Maurizio Ferrarotti LADY GODIVATRO
Mexia
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‌in una distorta stratosfera.
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Volevo ringraziare tutti coloro i quali si sono dati pena a leggere la precedente versione di questo romanzo, cieca e frignante come un bambino appena nato. Forse neanche questa che segue è perfetta… ma dopotutto dicono che la perfezione non è di questo mondo! Un abbraccio a te, lettore, e tanti auguri di un prospero 2007. Maurizio Ferrarotti, 22 dicembre 2006.
Pungolato da alcuni rifiuti (“Non mi ha convinto del tutto”, mi ha risposto la giovane e gradevole responsabile di una casa editrice torinese. Gli scendeva giù la giovane e gradevole ernia a spiegarmi perché?), ho mandato il ragazzino in biblioteca. Sarà cresciuto? Sicuramente ha buttato giù un po’ di ciccia letteraria! Felice 2008 a tutti, editori compresi! Maurizio Ferrarotti, 4 febbraio 2008.
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Scrivo in maniera istintiva. Tendo a essere come un bambino: mi appassionano le belle storie, e ancor più un finale inaspettato (se è un buon finale). on nel senso hitchcockiano, ma a modo mio: meno commerciale, e meno caratteristico.. David Cronenberg, Cahiers du cinéma n. 453.
Può darsi che la Coscienza Cosmica abbia il senso dell’umorismo. Arthur C. Clarke, 1965.
Io sono l’anti-entropia. Dedico totalmente il mio lavoro al caos. Consumo personalmente la mia vita, e professionalmente il mio lavoro, per far bollire quella zuppa. Harlan Ellison, Shatterday, 14 febbraio 1980.
La storia della vita è più veloce di un batter d’occhio. La storia dell’amore è ciao e arrivederci al prossimo incontro. Jimi Hendrix, 18 settembre 1970.
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In pigiama di cotone turchino e ciabatte infradito, sorbendo tè corretto al ginseng da una tazza di plastica bianca con il pensiero rivolto a un documentario sull’istrionico iconoclasta artista francoispanico Francis Picabia messo in onda da Rai.Doc tre sere prima, Lorenzo Fiore si accomodò alla sua nodosa scrivania in pino e porse occhio al notebook, ora impegnato a mostrare in controllata alternanza alcune stupende inquadrature sexy della briosa soubrette tarantina Rossella Brescia. Fervido ammiratore del periodo dadaista e surrealista come pure della fantascienza anglosassone più creativa e anticonformista, Lorenzo celiava spesso riguardo all’eventualità di scrivere un libro su un argomento assolutamente insensato, per esempio l’origine psicogena della morte per investimento da frammento di satellite spia precipitato nell’atmosfera, oppure in alternativa la biografia fittizia di un viticultore delle Langhe cui esseri alieni provenienti dal sistema stellare di Zeta Reticuli avessero donato la sorprendente capacità di raccogliere da sé tutta l’uva dei suoi stessi campi in meno di cinque minuti cronometrati – per poi gustare a scrocco il suo vino novello. Esisteva già sul suo computer portatile un abbozzo di incipit scritto poco tempo addietro al ritorno dalla decimillesima baraonda (il cui titolo provvisorio era: Fiammifetente Piemontese Imbastardito ella otte), ma una spranghetta carogna e le pressanti incombenze dell’esistenza avevano prematuramente inaridito quel farneticante rigagnolo letterario. Sarebbe stato per la prossima megasbronza. Quella mattina l’appartamento di Lorenzo si presentava come e probabilmente peggio di una colonia extramondo abbandonata su un pianeta prossimo a essere incenerito da una supernova: stoviglie sudice auto-replicanti secondo il principio di Von Neumann, grumi grigio sporco brulicanti di entomotteri, portacenere traboccanti di pessime sigarette marziane fumate a metà. Paradigmatico celibato interstellare. Oltre la portafinestra della camera da letto, raffiche turbinanti di vento e pioggia sporca di polveri sottili sferzavano senza la minima compassione i tettucci delle autovetture parcheggiate giù nel decadente cortile del condominio e i rami degli alberi piantati nella spelacchiata aiuola interna, che andavano ripopolandosi di timide foglioline verdi. Era una primavera eccezionalmente piovosa. Lorenzo bevve l’ultimo sorso di tè affatturato e posò la tazza vuota accanto al computer, poi artigliò il mouse estinguendo in uno sfrigolio di pixel le toniche curve della poliedrica ballerina pugliese
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e spostò il cursore sull’icona “Pedro” facendovi doppio clic sopra: qualche istante di brontolii risentiti del disco fisso e la finestra del World 2000 si spalancò sul testo alla cui trasposizione in italiano egli stava lavorando dalla fine di gennaio: Almodóvar e altre storie della movida di José Chavarri. Ma ben presto gli fu chiaro e splendente come la Stella Polare che la giornata sarebbe stata scarsamente fruttifera dal punto di vista lavorativo. Nonostante l’assunzione della pozione energetica e l’usuale draconiana sessione mattutina di auto-shiatsu, Lorenzo continuava a sentirsi come un bradipo amazzonico immerso in un barile di bitume. Per disparate motivazioni, prima fra tutte la sua incorreggibile vocazione ai baccanali, quella traduzione gli stava risultando particolarmente impervia. Teoricamente, avrebbe dovuto consegnarne la prima bozza entro la seconda settimana del mese di maggio prossimo venturo: in pratica, era nel guano di pellicano fino al collo. Molto meglio il catrame brasiliano! È che quando hai il bioritmo a puttane tutto ti riesce di peste. In tal caso la regola aurea da seguire sarebbe di mollare tutto non appena l’attività che stai svolgendo determini in te un vago senso d’inquietudine. Datti una mossa, prendi un caffè o una bibita possibilmente non ghiacciata e vai a fare una passeggiata; lo stacco, quantunque breve, è rigenerante e rende poi il lavoro più proficuo, sostengono gli esperti del viver sano e bene. E allora, preso atto che dopo un’ora e venti minuti era riuscito a interpretare e rivedere la miseria di due paragrafi, Lorenzo salvò e sprangò il file, spense lo scassaminchia elettronico con una ditata proditoria e scappò sotto la doccia. Dra Francis Sandow, la mia giornata lavorativa finisce qui: hasta mañana! In meno di mezz’ora fu pulito, profumato e vestito come un uomo che non deve chiedere mai. Prima di uscire sotto la tormenta spese un minuto abbondante a rimirarsi nello specchio appeso in fondo al corridoio. “Ahò, ma quanto so’ gaiardo” si apprezzò romanescamente. Poi passò a parodiare il linguaggio da rubrica-sito per cuori solitari: “Lorenzo Edoardo Fiore, traduttore e redattore editoriale free-lance. Trentadue anni compiuti da pochissimo, un metro e settantanove centimetri per settanta chili di peso, scapolo, agnostico, anarchico, bruno di complessione, capelli moderatamente lunghi, curatissima estetica postmoderna, direi attraente malgrado i tratti patibolari. Contattatemi all’indirizzo elettronico guanodiikky@lorenzofiore.it. Astenersi cunze col birignao, diessine, aspiranti troniste e fanatiche di Gigi D’Alessio. Ciao ciao, doppia immagine nello spazio. Vado a farmi un giretto.”
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Lorenzo pranzò con un trancio di pizza al prosciutto prionizzato e funghetti messicani e una pinta di birra chiara calda come urina di rinoceronte africano in uno sgabuzzino infognato nella cambusa di un transatlantico di vetrocemento sovrastato da un cielo che pareva il cervello di un malato di Alzheimer. Poi per scrollarsi di dosso la sonnolenza post-intossicazione mandò giù un caffè (grigio sporco, bollente, sapore di tetracloruro di carbonio) e si concesse una corta peregrinazione per negozi d’abbigliamento. Comprami, ti farò cuccare come Tiger Woods, irradiava suadente nel subeterico un giaccone di tela blu in stile golfista esposto in un’ampia vetrina. “‘Un frutto dice mangiami, l’acqua dice bevimi, il tuono dice abbi paura di me, la donna dice amami’, scriveva lo psicologo gestaltista Kurt Koffka nel 1935. Non c’è che da aggiornare tale teoria all’epoca del mercato globale” ironizzò Lorenzo. “E di conseguenza rivedere il concetto relativo alla donna dal prisma della soggettività. Exempli gratia Giada De Blanck, la cui faccia da suola di scarpe pare emanare senza tregua il messaggio: prendimi a schiaffi, pischello!” Un’intima risata. Qualche miliardo di neutrini più tardi, centellinando rhum nero cubano in un bar ammorbato dalle ciance anglofiliche di executive briatoriani, gli sovvenne con rammarico che prima di scappare da casa non aveva impostato il videoregistratore sulla puntata odierna di Vivere. Secondo Lorenzo, la celebre soap-opera trasmessa da Canale 5 era talmente orrenda da essere perfino entusiasmante; aveva fatto proprio il concetto di altro da sé mediatico espresso dal critico televisivo Aldo Grasso. Poco prima delle feste di Natale, nel corso di una rimpatriata universitaria propulsa da galloni di Oban, si era lanciato finanche a redigere una lettera a canalsoap.com in cui suggeriva l’epurazione di Edoardo Montanarini in favore del suo quasi-sosia Fabio Galante, pedatore di non eccelso talento ma in compenso incallito tombeur de femmes: Egregi Autori di Vivere, Il sottoscritto Lorenzo Fiore si pregia di sottoporre alla Vs. cortese attenzione un canovaccio di sua ideazione che potrebbe generare come minimo altre duecento puntate della Vs. favolosa soap-opera. Dunque: Riccardo Bedettini viene inviato in Colombia da Tele Espansione per investigare su un misterioso ritrovamento archeologico, ma la vecchia bagnarola a eliche autoctona precipita nella selva poco prima dell’atterraggio a Boyacá. Non essendo stato rintracciato dalla squadra di soccorso, il prestante giornalista comasco viene dato per morto disintegratosi nella terribile esplosione successiva all’impatto, ma in
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verità si è salvato trascinandosi fuori dalla carcassa in fiamme giusto in tempo. Malconcio, sragionante, affamato, Riccardo Bedettini arranca per giorni nell’insidiosa foresta subtropicale fino a cadere esausto di fronte ai cancelli della hacienda di Don Filippo – un missionario laico italiano che aiuta i cocaleros a riconvertire le piantagioni di eritroxilacee al caffè. Guarda caso, il tizio è un ex chirurgo plastico di fama internazionale che a suo tempo, preso da una crisi di coscienza, aveva abbandonato il bisturi e le agiatezze della vita capitolina per il machete e i giacigli di paglia, sotto la continua minaccia della febbre tifoide, la leishmanosi e le Farc. Nella hacienda di Don Filippo Riccardo Bedettini viene curato con metodi quanto mai alternativi quali intrugli di anaconda e cataplasmi di tenia solium; nondimeno presto si ristabilisce, anche se la sua faccia sembra un melone su cui un tapiro ubriaco abbia ballato una giga. Ciò naturalmente lo precipita in uno stato depressivo così profondo che non vuole più tornare in Italia. Immaginate: Come reagirebbe la mia adorata Francesca se mi vedesse in questo stato? Qualora mi rifiutasse, credo che potrei uccidermi! Allora Don Filippo, rimasto profondamente colpito dalla rettitudine morale del giovane reporter, dopo lunga e sofferta riflessione decide di mettere nuovamente mano agli strumenti chirurgici, sebbene non possa ricomporgli gli stessi identici lineamenti… Avrete già capito dove voglio andare a parare, vero? Nell’attesa di ricevere Vs. notizie a stretto giro di posta, Vi porgo distinti saluti e sinceri auguri di buon lavoro. Lorenzo Fiore
Non ricevette alcun riscontro. Villa Amoretti fu progettata e fatta costruire nel lontano 1760 da Benedetto Alfieri e Nicolis de Robillant, due alunni del celebre architetto siciliano Filippo Juvarra, nell’area dove già esisteva una commenda; per quanto riguarda il nome della stessa, pare accertato che il capostipite fu un tale abate Giambattista Amoretti, originario di Oneglia e trasferitosi a Torino a metà del 1600. Vi si accede sia nella parte anteriore sia in quella posteriore mediante una scala a doppia rampa con eleganti balaustre in pietra. Nell’Ottocento passò ai conti Rignon, i quali ne ridisegnarono il parco. Nel 1970 il Consiglio Comunale deliberò l’acquisto della villa e del parco stesso; negli anni successivi fu effettuato un primo intervento di restauro con la profonda ristrutturazione di diversi ambienti. Nella primavera del 1977 fu inaugurata la Biblioteca Civica Villa Amoretti. In tempi recenti l’edificio è stato nuovamente ristrutturato con l’ammodernamento della splendida Arancera – costruita negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento come ricovero invernale per le
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piante di agrumi – e la costruzione del nuovo Padiglione, una struttura moderna di oltre seicento metri quadri in cui è stata sistemata tutta la documentazione libraria. Sei giorni su sette alle quattro e venticinque del pomeriggio, puntuale come un cronometro svizzero costruito da un orologiaio autistico, si presentava in biblioteca con un bastardino malinconico al guinzaglio un quarantenne trasandato, claudicante, occhialuto e mezzo calvo dall’aria svanita: era Aurelio Gallina, soprannominato ‘lo scemo della biblio’. Sopportato con rassegnata condiscendenza dalle climateriche bibliotecarie e dalla maggior parte degli studenti di lungo corso, Aurelio faceva sempre il giro pastorale dei banchi aspettandosi e in genere ottenendo un cenno di saluto da tutti. Ciò nondimeno Lorenzo aveva con lui un rapporto alquanto conflittuale, forse perché si ricordava fin troppo nettamente della sua precedente release di spacciatore d’erba e ipnotici spilorcio e burbanzoso, prima cioè che un trip lisergico dell’orrore gli costasse una cospicua quantità di neuroni a specchio riducendolo nelle attuali, farfuglianti condizioni. Sempre per la serie “generazione di sconvolti”, di tanto in tanto si facevano vedere nei paraggi anche alcuni veterani dell’eroina con le vene ormai incartapecorite e le transaminasi a livelli esosferici. All’ultimo stadio, sbarellavano con qualsiasi cosa, compresi certi demenziali intrugli di sciroppo per la tosse e anticongelante per automobili. Non era evento raro vederne uno vuotare lo stomaco sui marciapiedi intorno al parco. Secondo la graffiante opinione di Lorenzo quelle pozze di vomito multicolore erano autentici esempi di arte povera con ascendenze espressionistico-informali; qualche settimana prima, poco fuori del muro di cinta della villa, si era imbattuto in una riproduzione quasi fedele di un celebre quadro di Karel Appel, Tête de soleil. La natura che imita l’arte… Lorenzo sfilò davanti al banco dei prestiti e quasi all’istante il brillantino al lungo naso siciliano di una bibliotecaria gli rammentò che entro pochi giorni avrebbe dovuto restituire Sabbie Mobili di John Brunner. Una storia affascinante e molto ben scritta, tra le migliori del celebre scrittore inglese. “Se voi trovaste in un bosco una bellissima ragazza nuda ed ella vi raccontasse con uno strano accento di provenire dall’anno 12.000 dopo Cristo, come la prendereste? Ma nella posizione del loto, è chiaro!” La risata che gli sfuggì dalle narici per quel motto di spirito boccaccesco generò un’occhiata severa nella nasuta impiegata comunale, ma Lorenzo non se ne curò. E perché mai avrebbe dovuto? In quel padiglione tutti gli studenti tenevano la vibrazione del telefono al massimo del volume! Bzzz Bzzz Bzzz. Sembrava un alveare di api elettroniche.
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Quasi al centro del padiglione erano state collocate quattro file di poltroncine foderate di seta grigia attorniate da tre scaffalature in teak talmente basse che costringevano l’utente in cerca di libri ad accosciarsi o a spericolate torsioni della colonna vertebrale: quasi la parodia gutenberghiana di uno spazio chill-out discotecaro. Un’asta della U era dedicata a Giochi e Sport, Musica e Cinema. Lorenzo si sedette sui talloni e con sguardo smaliziato passò velocemente in rassegna la fornitissima sezione cinematografica fino a identificare una monografia su Sam Peckinpah: estrasse il volumetto con un movimento pacato e si mise a proprio completo agio per leggerlo. Il californiano Sam Peckinpah era il prodotto di un misto di sangue irlandese e gallese, oltre che di antenati originari delle isole della Frisia e finalmente di sangue pellerossa. Aveva perfino il sangue di due tribù differenti. Di una, i Paiute, andava particolarmente orgoglioso perché era una tribù di indomiti guerrieri: dell’altra molto meno, tanto che neppure voleva pronunciarne il nome, poiché, sempre a suo dire, si trattava di ”volgari mangiatori di cavallette”. Per quanto riguarda i suoi rapporti con le donne, aveva le idee estremamente chiare: “Ci sono due tipologie di femmine: quelle che hanno la costanza di seguirti anche se ti allontani da te stesso, e le gattine in calore. Io personalmente rispetto e rendo omaggio alle puttane, a tal punto che ho vissuto con alcune di loro.” “Ma tu guarda, la pensava esattamente come papà Melchiorre” constatò Lorenzo provando una puntura di nostalgia. Certamente era una rara avis, diciamo pure un pazzo scatenato. Quando si presentò alla Fox per trarre Osterman Weekend dalla novella Il Caos Omega di Robert Ludlum, di cui aveva acquisito personalmente i diritti cinematografici, i produttori misero subito le cose in chiaro: “Vogliamo che lei sappia quello che pensiamo riguardo alla sua maniera di fare cinema. A nostro avviso, lei è un criminale. Tuttavia, un criminale con un mucchio di talento.” Fuori dell’edificio continuava a piovere a catinelle. Una bruna slanciata e fresca come un fiore passò attraverso il book detector montato all’ingresso e si diresse risolutamente verso il privé in una sinfonia di tacchi alti pervenendo allo scaffale Pittura. Anch’essa fu costretta ad accosciarsi e così facendo le si evidenziò sui pantaloni aderenti di pelle nera lucida la curva del sedere, ariosa di gioventù e fitness quotidiano. Occhieggiando il tanto decantato sorriso della vita, Lorenzo non poté fare a meno di chiedersi a quale tipizzazione peckinpaniana appartenesse quella leggiadra creatura femminile: essendo in vena di magnanimità, scelse la prima. Buscadero dal cuore d’oro.
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Il traduttore estinse scrupolosamente il mozzicone di spinello nel portacenere, si distese sul divano, afferrò il telecomando e lo accese verso il televisore a 46 pollici con retroproiettore, stereo, tecnologia giapponese, uno sfizio per borghesi danarosi che si era tolto l’anno prima grazie a una rilevante vincita al Lotto. Premendo macchinalmente il bottone ‘programma’, perlustrò i settanta e fischia canali, incluso quelli ancora da sintonizzare che trasmettevano soltanto statico. Una fanciulla bionda dai lineamenti siberiani, vestita solamente di un paio di lunghi guanti bianchi di pizzo, giocherellando libidinosamente con un telefono cellulare; un bietolone paonazzo in maniche di camicia presentando le auto più convenienti della settimana; un agghiacciante videoclip di Britney Spears; una milizia sciita inneggiante alla Guerra Santa contro gli invasori americani in un quartiere polveroso di Najaf; un perturbato in camicia hawaiana e occhiali con la montatura di corno asserendo di essere stato sequestrato dai troglodiani, una razza umanoide che vivrebbe sotto la superficie terrestre, per provare a fecondare le loro femmine rese sterili dalle radiazioni di un arcaico conflitto nucleare caucasico che li costrinse a rifugiarsi nel sottosuolo; una curvacea attrice di soap-opera dissertando sulla fondamentale necessità della bellezza interiore; lo scosceso cratere marziano Gusev fotografato dalla sonda Spirit; la cronaca differita di una partita di Champions League; un reportage gossiparo su Naomi Campbell e il suo ultimo flirt pariolino; un telefilm con Shirley McLaine più antico delle statue di Rapa-Nui; una discesa incontenibile di Kakà lungo la fascia destra; una magnificazione del lifting rinfrescato di Silvio Berlusconi; un’altra russa, meno fornita ma perfino più puttanesca della prima, impegnata in un metodico ditalino; la reclame anfetaminica di un vogatore; un’altra bambola pop prefabbricata dimenandosi seminuda sotto un fascio di stordenti raggi laser; la stessa attrice di prima confessando candidamente all’intervistatore di non far sesso da più di dieci mesi; decine di canali sfrigolanti come manciate di formiche ai ferri celanti messaggi in codice dalla Nebulosa di Orione che forse non riusciremo mai a decifrare. Infine, stufo di puntare il controllo remoto contro lo schermo manco fosse il trycorder del capitano Kirk, Lorenzo si trattenne su Fuori Orario, Cose (Mai) Viste, ma quasi subito fu costretto da un bisogno impellente a poggiare l’apparecchio per terra e scappare in bagno. Di ritorno al salotto, sprofondò fuso come una mina nel divano tale quale Peter Gabriel nel video di I Don’t Remember, a suo sindacabile parere la più bella canzone del suo terzo album solista.
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Il programma cominciò con una scena tratta da un film hard. Christopher Clark superò silenziosamente l’uscio di una casetta di campagna. Lì stava Monica Orsini, scalza, i capelli biondi raccolti in una crocchia, con indosso un paio di short tagliuzzati e una striminzita maglietta bianca che le lasciava il ventre tornito all’aria. Stava scrivendo qualcosa su un’agenda, riempiendone un foglio con una calligrafia minuta e regolare. Il fusto la circondò con le braccia da dietro, nello stesso movimento alzandole la maglietta a scoprirle i seni turgidi; lei, estasiata, libidinosa, sensuale, socchiuse gli occhi, lasciò cadere la penna e voltò languidamente la testa verso di lui per farsi divorare la bocca e tutto il prevedibile resto. Frrr, schermo usurpato da un’inquadratura a mezzo busto di Melba L’Ausonia. L’immagine era stata trattata con un lieve effetto di posterizzazione per conferirgli un compiaciuto tocco arty. La manierata presentatrice, reginetta dei tarocchi televisivi, portava una T-shirt bianca con una scritta in rosso: SUCK IT TO ME. “Non posso proprio perdonarla, Melba” disse una voce fuori campo, filtrata da un ricevitore telefonico. L’inquadratura scivolò prontamente su una finta rossa procace dalle labbra rigonfie di collagene e lo sguardo più torbido del Mekong così splendidamente descritto da Marguerite Duras in L’amante. Costei sembrava più divertita che afflitta dal frangente. Molto probabilmente l’avevano ingaggiata in qualche spelonca capitolina per soli uomini con la promessa di farla diventare una starlette del piccolo schermo, in cambio di tre-quattro spompinate settimanali con tutti i crismi. “Dovresti, Gennaro, dovresti, ascolta me” ribatté Melba in tono condiscendente. “No, Melba, non posso proprio perdonarla a quella zoccola bocchinara!” scattò Gennaro, accendendosi. “Ehi ehi ehi, piano con gli insulti” lo ammonì severamente la presentatrice, mentre lo scarlatto oggetto del desiderio arrovesciava gli occhi stracarichi di eyeliner. “Che spasso” commentò caustico Lorenzo. “Scommetto che ’sta buttana ha girato un film porno e il tonno è venuto a saperlo dagli amici, i quali ovviamente prima di dirglielo si sono guardati e riguardati il videotape almeno una ventina di volte scompisciandosi alla faccia sua. O almeno così i bastardi dei mediavendoli vogliono far credere a quei quattro-cinque milioni di cercopitechi intossicati di pixel che giornalmente si attaccano a questo pattume catodico.” “Io non la voglio vedere più a quella troia succhiacazzi!” ribadì sbraitando Gennaro, incacchiato a tutto gas o simulando abbastanza bene di esserlo.
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Mentre la melliflua, plasticosa Melba L’Ausonia rampognava ancora il cornuto telefonico probabilmente fittizio per il linguaggio scurrile e l’assoluta mancanza di cristiana comprensione, Lorenzo si rollò alla svelta un altro zampirone. Non gli dispiaceva fondersi per cavoli sui, principalmente in certi fine settimana uggiosi dove non valeva proprio la pena uscire da casa. Risatine ebeti solitarie, gianduiotti a volontà e il mondo a sghimbescio. “L’orgasmatron è una realtà. L’inventore è un serio chirurgo della North Carolina, Stuart Meloy, specializzato in trattamento del dolore. La sua nozione per trattare il dolore di una donna per un disturbo degenerativo al disco si è trasformata in un’imbarazzante scoperta allorché, applicando degli elettrodi lungo la spina dorsale per individuare e neutralizzare i fasci nervosi che trasferiscono il segnale della sofferenza fisica, ha sentito la donna esclamare in maniera impetuosa e, a suo dire, inconfondibile. Colta l’occasione al volo, Meloy ha costruito infine la sua macchina per l’orgasmo, consistente in piccoli elettrodi applicati sui punti giusti della spina dorsale e collegati a un minuscolo pacemaker. L’apparecchio si applica sotto la pelle, ma finora non ha ottenuto molto successo.” È soltanto una questione di marketing, dottor Meloy. Vada da Oprah Winfrey, o qua in Italia da Maurizio Costanzo, e vedrà che come per incanto le vendite del suo orgasmatron saliranno alle stelle. “John Harmer è un avvocato dello Utah che combatte il porno da quarant’anni. Le donazioni alla sua Lighted Candle Society servono a pagare l’accesso a un macchinario per fare la magnetic resonance imaging (MRI), cioè la mappatura dettagliata del cervello. Questo strumento è stato utilizzato in passato per studiare gli effetti della televisione e delle immagini violente sull’organo del pensiero. Harmer sostiene che la visione delle immagini a luci rosse genera reazioni chimiche all’interno del corpo paragonabili agli effetti della droga. Secondo lui le immagini sessuali sono una erototossina, poiché vederle provoca il rilascio nel corpo umano di adrenalina, testosterone, oxytocina, dopamina e serotonina (porca troia!). È un cocktail di droghe che colpisce l’utente, perciò la pornografia è uno stimolante enorme. In genere i pornodipendenti sono persone sole, senza attività sociali, sovente depresse, o con bassi livelli di testosterone. Queste persone sono egosintoniche, ossia hanno una risposta fisica piacevole e gratificante senza ansia da prestazione.” E allora viva il mio venerdì egosintonico! Il mio nome scritto con sassi di serotonina in una piana del Grande Deserto Salato…
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Poi sullo schermo comparve Deborah Harry. Doveva trattarsi di una scena tratta da Videodrome, poiché la cantante dei Blondie era bruna, nonché sottile come un giunco. Deborah, o meglio il suo conturbante alter ego Nicki Brand, sussurrò qualcosa che Lorenzo non riuscì ad afferrare. Forse un invito provocante: Vieni da me. Dopodiché vennero le sue labbra ben disegnate in primo piano, si gonfiarono sporgendosi all’esterno, mentre tutto l’apparecchio televisivo nipponico pareva trasformarsi in un organismo vivente e carnoso. Allora Lorenzo Flower, per pura mimesi cinefila esasperata dal tetraidrocannabinolo, scivolò adagio sul pavimento e, gattonando, si avvicinò con la bocca allo schermo, ma proprio nel momento esatto in cui stava per congiungersi a quelle ripiegature pulsanti elettro-membranose l’immagine cambiò nuovamente e lo strafatto traduttore si ritrovò a baciare Platinette.
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Panta rei, tutto scorre, e per Lorenzo giunse il momento tanto temuto: il briefing ‘definitivo’ in casa editrice sul testo narrante le intrepide gesta creative di Pedro Almodóvar negli anni tumultuosi della transizione spagnola. Un momento storico che Gorka, un suo buon amico basco, aveva lapidato in un accalorato dopotavola biscaglino: “La transizione fu una presa per i fondelli. Un finto cambio per lasciare in fondo tutto com’era. Si ascoltavano cazzate immani come: un flusso d’idee trasgressive darà luogo a una società differente. E tu vai e te la bevi.” E giù un putiferio di repliche indignate da parte degli altri commensali a cui il traduttore torinese si era mantenuto rigorosamente neutrale, sorseggiando il suo patxaran endrinas con freddezza nietzschiana. La Fuoco Sacro Edizioni aveva sede in Lungo Po Antonelli, proprio di fronte ai Murazzi del Po. Come al solito Lorenzo vi si recò affidandosi a un traballante mezzo pubblico, vuoi per motivi economici, ma più di tutto perché il semplice pensiero di dover affrontare in automobile il traffico mattutino del centro città, tra cantieri sempiterni e conducenti nevrastenici e civich egomaniaci affamati di contravvenzioni come lupi nei boschi nordici d’inverno in agguato dietro ogni fottuto angolo, bastava a provocargli violenti spasmi allo stomaco. Non che l’autobus fosse il massimo della vita… Sebbene un pletorico sticker avvisasse i passeggeri che l’uso del telefonino a bordo era severamente proibito, sembrava lo stesso di stare nel bel mezzo di un rave party. Nondimeno, le sporadiche conversazioni offrivano importanti spunti di riflessione sociolinguistica: – Sai, Mary, l’altro giorno ho visto Eva Herzegovina.– – Chi? – – Ho detto Eva Herzegovina, cazzo. La modella! Quella che sta con quel figo della Madonna che è qui della collina di Torino. – – Aaah! Vorrai dire Eva Herzigowa. – – Eccola lì, Mary. E io che minchia ho detto? – – Hai detto Herzegovina, Jessica. È uno stato della Russia.– – Ma non era della Cecoslovacchia? Massì, che importa. Tanto sono tutti uguali ’sti zingari.– Comunque Lorenzo era di umore nerissimo, per l’imminente intemerata e un estratto conto effettuato in banca di buon mattino. Quindi ricorse a un collaudato espediente di pura marca joyciana per allontanare le paturnie: l’apertura delle cateratte psichiche.
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“Il non-musicista è tecnicamente del tutto incompetente ma dotato di genio creativo. A questo proposito si pensi a Ron Asheton degli Stooges, chitarrista virtualmente analfabeta ma il cui stile free-form ha influenzato legioni di musicisti anglosassoni dal 1969 in avanti. Bravo Ronnie, tu sì che ci stai dentro! Per quanto riguarda l’opera musicale in sé, essa deve essere composta in tre fasi: concezione del pezzo, interpretazione da parte di strumentisti individuali, questi sì forniti di un equipaggiamento tecnicomusicale, e manipolazione finale dei nastri da parte dell’autore. D’accordissimo. Io sono un DJ. Tessiture sonore nella mia testa. L’ago nell’occhio del cammello. Gran gatta elettrica facendo le fusa. Morphing e iridi d’opale. Quel geniaccio di Adrian Belew…” – Ho letto su Chi che prima di conoscere quel bonazzo da delirio Eva è stata sposata col batterista dei Bon Jovi. – – Quello alto un metro e venti coi tacchi e il naso a patata? – – Sì, Mary, quello lì, appunto. Tico o Rico o Fico Torres, che stracazzo ne so. – – Cazzarola, Jessica. Certo che ce ne sono di coppie strane nel mondo. Guarda solo quel nanerottolo di Maurizio Costanzo e Maria De Filippi, o viceversa Valeria Marini e Vittorio Cecchi Gorizia… Minchia, ma Fico per dare un bacio a Eva che cosa prendeva, lo Shuttle? – “…Nel 1975 Eno pubblica Another Green World, un’opera dove gli strumenti musicali sono dosati in modo da accendere al massimo l’immaginazione, trasformando gli spunti più innocenti in deliri metafisici. Per inquadrare l’anno in una sorta di prospettiva cronologica, va ricordato che nel 1975 i Led Zeppelin pubblicarono il doppio LP Physical Graffiti, mentre i Queen videro la loro Bohemian Rhapsody capitanare le classifiche dei singoli in Gran Bretagna per nove settimane consecutive; a New York i corpi dei gemelli Marcus, danarosi ginecologi newyorchesi di sangue yiddish, furono ritrovati pieni di eroina, scomposti e abbracciati, in un appartamento di Manhattan. Oy vey. Monoliti di cristallo in una landa desolata. Mi piacerebbe molto che Cecilia Roth fosse qui con me: faremmo sit shiva in omaggio ai due rampolli ebrei. Mia diletta Sexilia…” Una brusca frenata del veicolo in prossimità della sua fermata lo riportò alla dura realtà. Jessica, la ragazza Herzigovina, cadde e rimbalzò sul pavimento con le chiappe tonde. Qualcuno sacramentò in sanscrito dai sedili in fondo. Qualcun altro reagì di prammatica: “E impara un po’ a guidare, pezzo di cretino!” Tempo dopo, sorseggiando il secondo stomachevole intruglio andino della mattinata in una pur rinomata caffetteria di Piazza Vittorio, Lorenzo considerò che se realmente noi siamo il sogno di
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qualcun altro, come l’immenso Borges ebbe a scrivere in Le rovine circolari, allora il suo sognatore necessitava quanto prima di una poderosa mazzata sulla cotenna. L’ufficio di Carlo Pelamatti, direttore editoriale della Fuoco Sacro Edizioni, offriva un manifesto tributo alla fase cosiddetta ‘a scacchiera’ di Mondrian. Le sue pareti, dipinte di un anodino color guttaperca, erano infatti costellate di composizioni pittoriche il cui leitmotiv era l’alternanza variabile di quadrati e rettangoli bianchi e colorati. Lorenzo aveva sempre ritenuto che tale arredamento non fosse stato scelto soltanto per meri motivi estetici, dacché, sempre secondo i criteri della psicologia gestaltica, quelle riquadrature effondevano palesemente la programmatica ricerca dello stile del Pelamatti: cioè, la suggestione del giusto approccio alla professione editoriale. Rigore e ragionamento. D’altro canto, ogniqualvolta egli s’introduceva in quella stanza, una stravagante reminiscenza di microlame affilatissime e laser chirurgici in agguato gli colava tra le meningi. The Pelamatti Cube. Il Pelamatti era al momento occupato in una delle sue peculiari telefonate-Mississipi, ma Lorenzo aveva ben poca voglia di fare anticamera nel corridoio, tantomeno di decantarsi per la stanza dei bottoni per ammazzare l’attesa scambiando quattro parole con gli ‘interni’, giornalmente impegnati a vessare le tastiere dei loro Macintosh in un festival di schiarite di gola e reiterati colpi di tosse da eccesso di nicotina e lamentele ringhiate a denti stretti. Come male minore, optò per compiere il suo moto d’ingresso nell’ufficio Mondrian. Si andò ad accomodare sulla poltroncina girevole di fronte alla scrivania del ciarliero direttore, pulcra e ordinata come l’armadietto di un ferreo sergente istruttore dei Berretti Verdi, disponendosi ad aspettare più o meno pazientemente il proprio turno. Non appena lo vide il Pelamatti gli rivolse un fugace cenno di saluto, poi tornò a blaterare di tirature a basso costo e normazioni ortoeditoriali fallaci col suo interlocutore. Passato un certo periodo lo sguardo di Lorenzo si inchiodò su una macchia Rorschach di caffè in bella mostra sulla porzione di moquette ai suoi piedi. L’aveva già adocchiata nel corso del loro precedente incontro, eppure perdurava. Ciò gli parve molto strano, conoscendo il suo pollo. Trascorse un’intera era geologica prima che Logorrea Pelamatti conducesse a termine la conversazione; il capoccia della Fuoco Sacro Edizioni era un lungagnone dalle mani sottili e ben curate, testa piccola a forma di fragola rinsecchita, capelli color antracite spessi come gomene e occhi giallognoli incavati nelle orbite
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cadaveriche. Indossava un principe di Galles marroncino attillato sopra una camicia bianca con cravatta rossa. Pareva egli stesso un quadro di Mondrian. Prescindendo comme d’habitude dalle formalità, il Pelamatti disse: “Questo è un mondo davvero strano, signor Fiore. Ho appena letto su una rivista di cinema che al principio degli anni ottanta la frequentemente deprecabile Hollywood tentò di persuadere David Cronenberg a dirigere Beverly Hills Cop, Top Gun e perfino Flashdance. Non le sembra assurdo?” Lorenzo inarcò un sopracciglio. Era tipico del Pelamatti iniziare qualsiasi discorso da molto lontano, così come gli antichi romani solevano partire dall’uovo come antipasto per terminare con la mela; da qui la conosciuta espressione latina ab ovo, usque a mala. Palloso. “Si, effettivamente lo è” convenne il traduttore. “E immagino pure cosa ne sarebbe scaturito nel caso il regista canadese avesse accettato! Eddie Murphy che va in bagno per le abluzioni mattutine e guardandosi allo specchio scopre di essersi trasformato durante la notte in un caucasico più bianco della mozzarella Pettinicchio. Tom Cruise che fa l’amore col suo F-16 Fighting Falcon penetrando una delle sei canne rotatorie del cannone M61A1 da 20 millimetri. Jennifer Beals che fa volteggiare gli scaldamuscoli con un chiodo di otto centimetri di ferro galvanizzato piantato nei lobi frontali.” “Lei ha citato Jennifer Beals a proposito, signor Fiore. Quando s’incontra una donna attraente, non si bada ad altro che alla sua confezione esterna… Ciò nonostante, se ella fosse rivoltata come un guanto, tutti quanti proverebbero disgusto. Ciò è quantomeno stravagante, non trova? Non siamo ancora in grado di accettarci nella nostra totalità.” “Noi esseri umani siamo nati per non accettare, contrariamente a tutte le altre creature viventi del nostro pianeta” osservò Lorenzo, rassegnandosi poi a incassare il definitivo passante lungolinea da quel clone malriuscito di Ivan Lendl. “Proprio così, signor Fiore. Difatti, quello che io non posso accettare è che alla data di oggi lei sia ancora in alto mare con la traduzione del libro di Chavarri sulla movida madrilena.” Il tono di voce del direttore si era repentinamente indurito. “Quando l’altro ieri ho ricevuto e letto il suo file, le giuro, non potevo credere ai miei occhi. Novanta pagine, sacripante. Soltanto novanta pagine.” Ecco qua. Game per Ivan Pelamatti. “Sono desolato” mormorò Lorenzo, sciorinando una parvenza di dispiacere. “Desolato.” Il Pelamatti pronunciò quella parola con gran disgusto, come avendo appena masticato un acino d’uva acerba. “Desolato. Desolato un accidente! Novanta miserande pagine su
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quattrocento in tre mesi e lei ha ancora la faccia tosta di venire qua a prendermi per i fondelli. Diamine! Andando avanti di questo passo a luglio saremo, anzi mi correggo, sarò ancora qui a farmi il sangue amaro con Pedro Almodóvar, Alaska e gli stramaledetti Pegamoides.” “Ho avuto dei contrattempi, signor Pelamatti.” Il Pelamatti pareva sul punto di sboccare sulla scrivania. “Che specie di contrattempi… uno sciopero dei grossisti di rhum añejo?” Il Pelamatti appoggiò le palme sulla scrivania e si sporse in avanti piegando leggermente la testa da una parte. “Guardi che io sono perfettamente au courant delle sue inclinazioni dipsomaniache, signor Fiore. Ma fino all’inverno scorso esse non avevano mai pregiudicato la buona qualità e la puntualità di consegna dei suoi lavori.” Lorenzo scattò. “Francamente sono sbalordito, dottor Pelamatti. In parole povere, lei mi sta dando dell’ubriacone.” “Assolutamente no. Dizionario Garzanti alla mano, il termine dipsomania significa ‘desiderio morboso di bevande alcoliche’” chiosò Pelamatti. “Oddio, se non è zuppa è pan bagnato! In ogni caso grazie molte, a lei e a quel delatore che si prende la libertà di venirle a riferire gli scabrosi particolari della mia vita privata; oltretutto mi sembra di aver inteso chi è, e giuro che me la pagherà salata. Per quanto riguarda i miei cosiddetti vizi, invece, le prometto che appena uscito di qui telefonerò agli Alcolisti Anonimi: può darsi che ultimamente abbiano istituito delle sedute speciali per operatori editoriali avvinazzati…” “Non faccia del facile sarcasmo, signor Fiore!” Ora il Pelamatti era davvero furente. “Guardi che non ci metto nulla a toglierle il lavoro e affidarlo a un altro traduttore, sa? La pagherò per quanto di poco ha fatto finora e buonanotte.” Lorenzo si trattenne dal controbattere quella minaccia, poiché sul momento si scatenò nella sua testa un turbinio kantiano di immagini smagliate ma oltremodo eloquenti: solleciti di pagamento ammonticchiati sul tavolo della cucina, frigoriferi desolatamente semivuoti e fette di pane raffermo intinte in una ciotola di latte freddo come unica forma di sostentamento… “Ciò nonostante,” soggiunse allora il Pelamatti in tono più blando “dato e non concesso che lei rimetta giudizio, voglio lo stesso offrirle un’altra possibilità, e sia ben chiaro che è l’ultima. Voglio, anzi esigo che lei mi consegni il resto del libro tradotto entro il 2 giugno, anziché l’originario 15 maggio.” Lorenzo, subitamente rinfrancato dalla relativa magnanimità del Pelamatti, impugnò la racchetta e lanciò la palla in alto per servire
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una prima coi controfiocchi che facesse girare il match dalla sua parte. “La psicoplasmica è una tecnica che consiste nel cercare di spingere i malati a dare un’espressione fisica alla loro rabbia incosciente.” Il Pelamatti rimase basito. “Ma… che diavolo sta blaterando, Signor Fiore?” balbettò. “Non si preoccupi” ghignò leggermente Lorenzo con un’alzata di spalle, drizzandosi in piedi. “Sono solo citazioni. Lei riceverà le sue trecento e dieci pagine entro il limite. Parola di Jack Barron. Au revoir, dottor Pelamatti.” Detto ciò, se la svignò trotterellando dalla scacchiera.
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Nelle immediatezze della più importante stazione ferroviaria di Torino, Porta Nuova, lungo entrambi i lati di Corso Vittorio, hanno proliferato recentemente un discreto numero di birrerie decorate a imitazione d’idealizzate taverne irlandesi. In alcune di esse vi è installato perfino uno spillatore originale di Guinness, invece della marca succedanea di turno dal sapore gommoso; ma solamente il Paddy Maloney Irish Pub possiede un rubinetto della varietà Draught Guinness, dotata di un corpo particolarmente intenso e una spuma così densa che vi si può disegnare sopra il tradizionale trifoglio irlandese, lo shamrock, mediante il preciso movimento del bicchiere da 0,568 litri sotto il sottile e scuro getto di birra. Proprio questo gaio e frequentato locale fu la scelta di Lorenzo per la tradizionale uscita mensile con l’amicone Sebastiano. Sebastiano Rocchi, 33 anni, una statua greca in carne ed ossa, aveva lavorato fino a poc’anzi come buttafuori nel circuito dei locali sabaudi più in voga. Però un giorno, stufo marcio della fauna degenerata che appestava quelle tane (gestori alcolizzati dissanguati dalle vampiresche richieste economiche delle ex consorti e della ’ndrangheta, pierre infognate di cocaina, spacciatorucoli brufolosi e zamarroni di periferia attaccabrighe) e desideroso di imprimere una qualsivoglia svolta alla propria esistenza, il bellissimo Seba aveva risposto a un annuncio della Punto G Video, famosissima casa produttrice torinese di film a luci rosse: OFFRIAMO A GIOVANI PRESTANTI E MOLTO DOTATI LA POSSIBILITÀ DI UN IMPIEGO NEL CAMPO DELL’INTRATTENIMENTO PER ADULTI. MASSIMA SERIETÀ E OTTIMA RETRIBUZIONE. ASTENERSI PERDITEMPO MALEDUCATI TOSSICOMANI E MINGHERLINI COMPLESSATI AFFETTI DA DISFUNZIONI ERETTILI.
Superato a pieni voti il provino con la splendida ‘esaminatrice’ ungherese Olivia Missoni, Sebastiano era diventato in breve tempo la new big thing (in senso altresì anatomico) del porno tricolore con il nome d’arte di Seba Rock. Alcuni si sbilanciavano perfino a definirlo “l’unico vero erede di Rocco Siffredi”. “Lorenzino bello, ho da darti una splendida notizia” annunciò Sebastiano alias Seba Rock, mentre tornava a lasciare la sua pinta sul tavolo dopo il primo assaggio. “Ho comprato casa. Entro due settimane avrò già traslocato.” “Semplicemente grandioso” opinò Lorenzo, mandando giù un sorso a sua volta. “Prezzo e situazione dell’alloggiamento?” “Praticabile il primo e a stento decente la seconda, però va benissimo così, era un passo che dovevo assolutamente fare. Non
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potevo vivere in affitto per sempre, men che mai quando la tua padrona di casa è una scassacazzi baciapile che sparla di te a destra e a manca.” “Ciò nonostante la tua pecunia non olet.” Lorenzo prese un altro sorso di birra nera, veramente deliziosa. “Cuore in paradiso e portafoglio all’inferno, decreterebbe qualcuno.” “Senz’altro un genio dei nostri tempi. La cosa più divertente è che ’sti cosiddetti buoni cristiani magari non pagano le tasse, però quanto a scagliare il primo macigno sul prossimo non ce n’è per nessuno! Che ipocriti. Se stiamo a vedere, il mio è un lavoro come un altro.” Lorenzo fece lo scettico. “Andiamo, Sebino mio! Non è proprio come battere lastre di metallo in un’officina meccanica o, come nel mio caso specifico, tradurre verbose futilità … però è senz’altro più dilettevole. Almeno credo.” Sorrisi. “A proposito,” riprese Lorenzo “con chi e cosa stai girando ultimamente? Se si può domandare, è ovvio.” “Nessun mistero” sorrise Sebastiano crollando le possenti spalle. “Essendo il mio migliore amico, hai diritto all’esclusiva. Purché che tu tenga la bocca chiusa a doppia mandata.” “Sarò più muto di Buster Keaton, amico.” “Eccellente. La prossima settimana vado a Budapest per girare un film porno sull’11 settembre.” “Come sarebbe a dire?” “E’ stata tutta un’idea di quello svalvolato di Vittorio Mozart, il mio produttore” proseguì imperterrito Sebastiano. “In buona sostanza la vicenda, se così possiamo definirla, si svolge sul primo aereo – quello che si schiantò contro la Torre Nord. Ovviamente in angolazione licenziosa. Hostess insaziabili che si lasciano perforare in ogni orifizio nella toilette dai kamikaze prima che essi prendano il controllo del velivolo, l’agente fuori servizio dell’FBI superdotato (io, naturalmente) che rimane ucciso nel vano tentativo di sventare l’attentato suicida... insomma, avrai capito.” “Bella robaccia lercia! Scommetto venti euro che il tuo capo lo intitolerà proprio Le Torri Gemelle, per sfruttare al massimo il doppio senso fra i grattacieli newyorchesi e i membri virili dei dirottatori… e il tuo.” “Cazzarola, ci hai azzeccato! Sei davvero perspicace, Lorenzo” riconobbe Sebastiano con uno scintillio malizioso nei rari occhi cerulei. “Più che altro sono sconcertato da paura” ammise il traduttore. “Insomma, si possono ancora tollerare puttanate come Tettanic o Sexgate o Messalina orge imperiali, ma questa è davvero una
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bestialità senza ritegno, cazzarola. Come diavolo sperate di farla franca? Come minimo vi piomberà addosso l’Interpol a neanche due giorni dall’inizio delle riprese.” “Tu pensi? Io credo di no. Perfino quegli integerrimi funzionari di polizia guardano i nostri film, sai? Per giunta, sono tra i nostri più fedeli clienti. Vizi privati e pubbliche virtù, Lorenzo. Sarò anche un ex buttafuori e un eiaculatore a comando, ma qualche libro lo leggo anch’io, fra una performance erotica e l’altra. Vivere soltanto di scopate alla lunga ti rimminchionisce.” Lorenzo tacque e si fece assorto. Pochi giorni addietro su un canale privato, a tarda sera, aveva visto un dossier filmato sulla così chiamata ‘tosse di Ground Zero’: quella particolare forma d’asma che colpiva tutti coloro i quali erano rimasti esposti alle polveri generatesi dal crollo e dalla combustione ad altissime temperature dei materiali che componevano i due edifici squassati dagli aerei. In particolare, era rimasto toccato dalla vicenda personale di un vigile del fuoco di origine ebraica. “Sono sempre stato forte come un toro” raccontava l’uomo con le lacrime agli occhi. “Prima dell’attacco alle Twin Towers riuscivo perfino a sollevare l’avantreno del mio fuoristrada come fosse di polistirolo. Adesso, quando mi prende una crisi respiratoria, ho paura che la mia mano non arrivi fino al tavolino dei medicinali per prendere quello stramaledetto spruzzatore.” Per maggiore ignominia, il servizio svelava che i rapporti sul tasso di inquinamento dell’aria di Lower Manhattan erano stati taroccati a dovere dall’Environmental Protection Agency (l’ente nazionale di protezione ambientale d’oltreoceano) su istruzione della Casa Bianca, per riaprire quanto prima le contrattazioni alla Borsa di Wall Street – rimasta chiusa nei giorni seguenti l’attentato per la sua prossimità con il World Trade Center. Col risultato che migliaia di persone erano tornate al lavoro in condizioni ambientali totalmente intollerabili per la salute umana. Robaccia da manicomio criminale, aveva commentato Lorenzo scrollando la testa, intensamente indignato. Com’è possibile che il governo americano metta a repentaglio la salute di migliaia di cittadini in nome della fottuta economia globale? Ma che gli dice la testa a quel vaccaro petrolifero di Dabliu Bush? A chi cazzo sta reggendo il gioco? E perché quel popolo di rincretiniti dalla tv via cavo e dai trigliceridi continua a votarlo manco fosse il salvatore della patria? Come se non bastasse adesso un registucolo depravato con la pappagorgia pur di lucrare quattro soldi fradici di sborra non si fa alcuno scrupolo a calpestare il ricordo di centinaia di vittime
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innocenti. Allora è proprio vero, l’umanità si sta de-evolvendo in modo irreversibile. Jocko Homo… “Non pensavo di mandarti in crisi. Porca miseria, nemmeno io sono propriamente entusiasta di questo soggetto, ma alla fine sono pagato per avere orgasmi davanti a una macchina da presa, non certo per ficcarmi in un ginepraio di discussioni sull’opportunità etica della tal cosa piuttosto che un’altra. Per farla breve, vado, ci do e torno. Fine della storia. Yu-uh, Lorenzo, torna sulla terra!” Lorenzo si capacitò di non aver spiccicato parola per un bel lasso. “Oh… scusa… rieccomi nel mondo reale. Lungi da me farti la morale, amico mio. Anzi, ti confesso senza vergogna che in un recente momento di crisi ho pensato anch’io di presentarmi alla Punto G.” “Mi stai prendendo per i fondelli?” “Assolutamente no. Odino mi è testimone.” “Dài, sarebbe da urlo primigenio che io e te recitassimo… cioè, ci esibissimo insieme! Quasi come tornare ai vecchi tempi, quando pompavamo insieme Letizia Desiderà sul letto matrimoniale dei miei genitori, vecchio nerchione!” Sebastiano allungò un braccio e diede un paio di energiche pacche sulla spalla di Lorenzo. “E perché no. Combinazione, ho saputo poco fa da fonti molto degne di fede che la nostra disinibita ex bambolina gonfiabile sta attualmente lavorando alla Rai di Roma in qualità d’assistente alla produzione di un programma sportivo. Come minimo l’avrà data a mezza Saxa Rubra.” “Questo è poco ma sicuro.” Seba Rock tacque per un istante. “Domanda a bruciapelo: sei stufo del tuo impiego?” “Ebbene c’hai azzeccato, caro il mio trapanatore bassoventrale” ammise Lorenzo con un sospiro. “Ne ho le palle piene e grandi come mappamondi. Ma che accidenti di vita sto facendo?! Fatture e bollette da pagare come fosse il diluvio universale, scazzi con uno spaventapasseri di direttore editoriale che mi ritiene un alcolizzato, residenza in un condominio di minorati mentali. Poi, dulcis in fundo, fanno sei mesi non puccio il biscotto. Che ne dici, basta?” “Madre mia santissima, sei una catastrofe antropologica! Ho capito, la prossima volta che ci vediamo porterò con me Olivia Missoni. Quella lì ti risucchia via i malumori come un’idrovora, garantito!” “Eh eh eh. Promesso?” “Parola di Inseminator 3.” I due amici si diedero un cinque. E ordinarono altre due birre scure, che tra una risata e l’altra finirono presto. “Il bicchiere della staffa?” propose Lorenzo.
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“Mmm” tentennò Sebastiano. “Domani mattina dovrei alzarmi di buon’ora…” Per istinto, guardò l’orologio. E sul suo bel volto abbronzato artificialmente sbocciò un’espressione sbalordita. “Che il diavolo mi porti, sono già le due e un quarto!” “Stai cazzeggiando, Seba. Passi che quando sei in eccellente compagnia il tempo trascorre svelto, ma non possono essere passate più di due ore da quando siamo entrati qua. Il tuo cipollone deve avere qualcosa che non va.” “Il cipollone, tanto per la cronaca, è un Patek Philippe nuovo di zecca” replicò il pornodivo con scherzoso risentimento. “Vediamo piuttosto che cosa ci dice il tuo Sector dell’Uovo di Pasqua.” “Sta bene, Lord Brummel.” Lorenzo si accigliò abbassando lo sguardo. “Dunque, secondo il mio infallibile oriolo siculo-svizzero sono esattamente le…” Due e diciassette minuti primi. “Ma… ma… però… cazzo, è impossibile” farfugliò incredulo il traduttore. “Ripeto, è assolutamente assurdo.” D’impulso, richiamò ancora l’attenzione della ragazza dietro al bancone: “Ehi, scusami, per caso hai l’ora esatta?” La giovane barista fece un rapido cenno d’assenso e consultò lestamente il suo Swatch. Poi aggrottò la fronte, borbottò qualcosa d’indecifrabile, si grattò la sommità del capo rasato e finalmente replicò: “Caspita, io faccio le due e diciassette minuti del mattino. Eppure fino a poco prima ’sta baracca segnava le undici e quaranta, lo giuro sulla Madonna. Che cavolo, ho ritirato i bicchieri e i sottocoppa qua sul banco, dopo ho guardato l’ora e che Iddio mi strafulmini se non era mezzanotte meno venti. Vabbe’ che il tempo vola, ma così è troppo!” Seguendo una sensazione captata sulla frequenza dell’inconscio collettivo, Lorenzo si alzò di scatto lasciando Sebastiano a bocca aperta e corse fuori sul marciapiede. I battenti della porta interna del locale bascularono cigolando alle sue spalle come in un vecchio film western. Di fianco all’entrata del Paddy Maloney sotto l’acquerugiola insistente un piccolo assembramento di ragazzi spagnoli, quasi sicuramente studenti Erasmus, stava discutendo animatamente: – Joder, chicos, però qué coño está pasando con los putos relojes? – – i idea, Paqui. Y es que aquí en Italia todo funciona una puta mierda. Me cago en el calvo de Berlusconi. – – Y en el llorón de Aznar, no te jode. – – Descarado, chaval. –
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Lorenzo rise di gusto. Qualunque cosa fosse successa al tempo, gli spagnoli rimanevano il popolo pi첫 simpatico al mondo.
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“I miei riferimenti sono l’estetica pop degli anni sessanta, prima che si complicasse con la trascendenza hippy-orientalista,” spiegò Pedro Almodóvar aggiustandosi l’orlo della tunica di plastica rosa sulle gambe non depilate “il glam, David Bowie per anni, e Gary Glitter sempre. Le New York Dolls. Alcune comiche spagnole, come Josele Román e María Luisa Ponte. I film di Luis García Berlanga, Warhol o Morrissey. Joe Dallesandro e tutti i travestiti, da Holly Woodlawn a Divine. Grandi fallimenti commerciali, ma di tendenza, come Barbarella, Casino Royale e Modesty Blaise. Russ Meyer… Vixens, Supervixens e Beyond The Walley Of The Supervixens. Gracita Morales, Morgan Fairchild. Serie televisive, anche se a dire il vero non sono mai stato un appassionato del tubo catodico. E naturalmente John Waters, Female Trouble e Pink Flamingo.” Lorenzo apprezzò. “Eccellente, Pedro. Nonostante la notevole differenza d’età tra noi, ci piacciono quasi le stesse cose. Resta chiarissimo che non io ho la benché minima idea di chi sia Gracita Morales, ma presto o tardi colmerò anche questa lacuna.” Uno sciame di bolle di sapone iridescenti gli passò davanti agli occhi. Allungò un dito e ne toccò una a caso, dissolvendola in uno sbuffo argentino. Ehiiiii… “Per quanto concerne le serie televisive, potrei far girare tutta la collezione in Dvd di UFO nel lettore finché gli occhi non mi si sciolgano in una pozza di umori. Ehi, lo sapevi che nello Stivale alcune scene furono tagliate poiché, essendo la serie trasmessa la domenica alle cinque del pomeriggio, si riteneva potessero impressionare i bambini? Cose tipo il tenente Gay Ellis in bikini di lurex o Fraser che fa il filo alle impiegate della Shado. Come sono cambiati i tempi! Oggigiorno, trent’anni e passa dopo, accendi la tele alla medesima ora e ti becchi il perineo di una ballerina in primissimo piano.” “Bueno, foss’anche il cavallo rigonfio di un aitante giovanotto mediterraneo non sarebbe poi tanto male!” Risero entrambi. “In ogni modo, l’avanzata del deserto culturale sembra irrefrenabile. Guarda Madrid, per esempio. Ai miei tempi – ovviamente, mi riferisco all’epoca della movida – era una città sicura, divertente, accogliente, nottambula, libertina ed enrollá. Oggigiorno è ostile, indifferente, supponente, impersonale e impoverita culturalmente. Calcio, automobili, un’interminabile riqualificazione urbana e fiumi d’inchiostro versati sulla sgallettata in carica che ha fatto un bocchino a David Beckham tra una seduta dall’estetista e l’altra. Una cultura totalmente regressiva.”
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Lorenzo prese un profondo respiro dimenandosi sulla sdraia di marzapane. “Sai, Pedro, prima che il flusso Rem mi trascinasse qui nel tuo studio onirico stavo errando per la Kurfürstendamm con una bolla di plasma pulsante nel basso ventre. Dopo un po’ arrivai a un locale chiamato Die Schwartze Katze e senza indugio vi entrai. Il posto era piccolo e molto discreto. Quasi subito attaccai bottone con un’entreneuse chiamata Christa: bionda, pallida, distante, stava seduta a gambe accavallate su uno sgabello bevendo champagne e fumando. Aveva una bella voce roca che usava con precisione, ma più di tutto fui attratto dalla fatalità con cui buttava fuori il fumo della sua sigaretta. Le dissi: ‘Può essere che il tempo stia andando a pallino.’ Lei commentò: ‘Wunderbar. Così potremo giocare a biliardo tutti i giorni.’ Le chiesi se avesse mai provato a cantare e lei mi spiegò che tempo fa una maga le aveva predetto che un giorno sarebbe volata a Londra per registrare un disco di tributo a Nico con Alan Moulder. Più in là, senza falsi pudori né reticenze, mi raccontò la sua vita prima di entrare a lavorare in quel postribolo. Intanto io sgranocchiavo pistacchi e uvetta e di quando in quando richiamavo l’attenzione del barman affinché lei non rimanesse mai a secco. Al sesto o settimo calice le domandai: ‘Du liebst mich?’ E Christa, senza sciogliersi dal suo verfremdung, mi rispose: ‘Ya’. Così, mano nella mano, uscimmo da quel lupanare, prendemmo un taxi fino a una misera e sordida pensione in un quartiere popolare semidistrutto dai bombardamenti e finimmo a rotolare sul letto di una stanza fredda e umida come la notte all’esterno, sotto la luce tenue di una lampadina di non più di venticinque watt, mentre ogni maleodorante stambugio di Berlino Ovest ardeva all’unisono di piaceri inconfessabili.” “Mi sa alquanto di rimasticatura hardcore dell’Angelo Azzurro” commentò Pedro con garbata ironia. Nello stesso tempo il colore della sua tunica mutò dal rosa shocking al verde acquamarina; i cromatofori sparsi sulle pareti della stanza percepirono prontamente il mutamento. “Ma non mi dispiace. Non è un delitto citare le proprie fonti d’ispirazione per nome e cognome. Io stesso m’ispirai a La luna di Bertolucci per girare Labirinto di passioni. Sexilia, la giovane protagonista, odia il sole perché lo identifica con suo padre. Nella sua infanzia, suo padre le usò violenza in un giorno soleggiato. Come risultato di quel trauma, Sexilia preferisce la notte ed è ninfomane. Parecchie signore dell’alta società hanno simile scheletro nell’armadio, appeso a una gruccia insieme con le gonne di Narcizo Rodriguez, i vestiti da sera di Oscar De La Renta e i blazer di pelle di Katayone Adeli. Que se vayan a la mierda. Il Libro del Tempo si dimenticherà completamente di loro.”
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“Il Libro… del Tempo?” “Sì, Lorenzo, corazón. È giunto il momento che tu lo conosca. Hasta luego, bel figaccione.” Le sue labbra finsero un bacio… e Lorenzo si ritrovò col didietro per terra in un deserto rossastro tiranneggiato da un cielo verdognolo pressoché sgombro di nubi. Nessun rilievo all’orizzonte. Succedaneo Onirico di Marte. Marte Uovo Di Lompo. Si udirono le prime note dimesse di una canzone che Lorenzo riconobbe istantaneamente. “Kingdoms Of Rain di Mark Lanegan, dal suo secondo album solista.” Si alzò in piedi. Non gliene fregò niente dei pantaloni sporchi di sabbia ferrosa. “Invero molto appropriata, complimenti: in questo postaccio non deve piovere da almeno un milione di anni! Suppongo che adesso dovrei mettermi a trapanare frammenti di roccia in cerca di fossili, come un ersatz antropomorfo della sonda Opportunity.” Poi il suo innato sarcasmo sbollì ed egli cominciò ad accettare la mistica della situazione. In fin dei conti aveva sempre sognato di visitare altri pianeti, benché il suo anelito recondito fosse di essere portato via in una torrida notte d’estate da una luce bianca pulsante proveniente dal cielo come succedeva all’erratico optometrista di Mattatoio 5, Billy Pilgrim. Non certo la propulsione al bacio fotonico manchego. “È meglio che mi dia una mossa. Montana Wildhack mi sta aspettando al termine di questa desolazione, nuda come mamma l’ha fatta e in piena crisi isterica da teletrasporto coatto. Voglio consolarla con una buona dose di tronchetto della felicità.” Figuriamoci: la sua astinenza sessuale doveva perdurare perfino in sogno! Effettivamente, Christa mica se l’era trombata: era stata soltanto una storiella per deliziare le papille gustative del regista spagnolo. Lui era vir bonus dicendi peritus, un bravo ragazzo che te la sa contare. Camminò e camminò, ma della spogliarellista vonnegutiana nemmeno l’ombra delle sue mutandine blu ghiaccio di pizzo. In compenso, mostricci a strafottere: gatti persiani a quattro teste e sei zampe, suricati imbellettati e ammiccanti come superstar di Andy Warhol, guanachi che rassomigliavano pericolosamente a Osama Bin Laden; la cosa più donnesca che incontrò fu uno scarabocchio di Antonia San Juan con un enorme fallo argenteo brancusiano. Scambiò un frettoloso hola con lei/lui e uno sguardo in cagnesco con tutti gli altri. Giunse finalmente a una specie di foresta di monoliti vetrosi, simili a enormi zaffiri che fossero stati conficcati in ordine sparso nel terreno bruno da uno scultore xenomorfo con un’evidente fregola per Eduardo Chillida. Il bisbiglio alcolico di Mark Lanegan
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venne sgominato dal tumultuoso funky simil-Prince Supermassive Black Hole dei Muse. Be’, sempre meglio dei Village People… “Le citazioni sono sintomo d’amore” declamò ironico Lorenzo trascinandosi verso il monolito più vicino con gli stivali imbrattati di ruggine e licheni asmatici. Era lievemente opaco e lo sovrastava di due spanne buone. Lo toccò con una mano. L’oggetto reagì emettendo una sonora pernacchia elettronica e illuminandosi d’azzurro. Poi una voce femminile dolciastra come zucchero filato in un luna-park di periferia disse: “Ciao, Lorenzo. Io sono il Libro del Tempo.” “Molto lieto.” “Piacere mio, Lorenzo. Toccami ancora, e ti dirò tutto quanto desideri sapere.” “Cazzo, la lista è lunga come la quaresima. Non saprei neppure da dove incominciare. Massì, banalità: Amanda Lear è una donna o un uomo?” Fece per sfiorare il cristallo luminescente, ma quel bastardo brufoloso del Montatore Onirico gli sforbiciò il sogno senza misericordia. Niente di nuovo sul fronte occipitale.
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“In un’attualità sociale dove le imprese licenziano i dirigenti e dopo neanche un mese tornano a metterne sotto contratto alcuni al 60% dello stipendio che percepivano prima di essere buttati in mezzo a una strada a calci e pernacchie, deve essere piuttosto arduo sbarcare il lunario” opinò Giuseppe, il fratello gemello di Lorenzo, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. “Chiaro che lo è, tomo” replicò il traduttore trattenendo a stento uno sbadiglio. “Così come fa girare parecchio le nespole che i bilancini del nostro ufficio postale, quello a due passi dallo Stadio Comunale, pardon Olimpico, ti ricordi?, siano stati predisposti in modo tale da indicare un peso superiore anche di quaranta grammi rispetto a quello reale della stramaledetta corrispondenza che vuoi spedire. E stendiamo un sudario immacolato sul nostro splendido apparat cittadino, il quale oltre a subissarci di rotonde surrealiste e voragini divisioniste ha pure la faccia come il posteriore di un elefante di spacciare un toblerone elettrificato come ‘metropolitana all’avanguardia europea’: trenta milioni e rotti di euro di deficit d’esercizio, non so se mi spiego. Ma come fai a essere così ben informato sui fatti e misfatti della tua ex patria sabauda?” “Che domanda, Lorenzo. Leggo i quotidiani on-line. Talvolta telefono o scrivo a qualcuno dei miei vecchi compagni d’università. So già cosa stai pensando…” “E ti pare così anormale, fratellino dizigote? Come potrei non detestare uno come Massimo Pfister, che si pippa gli stipendi dei dipendenti della ditta paterna?” “Ma in fondo, be’, molto in fondo è un pezzo di pane. Oddio, il suo figlioletto Kevin è talmente sballottato fra la famiglia paterna e quella nomade incallita di sua madre che un mesetto fa ha chiamato papà lo zio Ettore… però Massimo non è poi così scentrato come sembra, credimi.” “Come no. Lenisce le sue mancanze come genitore con il Tai Chi e la fattanza scientifica.” Giuseppe tacque. Neanche lui era un’anima candida. Conosceva anche troppo bene lo sballo gassato e tracotante della cocaina. Ma da quando si era trasferito in California non ne aveva più fatto uso. Teneva troppo al proprio cervello e alla stima di Lorenzo per fottersi ambo le cose, neanche a buon mercato. In cuor suo, si rendeva ben conto che le frequenti pungenti allusioni di Lorenzo alla deboscia dei vari Mario Rebaudengo di Vattelappesca e Jaki Cordero di Nonsoché, passate attraverso il decodificatore della sua coscienza, generavano un solo, nitido e
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forte messaggio: amici o no, non diventare mai come loro. E lui, malgrado la propria connaturata suscettibilità, ne aveva fatto e continuava a farne tesoro. Non per niente, dopo aver conseguito il Master in Ingegneria Chimica al Caltech, aveva colto al balzo l’offerta d’impiego di un prestigioso laboratorio di Pasadena. “Non ti arrabbiare, fratellino” lo ammansì Lorenzo, telepatico per vincoli di sangue. “È che fondamentalmente sono una bestia.” “Sì, un cinghiale dei Pirenei con la pancia piena di lombrichi. Comunque adesso vorrei passare al vero autentico motivo della mia telefonata: il lapse temporale. La CNN ne ha parlato diffusamente, ma, ecco, volevo ascoltare anche la tua opinione.” “Sono lusingato per il credito che mi attribuisci, hermano. Pure, avrei poco o niente da aggiungere al riguardo.” Con il cordless appiccicato all’orecchio, Lorenzo si spostò dal vestibolo al salotto. “Tranne la mia esperienza drugo-soggettiva, obviously” aggiunse, scalciando le pantofole e cadendo di schiena sul divano. “Dunque mi trovavo con Sebastiano Rocchi al pub Paddy Maloney di Corso Vittorio, quando…” “Scusa se t’interrompo: Sebastiano Rocchi detto anche Seba Rock? Il famoso attore porno?” “In glande e prepuzio, fratellino. Lo conosco da una vita, sai? Tuttavia mi pare non vi siate mai conosciuti.” “Difatti è così. Chissà come mai. Comunque, si dà il caso che giusto l’altra sera lo abbia visto in azione su un canale satellitare a casa di un mio collega. Be’, devo riconoscere che al suo confronto i pinnacoli delle Petronas Towers di Kuala Lumpur sembrano degli stuzzicadenti!” “Già. Le Torri. Tornando a bomba, intanto che il sottoscritto e Seba dibattevano briosamente sulla funzione sociologica della pornografia, tutti gli orologi in un raggio di circa venti chilometri dal centro geografico di Torino sono scattati ex abrupto in avanti di due ore e trentasette minuti primi, come se qualcuno o qualcosa avesse inferto un vigoroso colpo d’acceleratore al tempo. Ciò nonostante il qui presente – e il resto della popolazione – non abbia avvertito alcuna stravaganza fuorché la discrepanza d’orario. Come Rod Taylor quando viaggiava sulla sua vittoriana macchina del tempo in L’uomo che visse nel futuro, ti ricordi che splendida trovata? Il sole sorgeva e tramontava sul lucernario nel tempo di un respiro, il giardino fioriva in modo ridolinesco, e il manichino esposto nella vetrina del negozio di fronte smetteva nevroticamente il modello di Paul Poret per vestirsi via via di Coco Chanel, Balenciaga, Yves Saint-Laurent, Mary Quant, Vivienne Westwood e poi ka-boom, il fungo atomico e fine della civiltà umana come la conosciamo!”
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“Ho un vaghissimo memento di quel film. In ogni modo, dovrà pur esserci una registrazione del fenomeno o almeno dei suoi effetti collaterali da qualche parte.” “Ma di quali effetti del kaiser vai cianciando, Giuseppe? Un fattone da vinicola per studenti alternativi che tampona la vettura ferma al semaforo davanti a sé perché l’inatteso cambio d’ora sul suo cruscotto digitale l’ha tetanizzato? Oppure un picco di crimini notturni che, stando alle fonti ufficiali d’informazione, non si è verificato? Magari una serie infinita di transazioni informatiche abortite: vai con la prossima, Jerry! Oltre a ciò, i tecnici dell’ARPA hanno appena dichiarato ai media di non aver riscontrato alcun agente estraneo nell’aria della nostra beneamata Turin. Beato chi ci crede, noi sì che ci crediamo. Come prosegue non me lo ricordo. E almeno finora non è stata raccolta alcuna rilevante testimonianza di pendolari o corrieri o equipaggi o fai un po’ tu rimasti, per così dire, pizzicati a metà strada nel corso dell’evento. In buona sostanza, Torino ha perso quasi tre ore della sua storia mentre il resto del mondo marciava imperturbabile verso la decadenza. Vedremo se fra nove mesi avverrà un’ondata di nascite di bambini biondi con una strana espressione negli occhi e il potere di far volare il ciuccio in bocca a mammina.” “Ossignore, speriamo di noi” ridacchiò Giuseppe. “Sicuramente,” concluse Lorenzo grattandosi le parti basse “questo mondo di rimbambiti catodici non dovrebbe essere troppo difficile da conquistare per un’intelligenza aliena superiore alla nostra, ammesso che non l’abbiano già fatto anni o perfino secoli fa. Forse la Endemol Produkties è un avamposto degli Arturiani.” “Ho come l’impressione che l’evento non ti abbia stravolto più di tanto” appuntò Giuseppe. “Ma che dici? Sono eccitato, anzi eccitatissimo; se è vero che l’infrastruttura spazio-temporale sta mettendo in scena il sequel di Frankenstein liberato, potremmo assistere a eventi straordinari. Tipo Caterina II la Grande che si materializza proprio qui, nel mio umile salotto, completamente nuda e bramosa di far sesso con Lorenz Fiorovich, il nerboruto traduttore cosacco.” Giuseppe scoppiò in una risata argentina. “Sei totalmente fuori, Lorenzo. Deviando dall’argomento, ma neppure tanto, mi sono lanciato come un furetto nella lettura di Dal Big Bang ai buchi neri di Stephen Hawking.” “Accidenti. Non c’era qualcosa di meno heavy da comprare in libreria?” “Tipo quelle futilità avant-pop per cui sbavi tu, come Impronte di denti su un hot dog? No, grazie. Io volevo qualcosa che fosse autentico nutrimento intellettuale”
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“Per tua norma e regola, negli ultimi vorticosi tempi mi sono riconsegnato alla science fiction degli anni sessanta, purchessia di qualità sopraffina, beninteso. Ma dimmi, Giuseppe, non stai più uscendo con quel pezzo di fregna serbo-asiatica di Alisha, vero?” “Effettivamente, ci siamo concessi una pausa di riflessione.” Suonava così Verissimo da smascellarsi, ma Lorenzo non volle infierire. “Ma tu come cazzo fai a saperlo?” “Intuito, hermano. Soltanto intuito.” Giuseppe emise un mugugno. “Mettiamola così. Ehi, Lorenzo, hai mai sentito parlare della seconda legge della termodinamica?” “Certamente, e più di una volta. Nondimeno, avrei bisogno di un piccolo ripasso.” “Per servirti.” Giuseppe raccolse brevemente le idee. “Orbene, già saprai che l’entropia è una proprietà fisica che calcola il grado di disordine di un sistema. È risaputo che, se si lasciano le cose abbandonate a se stesse, il disordine tende ad aumentare.” “Niente di nuovo sotto il buco dell’ozono, collega. Mi basta vedere quanta sporcizia si è andata accumulando sotto il mio lettone dall’ultima volta che ho passato l’aspirapolvere… più o meno nel Carbonifero.” “La qual cosa significa che utilizzi molto sporadicamente le energie a tua disposizione. Se ti decidessi a tirar fuori più sovente dallo sgabuzzino il benedetto apparato e, che diamine, usarlo, ciò condurrebbe a una diminuzione dell’energia ordinata disponibile, poiché creeresti ordine dal disordine. Fino a qui tutto bene, no?” “A burro e alici del Wisconsin, precipitando dal cinquantesimo piano a testa in giù” rispose Lorenzo. Frattanto si era acceso uno spinello: hascisc afgano, questa volta. Hai visto mai. “Grandioso. Veniamo a questa vagheggiata seconda legge della termodinamica. In essa si afferma che l’entropia di un sistema isolato tende continuamente ad aumentare e che, quando si mettono insieme due sistemi, l’entropia del sistema combinato risulta maggiore della somma dell’entropia dei due sistemi individuali.” “Dlin, mi si è appena accesa una lampadina, José. Quindi sta zitto un attimo e ascolta il tuo gemellino icastico. Si ponga il caso che la mia stanza da letto sia piena di polvere, ma a un punto tale che potrei persino riempirci un materasso. Ciononostante, io non solo mi astengo stoicamente dall’aspirarla, ma addirittura spalanco la portafinestra e la porta d’ingresso della stessa camera a un tempo, lasciando così che quei globuli color pantegana si spargano rotolando per tutta la casa, come balle di sparto sulla Pampa quando soffia la bruja. E non pago arieggio la cucina, per aumentare il disordine della situazione, no?” Si stava infervorando! “Trascorso un intervallo, in un certo istante esse potrebbero trovarsi
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per caso in cucina sotto il tavolo dove consumo i miei ben poco lauti pranzi, o nel soggiorno davanti alla televisione, dato che pure gli acari vanno pazzi per il trash. Tuttavia, c’è una probabilità immensamente maggiore che si spartiscano in numero pressappoco uguale per ogni stanza. A questo livello, è evidente che simile stato è molto meno ordinato che lo stato originale in cui tutti gli aggregati di polvere si trovavano nella mia povera sozza abitazione, nevvero? Cosicché si può strombazzare ai quattro venti che la maledetta polvere ha perduto la sua entropia.” A quest’ultima febbrile affermazione seguì un silenzio quasi preternaturale. Per un lungo istante, Lorenzo ebbe il forte timore che il suo fratello gemello fosse stato letteralmente travolto da quella fiumana incontenibile di parole. Pure tutt’a un tratto si udì un colpo di tosse distorto in un phasing hendrixiano. “Tutti volevano essere come Jimi” pensò dunque Lorenzo. “Cosa c’era di più figo dell’essere un nero sexy che suonava il blues e rimorchiava qualsiasi ragazza volesse?” Finalmente, la voce nasale di Giuseppe Fiore: “Be’, cavoli… complimenti, sono davvero impressionato. Toglimi una curiosità: la tua copia di Dal Big Bang ai buchi neri è in edizione economica o ti è toccato sborsare una cifra considerevole per una prescindibile rilegatura di lusso?” “Ma che vagelli, o grullo… io non ho comprato proprio niente! Il fatto è che a notte fonda, quando mi sono rotto di menarmelo vedendo programmi dozzinali come Gnocca.Tv o Alta Tensione, nei quali peraltro non si vede mai un cazzo, eh eh eh, perché gli stronzetti ti digitalizzano le immagini in modo tale che certe sporcacciate le puoi solo immaginare, mi sintonizzo sul Consorzio Nettuno. Così poco a poco sono diventato pressoché un esperto in elettronica digitale, cibernetica e astrofisica.” “Bravo Lorenzo. Sette più.” “Grazie ancora, hermanito. Senti, pensi di ritornare all’ovile prima o poi, magari il prossimo Natale?” “Non lo so. Purtroppo, quand’anche tornassi, mi toccherebbe andare a far visita a nostra madre. In tal senso il mio granitico senso del dovere non ammette deroghe. Ma ti confesso che la prospettiva mi risulta più raccapricciante della neurocisticercosi.” “Come ti capisco, Beppe. Io, per me, ne ho rimosso perfino il nuovo recapito.” “Già. E tu, piuttosto? Quando tornerai a farti un tour per questi tersi paraggi?” Lorenzo espirò lentamente. “Chi lo sa. Al momento, mi manca il conquibus. Però non si sa mai. Anzi, i miei notevoli poteri
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medianici mi anticipano che presto vincerò qualcosa al Super Enalotto.” “Te lo auguro di tutto cuore! Intanto la California è sempre qui che ti aspetta. Sempre che, facendo corna e bicuorna e strizzandomi gli zebedei, il Big One o un’ulteriore e più perniciosa singolarità gravitazionale su scala planetaria non ci faccia sprofondare tutti quanti all’inferno.” “Il diavolo non è poi così brutto come lo si dipinge, sostengono gli adepti della frase fatta.” Lorenzo si contorse sul sofà e buttò uno sguardo torpido attraverso i vetri roridi. Pioggia, pioggia e ancora pioggia. Un clima quanto mai dickiano. Augusta Taurinorum come la San Francisco putrescente e radioattiva di Blade Runner. La mia ex moglie mi chiamava sushi, pesce lesso. Le puzzolenti colonie extramondo. I fottutissimi bastioni di Orione. Non può piovere per sempre. Orca l’oca, ma questo è un altro film… L’aquila nera? Lo sparviero bionico? Ma no, scemo… Il corvo! “Rachel Rosen, Peppino. Sai, contrariamente a ciò che mi ero prefissato, cioè vegetare su questo canapé con le piante dei piedi sudicie come Marina La Rosa del Grande Fratello 1, credo proprio che uscirò a scolarmi un paio di tinozze venezuelane in tuo onore. Un soggetto di studio in più per la sociologia delle devianze.” “Confermo, sei fuori come un colibrì!” rise Giuseppe. “La vita è un respiro corto e affannoso, mellizo. Pertanto ti mando un abbraccio dal Villaggio dei Dannati. Y hasta pronto!” “A risentirci, Lorenzo. E non fumare troppo.”
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Non può piovere per sempre. Infatti, qualche giorno dopo vi fu una effimera ma scenografica schiarita sul settore nord-occidentale. I lombrichi ripiegarono strisciando nei loro anfratti limacciosi e i canidi tornarono ad abbaiare ai joggers nei giardini pubblici. Le massaie poterono riprendere le loro peregrinazioni per i banchi dei mercati rionali senza tema di infilarsi reciprocamente le punte degli ombrelli nei bulbi oculari. Gli automobilisti taurinensi, timorosi oltremisura sotto qualsiasi precipitazione atmosferica, ripresero un po’ della loro consueta verve polemica al volante. Sul fronte politico, il Presidente del Consiglio S.B.P. fu esortato dall’opposizione a riferire in Parlamento sull’anomalia temporale ma si guardò bene dal presentarsi, contribuendo così ad alimentare la strampalata tesi del suo acerrimo antagonista secondo cui quella sera l’esercito degli Stati Uniti d’America aveva sperimentato nel capoluogo piemontese una nuovissima fiammante rivoluzionaria arma radiologica capace di ‘congelare’ momentaneamente l’attività cerebrale umana senza lasciare alcuna traccia nella memoria: con la complicità dello strafottente palazzinaro statalista e dei suoi sordidi tirapiedi della maggioranza al completo, è lapalissiano. “Eh eh eh, dalla monomania alla paranoia il passo è breve come l’orgasmo” aveva commentato un divertito Lorenzo, leggendo di prima mattina l’ampia intervista concessa dal capo dell’opposizione a un noto quotidiano a tiratura nazionale. – Tu sei una donna meschina e calcolatrice, Rebecca. L’unica cosa che ti importa nella vita sono i soldi. – – Sì, continua pure a insultarmi, Francesco, se ti far star meglio. Tanto non mi spaventi, sai? Non ho paura di te, né della sciacquetta di tua moglie, quel dottorucolo di mezza tacca.– – Stai zitta! Non dire una sola parola di più. Altrimenti… – – Altrimenti che fai… (un respiro profondo, recitazione da pelle d’oca) mi picchi? Avanti, coraggio, Francesco. Fallo. Mettimi le mani addosso...– Trillò il citofono. “Uffa.” Lorenzo si levò controvoglia dalla poltroncina di sala e andò a rispondere. “Chi è?” inquisì con un’intonazione volutamente villana, omettendo a stento il cazzo. “Sono la custode, signor Fiore. Ho una raccomandata per lei. Ce la lascio nella buca, vabbene?” “Vabbene, vabbene” approvò lui, facendole il verso. “Okkey, signor Fiore. Sempre molto gentile.”
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Gentile un cornazzo di bufalo. Quella ciospona meridionale si dilettava regolarmente ad aprire la corrispondenza altrui; giusto un lembo per sbirciare frammenti di parole e saldi bancari, ma pur sempre un’insolente becera violazione della privacy. In seguito, con la faccia come il culo da pallone aerostatico che si ritrovava, richiudeva le buste con una leggera passata di colla Pritt. Ma a Lorenzo non l’aveva mai data a bere. Cosicché una sera sul tardi aveva fatto scattare la sua personale rappresaglia: disceso giù in cortile furtivo e agile come un ghepardo delle nevi, mediante un affilato coltello da cucina aveva tagliato metodicamente tutte e quattro le gomme della Schöne Maschine orgoglio del portierato – Marea Weekend 75 Turbo Diesel Sx, 75 Kw di potenza massima, velocità 165 km/h, coprisedili in antilope, santino ormai sbiadito della Madonna del Carmine appiccicato al parabrezza con il Bostik. Il giorno seguente era stato uno spasso destinato a rimanere negli annali. La prima bestemmia della portinaia aveva lacerato l’atmosfera del cortile alle otto spaccate, l’ora solitamente in cui la stronzona abbandonava l’armamentario per le pulizie dovunque capitasse e montava in macchina per percorrere i trenta metri scarsi di asfalto accidentato che la separavano dalla sua torrefazione preferita, nella quale avrebbe consumato una colazione a dir poco luculliana con tanto di correzione liquorosa al caffè espresso. Era stata seguita da altre terrificanti esecrazioni snocciolate nell’arco della mattinata, intanto che al terzo piano dell’interno 35 scala 2 Lorenzo tasteggiava sul computer ridendo a crepapelle. Ben gli stava a quella scrofa ignorante. “I tubi dell’etere perdono” mormorò Lorenzo sgambettando giù per le scale. “Il paziente si sta risvegliando.” Dalla buca delle lettere il traduttore tirò fuori una lunga busta bianca. Tornato fulmineamente al suo appartamento la scartò con estrema cura in cucina servendosi di un cutter. Si era perso il finale della puntata del teleromanzo, ma stavolta non gliene poteva importare di meno. Il contenuto di quella missiva aveva la priorità su tutto. Spiegò il foglio sul tavolo. La carta era lievemente increspata e azzurrastra e faceva un effetto strano al tatto, come se emanasse calore. Il testo era scritto in Kaufmann, un carattere decisamente insolito per una lettera commerciale. Gentile Signor Fiore, La Parallasse Arti Audiovisive S.r.l. è molto lieta di informarLa che la sua richiesta di partecipazione al nostro annuale corso accelerato di sceneggiatura per corto e lungometraggi è stata accettata.
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“Ma è una festa ganzissima, Austin Powers!” esclamò Lorenzo, raggiante. Seguivano data, ora e indirizzo del primo appuntamento, distinti saluti e come firma uno svolazzo di ardua interpretazione. Corrado Maisto, Celestino Pagliarino, Clemente Fossatello… Fosse quel che fosse, si prospettava una splendida giornata. La sede della Parallasse Arti Audiovisive si trovava al settimo e ultimo piano di un edificio ubicato nel cuore pulsante di Borgata Monterosa – probabilmente il livello più intricato di un gioco a estrema definizione, diciamo reale come la vita stessa, chiamato Parking Ryder. L’approccio di Lorenzo non fu proprio dei migliori; dopo una pletora di snervanti serpentine, fu costretto a parcheggiare la sua Punto in un vicolo piuttosto distante dal palazzo in questione. Il prezzo del noviziato. Smontò dalla vettura e si mise a camminare speditamente, come un marciatore carente di tecnica. Tirava un’aria tagliente e il cielo si era fatto nuovamente fosco. Tutt’attorno, una frenetica ritmica di incastri di esseri umani indifferenti tra loro. Il realismo esistenziale di Renato Guttuso aggiornato all’era diazepamica dei Radiohead. Lorenzo fantasticò: “Ecco, giusto adesso quel signore laggiù coi pantaloni gialli e il giubbotto vinaccia si lascerà cadere riverso sul marciapiede. La fatalona cotonata e iperbistrata con gli stivalacci bianchi da mignotta si chinerà a chiedergli: ‘Ehi, signore, sta bene? Cosa c’è che non va?’ E lui, con lo sguardo fisso nel vuoto: ‘Non ho proprio niente che non va. Lasciami in pace.’ E Jonny Whammy Greenwood ribatterà pericolosamente le ottave.” Impiegò cinque minuti per arrivare al portone della società. Lì, con nonchalance, s’immise nella scia feromonica di una casalinga di proporzioni ciclopiche che tornava da qualche supermercato nei dintorni come una bestia da soma, trascinando addirittura sei borse di plastica colme di vettovaglie. La donnona, avendo percepito e inteso la presenza di Lorenzo come una seccatura per se stessa e il vicinato, si voltò e dopo averlo squadrato con globi oculari protuberanti dardeggianti liposomi al gas nervino, sbottò: “Che c’è, ragazzetto… hai fretta di piazzare i tuoi dannati foglietti?” “Nessun volantino, signora mia” ribatté fotonicamente Lorenzo, sfoderando il suo miglior sorriso. “Dovrei salire su fino al settimo piano. Vuole che le dia una mano con le borse?” “Aria e pedalare, rompiscatole. Non c’ho di bisogno di nessun aiuto, io. Men che mai da parte di voi i giovani, che siete la feccia delle fecce, tutti bulli impasticcati senza midollo né ossa, dal primo all’ultimo.”
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“Va bene. Mi scusi tanto.” Ma vaffanculo, grassona ignorante. “Aspetterò qui quieto che lei passi.” “Ecco, bravo, fai così che è meglio.” Data la mole elefantiaca della donna, l’attesa si protrasse per un minuto buono. Una volta superato l’intoppo, Lorenzo salì le scale a due gradini per volta. Era un vecchio stabile senza ascensore. Avendo presunto un po’ troppo di sé e dei propri mezzi fisici, il traduttore giunse davanti alla porta della Parallasse S.r.l. in patente debito d’ossigeno. Ripromettendosi mezz’ora quotidiana di jogging e un drastico taglio all’alcol per i giorni a venire diede un’energica scampanellata. Un interruttore scattò e la porta si socchiuse con un cigolio da thriller ordinario per reti generaliste. Lorenzo entrò con molta circospezione, pronto a contrastare un eventuale agguato al cloroformio con quel poco di kung fu che gli era rimasto da passate intense sessioni in una palestra vicino casa. L’uso criminale del cloroformio (ora anche il titolo di un libro) era una sua particolare ossessione risalente all’infanzia originata dalla visione de I ribelli di Carnaby Street, una brillante pellicola britannica sixties con Oliver Reed e Harry Andrews. Due giovani e scanzonati aristocratici londinesi progettano il colpo del secolo: vogliono rubare i gioielli della Corona d’Inghilterra! Ci riescono con un piano temerario che prevede, per l’appunto, un massiccio ricorso al celebre puzzolente composto le cui virtù sedanti furono pubblicamente dimostrate da Sir James Simpson d’Edimburgo nel lontano 1847. “È permesso?” domandò Lorenzo all’aria. Nessuna risposta. E neppure narcotizzatori. Nella seconda metà dell’Ottocento a New York i narcotizzatori finivano col cappio al collo dinanzi a un pubblico in visibilio: a ogni epoca il suo realityshow! Richiuse molto lentamente la porta dietro di sé, fece girare lo sguardo. E rimase stupefatto. Era entrato in un ampio monolocale il cui pavimento era completamente ricoperto di fotografie patinate di superstar e starlet del cinema, ritagli di pellicola, Urania frusti, spazzatura letteraria d’annata per adulti che ormai puoi trovare solo sulle bancarelle più fornite dei mercati di libri usati. Con infinito più criterio, i muri erano addobbati di magnifici poster a tema rigorosamente cinematografico; Lorenzo individuò subito Hiroshima Mon Amour, Taxi Driver, Pulp Fiction, Alien, La dolce vita, Blow Up, C’era una volta in America. Vi era persino una vera chicca per collezionisti: Eat Your Make Up dell’irriverente John Waters – un delirante cortometraggio in cui una banda di perturbati mentali si divertiva a rapire giovani mannequin per poi obbligarle a sfilare fino alla consunzione.
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Sopra un tavolino disposto a destra dell’ingresso scintillava un groviglio di schede elettroniche per computer, tastiere, altoparlanti, vecchie valvole termoioniche, lampadine, interruttori casalinghi, microfoni, calcolatrici a cristalli liquidi, cavi elettrici colorati, utensili per il bricolage. Nell’insieme ricordava un po’ la scalcinata radio subeterica di Alf, il buffo pupazzo alieno proveniente dal pianeta Melmak protagonista di una fortunata sit-com statunitense per cui Lorenzo si sganasciava ai tempi delle superiori: mancava solo un piatto traboccante di frittelle con sciroppo d’acero e la messinscena sarebbe stata perfetta. Ma poteva altresì rappresentare una scimmiottatura di certi fantasiosi assemblaggi della Mutoid Waste Company. “Parlapà, che sacro bailamme” commentò il traduttore dentro di sé, scuotendo la testa. “È permesso?” ratificò poi a voce alta, ottenendo come unica risposta una lieve eco. “C’è qualcuno qui o cosa?” Un’altra volta silenzio assoluto. “Ma allora chi diavolo mi ha aperto la porta?” borbottò, contrariato. Mosse due passi guardinghi su quella caricatura crocchiante di collage ernstiano, calpestando un numero gialliccio e sbrindellato di Segretissimo e un bel ritratto in bianco e nero della scrittrice Jacqueline Susann, di cui a quindici anni aveva letto Una volta non basta, un libraccio morboso che sua madre, la iauna diaboli, teneva in gran considerazione neanche contenesse rivelazioni sconvolgenti sull’esistenza umana. D’un tratto lo stanzone parve ondeggiare leggermente, come il riflesso della luna in una pozzanghera mossa da un vento leggero. Il cuore di Lorenzo balzò di paura e la sua ghiandola surrenale mandò un gemito; la provincia di Torino non era nuova a fenomeni sismici di leggera entità, però quel tremolio era innaturale… Un’ulteriore e più perniciosa singolarità gravitazionale su scala planetaria… Il traduttore indietreggiò impaurito verso l’ingresso. “Signori miei, io tolgo il disturbo prima che mi crolli in testa il soffitto della vostra Factory da quattro copechi… Avete sentito, buontemponi? Me ne vado!” E artigliò il pomello della porta… “Buon giorno.” Ferma l’immagine. Riporta indietro il nastro fino a farlo voltare di nuovo. Blocca qui e monta l’altra sequenza. Lorenzo impietrì. Un uomo era testualmente apparso dal nulla: nessun dubbio, prima non c’era! Sembrava come se fosse spuntato da qualche botola nascosta sotto la ‘moquette’, al modo di quei pupazzetti a molla del buon mondo antico. Quell’individuo era quantomeno singolare: molto più piccolo di Lorenzo, filiforme, completamente calvo, le orecchie pressoché
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inesistenti, la bocca minuscola esangue e in bizzarro contrasto gli occhi smisuratamente grandi dalle iridi sfavillanti, quasi dorate. “Io sono il signor Fenakisto” si presentò squadernandogli una mano minuta e pallida, asciutta. “Ma lei può chiamarmi Collodio” aggiunse. Indossava una specie di pigiama color viola del pensiero e scarpe da ginnastica di pessima marca. Un matto scappato da una casa di cura… “Molto… piacere” contraccambiò Lorenzo con titubanza, stringendogliela. Era più fredda di una bistecchina di maiale appena estratta dal congelatore di un frigorifero casalingo. “Lorenzo Fiore. Dove sono gli altri?” “Non ci sono” rispose con candore lo stravagante individuo. “Lei è l’unico candidato che ho ritenuto degno di partecipare al mio corso.” “Ah, molto bene” esalò il traduttore, cercando di mimetizzare il proprio stupore sotto un sorriso a trentasei denti. “Meglio solo che male accompagnato” soggiunse, con scarsa convinzione. Avrete inteso ormai che Lorenzo Fiore ama fare cerchi con la mente, con o senza l’aiuto di droghe. Dovunque e allorquando sia, a bordo di un autobus catarroso straripante d’anime snervate che non ce la fanno più ad arrivare alla fine del mese, imbozzolato nel letto mentre fuori è inverno e i lupi telepatici vanno in cerca di carne radioattiva sulla neve fresca, aspettando il proprio turno dal dentista dinanzi a una bellissima ragazza con le cosce opalescenti accavallate e la ricrescita pornodivesca, fuori sul balcone d’estate con una cerveza in mano e la paglia di tabacco nero all’angolo della bocca, lui perde contatto con la realtà lasciando che il suo grigiastro soprintendente molli gli ormeggi ballonzolando come un gavitello su un oceano biochimico mosso da ondate junghiane. Or ora immagina di rispondere alle domande di un famoso ancorché fittizio presentatore (o presentatrice, dipende dal mood del momento) nel suo seguitissimo talk-show. Sigla a ritmo di techno martellante, fiammeggianti titoli di testa, applausi moltiplicati digitalmente, carrellata sul pubblico dal congiuntivo zoppicante e poi vai con gli ospiti… Primi piani di volti femminili abilmente deturpati dalla botoina e che valga l’ossimoro, tette all’olio di colza, gambe all’aloe, ombelichi alla pappa reale, piedi al melograno. Ma ora su, rapido!, passiamo ai maschietti… Teste pelate di tendenza o chiome poliproteiche, cravattini a farfalla radical-chic, bicipiti e tricipiti anabolizzati, addominali a tavoletta maxim, pantaloni di velluto vintage, stivali di pitone teratocapitalistici, alluci valgi, gomiti del tennista…
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E Lorenzo Fiore, lo Scrittore Totale. Dategli un qualsiasi spunto e lui, il vate, ne ricaverà un saggio, un romanzo e una sceneggiatura da urlo. Una bella mente in una bella persona, neh? Quant’è figo. Il presentatore in carica, Porfirio Temperanzi, è un pinerolese di media altezza e prestanza coi capelli folti tinti di nero giaietto, gli occhi cobalto risplendente e il naso aquilino, vestito abitualmente come un oratore del Rotary Club. Now il volteggiante punto rosso si ferma in mezzo alla fronte di Lorenzo, lui sorride di rimando, è il mio turno gongola nel suo feudo interiore, sicché bisecatemi pure la ghiandola pituitaria ma parlate di me, vi scongiuro, parlatene, ho fame di riconoscimento e palanche e sete di vino d’annata e succhi vaginali. VOGLIO DIVENTARE FAMOSO, CAZZO. E il presentatore gli rivolge una lieve palpebrazione, oh oh gli ha letto la mente come un libro aperto, la vecchia volpe catodica, quindi fa subito partire la prima bordata al polonio: “Signor Fiore, ci racconti quali motivazioni esistenziali la spinsero a partecipare a quel corso accelerato di sceneggiatura.” (Temperanzi scandisce accuratamente le ultime quattro parole a beneficio dei meno istruiti. In altre parole ovviamente non riferibili all’audience: “che minchia andavi cercando… il tuo Santo Graal?”) Lorenzo pregusta le parole prima di liberarle come i fiorellini profumati di una vecchia reclame del dentifricio Binaca. Ti spunta un Lorenzo Fiore in bocca. “Primeggiava l’ambizione di elevarmi dalla mia routine quotidiana grazie a un obiettivo trascendente, signor Temperanzi.” S’interrompe sapientemente. Riprende in tono più sommesso: “Stavo perdendo la capacità di rimanere incantato di fronte alle cose. L’articolazione della mia espressione di essere umano. Desideravo fare qualcosa di realmente importante, capisce? Lasciare una pur flebile traccia nel corso della storia di questo pianeta.” “Un nobile intento, il suo. Realmente nobile. Nondimeno, in quale maniera funzionava la selezione al corso? Mi permetto di domandarglielo perché, sa, sulla formazione professionale se ne leggono e sentono sempre di tutti i colori…” “Presto detto, Temperanzi. La convocatoria della Parallasse Arti Audiovisive richiedeva in primis che l’aspirante sceneggiatore componesse un racconto a tema libero lungo al massimo tre cartelle dattiloscritte. Poi, qualora l’elaborato e quindi il candidato fosse stato ritenuto idoneo, egli avrebbe dovuto desumerne un soggetto. Lo step successivo del processo era strutturare tale soggetto in scene, dialoghi, contesti e movimenti della cinepresa, per arrivare finalmente a una sceneggiatura con fondamento.”
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“Molto interessante. Ci parli del suo racconto.” Ammicco al pubblico: mai perderlo d’occhio, trascurarlo, sminuirlo. Il pubblico è vita, come la lista di Schindler. “Bueno, ecco, si trattava di una sorta d’adattamento in chiave narrativa di Lady Godiva’s Operation, una canzone dei Velvet Underground…” “Oh, mitico. (In realtà Temperanzi ha un attimo di panico: chi cazzo sono questi Velvet Andergraun?) Scusi se l’ho interrotta, ma vorrei aprire una breve parentesi: pare che per allora lei non fosse in felicissimi rapporti col suo direttore editoriale.” “È vero. Però non mi posi neanche il problema se quel nuovo impegno potesse interferire col mio lavoro. Eh sì, devo proprio confessarle che l’incoscienza è il mio pane e companatico; fortes fortuna adiuvat, diceva quel brav’uomo di Terenzio. Perciò scrissi il racconto in una sola notte col conforto di una bottiglia di Oban e un pacchetto di Pall Mall. Duro, massiccio e incacchiato.” Grasse risate in platea, cui Temperanzi convenientemente si associa. “Notevole. Allora, Lady Godiva’s Operation. L’operazione di Lady Godiva. Dal titolo sembrerebbe una canzone tradizionale.” “Non proprio. Lady Godiva racconta di un transessuale frivolo e malinconico che decide di farsi asportare chirurgicamente il… pistolino, anche se in verità il testo fa metaforicamente riferimento a ‘escrescenze grandi quanto un cavolo nella testa’, ma qualcosa va storto. I tubi dell’etere perdono…” “Come, scusi?” Temperanzi è un pochetto in ambasce. Rapida, destra inquadratura di una parte del pubblico. Taluni sorridono, altri fanno cenni d’intesa alla telecamera ciao mamma guarda quanto mi diverto qua, altri ancora rivolgono allo Scrittore Totale uno sguardo di totale riprovazione. Le fanciulle, more solito, se lo mangiano con gli occhi. Le sue parole e i suoi gesti penetrano ed esplodono come spermatozoi all’amonal nelle loro profondità primordiali di femmine vogliose. “I tubi dell’etere perdono” insiste Lorenzo con una cert’aria sorniona. “Il medico ritrae la lama con gran maestria dal, ehm, cervello. La malata eleganza dell’accento gallese di John Cale, in contrappunto al cantato isterico di Lou Reed, esprime perfettamente il clima angosciante da vecchia sala operatoria che si respira per tutta la canzone; la quale, dopo alcuni passaggi perfettamente congegnati e graziosi, si trasforma in un autentico incubo sonoro.” “Un applauso per il signor Fiore!” sollecita Temperanzi per togliersi dall’impasse. Diamine, sarà pure un espediente andante, ma l’audience ha bisogno di sogni all’acqua di rose e vino, non rancidi incubi suburbani! E appena sfumato il fragoroso battimani:
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“Suppongo che lei si sentisse sicuro di passare la selezione, signor Fiore.” “Innegabilmente. Già molto prima di inviare il racconto alla Parallasse S.r.l. fantasticavo sugli aspiranti scenaristi con cui avrei condiviso procellose giornate d’emoglobina, madore, lucciconi intellettuali e inchiostro. Mi figuravo una simpatica racchiona i cui cassetti traboccavano d’intime confidenze, un nerd occhialuto alla Elvis Costello fanatico dei film di Paul Morrissey, l’immancabile antiglobalista con i capelli rasta e il piercing al naso e sulla lingua e la maglietta degli Asian Dub Foundation… Tipi del genere.” “E invece?” interpella insinuante Temperanzi. Lorenzo respira a fondo. “E invece niente di tutto ciò” replica con una smorfia di disappunto. “C’eravamo soltanto io e quel tipo senza orecchie. Sinceramente parlando, tutta la faccenda puzzava di fregatura lontano un parsec.” “Signor Fiore.” “Eh? Ah… dica, signor Fenakisto. Collodio” “Mi segua.” “E dove… giù in cantina, per farmi squartare?” pensò diffidente Lorenzo. In ogni modo, accondiscese. E rimase di marmo un’altra volta, poiché avvenne un mutamento – “uno scivolamento ipertestuale” – dell’intera prospettiva del locale. Un soggiorno comparve davanti ai suoi occhi increduli. Niente a che spartire col puttanaio artistoide dell’entrata: muri bianchi immacolati, parquet, due poltrone di cuoio marrone poste ai poli di un tavolino circolare di cristallo, una cristalliera piena di bottiglie e una libreria affollata di volumi occupante l’intera parete in fondo. Stranamente, il resto dei divisori era spoglio di quadri o altri ornamenti, così come non si scorgeva alcuna fonte di luce artificiale. Ciò nonostante, quella stanza risplendeva di luce propria in maniera omogenea. Si trattava forse di quel nuovo tipo di vernice bianca nanotech menzionato sull’ultimo numero di Sfera? Lorenzo provò una sensazione molto intensa di déjà vu filmico, ma sul momento non seppe accostarla ad alcun titolo in particolare. “Si accomodi, signor Fiore” lo invitò Collodio Fenakisto, indicando una delle due poltrone. “Ehm, sì, grazie.” Signor Fiore, signor Wolfe… ’sto qui si esprime come Horatio Caine! Si sedettero. L’imbarazzo era palpabile. “Le dà fastidio se fumo un sigaro?” gli domandò l’ometto. “Per niente” replicò il traduttore con sincerità.
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Fenakisto ringraziò, poi decapitò con perizia il Cohiba e lo incendiò con un accendino pescato dal nulla; un attimo più tardi esalò una fedele riproduzione in scala del fungo all’idrogeno di Bikini: mancavano soltanto le corazzate della Marina statunitense sparse intorno al gambo ribollente di particelle alfa in drammatico contrasto. Poi disse: “Certamente in questo momento lei si starà ponendo alcune domande; prima fra tutte, se io sia un mistificatore.” Lorenzo si sentì avvampare, ma ebbe l’ottimo dettaglio di rimanere in silenzio. “Purtroppo i mezzi di comunicazione di massa ci commentano ogni giorno le truffe più disparate, specialmente nel campo della formazione professionale. Ciò innegabilmente va a discapito della credibilità dell’intero compartimento. Appunto per questo, quale dimostrazione tangibile della mia buona fede, ho deciso che lei mi non mi salderà la quota d’iscrizione al corso adesso, bensì al termine dell’ultima lezione. E a sua discrezione.” “A mia… discrezione?” “Mi spiego meglio; se lei riterrà che il livello qualitativo complessivo del percorso didattico sia stato scarso, potrà anche, per così dire, mandarmi a quel certo paese senza darmi neppure un centesimo. E io mi asterrò dal denunciarla per arricchimento senza causa.” Diamine. “Vede, signor Fiore,” proseguì Collodio Fenakisto buttando fuori un’altra nuvola spiraleggiante di fumo nucleare “io lavoro come sceneggiatore e commediografo da un’infinità di tempo. Nel corso della mia lunghissima carriera ho collaborato, tra i tanti, con Paul Schrader, David Mamet e Nicholas St. John.” “Nicholas St. John” ridisse Lorenzo, mezzo scettico e mezzo impressionato. “Il fido scudiero di Abel Ferrara.” “Proprio lui, l’archetipo del genio dissoluto.” Fenakisto sorrise. “Lei beve, signor Fiore? Le andrebbe un drink?” Lorenzo fece un rapido cenno di sì; il giorno che avesse rifiutato un goccio avrebbe nevicato elefantini verdi. Fenakisto si rizzò in piedi e a passettini pervenne alla cristalliera, estraendone nientemeno che una bottiglia di Laphroaig. E due bicchieri a tubo. Poco dopo il traduttore fu servito di una dose generosa d’acquavite di malto. “Mi dispiace, signor Fiore” si scusò Fenakisto. “Non ho ghiaccio.” Lorenzo spallucciò. “Non fa niente, signor Collodio. A me piace così, duro e puro.” “Anche a me. Allora, salute!” “Alla sua.”
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Al pari di Lorenzo, l’ometto vuotò il proprio bicchiere in una sorsata, posandolo poi sul tavolino. Dopodiché, com’era successo poc’anzi per l’accendino, un fascicolo si materializzò tra le sue mani. Lorenzo trattenne a stento un fischio d’ammirazione; poteva anche darsi che quel tizio fosse un millantatore, però era senz’altro in possesso di considerevoli doti di prestidigitazione! “Ecco il suo racconto” disse Fenakisto, guardando prima i fogli pinzati e poi Lorenzo. “L’Operazione di Lady Godiva. Molto ben scritto, quantunque vorrei lo stesso consigliarle qualche possibile miglioria. Però tutto a suo tempo. Ora, per quanto riguarda la collocazione settimanale, gli orari e la strutturazione delle lezioni, funziona così: i giorni sono il martedì e il venerdì pomeriggio alle 17.15, mi raccomando la puntualità. S’inizia con mezz’ora di pura teoria, poi esercitazioni pratiche di scrittura scenica e infine analisi in progress della sceneggiatura, che stenderà a casa sua. Allora, che ne pensa?” Lorenzo rifletté. Quello era il momento buono per salutare il pubblico e tornare al suo notebook gracidante. Se avesse dato retta a quel poco di senno che gli rimaneva, l’avrebbe fatto all’istante; una stretta a quella manina gelida, “tutto ciò è molto interessante signor Collodio ma purtroppo ho preso altri impegni bla bla bla”, e buonanotte al secchio. In caso contrario, rischiava seriamente di mandare definitivamente a zoccole il suo già traballante rapporto di collaborazione con la Fuoco Sacro Edizioni. Solleciti di pagamento ammonticchiati sul tavolo della cucina e frigoriferi desolatamente semivuoti… “Ma che razza di crash street kidd sei?” si scosse, scacciando i cattivi presagi. “Getti la spugna così? Andiamo, su, non è da te. Accetta la sfida. Prova ad assecondare almeno per un po’ questa specie d’incrocio fra Donald Pleasence ed Eta Beta con la voce gagnolante come un magnetofono antiquato. Nell’eventualità che questo cosiddetto corso accelerato si riveli davvero un’emerita sola, puoi sempre mandarlo a quel certo paese, LOL. E magari portarti via a mo’ di risarcimento per lo spreco di tempo e proteine la bottiglia di Laphroaig, che in quella vetrinetta per madame collinari ci sta come la marmellata sugli spaghetti. Lorenzo crollò il capo. “Sta bene, Collodio. Mi ha convinto. Sono della partita.” Fenakisto si rallegrò. “Ne sono molto lieto. Allora, poco fa le ho parlato di suggerimenti per il suo racconto. Essenzialmente, si tratta di questo: che ne direbbe di trasferirne l’ambientazione in un remoto futuro?” Lorenzo corrugò la fronte. “Non la seguo.”
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“Ecco, diciamo, dare un tocco fantascientifico alla vicenda del transgender che vuole operarsi. Le pare un’idea azzardata?” “Tutt’altro, è molto avvincente. Chissà possa finalmente trarre profitto dalla mia passione per la narrativa fantastica in genere.” “Eccellente intento” approvò Fenakisto. “Allora, appena uscito da qui, vada dal cartolaio e si compri un bloc-notes grande: deve diventare il suo inseparabile compagno per i prossimi quaranta giorni. Esprima per iscritto tutto ciò che le viene in mente circa la sua narrazione, senza censure interne. Ne estenda o stravolga la trama, v’inserisca altri personaggi, scriva dei finali alternativi. In definitiva, dia libero sfogo alla sua creatività in qualsiasi momento, di giorno e di notte, con il bello e il cattivo tempo, a pancia piena o vuota, allegro o triste, ubriaco o sobrio. E non abbia paura di mirare alla giugulare.” “Lo farò senz’altro, Collodio.” “Certo che lo farà.” Le cartelle dattiloscritte scomparvero dalle mani di Fenakisto allo stesso modo che vi erano arrivate. “E adesso, un poco di storia del nostro mestiere.”
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Ancora ebbro di terminologia filmistica, Lorenzo prese questa volta dallo scaffale Cinema la monografia su Michael Cimino. Aveva visto Il cacciatore in Dvd almeno quattordici volte, con un’insistenza maniacale sulla celeberrima scena della roulette russa fra Robert De Niro e Christopher Walken, e si proponeva per la mezz’età di vestirsi come Stanley White, il duro capitano di polizia polacco protagonista de L’anno del dragone; giacca e cravatta nera su camicia grigio-azzurra, pastrano vissuto, tesa calata sugli occhi e incrollabile sorrisetto beffeggiatorio per i pusillanimi burocrati del NYPD e gli efferati trafficanti di morte bianca di Chinatown. Sposerò Tracy Tzu e la porterò in viaggio di nozze a Varsavia. Nell’immagine di copertina si stentava a riconoscere in quello spaventapasseri esageratamente liftato (sembrava il fratellino italoamericano di Kim Chong-il) il genio smisurato, pittorico, testardo e antiestablishment il quale brillante esordio cinematografico, Una calibro 20 per lo specialista, aveva raccolto ben otto milioni di dollari al botteghino ma anche gli strali dei critici sinistrorsi, che lo tacciarono di omofobia così come in seguito avrebbero tacciato di socialismo fasullo lo sfortunato I cancelli del cielo e razzismo lo stesso Anno del dragone. Ma il culmine dell’ostracismo politicizzato verso l’opera del bravo regista di lontane origini laziali si raggiunse prima e durante la notte degli Oscar del 9 aprile 1979, allorquando una folla schiumante di pacifisti e reduci del Vietnam si radunò davanti al Dorothy Chandler Pavillon per caldeggiare la vittoria di Tornando a casa contro Il cacciatore. Jane Fonda arrivò persino ad affermare che “Michael Cimino è più a destra di John Wayne.” Malgrado tutto ciò Il cacciatore vinse 5 Oscar: miglior film, miglior regia, miglior attore non protagonista (Christopher Walken), montaggio e suono. E anche Jane Fonda ebbe la sua brava agognata statuetta come miglior attrice per il film di Hal Ashby. Pure nel Belpaese il film fu fortemente osteggiato dalla critica militante. Alberto Moravia si scusò addirittura di doverlo recensire per l’Espresso, mentre l’allora critico Davide Ferrario lo definì sulle pagine di Cineforum “un film dannatamente fascista.” “E da che pulpito veniva la predica” malignò Lorenzo. “Una, la Pasionaria Jane, avrebbe poi dismesso le spillette contestatarie e i pantaloni a zampa d’elefante per convertirsi all’aerobica reganiana. L’altro, l’ex Compagno Ferrario attualmente stimatissimo regista cinematografico, ha fatto sbocchinare un bisonte anabolizzato dalla nerchia mastodontica (vuoi vedere che Sebastiano lo conosce!) a
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Elisabetta Cavallotti in nome dell’arte. Ciliegina sulla torta, l’Unità che nel 1995 fa sentita autocritica sui pesanti preconcetti culturali sinistrorsi del 1979 per sbolognare la videocassetta del capolavoro di Cimino in allegato.” Sospirò internamente. “Ha proprio ragione il buon Giovanni Bivona: la politica è triste. E allora facciamola diventare allegra. Protestiamo, protestiamo e protestiamo!” Risistemò meticolosamente Michael Cimino al suo posto ed estrasse William Friedkin. Facendo ciò scorse attraverso la vetrata Aurelio Gallina sbagasciato su una panchina sbertucciata col suo cagnetto immusonito e un trombone marleyano ficcato in bocca, come se le sue sinapsi non fossero già abbastanza cortocircuitate. Il motivetto fosco di Profondo Rosso risuonò dal fondo del padiglione vicino all’entrata principale, una ragazza seduta a un banco fece la faccia brutta ma lui di strinse nelle spalle. Tanto non c’era verso di rieducare la Generazione Endemol al rispetto delle più elementari regole della convivenza civile. Tempo e fatica sprecati. Sincronicamente, Friedkin era un grande estimatore di Dario Argento. Lorenzo non sapeva che fosse stato sposato con Jeanne Moureau. E che William Petersen, Richard Chance in Vivere e morire a Los Angeles, aveva vissuto per un certo periodo nei Paesi Baschi con la sua compagnia teatrale scespiriana. Non poteva trattenere uno zampillo d’invidia ogniqualvolta lo vedeva montare la splendida bionda Darlanne Fluegel – Ruth Lanier il suo nome e cognome nella finzione cinematografica, informatrice fedifraga ed erotomane. Non che Willem Dafoe se la passasse peggio, avendo a disposizione quell’altra sventola siderale di Debra Feuer. Due attrici più attraenti che talentuose che avevano goduto il loro quarto d’ora di gloria intorno alla metà degli anni Ottanta: dopo di allora, M.I.A. o suppergiù. Eppure oggidì Darlanne insegna recitazione alla University Of Central Florida Film School! Carpe diem. Friedkin afferma che tutti i suoi film contengono una parte di speranza nel senso agnostico del termine. Un agnostico crede che il potere di Dio e dell’anima siano misteriosi, tuttavia è convinto che esistano. Un ateo, invece, non crede in nulla. Non esiste nient’altro per lui che il tempo presente. Nessuno dei suoi film è girato in quest’ottica. Egli crede che esista un piano globale che regge le nostre esistenze così come quella del pianeta, e che non è né sarà mai rivelato agli uomini. Lo credo anch’io, William, più che mai alla luce di quanto è successo qualche sera fa. Quasi certamente non verremo mai a sapere chi ha trafugato due ore e mezza della nostra vita e per quale scopo. Gli venne un’insopprimibile voglia di un San Simone liscio. Fuori nell’andana riservata alle deiezioni canine, per il sommo disgusto di una madama segaligna che recava al guinzaglio un
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bellissimo husky siberiano, uno dei tossici storici aveva appena depositato al suolo una perfetta copia di Intervista con la materia del modenese Enrico Prampolini. Olio, smalto, sughero, galatite, spugna, saliva e bile.
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Quando suonò la sveglia, Lorenzo protese una mano dal suo letto per spegnerla, e mancò poco che l’apparecchio si schiantasse rovinosamente al suolo. “Dio Cristo, sono già le otto del mattino” borbogliò, levandosi la trapunta di dosso con un gesto veemente. Tanto per cambiare, era ancora rimasto alzato fino a tarda notte per guardare, in ordine cronologico: a) The Hunger, una serie che venerava non soltanto per i commendevoli ‘ospiti’ David Bowie e Terence Stamp, ma altresì per la sensualità che permeava ogni episodio; b) la cronaca in differita dell’infuocato derby argentino Boca Juniors-River Plate, un festival d’entratacce a piedi uniti, tacchettate sulle ginocchia e gomitate in faccia ma anche di giocate individuali spettacolari con il talentuoso figlio d’arte basco-argentino Gonzalo ‘Pipita’ Higuaín in particolare evidenza; c) un polveroso lungometraggio a luci rosse con Marina Frajese e Moana Pozzi tagliuzzato indecentemente e massacrato dagli spot pubblicitari, prevalentemente mobilifici piemontesi e lombardi in liquidazione e robotiche offerte speciali di videocassette pornografiche. “Codice 170, La portinaia insaziabile. Genere: Feticisti del Pelo.” Ingollò un tè forte e un cucchiaino di propoli, poi martellò il pavimento col bilanciere per chetare la famiglia del piano di sotto, archetipicamente disfunzionale (madre bisbetica e sboccatissima col fascino di un licaone, padre alcolizzato e tabagista e figlioletta iperattiva, loro frase tipica ma come eravamo noi a far casino?) e incassato in risposta un moccolo del mammifero africano si rimise al lavoro sul libro di José Chavarri. Indovina indovinello, aveva ripreso a gocciolare. Il cielo era giallognolo e lugubre come quello venusiano fotografato dalle sonde russe all’inizio degli anni ottanta. Lorenzo sorrise obliquamente allo strambo pensiero che se in quel momento il suo computer portatile fosse stato teletrasportato per errore sull’arroventata superficie del secondo pianeta da un signor Scott fradicio come neanche a San Patrizio, si sarebbe lestamente liquefatto come un panetto di burro in padella a fuoco vivo. Ma quale pianeta dell’amore popolato di fantastiche vestali seminude! Nel capitolo che andava traducendo, posto poco più che a metà dell’opera, la movida madrilena raggiungeva finalmente la sua consacrazione definitiva con la visita realizzata da Andy Warhol a Madrid nel gennaio del 1983. Il gallerista Fernando Vijande aveva organizzato una rassegna di sue opere nel proprio spazio espositivo e l’artista americano giungeva in città per il delirio degli artisti locali e la morbosità dell’alta società. La sua visita fu un piccolo
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terremoto il cui impatto investì in pieno tutto il vecchio clan di musicisti punk, pittori, fotografi e mine vaganti notturne cui era appartenuto anche Pedro Almodóvar. L’artista, fedele alla sua fama di interlocutore riluttante sempre in cerca di gente famosa cui fare il ritratto dietro lauto compenso, visitò Madrid in lungo in largo. Le feste si succedevano ogni giorno della settimana che passò in Spagna. Il finanziere e impresario Hervé Hachuel s’incaricò di organizzare il commiato all’artista, e volle anche musica dal vivo per rendergli omaggio. La scelta cadde sui gruppi più emblematici della nueva ola madrilena: tra questi, l’estroso duo di cosiddetto morro rock Almodóvar & MacNamara, formato dall’allora emergente regista e dal poliedrico travestito Fabio de Miguel. Warhol accolse le esibizioni con squisita cortesia, sbilanciandosi a commentare in modo positivo l’esibizione di Pedro e Fabio. Col senno di poi, la visita del multiforme albino non poté essere più opportuna. Madrid era allora al suo massimo splendore, e lo ricevette con tutti gli onori. Intanto che verificava il testo appena tradotto con il correttore ortografico in cerca di refusi, Lorenzo ripercorse tutti gli aneddoti che aveva sentito o letto riguardo alla proverbiale etica del lavoro di Andy Warhol. Andy era sempre il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene. E quando parlava con qualcuno alla Factory era sempre di lavoro che discorreva. Per esempio, rimproverava a Lou Reed il fatto che egli fosse inconcepibilmente indolente. “Hai scritto due canzoni, oggi?” gli diceva. “Complimenti per lo sforzo. Avresti potuto scriverne altre due.” Lorenzo sogghignò; lui, lo slacker rockettaro per antonomasia, non sarebbe durato più una settimana in quell’ambiente. Forse avrebbe addirittura finito per sparare a Andy Warhol come quella mattoide antisociale di Valerie Solanas. O quantomeno l’avrebbe picchiato a sangue con un mazzo di rose. A metà pomeriggio il traduttore stabilì che anche per quella giornata n’aveva avuto abbastanza di Alaska, Carmen, Cecilia, Veronica e le altre ragazze del mucchio almodovariano: era tempo di dedicarsi alla sceneggiatura. Così salvò il file di Chavarri per la duecentesima volta o giù di lì e cliccò su goduria.rtf, il documento corrispondente alla sua rielaborazione letteraria di Lady Godiva’s Operation. Scorse il testo due, tre, cinque volte, giocherellando con le tipologie più improbabili di carattere; lo mutò ora in una risibile adunata di omuncoli primitivi armati di clave e bastoni, ora in una surreale parata di cetacei. A un certo punto, alquanto seccato per l’ispirazione che tardava a venirgli, abbandonò lo scrittoio per
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andare a inginocchiarsi davanti alla piantana dei CD, da cui estrasse un’antologia dei Roxy Music che andò immantinente a parare nel player; poi rimbalzò in soggiorno e ne tornò con tre volumi scelti assolutamente a casaccio di un’enciclopedia statunitense che la sua madrina gli aveva donato per la cresima, li posò accanto al cervello da seicento euro e guizzò in cucina a farsi un chupito di Pampero Aniversario. Inclinazioni dipsomaniache… “Lei è veramente incorreggibile, signor Fiore” squittisce la signorina Bisturovici, mostrando i fanoni impeccabilmente rivestiti. “Però continui, la prego. Siamo tutti ansiosi di sapere come fece a estrarre il coniglio dal cilindro.” Lo Scrittore Totale riprende le redini della propria narrazione: “Uno dei tre tomi enciclopedici riportava sul dorso la lettera G. Mi misi a consultarlo con estrema attenzione, pagina per pagina. La prima cosa interessante che trovai fu un succinto ma curato profilo di Clark Gable; poi vennero Yuri Gagarin, Galileo Galilei, Gandhi, Greta Garbo, Giuseppe Garibaldi, Paul Gauguin, Murray GellMann, Jean Genêt, Genghis Khan… In buona sostanza, mezzo sale della terra in un singolo segno dell’alfabeto!” “Intanto, la musica andava avanti…” “Sì, certo” conferma Lorenzo. “I Roxy Music seguitavano a deliziarmi l’udito con le loro filastrocche dadaiste a tempo di rock. In ogni modo, fra un solfeggio di sax e una cascata ritmica di synth e chitarra distorta, continuai a leggere finché, giunto all’incirca a metà del volume, posai lo sguardo su un’illustrazione raffigurante una donna nuda a cavallo.” “Lady Godiva!” “Proprio lei. La moglie di Earl Leofric, vissuta nell’undicesimo secolo dopo Cristo. Costei chiese a suo marito di ridurre le pesanti imposte che egli imponeva come signore di Coventry. Leofric fu d’accordo, a patto che ella fosse andata in giro per la città a cavallo completamente nuda. Allora Lady Godiva chiese alla cittadinanza di rimanere in casa, e, vestita solamente dei suoi lunghi capelli, montò una cavalcatura e in siffatta mise si fece un bel giretto per la località.” Inarcamenti di sopracciglia, risatine soffocate e grattatine di capoccia scarsocrinita in platea. “Una storia affascinante” ronza la presentatrice. “Mica tanto, signorina Bisturovici. Pare che un sarto chiamato Tom avesse avuto l’ardire di sbirciare attraverso un’imposta e per questo fu accecato. Be’, mettetela come vi pare, ma Earl Leofric era un’emerita testa di minchia.” La Bisturovici lo riprende con un gesto sottile ma eloquente. Queste parole… bisogna stare attenti a queste parole.
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Ma Lorenzo la liquida con un’alzata di spalle: “In qualunque modo, testa di quiz o meno, un’idea cominciò a germogliare dentro questo cranio torinese.” Vi batte più volte sopra con un dito. “Poi, chiamatela pure come volete: coincidenza, destino, sincronicità… Ebbene, un’ouverture elettronica di segnali cosmici, fra cui si faceva largo un’esile melodia al sax alto, si spalancò sul cadenzato flamenco psicotico di Ladytron.” “E dopo?” Teatralmente, Lorenzo abbandona la poltrona e incede verso il pubblico, decine di volti contratti nella spasmodica attesa delle sue parole. Fermatosi a non più di un metro dalle prime file, declama: “E dopo, mutatis mutandis, il titolo della mia nuova grande opera comparve a lettere d’oro luccicanti nel cielo della stanza…” Lady Godivatron soggetto e sceneggiatura di Lorenzo Fiore Atto Primo, Scena 1. Notte. Riprese da diverse angolazioni di una megalopoli del futuro. Bizzarri veicoli volanti solcano l’aria caliginosa fra gli smisurati alveari umani. La telecamera si trattiene su uno di questi ultimi, portandone gradualmente in primo piano una finestra, penetrandola. All’interno di un locale disadorno, distesi su un vetusto letto a baldacchino, due giovanissimi umanoidi, femmina e maschio, nudi, si scambiano tenerezze. Entrambi portano i capelli tagliati corti e riflessi policromi sulla pelle inargentata. Tutt’a un tratto, sopra le loro teste, compare un messaggio pubblicitario: MARTE, PIANETA ROSSO DI PASSIONE. UNA VACANZA MEGAGALATTICA IN OFFERTA SPECIALE CON EXTRA WORLD TOURS.
Ragazza (con un moto di vivace disappunto): “Questi schifosi ologrammi pubblicitari! Non ti lasciano mai in pace.” Ragazzo (sorridendo): “Ignorali, amore mio. Un giorno noi andremo su Marte senza dover rendere conto a nessuno.” Ragazza: “Io preferirei Titano. Cieli d’arancio, fiumi e laghi di metano. Non è romantico?” Ragazzo: “Lo è molto di più Columbia Hills, con quei macigni dipinti da Izaskun Ibarrola e le sculture ricavate dai rottami delle vecchie sonde. Ma noi andremo dove tu desideri.” La Ragazza sorride, e i due giovani amanti tornano a baciarsi dolcemente. Una mano della Ragazza percorre adagio il torace tornito del Ragazzo, soffermandosi su un punto poco sotto lo sterno. Ragazza (fa un soprassalto, gli sgrana gli occhi addosso): “Cosa pulsar hai qui? Percepisco come un rigonfiamento.”
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Ragazzo (distogliendo lo sguardo): “È ancora presto per spiegartelo.” Ragazza: “Come sarebbe?” Improvvisamente, un frastuono. La porta del locale viene giù, e tre uomini dei Corpi speciali vi irrompono. Poliziotto (puntando una pistola verso la giovane coppia): “Fermi dove siete! Non una mossa, o vi disintegro tutti e due!” Per tutta risposta il Ragazzo infila una mano sotto il cuscino, laddove ha presumibilmente nascosto un’arma, ma il Poliziotto lo precede sparandogli un raggio disintegratore. Il Ragazzo si dissolve in una nube di atomi iridescenti. Ragazza (ritraendosi atterrita): “No! Nooo! Bastardi figli di puttana!” Senza indugio i tre poliziotti le saltano addosso e, a viva forza, se la portano via.
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Non appena ebbe oltrepassato l’uscio del salotto risplendente di Collodio Fenakisto, Lorenzo Fiore notò un’importante variazione nell’arredamento: l’eccentrico insegnante di sceneggiatura aveva appeso (o fatto appendere) una smisurata riproduzione del dipinto atura morta con salame di Giorgio De Chirico sulla parete a destra della biblioteca. “È un bel quadro” spiegò semplicemente Fenakisto, seduto a gambe incrociate sulla sua poltrona in pigiama violaceo e sneakers dozzinali, avendo evidentemente intercettato lo sguardo indagatore del suo unico allievo. Non vi è alcun dubbio. L’immagine delle fette di salame disposte su un piatto che a sua volta poggia su un impiantito teatrale, semplice e naturalistica in apparenza, è invero carica d’ambiguità metafisica. “Bello, anzi bellissimo” enfatizzò Lorenzo, quantunque non amasse particolarmente l’opera del pittore di Volos: meglio lui che Mondrian, comunque. Raggiunto Fenakisto al tavolino, si sedette porgendogli nello stesso tempo la cartella dattiloscritta con l’incipit della sceneggiatura infilata in una guaina di plastica trasparente. “Ecco la prima scena, Collodio. Ammetto che è un po’ poco, ma davvero non ho avuto molto tempo a disposizione per dedicarmici.” Explicatio non petita, acusatio manifesta. L’ometto annuì senza guardarlo in faccia, lo sguardo assorto sulle linee di testo del foglio. Neanche mezzo minuto e lo posò sul tavolino, rivolgendogli un’occhiata lecteriana. Lorenzo sentì un brivido corrergli lungo la spina dorsale: aveva letto tutti i libri di Thomas Harris e visto tutti i film da essi tratti. “Signor Fiore… Ha mai sentito parlare di Terry Southern?” “Ehm, sì, devo, o meglio suppongo di aver letto qualcosa che lo riguardava nel supplemento domenicale di un quotidiano, però al momento non mi sovviene quale sia propriamente il suo mestiere.” Per istinto, Lorenzo ritenne opportuno astenersi dal chiedergli il motivo di quella domanda. Fenakisto innestò la curvatura. “Terry Southern, signor Fiore, fu un personaggio cruciale della controcultura americana. La sua notorietà esplose quando, nel 1960, pubblicò con grande scandalo la novella Candy presso Olympia Press, la celebre casa licenziosa di Maurice Girodias, che in seguito al suo suggerimento pubblicò anche Pasto nudo di William Burroughs. Nel corso degli anni Sessanta, Southern scrisse altri libri divenuti poi di culto, come Barbarella e Blue Movie, ma da noi addetti ai lavori sarà sempre
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ricordato come l’arguto e irriverente sceneggiatore di Il Dottor Stranamore ed Easy Ryder.” “Ma certo!” esclamò Lorenzo dandosi una pacca sulla coscia. “Ora ricordo. Devo aver mandato a memoria il suo nome dai titoli di testa di ambo i film.” Fenakisto raccolse senza fare una piega. “Terry Southern era uno scrittore imbevuto di umorismo nero. Era un forte bevitore e un fanatico del jazz che sperimentava ogni tipo di droga. Durante la lavorazione di Il Dottor Stranamore, Kubrick visse nel quartiere londinese di Knightsbridge. Southern andava da lui alle cinque di mattina e lavorava sul sedile posteriore di una vecchia Bentley mentre l’autista personale di Kubrick li conduceva agli Shepperton Studios. In macchina, Southern e Kubrick appoggiavano i fogli pieni di appunti su due ripiani di fronte a loro, e tenevano chiuso il vetro fra loro e l’autista in maniera da avere un ufficio privato mobile.” “Due belle menti a confronto” commentò Lorenzo, affascinato dal racconto di Fenakisto. “Una magnifica alchimia” convenne l’ometto. “L’umorismo nero di Kubrick, caratteristico delle strade newyorchesi del Bronx, e il suo immenso cinismo si fusero con la scollacciata e venefica immaginazione dello scrittore texano. Il risultato fu uno dei più geniali film della storia del cinema.” Fece una pausa, poi continuò: “Suppongo che ora vorrà sapere a quale fine le ho raccontato tutto ciò.” “Ci sono già arrivato da solo, Collodio. Il messaggio neppure tanto allegorico che lei ha voluto trasmettermi è: puoi fare molto di più, Lorenzo.” Il bizzarro insegnante mosse il capo in segno d’approvazione. “In effetti, era proprio quello. La parola fatata è: lavoro, lavoro e ancora lavoro. Non si faccia invadere dalla pigrizia, signor Fiore. Scriva anche quando le sembra di avere due barili pieni di piombo a gravarle sulle palpebre. Non c’è peggior cosa nell’Universo che il tempo sprecato.” “Forse devo organizzare le mie giornate in modo migliore” ipotizzò Lorenzo, provando simultaneamente una certa apprensione riguardo all’inviolabilità dei propri pensieri. “Lavoro, lavoro e ancora lavoro” non era forse il motto di Andy Warhol cui aveva ripensato l’altro giorno correggendo la traduzione? “Hai scritto due canzoni, oggi?” diceva Andy a Lou Reed. “Complimenti per lo sforzo. Avresti potuto scriverne altre due.” “Lei può fare qualsiasi cosa, signor Fiore: è sufficiente crederci. Comunque devo dirle che il primo atto della sceneggiatura mi va a genio. Sì, forse è un tantino corto, ma per il momento non importa.
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Lei vada pure avanti spedito per la sua strada.” Fenakisto si strinse il naso fra il pollice e l’indice. “Ora facciamo un breve ripasso sul concetto di sceneggiatura.” La sceneggiatura è un documento scritto nel quale vengono compiutamente sviluppate le idee contenute nel soggetto. Essa comprende l’elaborazione dei dialoghi e si differenzia dal copione per la sua forma letteraria. Secondo le teorie del regista russo Vsevolod Pudovkin, la sceneggiatura può essere una rigorosa e circostanziata previsione del film nella quale è stabilito perfino il montaggio: la cosiddetta sceneggiatura di ferro. Tuttavia, per certi registi la sceneggiatura serve solo come traccia che lascia largo margine all’improvvisazione: Sergej Eisenstein, Fellini, Rossellini, Godard; in tal caso si parla di sceneggiatura aperta. Per Cristopher Vogler ogni storia vissuta da un personaggio è riconducibile a un viaggio… Atto Secondo, Scena 2. Giorno. Un velivolo nero lucente, molto simile a un elicottero ma privo d’eliche, atterra nei pressi di un enorme edificio costruito in stile neoclassico: il Palazzo di Giustizia di Augusta Tau. Il cielo è opaco per l’alta concentrazione di polveri inquinanti in sospensione. Il portello principale si spalanca coi motori ancora ronzanti. Il primo dei passeggeri a smontare è un uomo alto dai folti capelli brizzolati con indosso una lunga sopravveste nera: è il dottor Emil Barbero. Segue un gruppo di giovani, tre ragazzi e quattro ragazze, tutti vestiti come lui. Emil Barbero e i ragazzi togati salgono la larga scalinata di accesso al Palazzo e ne varcano l’entrata. L’immenso atrio del Palazzo di Giustizia è più animato di un termitaio. In silenzio, il gruppo lo attraversa fino a fermarsi davanti a un ascensore presidiato da un poliziotto armato di un fucile mitragliatore a raggi disintegratori. Senza cerimonie, Emil Barbero consegna un cubetto azzurro fluorescente al poliziotto: questi lo introduce in un ricettacolo dell’intercom che porta agganciato al cinturone. In Dettaglio, il display del congegno, su cui dopo un breve segnale acustico compare il volto dell’uomo dai capelli grigi con la didascalia: DOTTOR EMIL BARBERO – PERMESSO ACCORDATO. Il poliziotto annuisce arcigno e preme il pulsante di chiamata dell’ascensore. Qualche istante più tardi le porte scorrevoli si aprono; Emil Barbero e i suoi giovani discepoli entrano nella cabina. Le porte si richiudono.
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“Sublime Mago Gabriel, perché Marte è un pianeta morto?” chiese il dottor Vannucchi, fluttuante a mezz’aria in cabina di regia. Il mago aspirò, espirò e quindi disse con aria ispirata: “Perché non è andato mai nessuno a formare una vita. Marte non è tanto un pianeta defunto, ma è un pianeta disabbittato. Mai nessuno si è permesso di partire dalla Terra e andare a far vita a Marte, andarci ad abbittare. Ma forse perché non sapevano la strada e non la sanno neanche adesso. Comunque mi informerò la prossima volta e vi darò la via che via si trova Marte.” “Aspettiamo con ansia qui nel mondo eso e terico piemontese. Maestro Gulisano, perché una famosa canzone degli Small Faces si intitola Itchycoo Park?” “Perché a sua volta è bene spiegare che il Ciccio Park non era un parco ma bensì una zona urbana distrutta dai bombardamenti della prima seconda e possibbilmente terza guerra mondiale piena di ortiche a Ilford, nella contea della Grande Londra. Ora io non so perché la canzone è stata intitolata così, ma comunque mi sembra una cosa veramente propprio bella e psiche giustamente delica.” Il medium interpellante assentì grave. “Un’ultima domanda, infuocatissimo Mago Gulisano. Perché a Torino il tempo è andato fuori squadra?” Tratto un profondo sospirone, così parlò il venerabile Maestro: “Be’, da che monto è monto il tempo è sempre andato ogni tanto fuori dei gangheri. Forse perché corre troppo, o viceversa perché noi corriamo troppo, ma non vede tutta ’sta gente per strada che parla da sola? Ma stiamo diventando tutti matti! Ecco perché il tempo scorre da un’ora all’altra in un nano giustamente secondo, perché noi a sua volta non siamo più capaci di fermarlo.” Il mago trasse un altro sospiro. “Ma ora è giunta giustamente l’ora della chiamata importante.” In studio rimbombarono i toni amplificati di un telefono. “Io, la più suprema delle nientitudini maggiche, andrò a chiedere il parere di un famoso scrittore di fanta lecitamente scienza americano, Joe Haldeman. Pronto Gioe, ci sei?” In un italiano broccolino una voce rispose: “Yes, sublime Mago Gabriel, sono io. Dimmi.” “Allora, suplime supper-scrittore di fanta e viceversa scienza, io volevo possibbilmente chiederti un illuminante parere su questa stupenta anomalia temporale.” “Ma io veramente ho scritto racconti sui balzi tra le collapsar in un contesto futuro, anche se oggigiorno va di moda chiamarli wormhole, buchi di verme.”
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“Ma sono lombrichi o viceversa vermi solitari?” “Er, uhm, sono scorciatoie da un punto all’altro dell’Universo. Qualcuno, molto grande, potrebbe esistere nello spazio profondo, come relitto del Big Bang. Quelli subatomici potrebbero essere naturali o artificiali – prodotti da acceleratori di particelle. Questi ultimi verrebbero ingranditi usando grandissimi campi energetici. Un’infusione (influsione, corresse mentalmente il mago) di energia negativa permetterebbe a un segnale o a un oggetto di passare in sicurezza attraverso un wormhole: questa, infatti, impedirebbe allo stesso di trasformarsi in un buco nero, contrastando la sua tendenza a restringersi in un punto di densità finita o quasi infinita, è chiaro? Ciò nondimeno l’episodio torinese mi sembra piuttosto di origine naturale: perhaps un’oscillazione anomala del continuum.” Il continuum è un memoriandum. Salvatore Gulisano alias Mago Gabriel, già Mago delle Vallette, arcuò argutamente un sopracciglio. “Ma allora bisognerebbe rammendarlo per ciò non esserne a sua volta tutti quanti assorbiti, giustamente con l’aiuto dei nostri Spiriti Guida Amici. Così dunque eccoli elencati: Virgilio e la sua Eneide, Graziani e Pulici, Dante e Beatrice, Gianni e Pinotto, Antonio e Antonietta, Bruno e Bionda, Carlo e Carla, Domenico e Domenica, Enrico ed Enrichetta, Flora e Fauno, Herman end Hess, Porgy end Bess, Gorni & Kramer, Paolo e Francesca, Caronte e le sue Barche dagli Occhi di Fuoco, Fetonte e Fetente, Rodomonte e Rododendro, e via amplitando e sempre più discutendo.” “Io, per me, aggiungerei anche Françoise e Carl Sagan” suggerì Joe Haldeman, in caduta libera verso il suo ombelico alla velocità della luce. “Ma certamente, caro Gioe. Tu sei veramente propprio uno scrivano di preggio, e io ti mando un abbraccio forte forte nonché un antamento spirituale positivo. Però prima che te ne vai vorrei rivolgerti un’ultima invocazione. Ecco: la Guerra Eterna è davvero eterna, o viceversa è solo un’impressione?” La risposta dello scrittore arrivò distorta dall’effetto Doppler: “Be’, amico mio, se 1143 anni ti paiono un’inezia…” E il Sublime Gabriel sospirò, sospirò e infine così parlò: “Ringraziandoti tanto, Gioe. Si ci vede su Aldebaran, e vade retro tutti gli ingann.” Amen. E vapori di cloro giustamente formio.
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Il Comics è uno dei più frequentati cocktail-bar di Torino. Si trova in piazza Carlo Emanuele II, familiarmente nota ai torinesi come piazza Carlina, giacché il pettegolezzo storico vuole che lo stesso Carlo, figlio del principe Vittorio Amedeo I e di Cristina di Francia – la Madama Reale – fosse dell’altra sponda. Sicuramente, Carlo Emanuele si fece promotore del secondo degli ampliamenti della capitale sabauda, al quale lavorò alacremente l’architetto Amedeo di Castellamonte, autore, tra le tante cose, del disegno originale della piazza. All’epoca dell’invasione napoleonica essa fu ribattezzata ‘Piazza della Libertà’, e vi fu eretta la ghigliottina. Nel 1873 lo scultore Giovanni Duprè vi innalzò, al centro di una vasta aiuola, il monumento a Camillo Benso di Cavour. L’opera presenta il grande statista che regge nella mano sinistra un foglio con la scritta “Libera Chiesa in libero Stato”. Negli ultimi tempi Lorenzo aveva designato il Comics a prima tappa del suo personale periplo notturno, a prescindere dal giorno e dall’occorrenza, poiché la qualità dei beveraggi era ottima e gli piacevano i ritratti in bianco e nero di artisti rock appesi alla rinfusa e i tavolini da piola. La clientela era sul fighetto andante, non per niente era uno dei posti preferiti della ex congrega di suo fratello Giuseppe, ma gliene fregava al massimo grado. Lorenzo possedeva un certo talento attorale per liquidare finemente gli impiastri: Ciao, sto bene, mio fratello?, l’ho sentito la settimana scorsa sta da dio, sì continuo a fare il traduttore e ci campo abbastanza bene, ok ci vediamo dopo, divertiti! E vaffanculo. Le fidanzate di costoro, mai racchie e sempre in confezione regalo, solitamente si limitavano a sfoderargli il sorriso ebefrenico di chi si è testé pippata una pista di coca olimpionica. Morta lì. Era venerdì sera tardi e nel locale non ci stava più neanche uno spillo. Abbarbicatosi al bancone come una pianta rampicante, Lorenzo sorbiva scientificamente daiquiri frozen facendo danzare lo sguardo sui volti femminili circostanti. “Bionda in cachemire vicino all’entrata: blefaroplastica, peeling chimico e iniezioni riempitive di acido ialuronico, i cosiddetti filler riassorbibili. Costo totale annuo, non meno di 1600 euro. Brunetta coi jeans fessurati e la maglietta scollata seduta al tavolino di fronte: biorivitalizzazione di viso, collo e décolleté tramite iniezioni di vitamine e acido ialuronico – cazzarola, la Lecciso ha fatto proseliti! Gallerista etnica qui a fianco: laser resurfacing, 700 euro a seduta e Doolittle dei Pixies nella borsetta. Don’t know about you, but I’m un chien andalusia. Vestita di seta, trine e invidia. Gioia e orgoglio per
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l’ultimissima sciccheria da due spiccioli. Affanno passeggero anzichenò…” “Scrittore!” Lorenzo si voltò di scatto. “Che succede?” “Ehi, lo so che lassù in orbita si sta meglio che quaggiù sulla nauseabonda litosfera, ma volevo comunque avvertirti che il tuo bicchiere è quasi vuoto. Sai, nel caso un satellite dell’amore ti avesse distratto.” Con un largo sorriso Lorenzo manifestò il suo apprezzamento per la poetica premura di Emilio, il capo barista del Comics meglio noto come Txiki (pronunciasi ‘Cichi’), poiché somigliava molto a Aitor Txiki Begiristain, talentuoso esterno sinistro d’attacco del Barcellona all’epoca in cui sulla panchina dei blaugrana sedeva il leggendario Johann Cruyff. “Fammi pure un altro beverone di questi.” “Suuubiiito, siiignorrre” fece Emilio. Di lì a poco Lorenzo fu servito di un altro densissimo daiquiri. Mandò giù una lunga sorsata e, approfittando di un momento di relativa calma nel flusso delle ordinazioni, richiamò a sé il barista chiedendogli: “Toglimi una curiosità: tu da giovane eri un indiano metropolitano?” Emilio, che aveva quarantasette anni e un passato turbolento dietro le spalle, replicò: “Uh, per la carità! A me e alla mia banda i freak ci stavano proprio sui marroni. A noi piaceva il glam rock e il punk: Gary Glitter, Sweet, Slade, Suzi Quatro, Kiss, Blondie, Thin Lizzy, Ramones, Stranglers e compagnia cantante. E quelli sempre a rompere le scatole coi Led Zeppelin, Neil Young, i New Trolls e tutto il pallosissimo rock progressivo inglese. Ci tiravamo sempre per i capelli con quei provoloni e ogni pretesto era buono per fare a taccarate, fosse politica mal digerita o un apprezzamento pesante alla ragazza di qualcuno, tutti i santi giorni. Comunque noialtri eravamo sempre bombati di qualcosa, persino di codeina, disposti persino a scippare le vecchiette per strada pur di strafarci.” Abbassò lo sguardo e scosse la testa. “Porca miseria ladra, quanto tempo sprecato!” “Non fartene un cruccio” lo rincuorò Lorenzo. “Bah, non credere che mi affligga più di tanto; d’altra parte, il passato è passato. Nondimeno, so che suonerà come la solita frase fatta, ma potessi tornare indietro, invece di ridurmi a riempire bicchieri con pozioni spaccafegato per ramarri semianalfabeti e fighetti immorali, mi dedicherei alla fotografia di moda. Sai che spasso, lavorare sempre in mezzo alla gnocca? Io dico che su dieci modelle che ti si presentano in studio per farsi riprendere almeno sette te le porti a letto.”
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Lorenzo si strinse nelle spalle. “Può darsi. Io mi accontenterei di tre su cinquanta. Coi tempi di magra che corrono…” “Eh eh eh. Bel tipo sei. Adesso scusami ma devo far finta di lavorare, almeno per qualche tempo. Ah, una cosa: il prossimo drink te lo offre la casa, va bene?” “Meglio di così si muore, Txiki.” “Grande! Hasta luego, fuoriclasse.” E Lorenzo tornò ai suoi arabeschi mentali. “…Lady Godiva è qui vestita molto pudicamente. Carezza il capo di un altro ragazzo dai capelli ricci, un altro giocattolo appunto. Piange vere lacrime malata di silenzio, pronunciando parole che sono state dette, oh così chiaramente, molto tempo fa. Kubrick si versava un drink, poi iniziava a parlare di una cosa e si dimenticava di berlo. Anche Norman Spinrad, l’autore del profetico Jack Barron e l’eternità, è cresciuto nel Bronx. Poi è andato in Messico e laggiù ha contratto tutte le infezioni possibili. Vecchio puttaniere! La sceneggiatura è una storia raccontata per immagini, con dialoghi e descrizioni, ambientate in un contesto di scrittura drammatica. Ma vieni. L’inciting incident è una complicazione della vita del protagonista che dà la stura a tutta la vicenda. Pioggerella, pioggerella. Se proprio in questo istante il tempo slittasse di dieci anni nel futuro che ne sarebbe di Annamaria Malipiero e della sua recitazione da fotoromanzo per clienti di pettinatrici? Chi governerebbe questo paese squilibrato? La Cdl, l’Unione, il Codacons, la Foglia di Fico, Luciano Moggi o un esecutivo di alieni insettoidi provenienti dalla stella di Barnard? Si verificherebbe un ritorno di fiamma del congiuntivo nell’eloquio degli italiani? Osama Bin Laden e Lilli Gruber diverrebbero marito e moglie in gran segreto? Mah. Forse ci ritroveremo tutti a dattilografare cantici e pennelleggiare tazebao in onore del Nuovo Condottiero Socialista, sedici ore giornaliere per una ciotola di riso transgenico e mezzo litro di biocarburante. Sta guardando te, ragazzo. Stoffe avvolte delicatamente intorno alle esili spalle di Scarlett Johansson con la parrucca biondo platino cantando Brass in Pocket. La vita l’ha resa molto più audace, ora che lei ha scoperto il modo…” “Le cronache rosa raccontano che il suo incontro con Manuela fu , per così dire, molto cinematografico…” asserisce Temperanzi. Viene vestito come un indiano, abito bianco e primaverile, fra palme afrodisiache e uno rumore di fonti atlantidee. “Detto sinceramente, non mi curo molto di ciò che s’inventano i tabloid sulla mia persona” rintuzza Lorenzo, il Total Writer. “Le sembrerà un topos trito e ritrito, ma io sono gelosissimo della mia vita privata. Se vogliamo, sì, fu un incontro molto da commedia
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romantica. Insomma io ero lì, radicato al bancone pensando ai c…. ehm, scusi, dicevo, a fare cerchi con la mente, quand’ecco che qualcuno m’inciampa addosso rischiando di farmi fare un bagno di beverone alla fragola frullata.” “Si arrabbiò, signor Fiore?” “Va da sé che queste cose non fanno certo spiccare salti di gioia; tuttavia, la mia tolleranza è proverbiale. Non reagirei mai come La Maialina Firmata Gucci Strillante E Scalciante In Quel Locale Di Los Angeles In Cui Tutti Erano Strafatti Di Cocaina: Paranoid Android, Radiohead. Così, senza scompormi, appartai con cautela il bicchiere sul banco e misi a fuoco quell’importuno… constatando che si trattava di una magnifica ragazza. Lunghi capelli neri come l’ala di un corvo, occhi profondi, zigomi pronunciati, bocca grande dalle labbra tumide, gambe lunghe e ben tornite, petto da calendario… un legno da esposizione, insomma. Che volete che vi dica.” “Uy… scusa tanto!” esclamò la stupenda fanciulla, staccandosi. “Sono proprio una frana.” “Figurati.” Una frana da schianto… bella giacca di pelle. “Che casino qua dentro stasera” commentò lei dopo una veloce occhiata circolare con un risolino sghembo. “È vero, non ci si muove. Hai bisogno di qualcosa che ti tolga l’affanno?” La ragazza lo squadrò con incredulità birbona. “Certamente. Magari un cocktail di psicofarmaci, che ne dici?” Attraente e mordace, pensò Lorenzo. Una miscela esplosiva. “Be’, io preferisco il daiquiri, o al massimo un bel cubalibre di rhum Negrita: purtroppo qui in Italia non lo trovo.” “Non tutte le ciambelle riescono col buco, mi sembra si dica in questi casi.” Lisciando la tracolla della borsetta. “Qualcosa del genere. Parli con un accento particolare” notò Lorenzo. “Sei spagnola, vero?” “Catalana di Barcellona, per la precisione.” La ragazza gli tese una mano affusolata con le unghie smaltate di nero, priva di anelli. “Sono Manuela Monroig.” Il traduttore gliela strinse con sommo garbo. “Lorenzo Fiore. Molt de gust.” “Pues… encantata.” “Altrettanto. Allora, che ti offro da bere?” “Fammi pensare… Una piccola chiara.” “Ottimo. Emilio, una birretta per la signorina.” “Più veloce del vento” replicò il barista sbirciando, vecchio volpone notturno, le grazie della signorina.
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Brindarono. I fiammiferi nei capelli, le porte del suo viso, le braci della sua bocca romanza. “Sei da solo, o stai aspettando qualcuno?” “Solo io combatterò, procomberò solo io.” “Che cosa?” “Niente, niente. ada. Piuttosto, che ci fa una ridente catalana in una città così triste?” “Triste, Torino? Ma se faccio festa tutte le notti fino all’alba!” Rise. Tornata seria, proseguì: “Sto scherzando. Solo tre notti su sette. Comunque, usufruisco di una borsa di studio Erasmus per Veterinaria.” “Devo dirti che parli un italiano perfetto. Voglio dire, rispetto a certi calciatori ispanici che vivono qui da una vita…” “Diciamo che me la cavicchio. Noi di madrelingua catalana siamo più predisposti ad apprendere l’italiano rispetto al resto degli spagnoli. Più che altro riusciamo a parlarlo quasi senza inflessione: come il mio idolo Sete Gibernau, il motociclista. Quasi, appunto… Tu parli anche piemontese?” Lorenzo storse la bocca. “In modo ridicolo, Manuela. Il colmo è che, oltre a essere nato qui, i miei genitori sono… erano entrambi piemontesi: mio padre, soprattutto a tavola, diceva una parola in italiano e quattro in torinese. Nondimeno questa è una città di immigrati; quindi puoi capire che razza di piemontese parlerò io, a forza di far comunella coi tamarri torinesi, quelli che voi catalani chiamate charnegos…” Sorpresa, poi ammirazione si susseguirono sul mirabile visetto di Manuela. “Ehi, ma ne sai tanto sul mio popolo, nen!” esclamò. “Qualcosetta” si schermì Lorenzo. “Facendo il traduttore, qualche anno fa mi saltò il ticchio di imparare almeno i rudimenti delle lingue parlate nelle principali comunità autonome spagnole, hai visto mai che un giorno mi trasferissi a lavorare in una di quelle zone. Così mi comprai una sfilza di manuali di conversazione con pronuncia figurata in euskera, galiziano e catalano, feci qualche viaggetto blocco degli appunti alla mano, ma alla fine, tra una festa e l’altra eh eh eh, non imparai granché. Sicché, in onore alla verità, devo confessarti che buona parte del mio catalano proviene dalla lettura di El amante bilingüe di Juan Marsé. Come i versi del poeta Sagarra che Juan Marés recitava da piccolo, per esempio.” “Ah sì? Allora avanti, declamameli. Voglio proprio vedere come te la cavi.” “Sta bene, però non metterti a ridere!” Lorenzo fece mente locale. “Sant Jordi duu una rosa mig desclosa pintada de vermell i de neguit. Catalunya és el nom daquesta rosa i Sant Jordi la porta sobra el pit.”
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“Ma dài!” esclamò Manuela battendo forte le mani. “Pure la pronuncia non è niente male.” “Diamine, non farmi arrossire! Sono solo un dilettante.” “Un dilettante molto amabile” sussurrò lei, impregnando le parole di flemma erotica. E allora Lorenzo fu travolto dalla voglia di darle un baiser sulla bocca, olio su tela 92 x 73,8 e cornice pensata con alcuni segmenti in aggetto lungo il coronamento superiore nonché colorata esposto tra la folla gioconda del Comics, opera in cui irrompe un autentico scarto d’emozionalità e un’inedita freschezza stilistica… Però… “…Vorrei aprire una breve parentesi su Melchiorre Fiore e la sua singolare filosofia di vita. Dunque il mio estroso genitore, tristemente mancato sette anni fa per un linfoma, amava ripetere che: la madre dei guastafeste è sempre incinta; le donne sono tutte puttane tranne la mamma – benché ci sia sempre la possibilità che lei facesse o faccia ancora la ‘vita’, ma in tal caso l’averti procreato la monda d’ogni peccato; il lingam può serenamente prescindere dalla yoni, ma all’inverso è impossibile. Non si può certo affermare che fosse un progressista! Sia come fosse, pochi giorni dopo che quella saltaletti di mia madre ebbe definitivamente abbandonato il tetto coniugale per mettersi insieme a un giovane e prestante maestro di sci, il buon Melchiorre, niente affatto disanimato, se ne tornò a casa con una borsa rigurgitante di filmoni, tra i quali diversi porno d’antan. Cosicché io e lui, rimasti soli – mio fratello si era già emancipato da qualche tempo – finimmo per organizzare autentiche soirées du film blue (con partita di poker inclusa) alle quali partecipavano i suoi più cari amici d’infanzia, tutti mal marià con una spiccata propensione per il turismo sessuale caraibico ed estremo-orientale. Il sottoscritto, naturalmente, officiava da proiezionista. Nel corso di tali sessioni m’innamorai perdutamente (in senso platonico-onanistico, va detto) di varie, ehm, interpreti. Prima fra tutte, Lina Romay, al secolo Rosa Maria Almirall, attrice-feticcio e più tardi sposa di Jesús Franco, regista di culto incredibilmente prolifico, autore di autentici capolavori del cinema di serie B quali Vampiros Lesbos e La maledizione di Frankenstein. Con tutto ciò, cara signora Ialuronich, mi perdonerà se chiamo un’altra volta in causa il principio connettivo acausale di Jung-Pauli, ma è un dato di fatto che quella gran manza della Romay nacque il 25 giugno del 1954 proprio a Barcellona…” “Ehm, scusi se l’interrompo, signor Fiore. Quanto lei ci sta raccontando è indubbiamente degno di attenzione. Però tutti noi qui
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gradiremmo sapere come andò a finire con la bellissima Manuela Monroig.” “Ci stavo arrivando, ci stavo arrivando. Allora, proprio mentre stavo per lanciarmi, comparvero sulla scena del tenero crimine due fanciulle dal portamento altezzoso, ben abbigliate, classicamente collinari, che la catalana mostrò subito di conoscere. Per l’appunto, la madre dei guastafeste è sempre in stato interessante…” Esauriti i miagolanti convenevoli di rito, le due future valchirie da laboratorio irretirono rapidamente la povera Manuela con una sequela ammorbante di pettegolezzi e paccottiglia accademica, snobbando Lorenzo con irritante disinvoltura. Manco a lui fregasse qualcosa di studentesse procaci che si scopano a sangue i professori per passare gli esami col massimo dei voti e picchetti bipartisan contro la visita dell’ambasciatore israeliano nell’atrio di Palazzo Nuovo. Stronzate che si era già sorbito ai suoi tempi. Allora approfittò del proprio momentaneo accantonamento per chiedere a Emilio Txiki Begiristain il terzo beveraggio della serata, facendo così scattare il bonus messo gentilmente a disposizione dall’amico barista poc’anzi. Qualche minuto più tardi Manuela Monroig riuscì finalmente a rivolgergli la parola. “Noi andiamo, Lorenzo” lo avvertì desolata. “Mi dispiace molto lasciarti da solo, ma mi ero data appuntamento con loro.” “Non ti preoccupare, Manu. Però dammi il tuo numero di telefono.” “Un momento solo, guapo.” Manuela frugò nella borsetta e n’estrasse un biglietto da visita. “Ecco qua. Telefonami o mandami un messaggio quando ti pare. Meglio di sera, perché di giorno o sono all’università o seppellita in biblioteca a studiare.” “Sarà fatto. Allora, arrivederci, Manuela.” “Ci vediamo presto, Lorenzo.” La catalana gli stampò un bel bacio succoso sulla guancia destra; profumava di pulito, di carne incorrotta, di donna. on andartene, ti prego, resta qui con me, le trasmise Lorenzo telepaticamente. on posso, devo andare, replicò lei emettendo un’onda hertziana di rammarico. Però chiamami. Fatti vivo quanto prima. “Manuela! Vuoi venire o no?” gnaulò una delle due ragazzebene, rompendo l’incanto. “Come puoi sopportarle?” le domandò Lorenzo sotto i baffi. “È un esperimento antropologico” si giustificò lei con un sorriso radioso. E se ne andò lasciandosi dietro una scia di miele caldo.
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Atto Secondo, Scena 3. Interno del Palazzo di Giustizia di Augusta Tau. Emil Barbero e i suoi alunni prendono posto nell’aula del Tribunale Penale. Uno scudo di energia simulcast li rende totalmente invisibili e impercettibili all’udito. Sullo scanno siede inerte il Cibergiudice, un simulacro togato predisposto alla lettura della sentenza. Emil Barbero (con studiata affettazione): “Esimi alunni, fra poco assisterete al giudizio di un antroforme staminale imputato di crimine sessuale di primo grado. Pertanto vi suggerisco di mettere mano ai vostri mini-computer olografici e cominciare a prendere nota.” Tutti gli studenti seguono alla lettera il suggerimento di Emil Barbero. Senza alcuna perturbazione né suono anticipatore nell’aria, una persona si materializza di fronte al banco del Cibergiudice: è la ragazza umanoide arrestata al termine della prima scena. Porta la speciale uniforme arancione dei carcerati, manette ai polsi e ceppi alle caviglie. L’hanno rapata a zero. Il volto dai lineamenti mirabili è contratto in una smorfia di ostilità. Emil Barbero: “Quest’antroforme staminale di sesso femminile è stato colto in flagranza di reato con un maschio appartenente alla sua stessa specie. Ora prestate la massima attenzione.” Il Cibergiudice si anima. Cibergiudice: “Signore e signori, la seduta è aperta. (l’annuncio è seguito da un trillo elettronico prolungato.) Poiché trattasi di un processo di classe Ant-SinDif – vale a dire, essendo l’accusato un antroforme staminale di classe F, non si prevede alcuna discussione della causa – passerò subito alla lettura della sentenza. Ma prima di ciò, per una questione puramente formale, devo chiedere allo stesso imputato la conferma della propria identità. Ella risponde al nome di Lady Godivatron Giaretto-XR?” Lady Godivatron (sarcastica): “No, Vostro Onore. Sono la trisnipote di Lara Croft.” Cibergiudice: “Si prega nuovamente l’imputato di identificarsi correttamente.” Lady Godivatron: “Ma va’ a farti fottere senza lubrificante, spaventapasseri di silicone.” Cibergiudice: “Questo tribunale prende nota della reticenza a identificarsi dell’imputata. Indi, passiamo al pronunciamento della sentenza. Citerò testualmente: secondo l’articolo 5123-AntFr/PrSex del Nuovo Codice Unificato di Procedimento Penale dei Pianeti
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Uniti, relativo all’assoluta proibizione per gli antroformi staminali di ogni forma di contatto intimo con qualsivoglia entità, sulla Terra come in tutti gli altri pianeti pianetini e basi spaziali del Sistema Solare e della Nube di Oort, questo tribunale riconosce l’imputata Lady Godivatron Giaretto-XR colpevole del crimine di relazione sessuale; pertanto, la condanna a essere convertita in un antroforme staminale di sesso maschile e oltre a ciò alla pena dell’ergastolo, quest’ultima da scontare nella colonia penale mineraria T-Steronia di Ganimede. A causa dell’attuale e perdurante stato di congestione degli istituti di pena su tutto il territorio nazionale, le è concessa la libertà provvisoria a partire dal termine di questo procedimento fino alle ore 21.00 del giorno 22 maggio 2250, essendo prevista la conversione per le ore 22.00 del medesimo giorno. Tra qualche secondo le sarà applicato un orecchino orgatronico che la renderà localizzabile nel raggio di 30000 unità astronomiche, qualora lei tentasse di sottrarsi all’esecuzione della sentenza.” Si ode un sibilo acuto. Sul momento, un brillante rosso compare nel lobo dell’orecchio destro di Lady Godivatron; l’antroforme femmina, inviperito, cerca invano di toglierselo di dosso scrollando violentemente la testa. Lady Godivatron: “Bastardo! Cretino sintetico! Figlio di gran mignotta cibernetica!” Cibergiudice: “Zero possibilità che lei riesca a fuggire, Lady Godivatron Giaretto X-R. È pure corretto da parte mia informarla che il semplice gesto di approssimare un bisturi neutronico o qualsivoglia congegno all’orecchino orgatronico le provocherebbe una temporanea ancorché dolorosissima paralisi nervosa. Oltre a ciò, qualora riuscisse ugualmente nel suo dissennato intento, un segnale d’allarme risuonerebbe istantaneamente in tutte le stazioni di polizia del Sistema. Dopodiché la Solarpol le sarebbe addosso in tempi ultrabrevi mediante teletrasporto, ovunque lei sia andata a rintanarsi. Lei deve rassegnarsi al suo destino con serenità, Lady Godivatron.” Lady Godivatron: “Accettare un cazzo, ammasso putrido di fili! Io scapperò, brutto pezzo di merda. Oh, vedrai che lo farò! ” Oltre il campo simulcast, uno studente biondo dai bellissimi lineamenti si rivolge a Emil Barbero. Studente biondo (a voce bassa, quasi avesse timore di essere udito nonostante la barriera): “Esimio dottore…” Emil Barbero: “Dica, esimio allievo Mario Manetti.” Mario Manetti: “Volevo umilmente domandarle in che modo sarà eseguita la conversione.” Emil Barbero: “Presenzieremo personalmente alla stessa, esimio Manetti. Ciononostante, dato il suo urgente e positivo
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desiderio di conoscenza, voglio anticiparle qualcosa. Come lei già sa, gli antroformi staminali non sono altro che una coltura cellulare modellabile cui è stata donata la coscienza di sé. Perciò, Lady Godivatron Giaretto X-R sarà collegata a un plasmer moletronico che ne sostituirà l’originaria matrice femminile con il cosiddetto ‘standard coloniale’ maschile, lasciando tuttavia sostanzialmente intatto il cervello.” Mario Manetti: “Una femmina prigioniera nel corpo di un maschio…” Emil Barbero: “…condannata per sempre a spezzarsi la schiena nelle miniere di uranio ganimediane.” Mario Manetti: “Non vi è proprio alcuna possibilità di ricorrere in appello?” Emil Barbero: “Esimio Manetti, essendo manchevoli di fondate argomentazioni, quei delinquenti promiscui che si fanno chiamare Terroristi della Passione tentano senza requie di accattivarsi i favori delle masse con la disinformazione e la menzogna. Indubbiamente il nostro sistema giuridico è durissimo, e come potrebbe essere altrimenti; ciò nonostante, una civiltà evoluta e raffinata com’è la nostra deve saper contemplare anche la pietà. Perciò il magnifico plasmer moletronico è stato concepito e programmato per offrire al condannato un’ultima chance di redenzione. Naturalmente a sua insaputa.” Mario Manetti (stupefatto): “Seriamente?” Emil Barbero: “Certo che sì, esimio Manetti. Per spiegarle l’arcano, il sottoscritto deve inevitabilmente fare riferimento alla Teoria della Biopsitronica Generale di Abraham Margulieff. Lei ne conoscerà certamente il principio generale per averlo studiato alle scuole primarie.” Mario Manetti (senza esitazione): “Il pensiero umano è una forma d’energia.” Emil Barbero: “Eccellente, esimio Manetti. Vede, io e lei, in questo preciso momento, siamo come due piccole stelle irradianti nello spazio fisico, per i concetti, le emozioni e i sentimenti che proviamo: questi ultimi sono particolarmente rimarchevoli. Più in dettaglio, quel genio d’origini extra-ebraiche riscontrò che il pentimento, quand’è autentico e radicale, genera un vero e proprio tsunami psitronico. Per tutto ciò, se Lady Godivatron reagisse al processo di conversione emanando un pentimento reale e totale per le proprie malefatte – in luogo del prevedibile risentimento nei confronti delle istituzioni – la potenza della sua effusione mentale potrebbe perfino riuscire a interrompere l’esecuzione dello stesso programma. Di conseguenza, come previsto dal Nuovo Codice Unificato dei Pianeti Uniti, l’esecuzione della sentenza sarebbe
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automaticamente annullata e l’antroforme tornerebbe in libertà. Ciò nondimeno, finora non si è mai verificato un caso simile; la qual cosa, sia detto in modo schietto, non mi sorprende minimamente. (L’espressione del volto di Emil Barbero rivela una tracotante sicurezza di sé e delle proprie convinzioni.) L’inquadratura torna sul Cibergiudice. Cibergiudice: “Giacché l’orecchino orgatronico è entrato in funzione, questo tribunale dichiara ufficialmente chiuso il caso. La seduta è tolta.” Il Cibergiudice si disattiva con un ronzio. Lady Godivatron flette leggermente il collo all’indietro, poi lo raddrizza di scatto lanciando un grosso scaracchio che si va a spiaccicare sul volto dell’androide. Una frazione di secondo dopo viene smaterializzata. Primo piano della saliva che cola su naso e bocca del Cibergiudice inattivo. Dietro la schermatura simulcast, gli studenti di Emil Barbero rimangono un attimo interdetti; poi si scuotono e ritornano a tasteggiare sui loro computer palmari.
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“Ragguardevole” valutò Collodio Fenakisto, alzando gli occhi corruschi dall’ultima pagina stampata in AGaramond. “L’idea di una società futuribile dove praticare sesso è un crimine capitale, benché per niente nuova, è sempre molto intrigante, nonché foriera di prospettive narrative. Inoltre i dialoghi sono ingegnosi e le descrizioni accurate. La terminologia è utilizzata in modo corretto. Nondimeno, c’è qualcosa… una nana di neutroni che mi pulsa al centro del cranio.” Un’iperbole pienamente calzante col tipo, pensò Lorenzo. “E per quale motivo pulserebbe?” interrogò, spruzzando le parole di una leggera ironia. E Fenakisto: “Ecco… La proibizione degli atti sessuali vale solamente per gli antroformi staminali, o si estende all’intera razza umana?” Il traduttore attese un attimo, poi rispose: “È un dettaglio su cui ho preferito sorvolare. Vorrei che si intuisse tra le righe quanto il mondo di Lady Godivatron sia farisaico e asessuato.” “Uhm. Ritornando un attimo a Stanley Kubrick, suppongo che oltre al Dottor Stranamore lei abbia visto pure 2001: Odissea nello Spazio.” “Supposizione azzeccata, Collodio. È uno di quei capolavori di cui non mi stanco mai, perché a ogni visione ne scopro nuove sfumature.” “Bellissima cosa, Lorenzo. Quindi lei forse saprà che nel 1968, all’uscita dalla prima rappresentazione della pellicola, molti critici la considerarono assai pretenziosa, e, più di tutto, incomprensibile. Onestamente, non capii e continuo a non capire quei giudizi. Che cosa pretendevano quei signori, che il buon Stanley K. avesse didascalizzato ogni singola sequenza dall’entrata di David Bowman nella Porta delle Stelle fino al suo ritorno sulla Terra in una forma vitale più evoluta, poiché le immagini da sole non sono sufficienti a spiegare la vicenda al pubblico? Assolutamente insensato!” Ma l’esclamazione suonò flautata anziché tonante. “Il fatto è che nei riguardi di questo film, come di molti altri, è facile commettere il medesimo errore in cui si incorre davanti a certe opere dell’arte astratta: quello cioè di volerle valutare come si valutano le notizie di cronaca. In realtà la comprensione, intesa nel suo valore oggettivo, non è basilare per apprezzarlo.” “Credo di avere capito” assentì Lorenzo. “I dettagli narrativi sono sì importanti, ma le immagini, per il loro simbolismo implicito, lo sono in maggior misura.”
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“Proprio così” approvò Fenakisto. “Io, personalmente, penso che lo spettatore debba essere stimolato a interpretare ciò che vede, e anche ciò che sente, per proprio conto. Se privassimo l’esperienza umana della soggettività, decreteremmo di riflesso la morte dell’arte.” “Io sono assolutamente in sintonia con lei, Collodio. Quindi, niente, andrò avanti a scrivere a spron battuto senza farmi troppe pippe mentali… ehm, problemi. In seguito appureremo se sarà il caso di circostanziare ulteriormente la storia.” “Eccellente, signor Fiore.” Al termine della lezione, fatto alquanto inconsueto, Collodio Fenakisto l’accompagnò fino alla porta. Lorenzo si era a questo punto affezionato alla moquette ernstiana; non l’avrebbe cambiata neanche gli avessero offerto la luna e un pianeta a scelta. Zompò agilmente dallo zerbino al pianerottolo. “Ci vediamo venerdì” disse il mingherlino insegnante alle sue spalle. Ma un attimo dopo: “Aspetti, signor Fiore. Soltanto un’ultima cosa…” Lorenzo volteggiò su se stesso. “Mi dica, Collodio.” “Lei è fidanzato?” “Ehm, no. Ora come ora sono single.” Fenakisto inarcò un sopracciglio. “Bisogna porre rimedio al più presto a questa congiuntura. Ogni artista che si rispetti ha bisogno della sua musa. Arrivederci, signor Fiore.” E richiuse dolcemente la porta lasciando Lorenzo a bocca storta. Tradurre, tradurre. Poco prima che si estinguesse il 1983 fu pubblicato ¡Cómo está el servicio… de señoras! , il primo e unico album di Almodóvar & McNamara. La copertina era quanto di più decadente si potesse immaginare: il duo circondato da signore come Marisa Paredes, Cecilia Roth, Will More, May, Eva Liberten e Marta Fernández Muro in un lussuoso bagno. Il vinile conteneva i già noti successi della coppia, oltre a novità come Monja, jamón, Safari ed esercizi di stile come i seguenti: Moquito a moco, una tipica canzone popolare; Máquinas de ueva York, techno-pop delirante; Voy a ser mamá, pop pacchiano alla Paloma San Basilio, e Me voy a Usera, heavy metal suburbano. Almodóvar ha sempre considerato la sua sfaccettatura musicale come un mero diversivo. La sua vera vocazione era e rimane tuttora il cinema. L’esordio de L’indiscreto fascino del peccato coincise con l’uscita del disco, ma a differenza di quest’ultimo ebbe una notevole ripercussione. La pellicola partecipò a festival come la Mostra del Cinema di Venezia e fece sì che il regista smettesse gradualmente di essere una figura del sottobosco madrileno.
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Almodóvar e McNamara e Dinarama & Alaska diedero addio al 1983 nel mitico locale madrileno Rockola. Intascarono un cachet di lusso – centomila pesetas a testa – e tutti quanti ebbero a loro disposizione un cameriere che non si sarebbe separato da loro in nessun momento. “Un tizio in livrea ci seguiva per tutta la sala” assicura Ángel Altolaguirre, ex chitarrista dei Dinarama, ”per darci da bere o quello che fosse. Il mio preparava le strisce di coca dietro l’amplificatore, sul palco, davanti a tutto il mondo.” Anche sotto il profilo musicale vi furono delle combinazioni fra le più emozionanti. Mescolarono canzoni d’ambo i repertori e le cantarono da soli, insieme o perfino con Alaska, la punkette di origini messicane che, in retrospettiva, è da considerarsi l’autentico elemento agglutinatore dei personaggi chiave di quell’epoca. Aprì le danze Almodóvar come solista. Salì sul palco con una parrucca bionda, scarpe coi tacchi, tunica rosa di plastica e occhiali neri. Cantò Odio come se fosse un bolero. “Il lato negativo dei tacchi vertiginosi,” commentò alla fine della canzone “è che è come essere zoppo, perché sennò avrei tratto più profitto dalla canzone.” Di seguito interpretò Moquito a moco e Perlas ensangrentadas, che dedicò al suo amico Carlos Berlanga, “che proprio ora – disse – è in divisa alle Canarie pensando a noi.” Quando Almodóvar si ritirò, fu il turno dell’estroso Fabio de Miguel, con una mascherina da Capodanno, il torso nudo, una ghirlanda a modo di collana e un’espressione rigida che faceva intuire il cocktail di sostanze che doveva aver assunto. Senza indugio si mise a cantare ightclubbing di Iggy Pop, offrendone una versione molto personale. Quella fu una delle ultime esibizioni del duo. “La gran magia della cosiddetta movida,” spiega l’incontenibile Fabio “iniziò a perdersi nel 1983, quando Pedro iniziò a diventare più conosciuto e iniziò gradualmente a prendere le distanze da quel nucleo di gente sconvolta. Fu un processo in cui le cose andarono raffreddandosi. Venivamo da anni molto intensi, di molta autoindulgenza, uscendo tutte le notti, assumendo molte droghe. Alla fine qualcosa inizia a funzionarti male nel cervello, soprattutto quando c’è di mezzo l’eroina. Ti richiudi in te stesso e non te ne frega più un cazzo di niente e di nessuno.” Lorenzo lavò un paio di pomodori, li tagliò a fettine sottili condendoli con olio, sale, aceto balsamico e origano. Poi scartò i würstel giganti, paragonandone un momento la dimensione alla leggendaria volata di Seba Rock, li sistemò con metodo su un piatto grande che successivamente introdusse nel forno a microonde programmandone il timer per due minuti di cottura: giusto il tempo di andare a cercare nella fondamentale enciclopedia americana la
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voce che gli ronzava nella testa come un calabrone stonato di speed. Nel 1832 Joseph Antoine Ferdinand Plateau, uno scienziato belga, sviluppò il fenakistoscopio, il primo congegno che diede alle immagini l’illusione del movimento. Plateau collocò due dischi lontani alcuni centimetri lungo una barra. Dopo dipinse diverse immagini di un oggetto o una persona lungo il bordo di un disco. Ogni immagine avanzava leggermente la posizione del soggetto. Si ottenne un certo numero di fessure nell’altro disco. Quando si fecero girare ambedue i dischi alla stessa velocità, le immagini parvero muoversi come entravano in vista nelle fessure.
Lorenzo richiuse il volume e lo ripose devotamente al suo posto sullo scaffale. Poi rifletté a voce alta: “Fenakistoscopio, Fenakisto. Lampante. Come Collodio, dopotutto. Ecco svelato il barbatrucco! Uhm, nondimeno, se stiamo a vedere, perché mai un docente di sceneggiatura non dovrebbe aver diritto a un nome d’arte? Manco fosse un privilegio esclusivo dei musicisti o dei disegnatori di fumetti! Il rovescio della medaglia è che solo un pazzoide scatenato come me può dare retta a un tipo simile. Li trovo proprio tutti io… ma è anche vero che non faccio nulla per evitarli! D’altronde, puoi scappare dalle cattive compagnie e dagli stermini in massa, ma non da te stesso.” Con la consueta petulanza elettronica, il forno a microonde l’avvertì che i würstel erano cotti. Lorenzo consumò la sua parca cena da single sul divano del soggiorno col supporto di un portavivande poggiato sulle ginocchia assistendo al laconico riassunto di Tony Capuozzo dell’ennesima giornata di sangue in Iraq. Forse perché, come Collodio Fenakisto, anche l’inviato speciale del Tg5 era privo di capelli, il traduttore tornò lesto a speculare: “Che età avrà quel tizio? Ieri pomeriggio a lezione, parlando del film di Kubrick, ha usato il passato remoto: non capii quelle critiche. Dunque per quanto possa essere stato precoce nella comprensione di un capolavoro così enigmatico come 2001, non dovrebbe avere meno di cinquant’anni. Però è così indefinibile! Certo è che se lo invitassero a un qualunque talk-show vi metterebbe radici immantinente: è mediafilico alla trentesima potenza! Potrebbe defenestrare quel bru bru di Giampiero Mughini da Controcampo. Oppure fare il telecronista per la Domenica Sportiva. Diamine, pensa solo al metodo di scrittura scenica di Syd Field applicato al calcio! Il plot-point del secondo tempo è stato l’ingresso di De Rossi al posto di Aquilani. Semplicemente geniale, tío. Magari la prossima lezione glielo propongo.”
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Atto Terzo, Scena 4. Notte. Nel suo appartamento senza glifi, seduta sul bordo del vecchio letto a due piazze, Lady Godivatron pare immersa in cupi pensieri. Ma puntualmente a interromperli arriva il solito spot promozionale: questa volta è un folletto che si esprime con un gioioso accento toscano. Lady Godivatron sussulta; poi il suo bel volto s’infiamma di rabbia. Folletto (svolazzandole intorno): “La Bottega del Diodo Sballato! Dalla mescalina al metasilicio, tutto quello che desiderate per far volare la mente!” Lady Godivatron, furente, tenta di scacciarlo con una mano: “Vattene via, bastardo! Lasciami in pace!” Il Folletto, naturalmente, non le dà retta. Folletto: “La Bottega del Diodo Sballato! Di tutto e di più per mandarvi in orbita senza bisogno dell’antigravità! O bischera, dài, vacci a fare un giro!” Lady Godivatron, ora più frustrata che arrabbiata, segue coi suoi occhi azzurro pallido il caracollare del folletto, finché esso non svanisce nel nulla. Lady Godivatron: “Maledetti sgorbi di luce sudicia. Neanche adesso mi lasciano in pace.” In Dettaglio, un vecchissimo orologio a cristalli liquidi poggiato sul comodino di fianco al letto: segna le 3.00. Mancano 19 ore all’esecuzione della sentenza di conversione sessuale su Lady Godivatron.
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Lorenzo uscì definitivamente dall’elaboratore di testo, scaricò la posta elettronica pomeridiana (stessa solfa di quella mattutina, perlopiù offerte di farmaci contro l’impotenza) e lanciò il software anti-spyware; l’orologio sulla barra delle applicazioni segnava le 18.05. Cinquanta minuti dopo il traduttore scese al bar più vicino per farsi un Negroni: finì per berne tre, rimpinzandosi a un tempo di tartine quasi certamente riciclate dalla sera prima. Tornato a casa e resosi conto che tutte quelle porcherie gli avevano tolto la fame, stappò una Menabrea e si accovacciò ai piedi del televisore per vedersi Vivere in differita, ma dopo poche battute capì che anche stavolta la perfida Rebecca Sarpi l’avrebbe sfangata; quindi stoppò il nastro del teleromanzo e lo tolse dal Samsung sostituendolo con un vecchio film spagnolo che aveva registrato la notte precedente. Ne vide giusto l’inizio, poi interruppe anche quella riproduzione e si dedicò a compulsare il Televideo Rai in cerca di refusi. Qualche minuto di nevrotiche digitazioni, un’altra cervogia, un taralluccio e rimise il film spagnolo. Riassumendo, Lorenzo fece qualsiasi cosa pur di procrastinare l’atto di telefonare a Manuela Monroig. “Ma che cazzo sto facendo?” sbottò di colpo, scattando in piedi. “Dio, a forza di stare da solo mi devo essere rimminchionito.” In realtà, le cose non stavano proprio così. Fino a quel periodo, la vita sentimental-erotica di Lorenzo aveva rispettato in pieno il copione ormai sacralizzato da migliaia di angoscianti dibattiti televisivi ed elzeviri redatti da sedicenti psicopatologi coi capelli sfibrati dalle tinture e post-femministe plastificate fino negli alluci smaltati: titolo in Matisse Itc, Il Maschio Sfuggente. Con sfumature scapigliate. A sedici anni, l’acme della sua adolescenza onanista, il futuro traduttore sognava quasi ogni notte di fare l’amore con Valerie Kaprisky; a diciassette, aveva perso la verginità con una svedesina scafatissima in quel di Milano Marittima su una sedia a sdraio di fronte al mare notturno frastagliato dalle puzzolenti fosforescenze d’agosto; a diciotto appena compiuti e festeggiati fumandosi l’empireo, lesse avidamente Il messaggio dalla camera oscura di Carlo Mollino, l’architetto surrealista costruttore di modernità che nel 1961 aveva perso la gara per la costruzione del Palazzo del Lavoro di Torino pur presentando un progetto pioneristico, e decise che ne avrebbe seguito le orme di scontroso rapace notturno. Al tempo dell’università, Lorenzo si presentava a lezione sovente scarmigliato e mezzo addormentato, avendo trascorso la notte a fotografare con una Polaroid la giovane fragranza del mese
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(e alcune volte della settimana) in pose sublimi alla Kiki di Montparnasse. Nonostante ciò, passava sempre gli esami con buoni se non eccellenti voti, grazie a una volontà di ferro non ancora intaccata dalla ruggine del disincanto, e ricorrendo di quando in quando alle amfetamine anoressanti. Il giovane dandy del mondo sotterraneo aveva ottenuto senza alcuna dilazione la laurea in Lingue e Letterature Straniere con il rilevante punteggio di 108/100, discutendo una tesi scoppiettante d’originalità sulle innovazioni linguistiche introdotte da Anthony Burgess nella sua sconvolgente novella A Clockwork Orange. Dopo di allora si era concesso un anno sabbatico per girare l’Europa in lungo in largo. Tallin, Berlino, Amsterdam, Parigi, Biarritz, Bilbao… tutto un rutilare di architetture musei spiagge sbornie e femmine di cui a stento ricordava il nome dopo esserci andato a letto. Marjine, Ludivine, Yelena, Edurne… o forse si chiamava Estibaliz? E fu proprio sgattaiolando con gli stivali in mano dall’ennesima alcova che cadde in conto di non essersi mai veramente innamorato di qualcuno. Grappoli di conquiste e torrenti di carnalità, ma nemmeno una ragazza che avesse davvero lasciato il segno nel suo cuore. Quella fulminea presa di coscienza lo turbò profondamente. Si sentì come un chitarrista che registra una sessione di riff e assoli che gli suonano cool, poi va a risentirseli con attenzione e scopre che la chitarra era stata scordata per tutto il tempo. Più in là, quando la malattia del padre lo spinse a compulsare ogni pubblicazione medica che gli capitava a tiro, Lorenzo scoprì che l’anaffettività è uno dei diversi prodromi riconosciuti della schizofrenia: una malattia nel cui sviluppo l’ereditarietà svolge un ruolo importante. Allora, posto che non si era messo ancora a conversare del tempo con il suo frullatore multifunzione e che in qualsiasi modo non sarebbe andato da uno psichiatra neanche con una pistola puntata alla tempia, cominciò a vagliare la possibilità di eliminare fisicamente sua madre, che nel suo animo riteneva responsabile di avergli trasmesso i propri geni cariati. Cortar por lo sano, si ripeteva continuamente in spagnolo. Troncare il male alla fottuta radice. Potrei tenderle un agguato sotto casa e stordirla col cloroformio (il suo uso criminale…), poi la porterei in un luogo appartato e lì la ucciderei con un’iniezione d’aria… Eppure l’aspirante veterinaria gli aveva sciolto qualcosa dentro. Non la smetteva un solo istante di pensare al suo scilinguagnolo esotico, a quegli occhi da pantera catalana, ai seni rigogliosi. Non gli era mai successo prima con nessun’altra, tanto meno con la sua
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ultima ‘fiamma’ – una flessuosa visagista totalmente flippata per lo spanking. Finita bruscamente anche quella sottospecie di relazione, il traduttore aveva deciso di astenersi a tempo indeterminato dal rincorrere le gonnelle. Era stanco alla millesima potenza di far sesso senza coinvolgimento sentimentale. Il tedioso tiro alla fune con se stesso durò fino alla fine del film. Finalmente, al tempo che i titoli di coda scorrevano sullo schermo, Lorenzo abbrancò il cordless e formò speditamente il numero di Manuela Monroig. Poi, apprensivo come uno sbarbatello ebreo di Brighton Beach prima del bar mitzvah, si dispose ad ascoltare. “Digui?” “Hola guapa, sono Lorenzo. Ti ricordi di me, vero?” “Ehi! Ma certo che mi ricordo. Il traduttore galante che conosce il catalano. Come stai, bello mio?” “Bene, molto bene.” Specialmente adesso che ti sento, cara. ”E tu?” “Una meraviglia, guarda. Mi sto rompendo il capo con il ciclo biologico del nasitrema.” “Cos’è, un alieno venuto da Proxima Centauri?” O una parola neo-dada. “Spiritoso! No, è un verme parassita dei cetacei. Si installa nel loro cervello e all’interno dell’orecchio, ed è ritenuto la causa principale di alcuni spiaggiamenti.” “Molto interessante.” “Sì, un huevo.” Una bellissima risata. “Tu, piuttosto, che fai?” “Ho appena finito di vedere un film di Luis García Berlanga con Nino Manfredi, La ballata del boia.” “Quattro stellette! Il massimo è quando José Luis si affaccia all’uscio della stanza da letto del boia per chiedere la mano di sua figlia e contemporaneamente i pantaloni gli cadono giù sulle caviglie. Qué guasa.” “Sì, troppo ridere.” Lorenzo partì alla carica: “Senti, Manuela, ti piacerebbe cenare con me domani sera?” “Con molto piacere, Lorenzo.” “Grandioso. Ristorante messicano?” “Total. M’incanta la cucina messicana.” “Allora è fatta. Come rimaniamo?” “Vieni a prendermi alle nove di sera. Così avrò almeno il tempo di rigovernarmi.” “Sarò puntuale.” “Meglio per te, guapo. Io detesto gli uomini ritardatari.” “Ne terrò buon conto. Bona nit, Manuela.” “Altrettanto, Lorenzo. Un bacio.” Dolce emozione...
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La sera seguente, vestito di un completo nero che teneva in serbo per occasioni molto speciali e una camicia in tono al cui collo aperto aveva annodato negligentemente una cravatta rossa, Lorenzo Fiore compartiva un tavolo con Manuela Monroig alla Bodeguita Mariachi, storico ristorante tex-mex di Torino. Lei era una monada in tailleur pantalone color crema e camicetta candida e stivaletti neri col tacco basso, i bei capelli neri sciolti sulle spalle. Il fatto che non avesse ceduto all’ordinaria tentazione di presentarsi conciata da femme fatale fece balzare l’indice di gradimento personale di Lorenzo nei suoi confronti ben oltre la ionosfera. Corroborati da un ottimo margarita, il traduttore e la zooiatra si lanciarono a scorrere il ricco menu da cima a fondo e al rovescio. Scelsero portate diverse per spilluzzicare l’uno dall’altro. Y para beber, Dos Equis. Alla seconda birra Lorenzo si sentì in obbligo di confessare a Manuela il risentimento che aveva provato nei confronti delle sue garrule amiche. “Uy, che razza di notte ho passato con quelle” si lamentò lei, alzando gli occhi al cielo. “Cristina, la Paris Hilton dei poveri, si è riempita di gin tonic fino alle sopracciglia, finendo per vomitare sulle fodere della macchina su cui stavamo rimbalzando come ranocchie ubriache qua e là per la città.” “Bella festicciola” commentò Lorenzo, sardonico. “E l’autista? Contenta come una pasqua, no?” “Vaya, talmente contenta da avere una crisi isterica in pieno incrocio, e col semaforo già sul rosso! Come gridava quella scema! Imprecava nemmeno quello fosse l’interno di un garage: no, no, nooo, che il fottuto trabiccolo è di quella reliquia di mio padre, porca troia zozza! Per la cronaca, il cosiddetto fottuto trabiccolo era nientemeno che un Mercedes 500 Turboiniezione. Che ragazza raffinata, vero?” “Un bijou. In ogni modo, proseguirai l’esperimento?” “Neanche morta! Piuttosto mi metto a masturbare maiali per l’inseminazione artificiale in diretta tv, come Rebecca Loos.” Entrambi risero a crepapelle. Il chili con carne era ottimo, e così le fajitas. Dai grandi muri paglierini del locale eroi misconosciuti della rivoluzione messicana, mestizos dai baffi spioventi col sombrero in testa e la cartucciera a cinto e accigliate matrone dai lineamenti amerindi, vegliavano su di loro. “Che si dice in giro sulle due ore e mezzo buche?” domandò Manuela con la bocca mezza piena di chili. “Te lo chiedo perché in questi ultimi giorni non ho avuto tempo per vedere la televisione né consultare i giornali.”
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“Niente di nuovo o significativo” replicò Lorenzo. “Ho timore che alla fine pure questa storia, per quanto sensazionale, cadrà nel dimenticatoio popolare. Tutto scorre, nell’ignavia di questo mondo ingiusto. Eppure abbiamo assistito all’evento più arcano di tutti i tempi!” “Che ci vuoi fare” disse Manuela con fatalismo. “Per giunta la qui presente si è persa lo show, poiché già dormiva come un macigno! Figurati, dopo un’intera giornata passata a studiare il ciclo della filariasi canina e altre delizie del genere…” “Eh eh eh. Buchi di verme nello spazio-tempo.” “Time out of joint. Tempo fuori squadra.” “Philip Kindred Dick, 1959! Lo hai letto anche tu?” “Sì, quantunque l’autentico appassionato di ficción científica in famiglia sia mio fratello Josep. Però, vedi, io sono una specie di bulimica culturale. Leggo proprio di tutto, dalle riviste di cronaca rosa ai manuali di cucina, tutto d’un fiato, senza tralasciare neppure una parola. Logico, quindi, che mi sia spazzolata pure la collezione di tascabili fraterna.” Lorenzo storse le labbra. “Sia quel che sia, mi seccherebbe moltissimo che l’Universo chiudesse bottega proprio adesso che il Toro sta risollevando le corna.” Manuela lo guardò un attimo interdetta, poi capì e proruppe in una risata squillante. “Vaya vaya vaya. Che fareste voi maschietti se vi togliessero il calcio?” “Semplicemente troveremmo qualche altro passatempo su cui sfogare i nostri eccessi di testosterone” rispose Lorenzo facendole l’occhiolino. “Che so, hockey su ghiaccio, rugby, basket, le corse dei tori a San Fermín…” “Sì, ecco, bravo, vai pure a farti incornare da mezza tonnellata di animale spaventato.” Manuela rise ancora. “Questi guiris… Si imbucano proprio dappertutto.” “Orssù, Lorenzo, dimmi ciò che pensi di Norma” lo sollecitò Manuela alle frutta con uno sfavillio di malizia alcolica negli occhi, il viso raccolto tra le mani a coppa, riferendosi alla protagonista de L’amante bilingue. “Vediamo se le nostre opinioni coincidono.” Lorenzo fu lapidario: “Norma Valentí è un puttanone di prima categoria. Ma in fondo il sesso le serve come alibi per dissimulare le sue angustie da ex studentessa altoborghese progressista.” E giù un altro sorso di Dos Equis. “Anch’io sono cresciuta nell’esclusivo quartiere dell’Eixample, ragazzo mio. Pure, non mi sono mai scopata lustrascarpe andalusi per pura compulsione sessuale. Sebbene devo confessarti che sei
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anni fa ho avuto una tresca con un bell’idraulico di Badajoz…” Esplose in una risata fragorosa. E Lorenzo con lei. “In definitiva,” concluse la bella catalana quando ebbe ripreso il dominio di se stessa “L’amante bilingue è uno tra i miei libri preferiti, per la qualità letteraria e il ritratto indimenticabile di Barcellona che offre.” “Io ho un conto in sospeso con la tua città” le confidò Lorenzo. “L’avrò visitata almeno quattro volte, eppure per un motivo o l’altro non sono mai riuscito a farmi un tour completo delle opere di Gaudí. Qualora venga a trovarti, potresti aiutarmi a liquidarlo.” “Quando vuoi, guapo. Però voglio che ti presenti mascherato da lustrascarpe gitano, con baffi e basette.” “Che ne diresti piuttosto di una salopette di jeans indossata su una dorata abbronzatura da muratore? Andremmo a spasso per la Ciudad Condal su un Seat 131 Super Mirafiori coi coprisedili di leopardo e il santino della Madonna del Pilone!” “Vedremo, uomo. Vedremo.” Dopodiché vennero quattro sessioni consecutive di Tequila Boom Boom. Manuela tracannò i bicchierini di liquore frizzante con gagliardia tutta iberica. “Se Ivan Mondrian e i suoi scagnozzi mi vedessero adesso,” pensò Lorenzo sulla cresta di un’onda d’agave “schiatterebbero blu cobalto d’invidia. Blu blu elettrico blu è il colore della mia stanza. Joanes Pelamatti salpa dal rapporto Kinsey e approda alla ricerca dell’Università Bocconi sulla precocità sessuale delle riminesi. Rimini Rimini, Pao Pao, Funny Funny, Chop Chop Chop. Bergara, dannato soffia grassottello e ipertricotico, ammazzati di seghe pensando a me che fornico come un dio greco!” Manuela tossicchiò con discrezione. “Ascolta, Lorenzo, non che voglia guastare la tua temporanea fase d’introspezione, ma che ne diresti di berci la espuela, cioè il bicchierino della staffa, e poi chiedere il conto?” “Ehm…” pausa e reubicazione. “Ci sto, Manú. Però stavolta ce la beviamo alla fragola.” Mezz’ora più tardi si ritrovarono slombati sui sedili del coche di Lorenzo. “Uy, Lorenso, estoy borracha como una cuba” biascicò Manuela. “Mi sembra di stare su una giostra.” “Anch’io sono bello alticcio” singhiozzò Lorenzo, lo sguardo basculante sul pannello di guida. “Forse abbiamo esagerato con la tequila. Senz’altro abbiamo esagerato.” “Già già già. Però a me sono sempre piaciute le giostre.” “Buon per te.” Si rivolse a lei fissandola con occhi arrossati. “Allora, amica mia provenzale… che si fa?”
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“Molt bé… Credo sia giunto l’imprescindibile momento di una citazione colta. Ecco: Wilhem Reich diceva che la sanità psichica dipende dalla soddisfazione orgasmica.” “Ebbene, Manuela?” Lorenzo sentì un enorme solleticamento, un’offensiva di sensualità farsi largo nel suo corpo. Uncontrollable urge. “Ebbene, Comte Arnau” aggiunse la zooiatra stringendogli una mano tra le sue, languida, vogliosa, irresistibile “aiutami a non diventare pazza, stanotte.” “Farò del mio meglio, dottoressa Monroig.” Le loro bocche si cercarono e si trovarono… …Dopo il periodo, forse più celebre, delle fredde opere sul tema ossessivo della macchina, Picabia approda a figure di amanti, ricorrenti, appena accennate e rese con un segno spesso, frutto di una pittura veloce, se non immediata: è il periodo dei mostri, nella cui serie si inserisce anche Le baiser. Il bacio.
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Atto Terzo, Scena 5. In una giornata inusualmente luminosa, Lady Godivatron si materializza in una cabina di teletrasporto urbano ai piedi della Mole Antonelliana – l’antico Museo del Cinema di Augusta Tau. In Dettaglio, il display di un orologio olografico installato sul tetto della cabina stessa: segna le 15.00. Mancano sette ore alla conversione. Lady Godivatron esce dalla cabina e si mette a vagare per le strade del centro gremite di esseri umani modificati geneticamente, extraterrestri delle specie più bizzarre, antroformi staminali come lei. Molteplici riprese del volto, in lestissima successione e da differenti prospettive, ne mostrano il profondo turbamento. Improvvisamente il folletto di luce dall’accento toscano le ricompare davanti. Lady Godivatron (sobbalzando): “Porco Marte purulento, ancora tu…” Folletto: “Sì, proprio io. Lo sapevo, eh eh, che alla fine saresti arrivata.” Lady Godivatron (diffidente): “Arrivata dove?” Folletto: “Ma alla Bottega del Diodo Sballato, santa signora bucaiola! Guarda, è giusto qui di fianco a te.” Lady Godivatron volge lo sguardo all’insegna pulsante della Bottega: “E ora che cazzo dovrei fare, secondo il tuo illuminato consiglio? Comprarmi una dose quadrupla di ghiaccio titaniano?” Folletto: “Oh bella, vedi un po’ te. Io adesso c’ho da fare. Se noialtri non ci si fa il mazzo, niente fotoni per cena. Addio!” Il folletto scompare in uno sbuffo caleidoscopico. Lady Godivatron (fatalista): “Ho proprio niente da perdere. Vorrà dire che mi presenterò al cospetto del bastardo convertitore più strafatta di un veterano delle guerre antartiche.” In due agili falcate, Lady Godivatron oltrepassa l’entrata della Bottega del Diodo Sballato. Al suo interno la Bottega del Diodo è ampia e alta, e inzeppata delle mercanzie più strane: amuleti, ricambi di navette spaziali, feti alieni sotto spirito, strambi animali impagliati, marionette, consolle olografiche di seconda mano, bambole di stracci, intrugli colorati. Più che un punto vendita autorizzato di droghe, sembra un suk. Lady Godivatron, meravigliata, si mette a guardare da tutte le parti, finché si sente una voce fuori campo: “Io sono Doña Electra. Hai bisogno di qualcosa, muchacha?” Lady Godivatron trasale.
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L’inquadratura scivola sul banco, dietro il quale è seduta una donna di colore piuttosto corpulenta e dall’aria astuta, con un fazzoletto color carminio legato in testa e due enormi cerchi d’oro ai lobi delle orecchie. Enormemente perplessa, Lady Godivatron muove un passo incerto verso di lei. Doña Electra: “E dài, avvicinati. Non ti mangio mica, sai? Dicono che i miei antenati fossero dei cannibali inveterati (ride), ma io personalmente prediligo il pollame arrosto con contorno di patate fritte.” Gli occhietti tondi e vispi di Doña Electra hanno già notato l’orecchino orgatronico. Lady Godivatron, in visibile imbarazzo, tenta di articolare qualcosa, ma la negra grassona la previene con un gesto calmo. Doña Electra: “Non dire niente, amica. So già tutto, anche se non ti posso svelare perché e neppure per quale ragione. Piuttosto, ho qualcosa per te.” La donna apre lentamente un cassetto, ne tira fuori un cofanetto trasparente contenente un vecchio microchip al silicio: lo porge a Lady Godivatron. Doña Electra: “Prendilo.” Lady Godivatron: “Ma…” Doña Electra: “Niente ma. Torna subito a casa, versati da bere e mandalo giù. Vedrai che ti sarà di conforto.” Lady Godivatron ghermisce il cofanetto e lo rigira varie volte fra le mani stilizzate, poi porta una mano al marsupio allacciato intorno alla vita sottile, ma Doña Electra scuote bonariamente la testa. Doña Electra: “No, nulla in cambio. (Osserva silenzio per qualche istante.) Adesso vai, che ti resta poco tempo. (Si batte il petto con enfasi.) Il mio cuore è con te, ragazza.” Lady Godivatron, confusa ma manifestamente riconoscente, lascia scivolare il cofanetto nel marsupio, volge le spalle a Doña Electra ed esce a tutta fretta dal negozio.
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“Bon dia, cariño” sussurrò la bilingue Manuela, torpida, nuda, splendida, distesa accanto a Lorenzo sul letto in chiaroscuro. “Buongiorno” replicò il traduttore, sbadigliando. “Ma che ore sono?” “Le dieci e mezza.” “Porca l’oca. Sarai in ritardo bestia per l’università. Ora mi alzo e ti preparo la colazione.” Lei scosse delicatamente la testa. “Stai tranquillo, Lorenzo. C’è tempo. Ho lezione nel pomeriggio. Vieni qui, adesso. Ti desidero ancora.” Molto più tardi, percorrendogli il torace con le dita cesellate, Manuela disse: “Hai mai letto qualcosa di Roger Zelazny?” Lorenzo, occhi al soffitto, fece un rapido computo mentale. “Mmm, perlomeno sette romanzi e una dozzina di racconti brevi. Quell’uomo era un genio della scrittura fantastica.” “Io ho letto solamente Il signore dei sogni: la storia di uno psicoterapeuta creatore di visioni oniriche che annega in uno dei suoi mondi fittizi. Terrificante. La conosci?” “Certamente. Se ricordo bene, vinse il Premio Nebula 1965 per il romanzo breve.” “Menudo estúpido el doctor Render! La bella psichiatra cieca Eileen Shallot lo aggancia con la pretta finalità di sperimentare vere emozioni visive, e lui si lascia ammaliare dalla sua mente avida.” “In verità,” puntualizzò Lorenzo, volgendosi a lei e prendendo a carezzarle un fianco satinato da un raggio di luce “il genialoide è ben consapevole del rischio che comporta formare immagini per una paziente priva della vista. Ma lui è Render, l’egomaniaco Signore dei Sogni! Pur tuttavia, della vita reale capisce poco o nulla.” “Lorenzo… hai mai pensato a qualcosa del genere? Vale a dire, l’eventualità di smarrirti in una visione e non risvegliarti mai più?” Lorenzo tirò su col naso. “Non hai idea di quante volte mi è successo, soprattutto dopo la scomparsa di Melchiorre. Sai qual è il mio sogno più ricorrente? Io e lui siamo Greg Powell e Mike Donovan, due figure d’astronauti scontrosi ma ligi al dovere che ricorrono spesso nei racconti di Isaac Asimov; quella racchiona inacidita di Susan Calvin e la sua camarilla di sapientoni ci fanno montare sulla più veloce nave spaziale mai costruita dall’uomo, e poi wooosh, a spasso per la Galassia, proprio come in Star Trek: difatti, a ogni missione esploriamo un pianeta diverso. Puoi immaginare che ganga, se non fosse che la Calvin in fase rapidi
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movimenti oculari assomiglia recisamente troppo a mia madre, ma che vuoi, non tutte le ciambelle riescono col buco, dicono. Al risveglio, quando mi ritrovo davanti quel ferrovecchio di sveglia in luogo del quadro comandi dell’astronave, è come se in un baleno qualcuno mi estraesse tutta l’essenza vitale con una siringa.” Trascorse un periodo di tempo senza parole. “Sarà stata molto dura per te la sua dipartita” disse alla fine Manuela, sfiorandogli una guancia. Lorenzo assentì con lentezza. “Melchiorre non era la persona più irreprensibile del dannato mondo, ma era comunque mio padre, e io gli volevo un bene dell’anima.” Fatalmente, avvertì un senso di stringimento alla gola. “Senti, cambiamo discorso, ti dispiace?” Si sforzò di sorridere. “Parliamo dei tuoi vermicelli, per esempio: qual è il più originale? Quello che ti acchiappa più di tutti?” Le linee divisorie del volto di Manuela si contorsero in una smorfia picassiana. “Vediamo un pochino… oh, direi senz’altro lo schistosoma haematobium, benché sia un parassita prevalentemente dell’uomo. Si può contrarre facendo il bagno nei laghi e nei fiumi tropicali. Le forme larvali degli schistosomi penetrano nella pelle e si sviluppano nell’organismo trasformandosi in trematodi adulti. Le ripercussioni sanitarie sono molteplici e non te le sto a elencare, ma il particolare più insolito della vita di queste bestioline è che il maschio presenta un canale cosiddetto ginecoforo in cui alloggia permanentemente la femmina. Perciocché, data la loro smisurata produzione di uova, si potrebbe affermare in modo poco ortodosso dal punto di vista prettamente scientifico ma molto suggestivo da quello popolare che questi vermi passino l’intera loro viscida vita a scopare.” “Vivir follando” commentò Lorenzo. Il titolo di un film-culto della pornografia spagnola. “Qué?” fece la catalana, indispettita. “Non mi dirai che hai visto quella porcata.” “Ehm…” Il blitzkrieg di Manuela Monroig lo colse del tutto di sorpresa. All’istante, Lorenzo fu sottoposto a un furibondo attacco combinato di solletico e pizzicotti. “E così guardi i film zozzoni, eh?” ansava lei a denti stretti, ficcandogli le mani da tutte le parti. “Sporcaccione. Marrano. Viejo verde!” “Va bene, smettila, alzo bandiera bianca!” la implorò Lorenzo ridacchiando, sopraffatto in una postura da crocifisso. Ora i lunghi capelli di Manuela cadevano sul suo volto, mentre lei lo guardava dall’alto, ignuda e tentatrice, gli occhi neri che mandavano scintille, le mani serrate sui suoi polsi.
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“Arrenditi, cerdete.” “Senza condizioni, Manú.” “Muy bien” apprezzò la bellissima veterinaria. E gli si sdraiò sopra. “Adesso ti darò una dimostrazione pratica di come fanno l’amore i delfini. Tu stai zitto e non muovere un muscolo, vale?” “Obbedisco, dottoressa Monroig.” Gli convenne. Contrariamente al consueto, Lorenzo si recò alla Fuoco Sacro Edizioni in automobile. In condizioni normali, neanche per idea, ma la copiosa effusione di morfine endogene scatenatasi in lui per la frenetica attività erotica delle precedenti nottate l’avrebbe reso immune perfino allo stress causato dalla visione obbligatoria di venticinque puntate ininterrotte del Processo di Biscardi. Il sesso, come lo straniero, può muovere le montagne. Sorbì un cappuccino nella solita caffetteria di Piazza Vittorio, un gomito poggiato sul bancone. Poco più in là Mary e Jessica, le giovanissime sgrammaticate utenti della linea 56, stritolavano avverbi e congiuntivi col conforto, rispettivamente, di una tequila sunrise e un bloody mary: – Mary, porca troia, ma ce l’hai mandato il messaggio a Kevin o no? Guarda che gli piaci, scemetta! – – Ma, non so, vedremo, Jessica. Questi maschi bisogna trattarli come zerbini, uguale che Katia del Grande Fratello ad Ascanio. Quindi, niente messaggini, almeno per oggi pomeriggio. – – Giustissimo, cazzo di budda. Ascolta, Ma’, io c’ho proprio un bruttissimo problema. Kevin sta sempre lì a chiedermi se lo mando giù. Oh, ma se a me non mi piace, che ci posso fare? – – Be’, Je’, quando lui ti viene nella bocca tu fai finta che sia orzata, e vedrai che facendotici l’abitudine ti piacerà persino. – – Vabbene, Ma’. Possibilmente, lo farò. – Di cui mi aspetta giustamente l’entità editoriale, pensò Lorenzo allungando un euro al barista. “Secondo l’Audiradio, ogni giorno trentacinque milioni di italiani ascoltano la radio” dichiarò in rima baciata Carlo Pelamatti, tamburellando con le dita su Almodóvar e altre storie della movida (traduzione completa freschissima di stampa a getto d’inchiostro) nell’ufficio mondrianesco. “Io non l’ascolto mai” replicò asciutto il traduttore. “Il 68 per cento della popolazione,” si impuntò il Pelamatti “che diventa l’80 per cento nella fascia d’età tra 15 e 35 anni. La media d’ascolto è di tre ore al giorno.” “Qual è l’emittente più seguita?” chiese Lorenzo, volendo stare al gioco.
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“Raiuno stravince alla grande, con una media giornaliera di 7.128.000 ascoltatori.” “Però.” “Sono tanti, non è vero?” Il Pelamatti levò lo sguardo e fissò intensamente Lorenzo per qualche istante. “Ascolti, signor Fiore: l’ultima tranche del suo lavoro è buona, come del resto quasi tutte le precedenti. E non le occulterò la mia moderata contentezza per il completamento della trasposizione avvenuto entro la data da me impostale. Conoscendola, deve aver sudato le proverbiali sette camicie per ottenere simile risultato.” “Gloria Trillo” pronunciò laconico Lorenzo. “Come?” “Gloria Trillo è una venditrice d’automobili con seri disturbi psichici di cui Tony Soprano s’innamora come un budino alla vaniglia” spiegò Lorenzo, gustando le proprie parole come ciliege mature. “Naturalmente Tonino si precipita a confidarsi con Miss Lombardo, l’analista presso cui è in terapia: sono al settimo e forse anche all’ottavo cielo, lei è la mia nuova regina italiana, scopiamo magnificamente e tutta quella roba lì. Al termine di quella piena italoamericana di parole Miss Lombardo sentenzia: ‘L’amour fou.’ E il corpulento mafioso, quanto mai perplesso: ‘L’amur che? Fu, fa, fo… cos’è ’sta roba?’ È l’amore folle che tutto può, caro Tony. Allora, dottor Pelamatti, poiché al presente anch’io sono pazzo d’amore, la pregherei cortesemente di saldarmi le spettanze il più presto possibile, tipo ora. Sa com’è, ho svariate cose da pagare, e detto francamente non c’ho palle di aspettare la grana da qui all’eternità come ogni dannata volta.” La faccia del Pelamatti era tutta uno spettacolo. “Ma… ma di che sta parlando?” balbettò il direttore editoriale. E Lorenzo, finalmente, gliele cantò chiare: “Di questo: ne ho le scatole strapiene di lei e delle sue pallosissime digressioni, nonché di quei lecchini che le vengono a riferire i sacrosanti affaracci miei, tipo quello scimmione onanista di Bergara. La mia traduzione non è semplicemente buona, è superlativa. E che Odino mi fulmini in questo stesso istante se non è così.” “Santo Dio, signor Fiore… che spudoratezza!” Lorenzo balzò in piedi. Repentinamente il suo volto si caricò di sacro furore. Il Pelamatti sussultò. “Spudoratezza?” ripeté con durezza il traduttore, guardandolo dall’alto in basso. “Adesso le dico io cos’è spudorato. Spudorato è chiedere un sostanzioso contributo economico agli autori esordienti per pubblicare. Spudorato è far ricomprare agli stessi le copie invendute dei libri a prezzo di macero. Spudorato è schiavizzare le maestranze infrangendo senza ritegno le leggi vigenti. Spudorato è
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frodare il fisco con patetici sotterfugi. Ah, giusto a tale proposito, chissà quanto sarebbe contenta la Guardia di Finanza di sbirciare i suoi libri contabili e altre cosucce…” Il labbro superiore del Pelamatti cominciò a tremare in modo frenetico. “Mi sta forse… ricattando, signor Fiore?” “Io, ricattarla?” replicò graffiante Lorenzo, facendo gli occhi da agnellino. “Giammai. Diciamo che lotto per quanto mi spetta di diritto. Il discorso è che io non la voglio più vedere neanche in fotografia, dottor Pelamatti. Se acabó. Fino a prova contraria, la Fuoco Sacro Edizioni non è l’ultima casa editrice rimasta sulla terra.” Calò un silenzio di tomba egizia. Il sudore iniziò a scendere copioso sulla fronte lucida del Pelamatti e il tic nervoso nel labbro minacciò di estendersi in modo allarmante al resto del corpo magro. Lorenzo attendeva con calma, baldo, il busto eretto, come un Alessandro Magno in versione Heineken Festival. Al fine, il Pelamatti mise mano tremolante al suo borsello di cuoio traendone un blocchetto degli assegni. Ne compilò uno alla velocità del suono e lo porse a Lorenzo. “Ecco, qui c’è tutto quanto le spetta” mormorò, terreo. Lorenzo scansionò diligentemente il rettangolo azzurro di carta intestata. “Sì, effettivamente la cifra corrisponde a quanto pattuito tra noi a suo tempo.” Piegò l’assegno e lo infilò nel portafoglio. Guardò ancora il Pelamatti: “La ringrazio, dottore. Addio.” Il direttore editoriale non gli restituì il commiato. Lorenzo uscì per strada sentendosi più leggero di un aquilone veleggiante su una spiaggia atlantica: era ora che mandasse al diavolo quello struzzo borioso! Canticchiava Learn To Fly dei Foo Fighters e mandava baci alle commesse nei negozi. Percorsi una ventina di metri sotto i portici della piazza, il traduttore s’imbatté in Giacomo Bergara, l’impaginatore sicofante, più adiposo e irsuto che mai, con una borsa della spesa in una mano e la valigetta ventiquattrore nell’altra. “Ehilà, Bergara!” esclamò con gemütlich, senza fermarsi. “Hai fatto scorta di Niagara al supermercato? Ci credo, a forza di intasare la tazza col tuo sperma sterile…” “Ehi, ma che diavolo ti prende?!” esclamò Bergara di rimando, dopo un attimo di sbalordimento. Ma Lorenzo era ormai lontano un minuto-luce. Scacco matto! Interludio. Un circolo di luce bianca intermittente illumina un antroforme staminale di sesso maschile, completamente nudo, il corpo glabro coperto da un velo di sudore perlaceo, gli occhi chiusi,
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le labbra tremanti. Alle sue tempie sono applicati due dischetti bianchi, ambedue uniti tramite un unico cavo di ugual colore a qualcosa fuori campo – presumibilmente il plasmer moletronico. In sottofondo, una cacofonia di dissonanze. Il frastuono aumenta sensibilmente. Gradualmente, le fattezze dell’antroforme mutano facendosi più delicate. I muscoli pettorali s’ingrossano arrotondandosi, mentre le spalle e gli arti superiori e inferiori si assottigliano. All’improvviso, l’antroforme staminale sbarra gli occhi. Antroforme: “Basta, per pietà! Nooo!” La telecamera zooma rapidamente sulla bocca spalancata della creatura. Il suo grido di disperazione si acutizza nella parte finale in una modulazione tipicamente femminile. Interruzione subitanea della cacofonia seguita dall’oscurità più totale. Di nuovo la luce, stabile questa volta. In Dettaglio, i pugni serrati dell’antroforme che, molto lentamente, si schiudono; ora le dita sono sottili, con le unghie lunghe. L’inquadratura sale adagio a mostrare i seni, il collo e in ultimo il volto di una donna piangente. Una voce elettronica scandisce: CONVERSIONE DEL SOGGETTO COMPLETATA.
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Lorenzo si sentiva fresco come un ottimo dopobarba sulla pelle appena rasata. Schivò con scioltezza una serie d’ostacoli umani e artificiali e posteggiò il suo bisiluro moliniano giustamente davanti al palazzo della Parallasse Arti Audiovisive. “Ci racconti, caro Lorenzo: come si presentava quel dì il salotto di Collodio Fenakisto?” domandò la longilinea e ammiccante Sonia Cromos, centotrentacinque anni portati splendidamente grazie a quattro costose operazioni di rigenerazione telomerica puntellate da periodiche assunzioni di resveratrolo. “Sull’arredamento possiamo tranquillamente sorvolare” sorrise lo Scrittore Assoluto. “Piuttosto, mi fece sorridere l’abbigliamento di Collodio. Il mio insegnante di sceneggiatura vestiva stavolta una tuta nera da aviatore con uno strano simbolo cucito sul petto molto simile al lauburu, la croce basca a quattro teste. Conciato così, sembrava più che mai un adepto di qualche setta ufologica.” “Ma portava sempre le babbucce ai piedi?” “No, signorina Cromos: stivaletti da fontaniere! Però lei capirà; abituato com’ero alle sue stramberie, figuriamoci se avrei fatto caso proprio a quella in particolare…” “Seppure suscettibile di ulteriori miglioramenti, fila come un missile” commentò Collodio Fenakisto al termine dello spassionato scrutinio. “Ottimo lavoro, signor Fiore.” “Molte grazie, Collodio.” “Non c’è di che. Si è già formato qualche idea riguardo allo scioglimento della vicenda?” “Svariati embrioni! Credo che avrò l’imbarazzo della scelta.” Fenakisto sbozzò uno dei suoi rari sorrisi. I suoi denti erano piccoli e aguzzi, candidi come pastiglie alla menta. “Siamo quasi al dunque, signor Fiore.” Lorenzo si passò una mano fra i capelli. “Veramente. Collodio, ci tengo ad anticiparle che il mio giudizio sul corso è senz’altro positivo. Ho appreso e continuo ad apprendere moltissime cose e, smentendo la mia sfiducia dell’inizio, ritengo che il fatto di esserne l’unico allievo si sta rivelando straordinariamente profittevole.” Fenakisto consentì. “Sicuramente, noi stiamo impiegando in modo utile le energie a disposizione: nel senso entropico, chiaro.” “Nel senso entropico?” “Precisamente.” “Ah… d’accordo. Bellissima cosa. Collodio, la prego, mi racconti ancora qualche aneddoto sugli sceneggiatori più famosi.”
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“Ma certo, signor Fiore” acconsentì Fenakisto. “Le parlerò di Stephen Gaghan, lo scénariste di Traffic. Un grande talento che in passato ha avuto gravi problemi di tossicodipendenza.” “Uh-uh. Elettrizzante.” Una volta ho sentito Charlie Harper degli U.K. Subs dichiarare a un intervistatore: io non so davvero che razza di droga prendano gli scrittori per starsene seduti tutto il tempo a creare mondi. Presto detto, punk: peckincromo, per far traboccare le idee sui tasti di questa Olympia Electric, la quale, benché veneranda, risponde ancora a ogni tocco delle mie dita con uno scatto di adorazione pari a quella di una vera spasimante con la camiciola legata in vita e i pantaloni a zampa d’elefante pazza di sesso e droga e degli Allman Brothers; ed eroina afghana, per il successivo fondamentale editing, altrimenti conosciuto come normazione ortoeditoriale. Mettila come ti pare, Chazz, la parola è fottuta e ri-definita, il dialogo brillante e attendibile ancorché infarcito di turpiloquio, le situazioni più spesse della calotta polare artica, ma dopotutto non è così che si vive per le strade di New York? Pragmatismo urbano e pastrami, bastone e carota, Metodo Critico Paranoico e Pop Art, Bellini e Seabreeze, momzer e hijoputa, il detective polacco si comporta sempre da autentico figlio di troia ma in fondo ha il cuore di platino, Kim Delaney è la Regina del Salmone Salato, cielo liquido è il colore del mio distintivo. Chi è la Polizia del Cervello? Ma quanto sei bravo Stephen, proprio bravo anche se hai rotto il cazzo, farai incetta di premi anche stavolta, però vedi solo che la proboscide non ti sanguini sul pulpito quando ritirerai quel globo dorato. Comprate ala di mosca, la raffinatissima varietà di cocaina che non fa colare il naso né brucia; così potrete serenamente sedere in Parlamento senza che quegli invidiosi sciacalli dell’opposizione se la intaglino. Manco loro fossero dei santi. Suona brutale il citofono. Cazzo, Elias è già qui sotto? Ma allora il Muro di Einstein è crollato come quello di Berlino! Con conseguente sgretolamento del malvagio Impero fotonico. Fatturato e ordinativi sulla lunghezza d’onda dell’idrogeno. Sali, cabrón, che i miei recettori ti stavano aspettando con ansia! Hale! Com’è fatto Elias poco importa, giusto l’ennesimo questuante ispanico con un bagaglio di plutonio per l’ennesimo figlio di papà bianco anglossassone e protestante (no, cattolico!!!) col vizietto. Tu porgimi solo il braccio e al resto ci pensa papi, irlandés, così puoi tornare alle tue stronzate dattilografate en un pispas, comunque l’altra sera ho avuto il tempo di vedere un episodio di YPD firmato da te e, hombre, sei davvero un portento, anche se ti spari dentro
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più roba tu che tutta Manhattan messa insieme, ridacchia Elias, faccia di Basquiat se proprio v’interessa. E subito dopo mi buca. La lunga ondata di calore orgasmico del primo leggendario fix è soltanto un ricordo ormai ma questo caballo è particolarmente di qualità, perciò quasi all’istante la mia testolina crolla in avanti sotto il peso di una tonnellata di melassa. Muchas gracias, primo. Là sulla scrivania, accanto alla vecchia Olympia, c’è quanto ti spetta, farfuglio a occhi semichiusi, la spada ancora infilata in vena. Elias artiglia il malloppo, poi mi sfiora la testa con un bacio e toglie il disturbo. Hasta la proxima, amigo. E salutami tanto Sexilia. Bromuro d’argento in gelatina fissato sopra un nastro di acetato di cellulosa sensibile alla luce. Le rugose radiazioni luminose. Lancinanti dissonanze mandate in orbita dalla chitarra distorta di Lenny Kaye. Le Torri crollano e io ho bisogno di parole… “Wow, che strippata!” esclamò Lorenzo. “Posso sentire la roba scorrermi nelle vene. Ehm, in senso figurato, va da sé. Lei è un narrateur impareggiabile, Collodio.” “La ringrazio. Nondimeno, lei possiede un’inconsueta capacità di identificazione” asserì Fenakisto. “Sindrome di iper-empatia!” “Grande scrittrice, Octavia Butler. Le andrebbe un goccio di whisky?” “Certamente.” “Ha qualche preferenza per la marca?” “Jack Daniel’s” pronunciò Lorenzo con tutta la certezza di questo pazzo mondo. Manuela: “Questo individuo si è fatto fare una blefaroplastica. E si mangia una parola su quattro. Quei ridondanti kromakey dietro le sue spalle, poi…” Lorenzo: “Fatti più in là, amore. Dicevi del nostro amico sullo schermo? Mi sorprende che tu non conosca ancora Emilio Fede, il palafreniere di Berlusconi! Com’è il gelato?” Manuela: “Gustosissimo. Io impazzisco per le amarene. Però, dico, come si può essere così servili? È semplicemente patetico! Per tacere su quell’oca giuliva che s’impappina sulle previsioni del tempo! De donde habrá salido esa tía?” Lorenzo: “L’avranno sintetizzata in laboratorio sulla base di segnali iperluce provenienti da Andromeda. Ciò nonostante, nel suo complesso, questo tiggì sortisce in me un effetto catartico. Ti giuro che dopo aver mandato più volte a quel paese Fede e compagnia blaterante mi sento come se avessi passato una settimana alle terme.”
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Manuela: “Sarà pur vero. A proposito, non mi hai ancora detto quali sono le tue preferenze politiche.” Lorenzo: “Mai avute, Manú. Per questo alle scuole superiori i compagni con la kefiah e il libretto rosso nello zaino mi tacciavano di qualunquismo, ma mi rimbalzava alla stragrande. La politica è un pantano di sofismi nel quale si mantengono a galla soltanto i voltagabbana.” Manuela: “Come Javier Solana. Grosso modo nel Giurassico era un progre socialdemocratico che capitanava manifestazioni sotto il lemma OTA no, bases fuera. Poi, quando lo PSOE andò al governo, gli diedero un ministero, e com’è ovvio dal quel momento in avanti le sue posizioni estremistiche si andarono gradualmente ammorbidendo tanto che, all’epoca della guerra del Kosovo, prova a indovinare chi era il segretario generale della NATO?” Lorenzo: “Tutto il mondo è paese, Manù. Quand’era giovane, l’omologo Massimo D’Alema se n’andava a spasso per il mondo socialista grazie alla Federazione dei Giovani Comunisti Italiani, poi la brezza tirò a dritta – per modo di dire – e a manca e un bel giorno, sempre nel corso del medesimo conflitto balcanico e con il baffetto pugliese a capo del governo, i nostri cacciabombardieri si aggregarono ai velivoli NATO per bombardare ‘obiettivi strategici’ in territorio jugoslavo. In termini comprensibili: ponti, ospedali, scuole, fabbriche d’ogni tipo e ripetitori tv, in nome del cosiddetto principio di difesa integrata.” Manuela: “Ding dong, fine della tribuna politica! Lorenzo, cariño, mi porteresti dell’altro gelato?” Lorenzo (inarcando un sopracciglio): “Ossignore, non sarai incinta?” Manuela: “Sei un fenomeno più unico che raro. Secondo te le voglie verrebbero già alle primissime settimane dal concepimento? Fosse così, come minimo dovrei essere incinta dell’Anticristo.” Lorenzo: “Oppure di una bambina prodigiosa di origini aliene. In tal caso come la chiameremmo, Montserrat Proxima?” Manuela: “Pues, tu riderai, ma a me sembra un nome fantastico. Mette quasi voglia di farlo davvero, questo bebè.” Lorenzo: “Ferma lì. Finiremmo per passare il resto della nostra vita braccati da una nazione all’altra, o, cosa ancora peggiore, scrutati in ogni nostra funzione corporale da un anfiteatro di alieni guardoni su un pianeta lontano duemila anni luce dalla Terra. Il gelato lo vuoi sempre gusto amarena, no? Se t’interessa, ho anche il nocciolato.” Manuela: “Ah sì? Allora vada per quest’ultimo.”
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Lorenzo: “Te ne porterò una porzione da spavento. Mi auguro solo che i nostri amichetti verdastri non mi sequestrino durante il tragitto da qui al frigorifero.” Manuela (stringendosi nelle spalle): “Facciano pure. Basta che mi facciano avere la mia scodella di nocciolato nel più breve tempo possibile.” Lorenzo: “Anvedi la dottoressa… Il curaro ti devo dare io, quale gelato alle nocciole!” Manuela (candidamente): “Che sapore ha?” Poi spensero l’abiezione catodica e misero da parte le scodelle, Manuela sgattaiolò vicino a Lorenzo e gli si appiccicò. Erano come due cucchiai in un cassetto. Il traduttore le chiese chi fosse questo Comte Arnau cui aveva accennato la sera del loro primo bacio e lei glielo raccontò. Arnau, crudele conte medioevale di Mataplana, era tristemente noto sia per truffare i propri contadini sulle decime del raccolto, sia per le tresche con le femmine del posto: in particolare, se la faceva con la badessa e le monache del convento di Sant Joan. Finì però con l’innamorarsi perdutamente di una popolana che di lui non ne voleva proprio sapere. Ella cercò scampo tra le mura del monastero e lì la trovò l’insaziabile Arnau, morta di spavento e di dolore. Pure, il corpo della sventurata fanciulla riprese vita giusto il tempo necessario per rinfacciargli i suoi peccati. Sopraffatto dal rimorso e condannato per sempre a strazianti tormenti, Arnau si ritirò sulla Serra de Mogrony. Si favoleggia che la sua anima vaghi ancora nelle notti di burrasca intorno al convento della cittadina catalana: un’agghiacciante figura a cavallo accompagnata da una muta di cani rabbiosi. “Pare proprio un film di Jesús Franco” commentò Lorenzo. “Vedrei alla grande Alice Arno nella parte della badessa. E Lina Romay in quella della ragazza perseguitata.” “Te la do io Lina Romay” ribatté ridendo Manuela posandogli una mano sul fianco. Poi approfondì la cosa e allora stendiamo un pudico velo. Atto Terzo, Scena 6. All’interno dell’appartamento di Lady Godivatron, l’orologio sul comò segna le 21.00. Manca soltanto un’ora all’esecuzione della conversione sessuale sull’antroforme staminale. La stessa Lady sta seduta ai piedi del letto, in un angolo, lo sguardo reclinato sul cofanetto donatole da Doña Electra. Trascorso un certo lasso di tempo, Lady Godivatron si risolve ad aprirlo e ne tira fuori il microchip; poi scaglia il contenitore a
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terra e rimane lì a rimirare per lunghi istanti l’antica placchetta di silicio, stringendola fra il pollice e l’indice della mano. In Retrospettiva, un estratto della Prima Scena: la mano di Lady Godivatron percorre adagio il torace del suo compagno antroforme, soffermandosi su un punto poco sotto lo sterno. Ragazza/Lady Godivatron (fa un soprassalto, gli sgrana gli occhi addosso): “Cosa pulsar hai qui? Percepisco come un rigonfiamento.” Ragazzo (distogliendo lo sguardo): “È ancora presto per spiegartelo.” Stacco. Lady Godivatron: “Che voleva dire? Che cosa portava dentro il corpo? Forse stava sperimentando una nuova droga per conto della Bottega del Diodo Sballato? Un’arma per i Terroristi? La negra grassa sapeva già tutto di me. E neanche lei mi ha voluto spiegare. A che serve realmente questa placchetta? Ora vedremo.” Risolutamente, Lady Godivatron porta il microchip alla bocca e l’inghiotte. Zoom sul suo occhio destro dilatato. Una sensazione come di precipitare verticalmente in un enorme pozzo rettangolare senza fondo, tra pareti scarabocchiate di luce colorata e costellate di pannelli dalle forme geometriche che raffigurano volti e figure femminili. Dissolvenza in bianco. La porta dell’appartamento si apre. Entrano due poliziotti. Poliziotto: “È ora di andare, Lady Godivatron-Giaretto XR.” Lady Godivatron (lo sguardo fisso nel vuoto): “Lo so, cloni della legge. Sono pronta.” E si lascia portar via docilmente, senza opporre resistenza.
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“Non ci posso credere, Lorenzo. Hai mandato a fare in culo il tuo miglior cliente. Si può sapere che diavolo t’è preso?” “Che esagerazione, Giuseppe. Il Pelamatti mi pagava un pelino meglio degli altri ma pure lui con tempistiche geologiche, pertanto da qui a definirlo ‘il mio miglior cliente’… Senti, non ne potevo più e basta! Non esiste solo la Fuoco Sacro Edizioni nel panorama editoriale torinese, per non parlare di quello nazionale! Quindi non stare a addolorarti per me.” “Scommetto che ti stai spupazzando qualcuna. Altrimenti non ti comporteresti in modo così scriteriato.” Lorenzo sorrise sardonico. “Sono ben lieto che i nostri comuni amici di Zeta Reticuli ti abbiano insegnato a leggere nel pensiero, oltre a ficcarti ripetutamente i loro slanciati sondini su per il sedere. Ebbene sì, lo ammetto, sto uscendo con una tal Manuela Monroig da Barcellona, aspirante veterinaria con il cervello dello splendore di un quasar e un corpo da pin-up. Ma non è lei la causa delle mie supposte mattane, te lo giuro sulla pancia del canguro.” “Bellissima metropoli, Barcellona” commentò Giuseppe dalla lontana Pasadena. “Lo sapevi che Gaudí a quarant’anni ebbe una profonda crisi spirituale? Dal 1914 in avanti si dedicò solamente alla Sagrada Familia, vivendo di stenti, dopo aver trasferito il suo giaciglio nel cantiere per essere più vicino agli operai.” “Quel fuori di testa concepiva l’architettura come qualcosa di vivo, Joselito. Non è un caso che a rivalutare la sua opera furono proprio i dadaisti come Man Ray e Picabia o i surrealisti quali Dalí e Buñuel. Cambiando discorso, come va la lettura del libro di Stephen Hawking?” “A gonfie vele, Lorenzo. Sono giunto già al penultimo capitolo: l’Unificazione della Fisica. Voglio farti una domanda al riguardo: se un cane fosse bidimensionale, riuscirebbe a espellere i residui in maniera canonica?” “Vuoi dire a cagare? A occhio e croce, direi di sì.” “E invece no” lo contraddisse Giuseppe. “Dovrebbe espellere i residui per la stessa via attraverso cui li aveva ingeriti perché, se vi fosse un canale digerente che attraversasse tutto il suo corpo, esso dividerebbe l’organismo in due parti separate.” Lorenzo non fu d’accordo. “Non mi torna, hermanito. In un mondo a due dimensioni si suppone che anche il cibo per cani sia bidimensionale: quindi pure la popò, che il tuo adorabile botolo cagherebbe a piastre invece che a stronzetti cilindrici.”
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“Questo perché tu concepisci la bidimensionalità alla stregua di un disegno animato” lo rampognò Giuseppe. “In realtà, si tratta di un concetto sensibilmente più complicato.” “Sul ponte sventola bandiera bianca, Felipe. Stasera non sono in condizione di confutare le tue asserzioni.” Più di tutto, aveva voglia di spalmarsi sul letto; da solo, giacché Manuela era andata a una festa Erasmus con certi suoi compagni di studi. “Ma allora sei innamorato come una pera cotta!” Lo stupore di Giuseppe era genuino. “Da non credere. Vorrei proprio conoscerla, questa Manuela che ti ha fatto capitolare.” “Verboten! Al massimo, ti posso inviare via e-mail una foto di noi due avvinti in un amplesso celestiale.” “Io eviterei. Ascolta, devo dirti una cosa molto importante.” “Sono tutt’orecchi, Felipe.” “Allora… alcuni giorni fa all’ora di pranzo, sbocconcellando un cheeseburger sulla panchina di un giardino non lontano dal mio posto di lavoro, mi sono messo a pensare a tante cose. Al perché una donna bella e intelligente come Nicole Kidman si sprechi con delle emerite cozze d’uomini, alla personalità schizoide di nostra madre, alla terrificante prospettiva di ammalarmi d’ulcera o peggio ancora cancro al colon a forza di ingurgitare queste porcherie fritte in olio esausto e a quanto mi mancano i fusilli al ragù fatti come Dio comanda, allo sterminio efferato dei nativi americani, al fatto che alla data di oggi non abbiamo ancora una colonia umana su Marte, ai delfini che se la intendono perfettamente con i bambini autistici, alle Langhe e alla Costa Azzurra… insomma, un bel guazzabuglio vorticante di neuroni sovraeccitati! Come risultato, appena di ritorno alla mia scrivania e approfittando di un momento di relativa bonaccia aziendale, mi sono lanciato a scrivere un racconto di fantascienza.” Lorenzo emise un fischio prolungato. “Notizia petardo! Dài, mandamelo al più presto, che non sto nella pelle dalla curiosità.” “Be’, dato che è molto corto, pensavo di leggertelo ora.” “Come vuoi, hermano… tanto paghi tu la chiamata.” “Come sempre, no? Comunque aspetta un attimo che lo vado a prendere. Non te ne andare.” “Don’t worry.” Lorenzo attese pazientemente il ritorno del fratello gemello con il cordless appiccicato al padiglione auricolare, riuscendo frattanto nell’intento di prepararsi un calimocho mediante l’utilizzo della sola mancina. Finalmente si udì un fruscio cartaceo e di seguito l’afflato lievemente distorto di Giuseppe: “Ecco qua. S’intitola Mia madre è
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una gran signora. Giuro che se ti metti a ridere ti attacco il telefono in faccia…” Quand’ero piccolo, su Marte, mia madre soleva portarmi spesso al Belvedere Lowell, una cupola idroponica dalla quale si godeva di un panorama stupendo: la pianura alluvionale di Sirbonis. Mentre io viaggiavo con il mio binocolo ad alta risoluzione fra i massi circostanti, simili a cuccioli d’elefante accovacciati, lei mi parlava del progetto al quale mio padre stava lavorando allo Jet Propulsion Laboratory di Pasadena, lontano novanta milioni di chilometri da quel deserto color ruggine. Il progetto in questione era stato denominato Warp Drive, e consisteva nella costruzione di una propulsione interstellare in grado di contrarre lo spazio dinanzi a sé e di espanderlo all’indietro – un effetto chiamato ‘fisarmonica cosmica’. Mia madre era molto bella; sotto quel cielo bruno, con i suoi zigomi alti e i folti capelli neri, pareva Pocahontas. Era originaria dell’Oklahoma. Mio padre, invece, era italiano: piemontese, per la precisione. Andava particolarmente fiero delle proprie origini. Uno dei suoi molecular playing preferiti era ‘Canzoni popolari piemontesi’ della Space Record; in particolare, andava matto per la canzone La mia mama l’è ’na gran dama. Tanto matto che era riuscito persino a insegnarla a mia madre. Immaginatevi: una okie dalle ancestralità Cherokee che per vincere la nostalgia del marito lontano da lei milioni di miglia canticchiava una canzone della terra del Dolcetto davanti a quel deserto rugginoso, spesso incespicando in codeste parole a lei così estranee. Quei momenti bizzarri s’impressero indelebilmente nella mia memoria. Ancora oggi, qui, sul pianeta Barnard II, scrutando le verdi colline della Nuova Aquitania dalla Base terrestre, mi sembra di sentirla: la mia mama l’è ’na gran dama, e me papà l’è cavaier…
Cadde un silenzio pregno d’attesa. “È un piccolo gioiello” giudicò finalmente Lorenzo. “Ti piace sul serio?” ansimò Giuseppe. “Ma certo, hermano, te l’ho appena detto. Una mezzosangue Cherokee su Marte, sposata a un piemontese fatto e finito: geniale! Per giunta, il genere dei racconti brevissimi è il più difficile di tutti, ma tu hai realmente trionfato. Continua così. Un giorno uniremo le nostre forze e scriveremo una sceneggiatura che vincerà l’Oscar! E ci spolvereremo tutte le più belle attrici di Hollywood Babilonia, una dietro l’altra.” “Io mi accontenterei di Charlize Theron” ridacchiò Giuseppe. “Gran bel pezzo di donna, niente da dire. Ma a me ora come ora mi filano le brunacce mediterranee o ispano-americane: Annabella Sciorra, Michelle Rodriguez, Paz Vega, Lorena Bernal… non so se rendo l’idea.”
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“Perfettamente. In qualunque modo, se le nericce ti mandano in estasi, dovrebbe garbarti anche Heather Paige-Kent, benché la pupa in questione sia d’origini ebraiche.” “Diamine, quella mi scioglie come un flan all’uovo in un forno a microonde, soprattutto quando sorride! Sarò balzano, ma per tale sventola potrei anche accettare di convertirmi. E non avrei alcun bisogno di farmi tagliuzzare la verga carnosa, visto e considerato che l’operazione d’asportazione della fimosi cui mi sottoposero da piccolo è equiparabile quasi a una circoncisione. Quindi, shalom aleichem, Rabbi Joseph Flowerstein.” “Sei ufficialmente psicopatico, Lorenzo. Già che siamo in argomento cine, come va il corso di sceneggiatura?” “Una favola, caro il mio cervellone padano. Ho diversi possibili finali in testa per Lady Godivatron, ma entro domani l’altro ne sceglierò uno e lo butterò giù a siluro fotonico, per consegnare l’elaborato definitivo venerdì pomeriggio tardi al signor Collodio Fenakisto che lo verificherà in un batter d’occhio com’è solito fare: e poi spumante, anzi, malto e pasticcini a volontà!” “Un cognome stravagante” notò Giuseppe. “Davvero strambo, sì” convenne Lorenzo. “Però quel tipo è un fenomeno dei nostri tempi. Se te lo dice un miscredente come il sottoscritto puoi starne certo!” “Superwonderful. Ora però ti devo lasciare. Visioni di carte di credito senza saldo nella mia testa. Ti mando un abbraccio forte forte.” “A presto, Joselito. E approfitta della scintilla creativa, che un giorno o l’altro ci faremo milionari!” “Seguirò il consiglio. Buonanotte e sogni d’oro zecchino, Lorenzo. E tanti saluti da parte mia alla tua amante catalana.” “Sarà fatto. Bona nit, company.”
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Con un gesto asciutto Eudald Escaich getta a terra la sigaretta fumata per metà, la schiaccia con la suola della scarpa e s’introduce nel Kiosko Eusebi; per la quarta volta consecutiva il suo telefonino l’ha schernito con l’impassibile litania preregistrata dell’utente non raggiungibile al momento. Eudald fende la folla in diagonale fino al bancone trasparente luminoso, gratificato al suo nervoso passaggio da parecchi sguardi interessati. Ecco l’ennesimo magnifico esemplare della schiatta di coloro che non passano mai inosservati, specialmente in un locale normalmente frequentato da squadriglie di veneree figliole altoborghesi: ventotto anni ancora da compiere, alto, moro, occhi verdi, sorriso White Strips, struttura ossea da atleta americano e bicipiti da vogatore, vestito sempre di costosi abiti firmati, perfino quando va giocare a calcetto con gli amici. Dopo aver conseguito senza sforzi, tutto dovuto per lui anche i bei punteggi, la laurea in Economia e Commercio (con l’imperativo curso de posgrado negli Stati Uniti), Eudald è entrato a far parte dell’organigramma direttivo di un’azienda familiare, guadagnando uno stipendio da favola. Tanto per la cronaca, prima di piazzarlo su quella prestigiosa poltrona, i suoi genitori gli passavano ogni due settimane quanto un operaio metalmeccanico spagnolo riceve a malapena in un mese di quotidiane vessazioni. Ha sempre nuotato a stile libero nel benessere, il nostro guapísimo Eudald. Pertanto, com’è facilmente intuibile, è bramato da tutte le più attraenti rampolle della Barcellona che conta; la maggior parte di loro ricorre a qualsiasi mezzo pur di conquistarne i favori. Le più sfacciate lo aspettano sotto casa spalmate di essenze afrodisiache e tempestano la sua segreteria telefonica di torride profferte sessuali. Le più romantiche tentano di sciogliergli filtri d’amore nei drink quando lui guarda da un’altra parte, oppure gli mandano a mezzo corriere flaconi riempiti delle proprie lacrime di struggimento. Ma non c’è niente da fare. Il nostro Adone catalano non se le fila neanche di striscio. Sono cinque anni che Eudald non ha occhi che per una sola ragazza: proprio colei che non risponde alle sue chiamate, mandandolo in bestia. Il Kiosko Eusebi, così chiamato in onore del celebre industriale catalano Eusebi Güell, è un vecchio magazzino con una piattaforma metallica montata su colonne di cemento da cui un pinchadiscos effonde cinque giorni su sette il nuovo-vecchio verbo della musica lounge (al sesto, sabato, deep house!), mentre sulla parete opposta al portale d’ingresso, presidiato da due energumeni mascelluti e
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rapati a zero, viene proiettata una studiata successione di immagini ricavate da pornoriviste degli anni ’60 e ’70. I baristi del Kiosko Eusebi conoscono molto bene Eudald e gli offrono sempre una corsia preferenziale. Così in un attimo, per l’invidia dei meno abbienti, il giovane leone dell’Eixample ottiene il suo miscuglio preferito, Coca Cola e Pampero Aniversario con limone spremuto. E dopo va in atto la solita pantomima: Quanto ti devo, Jordi? Come sempre invita la casa, Eudald. Ma dài, Jordi. Vai tranquillo, Eudald. Magnifica è la vita dei belli e ricchi. Nondimeno ogni rosa ha la sua spina, cantavano i pacchiani Poison a metà degli anni Ottanta. In quell’epoca Eudald pensava ancora che i bambini nascessero sotto i cavoli dell’Aragona, ma era già avvenente come un piccolo lord. La Spagna dello PSOE e della ormai declinante movida madrilena entrava a far parte della Comunità Europea e poco tempo dopo occorreva il secondo boom economico dalla fine della guerra civile, di modo che la maggior parte degli spagnoli divenne più ricca che mai. Lo smisurato rocker catalano Loquillo sfidava i puristi del rock con la sua attitudine punk e l’apertura di vedute stilistiche, cantando canzoni sagaci come Esto no es Hawai. Sul palco del rivoluzionario programma televisivo di Paloma Chamorro La Edad del Oro, Stiv Bators, lo scatenato cantante dei Lords Of The New Church, si abbassava i pantaloni di pelle e intrappolava il suo membro virile tra le cosce simulando di essere una donna. Alla guida del Barcelona postMaradona, il tecnico inglese Terry Venables metteva in pratica un gioco molto britannico, il classico 4-4-2 in cui risaltava la linea difensiva con giocatori muscolari quali Migueli e Julio Alberto e un centrocampo di quantità guidato dal biondissimo e tecnicamente dotato Bernd Schuster, che durante il suo quadriennale interregno avrebbe portato i blaugrana a vincere una Liga e una Coppa del Re, ma anche a perdere una sciagurata finale di Coppa dei Campioni contro lo Steaua Bucarest nel 1986, in quel di Siviglia. Ogni rosa ha la sua spina. Già. Verità sacrosanta. Eudald vuota il beverone in quattro avidi sorsi e ne chiede subito un altro e poi un altro ancora, totalmente noncurante degli sguardi ora palpabilmente perplessi delle fighettine circostanti, ma non gli riesce proprio di ubriacarsi. I suoi nervi crepitano come cavi dell’alta tensione in una pozzanghera, le catecolamine zampillano come acque sorgive. Così finisce per lasciare il quarto cubata a metà sul banco e precipitarsi nuovamente fuori del locale a formare sul cellulare il numero della sua spina nel cuore, la bruna e ubertosa aspirante zooiatra che lo ha mollato per seguire la sua kundalini nel
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Paese dei Mangiaspaghetti. O meramente perché non ne poteva più di lui. L’utente da lei chiamato non è al momento raggiungibile…
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Lorenzo scostò la sedia e si sedette al tavolo apparecchiato; la donna con gli occhiali scuri lo beneficò di un breve sorriso. Doveva avere circa trent’anni. La sua corta frangetta non arrivava a coprire completamente il sensore ottico che lei portava sulla fronte come un segno di casta. Il flusso psitronico gli fornì l’informazione che quel dispositivo poteva trasmettere soltanto confuse interazioni di luce e ombra alla sua corteccia visiva per mezzo di un fascio di nanofibre ottiche, ma a Lorenzo pareva lo stesso che Elene, così si chiamava la mujer, lo stesse guardandolo fissamente negli occhi. Ella poteva probabilmente distinguere la sua silhouette stagliarsi contro la luce delle lampade retromoderne agganciate alle pareti del ristorante Sounds & Visions. “Buonasera” la salutò Lorenzo. “Perché Elene, e non Elena o Eileen?” “Sono basca di Gernika” rispose la donna. “Ci sei mai stato?” “Una volta, diverse estati fa, nel periodo della festa di San Roque. Ricordo che alle sette del mattino mi avventurai in una caverna satura di fumo per bere il bicchiere della staffa, sennonché quasi d’immediato, su uno schermo ultrapiatto messo davanti al banco, comparve Lene Lovich cantando Lucky umber. Un flash memorabile. Stai bevendo un margarita, vero?” “Bai” confermò Elene utilizzando la propria lingua madre, l’euskera. “Il cameriere ne sta portando uno anche per te.” “Ragazza previdente” si rallegrò Lorenzo. “Eskerrik asko. Grazie.” Il cameriere portò il drink a Lorenzo. “Sai, ho apprezzato molto il tuo ultimo libro, Dal Gang Bang all’Orifizio ero” disse Elene. “Realmente esilarante, nonché eccezionalmente ben scritto. Mi dispiace che la maggior parte dei critici l’abbia stroncato.” “Non ci perdo la melatonina, cara Elene. Fatto sta che i critici sono molto autorevoli. Noi sappiamo che potrebbero essere messi in ridicolo ma i lettori li stimano per il loro modo di scrivere eloquente. Comunque, i giudizi negativi non mi hanno impedito di venderne diciottomila copie, che in un paese dove un cittadino su tre stenta perfino a interpretare la bolletta della luce è già un risultato di lusso. Che crepino d’invidia, quegli imbrattacarte.” “Ci vorrebbe più rispetto per il lavoro altrui” asserì Elene. “Per certo. Tu che fai nella vita?” chiese Lorenzo. “Sono una sociolinguista. Al presente sto lavorando a un progetto di purificazione della lingua basca dagli elementi esterni,
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cioè i termini presi a prestito dallo spagnolo castigliano: i cosiddetti erderismos. Questo per intensificare la personalità dell’euskera, incrementando la sua differenziazione rispetto agli altri idiomi.” Bevve un sorso di cocktail, poi posò delicatamente il bicchiere sul tavolo e si tolse gli occhiali. I suoi occhi erano vitrei come quelli di un manichino, ma lo stesso stupendi, con una tonalità di blu che richiamava alla mente il mare biscaglino in una luminosa giornata estiva. “Ho una fame da cinghiale” manifestò Lorenzo, distraendo momentaneamente lo sguardo dal volto della donna. “Sai già cosa ordinare per primo?” “Oh sì. Mi butterò sugli agnolotti al sugo d’asino. Qui li fanno da morirne.” “Vada per gli agnolotti raglianti, allora” si associò Lorenzo, con l’acquolina in bocca. “Eccellente. Prima, però, godiamoci la carrellata di antipasti.” Elene esibì una dentatura smagliante. “Sento che il cameriere si sta approssimando al nostro tavolo recando quelle fantastiche cipolline in agrodolce...” “Il mio trisnonno Ángel era un ottimo chitarrista” disse Elene mentre sorbivano un eccellente caffè. “Ma davvero? In quale gruppo suonava?” “Nei Dinarama. Quelli che cantavano Rey del glam.” Lorenzo inarcò un sopracciglio. “Vuoi dire Ángel Altolaguirre? È piccolo il mondo! Pensa che ho appena finito di tradurre…” “Lo so già” lo interruppe benevola Elene. “D’altro canto come potrei non saperlo, se io stessa sono una pura creazione della tua mente?” “D’accordo, saltiamo a piè pari la glossa. Quasi mi dimenticavo che tutto questo è soltanto un sogno. Un altro caffè?” “No, grazie.” “Qual è la tua scultura preferita?” Elene meditò per un periodo apparentemente lungo, poi rispose: “Conjunción dinámica di Jorge Oteiza. Mi richiama alla memoria il periodo in cui le cose fra me e il mio ex fidanzato Borja andavano a meraviglia, sotto tutti i punti di vista. Ma niente dura in eterno, purtroppo. Men che mai l’amore, la strana bestia mutante, la legge del pendolo. Figurati, Lorenzo, che in piena parabola discendente della nostra relazione, il mentecatto arrivò perfino a lanciarmi dei messaggi in codice mediante le sue canzoni preferite. Come She cracked dei Modern Lovers di Jojo Richman – la storia di una ragazza autodistruttiva che è un’esperta di storia europea ma purtroppo si fa le pere dalla mattina alla sera e mangia spazzatura
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dalla pattumiera… E questo perché gli dava fastidio che io fumassi erba!” “Chiediamo il conto?” propose Lorenzo. “Sai, vorrei tanto proseguire questa piacevole chiacchierata da un’altra parte. Magari potremmo salire con la mia Skycar fino a trecento metri d’altezza e goderci il panorama notturno di questa stupenda supercittà. Che te ne pare del mio programmino?” “Una cannonata. Andiamo.” La Skycar, un velivolo somigliante a una macchina da corsa ma fornito di quattro eliche intubate mosse da ben otto motori Wankel abbinati due a due, li stava aspettando giusto di fronte al ristorante. DJ Dream collocò sul piatto Soldier di Iggy Pop. “Run run run and go” canterellò gaio Lorenzo in armonia con il refrain della prima carnascialesca canzone, Loco Mosquito, mentre la Skycar ascendeva lentamente nell’aria fresca della magica notte torinese. Elene taceva, formando figure geometriche col pensiero. Tutt’a un tratto ruppe il silenzio dicendo: “Stasera al Tg5 hanno detto che in Pakistan le truppe della Coalizione Globale sono ormai prossime alla cattura di Al-Haukin, il Ladro di Ore Buongustaio.” “Davvero?” replicò Lorenzo, al tempo che estraeva dal frigobar due bottigliette di Titanian Breeze. “Bai. Ha colpito anche a Torino, no? A Bilbao ha rubato ben sei ore e mezza tonnellata di anguillicole.” “Qui invece quel porco ingordo si è fatto una bella scorpacciata a scrocco di tagliatelle con i funghi porcini e fritto misto alla piemontese, il tutto annaffiato dai migliori vini delle Langhe.” “Tagliare a pezzi la faraona appena cotta e collocare ogni pezzo su un crostino con un cucchiaio di salsa al vino bianco” citò a memoria Elene. “Su tutto si grattugia un tartufo marziano” terminò Lorenzo, ridendo. “E buon appetito a tutti!” Il flessuoso aeromobile raggiunse l’altitudine prestabilita, stabilizzandosi in un assetto orizzontale noncurante delle correnti d’aria, magica navetta sul tessuto policromo delle luci cittadine. “Brindiamo” propose Elene. “Ma certo” l’assecondò Lorenzo. “Allora, alle congiunzioni dinamiche.” “E sia. Zuri topa!” “Alla tua.” Le due bottiglie di beveraggio titaniano furono prosciugate in un attimo, sicché Lorenzo s’indirizzò ancora al frigobar. Bevvero e bevvero finché raggiunsero entrambi una tenue ebrietà. “È un vero peccato che a Torino non ci sia il mare” si addolorò Elene. “Io, per me, vivrei tutto l’anno sulla spiaggia. Dammi un
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paravento, un sacco a pelo, un porto vicino dove possa comprarmi le sardine, una graticola e una scorta di txacolí e farai di me la donna più felice del mondo!” “Sei non vedente dalla nascita?” le chiese Lorenzo a bruciapelo. “Ez. Maculopatia degenerativa.” Elene tacque un istante, poi proseguì pensosa: “Sai, sto cominciando a dimenticare la mia faccia. È una cosa terribile. Il tempo passa e i miei lineamenti mi si cancellano dalla memoria. Come sono ora, Lorenzo? Dimmelo con sincerità.” Lorenzo dubitò un istante, poi disse: “Sei un bel pezzo di donna, Elene.” “Oh… davvero?” “Sì.” Un caldo e invitante sorriso di gratitudine si dipinse sul volto esotico di Elene. Lorenzo sorrise a sua volta, poi ruotò col sedile e si sporse in avanti per regolare lievemente l’altitudine, ma la sociolinguista euskaldun arrivò prima di lui. Quando il traduttore sfiorò la cloche e la Skycar si mosse verso l’alto, lei lo baciò. Senza intervalli né dissolvenze, Lorenzo si ritrovò allacciato a un passeggino con un ciuccio ficcato in bocca, procedendo per ciò che aveva tutto l’asettico aspetto di un corridoio d’ospedale. “Come stai, tesoruccio fru fru?” chiese una voce flautata alle sue spalle. Lorenzo rabbrividì dalla testolina ai piedini nudi e cicciotti. Quel birignao smanceroso apparteneva a sua madre. La farfallona senza cuore. “Mmmhgrrrrrr” rugnò, senza riuscire a liberarsi dell’odiosa tettarella di gomma. “Tranquillizzati, tesoro” gorgheggiò mammina, agghindata da infermiera sporcacciona. “Siamo quasi arrivati.” “Arrivati dove?” tentò di domandarle Lorenzo, ma dalla sua bocca scaturì soltanto un borboglio infantile. “Ma in sala operatoria, cocco bello!” replicò la sua svenevole genitrice, generando in lui un rivolo incandescente di raccapriccio. “Non ti ricordi più? Oggi è il gran giorno della metamorfosi. Grazie all’insigne dottor Cambiasso, il mio nuovo favoloso amante ligure, tu diverrai una morbidosa e petulante femminuccia.” Siccome ella pareva dotata della subdola capacità di leggergli nel pensiero, Lorenzo tralasciò finalmente la bocca e formulò mentalmente: “Una femmina? Porca miseria dannata. Vuoi dire che… mi taglieranno il pisellino?” “Proprio così, gioia mia!” “Dio Cristo, no!” Lorenzo lottò strenuamente contro le cinghie che lo tenevano legato al passeggino, ma invano.
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In un istante madre snaturata e pargolo giunsero al quirofano le cui porte scorrevoli opache, in luogo di ritrarsi al loro passaggio, si dissolsero con un effetto di quart’ordine mostrando una lampada scialitica, un diafanoscopio sullo sfondo e un tavolo operatorio attorniato da quattro figuri in camice operatorio e mascherina color acquamarina che al vederlo andarono in brodo di giuggiole, pregustando il sapore ferroso del suo sangue acerbo. “Razza di bastardi vampiri” ringhiò Lorenzo, squadrandoli uno per volta con quello che sperava fosse uno sguardo mefistofelico alla Rosemary’s Baby. “Sogni d’oro, amore mio” cinguettò la mamma, facendosi di colpo trasparente come l’acqua. Le ultime parole di quel beffardo augurio si levarono per una scala spiraleggiante di suoni acutissimi – un’accelerazione farsesca alla velocità della luce verso il pianeta delle cagne infedeli. Liberatosi finalmente del ciuccio, Lorenzo sbraitò una serie di orripilanti ingiurie al suo ormai remotissimo indirizzo: “Figlia di troia con la candidosi! Pompinara sifilitica con gli ossiuri nella vagina! Putón!” Poi qualcosa di morbido gli tappò il naso e la bocca. Puzzava di standard americano per i gabinetti pubblici. Il flusso onirico ebbe compassione di lui, risparmiandogli l’onta di venire evirato in tenera età da una ghenga di chirurghi degenerati che utilizzava il surrogato sintetico del fetore dei cessi statunitensi a mo’ di anestetico. Ma in luogo di riconsegnarlo alla realtà in un bagno di sudore e con il cardiopalma, gli psitroni lo trasportarono davanti al monolito sapiente conosciuto come Libro del Tempo. “Guarda guarda chi si rivede…” Soffiando di sollievo, Lorenzo sfiorò l’oggetto, che come la volta precedente rispose allo stimolo illuminandosi di una fievole luce azzurra, intonando: “Io sono il Libro del Tempo. Toccami ancora, e ti dirò tutto quanto desideri sapere.” Lorenzo inarcò un sopracciglio. “Sicuro che poi non mi rimandi difilato nel mio letto? Perché, sai, qua nessuno è fesso.” “Non sussiste alcuna ragione ora per diffidare di me, Lorenzo” lo rassicurò il Libro. “Su, toccami ancora.” Lorenzo lo fece. E il Libro: “Ora puoi chiedermi ciò che vuoi.” “Stupendo” si rallegrò acido il traduttore. “Allora, spiegami cos’è successo davvero in quelle due ore e rotte mancanti.” “Mi rincresce molto, Lorenzo, ma su questo argomento non posso fornirti alcuna spiegazione diretta.” “Ah. Che meraviglia. Tutto questo e altro ancora, n’est-ce pas? Avanti, sentiamo, perché non potresti?”
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Il Libro del Tempo non gli diede risposta. Allora Lorenzo si spazientì: “Ascoltami bene, razza di cristallo sdolcinato, io…” “Ricordati degli scrittori-cuculo” lo interruppe il Libro. “Mumble mumble. Sicché quest’asserzione da biscottino cinese oppiaceo della felicità sarebbe la tua spiegazione indiretta… E io che cazzo dovrei ricavarne?” Per tutta risposta la luce azzurrina si spense. Evidentemente, il tempo concessogli per consultare il Libro del Tempo era terminato. “Proprio dilettevole” sputò Lorenzo. “Be’, per stanotte ne ho proprio avuto abbastanza, fottuto uomo della sabbia. Riportami alla mia burlesca vita materiale, che ho parecchie cose da fare.” Fu accontentato in un batter di ciglia finte.
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Musica per scrittori bollenti. Dapprima lo stereo resuscitò il mezzosangue irlandese Phil Lynott e i suoi appassionati racconti di ribellione e spaccio d’eroina; poi i profetici gelidi Clones di Alice Cooper; infine Exile On Main Street, il capolavoro dissoluto dei Rolling Stones. Poc’anzi di udire i liquidi arpeggi discendenti introduttivi a Let It Loose, Lorenzo guardò fuori: una serata frizzante e serena s’inclinava sull’antica capitale d’Italia. “Potremmo andarcene a bere un aperitivo e poi al cinema”, pensò. Perciò questa volta non tardò a formare il numero della studentessa catalana sulla tastiera del cordless. La sua ragazza – la considerava tale ormai – ci mise un discreto tempo a rispondere. “Digui?” mormorò con voce sonnolenta. Probabilmente le duravano ancora i postumi della festa Erasmus. “Ma ciao, stella. Stavi dormendo?” “No. Ti stavo giusto per chiamare.” “Manú, che ti succede? Ti sento un po’ provata. Troppo gin tonic?” “Bueno, c’è che…” Una lunga pausa, cui seguì un afflato profondo da sommozzatrice. “Lorenzo, la nostra storia non può andare avanti.” “Cosa?” “Voglio troncare con te, Lorenzo. Vedi, io ho un fidanzato.” Mick Jagger cominciò a cantare: Who’s that woman on your arm... “Si chiama Eudald,” proseguì Manuela Monroig, inesorabile come l’inverno polare. “domani mattina atterrerà a Caselle. Si fermerà da me per una settimana. Io… il nostro legame se ne stava andando al diavolo, ecco. Per diversità di carattere e di vedute, la distanza… E io mi sentivo sola come un cane andaluso, senza un punto di riferimento. Capisci cosa intendo dire?” Lorenzo tacque, ghiacciato fin nelle ossa. All dressed up to do you harm? “Non avrei dovuto lasciarmi andare. Proprio no. Il fatto è che tu sei così dolce, fantasioso e autoironico che… coño, non ho potuto resisterti.” And I’m hip to what shell’do. Give her just about a month or two. “La notte scorsa io ed Eudald abbiamo parlato per telefono. Io stavo ancora a quella festa, bevuta come una cosacca e bisbetica, quando è squillato il cellulare. Senza preamboli Dali mi ha detto: nena, dimmi che cosa devo fare affinché la nostra storia continui. E io, impulsivamente: venire a trovarmi, uomo di Dio. E lui: lo farò,
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Manuela. Così sarà. In un lampo mi sono resa conto che lo amo ancora. È l’altra metà della mia mela, Lorenzo. Mi capisci?” “Certo, Manuela” rispose macchinalmente il traduttore, come un automa a stati finiti. In the bar you’re getting drunk, I ain’t in love, I ain’t in luck. “Lorenzo…” “Dimmi.” “Lorenzo, mi dispiace tantissimo. Perdonami. Benché suonerà ipocrita al cubo, ti assicuro che non mi piace giocare coi sentimenti altrui, né tantomeno con i miei. Quindi ora non scappare a rigettare in bagno se ti dico pure che sono stata benissimo con te. Sei un ragazzo fantastico. Potresti far felice qualunque donna al mondo. Però… non possiamo continuare a vederci. Almeno, non come amanti.” “D’accordo. Come vuoi.” Hide the switch and shut the light. “Be’, allora… adeu, Lorenzo” sussurrò Manuela con parole stillanti Weltschmerz. “Addio, Manuela.” “E… per favore, Lorenzo, non mi odiare! Sto facendo la cosa più opportuna per entrambi.” “Potresti aspettare ancora un poco” articolò una voce estranea proveniente dall’apparato fonico di Lorenzo. “È che non ti ho mai mostrato il parco sotto casa mia. Insomma, il muro di recinzione sta cadendo a pezzi, la strada attigua al lato ovest di notte si trasforma in un’alcova balcanica a cielo aperto, sboccate di tossici qua e là, e nelle aiuole vi sono più cannolicchi di cane che stelle al Centro della Galassia, ma in primavera è così incantevole… Potremmo scorrazzarvi a piedi nudi, come i coniugi Bratter. Gli amanti Bratter.” Ora toccò a Manuela sbalordirsi: “Ma che vai farneticando?” Some face you’ll see no more, piagnucolò Mick. And the interpreter: “Dico che sarebbe strafigo andarci, benché pestare scalzi la merda… la deiezione di un mammifero domestico, oltre a essere un evento molto spiacevole sotto il profilo estetico, possa rivelarsi nocivo per la salute…” “Lorenzo…” “…potremmo contrarre la strongilodiosi,” seguitò Lorenzo, ormai partito per la tangente “la quale, come tu saprai a menadito, è un’infestazione dell’intestino causata da un minuscolo verme parassita. Capirai, in terza media mi appiopparono una ricerca sulle parassitosi umane… cosicché sapevo già tutto sullo schistosoma e le sue abitudini sessuali, mia cara. Volevo soltanto mettere alla prova la tua preparazione. Sei bravissima. Comunque sia, company, nessun problema: se ci prendessimo le immonde perfide bestioline,
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le estirperemmo con un bel cocktail di bollicine statunitensi, rhum, niclosamide e tiabendazolo. Allora, che ne dici?” Manuela riagganciò. Lorenzo, sottosopra, lasciò anch’egli ricadere il ricevitore sulla forcella. E la stupenda canzone degli Stones sfumò così: Keep those tears hid out of sight, let it loose, let it all come down. Mantieni quelle lacrime nascoste dagli sguardi, molla la presa, lascia che vada tutto in malora.
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Principiis obsta. Cerca rimedi fin dal principio. È un consiglio che pervade buona parte del mondo greco e latino, in più ambiti e in diversi secoli. Nei Remedia amoris, Ovidio invita effettivamente con queste parole a opporre resistenza al sentimento dell’amore prima che la passione divampi. Ma tale concetto ricorre anche nell’antica tradizione medica, laddove si parla della necessità di contrastare la malattia fin dai primi sintomi. Ai giorni nostri, i negromanti della cibernetica prevedono che fra cinquant’anni la cura sintomatica delle sbandate sentimentali sarà consegnata a una nanoghiandola artificiale installata sotto la corteccia celebrale in età pubere secernente un enzima inibitore della molecola Ngf, una neurotrofina cerebrale dalla quale dipende l’amore romantico – i cui livelli peraltro passato un anno dall’inizio della liaison sono equiparabili a quelli dei single o delle coppie stabili. Opponiti fin dall’inizio. Por poder vèncer tots els dracs del món. Frammenti della videocassetta di Vivere sparsi sul pavimento del soggiorno. Vedere il bel volto dell’amata-odiata Rebecca Maria accartocciarsi in una fotografia che brucia ascoltando un arpeggio elegiaco sfrangiato da ventate di riverbero digitale. Riavvolgiamo il nastro: stop! Lorenzo Fiore, già bello sbronzo, armeggia nel minibar, ne estrae una bottiglia di whisky intonsa e ricade di schiena sul divano, disposto a bere fino al collasso. Sullo schermo televisivo, il close-up di una magistrale fellatio eseguita da Olivia Missoni, in desabillè a eccezione delle usuali scarpe nere coi tacchi a spillo e la bustina da assistente di volo, sul sesquipedale organo riproduttivo di Seba Rock: il film, l’avrete senz’altro capito, è Torri Gemelle. Jump cut. Lorenzo beve il liquore a garganella. Scorriamo a ‘FF’ per qualche minuto. Il nostro traduttore si genuflette di fronte alla tazza del cesso Duchamp e, al quarto e più squassante conato, dà di stomaco; tornato ancora tremante al sofà vi si ridistende e piomba in uno stato di profondo sopore etilico. Avanti tutta fino al tempo presente, mezzogiorno e mezzo. Uno stropicciatissimo Lorenzo Fiore al cospetto del notebook; sullo schermo, Lady Godivatron. Da quanto si è alzato, intorno alle dieci malfermo sulle gambe, l’aspirante sceneggiatore non vi ha ancora digitato un solo carattere. Neanche un punto interrogativo. I finali in embrione sono bloccati nella cornucopia criogenica.
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Fuori è una magnifica giornata di sole, ma Lorenzo si sente uno schifo della fottuta terra. Nel suo stomaco si rimescola una miscela caustica di acetaldeide e amore non corrisposto; sfortunatamente, le indicazioni terapeutiche del Biochetasi non includono il trattamento di quest’ultimo. E di trovare conforto nell’hascisc non se ne parla nemmeno. Di repente, il nostro rocker letterato schiaccia l’interruttore di spegnimento dell’apparecchio e si conduce a forza in bagno per farsi un’altra doccia gelata. Vado in biblioteca a finirmi di libri, si dice spogliandosi. All’inferno la sceneggiatura e tutto quanto. Off. Deglutendo saliva al malto, Lorenzo artigliò un sottile opuscolo sulla vita e le produzioni cinematografiche di Luc Besson. Poiché la biblioteca era gremita in ogni ordine di posti compresa la U, fu costretto a prenderlo in prestito e uscire alla ricerca chimerica di una panchina libera. “Che razza di posto è mai questo?” riflettè, come se un virus avesse deletato nella sua testa la reminiscenza delle centinaia di visite precedenti. “Gli studenti cercano sempre i banchi più vuoti a meno che non conoscano qualcuno. Cos’è tutta questa paura di guardarsi in faccia? Dio, tre milioni e passa d’evoluzione umana e non abbiamo ancora appreso a comunicare decentemente tra noi. Tempo un secolo e ci si atrofizzeranno le corde vocali. Parleremo solo più tramite brevi messaggi di testo.” Si andò a sedere sul parapetto prospiciente l’entrata della villa, le gambe penzoloni nel vuoto. Tutto attorno a lui il parco ferveva. I volatili dialogavano nei loro dialetti oscuri. I pensionati della vicina pista di bocce si cimentavano commentando coloritamente ogni singolo colpo. I cani incitavano abbaiando i propri padroni a farli giocare. La resaca tirava in lungo il suo ritiro. Ogniqualvolta Lorenzo provava a concentrarsi su una frase particolarmente avvincente, il suo cervello rollante la convertiva all’istante nel ritornello di una canzone… Dammi pericolo, piccola straniera. Il mio polmone d’acciaio. Giocattoli, giocattoli nell’attico. Dopo aver scorso un certo numero di pagine, Lorenzo trattenne gli occhi infossati nelle orbite su una fotografia di Milla Jovovich nei panni di Giovanna D’Arco. L’interpretazione dell’androgina ex modella russa non era per nulla piaciuta ai palati più esigenti, ma il traduttore riteneva che tutto sommato la Jovovich meritasse una sufficienza piena, dal momento che nel milieu del cinema coevo finanche quella bambolona marmorea francesizzata di Monica Bellucci era considerata un’attrice di vaglia. Ciò nondimeno, il
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fulminante esordio di Sexilia Shallot avrebbe sbaragliato tutti quanti. Divina sei, programmata per ballare. Milla. Ludmilla… bionda entreneuse siberiana cresciuta nella taiga. Occhi gatteschi e piedi da bambola. Tienimi compagnia e offrimi da bere, bel ragazzo torinese. Sono divertente, affettuosa e so ascoltare. Se mi affitti per una notte ti svelerò cosa successe realmente quel giorno nella regione della Tunguska. Ehi, perché non fai interpretare Lady Godivatron a Samantha Morton? Sarebbe fichissimo. Raccontami una storia, e forse ci crederò. Condannata come una strega, nel 1431 Giovanna D’Arco fu bruciata sul rogo nella piazza del mercato di Rouen. Più tardi, nel 1456, il papa Callisto III la proclamò innocente. Fu beatificata nel 1920 da Papa Pio X. L’ipocrita lavatoio delle coscienze sporche. La nave arrivò troppo tardi per salvare la strega annegante... Ed ecco che una concatenazione di nomi e cognomi si generò spontanea nella mente di Lorenzo: “Giovanna D’Arco, Giovanna Mezzogiorno, Giovanna Ralli, Joan Chen, Joan Collins, Joan Armatrading…” E Joan Crawford. Joan Crawford è risorta dalla sua tomba. Il refrain di una canzone dei Blue Öyster Cult. Il Culto dell’Ostrica Blu. Il gruppo hard rock più intricato, tenebroso e ingegnoso che esista. I testi delle loro canzoni narrano di veterani delle guerre psichiche, fuochi d’origine sconosciuta, ragazze belle come un piede, motociclisti fatti come fegatelli, stelle congelate, agenti della fortuna, vampiri tatuati, cagne di ghiaccio, labbra aliene nelle colline, ombre californiane, spietate vendette intergalattiche, città in fiamme per il rock ’n’ roll… Joan Crawford. Terza canzone del lato B di Fire Of Unknown Origin, decimo album della band newyorchese, uscito nel 1981. Intro classicheggiante di pianoforte per creativa concessione di Allen Lanier, seguita da un riff chitarristico sincopato di purissima marca cultista. “I tossici di Brooklyn stanno diventando pazzi” canta Eric Bloom con la voce di un drogato cui sta salendo l’acido. “Ridono come iene impazzite. I poliziotti si nascondono dietro le gonne delle scolarette. I loro occhi hanno preso il colore della carne congelata. No, no, no, no, no, no, no, no, no, no, no, no.” Poi viene il coro: “Joan Crawford è risorta dalla sua tomba.” E l’ebreo barbuto Eric riattacca a descrivere il suo incubo: “Le ragazze cattoliche si sono tolte il rimmel dagli occhi. Si incatenano
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ai semiassi dei grandi autocarri. Il cielo è solcato dalle scie degli angeli caduti. La pacioccona esclama: signori, fate partire i vostri carrarmati!” Coro: “Joan Crawford è risorta dalla sua tomba.” Cacofonia dell’Apocalisse (vetri frantumati, strombettii, sirene spiegate, deflagrazioni, urli), interrotta all’acme dall’angoscioso ticchettio di una sveglia cui si sovrappone la voce della temibile Joan, distorta in uno stertore infernale: “Christina, mamma è a casa. Christina, vieni qua da mamma.” “No. No. No!” urla Eric. Coro: “Joan Crawford è risorta dalla sua tomba”, ripetuto ad nauseam. L’ultimo fulmine globulare scaturito dalla chitarra stratosferica di Donald ‘Buck Dharma’ Roeser si stempera in una lunga nota cadente di sintetizzatore: è l’inizio di Don’t Turn Your Back, l’etereo suggello di uno dei dischi più riusciti dei Blue Öyster Cult. Hard rock di qualità eccelsa, animato da una carica siderale e selvaggia. “Don’t Turn Your Back” pronunciò pensoso Lorenzo. “Non voltare le spalle. Non voltare le spalle al tuo vicino di casa con gli occhi famelici, alla ragazza nuda nel pagliaio, al pendolare smilzo senza capelli… ma soprattutto a te stesso. Perché non vi è niente di peggio nella vita che il talento sprecato.” Improvvisamente il suo volto angoloso si dischiuse in un gran sorriso. Rivolse raggiante gli occhi al cielo: “Lode a Voi, Creature della Luce e delle Tenebre, Sovrani Cosmici della Metafora! Ora la cornucopia mentale si è sbloccata. Posso tornare a scrivere.” Aurelio Gallina, nel frattempo sedutosi anch’egli sul parapetto per rollarsi una canna con la sua faccia da Provolino psichedelico, si sbigottì: “Lorenzo, che diavolo stai farneticando? Hai preso una pillola della felicità?” “Trangugiare pasticche, io?” controbatté Lorenzo, preda di una confusa mescolanza di allegria, pena e risentimento. “Non ho più bisogno di droghe per sballare, collega. Mi basta vederti.” Atto Quarto, Scena 7. Interno della Sala di Conversione Sessuale. I due agenti di polizia conducono Lady Godivatron, ora completamente nuda, davanti al plasmer moletronico, un tortuoso macchinario dominante l’intera parete di fondo del locale. A poca distanza li segue il giustiziere – un ometto dai capelli radi in camice bianco. Stacco. Il dottor Emil Barbero e i suoi alunni prendono posto in un comparto riservato agli spettatori. Pure qui un campo d’energia
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simulcast li protegge, nello stesso tempo permettendo loro di assistere a quanto accade nel salone del convertitore in virtù della propria trasparenza univoca. Ritorno alla Sala di Conversione Sessuale. Il giustiziere collega Lady Godivatron al plasmer per mezzo di due identici dischetti che le vengono applicati alle tempie; lo sguardo dell’antroforme ribelle persiste a non mostrare alcuna emozione, come quando i poliziotti l’hanno prelevata dal suo appartamento. Giustiziere (rivolgendosi ai tutori della legge): “È tutto pronto. Possiamo ritirarci in sala controllo.” Ambedue i poliziotti esprimono un silenzioso assenso. Poi il terzetto abbandona lestamente la sala. In capo ad alcuni istanti si sente un tono prolungato. Di seguito, una voce elettronica: INIZIO DEL PROCEDIMENTO DI CONVERSIONE. Sulla consolle del plasmer, all’estremità sinistra della barra grigia d’avanzamento conversione, compare una tacca azzurra con al centro un numero espresso in percentuale: 1%. La matrice standard maschile ha iniziato a sovrapporsi all’antroschema femminile di Lady Gi. Crescendo techno. Zoom sull’occhio destro di Lady Godivatron, la cui pupilla è molto dilatata. Nuovamente quella sensazione come di precipitare verticalmente in un enorme pozzo rettangolare senza fondo, tra pareti scarabocchiate di luce colorata e costellate di pannelli dalle forme geometriche rappresentanti volti e figure femminili. Stacco sulla consolle. La barra segna il 40%. Ritorno al pozzo. Poco a poco la sua estremità opposta, che per diversi minuti era rimasta alla stessa indeterminata distanza, senza avvicinarsi né allontanarsi, nera e impenetrabile, comincia a illuminarsi e a farsi più grande. Sempre più grande e luminosa… fino a riempire tutto lo schermo. Atto Quarto, Scena 8. Giorno. In un prato verde sovrastato da un cielo cinereo, una ragazza e un uomo prestante, ambedue a cavallo indossando identiche armature e impugnando saldamente uno spadone, si sfidano a duello. Lei ha la testa libera, i capelli rossicci scarmigliati e gli stessi lineamenti di Lady Godivatron, mentre lui porta l’elmo con la celata alzata. Stacco sulla consolle. La barra segna ormai il 70%. Ritorno al duello antico. Subitaneamente l’uomo sprona la sua cavalcatura per attaccare la ragazza; pochi istanti dopo, le loro spade s’incrociano con un clangore metallico. Ragazza (furente): “Razza di vile marrano, come osi sfidare Giovanna D’Arco?”
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Giovanna D’Arco/Lady Gi si disimpegna abilmente e all’istante vibra un preciso fendente al collo dell’uomo, decapitandolo. Un lampo bianco accecante cancella la scena. Atto Quarto, Scena 9. L’inquadratura si ricompone sulla consolle del plasmer: è spenta. Nel settore riservato agli spettatori, gli alunni di Emil Barbero paiono fortemente sconcertati dall’accaduto: dal canto suo, l’esimio dottore boccheggia d’incredulità! Tuttavia non c’impiega molto a riprendersi… Emil Barbero (in tono autoritario): “Forza, tutti fuori di qui, e in fretta!” Dinanzi al convertitore non più funzionante, Lady Godivatron sembra tornare gradualmente in sé; incerta, trepida, si accarezza le guance, poi i seni colmi, le braccia e il ventre. Non si è verificato alcun cambiamento esteriore nel suo corpo. Lo studente Mario Manetti, affascinato, non riesce a distogliere lo sguardo dalle sue forme perfette. Emil Barbero (adirato): “Manetti! Che accidenti stai facendo? Vieni via, maledizione!” Mario Manetti, benché riluttante, ubbidisce; ciò nonostante, un attimo prima di riunirsi al gruppo, si volta e dedica un ultimo sguardo intenso a Lady Godivatron. L’antroforme femmina, resasi finalmente conto di aver sconfitto il plasmer moletronico, si stacca gli elettrodi dalle tempie, li scaglia lontano ed esplode in una fragorosa risata.
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Crooked rain, crooked rain. Lorenzo arrivò davanti al portone coi capelli che gli scendevano sul collo come uno sciroppo nero, stringendo al petto una borsa di plastica con dentro la sceneggiatura di Lady Godivatron, debitamente impaginata e rilegata. Salì le scale zufolando una canzone dei Pavement, piroettò stile Fred Astaire sul pianerottolo del settimo piano e premette il noto bottone con uno slancio da schermitore. La porta non si aprì. Lo premette di nuovo. Ancora una volta niente. i puto caso. Allora, scocciato, cambiò tattica percuotendo più volte il battente con le nocche, ma senza sortire alcun effetto: Collodio Fenakisto non si presentava. “Che cazzo!” Come messa in azione dall’imprecazione la porta dell’appartamento adiacente si socchiuse, e una donna minuscola e occhialuta coi capelli tinti di viola sporse il capo dall’uscio. “Chi sacripante va cercando lei, signore?” domandò costei diffidente, ostentando un forte accento foggiano. “Il signor Fenakisto” rispose Lorenzo, più secco di una scarpa di corda. “Chi dice?” Socchiudendo gli occhi grigi. “Il signor Collodio Fenakisto, titolare della società Parallasse Arti Audiovisive, avente sede qui dinanzi a me” specificò Lorenzo. “Lì non vive nessun signor Chilavisto” confutò la donna. “Fenakisto, signora” la corresse il traduttore. “Va bene, Fenalisto, Ferraristo, Citaristo, quel che accidenti sia. Comunque le ripeto che là dentro non ci sta vivendo più nessuno da diverso tempo.” “Questo è impossibile, signora” controbatté Lorenzo, stizzito. “Ho frequentato, anzi sto frequentando un corso di sceneggiatura cinematografica proprio qui, due volte la settimana, martedì e venerdì pomeriggio dalle cinque e un quarto alle sette meno venti circa. Oggi è l’ultima lezione.” “Quel che lei mi dice è stranissimo, signore. Fatalità, se non crede a me, dia un’occhiata alla targhetta a fianco del bottone.” Lorenzo assecondò il suo sguardo miope fino all’oggetto in questione, che prima non aveva degnato d’attenzione. E rimase a bocca aperta. La targhetta dorata non mostrava più l’iscrizione PARALLASSE S.r.l, bensì un cognome caratteristico del Piemonte: PAUTASSO.
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“Ma che cavolo…” mormorò. E di seguito, come gli si fosse aperta una scatola a sorpresa nel cervello, pensò: “Ma quale società a responsabilità limitata dei miei stivali!” Finalmente la donna si risolse a uscire dalla sua tana domestica. “Forse lei ha sbagliato interno, se non addirittura casa” ipotizzò, ponendo ambo i piedini inciabattati sullo zerbino. “Ma dopotutto è normale. In questa zona i palazzi sono quasi tutti uguali, come tanti biscottoni di cemento, sicché è facile confondersi, specialmente quando si ha la testa fra le nuvole come voi giovani.” “Io non ho la testa fra le nuvole, signora. E le assicuro che non ho sbagliato palazzo. Il corso…” Pautasso. Dio Cristo. “Va bene, ho capito. Siccome lei mi sembra un bravo ragazzo, anche se piuttosto testardo e visionario, le farò vedere l’alloggio. Generalmente prima di venire tutti mi danno un colpo di telefono, ma oggi per lei farò un’eccezione.” Gli si mise accanto e sorrise, mostrando una dentiera di discreta fattura. “Vede, qui viveva un signore molto a modo: trentasette anni d’onorata carriera alla Fiat Mirafiori Meccanica, quella che adesso si chiama Pouertrein o qualcosa così, non so se mi spiego. Purtroppo è morto d’infarto dieci mesi fa – che riposi in pace, sant’uomo! – e dato che l’unico parente in vita che aveva, cioè sua sorella minore, attualmente vive a Como, quando colei è venuta a Torino per il funerale ha voluto a tutti costi lasciarmi le chiavi dell’alloggio in custodia.” Le agitò davanti al naso di un Lorenzo sempre più confuso. E tirò avanti: “Sa, quella donna e io ci conosciamo da una vita e mezza. Comunque, per farla breve, mi ha detto: Carmela, io affido tutto quanto a te. Nel caso che qualcuno vuole vedere l’alloggio, fai le cose a tua discrezione. Se poi è che codesto o codesta possibile acquirente lo vuole comprare, fammi una telefonata e io vengo col primo treno in partenza per discuterne. Capito?” Come no. Tutto limpido e liscio come olio pugliese. “Eppure… In base a tutte queste cose a maggior ragione io insisto, mi sembra totalmente inverosimile che lei non mi abbia mai visto chiamare a questa porta, neppure una volta!” L’anziana signora fece spallucce. “Sarà, giovanotto, ma io è la prima volta che la incontro in vita mia, e badi bene che sono ancora arzilla e non del tutto orba! Sia come sia, torno a ripeterle che se per combinazione ha voglia di dare uno sguardo alla casa, posso pure fare uno strappo alla regola. Le vive in famiglia?” “No. Da solo.” Come un figlio nato senza madre. Ella tornò a stringersi nelle spalle. “Capito. Allora forse potrà parlarne a un amico suo.” Detto questo, inserì una chiave del mazzo nella toppa e diede tre giri. La porta si aprì ed entrarono. E… A Lorenzo per poco non venne un coccolone.
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Quello non era lo stesso disordinato appartamento dove fino a pochi giorni prima lo stravagante, ieratico Collodio Fenakisto gli aveva insegnato a comporre e valutare una sceneggiatura. Nessun poster inchiodato ai muri né frammenti smangiucchiati di celluloide e libri zozzi sparsi al suolo. Nemmeno soggiorni bioluminescenti e pregiate cristallerie per liquori anglosassoni e utensili da scienziato squinternato. In suo luogo vi era adesso una classica spelonca per uomini anziani afflitti dalla solitudine: vetusti mobili in noce ammantati di polvere, tendaggi anteguerra, poltrone incartapecorite, stoviglie incrostate di grasso, un diffuso e penetrante odore di muffa. Lorenzo analizzò freneticamente quella congerie di dettagli sorprendenti. Entrata, soggiorno, camera da letto, cucina. Da dove salta fuori tutta questa roba, in nome di qualsiasi divinità? Dove dormiva Collodio? Forse su un materassino di paraprotoni nella quinta dimensione. E dove mangiava? Ma è elementare, Watson: ogni giorno in ristorante diverso! Tutto considerato, ’sto tizio deve essere pieno di milioni. Figurati, ha potuto permettersi addirittura di acquistare un generatore di realtà amplificata mediante il quale modificare ad libitum l’arredamento del suo alloggio! Un giorno liberty e l’altro bowery, solamente digitando un’istruzione su una tastiera. O magari pensandoci. “Be’, che gliene sembra?” domandò speranzosa la vecchietta. “Bisognerebbe ventilarlo un pochettino e passare il Mastro Lindo dappertutto, però…” Però niente. Senza articolare parola Lorenzo le voltò le spalle, schizzò fuori dall’appartamento e si scapicollò per le scale come un invasato. In meno di un minuto ricompose le proprie sconvolte molecole sul cordolo del marciapiede sotto la pioggia, boccheggiante e con il cuore che batteva come il martelletto di una campana antincendio. E una ridda di domande a mettergli a soqquadro il cervello. Che diavolo sta succedendo? Dove cazzo è andata a cacciarsi la società Parallasse? E Collodio Fenakisto? Il benservito ricevuto da Manú mi ha mandato il cervello in mona? O è la mia schizofrenia latente che si sta al fine mostrando in tutto il suo fottutissimo splendore? Me estoy volviendo loco, poco a poco, poco a poco. Oh, santo cielo, Lolò, forse bisognerebbe prenderla sul ridere. A quanto pare il tuo insegnante di sceneggiatura è un extraterrestre – o un essere venuto dal futuro, come la ragazza postmongola di Sabbie Mobili – che può plasmare la materia a suo piacimento! Per quanto l’arredamento d’interni non sia propriamente il suo forte, come si dice. Anche se qualche minchia di borghese bohémien di
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mia conoscenza darebbe un braccio per farsi conciare il loft in quella maniera assurda. Intensamente turbato, bagnato come un cucciolo, Lorenzo si guardò intorno: lombrichi trascinandosi nelle pozze d’acqua sporca, termiti di metallo e termoplastica pilotate da marionette umanoidi strafatte di noradrenalina, miasmi al benzene, borse della spesa sul punto d’esplodere, carta straccia, scarpe da ginnastica pollockiane e zeppe tallonitiche, colpi di clacson assordanti, tombini intasati, scontrini, bollette, fatture, verbali, schedine, bestemmie, catrame fresco, merda di cane, urina di gatto, puzza di sudore e di tabacco, profumo di lacca in saldo, cellulite, psoriasi, acne, alitosi, gastrite, apoplessia, melanoma, linfoma, carcinoma. Il patetico, spietato, dadaistico mondo reale. In sovrapposizione randomizzata, quasi subliminale, visioni dell’alloggio fantasma di Collodio Fenakisto. La prospettiva mutante. Le pareti tremule d’energia luminosa. Il disordine esageratamente deliberato, si direbbe quasi simbolico del vestibolo, contrapposto al temperato comfort del soggiorno. “Sicuramente, noi stiamo impiegando in modo utile le energie a disposizione: nel senso entropico, chiaro.” Ma parla come mangi! Sembri quel fissato di mio fratello. “Ehi, Lorenzo, hai mai sentito parlare della seconda legge della termodinamica?” “Certamente, e più di una volta. Ciò nonostante, avrei bisogno di un piccolo ripasso.” E pure di un valido psichiatra. Elene Shallotegui, magari? “Stasera al Tg5 hanno detto che in Pakistan le truppe della Coalizione Globale sono ormai prossime alla cattura di Al-Haukin, il Ladro di Ore Buongustaio.” E poi… “Ricordati degli scrittori-cuculo.” Poiché l’Universo è il Regno del Plagio. Alla fine, in un abbacinante arco voltaico d’intuizione, Lorenzo comprese. “Come ho potuto essere così bornio?!” esclamò a voce alta, crollando il capo. “Adesso mi è tutto chiaro e limpido. Come acqua di fonte marziana.” La freccia termodinamica è la direzione del tempo in cui il disordine aumenta, cari tachiospettatori. Il disordine aumenta con il tempo giacché noialtri misuriamo il tempo nella direzione in cui il disordine aumenta. Suona come uno scioglilingua arturiano, vero? Tuttavia, è puro distillato di scienza. Scrivendo, io converto almeno mezzo migliaio di calorie in parole più o meno ordinate, e in energia disordinata sotto forma di
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calore, il quale è dissipato nell’aria per convezione e in forma di sudore e parolacce e soprammobili che si stampano contro la parete del mio studio in stile tardo-denebiano. In conclusione: poiché l’Universo, smisurato e indifferente, continua imperterrito la sua marcia verso il disordine malgrado noi – niente più che effimeri anelli nella catena della vita – e le nostre conquiste, bisogna spendere opportunamente il tempo e le energie a nostra disposizione. Creando e insegnando a creare, in luogo di distruggere; amando e insegnando ad amare, in luogo di odiare; smettendo di amare, quando il nostro amore non è corrisposto. La parola d’ordine è: niente sprechi. Un abbraccio a tutti voi cari amici della Nube di Magellano dal vostro Piero Aldebaran. Arrivederci alla prossima puntata! Molto icastico e anche euristico… “Gli scrittori-cuculo” scandì Lorenzo tra una goccia e l’altra. “Remake in chiave torinese de Il Villaggio dei dannati. Voilà la historie: un veterano scenarista alieno s’insedia nell’appartamento sfitto di un ex fiateur torinese passato a miglior vita, tramutandolo temporaneamente nella succursale terrestre di un consorzio noprofit interstellare della scrittura scenica; è ovvio che per fare ciò ha dovuto mettere in stasi temporale (o sfalsare momentaneamente il tempo locale rispetto a quello solare, oppure… boh!) tutta la città, altrimenti se ne sarebbero accorti pure i ciotoli sul letto prosciugato della Dora Riparia, essendo che tale riforma risulta recisamente appariscente, per così dire. Di certo, la sua reversibilità è stata molto meno traumatica; si chiude a chiave la metaforica porta e, puf, l’alloggio del fu Erminio Pautasso ritorna al suo dimesso aspetto originale. E nessuno se la intaglia tranne l’unico discepolo, vale a dire il qui presente poco fa. Ya. Ma in precedenza, quando suonavo quel campanello due volte la settimana? Campi simulcast, Lorenz Flower Groove! E cancellazioni/ricombinazioni istantanee della memoria dei vicini di casa come pure dei potenziali acquirenti della stamberga…” “Lì non vive nessun signor Chilavisto.” Appunto. “Più in dettaglio, dev’essere andata così. Quattro, cinque, forse otto mesi fa la creatura… Collodio si è insediato nell’appartamento senza modificarne immediatamente l’aspetto, ha organizzato tutta la messinscena ‘promozionale’ del corso, passando settimane a ricevere e selezionare gli elaborati, rintanato come un topo mutante in una tana antimaterica, infine ne ha scelto uno che gli solleticava le papille, il mio, e vai col liscio…”
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Una ragazza dai lineamenti finnici in impermeabile bianco e stivali di gomma gli sfilò davanti; avendo captato di sfuggita il suo soliloquio, lo guardò sospettosa con la coda dell’occhio. Lorenzo le schiamazzò dietro: “Ehi, preciosa, lo sai che Robert Aldrich beveva sessanta Coca Cola al giorno, una dopo l’altra?” “Tu invece ti cali di extasy sessanta volte al giorno” controbatté sprezzante la bionda, senza voltarsi. “Storie. Bevo soltanto un po’. Mi lasceresti il tuo numero di telefono?” “Neanche fossi l’ultimo uomo sulla terra.” Lorenzo spallucciò. “Peccato. Sai, potremmo giocare a un gioco estremamente pericoloso.” Un pullman strapieno si accostò al marciapiede. Lui tornò ai suoi ragionamenti: “Può darsi che perfino la mia relazione sentimentale con Manuela Monroig facesse parte del programma d’indottrinamento. Una musa catalana dalla natura bifronte, come in certe antiche mitologie, neurotonica eppure volubile. Non è forse così l’ispirazione? Essa penetra nel tuo cervello, t’irretisce, fa l’amore coi tuoi pensieri e poi ti abbandona dalla sera alla mattina, lasciandoti in mutande nel bel mezzo della tormenta, con la testa piena di pigne e il morale sotto i tacchi. Ma tu devi comunque procedere a testa alta verso il cielo sereno, senza mai mai mai guardarti indietro, chaval. Niente sprechi, ricordi?” La fascinosa ragazza richiuse l’ombrello e mise entrambi i piedi sul predellino posteriore, ma un istante prima di sparire nella calca si voltò e con un sorriso da gioconda gli lanciò a mo’ di frisbee un piccolo rettangolo di cartone plastificato. L’autobus ripartì sbuffando cherosene come un ippopotamo meccanico. Lorenzo si chinò a raccogliere il biglietto, ne deterse le gocce d’acqua. Lesse: BENEDETTA STRAULINO, CONSULENTE BANCARIA. 340 5804451
E in un bagliore ultravioletto d’allegria il traduttore balzò giù dal marciapiede inzaccherato e corse a rotta di collo verso la sua macchina parcheggiata. Non c’era da sperperare neppure un istante. Doveva tornare a casa e mettersi a scrivere racconti romanzi poesie voci per enciclopedie musicali o sceneggiature insomma qualsiasi cosa richiedesse parole parole e ancora parole, ubriacarsi di vocaboli fino allo stupore, con Iggy Pop in sottofondo, Breton nel calamaio, Picabia in salotto, fragranza di zolfanelli parigini nella stanza e una bottiglia di buon malto scozzese a portata di mano. Nonché chiamare Benedetta quanto prima.
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Ultimo Atto, Scena 10. Nel retrobottega del Diodo Sballato, Doña Electra sta esaminando accuratamente una sorta di vermicello metallico per mezzo di un monocolo. Tutt’a un tratto si toglie la lente dall’occhio, esprime un tacito assenso e ripone lo strano oggetto in un cofanetto trasparente, che poi porge a una persona fuori campo all’infuori di una mano. Doña Electra (soddisfatta): “È perfetto. Portalo pure di là.” La mano, recisamente femminile, prende il cofanetto e scivola via. Stacco sull’entrata del negozio: Mario Manetti, l’alunno biondo e prestante del dottor Emil Barbero, ne varca la soglia. Indossa una tuta gialla e porta un orecchino orgatronico al lobo dell’orecchio destro. Dapprima fa girare lo sguardo in tondo; poi, titubante, si avvicina al banco. Commessa (in soggettiva): “Ciao, tesoro. Che cosa desideri?” Mario Manetti: “Be’, io…” Commessa (sempre in soggettiva): “Sshhh, zucchero. Ho quello che ti serve.” L’amabile commessa apre un cassetto e ne estrae il cofanetto trasparente col vermicello dentro. Mentre l’allunga a Mario Manetti l’inquadratura guizza sul suo volto: è Lady Godivatron, coi capelli lunghi fino alle spalle e un make-up appariscente. Lady Godivatron: “Prendi, amore.” Mario Manetti (non l’ha riconosciuta): “Ma…” Lady Godivatron: “Nessun ma, dolcezza. Torna a casa e buttalo giù con un buon sorso di mescal. E vedrai che tutto si aggiusterà.” Mario Manetti (confuso, ma pieno di gratitudine): “Grazie infinite, signorina… ma qual è il prezzo?” Lady Godivatron: “Niente, ciccino. Offre la casa. Adesso vai, presto! (Si posa delicatamente una mano sul petto.) Il mio cuore è con te.”
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EPILOGO
Oggi è stata la mia prima giornata di lavoro effettivo. La mia esplorazione è partita dal Colegio Teresiano, un austero ed elegante edificio in Carrer de Granduxer; da lì mi sono spostato nel vicino quartiere residenziale di Pedralbes, dove l’industriale Eusebi Güell incaricò Gaudí di progettare una scuderia con giardino non lontano dal parco della sua villa, alle porte di Barcellona; in seguito, ho imboccato la lunghissima Avenida del Diagonal fino a Plaça de Joan Carles I, svoltato a mano sinistra e attraversando a zig-zag il pittoresco sobborgo di Gràcia sono infine giunto a Casa Vicens, completamente rifinita in maiolica, una delle prime case disegnate da Gaudí con ricorrente impiego di ferro. Da quel capolavoro architettonico al Parc Güell non vi è molta strada; per di più oggi era un pomeriggio incantevole, caldo, con il cielo azzurro come gli occhi di un bambino e profumo di rose per ogni dove. Di modo che mi sono portato in quella visionaria cittàgiardino e vi ho indugiato per un bel pezzo, riempiendomi gli occhi dei suoi parapetti arlecchineschi e le irreali salamandre, prendendo fotografie e appunti. Dal parco si raggiunge agevolmente l’ospedale di Sant Pau; passeggiando fra le variegate cupole in maiolica dei vari padiglioni, (che meraviglia!) mi è venuto da pensare che un vero artista riesce a rendere affascinante persino uno dei luoghi più mesti al mondo. Arrivato a quel punto, secondo il mio programma, avevo ancora da ponderare la fantasmagorica Sagrada Familia, ma prima di immettermi in Avenida Gaudí mi sono fermato in un bar per bere una barreja: stravedo per codesta dinamitarda mistura di birra e grappa. Era un classico bar popolano della Ciudad Condal, con banderuole e immagini del Barça appese dappertutto. Gli unici clienti al momento erano un tizio truccato da mimo fissato con una macchinetta mangiasoldi e due fanciulle sedute su sgabelli pseudomodernisti davanti al bancone, una biondissima e l’altra bruna. Chiacchieravano piacevolmente fra loro bevendo cubata de limón. Per quanto mi permetteva di capire il mio passabile catalano, parlavano di cinema. La bionda cantava le lodi di Javier Bardem; la bruna, invece, si dichiarava molto più affascinata da Sean Penn. A me piacciono entrambi e le ragazze erano veramente leggiadre, cosicché ho dovuto per forza attaccare bottone: con molto tatto, non vurria mai. Mi è bastato poco per conquistare la loro attenzione: giusto un paio di perle pescate dal mio oceano di aneddoti sui divi di ogni tempo. Ero nel mio elemento. Musica per simbionti.
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Ho vuotato la mia cervogia e ne ho subito chiesta un’altra. Le donzelle si sono sbellicate dalle risa, per questa cosa stramba di un italiano incantato dalla barreja: “Habrase visto!” ha esclamato in castigliano Nuria, la bionda, asciugandosi lacrime d’allegria. La bruna si chiamava Beatriu: assolutamente identica a Lina Romay da giovane, formosa e sensuale come lei. Figlia del Mediterraneo, bocca di fragola, occhi di lacca, seni d’alabastro… In seguito siamo passati a parlare di musica. Io ho confessato loro tutta la mia insana passione per il glam rock: “Mi piacciono i gruppi vestiti di spandex che si mettevano chili di trucco in faccia, come i New York Dolls, Mott the Hoople, Silverhead e simili. L’identificazione con l’Anima Mundi.” “Io possiedo tutta la discografia dei Red Hot Chili Peppers” ha dichiarato Nuria. “Californication è la mia Bibbia musicale.” “Io, invece, ascolto Música moderna dei Radio Futura tutti i santi giorni” mi ha confidato Beatriu. “Sai, vado pazza per la musica nuevaolera. Mi sa tanto che sono nata con vent’anni di ritardo!” Ecco un’altra allettante coincidenza… grazie a te, Pedro. Che Truman Capote ti benedica dall’alto dei cieli glamour. Nel momento in cui stavo per chiedere il terzo boccale, la sagace Nuria si è finalmente animata a domandarmi: “Lorenzo, perdonami l’impertinenza: ma che ci fai qui a Barcellona?” “Sto compiendo un sopralluogo per girarvi un film” le ho subito spiegato, sinceramente. “Sarà completamente in digitale.” “Oh, mitico” si è meravigliata la bellissima Beatriu, sgranando i suoi magnifici occhi catalani. “E come lo intitolerai?” “Lady Godiva Elettronica” ho risposto, con un sorriso gigante sul volto. “Ti piacerebbe esserne la protagonista?” FINE
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