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anno V | n. 1 | giugno 2017


Italian Journal of Special Education for Inclusion Rivista ufficiale della Società Italiana di Pedagogia Speciale (SI.Pe.S.)

anno V | n. 1 | giugno 2017

Abbonamenti Enti / Scuole / Istituzioni: Italia euro 40,00 • Estero euro 60,00 • online 20,00 Studenti universitari: Italia euro 30,00 • Estero euro 50,00 • online 10,00 Le richieste d’abbonamento e ogni altra corrispondenza relativa agli abbonamenti vanno indirizzate a: abbonamenti@edipresssrl.it La rivista, consultabile in rete, sul sito www.sipesjournal.it può essere acquistata nella sezione e-commerce del sito www.pensamultimedia.it

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Finito di Stampare nel mese di GIUGNO 2017

Per l’invio dei contributi e per comunicazioni: sipesjournal@pensamultimedia.it / 06.57334093

Gli articoli pervenuti sono sottoposti a un procedimento di referaggio che prevede giudizi indipendenti da parte di due studiosi italiani e stranieri di riconosciuta competenza. I giudizi sono espressi secondo quanto previsto a livello nazionale e internazionale e sono comunicati agli autori unitamente alle eventuali indicazioni di modifica che gli stessi devono accettare ai fini della pubblicazione. Sono accettati solo gli articoli per i quali entrambi i revisori abbiano espresso parere positivo. In caso di giudizi fortemente contrastanti ci si avvale di un terzo revisore. Il Comitato dei Referee coincide con il Comitato Scientifico. Il Board, tuttavia, si avvale anche di ulteriori Referee che saranno resi noti nel primo numero dell'annata successiva.


DIRETTORE RESPONSABILE

Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) COMITATO SCIENTIFICO

Pilar Arnaiz Sánchez (Universidad de Murcia, Spagna) Serenella Besio (Università della Valle D’Aosta) Roberta Caldin (Università di Bologna) Andrea Canevaro (Università di Bologna) Lucia Chiappetta Cajola (Università Roma Tre) Lucio Cottini (Università di Udine) Piero Crispiani (Università di Macerata) Armando Curatola (Università di Messina) Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Lucia De Anna (Università del Foro Italico, Roma) Anna Maria Favorini (Università Roma Tre) Carlo Fratini (Università di Firenze) Francesco Gatto (Università di Messina) Maura Gelati (Università Milano Bicocca) Catia Giaconi (Università degli Studi di Macerata) Karen Guldberg (University of Birmingham, GB) Elias Kourkoutas (Università di Rethymno, Creta) Dario Ianes (Università di Bolzano) Franco Larocca (Università di Verona) Michele Mainardi (SUPSI, Svizzera) Margherita Merucci (Università Cattolica de Lyon, Francia) Pilar Orero (Universitat Autònoma de Barcelona, Spagna) Marisa Pavone (Università di Torino) Eric Plaisance (Università Paris V, Parigi, Francia) Béla Pukánszky (University of Budapest, Ungheria) Robert Roche Olivar (Universidad de Barcelona, Spagna) Marina Santi (Università di Padova) Joel Santos (Universidade de Lisboa) Maurizio Sibilio (Università di Salerno) Darja Zorc-Maver (University of Ljubljana, Slovenia) BOARD

Fabio Bocci (Università Roma Tre) Roberta Caldin (Università di Bologna) Lucio Cottini (Università di Udine) Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Lucia De Anna (Università del Foro Italico, Roma) COMITATO DI REDAZIONE

Alessia Cinotti (Università di Bologna) Alessio Covelli (Università del Foro Italico, Roma) Barbara De Angelis (Università Roma Tre) Diego Di Masi (Università di Padova) Daniele Fedeli (Università di Udine) Andrea Fiorucci (Università del Salento, Lecce) Valeria Friso (Università di Bologna) Simona Gatto (Università di Messina) Elisabetta Ghedin (Università di Padova) Annalisa Morganti (Università di Perugia) Francesca Salis (Università di Urbino) Elena Zanfroni (Università Sacro Cuore Milano) Antioco Luigi Zurru (Università di Cagliari)


ELENCO REFEREE N. 1/2016 Raffaella Biagioli Maria Teresa Cairo Lucia Chiappetta Cajola Andrea Canevaro Lucio Cottini Paola Damiani Simona D’alessio Luigi D’alonzo Fabio Dovigo Daniele Fedeli Cesare Fregola Antonella Galanti Roberta Garbo Patrizia Gaspari Catia Giaconi Filippo Gomes Paloma Bruna Grasselli Dario Ianes Silvia Maggiolini Angela Magnanini Elena Marescotti Valentina Migliarini Annalisa Morganti Pasquale Moliterni Rinalda Montani Antonello Mura Stefania Pinnelli Piercesare Rivoltella Francesca Salis Maurizio Sibilio Massimiliano Stramaglia Elena Zanfroni Tamara Zappaterra

N. 2/2016 Paola Aiello Serenella Besio Raffaella Biagioli Elena Bortolotti Maria Teresa Cairo Lucia Chiappetta Cajola Felice Corona Lucio Cottini Anna Maria Curatola Paola Damiani Roberto Dainese Heidrun Demo Filippo Dettori Luigi D’alonzo Daniele Fedeli Andrea Fiorucci Saverio Fontani Elisabetta Ghedin Patrizia Gaspari Catia Giaconi Filippo Gomez Paloma Vanessa Macchia Elena Malaguti Silvia Maggiolini Angela Magnanini Pasquale Moliterni Annalisa Morganti Antonello Mura Loredana Perla Stefania Pinnelli Maria Ranieri Pier Cresare Rivoltella Massimiliano Stramaglia Francesco Zambotti Elena Zanfroni Tamara Zappaterra Antioco Luigi Zurru


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Editoriale / ROBERTA CALDIN SUMMER SCHOOL BRESSANONE (Prima Parte)

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NICOLE BIANQUIN LUDI – Play for Children with Disabilities: l’interdisciplinarietà a supporto di un nuovo modello di intervento per il gioco del bambino con disabilità

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MARIA CONCETTA CARRUBA L’analisi precoce delle difficoltà nella fascia 0/6: sperimentazione di uno strumento pedagogico di rilevazione presso le strutture FISM di Parma

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SOFIA DAL ZOVO, HEIDRUN DEMO I fenomeni di push e pull out: il punto di vista degli insegnanti

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LUCIA DE ANNA, MARZIA MAZZER, GAETANINA VILLANELLA Progetti di alternanza scuola-lavoro inclusivi nella scuola secondaria di II grado

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SAVERIO FONTANI La Comunicazione Aumentativa Alternativa per l’inclusione sociale del giovane adulto con Disturbi dello Spettro Autistico. Uno studio randomizzato

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ELISABETTA GHEDIN Il valore del ben-essere educativo. Una ricerca esplorativa sulle aspirazioni al ben-essere per studenti e docenti

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ANNA MARIA MURDACA, ANNALISA MORGANTI, PATRIZIA OLIVA Minori stranieri tra resilienza e adattamento scolastico


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IRENE SALMASO Un’indagine empirica sul territorio della provincia di Livorno: gli insegnanti specializzati per le attività di sostegno della scuola primaria

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MARTA SÁNCHEZ UTGÉ, MARZIA MAZZER, SILVIO MARCELLO PAGLIARA, LUCIA DE ANNA La formazione degli insegnanti di sostegno sulle TIC. Analisi dei prodotti multimediali del corso di specializzazione per le attività di sostegno

I. RIFLESSIONE TEORICA 147

FRANCESCA ANTONACCI, CARLO RIVA, ELISA ROSSONI Gioco e disabilità, un’oscillazione tra limite e piacere

II. REVISIONE SISTEMATICA 161

CLARISSA SORRENTINO Giftedness e contesti secondo una prospettiva pedagogica

III. ESITI DI RICERCA 171

ARIANNA TADDEI Aree di conflitto e lavoro minorile: una sfida per il sistema educativo palestinese

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ALESSANDRO BORTOLOTTI, ANGELA PASQUALOTTO, PAOLA TOMASI, PAOLA VENUTI Alla “Scuola inclusiva nel Bosco”, per essere liberi di crescere assieme


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ANTONELLO MURA, ILARIA TATULLI Emancipazione e voci femminili: il progetto di vita tra difficoltà e opportunità

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ELEONORA CAMILLO, MARINA EIANTI, CIVITA MACONE, FRANCA CARLA BELLI, ANTONELLA CERQUIGLINI Un modello inclusivo per il riconoscimento precoce e la riabilitazione dei Disturbi di Apprendimento

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Recensioni


Editoriale /

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Ricevo dal Presidente della SIPeS, Lucio Cottini, dal Direttore Responsabile dell’Italian Journal of Special Education for Inclusion, Luigi d’Alonzo, e da Fabio Bocci, che dal 2013 opera instancabilmente per questa Rivista, l’invito a delineare – a tutti i soci SIPeS – un breve approfondimento su un’importante iniziativa e, in particolare, su un prestigioso riconoscimento ad Andrea Canevaro – Presidente Onorario della nostra Società – in considerazione del fatto che molti soci SIPeS non hanno potuto presenziare all’iniziativa – data la limitata possibilità numerica di presenze – a Palazzo Montecitorio, a Roma. Accolgo l’ invito con gratitudine ed emozione, proponendolo in questo importante nostro Journal, che ha mosso i primi passi nel 2013 – e che continua a presentarsi fiorente, autorevole, sempre viator – cercando di ricordare alcune affinità che legano la nostra storia scientifica alle direzioni di ricerca intraprese e indicate – proprio nel primo numero di questa Rivista – da Andrea Canevaro, sperando di riuscire a rendere omaggio, contemporaneamente, al nostro premiato Presidente onorario e al nostro Journal. Il 31 marzo 2017, la Società Italiana di Pedagogia – fondata nel 1989 – ha attribuito un importante Premio alla carriera ad Andrea Canevaro; insieme a lui, per il nostro settore – M-PED/03 Didattica e Pedagogia Speciale – è stato premiato anche Michele Pellerey, un altro autorevole studioso che ha ampiamente contribuito al progredire della nostra area; la cornice di tale evento è stata la splendida Sala del Refettorio della Camera dei Deputati di Palazzo Montecitorio, a Roma. I Premi italiani di Pedagogia, in particolare quelli alla carriera, palesano il riconoscimento che la comunità scientifica pedagogica vuole esprimere ai suoi soci più autorevoli; la Commissione valutatrice, che ha sempre lavorato con grande unità d’intenti e con particolare rigore scientifico, era composta da Michele Corsi, Presidente del Premio; Simonetta Ulivieri, Presidente SIPed; Isabella Loiodice, Simonetta Polenghi, Maurizio Sibilio e dalla scrivente. Alla fine di queste pagine, chi legge potrà trovare le Declaratorie con le motivazioni dell’attribuzione dei Premi Italiani di Pedagogia – per la carriera – ad Andrea Canevaro e a Michele Pellerey1. Desidero ricordare che, dal 2014 – anno di istituzione del Premio Italiano di Pedagogia, Presidente Michele Corsi – molti docenti di Pedagogia Speciale sono stati premiati, grazie alle prestigiose monografie presentate: in questa maniera, il riconoscimento della comunità scientifica ha travalicato il nostro settore e la

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Nel sito della SIPed, è possibile trovare le declaratorie di tutti i premi attribuiti, anche quelle degli anni precedenti. A tal proposito, si veda il link https://www.siped.it/la-societa/premio-italiano-di-pedagogia/

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nostra area per divenire apprezzamento condiviso dall’intera comunità scientifica pedagogica nazionale. Sono grata a tutti i componenti della Commissione valutatrice del Premio Italiano di Pedagogia per il lavoro svolto in questi anni, a favore della Didattica e della Pedagogia Speciale, ma, in particolare, a Maurizio Sibilio che è stato un compagno di viaggio solidale, saggio, responsabile. L’Italian Journal of Special Education for Inclusion è una Rivista che ha intensamente promosso e partecipato i/ai cambiamenti culturali che la nostra comunità scientifica ha sollecitato, incontrato, abitato, grazie ad uno sguardo sempre attento alle ricerche sul campo, alle indicazioni della SIPeS e a quelle della letteratura italiana e internazionale sull’inclusione. La lungimiranza pedagogica del Presidente SIPeS, del Direttore Responsabile, del Comitato Scientifico, del Board e del Comitato di Redazione ha messo in luce l’attenzione editoriale, il controllo rigoroso e saggio dei contenuti, l’analisi, gli approfondimenti, le discussioni, il dibattito su temi conosciuti, ma anche l’enorme apertura a nuovi itinerari da percorrere che, fin dall’inizio della pubblicazione della Rivista, hanno rappresentato gli obiettivi più importanti e irrinunciabili. E proprio questi ci hanno permesso di non dimenticare mai che la Pedagogia Speciale “[…] è una continua composizione di rapporti, di azioni, di progetti, di punti di vista. E’, soprattutto, molte domande. Che non sempre trovano risposte in ciò che è già conosciuto. Pedagogia Speciale non dovrebbe avere la presunzione, fallimentare per la sua stessa esistenza, di considerare degne unicamente le domande a cui sa già dare risposta. Dovrebbe imparare a vivere con domande che non la trovano già preparata. Il suo compito è di cercare le risposte senza la sicurezza di trovarle. Il suo compito è di convivere con le domande aperte, e quindi reali, autentiche” (Canevaro, 2013, p.182 ). Queste poche righe di Andrea Canevaro sono presenti nel n.1 del nostro Journal, alla voce Pedagogia Speciale, nella sezione Lessico. E in questo scritto basilare, Andrea pone le linee storiche, i contesti relazionali, la progettualità e le prospettive della Pedagogia Speciale: si tratta di un contributo raffinato, illuminante, essenziale. Il quadro concettuale nel quale si muove sembra rispondere alla domanda “dove va la Pedagogia Speciale?”, interrogativo più che mai opportuno che costringe a guardare lo specchio dei cambiamenti culturali che sollecitano un passaggio, anche politico, dalla dimensione assistenzialistica a quella delle autonomie, senza mai trascurare la dimensione epistemologica, quella internazionale e il rapporto con le altre discipline. Da questo Lessico emerge una identità della Pedagogia Speciale che non è solo riconoscimento, ma esigenza di essere riconosciuti dagli altri e, quindi, volontà di appartenere a dimensioni gruppali e comunitarie, dato che la Pedagogia Speciale non è impegno per solisti (Ivi, p.181). La Pedagogia Speciale può/deve continuamente incontrare le persone con disabilità, i famigliari, gli insegnanti, i docenti universitari: “Interlocutori sono i famigliari e coloro che costituiscono il contorno sociale di un soggetto con disabilità. Che, richiedendo risposte immediate, rischiano di indurre Pedagogia Speciale a proporsi come detentrice di tutte le risposte. In realtà, Pedagogia Speciale dovrebbe imparare a vivere scoprendo sempre nuove domande alle quali non so dare risposta, ma può e deve impegnarsi a cercarle. Dove? Ma proprio condividendo un po’ della quotidianità delle persone con disabilità e di tutti coloro che le accompagnano, famigliari e contorno sociale” (Ivi, p.182). In tale ottica, è necessario continuare a sostenere il comportamento pratico degli educatori/operatori anche attraverso la riflessione, lo studio, la ricerca teoEditoriale

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rica, l’aumento della consapevolezza degli atteggiamenti, l’incremento della responsabilità delle scelte e delle decisioni, il potenziamento dell’osservazione e dell’analisi delle azioni e delle reazioni. La fortunata e azzeccata struttura della Rivista tiene conto di tutte queste coordinate e le promuove dentro a una dimensione di valorizzazione delle esperienze e di ricomposizione dei molteplici saperi: lo dimostra anche con l’offerta di contenuti poliedrici interessantissimi in questo primo numero del 2017, che riluce di dimensioni interdisciplinari e intersettoriali coinvolgenti (cooperazione internazionale; gioco e disabilità; la scuola “nel bosco”; donne e disabilità; fenomeni di push e pull out ecc.). Così, la Pedagogia Speciale prosegue il suo cammino avendo come bussola orientativa un presente intensivo di vichiana memoria (Orlando, 1990): non solo cosa fa, ma di cosa si sta occupando in questo momento, collocandosi continuamente tra memoria/storia e innovazione, continuando a percorrere i sentieri già conosciuti, approfondendoli e, dall’altra parte, esplorando nuovi itinerari di ricerca quali il Progetto di Vita, l’ampliamento del rapporto con i Diritti Umani, la formazione universitaria dei docenti – iniziale ed in servizio – la cooperazione internazionale. Canevaro, studioso appassionato e raffinato, spinge la Pedagogia Speciale alla lettura analitica delle situazioni complesse, liberandola dall’angoscia delle soluzioni immediate, facendo della capacità di leggere le situazioni – scomponendole nelle molteplici variabili – una competenza specifica della disciplina; in tal senso, nei suoi contributi, vi si trovano gli elementi per un nuovo approccio alle situazioni problematiche, un rinnovato impegno educativo, che necessita di un de-centramento del sapere che ri-torna arricchito e rielaborato, condiviso con chi è testimone/interprete incolpevole di una situazione problematica (Mancuso, 2002). In quel numero 1 del 2013 dell’Italian Journal of Special Education for Inclusion, vi è un commosso Editoriale di Luigi d’Alonzo che può finalmente dare il benvenuto alla nuova Rivista di Pedagogia Speciale – insieme a quella – inossidabile e conosciutissima – diretta da Marisa Pavone: L’integrazione scolastica e sociale. Ci sono voluti anni per salutare il nostro Journal: lo sa bene chi l’ha voluto, sostenuto, difeso. Ma in quel primo numero, ricchissimo di magnifici contributi di colleghe e colleghi, ritrovo un amico appassionato e irriducibile che mi manca tantissimo: è Alain Goussot, che amo ricordare con affetto e stima immutabili. Il nostro Journal è anche memoria, che può partire da un dato in cui inserirsi per arrivare ad un divenire a cui partecipare: “Per questo parliamo di “prospettiva inclusiva”: è una dinamica costruttiva” (Canevaro, 2013, p. 184). Questa Rivista ha dunque contribuito, in pochi anni, a presentare i processi d’integrazione e di inclusione come fattori di innovazione, di cambiamento sociale e di prevenzione, rilevando l’importanza dell’apprendimento dentro ad una comunità, dove vi è una pluralità di minori e di adulti; consolidando la vita sociale, attraverso il Progetto di vita e l’acquisizione delle competenze quotidiane legate all’autonomia. I contributi offerti hanno concorso a chiarire che la via per l’inclusione è l’educazione e non la medicalizzazione, che le conoscenze della Pedagogia Speciale devono essere più diffuse (ad esempio, nella formazione comune di tutti gli insegnanti e non solo di quelli di sostegno). La Pedagogia Speciale deve molto alla presenza culturale della Rivista, considerandosi sempre in ricerca, soprattutto in Editoriale

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alcune aree particolarmente complesse, nelle quali il lavoro da fare è ancora enorme (pluridisabilità, migrazione, traumi, occupabilità). Va detto, infatti, che in alcune aree di lavoro il nostro sguardo è diventato più competente; in altre, invece, deve raffinarsi, continuando l’investigazione, perseverando nell’ imparare, progredendo nella conoscenza: “Complicità e ignoranza costituiscono una rete labirintica in cui si perdono le responsabilità e anche le dignità” (Ivi, p. 183). Per fare tutto ciò, abbiamo bisogno di contesti competenti, che offrano una competenza sollecitante, in grado di superare sia l’assistenzialismo che il vittimismo, rischi che Andrea indica con lucidità straordinaria, suggerendo che l’assistenzialismo può essere superato con un progetto partecipato ed evolutivo e il vittimismo può essere contrastato evitando un sostegno che deresponsabilizza chi ha una disabilità e cerca di operare perché sia attivo/a nell’organizzarsi (Ivi, p.183). Per la fecondità concettuale – di cui questi richiami sono solo un piccolo assaggio – e per il luminoso coraggio nell’avvio di nuovi sentieri di ricerca, sono felice di aver avuto la possibilità di proporre il Premio Italiano di Pedagogia alla carriera ad Andrea Canevaro (e a Michele Pellerey): come ho già scritto in altri contributi, conservo l’idea di un debito – impagabile – alla generazione di maestri che mi ha preceduto (Caldin, 2014, p. 149). E non la cambio. Riferimenti bibliografici essenziali Caldin R., La Pedagogia Speciale, la sua situazione paradossa e il debito (impagabile) alla generazione che ci ha preceduto, in M. Corsi (a cura di), La ricerca pedagogica in Italia. Tra innovazione e internazionalizzazione, PensaMultimedia, Lecce, 2014, pp. 149-163 Canevaro A., Pedagogia Speciale – Lessico, in Italian Journal of Special Education for Inclusion, n.1/2013, vol. I, pp. 181-184 Mancuso V., Il dolore innocente. L’handicap, la natura e Dio, Mondadori, Milano, 2002 Orlando D., Introduzione a una epistemologia dell’educazione, Padova, Cleup, 1990

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DECLARATORIE con le motivazioni per i Premi Italiani di Pedagogia alla carriera di Andrea Canevaro e di Michele Pellerey Andrea Canevaro - Professore Emerito dell’Alma Mater- Università degli Studi di Bologna, già Professore Ordinario di Pedagogia Speciale

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Laureato in Lettere e Filosofia, ha vinto una borsa di studio all’Université Lyon 2, seguendo gli studi del Prof. Claude Kohler e occupandosi di infanzia con ritardo mentale; ha lavorato anche nel’ambito della devianza giovanile. Nel 1973 ha tenuto l’insegnamento di Pedagogia Speciale presso la Facoltà di Magistero (poi, Facoltà di Scienze della Formazione) nell’Ateneo di Bologna; è entrato a far parte del Dipartimento di Scienze dell’Educazione di Bologna. Nel 1980 ha vinto il concorso come Professore di prima fascia di Pedagogia speciale, ed è stato chiamato come Professore Straordinario presso la Facoltà di Scienze della Formazione di Bologna; successivamente, è diventato Professore Ordinario presso lo stesso Ateneo. Dal 1980 al 1983 è stato eletto Presidente del Corso di Laurea in Pedagogia; dal 1987 è stato Direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione di Bologna ed ha sostenuto tale ruolo per due mandati, fino al 1996. In tale ruolo è stato rinominato nel 1999, per altri due mandati. Dal 2002 al 2009 è stato Delegato del Rettore dell’Ateneo di Bologna per gli studenti disabili. Ha al suo attivo diverse missioni internazionali di Cooperazione educativa nelle regioni balcaniche, nella regione africana dei Grandi Laghi, in Bielorussia e in Cambogia; ha coordinato il gruppo tecnico-scientifico del Progetto di tutela e di reinserimento di minori con disabilità fisiche e psichiche e promozione di imprenditorialità sociale in BosniaErzegovina. Ha un impegno di valutatore di progetti di ricerca per l’Université de Montréal (Canada) e di Lyon. E’ stato componente della Commissione Tecnicoscientifica dell’Osservatorio per l’integrazione dei disabili del Ministero italiano della Pubblica Istruzione. E’ direttore di riviste e membro di comitati scientifici editoriali nazionali e internazionali. E’ autore di numerosissime pubblicazioni, conosciute a livello internazionale, sui temi dell’inclusione (ricordiamo almeno: I bambini che si perdono nel bosco del 1976 e Le logiche del confine e del sentiero del 2006); è considerato un promotore, sostenitore e difensore dei processi inclusivi, ai quali ha dedicato l’intera sua vita.

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Michele Pellerey – Professore Emerito dell’Università Salesiana di Roma – già Professore Ordinario di Didattica

Laureato in matematica, sotto la guida di Lucio Lombardo Radice con la prima tesi a carattere didattico in Italia, sviluppa ricerche sulla didattica della matematica insieme al gruppo guidato da Lombardo Radice e Bruno de Finetti e animato da Emma Castelnuovo. Dirige per il CNR il progetto RICME sul rinnovamento del curricolo matematico elementare. Entra far parte della Commissione Internazionale CIEAEM, di cui diventa Vice Presidente e poi Presidente dal 1981 al 1988. Dal 1968 insegna presso l’Università Salesiana Didattica della matematica, su cui pubblica numerosi volumi. In quell’Università, dal 1974 è impegnato a tempo pieno, diventando prima Professore Straordinario, poi Ordinario di Didattica Generale, quindi Preside della Facoltà di Scienze dell’Educazione, Vice Rettore e Rettore dal 1997 al 2003. Pubblica nel 1979 il volume Progettazione didattica, rieditandolo nel 1994; elabora, quindi, un approccio alla Pedagogia dal punto di vista pratico-progettuale (L’agire educativo, 1998; Educare, 1999). Avvia all’inizio degli anni settanta la ricerca sull’uso delle tecnologie digitali nell’insegnamento e nella formazione professionale, collaborando con l’ISFOL, di cui diventa membro del Comitato Culturale. In questo ambito pubblica vari volumi tra cui L’informatica nella scuola media del 1989 e La valorizzazione delle tecnologie mobili del 2015. Partecipa alla fondazione della SIRD, di cui è stato membro del Direttivo. Collabora con il Ministero dell’Istruzione per la definizione dei programmi di studio dei vari cicli e per il riordino del secondo ciclo di Istruzione e Formazione; con quello del Lavoro, con l’Isfol, con la Regione Veneto, con la Provincia Autonoma di Trento, nel settore della formazione professionale. A partire dagli anni novanta, le sue ricerche si concentrano sullo sviluppo delle competenze che stanno alla base della capacità di auto-direzione e di autoregolazione nello studio e nel lavoro, che conducono a molteplici e prestigiose pubblicazioni, tra cui Le competenze individuali e il portfolio del 2004; Competenze del 2010, Imparare a dirigere se stessi del 2013.

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LUDI – Play for Children with Disabilities: l’interdisciplinarietà a supporto di un nuovo modello di intervento per il gioco del bambino con disabilità

The LUDI project is an interdisciplinary network for children with disabilities and involves a hundred of researchers and professionals from different European and non-European countries, related to various scientific disciplines. The project has the ambition to create a new and autonomous research and intervention field and to spread awareness on the rights of the child with disabilities, ensuring equity in exercising the right to play. The goal of the network is to gather the various professionals that revolve around the theme of play for child with disabilities, by bringing together the various disciplines and establishing a constructive dialogue between them in order to reach definitions, knowledge and shared skills. LUDI has developed the theme from four closely related research themes: play in relation to types of disability, tools and technologies for the play for children with disabilities, play inclusive contexts and users views (children, families and associations). The Action envisaged the deepening of each of these domains in terms of existing knowledge and active research projects, and subsequently created new interdisciplinary knowledge, formulating original inquiries and innovative research and intervention courses.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Key-words: Right to play, Disability, Multidisciplinarity, Network

Summer School Bressanone

Italian Journal of Special Education for Inclusion

abstract

Nicole Bianquin (Università della Valle d’Aosta / n.bianquin@univda.it)

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Introduzione

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Il gioco è una delle attività più importanti nell’infanzia e svolge un ruolo centrale nello sviluppo del bambino promuovendo l’apprendimento delle abilità cognitive, linguistiche e sociali (Piaget, 1981; Vygotskij 1967; Sutton-Smith, 2009). Nel caso dei bambini con disabilità, in relazione alle diverse limitazioni funzionali, la naturalezza del gioco può fortemente limitarsi (Stagnitti et al. 2012), sia come conseguenza diretta della disabilità stessa sia perché l’accesso a forme analoghe di gioco in cui partecipare è decisamente circoscritto (Besio, 2017). Il tema del gioco per il bambino con disabilità ha, negli ultimi trent’anni, dato avvio a un’ampia serie di studi, prodotti e metodologie, che, tuttavia, risultano ancora estremamente frammentati e disgiunti: ne sono un esempio la robotica educativa (Besio et al. 2009; Cook et al. 2010; Robins et al. 2012), i giocattoli adattati (Brodin, 1999), i parchi-gioco accessibili (Ashley, 1999; Prellwitz et al. 2009; Ripat, Becker 2012), le ricerche sullo sviluppo del gioco in bambini con diverse tipologie di disabilità (Meyers, Vipond, 2005, Besio 2010), quelle inerenti le relazioni familiari a matrice ludica (Ghoroury, Romanczyk, 1999; Giallo, Gavidia-Payne, 2006), ecc. Ciò che manca è un loro coordinamento efficace all’interno di un unico ambito speculativo, che contemporaneamente ne permetta una chiara sistematizzazione e favorisca, in seguito, l’individuazione di ulteriori domande di ricerca, nonché la realizzazione di nuovi studi, strumenti e proposte metodologiche (Besio et al. 2015). LUDI – Play for Children with Disabilities è una rete internazionale e interdisciplinare di ricercatori e professionisti finanziata dal Programma Europeo COST1 (COoperation in Science and Technology); essa è stata ufficialmente avviata a giugno 2014, per la durata di quattro anni, e terminerà nel 20182. Il progetto ha l’obiettivo principale di diffondere la consapevolezza dell’importanza di offrire ai bambini con disabilità l’opportunità di giocare: anche per loro il gioco è un diritto che deve essere garantito, mettendolo al centro sia della ricerca multidisciplinare sia delle pratiche di intervento rivolte ai bambini con disabilità. Quest’azione mira alla creazione di un campo innovativo e autonomo di ricerca e intervento sul gioco per i bambini con disabilità. A tal fine, LUDI si è dato tre compiti principali: a) raccogliere e sistematizzare le conoscenze e le competenze esistenti relative alla ricerca educativa e didattica, alle iniziative cliniche e di utilizzo del know-how dei centri di risorse e delle associazioni degli utenti; b) sviluppare nuove conoscenze relative alle impostazioni e alla tecnologia (dispositivi, servizi, strategie e pratiche) associate al gioco dei bambini con disabilità; c) diffondere le migliori pratiche emergenti dallo sforzo congiunto di ricercatori,

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COST rappresenta il Quadro Europeo più importante a sostegno della cooperazione transnazionale tra ricercatori e studiosi di tutta Europa; ha contribuito – fin dalla sua creazione nel 1971 – a colmare il divario tra scienza e decisori politici e sociali in tutta Europa e oltre e, come precursore di ricerca multidisciplinare avanzata, svolge un ruolo centrale nella costruzione dello Spazio Europeo della Ricerca (ERA). Per ulteriori informazioni si rimanda al sito http://www.cost.eu/about_cost. Ulteriori informazioni sul progetto sono disponibili ai siti www.ludi-network.eu e www.cost.eu/COST_Actions/tdp/TD1309.

Summer School Bressanone – Prima parte


professionisti e utenti. Attualmente, la rete comprende oltre 100 ricercatori, professionisti e praticanti provenienti da 32 Paesi europei ed extra-europei3, afferenti alle discipline più diverse: scienze dell’educazione, pedagogia, psicologia, medicina, riabilitazione, sociologia, ingegneria, design, diritto, ecc.

1. Gioco e disabilità

Il gioco è ampiamente riconosciuto come l’attività fondamentale per lo sviluppo di ogni bambino (Bruner, 1986): esso svolge un ruolo centrale nell’acquisizione di abilità cognitive, socio-psicologiche e relazionali, ma supporta anche il bambino nella sperimentazione di nuove attività, nell’esplorazione dell’ambiente fisico e nella costruzione delle relazioni sociali (Vygotskij, 1967). Inoltre rappresenta un innato ‘motore’ per la curiosità, la sfida e la motivazione verso l’azione (Piaget, 1972). Molteplici barriere impediscono, invece, ai bambini con disabilità di esercitare il loro diritto al gioco. Se esso esiste per tutti i bambini, la disabilità potrebbe negare questo diritto, perché il gioco non sempre appare spontaneamente (Bishop et al. 1999): i bambini con disabilità possono essere privati del diritto al gioco, o come diretta conseguenza delle loro limitazioni funzionali (Besio et al. 2017) o perché l’ambiente non è sufficientemente adeguato o pronto per ospitarli e favorire forme e contesti di gioco in cui possano partecipare (Barron et al. 2017). Ad esempio, il gioco nei bambini con disabilità intellettiva non emerge naturalmente e informalmente e occorre dunque incoraggiarlo; essi appaiono più interessati alla caratteristiche fisiche dei materiali di gioco e non alle loro possibilità rappresentative e realizzano il gioco simbolico con maggiore difficoltà rispetto ai coetanei (Bulgarelli, Stancheva-Popkostadinova, 2016). Preferiscono giocare con i più piccoli e proporre in modo ripetitivo attività che richiedono minime competenze (Meyers, Vipond, 2005). I bambini con disturbi pervasivi dello sviluppo hanno alcune limitazioni funzionali che generalmente ostacolano la loro partecipazione alle attività di gioco e non rivelano una naturale inclinazione verso proposte provenienti dall’esterno (Ray-Kaeser et al. 2017), se non esclusivamente verso alcuni oggetti che attirano la loro attenzione continuamente e in modo esasperato (Benson et al. 2006). La limitazione visiva provoca un’importante diminuzione della quantità e della qualità dei giochi possibili, che eventualmente convergono su attività a tavolino, basate su materiali preformati o sull’utilizzo del computer (Tzvetkova-Arsova, Zappaterra, 2017). Le abilità di gioco per i bambini con disabilità fisiche sono generalmente influenzate dalla gravità delle limitazioni motorie e dalla possibile associazione con altri tipi di limitazioni, e questi bambini raramente hanno l’opportunità di raggiungere i più alti livelli di gioco (Besio, 2010; Besio, Amelina, 2017). 3

Austria, Belgium, Bulgaria, Croatia, Cyprus, Denmark, Estonia, Finland, France, fYR Macedonia, Germany, Greece, Iceland, Ireland, Israel, Italy, Lithuania, Malta, The Netherlands, Norway, Poland, Portugal, Romania, Serbia, Slovenia, Spain, Sweden, Switzerland, Turkey, United Kingdom e la Russian Federation (considerata un COST Near Neighbour Countries).

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Le attività di gioco quindi per quasi tutti i bambini con disabilità non sorgono e non si dispiegano con l’urgenza evolutiva che intervengono per i pari a sviluppo tipico. È fondamentale, inoltre, considerare l’imbarazzo, l’incapacità, la mancanza di creatività o curiosità che in alcuni casi gli adulti e i bambini possono dimostrare nell’invitare e coinvolgere nel gioco un bambino con un funzionamento diverso. Il gioco non svolge ancora un ruolo sufficientemente centrale nelle pratiche quotidiane dei servizi educativi e di riabilitazione che gravitano attorno ai bambini con disabilità. In questo modo gli obiettivi clinici diventano predominanti e i tempi, gli spazi e le opportunità dedicati alle attività normali e tipiche dell’infanzia, come il gioco, sono decisamente ridotti. Famiglie, professionisti, educatori sembrano concentrarsi totalmente sulla riabilitazione e sull’acquisizione sistematica di abilità, piuttosto che sull’ascolto e sull’interpretazione della proposta spontanea del bambino con disabilità (Besio et al. 2017). Il gioco di questi bambini è considerato solo come mezzo attraverso il quale realizzare obiettivi clinici e terapeutici, obiettivi altri: queste attività non si configurano dunque come momenti di gioco in sé ma devono essere considerate come attività ludiformi (play-like activities). Il gioco per il piacere del gioco è considerato quasi uno spreco di tempo e i bambini con disabilità raramente sono impegnati nel play for the sake of play, inteso come gioco fine a sé stesso (Besio, 2017). Il concetto di gioco è fortemente connesso alla distinzione tra attività ludiche – play for the sake of play – e attività ludiformi – play-like activities (Visalberghi, 19584). Le prime vengono avviate e realizzate dal giocatore (da solo, con i pari, con gli adulti) con l’unico scopo del gioco stesso (divertimento, gioia, interesse, sfida, competizione, ecc.). Queste attività hanno chiaramente delle conseguenze sulla crescita e lo sviluppo, ma questi esiti non sono perseguiti intenzionalmente. Le attività ludiformi sono invece avviate e condotte dall’adulto, in contesti educativi, clinici o sociali; appaiono giocose e piacevoli, ma il loro obiettivo principale è altro rispetto al gioco: apprendimento cognitivo, sociale, riabilitazione funzionale, osservazione e valutazione, supporto psicologico, psicoterapia, ecc. LUDI ha ripreso la distinzione operata da Visalberghi nel 1958, reputandola funzionale e assolutamente attuale e identificandola come nucleo fondante della rete: garantire ai bambini con disabilità la piena opportunità di rivendicare il loro diritto al gioco inteso come ‘gioco per il gioco stesso’. All’interno della rete dunque tutti i prodotti sviluppati, in termini di conoscenze, competenze, pratiche, interventi, metodologie, ecc., avranno come filo conduttore il play for the sake of play.

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È stato il pedagogista italiano Aldo Visalberghi a sistematizzare questi concetti nel 1958, ancora oggi funzionali ad una lettura critica delle ricerche esistenti sul campo e delle direttive future. Secondo lo studioso, il gioco possiede le seguenti caratteristiche: è esigente, richiede un impegno completo del giocatore; è continuativo, si sviluppa durante tutta la vita di un bambino; è progressivo, poiché può diventare gradualmente più complesso; prevede la fine dell’attività e non richiede nessun tipo di continuazione una volta terminata. Molte attività svolte nelle scuole o nei contesti educativi che hanno obiettivi di apprendimento possono avere l’aspetto e persino la struttura delle attività di gioco e possono, naturalmente, avere caratteristiche di divertimento. Per queste attività Visalberghi propone l’espressione di ‘ludiformi’. Esse hanno le stesse prime tre caratteristiche delle attività di gioco ma non l’ultima, poiché non si concludono in sé ma hanno obiettivi educativi e un ambito finale, quello dell’apprendimento.

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Inoltre LUDI, dopo un’attenta analisi e uno studio comparativo delle definizioni e classificazioni di gioco, ha deciso di adottare quella proposta da Garvey, la più ampia e contemporaneamente flessible, ai fini del progetto: «Il gioco è una serie di attività volontarie e intrinsecamente motivate, normalmente associate al divertimento e al piacere ricreativo» (1990:4). Essa racchiude inoltre delle caratteristiche interessanti e funzionali agli scopi del progetto: include tutti i tipi di attività svolte con intento ludico e prende in considerazione tre dimensioni importanti e tipiche del gioco infantile: il piacere, l’autodeterminazione e l’intrinseca motivazione. Al contrario, tutte le attività svolte in contesti ludici o in un clima ludico, con strumenti ludici (giocattoli, giochi, ecc.), ma guidate da un obiettivo estrinseco (cioè, educativo, riabilitativo) sono definite ‘ludiformi’ e costituiscono un oggetto collaterale di studio all’interno del progetto LUDI. Al fine dunque di permettere ai bambini con disabilità l’esercizio completo del loro diritto al gioco occorre concentrare l’impegno sulle attività ludiche intese come fine e non come mezzo (play for the sake of play): lo scopo di LUDI è pertanto quello di creare consapevolezza generale sul loro impatto sulla qualità della vita dei bambini con disabilità e di avviare un processo di cambiamento culturale e sociale, al fine di abbattere le barriere che ostacolano il pieno esercizio del diritto al gioco fine a sé stesso per la realizzazione di una vera inclusione sociale.

2. Un crocevia di discipline

La rete LUDI è guidata da un obiettivo davvero ambizioso e innovativo che si dirama in molte prospettive di esplorazione ed è suscettibile di sviluppi significativi in diversi campi. LUDI ha l’obiettivo prioritario di mettere insieme le diverse professionalità che ruotano intorno alla tematica del gioco del bambino con disabilità, riunendo le diverse aree disciplinari e istituendo fra loro un dialogo costruttivo, al fine di raggiungere definizioni e conoscenze che siano condivise per gli scopi diversi di ciascuna di esse. I partecipanti provengono dai seguenti settori professionali:

– clinica (pediatri, fisiatri, neuropsichiatri infantili); – riabilitazione (fisioterapisti, logopedisti, terapisti della riabilitazione, neuropsicomotricisti); – psicologia (psicologi dello sviluppo e dell’istruzione); – educazione (insegnanti, pedagogisti, educatori, operatori di centri ricreativi e di istruzione; – sociologia); – ingegneria, design e progettazione; – settore industriale; – legale e delle politiche.

Oltre alla vastità e alla varietà delle aree coinvolte, la rete LUDI ha anche un’altra caratteristica costitutiva: la confluenza tra studi teorici – finalizzata alla creazione di modelli, metodologie, raccolta e analisi di dati, regole standard – e studi relativi alle pratiche di intervento dai contesti clinici a quelli industriali. Durante i primi tre anni del progetto nuove conoscenze si sono sviluppate in

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tutte le aree scientifiche, non solo in relazione alla ‘specialità’ della disabilità, ma come acquisizioni complessive sul tema del gioco (sviluppo, strumenti, relazioni, attività, diritti umani, valutazione, ecc.) e dello sviluppo del bambino in generale. Una consapevolezza più stabile e coerente sullo sviluppo del gioco del bambino è la condizione essenziale al fine di permettere ai professionisti e ai ricercatori di rendere più efficaci i loro interventi e proposte, proprio perché originati da assunti teorici scientificamente fondati e condivisi da un gruppo di ricerca importante da un punto di vista numerico, interdisciplinare e internazionale. Una sensibilità più diffusa sugli aspetti sociali e sul valore del gioco favorirà sicuramente una maggiore diffusione di contesti e di metodi inclusivi. Allo stesso tempo, una credenza condivisa sull’importanza del gioco, play for the sake of play, per i bambini con disabilità come per qualsiasi altro bambino, nonché sul ruolo dell’inclusione per le prossime società, richiederà cambiamenti in molti aspetti della vita culturale e sociale: l’accessibilità dei siti e dei giocattoli, l’applicazione concreta del diritto di giocare per ogni bambino, l’adozione di una nuova mentalità sulla disabilità, meno incentrata sul recupero e più interessata ai fondamentali dell’infanzia. La sfida principale è già presente tuttavia all’interno della rete stessa, che si caratterizza per la sua internazionalità e interdisciplinarietà. I ricercatori e professionisti appartenenti al progetto LUDI provengono infatti da molti Paesi europei e non solo, portando con sé le loro convinzioni e le loro esperienze personali e culturali, che necessitano di essere esplorate e comparate, con knowhow in settori diversi, che dovrebbero essere fusi insieme attraverso una discussione approfondita e con basi di evidenza scientifica. Lo scopo di questa intensa e significativa attività di mediazione è quello di raggiungere una comprensione reciproca e di sviluppare nuovi saperi comuni e collettivi, alla luce delle dichiarazioni fondamentali condivise dall’inizio del lavoro. Questo è tuttavia un processo estensivo, poiché passare a nuovi paradigmi richiede sempre molto tempo e molta determinazione: ogni prodotto elaborato all’interno del progetto LUDI, è indubbiamente frutto di un lavoro e di scelte condivise, ma il dibattito rimane ancora aperto e attivo. Qualsiasi prodotto di LUDI è quindi una parte di un processo ricorsivo, i cui risultati devono essere considerati, fino alla sua fine, come passi parziali di un lungo percorso.

3. Ludi framework: i documenti internazionali

Il nucleo fondante della rete si colloca all’incrocio di tre grandi ambiti di interesse scientifici, ciascuno con la propria autonomia, i propri studi e prodotti:

a) il gioco (diritti, sviluppo, valutazione, …); b) la disabilità (tipologie di menomazione, caratteristiche di funzionamento,…); c) i fattori ambientali (strumenti, contesti, situazioni e scenari di gioco,…).

Al fine di condividere gli assunti di partenza del progetto e creare un linguaggio comune tra tutti i ricercatori e i professionisti della rete, provenienti da paesi con culture e pratiche anche molto diverse e con background professionali distanti tra loro, è stato evidente fin da subito che le cornici teoriche di riferimento Summer School Bressanone – Prima parte


dovevano derivare da documenti internazionali, già riconosciuti da tutti, oppure individuati all’interno del percorso di LUDI, come legittimi, fondati e validi. L’Azione LUDI ha concordato di utilizzare tre importanti elaborazioni internazionali: la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia (ONU, 1989), la Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità (ONU, 2006) e la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (OMS, 2001-2006). La prima adottata nel 19895 ribadisce espressamente il principio del diritto al gioco all’Articolo 31: «Gli Stati parti riconoscono al fanciullo il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età e a partecipare liberamente alla vita culturale ed artistica». Il monitoraggio dell’attuazione della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia è condotto da un Comitato sui Diritti dell’Infanzia6, che ha finora elaborato 17 osservazioni generali: il Commento Generale N°17, relativo all’Articolo 31 e diffuso nel settembre 2013, è un rilevante promemoria sul diritto dei bambini al gioco (Bianquin, in stampa). Il Comitato ha sottolineato con una forte preoccupazione che questo diritto è poco riconosciuto: gli investimenti sono insufficienti, la legislazione che dovrebbe proteggerlo è inadeguata o inesistente e i bambini sono invisibili nelle politiche nazionali e locali. Il Comitato è particolarmente preoccupato rispetto alle difficoltà incontrate da alcuni gruppi di bambini nell’esercizio di questi diritti: una di queste categorie è proprio rappresentata dai bambini con disabilità (Towler, 2017). Successivamente, nel 2006, anche la Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità all’articolo 30 pone il gioco al centro della vita del bambino con disabilità sottolineando l’obbligo degli Stati parti a garantire che i bambini con disabilità possano partecipare al gioco, alla ricreazione e allo sport, in condizioni di parità con gli altri bambini. Inoltre la Convenzione evidenzia l’importanza di attuare e implementare delle misure proattive per eliminare le barriere e consentire a tutti di partecipare nelle attività di gioco, rendendole accessibili anche ai bambini con disabilità: ne sono un esempio la sensibilizzazione di adulti e coetanei, il supporto e assistenza adeguati all’età, la messa in campo di ambienti, strutture e trasporti accessibili e inclusivi, la fornitura di informazioni, istruzione e formazione che sostengano il diritto dei minori a giocare, ecc. L’attività ludica è anche tenuta in considerazione dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che, con la sua più recente definizione dei concetti di salute, benessere e disabilità – International Classification of Functioning, Disability and Health, ICF (2001) –, fornisce un modello di riferimento e un linguaggio standard per gli operatori, non ha trascurato, fra le attività di vita dell’individuo, le aree dedicate al divertimento e alle ricreazione nel Capitolo dedicato a ‘Vita sociale, civile e di comunità7’ (codice d9200 denominato Gioco8). Ma è soprattutto l’ICF5 6 7 8

Adottata e aperta per la firma e la ratifica nel 1989, essa entra in vigore il 2 settembre 1990. Da allora, tutti gli Stati membri dell’ONU, ad eccezione degli Stati Uniti, si sono impegnati a rispettare e applicare i principi e i diritti generali contenuti. L’Italia ha ratificato la Convenzione con Legge n. 176 del 27 maggio 1991. Il Comitato è composto da 18 esperti di alta moralità e in possesso di una competenza riconosciuta nel settore oggetto della Convenzione sui diritti dell’infanzia. Questo capitolo riguarda le azioni e i compiti richiesti per impegnarsi nella vita sociale fuori dalla famiglia, nella comunità, in aree della vita comunitaria, sociale e civile (OMS, 2001). Il codice d9200, relativo al Gioco, è inteso come «Impegnarsi in giochi con regole o in giochi non

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CY (2007), la versione per bambini e adolescenti della Classificazione, che dedica al gioco un’attenzione particolare: il gioco è collocato fra le aree di vita principali del bambino e il coinvolgimento nell’attività ludica rappresenta una Componente fondamentale del benessere, dello sviluppo e della salute (Bulgarelli, Bianquin, 2017). Definito come una Componente del dominio di ‘Attività e partecipazione9’, il gioco è posto sia nel Capitolo 1 ‘Apprendimento e applicazione delle conoscenze10’ sia nel Capitolo 8 ‘Aree di vita principali11’. Nel primo caso il gioco è visto come un motore per lo sviluppo del bambino, in particolare per l’apprendimento, nel secondo caso il gioco è interpretato come ‘Coinvolgimento nel gioco12’ (d880), cioè come impegno costante e sostenuto in attività con oggetti, giocattoli, materiali o giochi, occupandosi di sé o con altri. Questa seconda definizione è più aderente agli scopi del progetto e verrà poi inserita come un’ulteriore definizione di gioco adottata da LUDI. Per quel che riguarda il secondo e terzo ambito di interesse scientifico – la disabilità e i fattori ambientali – LUDI ha stabilito di fondarsi sul modello inclusivo adottando l’inquadramento offerto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità con la Classificazione Internazionale del Funzionamento – versione bambini e adolescenti (ICF-CY, 2007). L’ICF infatti costituisce un’ottima base di partenza per favorire l’incontro multi-disciplinare e permette di mettervi al centro il gioco del bambino (vedi Figura 1), inteso come interdipendente da numerosi aspetti.

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– Le tipologie di menomazione con le loro caratteristiche di funzionamento, possono essere descritte all’interno di ‘Funzioni13 e Strutture Corporee14’. – Il gioco è collocato nel dominio ‘Attività e Partecipazione’ inteso come attività ludica nelle sue sfaccettature e tipologie e la partecipazione sociale al gioco. – Gli strumenti e contesti di gioco sono descritti all’interno dei ‘Fattori Ambientali15’ e sono intesi come tecnologie disponibili, costrutti di accessibilità e di usabilità, ma anche le interrelazioni e i contesti familiari, sociali, riabilitativi, educativi.

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strutturati o non organizzati e ricreazione spontanea, come giocare a scacchio a carte, o i giochi dei bambini» (OMS, 2001:137). La componente di Attività e Partecipazione comprende la gamma completa dei domini che indicano gli aspetti del funzionamento da una prospettiva sia individuale che sociale. L’attività viene intesa come l’esecuzione di un compito o di un’azione da parte di un individuo mentre la partecipazione è il coinvolgimento in una situazione di vita (OMS, 2001). Questo capitolo riguarda l’apprendimento, l’applicazione delle conoscenze acquisite, il pensare, il risolvere problemi e il prendere decisioni (OMS, 2007). Questo capitolo riguarda lo svolgimento di compiti e delle azioni necessari per impegnarsi nell’educazione, nel lavoro e nell’impiego e per produrre transazioni economiche (OMS, 2007). Per Coinvolgimento nel gioco si intende un «impegno intenzionale e prolungato in attività con oggetti, giocattoli, materiali o giochi, per tenersi occupati da soli o con altri» (OMS, 2007:177). «Le funzioni corporee sono le funzioni fisiologiche dei sistemi corporei, incluse quelle psicologiche» (OMS, 2001:168). «Le strutture corporee sono le parti strutturali o anatomiche del corpo come gli organi, gli arti e le loro componenti classificate secondo i sistemi corporei» (OMS, 2001:168). «Costituiscono una componente dell’ICF, e si riferiscono a tutti gli aspetti del mondo esterno ed estrinseco che formano il contesto delle vita di un individuo e come tali hanno un impatto sul funzionamento della persona. I fattori ambientali includono l’ambiente fisico e le sue caratteristiche, il mondo fisico creato dall’uomo, altre persone in diverse relazioni e ruoli, atteggiamenti e valori, sistemi sociali e servizi, politiche, regole, leggi » (OMS, 2001:169).

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– Le propensioni e gli stili individuali, legati ad esempio al genere, all’età, alla cultura, sono descritti nei ‘Fattori Personali16’.

Fig. 1. Modello bio-psico-sociale dell’ICF in relazione alle componenti dell’attività di gioco

In tal modo, è possibile descrivere le interrelazioni fra i domini, e mettere in chiara evidenza come i cambiamenti all’interno di ciascuno possano determinare modificazioni nell’intero sistema: la direzione di questi mutamenti è ovviamente orientata ad un incremento complessivo della salute e del benessere del bambino, inteso sia come ampliamento delle capacità di azione e di partecipazione sociale nei suoi contesti di vita sia come maggiore adeguatezza dell’ambiente circostante, in termini di disponibilità di strumenti materiali e contesti efficaci e di competenza ad agire da parte degli interlocutori privilegiati. Di seguito vengono riportare due definizioni di disabilità che l’ICF offre e che si adattano perfettamente alle finalità del progetto: entrambe sottolineano l’interconnessione complessa tra l’individuo e l’ambiente. La prima pone maggiore enfasi sull’ambiente e su come potrebbe costituire una barriera o un facilitatore per il funzionamento dell’individuo. La seconda spiega le modalità in cui la disabilità può manifestarsi in relazione alle restrizioni della partecipazione (Bianquin, Bulgarelli, 2017). 1. «La disabilità viene definita come la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute17 di un individuo e i fattori perso-

16 «Sono fattori contestuali correlati all’individuo, quali l’età, il sesso, la classe sociale, le esperienze di vita e così via, che non sono attualmente classificati nell’ICF, ma che gli utilizzatori possono inserire nelle loro applicazioni della classificazione» (OMS, 2001:169). 17 «È il termine ombrello per malattia (acuta o cronica)», disturbo, lesione o trauma. Può inoltre comprendere altre circostanze come la gravidanza, l’invecchiamento, lo stress, un’anomalia congenita o una predisposizione genetica. Le condizioni di salute vengono codificate usando l’ICD-10» (OMS, 2001:168).

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nali, e i fattori ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo. A causa di questa relazione, ambienti diversi possono avere un impatto molto diverso sullo stesso individuo con una certa condizione di salute. Un ambiente con barriere18, o senza facilitatori19, limiterà la performance20 dell’individuo; altri ambienti più facilitanti potranno invece favorirla. La società può ostacolare la performance di un individuo sia creando delle barriere (ad es. edifici inaccessibili), sia non fornendo facilitatori (ad es. mancata disponibilità di ausili)» (OMS, 2001:21). 2. «Disabilità è il termine ombrello per menomazioni21, limitazioni dell’attività22 e restrizioni della partecipazione23. Esso indica gli aspetti negativi dell’interazione tra un individuo (con una condizione di salute) e i fattori contestuali24 di quell’individuo (fattori ambientali e personali)» (OMS, 2001:168).

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Tali definizioni echeggiano la Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità, che pone l’accento sulla possibilità di partecipazione da parte di ciascun individuo «riconoscendo che la disabilità è un concetto in evoluzione e che la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con minorazioni e barriere attitudinali ed ambientali, che impedisce la loro piena ed efficace partecipazione nella società su una base di parità con gli altri» (Preambolo, punto e). Secondo il modello bio-psico-sociale adottato dall’ICF, le definizioni evidenziano che la disabilità non è un costrutto statico: la condizione di disabilità dipende rigorosamente dalla limitazione funzionale e dai fattori contestuali, intesi come caratteristiche ambientali da una parte (atteggiamenti sociali, caratteristiche architettoniche, strutture sociali e giuridiche) e fattori personali dall’altra (sesso, età, stili attributivi, background sociale, educazione, professione, esperienza passata e attuale, temperamento). Quando questo incontro tra il funzionamento della persona e l’ambiente non sempre è equilibrato, può portare alla limitazione delle attività e alla restrizione della partecipazione: questo può essere il caso della partecipazione alle attività di gioco per i bambini con disabilità. I documenti utilizzati delineano, dunque, la cornice teorica dentro cui tutti i lavori di LUDI si situano in quanto rappresentano un approccio inclusivo, per una piena ed effettiva partecipazione e inclusione nella società, in particolare durante l’infanzia, rivendicano l’infanzia di un bambino con disabilità “semplicemente” 18 «Sono dei fattori nell’ambiente di una persona che,mediante la loro assenza o presenza, limitano il funzionamento e creano la disabilità» (OMS, 2001:169). 19 «Nell’ambito dei fattori ambientali di una persona, sono dei fattori, che, mediante la loro assenza o presenza, migliorano il funzionamento e riducono la disabilità» (OMS, 2001:169). 20 «È un qualificatore ed è un costrutto che descrive quello che l’individuo fa nel suo ambiente attuale/reale, e quindi introduce l’aspetto del coinvolgimento di una persona nelle situazioni di vita» (OMS, 2001:169). 21 «Intesa come perdita o anormalità nella struttura del corpo o nella funzione fisiologica (comprese le funzioni mentali)» (OMS, 2001:168). 22 «Sono le difficoltà che un individuo può incontrare nell’eseguire delle attività» (OMS, 2001:168). 23 «Sono problemi che un individuo può sperimentare nel coinvolgimento nelle situazioni di vita» (OMS, 2001:168). 24 «Sono i fattori che nell’insieme costituiscono l’intero contesto della vita di un individuo, e in particolare il background in cui nell’ICF sono classificati gli stati di salute. Ci sono due componenti dei fattori contestuali: i Fattori Ambientali e i Fattori Personali» (OMS, 2001:169).

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come tempo dell’infanzia e sottolineano la consapevolezza del ruolo svolto dai fattori contestuali nella vita dei bambini con limitazioni funzionali, e la necessità di influenzare positivamente sia i fattori ambientali che personali.

4. Aree di ricerca e rassegna delle attività

La rete LUDI è organizzata in quattro gruppi di lavoro (definiti Working Group – WG) ognuno con tematiche e compiti specifici, ma interconnessi tra loro.

– WG1 – Il gioco dei bambini in relazione ai tipi di disabilità. Quest’area vede coniugarsi i tradizionali temi epistemologici, metodologici, psico-pedagogici e giuridici inerenti il gioco infantile con dati di provenienza clinica e riabilitativa; essi comprendono: modelli di sviluppo del gioco del bambino con disabilità, metodologie di osservazione e valutazione del gioco del bambino con disabilità e il diritto al gioco del bambino con disabilità. Il WG1, durante i primi tre anni di lavoro, ha condotto un’analisi della letteratura scientifica relativa a questo tema, e ha elaborato una definizione e classificazione dei tipi di gioco e una definizione e classificazione delle categorie di disabilità, al fine di individuare quelle più efficaci e significative per LUDI, fondamentali cornici teoriche entro cui situare tutti i lavori della rete. Successivamente, sono state approfondite le caratteristiche che il gioco, e le diverse tipologie di gioco, assumono in relazione ai diversi tipi di disabilità, ovviamente a partire dalle classificazioni scelte all’interno del progetto. Questi materiali sono stati raccolti nella prima pubblicazione di Ludi, Play development for children with disabilities disponibile in open access25. La seconda pubblicazione del WG1, che è in corso di stampa, è intitolata Theoretical model for the evaluation of the play of children with disabilities26: nella prima parte viene presenta una panoramica teorica sulla valutazione del gioco, mentre la seconda parte consiste in un database ragionato degli attuali strumenti utilizzati in ambito clinico e educativo per valutare il gioco dei bambini con disabilità. – WG2 – Tecnologia per il gioco dei bambini con disabilità. L’area affronta i temi relativi alla valutazione della fruibilità e dell’efficacia di strumenti e tecnologie: usabilità e accessibilità del giocattolo, tecnologie per il gioco e ambienti ludici nel caso del bambino con disabilità, progettazione e sviluppo dei giocattoli e prodotti tecnologici e modelli di valutazione dell’efficacia d’uso di strumenti. Il WG2 ha sviluppato una banca dati contenente un vasto numero di esempi di tecnologie e di studi per il supporto del gioco per i bambini con disabilità, dedicando un’attenzione specifica al ruolo svolto dai dispositivi tecnologici27. Il database è stato costruito attraverso un processo di progettazione ricorsivo,

25 A cura di Besio S., Bulgarelli D., Stancheva-Popkostadinova V., Edizioni De Gruyter Open. 26 Attualmente questo elaborato costituisce il secondo Deliverable del WG1. 27 Questo lavoro è descritto nel Deliverable 2 dell’Azione.

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con prototipazione, valutazione e revisione, e gli elementi inclusi nella versione finale riflettono gli input del WG1 riguardanti la categorizzazione dei tipi di gioco e dei tipi di disabilità. Esso è consultabile al sito http://ludi.utad.pt. Le informazioni contenute saranno utili per genitori, educatori o terapisti che sono alla ricerca di tecnologie per sostenere il gioco, nonché a ricercatori e sviluppatori che desiderano avere una panoramica delle applicazioni attuali. – WG3: Contesti per il gioco dei bambini con disabilità. Gli aspetti di contesto che influiscono sulla qualità, l’efficacia e l’inclusività del gioco del bambino con disabilità sono l’oggetto di studio di questo gruppo di lavoro: vengono analizzati ambienti costruiti e naturali, contesti educativi formali, non formali e informali, relazioni interpersonali fra pari e il ruolo dell’adulto nel supporto al gioco. I lavori del WG3 sono iniziati da revisione della letteratura relativa agli elementi contestuali e ambientali che rappresentano delle barriere per il gioco dei bambini con disabilità: sono stati identificati quattro contesti chiave di gioco da analizzare dettagliatamente, la casa, l’ambiente educativo, l’ambiento costruito e l’ambiente naturale. Essi sono stati considerati anche i più rilevanti per gli scopi della rete. Ogni ambiente è stato indagato attraverso un esame sistematico della letteratura esistente scandagliando le principali banche dati accademiche con specifiche parole chiavi. L’elaborato finale che illustra tutto il lavoro svolto e che rappresenta la seconda pubblicazione prodotta all’interno del progetto LUDI, si intitola Barriers to play for children and young persons28, anch’esso disponibile in open access. – WG4: il punto di vista degli utenti, bambini con disabilità, famiglie e associazioni. Lo studio condotto all’interno del WG4 ha l’obiettivo di raccogliere e sviluppare studi sul gioco per bambini con disabilità indagando le idee, le opinioni, le osservazioni delle persone direttamente coinvolte e interessate nel tema: le associazioni delle famiglie, le famiglie di bambini con disabilità, i bambini stessi, ma anche i professionisti e i ricercatori dei diversi settori, sanità, istruzione, industria, ingegneria, politica, ecc. L’indagine è il frutto di due diverse metodologie di ricerca: i bisogni e le idee degli utenti sono stati raccolti attraverso un sondaggio rivolto alle associazioni di famiglie con bambini con disabilità, ai genitori dei bambini con disabilità e ai bambini stessi29 e attraverso studi di caso basati sull’esame di ricerche e di report provenienti da tre diversi contesti nazionali, Svezia, Finlandia e Lituania. Ogni paese ha studiato le proprie politiche, mappando le esigenze degli utenti, le barriere, i facilitatori e, infine, ha elaborato delle raccomandazioni. I materiali e i risultati delle indagini saranno disponibili in una pubblicazione, in corso di stampa, intitolata: Users’ Needs Report on Play for Children with Disabilities. 28 A cura di Carol Barron, Angharad Beckett, Marieke Coussens, Annemie Desoete, Nan Cannon Jones, Helen Lynch, Maria Prellwitz, Deborah Fenney Salkeld, Edizioni De Gruyter Open. 29 Il questionario è stato tradotto in 23 lingue e distribuito in 31 Paesi COST. I questionari sono stati distribuiti ad almeno 3 associazioni e 3 famiglie in ogni paese.

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5. LUDI Training School

La LUDI Training School (TS), intitolata Gioco e Giocattoli per tutti, è uno degli eventi più importanti dell’azione stessa e uno dei suoi principali strumenti scientifici; essa, infatti, persegue i tre obiettivi principali:

1. condividere le conoscenze acquisite all’interno di LUDI e già esistenti; 2. condividere le nuove conoscenze sviluppate nei primi tre anni dell’azione; 3. diffondere le migliori pratiche nel settore del gioco per i bambini con disabilità.

La TS adotta la forma e assume l’importanza di un modello di formazione – può essere facilmente replicato ed eventualmente adattato per scopi specifici – al fine di diffondere la prospettiva LUDI: sostenere il gioco come diritto fondamentale per i bambini con disabilità, facilitare le famiglie nella loro ricerca di contesti, pratiche e strumenti inclusivi e operare un cambiamento proattivo degli atteggiamenti dei professionisti e dei soggetti interessati nei settori correlati (Besio et al. in stampa). Questo modello formativo si basa sui risultati del lavoro dei vari Working Group: presenta il gioco dei bambini con disabilità come un concetto olistico, un’attività che si verifica grazie ad un incontro ludico ed efficace tra un bambino con specifiche limitazioni funzionali e i suoi contesti di vita, che includono persone (coetanei, adulti), competenze, relazioni, atteggiamenti, elementi psicoemotivi, ma anche giocattoli, tecnologie, ambienti naturali o costruiti. Al fine di implementare questo scenario, la LUDI TS riflette l’approccio multidisciplinare della rete e persegue le seguenti sfide: diffondere la prospettiva LUDI sul gioco e sui bambini con disabilità, incidere sulla cultura e sugli atteggiamenti delle parti interessate rispetto al gioco dei bambini con disabilità e istituire e mettere a disposizione un modello LUDI di formazione, che può essere utilizzato a diversi livelli e per scopi diversi. Il progetto LUDI considera il gioco come mezzo principale per lo sviluppo e il benessere del bambino e le ipotesi teoriche che sono messe in atto all’interno del TS sono le seguenti:

– il gioco è un diritto e un’attività fondamentale, libera e necessaria nell’infanzia e viene considerato per il suo valore in sé ed il play for the sake of play è il nucleo fondante di tutte le azioni; – il gioco inclusivo è una scelta inevitabile; – il bambino deve essere considerato come una persona inserita nei sui contesti di vita e in una prospettiva multidisciplinare; – la società è responsabile e può incoraggiare e sostenere il gioco per tutti i bambini; – gli adulti hanno un ruolo fondamentale nel sostenere attività di gioco divertenti ed efficaci, soprattutto nel caso di bambini con disabilità; – i contesti di gioco devono essere analizzati e considerati come barriere o facilitatori e devono favorire il gioco inclusivo; – la conoscenza e la competenza sui concetti di usabilità e accessibilità legati ai giocattoli, agli strumenti e alle tecnologie è oggi fondamentale per tutti gli operatori del settore; anno V | n. 1 | 2017

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– le esigenze degli utenti dovrebbero sempre essere analizzate nel dettaglio e prese in considerazione per sviluppare e avviare qualsiasi attività in questo campo.

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La LUDI Training School, di conseguenza, mira a permettere ai partecipanti di riflettere e avere una migliore comprensione sull’argomento ‘Gioco per bambini con disabilità’, intendendo con gioco il play for the sake of play, e di imparare a portare questa tematica nelle proprie attività di lavoro quotidiano, in modo da diventare i primi messaggeri di questa nuova tendenza nei vari settori della disabilità. La TS è multidisciplinare in quanto gli argomenti riguardano sia i settori umanistici, pedagogia, sociologia, psicologia, consulenza, ecc, sia i settori tecnologici, ingegneria, progettazione, tecnologie assistive, giocattoli, ecc. Essa comprende sia presentazioni teoriche che laboratori pratici, in modo che le varie prospettive sul tema siano necessariamente intrecciate e testate nella realizzazione concreta. Ed infine adotta un approccio di progettazione orientato sull’utente, visto che i partecipanti sono tenuti a pensare e progettare nuove soluzioni su misura per migliorare le esperienze di gioco dei bambini con disabilità in contesti inclusivi. La prima edizione della LUDI TS, svoltasi in Olanda presso la Zuyd University of Applied Sciences nel mese di aprile 2017, ha visto la partecipazione di circa una quarantina di persone tra studenti universitari e giovani ricercatori e ha fornito l’opportunità di effettuare prove sul campo rispetto all’efficacia e all’adeguatezza della presentazione dei contenuti, nonché alle metodologie adottate, sia didattiche che organizzative. La valutazione dei risultati e l’analisi delle possibili critiche individuate daranno vita ad una nuova versione della TS e quindi al modello finale di formazione di LUDI.

Conclusioni

Oltre all’ampiezza e alla varietà dei settori coinvolti, la rete LUDI riveste grande interesse per la confluenza tra studi teorici (realizzazione di modelli, metodologie, repertori ragionati, regole standard) e studi orientati alla prassi (modalità d’intervento nei settori coinvolti). LUDI si caratterizza anche per la produzione di studi e materiali che hanno un forte impatto attivo e concreto, ad ogni livello coinvolto, anche sulla società estesa, valorizzando e supportando le iniziative volte all’implementazione dell’inclusione sociale. Il gioco del bambino con disabilità, infatti, non potrà essere individuato come veicolo di inclusione sociale finché questo tema non sarà considerato come settore di ricerca autonomo e non già un’area speculativa di nicchia. Fare in modo che il gioco del bambino con disabilità divenga un tema scientifico e sociale di piena visibilità, che raccolga, organizzi e divulghi tutti gli studi esistenti e sostenga lo sviluppo di altri, è la challenge che il progetto LUDI si pone. Per quel che concerne l’impatto sociale, la rete si prefigge il risultato atteso di diffondere nei contesti clinici, educativi-didattici e famigliari l’idea di un bambino che, nonostante la disabilità, può contare sul gioco come la spinta più forte per il proprio sviluppo e del gioco, soprattutto nel caso dei bambini con disabilità, che deve essere sostenuto, incoraggiato e potenziato attraverso le opportune relazioni, i contesti adeguati e gli strumenti efficaci. Summer School Bressanone – Prima parte


Da un punto di vista scientifico LUDI vuole raggiungere il risultato atteso di sviluppare strumenti e metodologie teorico-critiche efficaci per i bambini con disabilità e di aumentare le conoscenze nelle scienze pedagogiche, psicologiche, mediche e riabilitative del settore. Le nuove conoscenze, dovrebbero a loro volta contribuire a modificare le pratiche e gli interventi, nonché la concettualizzazione sul gioco di ogni bambino. Lo sviluppo di nuovi prodotti (giocattoli, strumenti, tecnologie), a partire dagli assunti individuati da LUDI, e la diffusione di criteri di usabilità e accessibilità rispetto a strumenti, tecnologie e giocattoli per il gioco, congiuntamente alla disponibilità di tecnologie assistive e di conoscenza circa il loro uso, riguardano invece l’impatto tecnologico e i relativi risultati attesi. Per quel che concerne l’impatto relativo alle politiche, la diffusa consapevolezza che deriverà dalla diffusione e dall’applicazione dei risultati di LUDI avrà un impatto positivo anche sul riconoscimento del diritto di giocare per i bambini con disabilità e sull’adozione di misure che consentano l’esercizio di tale diritto. Infine, un risultato naturale del lavoro di LUDI sarà quello di individuare chiaramente il gioco come una delle aree fondamentali per stabilire e misurare la Qualità della Vita (QoL) dei bambini con disabilità. Il QoL è legato alla possibilità di essere autonomi e alla possibilità di partecipare attivamente nei propri contesti di vita. Nella vita dei bambini il gioco è fondamentale per vivere attivamente l’autonomia e l’inclusione: durante il gioco i bambini possono prendere decisioni autonome e organizzare liberamente le proprie attività, possono sperimentare la dimensione sociale della vita mentre interagiscono con altri compagni di gioco, coetanei o adulti. Costruire la ricerca, la conoscenza e l’attenzione della società sul tema del gioco nei bambini con disabilità è uno dei passi fondamentali per sostenere la qualità della vita di ogni bambino.

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L’analisi precoce delle difficoltà nella fascia 0/6: sperimentazione di uno strumento pedagogico di rilevazione presso le strutture FISM di Parma

Key-words: Early childhood Education; Special Education; Teachers’ skills; Teachers’ tools; Inclusion

Summer School Bressanone *

Ricercatrice del Centro Studi e ricerche sulla Disabilità e la Marginalità (CeDisMa) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano diretto dal Prof. Luigi d'Alonzo, responsabile scientifico del progetto presentato all'interno del presente articolo. Presso la medesima Università: consulente pedagogico e esperto nella scelta e l’uso della tecnologia come strumento inclusivo presso il Servizio Integrazione Studenti con Disabilità e con Disturbi Specifici dell’Apprendimento. Phd Student, sempre per lo stesso Ateno, del XXXI ciclo, indirizzo Education con un progetto di ricerca dedicato all’analisi pedagogica delle potenzialità delle tecnologie nel contesto scolastico come strumento inclusivo.

Italian Journal of Special Education for Inclusion

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© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

According to EU directives, to be considered active on issues of social equity, a society needs to be proactive on early childhood education. Based on this point of view, CeDisMa (Research Centre on Disability and marginality in Università Cattolica del Sacro Cuore, in Milan) has carried on an action research project to promote the early identication of difficulties and disorders in early education services. This tool was created for FISM, an Italian association for nursery schools and kindergartens. It allows to all school teachers working with babies to age 6 to identify signals that deserve more analysis in order to achieve early diagnosis.

abstract

Maria Concetta Carruba* (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano / mariaconcetta.carruba@unicatt.it)

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1. Framework teorico e sperimentazione della ricercaazione

In un’epoca come la nostra, definita dall’European Commission (2014) “delle sfide economiche e sociali senza precedenti”, il primo vero investimento per ridurre forme di disuguaglianza sociale, potrebbe essere rappresentato dall’investimento, in termini non solo economici ma anche qualitativi, sui servizi per la prima infanzia. La qualità dei servizi per l’infanzia promuoverebbe opportunità altrettanto di qualità per tutti i bambini provvedendo alla riduzione di forme di disuguaglianza e svantaggi. Oltre ad avere un valore in termini di equità sociale, certamente il valore aggiunto può essere rappresentato dalla riduzione della spesa pubblica futura per il welfare, la salute e la giustizia (S. Maggiolini, 2017). I dati relativi alla crescita esponenziale del numero dei minori, e delle famiglie, che fruiscono di tali servizi, dovrebbe far riflettere sull’importanza di incoraggiare e promuovere la ricerca in questa direzione. In Italia il 96,5% dei bambini di età compresa tra i 4 e i 6 anni, frequentano la scuola dell’infanzia; dato che ci posiziona, rispetto alla media europea (94,3%), sopra la media1. Le famiglie che si affidano ed affidano i propri figli a servizi di questo tipo, pretendono e meritano:

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– la qualificazione del personale che deve essere formato in modo competente e continuo; – la costruzione di un bagaglio di competenze che potranno concorrere alla realizzazione del rapporto sinergico tra famiglia e scuola.

Si può pertanto affermare che le famiglie cominciano a riconoscere il valore di questo particolare lavoro sociale individuandone finalità e obiettivi più consapevolmente che in passato (L. Pati, E. Dusi, 2011). Il primo ingresso in un servizio per l’infanzia rappresenta un evento molto delicato nella vita del bambino e nella storia della famiglia in quanto entrano in gioco temi educativi anche complessi: il distacco dalla figura materna e dalle cure familiari, il confronto con l’altro (con i pari ma anche con altri adulti significativi), la sperimentazione della socialità e socializzazione intesa come transizione ecologica (Brofenbrenner, 2005), il superamento di quello che possiamo definire “parenting egocentrico” per imparare a trovare un equilibrio nella società educante con cui si entra inevitabilmente in contatto. Non si tratta solo di consapevolezza della corresponsabilità educativa. L’apporto delle neuroscienze (D’Alessio 2016) e la relazione sempre più stretta e strutturata con le scienze dell’educazione hanno avuto un ruolo centrale. La maggiore attenzione all’architettura cerebrale ( Britto et all, 2016), ha condotto a una più ampia diffusione dell’intervento precoce come buona pratic educativa e riabilitativa (Frauenfelder, 2011) e dell’importanza di investire nella prima infanzia, 1

Dati che si evincono dalla Relazione di monitoraggio del settore dell’istruzione e della formazione in Italia del 2016, redatta dalla Commissione Europea. Nello specifico: Educazione e cura della prima infanzia (ECEC) dai 4 anni e fino all’età dell’obbligo scolastico.

Summer School Bressanone – Prima parte


quando il bambino ha ancora un cervello molto plastico pronto a reagire e agire, fortemente recettivo alle sollecitazioni. I servizi per l’educazione prescolare si rivelano terreno fertile per offrire opportunità in questa direzione, per sfruttare le potenzialità del bambino e supportare le inclinazioni naturali (C. Castelli, 2014), promuovere finestre di opportunità e ottenere il massimo rendimento dei periodi sensibili, valorizzando le differenti intelligenze dei bambini (Gardner, 1988). L’interesse a intervenire precocemente e a garantire un intervento di qualità diventa una questione di grande importanza etica e sociale che può essere avviata solo a partire da una rinata attenzione ai contesti, alla formazione degli operatori di infanzia e alla documentazione e monitoraggio del percorso. Come ogni altra professione, pertanto, anche in quella relativa all’educazione della fascia 0-6 sarebbe opportuno un investimento per poter individuare strumenti scientificamente validi efficaci.

2. L’analisi e la progettazione dello strumento di rilevazione precoce

Il progetto nasce dalla sollecitazione della Federazione Italiana delle Scuole Materne (FISM) di Parma che, consapevole della crescente complessità delle classi, ha chiesto al Centro Studi e Ricerche sulla Disabilità e la Marginalità (CeDisMa) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, diretto dal Prof. Luigi d’Alonzo, ordinario di Pedagogia Speciale e da sempre attento a queste tematiche, di poter elaborare un progetto di ricerca- azione. La FISM raccorda un insieme di scuole secondo principi associativi. L’associazione coordina dal punto di vista pedagogico-educativo nidi e scuole dell’infanzia a livello provinciale. Gli scopi che la Federazione si prefigge di raggiungere sono legati all’educazione e alla tutela dell’infanzia, da un lato, alla formazione degli educatori e della “comunità educante”, dall’altro. Di rilevante importanza l’attenzione al bambino inteso come persona, che merita di essere affiancato in modo efficace nel suo percorso di crescita e di sviluppo nel rispetto delle sue esigenze motorie, affettive, cognitive, relazionali, sociali, etiche e morali, estetiche, agendo per la promozione del ben-essere (Carruba 2016). Intesa in questo senso, la comunità educante diventa luogo e occasione per un lavoro in stretta sinergia con le famiglie e si inserisce come nodo e snodo dei diversi sistemi educativi: famiglia, nido, scuola, territorio, altri adulti significativi. In questo processo e cammino verso la costituzione di un servizio per l’infanzia in grado di dare risposte adeguate alle istanze educative di oggi e alle esigenze della genitorialità, la riflessione attenta sul contesto, l’osservazione e la formazione sono diventati fondamentali per la realtà FISM che ha richiesto un affiancamento pedagogico. Tre, nello specifico, le pratiche educative su cui lavorare in stretta sinergia:

– osservazione intesa come strumento imprescindibile per agire educativamente avendo a disposizione strumenti scientificamente fondati e validati; – la valutazione del processo per assicurarsi un punto di vista oggettivo; – la documentazione come archivio e occasione per la rilettura dell’esperienza.

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La definizione di tali priorità è stata possibile grazie alla rilevazione dei bisogni educativi della struttura prima ancora di procedere con il lavoro comune. Un questionario ha permesso al CeDisMa di conoscere più a fondo la realtà FISM di Parma. Sono stati raccolti n. 244 questionari iniziali di cui 213 compilati da insegnanti della Scuola dell’infanzia, 31 da educatori del Nido d’infanzia. I bisogni rilevati possono essere circoscritti attorno ai tre aspetti fondamentali: sapere, saper fare e saper essere (Cappuccio, Cravana, 2014). Rispetto alla sfera del sapere sono state individuate le seguenti tematiche: – approfondimento delle fasi evolutive del bambino; – conoscenza della disabilità e definizione di un linguaggio adeguato e dell’approccio inclusivo; – promozione attiva dell’osservazione; – la relazione positiva con le famiglie; – strategie attive di gestione dei gruppi complessi.

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Per quanto concerne il saper fare, l’attenzione è stata concentrata su questi nodi: – la capacità di osservare; – la competenza nella documentazione e nell’analisi dei processi educativi; – la programmazione e la progettazione; – la volontà di lavorare in equipe; – metodologie attive per promuovere l’apprendimento; – modalità per coinvolgere le famiglie.

Infine, in merito al saper essere , è stato possibile evidenziare le seguenti priorità: – relazione empatica; – l’ascolto privilegiato; – la relazione educativa; – l’approccio inclusivo che va oltre il comportamento e si avvicina alla persona; – la promozione del benessere e della resilienza.

Strumenti e metodi permettono di poter verificare il processo rispetto a due variabili fondamentali: correttezza ed efficacia. Dato il crescente numero di situazioni di disagio e di complessità registrate dalla Federazione, è risultato indispensabile avere la possibilità di un punto di vista oggettivo e scientifico per imparare a procedere in modo da garantire un servizio di qualità.

Prima di procedere, sono stati definiti i seguenti obiettivi generali: • coinvolgere i coordinatori pedagogici valorizzandone professionalità ed esperienza; • costruire un percorso di formazione su tematiche educative, pedagogiche e metodologiche per individuare precocemente le difficoltà dei bambini; • progettare uno strumento di rilevazione (non diagnostico) tale da agevolare la registrazione di segnali che permettono di evidenziare problematiche in età prescolare; • sperimentare lo strumento in alcune realtà pre-selezionate (21 scuole della realtà FISM di Parma); Summer School Bressanone – Prima parte


• promuovere il lavoro sinergico con le famiglie nell’ottica della corresponsabilità educativa.

Il progetto ha previsto sei fasi per rendere attuabile la ricerca azione in tutta la sua articolazione: • prima fase: conoscenza della realtà FISM e delle coordinatrici con rilevazione dei bisogni formativi emergenti: – comprendere la realtà FISM e studiarne il funzionamento interno; – conoscere e attivare il confronto con le coordinatrici; – sottoporre lo strumento di rilevazione ( non diagnostico) di rilevazione dei bisogni relativi alle difficoltà per i bambini della fascia 0-6; – procedere alla somministrazione e all’analisi critica dello strumento. • seconda fase: avvio della formazione a tutto il gruppo di educatrici rispetto ai temi emersi grazie al confronto con le coordinatrici: – creare un vocabolario comune tra tutti gli educatori della Federazione; – attivare percorsi formativi sui temi legati alla disabilità ( motoria, intellettiva, visiva, uditiva, altro); – incentivare la comunicazione attiva all’interno del team educativo e promuovere l’unitarietà di intenti; – favorire il lavoro sinergico con le famiglie che diventano parte integrante della rete educativa. • terza fase: definizione dello strumento di rilevazione precoce delle difficoltà e del protocollo d’uso: – il gruppo di ricerca CeDisMa lavora sul progetto e definisce lo strumento e una prima ipotesi di protocollo di utilizzo sulla base della letteratura nazionale e internazionale presente sul tema, dell’analisi dei bisogni, della conoscenza della FISM; – primo processo di revisione dello strumento da parte del gruppo di ricerca. • quarta fase: sperimentazione nelle prime 21 scuole (campione della ricerca) dello strumento e del protocollo: – attivare la sperimentazione dello strumento e verificare l’adesione rispetto alle attese iniziali e l’efficacia; – attivare la sperimentazione del protocollo di utilizzo e verificarne le eventuali criticità o i punti di forza. • quinta fase: revisioni e stesura definitiva del protocollo e dello strumento: – implementare lo strumento di rilevazione alla luce delle evidenze emerse con la prima sperimentazione; – implementare il protocollo di utilizzo alla luce delle evidenze emerse con la prima sperimentazione. • sesta fase: seminario finale per presentare i risultati e lo strumento di rilevazione precoce delle difficoltà: – condividere lo strumento con tutti gli operatori della FISM; – disseminare i dati emersi con la ricerca. I tempi sono stati gestiti come segue: – per la prima fase: da gennaio 2015 a maggio 2015; – per la seconda fase: da giugno 2015 ad agosto 2015;

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per la terza fase: da settembre 2015 a ottobre 2015; per la quarta fase: da gennaio 2016 a aprile 2016; per la quinta fase: da aprile a maggio 2016; per la sesta fase: giugno 2016.

L’intero progetto è stato fondato sulla sinergia tra l’esperienza e la conoscenza della realtà FISM delle coordinatrici e le competenze di ricerca del gruppo CeDisMa. In questo modo la ricerca –azione ha trovato un perfetto equilibrio tra teoria e prassi. La scelta del gruppo di ricerca in merito alla costruzione dello strumento di rilevazione precoce delle difficoltà nella fascia prescolare, ha poggiato le basi sulla convinzione, prima di tutto, che lo strumento dovesse essere pedagogico e non diagnostico e mirare a potenziare le capacità osservative degli operatori educativi del contesto. A fare da cornice al lavoro, l’ottica ICF2, indispensabile per un approccio inclusivo volto non solo ad evidenziare difficoltà ma a trovare punti di forza utili per costruire una progettazione efficace e favorire la partecipazione attiva. Sulla base di questi principi, è stato realizzato lo strumento con lo scopo di permettere a educatori e insegnanti di:

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– cogliere le eventuali criticità; – rilevare e documentare la frequenza con cui uno o più eventi/comportamenti/azioni vengono ripetute dal bambino; – attraverso l’uso delle lampadine come indicatore di preoccupazione, definire il grado di pre-occupazione.

L’accensione della lampadina segnala la richiesta di porre maggiore attenzione, richiede una progettazione adeguata e sfrutta l’osservazione come mezzo per raccogliere informazioni necessarie per avviare il processo da attivare sul singolo inteso sempre come parte del gruppo classe. Pur nel rispetto delle differenze tra bambini soprattutto in tema di crescita e tempi, lo strumento, basandosi sul semestre come unità temporale di riferimento, aiuta a registrare i progressi o le criticità del singolo bambino rispetto alle varie aree di competenza. Tale prodotto della ricerca azione assume un ruolo fondamentale nella rilevazione precoce delle difficoltà nella delicata fascia dei bambini di età compresa tra 0 e 6 anni. Nella misura in cui si abbia una certificazione, in sintonia con la famiglia, si seguiranno le procedure prescritte dalla L. 104/1992.

3. Lo strumento d’indagine

Data la natura dello strumento, la sua articolazione prevede un insieme di schede e quaderni tali da consentire di poter registrare in modo oggettivo e scientificamente fondato quanto osservato. Lo strumento, nella sua totalità, prevede: 2

International Classification of functioning, OMS.

Summer School Bressanone – Prima parte


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1 Scheda di prima osservazione (unica per nido e scuola dell’infanzia); 1 Quaderno delle osservazioni 12-18 mesi; 1 Quaderno delle osservazioni 18-24 mesi; 1 Quaderno delle osservazioni 24-36 mesi; 1 Quaderno delle osservazioni 3 e 4 anni; 1 Quaderno delle osservazioni 5 e 6 anni.

Fig. 1. Rappresentazione grafica di una sezione dello strumento

Fig. 2. Condivisione della leggenda per individuare il livello di preoccupazione

La Scheda di prima osservazione viene usata nei mesi iniziali del percorso scolastico (Settembre/Dicembre) . In questa fase l’educatrice solitamente osserva il gruppo per imparare a comprendere quali sono le esigenze dei bambini che fanno parte del suo gruppo- classe. Questo strumento sarà un valido mezzo per registrare informazioni (Perin B., 2017) rispetto a comportamenti che possono destare qualche preoccupazione. La compilazione non è del singolo docente ma va operata in team. Si selezionano il numero di lampadine per ogni item per chiarire il grado di preoccupazione.

Il Quaderno delle osservazioni è da utilizzarsi due volte nel corso dell’anno scolastico: una prima volta in Febbraio (per una settimana circa), una seconda volta in maggio/giugno (per una settimana). Ogni insegnante potrà registrare con maggiore precisione quanto il bambino si discosti dagli standard per una determinata area e monitorare l’accensione/spegnimento delle lampadine. Questa sezione diventerà archivio della storia educativa del bambino per tutto l’anno scolastico. Prerequisito indispensabile per un sereno completamento delle varie sezioni dello strumento, è la conoscenza delle aree indagate e degli standard per le diverse fasce di età. Conoscere come in ogni fase di crescita un bambino può agire rispetto a una particolare area consente una maggiore consapevolezza nell’educatore/insegnante da un lato e, al contempo, promuove azioni oggettive che si discostano dal puro punto di vista soggettivo. Utilizzare una metodologia

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oggettiva basata sulla registrazione e archiviazione, potrà facilitare anche il dialogo e il coinvolgimento delle famiglie nelle rilevazioni. Comunicare a una famiglia una preoccupazione non è semplice. Basarsi sul personale punto di vista non basta. La griglia e il quaderno diventano mezzi per condividere preoccupazioni partendo dal presupposto che si basino su criteri oggettivi, scientifici, validi. Ogni fase di compilazione si conclude con una sintesi basata non sulla media dei diversi livelli di preoccupazione, ma, l’esplicitazione della preoccupazione generale del team in merito a una specifica area indagata.

4. I risultati dell’indagine

Il campione di scuole preso in considerazione per la prima sperimentazione, è stato identificato a partire dai seguenti pre-requisiti:

– proposto e usato solo dagli insegnanti/educatrici che hanno seguito il percorso di formazione; – utilizzato solo su bambini presenti in classe già dal primo avvio del percorso; – è stato compreso che lo scopo dello strumento è rilevare i comportamenti che destano preoccupazione e registrarne l’incidenza.

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Le educatrici e le insegnanti coinvolte hanno potuto utilizzare lo strumento già nella sua prima veste “Scheda di prima osservazione” nel mese di novembre 2015 con il supporto delle coordinatrici FISM e, laddove necessario, di un ricercatore CeDisMa. Con l’avvio della sperimentazione è stata avviata anche la stesura di una agenda condivisa FISM-CeDisMa per poter lavorare insieme durante tutte le fasi del progetto di ricerca azione. Al fine di creare intenti comuni, è stato concordato come segue:

– l’obiettivo della sperimentazione dello strumento a scuola, è relativo alla validazione dello strumento; – il compito dei ricercatori è quelli di offrire supporto e rispondere a eventuali dubbi o perplessità; – le modalità e le tempistiche verranno definite di comune accordo tra le due realtà; – per ogni scuola si prevedano: – incontri individuali con insegnanti; – un incontro con l’equipe educativa per condividere le osservazioni; – tempi distesi per consentire momenti per il confronto.

Durante la prima fase di raccolta, sono emerse le seguenti necessità che è possibile raggruppare per ordine di scuola: – gli asili nido presentano necessità di poter inserire all’interno del modello strutturato una sezione sulle emozioni; – le scuole dell’infanzia di poter inserire una parte dedicata allo schema corporeo, per loro fondamentale; – sia il primo che il secondo contesto, presentano le seguenti criticità: Summer School Bressanone – Prima parte


– inserire spazi per le osservazioni in ciascuna delle aree attenzionate nello strumento; – prevedere uno spazio per gli eventi o i comportamenti inattesi; – uniformare la leggenda dei descrittori.

Conclusioni

La qualità dei Servizi Educativi per la prima infanzia tanto richiesta dall’Europa negli ultimi anni richiede una assunzione di responsabilità e di implementazione della competenza da parte degli operatori che si occupano di questa delicata fascia d’età. La FISM ha assunto questo monito come una nuova occasione per riprogettarsi e riprogettare e ha trovato nel CeDisMa il partner adeguato. Lo strumento, difatti, non avendo funzioni diagnostiche, è stato strutturato con l’intenzione non solo di registrare e rendere oggettiva una preoccupazione, ma soprattutto come occasione per l’insegnante e l’educatore di reinventare il percorso educativo mirando alla generalizzazione delle differenziazioni. L’accensione delle lampadine ha orientato insegnanti ed educatori verso una ri-progettazione di processo e di contesto. Molte lampadine accese nel primo periodo, rimodulando il proprio intervento alla luce delle indicazioni emerse, sono state spente rispondendo alle esigenze di ciascun bambino, nessuno escluso. In questo modo ogni bambino ha avuto anche l’occasione per essere coinvolto, per partecipare e per trovare risposte concrete ai propri bisogni. Lo strumento, infatti, per la sua natura e struttura, invita a:

– assumere l’atteggiamento osservativo: sviluppare il corretto atteggiamento osservativo è fondamentale per imparare a rilevare con distacco e oggettiva competenza, per imparare a leggere le situazioni in modo consapevole, per evitare di fare confusione tra osservazione- riflessione-interpretazione; – liberarsi dai condizionamenti: l’alleanza scuola-famiglia rappresenta un valore aggiunto necessario per consentire al bambino di vivere serenamente e armonicamente questa fase di crescita. La costruzione di un rapporto di fiducia richiede pazienza, buona predisposizione da ambo le parti, sforzo e investimento personale e professionale e grande spirito di apertura. Ovviamente la relazione, intesa come processo dinamico, non si costruisce senza criticità o difficoltà. Per questo occorre spazi adeguati, tempi precisi e modalità efficaci che mirino a facilitare la comunicazione, aiutino ad evitare pettegolezzi e pregiudizi, riportino al focus principale che è certamente l’alleanza per il benessere del bambino; – evitare interpretazioni personali: il ruolo dell’insegnante e dell’educatore che utilizza lo strumento è quello di raccogliere dati, fare una fotografia la situazione da consegnare poi agli esperti che avranno il compito di interpretare i dati che saranno facilitati dal fatto che non sono direttamente coinvolti nel processo educativo e possono con distacco-competente provvedere alla loro interpretazione; – rispettare fasi e modalità di attuazione: lo strumento richiede un rigore metodologico, costanza e scrupolosità. A renderlo utilizzabile e spendibile nel contesto scolastico è soprattutto l’agevole compilazione e l’approccio pedagogico;

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– conoscere i comportamenti attesi per le varee aree e per ogni fascia d’età: per poter osservare i fatti e rapportarsi in modo efficace con i risultati insegnanti ed educatori devono padroneggiare con competenza le aree di sviluppo per ogni fascia d’età. Prima di poter accendere le lampadine, quindi, gli insegnanti e gli educatori devono essere consapevoli della loro preparazione prima di poter pensare di fotografare la realtà; – promuovere l’unitarietà di intenti: in situazioni così delicate come quelle relative al coinvolgimento della famiglia in una comune interpretazione delle situazioni che preoccupano, è fondamentale poter evitare approcci individualistici e lavorare come team in modo unitario. La condivisione in team permette un confronto efficace e una lettura della situazione sempre più attenta e ricca di dettagli e punti di vista (magari) differenti e agevola poi il lavoro con le famiglie che possono “respirare” il comune intento di mirare al benessere del bambino ; – considerare gli “inattesi” e gestire gli imprevisti: competenze indispensabili per intervenire nella gestione della classe, del processo educativo in generale e per poter accogliere professionalmente un comportamento inatteso o reagire a un imprevisto.

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Lungi dal pretendere di poter sostituire gli strumenti diagnostici, dal ritenere esaustivo il quadro tracciabile con le osservazioni, la ricerca azione ha concesso l’occasione per ottenere uno strumento dal taglio pedagogico ed educativo capace di fornire informazioni preziose per imparare a rilevare precocemente le difficoltà dei bambini nella delicata fascia 0-6 da un lato; per strutturare interventi alla luce di un nuovo quadro di competenze mirate rispetto alla rilevazione attenta di alcuni dettagli da parte degli educatori e degli insegnanti; per monitorare il processo e documentare in modo preciso e puntuale sia come strumento per gli esperti del contesto educativo, sia come mezzo per poter coinvolgere la famiglia in modo adeguato, preciso e documentato rispetto ai livelli di preoccupazione. Comunicare alla famiglia una preoccupazione richiede una serie di competenze trasversali per essere presenza efficace ma non invadente, per accompagnare le famiglie presentando con lucidità e tatto la situazione, per agganciare la famiglia (Cera, 2015) in questa relazione in modo da avere la certezza di poter lavorare in sinergia per il benessere del bambino.

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I fenomeni di push e pull out: il punto di vista degli insegnanti

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Italy is one of the European country that early-established inclusive school systems with a history dating back to the 1960s of addressing segregating and discriminatory practices towards pupils with a disability. However, recent research data have shown the presence of pull-out and pushout phenomena (Nes, 2014; Demo & Nes, 2016), in which some pupils receive education in a different place than their mates do. Despite of the fact that the few existing data suggest that the phenomenon is not marginal, only a few systematic research has been conducted in Italy. Most of the data focus on pupils with disabilities or with SEN (Ianes & Demo 2015), and from some welldocumented national research projects show that the majority of the pupils with disability and/or with SEN in compulsory education spend part of their school time outside the class in order to receive special support (Ianes et al. 2013). The main objective of this paper is to describe through some qualitative data the phenomenon of pull and push-out in Italy from the teachers’ point of view and understand which categories the teachers use to answer the open questions about pull and push-out. 6 focus groups with 6/8 teachers of primary, lower secondary and upper secondary school (compulsory education) have been conducted in Italy.

Key-words: Push out, Pull out, Inclusive education, Teachers, Italy

Summer School Bressanone

Italian Journal of Special Education for Inclusion

abstract

Sofia Dal Zovo (Libera Università di Bolzano / sofiadalzovo@unibz.it) Heidrun Demo (Università degli Studi di Torino / Heidrun.Demo2@unibz.it)

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Introduzione

Esplorare i fenomeni di push e pull out all’interno del sistema scolastico risulta essere abbastanza complesso sia per la natura poliedrica dei fenomeni stessi, sia per il fatto che solo di recente il fenomeno è stato esplorato dalla ricerca pedagogica. Per quel che riguarda la definizione, il push e pull out descrivono tutte quelle situazioni in cui un alunno è separato per un tempo più o meno lungo dalla classe a cui è iscritto. Si è in presenza di push out quando le cause dell’allontanamento sono imputabili a fattori interni alla classe, come la scelta di un insegnante di gestire comportamenti sfidanti di un alunno mandandolo fuori dalla classe; se invece l’uscita è legata a cause esterne alla classe, come la presenza di un’aula di sostegno ben strutturata che attrae gli studenti fuori dalla classe si parla di pull out (Ianes, 2014). Il push e pull out fanno riferimento ad una vasta gamma di situazioni nella quotidianità scolastica, che possono essere schematizzate come segue:

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1. organizzazione della didattica in classe che crea due spazi metaforici, uno occupato dalle attività dedicate al gruppo classe e uno dedicato ad attività individualizzate, per esempio per l’alunno con disabilità; 2. organizzazione di percorsi didattici per alcuni alunni che prevedono l’uscita dalla classe per alcune ore alla settimana/al giorno; 3. organizzazione di percorsi didattici per alcuni alunni che prevedono l’intero tempo scuola fuori dalla classe a cui sono iscritti, per esempio nelle cosiddette aule di sostegno; 4. organizzazione di percorsi didattici per alcuni alunni che prevedono una frequenza ridotta, per esempio per partecipare ad ore di terapia.

La comprensione del significato pedagogico di questi fenomeni non è ancora completa. La loro presenza nel sistema scolastico italiano, da un lato, va certamente contro ai principi di inclusione e rischia di essere controproducente rispetto all’orientamento inclusivo che ormai da 40 anni caratterizza la nostra scuola (Demo, 2014; Ianes e Demo, 2014). Dall’altro lato, alcune soluzioni didattiche che implicano nuove forme di organizzazione come per esempio la costituzione di piccoli gruppi flessibili che possono lavorare per alcuni momenti anche in luoghi diversi potrebbero rappresentare interessanti innovazioni in senso inclusivo (Demo, 2015). Proprio per questo motivo è particolarmente rilevante approfondire lo studio in profondità del significato pedagogico di questo fenomeno. Lo Stato dell’arte internazionale

Esaminando la letteratura di ricerca internazionale emergono interpretazioni diverse del push e del pul out che ne dibattono potenziali e limiti. Alcuni studi hanno fatto emergere gli effetti negativi delle scelte di push e pull out in relazione alla alla dimensione personale e sociale dell’esperienza dell’alunno di essere separato dalla classe. La ricerca di McCoy et. al. (2011), per esempio, ha evidenziato una connessione fra il fenomeno di push e pull out e la Summer School Bressanone – Prima parte


disaffezione scolastica: i risultati mostrano che gli studenti di 9 anni con disabilità nella sfera dell’autoregolazione emotiva e comportamentale e con disturbi specifici dell’apprendimento che hanno fatto esperienza di pull-out o push-out – e in particolare i maschi rispetto alle femmine- sono più portati a non amare la scuola rispetto agli altri ragazzi con bisogni educativi speciali (BES) che non abbiano fatto esperienze di pull o push-out. Anche dagli studi di Travers (2011) e Karin et al. (2012) sono emersi risultati negativi rispetto ai vissuti degli alunni di questo fenomeno. I ragazzi della scuola primaria (10-11 anni) e secondaria di primo grado (13-14 anni) con BES nella ricerca di Travers (2011) e di Karin et al. (2012) hanno riportato insoddisfazione sociale e relazionale. Dai dati di Travers emerge come i ragazzi preferirebbero restare in classe, mentre i risultati del lavoro di Karin et al. documentano la preoccupazione degli alunni con disabilità di essere separati dalla classe per il frequente manifestarsi di episodi di bullismo nei loro confronti al rientro in classe. Gli stessi studi documentano anche un effetto positivo delle scelte di push e pull out sulle possibilità e sui risultati di apprendimento. Travers (2011) introduce una riflessione sulle differenze di stile di insegnamento in classe e nel piccolo gruppo e evidenzia come l’apprendimento sembri avvenire con maggior successo in questi ultimi. Anche i risultati che riportano Karin et al. (2012) evidenziano l’effetto positivo sull’apprendimento delle situazioni di push e pull out. Tuttavia, dal punto di vista degli alunni, in entrambi i casi sono emersi il desiderio di restare in classe senza essere costretti a doversi allontanare dai compagni ed una certa preoccupazione legata alla separazione. Questi risultati sembrano suggerire che siamo di fronte ad un dilemma: la scelta per l’efficacia del percorso di apprendimento contrapposta alla scelta per una buona socializzazione e rappresentazione di sé nella comunità scolastica. Una possibile soluzione alla contrapposizione, viene esplorata dalla ricerca di Ashby et al. (2014). Questa descrive una situazione in cui alcuni studenti di classe terza della scuola primaria con disabilità venivano allontanati dalle proprie classi per seguire un programma di potenziamento della lettura. L’analisi degli autori dimostra come il programma di potenziamento di lettura Reading First possa essere integrato nelle attività della classe e promuovere un clima inclusivo per tutti, alimentando la collaborazione interdisciplinare e la condivisione della responsabilità quando diversi insegnanti uniscono le proprie competenze per adattare il programma ad alunni con e senza disabilità. Questo rappresenterebbe l’integrazione di un percorso efficace in un contesto non segregante, ma invece inclusivo. Un risvolto interessante del push e pull out per la dimensione personale degli studenti è stato messo in luce dal lavoro di ricerca di Coleman (1983) che mostra come la percezione di sé degli alunni con disabilità migliorasse all’interno un piccolo gruppo separato. Lo studio rileva come l’immagine che gli alunni con disabilità costruiscono di loro stessi dipenda dal confronto sociale con gli altri compagni di classe, pertanto il dividere la classe in gruppi omogenei ha migliorato la percezione di sé negli alunni preadolescenti con disabilità, fornendo loro un ambiente più favorevole. Va però evidenziato come lo studio sia piuttosto datato e come non siano stati raccolti dati di contesto che permettano di valutare quanto “inclusivo” potesse essere considerato il lavoro nel grande gruppo, o quanto fosse invece “uguale per tutti” e quindi di fatto incapace di valorizzare le differenze e rispondervi efficacemente. anno V | n. 1 | 2017

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Mettendo sotto alla lente un’altra forma di push e pull-out, Mitchell e Bradshaw (2013) evidenziano un ulteriore limite di questa scelta didattica. Dai dati emerge che la pratica dell’esclusione dalla classe in seguito a comportamenti sfidanti, non solo influenza negativamente la percezione che gli studenti hanno del tempo scuola, ma li porterebbe ad associare il push e il pull out ad una mancata capacità di gestire la rabbia degli insegnanti. Anche lo studio di Lewis et al. (2012) ha constatato che la pratica dell’esclusione concepita per accrescere il senso della responsabilità degli alunni non abbia condotto ai risultati sperati perché il 71% degli studenti attribuiva l’essere esclusi dalla classe ad una mancanza di capacità di gestione della rabbia dell’insegnante stesso e non ai propri comportamenti. Altri studi (Yang, 2012; Dimitriadis, 2012) hanno indagato gli effetti di push e pull out per il potenziamento delle competenze e/o abilità scolastiche di studenti particolarmente dotati (gifted students). Questi sembrano essere positivi e in questo caso l’uscita dalla classe sembrerebbe essere vista come una risorsa per potenziare i talenti di alcuni alunni. La ricerca di Yang (2012) mostra come questi studenti abbiano una percezione più positiva del piccolo gruppo rispetto alla classe, proprio perché visto come possibilità per migliorare le proprie abilità e apprendere in condizioni favorevoli. La ricerca di Dimitriadis (2012), concentrandosi su alunni con un talento particolare in matematica, dimostra che i gruppi di pull-out permettono a questi alunni il potenziamento di queste abilità grazie ad un’attenzione e ad un supporto individuale maggiori.

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Lo stato dell’arte italiano

L’ultimo rapporto su disabilità e scuola dell'ISTAT (2016) offre una panoramica del fenomeno in Italia, ma solo per quel che riguarda il gruppo di studenti maggiormente studiato, quello degli alunni con disabilità: “Se l’alunno presenta problemi di autonomia (nello spostarsi, nel mangiare e nell’andare in bagno) diminuisce drasticamente il numero di ore di didattica passate in classe. Nel Nord gli alunni non autonomi in tutte e tre le attività indagate trascorrono al di fuori della classe un numero maggiore di ore: 9,9 ore nella scuola primaria e 12,1 ore nella scuola secondaria di primo grado. Gli alunni nel Mezzogiorno non autonomi passano, invece, fuori dalla classe 4,9 ore nella scuola primaria e 7,1 ore nella scuola secondaria di primo grado” (ISTAT, 2016, p.14). Il fenomeno descritto dai dati ISTAT non riguarda una parte minoritaria degli alunni con disabilità. Un’indagine che nel 2009 ha coinvolto 3230 figure professionali impiegate nella scuola, principalmente insegnanti, ha mostrato che il 54,9% degli alunni con disabilità descritti dal campione di insegnanti – più della metà dunque- passa del tempo fuori dalla classe. Di questi, il 30% sta fuori dalla classe per un tempo compreso fra il 10% e il 30% dell’intero tempo scuola. Il 7,7% sta fuori per un tempo superiore al 50%. Il 5.7% inoltre dei soggetti con disabilità descritti trascorrono fuori dalla classe l’intero tempo scuola (Canevaro et al., 2011; Ianes et al., 2010). Ulteriori analisi sugli stessi dati di ricerca hanno messo in evidenza come il fenomeno di push and pull-out assuma forme diverse in base alla tipologia di disabilità e all’ordine di scuola. È più diffuso fra gli alunni con una disabilità intelSummer School Bressanone – Prima parte


lettiva o una pluridisabilità, mentre lo è meno fra quelli con una disabilità di tipo motorio, fisico o sensoriale. Inoltre, le attività didattiche proposte a questi alunni separati dalla classe, sono per la maggior parte attività 1:1, dove è presente solo in parte l’utilizzo di strumenti specifici e adattati al singolo caso. Per quel che riguarda l’ordine di scuola, il fenomeno è presente in percentuali minori nella scuola dell’infanzia (in parte in classe, in parte fuori: 47,5%; sempre fuori: 2,8%), mentre è più frequente nella scuola secondaria di primo grado (in parte in classe, in parte fuori:62,5%; sempre fuori: 6,8%) (Demo, 2014). Infine, altre ricerche hanno fatto emergere alcune tematiche ancora poco esplorate legate al fenomeno del push e pull-out. Lo studio di Giangreco, Doyle e Suter (2012) ha messo in luce come vi sia una carenza ed insufficienza di dati riguardo agli alunni che si assentano dal contesto scolastico per seguire delle terapie in altri luoghi; quello che si evince dal contesto italiano è che, come evidenzia Zambotti (2013) il 33,94% di un piccolo campione esplorativo di 299 alunni con disabilità e il 16,3% dei 184 alunni con DSA si reca con continuità presso le strutture sanitarie per questioni di salute. È presente un’altra lacuna di conoscenza anche sul fenomeno del push e pull out sugli alunni stranieri in Italia, anche se le linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri in Italia redatta dal MIUR (2014) sostiene una frequenza assidua degli alunni stranieri dei corsi di italiano, non diversificando l’offerta educativa al mattino o al pomeriggio.

1. La ricerca

Esaminando lo stato dell’arte attuale e i dati di ricerca disponibili, se ne evince che i fenomeni di push e pull out non sono marginali nella scuola italiana, soprattutto per gli alunni con disabilità, e che i loro effetti non sono chiari, perché gli studi condotti ne evidenziano sia effetti positivi che negativi. È inoltre evidente che il fenomeno è stato esplorato in modo parziale, per esempio raccogliendo dati da più fonti sulle esperienze di separazione degli alunni con disabilità, mentre sono state trascurate quasi completamente le esperienze degli alunni stranieri. Inoltre mancano dati che descrivano qualitativamente e in modo differenziato le ragioni che portano gli insegnanti e le scuole ad optare per il push e pull out e il tipo di offerta di didattica che propongono in questo contesto di separazione dalla classe. Alla luce di queste considerazioni, l’obiettivo principale di questo percorso di ricerca è quello di descrivere attraverso dati qualitativi le caratteristiche dei fenomeni di push and pull out dal punto di vista degli insegnanti, con l’obiettivo di comprendere:

1. quali gruppi di alunni facciano esperienza di questi fenomeni, 2. quali siano le ragioni e le intenzioni educative che spingono a scegliere il push e pull out, 3. quale sia, da punto di vista degli insegnanti, la percezione degli alunni del fenomeno.

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Il campione

Il campione della ricerca è costituito da 30 insegnanti provenienti da tutta Italia (20 della scuola primaria e 10 della scuola secondaria di primo e secondo grado) i quali hanno aderito ai focus group su base volontaria dopo essere stati informati della ricerca attraverso la mailing list di un convegno a cui hanno partecipato. La metodologia

La raccolta dei dati è avvenuta a margine di un convegno per insegnanti e ciascuno dei 3 focus group è durato un’ora, accogliendo 10 partecipanti divisi per ordine scolastico. I focus group sono stati condotti da tre membri del gruppo di ricerca, i quali hanno seguito una traccia che era stata precedentemente predisposta. Le tematiche affrontate sono state le seguenti: 1. Chi è coinvolto nelle situazioni di push e pull out? (Quali alunni? Quali figure educative?) 2. Dove vanno gli alunni e a fare che cosa? 3. Perché queste attività vengono proposte fuori dall’aula? 4. Come vivono gli alunni il fatto di uscire dall’aula?

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Le parole dei partecipanti sono state riascoltate, analizzate e categorizzate secondo l’approccio metodologico del Qualitative Content Analysis (Schreier, 2012). Per l’analisi si è fatto uso sia di alcune categorie generate con modalità deduttive che di altre generate invece con modalità induttive (Kuckarts, 2012), dando origine ad un interessante collegamento fra i riferimenti in letteratura e il punto di vista degli insegnanti.

Summer School Bressanone – Prima parte


2. Risultati

Quali alunni fanno esperienza di push e pull out Questa categoria descrive le tipologie di alunni che fanno esperienza di push e pull out nella realtĂ delle scuole dei 30 insegnanti che hanno partecipati ai focus group. !"#$%&'(")*#+,-.-/+0*1+*2.344+*560*7244-*08,09+04:2*1+*,386*0*,3..*-3;* <-;;-52;0/-9+0* =92>>04;+*1+*;08;-*1+*080>,+-* !"#$$%&'()*$%+)%&& ?@2*4-+*085-4-*+*A2>A+4+B* C*342*:-42*1+*;9248+;-*,09*A2>A+4+*4-4*+;2.-7-4+B*,09*53+*5DC* A+8-/4-* 1+* 34D2.72A0;+::2:+-40* +>>01+2;2* 0* 6244-* A+8-/4-* 1+* 8;290* 12* 8-.+* -* +4* ,+55-.+* /93,,+B* 2* 805-412* 10..0* >-12.+;E* 1D299+F-* -* >04-* 0* 2..-92* F04/-4-* ,-9;2;+* 73-9+GH* I!"#$%"&"'$(#)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(34( * ?<+5392>04;0*,09*10+*A2>A+4+*560*,0950,+85-4-*10+*83-4+*1+*342*.+4/32*5->,.0;2>04;0* 1+F0982* C* +>,-9;24;0* ,-;09* 385+90B* -,,390* 729* 385+90* +.* A2>A+4-* 5-4* 34* ,+55-.-* /93,,-* 40..D23.2*,901+8,-8;2GH*I!"#$%"&"'$(#)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(54( !"#$$%&,!-&.$+/&*))%0*(%& ?(-* .2F-9-* +4* 342* 853-.2* 1+* J+.24-* 0* 2AA+2>-* 342* 902.;E* 7-9;0* 1+* A2>A+4+* 560* 085-4-* %$&-(*"%*1& 12..2*5.2880*K3241-*8-4-*L"(*I*40-*299+F2;+*+4*(;2.+2M*,09*53+*105+1+2>-*2*.+F0..-*5-..0/+2.0B* ,09*53+*>2/29+*8-,92;;3;;-*5-4*A2>A+4+*560*299+F24-*12*10;09>+42;+*,208+*80*6244-*/+E* 342* A3-42* 5-4-8504:2* 10..D+4/.080B* 34D-92* 83* ;90* ,-8824-* 088090* ;-.;+* 12..2* 5.2880* ,09* 7290*34*.2F-9-*4-4*8+4/-.-*>2*1+*/93,,-*0*K308;-*F+040*105+8-*+4*>-1-*5-..0/+2.0B*,0956N* ,9+>2*1+*;3;;-*F+040*.2*8-5+2.+::2:+-40*-4*/.+*2.;9+*A2>A+4+*,09*4-+GH**6!"#$%"&"'$(#)*+,&( -./0&./&1(2+)*#(34( !"#$$%&2/$&3%'*4%"%(5& 6(-* .2F-9-* 40..2* 853-.2* >01+2* 0* >+* C* 52,+;2;-* 1+* 385+90* 5-4* 10+* 92/2::+* 5-4* 8+;32:+-4+* >-.;-* 1+77+5+.+* 0* 5-4* 6241+52,H* J+* C* 52,+;2;-* 1+* 385+90B* +4* 255-91-* 5-4* +* 92/2::+B* 8-,92;;3;;-* 40..0* -90* 1+* >2;0>2;+52* 0* 1+* +4/.080B* ,0956N* 8-4-* K30..0* 1-F0* +45-4;924-* ;9-,,2*1+77+5-.;EH*L0..0*-90*1+*85+04:0B*8;-9+2*0*/0-/927+2*5DC*,+O*,-88+A+.+;E*1+*+4809+98+*40.* 1+85-98-H* $55-B* 2..D+4+:+-* 385+F-* >-.;0* F-.;0* 5-4* +.* 92/2::-* 12* 8-.-B* >04;90* 21088-* 6-* ,908-*.D2A+;31+40*1+*385+90*5-4*2.;9+*92/2::+B*-*92/2::+*8;924+09+*-*560*2F0F24-*24560*.-9-* 10..0* 1+77+5-.;E* 0* 1-F0F24-* 9053,09290H* P3+41+* 7255+-* 10+* /93,,+* 1+* 130* -* ;90* 92/2::+* 2.* >288+>-B*K308;-*24560*,09*0F+;290*.-*8;90;;-*92,,-9;-*;92*>0*0*+.*92/2::-GH*I!"#$%"&"'$1( #)*+,&(#$)+"7&./&(7/(-./0+(%.&7+1(2+)*#(84( ( $850*+4*2.534+*>->04;+*K3241-*F+040*F2.3;2;-*560*C*>0/.+-*560*8;+2*34*,-D*12*,29;0B*>2* ,09*+.*908;-*8;2*80>,90*+4*5.2880*0*24560*.3+*12*K308;2*A0..+88+>2*+4;0/92:+-40*62*72;;-*10+* ,288+*+4*2F24;+B*,0956N*F04+F2*12*34D08,09+04:2*40/2;+F2*1-F0*8;2F2*;9-,,-*;0>,-*73-9+B* ,-+*5DC*8;2;-*34*82.;-*1+*K32.+;EGH*6!"#$%"&"'$1(#)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(34( !"#$$%&27+&"*0/)*$/&2/$& ?(*>+0+*2.344+*K3241-*085-4-*0*F244-*40..2*5.2880*10.*A2>A+4-*5-4*.-*8,0;;9-*23;+8;+5-*8+* *"#$$%&2/$&3%'*4%"%(5& 804;-4-*>208;9+*,0956N*.-9-*1+5-4-)*4-+*+480/4+2>-*2*.3+*2*,29.290B*2*/08;+90*+.*,9-,9+-* 5-9,-*0*K3+41+*8+2>-*3;+.+*0*+41+8,0482A+.+H*$*F244-*F-.04;+09+*2*.2F-9290*.QH*6!"#$%"&"'$( #)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(54( !"#$$%&2/$&89!& J+* C* 52,+;2;-* K308;D244-* 560* 342* A2>A+42* @<"* 2F0880* 34* 2;;0//+2>04;-* -8;+.0* 40+* 5-479-4;+*10+*5->,2/4+*1+*5.2880B*7250F2*1+8,0;;+*0*5-80*1+*K308;-*/04090H*R09*53+*+-*8-4-* 385+;2*5-4*.0+*0*7250F-*2F24;+*0*+41+0;9-*12*K308;D2.;92*5.2880*560*,390*092*21+2504;0B*0*+-* 7250F-*83*0*/+O*+4*>-1-*560*.0+*5->+45+2880*2*.2F-9290S*8290>>-*9+>28;0*73-9+*;90*F-.;0* 5-8QB* 1-,-1+56N* .0+* C* 8;2;2* +4* /921-* 1+* ,29;+90* 0* .2F-9290* 24560* 5-4* +* 5->,2/4+GH* 6!"#$%"&"'$1(#)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(34( !"#$$%&2/$&*"()%&:;9&& #3;;2F+2B* .2* 853-.2* 1+* ,048+09-* ,90F2.04;0* C* 560B* ,09* K324;-* 9+/32912* A2>A+4+* T$<* -* 1+F0982>04;0*2A+.+B*5+*8-4-*10+*>->04;+*0*10+*92/2::+4+B*560*2AA+24-*A+8-/4-*1+*>->04;+* 1+*105->,9088+-40*,09*53+*2AA+24-*A+8-/4-*10..D24/-.-*>-9A+1-*-*1+*/+-56+B*01*C*,-8+;+F-* ,09* +.* A2>A+4-B* 9+8,0;;-* 2+* 93>-9+B* 2+* 9+;>+* 10..2* 5.2880GH* 6!"#$%"&"'$1( #)*+,&( -./0&./&( 2+)*#54& &

anno V | n. 1 | 2017

SOFIA DAL ZOVO, HEIDRUN DEMO

51


Quali figure educative sono coinvolte nel push e pull out Questa categoria descrive le tipologie di figure educative che accompagnano gli & alunni che si allontanano dalla classe. *

52

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Summer School Bressanone – Prima parte


Dove ha luogo il push e pull out Questa categoria descrive i luoghi in cui avviene il push e pull out, gli spazi in cui & vengono didattiche a quelli alunni che sono temporaneamente * * proposte * * * * attività * ** < & dalla &classe. && & & & & & & & & & & & & & & & & & & separati & & & & & & & & & !"#$%&'(")*[3-/6+*10.*,386*0*,3..*-3;* <-;;-52;0/-9+0* =92>>04;+*1+*;08;-*1+*080>,+-* 9>*F%&)+'%3#%C&2/))%3/%C& ?[2* 4-8;92* 853-.2* 62* 10..0* 23.0* ,+3;;-8;-* ,+55-.0* ,09* 53+* K3241-* 8+* 72* +.* .2F-9-* 2* /93,,+B* '=*4#FF%$%& F04/-4-*3;+.+::2;+*24560*.D2;9+-B*.2*F092412B*S*F+040*3;+.+::2;-*;3;;-*K30..-*560*5DC*,0956N* 3;+.+::290*8-.-*.D23.2*C*+>,-88+A+.0HG*6!"#$%"&"'$1(#)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(54( * ?L0..-* 8/2A3::+4-* F04/-4-* ,-9;2;+B* ,0956N* 1+,0410* ,9-,9+-* 12..2* 8;93;;392* 10..2* 853-.2B* 40/.+*8,2:+*908+13+HG*6!"#$%"&"'$1(#)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(34( &G*)2/I&E)(/& 6[2*>+2*853-.2*C*2..D+4;094-*1+*34*,295-*0*K308;D244-*2AA+2>-*34*A2>A+4-*560*56+310*0* +4+:+2*21*2.;09290*;3;;2*.2*1+42>+52*10.*/93,,-*0*10F0*>3-F098+*0*2*K308;-*,34;-*0850*5-4* 34* 5->,2/4-B* 8+* 7244-* 34* /+9-* 40.* ,295-* 0* F244-* 21* +44277+290* .D-9;-B* ;9-F2>+* +* ,+4+B* 0* 2..-92B*560*40*8-B*C*34-*87-/-*1+*\*>+43;+HG*6!"#$%"&"'$1(#)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(34( & 6L-+* 40..2* 4-8;92* 853-.2* 2AA+2>-* 34* -9;-* 560* 2* ;394-* 7255+2>-* 539290* 12+* 92/2::+B* C* 34D-5528+-40*,09*729.+*385+90*12..2*5.2880*0*908,-482A+.+::29.+*804:2*.2*83,09F+8+-40*213.;2B* 01* C* /92;+7+524;0* ,09* .-9-* 560* 8244-* 560* ,-88-4-* 385+90* 12* 8-.+* 0* 8-4-* ,29;+5-.29>04;0* 8+.04:+-8+*,0956N*6244-*2F3;-*K308;-*-4-90G*6!"#$%"&"'$1(#)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(54( :*=$/& 6"* F-.;0* 804;-4-* +.* A+8-/4-* 1+* 52>A+290* 29+2* 0* 8+* 90524-* 24560* +4* A2/4-HG* 6!"#$%"&"'$1( #)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(34( ( ?!-4*34*A2>A+4-*2.*K32.0*092*8;2;-*9+5-4-85+3;-*34*;923>2*>+/92;-9+-B*K3241-*+.*.+F0..-*1+* -,,-8+:+-40*1+F04;2F2*;2.0*12*9041090*1+77+5+.0*.-*8F-./+>04;-*10..2*.0:+-40B*+-*56+010F-*2.* A2>A+4-*1+*385+90*34*>->04;-*0*1+*9+;9-F290*+.*5-4;9-..-*1+*8N*B*1241-/.+*10..0*+41+52:+-4+* 5-4* .2* ,-9;2* 2,09;2)* 72+* 34* ,2+-* 1+* F-.;0* +.* /+9-B* F2+* A2/4-B* F2+* 12..2* A+10..2B* ,09* ,-56+* >+43;+*,-+*;-94+*104;9-H*"..D+4+:+-*K308;2*5-82*092*F+883;2*5-4*342*509;2*8,2F2.109+2B*1-,-* 34* ,-D* +4F050* 4-4* 092* ,+O* 34* F-/.+-* 385+90* >2* 34* F-/.+-* 908;290B* 908;290* 104;9-* +.* 7.388-* 10..0*5-80HG*6!"#$%"&"'$1(#)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(5( !#"*&0%3+/I&*#"*&3%& ?(-*.2F-9-*5-4*5.288+*>-.;-*43>09-80*0*>-.;-*8,088-*4-4*5+*8;2+*,09*>-.;-*;0>,-*+4*23.2H* %@@*=%$+& "..-92* 2* K308;-* ,34;-* 8,-8;+* 34* ,+55-.-* /93,,-* +4* 34D2.;92* 23.2* 1-F0* 5+* 8-4-* +* ;2F-.+* 8;93;;392;+*+4*342*509;2*>24+092B*,0956N*C*.D23.2*1+*1+80/4-B*>2*5+*8+*8+*>0;;0*.Q*0*+.*/93,,-* 72* +.* 83-* .2F-9-* 0* ;3;;-* K324;-B* C* 342* K308;+-40* 1+* -91+40* 0* 1+* 8,2:+-* ,+O* 560* 2.;9-HG* 6!"#$%"&"'$1(#)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(54( ! 6!+*8+*9052*+4*K308;2*23.2*,0956N*5DC*K308;2*2;;90::2;392*560*4-4*C*1+8,-4+A+.0*+4*5.2880B*C* 34* ]2;;+F+;E* +4* K308;-* 528-* 288-.3;2>04;0* >+92;2* 2+* A+8-/4-* 1+* 34* 9+8;90;;-* /93,,-* 1+* A2>A+4+B*+4*255-91-*5-4*.2*72>+/.+2*-FF+2>04;0HG*6!"#$%"&"'$1(#)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(54( !#"*&2/$&(*>>+(/$%& ?"AA+2>-*,29.2;-*5-4*.2*4-8;92*@<%"*0*2AA+2>-*2F3;-*+.*,09>088-*1+*8;93;;39290*34D23.2* 5-4*;2,,0;-4+*,09*+*>->04;+*1+*8;24560::2B*560*,09U*C*8;2;2*,90804;2;2*24560*2*;3;;+*/.+* 2.;9+*A2>A+4+HG** 6!"#$%"&"'$1(#)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(34( !#"*&3%&'/'(+=$/& 6[D23.2*1+*8-8;0/4-*80*.2*8+*382*,09*;3;;+*2..-92*C*342*9+8-982*+4*,+OB*>2*80*.2*8+*382*8-.-*,09* .0*8+;32:+-4+*1+*1+82A+.+;E*-*1+77+5-.;E*C*+..0/2.0B*7290*5.288+*1+770904:+2.+*0*8-4-*F+0;2;0*12..2* & .0//0HG** 6!"#$%"&"'$1(#)*+,&(#$)+"7&./&1(2+)*#(84! & ?L0..2*853-.2*+4*53+*8-4-*8;2;2*.D244-*85-98-*5D092*.D23.2*1+*8-8;0/4-*5-4*;3;;-*+.*40508829+-* ,09*.2*5->34+52:+-40*23>04;2;+F2HG*6!"#$%"&"'$1(#)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(3M* * 6(*>+0+*2.344+*K3241-*085-4-*0*F244-*40..2*5.2880*10.*A2>A+4-*5-4*.-*8,0;;9-*23;+8;+5-*8+* 804;-4-* >208;9+* ,0956N* .-9-* 1+5-4-)* 4-+* +480/4+2>-* 2* .3+* 2* ,29.290B* 2* /08;+90* +.* ,9-,9+-* 5-9,-*0*K3+41+*8+2>-*3;+.+*0*+41+8,0482A+.+H*$*F244-*F-.04;+09+*2*.2F-9290*.+GH*6!"#$%"&"'$1( #)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(54( &

anno V | n. 1 | 2017

SOFIA DAL ZOVO, HEIDRUN DEMO

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Quali attività vengono proposte in push e pull-out Questa categoria descrive le tipologie di attività che vengono proposte agli alunni & * separati * *dalla classe. * * * * * quando

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Summer School Bressanone – Prima parte


Perché fuori dall’aula Questa* categoria * * descrive le ragioni che portano alla scelta del push e pull out & & risposte & & & & insegnanti & & & che & hanno & & & partecipato & & & & ai focus & & group.& sulla base delle degli & & & & & & & !"#$%&'(")*'2/+-4+*,09*.2*850.;2*10.*,386*0*,3..*-3;* <-;;-52;0/-9+0* =92>>04;+*1+*;08;-*1+*080>,+-* K*=%/$+&2#"(#)*"+L&="%& ?(-* 8-4-* +480/424;0* 1+* 8-8;0/4-* 0* 6-* ,0482;-)* 80* 7-88+* 80>,90* +-* 21* 385+90* 2* K30.* %$'+=$*$(%&2#))%2/"*)%& >-1-* 560* 5-82* >+* 1290AA0* 728;+1+-Z* <0* 21* 385+90* 8-4-* 80>,90* .0* ,098-40* 5-4* 0+3/$/&"*&3%'*4%"%(5&6?#/)%M& 1+82A+.+;EZ*"*385+90*73-9+B*1-F0*8+*04;92*+4*23.2*1+*8-8;0/4-*0*K308;D23.2*1+*8-8;0/4-*C* 8-.-*,09*.0*8+;32:+-4+*1+*1+82A+.+;E*0*K3+41+*+-*K308;-*.-*F+F-*5->0*,9-A.0>2H*[2*902.;E* 560*F+F-B*40.*,9-7088+-42.0*0*40.*.+50-B*5D0924-*2.534+*5-..0/6+*560*8+*,90-553,2F24-*1+* F01090* 73-9+* .2* 8+;32:+-40* 1+* 1+82A+.+;EB* 092* K328+* 34* ,9-A.0>2* 80* 9+>240F2* 104;9-HG* 6!"#$%"&"'$1(#)*+,&(#$)+"7&./&1(2+)*#(84( B*>*2%(5&3+="%&%$'+=$*$(%& ?J-.;-* 1+,0410* 24560* 12.* ;+,-* 1+* 2;;+F+;E* 560* F04/-4-* 8F-.;0B* >-.;-* 1+,0410* 24560* 3%&/)=*$%FF*)+&"N*((%0%(5&%$& 12..2* 52,25+;E* 8;0882* 10+* 1-504;+* +4* 5.2880* 1+* 82,09.+* 2;;92990B* 4-4* C* 34* ,9-A.0>2* 1+* 2"*''+& 385+;2*5-4*1-504;0*1+*8-8;0/4-B*8,088-*.0*2;;+F+;E*F04/-4-*1+F098+7+52;0*2*805-412*10..2* 1+85+,.+42* 0* K3+41+* 2* F-.;0* C* 40508829+-* 1+F+1090* +4* /93,,+H* (.* ,9-A.0>2* F09-* C* 560* 2* .+F0..-*-9/24+::2;+F-*0*85-.28;+5-*4-4*80>,90*C*,-88+A+.0*8F-./090*10;09>+42;0*2;;+F+;E* ,09*/93,,+*+4*5.2880HG*6!"#$%"&"'$1(#)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(54( * ?$55-B*+-*F01-*560*6-*34*2.344-*5-4*/92F+*1+82A+.+;E*+4*5.2880B*>2*4-4*F-/.+-*560*0852H* $55-*,09*>0*2FF+5+4290*/.+*-A+0;;+F+*4-4*8+/4+7+52*560*10AA2*7290*[0-,291+B*J24:-4+HHH* ,09U*K308;+*23;-9+*5-4*.0*R$!<*.0*,3U*7290*24560*.3+H*[0*.0//+2>-*288+0>0*2..2*5.2880B* .D099-90* 809F0* 24560* 2/.+* 2..+0F+* 5-8+110;;+* ?4-9>-1-;2;+G* >2* +>,2924-* 560* 08+8;0* 24560*34D2.;92*7-9>2*1+*5->34+52:+-40HG*6!"#$%"&"'$1(#)*+,&(#$)+"7&./&1(2+)*#(84( B/""*4/)*F%/$+&?)*& ?R29.+2>-* 24560* 10..D+45.38+-40* 10..D+480/424;0* 1+* 8-8;0/4-* 40.* ;02>* 1-504;+)* 80* /.+* %$'+=$*$(%& +480/424;+* +4* ;02>* ;041-4-* 21* 088090* +45.38+F+* 5-4* .D+480/424;0* 1+* 8-8;0/4-* C* ,9-A2A+.0* 560* +.* A2>A+4-* 9+>24/2* +4* 5.2880* 0* 5+* 8+2* .2* ,-88+A+.+;E* 1+* 5-8;93+90* 34* ,095-98-*8,05+7+5-B*>2*2.;9+>04;+*.2*F01-*1392HG*6!"#$%"&"'$1(#)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(54( * 6(.*>+-*,9-A.0>2*C*560*,9-/0;;29.-*5-4*.D+480/424;0*5399+5-.290*2*>0*5->,-9;2*;24;2* 72;+52* 0* ;24;-* ;0>,-* 0* 8-* 560* .D+480/424;0* 5399+5-.290* 72* 72;+52* 2* 9+8;93;;39290* +.* 83-* >-1-*1+*.2F-9290HG*6!"#$%"&"'$1(#)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(34( O*0/)%)+&%"&'+$'/&3%& ?P3241-* 5DC* .D+480/424;0* 1+* 8-8;0/4-* 8+* 1+F+10* .2* 5.2880* +4* 130B* ,09* /08;+90* >0/.+-* )+'>/$'*4%"%(5&3+""N*"#$$/& .D2;;+F+;EB* K3+41+* >0;E* 5.2880*;3942* K3+41+* 83..D2;;+F+;E* 8,05+2.0B* 2.;90* F-.;0* K3241-* /.+* '+$F*&'#>+)0%'%/$+&*3#"(*&& +480/424;+* 6244-* 34* 1+8590;-* .+F0..-* 1+* 23;-4->+2B* ,09* .0* 2;;+F+;E* 12* 8F-./090* +4* /93,,-B*34*/93,,-*0850*0*1+>-8;92*1+*82,098+*23;-/08;+90B*25524;-*2..D23.2*1+*5.2880B*8+* 50952*1+*5-8;93+90*K308;-*;+,-*1+*7+135+2HG*6!"#$%"&"'$1(#)*+,&(#$)+"7&./&1(2+)*#(84( ( ?=255+2>-* 385+90* +* 92/2::+* ,+O* /9241+* ,09* 908,-482A+.+::29.+* 0* .-9-* .2F-924-* +4* >-1-* >-.;-* 8+.04:+-8-B* ,0956N* 6244-* 2F3;-* K308;-* -4-90* 0* K3+41+* 4-4* F-.2* 342* >-852* 1+* 8-.+;-HG*6!"#$%"&"'$1(#)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(54( B/$'/"%3*)+& ?c244-* 73-9+* 12..2* 5.2880* ,09* 5-48-.+1290* 2,,9041+>04;+* 0* ,09* 7290* 2;;+F+;E* *>>)+$3%@+$(%&+& .2A-92;-9+2.+*0*2;;+F+;E*8;93;;392;0HG*6!"#$%"&"'$1(#)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(34( "*4/)*(/)%&& O*0/)%)+&@/@+$(%&3%& ?(-*+4F050*6-*4-;2;-*560*+*A2>A+4+*56+01-4-*I+-*7255+-*.0:+-40*4-9>2.>04;0M*1+*385+90*2* )%>/'/&+&3%&)+"*F%/$+&& ,+55-.+* /93,,+* 0* +-* 6-* 5->34K30* 6-* .2* ,-9;2* 2,09;2* 1+* 5.2880* ,09* 53+* 6-* 80>,90* .2* F+832.0B* /.+* 3.;+>+* de* >+43;+B* K3241-* 8-4-* 8;2456+* 0* K3241-* 6244-* 5->34K30* ;09>+42;-*.D2;;+F+;EB*56+01-4-*1+*385+90*-*5-4*34*,+55-.-*/+-5-*-*5-4*10+*.+A9+*0*K308;2* 5-82*>+*,290*1+*52,+90*560*8+2*>-.;-*734:+-42.0*2*342*9+50952*1+*2;;+>+*1+*,2904;08+*0*1+* ,9+F25f*,09*241290*21*+>,.0>04;290*.0*90.2:+-4+*;92*1+*.-9-H*P308;D244-*6-*342*,9+>2* K3+41+* K308;2* 5-82* C* ,29;+5-.29>04;0* 0F+104;0B* ,0956N* >-.;+* 1+* .-9-* ,9-F04/-4-* 12* 853-.0*10..D+4724:+2*1+F0980HM&6!"#$%"&"'$1(#)*+,&(-./0&./&1(2+)*#(54( &

anno V | n. 1 | 2017

SOFIA DAL ZOVO, HEIDRUN DEMO

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Qual è il vissuto soggettivo degli alunni Questa categoria descrive il modo in cui gli insegnanti hanno descritto quello che, secondo è il vissuto soggettivo che gli alunni fanno delle * la loro* percezione, * ** * * * < & di push & & & & & & & & & & & & & & & & & & situazioni e pull out.

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Summer School Bressanone - Prima parte


Discussione

Tornando ora a riflettere sulle tre questioni che il percorso di ricerca mirava a comprendere, proveremo a discutere il quadro d’insieme dei risultati emersi e del loro significato per l’attuale filone di ricerca circa il significato pedagogico dei fenomeni di push e pull out.

Quali gruppi di alunni fanno esperienza di push e pull out Dalle risposte degli insegnanti emerge come i gruppi di alunni coinvolti in esperienze di push e pull out sono appartenenti a quelle categorie che godono di tutele specifiche nella legislazione scolastica italiana: vengono infatti citati alunni con disabilità (e compagni che lavorano con loro), con DSA, con altri BES e stranieri (nello specifico anche la categoria dei neo-arrivati in Italia). L’orientamento a pensare al push e pull out come misura specifica per alunni con dei bisogni particolari tutelati dalla normativa si ritrova in parte anche nelle risposte che descrivono le figure educative coinvolte. Molte delle figure nominate sono risorse aggiuntive legate alla presenza di alunni con bisogni specifici: insegnanti di sostegno, assistenti, assistenti alla comunicazione, educatori. Sembrerebbe quindi farsi strada l’ipotesi che soluzioni di push e pull out vengano attivate nelle scuole come forma di differenziazione e tutela specifica, possibile anche grazie ad alcune figure professionali aggiuntive e dedicate. Anche l’organico di potenziamento, che potrebbe essere utilizzato in diversi modi dalle scuole, viene qui descritto come impiegato nella risposta ai bisogni specifici di questi gruppi di alunni. In soli due casi emerge una narrazione in cui la scelta di far uscire dalla classe un alunno sia vista come una misura potenzialmente a disposizione di tutti gli alunni. Il primo esempio riguarda una coordinatrice di scuola secondaria di I grado che racconta di proporre l’uscita dalla classe per facilitare il momento dell’interrogazioni ad alunni che siano in difficoltà a parlare di fronte all’intera classe. Il secondo esempio, descritto connotato però in modo molto negativo per i ragazzi, è legato alla possibilità di uscire dalla classe per andare dalla psicologa scolastica.

Quali sono le ragioni e le intenzioni educative che spingono a scegliere il push e pull out I dati raccolti circa questa domanda di ricerca restituiscono un quadro più complesso delle situazioni di push e pull out rispetto a quello che sembrava emergere e limitava il fenomeno ad una misura di differenziazione per alunni con tutele specifiche. Guardando infatti al modo in cui gli insegnanti descrivono le attività che vengono proposte in push e pull out, si ritrovano certo quelle legate all’alfabetizzazione per alunni stranieri o quelle dedicate agli alunni con disabilità o ancora di rinforzo e consolidamento, ma ve ne sono anche delle altre. Per esempio, viene rappresentata la proposta delle attività alternative all’insegnamento della religione cattolica come un momento di push out, dove alcuni alunni sono allontanati dall’aula perché hanno scelto di non prendere parte all’insegnamento della religione cattolica. Vengono anche descritte diverse situazioni in cui l’uscita dalla classe diviene uno strumento per gestire comportamenti sfidanti degli alunni. In alcuni casi l’uscita dalla classe assume un carattere preventivo, pensato a supporto di processi di autoregolazione comportamentale dell’alunno, in altri punianno V | n. 1 | 2017

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tivo nell’ottica del time-out. Accanto, quindi, alla funzione di dare una risposta al diritto alla differenziazione che alcuni alunni – per il vigente quadro normativo- hanno, il push e il pull out sembra divenire nella gestione e regolazione del comportamento strumento per tutti gli alunni. Alla richiesta di esplicitare le ragioni per i push e pull out, gli insegnanti fanno riferimento a due grandi ordini di motivazioni. Uno è coerente con il quadro che è andato delineandosi fino ad ora: le ragioni per scegliere di attivare situazioni di push e pull out sarebbero radicate nel tentativo di dare un risposta efficace ai bisogni specifici di alcuni alunni, come può essere il consolidamento degli apprendimenti o la ricerca di momenti di riposo e relazione. Un secondo ordine di motivazioni, invece, fa riferimento a questioni che si collocano su un piano completamente diverso, quello delle modalità di gestione della classe attivate dagli insegnanti, da soli e nei momenti in cui in classe vi sono più figure educative. Emerge per esempio la consapevolezza di come la scelta di stare o meno in classe dipenda molto anche dal modo in cui è organizzata la didattica in classe, della sua capacità di “attrarre” o di rispondere efficacemente alle differenze individuali. Inoltre, viene citata la collaborazione fra insegnanti che, se difficoltosa, sembra portare più facilmente a situazioni di separazione. Questo secondo ordine di motivi appare fortemente critico perché spiegherebbe il push e pull out come un modo di reagire ad alcune difficoltà degli insegnanti, piuttosto che come una ricerca –legittima, anche se poi discutibile nella soluzione trovata- di una risposta ai bisogni degli alunni.

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Quali sono le percezioni degli alunni del fenomeno La rappresentazione degli insegnanti di come gli alunni percepiscono i fenomeni di push e pull out sorprendono per l’abbondanza di interpretazioni positive a fronte di poche negative. Il dato sorprende perché invece la letteratura, come illustrato nello stato dell’arte sulla ricerca internazionale, mette in evidenza che, sul piano della rappresentazione di sé e di sé in relazione ai compagni, il push e pull out possono comportare degli effetti critici. Uno spunto interessante è offerto dalla riflessione che problematizza la percezione degli alunni legandola al clima di classe e quindi non legando la percezione tanto a quello che viene proposto fuori, in situazione di push e pull out, quando invece al modo in cui vengono gestite le attività in classe. Secondo questa interpretazione la percezione positiva o negativa dell’uscita dipenderebbe dal fatto che essa sia vissuta come interruzione di un momento in cui l’alunno si sente coinvolto o invece no. In sintesi, i risultati di questa ricerca contribuiscono alla comprensione del significato pedagogico del push e pull out nel sistema scolastico italiano:

1) confermando che il fenomeno riguarda altri alunni oltre a quelli con disabilità su cui sono già disponibili diversi dati e sostenendo l’ipotesi che siano principalmente alunni con BES e stranieri ad essere coinvolti in situazioni di push e pull out; 2) descrivendo diverse situazioni in cui l’allentamento dalla classe viene utilizzato dagli insegnanti come forma di gestione di comportamenti sfidanti per tutti gli alunni, sia in ottica preventiva che punitiva, anche se la letteratura evidenzia ricadute critiche di questa scelta; Summer School Bressanone - Prima parte


3) proponendo una riflessione sull’insegnamento della religione cattolica a scuola e della possibilità di non avvalersene come forma di push out e quindi da considerare anche in termini di esclusione e inclusione; 4) mostrando che le ragioni che portano al push e pull out non sono sempre legate ai bisogni degli alunni, ma invece a volte rispondo alle difficoltà degli insegnanti nella gestione delle differenze in classe, nella creazione di un buon clima e nella collaborazione fra diverse figure professionali; 5) rivelando l’importanza della considerazione del contesto classe e scuola nell’analisi del fenomeno, evidenziando come possa essere determinante nel percepire positivamente o negativamente l’uscita dalla classe la valutazione del clima di classe e come modalità di gestione della classe possano divenire causa di push e pull out.

Limiti della ricerca e prospettive

La ricerca ha il suo limite più evidente nel campione. Nonostante sia stato possibile dare voce ad un buon numero di insegnanti (30), la loro selezione non ha portato ad una pari rappresentazione di scuola primaria e secondaria per cui la situazione della scuola primaria trova una maggiore rappresentazione in questi dati rispetto a quella della secondaria. Inoltre, la scelta di condurre i focus group a margine di un convegno ha facilitato l’entrata in contatto con docenti di provenienze diverse, ma ha richiesto, per motivi organizzativi della struttura accogliente, di limitare le interviste ad un’ora di durata. Questo è stato avvertito come limitante sia dai ricercatori che dai partecipanti. I dati raccolti possono essere considerati interessanti risultati preliminari che necessitano di essere studiati a fondo e verificati nella loro affidabilità sotto a due punti di vista:

1) un approfondimento qualitativo di alcune questioni che richiederebbe interviste più lunghe e in profondità, per esempio in relazione alle ragioni del push e pull out; 2) una rappresentazione quantitativa dei fenomeni per capirne la significatività numerica per i diversi gruppi di alunni coinvolti, dal momento che dati affidabili esistono per ora solo per la categoria degli alunni con disabilità.

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Progetti di alternanza scuola-lavoro inclusivi nella scuola secondaria di II grado

Key-words: School-Work Alternation, Inclusive education, Teacher Training, Competences, Best Practices

Summer School Bressanone

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Il presente articolo è il risultato della ricerca e del lavoro congiunto e condiviso delle tre autrici. Per quanto riguarda la stesura del testo, Lucia de Anna e Gaetanina Villanella hanno curato i par. 1 e 3 mentre Marzia Mazzer ha curato il par. 2.

Italian Journal of Special Education for Inclusion

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© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

From a pedagogical perspective, school-work alternation (SWA) represents an important opportunity to create synergies between the educational and the professional field. Moreover, SWA may allow to value individual learning styles, interests and vocations, to promote flexible teaching/learning strategies and to stimulate the development of the key competences in view of the life project. In order to fully exploit the potential of SWA, teacher education and training is a crucial aspect. In this respect, the course for Special Education Teachers (Ministerial Decree 30 September 2011) provides the laboratory of “Orientation, Life Project and School-Work Alternation” addressed to upper secondary school teachers. On the basis of the analysis of the projects works developed by the prospective teachers who attended the course at University of Rome Foro Italico (A.Y. 2013/2014 and A.Y. 2014/2015), the present research aims to identify a set of indicators that may be helpful to design inclusive SWA projects, taking into account all students’ needs, school curriculum and opportunities offered by the local area.

abstract

Lucia de Anna (Università degli studi di Roma “Foro Italico” / lucia.deanna@uniroma4.it) Marzia Mazzer (Università degli studi di Roma “Foro Italico” / marzia.mazzer@uniroma4.it) Gaetanina Villanella (Università degli studi di Roma “Foro Italico” / gaetanina.villanella@tim.it)

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Introduzione

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Questa ricerca si inserisce nel quadro delle iniziative promosse dal Gruppo di lavoro “La prospettiva del progetto di vita” nell’ambito della SIPES (Società Italiana di Pedagogia Speciale). Il gruppo, coordinato da Tamara Zappaterra, ha iniziato a discutere questi temi in una riunione tenutasi presso l’Università di Firenze a marzo 2015. I partecipanti al gruppo hanno poi affrontato diversi argomenti ed è emersa una ricchezza di attività e di ricerche interessanti diffuse nelle varie regioni d’Italia. Le molteplici esperienze sono state, quindi, rappresentate in occasione del “Convegno Nazionale della Società Italiana di Pedagogia Speciale. La prospettiva inclusiva per una ricerca di qualità in pedagogia e didattica speciale” tenutosi a Messina dal 28 al 30 maggio 2015, nella sezione tematica Orientamento e progetto di vita. Accompagnare dalla scuola all’Università e al Lavoro. Il gruppo di ricerca dell’Università di Roma “Foro Italico” (de Anna, Moliterni, Magnanini, Sanchez, Covelli, Mazzer, Pagliara) ha presentato diversi lavori di ricerca anche internazionali. Tra questi, il progetto Leonardo “Univers Emploi” lanciato nel 2010 e concluso nel 2012, coordinato dall’INSHEA di Suresnes (Parigi), a cui l’Italia ha partecipato come partner (con l’Università di Roma “Foro Italico”), insieme alla Danimarca e all’Irlanda (cfr. de Anna, Cabral, Magnanini, 2016 pp. 162-189). Tale esperienza viene menzionata in una pubblicazione più ampia dedicata all’accoglienza degli studenti universitari in situazione di disabilità e alla nascita della CNUDD (Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per la disabilità) dal titolo Le esperienze di integrazione e inclusione nelle università tra passato e presente. Oltre all’esperienza internazionale su accennata, che riguarda il passaggio dall’Università al lavoro, in questo testo vengono descritte molte altre iniziative a livello nazionale ed internazionale in merito all’organizzazione e ai rapporti tra il mondo del lavoro, la formazione e l’Università (de Anna, 2016a). Il gruppo di lavoro ha approfondito anche l’argomento dell’orientamento in senso pedagogico inteso come azione formativa intrapresa durante tutto il percorso scolastico e finalizzata a rinforzare la capacità dello studente di compiere delle scelte. Si tratta, dunque, di un pensiero che si traduce nell’azione didattica e che deve essere alla base delle esperienze di alternanza tra la scuola, l’università e il lavoro (Montuschi, 1992; Domenici, 1989, 2001; Cajola, 2005). Non si tratta solo di specializzarsi in un mestiere quanto di dare ai giovani la possibilità di cogliere i diversi linguaggi, i modelli di organizzazione del lavoro, i comportamenti da tenere in contesti diversi, in contesti “più adulti” se vogliamo, con l’obiettivo finale dell’inserimento lavorativo, ma non solo. Un processo educativo opportunamente guidato e finalizzato, che vada alla ricerca del potenziale implicito e della dotazione ancora non manifesta e tuttavia prevedibile (Montuschi, 1992). L’essere occupato in un lavoro richiede autonomia, impegno, messa in discussione delle proprie capacità e dei propri limiti. E consente agli ambienti stessi di aumentare le loro conoscenze e di apportare innovazione riguardo alle problematiche delle persone con disabilità. Come accennato, oltre alla fase di orientamento, occorre promuovere una progettualità di alternanza scuola-lavoro (A.S.L.), sperimentando sul territorio le possibilità applicative. La necessità di tracciare un filo conduttore dalla scuola al lavoro è importante per non vanificare le aspettative dei genitori e per non disattendere tutto il lavoro svolto dagli insegnanti che hanno investito professionalità, tempo e lavoro nel Summer School Bressanone – Prima parte


loro impegno pedagogico-didattico sui temi dell’integrazione e dell’inclusione. Gli stessi insegnanti devono compiere delle trasformazioni didattiche nel declinare l’orientamento come processo esistenziale e formativo (Mura, 2005). Il principio cardine alla base di ogni progetto di continuità, però, è che la persona con disabilità debba essere riconosciuta non come soggetto di assistenza ma come protagonista della propria vita come vuole la legge 104 del 1992. Per realizzare il progetto di vita occorre costruire sinergie e rapporti di continuità sul territorio, fare progetti collegati ai piani di zona, alla prospettiva del “pensami adulto”, cercando di coinvolgere i compagni e le famiglie. La dimensione della prospettiva di vita è stata affrontata, fin dagli anni novanta, sia a livello internazionale (OECD, 1997, 1998), che a livello nazionale attraverso vari progetti. Anche l’Osservatorio permanente per l’integrazione degli alunni con disabilità del MIUR ha prestato particolare attenzione a questa tematica, destinando risorse alle scuole con progetti formativi di alta qualificazione (1998-1999) (de Anna, 2014, pp. 256-266). A livello internazionale, viene ravvisata sempre di più la necessità di costruire dei percorsi di continuità. Nel documento dell’OECD del 2015 dal titolo Practice in Mental Health and Work, ad esempio, si sottolinea l’importanza educativa dei processi di prevenzione e di accompagnamento al lavoro che devono prendere avvio fin dalla scuola. Anche all’interno di questo documento si afferma che, in primis nel contesto scolastico, gli insegnanti devono essere capaci di costruire percorsi di apprendimento efficaci per un avvio alla formazione lavorativa. Purtroppo l’Italia non risulta presente tra i paesi che partecipano a questa iniziativa.

1. La ricerca. Obiettivi e metodologia

Nei diversi contesti di studio e di ricerca, anche in quelli universitari, spesso si afferma che la scuola secondaria di II grado non presti abbastanza attenzione al percorso di formazione e di alternanza scuola-lavoro. In passato, tuttavia, sono stati raccolti molti dati relativi a come l’A.S.L. è stata intrapresa in diverse regioni italiane (cfr. de Anna 1998, par. 3.2; de Anna, 2014, par. 5.4). La presente ricerca mira ad analizzare come il tema dell’A.S.L. è stato affrontato nel contesto dei due cicli del Corso di Specializzazione per le Attività di Sostegno tenutisi presso l’Università di Roma “Foro Italico” (A.A 2013/2014 e A.A 2014/2015). In particolare, a partire dalle esperienze di progettazione realizzate dai corsisti all’interno del Laboratorio “Orientamento e Progetto di Vita e alternanza scuola-lavoro” rivolto ai docenti della scuola secondaria di II grado, sono stati individuati una serie di indicatori utili alla costruzione di nuovi percorsi di A.S.L. che siano collegati con il progetto di vita degli studenti con disabilità o con Bisogni Educativi Speciali e permettano di coinvolgere tutta la classe in una prospettiva inclusiva. La ricerca si è concentrata, in modo particolare, sulle esperienze realizzate nelle scuole secondarie di II grado del Lazio. Una selezione di tali esperienze è stata presentata anche durante la Summer School della SIPES dal titolo “Pedagogia e Didattica Speciale” tenutasi a Bressanone dal 31 agosto al 2 settembre 2016. La selezione è stata operata rivolgendo l’attenzione, in particolare, a quelle esperienze che, secondo i principi della Pedagogia Speciale, possono essere conanno V | n. 1 | 2017

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siderate delle “buone prassi” (Canevaro, Ianes 2002; Ianes, Canevaro, 2008) ovvero dei punti di riferimento non replicabili ma adattabili a nuovi contesti, approfondendo le possibilità che il territorio offre e riflettendo sulle risorse e competenze interne alla scuola in sinergia con il mondo del lavoro. Il presente lavoro di ricerca, come anticipato, prende in considerazione due cicli del corso di specializzazione per il sostegno. Il numero di docenti della scuola secondaria di II grado che ha frequentato il corso nell’A.A 2013/2014 ammonta a 60 mentre nell’A.A. 2014/2015 ammonta a 25, per un totale di 85 corsisti. Durante le ore destinate al Laboratorio “Orientamento e Progetto di Vita e alternanza scuola-lavoro” (1 CFU) condotto da Gaetanina Villanella1, con la direzione di Lucia de Anna, si è lavorato con i corsisti chiedendo loro di presentare inizialmente le esperienze già conosciute e successivamente di ampliare e/o formulare, con il supporto del docente, nuove piste per costruire percorsi di alternanza scuola-lavoro, tenendo sempre presenti le esigenze degli studenti con disabilità, coniugandole con i contesti di apprendimento-insegnamento e raccordandole con le politiche del territorio. Nel primo ciclo di specializzazione (A.A 2013/2014) sono stati analizzati 35 lavori condotti talvolta a livello individuale, talvolta in gruppi formati da 4 corsisti. La maggior parte dei corsisti ha lavorato in maniera più articolata e approfondita con il gruppo, salvo rare eccezioni di lavori individuali di particolare rilevanza (6 su 19). Complessivamente, alcuni lavori sono risultati molto ben articolati ed efficaci (14 su 35) con riferimento agli indicatori presi in considerazione e ritenuti più significativi anche nel confronto con i lavori dell’anno successivo (che descriveremo nel proseguimento della trattazione). Nel secondo ciclo di specializzazione (A.A 2014/2015), invece, sulla base delle riflessioni stimolate dal corso precedente, è stata costruita l’attività laboratoriale fin dall’inizio. Sono stati, dunque, costituiti 5 gruppi composti da 5 corsisti ognuno, che hanno elaborato o progetti unici condivisi o diverse progettualità sulle quali si sono confrontati. I lavori sono così risultati più equilibrati nella formulazione del processo di ASL (Alternanza Scuola Lavoro) dimostrando, inoltre, caratteristiche innovative e più corrispondenti alle logiche inclusive. !"!#

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Dal punto di vista metodologico, nell’A.A 2013/2014 i corsisti sono stati liberi di scegliere come organizzarsi, provenendo anche da Regioni diverse dal Lazio 1

Gaetanina Villanella è stata titolare del Laboratorio “Orientamento e Progetto di Vita e Alternanza Scuola-Lavoro” nei Corsi di specializzazione per le attività di Sostegno dell’Università degli Studi di Roma “Foro Italico”. È inoltre Ph.D. e Doctor Europaeus in “Culture, Disabilità e Inclusione, Educazione e Formazione”. Ha collaborato e insegnato Educazione Comparata, Pedagogia e Didattica Speciale presso l’Università di RomaTre e l’Università di Roma “Foro Italico”.

Summer School Bressanone – Prima parte


(Basilicata, Toscana, Campania, Veneto). Ciò ha permesso di indagare, confrontare e rappresentare diverse esperienze locali. Nell’A.A 2014/2015, invece, i corsisti non solo erano quasi tutti del Lazio ma avevano incarichi di insegnamento già sul sostegno da diversi anni e quindi erano più vicini alla realtà inclusiva della scuola. L’attività laboratoriale rivolta a piccoli gruppi, inoltre, ha consentito di rivedere e di indirizzare meglio i corsisti, di numero più ridotto rispetto all’anno precedente, utilizzando metodologie collaborative e partecipanti. Durante le attività di formazione sono state adottate strategie di brainstorming e problem solving, come già in precedenti corsi di specializzazione per le attività di sostegno (de Anna, Villanella, 2003, pp. 287-298). Sono state, inoltre, svolte attività di simulazione di “impresa formativa” mediante l’impiego del role playing. Tra i mediatori didattici utilizzati, sono stati privilegiati quelli iconici. Sono state, infine, introdotte strategie didattiche inclusive come l’apprendimento cooperativo e applicate le tecnologie in termini formativi per la costruzione di mappe concettuali, rappresentazione di schemi e altri prodotti multimediali, sollecitando l’azione attraverso stage operativi. Come vedremo nel prossimo paragrafo, le stesse strategie utilizzate durante l’azione formativa sono emerse anche nell’elaborazione dei lavori da parte dei corsisti.

2. Risultati

Nella rappresentazione dei risultati verranno esposte solo alcune parti dell’ampia analisi che ciascun gruppo ha condotto. Pur facendo alcune brevi riflessioni sulle esperienze dell’A.A 2013/2014, ci soffermeremo, in particolare, sulle esperienze condotte durante il corso di specializzazione dell’A.A 2014/2015 in cui sono state coinvolte le seguenti scuole: Liceo Scienze Umane, Liceo Classico, Liceo Artistico, Liceo Scientifico, IPSSCT Istituto per i servizi commerciali e turistici, IIS Istituto scienze applicate, Istituto professionale Alberghiero, Istituto tecnico Agrario. Nell’A.A. 2013/2014 il ventaglio delle tipologie di scuole è stato molto più ampio. A fronte di una presenza inferiore di Licei, infatti, si è registrata una più variegata offerta di Istituti Agrari, Ambientali e Alberghieri. Si è rilevata, inoltre, la presenza di un Istituto Tecnico Trasporti e Logistica indirizzo Aeronautica, molto interessante per la possibilità di sbocchi lavorativi concreti che può offrire. In tutti i progetti sono stati coinvolti studenti con disabilità cercando di valorizzare i loro punti di forza, senza trascurare le criticità. L’età media degli studenti rilevata è 17 anni. Si riporta di seguito una sintesi dei progetti analizzati relativi all’A.A 2014/2015:

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' Progetti ' ' 'presentati ' Tab.' 2. di' A.S.L. dai' corsisti nell’A.A 2014/2015

In questa trattazione non ci soffermeremo sui contenuti dei progetti ma sulle aree tematiche ricorrenti all’interno di essi al fine di offrire una panoramica delle questioni che i corsisti hanno ritenuto prioritarie per la progettazione di attività di A.S.L. inclusive. Per ogni area tematica sono state individuate alcune parole chiave e una breve descrizione che evidenzia gli aspetti più frequentemente presi in considerazione: ' !'..#*.:-*)%2.# K:<:O;'R/?>@4/3@>' @3,?15/A1'

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Tab. 3. Aree tematiche rilevate dall’analisi dei progetti di A.S.L. dei corsisti del Corso di specializzazione per le attività di sostegno dell’Università di Roma Foro Italico, A.A. 2014/2015

A partire dall’analisi dei progetti del primo e secondo ciclo, sono stati individuati i seguenti indicatori relativi ad alcuni importanti presupposti per la progettazione di attività di A.S.L. inclusive:

– Conoscenza della normativa nazionale e locale, esplorazione del territorio e raccordo con le imprese (intese in senso ampio) e le istituzioni locali; – Focalizzazione sulla costruzione delle competenze (de Anna 2014a, 2015, 2016); – Didattica laboratoriale/progettuale (de Anna 2014b, 2016; de Anna, Rossi 2009; Villanella 2014; Villanella, 2013; Villanella, 2003); – Organizzazione di attività esterne come visite, ricerche e compiti operativi nonché stage lavorativi; – Azione del Tutorato sia interno che esterno; – Coinvolgimento dei professori sperimentando azioni di carattere interdisciplinare;

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– Pensare in maniera inclusiva; – Interazione continua con il territorio e le imprese; – Organizzazione e preparazione del progetto in un lavoro comune della classe/classi; – Ricadute sulle altre classi e diffusione dei percorsi all’interno della scuola e all’esterno; – Verifiche e valutazioni in itinere e finali; – Riconoscimento dei crediti formativi. L’analisi del campione esplorativo ci ha permesso, inoltre, di valutare l’attenzione inclusiva e la valenza espositiva e creativa delle proposte presentate dai corsisti. In molte di queste, infatti, l’A.S.L. si collega pienamente al progetto di vita degli studenti con disabilità e con bisogni educativi speciali e coinvolge tutti gli alunni della classe, come avevamo potuto rilevare anche nelle precedenti ricerche (de Anna, 1998, 2014). Durante le valutazioni finali abbiamo potuto, infine, constatare una maturazione da parte dei corsisti che, in particolare, hanno acquisito:

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– Una maggiore consapevolezza sulla possibilità di attuare tali percorsi; – Una conoscenza più approfondita degli strumenti legislativi; – Un rinforzo delle conoscenze inclusive nella realizzazione del percorso per se stessi e per gli altri; – Nuove competenze anche di tipo trasversale; – Una maggiore conoscenza del Territorio e delle sue opportunità con conseguente rivisitazione dei saperi offerti dalla scuola sia nei metodi che nello sviluppo delle conoscenze anche viste attraverso un’azione interdisciplinare e collaborativa.

Tutti gli studenti che hanno partecipato ai progetti di A.S.L. e, in particolare, quelli con disabilità hanno mostrato una notevole crescita sul piano dell’autostima e della responsabilità. Tutte le esperienze, inoltre, hanno condotto ad un miglioramento a livello scolastico nel passaggio dal sapere al saper fare.

3. Ulteriori prospettive e sviluppo della ricerca

Il passo successivo della ricerca consisterebbe nel verificare se, una volta terminata la scuola, il territorio riesca effettivamente a rispondere alle esigenze di lavoro degli studenti, prendendo in considerazione le competenze acquisite e le opportunità che le aziende possono offrire in relazione ad esse. Per quanto riguarda alcuni studenti con disabilità, sono stati già accertati dei miglioramenti sia a livello scolastico che a livello dell’autonomia della persona. Un esempio: una studentessa, dopo l’esperienza di A.S.L svolta insieme ai suoi compagni presso una rete di Biblioteche comunali e al Viminale, ha ottenuto un contratto di lavoro presso la Biblioteca della Corte dei Conti. In altri casi sono stati registrate assunzioni in cooperative sociali o presso gli Uffici del Comune per la protezione delle zone verdi o nelle attività del corpo forestale. Purtroppo però non abbiamo ancora la possibilità di sapere se tutti gli studenti con disabilità troveranno sbocchi lavorativi nella realtà… Summer School Bressanone – Prima parte


In una prospettiva di lavoro congiunto nell’ambito del gruppo di lavoro costituitosi a Messina, potremmo estendere ad altre esperienze tali modalità di ricerca per dimostrare che le scuole:

– – – –

sono in grado di sviluppare progetti di alternanza scuola-lavoro; possono dare continuità educativa e formativa per il progetto di vita; riescono a stabilire sinergie sul territorio; possono essere utili per arricchire e confrontare le esperienze con le banche dati del MIUR; – possono evidenziare la valenza inclusiva di tali percorsi; – possono aiutare a ricercare modalità per seguire il percorso nel tempo al fine di poter meglio valutare i risultati del successo scolastico di queste iniziative.

Il MIUR sta prestando una crescente attenzione alla problematica dell’A.S.L. Con la recente nota del Ministero del 28 marzo 2017, il Direttore Generale Carmela Palumbo ha fornito alcuni chiarimenti interpretativi sulle attività di Alternanza Scuola-Lavoro (ASL), rispondendo ai numerosi e più ricorrenti quesiti che vengono posti dalle scuole, dalle famiglie e dai soggetti che intendono ospitare gli studenti coinvolti nelle esperienze di ASL (cfr. Allegato alla Nota) ribadendo e sottolineando i seguenti punti:

a) i percorsi di alternanza scuola lavoro, entrati a far parte del curriculum scolastico del secondo biennio e dell’ultimo anno dei percorsi di istruzione secondaria di secondo grado per effetto della legge 107/2015, godono di specifiche risorse assegnate alle istituzioni scolastiche e non devono comportare, di norma, costi per le famiglie degli studenti coinvolti; b) la progettazione e la programmazione dei percorsi di alternanza scuola lavoro sono di competenza degli organi collegiali, che adottano le decisioni nel merito tenendo conto anche degli interessi degli studenti e delle esigenze delle famiglie, alle quali poi il Dirigente scolastico dà attuazione; c) l ’Istituzione scolastica individua, tra le risorse destinate ai percorsi di alternanza scuola lavoro previste dal comma 39 dell’articolo 1 della legge 107/2015, la quota destinata a retribuire il personale docente e A.T.A. che effettua prestazioni aggiuntive rispetto all’orario d’obbligo conseguenti all’attivazione dei percorsi di alternanza, da erogare secondo i criteri definiti nella contrattazione di istituto, e la parte destinata a coprire le spese di gestione utili alla realizzazione dei suddetti percorsi; d) per il personale docente sono altresì retribuibili con il Fondo d’istituto le forme di flessibilità organizzativa e didattica connesse all’attuazione dei percorsi di alternanza scuola lavoro, in base all’articolo 88, comma 2, lettera a) del CCNL del 29 novembre 2007; e) rientrano nelle attività di alternanza scuola lavoro di cui al comma 33 dell’articolo 1 della legge 107/2015 i percorsi definiti e programmati all’interno del PTOF che prevedono la stipula di una convenzione con il soggetto ospitante, l’individuazione di un tutor interno e di tutor formativo esterno, nonché la scelta di esperienze coerenti con i risultati di apprendimento previsti dal profilo educativo dell’indirizzo di studi frequentato dallo studente; f) gli allievi che frequentano percorsi di alternanza scuola lavoro mantengono anno V | n. 1 | 2017

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lo status di studenti. L’alternanza è una opportunità formativa e gli studenti non devono sostituire posizioni professionali; essi sono costantemente guidati nelle varie esperienze, sia nell’ambito dell’istituzione scolastica che presso il soggetto ospitante, da una o più figure preposte alla realizzazione del percorso formativo (tutor interno, tutor formativo esterno, docente interno, esperto esterno).

Riferimenti bibliografici

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Summer School Bressanone – Prima parte


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La Comunicazione Aumentativa Alternativa per l’inclusione sociale del giovane adulto con Disturbi dello Spettro Autistico. Uno studio randomizzato

Key-words: autism spectrum disorders, augmentative and alternative communication, special education, social inclusion

Summer School Bressanone

Italian Journal of Special Education for Inclusion

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Š Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

The Autism Spectrum Disorders represents a complex developmental disability, characterized by deficit of communication skills, by restricted interests and by repetitive behaviors. The Augmentative Alternative Communication systems (AAC) presents opportunities for the development of social and adaptive skills, cause of correspondences with specific aspects of the cognitive profile associated with the disorders. This paper present a randomized study oriented to the validation of the effectiveness of a structured CAA training on a sample of young adults (N = 8, mean age = 31.33) with severe Autism Spectrum Disorders. Results confirm the efficacy of the AAC systems for the development of adaptive and communicative skills.

abstract

Saverio Fontani (UniversitĂ degli Studi di Firenze / saverio.fontani@unifi.it)

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Introduzione

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I Disturbi dello Spettro Autistico (Autism Spectrum Disorders, ASD) rappresentano una tra le disabilità evolutive più complesse, a causa dei deficit delle competenze comunicative e della presenza di interessi ripetitivi e circoscritti. Essi sono caratterizzati dalla presenza di deficit della comunicazione sociale e alla restrizione dei comportamenti e degli interessi, che nella ristrutturazione del principale repertorio diagnostico internazionale, il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders-DSM 5 (APA, 2013), compongono i criteri diagnostici di base. Il profilo cognitivo associato al disturbo è caratterizzato da compromissioni delle competenze comunicative, con relativa conservazione delle competenze di elaborazione e memorizzazione visiva (Mirenda & Iacono, 2009). Anche nelle forme a elevata funzionalità cognitiva sono riscontrabili evidenti deficit della comunicazione sociale, nonostante la relativa conservazione delle competenze cognitive e linguistiche (Matson, 2014). I sistemi di Comunicazione Aumentativa e Alternativa (CAA) potrebbero costituire una risposta alle esigenze educative speciali presentate da allievi con Disturbi dello Spettro Autistico (BPS, 2012; ISS, 2011; Beukelman & Mirenda, 2013; Ganz, 2014; 2015). È necessario rilevare come essi non rappresentino uno specifico modello di intervento per il trattamento dei Disturbi dello Spettro Autistico, ma un approccio educativo teso alla moltiplicazione delle opportunità comunicative nei soggetti con difficoltà di produzione e comprensione del linguaggio verbale (Braddock, Hemp & Rizzolo, 2008; Mirenda & Iacono, 2009; Beukelman & Mirenda, 2013; Ganz, 2014; 2015). Il riferimento all’utilizzo dei sistemi di CAA nell’intervento educativo rivolto ad allievi con Disturbi dello Spettro Autistico – adulti e in età evolutiva – è esplicitamente suggerito da tutte le principali linee guida nazionali (ISS, 2011) e internazionali (SIGN, 2007). Anche il primo sistema di linee guida per l’intervento educativo rivolto a soggetti adulti con Disturbi dello Spettro Autistico (BPS, 2012) considera determinante il riferimento ai sistemi. Il dato è riconducibile alla corrispondenza dei sistemi di CAA con canali preferenziali di apprendimento tipici dell’allievo con ASD: l’utilizzo dello schema visivo rappresenta la modalità maggiormente conservata nel profilo cognitivo associato al disturbo, e i sistemi di CAA risultano fondati proprio sui processi di elaborazione visiva (Mirenda & Iacono, 2009; Cottini, 2011). Anche i punti di debolezza del profilo cognitivo, quali quelli rappresentati dai deficit di elaborazione in sequenza, di orientamento spaziale e temporale e dai deficit comunicativi presentano punti di corrispondenza con le opportunità educative dei sistemi di CAA (Sigafoos et al., 2011; Ganz et al., 2011; 2012; Lequia, Machalicek & Rispoli, 2012; Flynn & Healy, 2012; Beukelman & Mirenda, 2013; Cockerill et al., 2014). Le difficoltà di comprensione e di elaborazione delle sequenze di istruzioni, sono frequentemente riscontabili nei Disturbi dello Spettro Autistico a bassa funzionalità cognitiva, determinano la focalizzazione dell’attenzione su dettagli irrilevanti. Essa rappresenta un ostacolo all’apprendimento delle sequenze di istruzioni indispensabili per l’acquisizione delle capacità di autonomia personale (Schreibman, 2005; Ingersoll & Schreibman, 2006; Sigafoos et al., 2011; Beukelman & Mirenda, 2013). I sistemi di CAA permettono di variare la complessità della sequenza di apprendimento attraverso la scomposizione delle sequenze di istruzioni in step simbolici sui quali può focalizzarsi l’apprendimento. Summer School Bressanone – Prima parte


La possibilità di avanzare richieste agli interlocutori attraverso la presentazione o l’indicazione dei simboli da parte dell’allievo favorisce lo sviluppo delle competenze di comunicazione funzionale (Cockerill et al., 2014). Il presente contributo si inserisce nella prospettiva di studi tesi alla validazione dell’utilizzo dei sistemi di Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA) nei soggetti con Disturbi dello Spettro Autistico (Ganz et al., 2011; 2012; Ganz, 2015). In particolare, lo studio è orientato allo sviluppo di un training di CAA rivolto a soggetti adulti con bassa funzionalità cognitiva. La motivazione della focalizzazione dello studio su partecipanti in età adulta è fondata sulla carenza di studi su tale fase del ciclo di vita, a fronte dei numerosi dati riconducibili ad allievi in età prescolare e scolare (Bishop-Fitzpatrick et al., 2014; Ganz, 2015). La popolazione adulta con alterazioni dello Spettro Autistico è infatti destinata ad aumentare, sia a causa dell’aumento dell’incidenza dei disturbi (CDCP, 2014), sia a causa del prolungamento dell’aspettativa di vita, attualmente paragonabile a quello dello sviluppo tipico (Taylor et al., 2012; Cockerill et al., 2014; Ganz, 2014; 2015). Queste motivazioni inducono alla considerazione dell’opportunità di sviluppo di training strutturati di CAA rivolti a soggetti adulti con bassa funzionalità cognitiva, tesi al miglioramento delle competenze comunicative e allo sviluppo di comportamenti adattivi. Per questi motivi è stato realizzato un modello di training strutturato specificamente rivolto a soggetti adulti con Disturbi dello Spettro Autistico a bassa funzionalità cognitiva, applicato su un campione di 8 partecipanti (Età media 33.31 anni) ospiti di un centro diurno semiresidenziale della città di Firenze dal Gennaio 2015 al Giugno 2016.

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1. Descrizione del training

Il training è stato condotto per la durata di un anno a cadenza bisettimanale in sessioni di apprendimento individuale di 1 ora per ogni partecipante. Il training è stato individualizzato in base al profilo cognitivo e sociale di ogni partecipante, e si componeva di una struttura di base (Mirenda & Iacono, 2009; Sigafoos, Schlosser & Sutherland, 2011; Stasolla et al., 2012) sulla quale sono state effettuate variazioni in funzione delle necessità educative e comunicative specifiche di ogni partecipante. La struttura di base era costituita dai principali simboli relativi alle attività quotidiane del partecipante, allo scopo di favorire la composizione di un’agenda per la comprensione della routine quotidiana. I simboli utilizzati erano quelli relativi al set PCS della Mayer Johnson, integrati con foto del partecipante, degli educatori, dei suoi familiari e dei compagni preferiti. La versione utilizzata per il training era quella senza tecnologia (Hourcade, Pilotte, West & Parette, 2004; Mirenda & Iacono, 2009; Beukelman & Mirenda, 2013), composta da tabelle comunicative cartacee supporti a inserti di velcro sui quali potevano essere applicate stringhe comunicative di complessità variabile. In analogia al sistema PECS (Bondy, 2012), il set dei simboli era conservato in un apposito album raccoglitore con taschine. L’introduzione di nuovi simboli era effettuata solo se l’operatore era sicuro della loro comprensione, allo scopo di evitare lo sviluppo di sensazioni di disorientamento nei partecipanti (Mirenda & Iacono, 2009; Sigafoos, Schlosser & Sutherland, 2011; Beukelman & Mirenda, 2013). Nella fase iniziale le attività proposte si focalizzavano sulla descrizione di anno V | n. 1 | 2017

SAVERIO FONTANI


eventi quotidiani attraverso i simboli e sull’invito a formulare richieste all’operatore e ai compagni attraverso la presentazione di tabelle comunicative (Sigafoos, Schlosser & Sutherland, 2011; Stasolla et al., 2012; Ganz, 2014). In seguito erano promosse attività di riassunti simbolici, nei quali il partecipante era invitato a riassumere eventi specifici della routine quotidiana attraverso i simboli sotto (Hourcade, Pilotte, West & Parette, 2004; Sigafoos, Schlosser & Sutherland, 2011). Solo dopo lo sviluppo delle competenze di selezione dei simboli adeguati per la costruzione del riassunto erano introdotti nuovi simboli per descrivere aspetti specifici dell’ambiente comunicativo e sociale, allo scopo di realizzare processi di arricchimento guidato; la presentazione ed il riconoscimento di nuovi simboli per descrivere le caratteristiche fisiche dell’ambiente o le caratteristiche sociali dei compagni rappresentano esempi di tali processi.

2. Metodi e strumenti

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Il metodo prescelto per la verifica dell’efficacia del training è quello fondato sul confronto tra due gruppi ad assegnazione randomizzata (Cottini & Morganti, 2015). Il confronto tra le prestazioni dei componenti del Gruppo di Controllo e del Gruppo Sperimentale prima e dopo l’introduzione della variabile indipendente permette la valutazione dell’efficacia del training (Barlow, Nock & Hersen, 2009; Parker, 2009). I partecipanti del Gruppo Sperimentale erano sottoposti al training in un ambiente del centro educativo, mentre quelli del Gruppo di Controllo seguivano la normale attività educativa quotidiana. L’assegnazione ai gruppi era randomizzata in base a sorteggio. Entrambi i gruppi sono stati sottoposti alla valutazione delle competenze adattive e sociali per la rilevazione della baseline prima dell’inizio del training (Fase A1), immediatamente dopo il suo termine (Fase B) e a 6 mesi dalla conclusione (Fase A2). L’ipotesi sperimentale prevede che l’implementazione di un training di Comunicazione Aumentativa Alternativa determini un significativo miglioramento delle competenze comunicative e adattive dei partecipanti; l’ipotesi nulla precede invece l’assenza di variazioni del Gruppo Sperimentale rispetto alla baseline ed al confronto con le prestazioni del Gruppo di Controllo. Lo strumento utilizzato per la valutazione delle competenze adattive e sociali dei partecipanti era costituito dalle Scale Adattive Vineland (Vineland Adaptive Behavior Scales – VABS, Sparrow, Balla & Cicchetti, 1984; adattamento italiano di Balboni & Pedrabissi, 2003). Lo strumento si compone di interviste strutturate condotte con gli educatori che hanno la possibilità di osservare quotidianamente il comportamento del partecipante. Le Scale VABS si fondano su un’intervista generale (297 item) e su una di approfondimento (577 item). Le Scale permettono la valutazione obiettiva delle competenze sociali e adattive, e rappresentano lo strumento più utilizzato nella ricerca per l’intervento nei Disturbi dello Spettro Autistico. Le aree di indagine delle VABS sono divise in 4 Scale: Comunicazione, Attività Quotidiane, Socializzazione e Abilità Motorie. Ogni Scala è divisa in tre sottoscale, ad eccezione della Scala di Abilità Motorie, per un totale di 9 Sottoscale. La Sottoscala delle Abilità Motorie non viene generalmente somministrata all’adulto (Sparrow, Balla & Cicchetti, 1984), ed in base a tale motivazione essa non è stata Summer School Bressanone – Prima parte


utilizzata nel presente studio. In seguito alla conversione dei punteggi grezzi nel punteggio QI di Deviazione, le Scale presentano una Media di 100 punti e una Deviazione Standard di 15 punti. Gli educatori di riferimento sono stati sottoposti alla somministrazione delle scale VABS per ogni partecipante del Gruppo Sperimentale e del gruppo di Controllo nelle varie fasi dello studio. Le Scale di Base, le sottoscale ed i criteri per l’attribuzione dei punteggi sono riassunti nella Tab. 1. Scala della Comunicazione. Valutazione delle abilità linguistiche, di comprensione del linguaggio e delle capacità di vocabolario. Sottoscale: Ricezione – Espressione – Scrittura.

Scala delle Abilità Quotidiane. Valutazione dei comportamenti a scuola, dell’autonomia, e dell’igiene personale. Sottoscale: Personale – Domestico – Comunità.

Scala della Socializzazione. Valutazione dei comportamenti sociali, delle capacità di gioco sociale e della comprensione delle regole sociali. Sottoscale: Relazioni – Gioco Sociale – Regole Sociali.

Criteri per l’attribuzione del punteggio:

Si adatta in modo soddisfacente e continuativo. Si adatta ma solo occasionalmente Le attività non sono svolte, o sono presenti solo in forma iniziale. N Non è in grado di eseguire l’attività.

Tab. 1. Scale, sottoscale e criteri per l’attribuzione dei punteggi delle Scale VABS Adattato da Sparrow, Balla & Cicchetti (1984)

3. Disegno sperimentale

Il disegno sperimentale utilizzato è del tipo A-B-A, nel quale la verifica si fonda su tre fasi: misurazione del funzionamento di baseline (A1), introduzione della variabile indipendente (B) e fase di inversione con ritiro del trattamento (A2). Rispetto al disegno A-B, quello A-B-A permette la limitazione dell’incidenza dei fattori storici; le variazioni dalla baseline, in altri termini, potrebbero essere attribuite alla maturazione del partecipante o alla diffusione di conoscenze sul training o comunque a fattori estranei all’intervento (Barlow, Nock & Hersen, 2009; Matson, 2014; Cottini & Morganti, 2015). Le fasi del disegno A-B-A sono riportate nella Tab. 2.

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Fase A1. Misurazione livello baseline

Fase B. Introduzione variabile indipendente e misurazione di post-training

Fase A2. Inversione: ritiro variabile indipendente e misurazione di follow up Tab. 2. Fasi del disegno sperimentale A-B-A. Adattato da Barlow, Nock & Hersen (2009)

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Nel presente studio, la fase A1 corrisponde alla misurazione del livello di baseline di tutti i partecipanti attraverso la somministrazione delle Scale VABS. Nella Fase B le Scale sono state nuovamente somministrate agli educatori al termine del training annuale di CAA, allo scopo di valutare gli effetti dell’introduzione della variabile indipendente nel gruppo sperimentale. Variazioni significative in relazione ai livelli di baseline e alle prestazioni del gruppo di Controllo potrebbero indicare l’efficacia degli effetti del training nella promozione di competenze adattive e sociali. Nella Fase A2, corrispondente alla fase di inversione con ritiro della variabile indipendente, è stata ripetuta la somministrazione delle scale VABS in relazioni a tutti i partecipanti dopo 6 mesi dal termine del training. Gli eventuali effetti di regressione verso la baseline e la riduzione delle differenze tra le prestazioni del gruppo Sperimentale e quello di Controllo potrebbero indicare che i cambiamenti della Fase B erano effettivamente attribuibili al training di CAA e non a fattori esterni all’intervento educativo condotto (Barlow, Nock & Hersen, 2009).

4. Criteri inclusivi e costruzione del campione

I criteri inclusivi per la partecipazione allo studio sono motivati dalla necessità di composizione di campioni omogenei, allo scopo di verificare gli effetti del training su partecipanti a bassa funzionalità cognitiva. I soggetti adulti con ASD di livello 3 rappresentano infatti la popolazione che necessita maggiormente di interventi di CAA, se viene considerata la marcata compromissione delle loro competenze adattive e comunicative (Bishop-Fitzpatrick et al., 2014; Cockerill et al., 2014; Ganz, 2015; Ninci et al., 2015). Analogamente, il criterio inclusivo relativo all’assenza di esperienze di precedenti interventi di CAA ha permesso la valutazione di campioni omogenei sul piano delle precedenti conoscenze sui sistemi. I criteri di inclusione per la partecipazione allo studio sono riassunti nella Tab. 3.

Summer School Bressanone – Prima parte


Età superiore ai 18 anni

Diagnosi di ASD a basso livello di funzionalità cognitiva (Livello 3 del DSM-5).

Quoziente Intellettivo inferiore a 50 punti.

Assenza di precedenti esperienze di utilizzo dei sistemi di CAA. Ospiti del centro semiresidenziale da più di 4 anni.

Tab. 3. Criteri di inclusione per la partecipazione allo studio

In base ai criteri di inclusione indicati sono stati inizialmente selezionati 14 potenziali partecipanti con diagnosi di Disturbi dello Spettro Autistico di Livello 3 secondo il DSM-5 (APA, 2013). Tutti i partecipanti sono stati sottoposti a valutazione della corrispondenza ai criteri inclusivi. In seguito all’analisi delle diagnosi e dei precedenti sistemi di intervento educativo dei quali i partecipanti avevano usufruito, sono stati esclusi dallo studio 6 soggetti. I rimanenti 8 partecipanti sono stati divisi in due gruppi, uno Sperimentale e uno di Controllo, attraverso procedure di assegnazione randomizzata effettuata con sorteggio su computer. La composizione dei due gruppi è riassunta nella tab. 4. Partecipanti N Età Genere Diagnosi Esperienze di CAA ____________________________________________________________________________

Sperimentale A B C D

Controllo A B C D

Totale Età Media

4

4

8

34,30 33,70 24,80 39,40

M M M M

ASD Livello 3 ASD Livello 3 ASD Livello 3 ASD Livello 3

Nessuna Nessuna Nessuna Nessuna

23,30 36,10 35,60 39,30

M M M M

ASD Livello 3 ASD Livello 3 ASD Livello 3 ASD Livello 3

Nessuna Nessuna Nessuna Nessuna

33,31

Tab. 4. Composizione del campione

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5. Analisi dei punteggi nelle tre rilevazioni

Tutti i punteggi grezzi ottenuti sono stati convertiti nei corrispondenti punteggi QI di Deviazione, con Media di 100 e Deviazione Standard di 15. I punteggi QI di Deviazione permettono il confronto con la media normativa dei soggetti del campione di riferimento. In questo caso il campione normativo è quello dei soggetti adulti con disabilità che vivono in famiglia (Sparrow, Balla & Cicchetti, 1984). Vengono di seguito presentate le variazioni dei punteggi QI di Deviazione nelle tre fasi di rilevazione relativamente alle scale di base dei due gruppi.

Fase A1. L’analisi dei livelli di funzionamento di base registrati nella fase A1 evidenzia una sostanziale omogeneità tra le competenze dei due gruppi. Nella Tab. 5 sono presentati i punteggi delle Scale di Base VABS dei due gruppi.

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Scale Comunicazione Abilità Quotidiane Socializzazione ____________________________________________________________________________ Gr. Controllo A 90 89 98 B 103 104 98 C 94 96 100 D 101 78 Media 94.50 97.50 93.50 Gr. Sperimentale A 105 100 90 B 111 101 101 C 86 97 84 D 88 93 91 Media 96.50 97.75 91.50

Tab. 5. Fase A1. Baseline Scale di Base Gruppi Controllo e Sperimentale

I partecipanti di entrambi i gruppi presentano punteggi complessivi medi relativamente elevati nella Scala delle Abilità Quotidiane (97.50 Controllo versus. 97.75 Sperimentale) rispetto alla media del campione normativo (100). Punteggi inferiori alla media sono invece rilevabili nelle Scale di Socializzazione (93.50 Controllo versus. 91.50 Sperimentale) e di Comunicazione (94.50 Controllo versus 96.50 Sperimentale). I dati di baseline riflettono le competenze relativamente avanzate dei partecipanti nell’ambito dell’autonomia di base (ad esempio vestirsi, svestirsi, preparare tavolo per refezione) e dell’igiene personale. Queste abilità sono relativamente conservate nei partecipanti; il dato non sorprende poiché l’attività quotidiana del Centro si fonda sulla ripetizione quotidiana di tali routines, e tutti i partecipanti ne sono ospiti da più di 4 anni. Punteggi complessivi inferiori alla media del campione normativo sono invece osservabili nella Scala di Comunicazione (94.50 Controllo vs. 96.50 Sperimentale), che misura le competenze di produzione e comprensione linguistica e di vocabolario. I dati risultano in linea con le forme di ASD a bassa funzionalità cognitiva. I punteggi complessivi medi della Scala di Socializzazione risultano quelli più bassi tra le scale (93.50 Controllo vs. 91.50 Sperimentale), e denotano la compromissione sia delle competenze di gioco sociale, sia della comprensione delle regole Summer School Bressanone – Prima parte


sociali. Anche questi dati corrispondono al tipico profilo cognitivo e sociale associato alle forme con bassa funzionalità cognitiva. I punteggi medi complessivi dei due gruppi sono quindi situati sotto la media del campione normativo, e si configurano in linea con le competenze cognitive e sociali tipiche dei soggetti adulti con Disturbi dello Spettro Autistico a bassa funzionalità cognitiva.

Fase B. L’analisi delle competenze rilevate attraverso la somministrazione delle Scale VABS al termine del training annuale di CAA ha permesso la rilevazione di differenze significative tra il Gruppo di Controllo e quello Sperimentale. L’analisi dei valori ottenuti evidenzia infatti significativi innalzamenti dei punteggi di tutti i partecipanti del Gruppo Sperimentale, sia in base al confronto con i valori del Gruppo di Controllo, sia in base al confronto con i valori dello stesso gruppo sperimentale nella fase A1. Le differenze possono essere apprezzate dall’analisi della Tab. 6, nella quale sono presentati i punteggi medi complessivi delle Scale di base delle VABS. Scale Comunicazione Abilità quotidiane Socializzazione ____________________________________________________________________________ Gr. Controllo A 92 95 95 B 105 106 98 C 95 99 101 D 93 99 83 Media 96.25 99.75 94.25 Gr. Sperimentale A 123 110 123 B 131 113 138 C 98 111 136 D 119 107 140 Media 117.75 110.25 134.25

Tab. 6. Fase B. Post-training Scale Base Gruppi Controllo e Sperimentale

Il dato risulta particolarmente evidente nella sottoscala di Socializzazione, nella quale il punteggio medio complessivo nella fase B è di 134, a fronte di un punteggio medio complessivo di 91.50 nella baseline. Considerazioni analoghe possono essere espresse in relazione all’incremento dei punteggi medi complessivi della Scala di Comunicazione (117.75), che risultano significativamente incrementati sia rispetto al Gruppo di Controllo nella fase B (96.25), sia rispetto al punteggio medio complessivo dello stesso Gruppo Sperimentale nella Fase A1 (96.50). Analogamente, anche il punteggio medio complessivo della Scala delle Abilità Quotidiane (110.25) presenta incrementi a favore del Gruppo Sperimentale in rapporto ai punteggi medi del Gruppo di Controllo nella fase B (99.75) e al punteggio dello stesso Gruppo Sperimentale nella Fase A1 (97.75).

Fase A2. A sei mesi dalla conclusione del training, le Scale VABS sono state nuovamente somministrate agli educatori. In questa fase, che corrisponde a quella di inversione con ritiro della variabile indipendente, sono attesi fenomeni di regressione verso la media da parte del gruppo sperimentale, in seguito alla

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progressiva attenuazione degli effetti del training. Il dato potrebbe confermare che gli incrementi ottenuti nei punteggi da parte del Gruppo Sperimentale sono attribuibili agli effetti del training di CAA, e non a fattori maturativi o a variabili esterne all’intervento educativo. I punteggi medi delle Scale di Base sono riassunti nella Tab. 7. Scale Comunicazione Abilità quotidiane Socializzazione ____________________________________________________________________________ Gruppo Controllo A 90 88 86 B 102 102 91 C 92 93 99 D 89 90 87 Media 93.25 93.25 90.75 Gruppo Sperimentale A 108 109 102 B 116 109 109 C 91 102 106 D 105 98 106 Media 105 104.50 105.75

Tab. 7. Fase A2. Follow-up Scale Base Gruppi Controllo e Sperimentale

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L’effetto di regressione verso la media è stato registrato in tutte le Scale anche se, a distanza di 6 mesi dal ritiro della variabile indipendente, permangono differenze a favore del gruppo Sperimentale, verosimilmente attribuibili al mantenimento delle competenze acquisite durante il training da parte di alcuni soggetti. Il mantenimento delle competenze apprese durante il training potrebbe comunque rappresentare un auspicabile effetto di generalizzazione. L’effetto regressivo risulta particolarmente evidente nella Scala di Socializzazione, nella quale il punteggio medio complessivo delle tre Sottoscale del gruppo Sperimentale è calato da 134.25 a 105.75. Analoghi effetti regressivi, anche se di entità più modesta, sono osservabili nel punteggio medio complessivo della Sottoscala di Comunicazione, diminuito da 117.75 a 105. Gli effetti regressivi sono meno osservabili nella Scala delle Abilità Quotidiane, ma devono essere ricordati i punteggi di baseline relativamente elevati nella fase A1. I dati rilevati in A2 sembrano quindi deporre a favore di un significativo effetto del ritiro del training di CAA sulle competenze sociali e comunicative dei partecipanti allo studio.

6. Analisi dei dati

Ai fini della verifica della significatività dei risultati ottenuti sono stati utilizzati test statistici di ordine non parametrico, che permettono la verifica delle significatività delle differenze in base al confronto tra i ranghi medi, a differenza dei test parametrici che sono invece basati invece su indicatori di tendenza centrale di tipo metrico (Barlow, Nock & Hersen, 2009). La scelta è stata motivata dalla

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bassa numerosità del campione, che risulta comunque in linea ai campioni presenti nella letteratura; è necessario ricordare che la maggior parte degli studi sul tema si fonda sull’analisi di singoli casi, mentre i confronti randomizzati sono ancora relativamente rari, sia negli studi sull’efficacia della CAA (Ganz et al., 2011; 2012), sia nella letteratura relativa agli interventi educativi condotti su adulti (Bishop-Fitzpatrick, Minshew, & Eack, 2013; Magiati, Tay & Howlin, 2014; Ninci et al., 2015). Il confronto tra i ranghi per le tre rilevazioni è stato condotto sulle tre scale di base e sulle nove sottoscale delle VABS mediante il Test non parametrico di Friedman, attraverso il quale sono possibili confronti tra i Ranghi Medi (RM) dei punteggi in un disegno a misure non ripetute condotte sugli stessi soggetti (Barlow, Nock & Hersen, 2009; Parker, 2009). Il Test di Friedman è stato utilizzato per verificare la presenza di differenze significative tra i ranghi medi dei punteggi di ogni gruppo, allo scopo di evidenziare le variazioni nelle prestazioni in ogni gruppo nelle tre rilevazioni di pre-test A1, di post-test B e di follow-up A2. Nella Tab. 8 sono riportati i risultati riguardanti il confronto fra le tre rilevazioni, effettuati per ogni Sottoscala della VABS, mediante il Test di Friedman. Nel Gruppo di Controllo non sono state registrate variazioni significative dei Ranghi medi (RM) tra le prestazioni dei soggetti in tutte le tre condizioni A1, B e A2. L’unica eccezione è rappresentata dalla sottoscala di Espressione [Friedman (2) = 6.00, p < .05], nella quale è presente un punteggio significativamente maggiore al pre-test rispetto al post-test (p < .05). I dati indicano una sostanziale omogeneità delle prestazioni del Gruppo di Controllo nelle tre rilevazioni, ad eccezione di un peggioramento delle competenze espressive. Il dato potrebbe testimoniare come le competenze espressive dei soggetti adulti siano soggette a significativi decrementi (Magiati, Tay & Howlin, 2014). Scala RM pre-Test RM post-Test RM follow-Up Friedman-test p ____________________________________________________________________________ Ricezione 2.00 2.12 1.88 14 n. s. Espressione 2.75 1.00 2.25 6.50 .039 Scrittura 2.00 1.88 2.12 .13 n. s. Personale 2.62 1.62 1.75 2.71 n. s. Domestico 2.12 1.88 2.00 .14 n. s. Comunità 2.25 2.25 1.50 1.71 n. s. Relazioni 2.50 1.62 1.88 1.73 n. s. Gioco 2.38 1.50 2.12 1.86 n. s Reg. Sociali 1.62 1.50 2.88 4.93 n. s.

Tab. 8. Gruppo di Controllo. Confronto fra ranghi per le 3 rilevazioni (pre-test, post-test e follow-up) per ogni sottoscala delle VABS con il Test non parametrico di Friedman. RM= Rango Medio. I valori in grassetto indicano punteggi significativi per p < .05

Nella Tab. 9 sono invece riportati i dati relativi alle variazioni dei ranghi medi del Gruppo Sperimentale nelle tre rilevazioni. Nel Gruppo Sperimentale tutte le sottoscale presentano un aumento nella rilevazione al post-test B. Le differenze maggiormente significative sono state rilevate nelle sottoscale di Espressione [Friedman (2) = 6.50, p < .05], di Scrittura [Friedman (2) = 6.33, p < .05], di Gioco [Friedman (2) = 6.50, p < .05] e delle Regole Sociali. [Friedman (2) = 6.53, p < .05]. anno V | n. 1 | 2017

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Nelle altre Sottoscale i punteggi, sebbene non significativi, risultano aumentati nella rilevazione della Fase B, configurandosi ai limiti della significatività per p < .05 nelle sottoscale Ricezione, Domestico e Comunità [Friedman (2) = 6.00]. Scala RM Pre-test RM Post-Test RM Follow-Up Friedman test p ____________________________________________________________________________ Ricezione Espressione Scrittura Personale Domestico Comunità Relazioni Gioco Sociale Regole Sociali

1.50 1.25 1.62 1.50 1.50 1.50 1.62 1.25 1.38

3.00 3.00 3.00 2.50 3.00 3.00 2.88 3.00 3.00

1.50 1.75 1.38 2.00 1.50 1.50 1.50 1.75 1.62

6.00 6.50 6.53 2.67 6.00 6.00 4.93 6.50 6.53

n. s. .039 .038 n. s. n. s. n. s. n. s. .039 .038

Tab. 9. Gruppo Sperimentale. Confronto fra ranghi per le tre rilevazioni (pre-test, post-test e follow-up) per ogni sottoscala delle VABS con il Test non parametrico di Friedman. RM= Rango Medio. I valori in grassetto indicano punteggi significativi per p < .05

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I confronti tra i ranghi medi confermano l’effetto del training di CAA in relazione al miglioramento globale delle Scale Base di Comunicazione, Socializzazione e Abilità Quotidiane. In particolare, risultano significativi gli incrementi delle competenze espressive e di quelle di gioco sociale, che rappresentano competenze notoriamente deficitarie nel disturbo. Risultano presenti anche significativi miglioramenti delle competenze indispensabili per il rispetto delle regole sociali, che rappresentano un punto di marcata debolezza nel profilo sociale associato al disturbo. Deve essere inoltre considerato il relativo gradiente di generalizzazione delle competenze apprese: a 6 mesi dal termine dell’intervento di training, di CAA sono ancora presenti differenze significative tra la fase di pre-test e quella di Follow-up. Sia nelle sottoscale di Espressione, sia in quelle di Gioco Sociale il rango medio al post-test è maggiore rispetto a quello del pre-test (p < .05). Nelle sottoscale di Scrittura e di Regole Sociali, infine, il rango medio al post-test è maggiore rispetto a quello al follow-up (p < .05).

7. Discussione dei risultati e limiti dello studio

Il costante pattern di innalzamento in B e di regressione in A2 dei punteggi del Gruppo Sperimentale in relazione a tutte le sottoscale delle VABS potrebbe indicare l’efficacia del training di CAA nell’incremento delle competenze sociali e adattive. Nonostante quasi tutte le sottoscale presentino punteggi vicini alla significatività per p < .05, quelli di maggiore rilevanza sono stati registrati nelle sottoscale Espressione (p= .039), Scrittura (p= .038), Gioco (p = .039) e Regole Sociali (p= .038). Tali variazioni implicano incrementi nelle competenze adattive del Gruppo Sperimentale nelle Scale di base delle VABS, e particolarmente nelle

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sottoscale di Abilità Quotidiane e Socializzazione. In seguito al ritiro della variabile training i punteggi delle sottoscale sono significativamente diminuiti, anche se in alcuni casi è registrabile la tendenza alla conservazione delle competenze acquisite. Questa tendenza potrebbe indurre a ipotizzare la presenza di effetti di consolidamento delle capacità apprese (Flynn & Healy, 2012). Per la validazione di ipotesi di questo ordine risulta comunque indispensabile l’utilizzo di un disegno a trattamenti ripetuti A-B-A-B, nel quale si alternano fasi di ritiro e di reintroduzione della variabile indipendente. I risultati ottenuti permettono quindi di accettare l’ipotesi sperimentale, in base alla quale la partecipazione ad un training strutturato di CAA determina miglioramenti significativi nelle competenze adattive del soggetto. Devono tuttavia essere considerate le limitazioni del presente studio. Un primo limite dello studio è quello riconducibile ai piani etici. La presenza di un gruppo di controllo randomizzato che non viene sottoposto al training esercita effetti positivi sulla validità della ricerca, ma priva i suoi componenti delle opportunità offerte dagli interventi psicoeducativi condotti sul solo gruppo sperimentale (Cottini, 2011; Matson, 2014; Cottini & Morganti, 2015). Devono essere evidenziate anche le fonti di minaccia alla validità della ricerca che provengono dall’apprendimento eventualmente conseguito dal soggetto durante l’intervento. (Barlow, Nock & Hersen, 2009; Cottini, 2011). Nella fase di inversione del trattamento, ad esempio, possono permanere modificazioni stabili del comportamento. Tali modificazioni, sebbene auspicabili dal punto di vista educativo, rendono maggiormente difficoltosa la ricerca della relazione tra l’intervento condotto e i cambiamenti nei comportamenti adattivi dei partecipanti. La scarsa numerosità del campione coinvolto nello studio potrebbe rappresentare un ulteriore limite alla validità dello studio. Deve tuttavia essere ricordato come la maggiore quota degli studi sui soggetti con Disturbi dello Spettro Autistico sia condotta su singoli casi, attraverso la misurazione degli effetti di un training sullo stesso soggetto con modalità A-B-A o A-B-A-B (Flynn & Healy, 2012; Cockerill et al., 2014; Ninci et al., 2015). Non sono molti, nella letteratura internazionale, gli studi condotti su partecipanti con assegnazione randomizzata al gruppo di controllo e a quello sperimentale, come risulta dalle meta-analisi precedentemente illustrate (Ganz et al., 2011; Bishop-Fitzpatrick et al., 2014; Ninci et al., 2015). Nonostante le limitazioni indicate, il presente studio potrebbe presentare implicazioni per l’intervento educativo orientato verso lo sviluppo delle competenze adattive ed il conseguente miglioramento della Qualità della Vita negli adulti con Disturbi dello Spettro Autistico a bassa funzionalità cognitiva (Guldberg et al., 2011; Levy & Perry, 2011; Anagnostou et al., 2014). I miglioramenti nelle competenze di autonomia personale e domestica, evidenziati anche nel presente studio, potrebbero rappresentare tendenze adattive stimolate dall’utilizzo dei sistemi di CAA, utilizzabili con profitto per la realizzazione dei percorsi di inclusione sociale (d’Alonzo e Caldin, 2012) rivolti a giovani adulti con bassa funzionalità cognitiva.

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Il valore del ben-essere educativo. Una ricerca esplorativa sulle aspirazioni al ben-essere per studenti e docenti

Key-words: well-being, learning, aspirations, happiness, inclusive education

Summer School Bressanone

Italian Journal of Special Education for Inclusion

anno V | n. 1 | 2017

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Today, more than ever, education is entrusted with the task of striving to create a harmonious development in individuals, focusing in particular on their well-being. Promoting well-being at school can be seen as an active, collaborative process, in which the relationship between individuals and their environment is constantly built and modified. Starting from these premises, it was explored childrens’ views of well-being, relating them to learning processes and environment, as well as aspirations to teachers’ well-being. Research questions focused on: Why should education have one of its ends well-being of its students? Is it possible to think that learning and well-being are connected? If so, how? Can we promote learning environments that can nurture the well-being of children and teachers? One of the emerging issues (UNICEF, 2007, Clift and Jensen, 2005) is the sense of belonging to the students (and teachers) at school and perceived it as a community with the prerogative of supporting children and teachers in the expression of one’s own agency towards its own well-becoming, well-being and flourishing life (ICF-CY, 2007, Pollard & Lee, 2003). Valuing functionings (in terms of beings and doings; Sen, 1999) could lead to identifying positive dimensions of well-being that allow children and teachers to flourish and prosper.

abstract

Elisabetta Ghedin (Università degli Studi di Padova / elisabetta.ghedin@unipd.it)

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Premesse della ricerca

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Sebbene siano molte le ricerche e le riflessioni sul ben-essere (Deneulin, 2014; Devine, 2008), ed esso spesso sia definito anche in termini sinonimi come felicità, vita fiorente, eudaimonía (Diener, 2009; Haidt, 2008; Kahneman et al., 1999; Nussbaum e Sen, 1993; Ryan e Deci, 2001; Sen, 1980; Tatarkiewicz, 1985) la visione che più ci sembra di condividere è quella che considera il ben-essere legato allo sviluppo olistico dell’individuo, come essere umano, come membro della società, come abitante del pianeta. In questo panorama il ben-essere viene definito come la realizzazione del proprio potenziale fisico, emotivo, mentale, sociale e spirituale ispirato da un impegno armonioso in sintonia con se stesso, la famiglia e gli amici, la comunità e il mondo in generale. Il processo di apprendimento diventa quindi “nutrimento” fondamentale per perseguire il ben-essere così inteso e anche valorizzare la qualità degli ambienti in cui viviamo (OCSE, 2007). Chi si occupa o ha la pretesa di occuparsi di scuola dovrebbe sapere che la scuola è un insieme stratificato e complesso, eterogeneo al suo interno (insegnanti, studenti, amministrazioni ripartite nei diversi ordini e tipi di scuola, programmi espliciti per disparate materie e curricoli educativi impliciti), connesso da legami diversi con differenti società, culture, saperi, tradizioni nazionali, dipendenti da orientamenti dei Governi, ma anche da richieste e sollecitazioni implicite o esplicite, spesso contraddittorie, provenienti dall’ambiente in cui le scuole operano (Nussbaum, 2011). Un tema ricorrente in gran parte della letteratura sul ben-essere dei bambini è che l’infanzia e l’adolescenza dovrebbero essere considerate come una tappa di vita. Questo aspetto è fondamentale perché l’infanzia e l’adolescenza sono state tradizionalmente considerate come preparazione per l’età adulta. Certamente, l’infanzia è in parte “ben-diventare” (Bradshaw et al., 2007; Biggeri e Santi, 2012). I bambini e gli adolescenti costruiscono le loro conoscenze, le competenze, i valori e gli atteggiamenti che li sosterranno per tutte le loro vite, e queste fasi della vita hanno conseguenze costitutive nel percorso di crescita. Ma l’apprendimento e il ben-essere sono processi dinamici ugualmente rilevanti in questi periodi. Dalla nascita, i bambini sono titolari di diritti, dignità e rispetto (Ben-Arieh, 2000). Sono pronti e in grado di partecipare alle decisioni che riguardano le loro vite e il loro diritto alla partecipazione. La doppia prospettiva riguardante il ben-diventare e il ben-essere dei bambini, rappresenta un importante cambiamento nel modo di pensare l’agency dei ragazzi e la loro capacità di partecipare. L’esercizio dell’agency è, di per sé, una parte importante del loro processo di apprendimento. Oggi più che mai, all’educazione viene assegnato il compito di impegnarsi a creare uno sviluppo armonico negli individui, mirando in particolar modo al loro ben-essere. Numerose indagini suggeriscono che i giovani che fanno esperienza di un maggior senso di ben-essere olistico sono in grado di: a) apprendere e costruire conoscenze in modi più efficaci; b) impegnarsi in comportamenti sociali sani e soddisfacenti (Blum, McNeely & Rinehart, 2002); c) investire nel proprio ben-essere e nel ben-essere della comunità con particolare sensibilità alla sostenibilità del pianeta (Skevington, Birdthistle & Jones, 2003); d) immaginare il loro impegno sociale, e di leadership in età adulta, nel senso che sono in grado di sviluppare le capability ad aspirare (Zins et al., 2004). In quest’ottica, il ben-essere può essere concepito come la realizzazione del proprio potenziale fisico, emotivo, mentale e spirituale, che mira ad un impegno armonioso tra la propria identità ed Summer School Bressanone - Prima parte


il mondo in cui si è inclusi. Il processo di apprendimento diventa quindi nutrimento fondamentale per perseguire tale ben-essere e per valorizzare la qualità dei contesti di vita (OECD, 2007). La qualità dei processi pedagogici a scuola può essere valutata esaminando in che misura agevolano le condizioni preliminari per l’apprendimento e il ben-essere sia per gli allievi che per gli insegnanti (Butler & Shibaz, 2008; Retelsdorf, Butler, Streblow, & Schiefele, 2010). Tuttavia, il ben-essere percepito dai membri di una comunità scolastica è spesso generato come un sottoprodotto non intenzionale dei processi pedagogici e delle pratiche scolastiche. La letteratura scientifica ha mostrato particolare interesse verso lo studio di atteggiamenti e comportamenti disfunzionali e verso i sintomi di malessere e disagio, tralasciando gli indicatori “positivi” di ben-essere e soddisfazione. Occorre allargare gli orizzonti e individuare pochi, chiari obiettivi: una scuola dove si abbia voglia di andare, accogliente, equa, inclusiva ed efficace sia per chi ha talento sia per chi “arranca”. Una scuola dove lo “star bene” riceve la stessa attenzione dell’apprendimento, dove le competenze sociali ed emozionali sono coltivate fin dalla più tenera età, dove la valutazione delle scuole considera innanzitutto il ben-essere degli allievi, dove una cura particolare è posta nel coinvolgimento dei genitori, dove infine l’organizzazione degli spazi è elemento integrante del curricolo. Oltre ai risultati di apprendimento previsti, i processi pedagogici all’interno delle comunità scolastiche possono generare sentimenti di impegno e di potenziamento di soddisfazione o sensazioni di stress e ansia per i partecipanti degli stessi processi (Boekaerts, 1993; Konu, Lintonen, & Autio, 2002; Krapp, 2005; Tarter & Hoy, 2004; Van Houtte, 2006). La costruzione di un “ben-essere sociopedagogico” per i membri della comunità scolastica può essere intesa come un processo di apprendimento che promuove la collaborazione, la competenza e l’autonomia (Hakanen, Bakker & Schaufeli, 2005; Hakkarainen, Palonen, Paavola, & Lehtinen, 2004; Krapp, 2005; Seligman & Csikszentmihalyi, 2000; Sheldon & King, 2001). Promuovere il ben-essere a scuola può essere visto come un processo attivo, collaborativo e in cui il rapporto tra gli individui e il loro ambiente è costantemente costruito e modificato. A sua volta, il ben-essere sperimentato dai membri della comunità scolastica regola il loro apprendimento in molti modi, ad esempio, può influire sulla capacità di concentrarsi e osservare l’ambiente, di percepire vantaggi, e interpretare le risposte ricevute (Antonovsky, 1987, 1993; Bowen, Richman, Brewster & Bowen, 1998; Kristersson & Öhlund, 2005; Morrison & Clift, 2005; Pallant & Lae, 2002; Torsheim, Aarø e Wold, 2001). La necessità di focalizzare l’attenzione sul contesto della scuola nell’ambito della promozione del ben-essere è oramai ampiamente riconosciuta, anche se generalmente la scuola è vista per lo più come contenitore entro il quale effettuare interventi di prevenzione del disagio e di promozione dello “star bene” piuttosto che come soggetto e attore della promozione del ben-essere.

1. Domande di ricerca

Partendo da queste premesse, si è deciso di esplorare il concetto di ben-essere che i bambini possiedono, mettendolo in relazione ai contesti e ai processi di apprendimento, oltre che all’aspirazione al ben-essere dei docenti. A partire dalle loro opinioni, espresse attraverso la somministrazione di struanno V | n. 1 | 2017

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menti di indagine di tipo qualitativo, l’utilizzo di tecniche narrative, di metodologie ludiche e collaborative, si è cercato di riflettere sul ben-essere a scuola per studenti e docenti. Riassumendo, le domande di ricerca che hanno guidato il percorso sono state: Perché l’educazione dovrebbe avere come uno dei suoi fini il ben-essere dei suoi studenti? È possibile pensare che apprendimento e ben-essere siano connessi? Se si, come? È possibile promuovere ambienti di apprendimento che possano nutrire il ben-essere dei bambini e degli insegnanti ?

2. Metodo di ricerca: partecipanti, strumenti e procedura

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La ricerca si è svolta in due momenti. Il primo momento ha visto il coinvolgimento dei bambini nella primavera del 2016 e successivamente di un gruppo di insegnanti di scuola primaria nell’autunno dello stesso anno. All’indagine hanno partecipato 26 bambini di età compresa tra i 7 e i 10 anni frequentanti le classi seconda e terza primaria e 10 insegnanti di una stessa Scuola Primaria della provincia di Venezia. Il gruppo di bambini coinvolto nella ricerca è composto da 14 maschi e 12 femmine. Tra le bambine si segnala la presenza di una bambina con una certificazione di “lissencefalia legata a crisi di epilessia”. Le insegnanti sono tutte di genere femminile (9 insegnanti curricolari e 1 per il sostegno). Gli strumenti di ricerca utilizzati per analizzare il concetto di ben-essere nei bambini, in particolare la loro idea di felicità, sono il disegno, corpo e le espressioni linguistiche. Le attività sono state strutturate in tre momenti, presentate ai bambini in questo modo: Disegniamo la felicità: l’attività è finalizzata a stimolare l’espressione dell’emozione della felicità tramite la modalità grafica del disegno. Ai bambini viene chiesto di disegnare la loro emozione di felicità. Al termine, i disegni vengono appesi su un cartellone da utilizzare come stimolo per la conversazione in circle time con i bambini. Questi ultimi vengono fatti sedere attorno al cartellone e attraverso una serie di domande stimolo vengono coinvolti in una discussione sulle diverse modalità di espressione della felicità attraverso il disegno (Per esempio: Cosa avete disegnato? Quali colori avete usato di più? Perché avete usato questi colori?). Che faccia ha la felicità, il corpo e la felicità: l’attività proposta è finalizzata a favorire riflessioni e confronti sull’espressione facciale della felicità. Lo scopo è quello di far emergere attraverso la verbalizzazione in grande gruppo, come la felicità sia un’emozione comunicabile agli altri attraverso l’espressione facciale che ha delle precise caratteristiche distintive. Ai bambini viene chiesto a turno di esprimere attraverso il viso l’emozione della felicità. Ognuno viene fotografato in modo da avere del materiale che può essere usato in seguito per l’attività di comprensione e di sintesi finale. I bambini vengono disposti in cerchio e coinvolti in una conversazione sull’esperienza effettuata. Attraverso domande stimolo, sono chiamati a verbalizzare le loro impressioni rispetto all’attività svolta. (Domande stimolo: quando vi capita di provare felicità, che faccia fate? Da che cosa capite che un vostro compagno è felice?). La seconda parte dell’attività è finalizzata a stimolare l’espressione dell’emozione della felicità attraverso il corpo. Ai bambini viene chiesto di provare ad esprimere l’emozione della felicità attraverso il corpo ed ognuno viene fotogra-

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fato e ripreso. In seguito, attraverso una serie di domande stimolo si invita i bambini a riflettere sull’esperienza svolta. (Domande stimolo: quando vi capita di provare felicità, cosa succede al vostro corpo? Quando vi ho chiesto di esprimere la felicità con il corpo voi cosa avete fatto? Quando provate felicità, tendete a stare fermi o a muovervi?). Le parole della felicità: l’attività proposta è finalizzata a stimolare l’espressione dell’emozione di felicità attraverso l’uso di espressioni verbali ed arricchire il lessico emotivo. A ciascun bambino viene chiesto di esprimere l’emozione della felicità tramite le parole. L’adulto utilizza alcune domande stimolo per favorire la conversazione in grande gruppo in merito alle espressioni emerse e al loro significato. (Domande stimolo: quando siete felici che tipo di parole usate? Quanti modi conoscete per esprimere la felicità con le parole?). Per quanto riguarda il coinvolgimento degli insegnanti, si è deciso di prevedere un’intervista semi strutturata1. L’intervista mira ad analizzare due temi: lo sviluppo della professione docente e lo sviluppo della comunità scolastica in cui si realizza il ben-essere delle persone. Lo studio si focalizza sull’esplorazione di quelle situazioni che gli insegnanti coinvolti percepiscono come significative per il loro ben-essere nei contesti scolastici. In totale l’intervista contiene 10 domande su differenti aspetti della professione docente. Ciascuna intervista prevedeva un tempo di realizzazione tra i 40 e i 60 min. Le interviste sono state audioregistrate e decodificate in file di testo2.

3. Analisi dei dati

L’analisi dei dati fa riferimento alle verbalizzazioni da parte di studenti e insegnanti e si concretizza in un’analisi del contenuto (content analysis, Cohen e Manion, 2007) a partire dalle categorie individuate che possono essere considerate significative per il ben-essere a scuola (tab. 1). Alla fine di questa fase le categorie e i dati collegati sono stati intrecciati con lo School Well-being Model3 redatto da Konu e Rimpelä (2002) e con il Teacher’s Professional Landscape Inventory4 (TPLI). Inoltre si sono considerati gli indicatori per lo sviluppo del ben-essere dei bambini redatti dal centro di Ricerca Innocenti dell’Unicef (2009)5 e l’Oxford Happiness Question-

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L’intervista proposta alle docenti si richiama al Teacher’s Professional Landscape Inventory (TPLI) in the context of school development (Soini, Pyhältöb, Pietarinenc, 2010). La raccolta dai e la decodifica degli stessi è stata eseguita dalla dott.ssa Anna Camporese, Laureata in Scienze della Formazione Primaria. Il ben-essere è stato considerato in riferimento a: condizioni della scuola (having), relazioni sociali (loving), mezzi per l’autorealizzaizone (being) e health status (health). Si considerano le seguenti categorie: orientamento olistico: percezione sistemica e multisfaccettata della situazione; supporto emotivo: riflettere sul significato degli aspetti emotivi nelle strategie di soluzione di problemi; efficacia professionale: utilizzare competenza professionale nelle situazioni; identificazione dell’obiettivo dell’attività analizzare ed elaborare la situazione. Anderson Moore, Kristin; Lippman, Laura H.; McIntosh, & Hugh. (2009). Positive Indicators of Child Well-being: A conceptual framework, measures and methodological issues, Innocenti Working Papers no. 2009-21.

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naire6 (2002). Questa procedura ha permesso di sistematizzare i segmenti di testo codificati nelle categorie precedenti in 6 dimensioni riferite al ben-essere: dimensione cognitiva, dimensione economica-istituzionale, dimensione psicologica-emotiva, dimensione fisica, dimensione sociale, dimensione relazionale. !"#$%&'()"(*"+$*+,( -"&,."/0( !"#$%&'&() *) "*+,*-*.'/*) .0() *) 1'21*,*) '//&*13*".%,%) '$$') -($*.*/4) () '$) 1(,5(""(&() *,) &($'6*%,() '*) .%,/("/*) 7*) () '$) '##&(,7*2(,/%) #&%.(""%)7*)'##&(,7*2(,/%8) <7(,/*-*.'&() *) .%,/("/*) *,) .3*) "*) 2',*-("/') *$) 1(,5(""(&() #(7'+%+*.%) 7(+$*) *,"(+,',/*) () 7(/(&2*,'&() *$) /*#%) 7*) "/&'/(+*() 7*) '6*%,() 2(""() *,) '//%8)

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4. Risultati

Tab. 1. Disegno di ricerca

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Per quanto riguarda la dimensione cognitiva, emerge come il ben-essere sperimentato a scuola sia riconducibile ad una forte creatività (73.1% dei bambini) e all’impegno a fare il meglio che si può (73.1%), per raggiungere buoni risultati scolastici (61.5%). Un coinvolgimento nel lavoro scolastico, legato ad una buona memoria e al comportamento corretto in classe, consentono agli allievi di dimostrare un’attitudine positiva all’apprendimento (61.5%). Tra i fattori che sembrano influire meno sul ben-essere a scuola si registrano il pensiero critico al ragiona!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! mento (23.1%), svolgere approfondimenti personali a quanto svolto in classe " " " " delle " " " "competenze " " " Per quanto " (34.6%) e la" percezione proprie (34.6%). riguarda " la dimensione cognitiva il ben-essere degli insegnanti risiede principalmente nella !

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Si considerano le seguenti categorie: estroversione, soddisfazione di vita e autostima. O’Toole, L., Ostroff, S. & Kropf, D. (2007) Reflections onWell-Being for Education http://www.uefeba.org/documents/Reflections_on_Well-Being-200703.pdf

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percezione delle proprie competenze, intese come punti di forza (100%) e nell’impegnarsi a fare il meglio che si può (71.4%), per promuovere negli allievi un pensiero critico (57.1%): “Mi piace insegnare le materie scientifiche e cerco di trasmettere questa mia passione anche ai bambini attraverso pratiche di apprendimento per scoperta e collaborative”. Le insegnanti che hanno manifestato un atteggiamento positivo e la responsabilizzazione nel proprio lavoro infatti hanno riferito di utilizzare strategie di problem solving, momenti di discussione con gli allievi o metodologie collaborative: “All’interno della classe io ritengo sia giusto discutere su tante cose, aiutare i bambini a stimolare il proprio pensiero ed il ragionamento, il confronto con altri e infatti nelle mie lezioni promuovo molte discussioni per creare anche senso del gruppo”. Tra i punti di forza registrati, emerge l’entusiasmo, l’estroversione (57.1%) e la creatività (57.1%) intese come una buona soddisfazione della propria vita da insegnante (57.1%), tutto questo in relazione con l’importanza della dimensione cognitiva attribuita dai bambini, quasi a voler indicare una forte relazione con l’esempio di modellaggio che gli insegnanti sono per i loro studenti. Per quanto riguarda la dimensione psicologica emotiva, emerge come il benessere a scuola sia condizionato all’intervento di altri soggetti, siano essi compagni o docenti (96.2%) e dalla presenza di espressioni verbali di emozioni positive (96.2%) o risate (88.5%). Il superamento delle difficoltà incontrate nella risoluzione del compito (80.8%) è collegato alla relazione con fattori esterni che ne permettono la buona riuscita (84.6%) ma anche ad una forte motivazione personale (84.6%). Tra i fattori che sembrano influire poco sul ben-essere scolastico si evidenziano la consapevolezza di avere potere decisionale sulla propria vita (3.8%), un senso di spiritualità nel compito (11.5%) e l’ottimismo (19.2%). A livello scolastico, come riportano Huebner e Alderman (1993), sono diversi i fattori collegati al ben-essere del bambino, in particolare il supporto che gli insegnanti offrono loro, la possibilità di instaurare una relazione significativa, la consapevolezza di essere un soggetto attivo nella relazione. L’accettazione da parte dei coetanei consente ai bambini di sperimentare emozioni positive. L’emozione del ben-essere per i bambini è collegata al senso di divertimento, di compagnia, di sfogo, del bisogno di protezione e di sentirsi amati: “Mi fa sentire a casa, protetta ed amata”, “Gli abbracci dei miei genitori, dei nonni e degli zii mi fanno stare bene perché sento che mi vogliono bene”. Inoltre tra le motivazioni ritroviamo il desiderio di parlare (“Perché parliamo un po’ di tutto, lei mi ascolta e io ascolto lei”) e di essere aiutati ed aiutare (“Perché la mia famiglia mi dà sempre un aiuto”, “Aiutare le persone”). i bambini riportano ad esempio che la musica (es.: “Mi fa stare bene cantare” “Sto bene quando suono la chitarra, la batteria”) e i momenti particolari, quali le festività, li fanno stare bene: “Mi fa sentire bene Natale quando siamo tutti insieme e ci scambiamo i regali”, “Mi piace il giorno del mio compleanno quando vicino a me ho i miei amici e la mia famiglia”. Per gli insegnanti tale dimensione ha fatto emergere altre voci. Le insegnanti coinvolte nell’indagine infatti hanno affermato di godere di un buon livello di benessere emotivo nel plesso in cui sono inserite (100%), determinato da una forte motivazione (100%), da ricordi felici (85.7%) e dal senso dello scopo (85.7%). Si è registrata una forte fiducia in sé (85.7%), che permette loro di sentirsi energiche (85.7%) per superare le difficoltà (100%): “[…] l’entusiasmo che rinnovo quotidianamente e se non è quotidianamente mi accompagna da sempre in questo anno V | n. 1 | 2017

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lavoro, nonostante qualche volta ceda di fronte alle delusioni”. Un dato rilevante nella ricerca è la prospettiva del futuro che è emersa: la maggior parte delle insegnanti lo vede inquietante, impegnativo e non privo di difficoltà. Questo è da ricondurre al problema del precariato che obbliga le insegnanti a vivere “anno per anno”, non garantendo continuità alle classi che incontrano e che le costringe a ricominciare da zero ogni anno: “c’è troppa confusione, troppi cambiamenti anche tra docenti che non sono di ruolo e di conseguenza anche nei bambini si registra la difficoltà ad adattarsi a nuovi metodi di insegnamento e instabilità”. Nell’analisi della dimensione fisica, il ben-essere dei bambini è identificato con il gioco ed il movimento (100% in entrambi i casi) e alla pratica dell’esercizio fisico (88.5%) che permette loro di coltivare sane abitudini. Il ben-essere si manifesta soprattutto con sorrisi (69.2%) e viaggi (42.3%) con la famiglia. Nonostante il numero dei bambini coinvolti nella ricerca sia ristretto, è inserito nella fascia d’età in cui lo sport ed il gioco sono elementi caratterizzanti la giornata tipo di ciascun bambino e permettono loro una conoscenza del mondo, di acquisire forme di comunicazione, di praticare e migliorare le sue esperienze emotive, di trasformare la realtà in finzione, utili per sviluppare le competenze emotive, sociali, affettive, motorie. I bambini riferiscono di provare un senso di ben-essere quando sono impegnati nello sport o in generale in attività che li coinvolgono fisicamente: “Fare basket, fare nuoto, andare a pesca”, “Quando corro o quando salto” e quando giocano “Giocare insieme”, “Giocare con le mie amiche e con mia sorella”, “Quando invito i miei amici a casa mia”. Le attività sportive e di svago producono ben-essere perché rispondono a diversi bisogni quali quello di divertimento (“Mi fanno divertire”), di compagnia (“Perché sto in compagnia”), di rilassamento (“Perché mi rilasso”), di sfogo (“Perché mi sfogo”). Per quanto riguarda le insegnanti, esse sostengono l’importanza di un buon livello di salute generale (85.7%), seguito da sane abitudini (85.7%). Si registra però un senso di preoccupazione a riguardo in quanto la maggior parte delle insegnanti coinvolte nella ricerca, afferma di non avere più le forze fisiche di un tempo, di sentire sulle spalle il peso del tempo che avanza: “[…] la fisicità inizia a mancare vista l’anzianità del mio servizio. Percepisco il lavoro alla mia età come impegnativo e problematico. Spero di avere sempre questa forza anche nel futuro, a volte mi impegno a non mollare, altre volto può capitare che ci sia la fatica ma si va avanti”. Nella dimensione sociale, il ben-essere per i bambini, emerge nella consapevolezza di essere dotati di intelligenza sociale (92.3%) che consente di esprimere un corretto comportamento ambientale (69.2) ed una buona motivazione alla relazione con l’altro (80.8%). Vista l’età dei bambini, non si evidenzia una consapevolezza di quella che viene definita intelligenza culturale (19.2%). Per intelligenza culturale (CQ) si intende “An individual’s ability to function effectively in situations characterized by cultural diversity. […] CQ is related to emotional intelligence, but it picks up where emotional intelligence leaves off”8. Nella dimensione sociale, le insegnanti intendono il ben-essere come la manifestazione dell’essere consapevoli di assumere determinati comportamenti a livello ambientale (100%) da promuovere anche nei bambini, oltre che all’essere motivati 8

Santipolo, M. (2012), Educare i bambini alla lingua inglese. Lecce: PensaMultimedia, p. 224.

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(885.7%) e a partecipare ad attività extra-scolastiche (85.7%) come corsi di aggiornamento che permettono loro di intendere il processo di apprendimento come un’educazione permanente. In questo modo si intende la scuola come un sistema che permette agli allievi e agli insegnanti di acquisire le competenze per la vita, tra cui quelle sociali (85.7%). In generale, sembra che le insegnanti percepiscano le interazioni sociali come la parte sia più gratificante, ma anche la più complessa e problematica del loro lavoro, in diversi livelli nella loro comunità scolastica. Infine, per quanto riguarda la dimensione relazionale, si evidenzia come sia importante per il ben-essere dei bambini, l’instaurare relazioni positive con i genitori (92.3%), con i pari (96.2%) e con i docenti (73.1%). In particolare, è fondamentale per i bambini l’interesse ai pari (92.3%), il divertimento (100%) e l’aiuto reciproco (76.9%). Anche il lavoro cooperativo è segnalato come indicatore di ben-essere scolastico (76.9%), volto al supporto condiviso (76.9%). Nell’analisi emerge come i bambini siano consapevoli dell’aiuto ricevuto dalle insegnanti di classe (46.2 %), ma questo non è inteso come interesse dell’adulto al loro benessere (23.1%). Quando i bambini parlano di ben-essere menzionano le persone e gli ambienti significativi della vita quotidiana, ovvero i familiari “La felicità è quando abbraccio la mia famiglia e quando vengo a scuola”, gli amici e la scuola “Mi piace stare con i miei compagni e con i miei genitori”, “La felicità è il mondo e il mio mondo riguarda la scuola e la famiglia”, “Stare insieme agli amici e compagni di scuola”, “Prendere un bel voto a scuola così sono felice io, la maestra e i miei genitori”. Attraverso l’analisi degli elaborati dei bambini coinvolti nella ricerca, si riscontra che quando gli allievi parlano del ben-essere, si riferiscono ad aspetti legati alle relazioni che instaurano negli ambienti di vita frequentati. Si ritrovano infatti riferimenti al contesto familiare, extra scolastico e scolastico: Risulta essere fonte di ben-essere anche il rapporto con l’ambiente circostante in particolare quando si ha l’opportunità di stare a contatto con la natura e con gli animali: “La felicità è un campo enorme dove mi posso divertire”, “Una passeggiata in montagna”, “La felicità è vedere il sole perché sento che mi scalda ed è come se mi stesse abbracciando con i suoi raggi, proprio come fanno la mamma, il papà, i nonni e gli zii”, “Le gite in collina con la mia famiglia”, “Stare con i miei animali”, “Stare con il gatto di mia cugina”, “Giocare con i miei cani”. Questi risultati spingono a riflettere sulla necessità di considerare i diversi ambienti di sviluppo del bambino, individuandone i potenziali più significativi che possono contribuire ad alzarne i livelli di ben-essere. I bambini quindi confermano la centralità del ruolo dei principali micro-sistemi in cui sono coinvolti. Per quanto riguarda le insegnanti, il ben-essere pedagogico dei docenti è stato costruito in tre contesti principali relativi all’interazione insegnante-allievo, all’’interazione tra pari all’interno della comunità scolastica ed infine all’interazione insegnantegenitore. Il ben-essere quindi, è inteso come l’instaurare buone relazioni con altri, siano colleghi (100%), bambini (100%), o con le famiglie (57.1%): “Il supporto nel mio lavoro lo ricevo dalle persone che incontro, in modo particolare con le persone con le quali riesco a relazionarmi e a condividere un percorso educativo quindi i colleghi, le tirocinanti ormai laureande, che non ho mai considerato come studentesse ma come colleghe dalle quali posso imparare, nuove colleghe che mi danno tanto e con le quali mi sento in sintonia. Ci sono delle persone che mi sono di forte supporto, tra queste anche i genitori dei miei alunni”. La relazione anno V | n. 1 | 2017

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nasce in un clima collaborativo, in cui vi è supporto e interesse verso l’altro (85.7%). Per quanto riguarda il rapporto con gli studenti, le insegnanti affermano di interessarsi al loro ben-essere (100%), fornendo loro aiuto, seguendoli con cura (42.7%) e offrendo loro un ambiente di lavoro in cui vi sia rispetto reciproco (71.4%). In quest’analisi si è evidenziato come il supporto che gli insegnanti ricevono non provenga dalle istituzioni scolastiche ma solamente da colleghi o da corsi di aggiornamento. Si richiede più supporto a livello nazionale, coinvolgendo enti territoriali esterni in un’ottica sistemica: “il supporto […] può venire dai colleghi, sicuramente e dai corsi di aggiornamento e quindi è cercare di migliorarsi. Il supporto però non arriva mai da chi dovrebbe offrirtelo (Stato o Dirigente) e se lo fa, lo fa in modo limitato”. I risultati hanno indicato che i docenti privilegiano e mirano a costruire relazioni sociali tra pari, ritenendole come fattore predominante per la realizzazione del loro ben-essere. Inoltre, le insegnanti dimostrano di utilizzare molteplici strategie per risolvere i problemi che nascono nelle diverse relazioni, partendo soprattutto dall’aiuto che ricevono dai colleghi: “quando ci si trova tra colleghi e ci si fornisce consigli e indicazioni su lavoro, magari con chi ha più anni di insegnamento alle spalle e se ne discute in un’ottica costruttiva, individuando strategie e strumenti per crescere in serenità”. Gli insegnanti cioè sottolineano l’importanza di condividere il loro lavoro con i pari intendendolo come pratica autoriflessiva e autovalutativa. I risultati hanno anche indicato che l’offerta di sostegno emotivo offerto agli alunni sia un elemento chiave del benessere pedagogico nella relazione insegnante-allievo, oltre che nella relazione insegnante-genitore. In particolare, le docenti percepiscono gli incontri con i genitori significativi, riconoscendo la collaborazione funzionale che nasce come un regolatore di ben-essere. La dimensione economica istituzionale è stata indagata solo in riferimento agli insegnanti ed è intesa per garantire assistenza e supporto agli alunni (100%), creando un clima sicuro a scuola (85.7%) ed un ambiente ben organizzato (85.7%), attribuendo importanza alla dimensione didattica (85.7%), promuovendo nei bambini uno stile di vita sano, attività di gioco (85.7%) ed infine portando avanti i valori di uguaglianza e combattendo le disuguaglianze (85.7%). Non vi sono riferimenti significativi rispetto ad alte aspettative verso gli studenti mirate alla valutazione del sistema scolastico ed alla loro presenza o meno a scuola. I risultati raggiunti con le insegnanti suggeriscono come l’esperienza del ben-essere pedagogico vari ampiamente, non trascurando il fattore della stanchezza fisica ed emotiva in qualche caso.

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Tab. 2. Associazioni di parole con la parola target “Ben-essere”

Risulta interessante notare come i bambini nel momento di disegnare la felicità abbiano individuato alcune parole tipiche nella definizione del ben-essere9 che rimandano alle dimensione indagate.

5. Discussione e prospettive future

Sembra essere giunto il momento di porre l’accento sugli atteggiamenti positivi dei bambini e degli insegnanti da valorizzare nell’ambiente scolastico. Valorizzare infatti i funzionamenti (in termini di beings and doings a cui ciascuno di noi da valore) potrebbe portare ad individuare positive dimensioni di ben-essere che permettono ai giovani di fiorire e prosperare (ICF-CY, 2007, Pollard & Lee, 2003). Uno degli aspetti che emerge con maggior forza (UNICEF, 2007, Clift e Jensen, 2005) è il senso di appartenenza degli studenti (e degli insegnanti) alla scuola e di percepirsi come una comunità (Santi, 2006) la quale ha la prerogativa di sostenere i bambini e i giovani nell’espressione della propria agency verso il proprio ben-essere, ben-diventare e la vita fiorente (Biggeri & Santi, 2012). In particolare l’apprendimento degli studenti in tali condizioni di positivo ambiente sociale ed emotivo si manifesta in una diminuzione di comportamenti a rischio e in generale in un positivo ben-essere e successo scolastico (Bonny et al., 2000; Nutbeam et al, 1993; Havlinova & Scheidrova, 1995; Blum McNeely & Rinehart, 2002). Nella maggior parte dei sistemi di istruzione formale, gli studenti sono stati impegnati da un punto di vista cognitivo e il focus dell’educazione è stato diretto alla trasmissione di informazioni attraverso l’insegnamento di stili che incoraggiano l’apprendimento passivo piuttosto che l’apprendimento esperienziale o l’apprendimento per l’esplorazione (Brown & Campione, 1990; Brown, Collins, & Duguid, 1989). Sappiamo bene invece, e anche i nostri dati lo confermano, che

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Nella tabella vengono riportate sotto un unico termine vocaboli riferibili ad un’unica categoria semantica, in cui vengono indicate le categorie principali di raggruppamento ed i relativi termini inclusi emersi durante i due studi.

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i giovani necessitano di essere impegnati nell’esplorazione dei materiali e delle idee (Rogoff, 1994) attraverso la valorizzazione di un ruolo più attivo dei giovani visti come costruttori essi stessi, insieme agli adulti, di conoscenza. Anche la valutazione in particolare si è focalizzata su cosa i giovani conoscono e meno su come apprendano o creino nuova conoscenza, o anche sulla loro capacità di applicare queste conoscenze nelle loro vite. Questo, per alcuni, sembra aver portato ad una standardizzazione dei contenuti del curriculum e ad una valutazione che spesso non tengono conto delle aspirazioni individuali, delle differenze culturali o di vita, ponendosi apertamente in contrapposizione con lo stesso concetto di inclusione e di didattica inclusiva che invece sembrano essere gli obiettivi verso cui tendere in quanto mirano a favorire e promuovere la partecipazione per tutti e favorire positivi funzionamenti (il riferimento è all’Universal Design for Learning, CAST, 2011) verso vite fiorenti. L’analisi compiuta in questo studio, porta a considerare gli insegnanti come una risorsa positiva sia in termini di ben-essere per gli allievi, che per la stessa comunità scolastica. Questa visione positiva degli insegnanti è fondamentale. Lo sviluppo e le riforme dovrebbero avere come prerogativa fondamentale il lavoro degli insegnanti e la relazione che essi instaurano e costruiscono giorno dopo giorno con gli allievi, i colleghi e le famiglie. La significatività dell’interazione insegnante-allievo, insegnante-insegnante e insegnante-famiglia può fornire nuove intuizioni sia in termini di sviluppo per la scuola che per la creazione di un supporto per il ben-essere dei vari soggetti coinvolti in questo flusso di ben-essere. Da questo punto di vista, ad esempio, si potrebbero promuovere degli investimenti sulla creazione di ambienti di apprendimento aperti alla relazione con il territorio per favorire esperienze di apprendimento concrete. Il ben-essere dei docenti può essere raggiunto incoraggiando la loro partecipazione a corsi di aggiornamento, istituendo una rete di supporto a livello di Istituto e non solo limitata al plesso in cui si insegna. In una prospettiva ecologica, inoltre è importante considerare i fattori ambientali in cui i bambini e gli insegnanti vivono. Il modello biopsicosociale di Engel (1977) presuppone che la salute ed il funzionamento fisico siano mediati da supporti e facilitatori che sono presenti nell’ambiente. In quest’ottica, l’ambiente scolastico gioca un ruolo cruciale nel determinare il livello di partecipazione di un bambino nelle attività scolastiche e questo costituisce un’ulteriore area di indagine. L’abilità di uno studente o di un docente a partecipare in quell’ambiente può essere intesa come una “funzione delle sue abilità in combinazione con le caratteristiche dell’ambiente scolastico”(Ghedin, 2009, p.105). Diventa quindi fondamentale valorizzare l’”ethos” che le scuole promuovono verso il ben-essere. Esse devono cioè offrire un contesto positivo per lo sviluppo dell’indipendenza personale e delle esperienze di partecipazione nelle attività della comunità di appartenenza. L’ambiente scolastico viene inteso come un setting significativo per la salute primaria in cui è necessario praticare una ricerca continua per migliorare la condizione di salute e di ben-essere di tutti, il raggiungimento dell’autonomia e la consapevolezza di appartenere ad una comunità di apprendimento (Canevaro, 2013). Prima condizione essenziale perché questo possa avvenire è la creazione di un ambiente di apprendimento fatto di relazioni e il più possibile naturale, sano, aperto e promotore di attività creative, ricche di partecipazione e collaborazione. In termini di sviluppo di comunità scolastiche, si devono creare condizioni più coinvolgenti e più responsabilizzate per Summer School Bressanone - Prima parte


il lavoro pedagogico nelle scuole. Ad esempio, gli insegnanti dovrebbero essere incoraggiati ad analizzare e concettualizzare situazioni difficili e non risolvere solamente i problemi oltre al fatto di mettere in circolo buone prassi educative orientate ad attivare le reti di scambio dei “tesori nascosti in casa” (Canevaro, 2006). I dialoghi e le pratiche positive, attive e costruttive, possono contribuire a identificare esperienze buone e a mettere ciò che si impara a buon uso, offrendo possibilità di costruire relazioni positive e produttive (Ghaye, 2010). Questo potrebbe fornire più punti di vista in merito alle situazioni, aiutare a porsi le domande giuste e di conseguenza sostenere l’auto-efficacia nel lavoro educativo. Si prevede in un secondo momento di coinvolgere nelle riflessioni sulla relazione tra ben-essere e apprendimento anche i dirigenti scolastici in modo da indagare quale sia la loro idea di ben-essere e attraverso quali pratiche, idee ed azioni educative sia possibile promuovere l’aspirazione al ben-essere di tutti i componenti della comunità scolastica. Essi possono essere considerati i principali co-designers di un ambiente che possa realmente essere costruito e adattato per promuovere al pieno lo “sviluppo della personalità umana ‘’ (ONU, 1948, articolo 26.2).

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Minori stranieri tra resilienza e adattamento scolastico

Key-words: Minor foreigners, school functioning, resilience, social adjustment, inclusion

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AM Murdaca ha curato l’introduzione, ipotizzato la ricerca e supervisionato lo studio; A Morganti ha contribuito allo sviluppo del progetto e ha curato la ricerca bibliografica nazionale e internazionale; P.Oliva ha curato il disegno della ricerca, l’analisi dei dati, sviluppando linee progettuali di intervento e di ricerca.

Italian Journal of Special Education for Inclusion

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© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

The purpose of this study is to highlight the psychological, educational and social difficulties presented by foreign minor students placed in primary and secondary schools of the first degree in the province of Syracuse. Specifically, the relationship between factors such as anxiety, depression, resilience and behavioral and emotional problems was assessed, and how this relationship is modified according to age and time in Italy. Additionally, it was evaluated if these factors differ between group of accompanying children and not accompanying children and between those attending inclusive schools vs not inclusive schools. Sixty-five non-EU minorities participated to the study. The results showed the school’s difficulty in practicing inclusion, in many cases perpetuating not functional patterns of integration. It seems as though the teachers are still unclear how an inclusive climate is created, which is not solely based on language education programs, but rather in a differentiated use of methodological/didactic strategies that affect the whole sphere of personality dimensions and emotional processes, in order to avoid risk conditions and dysfunctional development trajectories.

abstract

Anna Maria Murdaca (Università degli Studi di Messina / amurdaca@unime.it) Annalisa Morganti (Università degli Studi di Perugia / annalisa.morganti@unipg.it) Patrizia Oliva (Università degli Studi di Messina / poliva@unime.it)

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Introduzione

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Che senso ha parlare di inclusione e immigrazione? Che interrelazione esiste tra le dichiarazioni di principio della normativa e i contesti di vita? quali sfide per la politica educativa? A questi interrogativi si tenterà di dare delle risposte proprio perché la presenza dei migranti e la strutturazione dell’immigrazione invita tutti a riflettere sulle nostre organizzazioni istituzionali e sui cambiamenti, sulla progettualità delle politiche inclusive per attuare e gestire gli incontri con le appartenenze plurali onde garantire ai soggetti migranti il pieno soddisfacimento dei propri diritti che sono inalienabili per tutti. Ci troviamo come ben sappiamo in un periodo storico in cui il nostro paese, pur sempre più accogliente, appare decisamente fragile in quanto c’è una disomogeneità di risposte che provengono dalla localizzazione dei diritti dei minori che trovano più o meno soddisfacimento da regione a regione, da scuola a scuola. Tale nodo problematico invita maggiormente a non abbassare la guardia di fronte alle diversità sociali onde evitare che la diseguaglianza e la disparità di trattamento non diventi un ulteriore segno di disuguaglianza e di scarto tra le dichiarazioni di principio e le politiche che dovrebbero in interrelazione ripensare a delle forme di sussidiarietà per ricomporre la diversità in unità, nel proporre degli orizzonti di senso pur nella specificità di ruoli e competenze. Si tratterebbe di compattare una serie di operazioni socioculturali in vista della gestione della eterogeneità dei bisogni che emergono nei minori stranieri e di decodificare i tanti modi e mondi dell’essere differenti, rispetto alle tante problematiche e alle differenze che accompagnano il minore sin dalla sua nascita. Si tratta di guardare alle diversità delle storie di vita che poi accompagnano le svariate tipologie di minori: minori accompagnati, figli di genitori clandestini, minori non accompagnati, minori stranieri con disabilità; di modo che venga eliminata la miriade di pregiudizi e di comportamenti ostili che nascono dall’incontro con l’altro da sè. Infatti “il pensiero di uno stato e la natura si misura dall’accoglienza, dalla presa in carico globale. Una presa in carico, che equivale a sottolineare che quando si parla di tutela dell’infanzia non si può discriminare in base alla nazionalità come se lo jus civitatis potesse rappresentare e discriminare tra infanzia protetta e infanzia negata. L’infanzia e i suoi diritti si pongono al di sopra delle frontiere e degli stati” (Ammendola, 2008). Comportamenti che verrebbero ulteriormente ad acuire quella discordanza biografica che accompagna il vivere del minore straniero in Italia di modo che vengano arginati tutti quei disadattamenti che non consentono a tutti noi di accogliere l’umanità dell’altro inficiando la sua coscientizzazione. Dalle considerazioni di cui sopra potranno nascere delle riflessioni che fanno da sfondo alla pensabilità di un nuovo progetto educativo che, tenendo in debita considerazione diritti, riconoscimenti, confronti, psicodinamiche delle relazioni consenta di elaborare un nuovo alfabeto; insomma, una nuova edizione della cura educativa che funge da contenitore emotivo affettivo per il superamento dei percorsi ad ostacoli che incontrano i minori stranieri nel realizzare il loro progetto di vita. In questa direzione occorre andare se si vuole creare un lavoro di rete, una fattiva collaborazione tra varie istituzioni nel tentativo di eliminare quegli ostacoli che impediscono a tali soggetti di raggiungere il loro sviluppo e benessere. Quanto argomentato su ci fa pensare alle molte sfide a cui questi soggetti vanno inconSummer School Bressanone - Prima parte


tro; sfide che fanno emergere passaggi cruciali nella crescita, ma molto spesso ignorati nei vari contesti di vita, quando non addirittura ideologizzati e quindi poco aderenti a quel mondo soppresso che accompagna ogni storia personale, intessuta di emozioni, di desideri. Un vissuto processuale cha ha sicuramente un rispecchiamento nei modelli parentali di accudimento e nella rete di rapporti interpersonali. Il lavoro di rete sottolinea dunque l’esigenza di creare alleanze educative per fare acquisire ai tanti bambini immigrati presenti nella nostra vita sociale volti e non maschere in quanto non è più pensabile e plausibile discriminare tra vita e vita tra minori stranieri e minori italiani: gli immigrati non sono vite da scarto come asserisce Bauman (2005). Molte dunque sono le energie psichiche che dovremmo investire per attuare un incontro significativo con tutti i problemi che l’essere minore migrante comporta ma che richiederebbero per essere interpretati , il nostro sguardo interrogante. Potremmo continuare all’infinito ma sempre in direzione di un reingenering della nostra mentalità, della nostra società che per essere a pieno titolo sostenibile deve abbandonare la deriva delle politiche tampone dell’urgenza per poter diventare veramente società inclusiva. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, e il mare è rappresentato proprio dalla mancanza di vere e solide competenze che attraversano trasversalmente i vari contesti di vita, che in sinergia, potrebbero aiutare i minori in questione a divenire adulti autonomi e attivi. Balza subito agli occhi quanto sia importante definire il problema mettendo in relazione inclusione,democrazia,didattica speciale,fattori individuali e contestuali che letti in sinergia possono guidare le pratiche inclusive. E il paradigma dell’ottica sistemica non può che rappresentare lo scenario epistemologico a cui rivolgersi per tratteggiare la interrelazione di cui sopra in direzione della chiarificazione dell’inclusione che, prima ancora di avere una connotazione sociale, ha una sua dimensione umana e giuridica, nel senso che la soggettivazione e/o la personificazione a cui fa riferimento prima Luhmann (2002) e successivamente Torbjørnsen Hilt (2015; 2016) rappresenta un prerequisito a cui ogni contesto, e nello specifico quello scolastico, deve guardare per attuare politiche di innovazione sociale. Politiche, come su si adombrava, chiamanti in causa un cambiamento di mentalità culturale ed operativa. Politiche che investono sulla formazione come leva strategica per il cambiamento biunivoco e che vanno soprattutto, in direzione dello sviluppo della dinamica persona-ambiente; importante affinchè ogni individuo sviluppi al massimo le proprie capacità o potenzialità ma anche per raggiungere un buon livello di adattamento, quale indicatore fondamentale per sviluppare comportamenti e condotte consoni alle richieste della vita sociale e relazionale oltre che per raggiungere una qualità di vita soddisfacente. Uno dei tanti interrogativi è quello di andare a sondare quanto i contesti di vita conoscono dei soggetti stranieri che accolgono e nello specifico cosa conosce la scuola dei minori che provengono da mondi altri e come la lettura, o meglio, la decodifica dei loro bisogni speciali diventa obiettivo fondante di una politica scolastica sempre più realmente inclusiva e non demagogica. A tal proposito, Besozzi e Giovannini (2002) hanno evidenziato una serie di fattori coinvolti nell’esperienza scolastica di minori italiani e stranieri, i quali, vivendo una dimensione multietnica e multiculturale all’interno della scuola, mostrano bisogni e aspettative differenziate e complesse. Sua’rez-Orozco e colleghi (2010) sottolineano, invece, come anno V | n. 1 | 2017

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l’immigrazione può rappresentare, per i migranti, non soltanto una sfida ma anche una possibilità di realizzazione soprattutto in ambito scolastico e accademico. Più nello specifico, Favaro (2006), analizzando le aree di disagio dei giovani stranieri residenti in Italia, ha evidenziato che mentre per i bambini delle scuole elementari è più facile pensare al passato e più complicato proiettarsi nel futuro, gli adolescenti riescono a immaginare il proprio avvenire mentre fanno fatica a fare emergere ricordi del passato, soprattutto se particolarmente dolorosi. Il nostro lavoro si muove in questa direzione; in direzione dell’osservazione, della descrizione di alcune variabili nel tentativo di rispondere ai bisogni speciali che emergono dalle problematicità esistenziali dei nostri minori per aiutarli ad adattarsi al mondo, per rispondere alle prestazioni richieste che gli competono e che richiedono capacità di adattamento e di individuazione. Il richiamo alla teoria ecologica (Brofenbrenner, Morris, 1998) sottolinea quanto uno sviluppo armonico sia determinato da un continuo rimando di influenze che trovano nelle caratteristiche individuali di un soggetto, nei processi prossimali, nelle variabili contestuali e nelle influenze temporanee persona-ambiente una nicchia per l’autodeterminazione in direzione dell’autoprogettazione individuale (Murdaca et al., 2014). Ciò nel convincimento che i vari contesti di vita, famiglia e scuola, sono chiamati in causa per realizzare percorsi formativi inclusivi in direzione di progetti educativi comuni specialmente in una società globalizzata come la nostra (Goussot, 2011).

108 1. La Ricerca

Prima di introdurre gli obiettivi specifici di questo lavoro di ricerca, appare doveroso riportare alcuni dati interessanti circa la presenza di alunni stranieri in Sicilia, che fanno da cornice e, in un certo qual modo, spiegano il crescente interesse verso queste tematiche che richiedono urgenti interventi di inclusione sociale e scolastica. La figura 1 riporta il numero degli alunni stranieri distribuiti nelle diverse province siciliane e la loro incidenza (%) sul totale degli studenti.

Fig. 1. Fonte: Sistema Informativo MIUR – Rilevazioni sulle scuole, dati generali (ex integrative) a.s. 2014/15

Summer School Bressanone - Prima parte


Gli studenti con cittadinanza non italiana frequentano principalmente la scuola primaria (8114) e le scuole di ordine superiore, mentre sono relativamente pochi quelli inseriti nella scuola dell’infanzia (3743). Ciò confermerebbe la tendenza alla stanzialità delle seconde e terze generazioni, che richiedono pertanto soluzioni di inserimento maggiormente votate all’inclusione piuttosto che alla semplice integrazione delle differenze (figure 2-3).

Fig. 2. Fonte: Sistema Informativo MIUR – Rilevazioni sulle scuole, dati generali (ex integrative) a.s. 2014/15

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Fig. 3. Fonte: Sistema Informativo MIUR – Rilevazioni sulle scuole, dati generali (ex integrative) a.s. 2014/15

Per quanto riguarda la cittadinanza, come si evince dalla figura 4, sono gli studenti romeni i maggiormente presenti nelle scuole siciliane, seguono i tunisini, marocchini e albanesi. Questo dato rispecchia perfettamente anche l’andamento di coloro che hanno preso parte alla presente ricerca.

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Fig. 4. Fonte: Sistema Informativo MIUR – Rilevazioni sulle scuole, dati generali (ex integrative) a.s. 2014/15

2. Obiettivi

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L’obiettivo principale di questo studio è evidenziare eventuali difficoltà psicologiche, educative e sociali in allievi minori stranieri inseriti in scuole primarie e secondarie di primo grado dell’entroterra siciliano. Nello specifico, si intende valutare la relazione tra fattori quali ansia, depressione, resilienza e la presenza di problemi comportamentali ed emozionali manifestati in classe, e come questa relazione si modifica in funzione dell’età e del tempo di permanenza in Italia. Inoltre, si vuole verificare se tali fattori differiscono tra il gruppo dei minori accompagnati e non e tra coloro che frequentano scuole che adottano programmi inclusivi e scuole che non adottano alcun programma specifico per l’inclusione scolastica.

3. Partecipanti

Hanno partecipato alla ricerca 65 minori extracomunitari (42 M e 23 F; età: M=12,45; DS=2,598), di cui 30 vivono in famiglia (minori accompagnati) e 35 sono inseriti in case famiglia (minori non accompagnati).

Summer School Bressanone - Prima parte


Tutti hanno cittadinanza non italiana; in prevalenza, provengono dal Marocco, Nigeria, Egitto, Senegal e sono presenti nel nostro territorio, in media, da 2 anni e mezzo circa. La maggior parte di loro professa la religione musulmana (74%), seguono i cattolici (20%), i Buddisti (5%) e gli Ortodossi (1%). Frequentano regolarmente la scuola secondaria di primo grado (69%) e la scuola primaria di primo grado (31%). Dal colloquio effettuato con i dirigenti e gli insegnanti, è emerso che 28 di loro sono inseriti in scuole che adottano programmi di didattica inclusiva, mentre 37 sono inseriti in scuole che non adottano programmi specifici per l’inclusione.

3. Strumenti

Ai partecipanti è stato chiesto di compilare:

– Scheda socio-anagrafica. – R.P.Q. (Resilience Process Questionnarie) (Richardson et al, 1990; riv. Laudadio, Pérez e Mazzochetti, 2011) è uno strumento di valutazione della resilienza, capacità che consente di trasformare un evento spiacevole e doloroso in un momento di crescita e di miglioramento. Ovvero fa riferimento alla capacità del soggetto di sollevarsi dopo un trauma e superarlo utilizzando gli aspetti positivi. È costituito da 15 item che esprimono punteggi su scala Likert a 5 punti (“Per niente d’accordo” – “Del tutto d’accordo”). – T.A.D. A (Test di Ansia e Depresssione – scala per Alunno) (Newcomer, Barembaum, Bryant, 1995) esplora i domini dell’ansia e della depressione. È costituito da 22 item che prevedono strutturati su scala Likert a 4 punti da “Mai” a “Quasi sempre”. – S.E.D.S. (Social Emotional Dimension Scale) (Hutton, Roberts, 1994), compilato dai docenti, è finalizzato alla valutazione dei problemi comportamentali ed emozionali manifestati dall’alunno nel contesto classe. Il questionario è costituito da 32 item e prevede 6 dimensioni nella descrizione delle modalità di interazioni adottate dagli alunni: Evitamento dell’interazione coi compagni; Interazione aggressiva; Evitamento dell’interazione con l’insegnante; Comportamenti inappropriati; Reazione depressiva; Reazioni fisiche/di paura. – T.A.D.-I. (Test di Ansia e Depressione, scala per Insegnanti) (Newcomer, Barembaum, Bryant, 1995), è composto da 20 item indicativi della presenza o assenza di atteggiamenti e comportamenti relativi all’ansia e alla depressione e prevedono risposte dicotomiche vero/falso.

4. Risultati

Correlazioni Dall’analisi correlazionale (rho di Spearman) tra l’età, il tempo di permanenza in Italia, le dimensioni della resilienza, i livelli di ansia e depressione e i problemi comportamentali ed emozionali dei minori, riferiti dall’insegnante, emergono relazioni significative. Nello specifico, i risultati indicano che nei minori che presentano un’elevata incapacità di superare gli eventi traumatici più frequente compare: la reazione anno V | n. 1 | 2017

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depressiva (r= .268), i problemi comportamentali (r= .296) e l’evitamento nelle interazioni con il docente (r= .271). Mentre, coloro che presentano un buon ritorno all’omeostasi (ripristino dello stato precedente al trauma) sembra non utilizzino comportamenti inappropriati (r= –.334), e in questo sembra siano più capaci i ragazzi più giovani (r= –.297) e con maggiore permanenza in Italia (r= .384). Non sembra, invece, ci sia alcuna connessione tra la reintegrazione resiliente, cioè la forte capacità di resilienza del soggetto e le variabili prese in esame. Per quanto riguarda i livelli di depressione e ansia, le analisi evidenziano che più aumenta la depressione dei ragazzi più costoro tendono a diminuire e a evitare le relazioni con i coetanei (r= .289); e ciò vale anche per l’ansia (r= .383), i cui livelli disfunzionali sembra siano connessi anche alla comparsa di problemi comportamentali ed emozionali, riferiti dall’insegnante (r= .268). Si evidenzia, inoltre, che con l’avanzare dell’età, i ragazzi si dimostrano meno aggressivi (r= – .439), meno timorosi (r= –.300) e molto più predisposti all’interazione con il docente (r= .320), sebbene permanga un maggiore atteggiamento depressivo rispetto ai ragazzi più giovani (r= .389). Analisi comparativa

Minori accompagnati vs. minori non accompagnati

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La tabella 1 mostra i ranghi medi dei punteggi ottenuti dai soggetti nei diversi questionari. !

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Dal confronto tra i gruppi (minori accompagnati vs. minori non accompagnati), utilizzando il test non parametrico di Mann-Whitney, sono emerse differenze significative tra il gruppo dei minori accompagnati e il gruppo dei non accompagnati nelle diverse dimensioni dei fattori indagati. Nello specifico, i minori non accompagnati mostrano una minore capacità di superare gli eventi traumatici rispetto ai coetanei accompagnati [U=380,500; p=.05]. Difatti, i minori accompagnati esprimono una modalità di resilienza leggermente più funzionale al superamento degli eventi traumatici [U=298,000; p=.003]. Per quanto riguarda, i problemi comportamentali ed emozionali, mentre il gruppo degli accompagnati rivela una maggiore interazione aggressiva rispetto ai coetanei non accompagnati [U=324,000; p=.001], questi manifestano una maggiore tendenza alla depressione [U=318,000; p=.002]. ! !

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Mettendo a confronto i gruppi degli alunni che frequentano scuole in cui viene applicata la didattica inclusiva e gruppi di alunni che frequentano scuole in cui non sono attivi programmi inclusivi, emergono differenze significative. In particolare, si evidenzia una maggiore reintegrazione resiliente in chi non frequenta scuole con programmi di didattica inclusiva [U=344,500; p= .020] rispetto agli alunni di scuole inclusive. Inoltre, dai dati emerge una maggiore aggressività [U=391,500; p= .033] in chi frequenta scuole non inclusive, mentre risultano più depressi gli studenti inseriti in scuole inclusive [U=3451,500; p= .011]. I risultati ottenuti, seppur nella loro parzialità e limitatezza, sembrano alquanto paradossali, in quanto i ragazzi anno V | n. 1 | 2017

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non sembrano beneficiare in alcun modo delle azioni e dei programmi attivati dalla scuola in ottica inclusiva. Anzi, in alcuni casi, i minori appaiono demotivati, depressi e con scarse capacità di fronteggiare situazioni stressanti e di disagio, come quella di essere costretti a vivere lontano da casa e inseriti in contesti poco accoglienti e fortemente a rischio. Il fallimento delle politiche inclusive messe in atto dalla scuola, attraverso i suoi docenti, può essere letto alla luce del fatto che gli insegnanti non hanno ancora chiaro come si crea un clima inclusivo, che non si sostanzia esclusivamente in programmi di educazione linguistica, bensì in utilizzo differenziato e personalizzato di strategie metodologico/didattiche che riguardano l’intera sfera delle dimensioni personologiche di tali soggetti, onde evitare l’innescarsi di condizioni di rischio e traiettorie di sviluppo devianti. Esiste uno stretto legame tra l’inclusione in un gruppo, lo star bene a scuola e la motivazione all’apprendimento; è necessario quindi fare della classe un ambiente traboccante di “tutori di resilienza” (Cyrulnik, 2002; Cantoni, 2014), disporre di una serie di attenzioni e utilizzare pratiche e dispositivi che sostengano e supportino gli alunni stranieri che vivono eventi traumatici e sono in condizioni di vulnerabilità. In tal senso, la realizzazione di un’educazione interculturale per tutti che sia inclusiva e di qualità deve porre attenzione all’integrazione, all’interazione e al riconoscimento delle diversità.

Conclusioni

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I minori, siano essi accompagnati o non, coinvolti nella migrazione vivono un’esperienza che, per molti di loro, si traduce in un evento che inevitabilmente segnerà la loro storia e la loro identità personale. I genitori, quando presenti, sono propensi a ignorare o sottovalutare il peso delle sfide che i loro figli devono attraversare e, spesso non riescono a sviluppare un sistema appropriato di protezione. Per questo motivo, l’esperienza della migrazione per i più giovani può innescare una condizione di vulnerabilità psicologica (Tognetti Bordogna, 2004). Maggiormente a rischio appare la situazione dei minori stranieri non accompagnati, i quali incontrano notevoli difficoltà di adattamento soprattutto nella strutturazione di un sè coerente e unitario, con forti ricadute sulla capacità di far fronte agli eventi critici. Il concetto di vulnerabilità/resilienza non riguarda semplicemente l’abilità di resistere a eventi avversi, ma indica una dinamica positiva rivolta al controllo degli eventi e alla ricostruzione di un percorso di vita positivo. In questo senso tale abilità sembra fortemente connessa al processo di inclusione scolastico e sociale. Numerosi studi (Demetrio, Favaro, 1995; Favaro e Luatti, 2002) delineano un quadro di accoglienza, in linea generale, aperto e disponibile, ma avvertito come privo di modelli e riferimenti certi, carente di risorse specifiche, e le cui professionalità appaiono non adeguatamente formate e preparate per rispondere efficacemente ai bisogni educativi speciali di classi sempre più multiculturali (Ainscow, Kaplan, 2005). I risultati del presente lavoro confermano, per certi versi, tali indicazioni e offrono interessanti spunti di riflessione. In particolare, rivelano che un certo rischio di depressione, problemi comportamentali e scarsa propensione a entrare in contatto con il docente sono frequenti soprattutto nei minori che non riescono a essere resilienti e subiscono, quindi, lo stress del trauma migratorio. A diffeSummer School Bressanone - Prima parte


renza di coloro che riescono a fronteggiare, più o meno, adeguatamente gli eventi traumatici, che sembrano riuscire meglio a interagire nel contesto classe e non mostrano pattern comportamentali disfunzionali; ciò sembra essere favorito anche dalla più giovane età e dal maggior tempo di permanenza in Italia, che fungono da fattori di protezione di una maggiore capacità di resilienza e di ritorno all’omeostasi. Le analisi evidenziano, inoltre, l’effetto fortemente impattante della depressione e dell’ansia, che quando toccano livelli esagerati, inducono nei ragazzi seri problemi emozionali e comportamentali, che minano la qualità e la quantità delle relazioni sociali di questi giovani alunni. Tuttavia, con l’avanzare dell’età, i ragazzi diventano meno aggressivi, meno timorosi e molto più propensi ad interagire con il docente anche se permane, rispetto ai ragazzi più giovani, un maggiore atteggiamento depressivo. Dall’analisi comparativa tra minori accompagnati e non, sono emerse differenze significative nelle diverse dimensioni indagate: ansia, depressione, resilienza e problematicità comportamentali. Nello specifico, si evince che i minori non accompagnati hanno una minore capacità di superare gli eventi traumatici rispetto ai coetanei accompagnati. Infatti, i minori accompagnati manifestano una modalità di resilienza leggermente più funzionale al superamento degli eventi traumatici. Per i problemi emozionali e comportamentali, i dati hanno evidenziato che i minori accompagnati tendono ad utilizzare modalità interattive maggiormente aggressive rispetto ai coetanei non accompagnati, i quali mostrano invece una predisposizione maggiore alla depressione. La ricerca ha anche provato a mettere a confronto scuole che si dichiarano inclusive e scuole che non adottano alcun programma specifico di inclusione scolastica. Dai dati presi in esame, si evidenzia una maggiore reintegrazione resiliente in chi non frequenta scuole con programmi di didattica inclusiva rispetto a chi le frequenta. Inoltre emerge una maggiore aggressività nei minori che non frequentano scuole inclusive, mentre gli studenti inseriti in scuole inclusive mostrano maggiori livelli di depressione. Tale paradosso appare giustificato dal fatto che i ragazzi sembrano non trarre alcun tipo di beneficio dalle azioni e dai programmi attivati dalla scuola in ottica inclusiva, anzi, alle volte, i minori sembrano demotivati, depressi e con scarse capacità di fronteggiare situazioni stressanti, come quella di vivere lontano da casa ed inseriti in contesti poco accoglienti e fortemente a rischio. In effetti, la maggior parte dei ragazzi non frequentano una classe adeguata alla loro età, ma sono inseriti in livelli scolastici inferiori. Inoltre, soltanto il 35% dei partecipanti ha accesso a piani individualizzati e personalizzati, sebbene non totalmente idonei alla loro età. Per quanto riguarda gli interventi «inclusivi», questi riguardano principalmente l’apprendimento della L-2, tralasciando ciò che in effetti si dovrebbe sostanziare in un vero e proprio insegnamento individualizzato. Anche osservando il rendimento scolastico, in molti casi, la valutazione della progressione non sembra coerente con il livello di apprendimento raggiunto dall’alunno (sovrastimato/sottostimato). A ciò si aggiunge il fatto che in quasi nessuna delle strutture coinvolte è assicurata la presenza del mediatore culturale, indispensabile per garantire una corretta comprensione e interpretazione del sistema culturale e valoriale di riferimento del migrante. Tutto questo indica una scarsa conoscenza e competenza nel gestire le principali tematiche e bisogni educativi che un contesto/classe multiculturale e interculturale richiede e soprattutto, una anno V | n. 1 | 2017

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scarsa conoscenza circa i processi di base (cognitivi, emotivi e comportamentali) che sottostanno ad un insegnamento/apprendimento efficace. La scuola con il fallimento delle politiche inclusive, mette in luce che ancora non sono ben chiare le modalità con cui si costruisce un clima inclusivo, che non riguarda esclusivamente l’insegnamento della seconda lingua, ma un uso differenziato e personalizzato di strategie metodologico/didattiche che interessano l’intera sfera della dimensione individuale, per evitare condizioni di rischio e traiettorie di sviluppo devianti. Ovviamente la ricerca, sebbene, esplori ambiti, quali quello dei minori stranieri accompagnati e non accompagnati, ancora troppo poco indagati e che richiamano sempre maggiore interesse da parte degli studiosi, presenta alcune limitazioni che non consentono larghe generalizzazioni e spingono a ulteriori approfondimenti. Innanzitutto, la numerosità del campione e l’uso di strumenti self-report certamente restringono la possibilità di allargare i risultati ad altri contesti e non consentono di poter controllare adeguatamente l’effetto di alcune variabili di disturbo. Purtroppo la mancanza di strumenti di valutazione specifici e l’impossibilità di utilizzare metodi di misurazione diretta (osservazione) ha guidato la scelta metodologica ritenuta meno dannosa. Certamente, questo lavoro rappresenta un punto di partenza di studi futuri più specifici e raffinati da un punto di vista metodologico. Innanzitutto, sarebbe auspicabile realizzare studi longitudinali che consentano di verificare con maggiore precisione il grado di predittività di determinati fattori individuali e contestuali sul successo scolastico e sull’inclusione sociale. Anche la valutazione dell’efficacia inclusiva degli interventi scolastici dovrebbe essere presa in considerazione attraverso l’utilizzo di strumenti di indagine più specifici. E infine, sarebbe interessante valutare il ruolo di altri contesti significativi (famiglia, docenti) altrettanto importanti nel supportare e sostenere l’inclusione scolastica e sociale di questi giovani migranti.

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Un’indagine empirica sul territorio della provincia di Livorno: gli insegnanti specializzati per le attività di sostegno della scuola primaria

The article covered an empirical inquiry with submission of a questionnaire addressed to specialized teachers for primary school support teachers, a work done in my PhD research project. The latest regulations on the subject require the whole faculty to be trained in the didactic pedagogical differentiation and inclusive education to be able to use methodologies and tools useful for school inclusion.

Key-words: Inclusion, disability, special education needs teacher, questionnaires, primary school

Summer School Bressanone

Italian Journal of Special Education for Inclusion

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abstract

/ i.salmaso@libero.it; isalmaso77@gmail.com)

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Irene Salmaso (Università degli Studi di Firenze

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Introduzione

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Il progetto di ricerca che ho sviluppato nel percorso di Dottorato in Qualità della Formazione presso l’Università degli studi di Firenze, ha riguardato un’ indagine empirica con la somministrazione di un questionario rivolto ai docenti specializzati di sostegno di scuola primaria della provincia di Livorno, all’interno di un approfondimento sul quadro normativo e storico pedagogico della formazione degli insegnanti specializzati a partire dalle sue origini fino ai giorni nostri, comparandolo con il sistema di formazione di altri paesi europei. Il lavoro si è svolto con uno studio sistemico delle condizioni e dei cambiamenti del sistema formativo italiano ed europeo, con uno sguardo approfondito sul sistema inclusivo degli ultimi anni In Inghilterra, portato avanti con l’introduzione dell’Index per l’inclusione. La scuola ha il compito di promuovere la conoscenza di tutti gli alunni, di organizzare i saperi e di collegarli ai processi mentali degli alunni, attraverso la loro partecipazione attiva. Quando tali processi sono interrotti o particolari e ci troviamo di fronte a situazioni di difficoltà, a qualsiasi titolo acquisite, siamo di fronte ad un bisogno educativo speciale. La normativa, soprattutto la più attuale, impone a tutto il corpo docente di avere uno sguardo sulla disabilità maturo e di essere in grado di adoperare metodologie e strumenti in vista dell’inclusione scolastica, di essere formati nell’ambito della differenziazione pedagogico-didattica e su quello della didattica inclusiva. Ho potuto riscontrare che la ricerca qualitativa e quantitativa che ho condotto ha avuto un impatto positivo nel corpo docente che ha risposto in maniera riflessiva agli interrogativi posti nel questionario, sia agli items a risposta multipla che a quelli aperti, dai quali si possono evincere punti di forza e punti di debolezza del nostro sistema inclusivo.

1. La normativa recente sull’inclusione scolastica

Dal rapporto di studio dal titolo Organizzazione del Sostegno per gli Insegnanti che lavorano con i Bisogni Speciali nell’Educazione Comune, elaborato da ricercatori dell’Agenzia Europea per la disabilità, emerge la necessità che il sostegno non vada solamente centrato sull’alunno, in quanto richiede di essere indirizzato anche agli insegnanti curriculari con l’obiettivo di aiutarli a migliorare specifiche abilità di trattamento e gestione dei bisogni educativi speciali presenti nelle classi1. La distinzione tra insegnanti ordinari (senza una formazione specifica sui temi dell’inclusione) e insegnanti specializzati (con titolo di specializzazione per il sostegno) ha generato specularmente la divisione – nel contesto classe – tra studenti normali e studenti speciali. 1

European Agency for Development in Special Needs Education, rapporto di studio dal titolo “Organizzazione del Sostegno per gli Insegnanti che Lavorano con i Bisogni Speciali nell’Educazione Comune. Tendenze in 17 Paesi europei”, 2003.

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Di fatto, la realtà è assai complessa e variegata, soprattutto se si guarda al mondo della scuola oggi2. Qui si scopre che gli alunni speciali hanno anche bisogni normali e che anche gli alunni normali possono avere bisogni educativi speciali. Ignorare tale circostanza induce a credere che anche le soluzioni ai problemi possano seguire la medesima logica, ovvero per gli alunni speciali soluzioni straordinarie e per gli alunni normali soluzioni ordinarie. Un sistema scolastico incluso può essere creato solamente se le scuole comuni diventano più inclusive. In altre parole, se diventano migliori nell’educazione di tutti i bambini della loro comunità3. Il curriculum formativo dei docenti di sostegno di scuola primaria è stato avviato per la prima volta nell’a.a 2000/2001, quindi tre anni dopo il D.M. del 26 maggio 1998 che prevedeva l’istituzione del Corso di Laurea in Scienze della Formazione, in corrispondenza del primo accesso degli iscritti al secondo biennio universitario, prevedendo 6 discipline inerenti alla Pedagogia Speciale, 6 laboratori, 100 ore di tirocinio specializzato di cui 50 di tirocinio diretto e 50 di tirocinio indiretto, il tutto organizzato in due semestri. Successivamente sono state apportate delle modifiche al curricolo, sia per quanto riguarda il percorso comune che quello di sostegno, soprattutto per quanto riguarda lo svolgimento del tirocinio. Indubbiamente la figura dell’insegnante di sostegno deve sempre di più rispondere alle attenzioni verso i bisogni educativi speciali di cui necessitano gli alunni disabili e quindi la formazione iniziale come quella in itinere diventa sempre più importante per acquisire una professionalità adeguata. Tale percorso di studio ha finalmente riportato ad una qualificazione del ruolo dell’insegnante di scuola primaria e anche di sostegno, che si era persa nel tempo, poiché ha permesso a chi voleva intraprendere questo percorso lavorativo di appropriarsi di conoscenze adeguate in ambito psicopedagogico, comunicativo e relazionale, sempre più necessarie per affrontare le problematiche di tutti gli alunni4. Il 10 settembre 2010 è stato emanato il D. Lgs. n. 249 dal Ministro Gelmini, riguardante la Definizione della disciplina dei requisiti e delle modalità della formazione iniziale degli insegnanti della scuola dell’infanzia e della scuola primaria e della scuola secondaria di primo e secondo grado, cambiando radicalmente il sistema di formazione degli insegnanti. La Laurea in Scienze della Formazione, obbligatoria per la formazione degli insegnanti della scuola dell’infanzia e primaria, passa da quadriennale a quinquennale sempre a ciclo unico. Nel percorso previsto per gli insegnanti curricolari sono obbligatori 31 Cfu sulle problematiche educative speciali e 75 ore di tirocinio da svolgere con alunni disabili. Per conseguire l’abilitazione sul sostegno, in attesa di futuri cambiamenti, anche gli insegnanti che hanno già il percorso comune, è previsto un ulteriore anno formato da 60 Cfu. 2 3 4

A. Lascioli, M. Onder, “Insegnare nella società globale. Quale formazione per i docenti in una prospettiva europea?”, in ISRE – Rivista di Scienze della Formazione, della Comunicazione e Ricerca Educativa, XVII, 3,2010, pp. 31-46. Unesco, Policy Guidelines on Inclusion in Education, Paris, 2009. A.M. Favorini, Pedagogia speciale e formazione degli insegnanti. Verso una scuola inclusiva, FrancoAngeli, Milano, 2009.

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È una novità importante quella di prevedere nel percorso comune 31 Cfu riguardanti i bisogni educativi speciali in virtù del fatto che proprio come si sottolineava nella Legge quadro 104/92, l’alunno disabile non appartiene all’insegnante di sostegno ma è inserito nella classe e quindi è di tutti gli insegnanti come i compagni, come a sua volta l’insegnante di sostegno è contitolare con i colleghi della classe e quindi responsabile di tutti gli alunni. Attualmente l’insegnante di sostegno deve possedere una approfondita preparazione nel campo della pedagogia e della didattica speciale, deve saper utilizzare bene le TIC (tecnologie di informazione e comunicazione), metodologie simulative, osservative e sperimentali. Deve saper promuovere le relazioni sociali tra l’alunno disabile e il resto dei compagni, attraverso strategie di comunicazione, di psicomotricità, di attività ludiche, ed essere capace di mettere in atto progetti in grado di favorirne l'apprendimento. Le competenze richieste ad un insegnante sono sempre più complesse ed è necessaria una preparazione di molti anni e che sia in continuo aggiornamento poiché la scuola ha una grossa responsabilità nei confronti dei suoi alunni e della società5. 1.1 BES: nuova frontiera formativa

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Nel 2012 si apre una nuova stagione di riforme: Nuove Indicazioni per il Curricolo per la scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione; e la Direttiva Ministeriale 27 dicembre 2012 Strumenti d’intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica, alla quale ha fatto seguito la nota prot. 1551 del 27 giugno 2013 e successivamente la Circolare Ministeriale n. 8 del 6 marzo 2013 con le indicazioni operative per poter cominciare ad elaborare in modo più coerente il Piano Annuale per l’Inclusività e la formazione dei GLI (Gruppi di lavoro per l’inclusione) all’interno di ogni ordine di scuola, in modo da poter realizzare in classe un percorso adeguato all’apprendimento di quei bambini che vengono definiti borderline, ovvero sia in quelle situazioni di difficoltà di apprendimento o di iperattività che non rientrano però in nessuna categoria diagnostica in base al DSM-IV, e che sempre più causano dispersione scolastica e di conseguenza hanno una ricaduta negativa sulla condizione personale del bambino in prospettiva futura e in più si aggrava la condizione sociale ed economica del nostro Paese. Facendo riferimento alle Indicazioni Nazionali del 2007, siamo così arrivati a quelle attuali del 2012, con il testo definitivo delle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, d’ora in poi Indicazioni, emanato con Decreto n. 254 del 16 novembre 2012. Il metodo adottato per la revisione, che ha ricevuto l’apprezzamento della scuola e degli organismi consultati (consultazione giugno-luglio 2012), rappresenta un patrimonio importante da cui partire e crea le condizioni per un ulteriore sviluppo. 5

A. Canevaro, L. d’Alonzo, D. Ianes, R. Caldin (a cura di), L’integrazione scolastica nella percezione degli insegnanti, Erickson, Trento, 2011.

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Le nuove Indicazioni presentano un modello di scuola impegnativo, che costituisce un punto di riferimento obbligatorio, pur nel rispetto della libera iniziativa didattica degli insegnanti e nell’esercizio dell’autonomia progettuale delle singole scuole. I documenti, però, non hanno una forza propulsiva autonoma, rischiano di rimanere nell’ombra e non sono sempre conosciuti in modo adeguato. Su di essi bisogna investire culturalmente per cercare di conseguire quel “miglioramento continuo dell’insegnamento”, richiesto dallo stesso D.M. 254/2012, all’articolo 3, che istituisce un Comitato scientifico nazionale (CSN) «incaricato di indirizzare, sostenere e valorizzare le iniziative di formazione e di ricerca, per aumentare l’efficacia dell’insegnamento in coerenza con le finalità e i traguardi previsti nelle Indicazioni». Il compito del CSN, nominato con D.M. del 19/3/2013, è dunque principalmente quello di accompagnare le Indicazioni, soprattutto nella loro fase di prima applicazione, affinché le scuole e gli insegnanti familiarizzino con la loro logica e la traducano in quotidiana prassi didattica. Le istituzioni scolastiche non sono semplicemente chiamate a capire e fare buon uso delle Indicazioni, ma viene loro richiesto un lavoro di verifica, di interpretazione critica, di sviluppo di ulteriori piste di azione. Dunque il fare scuola oggi significa mettere in relazione la complessità di modi radicalmente nuovi di apprendimento con un’opera quotidiana di guida, attenta al metodo, ai nuovi media e alla ricerca multi-dimensionale. Al contempo significa curare e consolidare le competenze e i saperi di base, che sono irrinunciabili perché sono le fondamenta per l’uso consapevole del sapere diffuso e perché rendono precocemente effettiva ogni possibilità di apprendimento nel corso della vita. E poiché le relazioni con gli strumenti informatici sono tuttora assai diseguali sia fra gli studenti che fra gli insegnanti, il lavoro di apprendimento e riflessione dei docenti e di attenzione alla diversità di accesso ai nuovi media diventa di decisiva rilevanza. La presenza di insegnanti motivati, preparati, attenti alle specificità dei bambini e dei gruppi di cui si prendono cura, è un indispensabile fattore di qualità per la costruzione di un ambiente educativo accogliente, sicuro, ben organizzato, capace di suscitare la fiducia dei genitori e della comunità. Lo stile educativo dei docenti si ispira a criteri di ascolto, accompagnamento, interazione partecipata, mediazione comunicativa, con una continua capacità di osservazione del bambino, di presa in carico del suo mondo, di lettura delle sue scoperte, di sostegno e incoraggiamento all’evoluzione dei suoi apprendimenti verso forme di conoscenza sempre più autonome e consapevoli. La progettualità si esplica nella capacità di dare senso e intenzionalità all’intreccio di spazi, tempi, routine e attività, promuovendo un coerente contesto educativo, attraverso un’appropriata regia pedagogica. La professionalità docente si arricchisce attraverso il lavoro collaborativo, la formazione continua in servizio, la riflessione sulla pratica didattica, il rapporto adulto con i saperi e la cultura. La costruzione di una comunità professionale ricca di relazioni, orientata all’innovazione e alla condivisione di conoscenze, è stimolata dalla funzione di leadership educativa della dirigenza e dalla presenza di forme di coordinamento pedagogico6. 6

Decreto n. 254 del 16/11/2012, Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia del primo ciclo d’istruzione.

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La Direttiva Ministeriale sui BES del 21/11/2012 e poi la successiva Circolare Ministeriale emanata il 22/11/2013 , ha reso esplicito tutto ciò che i docenti sperimentano quotidianamente e cioè l’accentuata differenziazione degli alunni presenti nelle proprie classi che non è dovuta solo alla presenza della disabilità, dei disturbi dell’apprendimento o all’inserimento di alunni immigrati; scopo della Direttiva Ministeriale è stato quello di sottolineare il fatto che ci possono essere nelle nostre classi di qualsiasi ordine di scuola con Bisogni Speciali, indipendentemente dalla condizione di essere certificati piuttosto che migranti. In questo modo l’attenzione si è spostata dalla dimensione puramente diagnostica alle necessità degli alunni e al loro benessere, che possono essere limitate nel tempo, come condizioni di malattia temporanea, come possono essere persistenti negli anni, e che possono quindi richiedere un’attenzione particolare da parte degli insegnanti proprio perché si trattano di Bisogni Educativi Speciali per favorire l’apprendimento dei bambini stessi. Tra l’altro il riferimento normativo emanato dal Ministero si avvale anche del tasso di dispersione scolastica che ancora abbiamo attualmente abbastanza elevato rispetto ad altri paesi europei, il quale purtroppo aggrava la condizione sociale del nostro Paese oltre che a quella personale. C’è da dire comunque che come ogni novità ha suscitato innumerevoli critiche, sia da parte del corpo docente di ogni ordine di scuola, sia dal punto di vista della comunità scientifica, in particolar modo dalla categoria dei Pedagogisti Speciali delle varie Università italiane. Le contrapposte interpretazioni della Direttiva oscillano tra il timore di un’indebita medicalizzazione di tanti alunni e la soddisfazione per l’adozione del modello diagnostico dell’ICF (International Classification of Functioning) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Bisogna anche sottolineare comunque come in questa normativa ci sia un aspetto molto più che legislativo, come negli ultimi anni abbiamo sempre notato nelle varie Circolari o Leggi, quanto un approccio bio-psico-sociale poiché il modello ICF dal momento che si fonda sull’analisi del contesto e sul profilo del funzionamento, permette di individuare i BES prescindendo da preclusive tipizzazioni7. Nella scuola infatti il docente non risponde solo di se stesso e del proprio lavoro: tutti i docenti, insieme, sono chiamati alla costruzione di un progetto formativo coerente ed unitario. È un lavoro complesso ed impegnativo, che mette in moto una fitta rete di dinamiche relazionali e che non può sfuggire dal conflitto. Il conflitto però non deve essere necessariamente vissuto in senso negativo, fa parte della vita, è elemento di arricchimento se si sa elaborarlo in modo positivo e se rimane in termini di accettabilità sociale. Esso è occasione di crescita e spesso permette una sintesi di idee per soluzioni migliori. La collegialità nell’esercizio della funzione docente è una delle caratteristiche della scuola di oggi. Il passaggio dall’insegnante titolare della classe nella scuola primaria al gruppo docente ha modificato il modello professionale del maestro unico, responsabile dei suoi allievi. Il team docente, di cui l’insegnante di sostegno fa parte a pieno titolo deve essere un sistema collegiale in cui ogni componente svolge compiti, assume funzioni specifiche, all’insegna della corresponsabilità e della condivisione. 7

Direttiva Miur del 27/12/2012, “Strumenti d’intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”.

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L’insegnante di sostegno deve avere una capacità indispensabile, che dovrebbe essere patrimonio di tutti gli insegnanti della scuola di ogni grado, quella di saper collaborare. È fondamentale saper imparare dalle esperienze degli altri; condividere e affrontare le frustrazioni che molte volte il lavoro può riservare; poter aiutare gli insegnanti curricolari a comprendere sia le potenzialità dell’alunno disabile che i bambini e le bambine che mostrano difficoltà di apprendimento o disagio. È altrettanto importante che il sostegno si traduca in una prevalente attività individuale a favore dei soggetti disabili. Nella esperienza spesso si vedono insegnanti di sostegno che escono dall’aula con l’alunno disabile, con il quale passano buona parte del tempo scolastico. La “personalizzazione” dell’azione educativa e didattica non va disgiunta dalla “socializzazione” con tutte le conseguenti chiarificazioni e mediazioni. Sarebbe auspicabile una maggiore stabilizzazione del personale docente di sostegno, attraverso la valorizzazione delle competenze migliori per la formazione e il tutoraggio dei colleghi. Una formazione iniziale per tutti gli insegnanti capace di apportare competenze educativo-didattiche adeguate a garantire un lavoro qualificato con le situazioni di diversità. Una più esplicita programmazione integrata dei servizi, azioni, interventi, per trasformare l’integrazione scolastica da problema dell’insegnante di sostegno a problema dell’intera comunità scolastica e sociale. L’insegnante di sostegno deve sapere di più degli altri insegnanti, come afferma Roberta Caldin, è un valore aggiunto nella scuola, con competenze ed esperienze da mettere in pratica con tutti gli alunni.

2. Indagine empirica sulla figura dell’insegnante specializzato per le attività di sostegno della scuola primaria della Provincia di Livorno.

Il processo di inclusione scolastica, ormai avviato da quasi quarant’anni, è avvenuto attraverso una formazione sempre più specifica degli insegnanti di sostegno (dalle Scuole Magistrali Ortofreniche fino al Corso di Laurea in Scienze della Formazione). Il processo di inclusione scolastica, ormai avviato da quasi quarant’anni, è avvenuto attraverso una formazione sempre più specifica degli insegnanti di sostegno (dalle Scuole Magistrali Ortofreniche fino al Corso di Laurea in Scienze della Formazione). L’indagine empirica, oggetto della mia ricerca di Dottorato, ha riguardato l’elaborazione e la somministrazione, all’inizio dell’a.s. 2012/13, di un questionario anonimo formato da 70 items, rivolto ad insegnanti di sostegno di scuola primaria della provincia di Livorno. I questionari distribuiti su tutta la Provincia sono stati 172 e 116 quelli raccolti compilati. Sottoposto in modo anonimo, esso è formato da 70 items a scelta multipla e risposte aperte ed è suddiviso in 4 sezioni: sezione personale (1-8), sezione formativa (9-22), sezione professionale (23-64), sezione riflessioni personali (65-70). Tra i vari items trattati ho analizzato l’età media degli insegnanti, il genere, da anno V | n. 1 | 2017

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quanto tempo lavorano nella scuola, il tipo di formazione che hanno avuto, come l’insegnante possa far passare il modello di integrazione scolastica, come l’insegnante di sostegno affronta le tematiche dell’integrazione scolastica e quanto il modello italiano stia diventando inclusivo sia in ambito scolastico che extrascolastico. 2.1 Le fasi della ricerca e il campione

Il personale coinvolto nella ricerca è stato il seguente: insegnanti di sostegno di scuola primaria nella provincia di Livorno in organico di diritto 113, in organico di fatto (convocazioni del 31/08/2012) 45. Successive deroghe (convocazioni del 10/09/2012) 5 posti in organico di fatto, ulteriori deroghe derivate dalle compensazioni a livello regionale (convocazioni del 17/10/2012) 9 posti sull’organico di fatto, per un totale di 172 posti di insegnanti di sostegno a fronte di un numero totale di 312 alunni con disabilità. La media del rapporto tra alunni disabili e insegnanti specializzati è stata per l’anno scolastico 2012/13 di circa 1 insegnante ogni 2 bambini, considerando poi che una percentuale di alunni avendo l’art. 3 e comma 3 per la gravità avevano il rapporto 1 a 1, come si può vedere in uno dei grafici sottostanti, alcuni insegnanti hanno seguito anche più di 2 bambini fino ad un massimo di 5. Le scuole coinvolte tra C.D. e I.C. sono state 25, comprese le scuole dell’isola d’Elba e della Capraia, contattate via mail.

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2.1.2 La raccolta dei dati

Dall’elaborazione dei dati ho ottenuto una matrice con relativa legenda con la quale si possono evincere i dati espressi dalle risposte degli insegnanti; da questa modalità di estrapolazione dei dati ho potuto così ricavare delle tabelle descrittive con i relativi grafici. (Il software di statistica utilizzato è SPSS ultima versione 22.0). I questionari inviati sono stati 172 e rielaborati 116.

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Ho riportato alcuni grafici, quelli a mio avviso più esemplificativi, per quanto riguarda ad esempio la formazione dei docenti specializzati, si può notare l’ampia modalità di conseguimento dell’abilitazione nel corso degli anni, dall’istituzione dell’insegnante specializzato ad oggi, molto difforme in questi 40 anni. Importante è anche la risposta data dalla quasi totalità degli insegnanti al riguardo della percezione che hanno sull’integrazione scolastica, considerata come un accrescimento della propria professionalità e ritenuta molto importante ai fini del lavoro svolto con i bambini. Inoltre la maggior parte degli insegnanti ritengono sempre valido il nostro modello di integrazione scolastica, anche se nelle risposte

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aperte dove ho lasciato spazio a commenti personali, la maggior parte degli insegnanti più giovani ha sottolineato come nella scuola ancora non sempre l’inclusione viene espressa come la hanno studiata all’interno del percorso formativo universitario. Emerge quindi che l’impostazione dell’intero sistema inclusivo deve portare a quella che poi con la Legge 107 è stata definita “Buona Scuola” per tutti coloro che la vivono, adottando l’inclusione come fondamento della vita scolastica, che solo così può trasformarsi in una comunità pienamente inclusiva. 2.2 I risultati della ricerca

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Dall’incrocio delle variabili dei dati raccolti, si evincono molte considerazioni significative, ad esempio sulla formazione degli insegnanti di sostegno, che varia in base all’età anagrafica e alla provenienza. L’incrocio delle variabili a coppie del campione preso in oggetto (trattandosi di un campione numeroso appartenente alla stessa popolazione) utilizzando il Chi Quadrato di Pearson, uno degli strumenti più utili in questii tipi di studi. Inoltre ho potuto constatare l’importanza dell’incrocio di variabili tra le domande se “L’integrazione corrisponde ad una crescita professionale” e sulla “Validità del modello d’integrazione italiano”, in quanto dipendono l’una dall’altra, non solo per i soggetti del campione esaminato, ma anche per tutti quelli che hanno caratteristiche simili. Da alcune risposte emerge anche che il team docente, di cui l’insegnante di sostegno fa parte a pieno titolo, deve essere un sistema collegiale in cui ogni componente svolge compiti, assume funzioni specifiche, all’insegna della corresponsabilità e della condivisione.

Conclusioni e aspettative

Molto interessante sarebbe, a mio parere, sottoporre il questionario nelle restanti province della Toscana per ottenere un’indagine più approfondita su tale tema, per valutare l’incidenza che abbiamo sulla formazione degli insegnanti specializzati e quanto la loro percezione dell’inclusione possa incidere sulla qualità inclusiva sociale alla quale dobbiamo tendere per elevare la qualità della vita di ogni persona con o senza disabilità, soprattutto alla luce dell’entrata in vigore del recente DDL “La Buona Scuola”, tenendo anche conto della stabilizzazione del personale docente al quale stiamo andando incontro e al nuovo regolamento di formazione e assunzione dei docenti che è stato varato di recente. Siamo consapevoli che non sempre tutti i nostri docenti sono preparati a lavorare in modo personalizzato, differenziato, a focalizzare l’attenzione sulle operazioni procedurali piuttosto che sull’acquisizione dei contenuti, a programmare secondo modelli di lavoro flessibili e tesi all’attuazione di percorsi che si sviluppino non tanto secondo l’ottica dell’alfabetizzazione quanto verso il raggiungimento di traguardi educativi commisurati alle reali capacità del soggetto. Dai risultati ottenuti dai questionari si evince come nella scuola italiana abbiamo docenti formati e abilitati all’insegnamento con canali diversi, anche molto Summer School Bressanone - Prima parte


differenti tra loro e stiamo facendo fronte a questo inserendo nel Piano di Formazione elaborato attraverso i decreti attuativi della Legge 107 per gli insegnanti di ogni ordine e grado le modalità di innovazione metodologica, l’autonomia organizzativa e didattica, la didattica per competenze, le competenze digitali e nuovi ambienti l’apprendimento, le competenze di lingua straniera, l’inclusione e la disabilità, la coesione sociale e la prevenzione del disagio giovanile globale attraverso. La comunità scientifica pedagogica ed in particolare quella speciale, ha portato più volte la sua voce in Parlamento a tale riguardo e anche sulla futura formazione dei docenti curricolari e specializzati sulle attività di sostegno di ogni ordine e grado. Dal profilo attuale dell’insegnante di sostegno emerge una professionalità che deve incarnare in sé quell’ampliamento dell’orizzonte pedagogico che il settore delle disabilità ha visto nell’ultimo trentennio. Dai docenti stessi viene sottolineato che sentono la necessità di continuare a formarsi nel campo su competenze pedagogiche più ampie, volte alla dimensione d’aiuto non solo in forma personalizzata ed individualizzata, ma in contesti di piccolo gruppo, di classe intera, in contesti di reale integrazione. Spesso ancora emerge confusione tra il concetto di integrazione e quello di inclusione, soprattutto nei docenti non specializzati o con una formazione che risale alle Scuole Magistrali Ortofreniche. Il DM 30 settembre 2011 richiama spesso ad una dimensione collegiale del lavoro del docente, dentro la classe, per una gestione integrata del gruppo in cui l’allievo con disabilità sia incluso, ma anche fuori dalla classe, nel dialogo con la famiglia, i gruppi di lavoro sulla disabilità nella scuola, i servizi sanitari. L’ ambito di azione del docente di sostegno è quello che fa del docente di sostegno un trasformatore culturale; accanto ad un sapere teorico, deve possedere un sapere pratico, non soltanto nel senso delle tecniche e delle metodologie, bensì nel senso della progettualità e della propositività nell’area formativa della disabilità. Un ruolo quindi che non si limiti alla scuola ma che vada oltre, cioè avanti con il progetto di vita da costruire per il futuro dei propri alunni, insegnanti di sostegno con insegnanti curricolari, lavorando costantemente insieme perché solo così si potrà attuare una piena inclusione scolastica.

Riferimenti bibliografici Associazione TreeLLE, Caritas Italiana e Fondazione Giovanni Agnelli (2011). Gli alunni con disabilità nella scuola italiana: bilancio e proposte Trento: Erickson. Booth T., Ainscow M. (2014). Nuovo Index per l’inclusione. Percorsi di apprendimento e partecipazione a scuola. Roma: Carocci. Canevaro A., d’Alonzo L., Ianes D., Caldin R. (2011). L’integrazione scolastica nella percezione degli insegnanti. Trento: Erickson. Canevaro A. (2013). Scuola inclusiva e mondo più giusto. Trento: Erickson Decreto n. 254 del 16/11/2012, Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia del primo ciclo d’istruzione. Decreto Legislativo n. 107 del 13/07/2015, Buona Scuola. Direttiva Miur del 27/12/2012, “Strumenti d’intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”. European Agency for Development in Special Needs Education, rapporto di studio dal titolo “Or-

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La formazione degli insegnanti di sostegno sulle TIC. Analisi dei prodotti multimediali del corso di specializzazione per le attività di sostegno

Key-words: ICT, specialized teacher training, inclusive education, Digital literacy, SEN

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L’articolo è frutto della riflessione comune e della collaborazione tra gli autori. Per quel che riguarda la stesura del testo, Lucia de Anna ha curato il par. 1, Marzia Mazzer il par. 2 e 3, Marta Sánchez Utgé il par. 4, Silvio Marcello Pagliara, il par. 5, Lucia de Anna e Silvio Marcello Pagliara il par. 6.

Italian Journal of Special Education for Inclusion

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© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

ICT has been introduced in the Italian school system for more than 20 years (National Informatics Plan, 1985; 1991, National Digital School Plan, 2007; 2015) in order to facilitate teaching-learning processes for all. Researches show that besides access to technology, ICT-related educational innovation success depends above all on teacher training. In Italy, specialized teaching courses (Ministerial Decree 30/09/2011) prepare prospective teachers for working in inclusive classroom. Within these courses, a 75-hours class provides training for using ICT in the educational processes. The creation of a multimedia product is one of the demands of the final assessment. On the basis of the analysis of multimedia products presented by the prospective teachers who attended the course at University of Rome “Foro Italico” (2014/2015), the present work aims to highlight good practices but also critical aspects in SEN teachers training on ICT in order to reflect on how to improve training efficacy and impact.

abstract

Marta Sánchez Utgé (Università degli studi di Roma “Foro Italico” / marta.sanchez@uniroma4.it) Marzia Mazzer (Università degli studi di Roma “Foro Italico” / marzia.mazzer@uniroma4.it) Silvio Marcello Pagliara (Università degli studi di Roma “Foro Italico” / silvio.pagliara@centroausili.org) Lucia de Anna (Università degli studi di Roma “Foro Italico” / lucia.deanna@uniroma4.it)

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1. Introduzione: le TIC a scuola

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La scuola italiana da più di vent’anni ha aperto le porte alle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (TIC) al fine di favorire i processi di insegnamento-apprendimento per tutti gli alunni (de Anna, 2012; de Anna, Della Volpe, 2011; Maragliano, 2004; Pagliara, 2015; Calvani, 2010). Nel primo Piano Nazionale Informatica (PNI) del 1985 veniva introdotta la tecnologia informatica tra gli insegnamenti della scuola superiore affiancandola alla matematica e alla fisica. Nel Piano Nazionale varato dal MIUR nel 1991 si estendeva l’utilizzo degli strumenti informatici alle aree linguistico-letterarie. Il 2° Convegno Nazionale “Informatica, Didattica e Handicap” organizzato dal CNR a Pisa il 4-5 novembre 1991 (Pecchia et al., 1992), mise in evidenza il miglioramento della qualità della vita delle persone con disabilità grazie agli strumenti informatici per la didattica e per la comunicazione. Durante il Congresso furono presentate numerose esperienze d’integrazione scolastica che utilizzavano l’informatica nella costruzione dei percorsi didattici (de Anna, 1993, pp. 95100). Furono evidenziati, inoltre, programmi calibrati sulle singole disabilità per le differenti tipologie e si discusse molto sul metodo BLISS (Colombini, 1992), sulla comunicazione alternativa, sul sistema di comunicazione simbolica ACCESS brevettato dal CNR (Tronconi et al., 1992, pp. 184-190). L’attenzione alla disabilità si è evoluta rispetto agli anni novanta in cui gli strumenti tecnologici avevano prevalentemente una funzione adattativa e compensativa (Pietrella, 1993, pp. 91-94). Nel corso del tempo, infatti, le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (TIC) si sono affermate sempre di più come strumenti a sostegno di una didattica fondata sulla collaborazione e sulla condivisione della conoscenza (Calvani, 2004; Moricca, 2016) per raggiungere finalità formative complesse al fine di costruire contesti di apprendimento con strategie didattiche inclusive. Le potenzialità trasversali del digitale in classe sono state ribadite dal Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD) del 2007 che, attraverso tre azioni principali (LIM; Cl@ssi 2.0; Editoria Digitale), aveva l’obiettivo di modificare gli ambienti di apprendimento al fine di rendere la didattica sempre più laboratoriale (per concretizzare lo slogan “il laboratorio in classe e non la classe in laboratorio”) e di stimolare un apprendimento di tipo esperienziale, basato su una pluralità di linguaggi multimediali e su una logica di rete, capace di accogliere contributi multipli e responsabilità condivise (MIUR, s.d). L’ultimo PNSD (MIUR, 2015), in continuità con il precedente, si propone di guidare la scuola nel percorso di innovazione e digitalizzazione già intrapreso, come previsto dalla riforma della Buona Scuola (legge 107/2015), attraverso una strategia che investa parallelamente la dimensione tecnologica, quella epistemologica e quella culturale. In quest’ottica, “il digitale” si configura come “strumento abilitante, connettore e volano di cambiamento” (MIUR, 2015, p. 26) per promuovere una scuola aperta e inclusiva all’interno di una società in continua trasformazione. L’innovazione didattica attraverso le tecnologie digitali passa necessariamente per la formazione iniziale e in servizio degli insegnanti che sono chiamati a riformulare le modalità di insegnamento-apprendimento tradizionali alla luce delle potenzialità che le TIC offrono in termini di accessibilità pedagogica e inSummer School Bressanone - Prima parte


clusione (de Anna, 2012, 2014a; Pagliara, 2015, Sánchez Utgé, 2016). Tale necessità viene riconosciuta chiaramente dall’Unione Europea che già da diversi anni rileva che “besides access to technology, a number of other factors determine the success or failure of ICT-related educational innovation. Teacher training appears to be a critical factor” (EU, 2003). Nel contesto attuale, la questione della formazione diventa sempre più urgente vista la ormai capillare diffusione delle tecnologie a cui corrisponde il crescente bisogno, da parte degli insegnanti, di sviluppare competenze digitali appropriate. Come viene rilevato da uno studio dell’OECD del 2013, infatti, la formazione sulle TIC rappresenta uno dei bisogni formativi più frequentemente segnalati dai docenti dei paesi coinvolti nell’indagine: On average, the second and third most important professional development needs teachers report are related to teaching with information and communication technology (ICT) skills (19% of teachers) and to using new technologies in the workplace (18% of teachers), two items closely related to each other (OECD, 2014, p. 109).

Tali dati risultano strettamente correlati alla capacità di rispondere alla diversità dei bisogni educativi della classe. Gli insegnanti stessi, infatti, individuano nell’utilizzo delle TIC uno dei descrittori fondamentali per l’individualizzazione, la personalizzazione e la progettualità di attività inclusive, intra ed extra-scolastiche, ai fini del successo formativo di tutti. Tale dato emerge anche da recenti ricerche condotte presso l’Università degli studi di Roma “Foro Italico” mirate a rilevare i bisogni formativi dei corsisti frequentanti il corso di specializzazione per le attività di sostegno (de Anna, 2016; Covelli 2016; Pagliara, 2016). La necessità di una formazione innovativa sulle TIC viene affermata anche dalla Commissione Europea, nel quadro della Strategia Europa 2020 (2015/C 417/04), ravvisando l’opportunità di formare i docenti per far fronte alle esigenze individuali dei discenti, in ragione della loro crescente eterogeneità e provenienza da contesti sociali, culturali, economici e geografici diversi. La logica attuale non si muove solamente nella direzione del recupero e dell’assistenza ma anche, e soprattutto, in quella della prevenzione dell’abbandono scolastico e dell’insuccesso formativo. L’impegno viene pertanto rivolto all’uso ottimale di pedagogie innovative e di strumenti TIC. I dispositivi UE quali eTwinning, School Education Gateway e la piattaforma elettronica per l’apprendimento degli adulti in Europa (EPALE) nascono proprio con queste finalità. La normativa italiana ha colto tali sfide e già da diversi anni inserisce la formazione sulle TIC nei percorsi formativi sia degli insegnanti curriculari che di quelli di sostegno (DM 249/2010), in linea anche con le indicazioni europee suaccennate. Nel presente lavoro, ci soffermeremo, in particolare, sulla formazione all’uso delle TIC all’interno dei corsi di specializzazione per le attività di sostegno regolamentati dal DM del 30 settembre 2011. Quest’ultimo prevede tra le competenze in uscita dell’insegnante di sostegno, competenze didattiche specificatamente legate all’uso delle TIC. All’acquisizione di queste ultime, vengono dedicati 3 CFU, pari a 75 ore in presenza, che rientrano nello spazio dedicato al tirocinio indiretto. Durante l’esame finale i corsisti sono tenuti a dare prova delle abilità maturate mediante la presentazione di un prodotto multimediale anno V | n. 1 | 2017

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che viene elaborato con il supporto dei tutor TIC. Tale prodotto, come illustreremo nel prossimo paragrafo, ha rappresentato il focus del presente lavoro.

2. La formazione degli insegnanti di sostegno sulle TIC: analisi dei prodotti multimediali

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La presente indagine si inserisce all’interno di un’analisi più ampia che il gruppo di ricerca del Laboratorio di Didattica e Pedagogia Speciale dell’Università di Roma “Foro Italico” sta conducendo da diversi anni sulla formazione, iniziale e in servizio, degli insegnanti specializzati nei processi di integrazione e inclusione allo scopo di verificare e valutare l’azione formativa e le sue ricadute in ambito scolastico. Tale analisi è stata dapprima condotta nell’ambito del Consorzio SSIS Lazio ed è proseguita nei primi due cicli (2013/2014 e 2014/2015) del corso di specializzazione per le attività di sostegno erogati dall’Università di Roma “Foro Italico” (de Anna, 2014a, 2016). All’interno dei suddetti corsi di specializzazione, le TIC costituiscono uno strumento fondamentale e trasversale sia agli insegnamenti teorici che ai laboratori. La formazione, infatti, si avvale di una piattaforma didattica dedicata che rappresenta non soltanto uno spazio all’interno del quale i docenti possono caricare materiali e risorse, assegnare compiti o trasmettere informazioni ma anche un luogo di condivisione e dialogo che può stimolare esperienze di apprendimento cooperativo e intercreatività. La multimedialità caratterizza anche le lezioni in presenza durante le quali viene adottata una molteplicità di dispositivi e mediazioni didattiche a supporto dei processi di insegnamento-apprendimento. A fronte di tale premessa, questo lavoro si è focalizzato sull’impiego delle TIC da parte dei corsisti e, in particolare, sui prodotti multimediali presentati da questi ultimi in sede di esame finale con l’obiettivo di verificare l’acquisizione delle competenze pedagogiche e didattiche necessarie per integrare le TIC, anche in funzione di bisogni educativi specifici, all’interno di una progettazione inclusiva (in linea con quanto espresso dal Piano Formazione Docenti 2016-2019). A partire da questa analisi, si intende stimolare una riflessione sulle strategie utili per massimizzare in futuro l’efficacia della formazione degli insegnanti sull’impiego delle TIC in classe. Per raggiungere il suddetto obiettivo sono stati ricostruiti i processi che hanno portato alla realizzazione dei prodotti multimediali attraverso le seguenti fasi:

1. Analisi delle linee di riferimento elaborate dal Direttore del corso, prof.ssa Lucia de Anna, in collaborazione con tutti i tutor TIC del primo ciclo finalizzate a identificare le finalità e gli obiettivi trasversali e specifici per ogni grado di scuola riguardo alla formazione sulle TIC e a fornire indicazioni sul significato e le caratteristiche generali del prodotto multimediale. Tali linee sono state presentate e condivise tra i tutor e i corsisti sia del primo ciclo (240 corsisti e 8 tutor) che del secondo ciclo, oggetto della ricerca in questione (8 Tutor di cui 4 per la scuola primaria e 139 corsisti di cui 58 della scuola primaria). 2. Interviste strutturate con i tutor TIC del secondo ciclo in qualità di testimoni privilegiati del percorso formativo (sia per il ruolo rivestito che per la loro ex-

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pertise sull’argomento) in merito a: obiettivi formativi, competenze in entrata e in uscita dei corsisti, criticità incontrate ed eventuali soluzioni adottate. Le interviste sono state rivolte a 3 dei tutor (su 4 totali) del gruppo della primaria, 2 dei quali con più di 10 anni di esperienza come formatori TIC; 3. Individuazione degli indicatori ed elaborazione di griglie di analisi sulla base delle informazioni ottenute; 4. Analisi dei prodotti multimediali presentati dai corsisti della scuola primaria (n. 58) all’esame finale.

3. Analisi Linee di riferimento

Dal primo documento oggetto di studio, le Linee di riferimento per i Tutor TIC e per i corsisti, appare con chiarezza l’approccio con cui si intendeva venissero affrontate le TIC all’interno del corso di specializzazione per le attività di sostegno dell’Università di Roma “Foro Italico”: Il corso è connotato non tanto dalla trasmissione di conoscenze tecniche specifiche, quanto dall'obiettivo di sviluppare competenze metodologiche atte a riflettere su come utilizzare proficuamente le tecnologie come strategie didattiche integrate (de Anna, 2007, 2014a; Pagliara, 2015) o come mediazioni didattiche per l’apprendimento (Moliterni, 2013). Inoltre, rappresenta un’utile opportunità di maturazione di metodi, metodologie e strategie didattiche inclusive che un professionista deve saper padroneggiare per poter intervenire nell’azione di insegnamento-apprendimento, applicando le modalità tecnologiche più favorevoli al successo scolastico, affrontando le questioni dell’inclusione scolastica e sociale di ogni alunno.

I processi di inclusione, dunque, rappresentano il focus dell’azione didattica e le tecnologie, al pari di altri mediatori, possono contribuire alla crescita e alla riuscita di tutti i bambini, stimolando un processo di riflessione critica che aiuti a promuovere l’innovazione didattica. Le richieste che scaturivano dalle Linee di Riferimento, nello specifico, erano di elaborare un prodotto multimediale che: a) fosse correlato all’esperienza diretta di tirocinio; b) fosse inserito nella progettualità della classe; c) rappresentasse un contributo innovativo e originale.

In questa prospettiva, l’introduzione delle TIC in classe avrebbe dovuto favorire la didattica inclusiva stimolando: – l’accesso alla vita scolastica e ai saperi; – la partecipazione attiva di tutti gli alunni; – l’apprendimento. Per assolvere a tali obiettivi, le TIC avrebbero dovuto essere utilizzate per:

– motivare gli alunni; – favorire modalità di apprendimento tra pari (peer tutoring; apprendimento cooperativo); anno V | n. 1 | 2017

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rispondere alle specificità e ai bisogni educativi di ognuno; attivare modalità di apprendimento metacognitivo; stimolare l’autonomia; favorire lo sviluppo delle abilità comunicative; favorire lo sviluppo delle abilità affettivo-relazionali.

4. Interviste ai tutor TIC

Nella seconda fase dello studio sono state condotte delle interviste strutturate ai tutor TIC, le domande e le relative risposte vengono illustrate di seguito.

Domanda n.1 Quali erano gli obiettivi formativi che ti eri prefissato di raggiungere prima dell’inizio del corso? Tra gli obiettivi che i tutor si erano prefissati figurano l’acquisizione da parte dei corsisti di: – capacità di utilizzare le tecnologie come supporto all’inclusione; – capacità di ricercare e utilizzare strumenti di supporto e di compensazione; – maggiore consapevolezza sull’utilizzo delle TIC; – capacità di riconoscere le potenzialità delle TIC; Un ulteriore obiettivo riguardava la riduzione o eliminazione di pregiudizi, ansie e paure nei confronti delle tecnologie da parte dei corsisti.

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Gli obiettivi dei tutor sono risultati tendenzialmente in linea con le linee di riferimento, come si evince dalla seguente tabella: !"#$%%#&#'()%*+' !"#$%&'()*)++"%$&*$&($,-.*./)$& ,.0$&1'##.%(.&"**2)-,*'1).-$&

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Solo un obiettivo individuato dai tutor non era stato previsto nelle linee di riferimento: la riduzione dei pregiudizi e dell’ansia dei corsisti di fronte alle TIC. Dalle interviste è emerso, infatti, che spesso i corsisti manifestano “pregiudizi”, “paura” o “diffidenza” nei confronti delle TIC. Queste sensazioni possono ostacolare il processo di formazione e, dunque, i tutor hanno ritenuto necessario tenerne conto.

Domanda n. 2 Quali erano le conoscenze e competenze sulle TIC dei corsisti all’inizio dell’anno? Corrispondevano alle tue aspettative? Per quanto riguarda le competenze e le conoscenze dei corsisti, i tutor hanno manifestato che erano molto variegate e, nella maggior parte dei casi, appena sufficienti, sebbene hanno incontrato alcune persone con livelli di competenza molto alti. In relazione alle aspettative, i tutor attendevano corsisti che avessero una conoscenza diffusa degli applicativi di base (Microsoft Office e/o similari; browser per la navigazione in internet; gestione della posta elettronica, ecc.) e la capacità di pubblicare notizie su un blog, forum o social network, mentre non nutrivano particolari aspettative verso la conoscenza di software didattici specifici o per la produzione audiovisiva. Tali risultati si collegano ai dati dell’indagine TALIS 2013 (OECD, 2014) sopracitata, come abbiamo visto, in media l’esigenza degli insegnanti di formazione su “ICT skills for teaching” si colloca al 2° posto (19%), mentre in Italia figura addirittura al 1° (36%) (OECD, 2014, p. 109). Tale dato è ancor più significativo se consideriamo che al 1° posto (al 2° in Italia) figura il bisogno di “Teaching students with special needs” (22%) (ivi, p. 347). Ciò conferma gli obiettivi sopra richiamati del recente Piano Formazione Docenti 2016-2019 del MIUR, che individua tra le priorità nazionali di formazione lo sviluppo di competenze digitali e competenze riguardanti inclusione e disabilità (MIUR, 2016). Di fronte a tali risultati possiamo affermare che i corsi di specializzazione per le attività di sostegno dovrebbero rispondere proprio a questi due bisogni complementari. I corsisti hanno motivato il loro livello basso di competenza nell’utilizzo delle TIC con la mancanza di risorse tecnologiche a scuola. Tale dato è in contrasto con gli investimenti sulle TIC dichiarati dal MIUR (2015). Dal 2007 al 2012 (PNSD), infatti, sono stati spesi:

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93.354.571€ per l’Azione LIM 10.524.817 per l’Azione Cl@ssi 2.0 4.500.000 per l’Azione Scuol@ 2.0 4.400.00€ per l’Azione Editoria digitale scolastica 33.000.000€ provenienti dagli Accordi MIUR-Regioni (MIUR, 2015, p. 12-13).

per un totale di 145.779.388,00€. Inoltre, per far fronte a una presunta carenza di risorse, bisogna anche tenere in considerazione la possibilità che gli studenti utilizzino i propri dispositivi. Il BYOD- Bring Your Own Device (Calvani, 2013; Trentin, 2015), infatti, viene individuato dal PNSD 2015 come uno degli “strumenti” metodologici da impiegare (azione #6, pp. 47-78).

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Domanda n. 3 Nella creazione dei prodotti multimediali, quali criticità hai rilevato e come sono state superate? Le difficoltà riscontrate dai tutor durante il corso sono state relative a:

– Scarse competenze in entrata dei corsisti: difficoltà a mediare la conoscenza di nuovi strumenti informatici. – Problemi di natura tecnica/tecnologica: i tutor hanno lamentato che la rete talvolta era lenta e non supportava il collegamento di tutti i corsisti.

Sono intervenuti adottando alcune soluzioni di tipo pedagogico-didattico (es. lavoro in piccoli gruppi, azioni di tutorato tra pari, affiancamento individualizzato del docente, uso della LIM per presentare i software al gruppo, ecc.). Per i problemi di carattere tecnico, invece, si è chiesto ai corsisti di utilizzare le risorse personali (reti domestiche) al fine di scaricare i software da portare in laboratorio. Il problema delle reti è comunque da evidenziare perché sussiste in Italia in diversi ambiti e regioni, come rilevato dalle indagini condotte dalla Commissione Europea nell’ambito del Digital Economy and Society Index, in cui l’Italia risulta al 25° posto (sui 28 paesi europei). Per quanto riguarda la connettività, l’Italia si attesta addirittura al 27° posto (European Commission, 2016).

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Domanda n. 4 Le competenze e conoscenze dei corsisti in uscita hanno corrisposto alle tue aspettative? Ci sono stati dei risultati inattesi? Tutti i tutor hanno affermato di aver riformulato e diversificato gli obiettivi del corso dopo aver accertato i livelli di competenze iniziali dei corsisti. Grazie a questa revisione, l’intero gruppo è riuscito a creare prodotti multimediali utili alla loro esperienza di docenti di sostegno. Gli specializzandi sono riusciti a fare un uso consapevole e critico delle TIC, individuando gli applicativi più consoni ai percorsi formativi proposti e alle loro capacità e competenze ai fini di una didattica inclusiva. Questo risultato si avvicina alle definizioni di competenze digitali in cui viene evidenziato: […] il fatto di trovarsi di fronte a un costrutto complesso e stratificato, che raccoglie al suo interno una varietà di conoscenze e abilità che rinviano non tanto, o non solo, a capacità tecnico –informatiche, quanto ad aspetti cognitivi, metacognitivi ed etico-sociali (Ranieri, 2010, p. 30).

Dal momento che i laboratori sono stati organizzati utilizzando una didattica cooperativa, i corsisti hanno potuto sperimentare alcuni dei vantaggi di queste metodologie in qualità di discenti. Ciò ha permesso loro di acquisire la capacità di ascolto, di lavoro in gruppo, di collaborazione, presupposti indispensabili per i processi di integrazione e di inclusione (Canevaro et al, 2011; d’Alonzo, 2014; de Anna, 2014b; Ianes, Cramerotti, 2015; Pavone, 2014). Infine, i tutor si sono dichiarati soddisfatti del percorso di crescita personale e professionale dei corsisti e dei cambiamenti di atteggiamento riscontrati nei confronti delle TIC. I corsisti, infatti, si sono via via incuriositi e hanno dichiarato di voler proseguire il percorso di formazione su queste tematiche, manifestando, inoltre, l’intenzione di utilizzare le TIC in classe. I dati rilevati da queste interviste sono stati funzionali all’analisi dei prodotti multimediali, oggetto di studio di questa indagine. Summer School Bressanone - Prima parte


5. Analisi prodotti multimediali

Nell’analisi sistematica dei prodotti, il primo elemento preso in considerazione è stato la modalità di presentazione del prodotto multimediale in sede di esame. Come si può osservare dal grafico 1, il 41% dei corsisti ha optato per una presentazione in powerpoint, mentre il 26% ha scelto modalità più dinamiche come i filmati, altri ancora hanno presentato dei prodotti più interattivi come ebook e blog.

Grafico 1. Come vengono presentati i prodotti

Il secondo aspetto che è stato esaminato ha riguardato la correlazione del prodotto con l’esperienza di tirocinio diretto. Tale correlazione può essere significativa nella misura in cui l’uso delle TIC si inseriva in una progettualità della classe, come richiamato dalle linee di riferimento. Dai risultati è emerso che il 91% dei prodotti erano collegati al tirocinio diretto, in linea con le nostre aspettative. La nostra indagine è proseguita su questi ultimi prodotti, a partire dalle finalità con cui erano stati realizzati. Dall’analisi è emerso che il 35% dei corsisti ha utilizzato le TIC per rappresentare, durante l’esame finale, l’intervento didattico svolto durante il tirocinio, mostrando di aver acquisito almeno le competenze necessarie ad utilizzare consapevolmente diversi software per presentare un contenuto. Questo fa supporre che, nonostante non ci siano evidenze sull’uso delle TIC durante il tirocinio, queste siano entrate comunque nel loro bagaglio professionale come ulteriori strumenti da adoperare in futuro. Il 65% dei corsisti, invece, ha inserito le TIC nella propria azione didattica, di questi il 43% ha coinvolto attivamente gli studenti nell’utilizzo delle TIC, mentre il 22% ha utilizzato le TIC come modalità per presentare e trasmettere i saperi.

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Grafico 2. Uso delle TIC nei progetti di tirocinio

Successivamente, abbiamo analizzato le risorse che i corsisti hanno utilizzato nelle loro programmazioni:

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– Software per presentare i contenuti (powerpoint, prezi, kizoa, moviemaker, powtoon); – Software che sono stati utilizzati interattivamente con gli alunni (word, powerpoint, primilibri, didapages, jclic, quaderno ipermediale…); – Ausili e tecnologie assistive utilizzate dagli alunni con disabilità (comunicazione aumentativa e alternativa – CAA, Tastiere semplificate, etc); – LIM – Editor per video, immagini e audio – APP per smartphone, tablet, etc; – Risorse online, con riferimento a ricerche sul web da parte degli alunni; – Hardware

Grafico 3. TIC utilizzate nelle progettazioni di tirocinio

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Un dato interessante che si evince dall’analisi, è il fatto che la maggior parte dei corsisti ha utilizzato diverse risorse contemporaneamente nell’azione didattica, sfruttando la pluralità dei linguaggi che le tecnologie offrono (grafico 4).

Grafico 4. Numero di risorse utilizzate in ogni progettazione di tirocinio

Un’analisi approfondita sulle attività relative ai progetti di tirocinio potrebbe aggiungere ulteriori informazioni riguardo l’effettivo uso delle TIC come mediatori nei processi didattici. In base anche a questa ulteriore analisi si potrebbe effettivamente comprendere quanto i docenti coinvolti possano aver superato “quella resistenza” inerziale nel rimodulare la propria attività didattica in seguito all’introduzione delle TIC. Come affermano Calvani (2004) e Maragliano (2004), infatti, la semplice introduzione delle TIC in ambito didattico non “produce quel miglioramento nella qualità dell’educazione” ma dovrebbe comportare un ripensamento dell’intera attività didattica influendo non solo sull’attività pratica (Maragliano, 2004).

6. Considerazioni conclusive

Una considerazione che nasce a partire dai riscontri diretti dei prodotti creati dagli specializzandi è una sorta di fraintendimento su cosa dovesse essere il “prodotto multimediale”. Dalle linee guida e dalle interviste ai tutor, come abbiamo visto, emerge chiaramente l’indirizzo dato. Il prodotto multimediale avrebbe dovuto rappresentare l’applicazione delle conoscenze e competenze sulle TIC nei propri progetti didattici. Nella pratica, attraverso i prodotti multimediali, si sarebbe dovuto evidenziare il processo di metacognizione da abilità tecniche e tecnologiche a competenze digitali, favorenti i contesti di apprendimento pienamente inclusivi. La maggior parte dei corsisti ha dimostrato di conoscere e

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di usare le TIC anche in modo funzionale alla propria didattica. In molti casi, tuttavia, l’uso della tecnologia non è stato “pensato” a priori o previsto nella fase di progettazione didattica, piuttosto, è intervenuto nell’uso quotidiano in compensazione o sostituzione di altri strumenti. Questa assenza nella progettazione espone ad un maggior rischio di fallimento legato a problematiche tecniche, come eventuali malfunzionamenti hardware o software. Altresì, un processo di progettazione che passi attraverso una metacognizione verso competenze tecnologiche consentirebbe di far fronte anche ad ulteriori imprevisti. Ad esempio se l’insegnante ha progettato un’attività di studio e ricerca in aula che preveda l’uso di diverse tecnologie e la divisione in piccoli gruppi di studenti, eventuali imprevisti possono essere superati ipotizzando l’uso combinato di LIM, BYOD. Nella riprogettazione e ridefinizione delle attività di tutor TIC e, più in generale, nell’introduzione delle tecnologie per la formazione degli insegnanti (Pagliara, 2015) sarà utile tenere in considerazione tutti questi aspetti. La riflessione ci conduce ancora una volta a considerazioni che riguardano, in generale, l’azione didattica dei docenti che non riesce pienamente a coniugarsi nella costruzione di apprendimenti non più standardizzati bensì reticolari, di accesso ai saperi. La complessità dell’azione formativa richiede un progetto, “un pensiero organizzatore che sappia distinguere e collegare, andare verso conoscenze e scienze specifiche, ma individuandone le connessioni” (Moliterni, 2015, p.116). Inoltre, le competenze inclusive restano talvolta separate dalle discipline e vengono viste come risposte a singoli bisogni, senza intrecciarsi con l’evoluzione digitale nei contesti di insegnamento-apprendimento che potrebbero così offrire maggiori opportunità di crescita e di sviluppo dei saperi stessi. I processi di integrazione e inclusione richiedono un’azione di reciprocità, per una conoscenza diffusa delle problematiche della disabilità e dei bisogni educativi speciali e non possono prescindere dal finalizzare l’azione di apprendimento allo sviluppo e alla diffusione di una cultura inclusiva, che considera la diversità un valore per tutti (de Anna, 2015, p.61).

Non si tratta di operare per adattare la persona con disabilità unicamente al contesto, ma anche di trasformare i contesti utilizzando mediatori specifici che permettano alla pluralità di soggetti e ai differenti sviluppi di partecipare e migliorare i propri apprendimenti (Canevaro e Malaguti, 2014 p.101).

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SÁNCHEZ UTGÉ, MAZZER, PAGLIARA, DE ANNA

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Summer School Bressanone - Prima parte


Gioco e disabilità, un’oscillazione tra limite e piacere

Key-words: Special needs education, Children with disability, Children Inclusive education, Play, Education

1. Riflessione teorica

*

L’articolo è frutto in un lavoro condiviso tra gli autori. Ai soli fini accademici si segnala che Francesca Antonacci ha redatto il paragrafo Gioco, educazione, disabilità, Carlo Riva il paragrafo Come giocare con un bambino con disabilità? e Elisa Rossoni il paragrafo L’esperienza dello Spazio Gioco di l’abilità onlus.

Italian Journal of Special Education for Inclusion

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© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

The article intends to start a critical and problematizing reflection on play and on disability, both of which are dimensions kept to the sidelines of our society which is dedicated to growth and productivity by a disciplining and normalizing pedagogical thought. A renewed view is proposed on play that can recognize its constitutive ambivalence, its transformative and subversive power and an expert and respectful view on disability which can approach the fragile and recondite dimensions of existence. Only through this view can play be accepted and reinstated into educational contexts and also into the life projects of people with disabilities as a fundamental and vital experience in view of their well-being and social inclusion. The experience of the Play Area of the non-profit association L’abilità is presented as a paradigmatic and innovative example of the implementation and realization of a radical and transformative thought which has established and returned a precious space and time for play to children with disabilities. It is a project which has been evolving continuously for fifteen years in search of new possibilities, uncertainties and elation, swinging between the border and the pleasure of daring.

abstract

Francesca Antonacci (Università degli studi di Milano-Bicocca / francesca.antonacci@unimib.it) Carlo Riva (l’abilità Associazione Onlus / carloriva@labilita.org) Elisa Rossoni (l’abilità Associazione Onlus / spaziogioco@labilita.org)

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1. Gioco, educazione, disabilità

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Il gioco è attività di oscillazione per eccellenza. Come l’altalena con il suo moto dondolante trascina i corpi dei bambini a provare l’ebbrezza, con quel misto di paura e eccitazione, così il gioco ha il potere di trascinare nel suo moto ondulatorio tra elementi contrapposti i soggetti che vi si abbandonano, soprattutto in relazione al suo potere di coinvolgimento integrale, che comprende corpo, mente, affetti, cognizione, memoria. Questo potere di oscillazione del gioco si esercita sempre tra poli antinomici, regole/libertà, vittoria/sconfitta, cooperazione/competizione, abilità/inabilità, competenza/casualità. Si nutre di contraddizioni, incertezze, paradossi e nasce da una increspatura del reale, quando la materialità del mondo, logica, razionale, strutturata, ordinata, si confonde, intorbidisce, crepa, spacca. Quando un oggetto non viene utilizzato in senso proprio, ma figurato, immaginato, trasformato. Così uno scatolone gettato torna a vivere come castello, astronave, macchina del tempo. Così pezzetti di legno e sassolini diventano compagni, amici, strumenti per interi pomeriggi di costruzione. C’è gioco ovunque la realtà si mescoli e misceli all’immaginazione, al fantastico, allo scherzo, al poetico; deve esserci una relazione tra opposti che generi uno scarto, un salto, uno spazio interstiziale tra elementi differenti, come lo spazio tra due meccanismi accoppiati, ad esempio la vite e il bullone, che non a caso si chiama gioco. Il gioco dovrebbe essere accettato in questa sua costitutiva ambivalenza: esso non è solo una attività, ma soprattutto una attitudine a sostare in una zona liminale, transizionale, interstiziale. È una attività di soglia, tra il piacere e la noia, tra la crescita e la iterazione del già visto, tra la trasformazione salvifica e benefica e quella nichilista e distruttiva. Gioco può essere creativo, oppure dissipativo, può generare senso oppure distrarre dalle occupazioni utili alla crescita, può divertire o far provare ebbrezza. Anche per questo motivo, per la sua imprevedibilità, per la sua impertinenza, per il suo essere irragionevole, nel senso di oltrepassamento e scarto dal ragionevole, giocare è un’istanza difficilmente pedagogizzabile: non si può certo insegnare ai bambini, poiché per eccellenza è l’attività nella quale il loro sguardo stupefatto si esercita a cambiare dinamiche e relazioni tra le cose e le persone fuori dai contesti educativi e spesso contrapposti ad essi. Da pedagogisti e educatori non si può facilmente entrare nel gioco infantile, pena il rischio di comprometterne il portato gioioso e la spontaneità, se non facendolo con uno sguardo rispettoso, umile e attento a sostenere e supportare, non a dirigere e condurre. Spesso l’intrusione pedagogica nel gioco d’infanzia sancisce la fine del gioco stesso e la sua trasformazione in attività educativa, che è legittima e importante, ma che non si può confondere con quella ludica. Il gioco, proprio per questa sua costitutiva ambivalenza, non viene sempre valorizzato nei contesti educativi. Può essere interpretato come attività piacevole e amplificante di abilità e competenze fino al nido d’infanzia e alla scuola dell’infanzia. Il gioco viene accettato come veicolo di cambiamento e sviluppo per la crescita, solo per i bambini più piccoli: da un lato per un’auto evidenza del suo portato trasformatore, che non può essere smentito da alcuna pedagogia, dall’altro per il potere attrattivo che esso esercita, al punto da rendere difficile distogliere i bambini dal suo esercizio, in ogni momento della giornata. I. Riflessione teorica


Ma non appena inizia la scuola primaria e si strutturano i contesti disciplinati dell’insegnare il gioco viene escluso dalla programmazione quotidiana e viene concesso come ri-creazione. Se solo si facesse più attenzione al potere simbolico e materiale di tale espressione ri-creazione, si potrebbe riconoscerne il valore generativo del nuovo e di rappresentazione, sistematizzazione, riorganizzazione e rielaborazione di quanto vissuto nelle ore “di scuola”, ma più spesso ri-creazione è usato come sinonimo di intervallo, rilevandone il valore minoritario di intermezzo, di sosta, pausa tra attività più importanti. Tuttavia, dal momento che il gioco si sviluppa solo dove si può coniugare con la libertà, è arduo imbrigliarlo nella didattica, anche perché è difficilissimo prevederne gli effetti e la portata trasformativa. Per la sua svalutazione in ambito pedagogico già nella primaria quindi viene tollerato e più avanti viene bandito, come perdita di tempo, nella quale è bene non indulgere troppo. Inoltre il legame tra infanzia e gioco è spesso il segno evidente di una svalutazione di entrambi: in fondo quando si gioca non si lavora, e questo tende, nella prassi e spesso anche nella progettazione, a relegarlo tra le attività marginali, in generale nei contesti educativi dopo il periodo 0-6, e in modo particolare nei contesti dove soggiornano o vengono ospitate persone con disabilità. Per la sua costitutiva ambiguità, contraddittorietà, ambivalenza, e per la sua costitutiva svalutazione il gioco è un’attività difficile, a volte difficilissima ma mai impossibile come vedremo, per bambini con disabilità, perché la disabilità di questi bambini spesso si insinua, insedia e infine installa proprio nello spazio interstiziale necessario alla nascita e al proliferare delle attività di gioco. Ovviamente è impossibile parlare se non generalizzando le situazioni dei singoli, che andrebbero sempre lette nella loro contestualizzazione eppure proveremo a leggere tra le situazioni alcuni elementi utili per avviare una riflessione che tenga insieme i tratti comuni principali. In alcuni casi è difficile o difficilissimo creare le condizioni di possibilità per lo scarto tra realtà e immaginazione necessario per fare gioco e ci sono situazioni nelle quali è difficile oscillare, dove ci sono fenomeni di fissazione, cristallizzazione, e consolidamento di comportamenti e modelli di relazione. E diventa quindi difficile cambiare ruolo, visione, prospettiva, tutte attività necessarie al gioco. O ancora situazioni dove è difficile muovere il corpo in modo da generare cambiamenti nel contesto che producano risultati soddisfacenti come lanciare una palla a un amico, o rovesciare una pila di lattine. Perché c’è anche questo in gioco, il piacere di riuscire, il successo, poiché esso non è separabile dal godimento, dalla gioia, dalla gratificazione. Oppure situazioni dove è difficile sentire ed elaborare positivamente gli stimoli, per eccessiva sensibilità o il suo contrario che non consentono una proficua oscillazione, tra contatto col mondo esterno e possibilità di trattenere gli stimoli internamente e elaborarli come gratificanti. Perché il gioco si situa nella relazione tra mondo interno e mondo esterno, in qualità di fenomeno transizionale, luogo dove si esercita la proficua dinamica della conoscenza, tra incorporazione dell’esperienza e la sua rielaborazione. Inoltre, nel caso delle attività pensate e rivolte alle persone con diverso grado di disabilità, esiste una gerarchia delle priorità, nel senso che le attività educative sono già considerate minoritarie, meno importanti di quelle terapeutiche, a maggior ragione quelle ludiche. anno V | n. 1 | 2017

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Ma forse è importante provare a mettere in discussione tali priorità provando a scardinare giudizi consolidati. Nella progettazione educativa rivolta alle persone con disabilità viene relegato un tempo residuale, se non inesistente, alle attività di gioco. Che senso ha giocare e far giocare un bambino che viene considerato manchevole, minorato, mancante, malato? Meglio indirizzare le energie, le risorse (che sono sempre meno) e i tempi alla sua terapia, riabilitazione, acquisizione di competenze e abilità, anziché perdere tempo a farlo divertire, a svagarsi, bighellonare con gli altri. Per ripensare completamente il ruolo del gioco nella vita delle persone, con e senza diversi gradi di disabilità, esso non dovrebbe essere visto in modo dicotomico come attività funzionale, utile ad acquisire competenze e abilità oppure al contrario come svago o divertissement. Il gioco invece dovrebbe essere ripensato come attitudine problematizzante, ricca e complessa, dovrebbe essere accettato e integrato nella progettazione in qualità di luogo speciale, separato, e per questo prezioso, nel quale amplificare la vita, la sua rielaborazione in vista della ricerca del benessere. Secondo Nussbaum (2001; 2012) il gioco è una delle sfere della vita maggiormente legato al benessere dei soggetti. Giocare è intesa come capacità fondamentale per godere dei diritti politici; del benessere socio esistenziale; della compagnia degli altri; del piacere di provare sensazioni, emozioni; di stupirsi e desiderare. Anche (solo) per questo motivo il gioco dovrebbe essere maggiormente valorizzato e promosso come fonte di oscillazione, nel senso di una attività benefica di alternanza tra processi distolici e diastolici, per introiettare ed espellere come nell’atto del respiro, per accogliere e respingere, per rielaborare in un processo dinamico, in consonanza con il mondo circostante, per amplificare le possibilità di dondolare, oscillare, in un movimento necessario all’equilibrio. L’equilibrio infatti viene erroneamente considerato uno stato, e pensato come condizione di immobilità e solidità, ma si tratta invece di un continuo processo di assestamento e riassestamento, sempre in movimento, sempre dinamico e mai pienamente raggiunto come ben sanno coloro che lo cercano in modo intenzionale, come i danzatori, i funamboli, gli skater e i surfer. Ma per amplificare le condizioni di equilibrio, fondamentali e preziose per tutti e a maggior ragione per chiunque sia portatore di disabilità, è necessario conferire maggior dignità, valore e quindi aumentare gli spazi e i tempi del gioco: vero maestro di ogni oscillazione, vista come dondolamento (Jousse, 1979), come benefico generatore di benessere. Per questo si presenta l’esperienza dello spazio gioco, un servizio sul territorio di Milano che nasce nel 2000, con l’obiettivo di promuovere e restituire il diritto e il piacere del gioco al bambino con disabilità.

I. Riflessione teorica


2. L’esperienza dello Spazio Gioco di l’abilità onlus

L’errore più clamoroso della riabilitazione del bambino disabile è stato ignorare ciò che forse più caratterizza il bambino come connotazione specifica e peculiare, cioè il gioco, non tanto perché si è del tutto tralasciata la dimensione del gioco quanto di dimenticare i mondi senza fine che sono dentro il bambino: fantasie, desideri, spazi, libertà. Il bambino disabile ha bisogno di un adulto che sappia entrare in contatto con questi mondi, che abbia questa particolare disposizione. G. Boccardi

Come può giocare un bambino con disabilità? Se un bambino non riesce a sorreggere il capo, ad afferrare un oggetto e dirige continuamente lo sguardo, in modo stereotipato e ripetitivo, verso le sue mani quali stimoli posso proporgli per coinvolgerlo in un’esperienza interessante e motivante? Se un bambino ha un repertorio di interessi molto ristretto, fatica a concentrarsi e a rimanere seduto e manca di contatto oculare come posso condividere con lui il piacere del gioco? Se un bambino non possiede la capacità verbale di esprimere le sue preferenze e la capacità cognitiva di comprendere anche semplici regole come posso strutturare un setting di gioco per renderlo protagonista autonomo e attivo? A partire da queste complesse e stimolanti domande, a partire dalla convinzione che anche il bambino gravemente compromesso a livello psicomotorio abbia dentro di sé la possibilità di immaginare, fantasticare, esplorare e conoscere e dall’idea di un bambino soggetto di diritti1, portatore di desideri e possibilità, oltre che di limitazioni funzionali, è nato lo Spazio gioco: un servizio educativo innovativo sul territorio milanese e italiano promosso e gestito dall’associazione l’abilità onlus. L’abilità, Strategie familiari nelle disabilità della prima infanzia, è un’associazione onlus nata nel 1998 dall’iniziativa di un gruppo di genitori con bambini con disabilità e di operatori per dare risposte concrete, con servizi socioeducativi, ai bisogni e alle necessità di una famiglia quando nasce un bambino con disabilità. Il nome dell’associazione proviene da un gioco tra i due sostantivi: labilità e abilità. Labilità è il termine che indica la condizione sia del bambino con disabilità sia della sua famiglia, una condizione di instabilità e un bisogno di punti di riferimento. Abilità come punto di arrivo di un percorso educativo faticoso, ma possibile: l’abilità del bambino e l’abilità del genitore di trovare insieme una strada che punti all’autonomia. L’associazione si propone di:

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L’articolo 23 della Convenzione ONU sui diritti dell’Infanzia stabilisce che affinché il bambino con disabilità possa avere una vita piena e soddisfacente gli deve essere riconosciuto non solo il diritto alla riabilitazione, alle cure sanitarie e all’educazione ma anche il diritto al gioco, alle attività ricreative e al divertimento. L’articolo 23 ci conduce a una nuova riflessione sul gioco, a ripensare il gioco come dimensione vitale e fondamentale del bambino con disabilità necessaria per garantirgli una crescita armoniosa, uno sviluppo fisico, psichico, emotivo e sociale e una vita piena e soddisfacente.

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– costruire opportunità di benessere per il bambino con disabilità volte a garantirgli una vita piena, in condizioni che garantiscano la sua dignità, favoriscano la sua autonomia e agevolino una sua attiva partecipazione alla vita della comunità; – offrire un sostegno competente ai suoi genitori promuovendo tutte quelle attività che li aiutino ad accogliere il proprio figlio, partecipando in modo attivo alla sua crescita e alla sua educazione; – promuovere una cultura più attenta ai diritti del bambino con disabilità.

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Nelle tre sedi, situate nella città di Milano, l’abilità si prende cura, ogni giorno, di 150 bambini con disabilità e delle loro famiglie attraverso un’equipe di 47 operatori specializzati, il supporto di volontari e di tirocinanti provenienti dalle Università Cattolica e Bicocca. Il lavoro2 dell’associazione si estende anche sul territorio nazionale e internazionale, dove svolge corsi di formazione per operatori e genitori e ha costruito, nel corso degli anni, partnership con università italiane (Istituto superiore Sant’Anna di Pisa, Politecnico di Milano, Università di Aosta, Università di Milano-Bicocca), enti pubblici, aziende ospedaliere e istituti scientifici. In questa direzione l’associazione si mostra sensibile a un’idea di educazione che trova nella pedagogia speciale un ambito privilegiato di ricerca e formazione permanente, per amplificare la sinergia tra l’ambito epistemologico e scientifico e la sua declinazione in saperi e competenze spendibili dagli operatori nei diversi contesti di educazione e di cura (Garbo, 2009; D’Alonzo, Caldin 2012; D’Alonzo, 2014b; Pavone, 2014). Lo Spazio gioco è un servizio che nasce come radura spazio-temporale, consente una sosta ludica nell’affollarsi delle attività scolastiche e sanitarie proponendosi di compensare il tempo che il bambino con disabilità trascorre nei contesti medico-riabilitativi per trovare riposo dal generale tratto futuristico della vita (Fink, 2008), da ogni obiettivo terapeutico o didattico in un presente tranquillo, autonomo, che ha solo scopi intrinseci e di piacevolezza. In questo senso il gioco non è utilizzato solamente come mezzo e strumento terapeutico, come nella stanza della Play Therapy di matrice psicoterapeutica, e didattico per sviluppare abilità sociali, linguistiche e cognitive ma è considerato anche nei suoi tratti ambigui e ambivalenti di gratuità, divertimento e piacere e per la sua vocazione alla libertà, obiettivo a maggior ragione fondamentale per il bambino con disabilità (D’Alonzo, 2014). Questa affermazione viene solitamente e facilmente criticata perché la nostra società efficientistica e produttiva, votata al profitto e alla crescita non può accettare il gioco come perdita di tempo, come momento di rêverie (Bachelard, 1972) e beata solitudine (Zolla, 1994) e, quindi, per non essere svalutato deve

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Dal lavoro di l’abilità sono nate quattro pubblicazioni: Pollicino verde. Un giardino scolastico per tutti i bambini (2004); Leggi in gioco. I diritti del bambino disabile e dei suoi genitori (2005); Essere facilitatori non barriere. Dal dolore innocente alla speranza di cambiamento (2008a); Problemi di comunicazione. Quando i medici parlano per la prima volta di disabilità ai genitori (2008b); il documentario Una destinazione imprevista (2010) di Mirko Locatelli e alcune sperimentazioni innovative in collaborazione con il Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria del Politecnico di Milano (www.labilita.org).

I. Riflessione teorica


necessariamente rientrare nella categoria dell’utilizzabile e diventare attività performativa per progredire e raggiungere gli obiettivi inconfutabili della crescita e dello sviluppo e anche della normalizzazione della disabilità (Barbetta, 2016). Uno sguardo acritico rischia così di inciampare nella sottile linea di confine che è sempre stata implacabilmente tracciata tra gioco e apprendimento, tra passione e educazione. Il piacere è la cornice entro cui si svolge il gioco e che rende possibile il suo stesso accadere, l’eros che circola negli spazi dell’educazione e del gioco conduce verso un coinvolgimento appassionato intorno a un’idea, un’azione, un obiettivo attraverso la cura degli spazi, dei tempi dei materiali. Questo non significa che il piacere sia un mezzo utilizzato per impartire un disciplinamento ingannevole, ma al contrario significa istituire il cerchio magico del gioco in modo che risulti piacevole e affascinante, dove ci si incontra non per costrizione, ma per un appassionamento reciproco che garantisce benessere al bambino e all’adulto. La strutturazione di un setting modifica sempre l’incontro tra adulto e bambino, obiettivo e risultato. In un contesto terapeutico specializzato nella CAA (Comunicazione alternativa aumentativa) potrebbe essere proposto a una bambina con tetraparesi spastica di giocare con le bambole – uno dei giochi da lei preferito – per stimolarla nella comunicazione in entrata e in uscita attraverso i simboli PCS, che sceglie con lo sguardo. Dopo pochi minuti il gioco potrebbe essere interrotto perché la seduta di 45 minuti prevede che la bambina esegua l’attività successiva in vista del raggiungimento di altri obiettivi. Allo Spazio gioco la stessa bambina giocherà con la bambola, l’educatrice utilizzerà gli strumenti della CAA suggeriti dal terapista per consentirle di partecipare in maniera attiva, ma continuerà a giocare finché la bambina, o l’adulto, avranno perso l’interesse e la motivazione. Non è però solo una questione di obiettivi e di tempi finalizzati e minuziosamente cronometrati, è anche una questione di spazi, di cura di un setting che può essere abitato dalla bellezza e adeguato alle necessità di ogni bambino senza essere asettico e anodino come una stanza di psicomotricità o di logopedia, o prettamente didattico come un’aula scolastica. É una questione di materiale preparato e non vetusto e consumato dall’uso, è una disposizione autentica, partecipativa, corporea cognitiva e affettiva. La provocazione di un ambiente costruito nei canoni della bellezza estetica rinforza la dimensione umana di cura e benessere nei canoni malfermi e malformati del corpo e della mente disabile. Evidentemente non si vuole qui mettere in discussione l’importanza e la necessità imprescindibile di un intervento terapeutico ma si vuole provare a compensare uno sguardo sul gioco capace di riconoscerlo come regione speciale dell’essere, come esperienza vitale e fondamentale, densa di aspetti ambigui e contradditori e non solo come strumento terapeutico o espediente disciplinare. Si tratta anche di compensare lo sguardo “diagnostico” (Besio, 2010) della nostra società tesa ad individuare la mancanza e a etichettare e nascondere la persona dietro la sua patologia, a intervenire quasi esclusivamente per riparare e raddrizzare. Lo spazio gioco si connota quindi con le seguenti finalità: – come momento ludico di recupero del proprio benessere dopo aver trascorso la giornata a scuola o in terapia. Il gioco avviene in un contesto di cura (Palmieri, 2011), in un contesto protetto che permette al bambino di andare oltre

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i suoi limiti, di uscire dal suo isolamento, di superare la frustrazione legata al suo non riuscire che è inevitabilmente connessa alla sua realtà invalidante; – come percorso di conoscenza di sé e del mondo. Nel gioco il bambino si apre ad abilità sconosciute, alla possibilità di vivere la curiosità, l’intenzionalità (non da sottoporre a test neurologici), l’affermazione ma soprattutto il piacere, dove la capacità di giocare è vista come punto di arrivo e non di partenza, in uno scambio comunicativo tra grandi e piccoli; – come luogo adeguato ai bisogni dei bambini per favorire l’apprendimento e l’ampliamento delle capacità ludiche in vista dell’inclusione.

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Lo Spazio gioco è dedicato ai bambini, dai 3 agli 11 anni, con diverse tipologie di disabilità: disturbo pervasivo dello sviluppo e autismo, sindromi genetiche, paralisi cerebrale, encefalopatia e ritardo psicomotorio. Il servizio è aperto tutti i pomeriggi, dal lunedì al venerdì dalle 14.00 alle 18.30 e accoglie attualmente 51 bambini, che lo frequentano una volta alla settimana. Le attività vengono svolte da 3 educatrici e 2 tirocinanti, in piccolo gruppo o in un rapporto individuale con l’educatore. Un altro obiettivo fondamentale del servizio è l’intensa collaborazione con tutte le figure terapeutiche e educative che seguono il bambino per un lavoro di rete che superi la frammentarietà dei servizi e delle prestazioni a favore di una co-progettazione integrata di qualità. Particolare attenzione viene data al pieno coinvolgimento di tutta la famiglia per riattivare le risorse interne al sistema e rinforzare gli attori in gioco: le figure genitoriali, principali esperti del bambino, vengono supportati nel ruolo di agenti facilitatori e attuatori dell’intervento (Xaiz, Micheli, 2011) e i fratelli sono riconosciuti come persone che richiedono spazio di ascolto e accoglimento nella complessità della situazione famigliare. Sono quindi previsti dei momenti formativi per sostenere i genitori nella conoscenza delle possibilità di gioco con la disabilità, nella riscoperta della motivazione a giocare e a entrare in relazione con il bambino in modo piacevole anche in situazioni di deficit complesse. Per i fratelli sono invece previsti gruppi ludici condotti da uno psicologo e da un’educatrice per riscoprire nel confronto e nel dialogo la loro identità di persone prima e oltre l’essere fratelli della disabilità.

3. Come giocare con un bambino con disabilità?

Che cosa altro occorre? Pazienza. O più esattamente il tirocinio di una lentezza estrema, prossima all’immobilità […]. Accettare questa lentezza, compenetrarsene, rallentare se stessi: anche questo è un esercizio e richiede una preparazione. F. Leboyer, Nascere e shantala

Nel bambino con disabilità le capacità ludiche non nascono e si sviluppano spontaneamente con la naturalezza e l’urgenza di un percorso evolutivo tipico, ma devono essere stimolate e insegnate in una situazione di piacere e benessere creata e strutturata dall’adulto. “Per giocare è necessario sviluppare abilità coI. Riflessione teorica


gnitive, motorie, verbali e, a sua volta, il gioco è l’occasione in cui il bambino impara e potenzia queste abilità” (Xaiz, Micheli, 2011, p.17). Lo sviluppo di ogni individuo si lega al gioco secondo una logica bidirezionale: tale attività riflette lo sviluppo ma, al tempo stesso, contribuisce all’evoluzione delle funzioni motorie, sociali, cognitive, affettive del bambino. Il gioco è una esperienza fondamentale e vitale nel percorso di crescita di ogni bambino, deve essere garantito a tutti e a ciascuno e deve essere sostenuto e promosso soprattutto laddove le capacità ludiche sono deficitarie o mancanti per garantire ad ognuno una vita piena e soddisfacente, soprattutto pensando che non esistono solo due categorie di persone: chi è capace e chi è incapace di giocare, ma accettando che il gioco sia un sistema strutturato e complesso entro cui ciascuno può mettere alla prova le proprie capacità e può essere supportato ove se ne avverta la necessità (Canevaro, 2013; 2015). Il diritto al gioco per il bambino con disabilità spesso negato o misconosciuto, necessita di un pensiero creativo e innovativo che riformi uomini, tempi e spazi in una nuova relazione ludica e si colloca tra i “bisogni di normalità” (Lepri, 2011) che sono il fondamento di una progettualità inclusiva. Affinché il gioco risulti un’esperienza significativa e trasformativa occorre pensare e predisporre accuratamente un setting adeguato, tramare un contesto preparato ad accogliere la peculiarità di ciascuno, strutturare lo spazio e il tempo, creare e preparare giochi e giocattoli adatti e adattati ai bisogni speciali di ogni bambino. E, ancor prima, occorre ri-trovare la passione e la motivazione al giocare per accostarsi al bambino con corpo, mente e cuore attraverso l’ascolto, l’attesa, la comprensione e la proposta, per sostare con lui nel tempo magico del gioco e per giocare nel rispetto dei suoi tempi, delle sue possibilità e difficoltà. È necessario, come suggeriscono Xaiz e Micheli (2011), modificare la propria postura per abituarsi a pensare che il bambino gioca, pensa e agisce in un modo altro e prendere quindi consapevolezza che le strategie che spesso agiamo d’istinto potrebbero non funzionare. Occorre imparare a “osservare il bambino per cogliere, al di là del proprio desiderio, quello che egli mostra di saper fare, di essere motivato a fare e di poter imparare a fare con poco sforzo” (Xaiz, Micheli p.29); occorre rendersi disponibili a rallentare se stessi perché spesso, prima di iniziare a giocare, potrebbe essere necessario un tempo molto lungo in cui procedere a piccolissimi passi scomponendo la meta in diversi obiettivi facilmente raggiungibili. Giocare con un bambino con disabilità significa allora vedere e riconoscere la molteplicità e la “ciascunità” (Hillman, 1997) della persona al di là dell’etichetta della patologia che nasconde la sua unicità e lo ricopre totalmente impedendoci di cogliere la sua multidimensionalità; significa non ridurre il bambino ai suoi deficit, ma partire dalle sue possibilità, potenzialità, desideri, interessi e passioni per incoraggiare e favorire il gioco. Le attività svolte allo Spazio gioco non sono guidate da un’unica e particolare metodologia ma le proposte educative sono sostenute da un pensiero “anti-pedagogico3” sul gioco e da modelli e strategie di intervento scientificamente fon3

Con l’espressione “anti-pedagogico” possiamo indicare, secondo il suggerimento di Antonacci (2012), la possibilità di ripensare al gioco come a un’esperienza vitale e primaria dotata di piena autonomia, una regione speciale dell’essere e non un mero strumento o espediente disciplinare,

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date come l’approccio psicoeducativo proposto da Xaiz e Micheli (2001), la metodologia t.e.a.c.c.h (Treatment and Education of Autistic and Related Communication-Handicapped Children) riproposta in Italia da Micheli e Zacchini (2001), il gioco sensoriale secondo la stimolazione Snoezelen, la lettura animata dal teatro Kamishibai, l’educazione psicomotoria, il gioco euristico. Punti cardine del nostro lavoro quotidiano sono l’organizzazione dello spazio, la strutturazione del tempo e delle attività e la cura per la motivazione. Ogni enunciato richiederebbe una trattazione a sé, come peculiare e specifico è il gioco con ogni singolo bambino. Ci limiteremo qui ad indicare alcuni tratti salienti che potranno innescare una riflessione per chi decida di accostarsi alla disabilità attraverso e nel gioco, per sperimentare questi suggerimenti e trovare nuove e innumerevoli strategie e soluzioni creative. L’organizzazione dello spazio prevede la necessità di creare un ambiente identificabile visivamente, circoscritto e privo di stimoli distraenti (regolazione delle luci, dei rumori, della temperatura, etc.); per questo le quattro stanze che compongono lo Spazio gioco sono dedicate ognuna ad un’attività specifica che renda comprensibile e prevedibile al bambino ciò che accadrà in quel luogo. Strutturare il tempo significa proporre le attività seguendo una routine giornaliera che fornisce al bambino prevedibilità e sicurezza grazie al supporto di un’agenda visiva con simbolizzazione differenziata secondo i bisogni del bambino (simboli concreti, fotografie, simboli PCS o WLS). Il tempo è inoltre scandito da rituali che segnano l’ingresso e l’uscita dal servizio e allo stesso tempo da una progettazione che interviene laddove c’è una sottomissione rigida a rituali o abitudini. I giochi vengono inoltre proposti nel rispetto dei tempi del bambino e quindi nell’alternanza di momenti di riposo e di attività. I giochi e i giocattoli sono adattati a partire dalle possibilità di ognuno e strutturati in modo che risultino comprensibili (anche senza spiegazione verbale) per permettere al bambino di partecipare attivamente e in autonomia all’attività. L’attività della pittura, per fare un esempio, può essere proposta strutturando il setting in molteplici modalità. Secondo le indicazioni della metodologia t.e.a.c.c.h, posso delimitare e pulire lo spazio in cui si svolge l’attività, posso presentare dei disegni semplici e concreti contornati con il colore che il bambino dovrà utilizzare, posso dare al bambino un colore, o pochi colori alla volta, altrimenti tutta la scatola di pastelli o pennarelli lo manderebbe in confusione e rischierebbe di usarli in modo stereotipato. Posso utilizzare una tabella a tema con i simboli della C.A.A. che consenta di anticipare e spiegare al bambino, con difficoltà di comprensione e di espressione del linguaggio verbale, il gioco che si sta per compiere e che gli permetta di esprimere la sua preferenza rispetto al colore che vuole utilizzare, all’attività che vuole svolgere, a cosa desidera disegnare o colorare. Con il bambino compromesso a livello motorio posso utilizzare strumenti specifici (Besio, 2010) come pastelli a cera che si infilano sulle dita e non implicano come spesso viene ridotto nei contesti educativi. Il gioco, con il suo carattere ambiguo e polisemico, profondamente libero si sottrae alla logica educativa imperante della sorveglianza, della misurazione, della valutazione, della performatività. Giocare è un’attività autotelica e non finalizzata a trasmettere un contenuto o un sapere.

I. Riflessione teorica


la necessità di una presa a pinza oppure fornire un tablet con un’applicazione che gli permetta, attraverso un lieve sfioramento delle dita, di tracciare sullo schermo segni colorati. Posso inoltre proporre l’attività della pittura su un tavolino luminoso sia per catturare l’attenzione del bambino che fatica a concentrarsi e rimanere seduto sia per aumentare il contrasto visivo per il bambino ipovedente. Posso anche proporre la pittura in verticale su un foglio appeso al muro o appoggiato a un leggio, permettendo così al bambino ipovedente una maggiore vicinanza all’oggetto e mantenendo una postura corretta. Si tratta dunque di partire da un’osservazione attenta e minuziosa delle possibilità e difficoltà di ogni singolo bambino per adattare e strutturare tecnicamente e creativamente l’attività, scomponendola in sotto-obiettivi, in modo che ognuno possa parteciparvi autonomamente e con una graduale diminuzione dell’aiuto e dell’intervento dell’adulto. Giochi e giocattoli devono quindi essere scelti accuratamente a partire da una conoscenza specifica delle potenzialità, limiti e interessi dei bambini4. Nella maggior parte dei casi i giocattoli che si trovano in commercio devono essere modificati o creati nuovamente per essere proposti a un bambino con disabilità. Per tale motivo, parlare di gioco e disabilità, vuol dire anche parlare di cultura, di innovazione, di nuove visioni pedagogiche. La ricerca ci indica, ad esempio, come ausili e tecnologia migliorino la qualità di vita del bambino con disabilità (Pennazio, 2015). Come la robotica potrà dare piacere al gioco del bambino con bisogni speciali? Come una piattaforma di gioco virtuale aprirà al bambino con disabilità la possibilità di giocare in territori al di là del suo limite?5 Le attività allo Spazio gioco prevedono momenti di gioco libero per favorire la scelta, l’interesse e la motivazione attraverso differenti strumenti comunicativi (linguaggio verbale, oggetti concreti, fotografie o simboli), e momenti di attività strutturate dall’adulto e inserite nella cornice ludica di una storia, scelta all’inizio di ogni anno sociale, per stimolare nei bambini la condivisione, la collaborazione e il raggiungimento di uno scopo. La storia declinata in più linguaggi espressivi diventa così comprensibile e leggibile da ogni bambino permettendo la piena inclusione in un gruppo di gioco. Ogni gioco è proposto a partire dall’interesse e dal piacere del bambino per stimolare la sua motivazione e concentrazione ponendo sempre molta attenzione a non fare richieste eccedenti le sue possibilità che potrebbero produrre comportamenti di evitamento, rifiuto e chiusura (Vianello, 2008). Il titolo di questo paragrafo, volutamente posto in forma interrogativa, rappresenta una non esaustiva e non definitiva riflessione che nasce da molti anni di esperienza e di gioco con i bambini che ci chiedono, ogni giorno, di mettere in gioco la nostra professionalità educativa, di essere «artisti» (Xaiz) della relazione,

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Rimandiamo al sito www.lekotec.org del National Lekotec Center che propone una lista delle dieci caratteristiche precipue che dovrebbe possedere un giocattolo per un bambino con disabilità. A questo proposito sono in corso di svolgimento allo Spazio gioco alcuni progetti sperimentali, cfr. nota 3, per studiare l’apporto e l’adattabilità della tecnologia ai bisogni speciali dei bambini con disabilità.

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dell’ascolto, dell’osservazione e del ri-guardo, artisti che, attraverso tecniche scientifiche, creative e l’arte sapiente e difficile della “semplificazione” sostengono e consentono ai bambini con disabilità di accostarsi all’esperienza vitale e trasformativa del gioco.

4. Conclusioni. Alla ricerca di un equilibrio instabile

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Il moto basculante e inebriante dell’altalena che si muove tra polarità contrapposte ci ha sospinto in questa riflessione sul nostro oscillare quotidiano, come educatori e ricercatori, tra teoria e prassi, tra conoscenza scientifica e sapere corporeo, tra presenza e assenza, tra gioco e disabilità. Abbiamo sostenuto la necessità di rimanere costantemente, come nel gioco, in movimento alla ricerca di un equilibrio instabile, una condizione dinamica e feconda di riflessività e criticità sulle tematiche del gioco e della disabilità. Dimensioni dell’essere che nella nostra “mediocre civiltà in uso” (Savinio, 2001, p. 26) e in una cultura pedagogica omologante e disciplinante sono tenute ai margini perché ritenute inutili e ostacolanti la corsa alla crescita e alla produttività, perché considerate pericolose per la loro imprevedibilità, impertinenza e irragionevolezza. Gioco e disabilità sembrano oscillare, quanto più inaspettatamente e irriverentemente, tra la svalutazione e l’allontanamento, tra il disciplinamento e la normalizzazione, tra il limite e il piacere. Per questo riteniamo necessario e urgente ri-volgere uno sguardo infante e appassionato sul gioco che sappia riconoscerne la sua costitutiva ambivalenza, la sua potenza trasformativa ed eversiva e uno sguardo sapiente e rispettoso sulla disabilità che sappia accostarsi alle dimensioni fragili e umbratili dell’esistenza per riconoscere la nostra costitutiva debolezza e incompiutezza. Solo attraverso uno sguardo rinnovato il gioco potrà essere accettato e reintegrato anche nei progetti di vita delle persone con disabilità come esperienza fondamentale e vitale in vista del benessere e dell’inclusione sociale. L’esperienza dello Spazio gioco di l’abilità onlus è stata presentata come esempio paradigmatico dell’attuazione e realizzazione di un pensiero “anti-pedagogico” che ha istituito e restituito uno spazio e un tempo prezioso di gioco ai bambini con disabilità. Un progetto in continua trasformazione e oscillazione alla ricerca continua di nuove possibilità, incertezze, ebrezze.

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I. Riflessione teorica


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Giftedness e contesti secondo una prospettiva pedagogica

The educational literature describes the talent and intellectual giftedness as the result of specific inclinations of an individual and the resources made available by the context in which the individual himself is formed and learns (Sansuini, 1997). Starting from an analysis of the traditional models on intellectual giftedness, anchored to a psychometric vision of intelligence and giftedness, the article describes the Renzulli model (1977, 1994), the Monk’s Triadic interdependence Model (1985) and the Differentiated model of intellectual giftedness and talent for Gagné (1993, 2009), which on one hand proposes a definition of intellectual giftedness and on the other emphasizes the importance of environmental variables in his manifestation and development. The contribution proposes, therefore, an excursus of some of the main descriptive models of talent, a reading from the socio-cultural perspective of the giftedness, paying particular attention to the role of the context in the development of Giftedness. To this end, the main theme will be an exploration of education and self-fulfilment needs of the person, in their inseparable relationship with the territory of belonging and, therefore, with cultural models and government policy.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Key-words: Giftedness, Context, Talent, Models, Pedagogy

2. Revisione sistemica

Italian Journal of Special Education for Inclusion

abstract

Clarissa Sorrentino (Università del Salento / clarissa.sorrentino@unisalento.it)

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Introduzione

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La letteratura psicologica ed educativa da sempre si interroga sui costrutti di intelligenza e creatività cercando di dare una risposta al continuo dibattito tra innatismo e ambientalismo. La prospettiva innatista rilevabile nelle teorizzazioni di Galton (1869) e Gesell (1928) e successivamente negli studi di Chomsky sullo sviluppo del linguaggio (1957) e negli approcci cognitivisti (modello H.I.P. – Human Information Processing (Lindsay & Norman, 1977; Jachson, 1986), descrive lo sviluppo umano come il risultato di fattori genetici ereditari e l’apprendimento come frutto di un processo di elaborazione di informazioni avulso dal contesto (Varisco, 1995). In netta contrapposizione, l’ambientalismo si delinea negli approcci comportamentisti (Watson, 1913) e neo-comportamentisti (Skinner 1970, Block 1971; Block e Anderson 1975, Gagné, 1965, Bloom, 1956, Guilford 1967) e intende il processo di apprendimento come addestramento riducendolo ad una serie di risposte a rinforzi positivi e negativi. La teoria socio-costruttivista, che affonda le sue radici nella scuola psicologica russa (Vygotskij, 1978) e negli studi sull’epistemologia genetica di Jean Piaget (1926), cerca di mettere insieme due visioni della psicologia contemporanea: costruttivismo e interazionismo. Essa concepisce la mente come un sistema in grado di costruire significati entro lo scambio discorsivo intersoggettivo (Edwards & Potters, 1992). L’apprendimento pertanto è distribuito e situato (Bruner,1992) e i processi di apprendimento e i prodotti sono contestuali. Nel paradigma sociocostruttivista, l’interazione fra ambiente e caratteristiche individuali permette l’intero sviluppo dell’uomo e del suo potenziale. Secondo tale prospettiva, quando caratteristiche genetiche, psicologiche e comportamentali si incontrano, in specifici contesti di crescita, dando vita a livelli eccezionali di performance in specifici ambiti o a livello intellettivo generale, si viene a costituire ciò che la letteratura definisce plusdotazione (Renati & Zanetti, 2012). Rispetto a questa espressione in ambito europeo (Eurydice, 2011) i termini adottati sono gifted (dotato) e talented (con talento). Da un’analisi delle ricerche sulla plusdotazione si evince come spesso si utilizzino indistintamente termini come “geniale, superdotato, intellettualmente precoce, ad alto potenziale, bambino prodigio. [Di fatti], la comunità stessa non è univoca nella definizione di cosa può essere definito un alto potenziale cognitivo” (Ronchese, Polezzi, Gatta, & Battistella, 2013, p.223). Una visione critica del concetto di giftedness appena accennato è offerta dallo studioso Borland, secondo il quale la stessa è una chimera, un costrutto socialmente costruito. È un modo creato ad hoc per categorizzare i bambini. Inoltre sempre secondo il professore della Columbia University non esisterebbero bambini gifted ma solo una gifted education (Borland, 2005). Storicamente l’identificazione delle persone gifted si è basata sui punteggi ottenuti ai test di intelligenza, consegnando ad approcci psicometrici il compito di spiegare e comprendere l’esteso mondo della plusdotazione. I bambini con alto potenziale intellettivo, o meglio definiti iperdotati, “adottando un criticabile criterio psicometrico (QI > 2 deviazioni standard)…[superiore a 130]”(Ronchese et al., 2013, p.226), corrispondono al 2,28% della popolazione scolastica, ovvero un bambino ogni due classi (p.226). I modelli cognitivi riconosciuti in ambito scientifico che concettualizzano l’intelligenza hanno solo parzialmente contri2. Revisione sistemica


buito a capire l’iperdotazione e “al momento attuale non sembra esistere un modello di intelligenza che sia in grado di spiegare sia le caratteristiche della popolazione generale che quelle degli iperdotati” (p.225). È necessario sottolineare inoltre come la maggior parte dei modelli che partono dalla prospettiva psicometrica non considerino alcuni importanti aspetti dell’iperdotazione come la creatività o l’abilità di leadership. Accanto ai modelli che cercano di concettualizzare l’intelligenza, troviamo anche approcci esplicativi delle forme più elevate dell’intelligenza. Tra questi ricordiamo il Modello dei tre anelli di Joseph Renzulli (1977) e il Modello Differenziato della Plusdotazione e del Talento di Gagnè (2009). Il modello di Renzulli (1977), definisce magistralmente la giftedness come caratterizzata da tre componenti principali: elevata abilità, creatività e impegno. La plusdotazione, secondo Renzulli, si sviluppa solo in alcuni soggetti e in determinate circostanze. È merito di Renzulli l’aver proposto la dicotomia tra iperdotazione in ambito scolastico e iperdotazione produttivo-creativa. L’iperdotazione in ambito scolastico si rileva a scuola tramite test pertando gli “school-house gifted” hanno voti alti a scuola e punteggi alti in test cognitivi. L’iperdotazione produttivo-creativa si manifesta con prestazioni di alto livello e idee innovative e originali che vanno aldilà di quanto richiesto a scuola. Coloro che mostrano una giftedness creativa-produttiva sono ottimi produttori di conoscenza, mentre coloro che mostrano una –schoolhouse giftedness- sono ottimi consumatori di conoscenza (Renzulli, 1978). Tuttavia questo modello, seppur accettando componenti diverse dall’intelligenza nella costituzione della plusdotazione, non sembra da solo poter esplicare il perché, ad esempio, determinati talenti vengano riconosciuti in determinati contesti culturali e non in altri, o addirittura si manifestino in un contesto piuttosto che in un altro; pertanto nella sua stessa definizione, occorre far riferimento a criteri che possono cambiare in base alla società e ai contesti culturali di appartenenza (Pfeiffer, 2012). Nel Modello Differenziato della Plusdotazione e del Talento, presentato per la prima volta nel 1993 e successivamente rielaborato nel 2009, il ricercatore canadese Gagné propone una distinzione tra plusdotazione e talento. Secondo lo studioso la plusdotazione è un’espressione spontanea di naturali abilità superiori, rispetto al gruppo dei pari, in almeno uno dei seguenti domini: intellettuale, creativo, socio-affettivo e senso-motorio. Il talento, invece, “designa la eccezionale padronanza di abilità sviluppate sistematicamente, chiamate competenze (conoscenze e abilità) in almeno un dominio, ad un livello superiore al gruppo dei pari che si sono esercitati in quello specifico campo di attività.” (Gagné, 2009, p.1). Tali definizioni aiutano a comprendere come il processo di sviluppo del talento corrisponda “alla progressiva trasformazione dei doni (gifts) in talenti” (ibidem). La plusdotazione è quindi l’attitudine propria dell’individuo la quale può essere trasformata in talento tramite il potenziamento, lo sviluppo e l’intervento di fattori interni ed esterni all’individuo, definiti dall’Autore rispettivamente catalizzatori intrapersonali ed ambientali. Tra i catalizzatori intrapersonali rientrano le caratteristiche fisiche e psicologiche. Per quanto riguarda i catalizzatori ambientali egli fa riferimento ad aspetti sociali a livello di micro e macro-sistema. Una descrizione più approfondita dei catalizzatori ambientali e del loro ruolo nello sviluppo del talento verrà fornita nel paragrafo innanzi. anno V | n. 1 | 2017

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Nel 1994 anche Renzulli riconoscendo il ruolo del contesto e delle opportunità per la promozione del talento, riformula il suo modello a tre anelli, delineando lo “Schoolwide Enrichment Model” (SEM) e includendo nella sua concettualizzazione della giftedness anche i fattori ambientali, il ruolo della famiglia e della scuola (Renzulli & Reis, 1994).

1. La prospettiva socioculturale della plusdotazione

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La prospettiva socioculturale al tema della plusdotazione parte dai modelli di giftedness offerti dagli approcci classici ampliandone il raggio e prendendo in considerazione gli aspetti relativi alla società e alla cultura di appartenenza. Su tale prospettiva viene condotta un’analisi critica sulla pratica educativa delle persone con talento e vengono riformulati i concetti stessi di performance e rendimento, intesi non più come stabili e affidabili nel tempo ma variabili in funzione del contesto. Fra i primi sostenitori di un modello evolutivo della giftedness troviamo l’olandese Mönks (1985,1992), il quale incluse nella sua formulazione i fattori ambientali esterni al soggetto, allontanandosi dagli approcci tradizionali che fino ad allora non avevano considerato la famiglia e/o la società come elementi chiave nello sviluppo del potenziale delle persone gifted. Nel suo contributo Mönks rivede e amplia il modello dei “tre anelli” di Renzulli, il quale, pur descrivendo gli elementi necessari all’identificazione e al supporto necessario agli alunni dotati, non prende in considerazione la natura dello sviluppo umano e l’interazione dinamica dei processi di sviluppo. Il modello tripolare interdipendente di Mönks (1985) si basa sulla triade proposta da Renzulli (alta capacità intellettuale, impegno e creatività), aggiungendo la triade sociale: famiglia, scuola e colleghi/amici. Quest’ultima triade fa riferimento all’opportunità di interagire e incontrare altre persone ed imparare da esse. Ogni persona dunque può rappresentare la chiave di volta per lo sviluppo o al contrario per la perdita del proprio talento. Inoltre lo stesso sviluppo di se stessi, del proprio modo di agire e pensare non può prescindere da tali riferimenti sociali. Secondo lo studioso fiammingo lo sviluppo dei talenti dipende da chi organizza il sistema educativo, dal periodo storico e persino dall’interesse pubblico verso le persone di talento. Se le politiche e i sistemi educativi non si distaccano da una visione dell’educazione basata sul one fits for all non si potrà mai permettere che i bambini e ragazzi con talento vengano trattati in base alle loro esigenze educative ed intellettuali (Mönks, 1999). La plusdotazione viene dunque a configurarsi come una costellazione di caratteristiche individuali ed elementi sociali e, l’interazione fra fattori innati e ambientali determina lo svilupparsi o meno di un talento. Per fattori sociali non si intendono solo la scuola, la famiglia, il gruppo dei pari, bensì tutti quegli elementi che in modo diretto o indiretto incidono nella manifestazione dell’eccellenza, dunque anche elementi come l’appartenere ad una determinata etnia e il vivere in un determinato luogo (Renati & Zanetti, 2012), ciò che potremmo chiamare territorio bio-psico-sociale di appartenenza. La focalizzazione sui fattori socioculturali, contestuali e territoriali nella concettualizzazione dei costrutti di talento e giftedness, è proposta anche da ulteriori prospettive di ricerca formulate da studiosi d’oltreoceano. Secondo la letteratura americana, l’intreccio di fattori socioculturali, economici e politici rende difficile 2. Revisione sistemica


una definizione stessa del costrutto, la quale può cambiare da contesto a contesto (Phillipson & McCann, 2007). Così come argomentato dalla studiosa neozelandese Tapper (2012), nella sua definizione del costrutto di plusdotazione: “un importante e continuo sviluppo del paradigma di pensiero sulla giftedness è uno spostamento da un visione tradizionale della giftedness come un costrutto misurabile basato su specifiche caratteristiche, ad una visione multi-dimensionale che si rende consapevole della diversità e che può significare cose diverse per gruppi culturali diversi.” (trad. ns., p. 3). La Giftedness viene a configurarsi come un concetto dinamico, un costrutto che cambia nel tempo in un determinato contesto ambientale, risultato di varie interazioni tra l’individuo e il suo contesto. La reazione dell’ambiente in interazione con i determinanti della persona ha una notevole influenza sulla percezione della persona dello spazio di azione personale (Sternberg & Davidson, 2005). Per ciò che concerne il ruolo dell’ambiente nella promozione della giftedness, la letteratura scientifica1 fa riferimento a due specifici fattori ambientali: la practice, intesa come impegno ed esercizio continuo, e quello che il mondo statunitense chiama unequal access to opportunities (Subotnik, Olszewski-Kubilius, & Worrell, 2011, p.5). Riguardo quest’ultimo fattore, gli Autori richiamano l’attenzione sull’importanza di speciali fattori casuali vantaggiosi, come l’essere il partecipante più grande all’interno di un gruppo scolastico o in un’attività sportiva o l’essere nel posto giusto al momento giusto della storia e dunque in grado di capitalizzare sulle innovazioni creando opportunità di business (p.6). Citando Hohmann & Seidel (2003), gli Autori ritengono che il processo di sviluppo del talento sia caratterizzato da due fasi (ibidem). La prima fase è l’identificazione del talento: “attraverso una focalizzazione mirata sui precursori dominio – specifici dei talenti e dei processi formali e informali con cui il talento è riconosciuto e identificato” (ibidem). La seconda fase è la promozione del talento, la quale fa riferimento ai processi di istruzione, guida e incoraggiamento della persona. Riprendendo alcune argomentazioni di Sosniak & Gabelko (2008) e VanTassel – Baska (2007), Subotnik, Olszewski-Kubilius, e Worrell (2011) nella loro analisi della Giftedness e della gifted education sostengono che la promozione del talento “è un processo troppo spesso lasciato al caso piuttosto che a sforzi strategici e mirati della società. [Da quanto detto si evince che lo sviluppo di ciascun talento] segue traiettorie diverse e le transizioni da una fase all’altra sono influenzate dall’impegno di ognuno, dalle opportunità sociali, dai modelli d’istruzione e da abilità psicosociali” (ivi, p.6). Inoltre, in ogni fase del processo di sviluppo del talento, le opportunità devono essere fornite dalla comunità intesa come la scuola, il quartiere, le comunità, locali e regionali e la società in generale, e dunque, in senso stretto, dal territorio di appartenenza (ivi, p.7). Seppur in altro contesto, è bene ricordare il modello proposto da Bronfenbrenner (1979), il quale descrive lo sviluppo umano come il frutto dell’interazione fra individuo e ambiente, individuando quattro livelli concentrici di relazioni: il microsistema, il mesosistema, l’esosistema e il macrosistema. Da un punto di vista pedagogico un livello che in modo indiretto è determi1

Per una rassegna vedere Colvin, 2008; Coyle, 2009; Ericsson, Prietula, & Cokely, 2007; Mighton, 2003; Shenk, 2010.

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nante nella crescita della persona, e dunque nel talento, è il macrosistema caratterizzato da “congruenze di forma e di contenuto dei sistemi di livello più basso (micro, meso ed esosistema) che si danno, o si poterebbero dare, a livello di subcultura o di cultura considerate come un tutto, nonché di ogni sistema di credenze, o di ideologie che sottostanno a tali congruenze” (ivi p.26). Per ciò che riguarda le credenze in tema di plusdotazione, una misconcezione educativa comune è che gli studenti gifted, poiché possiedono un talento o un alto quoziente intellettivo, non necessitano di tutte quelle misure didattiche di cui solitamente fanno esperienze i ragazzi a rischio e con difficoltà di apprendimento, tanto che i loro bisogni educativi poiché non sono considerati urgenti non vengono né presi in considerazione né soddisfatti (Reis & Renzulli, 2010). Tornando al ruolo del macrosistema nello sviluppo del talento, un autore che ha analizzato nel suo modello di plusdotazione le variabili ambientali è il già citato Gagné. Nel modello DMGT (fig.1), Gagné (2009a) pone attenzione ai cosiddetti catalizzatori ambientali ed alla loro influenza nello sviluppo del talento. Nella prima formulazione del modello i catalizzatori ambientali erano posti in secondo piano rispetto al processo di sviluppo del talento “developmental process”, il quale rappresenta la progressiva trasformazione del “Gift” in talento. Soprattutto nella versione più evoluta l’Autore mette in evidenza il ruolo di filtro giocato dalle componenti intrapersonali sulle componenti ambientali. Come illustrato in figura 1 la freccia verso il basso a sinistra indica il passaggio delle influenze ambientali dirette nel processo di sviluppo. Non tutte le influenze ambientali hanno una influenza diretta nello sviluppo del talento, la gran parte degli stimoli ambientali, deve passare al vaglio degli interessi, dei bisogni e dei tratti di personalità dell’individuo.

Fig. 1. Il Modello Differenziato della Plusdotazione e del Talento (Gagné, 2009)

2. Revisione sistemica


Le persone con talento continuamente decidono, infatti, quale sarà lo stimolo a cui presteranno attenzione. Nonostante la rilevanza delle variabili intrapersonali nello sviluppo del talento, le ricerche sulla resilienza umana ci dimostrano che una forte volizione può in alcuni casi svanire di fronte ad ostacoli apparentemente insormontabili. Tale fenomeno Gagné lo colloca nell’analisi di ciò che lui definisce componente “E” (environmental: ambientale), declinata nell’insieme dei fattori micro e macroambientali che influenzano il talento. Tale componente comprende tre distinte sub-componenti (Gagné, 2009a, p. 4). La prima, chiamata milieu (EM), può essere esaminata sia a livello macroscopico, ovvero geografico, demografico, sociologico, sia a livello microscopico, cioè grandezza della famiglia, status socioeconomico, servizi nel quartiere (Gagné, 2013, p.62). Essa include diverse influenze ambientali, da quelle strettamente fisiche (i.e., climatiche, vita in città o in ambienti rurali) a quelle sociali e culturali. La seconda sub-componente: individuals (EI), si riferisce all’influenza di persone significative per lo sviluppo del talento nella persona. Si tratta dell’ambiente immediato di cui l’individuo fa esperienza diretta ed include genitori e fratelli, ma anche la famiglia in senso lato, insegnanti e trainers, gruppo dei pari, mentori, e anche figure pubbliche identificate dalla persona con talento come modelli. La terza sub-componente: provisions (EP), intesa come l’insieme delle misure di supporto al talento, riguarda i servizi e i programmi per lo sviluppo del potenziale. Essa fa riferimento a tutte le strategie pedagogiche e agli specifici sviluppi del curricolo (Gagné, 2009, p.4). Gagné dunque si focalizza su tutti quei fattori che permettono il passaggio dalla dotazione al talento, sottolineando il fatto che non tutti i ragazzi gifted diventino dei talenti, e riportando all’attenzione il fenomeno dell’underachievement, un sotto-rendimento spesso presente nei ragazzi con iperdotazione. Le pratiche pedagogiche e i fattori territoriali, che fanno da cornice agli stessi modelli culturali ed educativi, giocano dunque, per i sostenitori della prospettiva socio-culturale, un ruolo fondamentale nel processo di sviluppo del talento, definendone non solo il costrutto ma arrivando a favorirne od ostacolarne il manifestarsi.

Conclusioni

Alla luce dei modelli analizzati si può affermare che il talento è un concetto multidimensionale, complesso e dinamico che per manifestarsi ha bisogno di un contesto facilitante. Il talento, il potenziale individuale non è dunque posseduto, ereditato ma è costruito/organizzato nei contesti. L’attenzione si rivolge dunque al ruolo della società, della famiglia, del gruppo dei pari, della cultura di appartenenza nello sviluppo di quella che può essere considerata la forma più rappresentativa del potenziale umano: il talento. L’attenzione educativa alle persone gifted a livello internazionale può essere considerata come un processo di tipo top-down, nel quale è la legislazione a garantire iniziative ministeriali volte al supporto dei talenti. In ambito nazionale si sta assistendo al fenomeno inverso nel quale le iniziative volte alla promozione dell’eccellenza nascono da enti privati o da dipartimenti universitari. Si pensi, tra le altre, alle iniziative messe in campo dal Laboratorio Italiano di Ricerca e Sviluppo del Potenziale, Talento e Plusdotazione nato nel 2009 del Dipartimento di anno V | n. 1 | 2017

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Scienze del Sistema nervoso e del comportamento dell’Università di Pavia2, il progetto Education to Talent in collaborazione con l’università di Padova e più recentemente anche il Centro delle Nuove tecnologie per l’inclusione dell’Università del Salento (CNTHI), in collaborazione con il CBO Center di Nimega3, si occupa di creare un modello di individuazione in chiave pedagogica dell’alunno gifted e di indagare e mettere in campo, attraverso la formazione docente, strategie didattiche inclusive che vengano incontro ai suoi bisogni educativi. In altri termini è il territorio e il bisogno che esso esprime a far crescere una sensibilizzazione sull’argomento e a portare istanze nuove di cambiamento. Il contesto italiano, nella sua giurisprudenza in materia di istruzione, ha tutti i presupposti per garantire agli studenti gifted le opportunità educative e formative di cui hanno bisogno, secondo i principi della personalizzazione e differenziazione dei percorsi di apprendimento. La scuola come agenzia formativa dovrebbe essere considerata il contesto per eccellenza volto a promuovere la personalizzazione dei percorsi formativi, evitando il rischio di “homeschooling” per gli alunni gifted, una scelta in crescente aumento in ambito statunitense (Hood, 2013). In una scuola che personalizza, gli insegnanti hanno competenze per differenziare i percorsi di apprendimento affinché l’alunno sia di nuovo al centro del processo formativo con i suoi interessi, le sue motivazioni e i suoi bisogni, alla ricerca attiva della scoperta. Una scuola che personalizza offre una didattica inclusiva che rispetta gli stili cognitivi ed i tempi degli studenti, sia che essi siano lenti o veloci. Una scuola che supporta sia l’alunno che apprende passo dopo passo in modo analitico, sia l’alunno che apprende per insight. Un contesto dunque dove il differenziare significa includere tutti e ciascuno e dove ogni studente sia messo nelle condizioni di raggiungere “una propria forma di eccellenza cognitiva, attraverso possibilità elettive di coltivare le proprie potenzialità intellettive” (Baldacci, 2002 p.133). Concludendo, l’importanza del territorio, nell’identificazione, riconoscimento e supporto dei talenti è stata descritta e confermata da vari modelli in letteratura. Non identificare e dunque non fornire i giusti strumenti educativo-didattici e psicologici all’alunno gifted e alla sua famiglia significa non garantire quell’idea di inclusione che accogliendo la differenza implica la piena partecipazione alla vita scolastica di tutti i soggetti (Pinnelli, 2016), anche degli studenti gifted i quali se non riconosciuti corrono il rischio non solo di divenire degli underachiever, ma di abbandonare anche un percorso scolastico che non è capace di leggere i loro bisogni educativi. Occorre pertanto sottolineare che “nessun paese si può permettere di sprecare dei talenti, poiché sarebbe uno spreco di risorse umane non identificare in tempo delle potenzialità intellettuali o di altra natura, per le quali sono necessari strumenti adeguati” (trad. ns., Reccomendation 1248, 1994, p. 1). “Le opportu2 3

Il Laboratorio Italiano di Ricerca e Sviluppo del Potenziale, Talento, sotto la direzione scientifica della Prof.ssa Zanetti e del Prof. Pessa, è una delle prime realtà italiane che si occupa dell’individuazione e intervento con gli alunni gifted e della formazione degli insegnanti. Il CBO Center è un centro di ricerca e intervento sulla plusdotazione presso la Radboud University, di Nijmegen in Olanda.

2. Revisione sistemica


nità fornite dalla società sono cruciali in ogni momento del processo di sviluppo del talento. La società ha dunque la responsabilità di promuovere tali opportunità” (Subotnik, Olszewski-Kubilius, & Worrell, 2011, p.4) in quanto il fornire delle chance educative in determinati periodi della vita rappresenta la chiave, in molti casi, per l’affiorare di potenzialità che il territorio stesso deve tutelare, promuovere e vantare.

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2. Revisione sistemica


Aree di conflitto e lavoro minorile: una sfida per il sistema educativo palestinese

The article aims to tackle the relationship between the phenomenon of child work and the Palestinian educational reality starting from a first explorative investigation carried out within pilot schools involved in an international cooperation project, funded by the Italian Agency For Development Cooperation. The schools involved have a very high percentage of working children. This initial methodological phase of the survey has foreseen the integrated use of an “Index for inclusion and empowerment” questionnaire (inspired by the original Index for Inclusion), designed in the framework of the cooperation project by a group of researchers of the Department of Education Studies of Bologna University, and the collection of life stories of working children. The interpretation of the first results, on the basis of the theoretical foundations of the Index instrument, of the main approaches to the phenomenon of child work in the international debate and the challenges posed by the context characterized by the dimension of the conflict, underlines the need to continue the research process on the fundamental characteristics of a Palestinian school able to include working children through the introduction of cultural, organizational and didactical innovations.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Key-words: Working children, inclusive education, Palestine, conflict

3. Esiti di ricerca

Italian Journal of Special Education for Inclusion

abstract

Arianna Taddei (Università degli Studi di Bologna / arianna.taddei2@unibo.it)

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1. Premessa

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Il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna (UniBo) da anni è impegnato a sostenere processi di inclusione sociale e scolastica in diversi Paesi del mondo, attraverso progetti di cooperazione internazionale. Uno dei principali contesti di intervento è stato e continua ad essere la Palestina. In particolare, nell’ambito di un progetto di emergenza finanziato dall’Agenzia della Cooperazione Italiana allo Sviluppo (AICS), un gruppo di docenti e ricercatori UniBo ha curato dal punto di vista scientifico la componente educativa prevista all’interno dell’intervento “Iniziativa di Emergenza per la Protezione dei Rifugiati e della Popolazione a Rischio di sfollamento nell’Area C della West Bank e a Gerusalemme Est AID 10736”. Nello specifico l’azione di UniBo ha riguardato l’attività “A 3.2.2 – Assistenza tecnica ai referenti del MoEHE1 sulle tematiche dell’inclusive education e il supporto psicosociale in situazioni di emergenza”. In generale, il progetto realizzato dalle Ong GVC2 di Bologna ed EducAid3 di Rimini ha perseguito l’obiettivo di implementare un approccio di protezione integrato e partecipato verso le comunità palestinesi coinvolte, per rinforzarne le capacità di resilienza attraverso azioni di supporto materiale, psicosociale, educativo e di advocacy. L’intervento nel suo complesso intende contribuire alla prevenzione e alla mitigazione degli effetti negativi collegati con la presenza israeliana nei territori palestinesi. In questo quadro, l’attività di UniBo ha previsto come focus principale il tentativo di operare interventi presso minori in età scolare, nei quali l’esperienza di acquisizione di competenze, connesse con i saperi curricolari scolastici, si intreccia strutturalmente con la messa a punto di life skills legate a processi di empowerment individuale e di gruppo. In altri termini, in una situazione complessiva di vulnerabilità che vede i minori particolarmente esposti, il tentativo è quello di operare un intervento di resilienza e empowerment, che non si affianchi posticciamente all’esperienza educativa attraverso l’introduzione di specifiche azioni clinico-psicologiche, ma che veda in un processo di insegnamento-apprendimento rinnovato la possibilità di essere esso stesso “terapeutico” e produttivo di empowerment. Tale innovazione dovrebbe necessariamente essere collocata all’interno di un approccio costruttivistico e cooperativo capace di integrare le proposte di sviluppo individuale e sociale con le ragioni dei saperi disciplinari. L’attività condotta con il supporto UniBo si è articolata in un processo di assistenza tecnica che ha previsto, in particolare, la sperimentazione di uno strumento (i cui principi fondativi verranno di seguito approfonditi) denominato Index for inclusion and empowerment, basato su indicatori utili per pianificare e monitorare le attività ai fini di verificarne l’efficacia in direzione di resilienza ed inclusione; la realizzazione di un Convegno sull’Inclusive Education as tool for

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MoEHE: Ministry of Education and Higher Education. GVC: organizzazione non governativa di Bologna, Gruppo di Volontariato Civile impegnato da tempo in Palestina nell’ambito dell’emergenza. EducAid: organizzazione non governativa di Rimini impegnata da anni in Palestina sui processi inclusivi in ambito educativo e sociale.

3. Esiti di ricerca


Psychosocial Support, all’interno del quale i referenti UniBo hanno presentato l’Index nelle sue componenti fondamentali da quella teorica, a quella metodologica e prospettando linee di sviluppo dello strumento a partire dai primi risultati emersi. Le riflessioni presentate in queste pagine, oltre ad approfondire il significato pedagogico dell’Index for inclusion and empowerment, si propongono di mettere a fuoco, tra le varie tematiche, quella del lavoro minorile in rapporto alla scuola. Infatti, i testimoni delle scuole coinvolte nell’applicazione dello strumento affermano che una percentuale altissima (tra il 70% e il 90%) di bambini lavoratori caratterizza la popolazione scolastica4. Questo dato apre, per la sua rilevanza quantitativa, ad una riflessione importante sulla risposta che la scuola palestinese offre a questo target, in una realtà educativa formale ancora prevalentemente afferente ad un modello educativo tradizionale, caratterizzato da un’applicazione rigida di regole disciplinari e pratiche educative poco inclusive. È importante ricordare che il fenomeno dei bambini lavoratori, letto in relazione alla qualità della proposta educativa scolastica e di quella extra-scolastica, è stato oggetto nel corso degli ultimi dieci anni di diversi studi realizzati in Palestina tra la Striscia di Gaza e la West Bank (Taddei, 2007; Taddei, 2008; Save the Children 2000): ricerche che confermano la necessità di approfondire ulteriormente la problematica dei bambini lavoratori in una prospettiva educativa inclusiva, attraverso un’analisi critica e multidimensionale dei diversi approcci che da alcuni decenni accompagnano il dibattito internazionale sul lavoro minorile, in particolare nei Paesi con risorse economiche ed opportunità educative limitate. Per comprendere pienamente il significato dell’Index for inclusion and empowerment è necessario evidenziare la complessità del contesto socio-educativo palestinese. La Palestina è infatti una realtà caratterizzata da un altissimo e generalizzato livello di vulnerabilità sociale5, in cui le prospettive di empowerment ed inclusione, nei loro significati più ampi, giocano un ruolo determinante nel poter riscrivere il futuro, in un contesto di conflitto caratterizzato da un forte impatto quotidiano dei singoli individui e della collettività con la violenza, in molti casi con la morte e comunque con dimensioni di sofferenza esistenziale estremamente bisognose di essere “curata”6, attraverso la costruzione di progetti di vita possibili e sostenibili nel rispetto dei diritti umani.

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Il dato emerso è notevolmente superiore rispetto a quello registrato dal PCBS (Palestinian Central Bureau of Statistics) del 2015: 5,7% in West Bank e 2,8% nella Striscia di Gaza. Per approfondimenti consultare: http://www.pcbs.gov.ps/Portals/_Rainbow/Documents/childern-2015-01e.htm. Una delle possibili motivazioni può derivare dal fatto che la maggior parte dei bambini lavoratori opera in condizioni di sostanziale invisibilità. Il tasso di occupazione è complessivamente del 27% (World Bank, 2016): 42% nella Striscia di Gaza e 15% in West Bank http://www.worldbank.org/en/country/westbankandgaza/overview. Il 35,9% dei bambini risulta soffrire di sindrome da post-traumatic stress. Per maggiori informazioni consultare: http://www.journalrepository.org/media/journals/BJESBS_21/2015/Jul/Thabet1112015BJESBS19101.pdf. Il significato di “cura” a cui si fa riferimento nel testo si ispira a quello di “Care” fondato da Don Lorenzo Milani, che include l’idea di prendersi cura dell’altro in tutte le sue dimensioni esistenziali al di fuori di una logica assistenzialista.

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2. Perché un Index for inclusion and empowerment in Palestina7

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L’Index for inclusion and empowerment, progettato nelle sue linee generali e in via di ulteriore definizione da parte dal gruppo di docenti UniBo coinvolti nel progetto di cooperazione sceglie di arricchire il concetto di inclusione con quello di empowerment. Dalla sua origine8, l’Index for Inclusion (Ainscow, Booth, 2002) è stato pensato come uno strumento a disposizione di tutti coloro che operano nella scuola (insegnanti, dirigenti, tecnici, politici...) per aiutarli ad analizzare i propri servizi educativi in funzione del loro livello di inclusione e al fine di progettare e realizzare innovazioni per elevare il livello di inclusione di tutta la propria organizzazione. L’interpretazione del concetto di inclusione su cui si fonda l’Index identifica il collegamento strutturale tra inclusione sociale e inclusione scolastica e promuove il diritto all’educazione per tutti indipendentemente dalle situazioni di disagio e vulnerabilità del singolo e del gruppo legate ai fattori di disabilità, genere, povertà materiale e diversità socio-culturale e propone il superamento delle logiche dell’integrazione, in quanto esse tendono ancora ad affrontare i problemi come se il non inserimento scolastico dipendesse fondamentalmente dalle situazioni di disabilità o multiculturalità. In altre parole, come se la causa della eventuale noninclusione fosse da rinvenire esclusivamente nelle caratteristiche particolari della persona non inclusa. Secondo le logiche proposte dall’Index, al contrario, l’eventuale mancanza di inclusione sociale e/o di successo scolastico delle persone non deriva dalle loro differenze individuali, bensì dalle insufficienze organizzative della scuola e dalla inadeguatezza delle sue pratiche didattiche, che rappresentano altrettanti ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione. Il concetto di empowerment propone una visione dell’educazione che mira alla valorizzazione del soggetto attraverso l’acquisizione di strategie e di strumenti funzionali al potenziamento dell’autostima, della sicurezza nelle proprie capacità e risorse, verso la possibilità per ognuno di essere protagonista autonomo e responsabile delle proprie scelte. L’empowerment viene quindi inteso come assunzione di autoconsapevolezza, aumento della capacità di progettare, realizzare azioni e sviluppare le potenzialità individuali e di gruppo. La proposta di integrare inclusion ed empowerment si muove nella direzione di arricchire la volontà di includere tutti con la tensione a fornire a tutti e a ciascuno competenze ed esperienze di consapevolezza individuale e sociale, di progettazione del sé e del gruppo, nella concezione emancipatoria, consapevolizzante e democratica dell’educazione già diffusamente tracciata a livello internazionale. 7 8

I contenuti di questo paragrafo sono stati elaborati sulla base del documento di presentazione dell’Index for inclusion and empowerment a cura dei docenti del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna: Luigi Guerra, Elena Pacetti, Federica Zanetti, Daniele Castellani, Arianna Taddei. L’Index for Inclusion è uno strumento ideato dal Centre for Studies on Inclusive Education (CSIE) sulla base di una ricerca condotta da Mark Vaughan e Mel Ainscow. Ne esistono diverse versioni, si veda: Ainscow M., Booth T. (2002). The Index for Inclusion: Developing Learning & Participation in Schools. Bristol: Center for Studies in Inclusive Education.

3. Esiti di ricerca


L’Index si presta a molteplici usi, anche fra loro integrati: rappresenta un sistema ragionato di criteri e indicatori per leggere e interpretare la situazione complessiva della scuola in relazione al tema dell’inclusione; costituisce un buon punto di partenza per progettare e implementare piani di miglioramento sulla base di letture organiche e condivise; rappresenta una check-list per la valutazione puntuale delle innovazioni introdotte progressivamente nella scuola; costituisce un’elencazione sistematica di temi verso i quali orientare la formazione iniziale e continua di tutti gli attori scolastici. Affinché l’Index non diventi, al di là delle intenzioni, uno strumento di burocratizzazione della innovazione e anche di colonizzazione culturale da parte delle realtà che dispongono di modelli educativi più affermati e diffusi, è necessario che l’Index: venga interpretato come uno strumento continuamente in evoluzione, sulla base delle ricerche e delle sperimentazioni che contribuiscono a livello internazionale a far crescere la conoscenza e la consapevolezza sui sistemi educativi: sulle loro finalità politico-culturali e sulle loro caratteristiche pedagogico-didattiche; sia integrato e modificato localmente, in funzione delle specificità culturali e pedagogiche delle singole realtà in cui viene utilizzato e a partire dai feedback forniti dai protagonisti effettivi della sua utilizzazione. Lo strumento elaborato e testato all’interno del progetto è suddiviso in due parti: la prima intende raccogliere informazioni quantitative generali sulle scuole; la seconda parte invece si propone di analizzare i concetti di inclusion ed empowerment attraverso l’analisi di quattro dimensioni: a) come garantire l’empowerment individuale e di gruppo; b) come creare culture inclusive; c) come produrre politiche di inclusione ed empowerment; d) come sviluppare pratiche inclusive e di empowerment. Ad oggi il gruppo dei docenti UniBo ha lavorato sulla dimensione a) e b) e nei prossimi mesi sarà impegnato a sviluppare le due rimanenti.

3. Il dibattito internazionale sul tema del lavoro minorile

Il dibattito internazionale sul lavoro minorile necessita di una preventiva puntualizzazione di alcune questioni fondamentali che non trovano una risposta definitiva, vista la complessità della tematica in oggetto. Una di tali questioni riguarda il fatto che è ancora molto complesso definire chiaramente che cosa si intenda per lavoro minorile e quale sia il confine tra la dimensione del lavoro e quella dello sfruttamento. Permane la difficoltà di condurre l’analisi del fenomeno fondandola su criteri omogenei, poiché esso presenta manifestazioni molto differenti. Inoltre, diversi pregiudizi hanno accompagnato il dibattito: uno tra questi ha riguardato per diverso tempo l’idea che il fenomeno fosse limitato esclusivamente ai Paesi poveri del Sud del mondo, e che quindi il lavoro fosse associato unicamente alla variabile economica. Si tratta di un’idea che mai come oggi deve essere messa in discussione, alla luce dei profondi cambiamenti avvenuti nello scenario internazionale; basti pensare, ad esempio, agli importanti flussi migratori di minori non accompagnati che arrivano oggi in Europa (al Nord del mondo) e che spesso devono lavorare per sopravvivere. Nel 2004, Tagliaventi anticipava alcune considerazioni in merito al fatto che sicuramente l’esperienza del lavoro minorile, in particolare nei paesi del Sud del mondo, è condizionata da necessità di tipo economico, ma che questo non esclude il fatto che il lavoro anno V | n. 1 | 2017

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minorile è presente anche altrove ed è determinato da motivazioni diverse da quella economica: Il fenomeno del lavoro minorile è presente nei Paesi del Sud del Mondo ma anche nei Paesi industrializzati: si caratterizza per motivazioni di ordine economico culturale educativo in grado di determinare il precoce inserimento lavorativo e così connesse da rendere difficile una chiara identificazione delle cause predominanti del fenomeno. Sicuramente nei Paesi del Sud del Mondo la variabile economica è determinante in quanto i bambini adolescenti spesso lavorano per incrementare il reddito famigliare (Tagliaventi, 2004, p.8).

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Un’ulteriore problematica rilevante riguarda la difficoltà di quantificare il fenomeno dei bambini lavoratori per il livello di invisibilità che spesso caratterizza la loro esperienza lavorativa: infatti, il lavoro tende a manifestarsi in contesti spesso invisibili a causa dell’illegalità, dell’informalità, della dimensione privata in cui si svolge (come quella del lavoro intrafamiliare). Con il termine “lavoro minorile”, infatti, si è soliti fare riferimento indistintamente a fenomeni di diversa natura: da un lato, attività criminali penalmente perseguibili, esperienze di lavoro che non rispettano la dignità del bambino (mettendone in pericolo la crescita psicofisica) ed il lavoro forzato; dall’altro, lo stesso termine include attività che non risultano dannose o lesive per lo sviluppo complessivo del minore e sono svolte per un numero limitato di ore, come le attività domestiche e di cura che avvengono nel contesto familiare. È evidente che la confusione nell’affrontare questo fenomeno consiste proprio nel non attribuire la giusta dimensione e categoria di appartenenza alle singole esperienze di lavoro minorile, spesso infatti si parla di “lavoro minorile” quando invece le attività descritte dovrebbero essere rubricate come “crimini contro i minori”. Nel dibattito internazionale si utilizza la distinzione tra child labour e child work: con il primo termine si intende il lavoro sfruttato, generalmente svolto all’esterno della famiglia e caratterizzato dall’abbandono scolastico, da un salario basso, da condizioni di lavoro ritenute pericolose per la salute e lo sviluppo psicofisico del minore; mentre con il secondo termine ci si riferisce ai lavori “non lesivi” solitamente realizzati dal bambino per la propria famiglia o comunque all’interno di ambienti familiari e che non impediscono la frequenza scolastica (Nunin, 2004). Secondo il Word Report on Child Labour 2015: Paving the way to decent work for young people9 (http://www.ilo.org/) ci sono circa 168 milioni di minori sog-

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Traduzione ufficiale in italiano: “Rapporto globale sul lavoro minorile 2015: aprire ai giovani la strada al lavoro dignitoso”. Nei Paesi in cui le istituzioni e le economie non sono sufficientemente sviluppate è consentito in deroga alle previsioni richiamate, di fissare l’età minima di ammissione al lavoro a quattordici anni, previa consultazione con le organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori. La Convenzione Internazionale sui diritti del fanciullo è stata approvata all’unanimità dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989. Nats è l’acronimo spagnolo di Niños y Adolescentes Trabajadores: Bambini e Adolescenti Lavoratori.

3. Esiti di ricerca


getti al lavoro minorile e 75 milioni di giovani, tra i 15 e i 24 anni, disoccupati. Il rapporto sottolinea che un numero ancora maggiore di giovani, costretti a lavorare fin da bambini, appare più incline ad accontentarsi di un lavoro familiare non retribuito o di un impiego mal pagato. Il rapporto mette in luce la doppia sfida di eliminare il lavoro minorile e di garantire ai giovani un lavoro dignitoso. Nel dibattito internazionale si possono distinguere tre diverse posizioni. La prima fa riferimento all’approccio abolizionista, sostenuto in primis dall’International Labour Organization (ILO), che ha come obiettivo la totale eliminazione del lavoro minorile a prescindere dalle condizioni in cui questo si sviluppa e dal relativo contesto. Uno dei capisaldi alla base di questo modello è rappresentato dal considerare la scolarizzazione il principale strumento di lotta al lavoro minorile. L’Organizzazione ha operato a partire dagli anni ’70 tramite la predisposizione di convenzioni e raccomandazioni per regolamentare il fenomeno negli Stati membri, individuando i principi e le regole minime di protezione affinché rappresentassero un modello per gli ordinamenti nazionali. Nel 1992 l’ILO crea l’International Programme on the Elimination of Child Labour (IPEC), ma già nella Convenzione n. 138 del 1973, viene esplicitato l’obiettivo di abolire il lavoro minorile, impegnando gli Stati firmatari a realizzare politiche nazionali che ne assicurino l’eliminazione al di sotto dei 15 anni. Uno degli effetti controproducenti di tale convenzione è il costringere di fatto i minori comunque lavoratori a farlo nella clandestinità e al di fuori dalla rete protettiva legale, sindacale e sociale. Un’ulteriore convenzione proposta dall’ILO (n. 182 del 1999) prevede la soppressione delle più gravi forme di sfruttamento di lavoro minorile invitando i singoli Stati a realizzare interventi per affrontare le forme estreme di sfruttamento. Il secondo approccio, cosi detto, pragmatico riconosce la reale difficoltà di eliminare totalmente il lavoro minorile, soprattutto nel breve periodo: infatti, perdura, purtroppo, a livello globale sia una iniqua distribuzione della ricchezza, sia una scarsissima possibilità per una percentuale ancora alta della popolazione mondiale di uscire da condizioni di povertà. L’approccio pragmatico non esclude, quindi, a priori la possibilità che il bambino lavori, e persegue attraverso i propri interventi i seguenti obiettivi: migliorare le condizioni in cui i minori svolgono le attività lavorative; eliminare le forme peggiori di sfruttamento. Questa posizione è sostenuta da numerose Ong impegnate sulla tematica del lavoro minorile. Infine, il terzo approccio è quello di valorizzazione critica o empowerment. Secondo questa prospettiva il lavoro minorile non è negativo e dannoso in sé, quindi da eliminare e condannare sempre, indiscriminatamente, ma viene valutato nel suo complesso a seconda delle condizioni in cui è svolto e nella misura in cui l’esperienza di lavoro si sviluppi nel rispetto dei diritti fondamentali del bambino, previsti dalla Convenzione Internazionale del diritto del fanciullo (ONU, 1989) tra cui certamente, quelli di garantire condizioni di salute psico-fisica adeguate all’età di sviluppo del bambino e di accedere all’educazione. Alla base di questo approccio, vi è la convinzione che l’esperienza lavorativa, se adeguatamente tutelata, abbia in sé una importante valenza educativa. La dimensione sociale del lavoro, ad esempio, facilita il coinvolgimento e la partecipazione del bambino alla vita della propria comunità in una prospettiva di cittadinanza attiva. L’approccio di valorizzazione critica considera il lavoro come: anno V | n. 1 | 2017

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una componente importante nei processi di socializzazione e come una reazione “razionale” alle limitate possibilità di cui le famiglie ed i bambini dispongono in molti contesti soprattutto nei Paesi del Sud del mondo: in questo caso l’obiettivo diventa allora quello di rendere lavoro e scuola complementari” (Caocci, Finelli, 1998, p.38 e ss).

I principali promotori della prospettiva di valorizzazione critica nel mondo sono i Movimenti organizzati dei Nats presenti in diversi Paesi dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia. I Movimenti sostengono un processo di rivendicazione sociale e di partecipazione dal basso, rispetto alla quale il lavoro è una delle espressioni di partecipazione comunitaria ed economica e uno strumento di costruzione di identità sociale (Associazione Nats, 2002). Tale processo contribuisce allo sviluppo integrale del bambino in cui il ruolo dell’educazione scolastica è comunque strategico. Al di là delle particolarità dei singoli approcci, che per altro a volte convivono nei modelli delle grandi organizzazioni internazionali, una condizione comune e di fondamentale importanza è quella di garantire il diritto allo studio ai bambini lavoratori: ciascuna prospettiva presentata implica inevitabilmente una specifica proposta su come affrontare il problema dell’istruzione di fronte alla condizione di costante vulnerabilità in cui vivono i bambini adolescenti lavoratori in ogni parte del mondo.

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4. Aspetti metodologici

Le riflessioni di seguito presentate (sia in riferimento all’Index for inclusion and empowerment in generale, sia in riferimento al problema specifico dei bambini lavoratori) vanno collocate in una fase di “esplorazione” del contesto e dei bisogni che si potrebbe definire di “pre-ricerca”. Costituiscono, quindi, una tappa fondamentale di lavoro in cui non si pretende di esaurire l’argomento, bensì soltanto di offrire elementi di partenza sui cui progettare un percorso strutturato di ricerca successiva che affianchi il proseguimento del lavoro sull’Index con un approfondimento specifico sul tema dei bambini lavoratori. L’analisi dei dati raccolti su tale tema è di tipo qualitativo e si fonda sulle informazioni quantitative raccolte attraverso la prima applicazione del questionario dell’Index in alcune scuole di base pilota. La fonte delle informazioni è costituita dalle testimonianze di bambini e bambine palestinesi, residenti in West Bank e nella Striscia di Gaza, sulle quali è stata realizzata una breve analisi di natura idiografica. In queste pagine, dopo aver inquadrato il tema dei bambini lavoratori nel sistema dei dati emersi dal lavoro sull’Index, si presenta la sintesi solo di alcune delle storie di vita raccolte: quelle che propongono problematiche relative al fenomeno del lavoro minorile e delle connessioni tra questo e le dimensioni scolastica e sociale.

3. Esiti di ricerca


5. Index for inclusion and empowerment: primi risultati dello strumento

Come si è in precedenza affermato, il tema dei bambini lavoratori si è posto con forza all’interno delle prime evidenze emerse in sede di sperimentazione dell’Index. Tale tema non si presenta come collaterale rispetto ad un discorso complessivo sulla scuola palestinese ed è opportuno inquadrarlo nel sistema di considerazioni che stanno complessivamente emergendo sulla scuola stessa. I dati di tipo quantitativo più rilevanti riferiti al sistema scolastico palestinese nel suo complesso propongono alcune domande chiave: da un lato, sulla capacità della scuola di accogliere tale tipologia di gruppo; dall’altro, sul poter riconoscere, oltre che le difficoltà, anche le potenzialità, gli interessi specifici e la tipologia di competenze che caratterizzano il target dei bambini lavoratori per sviluppare un approccio educativo valorizzante rispetto alla loro esperienza di vita in rapporto alla scuola. Nel complesso il modello educativo adottato dalle scuole pilota è di stampo prevalentemente tradizionale, orientato quindi a garantire più la riproduzione di contenuti di tipo disciplinare, piuttosto che a curare i processi di insegnamentoapprendimento. In tale prospettiva, l’insegnante difficilmente è in grado di proporre percorsi di apprendimento partecipativo e cooperativo, fondato sui principi di una didattica attiva ed individualizzata, orientata a promuovere processi di empowerment. In questo quadro, occorre aggiungere l’eccessiva importanza che viene attribuita al rispetto delle regole scolastiche, con il rischio che gli insegnanti ricorrano con grande frequenza a misure disciplinari di tipo punitivo a volte anche fisico, contribuendo ad alimentare la cultura di violenza già fortemente radicata nel contesto locale. Inoltre, la rigida ed indiscriminata applicazione delle regole non tiene dovutamente in considerazione il livello di fragilità e vulnerabilità del contesto. Un contesto nel quale la scuola dovrebbe sviluppare la capacità di adottare risposte di tipo organizzativo e didattico connotate da un alto livello di flessibilità, per far fronte efficacemente alle numerose situazioni di crisi ed emergenza determinate dalla condizione cronica di conflitto: basti pensare alla difficoltà degli studenti di superare i check point per raggiungere la scuola mettendo spesso a repentaglio la loro incolumità, o alle incursioni notturne condotte da parte dell’esercito israeliano in alcune aree specifiche che contribuiscono ad aumentare lo stato di costante paura in cui vivono i bambini. Nel quadro delineato, è assolutamente importante cercare di stabilire un clima di accoglienza positiva capace di includere tutti gli studenti con le loro caratteristiche specifiche di vita e di apprendimento, in cui alla figura dell’insegnante vengono richieste competenze di tipo sociale molto elevate e che al momento appaiono ancora purtroppo deboli. In generale, sia tra gli insegnanti sia tra gli studenti, si rileva una preoccupante difficoltà a collaborare e a condividere materiali, spazi, apprendimenti, pratiche, non solo all’interno della scuola ma anche con la comunità locale che non viene percepita da nessun attore scolastico come un interlocutore con cui costruire e condividere un progetto educativo. In conclusione, la costruzione di culture inclusive si trova ancora in uno stato di work in progress caratterizzato da luci ed ombre: ossia, emergono segnali di interesse verso il concetto di inclusione a livello teorico che di fatto si scontrano

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spesso con la difficoltà oggettiva di promuovere e realizzare pratiche inclusive in una quotidianità in cui prevale la resistenza ad accogliere le diversità e a sviluppare la funzione sociale della scuola.

6. Tra scuola e conflitto: voci di minori lavoratori

Limitiamo la presentazione del materiale qualitativo raccolto alla ricostruzione di cinque storie di vita: la sintesi di tali storie intende contribuire alla riflessione sul tema del lavoro minorile in rapporto alla scuola, mettendo in luce la multidimensionalità del fenomeno attraverso il racconto di Ali, Mohammed, Khadija, Ahmed e Mahmoud.

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Ali ha 13 anni, 7 fratelli e 4 sorelle. Frequenta il secondo grado della scuola secondaria di primo grado. La sua giornata inizia molto presto, alle 6.00 del mattino per andare a scuola. Gli piace molto frequentarla e sottolinea che gli insegnanti non lo trattano male, infatti picchiano solo gli studenti aggressivi. Nel pomeriggio si dedica al lavoro agricolo con suo padre. Afferma che gli piace molto accudire le piante e sottolinea con orgoglio la soddisfazione di poter gustare i frutti degli alberi coltivati, perché sono il risultato della sua fatica e del suo impegno. Tutte le sere alle sette va a pregare alla moschea dove spesso incontra referenti dell’organizzazione di Hamas, alla quale ha aderito per difendere il popolo palestinese, sono gli unici, a suo parere, “che possono combattere ed uccidere gli Israeliani”.

Mohammed ha 11 anni, indossa una maglietta rossa, un cappellino blu ed ha il volto segnato da numerose cicatrici. In tutto, in famiglia sono in 7 fratelli: 5 maschi e 2 femmine. Sta per finire il primo anno della scuola secondaria di primo grado, non sa ancora se sarà promosso, però gli piace andare a scuola e le sue materie preferite sono matematica ed inglese, soprattutto grazie alle insegnanti. A casa studia poco, quando torna da scuola, infatti, pranza, si riposa un po’ e poi studia. Lavora 5 ore ogni pomeriggio. Taglia il metallo, per rivenderlo, delle strutture rimaste all’interno di un palazzo distrutto dagli Israeliani. Qui lavora insieme al suo amico ed a tanti altri bambini: in tutto sono 25-30 persone, ma non c’è un capo. Guadagna 10 Nis al giorno di cui 5 li dà alla sua famiglia, mentre gli altri li usa per comprare del cibo. Afferma che ha iniziato a lavorare in quarta elementare perché si annoiava molto, ci tiene a precisare che è stata una decisione personale. Aggiunge però che è un lavoro molto stancante che sta pensando di interrompere, anche se pensa che non è sbagliato lavorare, basterebbe farne solo uno più leggero. Suo padre, per via di un incidente sul lavoro, è paralizzato. I suoi desideri più grandi sono quelli di sposarsi e di costruire una scuola per i bambini.

Khadija ha 10 anni e una famiglia con 10 fratelli. Sta per terminare la quinta elementare. Alla domanda “se lavora” risponde di no, afferma solo di accudire la casa e i suoi fratellini: lava i panni e i piatti, ordina la casa, cucina. Le piace molto cucinare. Purtroppo recentemente ha dovuto trasferirsi in un’altra casa a causa del conflitto e quindi è stata costretta a cambiare scuola: era troppo peri3. Esiti di ricerca


coloso continuare a vivere nel luogo in cui era sempre stata. Inoltre, i check-point alla mattina la facevano arrivare a scuola sempre in ritardo e le insegnanti si arrabbiavano. Le piacerebbe avere un computer, ha una passione per la tecnologia. Il suo desiderio più grande è quello che gli Israeliani lascino libero il suo Paese. Hanno sparato tanto e ferito anche suo zio. Una volta è scappata da sua nonna ma anche lì non si sentiva sicura: afferma con molta tristezza che con “con la pace speriamo di risolvere tutto, con la guerra non si può risolvere niente”.

Ahmmad ha 15 anni e una famiglia composta da 4 fratelli e 3 sorelle. Il suo volto è particolarmente scuro, i suoi vestiti sono sporchi. Durante tutta l’intervista non accenna a sorridere. Il padre guida un camion quando ne ha l’opportunità ma al momento non lavora. Afferma di non andare più a scuola, ha smesso per andare a lavorare. La verità è che non gli piaceva la scuola, dice, anche se nessuno gli dava fastidio: lui voleva fare soldi. Per questo, dopo un periodo di disoccupazione, ha iniziato a fare l’aiuto sarto per un anno intero. Dice di aver interrotto quel lavoro perché non gli piaceva più e da due mesi lavora in una sala giochi dalle 8 del mattino alle 10 di sera senza una pausa, tranne che per i pasti che si deve pagare da solo. Guadagna 10 Nis al giorno. Non ha un giorno libero, a volte si fa sostituire dal fratello. I 300 Nis mensili che guadagna li dà a suo padre, eccetto quelli che investe per pagarsi i pasti. A fatica, afferma che attraverso il lavoro sta iniziando ad usare il computer e a maneggiare soldi. Inizialmente, dichiara che non gli pesa niente del lavoro, poi, ci ripensa e aggiunge che forse l’orario è un po’ pesante, ma non ha scelta, anche se nessuno lo obbliga. L’importante è che alla fine del mese porta a casa i soldi.

Mahmoud ha 13 anni ed ha smesso di frequentare la scuola da un anno. È stato bocciato ed inoltre ha iniziato la scuola con un anno di ritardo. Vende sigarette su un carretto ambulante dalle 7 del mattino alle 10 di sera: si alza, fa colazione e ritorna a casa per una breve pausa a recuperare il pranzo e la cena. Affianca suo padre che è cieco, per cui ha bisogno di assistenza nel lavoro. A volte guadagna un Nis al giorno, a volte non guadagna niente. Fino a un anno fa, non aveva mai lavorato. Afferma che è molto meglio andare a scuola, ma non può perché deve aiutare il padre. Attraverso il lavoro ha imparato i nomi delle sigarette e a dare i resti. Purtroppo non ha degli amici perché lavora sempre, gli unici bambini che incontra sono quelli che vanno a comprare le sigarette per i loro padri. Le storie mettono in luce come la condizione di lavoro minorile sia intrinsecamente intrecciata ad altre questioni – strettamente vincolate al contesto locale – messe a fuoco più o meno intensamente da ciascuna testimonianza. Innanzitutto, la necessità di lavorare è alimentata dalle condizioni di povertà diffuse nella società palestinese a causa della situazione di conflitto: purtroppo il bisogno di lavorare per contribuire all’economia familiare implica il rischio per i minori di svolgere lavori pericolosi per la loro salute fisica e con turni eccessivi, inconciliabili con uno stile di vita adeguato all’età dello sviluppo e che permetta una frequenza scolastica regolare. L’esperienza lavorativa in alcuni casi rappresenta, come in quello di Mohammed, l’unica alternativa alla “noia” soprattutto nelle zone particolarmente depresse, in cui si registra la quasi totale mancanza di opportunità educative e ricreative. La storia di Khadija punta i riflettori sulla questione di genere: infatti, la bambina afferma di non lavorare, sebbene lo faccia

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quotidianamente senza averne consapevolezza. Il contenuto di tale risposta va interpretato secondo i valori della cultura palestinese in cui il lavoro domestico e l’accudimento dei fratelli sono componenti caratterizzanti, fin dalla tenera età, la vita delle bambine e quindi non sono considerati mestieri da retribuire. Nelle storie narrate vi è spesso la presenza di genitori invalidi e disoccupati (come per Ahmed e Mahmoud) che quindi non sono in grado di garantire condizioni di sicurezza economica. Le limitate opportunità di svago lasciano un vuoto importante che viene spesso occupato precocemente dal ruolo della politica e della religione. I minori, infatti, sono abituati a frequentare quotidianamente la moschea e le associazioni politiche, che esercitano una funzione di indottrinamento: una funzione che assume una rilevanza significativa in un panorama in cui la scuola rimane sullo sfondo, con una capacità di attrazione e di risposta sociale marginale. È da precisare, inoltre, che entrambe le alternative sopracitate sono accessibili unicamente ai bambini maschi e non alle femmine, le quali sono costrette a trascorrere gran parte del loro tempo in casa. Complessivamente, la dimensione principale all’interno della quale interpretare quanto finora detto è quella del conflitto, in cui i bambini stessi sono vittime della violenza in modo inconsapevole: la violenza permea tutte le dimensioni di vita dell’infanzia e viene percepita, purtroppo, come l’unica forma di difesa e di attacco con il rischio di trasformare qualsiasi essere umano, bambini compresi, nello stesso tempo in vittime e carnefici. Per superare quanto appena prospettato, appare fondamentale educare la cittadinanza sin dall’infanzia ad uscire da una logica fondata sulla contrapposizione dicotomica tra bene e male, tra bianco e nero. Come se la realtà, invece, non fosse molto più complessa e non nascondesse tra le sue pieghe zone grigie in cui, forse, attraverso un’analisi critica, è possibile cercare e trovare soluzioni insperate.

7. Considerazioni generali e possibili direzioni di ricerca

Il materiale raccolto in questa prima fase di studio intende essere propedeutico alla progettazione di un percorso di ricerca più amplio che potrebbe riguardare la realtà del bambino palestinese tra scuola e lavoro: possibili direzioni di ricerca per una scuola inclusiva. Lo studio potrebbe continuare ad accompagnare l’intervento di cooperazione da cui ha avuto origine e costituire un approfondimento specifico della ricerca sull’Index. Sulla base delle riflessioni condotte, è possibile procedere ad alcune prime ipotesi di scuola inclusiva in grado di rispondere efficacemente alle caratteristiche dei bambini lavoratori. Uno dei criteri fondamentali per tale scuola è quello di perseguire obiettivi sostenibili, difficilmente quindi potrà fondare il suo approccio al fenomeno del lavoro minorile su principi abolizionisti: è innegabile che lo sfruttamento del lavoro e le peggiori forme di lavoro debbano essere eliminate, ma è anche vero che, dal punto di vista pragmatico, è utopistico pensare di eliminare ogni esperienza di lavoro, anche se dignitosa e nel rispetto dei diritti del bambino, fino a quando esisterà a livello mondiale la piaga della povertà, che presuppone per una amplia fascia della popolazione, la necessità di trovare modalità di sopravvivenza. Forse, pur continuando a sognare e lottare per un mondo in cui nessun bambino sia costretto a lavorare, è più utile cercare risposte a partire da un’analisi 3. Esiti di ricerca


critica del contesto socio-culturale ed economico in cui i bambini lavorano. Ciò implica creare condizioni dentro e fuori la scuola che tutelino il diritto all’educazione e prima ancora il diritto alla vita e al benessere generale dei bambini. Una volta preso atto che in diversi casi l’esperienza lavorativa è parte integrante della vita di molti minori e delle loro famiglie, bisognerebbe: da un lato, garantite condizioni di lavoro dignitoso attraverso la realizzazione di politiche di protezione sociale e dall’altro pensare ad una scuola che sia capace, attraverso un progetto educativo fondato sull’empowerment, di valorizzare l’esperienza dello studente lavoratore e le competenze acquisite durante il lavoro. Il contesto scolastico dovrebbe adeguare le varie dimensioni della scuola: da quella organizzativa, a quella sociale e curricolare. Per esempio, il curricolo dovrebbe presentare forme di flessibilità tali da consentire la valorizzazione delle esperienze lavorative, prevedendo una didattica attiva e laboratoriale che colleghi gli apprendimenti “duri” con le opportunità di impiego legate alle microeconomie presenti sul territorio. Il fattore flessibilità è trasversale all’ipotesi di scuola inclusiva che si sta ipotizzando e deve riguardare anche gli orari scolastici, la sperimentazione di diversi modelli di frequenza e programmi educativi innovativi che tengano conto dei periodi in cui gli studenti fanno più assenze. Sarà importante studiare eventuali connessioni tra il fenomeno degli studenti lavoratori e la situazione di conflitto: ci sono, ad esempio, mestieri generati dal conflitto? Quanto sono pericolosi e che ripercussioni hanno sulla frequenza scolastica? Quali proposte educative elaborare? Ed infine, quali competenze la scuola deve sviluppare e attraverso quali percorsi raggiungerle? Le risposte vanno trovate all’interno di innovazioni capaci di attivare processi inclusivi tra scuola ed extra-scuola secondo un approccio di valorizzazione critica del lavoro minorile.

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Taddei A. (2010). Educare a Gaza. Ricerche di Pedagogia e didattica, 5, 2, pp. 1-37. Tagliaventi M. (2004). Questioni aperte del lavoro minorile in Europa. In Bambini e adolescenti che lavorano. Firenze: Istituto degli Innocenti. Ainscow M., Booth T. (2002). The Index for Inclusion: Developing Learning & Participation in Schools. Bristol: Center for Studies in Inclusive Education. Siti internet www.ilo.org http://www.journalrepository.org/media/journals/BJESBS_21/2015/Jul/Thabet1112015BJESBS19 101.pdf. http://www.pcbs.gov.ps/Portals/_Rainbow/Documents/childern-2015-01e.htm http://www.worldbank.org/en/country/westbankandgaza/overview

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3. Esiti di ricerca


Alla “Scuola inclusiva nel Bosco”, per essere liberi di crescere assieme

Key-words: Outdoor Education; Inclusion; Case Study; Autism Spectrum Disorders; Holistic Development

3. Esiti di ricerca *

L’articolo riporta un lavoro di ricerca svolto da un gruppo eterogeneo che, tuttavia, ne ha ampiamente condiviso l’andamento. Si tratta dunque del frutto di un’azione compartecipata; in particolare: Alessandro Bortolotti ha curato la stesura dei paragrafi 1 e 3; Paola Tomasi del paragrafo 2; Angela Pasqualotto del paragrafo 4. Le immagini sono del disegnatore Mattia Franceschini, al quale vanno i nostri sinceri ringraziamenti.

Italian Journal of Special Education for Inclusion

anno V | n. 1 | 2017

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Abstract – This paper aims to report the “Inclusive School in the Woods” experience, inspired by similar North European Outdoor Education camps. An investigation was carried out to determine the efficacy of a non-formal educational summer camp in creating inclusive activities for both children with typical development and children with Autism Spectrum Disorder. Pragmatically, we carried on a series of outdoor life activities, such as woods explorations and play, lighting fires, river water activities, and so on. Specifically, our work focused on encouraging positive relationships among children. We adopted a “case study” research design, that allows multiple interpretation comparisons, and for this reason fulfills our aims: reach an intersubjective and shared synthesis of the considered setting. We strongly believe that, from both an educational and therapeutic point of view, the interest of Outdoor setting lies on many tangible and mental links, e.g. with natural and cultural environment, and between people: educators and children, but also children between each others. Those very attractive relationships easily lead to some changes not only in children with typical development, but also with Autism Spectrum Disorder. As a matter of fact, children have been stimulated to act autonomously, to be self-organized and to act globally. Despite the fact that that “Inclusive School in the Wood” is still a largely unexplored model of inclusive experience, it has undoubtedly great educational potential for all. Our recommendation is to further implement it both at an educational planning and scientific research level.

abstract

Alessandro Bortolotti (Università degli Studi di Bologna / alessandro.bortolotti@unibo.it) Angela Pasqualotto (Università degli Studi di Trento / a.pasqualotto.5@gmail.com) Paola Tomasi (Associazione “Il Cerchio Magico”, Rovereto (Trento) / info@paolatomasi.it) Paola Venuti (Università degli Studi di Trento / paola.venuti@unitn.it)

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1. Introduzione

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Generalizzando un po’, ma neanche tanto... si può affermare che le esperienze educative all’aria aperta siano considerate in modi nettamente discordanti: mentre a livello formale e scolastico risultano pressoché ignorate, nell’ambito informale trovano invece estimatori convinti1. Per questi ultimi rappresentano addirittura una specie di “panacea per tutti i mali”, soprattutto grazie alla presenza di una protagonista indiscussa: la Natura. Attraverso questo report cercheremo tuttavia di aprire una sorta di “terza via”, la cui entrata non è facilmente accessibile perché stretta tra le due posizioni precedenti. Benché del tutto favorevoli a percorsi educativi all’aperto, nello stesso tempo intendiamo opporci alla tendenza di motivarne l’efficacia mediante il ricorso a concetti semplicistici e dal vago sapore naturalistico, il che, a nostro avviso, risulta una clamorosa ipersemplificazione. In realtà ogni progetto umano solleva questioni profondamente culturali, comprese quelle basate sull’utilizzo di luoghi e condizioni “naturali”. Per comprendere il fenomeno riguardante il campo di studi e ricerca qui preso in considerazione, basta analizzare le denominazioni adottate da alcune nazioni europee che vantano una lunga tradizione: l’inglese Outdoor Education, lo scandinavo Frilustliv e il tedesco Erlebnispädagogik2; l’elenco potrebbe continuare, ma gli appellativi accennati paiono già indicativi di differenze non solo linguistiche, ma anche di sensibilità che portano a sviluppare i percorsi formativi entro orizzonti culturalmente definiti. Per sintetizzare, benché il senso di ogni intervento pedagogico possa essere individuato a partire dalle relazioni individuabili entro il “triangolo educativo” ai cui vertici si trovano l’educatore, il bambino e l’ambiente, non si può tuttavia limitare l’analisi a questo livello. Più che rispetto all’attività in sé, infatti, il valore formativo di un progetto si definisce in relazione allo sfondo cui l’azione fa riferimento, un processo interpretativo che dipende fortemente da “cornici” determinate da specifiche norme di riferimento, generalmente fondate su dimensioni di ordine socioculturale. Comprendere questi rapporti risulta cruciale al fine di chiarire criticamente motivi, obiettivi, modalità, ricadute educative e coerenza delle scelte pedagogiche (Waite, 2011). In ogni caso, nei setting formativi gli aspetti concreti giocano un ruolo di primo piano: un certo allestimento può favorire alcune attività e quindi determinati apprendimenti, ma non altri. Questo vale fuori come dentro, ma se da un lato all’esterno è ben più difficile fare modifiche strutturali, dall’altro l’opportunità di spazi ed esperienze concrete può diventare incomparabilmente più ricca rispetto all’ambiente indoor, a patto che 1 2

Ci riferiamo in particolare ad una serie di movimenti, iniziative ed imprese tra i quali è possibile annoverare i Boy Scout, gli Agrinido o i centri Outdoor; da notare che nessuno di questi è davvero particolarmente noto e/o diffuso nel nostro paese. Il termine inglese Outdoor education, ovvero “educazione fuori dalla porta”, può essere interpretato sia in modo funzionale che in chiave metaforica – quest’ultima accezione sottolinea come l’ambiente esterno attivi le “porte” della percezione. Lo scandinavo Frilustliv si può tradurre con “vita all’aria libera”, ed è connesso alla cultura profondamente liberale delle nazioni Nordeuropee. Infine Erlebnis sottolinea il carattere esperienziale e pragmatico tipicamente teutonico dei relativi programmi formativi (Festeu & Humberstone, 2006, p. 25).

3. Esiti di ricerca


s’impari ad “approfittare” dei luoghi – ad esempio scegliendo accuratamente dove collocare delle strutture facilitanti le attività, i posti in cui queste sono favorite dalle caratteristiche già presenti in zona, nonché le proposte stesse. In altre parole, tenendo presenti sia i risultati delle ricerche di settore, sia le nostre esperienze, possiamo ipotizzare che se da un lato il valore del posto dove si svolgono i percorsi didattici non è assolutamente indifferente, dall’altro non può nemmeno operare per così dire “in automatico”3.

Ambiente

Educatore

Educando Normative di riferimento Abitudini socio-culturali

Learning Le relazioni educative dell’Outdoor (o “Apprendimento all’aria aperta”; adattato da Waite, 2011, p. 7)

Ulteriori indicazioni utili per progetti metodologicamente coerenti con l’approccio prospettato provengono dall’attivismo pedagogico, il quale suggerisce di stimolare i processi di sviluppo mediante opportunità di scelta, quindi senza pianificare i progetti in forme rigidamente predefinite. Ciò significa porre in primo piano il processo, far sì che tutti si trovino “in cammino” (educatori compresi) anche perché per accompagnare le persone in un percorso genuino è bene mettersi in ascolto di se stessi, cercare assieme, interrogarsi sul proprio ruolo. A tal fine servono momenti e strumenti di osservazione in grado di rilevare l’andamento dei processi stessi. Nel nostro caso si è trattato di cogliere da una parte i comportamenti dei bambini in relazione all’ambiente, e dall’altra gli atteggiamenti degli educatori verso situazioni non facilmente gestibili, date le loro caratteristiche di apertura al “rischio”. Da questo punto di vista, del resto, quale offerta può risultare migliore della vita all’aria aperta, con il suo carico di spazi d’inventiva e di creatività personale e sociale? Per tutti questi motivi è stato proposto di definire tale approccio come Educazione attiva all’aria aperta, denominazione che intende esplicitare un forte legame nei confronti dell’attivismo

3

A tale proposito si può dire che “Le montagne non parlano da sole”, per citare un motto caratteristico dell’Outward Bound, movimento educativo simile agli Scout, il quale basa i propri programmi formativi su esperienze montanare. Per approfondimenti si veda: http://www.wilderdom.com/facilitation/Mountains.html

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pedagogico4 (Bortolotti, 2015, p. 247). Nel setting outdoor emerge insomma una sorta di parallelismo virtuoso tra aspetti funzionali e simbolico-metaforici i cui legami sono però ancora tutti da esplorare. Si può infatti respirare “aria buona” in tutti i sensi, sia dal punto di vista del benessere fisico (è molto ossigenata, fresca, poco inquinata...), sia simbolico e sociale. E se tale corrispondenza potrebbe apparire solo una suggestione ammiccante, l’esperienza diretta indica invece che c’è ben di più, che possono crearsi condizioni estremamente favorevoli per attivare esperienze di sviluppo globale. Il nocciolo della questione che ci proponiamo di definire nel presente contributo sta tutto qui, tra le pieghe delle relazioni che appaiono talmente “naturali” da nascondere (paradossalmente) quello che a nostro avviso è invece il vero “lievito” dei processi di sviluppo che si possono innescare all’aperto, ovvero il saper utilizzare consapevolmente le caratteristiche peculiari del setting. Date tali premesse è certamente possibile formulare la seguente domanda di ricerca, che ci ha guidati a costruire il percorso che ci accingiamo a presentare: “Come agisce il luogo sulle relazioni e le condotte nella diade adulto/bambino, e quali ripercussioni si possono individuare nell’ambito educativo inclusivo, in particolare su bambini dallo spettro autistico?”.

2. La Scuola va nel bosco e la Terapia in vacanza

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Mentre in ambito anglosassone e nordeuropeo le Forest School rivolte a soggetti in tenera età risultano abbastanza diffuse, viceversa nel nostro paese faticano a mettere radici, per quanto in questo senso si stia attualmente assistendo ad una decisa accelerazione d’iniziative a diversi livelli5. Si possono tuttavia segnalare alcuni progetti pionieristici di Educazione attiva all’aria aperta (Bortolotti, 2015, p. 247), tra cui possiamo senz’altro annoverare il progetto formativo descritto nel presente report. Parliamo di un’iniziativa nata sui monti del Trentino principalmente per merito di Paola Tomasi, vero e proprio “deus ex machina” di questa operazione tanto delicata quanto complessa: declinare con sano pragmatismo una visione per noi pressoché utopica, quella appunto di consentire ad alcuni bambini anche molto piccoli di passare buona parte delle loro giornate estive nel bosco. È la stessa Tomasi (2015; p.309) a narrare perché, ed in che modo, decide d’intraprendere la sua iniziativa. In sintesi, in prima battuta progetta di mettere a frutto nell’istituzione educativa dove opera quotidianamente alcune tecniche apprese nel corso di visite svolte in Germania e Norvegia, nella speranza di trovare una buona accoglienza. Nell’ambiente istituzionale incontra invece forti resistenze, tanto da rimanere ben presto isolata; la condizione è quindi tutt’altro 4 5

La definizione richiama la cifra educativa legata all’attivismo pedagogico, storicamente connesso, tra gli altri, al Pragmatismo e all’Experiential Education di marca anglosassone, all’Education Nouvelle francese o al Movimento di Cooperazione Educativa, approcci antitetici all’impostazione didattica frontale tipica degli ambienti “chiusi”. Va segnalato un recente sviluppo della letteratura scientifica e divulgativa rispetto a questi temi (ad esempio: Bortolotti, 2011; Farnè, Agostini, 2014; Guerra, 2015 Schenetti et al., 2015). Interessante anche la costituzione della rete nazionale delle Scuole all’Aperto; per informazioni si veda: www.scuoleallaperto.wordpress.com

3. Esiti di ricerca


che idonea a modificare la situazione nel senso da lei auspicato. Non riuscendo a trovare terreno fertile per lo sviluppo di idee che evidentemente all’interno dei servizi appaiono dirompenti, decide di organizzarsi diversamente. Insomma, Paola capisce che se vuole vivere autentiche esperienze all’aria aperta con i bambini, l’unica strada davvero percorribile è quella privata, per cui fonda un’associazione6 di cui assume la presidenza e che diventa il “braccio operativo” di diverse iniziative, tra le quali spicca l’esperienza estiva denominata “Scuola nel bosco” (Tomasi & Bortolotti, 2015). Per la precisione, e a dispetto del suo appellativo, il settore educativo in cui si colloca il progetto è quello informale ed extrascolastico. Occorre tuttavia anticipare che, pur entro un tempo relativamente breve (un lustro circa), è stato creato un dispositivo dall’impianto formativo solido ma nello stesso tempo aperto ed in continuo sviluppo, peraltro connotato da caratteri inclusivi inizialmente insospettabili; ciò ha consentito alle persone coinvolte di esprimere le proprie esigenze e raggiungere obiettivi personali differenziati. In poche parole, siamo di fronte al paradosso che, pur non essendo pienamente “scuola”, pare funzionare più e meglio dell’istituzione scolastica vera e propria! Ciò che il presente report vuole mettere particolarmente in luce è dunque la portata inclusiva del setting outdoor, evidenziata grazie alla collaborazione con l’equipe della Prof.ssa Paola Venuti del Laboratorio di Osservazione Diagnosi Formazione (d’ora in poi ODFLab) dell’Università di Trento, la quale è nata letteralmente “dal basso”. L’ODFLab, che dal canto suo portava avanti il progetto “Terapia in vacanza”, ha infatti consentito, in quella che in definitiva è diventata la “Scuola inclusiva nel bosco”, la presenza di alcuni bambini con Disturbo dello Spettro Autistico. Questi bambini, ancora prima che gli adulti trovassero il modo di organizzarsi, si sono spontaneamente avvicinati ed hanno iniziato ad interagire con i bambini a sviluppo tipico, un’opportunità che è stata interpretata come una scintilla in grado di accendere un processo estremamente ricco e che non poteva certo lasciarci indifferenti. Per quanto riguarda “Terapia in Vacanza”, il percorso di riabilitazione psicoeducativa è stato diversificato non soltanto sulla base del diverso livello di gravità della sintomatologia dei singoli partecipanti, ma anche a seconda dell’età. Erano infatti coinvolti un gruppo di 16 ragazzi adolescenti, ed un altro costituito da 14 bambini tra i 3 e gli 8 anni. Per il primo gruppo sono state previste delle attività ludico-ricreative volte principalmente alla socializzazione, per il secondo delle attività sulla base di obiettivi definiti in modo individualizzato. In particolare, nel corso delle diverse giornate, si sono alternate: attivazione cognitiva, musicoterapia, lavoro sulle abilità socio-relazionali, intervento sul linguaggio e sulle capacità comunicative, lavoro sulla motricità, supporto genitoriale e attività integrativa in gruppo. Rispetto all’edizione precedente, dunque, una novità importante è stata costituita dall’organizzazione di un campus specifico per i ragazzi adolescenti che, in una struttura limitrofa alla casa principale, hanno avuto la possibilità di vivere diversi momenti di aggregazione, svago e socializzazione non soltanto tra di loro, ma anche con gli educatori presenti. Il forte senso di gruppo che si è creato nel corso delle settimane è risultato evidente, in particolar modo, 6

L’associazione “Il cerchio magico” di Rovereto.

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durante i due aperitivi serali – realizzati direttamente dai ragazzi – in cui amici e parenti hanno potuto assistere anche ad una performance musicale, frutto delle diverse sedute di musicoterapia. Anche nel caso dei bambini piccoli uno degli obiettivi primari è stato un trattamento di tipo inclusivo: grazie alla collaborazione della “Scuola del Bosco” (organizzata dall’associazione “Il Cerchio Magico”) sono stati previsti dei momenti di integrazione con bambini a sviluppo tipico, diversificati sia per tipologia, sia per intensità, sulla base del grado di gravità della sintomatologia di ciascun bambino autistico. Altro momento che ha contraddistinto le due settimane di intervento sono stati gli incontri mattutini con i genitori per prospettare la programmazione, riportare i risultati e lavorare sulle modalità da seguire, specie per la comunicazione, nel contesto familiare. Scopo di questo campus è stato, infatti, non soltanto quello di lavorare in modo intensivo con i bambini, ma anche di garantire il benessere dei genitori seguendoli in un primo momento della giornata e, successivamente, dando loro uno spazio di vacanza e di tranquillità. Alberi, palloni e gradini sono stati gli strumenti per la prima interazione tra bambini con sviluppo tipico e atipico, con età simili ma storie di vita molto diverse. Un bambino che tira la palla senza molta consapevolezza di questa azione e un altro convinto che sia un invito a giocare e che perciò risponde rilanciando il pallone: tra i due comincia una allegra interazione di alcuni minuti. Grandi teli colorati utilizzati per stimolare i bambini con spettro autistico, sono stati trasformati dagli altri in mari in tempesta e tutti insieme si è corso per lanciarsi dentro o per ripararsi da loro. Questo è il tipo di stimolazione che ha aiutato i bambini con disturbo dello spettro autistico a stabilire relazioni e a godere delle stimolazioni anche cognitive che la relazione offre. Per le caratteristiche della propria patologia, infatti, i bambini con spettro autistico non hanno le competenze per iniziare spontaneamente e creativamente una interazione; ma in questo contesto, facilitante perché all’aperto e ludico – che sarebbe opportuno attivare in qualunque ambito educativo – riescono a trovarsi nel gioco con altri bambini della loro età, ad usare espressioni emotive di felicità e a sentire nel corpo il piacere di essere con gli altri. Non sappiamo fin dove possa arrivare l’autodeterminazione dei bambini/e e la nostra capacità di accompagnarli in modo adeguato. Si tratta di un percorso in costruzione che dipende in gran parte anche dai luoghi in cui si svolge, perché ormai è evidente che, pur trattandosi sempre di ambienti semi-selvatici di montagna, ogni luogo offre stimoli e favorisce apprendimenti diversi: prato, bosco, ruscello, torrente, lago. Come “educatori all’aria libera”, dovremo tuttavia sviluppare la capacità di guardarci attorno ed osservare, magari attraverso gli occhi dei bambini/e, per cogliere le opportunità formative specifiche che ogni luogo offre. Proprio questo contesto libero e osservativo ora guida anche l’esperienza di Terapia in vacanza, campus di trattamento intensivo per bambini con disturbo dello spettro autistico con la presenza di due caratteristiche esclusive: essere condotto in montagna, fuori dalle stanze ed i soliti contesti terapeutici, ed essere svolto insieme ad un gruppo di bambini con sviluppo tipico, anche loro nel contesto libero dell’ambiente esterno.

3. Esiti di ricerca


3. L’impianto di ricerca della “Scuola Inclusiva nel bosco”

La ricerca ha già dimostrato piuttosto ampiamente che il setting naturale impatta positivamente su numerosi fattori preventivi-educativi. Tra questi si devono senz’altro citare, anche per la buona corrispondenza con il nostro lavoro: l’incremento dell’attività fisica (Fjortoft & Sageie, 2001), la stimolazione di aspetti cognitivi e creativi (Pyle, 2002; Dillon et al., 2005; Pretty et al., 2009), il sostegno sia delle “abilità per la vita” (life skills), sia del senso di autoefficacia (Burdette & Whitaker, 2005). Dalla letteratura risulta inoltre chiaro che la natura può rappresentare un mezzo riabilitativo particolarmente potente per favorire il ripristino di un adeguato funzionamento cognitivo sia in bambini sia in adulti (Hartig, Mang & Evans, 1991; Kaplan, 1995; Faber & Kuo, 2009). Tenendo presente l’ampio ventaglio di aspetti positivi, non sorprende che si sia individuata una connessione importante tra aree verdi e morbilità (Mass et al., 2009), evidente peraltro già dal periodo prenatale (Kihal-Talantikite et al., 2013). Inoltre, gli odori naturali possono migliorare lo stato emotivo in termini di maggiore quiete, vigilanza e umore (Weber & Heuberger, 2008), e l’aria aperta ridurre lo stress (Wells & Evans, 2003). In aggiunta, alcuni studi hanno evidenziato che alcune tipiche attività outdoor – in particolare il giardinaggio – hanno migliorato le capacità relazionali e comunicative dei bambini non soltanto con genitori e pari, ma anche con altre persone (Nolan et al., 2012; Dirks & Orvis, 2005, 2003; Phibbs e Relf, 2005; Alexander et al., 1995). Nonostante ci sia un numero crescente di studi che dimostrano i benefici del setting outdoor, davvero poche ricerche si sono focalizzate su bambini con bisogni educativi speciali e, in particolare, con bambini con disturbo dello spettro autistico. Per questo motivo, uno degli obiettivi del presente lavoro è di indagare l’efficacia di trattamenti effettuati seguendo metodologie di lavoro specifiche realizzate da uno staff di psicologi specializzati sulla riabilitazione dell’autismo, supervisionati dalla prof.ssa Paola Venuti – direttore dell’ODFLab – e coadiuvati da studenti del master “Metodologie di intervento educativo per soggetti con disturbi dello spettro autistico”, nonché da studenti in tirocinio del corso di laurea magistrale in Psicologia-percorso Neuroscienze. L’autismo è una complessa sindrome dello sviluppo che si manifesta con sintomi simili, ma con cause biologiche multiple (Venuti, 2010). Parlando di Disturbi dello Spettro Autistico (ASD), ci riferiamo alla sempre più evidente eterogeneità dei pazienti affetti da tale sindrome del neurosviluppo. Numerose ricerche, infatti, hanno dimostrato che le aree coinvolte in questa patologia sono svariate e il loro diverso grado di compromissione si riflette in numerosi livelli di gravità e differenti problemi comportamentali e linguistici che ogni singolo paziente può manifestare (per una review, Geschwind e Levitt 2007). Dal momento che secondo la letteratura scientifica recente vi è un consenso pressoché unanime sul fatto che un trattamento riabilitativo è tanto più efficace quanto più è intensivo, multidimensionale ed individualizzato, la selezione degli obiettivi di intervento è stata effettuata sulla base del profilo specifico di ogni singolo paziente ottenuto durante la valutazione e dopo un attento processo osservativo. Le variabili da considerare in questa scelta hanno riguardato, soprattutto, gli aspetti che Schopler e Mesibov (1995) definiscono “abilitàemergenti”, in altre parole quei compiti in cui il soggetto èin grado di svolgere solo una parte dell’attività e per le quali necessita l’aiuto di un’altra persona. Queste abilitàhanno rappresentato gli obietanno V | n. 1 | 2017

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tivi di lavoro, perché consentono di intervenire sullo sviluppo di potenzialità già presenti nel bambino collocando questa tipologia di progetto terapeutico all’interno della cosiddetta “zona di sviluppo prossimale” (Vygotsky, 1933, 1978). Con l’intento di valutare in modo sistematico le ricadute educative della “Scuola nel Bosco”, abbiamo tentato di dotarci di una metodologia di ricerca pragmaticamente fattibile e capace di mettersi in dialogo con il piano didattico, tenendo in mente che gli educatori erano impegnati su numerosi fronti. Non si potevano occultare le difficoltà richieste per passare dal piano organizzativo dei bisogni primari a quello della riflessione epistemica, passando per l’espletamento di compiti educativi concreti; queste richieste hanno richiesto agli adulti una continua ri-sintonizzazione niente affatto banale né scontata, ma decisiva nella messa a punto del metodo educativo. D’altra parte, l’essere coinvolti nella gestione dell’intera esperienza ha avuto come effetto positivo la maggiore coesione del gruppo di lavoro, così come l’essere allo stesso tempo educatori e ricercatori ha costretto ad una “bi-locazione cognitiva”, con il guadagno auto-formativo che questo comporta (Demetrio, 1996). La scelta del disegno di ricerca è caduta sul Case Study (Stake, 1995), essenzialmente per le sue caratteristiche di adattabilità, nonché la presenza di due elementi tecnici riconosciuti come fondamentali: l’apertura a dati di natura “mista” (quantitativi e qualitativi), e la “triangolazione” dei punti di vista (educatori, bambini, eventuali osservatori…). L’indagine ha assunto un carattere esplorativo, dato che il focus sulle relazioni formative tra ambiente, i pari e gli adulti risulta poco indagato (e tendenzialmente sottostimato) da parte della ricerca pedagogica. Seguendo un approccio “grounded” (Tarozzi, 2008), il lavoro si è infine sviluppato seguendo la circolarità ricorsiva tipica dell’indagine qualitativa, per cui i dati che emergevano da osservazioni, interviste, focus group e così via, hanno indicato di volta in volta le direzioni per i passi successivi. Come nella definizione di un limite, si è pertanto cercato di affinare per approssimazioni successive organizzazione didattica, domanda di ricerca ed utilizzo degli strumenti, non sempre in forme lineari. Nello stesso tempo, essendosi dispiegato su base triennale, la pianificazione ha dato l’opportunità di affrontare anche rielaborazioni di più ampio respiro. Tali osservazioni hanno avuto il potere di considerare i bambini come soggetti “agenti”, facendo slittare il focus dell’analisi pedagogica ed epistemica sull’impostazione di un ruolo formativo coerente, per cui sono state concesse molte libertà ma non certo all’insegna del “laissez-faire”. In seguito alla maturazione di questa consapevolezza, sono state prese in esame le percezioni delle educatrici tramite focus group. Dopo aver descritto le attività svolte durante la giornata, si è cercato di verificare la presenza dei confini (spesso non ben definiti) tra aspetti professionali e personali. Il processo è sfociato nella conclusione che occorre gestire collettivamente la situazione, in modo da fronteggiare alcune ansie – peraltro assolutamente fisiologiche – mediante la loro condivisione. Di conseguenza, una volta allontanate le paure ed “allentato le redini”, contrariamente alla classica impostazione didattica ci siamo centrati sul comportamento spontaneo dei bambini, lasciati senza proposte dirette da parte nostra nei momenti “centrali” della giornata. Ciò ha permesso ai bambini di vivere la natura come un luogo “incantato ed avventuroso” (Änggård 2010), scenario elet3. Esiti di ricerca


tivo per il gioco simbolico (un tema che meriterebbe un approfondimento specifico7), riprodotto peraltro in forme massicce nei disegni e nelle riflessioni effettuate dai bambini stessi, che col tempo abbiamo imparato a coinvolgere come agenti epistemici attivi, cioè partner con cui, e non su cui, fare ricerca (Mortari, 2009; Clark & Moss, 2011).

4. I risultati della ricerca

Presentiamo i risultati del lavoro di ricerca ordinandoli su due ambiti, partendo quindi dal livello generale per poi culminare con la dimensione più specificamente inclusiva, per due ragioni: la prima è di ordine cronologico, orientata dall’esigenza di restituire in modo il più possibile fedele la scansione dei fatti significativi realmente accaduti; la seconda, teorica, aspira a fornire un senso di coerenza al percorso. In breve, avendo colto le potenzialità inclusive del setting con bambini a sviluppo tipico, ed essendosi presentata l’opportunità, abbiamo sperimentato la convivenza tra i primi e due soggetti con sindrome autistica, valutandone le ricadute educative. Innanzitutto, presso la scuola inclusiva nel bosco ogni anno si è lavorato su un tema che rappresentava una “tappa formativa” più in funzione dello sviluppo di consapevolezza negli educatori piuttosto che per gli utenti. Questa modalità di lavoro in fasi diverse, ma connesse tra loro, che di volta in volta ha utilizzato le acquisizioni raggiunte come punto di partenza per gli anni successivi, ha consentito al gruppo di educatori di sviluppare una forte identità, capacità di giudizio 7

Il gioco in educazione è ahimè considerato in modo perlopiù strumentalmente, da un lato come mezzo per raggiungere apprendimenti formali, dall’altro come spinta biologicamente intrinseca. Interessante notare che ritroviamo qui il concetto di spinta “naturale” in riferimento non all’esterno, bensì all’interno della persona. Esattamente come per l’educazione all’aria aperta, occorre piuttosto situare l’intervento educativo e di ricerca a metà strada tra questi poli solo apparentemente dicotomici mediante una visione “inclusiva”, in modo da elaborare una metodologia efficace a produrre esperienze utili allo sviluppo psicomotorio.

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e competenze pedagogiche. Riassumendo, il percorso si può sintetizzare nei seguenti punti:

– presa di coscienza delle limitazioni nello spazio d’azione concesso a bambini/e; – consapevolezza del proprio sguardo da parte degli educatori; – messa in discussione del proprio ruolo: guida o accompagnamento? Come accompagnare e fin dove lasciar andare? Quali ulteriori competenze è necessario possedere per poter “accompagnare oltre”?; – emersione/evidenza della capacità di regolazione intrinseca dei bambini/e sia in senso soggettivo sia intersoggettivo.

L’aver potuto osservare come in alcuni momenti, e per periodi di tempo non troppo brevi, i bambini/e avessero dimostrato di essere in grado di autoregolarsi, ha incoraggiato ad allentare il bisogno di controllo, in modo da allargare i confini della loro libertà d’azione esplorativa e ludica. Complice di questo è stato proprio l’ambiente che, in modo inaspettato, ci ha (letteralmente) immersi nelle diverse situazioni.

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“Il torrente ci attira con la sua acqua fresca, promessa di benessere nel caldo torrido di metà luglio. Per arrivarci bisogna percorrere un tratto a piedi sulla strada asfaltata, cosa poco invitante. Ed è necessario prepararsi: costume, crema per il sole, telo da bagno, borraccia con l’acqua… Una fatica! La prima volta ci fermiamo appena dopo il ponte, dove ci sono altri bagnanti. Ma lo spazio di gioco è ristretto e c’è poca acqua; appena sopra, e fin dove si può vedere, il letto del torrente appare completamente asciutto: possibile che ci sia così poca acqua? Ma la seconda volta non ci lasciamo scoraggiare ed esploriamo più in su, lungo la strada bianca che lo costeggia, fin che troviamo un paradiso: laghetti, cascatelle, pozze e massi da scalare: una meraviglia! Ci torniamo varie volte per giocare, costruire dighe con i sassi, pranzare con i wurstel cotti sulla brace… sempre molto bello. Ormai l’ambiente è famigliare… ed è successo! Quando uno degli educatori risale il torrente per un tratto, pur senza dire nulla, tutti i bambini si avviano dietro a lui. Questione di un attimo. È troppo tardi per fermarli… e non ne ho certo voglia – anche perché voglio andarci anch’io! Il richiamo del torrente è troppo forte, ed anche i piccoli di quattro anni procedono così controllati, sicuri e decisi, che mi sono fidata di loro e del torrente. Anche se (o forse proprio perché) insegno da quarant’anni. Risaliamo il torrente per un lungo tratto; vedo quelli davanti a me e mi giro per controllare quelli dietro, chiedendomi ogni tanto se sono impazzita: basterebbe uno scivolone per sbattere la testa su un sasso e procurare un guaio… Invece non è successo nulla, il ritorno si svolge tranquillamente, ed abbiamo ripetuto altre volte la risalita anche su tratti più lunghi e difficoltosi.” [dal Diario di bordo di Paola Tomasi].

Quello del torrente è stato il momento più forte, l’esempio più evidente in cui si è potuta vedere all’opera la capacità dei bambini/e di autodeterminarsi e autoregolarsi, motivati dalle forti sollecitazioni ad esplorare ed avventurarsi, stimolati dal piacere del contatto con l’acqua e dall’imitazione degli altri, sia gli educatori sia i compagni. Ma ce ne sono stati molti altri, tra i quali:

3. Esiti di ricerca


– il decidere di entrare nel bosco da soli di notte, accompagnati dalla luce di una candelina, per poi tornare attorno al fuoco a raccontare ciò che si era provato; – il dondolarsi sull’altalena ad una sola fune con la campata molto lunga, chiedendo di essere spinti in alto mescolando paura e risate di gioia; – il risalire il ruscello di nascosto, senza farlo sapere ad altri, per proteggere i tritoni scoperti in una pozza; – l’allargare sempre di più i confini del territorio attorno al “campo base”.

L’abbassamento delle ansie degli adulti da un lato, e la diminuzione delle proposte didattiche dall’altro, ha favorito l’aumento degli interessi intrinseci dei bambini ed una loro notevole capacità di autoregolazione ed organizzazione. Si tratta di due fenomeni da mettere in relazione ed assolutamente coerenti tra loro. Del resto è noto che lo sviluppo delle capacità dei bambini vengono favorite da un atteggiamento empatico, che ne incoraggia ed accompagna le esperienze. Ma quello che ci ha colpito di più è stato osservare che l’autoregolazione è emersa non solo a livello individuale ma anche di gruppo, culminata in alcuni episodi in cui i bambini hanno organizzato, rigorosamente da soli:

– una conversazione in diciotto per circa mezz’ora (un tempo incredibilmente lungo in un’attività simile) durante il pranzo conclusivo della settimana; – l’utilizzo ben coordinato di attrezzi d’arrampicata normalmente non concessi perché ritenuti “pericolosi”; – la preparazione e la gestione di un piccolo fuoco da campo, accanto al grande falò ufficiale, mantenuto per scaldarsi la sera o quando faceva freddo; – la dilatazione dei tempi d’attenzione in diverse attività e giochi organizzati autonomamente in piccolo gruppo.

L’aspetto più interessante per il nostro lavoro riguarda l’autonoma “presa in carico” ed inclusione da parte del gruppo di bambini/e nei confronti di soggetti potenzialmente destabilizzanti. L’episodio che l’ha evidenziato è il seguente: tra due bimbi nasce una grossa lite per l’uso dell’altalena, uno dei due lancia un sasso contro l’altro e questi, in un eccesso di rabbia, perde completamente il controllo di sé e gli si scaglia contro, tanto che occorre l’intervento di due adulti per contenerlo. Di conseguenza, quest’ultimo diventa una specie di “sorvegliato speciale” da parte di tutti. La situazione crea parecchio disagio, ma nel giro di poco tempo un bambino “terzo”, in modo del tutto inaspettato e apparentemente senza sforzo, riesce a coinvolgere i litiganti nell’attività comune. Questo a nostro avviso non è successo casualmente, bensì per una serie di fattori: il gioco simbolico stimolato dall’ambiente naturale da un lato ha portato alla luce le difficoltà del soggetto in crisi, dall’altro delle opportunità di “modellamento” tramite l’utilizzo dei ruoli, in accordo con il gioco stesso. Nella fattispecie, il bambino con leadership relazionale riconosciuta da parte del gruppo dei pari, ha investito il compagno “difficile” di un ruolo socialmente gradito (il comandante), ma soprattutto accettabile per il resto dei giocatori. Decisione che nessun altro era riuscito a prendere, men che meno gli adulti. Ciò ha confermato il valore inclusivo del setting, fatto non solo di Natura, ma anche di un accompagnamento adulto che ha saputo accompagnare i processi inclusivi spontanei. anno V | n. 1 | 2017

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Il raggiungimento di questi risultati, non certo casuali ma frutto di un approccio ben definito, è stato fondamentale al fine della crescita delle esperienze d’integrazione: si è potuto così dare inizio alla “Scuola inclusiva nel bosco”, che ha visto la partecipazione di due soggetti con sindrome autistica. I benefici principali che si sono rilevati al termine di questa iniziativa hanno riguardato principalmente le abilità comunicative, le capacità d’interazione con i pari e con gli adulti, il benessere emotivo e la riduzione di comportamenti non adattivi. Interventi mirati alla promozione delle abilità comunicative sono stati facilitati dalla presenza di un ambiente esterno contraddistinto da diversi scenari che hanno permesso a bambini e adolescenti con autismo di trovare spunti di comunicazione diversi dal solito, e aumentare così anche il contenuto dei loro discorsi. T. (7 Anni): “Oggi c’è più acqua nel torrente… non possiamo più saltare su quel sasso! Forse domani…”. L’ambiente naturale, ricco di stimoli e di giochi da giardino, ha attratto l’attenzione non solo dei bambini con sviluppo tipico, ma anche di quelli con autismo, promuovendo la capacità di iniziare uno scambio comunicativo e di regolare l’interazione sociale. Ad esempio, i bambini hanno imparato a gestire i turni per l’utilizzo dell’altalena: rispettando la presenza di altri bambini e, diminuendo gli scoppi d’ira o di pianto, anche a gestire meglio la frustrazione per non poter sempre utilizzare nell’immediato l’oggetto d’interesse. Grazie alla presenza costante di un operatore e di un terapeuta, ciascun bambino è stato seguito in modo da raggiungere, in modo progressivo, un maggior grado di benessere emotivo. Questo processo è stato senza dubbio favorito anche dall’ambiente circostante, come riferito da diversi operatori: “Quando andiamo al torrente lui tende a calmarsi. Sembra proprio che se ciò che lo circonda è stimolante, anche lui si attivi in modo costruttivo”. In aggiunta, alcune attività outdoor come lanciare o afferrare una palla, calciare e saltare degli ostacoli hanno permesso un allenamento dell’attenzione, nonché, spesso, una diminuzione dell’energia in eccesso, riducendo il grado di irrequietezza e di nervosismo. L’esercizio fisico, necessario per lo svolgimento di alcune attività all’aperto, ha comportato in diversi casi un aumento delle capacità di coordinazione e del tono muscolare generale. L’ambiente naturale ha, inoltre, favorito l’inserimento e l’integrazione nel gruppo di bambini della “Scuola nel Bosco” di alcuni bambini con Disturbo dello Spettro Autistico ad alto funzionamento. In un caso, F. (6 anni), il processo è stato lento e graduale: a partire dalla seconda settimana il bambino ha espresso il piacere nel raggiungere gli altri bambini alla loro “Scuola” per poter giocare assieme. Per F. inizialmente è stato importante poter alternare momenti d’interazione ad altri di gioco solitario o con il terapeuta e/o l’operatore. T. (8 anni), ha invece mostrato fin da subito una forte spinta verso la socializzazione, necessitando per poter intraprendere giochi sociali di una minore strutturazione del setting esterno. In entrambi i casi, comunque, i momenti di vera e propria interazione si sono allungati con il passare del tempo, e ad attività più strutturate come il “gioco del fazzoletto”, “un, due, tre…stella!”, “nascondino”, etc., si sono aggiunti momenti più liberi in cui i bambini stessi si cercavano vicendevolmente per poter giocare. L’ambiente esterno, ricco di stimoli, ha costituito esso stesso da input per l’inizio di scambi comunicativi e la messa in atto di diversi giochi di finzione. Una capanna del bosco ha permesso, ad esempio, di rappresentare la storia dei “Tre porcellini” in cui l’educatore si è limitato al ruolo del lupo mentre i tre bambini, F. incluso, si avvicendavano nel narrare la storia. Il torrente, infine, ha catalizzato l’attenzione di tutti i bambini: anche chi inizialmente era timoroso e restìo a spogliarsi, dopo 3. Esiti di ricerca


poco non è riuscito a resistere alla tentazione d’imitare i compagni d’avventura nell’esplorazione di quell’ambiente contraddistinto da continui giochi di luci, acqua e movimento. Per F. e T. la gita con i compagni ha permesso loro di sentirsi dei veri e propri esploratori in grado di procedere con sempre maggiore sicurezza sia all’interno di una galleria dell’epoca della prima guerra mondiale, sia nel terreno accidentato del letto del torrente. F. si è aggregato ad attività già messe in atto da altri coetanei, T. ha iniziato e gestito vari giochi anche con bambini diversi al punto che, al termine della giornata, entrambi hanno chiesto esplicitamente di poter tornare, il giorno successivo, a giocare con gli amici. Indice di una vera e propria integrazione è stato, inoltre, il passaggio da scambi comunicativi dominati dal singolare ad una forma plurale “Facciamo questo gioco? / Siamo andati… / Abbiamo giocato”. L’ultimo giorno ha esemplificato il successo di questo tentativo di integrazione: i bambini con Disturbo dello Spettro Autistico hanno abbandonato rapidamente e senza obiezioni le loro attività abitudinarie (giochi cognitivi/giochi sul tablet) per raggiungere i compagni della Scuola inclusiva nel Bosco, desiderosi di condividere con loro una nuova gita all’insegna dell’avventura. Complessivamente il bilancio del progetto di “Terapia in Vacanza” è sicuramente positivo, con un generale benessere sia dei bambini sia delle famiglie: gli obiettivi che ci si era posti a livello comportamentale e sociale sono stati raggiunti. Sicuramente al raggiungimento di quanto prefissato, un ruolo importante è stato giocato dall’ambiente outdoor e dalla possibilità di svolgere una serie di attività difficilmente attivabili nei normali contesti riabilitativi. Ciò che è importante sottolineare, è che sono state sfruttate le potenzialità (ad esempio, ricchezza di stimoli) offerte dall’ambiente esterno, pur strutturandolo in modo da ridurre il caos per facilitare la percezione, la sensorialità e le modalità interattive. Ovvero lo spazio fisico è stato modificato tenendo conto delle caratteristiche dei diversi bambini, per promuoverne la realizzazione delle potenzialità di apprendimento. In particolar modo, è risultato importante organizzare le attività in luoghi specifici in cui i confini sono organizzati in modo visivamente chiaro e in cui ad ogni area corrisponde sempre una determinata attività. Questo ha permesso ai bambini di apprendere, in breve tempo, che attività si svolgono in quel determinato luogo e di avere una visione dei diversi spazi della casa e dell’ambiente circostante definita da pochi elementi associati a determinati eventi in modo prevedibile. La possibilità di anticipare che tipo di attività si svolge in quel specifico luogo ha facilitato anche le aperture comunicative di alcuni bambini con autismo nei confronti degli altri bambini della “Scuola inclusiva nel bosco”. Ciò costituisce un’ulteriore conferma della validità di un trattamento di tipo inclusivo effettuato in modo intensivo e secondo l’approccio multidimensionale che contraddistingue l’ODFLab.

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3. Esiti di ricerca


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Emancipazione e voci femminili: il progetto di vita tra difficoltà e opportunità

The indications of the main national and international documents and the rules for the protection of the rights of persons with disabilities advocate the observance of universal principles of equality and emancipation. However, real data lead us to pursue investigations aimed at verifying if these indications and rules have become awarenesses, certainties and instruments for self-determination also for disabled women. Through references to the scientific literature and to an empirical research that gathers many autobiographical testimonies from disabled women living in different European countries, this paper highlights some of the key categories that contribute to the specification of the elements that are involved in the delineation of an independent life project. In this regard, from the reading and the analysis of various women’s experiences, it is possible to grasp many elements and aspects that support or hinder the process of personal self-fulfilment. The reflection of Special Pedagogy on these testimonies also appears useful to identify positive experiences, to build educational and training expertise, to promote and guide cultural and social change, and to encourage the improvement of existential and life conditions for future generations.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Key-words: Women, Disability, Identity, Inclusion, Life project

3. Esiti di ricerca

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L’intero articolo è frutto del lavoro congiunto dei due autori. In particolare, Antonello Mura è autore delle sezioni 1 e 4; Ilaria Tatulli è autrice delle sezioni 2 e 3.

Italian Journal of Special Education for Inclusion

abstract

Antonello Mura (Università degli Studi di Cagliari / antonello.mura@unica.it) Ilaria Tatulli (Università degli Studi di Cagliari / ilariatatulli@unica.it)

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1. Donne disabili: riconoscimenti normativi e ostacoli culturali

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Gli eventi sociali e politici che, a livello internazionale, hanno caratterizzato il periodo storico compreso tra gli anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta del Novecento hanno consentito lo sviluppo di consapevolezze culturali e interventi normativi orientati alla promozione dei diritti civili delle persone in situazione di disabilità. Il processo di democratizzazione nelle società occidentali è stato contrassegnato però da percorsi e tempi eterogenei nei diversi contesti nazionali e rispetto alla definizione delle differenti condizioni di marginalità, tra le quali l’appartenenza di genere. In Italia tale fermento sociale e democratico si è nutrito per quanto riguarda le problematiche della disabilità di molteplici impulsi, tra i quali il contributo sostanziale delle associazioni di volontariato costituite dalle stesse persone disabili e dai loro familiari. L’impegno associativo è stato caratterizzato da azioni di rivendicazione, di mutuo sostegno, di advocacy e di empowerment che hanno investito «le responsabilità istituzionali nei differenti settori dell’istruzione, della sanità e dell’assistenza sociale, fino a configurare un modo totalmente nuovo di rapportarsi alle esigenze e ai diritti delle persone disabili» (Mura, 2007, p. 423). Negli ultimi decenni anche la comunità internazionale ha dato un input determinante alla divulgazione della cultura dell’inclusione e ha offerto maggior visibilità pubblica ai temi della disabilità. In tal senso, il varo della Convenzione per il riconoscimento dei diritti delle persone con disabilità (2006), da parte dell’Assemblea Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, è da considerarsi il risultato di un lungo processo politico-culturale (UN, 1971; 1975, 1993; UNESCO, 1994; Warnock, 1978) che promuove e garantisce l’uguaglianza dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Essa richiama i principi della Dichiarazione universale dei diritti umani (UN, 1948) per sottolineare l’urgenza di superare i pregiudizi e gli ostacoli sociali ancora presenti e le discriminazioni tutt’oggi subite dalle persone interessate da disabilità (Baratella & Littamè, 2009; de Anna, 2011). Si tratta di difficoltà aventi origine in un sistema culturale che per millenni ha tenuto ai margini della società le persone disabili e le donne. Dal punto di vista antropologico l’identità femminile è sempre stata associata alla generatività e le donne sono state considerate, e in alcune realtà lo sono tuttora, oggetto di transazioni economiche per la costituzione di società allargate (Lévi-Strauss, 2003). In tale negoziazione la bellezza, la grazia e l’idoneità alla procreazione, accompagnate dall’assenza di menomazioni fisiche, sono state considerate requisiti fondamentali di valore mercificatorio. Le indagini sulle origini delle attuali rappresentazioni della disabilità e delle donne disabili nella società occidentale hanno evidenziato quanto i pregiudizi e gli stereotipi siano radicati nelle più profonde trame della cultura e come ancora caratterizzino drammaticamente la realtà quotidiana (Braddock & Parish, 2001; Canevaro & Gaudreau, 1988; Canevaro & Goussot, 2000; Mura, 2009b; Stiker, 2009; Winzer, 1993). Anche gli esiti delle ricerche condotte nell’ambito dei Feminist Disabilty Studies fanno emergere con chiarezza come le condizioni attuali delle donne disabili siano in gran parte ancora il prodotto di retaggi culturali, stereotipi sociali, sovrastrutture ideologiche e sistemi di potere che mantengono inalterate le discri-

3. Esiti di ricerca


minazioni di una società non solo sessista, ma incapace di riconoscere alle donne disabili gli stessi diritti che a fatica ha riconosciuto alla disabilità e alla femminilità (Garland-Thomson, 2004). Le analisi multi-prospettiche dei più importanti network associativi nazionali ed internazionali, costituiti da persone interessate da disabilità, evidenziano ulteriori aspetti critici. In particolare emerge che le ragazze hanno minori opportunità di ricevere cure adeguate e di frequentare percorsi formativi corrispondenti alle loro necessità educative. Ciò vale anche per l’accesso al mondo lavorativo, dove esse risultano maggiormente penalizzate rispetto agli uomini. Fra i numerosi documenti dell’European Disability Forum (EDF), un Report del 2013, presentato in risposta alla consultazione “Your rights, your future” sulla cittadinanza europea, porta all’attenzione i problemi con i quali si confrontano quotidianamente le ragazze e le donne disabili in Europa. Vi sono sollecitazioni esplicite all’utilizzo di una terminologia corretta riferita alla condizione di disabilità ed in particolare nei riguardi delle donne, poiché essa assume un ruolo importante nella creazione e nel mantenimento delle discriminazioni. La denuncia più rilevante riguarda però l’assenza delle donne disabili nei processi decisionali e nei luoghi istituzionali a livello locale, nazionale e internazionale. Sono inoltre presenti esortazioni all’abbattimento degli ostacoli e delle barriere di accesso alle strutture fisiche, sociali, culturali ed economiche, poiché sono la più evidente negazione della possibilità di partecipare alla vita comunitaria, ai contesti di formazione, di relazione pubblica e di svago. Nel documento è altresì evidenziata la necessità di considerare l’apprendimento e la formazione in una prospettiva di life long learning, come condizione urgente e necessaria per accedere in maniera consapevole alla vita adulta, al lavoro, all’impegno sociale e civile. Risulta dunque evidente quanto nella realtà siano presenti difficoltà e ostacoli da superare per il raggiungimento delle pari opportunità e come ciò si ponga come ulteriore sfida nei confronti della piena inclusione. Dal punto di vista della Pedagogia Speciale, si tratta di individuare gli itinerari di orientamento formativo che consentano anche alle donne disabili, fin dall’infanzia, di essere pienamente partecipi dei processi d’apprendimento, relazionali, affettivi, professionali e culturali che sono fondativi di ogni possibilità di realizzazione soggettiva. Anche se sinteticamente, vale la pena sottolineare alcuni importanti elementi che la ricerca, da tempo, ha elaborato in proposito e che sono capaci di suscitare continui processi di cambiamento autoriflessivo circa la costruzione della propria identità personale e la capacità di auto-orientarsi di fronte ad ogni possibile scelta nella elaborazione/realizzazione del proprio Progetto di Vita. Come per ogni altro individuo, il processo di crescita e di sviluppo della persona disabile non può infatti realizzarsi in maniera autentica se non attraverso il quotidiano e progressivo sviluppo di alcuni elementi strutturali quali l’orientamento formativo, l’apprendimento scolastico, l’accompagnamento familiare, il rapporto con i pari, la partecipazione sociale, la professionalizzazione e l’autonomia (Contardi, 2004; Cottini, 2003; Cuomo, 1995; d’Alonzo, 1997; de Anna, 2014; Goussot, 2009; Ianes, 2006; Mura, 2005, 2012; Pavone, 2009). Si tratta di strutture fondamentali che vengono riprese nel presente lavoro e che intessono anche le trame narrative dei racconti di vita delle donne disabili. Chi si occupa di educazione ha la responsabilità di analizzarle per cogliere gli elementi utili alla migliore definizione dei percorsi educativi. anno V | n. 1 | 2017

ANTONELLO MURA, ILARIA TATULLI

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2. Le risorse autobiografiche nelle voci delle protagoniste

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Molteplici lavori di ricerca evidenziano come la rappresentazione dell’identità delle persone disabili sia spesso ancorata a visioni che le identificano come individui da proteggere, da tutelare, privi di identità di genere, costretti in un incessante lavoro di riparazione e, dunque, incapaci di divenire protagonisti della propria esistenza (Caldin, 2005; Goussot, 2009; Medeghini, 2006; Montobbio & Lepri, 2000). Gli studi che su tale argomento si sono sviluppati nell’ambito della Pedagogia Speciale hanno privilegiato la raccolta delle informazioni attraverso le narrazioni autobiografiche, per analizzare e comprendere quali siano i processi che accompagnano lo sviluppo dell’identità delle persone interessate da disabilità (Dettori, 2011; Gaspari, 2008; Giusti, 1999; Mura & Zurru, 2013; Pavone, 2009; Zappaterra, 2010). L’attenzione rivolta all’esplorazione dell’identità delle donne disabili è ancora circoscritta e riguarda pochi addetti ai lavori. Tuttavia, attraverso l’analisi delle narrazioni, emergono storie che superano i limiti dello stigma e degli anzidetti stereotipi sociali. Donne interessate da disabilità, originarie di differenti Paesi, hanno maturato consapevolezza di sé e della propria esistenza, condividendo le loro esperienze attraverso molteplici canali: la scrittura, la pittura, la danza, il teatro, il web (Tatulli, 2013). L’esistenza e la circolazione di tali documenti rappresenta una risorsa e una testimonianza dell’iter storico di emancipazione che, sebbene sia stato tortuoso e sia ancora in divenire, offre inaspettati exempla che contrastano con le più diffuse esperienze di emarginazione. La possibilità di raccontarsi e di dar voce al proprio vissuto ha avuto una duplice funzione, per un verso, ha consentito alle donne di migliorare la propria condizione, di innalzarsi dal proprio status e raggiungere così differenti forme di autonomia. Per un altro verso, il narrarsi ha consentito loro di divenire protagoniste della propria esistenza e cittadine capaci di contribuire attivamente alla storia culturale, sociale e politica del proprio Paese. Il ventaglio delle narrazioni autobiografiche è variegato. Tra i primi lavori noti si ricordano le esperienze della scrittrice francese cieca ThereseAdele Husson (1803-1831), che dettò ad uno scrivano le proprie Reflections. Si tratta di un’opera nella quale l’autrice attesta la consapevolezza della propria condizione che, arricchita dal supporto familiare affettivo e da esperienze emancipative di autonomia, diventa strumento di petizione non solo per sé, ma per tutte le persone che vivono la medesima condizione. Certamente più nota, Helen Keller (1880-1968) è stata fra le prime ad aver narrato autonomamente l’esemplare esperienza di vita, testimoniando l’importanza di «un modello di educazione teso alla sollecitazione delle competenze individuali a partire dalle stimolazioni che provengono dalle esigenze sociali del contesto entro il quale il soggetto si trova a vivere; esigenze per le quali è chiamato ad agire come membro del gruppo al quale appartiene» (Zurru, 2016, p. 352). Sabina Santilli (1917-1999), anche lei interessata dal duplice deficit della sordocecità dall’età di sette anni, «attraverso uno straordinario percorso di studio e di apprendimento (latino e lingue straniere compresi), di interessi di relazioni [...] una volta divenuta adulta trova un impiego lavorativo e si attiva a favore di coloro che come lei sperimentavano una simile condizione» (Mura, 2009a, p. 323). Frida Kahlo (1907-1954) attraverso la pittura e l’intensità dei suoi quadri 3. Esiti di ricerca


è stata capace di raccontare la propria vita travagliata e i drammi politici dell’epoca e del proprio Paese. Rispetto alle prime ed esigue testimonianze richiamate, oggi si contano numerose narrazioni autobiografiche (Argentin, 2011; Atzori, 2011; Benzi, 1984; Bettassa, 1990; Coppedè, 1993; Galli, 1969; Gerland, 2000; Gioria, 2010; Grandin, 1995; Jolliffe, Lansdowne, & Robinson, 2001; Laborit, 1994; Preißmann, 2013; Sainsbury, 2009; Willey Holliday, 1999; Williams, 2005) attraverso le quali le donne con disabilità raccontano di sé evidenziando quali siano l’impegno costante e le sfide quotidiane per affrontare i propri limiti e giungere, con “quel corpo deficitario”, all’autonomia, alla costruzione di un’immagine di sé come donne e alla realizzazione personale. La lettura delle narrazioni offre un vasto panorama di indicazioni concrete riguardanti la maturazione dell’identità, lo svolgersi dei rapporti affettivi, le opportunità di crescita e di sviluppo e la realizzazione di sé. Le narrazioni considerate sono intense, ricche di dettagliate descrizioni delle sensazioni e di profonde e struggenti riflessioni sul proprio corpo, sui desideri e sulle attese. In tali esperienze emerge chiaramente che ognuna di loro è stata accompagnata e sostenuta da figure di riferimento, care givers, che le hanno supportate per affrontare le sfide e le delusioni della quotidianità, per giungere alla scoperta della propria nicchia esistenziale, per imparare a riconoscere ed affermare i propri interessi e le proprie potenzialità al fine di realizzarsi come persone, come donne, come madri e come professioniste. Al lettore è offerta l’opportunità di comprendere come nei differenti Paesi d’origine le sovrastrutture culturali e politiche si intreccino, incidendo, con le dimensioni micro delle esistenze individuali e possano, quindi, costituire ostacoli o agevolazioni alla realizzazione di sé. Le storie di vita e le peculiari esigenze in esse espresse offrono, inoltre, nuove prospettive di conoscenza alla ricerca pedagogica e psicologica, rappresentando importanti testimonianze per orientare l’offerta dei servizi e degli interventi educativi e, dunque, migliorare le condizioni di vita di tutte le persone interessate da disabilità.

3. Testimoni del proprio Progetto di Vita

Il Progetto di Vita è una locuzione che è ormai ampiamente utilizzata in ambiti disciplinari differenti con significati talvolta non coerenti tra loro; si rende pertanto necessaria una precisazione che ne espliciti il significato ed il senso pedagogico con il quale qui viene utilizzata. Il costrutto concettuale del Progetto di Vita, «diversamente dal PEI con il quale viene spesso assimilato e confuso, non rinvia ad un documento progettuale cartaceo, ma richiama un percorso esistenziale di etero/auto-orientamento. È quindi una costruzione individuale che si origina fin dalla nascita del singolo e si sviluppa attraverso le esperienze alle quali ciascuno prende parte; si costruisce gradualmente e si rinnova costantemente, nutrendosi delle possibilità materiali e dei vincoli che l’individuo concretamente incontra, ma anche dei sogni, dei desideri e delle aspirazioni ai quali ciascuno ambisce, come piena espressione dell’autodeterminazione personale. È dunque una costruzione unica e irripetibile di cui l’altro – persona o contesto relazionale – è costruttore partecipe, ma mai in modo coercitivo» (Mura, 2016, pp. 193– 194). Come appena delineato, risulta evidente quanto gli elementi inizialmente anno V | n. 1 | 2017

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richiamati nel primo paragrafo diventino la struttura portante di ogni progetto esistenziale. A tal proposito, anche i lavori pubblicati negli ultimi anni testimoniano l’emergente affermazione e maturazione della consapevolezza di sé da parte di tante donne interessate da disabilità. Tuttavia la necessità e la volontà di raccontarsi non sono ancora diffuse su larga scala. In tal senso, attraverso una ricerca sul campo (Tatulli, 2016) si è voluto verificare in che termini anche nei racconti biografici di giovani donne disabili, che hanno intrapreso percorsi di autorealizzazione, siano rinvenibili e pregnanti quegli elementi strutturali che, si è detto, sono alla base del Progetto di Vita. A riguardo, anche le interviste che seguono sono state strutturate per verificare quanto questi siano riconfermati nelle esperienze delle donne disabili intervistate. L’indagine si è rivolta ad un campione eterogeneo costituito da 14 donne e ragazze appartenenti ad associazioni costituite da persone con deficit sensoriali, motori e cognitivi di differenti Paesi europei: Italia, Inghilterra, Francia. Per poter cogliere un’ampia rappresentazione dei percorsi di autorealizzazione e dei differenti intrecci tra opportunità e vincoli nell’esperienza individuale, le intervistate, accomunate dalla condizione di disabilità congenita, sono state suddivise per fasce d’età (18-25; 25-30; 30-50) e differenti tipologie di disabilità. Le donne intervistate sono state coinvolte nel progetto di ricerca attraverso colloqui telefonici, via mail, o incontri vis’ a vis. Si sono così proposte interviste semi-strutturate con domande aperte volte ad approfondire le riflessioni personali sui differenti aspetti d’indagine, e nel contempo a raccogliere ed evidenziare gli elementi fondamentali inerenti alcune dimensioni diacroniche e sincroniche dell’esistenza e dunque del processo di realizzazione personale. Il lavoro di analisi dei racconti biografici è stato guidato da una griglia di analisi che ha evidenziato quelli che sono stati precedentemente definiti elementi strutturali di crescita e sviluppo della persona: l’orientamento formativo, l’apprendimento scolastico, l’accompagnamento familiare, il rapporto con i pari, la partecipazione sociale, la professionalizzazione, l’autonomia. Diventa utile riportare una sintesi dei dati desunti dalle interviste attraverso alcuni stralci significativi che richiamano gli elementi strutturali del Progetto di Vita (orientamento formativo, apprendimento scolastico, accompagnamento familiare, rapporto con i pari, partecipazione sociale, professionalizzazione, autonomia), secondo un ordine meramente formale piuttosto che rappresentativo del reale intreccio che essi assumono nella realtà esistenziale del singolo. Orientamento formativo La piena espressione di sé come persona è connaturata a processi di orientamento formativo finalizzati a fornire strumenti idonei di cura e di sviluppo affinché il bambino, il giovane e l’adulto diventino consapevoli del proprio Progetto di Vita. L’azione pedagogica si configura come una processualità formativa ininterrotta che ha inizio fin dalla nascita, in famiglia, e prosegue secondo una prospettiva life wide e life long learning in un continuum che consente ad ogni individuo di riconoscere e di sviluppare al meglio le proprie attitudini, abilità e potenzialità. Si tratta di elementi rinvenibili nelle parole di E. (25-30 anni, deficit motorio) che connota la propria esperienza come un viaggio in fieri costellato da molteplici supporti orientanti.

3. Esiti di ricerca


Tante persone mi hanno sostenuta nel mio viaggio personale. La mia famiglia e gli amici mi hanno sempre incoraggiata ad andare oltre, sono stata molto fortunata ad avere anche un’importante educazione, che si sta ancora sviluppando!

Anche il racconto di F. (18-25 anni, deficit motorio) mette in evidenza la capacità di decidere autonomamente e consapevolmente rispetto alle proprie inclinazioni, superando i vincoli che il deficit e l’ambiente pongono. Ho deciso di allontanarmi dalla mia città di origine, dalla mia famiglia per frequentare l’università. Era il corso di laurea che volevo frequentare, l’università in quella città era l’unica che offrisse tutta una serie di servizi e possibilità di approfondimento e stages. Certo, ho dovuto traslocare, non solo per quanto riguarda il domicilio, ma anche per quanto riguarda lo sport e con i miei limiti motori non è stato semplice… ma era ciò che volevo fare.

Apprendimento scolastico Il percorso di formazione svolge un ruolo fondamentale nella realizzazione personale di ogni individuo. I processi di apprendimento e le relazioni che si instaurano durante il periodo di scolarizzazione non solo forgiano la personalità, ma costituiscono elementi fondanti le opportunità di realizzazione in età adulta. A. (30-50 anni, deficit sensoriale) testimonia un’esperienza complessa, fatta di molteplici presenze/assenze, che ha costretto la famiglia a ricercare soluzioni adeguate per l’integrazione nella società. […] ho studiato nella scuola pubblica, ho avuto l’insegnante di sostegno nel ‘78 in prima elementare, poi mandata via (mi faceva solamente disegnare e non risultavano altri progressi, visto che già a 4 anni e mezzo sapevo già scrivere e leggere grazie all’aiuto di mia madre per farmi inserire meglio nella scuola pubblica) e seguita direttamente dall’insegnante curricolare con successo. Per tutti i cinque anni delle elementari nel pomeriggio andavo da una maestra privata (all’epoca non c’erano figure professionali adeguate e messe a disposizione dalle istituzioni). Sono diplomata come perito elettrotecnico (periodo di studio più critico e difficile) e poi all’università ho frequentato il corso di laurea in Pedagogia, mai completato. Nel frattempo ho frequentato corsi e workshop per diventare educatrice e docente LIS.

C. (18-25 anni, deficit sensoriale) torna indietro con i ricordi, prima alla scuola elementare e successivamente alla scuola secondaria superiore, sottolineando concretamente come la disabilità, in un clima effettivo d’inclusione, possa divenire risorsa per l’intero gruppo classe e per la società: […] ho avuto delle insegnanti meravigliose che hanno saputo creare un clima positivo, di integrazione. Ho avuto l’insegnante specializzata che mi affiancava, le maestre mi hanno sempre coinvolta in tutte le attività, avevano preparato su una parete i cartelloni con le lettere in nero e in Braille e i miei compagni avevano imparato come me […]. Ho “costretto” tutti a migliorare le loro competenze tecnologiche, anche al liceo classico, ho dovuto inventare con la professoressa di greco un sistema per scrivere lettere, ac-

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centi e spiriti perché quando ho iniziato io non c’era ancora un alfabeto per il greco al computer. In quarta superiore poi ho finalmente potuto utilizzare un programma di conversione del greco normale al greco in Braille, ero in quarta certo, la faticaccia dell’apprendimento della grammatica ormai era fatta! Ma è stata una bella soddisfazione partecipare alla sperimentazione del programma per le future generazioni di studenti non vedenti.

Accompagnamento familiare La letteratura pedagogica ha ormai abbondantemente evidenziato che la famiglia, se ascoltata, incoraggiata e accompagnata nella comprensione del deficit, sviluppa processi interni di resilienza e di coping che le consentono di scoprire, nei normali contesti di vita, l’originalità dei propri congiunti, sentendosi in breve tempo esperta delle loro esigenze, desideri e possibilità. Nel contempo, in particolare nei comportamenti genitoriali espliciti e impliciti si celano un’infinità di messaggi educativi, culturali e valoriali, che svolgono una funzione altamente orientante e che dunque incidono in maniera significativa sulla formazione e sulla realizzazione della persona (Mura, 2005). In proposito S. (30-50 anni, deficit sensoriale) racconta che quando i propri genitori scoprirono di avere una figlia sorda in una famiglia di udenti, furono profondamente addolorati, ma presto impegnati a capire come poterla supportare. La mia famiglia, i miei genitori, ma anche mio fratello, si sono impegnati nella ricerca di strumenti e modi che mi consentissero di comunicare con il resto del mondo.

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C. (18-25 anni, deficit sensoriale) ripensa all’infanzia e riporta l’impegno quotidiano dei propri familiari per facilitarle l’apprendimento e consentirle di partecipare a differenti attività. È stato anche un gioco di squadra con la mia famiglia, mia madre faceva parte del consiglio di classe e spiegava alle insegnanti ciò di cui avevo bisogno […]. Ricordo mia madre che mi accompagnava in auto da una parte all’altra, a fare attività sportiva, per incontrare i miei compagni.

M. (30-50 anni, deficit motorio) ricorda le difficoltà e l’impegno di tutta la sua famiglia nell’accompagnarla nella realizzazione di sé. Ricordo che quando ero in terza media e dovevo scegliere in quale scuola superiore iscrivermi ho dovuto convincere mia madre. Lei si poneva il problema degli spostamenti quotidiani per accompagnarmi a scuola e per l’igiene personale. È stato mio fratello che ha convinto mia madre, dicendole che mi avrebbe accompagnata a scuola […]; forse quel periodo scolastico è stato il più bello della mia vita!

Rapporto con i pari Non si può pensare di costruire percorsi di crescita e maturazione per la persona disabile in contesti totalmente protetti, occorre piuttosto porgere il più precocemente possibile, accanto alla cura e all’affetto genitoriale, la possibilità di frequentare ambienti diversi da quelli familiari, ricchi di stimoli e proposte, che possano favorire lo sviluppo di tutte le strategie cognitive e relazionali utili a con3. Esiti di ricerca


frontarsi con la complessità della realtà. L’incontro/scontro con i coetanei, con le regole e più in generale con il contesto socio-culturale d’appartenenza diventa infatti elemento fondamentale di benessere ed emancipazione. In tal senso, A. (30-50 anni, deficit sensoriale), anche divertita, riferisce dei rapporti un po’ turbolenti con i propri compagni, riportando alcuni tentativi di sopraffazione a suo danno ai quali risponde con decisione, tanto da ribaltare la propria condizione. C’è stato un periodo in cui sono diventata una specie di boss per proteggere chi subiva ingiustizie […]. Il rapporto con i compagni fino alle medie è stato tutto sommato molto buono, più difficile alle superiori, ma avevo una buona cerchia di “sostenitori”; in alcuni casi mi sono dovuta difendere.

I. (18-25 anni, deficit sensoriale) racconta, invece, di avere una fitta rete di relazioni amicali costituitasi nel tempo, nelle realtà associative e sportive frequentate sin da bambina, che da studentessa universitaria si è ulteriormente accresciuta. Così ritiene importante sottolineare che […] la vita universitaria ti da tanto, sotto vari aspetti, come opportunità per raggiungere l’autonomia, devi gestire i tuoi tempi indipendentemente dai tuoi bisogni. Abitare all’università con i coetanei consente di viverla a 360 gradi […]. Ti metti in gioco in modo divertente.

Partecipazione sociale La multidimensionalità delle occasioni che si concretizzano nell’ambito extrascolastico concorre significativamente alla strutturazione dell’identità individuale, influenzando i livelli di autostima e la dimensione motivazionale. Le nuove esperienze, infatti, svincolano ed incrementano le potenzialità individuali, incentivano la disponibilità a conoscere, promuovono la relazionalità e, dunque, rappresentano motivo di sviluppo della libertà. Nella vita di M. (18-25 anni, deficit sensoriale) lo sport ha sempre avuto un ruolo importante: Ho iniziato da bambina a praticare nuoto, perché era lo sport dei miei genitori. Ma nel tempo sono diventata brava e quindi l’ho praticato con maggior impegno e successo, a livello agonistico […]. Qualche anno fa ho anche frequentato il corso da sommelier. È stata una bellissima esperienza, sono la prima donna sommelier sorda!

L. (18-25 anni, deficit sensoriale) riporta due esperienze differenti:

Quando ero al liceo ho partecipato con molto interesse e passione ad attività teatrali, poi ho iniziato a praticare nuoto […]. Ho lasciato il teatro per il nuoto, ma frequento ancora i ragazzi con i quali ho condiviso l’esperienza teatrale, perché è stata un’esperienza che mi ha dato tanto, mi ha arricchita.

Professionalizzazione «Arrivare a rendere gli idioti capaci di diventare uomini utili, fosse pure nei posti più umili, negli impieghi più modesti e semplici, dargli la capacità di fare un lavoro il cui valore compensi il loro sforzo, tale è lo scopo finale della loro educazione» (Séguin, 1970, pp. 267–268). Già per l’educatore parigino il lavoro connota l’apanno V | n. 1 | 2017

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partenenza all’età adulta e assume valore realizzativo di sé. L’occupazione lavorativa è dunque concepibile, non solo come strumento funzionale al sostentamento individuale, ma come processo auto-trasformativo per il soggetto, ponendolo in condizione di sentirsi parte integrante, stimolata e attiva, del contesto sociale al quale appartiene. E. (25-30 anni, deficit motorio) racconta che la sua occupazione è maturata grazie alle prime esperienze nell’associazione che le ha offerto l’opportunità di viaggiare. Un’attività che ha avuto ricadute sociali ed emancipative in più ambiti di vita: Il mio attuale lavoro come consulente per l’accessibilità è meraviglioso, perché mi ha permesso di vivere a Rio de Janeiro, in Brasile, per 10 settimane! Mi piace molto anche il volontariato per i grandi eventi, come l’impegno nel volontariato nell’estate 2014 ai Giochi del Commonwealth a Glasgow. Sono anche amministratore della [Omissis]Charity, che sta per [Omissis] Trust. È questa associazione che mi ha portato in Sud Africa quando avevo 16 anni, quindi è bello essere in grado di dare restituire qualcosa indietro a un’organizzazione così sorprendente che ha cambiato la mia vita e mi ha permesso avere gli amici che avrò per sempre. C. (30-50 anni, deficit cognitivo) è una donna interessata dalla sindrome di Down che racconta di sé e della propria esperienza, esprimendo consapevolezza dei propri limiti che non le impediscono di impegnarsi in senso professionale:

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Dopo la scuola superiore ho deciso di entrare nella vita vera. Ho fatto un corso con la Croce Rossa. Sono cosciente dei miei limiti, ho chiesto di fare assistenza nei reparti e far pratica nel poliambulatorio e nella casa di riposo per gli anziani.

V. (18-25 anni, deficit cognitivo) riferisce con soddisfazione dell’ambiente lavorativo e delle mansioni che le sono state attribuite Lavoro per un catering che prepara i pasti per cinque grandi ospedali della mia città. Ho imparato tantissime cose, la mia responsabile mi ha insegnato a preparare le colazioni, dopo pranzo preparo le colazioni per il giorno dopo. Le mie colleghe mi hanno insegnato a preparare le buste, mi trovo bene con tutti i miei colleghi.

Autonomia La realizzazione di sé e del proprio progetto di vita è strettamente correlata al raggiungimento di molteplici traguardi di autonomia riferiti, non solo ad aspetti operativi nella cura di sé, ma anche allo sviluppo delle capacità di scelta fin dall’infanzia. Ogni persona ha dunque bisogno di sperimentarsi e di agire autonomamente per avvertire competenze e difficoltà. La conquista dell’autonomia e della propria autodeterminazione passa infatti attraverso il confronto con se stessi e con le differenti realtà ambientali. A riguardo, L. (18-25 anni, deficit sensoriale) ricorda che: […] già dalla scuola elementare, i miei genitori hanno sempre favorito l’indipendenza, l’autonomia a fare tutto da sola […], se c’era un obiettivo da raggiungere ho sempre cercato di fare di tutto finché non l’ho raggiunto.

3. Esiti di ricerca


I. (18-25 anni, deficit sensoriale), invece, pone l’accento sul significato autentico della cura di sé, la quale non si esprime esclusivamente con abilità operative, ma anche con un’appagante capacità di scelta. […] il fine settimana, quando capita di uscire con gli amici, cerco di fare più attenzione, magari provo anche a truccarmi, ho imparato, ma impiego molto tempo a truccare gli occhi, è molto difficile farlo senza potersi guardare. Scelgo con più attenzione gli indumenti, le gonne o i vestiti.

L’esperienza dell’autonomia per quanto riguarda gli spostamenti e le responsabilità personali emerge in modo lampante nelle dichiarazioni di G. (18-25 anni, deficit cognitivo), che descrive con soddisfazione la sua capacità di muoversi autonomamente: Io entro a lavoro alle 10 e finisco alle 2. Vado da sola a lavoro, prendo l’autobus. Mi occupo di preparare i pasti del nido!

Anche il racconto di S. (30-50 anni, deficit sensoriale) evidenzia autonomia di mobilità e capacità di assumere delle decisioni responsabili su di sé e per gli altri. Per motivi di lavoro abito lontana dal paese dei miei genitori, così devo fare tutto da sola, è molto impegnativo. Mi faccio aiutare da una babysitter nei giorni in cui esco più tardi da lavoro o quando il bambino si ammala. Non è facile, mettersi d’accordo per tante cose, ma non ho altra possibilità […]. Vivere con il padre di mio figlio non era più possibile […], non aveva cura del bambino, non mi rispettava.

4. Risorse emergenti e prospettive di formazione

Dall’analisi della letteratura richiamata, dai molti documenti ormai prodotti da diversi network associativi e dai dati delle interviste si desume che fra le stesse donne interessate da disabilità e nella coscienza collettiva è in atto un processo di cambiamento e di maturazione della consapevolezza circa i bisogni di emancipazione femminili. I racconti biografici delle donne disabili coinvolte nella ricerca offrono differenti livelli di riflessione. In primo luogo, si osserva come gli aspetti caratterizzanti le micro storie della sfera privata delle protagoniste si intreccino con la dimensione macro della vita sociale, pubblica e istituzionale del Paese al quale appartengono. In secondo luogo, gli stralci delle testimonianze riportate tratteggiano intensi itinerari esistenziali, nei quali emergono gli aspetti fondamentali che concorrono alla costruzione del Progetto di Vita. In tal senso, si può osservare che le donne impegnate in un percorso di realizzazione di sé fanno riferimento agli stessi elementi strutturali – finora prevalentemente declinati al maschile – che il discorso pedagogico-speciale ha individuato per l’emancipazione delle persone in situazione di disabilità. Ciò risulta evidente dai percorsi di orientamento e di formazione ai quali le donne fanno riferimento nel fitto dialogo e confronto che instaurano nella loro esperienza con l’ambiente di vita – famiglia, scuola, pari, istituzioni – in qualità di protagoniste attive. Si tratta di meccanismi esistenziali che, nonostante siano assodati nell’ambito della letteraanno V | n. 1 | 2017

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tura di settore, stentano a diventare elementi condivisi in ambito civico-culturale e a prendere forma attraverso percorsi operativi delle prassi educative per quanto riguarda l’emancipazione femminile. Permangono le tracce pregnanti del retaggio culturale e degli stereotipi che le ricerche prodotte dai movimenti di emancipazione femminile (Gender Studies e Femminist Disability Studies) hanno evidenziato a più riprese. Da parte della Pedagogia Speciale è in atto un processo di attenzione rispetto a tale problematica che consente di risignificare quanto emerge anche da tali indagini, perché possano strutturarsi ulteriori analisi, riflessioni critiche e ricerche su percorsi, materiali, metodologie e strumenti adeguati ad accompagnare lo sviluppo di una cultura di genere tra le nuove generazioni e raggiungere, così, il senso più autentico dell’inclusione. Si tratta di una questione la cui urgenza è avvertita a livello internazionale e nazionale anche in ambito normativo. È evidente il richiamo della Convenzione dell’ONU – che in Italia è legge dello Stato – quando stabilisce tra i principi generali dell’art. 3 la parità tra uomini e donne, sottolineando poi nell’art. 6 come le donne con disabilità siano soggette a discriminazioni multiple. L’invito, nello stesso articolo, ad adottare misure per il pieno sviluppo, progresso ed emancipazione delle donne giustifica i maniera significativa l’attenzione nei confronti della questione di genere prestata in numerosi altri articoli. Sul versante educativo la tematica della parità e della non discriminazione tra i sessi trova particolare spazio nel Quadro europeo delle competenze chiave per l’apprendimento, considerati gli impliciti rimandi che si possono cogliere quando si fa riferimento allo sviluppo delle competenze sociali e civiche. Promuovere capacità culturali e di comportamento che siano in grado di garantire la piena partecipazione di tutte le persone ai diversi ambiti di vita in maniera costruttiva significa operare in termini educativi all’individuazione ed allo sradicamento di pregiudizi e stereotipi che riguardano anche le differenze di genere. A livello nazionale, tali preoccupazioni trovano accoglimento nelle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione che, facendo proprio l’orizzonte culturale del Quadro europeo, rimarcano la necessità di operare per un’educazione capace di promuovere lo sviluppo di un’identità consapevole e aperta nel rispetto delle differenze di tutti e delle particolarità di ciascuno. Tale prospettiva è stata sottolineata recentemente dalla normativa scolastica con la Legge n. 107 del 2015 che all’art. 1, comma 16 prescrive la realizzazione del piano dell’offerta formativa in attuazione dei principi di pari opportunità, promuovendo nelle scuole l’educazione alla parità tra i sessi e la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione. Ciò al fine di sensibilizzare studenti, docenti e famiglie su tali tematiche, recentemente portate all’attenzione della cultura scolastica e didattico-editoriale anche dalle disposizioni dell’art. 5 della Legge n. 93 del 2013. È sempre in ordine a questi orientamenti che, nelle Università, la ricerca sta lavorando alla sensibilizzazione ed alla formazione degli studenti e dei docenti, con l’obiettivo di definire e strutturare percorsi formativi capaci di promuovere lo sviluppo dell’identità, delle capacità e delle aspirazioni di ciascuno, tenendo conto della singolarità e complessità di ogni persona. Va in questa direzione anche l’esperienza che già dall’A.A. 2014/15 l’Università di Cagliari ha realizzato, in collaborazione con la Open University di Londra, la Universidad Pontificia de Salamanca, la 3. Esiti di ricerca


University of Surrey e con l’Assessorato alla Formazione Professionale della Regione Autonoma della Sardegna, attraverso l’istituzione del Master in Gender Equality – Strategie per l’equità di genere, che si propone di formare professionisti esperti in strategie per il potenziamento delle pari opportunità, in grado di progettare e sviluppare strategie di valorizzazione delle differenze di genere nei contesti scolastici ed educativi, negli apparati produttivi del mercato del lavoro, nei luoghi della politica istituzionale e dei processi culturali, contribuendo così alla modernizzazione di tutti i settori della società. Nella stessa direzione, ma rivolto ai dirigenti e agli insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado, si è recentemente svolto il progetto SAVE (Stereotypes And Violence in Education), un percorso formativo che attraverso workshop, seminari e laboratori ha condotto i partecipanti a maturare conoscenze e competenze nel campo dell’abbattimento degli stereotipi e delle problematiche di genere in ambito scolastico, con un ampio riferimento anche ai temi della disabilità curati da chi scrive. Si tratta di iniziative che si inseriscono in un più ampio panorama di ricerca e di documentazione di buone prassi che in ambito internazionale, anche grazie ai contributi delle indagini sulla condizione delle donne disabili, stanno assumendo un crescente peso nella cultura e nella formazione professionale degli operatori educativi, specie di quelli scolastici, i quali possono, così, farsi concreti promotori presso le nuove generazioni, le famiglie ed il territorio di una competenza diffusa capace di accogliere la sfida di apertura verso il mondo attraverso pratiche di tutela e promozione dell’uguaglianza nel riconoscimento delle differenze individuali e di genere.

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3. Esiti di ricerca


Un modello inclusivo per il riconoscimento precoce e la riabilitazione dei Disturbi di Apprendimento

Key-words: early identification, inclusive rehabilitation, learning disabilities, schools institutions

3. Esiti di ricerca

Italian Journal of Special Education for Inclusion

anno V | n. 1 | 2017

Š Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

The work shows a study on the early identification and rehabilitation of children of primary and secondary school with learning disabilities, who were tested in group within school hours and inside the school. What made the work specific was both the focus on the overall support of the mechanisms for the admittance of a child with difficulties in a peers group and the rehabilitation work for the aforementioned problem. Moreover the specificity of this study was given by a high involvement of teachers and people working in the school area who were able to correctly identify the children with the specific difficulties within the classroom. In conclusion the work analyses the strength and the weakness of the model proposed for the identification and rehabilitation of particular children which should be useful for the health care workers, the teachers, and the families. However this study was also performed for further trials in other pediatric-neuropsychiatric centers and schools institutions.

abstract

Eleonora Camillo (UniversitĂ Sapienza - Polo Pontino / eleonora.camillo@uniroma1.it) Marina Eianti (Centro di Neuropsichiatra Infantile, ASL LT, Priverno) Civita Macone (Centro di Neuropsichiatria Infantile, ASL LT, Priverno) Franca Carla Belli (Centro di Neuropsichiatria Infantile, ASL LT, Priverno) Antonella Cerquiglini (UniversitĂ Sapienza - Polo Pontino / antonella.cerquiglini@uniroma1.it)

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Introduzione

L’inserimento scolastico di un bambino con ritardi o disturbi dello sviluppo, con problemi psicopatologici o disagi psicosociali, rappresenta un momento complesso e, spesso, difficile, perché condensa diversi nuclei di problematicità del sistema sanitario, scolastico e della famiglia.

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Diagnosi e trattamento dei disturbi: Se le disabilità più gravi, associate a deficit neurosensoriali, quelle complesse (sindromiche) o a maggior compromissione adattativa, vengono precocemente diagnosticate e trattate, e arrivano in scuola materna già con una richiesta di sostegno didattico, la maggior parte dei bambini affetti da disturbi del neurosviluppo, non sindromici, secondo i criteri del DSM V (APA, 2013), che vanno dalla Disabilità Intellettiva ai Disturbi Specifici del Linguaggio o della Coordinazione Motoria, fino ai Disturbi dello Spettro Autistico, non ha mai effettuato controlli neuropsichiatrici infantili prima dei 3 anni. Per alcuni disturbi i tempi della prima diagnosi si sono accorciati, anche se ancora oggi può avvenire tardivamente: le disabilità intellettive di grado lieve, i disturbi di linguaggio vengono considerati, dai genitori e spesso anche dai pediatri, segnali di “pigrizia” del bambino e come tali non arrivano a consultazione neuropsichiatrica infantile se non dopo eventuale, successiva, segnalazione da parte degli insegnanti. Tra tutti i disordini del neurosviluppo quelli che però sono oggetto di una diagnosi realmente tardiva sono i disturbi dell’apprendimento dove si attende l’insuccesso scolastico del bambino, prima di avviare la consultazione (Hulme, 2016). Non infrequentemente però nella storia di questi bambini è presente pregressa immaturità a carico di alcune aree dello sviluppo, quali il linguaggio (Bishop, 2004) o una familiarità per il disturbo (Nash H.M., 2013) La diagnosi precoce si scontra spesso con le gravi difficoltà e carenze dei servizi di neuropsichiatria infantile. I tempi di attesa di una prima visita sono, nel migliore dei casi, di alcuni mesi e anche bambini segnalati prima dell’inserimento in scuola materna non ricevono una diagnosi prima dell’inizio dell’anno scolastico. Il processo diagnostico di un disturbo dello sviluppo è fondato sulle linee guida relative e complesso, richiede il lavoro di psicologi, terapisti di diversa formazione (fisioterapisti, logopedisti, neuropsicomotricisti) e di tempi non brevi, a causa di più sedute di valutazione con ciascun operatore. Per quanto riguarda il trattamento riabilitativo, ad una diagnosi precoce spesso non segue una terapia precoce, con una ricaduta evidente sull’evoluzione clinica del disturbo in senso peggiorativo, e sull’inserimento scolastico, che non avviene in modo protetto e pensato per le esigenze del bambino. Benchénella maggior parte delle situazioni un trattamento precoce e tempestivo possa modificare la prognosi, meno di 1 bambino/adolescente su 4 riesce ad accedere alle cure di cui ha necessità. Si stima che non siano piùdi 600.000 gli utenti dei servizi pubblici di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza a fronte di una popolazione complessiva sofferente di circa 3,6 milioni unità(SINPIA - Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e Adolescenza, 2015).

Riconoscimento e segnalazione del problema: gli insegnanti sono quindi spesso le prime figure esterne alla famiglia e competenti per l’età evolutiva che

3. Esiti di ricerca


riconoscono l’esistenza di un problema nel bambino, di fronte al quale le loro reazioni si possono sintetizzare tra due poli opposti:

– con una richiesta immediata alla famiglia della necessità di una consultazione neuropsichiatrica, che spesso i genitori avvertono come una frettolosa modalità espulsiva di un alunno che richiederebbe solo qualche attenzione in più; – con una negazione completa di particolari problemi del bambino o con un’assunzione di un ruolo salvifico onnipotente che minimizza sue eventuali difficoltà e rassicura i genitori (spaventati dall’immagine di bambino danneggiato di cui che temono il concretizzarsi) circa la possibilità di affrontare e risolvere eventuali lievi difficoltà dell’alunno all’interno della classe.

In ogni caso, è uno dei compiti della scuola quello di dover identificare le difficoltà di un bambino, sul piano didattico, comportamentale e sociale a cui il neuropsichiatra infantile dovrà eventualmente attribuire un valore sintomatologico, trovando la modalità più giusta per quel bambino e per quel genitore, per favorire un invio al servizio sanitario specialistico. Questo comporta da un lato la necessità di essere a conoscenza dell’esistenza dei disturbi dello sviluppo e della necessità di una diagnosi ed eventualmente una terapia per evitare i successivi rischi evolutivi, dall’altro lato l’importanza di attribuire il disturbo ad un disordine del neurosviluppo e non a cause legate a problematicità o ipostimolazione ambientale, che esporrebbero le famiglie ad indagini psicosociali ulteriormente ed inutilmente stressanti. In realtà, è molto probabile che la scuola si trovi a confrontarsi con situazioni potenzialmente problematiche sul piano psicosociale. Gli alunni stranieri rappresentano il 9.2% del totale degli alunni in Italia e tra quelli certificati la loro percentuale sale al 12% (fonte MIUR, Ministero Istruzione Università Ricerca, 2015), considerando inclusi in questo numero sia quelli con disturbi del neurosviluppo ma anche quelli con problemi collegati a esperienze precedenti l’arrivo in Italia e difficoltà successive (si pensi all’apprendimento di una nuova lingua o di diverse regole sociali). È nato in Italia il 30,4% degli studenti stranieri delle scuole secondarie di primo e secondo grado; il 23,5% è arrivato prima dei 6 anni, il 26,2% è entrato in Italia tra i 6 e i 10 anni e il 19,9% è arrivato a 11 anni e più. Il 21,6% dei ragazzi stranieri delle scuole secondarie di primo grado non frequenta i compagni di scuola al di fuori dell’orario scolastico, contro il 9,3% degli studenti italiani (ISTAT, Istituto Nazionale Di Statistica, 2015) e questo può essere significativo per difficoltà di socializzazione, isolamento e stigmatizzazione sociale. La scuola, pur non essendo l’unico mediatore tra il bambino immigrato e l’ambiente sociale, rappresenta tuttavia uno spazio cruciale per definire le basi di una interazione positiva immediata e futura (Di Bello, 2010): l’inclusione scolastica di un bambino immigrato sarà il modello per la sua inclusione sociale.

Preoccupazioni e resistenze dei genitori: l’ingresso in scuola materna rappresenta per molti genitori la prima occasione di un confronto diretto tra il comportamento e le capacità del proprio figlio, con quelli degli altri bambini coetanei. Il vero problema, tuttavia, non è vedere ma essere in grado di interpretare come una difficoltà l’agire del proprio bambino, avviandosi per un percorso che li porterà a confrontare la loro immagine di bambino ideale con quella del bambino

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reale, bisognoso di attenzioni e cure particolari, diverso dagli altri bambini, imperfetto. (Lebovici, 1977). La condizione di alto stress genitoriale che caratterizza sempre le famiglie di bambini con disturbi dello sviluppo o psicopatologici ne influenza il funzionamento scolastico e sociale (Baker, 2005; Emerson, 2004; Singer, 2006) ma, accanto ad interventi che possono essere messi in atto sul piano clinico, di sostegno psicologico e counseling genitoriale, l’attenzione e le risorse della scuola possono influenzare in senso positivo o negativo l’atteggiamento del genitore e influire sull’espressività clinica del disturbo del bambino, modulandone i comportamenti più o meno disadattativi. Il percorso scolastico seguirà questo percorso genitoriale di progressiva consapevolezza del disturbo del figlio potendo funzionare come fattore di rischio o come fattore protettivo, soprattutto in relazione alle potenzialità di inclusione che saprà attivare, restituendo al genitore l’immagine di un bambino tra i bambini della classe, riconoscendone i deficit o le atipie di funzionamento, ma offrendo soluzioni al problema. In sintesi: la qualità dell’inclusione del bambino atipico o con deficit di sviluppo dipende dalle capacità che tutti gli operatori mettono in atto di condividere un progetto comune, in grado di rispondere ai bisogni educativi di quel bambino e degli altri della classe (de Anna, 2014).

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La rete di protezione del bambino: i rapporti tra servizi e tra servizi e famiglia. Una volta superata la fase, spesso difficile e lunga, della segnalazione del problema alla famiglia e dell’invio del bambino ai servizi di Neuropsichiatria infantile, è necessario affrontare la fase del confronto tra operatori, che lavorano in ambiti diversi (scuola, servizio sanitario) e che spesso si trasforma in scontro, poiché la scuola e i clinici valutano la gravità clinica e la gravità scolastica di un problema utilizzando criteri diversi. Il concetto di gravità clinica fa riferimento a parametri e criteri definiti dai sistemi di classificazione nosografica, mentre i criteri di gravità scolastica di un disturbo sono relativi alle capacità del bambino di raggiungere obiettivi didattici e sociali che devono tenere conto anche delle caratteristiche del gruppo, le dinamiche relazionali e comunicative tra adulti e bambini, le scelte metodologiche e didattiche degli insegnanti (Mazzoncini, 2012). In molti casi, soprattutto quelli caratterizzati da un funzionamento sociale disadattativo, interferente e disturbante per le attività del gruppo, la scuola richiede aiuti individualizzati che l’operatore sanitario non può certificare, perché vincolato ai criteri definiti nella L170/2010 (Legge 8 ottobre 2010 – Nuove norme in materia di Disturbi Specifici di Apprendimento in ambito scolastico – G.U. 244, 18 ottobre 2010), che sottolinea la necessità di attivare strumenti compensativi e dispensativi all’interno della classe per quei disturbi più lievi e in assenza di comorbidità, introducendo un terzo criterio, quello di gravità normativa, che spesso non coincide con gli altri due. Queste diverse rappresentazioni dello stesso bambino conducono inevitabilmente ad uno scollamento nelle richieste che gli vengono portate, ad una diversa immagine che viene restituita ai genitori, ad aspettative diverse sull’evoluzione delle sue difficoltà, con il rischio, reale, non soltanto di una mancata o insufficiente integrazione degli interventi (didattico-riabilitativoeducativo) ma anche di una fallimentare inclusione del bambino con difficoltà all’interno della classe.

3. Esiti di ricerca


1. Il progetto

Il servizio di neuropsichiatria infantile svolge un ruolo di coordinamento centrale nella rete degli interventi necessari per un bambino con disturbi dello sviluppo, armonizzando i modelli, favorendo una comunicazione dei piani educativi, didattici e riabilitativi che corrispondono alle diverse figure che il bambino incontra nella sua giornata e agli ambienti in cui vive. Su queste basi, nell’anno scolastico 2012-13 nasce un primo progetto di collaborazione tra alcune scuole della provincia di Latina e il Centro di Neuropsichiatria Infantile di Priverno, sede della UOS di Neuropsichiatria Infantile del Polo Pontino di “Sapienza”, Università di Roma. Nei primi due anni, il progetto ha interessato ragazzi del primo anno di due scuole secondarie di primo grado, con l’obiettivo di effettuare un trattamento riabilitativo integrato delle difficoltà di apprendimento, attraverso un lavoro di gruppo effettuato a scuola e in orario scolastico e un counseling agli insegnanti. Ogni gruppo di lavoro era composto da 5 ragazzi, che si riunivano con frequenza bi settimanale e per una durata di due ore e per un periodo corrispondente al secondo quadrimestre dell’anno scolastico. In seguito, il progetto si è spostato sulle prime classi di scuola primaria, allo scopo di identificare precocemente e trattare i bambini a rischio per disturbi di apprendimento (con ritardo di acquisizione dei pre-requisiti della letto scrittura e calcolo), con interventi di gruppo, attuati all’interno della scuola, sempre in orario scolastico. Ianes (2013) segnala il rischio di uscita – e marginalizzazionedalla classe di un numero di bambini con disturbi di apprendimento che si colloca intorno al 13%, per un tempo congruo (10% del tempo di lezione, o più). Per questo motivo, cornice essenziale del lavoro è stato il supporto globale dei meccanismi d’inclusione del bambino con difficoltà nel gruppo dei coetanei, sia per un’attenzione specifica che l’intervento riabilitativo ha offerto a questo aspetto, ma anche attraverso un maggiore coinvolgimento degli operatori scolastici che fin dall’inizio segnalavano per il progetto i bambini che presentavano difficoltà all’interno della classe. Gli insegnanti hanno partecipato a più incontri iniziali con le terapiste e la psicopedagogista del Centro, allo scopo di:

1) definire i criteri di segnalazione dei bambini, che dovevano tenere conto non soltanto di quello che l’alunno non era in grado di fare, ma soprattutto di come e cosa potesse fare, sia sul piano didattico che in termini di competenze e strategie sociali; 2) condividere le caratteristiche del gruppo classe, la presenza di bambini con altri problemi, lo stile relazionale e comunicativo dei bambini tra loro; 3) far emergere le qualità relazionali tra insegnanti e bambini e tra i docenti; eventuali conflitti, alleanze, funzionalità e disfunzionalità educative e didattiche, comprese le coerenze o incoerenze nel metodo di insegnamento e negli obiettivi di lavoro.

Nel corso dell’intervento con i bambini/ragazzi, è stata offerta agli insegnanti la disponibilità ad incontri con la pedagogista, in caso di comunicazioni urgenti riguardanti l’alunno o la classe. A conclusione dell’intervento, il progetto ha previsto un incontro allargato a

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tutti gli operatori sanitari (neuropsichiatra infantile, psicologi, terapisti, educatori e psicopedagogisti) e scolastici (dirigente, insegnanti di classe e di sostegno, non soltanto quelli coinvolti nel progetto, assistenti educativi), oltre ovviamente alle famiglie dei bambini interessati, per condividere l’evoluzione del disturbo e le modifiche del profilo di sviluppo. Il lavoro all’interno del gruppo è stato effettuato da due terapiste neuropsicomotriciste, regolarmente supervisionate da una terapista senior e da una pedagogista del Centro.

2. I dati clinici

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Nei primi due anni, sono stati coinvolti complessivamente 26 ragazzi, in maggioranza di sesso maschile, e tra tutti, 16 provenienti da famiglie non italiane ma solo 3 non nati in Italia. Nella costruzione del gruppo, si è tenuto conto non soltanto della tipologia del disturbo, ma anche delle diverse comorbidità psicopatologiche e dei punti di forza e di debolezza di ognuno, per favorire il formarsi di un legame tra i ragazzi e attivare un aiuto reciproco (Levi, 1992)). Le iniziali segnalazioni degli insegnanti sono state molto più numerose e si è reso necessario effettuare una valutazione per selezionare i ragazzi con difficoltà specifiche della letto scrittura rispetto a quelli con difficoltà del comportamento in assenza di ritardi di apprendimento. La valutazione delle difficoltà di apprendimento ha utilizzato:

– Prove di lettura di Cornoldi e Colpo, 1995. – Prove di scrittura di Tressoldi e Cornoldi, 2000. – AC-MT, Test di valutazione delle abilità di calcolo e soluzione di problemi, Cornoldi, 2012.

I criteri utilizzati per la diagnosi di Disturbo Specifico di Apprendimento (DSA) sono quelli del DSM 5 (2013), che li definisce “Un gruppo di disordini caratterizzati da difficoltà di apprendimento delle abilità teoriche di base, che non corrispondono con l’età cronologica della persona, con il livello d’istruzione o con le abilità intellettuali”. Sul piano psicopatologico, i 1/3 dei ragazzi presentava una sintomatologia internalizzante, rappresentata da inibizione emotiva e comportamentale, evitamento relazionale, ansia da prestazione, scarsa autostima, insufficiente motivazione ad apprendere. La maggior parte, invece, presentava disturbi del comportamento, tra cui instabilità motoria, oppositività, provocatorietà, impulsività, atti di vessazione e bullismo nei confronti di coetanei. Gli obiettivi di lavoro hanno riguardato: – – – –

Le abilità di lettura sia funzionale che strumentale. Le abilità di scrittura e sui pattern motori. Le abilità di calcolo e problem solving. Il prolungamento dei tempi di attenzione selettiva e sostenuta, attraverso il rinforzo delle abilità di pianificazione e programmazione del compito. – La generalizzazione delle strategie cognitive e la facilitazione dei meccanismi 3. Esiti di ricerca


psicologici comuni al gruppo: la capacità di riconoscere una difficoltà (o un’abilità) propria e di confrontarla con quella degli altri, la capacità di chiedere aiuto, le competenze sociali più efficaci e adattate per dimostrare un’emozione, positiva o negativa. – La sollecitazione alla curiosità e al piacere della conoscenza, finalizzata non all’accumulo d’informazioni, ma al loro utilizzo in gruppo per raggiungere scopi condivisi.

I risultati: sul piano degli apprendimenti tutti i ragazzi hanno evidenziato un miglioramento nelle loro abilità scolastiche: nella lettura, ad una maggiore correttezza ha corrisposto una migliore comprensione del testo, sia pure con velocità di lettura invariata; in scrittura, è stata raggiunta una riduzione del numero degli errori, lavorando soprattutto sulle abilità di autocorrezione del testo; nel calcolo sono risultate più efficaci sia la conoscenza numerica che le abilità procedurali (graf.1: Evoluzione degli apprendimenti all’inizio e alla conclusione dell’intervento: scuola primaria).

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Graf. 1. Evoluzione degli apprendimenti all’inizio e alla conclusione dell’intervento: scuola primaria

Nell’area emotivo relazionale, si è assistito ad una riduzione dei comportamenti oppositori, maggiore autostima e fiducia nel gruppo, più mature capacità autoriflessive ed espressive di stati emozionali. Se all’inizio del gruppo le comunicazioni dei ragazzi riguardavano prevalentemente un senso d’incapacità e sfiducia nella possibilità di essere aiutati dall’altro, alla fine degli incontri ha prevalso il piacere di conoscere e fare insieme. All’inizio del percorso:

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“Ma perché noi stiamo qui?” “È inutile che studio perché tanto le cose non le so fare”. “Io le cose le so fare, ma non mi va di farle.” Alla fine del percorso: “È stata una bella esperienza fare questo progetto… Ma l’anno prossimo lo facciamo di nuovo?” “Fatta così anche matematica è più bella!” “Ora che ci siamo conosciuti spero che ci vediamo in giro!”

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Negli anni successivi, si è deciso di spostare il focus del lavoro sui bambini della I e II classe della scuola primaria, con lo scopo di verificare sia i diversi obiettivi dell’intervento in una diversa fascia d’età, sia una sua maggiore efficacia, abbassando l’età di riconoscimento del disturbo. Complessivamente sono stati inseriti nel progetto 32 bambini, di sesso diverso ma a prevalenza maschile, 22 italiani e 10 stranieri (8 di loro, nati in Italia da genitori residenti nel nostro paese da almeno 2 anni). Soltanto 4 bambini erano stati segnalati dagli insegnanti per ritardo negli apprendimenti, mentre tutti gli altri venivano segnalati per problemi di comportamento: instabilità motoria, oppositorietà, deficit di attenzione, impulsività. Nessuno veniva segnalato per problemi internalizzanti, a conferma del fatto che il criterio di gravità scolastica di un disturbo è maggiormente correlato all’impairment comportamentale che determina, piuttosto che al deficit di apprendimento (Mazzoncini, 2012). Oltre alla batteria testologica già indicata per i ragazzi più grandi, nelle valutazioni di inizio e fine percorso è stato somministrato anche la PRCR-2, Prove di prerequisiti per la diagnosi delle difficoltà di lettura e scrittura, Cornoldi, 2000 e l’ IPDA, Identificazione precoce delle difficoltà d’apprendimento, Terreni, 2011. Nella valutazione iniziale, tutti i bambini presentavano difficoltà nella lettura decifrativa e strumentale, nella scrittura ideativa e nel dettato e nel calcolo (conoscenza numerica, trasformazioni in cifre, operazioni scritte, calcolo a mente). Inoltre, 4 bambini hanno evidenziato l’assenza di gran parte o tutti i prerequisiti essenziali per l’accesso alle competenze scolastiche di base. Sul piano comportamentale, oltre alla sintomatologia indicata dagli insegnanti, è stato possibile evidenziare: balbuzie, ansia di prestazione e ansia sociale, mutismo elettivo. Gli obiettivi del lavoro effettuato all’interno del gruppo, hanno riguardato gli aspetti funzionali del disturbo: potenziare le competenze metafonologiche a livello della letto scrittura; migliorare la lettura decifrativa e strumentale; stimolare e sostenere l’ideazione e migliorare le capacità di scrittura; sostenere e migliorare le abilità di calcolo e di conoscenza numerica. Contemporaneamente, si è concordato con gli insegnanti un programma di intervento mirato alle problematiche comportamentali, da attuare sia nel gruppo classe che nel gruppo terapeutico, finalizzato a sostenere la motivazione ad apprendere, identificare e ridurre i comportamenti-problema, favorire la consapevolezza nel bambino dei propri stati d’animo e delle conseguenze del proprio comportamento, sul piano relazionale ed emotivo. Le modalità di attuazione dell’intervento comportamentale si sono articolate sulla proposta di attività scolastiche alternate ad altre più motivanti ed interattive, anche in un contesto di benevola competizione (sfide tra squadre, giochi a premi…) e di attività stimolanti con difficoltà graduale in modo da evitare facili frustrazioni legate all’insuc3. Esiti di ricerca


cesso; sul coinvolgimento dei bambini nella scelta delle attività, gratificandoli mettendo in evidenza i loro comportamenti positivi e prendendoli ad esempio per i compagni, anche attraverso l’uso di tabelloni e ricompense; sulla definizione chiara di regole inserite all’interno di giochi di turno e scambio o di attività didattiche di gruppo per garantire il rispetto delle regole e assicurare la partecipazione e il contributo di ognuno. Nella valutazione conclusiva del percorso terapeutico, sul piano funzionale si è osservato un miglioramento in tutte le aree degli apprendimenti scolastici. In particolare si è passati da una lettura prevalentemente sillabica ad una lessicale o sovralessicale, gli errori di lettura sono nettamente diminuiti, la comprensione del testo è maggiore. In scrittura, si sono ridotti gli errori ortografici, mentre sono rimaste invariate le difficoltà di elaborazione dei contenuti semantico lessicali. Nella matematica, permangono difficoltà nel calcolo a mente, pur avendo raggiunto maggiori abilità nelle operazioni scritte (graf.2: Evoluzione degli apprendimenti all’inizio e alla conclusione dell’intervento: scuola secondaria di I grado).

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Graf. 2. Evoluzione degli apprendimenti all’inizio e alla conclusione dell’intervento: scuola secondaria di I grado

Sul piano psicopatologico, sia nel gruppo terapeutico che in classe è stata evidenziata una netta riduzione dei comportamenti disadattativi, tempi più prolungati di attenzione e di concentrazione al compito e riduzione dell’impulsività, migliori capacità e maggior piacere di gioco in gruppo, con una più facile adesione alle regole sociali, una riduzione della frustrabilità, reazioni più mature all’insuccesso o alla critica. Si segnala un alleggerimento del mutismo selettivo, dopo il primo mese di intervento: l’inibizione alla comunicazione verbale –prima impossibile in ambiente scolastico- si è progressivamente ridotta, consentendo al bambino di rispondere sinteticamente alle domande degli operatori e di attivare la comunicazione con i coetanei, contemporaneamente alla riduzione della sua ansia sociale e di prestazione. A proposito del lavoro di “alfabetizzazione emotiva”, queste sono le riflessioni dei bambini alla conclusione dell’intervento: Mi arrabbio quando i compagni mi fanno i dispetti ... mi prendono in giro … ... quando mamma non mi fa giocare anno V | n. 1 | 2017

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perché mi sono comportato male a scuola … quando non riesco bene a scrivere a leggere e ad essere ordinato; Sono triste quando mi sgridano se non faccio i compiti … quando faccio gli errori e prendo un brutto voto; Ho paura quando c’è la maestra che alza la voce a scuola … quando a casa la mamma mi dice di ricopiare il compito perché ci sono troppi errori.. se c’è il temporale … se c’è il buio; Sono felice quando prendo un bel voto a scuola …. Se non faccio errori e prendo un bel voto … ; Mi vergogno quando i miei compagni mi vedono piangere in classe…

Conclusioni

Le potenzialità di un progetto si valutano dall’efficacia degli esiti e il progetto proposto ha dimostrato avere una ricaduta positiva su tutti gli attori coinvolti nel processo di una buona integrazione scolastica di un bambino con difficoltà.

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Nei bambini, questo lavoro ha avuto una funzione di screening finalizzato al riconoscimento delle difficoltà di apprendimento nascoste dalle problematiche comportamentali e una funzione già specificatamente riabilitativa del deficit funzionale. Inoltre, l’intervento può essere considerato di prevenzione secondaria del disturbo psicopatologico che è frequentemente in comorbidità con il disturbo dello sviluppo: la riduzione della sintomatologia disadattativa sembra infatti dimostrare una riduzione del rischio di organizzazione di una condizione di disagio emotivo reattivo in un disturbo psicopatologico cronico. Una riflessione a parte riguarda i bambini stranieri segnalati dalla scuola, che hanno riguardato complessivamente il 50% dei bambini inseriti nel nostro progetto. In 20 casi sui 26 complessivi ad un colloquio con i genitori sono emerse problematiche di tipo psicosociale, a carico dell’intero nucleo familiare, di diversa gravità: dall’esposizione (pregressa ma ripetuta) a condizioni stressanti quali episodi di guerra e violenza familiare assistita, a situazioni di mancanza o perdita di lavoro, abuso di alcool, separazione prolungata dai genitori (che erano in Italia per cercare lavoro prima di richiamare i figli dal paese d’origine). Condizione minima essenziale per l’inserimento del bambino straniero nel progetto era un sufficiente controllo della lingua italiana, garantito da una scolarizzazione precedente avvenuta nel nostro paese, ma in tutti i casi i bambini, almeno nei primi anni di vita, erano stati esposti al codice linguistico materno. Inoltre, per i bambini della scuola secondaria, la tipologia degli errori nella letto scrittura era quella attesa per un DSA. Non abbiamo analizzato i dati specifici riguardanti questo sottogruppo, anche alla luce del numero comunque basso dei bambini inclusi, né possiamo sapere se i benefici rilevati all’interno della classe hanno avuto una ripercussione sul loro funzionamento sociale. Nell’evoluzione positiva che i dati hanno evidenziato, sono compresi anche quelli a loro relativi, ma al momento non è possibile definire con maggiore accuratezza quali nuclei, neuropsicologici e psicopatologici, e quali strategie cognitive ed affettive sono state sollecitate e utilizzate.

Negli insegnanti, il rapporto di cooperazione con le figure sanitarie referenti del progetto ha portato all’individuazione di strategie più efficaci di gestione dei comportamenti-problema e di obiettivi didattici individualizzati e calibrati sulle dif3. Esiti di ricerca


ficoltà e potenzialità del bambino. È stato inoltre possibile condividere il processo che porta il bambino a esprimere ansia di prestazione e scarsa autostima attraverso comportamenti rabbiosi e impulsivi e metterli in relazione alle difficoltà di apprendimento che sostengono la sua insicurezza e la sua frustrazione. I rapporti dei bambini con i compagni sono migliorati e spesso gli obiettivi e le strategie di lavoro individuate per il bambino inserito nel progetto venivano utilizzate anche per altri bambini della classe in difficoltà, determinando quella “generalizzazione delle competenze apprese” che è un focus riabilitativo primario del modello neuropsicomotorio. Più in generale, il valore aggiunto di un progetto che porta dentro la scuola la diagnosi e la terapia dei disturbi che si esprimono nella scuola, è quello relativo alla riduzione della spesa che la scuola deve affrontare per il personale specializzato coinvolto: insegnanti di sostegno, assistenti educativi e di base, assistenti specialistici. Dati ISTAT (2015) segnalano che per il sostegno socio-educativo scolastico i Comuni italiani nel 2012 spendevano oltre 361mln di Euro, circa il 21% dei fondi erogati per interventi e servizi per la disabilità.

Nei genitori, il vantaggio che può offrire un intervento come quello descritto riguarda un ambito interno o mentale e una sfera esterna di tipo socio ambientale. Sul piano emotivo, facilita nel genitore il riconoscimento di un disturbo dello sviluppo, contribuendo a definire sul piano comportamentale quale parte del problema sia di natura cognitiva e quanto di origine psicoaffettiva, riducendo così il rischio di attribuire ai comportamenti difficili del bambino e alle sue difficoltà un significato male-educativo, che possa sollecitare nel genitore agiti punitivi aggressivi rivolti al figlio. Inoltre, il genitore può sentirsi rassicurato dal verificare che accanto alla segnalazione del problema ci sia una proposta di risoluzione, che oltretutto non grava economicamente sul reddito familiare e che non interferisce sulla sua organizzazione del lavoro. Si realizza così una riduzione dei costi sia indiretta (meno ore di lavoro perse per accompagnare il bambino in terapia) che diretta (il costo dell’intervento non è –o è parzialmente- a carico del nucleo familiare).

Il Sistema Sanitario Nazionale, e più specificatamente un Servizio di Neuropsichiatria Infantile, ha da questo modello di lavoro dei vantaggi in termini organizzativi ed economici. In primo luogo perché uno screening attento in ambito scolastico permette di selezionare i casi che devono afferire ad un servizio medico (per il livello di gravità di un disturbo, per la presenza di una comorbidità, per un alto rischio evolutivo) riducendo la condizione di cronico “intasamento” dei servizi di neuropsichiatria infantile, accorciando i tempi delle liste d’attesa, evitando di medicalizzare quelle situazioni che possono essere gestite autonomamente in ambito scolastico, eventualmente applicando quanto indicato dalla L170/2010. Un filtro efficace riduce così anche la spesa sanitaria poiché permette ai centri di Neuropsichiatria Infantile di orientare i suoi servizi al cittadino verso la diagnosi dei disturbi più gravi e la supervisione dei progetti riabilitativi che vengono effettuati in ambito scolastico, sottraendo almeno una parte della casistica su cui operano centri accreditati e privati ai quali è attualmente quasi del tutto delegato l’intervento riabilitativo, a causa della limitata disponibilità dei servizi territoriali In sintesi: questo progetto è nato dalla consapevolezza che un bambino non è solo quello che vedono gli insegnanti a scuola ma anche quello che appartiene anno V | n. 1 | 2017

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ad una famiglia, quello che vale per i suoi amici. Per un bambino che ha un disturbo, questo è quanto più vero, perché il suo problema non può essere definito unicamente dal valore numerico di un test fatto in una struttura sanitaria, per quanto i criteri di classificazione nosografica, le linee guida dei disturbi, le prove di efficacia spingano sempre di più verso un’oggettivizzazione quantitativa del dato clinico. Il modello di lavoro proposto da questo progetto vuole svincolare la diagnosi e il trattamento dei disturbi di apprendimento dall’ambito strettamente sanitario –come peraltro indica la legge 170/2010-orientando e sostenendo l’intervento degli insegnanti, per valorizzare il loro lavoro educativo e didattico. Il progetto presentato poggia su precise competenze professionali, sia sanitarie che educative e didattiche, ma non può realizzarsi se non su un piano di stretta collaborazione tra operatori ed enti, non aspettando che ci sia uno che dà una risoluzione magica o miracolistica ai quesiti dell’altro. Si realizzerà in questo modo un intervento riabilitativo realmente integrato e di gruppo: integrato perché non è finalizzato soltanto al recupero della letto scrittura, ma al supporto cognitivo, emotivo e sociale del bambino; di gruppo, perché si realizza tra bambini e tra bambini e adulti che sanno ascoltare e comprendere i problemi dei bambini, restituendo loro una soluzione. Un intervento che coinvolge insegnanti e famiglie del territorio in cui il servizio di neuropsichiatria infantile è inserito, e che sembra realizzare l’approccio inclusivo globale auspicato da Bortolotti (2016). Tuttavia se l’efficacia del modello è evidenziata dall’evoluzione positiva delle competenze di letto-scrittura e dalla risoluzione della componente psicopatologica del disturbo, la sua replicabilità è condizionata da altre variabili, che pure sono emerse (e che hanno richiesto una particolare attenzione) dal lavoro presentato:

1) la disponibilità del personale sanitario, spesso non presente in organico in tutti i servizi o già sovracaricato da compiti di diagnosi e terapia all’interno dei centri; 2) la disponibilità della scuola a fornire i locali necessari; 3) la disponibilità degli insegnanti di classe ad accogliere figure esterne al loro team, che non costituiscono una risorsa in più, come l’insegnante di sostegno, ma che forniscono loro strumenti per lavorare in modo diverso e, spesso, meno routinario e per questo più impegnativo, di quanto abituati a fare; 4) la disponibilità dei genitori, ai quali ovviamente è richiesta un’autorizzazione per lavorare con i loro figli, che possono avvertire come una forma di discriminazione.

Quello proposto è un intervento che ha bisogno di una forte empatia verso i bambini e della fantasia degli adulti, terapisti e insegnanti, per realizzare gli strumenti che servono per lavorare su un problema la cui complessità si può chiarire nel corso degli incontri comuni ma che va affrontata nelle situazioni innumerevoli che si creano in un contesto terapeutico o didattico.

3. Esiti di ricerca


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1. Recensione

Sandra Zecchi, Tamara Zappaterra, Gianni Campatelli (a cura di), Disturbi Specifici dell’Apprendimento. Accoglienza, orientamento e supporto alle prassi didattiche nell’Ateneo Fiorentino, ETS, Pisa, 2016, pp. 114 di Camilla Spadolini / Università degli Studi di Firenze / camilla.spadolini@gmail.com

Il volume è nato dalla richiesta di attuare a livello universitario un processo che permetta ai ragazzi con Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) di sentirsi tutelati e integrati anche all’interno della formazione universitaria. Gli autori del presente volume, tutti dell’università di Firenze, sono Sandra Zecchi, Delegata del Rettore per la Disabilità e Presidente del Centro di Studio e Ricerca per le Problematiche della Disabilità (CESPD), Tamara Zappaterra, Delegata per la “Disabilità e i DSA” della Scuola di Studi Umanistici e della Formazione e Gianni Campatelli, docente presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale e esperto di tecnologie e disabilità. Il presente lavoro raccoglie i risultati del progetto da loro portato avanti tra il 2015 ed il 2016 (con fondi della Cassa di Risparmio di Firenze) in cui, insieme a ricercatori di altri Dipartimenti, al CESPD e molti studenti universitari DSA iscritti, hanno realizzato, sulla base delle Linee Guida ministeriali e della CNUDD in materia di DSA. Sono quindi state elaborate delle Linee Guida universitarie in cui sono state raccolte le metodologie e le strategie didattiche attuabili da docenti universitari per rendere le lezioni DSA Friendly. Le Linee Guida nate dal progetto sono state articolate secondo diverse categorie di soggetti utenti (Studenti, Docenti, Personale Amministrativo e Tutor). Il contributo di questa ricerca presenta una significativa panoramica sul mondo dei soggetti con DSA all’interno del mondo universitario evidenziando particolare attenzione ad alcuni punti molto importanti come l’accoglienza del soggetto DSA all’interno dell’Università svolta da specifici servizi presenti all’interno dell’Ateneo (CESPD) e la presenza di figure specifiche per l’accompagnamento didattico, quali i Delegati delle Scuole per la Disabilità e i DSA. I servizi resi dall’Ateneo in ambito dei soggetti con DSA sono pensati per far sentire questi studenti come parte integrante di un mondo in cui le loro difficoltà sono comprese e rese inoffensive dall’ambiente circostante, in cui i servizi svolgono funzione di tutorato in tutte le fasi del percorso universitario. Dalla ricerca realizzata è emersa la notevole importanza data alle metodologie didattiche realizzabili dai docenti universitari che dovrebbero attuare sia durante le lezioni in aula che nella predisposizione del materiale didattico che danno agli studenti, come si può vedere nel settimo capitolo in cui sono riportate le indicazioni precise su come gestire una lezione DSA Friendly, in modo particolare su come gestire l’uso degli strumenti compensativi e delle misure dispensative. Inoltre vengono date indicazioni su come dare forme di comunicazione e rappresentazione grafica nella maniera più adatta alla modalità di apprendimento di uno studente DSA. Tale punto permetterebbe a molti studenti DSA di seguire con più attenzione durante la lezione e studiare il materiale che risponde esattamente alle loro speItalian Journal of Special Education for Inclusion

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cifiche modalità di apprendimento. Focus del volume è quindi: “agevolare notevolmente il processo di apprendimento di uno studente DSA” (p. 68). Nel complesso il volume costituisce uno strumento indispensabile per tutti i docenti e gli studenti universitari DSA presenti e futuri che potranno trovare validi spunti da attuare nella loro carriera universitaria. L’opera vuole racchiudere al suo interno i tentativi degli autori di realizzare un elaborato unico nel suo genere - in quanto gli studi per la didattica rivolta ai DSA adulti sono ancora molto pochi e quasi inesistenti nel contesto italiano - in cui troviamo applicazioni didattiche utili agli studenti universitari DSA ma anche a tutti coloro che hanno difficoltà generiche di letto-scrittura e di studio.

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2. Recensione

Alberto Paolini, Avevo solo le mie tasche. Manoscritti dal manicomio. Sensibili alle foglie, Roma, 2016, pp. 143 di Ines Guerini / Università Roma Tre / ines.guerini@uniroma3.it

E si ritrovò «ancora una volta solo in corridoio» (p. 22). Sin nelle prime pagine del racconto autobiografico di Alberto Paolini incontriamo episodi di violenza e di abbandono; episodi che si intrecciano poi e ritornano costantemente, in forme diverse, lungo tutto il testo. Avevo solo le mie tasche. Manoscritti dal manicomio è una narrazione autobiografica, si diceva. L’autore infatti, ora ottantaquattrenne, racconta con estrema precisione la sua esperienza negli anni Cinquanta-Novanta presso il “Santa Maria della Pietà”, all’epoca manicomio di Roma, oggi sede di alcuni servizi dell’ASL Roma 1 e del “Museo Laboratorio della Mente”, fonte di testimonianze e di impagabili suggestioni. Prima di addentarci nell’articolazione del libro, ci preme spiegarne il titolo e lo facciamo con le parole dello stesso Paolini: «Negli ultimi tempi avevano distribuito degli armadietti, dei comodini più che altro, però servivano a metterci i vestiti, le scarpe; io ci mettevo anche altre cose, però questi comodini non si potevano chiudere e quindi era facile che qualcuno andasse a rovistarci. Perciò, restavano solo le tasche» (p. 53), «che poi in realtà era una tasca sola» (p. 54), per serbare le note fugaci di quell’esistenza. Ripercorriamo così la fatica dell’autore nell’annotare i suoi quarantadue anni di manicomio; sì, perché Alberto Paolini non ha neppure avuto la fortuna di avere un diario dove registrare i momenti di quell’angosciante periodo, tanto che confessa di avere avuto anche difficoltà a procurarsi dei fogli (p. 54). Annotava quindi poche cose su ciò che riusciva a rimediarsi, come ad esempio la carta dei grissini: «un foglio, un anno di diario» (p. 54) dunque. Eppure, nonostante tutte le circostanze avverse vissute, la sua puntualità nel descrivere quegli anni alienanti è tale che chi è passato (allora come adesso) per il Santa Maria della Pietà, non fatica a immaginare dove avvenissero gli episodi narrati. Ed ecco giunto il momento di illustrare le due parti che compongono l’opera. La prima, intitolata Autobiografica, riporta in sette capitoli gli scritti dell’autore; lo fa in forma diaristica, anche se, come anticipato, non gli è concesso per motivi di spazio scrivere giorno dopo giorno la data. Vengono qui descritti gli avvenimenti più importanti – come il suo approdo alla scrittura o, giungendo ai nostri giorni, la vita in casa-famiglia – e quelli più raccapriccianti come l’elettroshock o il rischio intorno agli anni 2000 di essere rinchiuso nuovamente anche se in un ospizio (vedi Lettera all’assessore). È davvero tanta la violenza subita nella vita da quest’uomo, fin da quando era piccolo. Così leggiamo della sua vita in collegio che “era dura, anche dalle suore, perché erano molto cattive, […], venivamo picchiati per ogni sciocchezza» (p. 13). O ancora, viviamo con Paolini, l’atroce insensatezza e brutalità dell’eletanno V | n. 1 | 2017

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troshock, il cui risveglio dal coma – ci dice l’autore – «era sempre una cosa penosa» (p. 40), ma al quale tuttavia ci si abituava al punto che «[…], pur sempre pieno di angoscia, non avevo più la forza di fare ancora resistenza e mi sono messo in fila come gli altri aspettando il mio turno» (p. 38). Insensatezza e brutalità, se pensiamo che Paolini in manicomio ci finisce per caso: «E così è andata che mi hanno ricoverato al Santa Maria della Pietà» (p. 15), perché secondo i Benefattori «avrei dovuto essere più vivace» (p. 14) per restare con loro e perché «non ero [nemmeno] adatto per essere ricoverato [alla Clinica Neuropsichiatrica dell’Università di Roma]» (p. 15). Nel padiglione destinato all’Accettazione degli Uomini ci arriva addirittura per sbaglio, come apprendiamo dal suo ricordo di adolescente appena sedicenne: «[…] mi chiedevo cosa ci stavo a fare io in quel posto, se nessuno sembrava accorgersi di me» (p. 22) o come persino un infermiere sospetta: «Ma siamo sicuri che debba essere ricoverato qui? Non dovrà andare all’infantile?» (p. 23). La fuga da quello spazio eterotopico (Foucault, 1984) del resto non lo avrebbe aiutato. Non aveva nessun altro luogo dove andare: «Ma poi dove vado» – si chiede – «ritorno alla Clinica da dove sono venuto? […] Oppure riprenderò la via del Collegio… O mi presenterò a casa dei Benefattori? Peggio che mai. A loro non pare vero essersi liberati di me!» (p. 22). Si tratta, come il lettore potrà apprezzare, di esperienze forti che ci interrogano e ci invitano a ragionare su tutte le pratiche di marginalizzazione che sono sempre, in quanto alienanti, forme di violenza. La seconda parte, dal titolo Poesie e Racconti, contiene dodici storie in versi e otto in prosa. L’ultimo racconto, Il talismano della felicità, che risale nella scrittura al 1979 rivela (a dispetto della sua condizione di alienato) la straordinaria lucidità di Paolini nell’identificare i meccanismi dell’esclusione sociale. Infatti in questa storia si parla di un certo Adolphus, il quale «ha insegnato agli uomini di Razza Bianca che […] erano superiori agli altri uomini ed erano destinati ad un luminoso avvenire. Sarebbero diventati un popolo ricco, potente, […], purché si fossero uniti e armati e con la potenza delle loro armi avessero sottomesso gli altri popoli, i quali, ridotti a schiavi, avrebbero lavorato per loro. […]. Chi non era in condizione di lavorare veniva internato in campi di concentramento e poi eliminato nelle camere a gas» (p. 123). E coloro i quali invece, non essendo né ebrei, né zingari, né omosessuali, erano riusciti a scampare alla morte delle camere a gas, si ritrovavano ora rinchiusi in manicomio, «con la testa rapata a zero» (p. 23), costretti a spogliarsi dei loro vestiti, a farsi la doccia sotto la stretta osservazione degli infermieri e a indossare infine la camicia «che aveva ben poco di simile alle camicie normali» (p. 24). Del resto, «si aveva l’impressione di stare sull’orlo della distruzione di tutta l’umanità» (p. 132). Una considerazione quest’ultima dal sapore quasi profetico, considerando ciò che sta accadendo in questi nostri tempi dove assistiamo al ritorno di istanze nazionaliste e identitarie con tutto il corollario di implicazioni che ne conseguono.

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