo stucco dorato. Gli stucchi del presbiterio, ad intrecci lineari con stesure piatte, fanno da cornice alla splendida ancòna in marmi policromi che racchiude la pala dÊaltare raffigurante La Madonna col Bambino e i SS. Anna, Giuseppe, Teresa, Giacinto di Salvatore Bianchi (1653-1727). La cupola dellÊaula è invece affrescata con la Gloria dei SS. Teresa e Giacinto di Francesco Fabbrica. A livello iconografico, lÊaffresco celebra il fondatore della villa comparendo San Giacinto attorniato dai patroni dei famigliari e della moglie Teresa. La villa si considera conclusa nel 1725, anno della benedizione della cappella. LÊimportante quadreria era ricca di dipinti del Crivellone, di Francesco Londonio, di Enrico Albricci, cui si devono le Bambocciate che decoravano il „Quartierino dei nani‰ con mobili in miniatura. Alla morte del fondatore Giacinto (1753), la villa fu ereditata dal terzo figlio, il canonico Giuseppe e dai due nipoti: Francesco, nato a Como da Francesco e Livia Fossati, e Agostino Saulo, nato da Saulo e Maria Teresa Brockenhausen. Giuseppe e i due nipoti, allÊapice della fortuna economica, furono costretti, per ragioni di opportunità politica e diplomatica, a cedere la villa ed altre case in Cernusco a Ferdinando dÊAsburgo, Governatore della Lombardia austriaca. Cernusco era allÊepoca il più prestigioso centro di villeggiatura dei Navigli e, già nella primavera del 1771, Giuseppe Piermarini, architetto dellÊArciduca, insieme a Michele Pacassi, appositamente mandato da Vienna alla ricerca di una residenza idonea, decisero per la villa Alari. A memoria del soggiorno della corte a Cernusco rimangono alcuni cenni nellÊepistolario tra Pietro ed Alessandro Verri. Il lustro che ne venne a Cernusco e alla villa non ricompensò la famiglia Alari. Da qui iniziò un tracollo finanziario che appare evidente dalla lettura dei dati catastali; nel 1831 i fondi agricoli di pertinenza delle cinque cascine erano infatti scesi da 3406 pertiche a 901. Tra il 1775 e il 1776 furono intavolate trattative per lÊacquisto della villa da parte dellÊArciduca; di esse rimane una dettagliata descrizione del complesso spedita a Vienna. La cifra richiesta – 44.000 gigliati per la villa e 9.000 per gli arredi – fu considerata eccessiva dallÊimperatrice madre. In questi anni intestatario della villa e dei fondi agricoli era Saulo, nato nel 1778 da Agostino Saulo e Cristina Langosco.

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Il ritratto di Saulo a cavallo del pittore Filippo Bellati (1813) ricorda lÊultimo della stirpe, come pure il monumento funebre apposto dalla vedova nella cappella. A lui si devono alcuni interventi di adeguamento della villa al nuovo gusto Impero, quali gli ornati naturalistici con raffigurazioni di cani e uccelli in una sala del piano terreno. LÊintervento più pesante fu peraltro la distruzione del giardino alla francese sostituito da un parco allÊinglese realizzato nel 1813 dallÊarchitetto Luigi Villoresi. Alla morte di Saulo (1831) la famiglia Alari si estinse. La vedova, Marianna San Martino della Motta (1796-1890) sposò qualche anno più tardi il conte Ercole Visconti di Saliceto, portando in dote la villa e i fondi agricoli annessi. Marianna ebbe un figlio dal secondo marito, Alfonso, nato a Milano nel 1838. Ercole, e soprattutto il figlio Alfonso,

dimostrarono

grande

attaccamento alla villa e sÊimpegnarono a preservarne lÊarredo originale, eliminando le sovrapposizioni neoclassiche. A Cernusco venne portata la biblioteca e lÊarchivio di famiglia e fu incrementata la già notevole collezione di dipinti. Alcuni articoli apparsi su riviste specializzate dÊinizio Novecento e una raccolta di fotografie (1910) documentano la fortuna della villa, compiuta testimonianza dellÊarte Rococò.

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Alfonso Visconti di Saliceto sposò Emilia, contessa Dal Verme (1839-1865), ma il matrimonio ebbe breve durata. Alfonso rimase infatti vedovo a soli 27 anni e con una bambina di due, Valentina, ma non si risposò. Uomo colto ed eccentrico, fu poeta, fotografo, appassionato di ciclismo. Alfonso seguiva personalmente i fondi agricoli: alla cascina Torrianetta fece costruire case rurali modello per cui venne premiato dalla „Società Agraria di Lombardia‰. Fu socio della prestigiosa „Società Storica Lombarda‰ e Consigliere a Brera, cui intendeva lasciare la villa per farne un museo del Settecento, ma il sogno non si avverò. LÊunica figlia Valentina, nubile, alla morte di Alfonso (1924), si adoperò nella gestione delle attività di famiglia. Impegnata nel sociale, fece parte del

Consiglio

dÊAmministrazione

dellÊOspedale Uboldo e dellÊAsilo Sorre, fu Presidente del „Comitato Assistenza civile‰ che confezionava indumenti da inviare ai soldati al fronte. Intensa fu anche la sua attività culturale: mecenate sensibile, aiutò negli studi artisti promettenti, quali il pittore e incisore Vico Viganò. Anche la dinastia Visconti di Saliceto era destinata ad estinguersi. Alla morte di Valentina (1944) gli arredi, la quadreria e la biblioteca andarono dispersi, mentre il prezioso archivio di famiglia fu versato al „Civico Archivio Storico‰ che ha sede al Castello Sforzesco.

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La villa, già acquistata dal barone Pizzini, un cugino di Valentina, fu poi da questi ceduta nel 1948 allÊOrdine Ospedaliero di San Giovanni di Dio (Fatebenefratelli) che la utilizzò quale Ospedale psichiatrico. Nel 2007 la villa, nella sua parte monumentale, è entrata nel patrimonio del Comune di Cernusco, mentre i cortili dei rustici, ristrutturati, sono stati venduti a privati. Chiuso e senza una destinazione, lÊedificio sta rapidamente degradando e tristemente contrasta con le sue stesse parti riqualificate. La villa costituisce un grande patrimonio storico-culturale, e non solo locale, che meriterebbe un attento recupero ed un utilizzo consono.

Salvatore Bianchi, pala dÊaltare dellÊoratorio della villa

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Le dimore patrizie Villa Biancani, Greppi

La villa sorge più arretrata rispetto al Naviglio da cui è separata dalla via Cavour. Venne edificata su un preesistente edificio documentato nel 1685 quale proprietà di Antonio Biancani e delineato nel catasto teresiano (1721) con dimensioni modeste. La riedificazione della villa è legata ad un personaggio curioso, dotato di una sorprendente abilità negli affari che gli permise di arrivare alle più alte cariche. Giulio Antonio Biancani nacque a Milano nel 1699 mentre il padre Pietro era rinchiuso nel Castello, denunciato dal genitore per frenare la vita dissipata che conduceva. Pietro rientrò nei ranghi divenendo banchiere e prodigandosi ad aumentare il patrimonio familiare con una sorprendente abilità che trasmise al figlio, insieme ad unÊinsidiosa propensione al rischio. A soli ventÊanni Giulio Antonio divenne segretario del Senato. Sposò Marianna Lomazzi, una nobile orfana e ricchissima. Alla morte del padre (1732) ereditò un grande patrimonio investito in vantaggiose imprese commerciali. Abile speculatore, seppe approfittare di una situazione politica favorevole agli investimenti. Assicuratosi i favori del Governo austriaco, ebbe lÊassegnazione dellÊappalto delle munizioni per lÊesercito imperiale. Ottenne la Ferma del sale per il Ducato, poi per il Mantovano, le imprese della mercanzia e del tabacco. Il Biancani riusciva ad aggiudicarsi gli appalti grazie alle condizioni molto generose che offriva alla Camera, ma i rischi a cui si esponeva erano enormi. Giulio Antonio aspirava a divenire nobile: nel 1733 acquistò il titolo di conte appoggiato ai feudi di Azzate e Dobbiate, un palazzo in città e le ville di Cernusco e SantÊAngelo Lodigiano. Uomo colto, poeta dilettante, amante delle lettere e delle arti, frequentava i salotti culturali di Milano, tra cui quello della contessa Borromeo del Grillo. In questi anni Giulio Antonio maturò lÊidea della riedificazione della villa di Cernusco da collocarsi tra il 1732,

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morte del padre, e il 1743, data di unÊincisione di MarcÊAntonio Dal Re dove lÊedificio è delineato sullo sfondo della villa Alari con lÊattuale assetto. Per meglio sfruttare il lotto a disposizione, la villa fu impostata su un asse di simmetria est-ovest su cui si allineano lÊesedra dÊingresso su via Tizzoni, la corte dÊonore, il corpo trasversale della villa e il giardino chiuso da unÊesedra cancellata. LÊasse prospettico un tempo proseguiva oltre il giardino, inoltrandosi nella campagna. Elemento qualificante del sistema è il portico passante che svuota la massa dellÊedificio senza interrompere la visuale prospettica. Sorretto da colonne binate in granito, il portico presenta un elegante disegno a serliana dÊispirazione manierista. I partiti decorativi della villa del Biancani dovevano essere differenti dagli attuali adeguandosi a quello stile denominato „Barocchetto teresiano‰ allÊepoca imperante. Alcune tracce sono emerse durante il restauro degli anni Settanta. Sotto lÊintonaco sono apparse cornici alle finestre di disegno barocco e un frammento di cornicione a gola rovescia. Nulla rimane degli splendidi interni: dispersi gli arredi, perduti nella quasi totalità gli affreschi. Rimane peraltro il nome di un pittore: Gaetano Dardanone (1688-1757) considerato „celebre‰ dalla critica coeva (Latuada, 1738) e recentemente riscoperto. Formatosi a Milano, il Dardanone si trasferì in Emilia guardando al Correggio. Sposò Teresa Bellotti, figlia di artisti, che gli spianò i rapporti con molti pittori, tanto che padrino di battesimo di uno dei dieci figli fu Giovan Angelo Borroni. Era il 1737: il Dardanone lavorava probabilmente in villa e, solo una decina dÊanni prima, il Borroni aveva realizzato in villa Alari la raffinata decorazione della sala da ballo. Pochissime sono le opere rimaste di Gaetano Dardanone, caratterizzate da „un morbido e pittorico correggismo‰ (Arslan, 1970). Gli affreschi di Cernusco avrebbero costituito un interessante termine di confronto con quelli della villa Alari. Le poche decorazioni rimaste nella ex cappella al piano nobile (oggi ufficio del Sindaco) non sono attribuibili al Dardanone. Si tratta di quadrature architettoniche e tralci floreali riferibili alla prima metà del XVIII secolo. Al culmine della sua ascesa sociale, Giulio Antonio fece un errore che lo portò alla perdita di tutto, anche della vita, per ambizione. Divenuto conte, iniziò a desiderare la carica di questore nel Magistrato ordinario che „comprerà‰ da

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Maria Teresa grazie allÊintercessione del conte di Traun. I membri del Senato erano contrari e gli resero la vita difficile impedendogli quelle manovre commerciali che un tempo gli erano abituali. Accusato di irregolarità amministrative e di alto tradimento per lÊaiuto prestato agli spagnoli fu condannato a morte da Maria Teresa e giustiziato il 24 novembre 1746 a Milano, in Porta Tosa, con una cerimonia pubblica degna del suo rango. Il Biancani aveva usato il malcostume affaristico come di una tecnica finanziaria assolutamente legale La facciata sul giardino in una fotografia dÊepoca

da cui maturò la necessità di una radicale riforma nel settore finanziario e nellÊamministrazione statale. Tutti i beni furono confiscati, tra questi la villa di Cernusco che andò allÊasta. Il 21 aprile 1752 il fermiere Antonio deÊ Pecis se la aggiudicò, ma dovette rispondere anche dei debiti contratti dal Biancani tra cui quello con Gaetano Dardanone di mille lire „a saldo delle pitture fatte nella Casa da Nobile di Cernusco‰. Nel 1769 rilevò la villa Antonio Greppi, personaggio di spicco nella Lombardia austriaca. La famiglia apparteneva alla piccola nobiltà bergamasca, di origini mercantili, legata al commercio allÊingrosso di lane e tessuti. Antonio nacque il 4 febbraio 1722 a Cazzano San Andrea, nella bergamasca Val Gandino, dove la famiglia era proprietaria di immobili dalla prima metà del Cinquecento. Iniziò occupandosi con successo dellÊimpresa di famiglia. A soli 27 anni gli fu affidato lÊappalto della Ferma Generale che gestì per ventÊanni (1750-1770) accumulando unÊingente fortuna e divenendo „lÊuomo

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indispensabile dellÊamministrazione austriaca‰ (P. Verri). Il legame con gli Asburgo si consolidò a partire dal 1771, con lÊarrivo a Milano dellÊarcivescovo Ferdinando. Dietro le quinte, il Greppi mise discretamente al servizio della corona il suo prestigio e le disponibilità economiche. Proprio in questi anni Antonio assunse uno stile di vita più consono al rango nobiliare investendo in grandi tenute terriere. Acquistò le ville di Monticello Brianza, di Cernusco, di Lainate e, nel ducato di Modena e Reggio, il castello di Galliavola e la tenuta di Santa Vittoria. Il Greppi fu mercante, imprenditore, banchiere, ma anche uomo di cultura. Fu amico e protettore di artisti e letterati tra cui Giacomo Casanova, Giuseppe Parini, Pietro Metastasio. Dalla moglie, Donna Laura Cotta, nobile bergamasca, ebbe cinque figli maschi: don Giuseppe, sacerdote e canonico della cattedrale di Bergamo; il conte Marco, consigliere di Sua Maestà e membro della Regia Camera dei Conti; don Giacomo, Cavaliere della Corona di Ferro; don Alessandro, missionario; don Paolo, banchiere, Console Imperiale e decano del Corpo consolare a Cadice. Ancora adolescenti, Marco e Giacomo furono mandati a completare la loro formazione di mercanti a Vienna e a San Pietroburgo. In società coi figli aprì „Case‰ commerciali nelle più importanti città europee. Con Marco aprì ad Amsterdam, primario scalo commerciale per i prodotti coloniali importati dalle due Compagnie delle Indie. Da Oriente arrivavano spezie; dalle colonie americane tabacco, cacao, zucchero, caffè, cocciniglia e indaco per la tintura delle stoffe. Col figlio Giacomo aprì ad Amburgo, sulla foce del fiume Elba, importante per i manufatti ed il commercio dei cereali. La Casa Greppi trattava sete e telerie in compartecipazione con la società spagnola gestita dal figlio Paolo per lÊinvio nelle colonie americane. La Casa di Cadice, gestita da Paolo dal 1769 al 1799, importava dalle Americhe prodotti coloniali, ma anche argento, ed esportava prodotti italiani (vino, olio, olive, ferro, acciaio, chiodi). Ma i due maggiori affari riguardarono la fornitura di lastre di rame alla Marina spagnola e di mercurio utilizzato nelle miniere americane per lÊestrazione dellÊargento. I particolari delle molteplici attività commerciali della famiglia Greppi sono recentemente emersi dalle 80 mila lettere del carteggio tra Antonio e i figli conservate nellÊArchivio di Stato di Milano. Per i suoi meriti di fine diplomatico, nel 1778 lÊImperatrice Maria Teresa lo insignì del titolo di conte di Bussero e Corneliano

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ed il 30 agosto 1780 del prestigioso Ordine di Santo Stefano dÊUngheria. Appena rilevata la villa, il Greppi si adoperò al fine di acquisire i terreni contigui per ampliare il giardino. Il 27 settembre 1770 comprò dalla contessa Antonia Sola alcune case rurali che fece demolire per realizzare il viale dÊaccesso al Naviglio. I lavori promossi dal Greppi si protrassero sino al 1776. Il consuntivo delle spese sostenute evidenzia la costruzione delle due cancellate affrontate sulla via Cavour, avviata nel 1771. LÊintervento del Piermarini nel „rammodernamento‰ della villa, documentato da Pietro Verri in una lettera al fratello Alessandro (14 settembre 1776), fa riferimento ad un disegno dellÊarchitetto, mai rinvenuto. LÊattribuzione è stata recentemente confermata (Stolfi, 1996) sulla base di una lettera (10 maggio 1771) del fattore Pirola a Greppi rinvenuta allÊArchivio di Stato di Milano. Il disegno citato è probabilmente il rilievo mandato a Vienna, ma lÊarchitetto realizzò anche elementi decorativi ed edifici accessori. Più dettagliate sono le lettere successive che relazionano sullÊavanzamento dei lavori attinenti al giardino ideati e diretti dal Piermarini sino ad ottobre 1771. LÊ8 ottobre il capomastro Crippa scrive al Greppi in merito a problemi tecnici nella realizzazione della fontana. Il referente diventa „lÊingegnere Croci‰ citato anche nelle lettere successive per lavori interni alla villa. AllÊepoca Piermarini era preso a seguire i lavori alle residenze arciducali di Milano e per lÊorganizzazione delle nozze dellÊarciduca. Il Greppi incaricò quindi Francesco Croce, architetto di fama che aveva peraltro già lavorato in villa su commissione del precedente proprietario, il deÊ Pecis. Nel carteggio si cita anche un altro artista, il „signor Galeari‰ identificabile in uno dei fratelli Galliari, pittori e scenografi teatrali. A Fabrizio la critica recente attribuisce le cancellate sulla via Cavour. La raffinata correzione prospettica delle cancellate non complanari rispetto alla via Cavour sono invenzione di uno scenografo tardo barocco. Al Piermarini va peraltro ascritto il rifacimento in pietra dei pilastri realizzati quattro anni prima, frettolosamente, in cotto. Nel 1779 il Greppi assunse un nuovo indirizzo nella gestione del patrimonio familiare. Acquistò proprietà terriere in Lomellina attuando un progressivo disimpegno dei capitali dallÊattività commerciale verso quella agricola gestendola con capacità imprenditoriale. Nel 1796, Antonio abbandonò Milano per non sottomettersi a Napoleone. Fedele allÊAustria, si stabilì nella sua tenuta preferita, Santa Vittoria, dove morì il 22 luglio 1799.

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I beni di Cernusco furono ereditati dal figlio Marco e nel 1831 risultano proprietà della vedova Margherita Opizzoni intestataria di 1389 pertiche della possessione Colcellate e di numerosi immobili. Al declino patrimoniale seguì nel 1848 la vendita della villa a Giuseppe Tizzoni. Pochi anni più tardi Luigi Tizzoni la donò allÊOspedale Uboldo che la cederà nel 1886 allÊOspedale Maggiore di Milano. Nel 1955 lÊOspedale Maggiore decise la dismissione del „cronicario‰, ma si attivò a portarsi via un ricordo: gli affreschi che intendeva riutilizzare negli Uffici della Segreteria Generale della sede milanese. Due di questi sono stati ritrovati nel 2005 nei depositi della „CaÊ Granda‰ in uno stato di notevole degrado. Gli affreschi ricoprivano le volte di due ambienti e sono probabilmente riferibile ai lavori di sistemazione intrapresi da Antonio Greppi tra il 1771 e il 1776. Uno dei due affreschi, restaurato nel 2009, è ritornato in villa Greppi. Negli anni bui del suo utilizzo come succursale ospedaliera e nel successivo periodo di dismissione in attesa di

La facciata sulla corte dÊonore in una fotografia dÊepoca

destinazione dopo lÊacquisto da parte del Comune (1961)

la villa fu ridotta in uno

stato di grande degrado. I restauri, conclusi nel 1978, hanno recuperato lÊassetto esterno, mentre lÊinterno è stato ristrutturato per essere adibito

ad uffici comunali. Sono

andati irrimediabilmente perduti lÊapparato decorativo e gli arredi fatti realizzare appositamente dal Greppi e che avrebbero costituito una significativa testimonianza del

trapasso

dal

gusto

barocchetto

al

neoclassicismo.

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Le dimore patrizie Villa Uboldo

Ultima ad inserirsi nello sky-line di Cernusco, la villa è strettamente correlata al fondatore: Ambrogio Uboldo. Nato a Milano nel 1785, Ambrogio apparteneva ad una famiglia di banchieri ed esercitò lui stesso tale attività. Uomo erudito ed amante dÊarte, fu consigliere dellÊAccademia di Brera e collezionista, tanto che nel 1838 lÊImperatore dÊAustria lo creò nobile di Villareggio per le benemerenze culturali ed assistenziali. La famiglia Uboldo possedeva terreni e case a Cernusco almeno dal 1748, ma si deve ad Ambrogio la costruzione della villa e del giardino realizzati tra il 1808 e il 1816 per aiutare economicamente la popolazione di Cernusco provata dalla carestia e dal colera, come attestano due iscrizioni. Progettista del complesso fu Carillo Rougier, nato a Milano nel 1775, amico e cugino del committente da cui fu orientato e diretto. Figura quasi sconosciuta nel panorama dei professionisti milanesi, il Rougier si formò allÊAccademia di Brera, sotto la direzione di Leopoldo Pollack che ne forgiò il gusto. Villa Uboldo si rifà alla milanese villa Belgiojoso del Pollack riprendendo uno schema tipologico che si andava allÊepoca affermando con lÊabbinamento della villa neoclassica al giardino „romantico‰ allÊinglese. La vasta documentazione conservata nellÊarchivio dellÊOspedale Uboldo e nellÊarchivio municipale consente di ricostruire le fasi progettuali del complesso nato per soddisfare specifiche esigenze del committente. Il palazzo di famiglia, sito in via Pantano a Milano, era divenuto insufficiente a custodire le collezioni dellÊUboldo, ormai tanto vaste da necessitare di una nuova sede. La villa ed il parco di Cernusco furono quindi concepiti come scenario espositivo. Della villa neoclassica, organizzata attorno ad un cortile chiuso, rimane solo lÊimpianto generale e la facciata meridionale

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caratterizzata, nel partito centrale, da un pronao colonnato di gusto classico. Alla sommità è posto un frontone in cui „Ospitale‰ Uboldo in una fotografia del 1909

campeggia lo stemma dellÊUboldo con due vittorie alate collocate solo dopo il 1838, anno del conferimento del titolo nobiliare. La conversione ad uso ospedaliero ne ha

stravolto la

tipologia salvando unicamente tre ambienti centrali che si affacciano sul parco. Tra le sale di rappresentanza sono andate perdute la „Sala chinese‰ con otto quadri sul tema, quella del biliardo e la „Sala rotonda‰ citate nel testamento. I tre saloni presentano decorazioni coeve alla costruzione. La sala ovest è affrescata con episodi mitologici ed Allegorie delle Arti e delle Scienze. ˚ lÊunica che conservi anche parte degli arredi costituiti da un bel camino in marmo sormontato dalla sua specchiera. Verso est è una sala con volta affrescata con motivi pompeiani. Il salone principale, ora inagibile per il crollo di parte della volta, presenta

sovraporte

affrescate

raffiguranti

Divinità

mitologiche e, sulla volta, coppie di Danzatrici e Suonatrici in medaglie sagomate. ˚ qui adottata la pittura a monocromo che imita il rilievo, tecnica peraltro molto diffusa nel periodo neoclassico. Ambrogio Uboldo era noto nellÊambiente milanese quale collezionista. Le sue raccolte di armi, dipinti, sculture, persino di oggetti, sono descritte nel testamento. Il pittore

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più noto, Francesco Hayez, era rappresentato da tre opere. Altri maestrri lombardi presenti erano Andrea Appiani, Angelo Inganni, i Bisi, i Migliara. Tra gli scultori ricordiamo Pompeo Marchesi ed Enrico Emanueli autore della statua a SantÊAmbrogio (1864) sita in giardino. LÊartista più rappresentato era Giuseppe Sogni, amico del mecenate ed autore, tra lÊaltro, di due ritratti di Ambrogio Uboldo tuttora conservati nella villa: uno in uniforme dellÊordine del Santo Sepolcro sullo sfondo della villa (1854), il secondo vestito col costume dellÊOrdine Imperiale della Corona Ferrea. UnÊattenta ricostruzione delle collezioni si deve a Simonetta Coppa (1980). Ambrogio Uboldo, celibe e senza prole, decise di nominare erede universale il nipote Giuseppe Tebaldi (Testamento 15 agosto 1854). Ma nel 1859 la prematura morte del giovane sconvolse i progetti dellÊUboldo, come si evince dal testamento definitivo in cui è espressa la volontà di

La villa in una cartolina del 1909

insediare nella villa un „Ospedale dei Poveri‰ lasciando i terreni delle possessioni Molinetto e Melghera, oltre ad una dote in soldi, per il mantenimento dellÊIstituzione. Alla sua morte (1865) la villa fu trasformata ad uso ospedaliero con grave danno per le sue caratteristiche tipologiche. LÊampliamento degli anni Sessanta ha inoltre svilito il contesto mutilando lo splendido parco. Le difficoltà economiche

sopraggiunte

in

merito

alla

gestione dellÊOspedale determinarono la vendita (1867) degli arredi e delle collezioni dellÊUboldo disperdendo un patrimonio di grande pregio.

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Le dimore patrizie Ville Liberty

Tra Otto e Novecento si diffuse un tutta Europa il Modernismo, stile che conferì alle città un volto moderno superando lÊeclettismo ottocentesco. Il nuovo stile prese differenti denominazioni nei vari paesi: Art Nouveau in Francia, Jugendstil in Germania, Liberty in Italia. QuestÊultimo era il nome di una ditta inglese di oggetti dÊarte del nuovo gusto che aveva aperto un negozio a Milano, in Galleria. Il Modernismo coinvolse tutte le categorie del costume: dallÊarchitettura allÊarredamento, dalla moda allÊornamento personale divenendo la moda della borghesia emergente. La tematica naturalistica, la morfologia impostata sulla curva e gli andamenti sinuosi, le tinte fredde stese in piatte campiture furono caratteri costanti come i materiali inconsueti e le novità tecniche diffuse dalle grandi Esposizioni universali di Parigi (1900), Torino (1902), Milano (1906) e dalla stampa specialistica, quale la rivista „Emporium‰ fondata nel 1895. Fu la borghesia imprenditoriale milanese di fine secolo a promuovere lo sviluppo industriale che, a sua volta, portò allÊedificazione di interi quartieri residenziali. Anche Cernusco ebbe il suo momento Liberty che si focalizzò su unÊarea non ancora edificata, lungo un asse viario che proprio in questi anni assunse un ruolo di primaria importanza: via dellÊAssunta. La linea tranviaria Milano-Vaprio, aperta nel 1878, fermava alla stazione di Cernusco posta in corrispondenza dello sbocco del viale sulla strada statale. Lungo via dellÊAssunta si insediarono, nei primi anni del Novecento, numerosi edifici residenziali sulle cui facciate, ordinatamente allineate lungo il versante occidentale, comparvero decorazioni floreali, ferri battuti dalle linee sinuose, vetrate e piastrelle policrome. Tra i nuovi materiali del Liberty milanese, il più curioso era il cemento utilizzato come economico

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surrogato della pietra. I committenti erano esponenti della borghesia

locale,

lÊarchitetto

più

richiesto Andrea Fermini, nato a Cernusco nel 1868. La famiglia Fermini, residente nella villa Melzi della cascina Ronco a partire dal 1789, annoverò diversi artisti. Ambrogio (1811-1888) fu pittore di paesaggio realizzando vedute dei giardini delle residenze nobiliari dellÊepoca. Andrea esercitò la professione di architetto nella Milano del periodo Liberty con Villa Ghezzi nel 1920

studio professionale in via Panfilo Castaldi, 41. Morì a Cernusco il 22 gennaio 1951. Tra le opere milanesi le più interessanti sono in via Pisacane: al n. 16 casa Balzarini (1902) è connotata da una decorazione a grandi foglie di ippocastano, mentre ai nn. 18-20 casa Cambiaghi (1902) è caratterizzata dal motivo del pavone che dischiude la coda a formare il timpano delle finestre. LÊiconografia, tipica dello Jugendstil, era stata già ripresa a Milano dal Sommaruga a palazzo Castiglioni, ma nella decorazione interna. Al Fermini si deve anche casa Vignati (1910) in via Vallazze 74 mentre sono a lui attribuite casa Viganò (1889) in via Ponte Seveso 11 e la casa in piazza Bacone 8. Ritornando alle opere lasciate a Cernusco, tutte lungo viale Assunta, ricordiamo villa Fermini, al n. 4, ancora eclettica e villa Lucia, al n. 8 di gusto classicheggiante. Sono le prime opere del Fermini progettate ad inizio carriera (1900) per i famigliari. Più tarde due ville tra loro contigue realizzate tra il 1910 e il 1920. Al civico 26 è posta la villa realizzata per Giovanni Bestetti,

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imprenditore edile locale. La villa è ordinatamente scompartita da lesene e da una cornice orizzontale. Nei riquadri si aprono le finestre decorate con belle cimase floreali. Al civico 30 è posta villa Ghezzi, la più interessante tra le ville locali del Fermini. I sobri cementi decorativi che incorniciano le finestre danno per contrasto risalto ai bei ferri battuti a motivi floreali della balaustra dellÊimportante scalinata e del soprastante balcone. Le facciate, scandite da lesene un tempo sottolineate dalla decorazione, erano concluse in alto da un fregio a festone, leggermente rilevato sullÊintonaco. Il fregio, a decori con

Villa Ghezzi nel 1920

andamenti lineari sinuosi, è andato perduto, ma è documentato da due fotografie storiche. La recente ristrutturazione ha pesantemente trasformato la villa alterando anche le tinteggiature: il color granata delle fronti che ben contrastava col grigio fumo dei ferri battuti è diventato un banale rosa. Accanto alla villa una casa dÊabitazione a carattere economico presenta solo in facciata un apparato decorativo Liberty, seppur minimale, mentre sul retro si organizza quale casa di ringhiera. Lungo il viale si insediarono in quegli anni altre case dÊabitazione analoghe. LÊultima costruzione del viale, al n. 154, è nuovamente una villa fatta edificare dalla famiglia Lucioni in fregio alla statale con decorazioni floreali molto leggere. Il Liberty della provincia, pur gradevole, fu uno stile solo epidermico che non apportò novità in termini spaziali movimentando unicamente i prospetti grazie allÊapparato decorativo.

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I cortili: tessuto connettivo del borgo

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I cortili

Il centro urbano di Cernusco è caratterizzato dalla presenza di edifici a carattere monumentale: ville e palazzi sorti nei secoli XVII e XVIII quali residenze estive di aristocratici milanesi. Gli esempi maggiori sono tuttora affiancati da unÊedilizia storica popolare di case di ringhiera i cui ballatoi si affacciano sui cortili interni. La forma della città, anche a Cernusco, discende dallÊassemblaggio di tipi edilizi strettamente correlati alla proprietà e alla destinazione dÊuso. Gli edifici vengono sostituiti, ma le strade spesso mantengono gli originali tracciati per cui la forma della città mantiene caratteri più antichi rispetto al profilo edilizio. Le mappe catastali ottocentesche tracciano un quadro del borgo di Cernusco non ancora segnato dagli interventi del secolo scorso. Il compatto nucleo urbano si organizzava attorno alla piazza „della Chiesa‰ (ora Matteotti) verso cui convergevano strade dai tracciati irregolari. ˚ la Cernusco medievale che emerge dalla conformazione dei lotti, dalla planimetria della piazza, uno slargo, spazio pubblico dove aveva la sua sede il potere religioso. Il tipo edilizio costituitosi dalla suddivisione del suolo della città medievale è un lotto lungo e molto stretto, con andamento normale allÊasse viario. LÊedilizia residenziale coincideva col luogo di lavoro. A piano terra, verso strada si aprivano le botteghe, accanto lÊandrone dÊingresso che immetteva al vano scale e alla cucina affacciata sulla corte dove erano posti il pozzo e i servizi. Al primo piano si aprivano due camere e, più sopra, la soffitta-sottotetto. Il tipo a lotto lungo costituiva il modulo elementare del tessuto urbano medievale di cui rimangono a Cernusco significativi esempi Lo scavo del Naviglio ebbe effetti positivi sullo sviluppo socio-economico del borgo creando i presupposti che fecero di Cernusco un rinomato centro di villeggiatura. LÊassetto urbanistico si modificò grazie allÊinsediamento di numerose ville

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lungo il canale e di palazzi nel nucleo urbano. I nuovi edifici per assumere strutture più complesse del modulo elementare non potranno che raddoppiare, dando origine alla tipologia „a palazzetto‰ con cortile laterale, o triplicare e oltre per il palazzo organizzato attorno ad un ampio cortile centrale e dotato di giardino privato. Un esempio significativo del primo processo è costituito dal palazzetto Galimberti sito in piazza Matteotti al n. 3, sino al 1974 affacciato sullÊantica parrocchiale. Il tessuto del centro storico cernuschese appare tuttora costituito dallÊaggregazione delle tipologie descritte con le tradizionali case di ringhiera. Fino alla metà dellÊOttocento la disomogeneità sociale del tessuto urbano non era rara: accanto ai palazzi e alle ville abitati dallÊaristocrazia, sussisteva unÊedilizia popolare con tipologia a ballatoio desunta dalla tradizionale casa rurale. La semplice facciata si inseriva nella cortina muraria, mentre sul cortile si affacciavano i lunghi ballatoi, disimpegno dei singoli alloggi: due vani privi di servizi. Le latrine, comuni, erano sul ballatoio come pure i lavelli per la distribuzione dellÊacqua. Nel secolo XIX la morfologia del paese non subì variazioni di rilievo al di là di alcuni insediamanti quali la villa Uboldo col suo parco ed il collegio delle Suore Marcelline. Più numerose furono invece le ristrutturazioni secondo il nuovo gusto neoclassico quali villa Greppi e palazzo Tizzoni. Le trasformazioni urbanistiche del paese derivarono invece da un diverso utilizzo delle vecchie strutture quali lÊinsediamento di opifici nelle ville – Gavazzi, Carini – e dallÊaffollamento delle abitazioni popolari che ne modificò la tipologia abitativa. Il paese aveva seguito unÊespansione a nord del Naviglio, tendenza che si invertì solo nei primi anni del Novecento. La nuova classe dirigente dellÊindustria locale non desiderava integrarsi nellÊambiente comune del centro, ma voleva vivere più appartata. Lungo lÊasse del viale Assunta si insediarono quindi una serie di ville, residenze individuali con giardino un tempo riservate ai nobili ed ora accessibili, seppur in scala ridotta, allÊalta e media borghesia. La nuova tipologia diventava così lÊemblema del livello sociale acquisito. LÊedilizia storica „minore‰ coi suoi cortili ancor oggi caratterizza tipologicamente il centro urbano di Cernusco costituendo un patrimonio storico da tutelare al pari degli edifici più rappresentativi in quanto prezioso esempio di abitazioni a carattere popolare che sono testimonianza di vita vissuta.

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Palazzo Galimberti in una fotografia del 1975

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I cortili

Palazzo Tizzoni

Il palazzo occupa il versante settentrionale della piazza Matteotti. Ricordato in un elenco delle „Case de Nobili‰ costruite anteriormente al 1685, il palazzo ed il vasto giardino erano allÊepoca intestati alla contessa Aurelia Besozzi. Nella seconda metà del Settecento entrò nel novero dei possidenti locali Giuseppe Tizzoni acquisendo i beni Besozzi e Greppi. Nel 1776, il Tizzoni possedeva infatti terreni per 992 pertiche e numerosi immobili. I Tizzoni furono tra le famiglie di spicco nella Cernusco ottocentesca. Nel 1831 Giuseppe risultava intestatario di quasi mille pertiche di terreni coltivati, della cascina Olmo e di diversi immobili nel centro edificato, tra cui il palazzo che fu dei conti Besozzi rilevato il 12 aprile 1817. Giuseppe fece ristrutturare la seicentesca residenza in forme neoclassiche, seguendo una moda avviata pochi anni prima da Ambrogio Uboldo. Il palazzo mantenne lÊoriginaria tipologia organizzata attorno alla corte dÊonore. Il portico trabeato, sorretto da due colonne in granito rosa, dava accesso al salone principale, un tempo finemente decorato a motivi neoclassici, come i due salottini adiacenti. Dal portico si raggiungeva lo scalone dÊonore che portava al piano nobile. A settentrione si estendeva un vasto parco allÊinglese, ora destinato ad uso pubblico. La ristrutturazione degli anni Ottanta ha portato al frazionamento del complesso determinando la perdita delle sale decorate, mentre le facciate hanno mantenuto gli elementi neoclassici che caratterizzarono gli edifici dellÊepoca. La fortuna economica di Giuseppe Tizzoni andò incrementandosi nella prima metà dellÊOttocento: nel 1847 era intestatario di un filatoio e di una filanda, lÊanno successivo acquistò la prestigiosa villa che fu dei conti Greppi. Il cospicuo patrimonio accumulato con lÊattività industriale sarà peraltro destinato a frammentarsi nelle divisioni familiari.

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I cortili

Palazzo Scotti

LÊedificio prospetta su piazza Martiri della Libertà, un tempo corte dÊonore chiusa da un muro con al centro un portale documentato da alcune fotografie dÊepoca. Incerta la tipologia assimilabile ad una villa, ma nettamente rinserrata nel tessuto dellÊantico borgo. La mappa catastale di Carlo VI (1721) costituisce la prima attestazione dellÊesistenza della residenza di Alessandro Castelsampietro, forse identificabile con la „Casa da Nobile‰ indicata come già costruita nel 1685. Alessandro Castelsampietro, nel 1742, vendette la proprietà a Carlo Giuseppe Balli che fece rammodernare lÊedificio. Nel 1764 il Balli nominava suo erede universale il Pio Luogo di Loreto che ben presto si disfò delle proprietà di Cernusco cedendole ad Antonio Greppi. Consegnata al Greppi il 14 settembre 1774, la „Casa da Nobile‰ rimase nel patrimonio familiare sino al 23 novembre 1836, quando venne acquistata da Giuseppe Scotti. Una planimetria commissionata nel 1844 allÊarchitetto Giacomo Moraglia documenta lÊoriginaria distribuzione interna ed il giardino perduto. Alla morte di Scotti, lÊedificio passò per lascito testamentario allÊOspedale Maggiore di Milano che, lÊ8 ottobre 1873, lo vendette al Comune di Cernusco per 35.000 lire. Nel 1976 lÊAmministrazione municipale cedette il complesso allÊOspedale Uboldo di Cernusco: ora appartengono entrambi allÊASL di Melegnano. Il complesso si articola su una pianta ad „U‰ dove il corpo trasversale presenta caratteristiche signorili quali il portico, in tre arcate a tutto sesto sorrette da colonne in granito, che si apriva sul cortile dÊonore. Uno scalone ottocentesco, in pietra con inserti in ferro battuto, porta al piano nobile. Il salone principale ed alcune sale laterali conservano soffitti a cassettoni con decorazioni a tempera del tipo a passasotto ascrivibili agli abbellimenti voluti dal Balli fra il 1742 e il 1759. Più tardi i modesti affreschi decorativi. La demolizione del muro di cinta (1927) per inserire il Monumento ai Caduti e la pesante ristrutturazione eseguita agli inizi degli anni Ottanta hanno snaturato lÊassetto dellÊedificio.

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I cortili

Palazzo Viganò

Lungo la via Cavour si allunga la facciata del palazzo che fu di Carlo Giuseppe Somaglia come attesta un documento del 1685. Nelle tavole del catasto teresiano (1754) il palazzo compare come proprietà di Francesco Cotta nella parte di ponente col giardino e di Alessandro Castelsampietro nella porzione prospiciente la via Caio Asinio. Nel 1803 la proprietà, nuovamente unificata, risulta intestata a Domenico Staurenghi passando, nel 1868, alla famiglia Carini, proprietaria di una filanda posta sulla via Cavour. Nel 1921 il palazzo fu rilevato da Vico Viganò (1874-1967), pittore locale che raggiunse notevole fama negli anni Trenta. Viganò si cimentò anche in architettura progettando un campanile per il Duomo di Milano (1938), mai realizzato. Viganò curò personalmente il restauro del palazzo di Cernusco eseguito nel 1924 integrando le decorazioni ed accentuando lÊaspetto pittorico allÊepoca di moda. I diversi corpi di fabbrica delimitano due cortili: il più ampio, assiale al portale, si apre sulla via Cavour; quello più piccolo, quasi un cavedio, nella zona angolare. Qui un bel balcone angolare prospetta sulle due strade. Le fronti esterne sono scandite al piano terreno da porte e finestre, più sopra da una fila di oculi. Al piano superiore le finestre si inseriscono nella gronda a gola rovescia spezzandone la continuità. Gli spazi risultanti furono dipinti dallo stesso Viganò come lÊandrone del portone.Più pittoresca era la parte su via Caio Asinio dove un tempo campeggiava un ovale con la Madonna Assunta. Il complesso è stato integralmente ristrutturato alla fine degli anni Ottanta con un ampliamento residenziale sul sedime dellÊantico giardino. Il progetto dellÊampliamento si deve a Vittoriano Viganò (1919-1996), figlio di Vico, architetto molto noto a Milano, docente alla facoltà di Architettura di cui ha progettato lÊampliamento.

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I cortili

Corte della Senavra

La corte si apre lungo la parte occidentale della via Carolina Balconi. Misteriosa è lÊetimologia di „Senavra‰, termine dialettale per definire la senape, che non compare in alcun documento. Dai dati dei catasti storici emergono i nomi dei proprietari. Nel 1754 lÊedificio era intestato al nobile Antonio Lampugnani che qui risiedeva. Tra il 1776 e il 1831 le proprietà terriere ed immobiliari del Lampugnani furono rilevate dai fratelli Giuseppe e Vincenzo Fermini. Il complesso si sviluppa attorno ad un ampio cortile rettangolare chiuso sul fondo da un imponente corpo trasversale qualificato da un portico monumentale. La corte è chiusa lateralmente da due ali minori le cui testate risvoltano a delimitare lÊaccesso con due pilastri mistilinei un tempo coronati da vasi decorativi. Lo schema del portico, pur molto diffuso nelle ville lombarde, appare anomalo nelle proporzioni grandiose: sei altissime colonne in granito portano ad altezza incredibile i capitelli in ordine tuscanico che sorreggono architravi tripartiti. Al frammento di architettura colta si sovrappongono strutture di edilizia spontanea quali il ballatoio delle case di ringhiera che sovrasta le arcate del portico in luogo del piano nobile che avrebbe portato il colmo di copertura ad unÊaltezza considerevole. Un secondo ballatoio in legno corre allÊinterno del portico disimpegnando le abitazioni ricavate frazionando, anche in altezza, lo spazio progettato quale magnifico salone di rappresentanza. ˚ evidente il riuso di strutture di edilizia colta su cui si sovrappongono elementi di edilizia spontanea. Oscure permangono le traversie storiche che hanno condotto ad abbandonare il primitivo progetto: forse un tracollo finanziario del committente di cui i documenti non hanno ancora svelato il nome.

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Corte dei Barnabiti

La corte occupa una porzione considerevole dellÊisolato posto tra le vie Barnabiti e Garibaldi, con accesso da piazza Padre Giuliani. LÊisolato costituisce un tassello del tessuto urbano di notevole portata storica in quanto qui era localizzata la Casa dei Barnabiti, già citata in un documento del 1685. I dati del catasto teresiano (1751) contrassegnano la corte al mappale 532 quale „Casa da Massaro‰ dei „R.R. Padri Barnabiti‰ i quali occupavano la residenza affacciata sulla via che da loro prese il nome. Le proprietà dei Barnabiti a Cernusco furono rilevate, alla soppressione dellÊOrdine avvenuta nel 1810, dal conte Greppi. Nella seconda metà dellÊOttocento, la corte è indicata quale „Casa colonica‰ di proprietà di Pietro Tizzoni, membro di una famiglia di industriali della seta. LÊingresso, quasi celato, dà su uno stretto vicolo che entra nellÊisolato e porta ad una corte rettangolare, molto allungata, delimitata a nord-est da un fabbricato ad „L‰, mentre a meridione si salda a quella che era lÊantica residenza dei padri, ora non più riconoscibile. Una lapide murata sulla facciata di via Barnabiti ricorda la presenza in questa casa dei Padri Barnabiti (1559-1810) succeduti agli Umiliati. Qui soggiornarono due personaggi storici di rilievo: San Carlo Borromeo e Gerolamo Vaiano. La struttura, tipica nellÊarchitettura rurale lombarda, si affaccia su corte con un porticato continuo costituito da tredici pilastri in cotto a doppia altezza su cui poggiano le capriate di copertura. Sotto il profondo loggiato corre un ballatoio ligneo che disimpegna i locali sottotetto. Al centro della corte è posta una fonte con un curioso bacino: il coperchio in pietra di un antico sarcofago. Un tale riuso non è peraltro raro nel mondo rurale, un caso analogo era riscontrabile anche nella corte rurale della cascina Castellana. Il frazionamento del complesso che gravita attorno alla corte non ne ha comunque menomato lÊaspetto unitario.

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Verso l ’industrializzazione

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Verso l ’industrializzazione

Alla fine del Settecento la seta veniva considerata „il massimo deÊ nostri prodotti, poiché si calcola che apporti alla Lombardia un milione di zecchini allÊanno e, quello che ancor più importa, tutto questo vantaggio si ha in meno di due mesi, ed in una stagione in cui pochi sono i lavori della campagna‰ (A. Odescalchi, 1775). La florida congiuntura determinò lÊespansione del settore manifatturiero inerente la trattura: si costruirono nuove filande gestite da personale specializzato e si ampliarono quelle già in attività. I resoconti delle ispezioni alle filande del ducato realizzate dai regi visitatori Bellerio, Besozzi e Odescalchi mettono in rilievo una specializzazione del settore che segnò lÊavvio del fenomeno dellÊindustrializzazione in Lombardia. Fu proprio lÊOdescalchi a valutare nel 1775 un incremento del 400% nella coltura del gelso in un solo cinquantennio. Notevoli furono i progressi della tecnologia nelle operazioni di filatura. Tra il 1767 e il 1785, Milano e Como raddoppiarono il numero dei telai da seta sulla spinta di alcuni provvedimenti governativi atti a proteggere i manufatti lombardi allÊinterno degli Stati della Monarchia asburgica caricando quelli dei paesi non sudditi del 60%. Il fenomeno non si esaurì nel XVII secolo, tanto che nel 1841 la seta prodotta in Lombardia rappresentava il 63% del totale del Regno. Tra il 1853 e il 1859 due malattie dei bozzoli, la Pebrina e la Filossera falcidiarono i raccolti determinando unÊinterruzione nellÊallevamento dei bachi. LÊintroduzione di tecnologie più avanzate determinò lÊinsediamento di grandi filande a vapore a scapito dei piccoli opifici insediatisi nei cascinali e gestiti dai proprietari terrieri. Dopo la crisi unitaria determinata dalla perdita dei rapporti commerciali con Vienna ed il Veneto, lÊindustria serica lombarda si risollevò tra il 1864 e il 1867 grazie al rialzo del prezzo della seta ed alla diffusione del telaio meccanico.

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Intorno alla metà dellÊOttocento, la manodopera femminile occupata nelle filande era lÊ89%, di cui il 31% era costituito da bambine. Il basso costo della forza lavoro favorì lÊespansione del settore che ebbe un ruolo trainante avviandosi molto precocemente verso una produzione industriale di tipo capitalistico. Ma quali erano i luoghi della produzione della seta? Al suo nascere la tipologia non presenta caratteri propri, ma mutua Ex voto per un incidente relativo alla gelsobachicoltura

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dallÊarchitettura rurale quegli elementi che erano funzionali alle operazioni manifatturiere. In particolare il porticato, usuale


nellÊarchitettura contadina, era adibito al riparo delle bacinelle a fuoco. Qui si svolgevano le operazioni di trattura praticate dalle stesse famiglie contadine dedite alla coltura dei gelsi. La nuova tipologia, la filanda, si sviluppò riadattando ad usi industriali le cascine o addirittura i rustici delle nobili residenze. Solo successivamente divenne un involucro architettonico atto a contenere le macchine per la trattura, privo di elementi decorativi ed impostato su criteri di estrema funzionalità. A pianta rettangolare, la filanda si organizzava attorno ad un ampio cortile con portici atti allÊammasso dei bozzoli. Al primo piano era posta la Gallettera, un ambiente poco soleggiato e privo di umidità per la conservazione dei bozzoli su graticci di legno. Al secondo piano avveniva la trattura. Le bacinelle erano poste su due file parallele in un grande stanzone con soffitto a capriate e grandi finestre semicircolari. NellÊOttocento anche Cernusco vide la nascita dellÊindustria tessile i cui prodromi risalgono al secolo precedente, come documentano i dati del catasto teresiano. Nel 1754 le piante di gelso censite furono 3.715, era lÊavvio dellÊenorme sviluppo che la gelso-bachicoltura andò consolidando nel corso dellÊOttocento. La materia prima prodotta nel Settecento era probabilmente trasportata a Milano o a Monza per le operazioni di filatura e tessitura. I documenti rinvenuti non hanno infatti evidenziato la presenza di filande a Cernusco nel Settecento. Tra il 1814 e il 1817 il prezzo dei bozzoli ebbe unÊimpennata sollecitando possidenti e fittabili ad intensificare lÊallevamento del baco da seta e quindi la coltura del gelso. Anche a livello locale la produzione si mantenne sostenuta tanto che alla metà dellÊOttocento i rilevatori censirono 28.341 gelsi a Cernusco che supportavano lÊattività di trasformazione. Emblema di questa felice congiuntura economica fu il detto: „LÊombra del gelso è lÊombra dellÊoro‰ che si diffuse capillarmente, come la coltura del gelso. Un documento dellÊarchivio municipale datato 1844 fornisce interessanti indicazioni sulle sette filande locali che producevano annualmente 27.000 libbre di seta filata, e sui due filatoi con 5.800 libbre di seta lavorata in trama. Le filande tecnologicamente più avanzate erano la Gavazzi e la Keller utilizzando già il vapore quale forza motrice. Lungo la via Cavour erano site la filanda di Alberto Keller, dotata di 72 caldaie, e di Vincenzo Carini con 20 caldaie a legna. Sulla piazza Matteotti davano la filanda di Nicolò Bonsignore, dotata di 52 caldaie a legna, ed il filatoio. La filanda di Giuseppe Tizzoni era sita in

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piazza Padre Giuliani ed aveva 20 caldaie, mentre quella di Federico Tizzoni, con 14 caldaie, si affacciava su piazza Matteotti. Luigi Gadda in via Carolina Balconi aveva una piccola filanda dotata di 10 caldaie ed un filatoio che produceva seta in trama. La popolazione occupata nelle filande locali ammontava a 21 uomini addetti a funzioni direttive ed alla manutenzione degli impianti. La produzione era totalmente in carico a personale femminile: 296 erano le donne, coadiuvate Una fase di lavoro nella filanda

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da 200 bambine tra i 9 e i 15 anni. LĂŠambiente di lavoro non era certo salubre: lĂŠumiditĂ prodotta durante le lavorazioni


era spesso causa di malattie polmonari e reumatiche. Il ciclo produttivo allÊinterno delle filande si esauriva in 3-4 mesi, ma le 12-14 ore di lavoro in filanda erano sostituite nei mesi di chiusura degli opifici dal lavoro nei campi per aiutare i maschi impegnati nelle attività agricole. LÊattività operaia delle filandine fu causa dellÊabbandono della prole per lÊintera giornata. Per soccorrere i „bambini di strada‰ un sacerdote, don Giovanni Tizzoni, con un gruppo di cernuschesi fondarono nel 1886 un Asilo infantile gestito dalle Suore Marcelline, opera sociale altamente meritevole, tuttora attiva. LÊindustria della seta raggiunse il suo massimo sviluppo tra il 1861 e il 1915, anno dellÊentrata in guerra dellÊItalia. In questo periodo lÊItalia fu prima in Europa e terza nel mondo, dopo Cina e Giappone, e la Lombardia primeggiava con la produzione di oltre la metà del totale nazionale. Con lÊavvento del nuovo secolo, il settore tessile della seta attraversò una grave crisi causata dai conflitti bellici e dallÊarrivo sui mercati delle sete dellÊestremo oriente concorrenziali nei

Immagini pubblicitarie di ditte specializzate nellÊallevamento di seme bachi

prezzi. Nel 1913 chiusero le filande Carini e Tizzoni. A partire dal 1929 lÊindustria della trattura e torcitura sparì in Lombardia risparmiando solo la tessitura. LÊulteriore crisi del 1935 provocò la fine del mercato. Solo lo Stabilimento serico Gavazzi continuò la produzione fino agli anni Quaranta. La vocazione tessile cernuschese è ricordata da tre piazze del centro – Matteotti, Gavazzi, Repubblica – e dalle vie che le collegano su cui prospettavano le filande attive nellÊOttocento. Nelle tre piazze, nuovamente piantumate con gelsi, campeggiano monumenti dedicati alla bachicoltura: il bruco tanto amato dai bambini in piazza Gavazzi, il bozzolo in piazza della Repubblica, lÊantico gelso in piazza Matteotti. Le tre piazze sono legate da un filo di seta: la bava del bruco che serpeggia bianca a disegnare la pavimentazione in porfido rosso. Il progetto di tale sistemazione risale al 1995 e si deve allÊarchitetto Gilberto Oneto.

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Verso l ’industrializzazione La filanda Gavazzi

La storia della filanda è intimamente legata alla famiglia Gavazzi, imprenditori serici che hanno lasciato un segno nella storia dellÊindustria tessile lombarda dalla metà del XVIII secolo. La famiglia era originaria di Canzo, nel Lecchese, luogo legato alla produzione della seta a partire dal XVI secolo. Il capostipite industriale fu Pietro Antonio (1729-1797). Il figlio Giuseppe Antonio divenne già in epoca napoleonica uno dei maggiori produttori di seta. Nel 1820 la sua filanda di Valmadrera utilizzava sistemi avanzati di trattura a vapore con caldaie di fabbricazione estera. Il figlio Pietro (1803-1874) costituì la ditta „Pietro Gavazzi‰ aumentando le unità produttive e gli impianti. Nel 1872 disponeva di 324 bacinelle di trattura cui erano addette 1800 operaie. I miglioramenti tecnologici introdotti nelle filande Gavazzi consentivano di eseguire le lavorazioni anche dÊinverno, dilatando lÊattività sullÊintero anno. Pietro fu tra i primi ad importare sete cinesi e giapponesi per trasformarle in ritorti ed a sfruttare la forza idraulica con opere complesse, come a Bellano. Aprì opifici a Desio, Canzo, Albese e in altre località. Con spirito paternalistico istituì nei suoi opifici di Cernusco, Bellano e Valmadrera scuole diurne primarie per istruire le bambine-operaie ogni giorno per mezzÊora in orario di lavoro. Preoccupato delle condizioni delle lavoratrici decise di imporre lÊetà minima di dieci anni per lÊingresso in fabbrica. Attento alla formazione del personale, collaborò allÊattività della Società dÊIncoraggiamento dÊArti e Mestieri (SIAM) di Milano. Una relazione presentata dal Gavazzi nel 1871 fornisce interessanti dati riguardo allÊopificio di Cernusco. La filanda di 80 bacinelle ed il filatoio per trama con 1152 fusi impiegavano 400 persone di sesso femminile. Un terzo del personale era costituito da ragazze dai 9 ai 15 anni. Il documento fornisce indicazioni anche sul salario che era per le filatrici di una lira

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al giorno, le ragazze percepivano dai 40 ai 90 centesimi, secondo lÊetà e lÊabilità. Il salario degli uomini era superiore: da 1.30 a 3 lire. La produzione della filanda Gavazzi di Cernusco era altamente qualificata. Un documento del 1884 fornisce una puntuale descrizione dellÊopificio e delle fasi di lavorazione. Il corpo occidentale è attestato nel 1685 quale „Casa da Nobile‰ dei marchesi Rovida. Solo nellÊOttocento avvenne lÊinsediamento dellÊopificio allÊinterno della residenza seguendo una tendenza generalizzata nella Lombardia avviata verso lÊindustrializzazione. I nostri opifici tessili non si discostavano dalle coeve fabbriche inglesi e tedesche note grazie ai frequenti rapporti con lÊestero. AllÊimportazione dei macchinari „ad uso inglese‰ e di tecnici si aggiungeva lÊimportazione di schemi edilizi. Nella seconda metà dellÊOttocento si diffuse la letteratura specializzata tramite riviste tecniche e manuali costruttivi. Vi compaiono colonne cave in ghisa, travi in ferro, finestre che si articolano con sportelli apribili verso il soffitto, tutti elementi atti alla

La filanda Gavazzi in una fotografia dÊepoca

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razionalizzazione della pratica costruttiva che si imposero per lÊeconomicità e per fronteggiare il costante pericolo di incendi. Venne progressivamente abbandonata la tipologia di fabbrica tessile multipiano mentre si consolidava il tipo dei capannoni ad un sol piano, più sicuro per gli incendi e comodamente sorvegliabile, oltre che più economico in quanto realizzato con campate modulari e pezzi standardizzati. Il capannone con tetto a shed, illuminato dallÊalto mediante una fascia vetrata a nord, forma un grande spazio vuoto atto a contenere i macchinari. I capannoni a shed dello stabilimento Gavazzi vennero edificati nei primi anni del Novecento con interessanti corrispondenze con gli elementi strutturali illustrati nel manuale degli ingegneri Musso e Copperi edito nel 1885 a Torino da Paravia. La filanda Gavazzi fu lÊultima ad essere chiusa. Il suo recupero, avvenuto alla fine degli anni Ottanta, ha preservato un interessante esempio di archeologia industriale con variegate destinazioni, ma perfettamente compatibili alle strutture dellÊopificio.

Uno dei reparti della filanda; sono evidenti le strutture architettoniche tipiche dellÊarcheologia industriale

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Le opere del regime

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Le opere del regime

Sotto il regime fascista Cernusco riuscì a realizzare alcune opere pubbliche che da tempo venivano invano prospettate. La necessità di un edificio scolastico sussisteva dal 1790 quando venne adattato a scuola normale il Santuario di Santa Maria Addolorata che, per un cinquantennio, accolse circa 130 bambini tra i 6 e i 12 anni. Fu la prima scuola pubblica di Cernusco. Solo nel 1867 si trovò una struttura più adeguata affittando tre locali. La popolazione in età scolastica andava aumentando e si dovette gestire lÊemergenza aule con doppi turni adattando alcune stanze del palazzo comunale. Nel 1915 il problema non era ancora risolto tanto che si arrivò ad impartire le lezioni a giorni alterni. Nel 1932 il Podestà Pizzi riuscì a definire il progetto per la Scuola primaria in via Torriani appaltando i lavori alla ditta Bestetti. LÊedificio, ultimato nel novembre del 1934, fu intitolato a „A.S.R. Maria Pia di Savoia‰ ed ancora oggi funziona a pieno regime. Il Pizzi si impegnò anche alla definizione del progetto per un acquedotto comunale e per il nuovo cimitero essendo diventato insufficiente quello posto presso Santa Maria. „Torre Littoria‰, così venne denominato lÊacquedotto nel 1935, quando fu ultimato. Entrato in funzione nel 1937, la torre piezometrica è stata più volte adeguata sulla base dellÊincremento della popolazione. Realizzate le opere più urgenti, il Pizzi predispose la costruzione della „Casa della Gioventù Italiana del Littorio‰ (GIL), un centro culturale e ricreativo per i giovani del paese. Il progetto, approvato nellÊaprile del 1898, venne realizzato in un anno. LÊedificio si affacciava su piazza della Repubblica con le sue linee di ispirazione razionalista. Trasformato in „Cinema Comunale‰ venne demolito pochi anni orsono per permettere allÊospedale Uboldo di ampliarsi. Il Pizzi aveva programmato altre opere, come la costruzione della rete fognaria, ma lo scoppio della guerra interruppe altri ambiziosi progetti. Gli anni Trenta furono per Cernusco un periodo di lodevoli iniziative e di realizzazioni di opere sociali portate a termine in tempi brevi e con notevole perizia tecnica, tanto da essere ancor oggi utilizzate.

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Le opere del regime La torre dell’acqua

La torre piezometrica svetta su via Torriani, accanto alla Scuola primaria del primo Circolo. Nel 1997 lÊAmministrazione Municipale di Cernusco affidò a Jorrit Tornquist lo studio della tinteggiatura della torre. LÊartista, nato a Graz in Austria nel 1938, vive e lavora in Italia dedicandosi a ricerche sul colore e sulla luce, elementi base della sua ricerca scientifica. Può definirsi un color designer che progetta lÊaspetto cromatico degli edifici affinché si inseriscano meglio nellÊambiente circostante o se ne distacchino. Autore di molte pubblicazioni relative alla teoria del colore, è stato docente alla Facoltà di Architettura di Milano e allÊAccademia Carrara di Bergamo. Il progetto del colore per la torre dellÊacqua viene da lui stesso così illustrato: „Nello stato di fatto i prospetti erano grigi, nel progetto sono stati studiati per essere visti sia da lontano che da vicino per conservare il segnale della torre alleggerendo però il segno. La scelta dei colori la rende leggera, ma crea un aspetto insolito: le facciate est e ovest sono dominate dai colori blu che verso lÊalto si schiariscono per unirsi al cielo. I lati sud e nord sono invece nei colori rosa, che ugualmente si schiariscono creando la lettura di un riflesso colorato, non di due colori distinti. Il colore cambia lungo gli spigoli. LÊedificio sarà così molto mutevole con il mutare della luminosità, così come il mutare del colore della luce del giorno. I colori dei campi interni delle facciate principali si invertono di modo che sui lati blu diventino rosa e viceversa. Si ottiene così una policromia affine su tutte le facciate. Più un campo va in profondità più scurisce aumentando così la lettura plastica degli elementi dellÊedificio. La colonna sulla facciata sud in alto ha lÊaspetto di oro caldo, dipinto in iriodin, un pigmento che non ossida. Le due nicchie accanto sono in azzurro per dare lÊidea di risucchio del cielo. Gli elementi in granigliato sono stratificati con gli iriodin

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indicati, per lasciare la leggibilitĂ del loro colore, dando solo un leggero riflesso di cangianza secondo i diversi lati della torre. Gli elementi montati sul tetto sono verniciati in blu chiaro in modo da diminuire il loro impatto visivo. I vetri posati in opera a sostituire quelli preesistenti hanno riflessi grigio-blu. La torre con la sua imponenza dovrebbe comunque essere un segno leggero. La scelta dei colori crea un aspetto insolito,

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un riflesso colorato, mutevole con il mutare della luminosità e con il mutare del colore della luce del giorno‰. La torre costituisce un segnale forte nel paesaggio, ma nello stesso tempo leggero, quasi evanescente. Recuperato lÊesterno, auspichiamo che si facca altrettanto per gli spazi interni particolarmente adatti ad uno spazio mostre, e che si renda fruibile il terrazzo panoramico da cui si gode una vista mozzafiato che spazia da Milano alle alture della Brianza, sino alla Grigna e al Resegone.

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Bibliograf ia

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Referenze fotograf iche

Stefano Sgarella 13. Un casott nella campagna

93. La ruota idraulica sul Naviglio

17. Prodotti biologici

95. La metropolitana

18. Pietanze storiche del territorio

105. La sala dÊonore di villa Rovida, Gervasoni, Carini

25. Notturno nel parco Uboldo

109. Salottino in villa Biraghi, Ferrario

26. La finta chiesa nel parco Uboldo

110. La sala dÊonore in villa Biraghi, Ferrario

29. Il ponte medievale nel parco Uboldo

113. Il trionfo di Apollo nel salone da ballo di villa Alari

33. Tramonto sul lago degli Aironi

114. Il salone da ballo di villa Alari

34. Tramonto sul lago degli Aironi 42-43. La galaverna imbianca la campagna

118-119. La volta del vestibolo del salone da ballo di villa Alari 120-121. Il vestibolo del salone da ballo di villa Alari

45. La torre della cascina Imperiale

123. Interno dellÊoratorio di villa Alari

46. La torre della cascina Imperiale

125. La facciata occidentale di villa Biancani, Greppi

49. La cascina Castellana

126. Concerto nel portico di villa Biancani, Greppi

50. Il salone dÊonore della cascina Castellana

133. Sala di villa Uboldo con tre ritratti del conte

53. La cascina Torriana

Ambrogio Uboldo

67. Il Santuario dellÊAddolorata

137. Villa Bestetti

68. Interno del Santuario dellÊAddolorata

151. Vico Viganò, Autoritratto nel palazzo

73. Panoramica sulla Parrocchiale di S.Maria Assunta

153. Il portico di corte Senavra.

77. Il presbiterio della Parrocchiale di S.Maria Assunta

155. I ballatoi della corte dei Barnabiti

79. Interno dellÊoratorio di S. Teresa alla Castellana

173. La torre dellÊacqua

83. La Madonna del Divin Pianto. Collegio Suore Marcelline

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92. Fauna sul Naviglio

174-175. Panoramica dalla torre dellÊacqua


Archivio E. Ferrario 39. La cascina Torriana Guerrina in una fotografia del 1985

Cracovia, Museo Czartoryski 100

63. Carlo Francesco Nuvolone, LÊImmacolata, già pala dÊaltare dellÊoratorio della cascina Olearia 23, 40, 41, 54, 55, 58, 64, 80, 81, 85, 90, 107, 116, 122,

Milano, Collezione Fondazione Cariplo 159. Filanda 1825-1830

128, 131, 134, 135, 145, 149, 171. Vienna, Bundesmobilierwaltung Tullio Mondi

103

71. Vetrata della Pietà con la famiglia Della Porta (1997) 27, 65.

Da M. Tresoldi, La Gallerana di Carugate (1985) 99. Carugate, Villa Gallerana, Decorazione della volta

Archivio B. Sorisi

a ombrello di una sala.

74, 84, 91, 138, 139, 147. Da G. Gavazzi, Non solo seta. Archivio Vimercati 165. La raccolta dei bozzoli in una corte di via Torriani

Storia della Famiglia Gavazzi (2003) 160, 162, 163, 166, 167.

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Finito di stampare nel mese di marzo 2012 da Grafica Metelliana

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