Educare al tempo della crisi
Di prossima uscita la collana 100 pagine
Pedagogika.it 2012
XVI_4
Educare al tempo della crisi
Rivista di educazione, formazione e cultura 2012_XVI_4 - â‚Ź 9
Rivista trimestrale di educazione, formazione e cultura - Registrazione Tribunale di Milano n.187 del 29/3/1997 Sped. in abb. post. 45% ART.2, COMMA 20B, LEGGE 662/96 FILIALE DI MILANO - ISSN 1593-2559 In caso di mancato recapito restituire al mittente presso CMP Padova che si impegna a pagare la tassa di restituzione
Rivista di educazione, formazione e cultura
anno XVI, n째 4 Ottobre, Novembre, Dicembre 2012
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Rivista di educazione, formazione e cultura
esperienze - sperimentazioni - informazione - provocazioni Anno XVI, n° 4 – Ottobre/Novembre/Dicembre Direttrice responsabile Maria Piacente - maria.piacente@pedagogia.it
Responsabile testata on-line Igor Guida - igor.guida@pedagogia.it
Redazione Fabio Degani, Marco Taddei, Mario Conti, Dafne Guida Conti, Nicoletta Re Cecconi, Carlo Ventrella, Mariarosaria Monaco, Liliana Leotta, Cristiana La Capria, Serena Bignamini, Emanuele Tramacere, Massimo Jannone, Coordinamento pedagogico Coop. Stripes.
Progetto grafico/Art direction Raul Jannone - raul.jannone@studioatre.it
Comitato scientifico Silvia Vegetti Finzi, Fulvio Scaparro, Duccio Demetrio, Don Gino Rigoldi, Eugenio Rossi, Alfio Lucchini, Pino Centomani, Ambrogio Cozzi, Salvatore Guida, Pietro Modini, Angela Nava Mambretti, Anna Rezzara, Lea Melandri, Angelo Villa
Promozione e diffusione Fabio Degani, Federica Rivolta Pubblicità advertising@pedagogia.it Registrazione Tribunale di Milano n.187 del 29/3/1997 - Sped. in abb. post. 45% ART. 2, COMMA 20B LEGGE 662/96 FILIALE DI MILANO - issn 1593-2559 Stampa: Logo Press - Borgoricco (Pd)
Hanno collaborato Laura Balbo, Raffaele Mantegazza, Crisitina Bonino, Alberto Pellai, Jole Orsenigo, Franco Blezza, Claudio Giunta, Giulio Ferroni, Mario Ambel, Sergio Premoli, Federica Fenili, Giovanni Brembilla, Roberto Moretti, Emma Tellatin, Angelo Romeo, Vanna Iori, Claudia Alemani, Marcello Morale, Nando Dalla Chiesa. Fotografie: www.sxc.hu Edito da StripesNetwork s.r.l - www.stripes.it Direzione e Redazione Via G. Rossini n. 16 - 20017 Rho (MI) Tel. 02/9316667 - Fax 02/45500911 e-mail: pedagogika@pedagogia.it Sito web: www.pedagogia.it FaceBook: Pedagogika Rivista
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Editoriale Maria Piacente
../Dossier/Educare in tempo di crisi 8
../Temi ed esperienze 66 Gli operatori, la crisi e la risorsa della supervisione Sergio Premoli
Introduzione
10 L'educazione al tempo della crisi Laura Balbo 14 Costruir su macerie... Raffaele Mantegazza
72 Un modello educativo per la prevenzione dell'HIV con l'aiuto di Facebook Federica Fenili, Giovanni Brembilla, Roberto Moretti
20 La crisi può essere una risorsa? Cristina Bonino
78 Genesi della famiglia e camici bianchi Emma Tellatin
23 Crescere in tempo di crisi: oltre i limiti, le sfide possibili Alberto Pellai
85 Società dei consumi e nuovi modelli culturali Angelo Romeo
32 Educare al desiderio Jole Orsenigo
93 Neutralità e saperi di genere Vanna Iori
38 La rivoluzione di Paestum Maria Piacente
../Cultura
42 Alla ricerca del "padre" e della "madre" Franco Blezza 47 A chi mai può stare a cuore l’uguaglianza a scuola? Claudio Giunta
99 A due voci Angelo Villa, Ambrogio Cozzi 103 Scelti per voi, Libri - Ambrogio Cozzi (a cura di) Musica - Angelo Villa (a cura di) Cinema - Cristiana La Capria (a cura di) 114 Arrivati in redazione
53 Concreta, forte e autorevole: una scuola a misura di presente Giulio Ferroni
117 ../In vista 118 ../In breve
58 Cinque antitesi paradossali per uscire dalla crisi Mario Ambel
119 Carnet - La redazione consiglia
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Della crisi di Maria Piacente
Oggi da più parti si sente parlare di crisi, crisi in senso lato: crisi dei valori, crisi economica, crisi sociale, crisi della famiglia, crisi della coppia, sia di quelle datate dagli anni e ancora di più delle nuove coppie, crisi nelle e delle relazioni. Liquidità, polverizzazione, vaporizzazione, incertezze, demotivazione, perdite di identità e così via sembrano le parole chiave di questo nostro mondo occidentale. Nessuno degli ambiti prima indicati ne sembra immune e tutti si affannano a parlarne, a interrogarne contesti e circostanze cercando di dare delle spiegazioni e delle risposte ai tantissimi perché che avvolgono la parola “crisi” che di per sé non ha necessariamente un significato negativo. In effetti le “crisi” dovrebbero aiutare a crescere; anche sul piano psicologico e fisico abbiamo tutti e tutte sperimentato questo stato, questo rito di transizione: quanta frustrazione per il brutto anatroccolo prima di diventare cigno! Ma la sensazione che provo (oddio, sto invecchiando?) è che è diventato difficilissimo di questi tempi interrogare le difficoltà dello stare al mondo senza individuare immediatamente qualcosa o qualcuno a cui dare la colpa. Insomma che quell’esercizio legato alla ricerca della verità sia ormai caduto un po’ in disuso e che la virtù del coraggio è sempre di più merce rara. Ogni giorno sentiamo discorsi o leggiamo sui giornali della crisi o delle crisi con le quali dovremmo convivere, dei limiti che ciascuno di noi è tenuto ad accettare. Insomma svariati punti di vista che nell’imbarbarimento generale vorrebbero parlarci di pari opportunità, di giustizia e di cittadinanza per tutti gli individui. Ci sembra, per questo, di potere accedere a luoghi e contesti che vorremmo abitare, dove pensiamo potrebbe fare capolino la nostra singolare soggettività, ma in particolare oggi, come dice Salvatore Natoli (in L’edificazione di sé, istruzioni sulla vita interiore, Laterza 2010,) “Oggi a prevalere è l’impersonalità della serie. La nostra è una società dell’addestramento, non certo delle virtù, vale a dire della coltivazione della propria singolare eccellenza. Certo, le virtù possono anche essere non richieste, ma vicende recenti – e si può dire la storia in generale – stanno lì a mostrare che laddove mancano le virtù, le società tendono alla lunga a scomporsi, a disfarsi. O, comunque, si riducono a una condizione in cui non è bello vivere”. Credo che sia diventato ormai improcrastinabile per chi desidera davvero lasciare un segno del suo passaggio, agire in prima persona con la responsabilità, l’eticità che stare al mondo comporta. Allora Educare al tempo della crisi può diventare un’opportunità di crescita reale e quindi gli adulti dovrebbero fare propria quell’assunzione di responsabilità che si nutre della testimonianza umile e sincera di ciascuno e di ciascuna, dentro e fuori dai contesti espressamente educativi o scolastici, assunzione di responsabilità a tutti i livelli sociali, ambientali, politici. Non
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possiamo più storcere il naso e sentirci al di sopra delle parti. Noi siamo dentro le parti e questo agire deve coinvolgere tutti i passaggi d’età; giovani e meno giovani, dovremmo prendere in mano la nostra vita e tentare di tessere con il nostro lavoro e le nostre sapienze un mondo più umano, prima di tutto da vivere. Primum vivere nell’incertezza. La sfida femminista nel cuore della politica è stato il titolo del convengo di Paestum che tra molte altre cose ha rimesso al centro il tema della giusta rappresentanza femminile nell’ambito politico per aiutare ad operare un cambiamento radicale nel nostro Paese, per tracciare qualche percorso e uscire da questa crisi. Altre sfide sono quelle portate avanti da chi, pur parlando di crisi e scarsa educatività, recuperando suggestioni antiche di vecchie istanze di distruzione della scuola, alla Ilich per intendersi, professa invece, come fa Paolo Mottana nel suo Piccolo manuale di controeducazione, una sincera fiducia in una riscossa possibile: “Occorre ripensare lo spazio, il tessuto fisico dell’esperienza giovanile, sgomberarlo, liberarlo, disseminarlo di opportunità di nuovo cimento, di nuova sperimentazione”. Occorre, in altre parole, smettere gli abiti di improbabili Cassandre e cimentarsi a vivere, educare, imparare, agire, anche, come dicevano i nonni, rimboccandosi le maniche, quelle che intorpidiscono e rallentano azioni e pensieri.
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Dossier
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Educare al tempo della crisi La crisi economico-finanziaria pone oggi sfide inedite anche per i luoghi dell’educazione e della formazione; il momento che stiamo attraversando infatti sta avendo un impatto importante sul welfare, sui diritti ed anche sui processi di rappresentanza democratica. Ma democrazia, partecipazione, solidarietà non sono valori innati nell’uomo, bensì prodotti della cultura, cioè dell’educazione. Educare al tempo della crisi allora può forse voler dire promuovere il ruolo dell’educazione in relazione alla politica e alla comunità, intendere l’educazione come fondamento per la costruzione di una nuova visione delle relazioni e dei rapporti di potere. La crisi che stiamo attraversando è anche una crisi educativa: dopo decenni di promesse di facile “successo”, è oggi fondamentale ri-educare i giovani e gli adulti a progettare percorsi, a porsi obiettivi a lungo termine, a ricostruire il valore e la capacità di fare sacrifici, a recuperare attitudini quali la sobrietà, il risparmio, il “fare tesoro” di risorse, di esperienze e di relazioni. Educare in tempo di crisi allora significa soprattutto non farsi travolgere dalle “passioni tristi” che la accompagnano, significa allenare i giovani alla speranza, al sogno e al desiderio; e stimolare gli adulti a raccontare le proprie imprese, a costruire narrazioni generative che siano di esempio per nuove imprese ed avventure per le nuove generazioni. Educare cioè gli adulti ad avvertire il dovere di essere punti di riferimento per i giovani, in un momento in cui si sta allargando il divario socioeconomico tra le generazioni ed aumenta l’ansia per il futuro. Proprio in un periodo di forte ridimensionamento del welfare e di rischio per la tenuta della coesione sociale, crediamo sia necessario promuovere una cultura della solidarietà e del prendersi cura dell’altro: passare dalla concorrenza alla con-curanza, auspicabile anche in una società competitiva e concorrenziale a livello globale come quella attuale. Secondo noi quindi il modo migliore di occuparsi di educazione in tempo di crisi è quello di mettersi alla ricerca delle opportunità di cambiamento, contaminazione, ibridazione, in essa contenute.
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Education in crisis time Nowadays the economic-financial crisis puts out new challenges also for the places of education and of pedagogy; indeed the moment that we are going through has an important impact on the welfare, on rights and also on the processes of democratic representation. Yet democracy, participation and solidarity are not innate values in human being, but the products of culture, that is of education. To educate in crisis time, then, means to promote the role of education in connection to politics and to community, to consider education as the basis for the construction of a new relation and connections of power. The crisis that we are going through is an educational crisis: after decades of promises of easy “success”, today it is fundamental to re-educate the young and the adults to plan paths, to set themselves long term targets, to reconstruct the value and the ability to make sacrifices, to recover attitudes as sobriety, saving, “to treasure” resources, experiences and relationships. To educate in crisis time means, then, most of all, not to let oneself be overwhelmed by the “sad passions” that come with it, it means to train the young to hope, to dream, to desire; and to spur the adults to tell their deeds, to construct generative narrations that are the example for new deeds and adventures of new generations. Educate, then, adults to feel the duty to be points of reference for young people, in a moment in which the socio-economic gap between generations continues to widen and increases the anxiety for future. In a period of great welfare reduction and of risk for social cohesion resistance, we think it is necessary to promote a culture of solidarity: to move from competition to take care of other people, that is desirable also in a global competitive society like the current one. In our opinion then the best way to deal with education in crisis time is to go in search for opportunities of change, of cultural fusion and cross, that are in it.
Dossier 9
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La crisi può essere una risorsa? Solo quando la pedagogia leggerà nella crisi una sfida educativa sarà possibile recuperare le origini del concetto e riconoscere una scelta e una possibilità formativa-educativa. Occorre ritornare al verbo: solo “separando” e “scegliendo”, quindi operando un movimento di discriminazione ed elezione, sarà possibile per la pedagogia ripensare se stessa dentro la crisi considerando tale momento un’opportunità per una lettura critica e progettuale. Cristina Bonino*
Educazione e crisi due termini che insieme trasmettono disorientamento, confusione e preoccupazione. Eppure questo non è solo un tema scelto dalla rivista Pedagogika e dai suoi lettori, questo è un argomento che interessa (o dovrebbe interessare) tutto il mondo educativo. Il problema è: da dove partire? Come affrontare la questione senza perdersi in perentorie disquisizioni? Ecco, noi crediamo che quando non si sa da dove iniziare e si teme di aprire un discorso vuoto di significato e significati sarebbe opportuno compiere un passo indietro e riflettere sulle origini dei concetti di base e di come questi siano in relazione tra di loro. Pensiamo alla definizione etimologica del termine “crisi”, una parola che oggi ha invaso non solo il mondo scientifico, politico ed economico, ma ogni tipo di ambiente da quello accademico a quello popolare. Il termine “crisi”, di derivazione greca (Krisis), proviene dal verbo greco “separare” e originariamente indicava la “separazione”. Infatti, il verbo era utilizzato in riferimento alla trebbiatura, cioè all’attività conclusiva nella raccolta del grano consistente nella separazione della granella del frumento dalla paglia e dalla pula. Da qui deriva sia il primo significato “separare” sia quello traslato di “scegliere”. Il termine crisi iniziò ad essere utilizzato in italiano a partire dal XIV secolo, in francese dal XVII secolo e in tedesco dal XVIII secolo, in tutti questi casi tale concetto caratterizzò dapprima situazioni militari in difficoltà per poi denotare circostanze politiche che esigevano decisioni e interventi concreti e immediati da parte degli attori coinvolti. Inoltre, è probabile che sia in questo periodo che il termine crisi abbia iniziato ad essere velato di una connotazione negativa, infatti, concepito come una perturbazione delle relazioni all’interno di un sistema (o ambiente) il concetto di crisi iniziò ad indicare qualcosa in grado di mettere in pericolo la sopravvivenza dello stesso sistema o di una sua parte. L’ulteriore evoluzione ha fatto sì che con tale termine siano, soprattutto, messi in primo piano i problemi che riguardano l’adattamento di un sistema in un dato ambiente. Ricordiamo, inoltre, che è proprio in questo periodo che le discussioni sociologiche si sono maggiormente concentrate sullo studio e sull’analisi dei meccanismi dei conflitti sociali. D’altronde, sarà la filosofia marxista che, avviando un’apertura di interesse della storia nei confronti della sociologia, permetterà di guardare in modo differente ai fenomeni di crisi. Lungo queste evoluzioni terminologiche si
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è accentuato il significato tecnico del termine “crisi” soprattutto in direzione di quella polarizzazione negativa del vocabolo che esploderà prepotentemente nel 1929 con il crollo di Wall Street e che conseguentemente, nel secondo Novecento, consoliderà la sua definizione come qualcosa di sfavorevole e nocivo. E’ solo a questo punto che il termine “crisi” usato dal modo economico, dalla sociologia e dalla storia ha iniziato ad interessare anche la psicologia e le altre giovani discipline che studiano l’essere umano e le sue relazioni sociali. Se leggiamo la definizione di “crisi” dal Dizionario di Psicologia di Galimberti scopriamo che la crisi “in ambito psicologico si riferisce ad un momento della vita caratterizzato dalla rottura dell’equilibrio precedentemente acquisito e dalla necessità di trasformare gli schemi consueti di comportamento che si rivelano non più adeguati per far fronte alla situazione presente” (ad esempio pensiamo alle fasi di crescita di Erikson in cui ad ogni fase della vita corrisponde non solo un compito evolutivo, ma anche una crisi specifica da affrontare e superare, difatti, solo attraverso la crisi è possibile passare alla fase successiva). Ed ecco che il concetto di crisi, che in passato indicava “una decisione e una scelta” iniziò da una parte a connotarsi sempre più negativamente indicando “un deterioramento”, “un turbamento”, “un’incrinatura” o “uno sconvolgimento e rottura” di un certo status quo, mentre dall’altra incominciò ad indicare stati situazionali “transitori, normali e utili” in cui si verifica il passaggio da una fase all’altra. A questo punto, dopo questo veloce excursus sull’evoluzione etimologica del concetto di crisi, ci chiediamo che interesse e beneficio ne potrebbe trarre la pedagogia dalla conoscenza delle radici di tale termine. Per meglio orientarci e giungere così ad una unione terminologica dei due concetti permetteteci un rapido sguardo anche per il termine “educazione”. Infatti, nonostante tutti conosciamo le radici di questa parola e il suo principale riferimento alla figura di Socrate, è opportuno sapere che in questa sede ci siamo soffermati a riflettere soprattutto sul suo doppio significato: da una parte “educare” come “trarre fuori”, dall’altra “educare” come “allevare, istruire e accompagnare”. A questo punto è arrivato il momento di tentare di legare insieme il concetto di crisi con quello di pedagogia. Per una lettura propositiva e costruttiva rispetto l’unione di questi due concetti crediamo sia opportuno citare Bertolini il quale aveva già intravisto nel concetto di crisi un richiamo alla realtà concreta delle cose soprattutto considerandolo un lento processo di astrazione e polarizzazione negativa. Forse, solo attraverso “un autentico ripensamento pedagogico della pedagogia” è possibile permettere e “contribuire in modo decisivo (…) all’assunzione delle sfide che la crisi del mondo contemporaneo propone”. Solo quando la pedagogia leggerà nella crisi una sfida educativa sarà possibile recuperare le origini del concetto e riconoscere una scelta e una possibilità formativa-educativa. Occorre ritornare al verbo: solo “separando” e “scegliendo”, quindi operando un movimento di discriminazione ed elezione, sarà possibile per la pedagogia ripensare se stessa dentro la crisi considerando tale momento un’opportunità per una lettura critica e progettuale. Secondo noi la centralità della questione etimologica e la sua definizione pedagogica sono di vitale importanza per una diversa visione di questa tematica. La riflessio-
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ne sull’origine di questi due concetti, in particolare del termine crisi, può far emergere un quadro ancora più complesso e sfumato in cui la discussione sulla tematica di “educare in tempi di crisi” si intreccia da una parte con la storia del termine crisi e dall’altra con il concetto di educazione. Ma, forse, è proprio all’interno di questo quadro concettuale che diventa decisiva la maturazione del senso di costruire un “Educare nella Crisi” come una possibilità e un’opportunità educativa-pedagogica. In questo contesto teorico-culturale può prendere forma una riflessione sulle risorse, sulle competenze, sulle possibilità, sulle scelte e sulle decisioni che la pedagogia deve sostenere in visione di un progetto rivolto al futuro. D’altronde, l’attenzione al possibile non è il fulcro della riflessione teorica e dell’impegno pratico della pedagogia in cui diventano essenziali sia le dimensioni della intenzionalità educativa e sia della progettualità pedagogica? Lasciando in sospeso questa domanda ci avviciniamo alla conclusione di questo articolo ricordando che la pedagogia deve sempre partire dalla realtà in cui si trova perché l’educazione opera innanzitutto nella realtà del Presente e dell’Adesso. E allora, se da una parte non è sicuramente negando la crisi che è possibile costruire dei progetti educativi aderenti alla realtà, dall’altra, forse, la pedagogia si ritrova a dover fare un passo indietro recuperando la storia e le evoluzioni dei concetti che le gravitano attorno. Solo attraverso una differente riflessione sarà possibile guardare la realtà con occhiali differenti e sciogliere i nodi che imprigionano, oggi, il movimento educativo. Ma allora “Educare in tempi di crisi è possibile”? Non solo è possibile, ma sarà proprio passando attraverso la crisi che la pedagogia potrà recuperare possibilità educative dimenticate e soffocate da quell’alone negativo che circonda superficialmente il termine crisi. Come nelle fasi di Erikson l’educazione si trova in un momento di crisi-passaggio, ma forse sarà proprio attraversando la transizione ed esperienza di questo momento che la pedagogia svolgerà e costruirà il suo compito educativo. *Pedagogista Bibliografia Bertolini P., L’esistere pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata, Firenze, La Nuova Italia, 1988. Galimberti U., Dizionario di Psicologia, UTET, Torino, 1994. Milani L., Competenza pedagogica e progettualità educativa, Editrice La Scuola, Brescia, 2000.
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La rivoluzione di Paestum Educare con la politica delle donne
In mezzo alla grande crisi politica, alla corruzione che ha invaso e pervaso varie correnti politiche nel nostro Paese, alla durezza dei molti che quasi invocano il “Muoia Sansone con tutti i Filistei!” palpita la “rivoluzione necessaria” delle donne, un desiderio di cambiamento fatto di “passioni durature” che, come ha detto Lea Melandri in apertura delle due giornate dell’incontro Nazionale di Paestum Primum vivere anche nella crisi: la rivoluzione necessaria, la sfida femminista nel cuore della politica, non si è mai spento e che non ha mai smesso di essere al centro del movimento femminista. Seppure con diversi accenti e molte contrapposizioni il nucleo palpitante della politica delle donne è rimasto vivo e vegeto e oggi, con ancora più forza e consapevolezza, riemerge chiaro. Forte e chiara è stata, secondo me, la voce del movimento femminista che dopo quasi quarant’anni si ritrova a Paestum con il desiderio vero di ascoltare ed ascoltarsi e questo è stato possibile grazie alle modalità organizzative utilizzate, al clima di fiducia reso possibile anche dal “passo indietro” che le grandi femministe storiche presenti hanno saputo fare. Questo ha permesso di far dire a delle ragazze “siamo tutte femministe storiche!” e ad altre di affermare, con un riconoscimento non scontato, che tanto è stato trasmesso alle nuove generazioni! Tanta storia che dovrebbe lasciare soddisfatte le più “vecchie” che hanno saputo “curare” il passaggio delle consegne testimoniando con le loro pratiche l’accessibilità a nuove politiche. Certo il clima che si è respirato dentro l’immensa sala del Centro Congressi dell’Hotel Ariston di Paestum non ha nulla a che vedere con la politica (?) urlata e stiracchiata a destra e a manca dalla maggior parte degli uomini che oggi detengono il “potere del disastro” nel nostro Paese. Perlopiù loro non vogliono “ascoltare ed ascoltarsi”, vogliono prendere tutto e subito senza ascoltare chi non condivide, impegnato nella riflessione su quanto potrebbe essere dissennato rimuovere quel che invece andrebbe interrogato.
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Ma ora è chiaro che a Paestum i segni si sono lasciati, eccome! Le quasi mille donne singole o legate a gruppi, associazioni, arrivate da cento e più città d’Italia sanno che “qualcosa è cambiato” perché si sono potute contare: vecchie, giovani e giovanissime interessate prima di tutto a vivere la loro vita senza schizofrenia. Dove l’ambito personale non è slegato da quello della politica, dell’economia, del lavoro e della cura. E noi donne lo sappiamo bene che la pratica del “partire da sé” sa che la cura non è un ambito domestico. “Cosa vuol dire portare cura?” si chiedeva Bia Sarasini a Paestum nell’ambito della discussione avviata tra donne in un gruppo più ristretto; “vuol dire scompaginare il potere!”, ribaltare le logiche del vecchio potere urlato e imbarbarito. A Paestum ho chiaramente percepito che qualcosa si è mosso e continua a muoversi: tutte abbiamo capito che il movimento femminista è vivo e vegeto e che ha prodotto e sta producendo ancora politica e che in questa politica noi donne non possiamo più fare a meno di entrarci usando la nostra forza e le nostre regole. La forza delle donne, come diceva Laura Fortini sempre a Paestum, “che ha tenuto insieme questo Paese anche per gli uomini, fatta di relazioni tra donne; anche se ora hanno bisogno di Rivoluzione”. Una rivoluzione che parte dalle nostre narrazioni politiche all’interno delle istituzioni; senza trionfalismi, senza ideologia, ma con quella forza necessaria con la quale ci siamo tutte congedate da Paestum, con desiderio e radicalità.
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Le età della vita orientano e definisco- Nella ricostruzione sistematica dell’ino taluni generi letterari. Il più noto, ad dentità che è la Recherche proustiana esempio, è quello del romanzo di forma- l’inizio non viene situato nell’infanzia, zione. Un genere nel quale si annoverano non c’è un percorso sistematico rispetto celebri capolavori dove si narra l’iniziazio- alla storia, ma nelle incertezze che inne del protagonista alla vita adulta. Una sidiano il quotidiano. Le prime pagine nuova fase della vita si apre, nel mentre, parlano dell’indeterminatezza del dorsullo sfondo, l’inquietudine che assedia la miveglia, delle illusioni della coscienza, figura centrale del racconto celebra il lutto dove la percezione di un odore porta al per la perdita inconsolabile dell’infanzia. sovrapporsi dei tempi, allo slittare degli Una stanza della casa stessi nella presenza dell’essere è lasciata per di sé all’ambiente. Il entrare in un’altra. qui e adesso si svela Ma cosa succede, income un precipitare vece, nella vecchiaia, di tempi passati, in quando è la casa stesuna ricerca che possa ad esser prossima a sa dare coerenza e venir abbandonata? Il continuità all’esserci massiccio aumento, al mondo, all’esserci almeno in occidente, stati. Ma i tempi si della popolazione ansovrappongono il ziana pone una serie passato scorre nel di questioni di varia presente, vi proietta natura a questo livella sua ombra, rende lo, di cui, forse, si può impossibile liberarritrovare un’eco anche sene e mina la cerin campo letterario. Si tezza della presenza. può ipotizzare, di conL’inizio del romanseguenza, la nascita di zo di Gustafsson si un genere che vi faccia avvicina allo stesso da specchio? tema, ma con una Uno, mi pare, lo si può radicalità differente Lars Gustafsson già circoscrivere. E’ “Supponiamo, perLe bianche braccia quello del “memoir”. ché assurdo, che io della signora Sorgedahl Lo scrittore ricostrunon sia mai esistiIperborea, Milano 2012, isce attraverso ricorto. Supponiamo che pp. 240, € 15,50 di talune vicende di fosse caduta troppa quel che ha vissuto. In neve quella sera... E gioco non c’è più un così scompaiono da
Ambrogio Cozzi
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attraversamento, come nel romanzo di formazione, ma, mi si passi il termine che non vuole sembrare insensibile, un’uscita. Il “memoir” rappresenta, infatti, una sorta di testamento consegnato ai posteri. Operazione umanamente comprensibile che comporta, tuttavia, un prezzo, alquanto esoso, quello cioè di immolare sull’altare del narcisismo individuale il demone sacro e bizzarro della finzione. Più interessante, mi pare invece la posizione di chi, non rinuncia al suo vecchio amore, croce e delizia della sua esistenza: la finzione. E non tradisce così la sua vocazione letteraria e offre un’altra versione dell’“uscita”. Più seduttiva e condivisibile. E’ ragione per cui, legittimandomi megalomanicamente a puntuto critico letterario, battezzerei (sic!) il primo genere di scrittura “agée” , quello del “memoir” insomma, come espressione di una letteratura del lascito o del, doppio sic, del lasciato a cui ne contrapporrei un’altra, quella che chiamerei del dono involontario. La finzione e dunque l’inganno permette allo scrittore anziano di meglio distillare il senso implicito di una vita, la sua, of course. Consegnando così al lettore, appena appena nascosta dietro il velo che l’inconscio distende, un dono raro, un dono, malgré soi, evitando le ambigue insidie del porsi come vittima o come statua. Nel regalo che offre e che, ovviamente, gli sfugge, l’autore allude agli oggetti che hanno segnato la propria vita, quasi una confessione, proprio quando la vita sta per prendere congedo. E’ l’oggetto che la mano tratteneva presso di sé e che, nel cedere al sonno o alla stanchezza (o all’approssimarsi della morte?), lascia cadere per terra nella speranza che un’anima curiosa lo raccolga.
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questa storia. In realtà prima ancora di aver fatto in tempo a entrarci. E io con loro: Io non esisto. Non sono mai esistito. Tutto qui.” Supponiamo allo stesso modo che il tempo sia una somma imperfetta di ricordi e cicatrici: un luogo remoto dove il possibile non si avvera mai, e l’assurdo trova sempre una via per manifestarsi, dove il passato sfuma nel presente, quasi vi si sovrappone, un tempo affollato di morti e sopravvissuti che camminano fianco a fianco sbucando sull’orlo della memoria, senza una ragione specifica, creando un altro tempo, un tempo onirico. “La memoria sceglie un testo particolare e io ignoro come chiunque altro il perché. E perché non il resto? Tutto il resto che ho senza dubbio dimenticato? Lo spazio tra i caratteri, dice Wittgenstein, è parte di ciò che da ai caratteri un senso. Se qualcuno ricordasse tutto, non gli rimarrebbe nessun presente in cui vivere. O vivrebbe in un eterno presente? Ho la strana sensazione che la memoria scelga per proprio conto. E mi domando che cos’è è che vuole. Ricordo la signora Sorgedahl così bene. Pensate! Nei cinquant’anni che sono trascorsi, non ho mai fatto stranamente nessun tentativo di rintracciare la signora Sorgedahl, non ho neanche cercato il suo nome nell’elenco del telefono”. Il tempo è denso e dilatato in questo romanzo-monologo, non c’è azione, la trama coincide con il percorso accidentato dell’esistenza in cui i fili intessono un arazzo che solo a posteriori assume senso, non è una storia che si dipana in un crescendo narrativo è più che altro un viaggio nella memoria e negli inganni della memoria. Una memoria filtrata per certi versi, e per altri sfuggenti come il senso dell’esistenza, dove la fantasia
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Lars Gustafsson è un bravo e pensoso scrittore svedese, nato nel ’36, di cui Iperborea ha tradotto diversi romanzi di meritato successo. L’ultima sua pubblicazione nella nostra lingua è Le bianche braccia della signora Sorgedahl, un testo che iscriverei all’intero di quella letteratura “agée” del dono. Un exprofessore di filosofia a Oxford s’interroga sul suo angosciante vissuto, quello cioè di non avere avvertito il senso della sua esistenza, del suo esserci nel proprio corpo, nel mondo. Era effettivamente nato?, è questa la dolorosa domanda con cui si apre il romanzo. E cosa gli ha regalato poi il senso di un esserci? Il protagonista del romanzo si guarda alle spalle, fruga tra pensieri e ricordi alla ricerca di quell’atto che gli ha restituito a posteriori il senso di una nascita, lui ossessionato com’era dalla ricerca di un posto, collocazione che lo legasse alla vita, sino a dare a quest’ultima il suo potere sulla morte e sull’inconsistenza, quantomeno durante la vita stessa. Come o dove reperire, allora, quest’evento particolare? L’infelicità e la solitudine erano le fedeli compagne del protagonista nella sua giovinezza. Poi, finalmente, un incontro, a tutti gli effetti, salvifico, quello con una donna di vent’anni più grande, la signora Sorgedahl: “era bella? Ricordo i suoi capelli rossi e le sue mani bianche mani morbide mentre accarezzava delicatamente il dorso del gatto acciambellato sulle mie ginocchia. Certo che era bella, molto bella. La cosa più bella che avessi mai visto”. Moglie di un ingegnere “insignificante”, lei è una donna italiana (o, forse, ticinese, mah?). Il protagonista se ne innamora e lei, lei… Quel che era destinato ad accadere, accade, in una sera d’aprile, con buona pace di T. S. Eliot. Possedere totalmente una donna, godere di lei, con lei: “Vedere, prima vedere ma poi percepire, tutte le sue risposte sempre più intense a tutto quello che riuscivo a inventarmi e a fare con il suo corpo”. Aggiunge Gustafs-
(o i propri fantasmi?) cerca di sistemare gli eventi in una ricerca di coerenza, ma il ricordo duplica l’evento, gli restituisce un senso altro collocandolo nel tempo. Il tempo di cui Proust andava alla ricerca viene qui sezionato, quasi in una nuova contrapposizione tra analitici e continentali, se ne cercano gli snodi, attraverso artifici retorici che fanno riferimento al campo scientifico si cerca di trattenerlo di dargli una dimensione (si veda il capitolo Il funerale del cosmologo) dove il lavoro di scrittura sembra riprendere il tentativo di Strindberg, che lo stesso Gustafsson in un’intervista così definisce:“In Inferno, Strindberg non descrive tanto una crisi personale, quanto la crisi di una visione del mondo che si condensa nel delirio. Ma prova, prova a cartografare un’altra descrizione del mondo... Nell’Inferno di Stringberg, quindi, come lei ha scritto, la cosa più sconcertante che si possa riconoscere è che dietro il velo del delirio, tutto sembra rispondere al richiamo del vero”. Allora le digressioni filosofiche non sono solo digressioni, cercano piuttosto di rendere conto del rapporto tra la visione del mondo di oggi e l’esistenza del singolo, di come questa sia influenzata dai risultati della scienza, dalla visione del mondo plasmata e diffusa dalla scienza. Ma s’incontra anche altro in questo lavoro di scavo “tutt’a un tratto, nel mezzo dell’inquietudine, della sofferenza e dell’estasi di quella famosa estate, avevo trovato una crepa che sembrava portare dentro me stesso… Che cosa è più naturale da immaginare, più a portata di mano, del credere che io esisto presso l’altro allo stesso modo in cui esisto in me stesso? Ma non dev’essere così”.
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son: “Mi sembrava come se realmente avessi ricevuto, alla fine, una risposta alla domanda se esistevo”. Passati gli anni, il protagonista fatica a ricordare il viso, ma l’unica cosa che ricorda è che era memorabile. La risposta era giunta, questo è l’importante. E, insieme ad essa, l’insegnamento di una vita… Questo è quel che sembra suggerire lo scrittore svedese, scomodando il lavoro della memoria, nell’epoca in cui, invecchiando, l’età ci trasforma in pericolosi sentimentali, specie gli uomini, capaci di far male agli altri e a sé stessi pur di assecondare la voluttuosa ingordigia di un cuore che irrompe nell’esistenza con più forza e arroganza di quanta non ne avesse nell’adolescenza. La malinconica coscienza del tempo irrimediabilmente perduto elargisce al cuore una spropositata autorevolezza, elevandolo a esclusivo depositario di una saggezza che pareva condannata a incarnare la sua più acerrima nemica. Come se lui, e solo lui, non la ragione, il sapere o la morale comune, potesse indicarci quel che ha reso vivibile un’esistenza. Tocca al cuore custodire il tesoro di ciò che è contato in una vita, fosse anche un incontro amoroso dal carattere inequivocabilmente incestuoso, ma, proprio per questo unico e meraviglioso. Lì, il tempo, quest’esattore impietoso appollaiato sulle nostre fragili spalle come un cupo avvoltoio su un ramo annerito, sembra, una volta tanto, sospendersi, dissolversi. E’ l’eternità che si congiunge all’istante e lo riprende nel suo grembo, illuminandolo di un bagliore folgorante. Un attimo prima che l’orologio riprenda il suo cammino. C’est tout.
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Questi interrogativi sull’altro e su se stesso trovano un punto di precipitazione, un punto di non ritorno che segna l’ingresso nella maturità. “Io ero sostanzialmente solo. Molto solo. Molto fragile. E spaventosamente forte. Adesso me ne rendo conto. Essere fragili può essere in effetti un presupposto per essere forti”. Una solitudine adulta, dovuta al fatto che nessuno ci può sostituire, che le scelte possiamo farle solo noi. Qualche recensore ha accostato questo romanzo a L’educazione sentimentale di Flaubert, ma come ha ben evidenziato Moretti ne L’inanto dell’indecisione, il momento culminante nel bordello in Flaubert è un momento in cui non accade nulla, tutto viene rinviato. In Gustafsson “Senza aver fatto in effetti alcuno sforzo avevo raggiunto le porte del Paradiso. Sì. Ed erano realmente spalancate. C’era solo da entrare. E la permanenza poteva durare all’infinito. E’ così strano che esitassi?” Ma l’esitazione non impedisce di andare oltre per accorgersi che “Non era niente di straordinario, davvero, ma quell’attimo non lo scorderò mai”. Un percorso labirintico nei ricordi, dove gli eventi ci restituiscono sfumature perdute, dove la grandinata si sovrappone all’incontro, a quell’incontro dove “Mi sembrava come se realmente avessi ricevuto, alla fine, una risposta alla domanda se esistevo”.
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Scelti per voi
a cura di Ambrogio Cozzi
libri
libri, cinema, musica
Maria Rosa Cutrufelli, I bambini della ginestra, Sperling & Kupfer per Edizione Frassinelli, Milano 2012, p. 276, € 18,50. A Portella della Ginestra, un momento prima della strage, prima che Salvatore Giuliano ordini ai suoi uomini di sparare sulla folla radunata per assistere al comizio della festa del Lavoro, si apre il romanzo. È il 1947. Al Sasso Barbato, una specie di podio naturale che si erge sulla conca di Portella, la stessa roccia da cui si apprestava a parlare l’oratore in quella mattina di maggio, il romanzo si chiude. È il 1972. Tra questi due momenti si dipanano le vicende dei protagonisti del romanzo, Enza e Lillo. Sono loro a raccontare, in prima persona, la storia di quei venticinque anni, la loro storia e, insieme, i processi per la strage, capaci al più di punire qualche esecutore ma impotenti a identificare i veri mandanti, il coinvolgimento di politici che non si possono né si vogliono chiamare in causa, il succedersi delle misteriose morti le cui circostanze mai saranno chiarite. Due momenti e un luogo solo, Portella della Ginestra dominata dal Sasso Barbato, un luogo dal quale Enza e Lillo non possono che fuggire via, lontano, ma a cui inesorabilmente devono tornare. Soltanto prendendo il coraggio di rivedere il luogo da cui tutto ha avuto inizio e la piccola lapide, tante volte distrutta, potranno accettare, senza esserne preda, l’amarezza e la disillusione di chi non ha avuto giustizia, ma potranno anche pacificarsi con la propria terra
e provare -forse- a costruire, un futuro comune. Maria Rosa Cutrufelli propone nel suo ultimo romanzo una storia densa e appassionante, nella quale come in altri lavori della scrittrice (La briganta, La donna che visse per un sogno) la Storia riveste un ruolo fondamentale. Le vicende dei protagonisti sono infatti ambientate in un contesto storico preciso che non costituisce solo uno sfondo indistinto, ma che si fa materia viva del raccontare. Rigore storico e capacità immaginativa si fondono e sanno restituire, con nitidezza quasi cinematografica, immagini di un’Italia lontana nel tempo: i viaggi in treno su sedili di legno, la vita quotidiana in piccole province periferiche, i colori delle stagioni che si avvicendano. Le voci che compongono il quadro, come si diceva, sono quelle di due reduci della strage. Un bambino e una bambina che diventano un uomo e una donna. E sono proprio il linguaggio del pensare di sé e la reazione alla tragedia che rendono conto della loro differenza sessuale: un sentire che li accomuna, ma che marca al contempo il confine e la distanza tra loro. Per questo ciascuno dei due dovrà farci i conti da solo e da sola, dovrà cercare il proprio modo di andare e tornare. Solo nel primo e nell’ultimo capitolo la voce narrante non appartiene ai due protagonisti quasi a richiamare comunque anche un’oggettività della piccola storia di due personaggi comuni, costretti dalla grande Storia a subire un destino imprevisto. Agisce la costruzione sapiente di una scrittrice che conosce bene i dispositivi narrativi e li usa dosandoli con maestria. Ma gioca anche la passione civile di una donna che si interroga e interroga lettori e lettrici: quante sono in questo Paese le stragi di cui non conosciamo i mandanti? Che ne è dei sopravvissuti, delle loro esistenze, delle loro disperazioni? Raccontare diventa allora – anche – un modo per testimoniare. Claudia Alemani
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Angelo Villa La mano nel cappello. Psicoanalisi ed handicap grave Stripes Edizioni, Rho (MI), 2009, pp. 183, € 16,00 Un criceto nella ruota, una mano nella gabbia. Sostenere un incontro impossibile. Mi chiedevo ragione, mentre leggevo il libro di Angelo Villa, di una sorta di difficoltà o disagio che avevo avvertito mentre percorrevo le prime pagine del testo e che di tanto in tanto riemergeva, come per non consentirmi di avanzare troppo rapidamente, spingendomi a soffermarmi un po’ per guardare meglio e non dare per scontato il panorama. Un libro chiaro, scritto anzi con un gusto da narratore, che talvolta può far sentire il lettore come di fronte ad un romanzo: come andrà a finire? Non erano certo un linguaggio troppo astratto o specialistico, o un argomentare intricato, o un mio disaccordo con i concetti espressi a farmi esitare. Al contrario. Dunque cosa? È con questo interrogativo come guida che tenterò di dire qualcosa del lavoro di Villa, consapevole del fatto che - probabilmente per un fatto più di stile, di modo d’interrogazione, che di sostanza - qualunque tentativo di entrare nel merito dei “concetti” non gli renderebbe giustizia. La mano nel cappello è un libro scritto attorno all’esperienza quotidiana, si potrebbe dire anche alla contingenza. Una precisa, approfondita, talvolta dura indagine della pratica che mira a interrogarne ogni aspetto: i piccoli particolari che divengono abitudini condivise, come i piccoli o grandi soprusi, talvolta rimasti persino inavvertiti, persi negli automatismi del fare di ogni giorno, i buoni luoghi comuni di “integrazione” e “autonomia”, l’affaccen-
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darsi riabilitativo che talvolta non lascia spazio ad altro, satura ogni cosa, non consentendo di dare accoglimento e ascolto al soggetto, il ruolo di tutto questo nel mascherare la posizione dell’operatore, o più in generale del “normale”, i suoi imbarazzi, le sue difficoltà, la sua impotenza di fronte all’abisso che lo separa dal disabile che vorrebbe aiutare. Il lavoro di Angelo Villa non è una lettura comoda; punta senza sconti alle finte ovvietà che minano la pratica, che fanno lievitare l’imbarazzo da cui vorrebbero proteggere, che aumentano il disagio (del normale come del disabile) proprio con quelle azioni, spesso troppe, con cui si vorrebbe mettere quel disagio in disparte. Come pensare ad un’autonomia proprio là dove le azioni stesse, o i giudizi, o i buoni propositi dell’operatore riempiono ogni spazio, facendo coincidere l’agire del disabile “riabilitato” con il volere del normale che educa? Come pensare un’autonomia senza separazione, se è il normale stesso a “incollare” il suo giudizio e le sue aspettative a ciò che chiede al disabile, a voler modellare la vita di quest’ultimo sulla sua? Si tende appunto a non pensarla perché, se si tentasse, si finirebbe per vedere che non ve ne è una la logica; ma proprio lì sta l’intoppo: posta la domanda una volta, calata nel proprio quotidiano di “normale”, nulla si può più dare per scontato e l’interrogativo ha un costo, brucia, scava. Eccoci dunque tornati a quella certa scomodità, difficoltà, disagio di cui avevo fatto accenno qualche riga sopra. Si tratta solo di questo? Una lettura che può spingere a interrogativi scomodi, là dove ci sarebbe stata una certa carenza nel porsene? Può essere, se è da questa posizione che si parte. Vi è probabilmente altro da considerare, tanto più che La mano nel cappello non è un gesto di accusa o polemica; nonostante le considerazioni precedenti, non si avverte nel testo un desiderio di “mettere il dito nella piaga”, ma piuttosto di interrogare veramente, senza sconti, l’umanità
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che sta al fondamento di ogni incontro di cura, in primo luogo - Villa ne da continua testimonianza - quella dell’autore stesso, che non esista a mettere sotto la lente di ingrandimento le sue proprie impasse e che anzi sembra mirare, col suo stile e col suo modo di procedere peculiare, ad una costruzione “in soggettiva”, fondata su uno sguardo particolare di cui l’autore fa dono ai suoi lettori, base su cui costruisce anche le sue considerazioni più astratte e complesse. Se qui troviamo buona parte del valore e della singolarità di questo libro, è pur in questo stile così atipico che intravedo nel contempo parte della radice del disagio di cui ho posto la questione. Le molte vignette cliniche, su cui poggia l’indagine e la riflessione dell’intero testo, possono rievocare l’esperienza di ciascuno lettore, ma non lasciano spazio ad alcuna immedesimazione. Tanto più lo sguardo di Villa si mostra come proprio, singolare, si fa l’esperienza di una differenza, di una distanza; se anche le occasioni possono apparire simili, è la loro lettura, la costruzione che ciascuno ne ha fatto, se ha potuto tentare, che mostra un buco in cui si può inciampare ma che solo può creare le condizioni per un effetto di soggettivazione per il lettore, a maggior ragione se ha già lui stesso voluto avventurarsi sul cammino d’indagine cui l’autore ci invita. È su questo piano, dove i percorsi diversi di scrittore e lettore divergono o si sovrappongono formando figure sempre nuove, che l’esperienza, anche quella di aprire un libro, può diventare un’occasione d’invenzione per la propria pratica. Una teoria la si può amare o odiare, la si può far propria o respingere, la si può sviluppare o tentare di confutare. Uno sguardo lo si incrocia e non è mai una cosa facile; ma questo incrocio è anche un incontro, pur se mediato da delle lettere su un foglio di carta. Un vero incontro - proprio perché scomodo, in qualche modo impossibile perché sempre parziale, bucato - è cosa comune che si tenti per lo più di evitarlo, cosa di cui nel testo si tro-
vano molti esempi. Che si tratti di una lettura scomoda, come di una persona in difficoltà, è sempre della distanza incommensurabile dell’alterità che si tratta, è sempre da questa che si tenta di ripararsi, è sempre di essa che non può fare a meno ogni sforzo di soggettivazione, che sia di un “normale”, di un “disabile”, di un “operatore-lettore” o di uno “scrittore-analista”. Senza tale sforzo, tuttavia, ogni azione – un intervento educativo come un’elaborazione teorica – rischia di girare a vuoto: l’affannarsi di un criceto sulla sua ruota che lascia ogni cosa, in particolar modo se stesso, nel suo triste posto, pur nella fatica e talvolta con tutte le buone intenzioni. Se una lettura può contribuire a trovarsi ad essere un po’ più soggetto e un po’ meno “criceto”, varrà la pena di tentare? Il salto fuori dalla gabbia non è mai una volta per tutte e ogni dito che può indicare, testimoniandolo, che vi sono delle vie di uscita, o che si possono ricavare, è ben venuto, per quanto una mano nella “piccola casetta” possa essere inizialmente un ospite scomodo. Ad ognuno la scelta se fargli posto. Marcello Morale Emmanuel Carrère Vite che non sono la mia Einaudi, Torino 2011 pp. 240, € 20,00 Si pensa di solito che il dolore unisca gli individui, che possa accomunare. Se però ci soffermiamo sulle esperienze quotidiane, ci viene facile pensare all’imbarazzo che ci coglie quando facciamo le condoglianze a qualcuno. Cominciamo a pensare a che cosa dovremmo dire, a cercare le parole possibili, per poi finire spesso nel pronunciare banalità, frasi
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che ci lasciano insoddisfatti, con un senso spiacevole di non essere stati in grado di esprimerci, di poter stare vicini alla persona che ha subito la perdita. A volte ci limitiamo ad un abbraccio timido, impacciato, quasi che il gesto potesse sostituire le parole che non troviamo, che abbiamo faticosamente cercato rinunciando perché ne coglievamo l’insufficienza. Sembra che le parole non siano in grado di colmare la distanza che ci separa dagli altri, che la suddivisione tra “noi” e “loro” sia incolmabile. “Ci siamo noi, puliti e ordinati, risparmiati, e intorno a noi il cerchio dei lebbrosi, degli irradiati, dei naufraghi regrediti allo stato di selvaggi. Soltanto il giorno prima erano come noi, noi come loro, ma a loro è accaduto qualcosa che a noi non è accaduto e adesso apparteniamo a due umanità distinte”. Durante le feste di Natale del 2004, Emmanuel Carrère è in vacanza con la famiglia in Sri Lanka. Sono i giorni in cui lo tsunami devasta le coste del Pacifico: tra le migliaia di morti c’è anche Juliette, la figlia di quattro anni di una coppia di francesi a cui Carrère – accidentale testimone dello strazio di una famiglia – si lega. Qualche mese dopo, al ritorno in Francia, un altro lutto: la sorella della compagna dello scrittore – che casualmente si chiama anche lei Juliette – ha avuto una ricaduta del cancro che già da ragazza l’aveva colpita rendendola zoppa. Ha trentatré anni, un marito che adora, tre figlie, un lavoro come giudice schierato dalla parte dei più deboli, e sta morendo. Da questi eventi parte il testo di Carrère, da questo incontro con la perdita che divide: noi siamo ancora qui insieme, possiamo abbracciarci e contarci senza timore. L’evento tragico ha introdotto una cesura, per loro nulla sarà come prima, noi possiamo contare su una continuità con il prima. Di qui partono le “Vite che non sono la mia”, dal poter raccontare, dal poter trovare le parole in una distanza minima ma incolmabile, dal pensare di poter condividere e nel contempo in questo atto misurare una distanza enorme,
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come quella che misura Philippe, che si ritiene parte dei pescatori grazie alla sua lunga frequentazione di quei luoghi in Sri Lanka, ma si ritrova respinto pur credendosi uno di loro. L’uso dei tempi nel racconto scandisce questa operazione, al tempo indicativo presente della cronaca si contrappone l’imperfetto della necessità di arrendersi all’accaduto. Ad un passato che non passa, prolungando la sua ombra sul presente, si contrappone una necessità che consegni alla memoria l’evento, operazione imperfetta, che non si può fare senza residui, senza strascichi che come cicatrici segnano di nuovo il presente. Tempi che separando l’evento collocano nell’oggi l’accaduto e nello ieri l’azione interna, consegnando al passato la propria storia vissuta sino a quel momento; si fondono e si sovrappongono nella narrazione, in cui l’uso dei tempi grammaticali cerca di introdurre un ordine possibile, una necessità di poter dire e andare oltre. Sfuggendo a rappresentazioni retoriche catastrofiste che sconfinerebbero nell’horror, Carrère ci rappresenta l’arrivo dell’onda gigantesca, ma il senso dell’evento ci viene restituito attraverso il silenzio che cala dopo, la ricerca di notizie, il vagare a vuoto, l’essere confinati in assenza di informazioni che possano rendere conto, raccontare, trovare parole. L’evento è muto, è accaduto e lascia ora gli strascichi delle perdite, del dolore che separa. Al ritorno a Parigi arriva la notizia che Juliette, la sorella della moglie, è ammalata di tumore e sta morendo. Il dolore che sembrava lontano fa irruzione nella vita dell’autore, lo costringe a fare i conti con questa dimensione dell’esistenza, a cercare attraverso la scrittura di colmare questa distanza, a trovare le parole per osare dirne qualcosa: la vita, la morte, l’amore e il dolore come elementi essenziali della nostra esistenza si snodano nel testo. Una storia che cerca di riannodare i fili prima che sia troppo tardi, prima che si perda memoria, che le orme sbiadiscano sino ad essere introvabili.
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L’incontro con Etienne, collega ed amico di Juliette da una svolta al racconto, inserisce Etienne e, attraverso i ricordi e le parole di questi, Juliette in una dimensione diversa, ci parla di due magistrati che hanno dedicato la loro vita a combattere, dalla posizione di semplici giudici di pace, in difesa di persone sovra-indebitate e contro il para-strozzinaggio di banche e società finanziarie. Qui il testo ci offre uno spaccato della società francese (e anche della nostra), popolata di figure per cui la giustizia è una chimera, afflitte dall’impossibilità della giustizia nell’incontro con la legalità, dalla loro mancata coincidenza che li consegna ad una solitudine cui i due magistrati cercano di porre rimedio, non tanto come novelli don Chisciotte, ma come soggetti che nell’esercizio della loro professione cercano di coniugare legalità e giustizia, cercano nel labirinto delle leggi la possibilità di ritrovare un equilibrio che possa rimediare allo sbilanciamento di partenza. La figura di Juliette assume allora uno spessore, attraverso le parole di chi la sta perdendo come amica, di chi per pudore la va a trovare quando sa di saperla sola, ritroviamo il senso di una presenza al mondo per una donna che ha saputo far i conti con la malattia, ha saputo conviverci conscia che l’esito poteva essere questo, ma ha rinunciato a perdere subito, senza clamori, in una quotidianità che è stata segnata da incontri e passioni vitali. Una donna che attraverso il lavoro egli affetti ha saputo andare oltre la malattia, non con spirito titanico e incosciente, ma come desiderio di lasciare un segno nel quotidiano, quel segno che ora si ritrova nella scrittura e viene “raccontato”, “detto” per chi l’ha conosciuta come memoria e a noi che non l’abbiamo conosciuta rimane questo scritto per capire, per interrogarci sulla sua mancanza. Non è un banale tentativo di rielaborazione del lutto, è un tentativo di andare oltre l’insensatezza del lutto. Sherazade sopravvive perché e finché sa raccontare, l’insensatezza trova nella
parola un senso, una direzione che non cancella l’esito, ma va oltre l’esito attraverso le parole dei testimoni, di coloro che possono trovare le parole per dire che anche questo è stato. Ambrogio Cozzi Andrei Makine Il libro dei brevi amori eterni Einaudi, Torino 2012, pp. 176, € 14,00 In lingua inglese vi è una distinzione tra history e story, quasi a significare una mancata coincidenza tra lo scorrere del tempo collettivo e gli eventi che lo scandiscono e il significato che questi eventi assumono nella vita quotidiana, una difficoltà insomma a dire che cosa ha creato le scansioni del tempo, i suoi intervalli. Questa differenza in italiano viene resa attraverso una pluralizzazione tra storia e storie, dove la Storia. Ma che cosa resiste alla Storia e sopravvive nella memoria dell’altro, di chi attraversa la Storia? Domanda a cui gli stessi storici di professione hanno cercato di rispondere, attraverso la Oral history, un approccio che cercava di intrecciare storia e storie, incontrando così la dimensione del ricordo. Ricordo che spesso sfuggiva alla ricostruzione degli eventi che la storia aveva prodotto, dove gli eventi venivano piegati alla ricerca di una coerenza interna, dove le immagini si confondevano, rifacendosi ad un’iconografia che non coincideva con la memoria fotografica degli eventi stessi, li rielaborava facendo ricorso ad altre immagini che potessero meglio rendere conto delle emozioni di cui gli avvenimenti erano intrisi. Makine ci dice che l’amore, magari breve, magari colto in un attimo, lascia un’impronta, un segno nell’esistenza di chi lo vive, procede
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parallelo e impalpabile rispetto alla Storia che invece procede seminando torti e ingiustizie, senza lasciare scampo e tregue nel suo incedere. E’ come se quell’attimo, quel tempo breve bucasse la linearità di una storia consegnata ai documenti, segnata da grandi avvenimenti che segmentano il tempo, senza render conto di quel che accade nel soggetto che la attraversa e vive nella storia. Quell’attimo è un segno nella vita dell’individuo, un punto di svolta che illumina la comprensione della storia, che la fa precipitare nelle storie con una immediatezza e di ritorno ci restituisce un senso rispetto alla storia, agli avvenimenti che ci coinvolgono collettivamente e che risultano illuminati in modo differente, una lama di luce che cambia la prospettiva della Storia. Otto capitoli e otto momenti della vita di un uomo, dall’infanzia passata in un orfanotrofio russo negli anni Sessanta, all’età adulta, quando il sistema in cui inizialmente aveva creduto si dissolve. E in ciascuna di queste narrazioni è l’amore di o per una donna a risvegliare un frammento di coscienza: la giovane senza nome che sulle tribune per il corteo dell’anniversario della Rivoluzione d’ottobre piange sommessamente il compagno morto in un sottomarino, incrina la fiducia del giovane in quelle meticolose e vacue messinscena, contrappone al rumore di quelle sfilate un silenzio ben più assordante, dove le parole della propaganda risuonano prive di senso. Maja, la nipote della «donna che ha visto Lenin», gli svela la brutalità del leader bolscevico, straccia il velo che copre le miserie quotidiane. Vika, che vive con la madre accanto alla fabbrica in cui il padre è costretto ai lavori forzati, gli apre gli occhi sul carattere repressivo del regime, con quella mano tesa che non riesce a raccogliere il fagotto che rotola a terra tra l’indifferenza delle guardie. Leonora, con la quale il narratore ormai adulto vede un film occidentale in cui la chiave di una camera d’albergo strappa gli applausi, in cui alla smania
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erotica fatta di amplessi sudaticci (“per lasciarci alle spalle i beccamorti di un’ideologia pietrificata dovevamo correre, con le ali di equilibristi sulla fune, da un amore all’altro, da un piacere effimero al successivo”) si contrappongono i gesti amorevoli di una coppia di anziani coniugi, contrappunto alla volgarità e al grigiore dell’epoca brezneviana. Jorka, il compagno di giochi mutilato dall’esplosione di una granata, che coglie dei fragili bucaneve da regalare «a qualcuno» e pochi giorni dopo si avvia verso il bosco ancora disseminato di mine, quasi a tornare attraverso il luogo al tempo dove la vita si è spezzata. Kira, che in un enorme e improduttivo frutteto si sforza di spiegare gli alti ideali dell’arte e della lotta al regime, in un luogo dove la grandiosità coincide con la sterilità, poiché il frutteto generato dal furore ideologico è disertato dalle api. E infine quella donna grassa e volgare, espressione al contempo della vecchia e della nuova Russia: in gioventù era stata il grande amore di Dmitrij Ress, il dissidente, il «poeta» che anche nei lunghi anni trascorsi in un gulag non smise mai di amarla, che è ancora fermo a quel volto colto nella giovinezza, che contrappone alla corsa sfrenata ad arricchirsi di chi in tempo ha saputo tradire. E qui nella figura finale di Ress il libro si chiude su un martire della “rivolta contro un mondo in cui l’odio è la regola e l’amore una strana anomalia”. Sbaglieremmo perciò a vedere il testo come un’antologia di amori impossibili, gli incontri sono l’occasione anche per aprirsi sulla Storia, storia di un’educazione politica sullo sfondo di un regime tanto oppressivo quanto ottuso. Makine è capace di mostrarci anche le analogie tra la propaganda e l’ottusità del regime e la dissidenza dell’intelligentja, entrambi governati e guidati dalla volontà di omologare, entrambi accomunati dai confini rigidi dell’appartenenza, senza rendersi conto della loro solidarietà di fondo, della riduzione di ogni domanda di senso al silenzio. allora l’accesso alla verità deve
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sfuggire all’ideologia, non passa attraverso essa, ma attraverso lo sguardo amoroso. “Intuivo che la verità non stava né dalla loro parte né nel campo opposto, tra i contestatori. Mi appariva semplice e luminosa come quella giornata di febbraio, sotto gli alberi appesantiti dalla neve. La bellezza umile del volto femminile dalle palpebre abbassate rendeva ridicole le tribune e chi le occupava, e la pretesa degli uomini di ergersi a profeti della Storia. La verità era espressa dal silenzio di quella donna, dalla sua solitudine, dal suo amore così grande che perfino il bambino sconosciuto che scendeva i gradini ne era rimasto abbagliato per sempre”. In questo quadro allora l’amore si pone come un punto di sovversione, un incontro al quale non ci si può sottrarre, attraverso il quale si assumono nuove prospettive e nonostante la precarietà della vita, quei momenti rimangono come incancellabili, dove ogni incontro rappresenta un’intuizione che lega la storia personale a quella della Russia. Un’intuizione che assume a volte valore a posteriori, in un tempo altro che le dota di significato e illumina gli eventi in altro modo, replicando gli incontri nel tempo e configurando il tempo di un’altra storia: “Mi ci vollero molti anni anche per imparare a riconoscere, dietro una breve storia di tenerezza adolescenziale, la felicità luminosa che la mia amica e sua madre mi avevano trasmesso con tanta discrezione. Mi ricordavo certo della loro ospitalità, della dolcezza con cui avevano attorniato il giovane ragazzo selvatico che ero, un essere indurito dalla brutalità e dalla violenza. Con l’età, mi rendevo sempre più conto che la pace che grazie a loro regnava in un luogo così desolato, sì, quella serenità indifferente alla bruttezza e alla volgarità del mondo, era una forma di resistenza, forse perfino più efficace dei sussurri di protesta che avrei udito negli ambienti intellettuali di Leningrado o di Mosca. La rivolta di quelle due donne non era appariscente…” Ambrogio Cozzi
Grazia Giurato Ancora ci credo La Tecnica della Scuola, Catania 2012, pp.153 I libri. Santo cielo, i libri... Perché si scrivono? Perché fare torto alla natura, ai boschi della Finlandia o alle foreste dell’Amazzonia solo per togliersi il piacere di scrivere e pubblicare? Perché farlo se non sei Dostoevskij o Proust, Leopardi o Joyce? Già: perché ha scritto questo libro – agile, fragile – Grazia Giurato? Posto in questi termini, l’interrogativo può produrre solo un sentimento di imbarazzo. Anzi, finisce per avere un suono sgradevolmente ricattatorio. Perché nessuno mai potrebbe rispondere “sì, sono io il nuovo Dostoevskij” e sentirsi dunque a posto con la coscienza per avere compensato l’umanità, una volta di più colpita nel suo ecosistema, con un nuovo, prezioso gioiello di letteratura e spiritualità. Scrivere può essere un gesto di arroganza. Può tradire l’ambizione di spiegare il mondo così come nessuno lo ha mai spiegato. O di offrire potenza di romanzo o a soavità di poesia a un’epoca impoverita nella bellezza e nelle arti. Poi però c’è Grazia. Che scrive senza arroganza. Ci sono le donne come lei che cercano solo di ricomporre storie lunghe e difficili, percorse dalla dignità di chi non piega mai la schiena e se è costretta a farlo giura dentro di sé che non dovrà accadere mai più. Né a lei né a quelle come lei. Scrivere diventa allora un modo per offrirsi con discrezione e al tempo stesso con un’ombra di orgoglio. Mi avete conosciuta così. Molto o poco abbiamo condiviso, ma forse questo episodio non lo sapevate. Forse questo retroscena che mi sta inchiodato nell’anima o nelle retine degli occhi non lo conoscevate. Perché non ve l’ho mai raccontato per timidezza. O per sovrappormi ai vostri racconti, alle vostre confessioni. Perché
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volevo ascoltarvi perché parlo tanto – e Grazia parla tanto – ma c’è sempre un momento in cui mi fermo. Un momento in cui capisco che voi avete più bisogno di me di parlare. Oppure ho taciuto di me e del mio passato, delle immagini che più mi inquietavano, anche del bene che ho fatto a una donna o a una famiglia sconosciuta, perché cose diverse urgevano. Altro che le mie paturnie, le mie emozioni private. Dovevamo difendere Catania e la Sicilia dagli sfregi della mafia e dei cavalieri del lavoro, ve li ricordate vero?, li applaudivano in tanti poi è finita come è finita. Quella storia che non si può seppellire, con un giornalista a fare da vittima sacrificale per una città intera. E che doveva fare, Grazia, mettersi a raccontare allora del padre scomparso dopo la battaglia del Don, la madre bella e schiacciata con il viso contro il cuscino e donne giovani e anziane a popolare una casa e a far mestieri di donna sempre per compiacere un “lui”, qualunque ne fosse la provenienza? E fossero solo Catania e la Sicilia... L’Italia addirittura si è dovuta difendere, avviata – irreversibilmente, sembrava – a perdere onore e giustizia A settant’anni e più grazia di è dovuta mettere a marciare e a manifestare in strada. “Dovuta”, poi... Dovuta niente, lo ha voluto fare, perché per molte altre, anche più giovani di lei di generazioni, non c’era proprio alcun dovere. Con un fazzoletto colorato intorno ai capelli grigi a chiedere legge uguale per tutti o pace nel mondo per i via-
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Leonard Cohen Old ideas Columbia, 2012 € 18,90
Menù ricco, anzi ricchissimo, questa volta! Iniziamo dai ritorni, dai grandi classici, da quegli
li di Roma. E che avrebbe dovuto fare? Mettersi allora a raccontare storie di stupri lontani, incesti terribili, donne uccise quasi davanti a lei, tanto son mafiose, insomma gli incubi e le prove della sua vita? O narrare della sua fede conquistata nel confronto aspro e inesauribile con le cose e con gli uomini? O di don Piro e don Resca? Non poteva. Perché Grazia, matura e ormai anziana ragazzina aveva altro da fare. Poi, a un certo punto, chissà in che minuto, ha pensato che però qualche traccia fosse giusto lasciarla. O magari ha deciso che la doveva lasciare. Anche se non era agitata dalle passioni e dalla letteraria, sovrumana potenza di Dostoevskij. Tracce, sassolini bianchi di una Pollicina adulta. Vita di una donna che ha amato le donne e per le donne si è battuta, che ha conosciuto il senso totale, antropologico, che ha in certi momenti il lavaggio dei calzini. Che dalla sua condizione di donna è partita mille volte per ritornarci ogni volta più ricca, perché mai chiusa alle altre condizioni. Che ha fatto della vita una battaglia generosa e anche spigolosa. È questo, in fondo, il libro che avete tra le mani. Segno di modestia e non di arroganza. Rimedio di lunghi silenzi passati, custoditi sotto la vitalità scoppiettante della parola. Un piccolo libro nato da qualcosa che più che alla umana vanità assomiglia alla timida fierezza di chi ha vissuto a testa alta. Nando Dalla Chiesa
Bruce Springsteen Wrecking ball Columbia, 2012 € 18,90
autori che insensibili all’incedere impietoso del tempo continuano a sfornare prodotti di
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indubbia qualità. Per l’occasione ne annoveriamo tre e, scusate se è poco, di primissima scelta. Ecco il primo: Leonard Cohen. Onestamente, mettetevi la mano sul cuore: si può parlar male del sublime ebreo errante canadese, il sensibile testimone di un’esistenza nella quale trovano voce gli umori più profondi della nostra incerta umanità? Ovviamente no, e noi non lo faremo. Il signorile vecchietto ha superato da molte lune l’età pensionabile, ma non demorde, quasi che, alla faccia di Landini, dovesse confermare le più ardite e futuriste tesi dei tecnocrati di osservanza montiana. E così facendo sforna un capolavoro dei suoi di rara e semplice bellezza, di toccante intensità. Old ideas è il titolo dell’album, come a dire o, meglio, a ribadire che cocciutamente le idee a cui Cohen rimane fedele sono sempre le stesse… Ai critici che gli rimproverano di usare solo tre accordi, lui ribatte che sono ingiusti, puntualizzando, non senza ironia, che ne conosce almeno cinque! L’uomo, si sa, ha classe da vendere, pare una sorta di Bataille in versione cantautorale. Un mistico libertino capace come pochi di intrecciare sapientemente grandi temi tra di loro, da Dio alla sessualità, alla morte… Old ideas contiene solo dieci canzoni, ma è un album, mi verrebbe da dire, sinceramente autentico. Si sente Cohen dietro le sue parole, la sua musica, nulla appare artefatto o costruito strumentalmente. Lui canta con l’anima, quasi parlasse, alla fine, mettendosi a nudo con semplicità. Chi possiede oggi quel tocco, quella grazia, quell’onestà? Old ideas è una sorta di testamento spirituale unico nel suo genere. Imperdibile.
Neil Young, Crazy horse Americana Warner Bros, 2012 € 20,90
Veniamo al secondo ritorno, quello del Boss. Wrecking ball è il nuovo cd di Bruce Springsteen. La critica si è alquanto divisa sul giudizio. C’è chi ha gridato al capolavoro, così come c’è stato chi ci è andato più cauto. Personalmente, il Boss non se n’abbia a male, sarei più d’accordo con i secondi. Indubbiamente si tratta di un bel disco rock impreziosito da sonorità irlandese, ma, a mio parere, nulla aggiunge o nulla toglie al grande cantautore americano. E’ un disco di Springsteen, nel senso più letterale del termine. La tautologia, alquanto idiota per la verità, pretende indicare quel che mi pare l’essenza del problema. In TV ho sentito Ligabue, lo Springsteen padano, tesserne le lodi. Appunto, ho pensato tra me e me. Forse, mi son detto, non è affatto un caso. Ligabue non mi piace perché mi dà l’impressione che faccia sempre la medesima canzone. Fatte le debite differenze, mi sembra l’accusa che indirizzerei anche al Boss e a quest’album. A molti, il cd del Boss è apparso epico, a me, in tutta sincerità, un po’ tronfio, pesante… Wrecking ball, la “palla che distrugge”, vuole esser un album impegnato, come si dice una volta. Sociale, popolare, a suo modo, politico, contro gli squali di Wall Street, i “grassi banchieri”, gli affamatori dell’America che lavora, della “working class”. Da questo punto di vista, il cd è anche vigoroso, forte, trascinante… Rimango un po’ perplesso di fronte a tanto ardore. Sarà, ma qualcosa mi resta indigesto, si trattasse di un giovane squattrinato e rabbioso che si prodiga a cantare simili brani ne sarei entusiasta, ma Springsteen è (giustamente) ricco. Anzi, probabilmente ricchissimo, e quindi…
a cura di Angelo Villa
Artisti vari Chimes of freedom. The songs of Bob Dylan Universal, 2012 € 27,90
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di Ursula Meier Sister Svizzera, Francia 2012 Distribuzione: Teodora Film e spazioCinema Produzuibe: Archipel 35, Vega Film in coproduzione con RTS Radio Télévision Suisse, Bande à part Films Il gioco invertito delle parti A raccontare questa storia di infanzia negata arriva una favola grigia che, come tutte le favole, funziona in ogni tempo (anche in tempo di crisi) e, come ogni grigio, stempera il colore vivo del cambiamento.
a cura di Cristiana La Capria
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me e me mi dicevo: “è solo una furbata per mantenersi al centro della scena, l’ultima spiaggia per un artista a corto ormai di idee, quel che ha dato, ha dato e, donc, forgettiamoci o’ passato!”. E invece no! Maledetto Neil e maledetto pure il “pusher”. Alla fine di un estenuante tira molla ho ceduto e ho acquistato Americana che non è la ristampa della celebre antologia di Vittorini. E, mannaggia, ho fatto bene. Il cd inizia con “Susanna” e termina con… “God save the queen”, ma il canadese è d’altra pasta dei Sex pistols. Risultato: un gran bel disco, per nulla scontato, dal sound corposo e sanguigno, impreziosito dalla voce inconfondibile dell’autore di “Heart of gold”. Neil suona e canta con passione e sentimento, rifà pezzi tradizionali infondendoci nuova linfa. Lo affiancano, come in tutte le sue maggiori imprese, i fidatissimi Crazy horse, i quali, come loro per primi ammettono, non saranno i più grandi musicisti sulla faccia della terra, ma suonano con l’anima e si sente. Chapeau a Neil e a suoi compari. Angelo Villa
cinema
Terzo ritorno è quello dell’immenso Bob. Preciso, non sua “bobbità” in persona. Amnesty International per celebrare i suoi cinquant’anni di attività ha chiamato un sacco di artisti a reinterpretare qualcosa come più di settanta canzoni di Dylan. Ne è uscito un cofanetto di quattro cd. C’è di tutto, nel senso pieno della parola. Sia in termini di qualità che di quantità. Andando da cantanti celebri, da Sting a Adele tanto per dirne due, a altri pressoché sconosciuti, passando da versioni originali a altre, poco o nulla creative o, peggio ancora, forzatamente stravolte in cerca di un’invenzione che non trovano. Occorre pur ammetterlo, l’impresa non è facile. Provate voi a rifare “Like a rolling stone” o “Mr. Tambourine man” senza scadere nel già sentito, nel dilettantismo o senza lasciarsi prendere la mano da un esasperato narcisismo… Non, non è facile. Onore, dunque, al merito e all’impegno, aldilà dei risultati che tuttavia nel loro insieme sono più che buoni. Ah, dimenticavo, il cd porta il titolo di una bellissima canzone di Dylan che viene riproposta dal grande vecchio alla fine della maratona canora: la splendida “Chimes of freedom”. Ovviamente, il cofanetto costa, ma per il suo contenuto, nonché per la causa che sostiene, io lo consiglio. Ne vale la pena, in attesa, ovviamente, dell’ultima fatica del nostro schizofrenico e proprio per questo inarrivabile profeta: Tempest. Nel frattempo, giusto per rimanere sull’argomento, ne approfitto per consigliare una lettura in tema: Un’aria da Dylan di Enrique Vila-Matas, edito da Feltrinelli. Intrigante e delizioso romanzo, ottimamente scritto, traboccante di rimandi e suggestivi echi letterari, non ultimo quello a Amleto. Decisamente originale, imperdibile per chi ama Borges. Ultimo ritorno è, infine, quello del vecchio Neil Young, the loner. Ha pubblicato un cd che è stato fonte di un certo dibattito con il mio “pusher” di fiducia. Più di una volta, lui me lo ha proposto, dicendomi: “fidati, te l’assicuro!”. Io tiravo in lungo, storcevo il naso, fiutavo l’inganno. Tra
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Il film tratteggia una condizione che sta lì, ferma, senza evolvere, senza mutare e senza neppure essere corretta. Chi va al cinema perché della storia vuole sapere come va a finire, sappia che il film va a finire come è iniziato. Ma ciò che conta è cosa viene mostrato e soprattutto come. L’inquadratura di apertura è per il primo piano di un water su cui sta appollaiato un ragazzino che ficca nello zaino diversi oggetti da neve, indossa un passamontagna, su di esso un casco, ancora una tuta da sci, delle calzature professionali, anche gli occhiali antinebbia. Ma lui non sa neppure sciare; sa rubare però. Quando esce dal bagno si porta fuori, sulle piste di una stazione sciistica svizzera, dove ci sono quelli ricchi che fanno la bella vita, che se la spassano sulla neve. A costoro il ragazzino sottrae sci e accessori che poi rivende per guadagnarsi da vivere. A fine giornata prende la funivia e scende a valle, a casa sua, una zona nuda occupata da case popolari e da terreno incolto. Ogni giorno è sempre lo stesso spostarsi dalle zone basse e stagnanti di casa sua alle alture biancheggianti delle piste turistiche, dall’inferno al paradiso. La desolazione del paesaggio interiore del protagonista sta tutta in un rapporto smembrato con la sorella, una sbandata di circa il doppio dei suoi anni. Nessun altro vive nella loro casa. Lui porta avanti la baracca, lei un po’ lavora un po’ no, se la spassa con dei bellimbusti, beve volentieri alcolici. La trama della storia sta concentrata sugli zampilli di amore feroce, bugiardo, traditore, squilibrato che la “sister” del titolo mostra al fratello, che poi fratello non è. Lo veniamo a sapere a metà della storia che Simon, il nostro giovane ladro, chiama sorella colei che invece è sua madre, ma che sua madre non voleva diventare. L’impalcatura mentale che ci siamo costruiti fino a metà storia e ci ha fatto immedesimare nelle carni di un piccolo orfano con una sorella debosciata si devono riadattare a una nuova visione: un bambino chiama sorella la donna che sa essere sua madre a cui egli stesso fa da padre. L’esasperante stravolgimento
dei ruoli è devastante per chi vede questo ritratto disegnato con mano delicata e asciutta. Senza fare fracasso scenografico, ogni fotogramma ci trasferisce il dolore assordante di un preadolescente che della giovinezza ha solo la pelle e la corporatura, un piccolo adulto che non ride e non gioca. Senza amici, senza parenti toglie oggetti a chi ne ha tanti per darne un po’ a sé e a colei che di lui poco si cura. Gli adulti nel film sono di sue categorie: quelli a cui Simon ruba gli oggetti e quelli a cui Simon vende gli oggetti rubati. Poi c’è la madre/sorella, dissipata nello sguardo a cui Simon, almeno una volta nel film, chiede di fargli fare il bambino, implorando un abbraccio di mamma nella notte fonda. Ma lei non vuole. Allora lui le mette sotto il naso 200 bigliettoni. Lei gli concede l’abbraccio e si prende i soldi. Non una sbavatura retorica nell’esposizione filmica che riduce all’osso le parole e anche la visione delle componenti emotive derivate dai gesti degli interpreti che ruotano intorno a se stessi senza cambiare strada, senza scappare, senza fermarsi. Continuano imperterriti il drammatico gioco delle parti invertite. Fino a che Simon ci prova a cambiare, a sfuggire al meccanismo, a rimanere una notte, da solo, lì, sulla montagna del paradiso. Però dopo, per la paura e il freddo piange e all’alba corre per ritornare a casa, la sola, l’unica casa che conosce. Mentre è sulla funivia che scende, dal vetro incrocia lo sguardo di una donna che è nella funivia che sale. E’ sua sorella che sta andando a cercarlo. E ancora una volta le loro strade si incrociano ma le direzioni sono opposte. E siamo di nuovo al punto di partenza. E anche se io spettatrice ho imparato il segreto della relazione tra i due personaggi continuo a voler chiamare la donna “sister”, non mamma. Anche questo, alla fine del film, non cambia. Ma quegli sbagli di amore cui ho assistito sono immagini, meravigliosamente squilibrate, che si incastrano nella memoria. Da vedere per reagire. Cristiana La Capria
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ARRIVATI_IN_REDAZIONE Enrico Miatto Giovani verso il futuro Cleup, Padova 2012, pp. 240, € 17,00 Il volume entra nel merito della doppia transizione che i giovani sono chiamati a sperimentare, quella verso l'età adulta e quella dalla scuola al lavoro. Il vertice osservativo mantiene una cifra squisitamente pedagogica integrando i contributi forniti da altre scienze umane nell'interpretazione dell'età giovanile. Il testo si compone di tre parti. Nella prima, tema centrale è sì la transizione, ma anche il progetto di vita verso l'autonomia. Nella seconda parte viene approfondito il tema della transizione scuola-lavoro rispetto alle implicazioni teoriche...
Albert Bandura Adolescenti e autoefficacia Centro Studi Erickson, Trento 2012, pp. 84, € 10,00 Tra i più importanti progressi nella storia della psicologia, il concetto di autoefficacia ha dato un contributo decisivo alla descrizione di fenomeni quali la motivazione, l'apprendimento, l'autoregolazione e il successo scolastico. Questo saggio fondamentale di Bandura, padre della teoria cognitiva e del costrutto di autoefficacia, spiega come le credenze sulle proprie capacità personali influiscano sulla vita degli adolescenti, condizionandone il rendimento scolastico, i rapporti familiari, la regolazione emotiva e la propensione a comportamenti a rischio.
Pino Tossici Cento giorni sul comò Book Salad, Anghiari 2012, pp. 160, € 12,00 Il libro è la storia di Peppino, un bambino impertinente, imprevedibile e sognatore alle prese con una famiglia scombinata e una madre decisamente impegnativa. Piena di flashforwards che ci riportano all'attualità del quotidiano, è ambientata negli anni '50 e '60 di un'Italia uscita a pezzi dalla guerra, un paese che si andava ricostruendo con orgoglio e fatica e che stava vivendo un periodo di straordinaria prosperità che verrà ricordato come l'epoca del boom economico. Con leggerezza, compassione e ironia ma anche con grande coraggio, l'autore racconta la sua storia di formazione...
Assunta Sarlo, Francesca Zajczyk Dove batte il cuore delle donne? Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 156, € 12,00 C'è uno scandalo, in Italia, che fa ancora poco scandalo. Lo scandalo sta nei numeri molto bassi della presenza delle donne nelle stanze decisionali della politica. Sta in quella media del 19 per cento che ci pone al cinquantaquattresimo posto nella classifica mondiale della presenza delle donne nei parlamenti nazionali. E sta nel ritardo particolarmente accentuato rispetto agli altri Paesi europei. L'Italia non è un paese per donne: a dirlo sono i numeri esigui della presenza femminile nelle istituzioni...
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Diemoz Erika A morte il tiranno. Anarchia e violenza da Crispi a Mussolini Einaudi, Torino 2011, pp. 377, € 32,00 Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento gli anarchici italiani rappresentarono una minaccia terroristica globale. Sia per l'importanza politica dei loro bersagli (miravano ai primi ministri come alle teste coronate), sia per la risonanza sociale della loro propaganda (si battevano per il trionfo di una giustizia proletaria), furono le bestie nere delle polizie di tutto il mondo. [...] Ma chi erano i cattivi della favola, e chi i buoni? Quali le forze del progresso, e quali della reazione? Muovendo dall'Italia liberale per approdare all'Italia fascista, il libo di Erika Diemoz ritrova i fili nascosti che mantennero unita questa trama storica di anarchia e di violenza.
Lella Ravasi Bellocchio L'amore è un'ombra Mondadori, Milano 2012, pp. 159, € 17,00 Le mamme non hanno sempre ragione, non sono sempre buone; spesso, nella vita quotidiana, fanno del male, più o meno involontariamente, ai propri figli e a volte possono arrivare persino a ucciderli in maniera efferata. Quante sono le madri che non vogliono saperne di lasciare il privilegio della bellezza alle proprie figlie? Quante vedono i figli come prolungamento narcisistico di sé? Quante, sigillate nel proprio dolore, sono incapaci di prendersi cura dei bambini? Leila Ravasi Bellocchio, analista, in questo libro mostra il lato nascosto e taciuto della maternità...
Bruno Rossi L'organizzazione educativa Carocci, Roma 2011, pp. 224, € 23,00 Nell'economia dell'intangibile alla persona si guarda come alla principale risorsa generativa di valore. Il soggetto (pluri)competente è posto al centro della vita organizzativa ed è accreditato variabile indipendente di vantaggio in direzione della capacità trasformativa, della produttività creativa e della qualità. La valorizzazione, la cura e lo sviluppo del capitale umano vengono a costituirsi pertanto come compiti organizzativi irrinunciabili. L'apprendimento è stimato variabile critica e ineliminabile per lo sviluppo aziendale.
Edith Piaf Mio azzurro amore Archinto, Milano 2012, pp. 105, € 15,00 1951: ha inizio la tormentata passione tra la più grande cantante francese di tutti i tempi e Louis Gérardin, famoso ciclista, più volte campione di Francia, un atleta come Marcel Cerdan, il grande amore della Piaf scomparso tragicamente in un incidente aereo - un lutto dal quale la cantante pensava di non riprendersi più. Poi, quando Gérardin entra nella sua vita, Edith è subito travolta. Letteralmente soggiogata da quest'uomo sposato, lo supplica di divorziare, vuole costruirgli una casa, dargli un figlio, offrirgli la propria fortuna, avviargli un'attività...
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Guillermo Rosales La casa dei naufraghi Fandango Libri, Roma 2011, pp. 110, € 15,00 William Figueras, scrittore cubano inviso al regime, uomo passionario che coltiva le illusioni nel buio della sua mente, è in fuga dalla cultura, dalla musica, dalla letteratura, dalla televisione, dalla storia e dalla filosofia di Cuba. Nelle tasche non ha nient'altro che le edizioni rilegate dei Romantici inglesi, e a Miami qualche parente che possa ospitarlo. Ma William è malato di nervi, e dopo l'esilio le voci che sente rimbombano forte nella testa. Talmente tanto, che la zia che l'accoglie deve arrendersi. La “casa” in cui viene deportato è una clinica ai confini con la realtà.
Manuel Cruz L'amore filosofo Einaudi, Torino 2012, pp. 235, € 25,00 L'idea dell'amore, presente nel discorso filosofico fin dalle origini, si è evoluta adattandosi ai contesti storici e sociali, assumendo diverse forme e funzioni, senza perdere mai il proprio ruolo di primo piano nella sfera dei condizionamenti culturali. Ma come si legano queste forme dell'idea dell'amore all'esperienza amorosa? Come hanno amato i filosofi che riflettono sull'amore? Manuel Cruz ricostruisce le vicende esistenziali di alcune grandi figure della storia del pensiero, di cui è noto non solo l'interesse verso l'amore in quanto tema, ma anche il coinvolgimento personale nelle relazioni amorose.
Matteo Rizzato, Davide Donelli Io sono il tuo specchio Edizioni Amrita, Torino 2011, pp. 120, € 11,50 Scoperti dal professor Giacomo Rizzolatti, che firma la prefazione di questo libro, i neuroni specchio sono una delle scoperte più straordinarie delle neuroscienze contemporanee; in sostanza, si tratta della spiegazione scientifica del perché comprendiamo a livello profondo il comportamento altrui. Questo agile libro mira proprio a far conoscere a tutti, con un linguaggio chiarissimo e molte brillanti vignette, sia il contenuto scientifico essenziale di tale scoperta, sia, cosa ancora più importante, le sue ripercussioni nella nostra vita...
Anna Granata Intercultura. Report sul futuro Città Nuova, Roma 2012, pp. 216, € 18,00 Solo da pochi decenni, per effetto dell'immigrazione e della globalizzazione, la società italiana sta sperimentando l'incontro con la differenza (culturale o di altra natura). È un fenomeno troppo recente per cui la nostra società fatica ancora ad accettare di essere divenuta una società multiculturale e multireligiosa, al pari di altri Paesi europei. Scopo del libro è contribuire a diffondere l'idea che la pluralità è oggi la norma entro la nostra società. In questo ambito, l'approccio interculturale può costituire una straordinaria risorsa in campo educativo...
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Donne in movimento Un tema non solo particolarmente interessante, ma anche di grande attualità è stato affrontato nel numero 112 di quest'anno della rivista Lettera internazionale, interamente dedicato alle Donne in movimento. Al centro le donne e, in particolar modo, la loro capacità di appartenere a mondi diversi e di “interpretare” ruoli diversi nella vita di ogni giorno. Una versatilità, questa, tanto fisica quanto mentale che mette alla prova la cultura patriarcale dominante e che consente alle donne di elaborare il dolore e di trasformarlo in forza tramite la condivisione di esso con le altre donne. É proprio a questa capacità femminile che Biancamaria Bruno, la direttrice della rivista, fa riferimento all'interno del suo editoriale scrivendo: “Al centro di questa visione del mondo, c'è la forza che viene dall'essere nomade – cioè la capacità di portarsi dietro le proprie radici aeree, la capacità di essere in un mondo, ma anche in un altro e in un altro ancora. Di portare con sé il dolore e la violenza che si sono subiti, ma senza che ciò significhi silenzio e rinuncia alla vita”.
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Tra i molti contributi interessanti indichiamo: Nuove riflessioni sul dominio maschile, di Pierre Bourdieu; Donna nomade e plurale, di Rosi Braidotti; Ricordi di una donna, memorie degli italiani, conversazione tra Agnese Moro e Biancamaria Bruno; Una storia tra tante, di Manuela Dviri; Disobbedisco e ti porto al mare, di Michela Mastrodonato; Donna italiana: digitale o analogica? intervista di Biancamaria Bruno a Massimiliano Mazzarella; Il viaggio delle donne è appena iniziato... di Marina Calloni; Attraversare le frontiere, di Anna Zoppellari; Le donne del Mediterraneo. Tra primavere arabe e crisi, di Rita El Kahyat; Immaginario post-sovietico: una prospettiva di genere, di Madina V. Tlostanova; La questione della donna nell'Argentina, di Gina Lombroso; Un ponte fra tanti mondi, di Gloria Anzaldúa; Per una frontiera invisibile, di AnaLouise Keating.
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Novità Stripes edizioni – ottobre Collana Polis Fabio Lucchini (a cura di) Prefazione di Fabio Cavalera Società in rivolta. Alle radici del disagio collettivo nel XXI secolo Anno 2012, Pagine 200
Collana Pedagogika Barbara Mapelli, Stefania Ulivieri Stiozzi (a cura di) Uomini in educazione. La scomparsa di un genere Anno 2012, Pagine 190
Dopo la breve illusione delle ripresa economica globale, il costante peggioramento degli indici borsistici, l’erosione del potere d’acquisto e la consistente perdita di posti di lavoro preannunciano un futuro prossimo carico di incertezze. Mentre cresce il fronte dell’insoddisfazione sociale, muta anche l’obiettivo degli strali popolari: non più il delinquente o l’immigrato riottoso all’integrazione, ma i “poteri forti”, incapaci di gestire il sistema globale e le sue risorse finanziarie e tecnologico-ambientali. Tuttavia, è bene precisare che scagliare anatemi e additare nuovi responsabili serve a poco, se non a fomentare la rabbia sociale, a stressare pericolosamente i nervi già tesi della coscienza collettiva. Come ha insegnato lo straordinario e terribile ventesimo secolo, l’unica via per uscire dalla crisi complessiva che sta investendo il nostro mondo è cercare di comprendere, evitare semplificazioni e operare per il necessario cambiamento.
Se si parla di uomini in educazione, si parla, soprattutto, di un’assenza, un assenza che non stupisce. Le professioni educative appartengono a quell’area di lavori definiti lavori di cura e della cura se ne occupano le donne. Si tratta ancora di una serie di stereotipi, di un problema di culture tradizionali che non corrispondono più alla realtà e alle necessità del nostro tempo. Un problema culturale, come tale superabile, perché le culture, anche le più tenaci, si possono trasformare, adeguare alle nuove domande. Basta che queste domande si cominci finalmente a porsele. Domande serie, che chiedono lo sforzo di superare l’ovvio, il già dato, l’invisibilità delle evidenze. Ed è urgente farlo perché le assenze maschili in educazione creano problemi gravi, soprattutto tra chi è più giovane e viene educato o educata in un mondo tutto femminile e cresce nella convinzione che a prendersi cura siano sempre e soltanto le donne, che gli uomini non sanno, possono o vogliono farlo e quindi si occupano di altro.
Con i contributi di: Fabio Lucchini, Gianni Silei, Anne Power, Guido Martinotti, Marco Lombardi, Paolo Bellini, Vincenzo Marino, Salvatore Licata.
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Carnet - La redazione consiglia Eventi, festival, incontri di interesse in giro per l'Italia RomaEuropaFestival 2012 26 settembre - 25 novembre Roma 43 spettacoli tra teatro, musica , danza ed arte e numerosi incontri con autori ed artisti. “All that we can do”, tutto quello che noi possiamo fare, è l'invito che il Romaeuropa Festival rivolge quest'anno al suo pubblico, sensibile all'urgenza della creazione artistica contemporanea, protagonista di una società che cambia. Info: http://romaeuropa.net/festival.html Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità 2012 3 dicembre 2012 Varie Città Il 3 dicembre ricorre la “Giornata Internazionale dei diritti delle persone con disabilità” come stabilito dal “Programma di azione mondiale per le persone disabili” adottato nel 1982 dall’Assemblea generale dell’ONU. L’evento ha lo scopo di promuovere la diffusione dei temi legati alla disabilità per sensibilizzare l’opinione pubblica ai concetti di dignità, diritti e benessere delle persone disabili accrescendo la consapevolezza dei benefici che possono derivare dall’integrazione delle disabilità in ogni aspetto della vita sociale. MIRÓ! Poesia e luce 5 ottobre 2012 - 6 aprile 2013 Genova Palazzo Ducale ospita una rassegna esaustiva dell’opera di Joan Miró (1893-1983), il grande artista catala-
no che lasciò un segno inconfondibile nell’ambito delle avanguardie europee. La mostra presenta oltre 80 lavori mai giunti prima nel nostro Paese, tra cui 50 olii di sorprendente bellezza e di grande formato, ma anche terrecotte, bronzi e acquerelli. info: http://www.mostramiro.it Vermeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese 27 settembre 2012 - 6 gennaio 2013 Roma Per la prima volta a Roma una rassegna su Johannes Vermeer, massimo esponente della pittura olandese del XVII secolo. La mostra delle Scuderie del Quirinale include una preziosa selezione di opere di Johannes Vermeer - rarissime e poco distribuite nei musei di tutto il mondo - e all'incirca cinquanta opere degli artisti olandesi suoi contemporanei. info: http://www.scuderiequirinale.it Festival Verdi 2012 1 - 28 ottobre Parma Ritorna ad Ottobre (mese in cui ricorre l'anniversario della nascita), l'annuale appuntamento in onore del grande maestro Giuseppe Verdi. Il Teatro Regio di Parma, celebrerà il grande maestro con 2 grandi opere: L'Otello in data 1, 5, 12, 18, 26 ottobre; La battaglia di Legnano in data 6, 9, 13, 20, 27 ottobre. info: http://www.teatroregioparma.org/ verdifest/index.htm
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Diario di provincia 6-10 novembre 2012 Milano In una scena vuota, poche luci efficienti ma scarne, un solo attore, Oscar De Summa, e la sua voce danno vita ad uno spettacolo che dipinge lo scorcio di una vita di provincia opprimente, da cui si può solo fuggire per sentirne, forse, la mancanza. Niente, non succede niente, solo la depressione da calura estiva. La noia è la sovrana di un regno bruciato, in cui uomini e donne indugiano senza concludere nulla, rassegnati. Stare nella piazza deserta a guardare le cosce delle donne, bere e rubare alla luce del sole: questo è il Sud raccontato da Oscar De Summa, questa è la Puglia amata e odiata. Al Teatro Sala Fontana in Via Gian Antonio Boltraffio 21. MILANoLTRE 2012 3 ottobre – 2 dicembre 2012 Milano La danza protagonista della ventiseiesima edizione di MilanOltre. Tre le opportunità per il pubblico: spettacoli, incontri, workshop. Tre le sezioni tematiche: Vetrina Italia, con le realtà più interessanti della scena italiana, e i profili dedicati a due compagnie di fama internazionale, la Spellbound Contemporary Ballet diretta da Mauro Astolfi e la compagnia catalana Gelabert/Azzopardi Companyia de Dansa. Al Teatro Elfo Puccini, e alla DanceHaus di Milano. Festival della scienza 25 ottobre – 4 novembre 2012 Genova È un punto di riferimento per la divulgazione della scienza. È un’occasione di incontro per ricercatori, appassionati, scuole e famiglie. È uno dei più grandi eventi di diffusione della cultura scien-
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tifica a livello internazionale. Incontri, laboratori, spettacoli e conferenze per raccontare la scienza in modo innovativo e coinvolgente, con eventi interattivi e trasversali. 11 giorni in cui le barriere fra scienze matematiche, naturali e umane, verranno abbattute e la ricerca si potrà toccare, vedere, capire senza confini. Il Barbiere di Siviglia 9 dicembre 2012 Milano Il barbiere di Siviglia, opera buffa in due atti di Gioachino Rossini, è l'apertura di una stagione, InCanto in Musica, premiata da un caldo consenso di pubblico, che ha apprezzato non solo la qualità degli allestimenti e degli interpreti, ma anche le due principali novità della scorsa edizione: l'aggiunta dell'orchestra ed il servizio di accompagnamento a casa al termine dello spettacolo. In particolare Il barbiere di Siviglia è arricchito dalla presenza nel cast di veri specialisti del repertorio rossiniano. Al Teatro Sala Fontana in Via Gian Antonio Boltraffio 21. Festival dei popoli 10-17 novembre 2012 Firenze L'associazione Festival dei Popoli organizza a Firenze il principale festival internazionale del film documentario in Italia con convegni e tavole rotonde che sono considerati parte integrante della manifestazione. Lo spirito originario del Festival dei Popoli è di essere testimone e promotore delle innovazioni e delle tendenze che investono il cinema del reale: un cinema estremamente mobile ed innovativo che descrive il mondo che ci circonda con originalità e partecipazione emotiva. info: http://www.festivaldeipopoli.org/